IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO (1789-1915) VOL II

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STATO MAGGIORE DELL'ESERCITO UFFICIO STORICO FERRUCCIO BOTTI

IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE (1789-1915)

VOLUME II DALLA PRIMA GUERRA D'INDIPENDENZA A ROMA CAPITALE D'ITALU (1848-1870)

ROMA2000


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Finito di stampare nel mese di novembre 2000 presso la Tipoli~ca Cerbone Tel./Fax 081.8318192 - 8345538


Presentazione

Con questo secondo volume, dedicato al periodo delle guerre di indipendenza, il Colonnello BOTII prosegue l'indagine sul pensiero militare iniziata dalla Rivoluzione Francese, estendendola anche al pensiero navale. L'accurato e approfondito esame comparato de11e numerose fonti consente ali' Autore di mettere definitivamente a fuoco una serie di nodi e problemi che hanno animato il dibattito storiografico: dai concetti di "guerra regia", "guerra di popolo" e "guerra rivoluzionaria" al ruolo del volontarismo, dal contrasto tra sostenitori della "nazione armata" e dell'esercito permanente alle ragioni delle sconfitte del 1848 - 1849 e 1866 ed agli ammaestramenti che ne sono stati tratti dagli autori coevi. In tal modo, oltre a mettere in giusto risalto il pensiero di numerosi autori poco noti o trascurati dalla critica storica, vengono fatti emergere anche argomenti destinati ad acquistare grande rilievo specie dopo il 1870: basti ricordare il dibattito sulla difesa dello Stato che, sia pur limitato al Piemonte, iniziò ancor prima del 1848, oppure i diversi pareri sui caratteri delle nuove costruzioni navali. Questa opera, di non lieve fatica per il Colonnello BOTII, dimostra quanto possa essere ancora utile la "storia delle idee", fornendo nuove e valide chiavi interpretative su una materia finora non sempre studiata con obiettività e con mente libera da pregiudizi. IL CAPO UFFICIO STORICO Col. a. s SM Enrico Pino



DETII MEMORABILI "Questi eroi delJo scrittoio manifestano per la spada lo stesso disprezzo che i militari mostrano per le loro tiritere. Non sembrano sospettare che la forza è la sola garanzia della libertà, che un paese è schiavo quando i cittadini ignorano il mestiere delle armi e ne lasciano il privilegio a una casta o a una corporazione. [ ...]L'essenziale è di organizzarsi a qualunque prezzo [...] Basta con queste sommosse tumultuose di diecimila uomini isolati". L.A. BLANQUI, Istruzioni per un'insurrezione armata (1868) "Il soldato italiano deve ricordarsi i suoi doveri e deve guardare con onore la propria divisa bruttata d'infamia. L'armata è parte nobilissima di una nazione, alJa quale ogni cittadino affida la propria salvezza contro le orde straniere. Essa riceve la sua esistenza dalle sostanze del cittadini stessi, e la sua missione è quella di combattere il nemico esterno. L'ordine interno non è devoluto a1 soldato". CARLO PISACANE (1849)

"L'Italia è schiava perché ogni provincia ha sempre separato le sue sorti dal resto della penisola". CARLO PISACANE (1856) "Gridare contro la guerra e gridare contro i rigori del vemo sembra la medesima cosa; e se la mente non pena a figurarsi un'era in cui il perfetto equilibrio degl'interessi mondiali farà sparire un tal flagello, si può eziandio, senza urtare la ragione, supporre la terra raddrizzata nella ellittica e ritornata ad una perenne primavera [... ] Guai a quel popolo che per primo si mostrerà inerme a nemici armati". CARLO PISACANE (1856) "La disciplina [...] non può esistere in un esercito se non esiste nell'intera nazione; non può durare senza la più severa giustizia ed imparzialità; non può scompagnarsi dal convincimento universale che le cariche vengono distribuite secondo il merito di ciascuno". CARLO PISACANE (1856) "Se un esercito d ' itaJiani combattesse, eziandio, contro Je falangi del francese socialismo, noi faremmo voti ardenti per la sua vittoria". CARLO PISACANE (1855) "Il modo di vivere, la natura del suolo, i rapporti sociali, l'indole dei popoli, modificano e informano l'arte bellica". CARLO PISACANE

"Senza la storia, il presente si può soltanto descrivere, non comprendere". MARCH BLOCH


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"La nazione non è una creazione fantastica dei politicanti moderni; come la famig lia, essa è un membro necessario nel corpo sociale, è una spontanea produl Ìonc della natura umana. La comunanza di origini, di storia, di favella crea comunanza di interessi e di aspirazioni, che, quando siano assecondati, si traducono in benessere e prosperità sociale; quando invece si veggano contrariati, costituiscono un malessere, un disagio, di cui sono solita conseguenza quelle scosse violente, che i politici del diritto divino appellano rivoluzioni. Chi voglia pertanto evitare le rivoluzioni, chi voglia promuovere il benessere sociale, o, in altra parole, ajutare il progresso morale della umanità, anziché atteggiarsi a oppositore delle nazionalità, dovrà cooperare alla loro ricostituzione, perché toglierà così di mezzo ogni ragione di nuovi disordini, e appianerà la via al progresso sociale". G. BASEGGIO, "II Politecnico" 1866, Voi. I "Un esercito deve avere testa italiana". CARLO V "Se la necessità di una letteratura militare era così altamente sentita dal Foscolo nell'Italia del secolo XVIII, deve esserlo a più forte ragione ora che, con le attuali istituzioni democratiche, la vita militare rappresenta una elevata forma della vita nazionale. In conseguenza la letteratura militare italiana dovrebbe essere considerata come una istituzione sociale atta ad educare il popolo". GEN. ENRICO ROCCHI (1912) "L'ignoranza fu una delle caratteristiche degli uomini di guerra soltanto in quelle società che attraversavano un periodo di decomposizione o di formazione, come il Medio Evo, durante il quale vedemmo la dottrina militare rifugiarsi, al pari di tutte le altre dottrine, tra i letterati, ed essere professata non infrequentemente dagli ecclesiastici, appunto perché questi erano i soli uomini di lettere". GEN. ENRICO ROCCHI (1912) "Uniamoci fortemente, fortemente facciamo sagrificio di quell'amor proprio e di quelle utopie che furono mai sempre cagione delle nostre sventure. Affrettiamoci ad emendare i vizi che la guerra ci fece scorgere nelle nostre militari istituzioni, e vedremo allora come l'intelligenza e il valore de' nostri soldati sappiano operare il resto. Essi torneranno a far sventolare vittoriose le sante bandiere della rigenerazione italiana... ". GEN. EUSEBIO BAVA (ottobre 1848)

"Gli eserciti permanenti convengono solo in certi tempi e in talune occasioni

l- .. ] Le Landwehr, abilmente dirette, hanno sempre fatto piegare gli eserciti permanenti[ ... ] Se consultiamo la storia, essa ci insegnerà che mai una nazione sotto le armi è stata vinta". MARESCIALLO RADETZKY (1828) "Per poco che taccia il cannone e vada cessando il pericolo alle politiche perturbazioni, ogni civile governo instà, domanda, propone il disarmo o le riduzioni". F.M. (1865)


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"Il quesito dell'abolizione degli eserciti permanenti potrà allora soltanto presentarsi, quando il principio della libertà, della eguaglianza e della nazionalità avrà trionfato su tutta Europa". FANOLI (1865) "Non faremo l'Italia colle grida di piazza, colle dimostrazioni briache,col vestirci all'italiana, col portare delle bandiere tricolori in processione ed altra simili scempiaggini. Faremo l'Italia col lavoro serio, perseverante di tutti i giorni". STEN. (POI GENERALE)AGOSTINO RICCI (1849) "Nelle speculazioni sulla guerra, come· nelle speculazioni sulla filosofia o sulla morale, lo spirito umano ubbidisce a tre particolari tendenze: egli si lascia impressionare da quello che vede o da ciò che comprende o da ciò che sente; egli è materialista, intellettualista o spiritualista. MONTAIGNE "Licenzi un Principe i suoi soldati, lasci egli cadere in rovina le sue fortezze, e passi il tempo leggendo Grozio, questo principe durerà sei mesi". COL. GREGORIO CARBONE (1863) "Fu detto che dopo una guerra infelice sia opportuno, anzi necessario menar furiose legnate nel proprio campo, in famiglia; ma che sia buon consiglio bastonar i regolamenti e simili cose che non hanno corpo, piuttosto che i generali e i soldati. Quelli non si lagnano; questi si adirerebbero e invilirebbero". GEN. CARLO CORSI (1863)

"I migliori principii riescono a male, quando non sono bene adoperati. La più bella fabbrica alzata dal p1ù abile architetto si risolve in un mucchio di rovine al primo forte terremoto, se i materiali di cui fu fatta non erano adattati a quel modo di costruzione". GEN. CARLO CORSI (1863) "La pedanteria è la lebbra di tutti gli eserciti stanziali" GEN. CARLO CORSI (1863)

"In mezzo a popoli corrotti, fiacchi, non curanti di libertà, gli eserciti saranno animati di pari sentimenti, e saranno perciò a loro volta liberticidi contro gli stessi loro cittadini" TEN. ALESSANDRO BALLANTI (1869)

"Io vorrei che l'istruzione scientifica più che abbondante fosse sufficiente; J' abuso di x può fare degli scienziati, raramente degli uomini di mare per il servizio attivo a bordo di bastimenti dello Stato. Un'istruzione soverchiamente scientifica, dice il signor Jurien de La Gravière, nel cominciare una carriera nella quale vi è tanto da acquistare colla pratica, tanto da apprendere dall 'esperienza degli altri, potrebbe divenire più grave che utile". CAP.DI CORVETTA LUIGI FINCATI (1857)



INTRODUZIONE

Arma cedant togae: eppure chi intende esaminare la letteratura, il pensiero militare del periodo delle guerre d'indipendenza si trova inaspettatamente di fronte una massa di materiale che impone delle scelte, dunque delle inevitabili omissioni. Sotto la sferza degli avvenimenti, delle esigenze concrete e immediate che essi postulano, scrivono in molti, militari e "laici"; e vengono pubblicamente discussi e dibattuti - anche dai militari dei problemi estremamente delicati, che oggi si riterrebbero meritevoli di maggior riserbo. Come affrontare un periodo così denso di avvenimenti e di idee nuove o meno nuove? Devono ancora essere pienamente raggiunti gli obiettivi che nel 1936 Walter Maturi indicava compilando la voce "Risorgimento" per l'Enciclopedia Italiana: Lo sfaldamento degli Stati regionali italiani si compie dal di dentro con la crisi di crescenza delle forze militari e dal di fuori con gli attacchi delle forze rivoluzionarie. Come e perché l'ufficialità piemontese fosse avviata verso una soluzione nazionale del problema militare, come e perché l'ufficialità napoletana prendesse così viva parte nei moti del 1820 e defezionasse dalla causa borbonica nel 1860, non hanno ancora formato oggetto d' indagini sistematiche. Sul Foscolo, sul Balbo, sul Pisacane mancano dei buoni saggi storici tra poljtici e militari, come hanno i tedeschi per lo Scharnhorst, il Gneisenau, il Clausewitz. Così pure dal punto di vista storico sarebbe assai interessante lo studio delle istituzioni militari napoletane e piemontesi, delle quali ullime il Brnncaccio ha raccolto gli elementi . Insomma una storia etico-militare è ancora da fondare in Italia.

Del periodo 1848-1870 intendiamo pertanto ricercare e individuare le linee portanti, riconducendo a un quadro unitario gli scritti dei vari autori, o - meglio - gli autori e argomenti da noi giudicati più importanti, a cominciare dalla teoria e prassi strategica e dai relativi strumenti. Le scelte da noi compiute, certamente dolorose, vogliono pertanto privilegiare le grandi figure del pensiero militare del periodo, gli ammaestramenti e riflessi delle guerre e in particolare di quella del 1866, la problematica terrestre e marittima della difesa dello Stato (che non nasce certo nel 1861 - o peggio - nel 1871, come affermano taluni) e, infine, l'animato dibattito su quello che potremmo chiamare il "modello di difesa": cioè quale strumento militare per l'indipendenza nazionale e quali possibili alter-


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native o integrazioni all'esercito permanente (volontari, nazione armata). Tra le grandi figure del pensiero militare abbiamo incluso Mazzini e Garibaldi: due teorici sui generis, finora noti soprattutto per le loro azioni e per le loro posizioni politiche. Per quanto riguarda la guerra marittima, abbiamo dato risalto alle idee finora ignorate di molti scrittori, comunemente ritenuti solo "terrestri", sul ruolo dell'Italia e delle sue forze navali nel Mediterraneo, riservando lo spazio maggiore a due argomenti che fanno sentire la loro influenza per tutto il secolo XIX e anche oltre: le responsabilità della sconfitta di Lissa (1866) con le polemiche coeve, e i riflessi dell'introduzione della propulsione a vapore, a cominciare dalla nascita della strategia navale. Un quadro che, nonostante i tentativi di semplificazione, rimane complesso e multiforme. Per coglierne il carattere e la portata è stato necessario quell'aggancio al pensiero europeo che non abbiamo trascurato, almeno sugli aspetti più importanti. Per il resto, la metodica seguìta è quella adottata nel Vol. I: far parlare il più possibile, almeno sui punti-chiave, gli autori stessi, onde evitare interpretazioni "mediate" inevitabilmente soggettive e tali da risultare non di rado fuorvianti; ricostruire di un argomento, di un autore le varie facce, evitando illusioni semplificatrici e cercando anche di cogliere, là ove esistono, contraddizioni e punti di caduta. Abbiamo sempre ricercato i raccordi tra i vari autori e argomenti, persuasi come siamo che, in caso diverso, esaminandoli isolatamente e indipendentemente ne perderemmo contenuti importanti e insostituibili. Ci è parso così indispensabile esaminare la problematica marittima ricercandone i raccordi con quella terrestre; e contestualmente alle tesi "alternative" sul1a guerriglia, sulla nazione armata, sulla guerra di popolo, sul volontarismo ecc., abbiamo dato spazio anche a quelle sulla guerra di eserciti e sull'esercito permanente, sostenute non dai soli militari. Si potrebbe osservare che in tal modo si mettono insieme troppi argomenti, a tutto danno della fisionomia unitaria dell'insieme: ma è meglio correre questo pericolo - che peraltro abbiamo cercato di evitare - piuttosto che ingannare il lettore, fornendogli arbitrari giudizi e affrettate conclusioni su una materia sempre complessa. Il pensiero di un autore molto raramente è lineare e univoco; trattare le teorie sulla guerriglia senza contestualmente esaminare quelle sulla guerra di eserciti, oppure - come si è fatto finora esaminare solo gli aspetti terrestri della difesa dello Stato o della strategia, significa dar vita a costruzioni teoriche malferme e deformate. Di più: è proprio in angolature, in interfacce apparentemente marginali che spesso si coglie la parte più viva e originale di uno scrittore. Come del resto accade ancora oggi, nel periodo 1848-1870 le grandi coordinate teoriche rimangono le stesse del periodo precedente, dominate come sono - in tutta Europa - dalle controverse interpretazioni dell'esperienza napoleonica, che tutte possono essere ricondotte in vario modo alle correnti dei dottrinari (Jomini e Arciduca Carlo) oppure degli ideologi (Clausewitz). Una siffatta metodica potrebbe dare luogo a inconvenienti opposti a


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quelli - assai frequenti - che derivano dalla tendenza a liquidare con poche righe argomenti e autori; essa corre il perico1o di fornire dei semp1ici riassunti, delle rassegne fine a sé stesse e prive di un fi1o conduttore. In fondo a ciascun capitolo e/o a ciascuna parte, così come in fondo al volume abbiamo perciò tratto delle conclusioni che possono essere o meno condivise, ma che in tutti i casi forniscono degli spunti per meglio individuare i nodi della materia trattata. Un'indagine sul pensiero militare è infatti valida solo se non esita a scegliere, a classificare, a giudicare, a paragonare a vagliare criticamente il tutto, esponendo il punto di vista dell'autore. Le ricerche, le analisi critiche, le conclusioni riguardano, naturalmente, la letteratura militare e navale del periodo 1848-1870: non quella sul periodo 1848-1870. Ci siamo tuttavia imbattuti di frequente in giudizi su uomini, eventi e teorie dovuti a autori del nostro secolo o comunque del periodo post-1870, che non possono essere del tutto ignorati per due ragioni: o perché sono in troppo forte contrasto con quanto scaturisce dalla nostra analisi, o perché sono di grande rilevanza. Di tali giudizi, sempre in sede di conclusioni, abbiamo dato brevemente conto. Sono questi, per sommi capi, i criteri che ci banno guidato nel]' impostazione del lavoro. Essi ci sono stati dettati esclusivamente dalla speranza di fare cosa utile e tuttora interessante, perché tesa a individuare le basi storiche del pensiero militare italiano del nostro secolo e per quanto possibile, anche i suoi raccordi con quello europeo. L'indagine condotta ci ha vieppiù convinti di due cose non certo nuove, ma oggidì sovente dimenticate: che l'arte militare, in quanto arte, non subisce evo1uzioni o rivoluzioni, ma solo mutamenti e corsi o ricorsi vichiani; che dunque il presente è solido, solo se viene costruito sul passato, e su basi proprie dell'Italia.

Ferruccio Botti Roma, estate 2000



PARTE PRIMA

L'ARTE MILITARE TRA GUERRA DI ESERCITI, INSURREZIONE E GUERRIGLIA: CHE COSA È STATO IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE?



CAPITOLO I

ARTE MILITARE E SUA RIPARTIZIONE: "REVIVAL" O TRAMONTO DELLA STRATEGIA NAPOLEONICA?

SEZIONE I- Caratteri generali del periodo 1848-1870: Clausewitz e Jomini nel pensiero italiano. Dopo il poco significativo intervallo della Restaurazione, nel quale il ruolo delle forze militari si avvicina troppo spesso a quello di forze di polizia, l'arte militare ereditata dalle guerre napoleoniche è chiamata a un primo vero collaudo sul campo, che le impone di misurarsi con due nuove realtà: le guerre nazionali - nelle quali il successo è legato alla capacità di mobilitare tutte le energie e tutte le classi di un popolo, in nome di un comune ideale unificante - e l'accelerato progresso tecnologico (ferrovie, armi rigate, telegrafo, prime torpedini e primi sottomarini, navi corazzate propulse a vapore e dotate di sperone, con sempre più potenti artiglierie). Questa duplice sfida conduce per forza di cose al definitivo affossamento delle guerre "limitate" e "dinastiche" della seconda metà del secolo XVIII. Per forza di cose, abbiamo detto: perché l'eredità di tali guerre limitate - in larga parte corrispondenti all'approccio strategico jorniniano sopravvive anche oltre il dovuto nella mentalità metodica e prudente di parecchi Quadri degli eserciti contrapposti, i quali per altro verso non possono non sentire il peso e l'influsso dell'eredità napoleonica; quest'ultima è invece quasi istintivamente determinante in molti pensatori e condottieri per così dire "laici", i quali sono attratti dal modello di guerra ideologica e assoluta, basata sulla mobilitazione popolare, tipico della Rivo· luzione Francese e di Napoleone I. li vecchio e il nuovo, insomma, si intrecciano; ma fin d'ora si può affermare che dall'esperienza napoleonica non si esce affatto, e che quindi tutto si riduce a interpretarne gli insegnamenti, scegliendo come guida teorica uno dei tre fari del pensiero militare della Restaurazione, che abbiamo esaminato nel VoJ. I: Jomini, Clausewitz e il sempre vivo e ammirato Arciduca Carlo, quest'ultimo con le sue troppo condivise quanto eccessive - preoccupazioni per la sicurezza dei fianchi e delle vie di comunicazione. Per quanto concerne l'Italia, tre guerre d'indipendenza nazionale e la campagna piemontese di Crimea del 1855-1856 segnano i vent'anni più intensi della nostra storia nazionale e militare, che emblematicamente si concludono con la guerra franco-prussiana e la liberazione di


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Roma nel 1870. Come se ciò non bastasse, nel 1861, dopo secoli di predominio straniero, di divisioni e lotte intestine nei quali l'Italia non esiste come soggetto politico e militare, nasce un unico, nuovo e grande esercito nazionale, che si chiama appunto Esercito Italiano. Naturalmente, nasce anche un'unica, grande "armata" di mare italiana che riunisce le forze navali già del Piemonte e del Regno di Napoli e pretende di ereditare le glorie delle Repubbliche marinare. Prevedibilmente afflitto da un'infinità di problemi a cominciare da quello finanziario, il nuovo Stato ricerca una propria identità politica e militare. Cosl nel suo discorso alla Camera del 18 febbraio 1861, che si trova scolpito nel marmo al Museo del Risorgimento di Torino, Vittorio Emanuele Il può affermare: io son certo che vi farete solleciti a fornire al mio Governo i modi di . compiere gli armamenti di terra e di mare. Così il Regno d'Italia, posto in condizione di non temere offesa, troverà assai più facilmente nella coscienza delle proprie forze la ragione della opportuna prudenza ... Dopo molte segnalate vittorie, l'Esercito Italiano, crescente ogni giorno in fama, conseguiva nuovo titolo di gloria, espugnando una fortezza delle più formidabili [Gaeta nel (1860/1861) - N.d.a.]. Mi consolo nel pensiero che là si chiudeva per sempre la serie dei nostri conflitti civili. L'Armata navale ha dimostrato nelle acque di Ancona e di Gaeta che rivivono in Italia i marinai di Pisa, di Genova e di Venezia. Una valente gioventù condotta da un Capitano che riempì del suo nome le più lontane contrade [Garibaldi e i Mille - N.d.a.] fece manifesto che né la schiavitù, né le lunghe sventure valsero a snervare la fibra dei popoli italiani. Le favorevoli premesse con le quali, nel 1861, sembra nascere una grande Nazione Italiana capace di occupare anche dal punto di vista militare un ruolo di primo piano nel consesso delle nazioni europee non si avverano, prima di tutto per carenza di risorse; il nuovo Stato deve far fronte, in ogni settore, a una sommatoria di impegni che eccedono di gran lunga le sue possibilità. Ne consegue che, come scrive il generale Pietro Maravigna sulla Rassegna Italiana del gennaio 1939, la storia della evoluzione dell'Esercito Italiano è strettamente connessa con le possibilità finanziarie del nuovo Regno [... ]. Due guerre, il brigantaggio, la crisi dell'amalgama, le esigenze della preparazione alle future lotte per l'unità incompiuta, determinarono uno squilibrio nelle finanze tale, che non fu possibile eliminarlo per lunghi anni. Basta rilevare che il bilancio del 1862 si chiudeva con un disavanzo effettivo di mezzo miliardo [... J A malgrado ciò, una rilevante aliquota del bilancio fu destinata alle spese ordinarie militari: circa 200 milioni, oltre a quella di 260 milioni assegnata per spese straordinarie. Tuttavia, simile sforzo non era sufficiente e non può destare meraviglia se, nel 1870, il Ministro della Guerra siasi trovato in serie angustie per preparare il piccolo corpo d'opera1joni per Roma.


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L'onerosa lotta al brigantaggio nell'lta]ia Meridionale e le campagne del l 866 e del 1870 non concorrono certo a rafforzare il prestigio e la popolarità interna del1'Esercito, né danno all'estero una favorevole immagine della forza militare del nuovo Regno. li quadro prima tracciato già di per sè individua un primo filone per il pensiero militare del periodo, che non può certo evitare di misurarsi con gli ammaestramenti delle guerre e con la nuova problematica della difesa nazionale. Ma, oltr' alpe e oltre oceano, la guerra di secessione americana 1861-1865 - .guerra totale e "industriale" tra Stati con diversa fisionomia, che dunque è improprio chiamare "civile" come gli americani fanno - e le campagne prussiane del 1864 e del 1866 pongono nuovi interrogativi concernenti in particolare le formazioni di combattimento della fanteria, la costituzione e l'impiego dell' artiglieria, il ruolo delle ferrovie e della logistica in genere. Dopo la prima metà del secolo XIX, infatti, l'arte militare di matrice napoleonica è costretta a fare i conti con la tecnica, nel concreto: con la accresciuta potenza ed efficacia del fuoco (armi e artiglierie rigate e a retrocarica) e con le possihilità offerte dalle ferrovie. Le ricadute di questi nuovi ritrovati sono tutt'altro che ignorate in Italia. Nel 1868, ad esempio, compare sui la Rivista Militare Italiana un articolo non firmato (attribuibile al direttore capitano G.G. Corvetta) intitolato La tattica moderna, e "basato sulle istruzioni del maresciallo ffrancese] Forey nel 1867 alle truppe raccolte nel campo di Salon" [Chalons-sur Marne N .d.a. J. Vi si constata che Napoleone pensava che la tattica dovesse mutarsi ogni lO anni L... j. Ciò che allora il gran Capitano credeva una convenienza, oggi ormai è divenuta una necessità, e tutte le potenze lambiccano novelli metodi tattici, adeguati alle armi da fuoco perfezi,onate. Siamo per questo lato in una crisi, ed in una ben seria crisi [...]. E incontestabile che la guerra prenderà nell'avvenire un nuovo carattere, in seguito ai perfezionamenti portati nell'armamento delle truppe e ai serii studi sulla preparazione del tiro. Un ufficiale generale ne dovrà tenere gran conto nell'applicazione delle regole e dei principii delJ' arte. Egli dovrà modificare tali regole secondo l'armamento del nemico che avrà davanti di sé e l'armamento delle proprie truppe.' Insomma: quanto meno nel campo tattico, la tecnica, l'armamento, il materiale cominciano a ridurre il grande spazio prima lasciato alla genialità dei Capi e allo spirito delle truppe, oppure - in sostituzione di questi fattori morali e spirituali - all'applicazione di regole geometriche (o ricette per la vittoria) di stampo jominiano. Né si trascura di valutare l'importanza della fortificazione campale, che la guerra di secessione americana - per altro

' "Rivista Militare Italiana" 1868 Anno XIII, Voi. II pp. 152-182.


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verso guerra di movimento - rivela in fonna eloquente. In merito, la stessa Rivista Militare Italiana del 1868 annuncia che in una delle prossime dispense ci proponiamo di trattare l'importante quistione dei trinceramenti sul campo di battaglia, quistione resa anche più importante della introduzione negli eserciti dei fucili a retrocarica. I Francesi se ne occupano alacremente, e sappiamo che anche da noi si fanno studi ed esperimenti al riguardo. Insieme con la fortificazione campale (già largamente usata anche nei secoli precedenti, specie negli assedi), deve essere totalmente riconsiderata anche la fortificazione permanente, con la ricerca di nuove corazze e blindature. Queste poche parole bastano a smentire chi oggi colloca all'inizio del secolo XX la crisi provocata dall'introduzione di mezzi di fuoco sempre più potenti, e ai tempo stesso accusa gli Stati Maggiori di non aver studiato e previsto questa crisi e le sue ricadute sulla tattica. Sarà dunque nostra cura verificare fino a che punto sono attendibili - e condivisibili - certi drastici e generalizzati giudizi sulla scarsa valenza del pensiero militare italiano del periodo e in particolare sul livello della stampa militare dal 1861 in poi, che sarebbe stata "conformista e mediocre, eccezion fatta per un certo numero di contributi strettamente tecnici"2 (ma cosa s'intende per "contributi strettamente tecnici"? quali sono gli altri?). Sulla letteratura e il pensiero navale del periodo sono comunque assai rari sia gli elogi che le critiche: in questo caso siamo in un campo vergine o quasi'. Daremo perciò un primo contributo alla conoscenza di questo periodo, che per la guerra marittima e la navigazione in genere è anch'esso di profonda crisi. Alla problematica - comune con il pensiero militare terrestre - dell'aumento della potenza e portata delle artiglierie e della conseguente ricerca di idonee blindature per il naviglio, si aggiunge quella creata dall'introduzione del vapore; quest'ultimo fattore oltre a imporre mutamenti radicali nella tattica, apre nuovi orizzonti anche e soprattutto alla strntegia navale, e in particolare a una sua prima formulazione teorica. Nascono in questo periodo - e ciò basterebbe a contrassegnarlo - i due maggiori periodici militari italiani, la Rivista Militare Italiana a Torino nel 1856 e la Rivista Marittima nel 1868. Difficile spiegare i dodici anni di differenza: molto probabilmente le ragioni sono due. La prima è che nella stessa Rivista Militare - e nella stampa periodica civile - non si trascurano affatto le cose marittime, e lo dimostreremo. La seconda è che la sconfitta di Lissa - che ha vasta risonanza anche all'estero e rimane l'ultima battaglia tra flotte europee fino alla prima guerra mondiale - induce la giovane ma 2 L. Ceva, Le Forze Armate, Torino, UTET 1981, p. 68. Questo giudizio (del tutto negativo) significativamente manca nella seconda edizione (1999) dell'opera, che dedica due pagine in tutto (13 -14) al pensiero di Clausewitz e Jomini e altre due pagine (85-87) a «cultura, letteratura e lingue militari» del secolo XIX, fino alla prima guerra mondiale. 1 Si veda, in merito, la voce Lelteratura Marinaresca (a cura di G. Zimolo), in ''Dizionario del Risorgimento Na7,ionalc"Milano, Vallardi 1931 (a cura di M. Rosi), Vo1. I pp. 561-563.


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sfortunata Marina italiana a una seria riflessione, tanto più che essa non è dovuta a inferiorità del naviglio e del materiale, ma a cattiva leadership politico-militare e cattivo amalgama. In ogni caso, scorrendo le pagine ingiallite e finora dimenticate dei due periodici ciò che colpisce di più è l'apertura verso tutto ciò che si fa e si pensa all'estero. Se da una parte questo fatto è segno della frequente dipendenza del pensiero nazionale da autori e soluzioni d'oltralpe, dall'altra esso denota una cultura militare sprovincializzata e viva, ansiosa di competere e di misurarsi, di non rimanere arretrata in Europa. Cosa che oggi non si verifica, gli scrittori italiani sono non di rado citati all'estero; qualcuno di essi pubblica suoi libri e lavori anche in altri Paesi, specie in Francia. E non appena si ha notizia di giudizi ingiusti sulla nostra realtà militare comparsi nella letteratura d'oltralpe, non si manca di reagire, di controbattere... Anche per questo, prima di iniziare l'esame della nostra letteratura militare occorre chiedersi se vi sono novità sostanziali nei riferimenti teorici primari della letteratura europea, che nel Voi. l (vds. capitoli II e III) abbiamo indicato in Jomini e Clausewitz, capiscuola di opposte correnti di pensiero. La risposta è semplice: nulla di veramente nuovo compare; il pensiero militare francese e germanico percorre semplicemente le scie dei due grandi, senza metterne molto in discussione le idee fondamentali anche quando si rivelano inadeguate alla nuova realtà. Questo fatto non può non avere analoghi sviluppi in Italia, dove anche Clausewitz - in genere conosciuto nella traduzione francese dei suoi scritti - viene citato spesso, anche se quasi sempre su argomenti marginali che non consentono di apprezzare le linee portanti delle sue teorie. Sulla Rivista Militare Italiana del giugno 1970, proprio alla vigilia della guerra franco-prussiana che avrebbe segnato il primo (ma anche l'ultimo) grande successo delle teorie del generale prussiano, compare la prima recensione italiana del Vom Kriege, nella 3· edizione ristampata a Berlino dalla libreria Diimrnler proprio in quell'anno. Una recensione generica, anche se significativa: non si accenna alla data della prima edizione né alla prima traduzione francese già da tempo pubblicata (1849-1851), ma si ricorda che "i militari tedeschi considerano a ragione il Clausewitz non solo per il loro primo maestro, ma bensì per colui che ha contribuito più di ogni altro a dare all'arte della guerra un posto d'onore tra le scienze odierne". E senza accennare, nemmeno per sommi capi, ai caratteri e contenuti delle sue teorie, ci si liinita a inaugurare il lungo periodo delle lodi generiche e delle citazioni acritiche: fra quanti scrissero di cose militari non sapremmo nominare uno solo le cui opere siano così adatte ad introdurre lo studioso nella vera essenza della guerra. Nessuno dei molti riputati autori militari di questo secolo (e non eccettuiamo né il Btilow [citazione fuori posto; è il massimo teorizzatore della guerra "geometrica" avversato anche da Jomini - N.d.a], né il Wtllisen [figura di nessuna autorità appartenente anch'essa ai «dottrinari» anche se citata da taluni nel periodo - N.d .a],


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né lo stesso Jomini), si mostra critico sicuro e acuto e spiritoso al pari del Clausewitz, nessuno costringe il lettore così inesorabilmente a ricercare i veri fattori decisivi dell'azione, a investigare l'ultima causa di ogni fatto. E nessuno è in pari tempo di lui meno pedante; egli considera la scienza della guerra come prodotto dell'esperienza [no: più che scienza quella di Clausewitz è arte della guerra; e più che I' esperienza, per lui vale il genio del Capo - N.d.a]; non empie il capo dello studioso di interminabili filze di massime e corollari [come fa Jomini; questo è vero - N.d.a] ...

L'autore della recensione (forse Carlo Corsi) conclude deplorando "che le opere [non solo il Vom Kriege! - N.d.a.] di questo eletto ingegno siano in Italia così poco conosciute" e auspicando che "trovino fra noi un valente traduttore". E intanto prega i giovani ufficiali, "i quali, perché hanno forse con febbrile impazienza sfogliato di molti volumi, si credono in autorità di dettar trattati sulla arte o persino sulla filosofia de11a guerra", di leggere almeno Clausewitz prima di pubblicare nuove opere... La prima traduzione italiana completa del Vom Kriege compare nel 1942, quando i giovani ufficiali erano in guerra ; perciò, se avessero seguito alla lettera i consigli dell ' ottimista recensore, fino al 1945 non sarebbe più comparso niente, in Italia, sull'arte militare ... Senza contare che la traduzione di Clausewitz è tuttora (anno 2000) limitata al Vom Kriege: non è forse buona norma, se si vuole dare un giudizio esaustivo di un autore, conoscerne tutte le opere, che nel caso specifico esislono e sono numerose? Il vuoto viene cosl riempito - in qualche modo - da Jomini (o da qualche altro autore francese, come il Maresciallo Marmont). Abbiamo detto "in qualche modo": perché il vecchio Jomini (morirà novantenne nel 1869) nel periodo considerato è - imparzialmente - ascoltato consigliere dello Zar nella campagna di Crimea e di Napoleone ID nella campagna d'Italia, ma di fronte ai nuovi ritrovati della tecnica si dimostra tutt'altro che preveggente. In una lettera dell'agosto 1862 alla Revue Militaire Suisse polemizza con il tenente colonnello svizzero Favre, il quale ritiene inutile e dannosa - perché ormai troppo vulnerabile a fronte dei progressi delle armi da fuoco - la formazione della fanteria prussiana, nella quale "i 3 battaglioni di un reggimento, ordinati in colonna serrata per pelottoni e avvicinati tra loro, formano un'imponente massa". Jomini, invece, citando significativamente l'opinione (ormai sorpassata!) dell'Arciduca Carlo ritiene non solo che la formazione di colonna di battaglioni non vada esclusa, ma che possa essere utile specialmente nel1' offensiva. La sua preoccupazione è per l'ordine delle manovre, non per le perdite:

• Jomini, Considerazioni sulla tallica moderna, "Rivista Militare Italiana" 1862 Anno VII pp. 16-27


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è fuori di contestazione che i cannoni rigati e le armi di precisione possono arrecar modificazioni, ma certo sarebbe un grave errore il voler perciò esclusivamente adottare l'ordine spiegato. Né vale addurre l'~sempio di ciò che avvenne al campo di Chiilons, perché in tutta Europa si trovano pochi campi piani qual è quello; e per poco che si volesse far marciare in linea una ventina di battaglioni in un terreno accidentato, il più completo disordine ne nascerebbe, soprattutto sotto il fuoco nemico.

In un'altra lettera del 18675 Jomini esprime la sua opinione su tre argo-

menti di estremo interesse: le ragioni della schiacciante vittoria prussiana sull'esercito austriaco nella battaglia di Sadowa (1866), l'esistenza o meno di una superiorità dell'esercito prussiano su quello francese, e infine l'influsso delle ferrovie sulla strategia. In questa occasione sottovaluta l' efficienza deH'esercito prussiano, sopravvaluta quella dell'esercito francese e interpreta in modo del tutto errato il ruolo delle ferrovie: anche su quest'ultimo aspetto, la guerra del 1870-187 l lo avrebbe smentito. Due ufficiali superiori prussiani avevano dichiarato a un giornalista che il loro esercito era superiore a quello francese, per sei motivi che già gli avevano fruttato la vittoria contro l'Austria: a) l'accurato addestramento al tiro, che è risultato più importante del nuovo fucile ad ago; b) l'organizzazione dell'esercito in corpi d'armata operativi fin dal tempo di pace, preferibile al sistema francese [adottato anche in Italia - N.d.a ] dei Gran Comandi Territoriali; e) un sistema arnminislralivo meno complicato, che assorbe meno personale di quello francese [e di quello italiano, che gli assomiglia molto - N.d.a.]; d) istituzioni fondamentali più solide, che per mettono di reclutare un maggior numero di uomini; e) insufficienza del sistema addestrativo francese, che prevede un solo campo addestrativo annuale per tutto l'esercito a Chalons. Il sistema prussiano, invece, prevede più campi annuali di corpo d'armata; f) scarsa cura che si ha in Francia per la fanteria, assegnandole tutti i coscritti analfabeti, "mentre in Prussia ogni compagnia ha diversi soldati che nel loro zaino portano delle carte persino topografiche". In estrema sintesi Jomini, pur non negando l'utilità dei provvedimenti prima descritti, contesta che abbiano avuto un'importanza tale da causare la vittoria prussiana sull'Austria, invece da lui attribuita prima di tutto alla buona preparazione, alla maggiore validità e capacità strategica della leadership e in secondo luogo alla superiorità delJ'arrnamento prussiano; per il resto, egli minimizza i pretesi vantaggi prussiani. A suo giudizio un accurato addestramento al tiro non è necessario, sia perché in combatti-

' Lettera del generale !omini al Signor di F orville, "Rivista Militare Italiana" I 867 Anno Xli, Voi. I pp. 254-264. Sull'impiego delle ferrovie nelle guerre del 1859 e 1866 si veda anche F. Botti, La logistica dell'Esercito italiano, Roma, SME - Uf. Storico 19911992, Vol. I pp. 570-592 e 735-770 e Vol. II pp. 200-222.


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mento il soldato non avrebbe né il tempo, né il sangue freddo necessari per puntare accuratamente, sia perché una linea o una colonna nemica fornisce un bersaglio assai esteso e tale da non richiedere un accurato puntamento. I corpi d'esercito permanente - prosegue Jomini - sono già stati sperimentati in Francia, ma non hanno fornito risultati di tale importanza, da risultare decisivi: "i corpi d'esercito di Wagram e di Borodino non erano più quelli di Boulogne e d'illma, eppur non valevano meno di quelli". E con i corpi d'armata permanenti se un generale di divisione fosse mediocre, i reggimenti ai suoi ordini potrebbero a lungo andare accorgersene, fino a non avere più fiducia in loro stessi. Anche a proposito dello spreco di personale che comporta il sistema amministrativo francese, Jomini minimizza: esso può essere migliorato, ma venti o trentamila combattenti in più o in meno in un esercito numeroso come quello francese, "non avrebbero veruna influenza sulle operazioni della guerra". Diversamente dagli ufficiali prussiani, Jomini dà grande importanza alla superiorità dei fucili prussiani, soprattutto per il loro positivo effetto morale sullo spirito aggressivo della massa dell'esercito: è comunque fuori di dubbio che "le modificazioni dell'armamento esigeranno altresì alcune modifiche della tattica, non già nei principii e nell'obietto delle grandi manovre, che restano immutabili, ma nella maniera di eseguirle". In quanto alla "pretesa insufficienza" del campo annuale di Chalons per addestrare l'intero esercito francese, tutto sommato Jomini ritiene valido un siffatto sistema: se i Prussiani addestrano le loro truppe per corpo d'esercito, ciò avviene perché i loro soldati non rimangono che due anni sotto le armi, e ciò d'altronde è richiesto dalla configurazione geografica del paese; sarebbe difficile e costoso di condurre dei reggimenti da Konigsberg e da Saarbriik nella pianura di Tempelhof, presso Berlino [ma le stesse difficoltà, anzi difficoltà maggiori, non si verificano forse per l'esercito francese, sparso ovunque? - N.da.]. In fatto di manovre i soldati non hanno bisogno di saper bene che la scuola di plotone, i sottufficiali la scuola di battaglione, gli ufficiali devono conoscere tutti i regolamenti, comprese le manovre di linea e il servizio di campagna; basta raccogliersi qualche volta per brigata per acquistare queste cognizioni. [... ] Se si organizzasse un campo in ogni gran Comando territoriale, cioè sei campi, ciascun comandante di questi campi seguirebbe un sistema suo proprio.

Jomini poco considera anche il superiore livello di istruzione civile di base della truppa prussiana, dovuto all'istruzione elementare già resa obbligatoria nelle scuole di quel Regno: "mercé le novelle scuole [per militari analfabeti - N.d.a.] tutti i coscritti francesi nulla lasceranno a desiderare sotto questo rapporto. Onde io credo che un reggimento nel quale un quarto dei soldati non sappia leggere, ne valga bene un altro. Se io avessi l'età per comandare o un reggimento o un corpo d'esercito, pregherei Dio di non


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mandarmi un numero troppo forte di soldati letterati o topografi". A questo punto, ci si aspetterebbe che Jomini elogiasse almeno il sistema di reclutamento prussiano, che con la ferma generalizzata ma breve e istruttiva in pace e la rapida mobilitazione della massa della popolazione in caso di guerra aveva dimostrato tutta la sua efficienza nelle guerre napoleoniche e in quella recentissime del 1866. Anche in questa caso, Jomini è assai tiepido: non ne nega l'efficienza, ma critica il militarismo e l'aggressività latente della Prussia (che costringe gli Stati vicini a non rimanere con forze inferiori) e ritiene che il sistema "misto" di coscrizione francese (ferma lunga e meno generalizzata, con diverse esenzioni) lascerebbe poco a desiderare, qualora lo si perfezionasse in alcune cose, come sospendendo l'esenzione dal servizio mediante una somma di denaro per non ammettere che il rimpiazzo [sempre escluso in Prussia - N.d.a.] con uomini atti a diventar buoni soldati; con questo miglioramento esso sarebbe abbastanza elastico per assicurare buone riserve e per bastare a tutte le presumibili eventualità d' una guerra senza strappare dalle loro case uomini indispensabili alla vita sociale per farne mediocri guerrieri [critica implicita al sistema prussiano N.d.a.]. D'altra parte esso in nessun modo esclude organizzazioni secondarie eventuali, la cui esecuzione potrebbe es~ere momentaneamente necessaria.... Jomini, comunque, è fortemente ostile al sistema di milizia di tipo svizzero, sostenuto dai nemici degli eserciti permanenti i quali, "per utopia o per falsa utopia", vorrebbero che si organizzasse tutta la popolazione, senza eccezioni, in guardie nazionali o civiche: se per caso si abbandonasse [il sistema francese] per adottare l'organizzazione generale delle nazioni in milizie non pagate, in baionette discutenti come tutte le guardie nazionali, si potrebbero rivedere le grandi invasioni del medio evo, e valanghe di popoli precipitantesi gli uni cogli altri. Speriamo che questo sistema, il solo forse che convenga alla Svizzera e alle sue montagne, ma che è inapplicabile alle altre potenze, resti allo stato di sogno, e se i suoi partigiani volessero giustificarlo coll'esempio degli Stati Uniti, io loro direi, che se il Nord ha trionfato, non fu già per le sue milizie, ma per i 500.000 volontari arruolati a forza di dollari, i quali costarono tre volte di più di un esercito permanente, e non ebbero a combattere che milizie senza esperienza, come essi stessi. A proposito dei riflessi dell'impiego delle ferrovie sulla strategia, le argomentazioni di Jomini dimostrano quanto poco egli - pur essendo il fondatore della logistica come scienza del movimento - ha saputo valutare le possibilità di questo nuovo ritrovato tecnico, già impiegato in campo militare nella guerra del 1859, in quella americana del 1861-1865 e nella recentissima guerra austro-prussiana del 1866. Secondo Jomini, anche se i


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principi della strategia conservano la loro importanza, l'avvento delle ferrovie non consente più di "assicurarsi la vittoria per le abili combinazioni di una guerra metodica, calcolando preventivamente i risultati di mosse basate sulle distanze da percorrersi in un tempo determinato per le strade ordinarie, in tutta la superficie del teatro del1a guerra". Invece di estendersi, come prima, a tutta la regione interessata dalla guerra, l'impiego delle forze rispettive sarà limitato alJe zone a cavallo delle strade ferrate; ciò "rende ogni abile manovra se non impossibile, di risultato almeno incerto, e il Dio Azzardo, che ebbe sempre la sua parte d'influenza nelle operazioni di guerra, sarà ormai un rivale inquietante per i generali". Per rimediare a questi inconvenienti, "sarebbe forse necessario stabilire un tracciato di strade ferrate secondarie, combinate con un sistema di difesa abilmente preparato" [è que11o che poi si è cercato di fare ovunque - N.d.a J. Con queste considerazioni che di poco precedono la sua morte, il vecchio Jomini valuta con ottica conservatrice e riduttiva i riflessi del progresso tecnico, e alla vigilia della guerra franco-prussiana dimostra un'ingiustificata fiducia nell'efficienza dell 'esercito francese. Tuttavia la sua lettera del 1867 rimane preziosa per stabilire dei parametri, dei termini di confronto anche per il pensiero militare italiano, indicando i principali argomenti sul tappeto e coosentendo di verificare quali concrete ricadute hanno gli assai generici elogi tributati a Clausewitz dall'autorevole Rivista Militare Italiana. L'influsso - palese o occulto, riconosciuto o non riconosciuto - di Jomini sul pensiero militare italiano sarà da noi sottolineato man mano che condurremo l'esame dei singoli scritti; basta qui ricordare che il generale Jomini, a un mese dalla sua morte, viene significativamente commemorato alla scuola superiore di guerra italiana dal maggiore Nicola Marselli, allora professore di storia generale e militare, considerato il più grande scrittore militare italiano della seconda metà del secolo XIX''. Quale esempio dell'influsso di Jomini in Francia citiamo il Cours d'art et d'histoire militaires (1861) del capitano J. Vial, "Professeur d'art et d'histoire militaires à l'Ecole Imperiale d'application d' Etat Major"7 • In breve il Vial riprende e commenta tutti i capisaldi del pensiero jominiano, a cominciare dall'esistenza di principi immutabili tratti dalla storia, che dunque è inscindibile dal] ' arte militare. E anche per il Via] strategia e tattica si basano sui medesimi principi, si distinguono solo per la diversa estensione dei teatri nei quali operano, e consistono essenzialmente nel concentrare le forze sul punto decisivo ....L'influsso prevalente di Jornini sulla cultura militare italiana fino alla vigilia della seconda guerra mondiale è invece testimoniato da quanto afferma nel 1939 il tenente colonneJlo di fanteria Emilio Canevari, il primo e più autorevole interprete di Clausewitz in Italia: 6

N. Marselli, Il generale Jomini, "Rivista Militare Italiana" 1869, Anno XIV, Vol. II

pp. 392-437. ' Paris, Dumaim: (2 Vul.).


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Le idee di Clausewitz sono quac;i completamente sconosciute in Italia "e questa lacuna - ha scritto S.E. il Maresciallo Caviglia - influisce sulla instabilità delle basi della nostra dottrina militare" [... ]. In Italia invece, su questi argomenti si è ancora più o meno alle idee di Jomini sugli "immortali principi": ancor oggi al nostro massimo istituto di guerra si studia la storia cercando di trarne dei principi o delle conferme di principi [ ... ]. Molto ci sarebbe da dire su questa tendenza all'intellettualismo e all'astrazione, tendenza venutaci dalla Francia con l'illuminismo settecentesco, che ha improntato quasi tutta la cultura italiana [... ]. Consideriamo Jo stato della scienza militare al momento in cui Clausewitz preparava la sua opera [ ... ]. Il trionfatore nel campo teorico era lo svizzero Jomini [... ], il quale [ ... ] limitava lo studio della guerra particolarmente all 'esame delle/orme operative,e cioè, insomma, aJJ' elemento geometrico della guerra, senza curarsi di penetrare l'intima sostanza di questo complesso fenomeno•.

Ogni volta che verrà preso in esame uno scrittore italiano, non dovrà mai essere dimenticato che questa é la situazione dei due poli di riferimento teorico europei.

SEZIONE II - I principali scritti teorici di arte militare: tra guerre napoleoniche e progresso tecnico Accenneremo brevemente agli scritti di linguistica militare e indicheremo le più significative definizioni dei vocabolari e dizionari, per poi analizzare le principali opere di arte militare. Prescindendo da un criterio meramente cronologico, stralceremo e tratteremo in capitoli a parte gli scritti di due sommi autori (Carlo De Cristoforis e Carlo Pisacane), che per ragioni diverse meglio caratterizzano il periodo e quindi meritano più approfondito esame; lo stesso faremo per gli scritti di interesse militare e strategico dei due padri del Risorgimento, Mazzini e Garibaldi.

Il problema del linguaggio militare nazionale Nel periodo considerato gli studi sul linguaggio militare non assumono lo stesso peso che avevano avuto in precedenza, anche se nel 1863 la Crusca pubblica la sua prima dispensa (senza aver raggiunto, nel 1880, la lettere E). Ormai l'azione di rottura da parte del Grassi e di altri è stata compiuta nel periodo 1815-1848: sono principalmente i protagonisti di allora a reiterare lo sforzo, con nuove pubblicazioni.

• E . Cancvmi, r.Lau.1·ewilz e la teoria della guerra, "Rassegna di Cultura Militare" Anoo Il, n. 2 - Febbraio 1939,pp. 135-136c 141.


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Sulla Rivista Militare Italiana compaiono tuttavia due articoli degni di nota. Il primo è di Mariano D' Ayala, e riguarda il modo più corretto di far corrispondere alle denominazioni francesi o inglesi alcune voci italiane che indicano nuove soluzioni tecniche nel campo delle armi e munizioni (moschetto, carabina, revolver, pallottola, rigatura ecc.) 9• Infatti oggi in cui la civiltà militare d'Europa e anche d'America hanno preso tutta una faccia sola; avvengaché tutti gli eserciti si rassomigliano sottosopra non rimane che un problema a risolvere presso ognuno di essi; cioè la costruzione e la fabbrica di nuove armi, sì le gravi come le portatili e le manesche.

In questo campo il D'Ayala non è sempre d'accordo con il Grassi, ma al tempo stesso è tutt'altro che innamorato del progresso tecnico: diffida della rigatura delle armi, che pur aumentando la gittata, richiede velocità iniziali minori e quindi "dà luogo a tiri incurvati, belli e buoni nei campi delle prove, ma mancanti di quella traiettoria tesa, che è tanto desiderabile nei campi di battaglia". Di rilievo, specie per un purista, l'ammissione che quasi come il geologo vede le diverse età delle zone e de' terreni da' vari strati e da' molteplici collocamenti, così il filologo e il filosofo della storia vede come la civiltà sia andata sovrapponendosi sulla faccia di un medesimo popolo, insino a che fatta poi grande appo questo, fu generosamente recata altrove a illuminare altre nazioni più barbare e selvatiche.

A tal proposito, il D' Ayala ricorda che, nel secolo XVlll, "la civiltà militare della Prussia si dilatò per tutta Europa" e gli istruttori prussiani "si videro quasi supplicati e invitati nella massima parte degli eserciti". Nello stesso periodo "traendo dalla Prussia aiuti e consigli, le artiglierie francesi ebbero quasi un legislatore nel Gribeauval, le cui tavole e le cui massime fecero il giro d'Europa"_ Tutti gli eserciti chiamarono anche istruttori francesi, e "sullo scorcio del secolo passato nel solo esercito di Napoli si videro generali prussiani, svizzeri, tedeschi e francesi come Moetch e Philistall per la cavalleria, Sales per la fanteria, Pommereul per le artiglierie; poi Bouchard, Damas, Mack. ...". Non si riesce, per la verità, a capire come queste argomentazioni si accordino con il troppo intransigente purismo del D' Ayala. Il lettore si chiede: se le "stratificazioni" linguistiche sono naturali, profonde e molteplici - tanto più in una nazione da parecchi secoli politicamente e militarmente divisa e subalterna come l'Italia - allora perché inveire contro lo straniero che ha soffocato la nostra favella? La pretesa di restaurare le antiche voci insufficienti o in disuso per arrivare ad un linguaggio militare nazionale ci sembra apprez9 M. D' Ayala, Filologia militare - di alcuni nuovi vocaboli che si sono introdotti o si debbono introdurre nella lingua militare d'Italia, "Rivista Militare Italiana" 1858 -Anno Ili, Voi. 11T pp. 300-304.


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·,.abile moralmente ma scientificamente insostenibile; essa è contro natura e illusoria, visto che il primato e l'autonomia del linguaggio sono inevitabile cspressione di un primato e di un'autonomia nel campo politico e militare che al momento non esistono. Si deve piuttosto fare il possibile per contrastare t:c1te tendenze, e in questo senso è condivisibile la chiusa del D' Ayala: non ci girin la croce addosso gli ufficiali, i quali hanno di certo in questo momento ben altro sulla testa[...]. È vero, in questo momento pensiamo a usar bene cannoni e moschetti rigati, bombe e palle d'ogni maniera; ma non dimentichiamo che il primo pregio e la prima signoria e indipendenza nazionale sta nel' linguaggio, che è tanta parte dell'affetto e del legame fra i popoli di una medesima patria.

Il secondo articolo è di V.B., già da noi citato nel Vol. I, e tratta argomenti di carattere generale soffermandosi in particolar modo sul rapporto tra linguaggio e cultura militare 10 • Molte argomentazioni di V.B. sono analoghe a quelle dei puristi e del Grassi, esplicitamente citate; comunque egli coglie assai bene e in modo equilibrato in vero problema del momento, che non è tanto quello di rinunciare agli indispensabili e inevitabili apporti d'oltrnlpe ma di evitare almeno le esagerazioni: deplorando la scarsezza di opere nostrali specialmente per lo studio di cose militari. ed accennando agli inconvenienti che ci sembrano derivare per la buona lingua patria dall'uso quasi esclusivo di quelle straniere, ci guardiamo dall'eccesso opposto, praticamente parlando, cioè dal chiedere che queste debbano essere dannate dall'Italia: intendiamo benissimo che il benefico commercio delle idee debba farsi tra nazione e nazione, per mezzo della lingua propria a ciascuna di esse; che il buono e l'utile che in ogni terra si produce debba poter essere goduto senza distinzione dall'universalità degli uomini; che anche noi dobbiamo ricercare con desiderio, ricevere riconoscenza e cambiare con emulazione i frutti dell'ingegno sotto a qualunque segno si manifestino: ma ben altra cosa sono le nostre condizioni presenti, mentre non possiamo quasi più leggere il lunario senza darci Ja briga di apprender senza indugio una lingua straniera, mentre, lo si voglia o no, subiamo senza accorgercene una vera dittatura intellettuale.

Se per istruirsi in una data disciplina si è costretti a riflettere e meditare "sopra idee vestite ad esempio alla foggia francese", è naturale - osserva V.B.- che poi si ritenga che quella lingua forestiera è indispensabile per imparare qualcosa; "e come non prendere dimestichezza con la radice delle parole [straniere] e con la loro giacitura, e non adoperarle poi italianamente con troppa confidenza? In verità, parrebbe che dovesse far meraviglia il contrario". Se l'ingegno italiano è in grado di assimilare tutto quanto si sa e 10 V.B., La lingua italiana e i cultori di cose militari, "Rivista Militare Italiana" 1866 Anno XI, Vol. I pp. 11-23


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si insegna all'estero intorno ad una data scienza, deve essere anche in grado di "dargli espressione, forma, ordine e vita all'italiana". Tanto più che i troppi libri importati non sono che "raccolte più o manco estese delle nozioni che si hanno intorno a quella speciale disciplina, ordinate ben s'intende secondo il genio del raccoglitore e i sistenù d'insegnamento vigenti nel suo paese". Secondo V.B. deve cessare "il vezzo non raro di credersi abbastanza saputi di lettere, quando si è in grado di intendere un libro italiano, e di parlare come un parigino". E si sarà fatto un bel passo avanti quando ci si sarà persuasi che non esisterà una lingua nazionale viva, "finchè dalle leggi che le nostre patrie istituiscono fino al manomesso e vibrato comando delle manovre militari; dalle circolari delle più alte segreterie fino agli ordini dei più modesti uffizi, non si trovi l'espressione schietta dell'idioma italiano". I nostri migliori cultori di cose nùlitari, "lasciando di credere che è indegno del genio italiano tutto ciò che non è creazione", dovrebbero compilare in buona lingua nazionale dei libri di testo secondo i programmi delle nostre scuole per i Quadri, avvalendosi all 'occonenza della collaborazione di buoni letterati . E sarebbe utile anche fondare in Italia un'accademia o società scientifico-militare, che oltre a dare potente impulso agli studi speciali relativi ali' arte, alla scienza, alla storia militare, e a tutte le discipline che la sussidiano, ne promuovesse, ne ordinasse, ne sindacasse sotto ogni riguardo i lavori più importantiprima che venissero pubblicati; dove il governo fosse prodigo di incoraggiamenti e appoggi...

A cinque anni di distanza dall'unità d'ltaJia e a cinquant'anni dalla comparsa del dizionario del Grassi, non vi è stato, dunque, alcun progresso verso un linguaggio militare nazionale; la situazione rimane quella deprecata dal Grassi stesso, dal Foscolo e da tanti altri scrittori dove prevale l'anima nazionale. Le voci concernenti l'arte militare nei dizionari, nelle bibliografie e nel

primo numero della "Rivista Militare" (1856) Nel suo Dizionario delle voci guaste o nuove e più de' francesismi introdotti nella lingua militare d'ltalia 11, Mariano D'Ayala non fornisce definizioni di voci concernenti l'arte nùlitare e la sua ripartizione, ma rinnovando la polemica con i servili imitatori del linguaggio francese, si linùta a indicare - discutendone e approfondendone il significato - le voci più con-

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Torino, Stab. Tip. Fontana 1853.


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troverse, con particolare riguardo al linguaggio tecnico e d'ogni giorno. La prefazione al dizionario è una veemente dichiarazione di fede purista, assai accentuata rispetto alle opere precedenti. In essa il D' Ayala riprende le argomentazioni morali e scientifiche del Grassi (Voi.I - capitolo IV), rivolgendosi ai giovani ufficiali "cui poco tempo rimane per le letterarie discipline" per ricordare che [in passato] non in pochj v'erano dei nostri, i quali coHocati in alti seggi, facevansi belli di parere sprezzatori dell'idioma nostro e schiavescarnente infiorate di oltremontane suppellettili le scritture, pigliando infine il turpe pretesto, che suole anche oggidì vemre in campo, di non trovare fra la ricchezza de' nostri vocaboli una voce che bella e sonora rispondesse a quella del Gallo [... ]. E qui mi rammenta queJlo ch'io diceva sulla lindura del militare linguaggio, che se le parole non sono cose, hanno il loro immenso potere; e se non è cieco e corretto abuso quello di tener dietro alle franceserie e tedescherie, è poi scadimento del sentimento di patria, è perdita di ogni originalità e dell'indole nazionale; perocchè l'effigie più significativa dell' animo e de' costumi di un popolo è di certo la lingua; la cui purità è pur be11issima purità di spirito e d'indipendenza. E quel che è di peggio, i nostri mediocri autori e i nostri vocaboli medesimi, in fatto di lingua militare, non pongono né manco l'analogia e la filosofia nel dare cittadinanza a certi vocaboli.

Lo stesso D' Ayala nella prefazione alla sua Bibliografia Militare Italiana dell854 12 propone una ripartizione di tutto ciò che riguarda la materia militare, nella quale si sente l'influsso del generale francese Bardin13 abbinato a quello del Grassi. L'arte militare (che può essere terrestre o navale) è di competenza dell'autorità politica e riguarda sia lo stato di pace che quello di guerra, racchiudendo in sè quella che oggi viene definita politica militare e di sicurezza e preparazione alla guerra. Essa si divide in due parti, apparecchio militare e arte della guerra. Dell'apparecchio militare fa parte tutto ciò che riguarda il reclutamento, la mobilitazione, l' ordinamento, la disciplina, 1a legislazione militare e la sanità militare, la logistica di produzione e l'attuale Amministrazione militare, intesa sia come organismo che come complesso di norme e regole. L'arte della guerra invece comprende la gestione e la condotta della guerra ed è suddivisa in sei branche: Titolo 1°. Strategia, i cui articoli sarebbero: l strategia dell' esercito di soldati, 2 ° strategia dell'esercito di nazione. Titolo 2°. Tattica. Le sue parti sarebbero: capitolo l tattica in grosso, 2° tattica in piccolo. Titolo 3°. Ti,pografia: capitolo l maneggio e uso degli stromenti tipoO

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" Torino, Stamperia Reale I 854. " Il generale Bardin è autore del celebre Dictionnaire de l 'armée de terre ou recherches historiques sur l'art et /es usages militaires des anciens et des modemes (Paris, Correard 1949 - 6 Vol.).


l() _ _ _ _ _ IL_P_EN_S_IE_ R_O_M_IL _I_ TARE _ _E_N_A_VAL _ E_n: _AL _ IAN _ O_-_ V _O_L_. _11...,_ (1_84 _ K_-I_K7_0,_ ) _ _ _ __

grafici, 2° dei segni convenzionali e del disegno. Titolo 4°. Castramentazione e logistica, in cui entrerebbero: capitolo 1° degli allogiamenti, 2° della regola e della vigilanza in guerra. Titolo 5°. Delle fortificazioni, i cui capitolo sarebbero: l opere campali, 2° attacco e difesa. Titolo 6°. Delle artiglierie, la cui vasta materia potrebbe essere divisa in 1° tattica, 2° balistica. O

Suddivisione assai discutibile, sulla quale molto ci sarebbe da dire. Ci limitiamo a sottolineare che il D ' Ayala critica (non è certo il solo) il sistema amministrativo militare, del quale lamenta "il soverchio ingombro di scritture e cartocci", aggiungendo che è auspicabile "che si scriva utilmente e quasi stenograficamente, e si risolva prettamente il problema: mantenere il maggior numero possibile di soldati al migliore mercato". Si sofferma molto anche sull'importanza della sanità militare, e denuncia l'eccesso di norme e la confusione regnanti nel campo della legislazione militare. Le definizioni di strategia e tattica sono quelle di sempre, riprese dal Grassi e da Jornini, con un misto di concetti erronei e corretti. Definisce a torto l ' inglese Lloyd "autore alemanno" e gli attribuisce (a torto) il merito di aver "disseppellito" la voce strategia, precisando (a torto, e sbagliando la data) che "pure non innanzi al 1818 apparve l'opera speciale [sulla strategia] dell'Arciduca Carlo, nato a Firenze" e in tal modo attribuendogli un'inesistente progenitura rispetto a Jomini e Clausewitz. E poi prosegue: la strategia, voce di poco nota fra gli eserciti di Europa, la cui radice greca è la medesima di stratagemma, era la scienza del polemarca, ed è non pure la parte militare della guerra, ma la figliola prima nata dell'idea o disegno (pian de guerre) o meglio generata insieme. Essa considera gli universali della impresa; sicchè la strategia, riunendo gli offici del capitano, del Ministro e del giudice, ordina, guida e mantiene l'esercito. S'intavoli bene il gioco degli scacchi con le prime mosse, e si avrà grande facilità a vincere; ed è assioma de' medici che gli errori della prima concezione si correggano con la seconda. Alcuni, fra' quali il Montecuccoli, tengono la strategia come la scienza delle disposizioni generali e la tattica come l'arte delle esecuzioni particolari. Ma come la grammatica non è compendio di logica, così la strategia usa la tattica, come la logica la grammatica. Direi meglio col Colletta [e col Grassi - N.d.a.J, essere la strategia la teorica del muovere gli eserciti fuori dalla vista del nemico, per condurli dove meglio giovi combattere. E a far questo ci vuole ingegno e finezza d'intelletto e d'occhio, e coraggio civile, e prontezza di congiunture, e fama, e fortuna , onde s'abbia l'umano e sl oggi richiesto beneficio della guerra breve. Il D' Ayala non spiega che cosa intende per "strategia dell'esercito di nazione"; forse la confonde con la tattica. Infatti, dopo aver dato di questo termine una definizione corretta ancorchè non originale (arte di ordinare e


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muovere un esercito o parte di esso in faccia al nemico, per combatterlo con vantaggio), egli accenna alla guerriglia dandole un significato più strategico che tattico: alla tattica misurata [cioè rispondente a precise regole o norme N.d.a.] potrà qualche volta supplire l'impeto generoso di popoli oppressi, i quali nella lor collera nazionale, sdegnando le pedanterie della guerra, fanno più semplici i principi dell'arte, suppliscono all'imperizia dei coscritti, e rendono loro l'impeto e il fuoco sacro del cittadino [dunque per il D' Ayala anche il guerrigliero applica dei princip1 e una strategia e tattica alternative - N.d.a.].

Confonde - anzi mette in unico calderone - anche topografia e geografia e cartografia, già allora ben distinte, ignorando che l'arte militare e la strategia hanno bisogno della geografia. La topografia è "voce greca che suona descrizione di luogo e di terreno" [solo di zone ristrette N.d.a.]. Essa si compone di "una parte scientifica che deriva dalla geodesia e dalla trigonometria e della parte del disegno". Singolari le sue idee in fatto di logistica e di castramentazione. È contrario al "vivere sul paese" di marca napoleonica: "per l'odierna tattica [ma per la strategia no? - N.d.a.] abbiam d'uopo di disciplina e di economia; perché dove comincia il sacco, ultimo tempo dello scompiglio, ogni buona lattica finisce". Osserva, a ragione, che la castramentazione (che pure - come il Grassi e tanti altri - considera parte dell'arte della guerra) ha perduto l'importanza che aveva nell'antichità, ma poi propone una strana contaminatio, che aumenta la confusione sul significato del termine logistica e sulla sfera autonoma di questa disciplina: vorrei che codesto nome [cioè la voce castramentazione - N.d.a.] rimanesse solamente a quella parte dell'arte della guerra, che i francesi hanno di recente chiamato logistica, cui potrebbesi forse dare il nome di strategia amministrativa, ch'io ho trovato nel titolo di un libro pubblicato da Donato Ricci, come leggesi nella Parte VTT di questa Bibliografia. La logistica, secondo il Bardin, è la scienza del ragionamento e del calcolo, la quale, rischiarata dai dati della statistica, costituisce la parte speculativa e razionale dell'arte militare; è la valutazione del campo della guerra, il raffronto de' disegni approvati, la scelta del posto delle fortificazioni, insomma il ramo intellettuale dell'arte [e così assomiglia alla strategia - N.d.a.].

La Bibliografia Militare Italiana del D' Ayala, ufficiale dotto, scrittore fecondo e grande cuore di italiano, è opera tuttora basilare e insostituibile; ma siffatte espressioni contenute nella prefazione rivelano tutti i limiti dell'opera e dell'autore, la cui parte meno felice - in questa ed in altre occasioni - è proprio il difettoso e poco originale approccio ai problemi più strettamenti cocementi gli aspetti teorici dell'arte della guerra.


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Alla resa dei conti D' Ayala finisce con il dipendere dalla cultura francese più di quanto voglia ammettere; lo stesso accade per un altro purista almeno dichiarato, il colonnello d'artiglieria e direttore della biblioteca militare di Torino Gregorio Carbone, già autore (da capitano, con Felice Amò, nel 1835), di un Dizionario di artiglieria (Voi. I - capitoli IV e V). Nel nuovo Dizionario Militare del 1863(compilato da lui solo e con due citazioni francesi nel frontespizio1 di Jomini e Gassendi)'4, dopo un omaggio non formale al purismo del Grassi e dopo aver deprecato anch'egli l' eccessivo influsso francese, si dimostra nei fatti assai più elastico - e assai più dipendente dalla cultura francese - di quanto avveniva nel caso precedente. Tratta in prevalenza le voci tecniche relative all'artiglieria, al genio, alla ginnastica, all'ippiatria, alle costruzioni in ferro e in legno, alle caserme, alle armi e mestieri di interesse militare, a fianco di ciascuna riportando (cosa che non fa più il D ' Ayala) l'equivalente termine francese; per le voci più propriamente concernenti 1' arte militare e la sua ripartizione si rifà anch'egli - ancor più del D 'Ayala - al dizionario del generale francese Bardin, continuamente citato. Con il generale Bardin si dichiara d'accordo sul fatto che "converrebbe meglio che la formazione e l'esame di nuove voci militari venisse sempre commessa ad un'Accademia di dotti militari, anzichè lasciarla in balìa di chicchessia, che non conoscendo a fondo la nomenclatura di guerra, ed i suoi requisiti, la ingombri quindi di vocaboli poco spieganti, od erronei o di lunghe perifrasi. Mediante quest'Accademia risulterebbe anche mantenuta l'unicità della nomenclatura, tanto necessaria al buon andamento della cosa militare e senza della quale non possono nascere che ritardi e confusioni". Altri autori francesi da lui consultati sono il Guerinière, l'Houdaille, il Laboulaye, l'Odier, il Panot, il Piobert, Reinaud e Fave, il Thiroux, il Vauchelle, il Vial, il Vergnaud ... Inoltre fa lo spoglio della legislazione e regolamentazione militare (e non pretende perciò, come i puristi, che detta materia si uniformi ai loro canoni), ritenendo che "per la milizia gli statuti sono la suprema autorità a cui ricorrersi anche per i vocaboli, ed in nessun'altra umana istituzione l'uso di essi è così costante come nella milizia". Pur riconoscendo i meriti del Grassi e i1 primato della lingua toscana, il C. premette che "la lingua militare francese, diventata la più perfetta di tutte, assai debbe all'italiana; questa a quella servì di modello". Ma il linguaggio militare europeo rispecchia inevitabilmente la storia dell'Europa stessa, perciò "alla formazione della lingua militare europea contribuirono tutti i popoli in ragione del genere e dell'influenza loro [... ]. La lingua militare d'oggidì adopera quasi dovunque i medesimi vocaboli; essa componesi di ogni cosa; è e un guazzabuglio fatto specialmente a spese della lingua militare francese". Bisogna anche tener conto che "i vocaboli nascono, e muoiono, e cambiano di significato ad arbitrio dell'uso corrente, •• Torino, Tip. Verccllino 1863.


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il quale gli governa da Signore assoluto" [affermazione agli antipodi del purismo - N.d.a.], perciò si possono utilizzare, se necessario, anche le "voci disusate" ... Si deve essere molto cauti, secondo il C ., nell'usare senza vera necessità termini stranieri; ma per il resto, porta aperta a quanto può coprire i vuoti lasciata dalla Crusca, "posciaché da quando la lingua italiana più non Lrattò le cose militari, la scienza militare salì a grandi incrementi, ed in ogni sua parte cangiò. E questi nuovi vocaboli che non potevansi rinvenire nella lingua nostra, fu forza o tradurre, o pigliare colla cosa di cui erano i segni, dando ad essi desinenza italiana. Al rimanente, scriveva il Manzoni, tutte le lingue si fecero lecito prendere dalle altre, ancorché straniere e barbare, una qualche voce, o frase, che poi resasi connaturale a chi la prese per sua perde, a maniere d'innesto, l'esser d'altrui ...". Nonostante l'orientamento prevalente del dizionario verso la tecnica, il C. trascura vocaboli ormai fondamentali come strada ferrata o ferrovia, anche se no trascura la macchina a vapore e la sua applicazione ai piroscafi. Solo alla voce trasporti militari si accenna di sfuggita alla possibilità di effettuarli con strade ferrate o piroscafi; in compenso ricevono una certa

attenzione soluzioni tecniche senza avvenire come le armi a vapore (cioè armi nelle quali la polvere viene sostituita da vapore acqueo) e in particolare il cannone a vapore dell'inglese Perkins, del quale si parla anche nell'Antologia Militare napoletana nella prima metà del secolo XIX. Secondo il C. quest'arma è stata abbandonata per il peso eccessivo, la scarsa potenza e l'eccessiva complicazione dei meccanismi; ma la sua invenzione "vuol si da alcuni attribuire all'italiano Lippi Carmine Antonio, il quale pubblicò nel 1819 in Napoli una sua opera col titolo Artiglieria a vapore condensato, e

meccaniche secondarie animate da questo Gaz''. li C. non è d'accordo con la definizione di guerra del Montecuccoli (come già non lo era l'Enciclopedia Francese), perchè essa prevede solo uno scontro tra eserciti che "si offendono in ogni guisa, il cui fine è la vittoria", in tal modo escludendo "la politica, la morale e la difensiva". E aggiunge che politicamente parlando, è un armamento di popolo contro un altro, od un ingaggiamento di una fazione contro altra; essa è una successione d'ostilità più o meno prolungata fra due o più popoli, i cui eserciti campeggiano; è una condizione di cose, cagionata talvolta da insulti; una necessità imposta talora dalla forza; un frutto della vendetta; una sete di rappresaglie. Coi giurisprudenti essa è un dissidio fra due Stati, che si definisce con le armi [...] per l'uomo sociale è un tributo che l'umanità paga alla civiltà, dacché i popoli, come gli individui, hanno la loro superbia, le passioni loro [... ]. Queste confessioni addolorano, e sono quasi da adontarsene, ma la sapienza rompesi contro la forza, e la politica sarà sempre governata dai suggerimenti della violenza e delle illusioni della vittoria. Il Walter Scott spiritosamente disse che la guerra è il solo gioco in cui le due parti si trovino perdenti a cose finite. La sola classe di popolo, continua il Bardin, che rimanga accresciuta è quella degli invalidi [...]. La persuasione che la scienza della guerra


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non è che l'arte di abbreviarne i mali eccitò lo zelo di molti scrittori. Le ricerche intorno alla guerra sono e saranno sempre importanti. Moltissimi trattati si scrissero intorno alla filosofia, alla teologia, alla morale, la maggior parte de' quali rimase per sempre dimenticata, mentre il più piccolo e mediocre scritto sopra la guerra è tuttora consultato, citato, ricopiato [a chi si riferisce? - N.d.a].

Le altre definizioni relative ai vari tipi di guerra riecheggiano quelle del Grassi. Lo stesso avviene per il termine battaglia; peraltro il C. introduce la battaglia decisiva (dove una delle due parti rimane schiacciata) e la battaglia doppia, cioè su due fronti. Circa la condotta della battaglia, dopo essersi riferito al genio di Bonaparte che lo dispensava dall'osservare tutti i principì, il C. si avvicina - forse inconsapevolmente - a concetti clausewitziani, e introducendo un nuovo termine: cercherebbesi invano la guarentigia della vittoria negli assoluti dogmi sulle teoriche delle battaglie; le numerose eccezioni soffocando le regole, abbandonano ogni cosa al genio. Caio Cesare lasciò scritto il precetto consilia potius quam gladio superare. L'apparecchio, la condotta, gli avvenimenti, le circostanze, l'esito delle battaglie e la compiuta arte di contrastar la vittoria, spettano alle speculazioni di un'arte sublime, a cui alcuni diedero nome di POLEMONOMIA. Al rimanente lo studio delle battaglie scritte è, a detta del Bardin, un debole modo d'ammaestramento; irnperrochè quasi tutte descritte da persone interessate, o dissimulate, o da storiografi inesperti e privi di critica.

Arte militare e arte della guerra per il C. (che esplicitamente si rifà al Bardin) sono due cose distinte. La prima è essenzialmente studio, preparazione di tutto ciò che concerne le istituzioni militari, perciò riguarda sia lo stato di pace che quello di guerra; la seconda si riferisce allo stato di guerra e alla condotta dell 'esercito, è essenzialmente azione e "non saprebbe star sottoposta alla precisione dei principì, al rigor delle forme, al meccanismo degli esercizi su cui si appoggia l'arte militare stante la sua perpetuità". Pur compiendo una lunga digressione sul significato dei due termini, il C. non indica la ripartizione dell'arte militare; tuttavia riporta il significato dei tradizionali termini politica della guerra, strategia, tattica, castramentazione e amministrazione, ed è anche il primo in Italia a citare (in un dizionario) il termine logistica. A proposito della strategia, dopo aver osservato che non vi è ancora accordo sul suo significato egli riporta per intero quanto ne dice il Bardin, affastellando considerazioni che non ne rendono chiari i contenuti. Par di capire, comunque, che il C. confonde la strategia con la politica militare, visto che quest'ultima è "arte di distribuire gli eserciti sul teatro de1la guerra, di assegnare ad ognuno di essi la propria parte, e di collegarne le opere la quale è tutta propria dello Stato". Un secondo fatto certo - e di per sé significativo - è che il C. non riprende la definizione jominiana, n é lo spirito che la


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111 Iorma. Le vicende della strategia, vocabolo greco riscoperto nella seconda 111~·1à del secolo XVIII, sono da lui così riassunte: Federico II e il Guibert richiamarono in uso la tattica, con cui appellavano l'unione od il confondimento della tattica con la strategia. Il Lloyd e il Maizeroy dissotterrarono e infrancesarono il vocabolo strategia. Sono una parte dell'arte militare l'arte della guerra campale e quelJa degli assedi. Dal Biilow e dal Jomini agli Okouneff e ai Xylander, essa è ridotta all'arte della guerra in campagna rasa, e nel 1861, secondo alcuni scrittori militari, è l'arte di disporre e far muovere le truppe sul teatro de11e operazioni. Insomma la strategia è ciò che ogni scrittore vuole che sia...

In tutti i casi la strategia riguarda - come per Clausewitz - solo la condona della guerra (quindi: non la sua preparazione) e si caratterizza meglio 111 contrapposizione alla tattica. Mentre questa ultima è "tutta simmetria" e 111lcressa i minori livelli, la strategia "è congetturale e fonda il successo 11dle battaglie sopra le ispirazioni del genio, e l'improvvisamento delle grandi mosse, e concerta con la tattica il passaggio de' fiumi e de' ponti [ ...1. Se la strategia differisce dall'una all'altra milizia è ciò effetto d'impulso 111orale, o del genio dei generali, anziché il risultamento delle differenze rl~lle medesime regole. Furono precetti d'ogni tempo e d'ogni popolo il regolare gli spedienti e gli agenti in guisa di giammai adoprar ad un fiato tulte le forze, e non operare che sopra punti scelti [... ] alte sono le combina1,ioni della strategia, e meccaniche quelle della tattica [... ]. La strategia è il grande concepimento delle mosse ostili, mentreché la tattica è il momenlaneo uso delle evoluzioni; lo studio forma il Tattico, purch'egli sappia rimanere calmo sotto il tiro delle artiglierie; ma formano lo Stratego lo sludio, l'esperienza, il coraggio spirituale e l'occhio. Ad ogni inaspettato avvenimento, ad ogni subitaneo mutamento fra i guerreggianti convien mutare in ogni sua parte il disegno. Lo Stratego non potrebbe come il Tattico rimaner soggetto a determinate regole ...". La strategia non è nemmeno finalizzata alla debellatio del nemico: "l'abile uso della strategia, c la sapiente scelta del teatro su cui operare, potrebbero rendere più rare e meno avventurose le battaglie, ed anche condurre a vincere senza combattere". Rimane poco da dire sulla tattica, suddivisa da C. - alla maniera jonùniana - in elementare (che riguarda l'addestramento delle unità ai vari Iivelli) e generale, che riguarda l'arte di disporre e far muovere le truppe sul campo di battaglia. Di rilievo l'osservazione che "la tattica è un'applicazione militare delle matematiche e delle scienze fisiche; essa tuttavia non è che una piccola parte dell'arte della guerra, e scompare se va scompagnata dalla amministrazione [cioè dalla logistica nel significato attuale del termine - N.d.a]; imperciocchè dileguasi tostochè incomincia il sacco, che è opposto ad amministrazione, e l'estremo confine del disordine lcosì era, dunque, la logistica napoleonica - N .d.a. J.


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All"'amministrazione" (e alle voci principali che la caratterizzano) il C. dedica uno spazio insolitamente ampio, con considerazioni spesso aderenti all'odierno concetto di logistica. Egli sottolinea che "in tempo di guerra una buona amministrazione agevola la via alla vittoria; l' ordine, l'economia, l'abbondanza, la celerità delle mosse da essa sono dipendenti. Senza di essa non si può né formare né mantenere un esercito". Il significato di logistica invece è del tutto analogo a quello fornito per la prima volta da Jomini: "arte di convenientemente ordinare le marce di un esercito, che essenzialmente appartiene all'ufficiale di Stato Maggiore". È questo uno dei pochi casi nei quali prevale Jomini: perché in tutte le rimanenti voci relative all'arte della guerra, il C. sostituisce Bardin a Jomini. Riguardo ai mezzi tecnici, quello del C. è il primo dizionario a citare gli aerostati. Una macchina da guerra impiegata per la prima volta durante la rivoluzione francese, ma non senza gravi inconvenienti: "videsi una compagnia d'aerostieri trovar talmente al di sopra delle proprie forze la somma delle sue fatiche, che volontariamenle distrusse a colpi d'arma da fuoco il suu at::ruslatu" (per lrallt::nt::rt:: l'at::ruslalu in aria mxurrcvanu 64 uomini). Anche in altre guerre gli aerostati non avrebbero dato buoni risultati: ma al momento attuale, secondo il C. oltre che mezzi di esplorazione essi sono diventati "ausiliari della telegrafia elettrica", perché servono a "telegrafare le posizioni e le mosse dell'esercito nemico mediante un filo che comunica con la terra" (probabile riferimento a esperienze della coeva guerra di secessione americana). Riceve un certo spazio anche il telegrafo, del quale si descrivono i vari tipi: "alla Chiappe" (dal nome dell'inventore), basato su un codice di segnali visibili a distanza, che si formano in vari modi alle e stremità di un'asta orizzontale, a sua volta ruotante su un piano verticale intorno a un'altra asta; "elettro-magnetico", che ha il vantaggio della trasmissione istantanea delle parole e della possibilità di operare in qualsiasi condizione di visibilità; "volante" (si stendono i fili servendosi di uomini a cavallo, per farne un uso temporaneo [in pratica: un telefono da campo - N.d.a]). Inesatte le considerazioni sul "cannone a bomba" di Paixhans; cospicuo invece lo spazio dedicato alle nuove armi rigate a retrocarica e ai meriti del gen. Cavalli. Alla voce bersagliere il C. fa corrispondere il francese chasseur à pied (cacciatore a piedi) e osserva che, quale fante leggero, "il bersagliere deve essere agile e destro così al tirare come al correre; i migliori sono quelli che vengono scelti fra gli abitatori delle montagne fnostra sottolineatura N.d.a.]. Affermazione, questa, di grande importanza per stabilire sia la reale origine e funzione dei bersaglieri, sia la reale origine e funzione degli alpini; quest'ultimi sono anch'essi una fanteria leggera e in certo senso sono nati da una costola dei bersaglieri, ampliando quella vocazione montanara che era insita nelle stesse origini dei bersaglieri, il cui sistema di combattere in ordine sparso e con fuoco mirato individuale, in montagna non era una scelta ma una necessità dettata dal terreno.


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Riprenderemo quest'argomento trattando delle reali origini degli alpini; 111lanto a proposito di ordinamenti va citato brevemente il giudizio di C. 11t·gli eserciti permanenti, che per l'ennesima volta si rifà al Bardin: il mantenimento di eserciti stanziali [cioè permanenti - N.d.a.] è per vero dire un aggravio per l'erario; fu deplorato dai moralisti, e Lenuto pericoloso alla libertà politica da' politici. Ma sopra ciò osserva il Bardin, che a qualsiasi opinione uno appartengasi, non possono le querele della filosofia prevalere contro la necessità. Gli eserciti stanziali sono un male, potrebbero diventar strumento di dispotismo, e ciò potrebbe avverarsi con eserciti di mercenari, ma con un esercito che spesso rinnovasi, e in cui sono infusi i sentimenti del popolo, e dell'opinione pubblica. ciò non è possibile. Gli eserciti stanziali sono necessari a difender l'esistenza di uno Stato dalle straniere invasioni, a servir di salvaguardia ai diritti e agl'interessi di un popolo, ad assicurare l'eseguimento delle leggi , a mantenere l'ordine sociale, a reprimere i torbidi interni, ed a contenere le cattive passioni 1... 1. Uno Stato che non mantenesse in piedi una rispettabile forza armata, forse in giorno di pericolo farebbe poi inutile chiamata al popolo; avvengacch~ le custituziu11i militari 11011 si pussunu improvvisare f... 1. La perpetuità degli eserciti è inoltre richiesta dalla moderna militare istituzione; e voglionsi infatti più anni a fare i soldati e gli ufficiali subalterni, ed il lavoro di quasi l'intiera vita a formare i generali. Di più questi eserciti durante la pace sono una scuola pratica per il complesso del popolo, una scuola inlellettuak, ùi moralità, e <li perfezionamento fisico. Il soldato v'impara a leggere, scrivere e conteggiare, e la condizione militare serve a correggere i vizi di carattere, le cattive inclinazioni, e certi vizi organici [...]. Considerato così l'esercito, esso non è più un peso per un popolo, ma un'istituzione importante e vantaggiosa, che felicemente può influire sopra i suoi futuri destini.

Interessante compendio delle ragioni che, fino ai nostri giorni, hanno giustificato l'esistenza di grossi eserciti di leva. Va solo notato che queste ragioni si attagliano in particolar modo ali' esercito di leva a lunga ferma sul modello francese del tempo; ma assai di meno al sistema prussiano a ferma breve, e per nulla all'esercito volontario inglese e americano. Vedremo, nel prosieguo della trattazione, le opposte argomentazioni dei sostenitori degli eserciti di milizia di tipo svizzero, basate sulla possibilità di costituire rapidamente, solo al bisogno, eserciti di massa. Nel 1866, anno infausto per l'Italia, le sue Forze Armate e la Marina in particolare, vede la luce una seconda edizione del dizionario di marina del napoletano barone Giuseppe Parrilli 15 (vds. Voi. I, capitoli IV e V). Riprenderemo l'esame dei suoi contenuti trattando della Marina; per il momento ci preme ricordare la dedica, nella quale con lo stesso tono adulatorio che

" G. Parrilli, Dizionario della Marina Militare italo-francese e francese-italiano, Napoli, Stabilimento Tipografico Androsio 1866.


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aveva prima usato per il Re di Napoli il P. si rivolge al Re d'Italia, ricordando che allorché nel giorno 21 ottobre 1860 compironsi i voleri della Provvidenza [..] mi detti a riprodurre il mio vocabolario con tutti quei miglioramenti, che i progressi della scienza e le moderne scoverte, hanno apportati all'arte della marineria militare. E giovami rammentare a V.M. come trovandosi il Conte Carlo di Persano a reggere il Ministero della marina del novello Regno, degnavasi in vista della utilità del mio vocabolario [si riferisce all'edizione 1848 - N.d.a.] emettere un Decreto pel quale il tecnicismo consegnato nel medesimo veniva dichiarato linguaggio ufficiale della nuova marineria italiana [il decreto è del 1862 - N.d.a.]; difatti pubblicatisi posteriormente i Regolamenti per la marina dello Stato sotto il Ministero del luogotenente generale Cugia, gli stessi ottenevansi con pieno accordo alla mia opera.

Nel messaggio al lettore ove indica anche i criteri di compilazione dell'opera, il P. aggiunge nuovi e meno rosei particolari ali' iter del suo vocabolario, che smentiscono l'ultima parte della dedica riguardante i Regolamenti. In realtà - precisa il Parrilli - il Ministro Cugia succeduto al Persano [evidentemente accogliendo la proposta del Fincati - vds. Voi. I, cap. IV] aveva nominato una commissione con l'incarico di redigere un nuovo regolamento riguardante le vud di comando, che viene poi pubblicato: ora siccome in detto lavoro la commissione credette di modificare talune voci di quelle da me proposte, così nel riprodurre per le stampe il mio vocabolario non mi è dato certo il respingerle, e però è gioco-forza accettarle [quindi: i regolamenti non si sono affatto uniformati al suo vocabolario come più sopra il P. afferma, ma è avvenuto l'esatto contrario - N.d.a]; e poiché tra di esse ve ne hanno talune delle quali non posso coscienziosamente riconoscere la convenienza, così le riprodurrò sotto mia responsabilità indicandone solo la provenienza.

Dopo aver messo in evidenza la particolare utilità del suo lavoro per la nuova Marina unificata italiana, il P. attenua gli attacchi allo Stratico, non parla più (male) del Botta e onde evitare l'accusa - lanciatagli anche dal Fincati - di essere troppo legato alla terminologia francese, questa volta diversamente dal 1846 - riporta prima il termine italiano e poi quello francese. Ci tiene anzi a presentarsi come neo-purista, protestando contro coloro che, "animati da sentimento anti-italiano" fanno uso di termini stranieri, "che frutto non sono né del Regolamento sovranamente sanzionato, né di lavori che mi costarono sei lustri di studi". Nonostante queste operazioni di facciata, l'impostazione del lavoro non è né può essere diversa <la quella del 1846; il suo limite principale è quello di essere compilato da un solo autore ci vile, molto dotto ma


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c.: slraneo alla marineria, il che da una parte lo espone alle stesse critiche che a suo tempo avevano bersaglfato il Grassi, e dall'altra non g1i consente di dare al lavoro - non sempre ricavato dal linguaggio quotidiano un ' impronta pratica. Infatti - a detta dello stesso P. - il dizionario "serve di proposta per un novello linguaggio marittimo da adottarsi, se non immediatamente dalle genti di mare, almanco dai dotti che bramassero trattare di quelle discipline". 11 che equivale ad ammettere che, quella, del P. non è una lingua viva e parlata sulle navi italiane, ma solo una "proposta" di linguaggio da adottare nel futuro. Ciò che distingue il lavoro rispetto all'edizione 1846 è il grande spazio 1iservato alle nuove navi a guerra a vapore (ivi comprese le moderne artiglierie e corazze). La trattazione esauriente di questo argomento ne costituisce un merito non piccolo; ma un merito ancor maggiore è l'introduzione del termine strategia marittima, che fa del dizionario del P. - prima opera in Italia a parlare di tale nuova branca - un'opera preziosa, da non dimenticare come finora è avvenuto. La strategia marittima è legata direttamente alla diffusione della propulsione a vapore, che libera le forze navali dalla dipendc.::uz.a dei capricci del vento, consentendo loro un movimento regolare e a comando così come avviene per le forze terrestri. Cosa ancor più importante anche sotto ìl profilo psicologico, con il vapore tutta la problematica tecnica legata al miglior sfruttamento del vento - componente fondamentale della tattica perché nel combattimento il vento a favore era un vantaggio spesso decisivo - passa in seconda linea e cede il posto a quanto riguarda gli elementi più propriamente tattici, e in particolar modo la condotta del combattimento e l'impiego del fuoco. All'epoca le flotte hanno ancora in servizio navi da guerra a vela, per le quali non sempre possono valere le stesse norme per l'impiego tattico e strategico delle navi a vapore; per questo il P. non parla semplicemente di strategia, ma di "strategia marittima dei piroscafi", applicabile cioè alle sole navi a vapore. Ci limiti amo, per il momento, a riportare il suo significato, riservandoci di tornare sull'argomento e di collegarlo alle nuove costruzioni navali: arte di far muovere e combattere le armate, composte di navi mosse dalla forza del vapore, regolandone le mosse giusta i diversi ordini di marcia, di battaglia e di ritirata. La introduzione delle macchine a vapore nelle marinerie militari ha segnato un'era novella nella strategia marittima, irnperrocchè tutti gli antichi trattati di tattica navale, pei quali le varie combinazioni dei movimenti di un'armata, erano subordinate all'eventualità del più capriccioso e instabile tra i principii motori, il vento cioè, sono divenuti oggidl lettera morta, e però è giocoforza che uomini eminenti nell'arte della marina vengano a dettarne, dopo i necessari esperimenti, i novelli precetti.

Se ne deduce che, alla vigilia di Lissa, la strategia marittima è una nuova disciplina teorica ancor tutta da mettere a punto e valida solo per


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le navi a vapore; senza contare che questa definizione del P. assomiglia piuttosto a una definizione di tattica, che di strategia. In effetti, diversamente da quanto avviene nel 1846 il P. distingue tra tattica navale (inapplicabile per le navi a vapore) e tattica a vapore [e se una flotta comprende sia navi a vela che a vapore? - N.d.a.]. Della prima dà una definizione analoga a quella precedente (vds. Vol. I - capitolo V), nella quale peraltro si dà maggior risalto alle formazioni di combattimento: anziché "arte di far muovere le armate con diverse evoluzioni" (1846) si tratta (1866) di "arte di attelar le armate nei diversi ordini di marcia, di convoglio, di caccia, di ritirata e di battaglia, e di farle eseguire tutte le evoluzioni indispensabili per passare da un ordine all'altro". In quanto alla tattica a vapore, non si capisce bene in che cosa essa differisca dalla strategia a vapore, visto che è "arte di attelare una squadra di piroscafi nei diversi ordini di marcia, di convoglio, di caccia, e di ritirata, e di farle eseguire le evoluzioni indispensabili per passare da un ordine all'altro". L'unica differenza percepibile è che la strategia si riferisce all' intera armata navale. mentre la tattica è riferita solo a una squadra: dunque. diversamente da quanto avviene in campo terrestre, la condotta della battaglia rientrerebbe nella strategia. Della battaglia navale il P. accentua il ruolo decisivo e gli effetti di debellatio assunti per opera prima di Jervis e poi di Nelson: "grandioso fatto d' arme, nel quale due armate, o per lo meno due squadre, si azzuffano e combattono a colpi di cannone, di archibugio e perfino di pistola, tanta è la vicinanza cui l'arrischiata tattica (sic) introdotta dal Nelson ai primordi del nostro secolo, aveva spinto l'attacco per distruggersi a vicenda...". In precedenza -ricorda il P. - le battaglie navali consistevano in continue evoluzioni, il cui esito era incerto e che causavano poche perdite ... nulla di mutato per il significato di combattimento, che riguarda uno scontro tra un numero ristretto di navi, o uno scontro di poco conto tra due squadre. Dalle definizioni del P., comunque, si comincia a capire la differenza che passa tra tattica, evoluzione e manovra. Da quanto detto prima a proposito di tattica si deduce che le evoluzioni sono il mezzo per pa,;sare da un ordine di combattimento a un altro; più nel particolare, per evoluzione si intende "il movimento che esegue qualsivoglia bastimento in moto, sia che venga mosso dal vento, sia dal vapore, cambiando direzione o posto, ed in ciò ben si vede qualmente la evoluzione abbia un senso meno ristretto della manovra". Con quest'ultimo termine si indica invece qualsiasi lavoro eseguito su una nave a forza di braccia, oppure "qualsiasi mossa esegue una nave per effetto del suo timone e delle sue vele". Di conseguenza ''un vascello che vira di bordo esegue una evoluzione; ma un vascello che mette fuori la forza di vele non avrà fatto che una manovra". Quest'ultima, dunque, è un fatto meramente tecnico, che non coinvolge, come l'evoluzione, la perizia tattica dei comandantiu'. •• ln campo terrestre la distinzione è ancora meno chiara. li D' Ayala ( Dizionario delle


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li P. riporta anche i termini evoluzioni navali, "mosse che eseguono onlemporaneamente o successivamente i vascelli di una squadra riunita", e 11111orlra di evoluzione, "riunione di vascelli di linea e di fregate, che le 111111-inerie di 1° ordine fper il P. sono solo quelle dell'Inghilterra, Francia e Russia; l'Italia, come gli Stati Uniti, ha una marineria di secondo ordine N.d.a] tengono annate anche in tempo di pace, e che si fanno navigare M'tl1pre riunite, per esercizio degli ufficiali e degli equipaggi". Da notare, infine, che il P. ammette francesismi oggi caduti in disuso, come discesa di milizie [dal francese descente, usato anche da Jomjni] per 1'/>arco, mentre giudica "sconcissime voci" molti altri terminj oggi entrati 11cll ' uso comune come tribordo e babordo (per destra e sinistra), imbarcaw m i (per palischermi), cabina (per camerino), amaca (per branda), ecc .. 11 dizionario di P. si presta ad altre critiche e osservazioni: ma nessuno può contestare al suo autore il merito di aver introdotto per primo in Italia la strategia marittima, come teoria e nuova disciplina che da allora in poi si .iffìanca a quella terrestre. Due cose ci colpiscono: che essa nasce nell'anno di Lissa ma per opera di un autore napoletano protetto e apprezzato proprio dal piemontese Persano, il vinto di Lissa; e che essa nasce non tanto - come avv iene per la strategia terrestre - sotto la pressione di eventi politico-sociali, ma per effetto di una scoperta scientifica, il vapore, che ne :1vvicina i contenuti a quella terrestre e consente di applicarle i moduli terr·estri, relativi alle possibilità di concentrazione e di esatto movimento. Ciò postula, in certo qual modo, una dipendenza concettuale dei contenuti della strategia marittima da quella terrestre, che sarà nostra cura mettere in luce nel prosieguo dell'opera. Nel 1856 esce a Torino il primo numero de11a Rivista Militare, diretta dai fratelli Carlo e Luigi Mezzacapo. Si tratta di un documento importante almeno quanto i dizionari e le biografie, per stabilire il concetto che all'epoca si ha di tutto ciò che concerne lo scibile militare. Nell'introduzione si indica la seguente ripartizione della materia trattata:

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voci guaste e nuove) per evoluzione intende "esercizio di esercito o di battaglia" e per manovra "esercizio, movimento o moto militare, evoluzione, esercitazione, armeggiamento...". Il Carbone nel dizionario 1866 definisce evoluzione "ogni mossa d'un corpo di soldati non minore d' un battaglione o d'uno squadrone" e precisa che "è voce da adoperarsi anche dove i francesi usano impropriamente la parola manoeuvre, dovendo noi intendere per evoluzione di fanteria o di cavalleria tutti quei movimenti ordinati, che uno o più battaglioni o reggimenti possono fare in un giorno di battaglia". E dopo aver constatato che tra gli scrittori francesi non c'è accordo sulle differenze sui due vocaboli e che molti li considerano sinonimi, riferisce come al solito l'opinione del Bardin. Per quest'ultimo "évoluer è darsi a ripetere certi atti meccanici della guerra, applicandovi le regole scritte e manoeuvrer è il concorrere al compimento delle grandi operazioni di guerra; le evoluzioni devono essere familiari tanti al soldato che al generale; e le mosse (manoeuvres) sono lo studio del generale". Se ne deduce che , mentre in campo terrestre la manovra è qualcosa più di un semplice movimento meccanico e ha rango superiore rispetto all'evoluzione, in campo marittimo avviene il contrario.


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- scienze militari: "Tattica - strategia - geografia militare - architettura e fortificazione, scienza dell'artigliere - ponti militari - legislazione e amministrazione militare - scienze attinenti alla marina, ecc."; - statistica (notizie e dati sulle istituzioni militari di altri Stati); ordinanze e discipline (cioè l'attuale ordinamento) ; igiene e polizia medica militare; storia passata e contemporanea; biografie; equiiazione e ippiatria; etica militare; pedagogia militare; tecnologia (intesa come esame del linguaggio tecnico); critica retrospettiva e contemporanea (cioè analisi delle opere e memorie militari e della cartografia pubblicate); aforismi militari (precetti e ricordi dei grandi capitani); cronaca militare; guardia nazionale; bibliografia. In questa panoramica eccessivamente articolata compare per la prima volta l'importante termine pedagogia militare, ma si nota l'assenza del concetto di arte militare, e di quello jominiano di logistica; nell'amministrazione, che grosso modo si riferisce alla logistica attuale, non è incluso tutto ciò che riguarda la sanità e i quadrupedi; artiglieria, genio, fortificazione, geografia, amministrazione, Marina sono branche che, nonostante la loro evidente disomogeneità, fanno tutte parte delle scienze militari; significativo !'"eccetera" finale, il quale indica che ce ne sono anche altre. In sintesi: scarsa attenzione dei fratelli Mezzacapo per l'approfondimento della tematica relativa ai contenuti teorici dell'arte militare, alla definizione delle sue branche e alle differenze tra arte e scienza. Il numero di materie individuate è eccessivo: ad esempio guardia nazionale e statistica, meglio potrebbero essere raggruppate sotto la voce ordinanze e discipline, mentre gli aforismi militari e la tecnologia meglio andrebbero collocate nelle scienze militari. Un siffatto modo di intendere le discipline militari denota perciò una tendenza tutta jominiana allo spezzettamento della materia, all'indagine particolareggiata nella quale si perde di vista una visione unitaria e un'impostazione per grandi temi. Il "Saggio su la tattica applicata della fanteria" (1849) del generale Chrzanowsky17 Il generale polacco Chrzanowsky, condottiero dell'esercito piemontese sconfìllo dagli austriaci nel 1849, è stato severamente giudicato da tutti gli scrittori militari italiani per la deficiente condotta delle truppe ai suoi ordini, il cui scarso rendimento è stato peraltro influenzato da gravi lacune addestrative, organizzative e logistiche preesistenti. Va comunque ricordato che egli è stato anche apprezzato insegnante di arte militare e scrittore di cose militari; questo suo libretto di 46 pagine, finora trascurato anche dal Pieri, ci sembra un documento importante, perché in esso lo sfortunato generale

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Alessandria, P.L. Capriolo Tip. S.M. (senza data, ma 1849).


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espone le sue vedute sui principali problemi tattici del momento, sostanzialmente indicando i criteri dottrinali ai quali deve ispirarsi l'esercito ai suoi ordini. ·Lo Chr. lo dedica agli ufficiali piemontesi; "superbo d'essere stato chiamato fra voi, andrei lieto di veder questo tenue lavoro tornar gradito a coloro che l'esperienza rese già familiari agli eventi della guerra, e utile a quelli, che nuovi alla carriera ambiscono a percorrerla con lode". Senza troppo geniali intuizionj, in questa occasione lo Chr. dimostra di avere una visione tutt'altro che distorta e conservatrice della condotta della battaglia, a cominciare dallo schleramento e impiego della fanteria. A quel tempo non è per nulla scontata e superflua, ma fondamentale la premessa dello Chr. che in guerra i regolamenti non hanno valore assoluto e vincolante, perché tutte le evoluzioni insegnate dai regolamenti non sono che forme, di cui bisogna servirsi a seconda dell'opportunità e delJe circostanze; e la tattica attualmente più efficace e meglio intesa è quella dell'ordine sottile in linee spiegate, e dell' ordine profondo in colonne; sia nell' azione con le armi da fuoco che con le armi bianche18 •

Altra precisazione importante è che lo spiegamento della fanteria "in bersaglieri" (cioè in ordine sparso e con fuoco mirato e libero) non è affatto un'eccezione valida solo in ca,;i particolari (come generalmente si ritiene al tempo, non solo in Italia), ma una modalità in molti casi da preferire al tradizionale e geometrico spiegamento della fanteria in linea. Infatti anche se l'effetto di fuoco che ottengono è maggiore, le linee di battaglia hanno due inconvenienti. Esse sono difficili a muoversi, e necessitano l'impiego simultaneo di una soverchia quantità di truppe, le quali dopo aver sostenuto un fuoco più o meno lungo finiscono col disorganizzarsi [...]. Il fuoco delle linee spiegate in battaglia non deve dunque adoperarsi se non parzialmente, e quando il fuoco dei bersaglieri non basterebbe ad ottenere l'effetto voluto. In ogni altra occasione, e sopra tutto quando non si cerca, se non di mantenere lentamente l'azione, si preferisce d' impiegare i bersaglieri. Ma all'incontro non bisogna prodigare l'impiego di questi, e non s'impiegherà simultaneamente se non il numero di bersaglieri strettamente necessario'9•

Il Chr. dà grande importanza - come Napoleone - alle riserve in generale e per i bersaglieri in particolare. Equilibrata valutazione anche dell'importanza del fuoco: l'arma da fuoco è solo uno strumento, la cui efficacia "può variare dal molto al nulla secondo le qualità fisiche e morali del soldato che se ne serve". La superiorità sul nemko può essere ottenuta sia con la migliore qualità dei fucili e con l' abilità a servirsene, sia nella disposizione delle truppe e nel modo con cui si sfrutta il terreno; quest'ultimo " ivi, pp.6-7. 10 ivi, pp. 7-8.


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deve presentare al nemico ostacoli tali da impedire al nemico di sfruttare iJ fuoco del1e proprie armi facilitando l ' impiego delle nostre, e inoltre "offerire de' ripari che proteggono dal fuoco del nemico, o altri al coperto dei quali si può far fuoco su di esso, rimanendogli quasi interamente nascosti". In ogni caso, quando si agisce offensivamente prima di iniziare il movimento "bisogna lasciare all'artiglieria il tempo di produrre l'effetto che può aspettarsene"20• Molto appropriate le considerazioni sulJ'attacco alla baionetta, che generalmente viene effettuato: a) dalle truppe "che restano sul di dietro di quelle che fanno fuoco"; b) solo quando non è possibile costringere il nemico a ritirarsi con il fuoco; c) "quando ormai le file dell'avversario si mostrano assai scompigliate". Questo perché è un'idea falsa l'impiego della bajonetta, senza l'azione preventiva delle armi da fuoco. L'arma bianca non preceduta da così fatto preliminare potrà adoperarsi fra distaccamenti di cavalleria; ma quando trattisi di attaccare in fanteria e artiglieria, la probabilità del successo sarebbe troppo compromessa. Le colonne che attaccano sarebbero disperse e distrutte dal cannone e dalla fucileria, innanzi di giw1gere addosso al nemicd'.

Comunque, è raro che in un attacco alla baionetta si giunga al corpo a corpo: generalmente una deHe due parti si ritira o fugge. Perciò, quello che vale in questo caso non è il numero, ma il coraggio fisico. Lo Chz. si sofferma molto anche sulle modalità per condurre in condizioni favorevoli una battaglia, che può essere difensiva, offensiva o d'incontro. Per la battaglia difensiva, nella quale è il difensore a scegliere il terreno, minutamente e corre ttamente indica i requisiti che devono possedere le posizioni. Per attaccare il nemico in una posizione da lui scelta, riconosciuta e fortificata, " bisogna essere dotati di superiorità decisa, numerica e morale". Una volta vinto il nemico, tutto l'esercito - secondo un piano prestabilito - "a gara e senza riguardo alla stanchezza deve operare l'inseguimento de1l'avversario [... J Una vittoria anche incompiuta può riuscire decisiva, se s'incalzerà il nemico con ardore". Ad ogni buon conto, in caso di esito sfavorevole deHa battaglia le truppe devono avere una via sicura di ritirata, e occorre preventivamente scegliere una posizione difensiva sulla quale ritirarsi in caso di necessità. Assai moderni e attuali i criteri per la dislocazione del Quartier Generale e l'impiego delle riserve ai vari livelli. 11 Quartier Generale deve essere stabilito "non già in luoghi, ove si stia comodamente, ma bensì il più che si può vicino alle truppe, onde potere con facilità ricevere rapporti e spedire ordini con prontezza". La riserva principale è impiegata sia per "' ivi, pp. 11 e 40. 21

i vi, p. 13.


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sostituire delle unità messe in rotta, sia per aggirare il nemico, sia per rafforzare le truppe impiegate nello sforzo principale; "infine a lei si avrà ricorso ne' casi inattesi, prudente essendo e convenevole rammentarsi, che in guerra non si può prevedere tutto"22 • Qualche cenno anche alla logistica: prima di iniziare il movimento alla mattina presto, le truppe devono ricevere il rancio. Più in generale l'esercito deve vivere "in gran parte con le risorse del paese che occupa", quindi i corpi d'armata devono muoversi su itinerari diversi occupando così un'estesa superficie del Paese, accampandosi prima della notte, senza ritardi, su posizioni preventivamente riconosciute dagli ufficiali di Stato Maggiore che consentano, al bisogno, di reagire ad imprevisti attacchi nemici. Onde evitare sorprese, comunque, in mancanza di un'avanguardia generale ogni accampamento dovrà organizzare un proprio dispositivo di sicurezza. Viene, in ultimo, anche la precisazione che le disposizioni impartite prima dell'azione potranno subire modifiche per vari motivi, "quali sarebbero il numero delle truppe e la proporzione delle differenti Armi; la superiorità che l'una armata ha su l'altra per la forza, per l'organizzazione, per la fiducia in sé stessa; la cognizione che si ha del carattere nemico; le particolarità che si ravvisano nel campo di battaglia; infine la posizione occupata dall'avversario''2J_ Ci riserviamo di confrontare queste idee dello Chr. con quelle di altri autori coevi e con gli ammaestramenti della guerra del 1848-1849. Per il momento ci limitiamo a constatare che, se si tiene conto dello stato della tattka coeva, questi criteri sono da ritenersi assai avanzati e flessibili: quindi i cattivi risultati ottenuti dalla sua azione di comando non possono essere certo attribuiti a carenze dottrinali.

"Dell'arte della guerra" di Girolamo Ulloa, "già generale in Venezia" (1851)24 Figura di grande rilievo del pensiero militare napoletano, Girolamo Ulloa con questo nuovo libro abbraccia un orizzonte assai più vasto del suo precedente· Sunto della tattica delle tre Armi (1838 - vds. Voi. I, cap.lX), introducendo la problematica strategica e ordinativa. La precedente affermazione che bisognava studiare la guerra, perché essa era resa inevitabile dalle passioni degli uomini e dalle ambizioni degli Stati, trova maggior conforto nell'esperienza del 1848, quando "gl'italiani, quasi d'improvviso ed affatto impreparati, sono stati sbalestrati dalle officine artistiche e dalle speculazioni delle scuole, in sul campo di battaglia". Al momento "tutta Europa, coperta d'eserciti permanenti, presenta lo spettacolo d'un armistizio oneroso per le finanze". Di conseguenza 22 ivi, p. 37. 23 ivi, p. 39. 24 Torino, Tip. Di Savoiardo e Bocco 1851 (2 Vol.).


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

la guerra esiste già latente, e non è lontana a prorompere ap.ertamente; né potenza umana può far che non scoppi. Onde la necessità dello studio dell'arte militare è chiaramente dimostrata, soprattutto per gl'italiani. Essendo stati superati specialmente perché non abbastanza periti nel mestiere delle armi, fa d' uopo che acquistino quelle doti che rendono un soldato invincibile sui campi di battaglia, l'istruzione cioè e la disciplina, essendo ormai chiaro a tutti che loro non manca ardimento e valore. La povertà dell'educazione militare, da cui sorge direttamente Io spirito militare, è stata la cagion prima che ha privato il bel paese della indipendenza e della sua nazionalità25•

Quindi l'U. si ripromette di divulgare l'arte della guerra tra gli italiani e in particolare tra i giovani. Con quest' ottica, l'opera è ricca di nozioni e di particolari sulle armi, sulle formazioni in combattimento, sulle posizioni, sulle "operazioni secondarie di guerra" ecc .. Più che discutere e approfondire gli argomenti controversi, l' U. si ripromette di informare e descrivere, senza essere - anche questa volta - troppo originale. Ciononostante, al di là dell'intento dell'autore acquistano particolare rilievo - e sono più "nuove" - le considerazioni relative al concetto teorico di strategia, al reclutamento, agli ordinamenti e alla disciplina; le rimanenti parti del libro riprendono invece largamente il precedente testo del 1838. L'U. considera l'arte della guerra suddivisa in due sole parti, la strategia e la tattica, e mette in evidenza "la grande difficoltà di ben fermare i limiti veri fra le succennate due parti dell'arte della guerra, lavvegnache' si incontrino molti casi in cui esse si confondono affatto". La sua definizione di strategia è forse la migliore tra le molte che finora abbiamo incontrato e si avvicina assai a quella di Clausewitz, anche se per I 'U. è scienza: la strategia è la scienza del generale, e perciò si riferisce ai grandi movimenti dell'esercito, all'insieme delle operazioni di guerra, ed è quella mercé la quale il Generale supremo adopera a ragion veduta tutti i mezzi guerreschi che possiede per ottenere la vittoria. Epperò le combinazioni di guerra si dicono per eccellenza strategiche, quando esse ottengono grandi risultamenti [... ] Quindi può definirsi così la strategia: La scienza del generale che insegna a connettere e dirigere tutte le operazioni militari e combattimenti allo scopo della guerra ldunque non sempre ha come scopo la vittoria, come affermato nel caso precedente -N.d.a]26 •

Tra gli illustri scrittori di strategia "che hanno cercato di raccogliere in corpo di dottrina i principii che governano la strategia", l'U. indica (senza distinguere) Lloyd, Jomini, l'Arciduca Carlo, Btilow, Valentini, Clausewitz. In questo campo tuttavia molto rimane ancora da fare, perché

,., ivi, Voi. I p. 4. 26 ivi, Voi. I pp. 8-9.


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alcuni di essi si son limitati ad esporre le massime di guerra nella pura astrazione teoretica; altri, e Jomini primeggia, si sono ingegnati di mostrare il legame, la relazione e il modo di praticamente nei diversi casi di guerra applicarle. Però, malgrado le prove del guerreggiare e la sapienza di tanti valenti scrittori, la strategia dopo 50 anni dal suo svolgimento non ha progredito al pari delle altre dottrine militari, quindi il suo linguaggio è tuttora confuso e ambiguo 27•

Numerose sono le difficoltà che si incontrano per rendere la strategia una scienza chiara e precisa; tra di esse, la maggiore è dovuta al fatto che la strategia nulla ha di assoluto; imperrocchè nella soluzione dei quesiti di guerra concorrono molti dati indeterminati, ed altri variabilissimi, che non possono perciò ridursi in formole; i quali sono, le forze fisiche e morali del soldato, e l'intelligenza del capo, la specie di terreno su cui si combatte, il clima, la temperatura e via discorrendo rnessun cenno ai riflessi dei fattori relativi ai trasporti, al materiale, all'armamento ecc.- N.d.a.J. Laonde alla strategia si attaglia bene quel volgare dettato, che non vi ha regola senza eccezione28.

Dopo questa impostazione assai vicina allo spiritualismo clausewitziano, l'U. inaspettatamente dichiara di voler seguire, nella trattazione dei vari argomenti, una metodica tipicamente jonùniana: si ripromette cioè di esporre dei princip'ì ricavati dalle opere precedenti e suffragati da esempi applicati in particolar modo al terreno italiano. Essi "possono tornare di utilità e in sopraccapo si impara l'arte difficilissima del guerreggiare". D'altra parte l'U. non fa alcun riferimento né alla logistica (nel senso jominiano e riduttivo del ternùne), né ali' importanza dei rifornimenti e dell'amministrazione, che non compaiono nei numerosi argomenti particolarinon tutti importanti - da lui trattati. Si potrebbe dire che di Jonùni prende il peggio e respinge il meglio, ma non è vero: perché la sua visione delle grandi possibilità che offriranno le ferrovie e del loro rapporto con la strategia, estremamente lucida e preveggente, su questo argomento di capitale importanza lo distacca assai da Jomini e rende al tempo stesso il suo discorso sulla strategia più moderno di quello di Clausewitz. A suo giudizio la scoperta del vapore, pur salutato dagli economisti come mezzo per eliminare la violenza e raggiungere la pace universale, renderà possibili grandi innovazioni nell'arte della guerra, portando la strategia al massimo grado di perfezionamento: Allorquando si sarà applicato un sistema di strade di ferro secondo i principii della strategia, gli eserciti diverranno ancora più colossali, poiché

21 ivi, Voi. Il p. 3. " ivi, Vol. II p. 4 .


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IL PENSIERO MJLITARE E NAVALE ITALIANO-VOL. li (11\48-1870)

resi mobilissimi per la facilità dell'arrivo de' mezzi di sussistenza e di guerra si possono essi nutrire in qualunque contrada, siano pur numerosi quanto si vogliano. Gli scacchieri di guerra saranno allora vastissimi; le combinazioni strategiche saranno quindi più estese; le forze si terranno più concentrate; non essendovi più bisogno di dividerle per farle sostentare, l'intelligenza del generale supremo avrà maggiore sviluppo, ché non sarà più rigorosamente subordinata alle condizioni del terreno, ed alla posizione de' magazzini e depositi; e le ispirazioni strategiche saranno perciò più libere. Egli è pur vero che Napoleone si era in certa guisa sottratto alle pedantesche norme di guerra, imprimendo alle sue colonne una celerità prodigiosa; ma le marce forzate che eseguivano le sue armate non andavano esenti da inconvenienti, perché indebolivano le forze del soldato ed ingombravano gli ospedali di ammalati. Ed è pur vero che i concetti strategici di Napoleone superavano di molto i mezzi di guerra de' quali egli poteva disporre. Difatti la battaglia di Lipsia fu da lui perduta per difetto di munizioni da guerra, che non gli sarebbero certamente mancate ove si fosse trovato stabilito un sistema militare di cammini di ferro [... ]. E pare che il progresso della strategia debba tornare a vantaggio specialmente delle grandi armate, e perciò della offesa; imperrocchè sarà facile, come poc'anzi si è accennato, sviluppare rapidamente e tutto ad un tempo, forze gigantesche e non già successivamente ed a lunghi intervalli, come si è astretti di fare oggidl a causa della difficoltà di poter raccogliere immensi approvvigionamenti, non che per la notevole differenza di tempo che corre dall'arrivo delle prime colonne a quello delle ultime. Col sistema moderno di combattere, il difensore tiene riconcentrate le sue genti, che traggono alimento dal proprio paese, ed è sicuro di resistere e talvolta anche di respingere le prime colonne dell'invasore prima che giunga questi a riunirle tutte. Ma con una rete di strade di ferro l'aggressore piomba con tutto il suo esercito sul terreno da insignorirsene, sicché non sarà più colla continuità delle offese ch'esso tenterà di vincere, ma colla grande superiorità delle sue masse, che presenterà ad un tempo su tutti i punti di attacco. Aggiungi che l'influenza delle piazze forti diminuirà di molto, poiché l'offensore che ha l'iniziativa dei movimenti, può elud ere la vigilanza del difensore e sottrarsi sollecitamente all'azione di esse. Oltre a che, essendo facil cosa provvedersi di viveri e mezzi di guerra, si ha perciò minore interesse di occupare le piazze forti, il cui principale oggetto è oggidì di raccogliere e tenere in sicuro il necessario per la soldatesca f...1. E' dunque da attendersi che le strade ferrate e l'uso del vapore arrechino all'arte della guerra un incremento tale quale si ottenne colJa scoverta della polverei<l.

Non si potrebbe dire di più, e meglio, su un argomento che rimaneva allora assai controverso, e su un nuovo ritrovato della tecnica ancora suscettibile di sviluppo e perfezionamento. Nul1a di nuovo, invece, per quanto riguarda la tattica, dall'U. definita - con la solita confusione di termini -

,. ivi, Voi. l pp. 17-19.


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"arte di ordinare le milizie, di disporle per le operazioni tutte di guerra, e di farle operare sui campi di battaglia". Di maggiore interesse le considerazioni dell'U. sul reclutamento e la disciplina, nelle quali grazie alla sua esperienza e dottrina dimostra un raro equilibrio, senza indulgere a soluzioni avveniristiche suggestive ma sovente impraticabili, e senza d'altra parte peccare di eccessivo conservatorismo. Per l'U. i requisiti essenziali di un esercito sono laforza, l'agilità e la mobilità. Ciò premesso, "la forza dell'esercito, il numero delle suddivisioni e il rapporto tra i comandanti e quelli che obbediscono, dipendono da considerazioni politiche, morali e materiali di ciascun Stato". A tal fine occorre considerare soprattutto la forma di governo, le leggi di reclutamento, l'indole del popolo, la situazione dell'industria e del commercio, le caratteristiche del territorio. Per quanto riguarda il reclutamento, "non v'ha oggidì milizia più utile della milizia cittadina, né questa si può ordinare altrimenti che colla leva a sorte de' giovani adatti al mestiere delle armi". In linea generale, una buona legge sulla leva deve avere, secondo l'U., dei requisiti antitetici tra di loro: 1°) prevedere una durata del servizio tale da formare un buon soldato; 2°) evitare peraltro di distogliere il duadino per lungo tempo dalle sue occupazioni; 3°) far gravare la leva sul maggior numero possibile di cittadini, onde avere forti riserve addestrate. Per tradurre in pratica questi criteri, l'U. propone per l'Italia un esercito diviso in tre categorie di forza uguale: stanziale (cioè permanente), prima riserva e seconda riserva. Il servizio militare sarebbe obbligatorio per 11 anni (3 di servizio attivo nell'esercito stanziale, 3 nella prima riserva e 5 nella seconda). Queste modalità vanno bene, però, solo per la fanteria: per la cavalleria, l'artiglieria, il genio e i bersaglieri (cioè per i corpi speciali che hanno bisogno di maggiore istruzione) sarebbero previsti 10 anni, 6 nell'esercito stanziale (quindi con ferma doppia) e 4 nella prima riserva. Essi sarebbero compensati per la maggior durata della ferma, "con maggiori considerazioni ed aumento del soldo". Un sistema macchinoso e iniquo, basato sull'estrazione a sorte e tale da creare una sorta di esercito d'élite, con riserve che completano l'addestramento mediante periodici richiami in tempo di pace. Infatti "l'esercito attivo riparerebbe annualmente alle perdite per mezzo de' volontari e degli assegni fatti dalla leva dei giovani dai 19 ai 22 anni; la forza della prima riserva si eguaglierebbe a quella dell'esercito stanziale colle annuali leve dei giovani estratti a sorte dai 23 ai 26 anni"; la seconda riserva si alimenterebbe con le perdite per varie cause della prima e seconda categoria; i giovani dai 19 ai 26 anni sfuggiti alle varie leve fornirebbero parte delle guardie nazionali mobili. Gli appartenenti alla prima riserva sarebbero passati in rassegna ogni domenica, e quelli della prima e seconda riserva che non hanno prestato servizio nell'esercito stanziale sarebbero richiamati per due mesi all'anno. Con questo sistema che ricorda quello in vigore al momento in Francia, l'U. ritiene di su<l<lisfan:: le tre esigenze prima indicate, perché "in tre anni


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di servizio si forma un mediocre fantaccino e il mestiere militare in si breve tempo non è poi gravoso; e ne' secondi tre anni della prima riserva esso diventa un buon soldato [... ]. Nei cinque ultimi anni essendo già di molto istrutto diventa libero affatto; ma colle settimanali rassegne gli si ricorda ch'è ancor soldato". I traguardi di forza che l'U. vorrebbe raggiungere con un siffatto meccanismo sono comunque assai modesti, e non coinvolgono affatto le classi intere: il Piemonte avrebbe un esercito permanente di soli 36.000 uomini, che in caso di guerra diventerebbero 72.000 di prima linea e 56.000 di seconda linea (dei quali 2.000 guardie nazionali mobili); l'Italia in pace avrebbe 150.000 uomini e in guerra, 300.000 uomini di prima linea e 150.000 in riserva, oltre le Guardie Nazionali mobili. L'U. dedica particolare attenzione anche all'istruzione dei Quadri e alla disciplina, nell'intesa che "per avere un buon esercito non basta solo una giudiziosa formazione dei Quadri e ripartizione del personale; bisogna altresì che concorra capacità e intelligenza somma nei generali, istruzione negli uffiziali, educazione militare e disciplina perfetta in tutto il personale". Non basta che l'ufficiale conosca bene i regolamenti, né la pratica può supplire alla mancanza di nozioni teoriche: "per bene apprendere l'arte della guerra è necessario che lo studio dei principii preceda quello della pratica. È da notarsi poi che questi principii sono dedotti essi medesimi dalla pratica; il ragionamento ne fa l'analisi e ne insegna la applicazione". L'ufficiale deve perciò conoscere "gli elementi delle matematiche e de11e scienze fisiche, lo studio della storia e della geografia, gli elementi di strategia, la tattica delle tre Armi, l'attacco e difesa de' forti, posti, trinceramenti e piazze". Ma per gli ufficiali di Stato Maggiore e di attiglieria e genio, "eletti corpi che rappresentano la parte intellettuale dell'esercito", questo non basta: essi devono imparare perfettamente anche "le matematiche pure e applicate, il disegno, la topografia, la fortificazione, l'artiglieria teorico-pratica e qualcuna delle lingue de' popoli fiorentini". L'istruzione del soldato deve essere semplice; gli si deve insegnare, per non confondergli le idee, solo ciò che deve tradurre in pratica ali' atto del combattimento. 1 campi di addestramento devono assomigliare a quelli di battaglia, "perché si possa dire degli eserciti ciò che lo storico Flavio Giuseppe dice de' Romani: 'i loro esercizi erano talmente l'immagine della guerra, che si poteva denominarli combattimenti senza effusione di sangue, ed i loro combattimenti esercizii sanguinosi"'30• La disciplina riassume il codice dei doveri del soldato; per risultare efficace deve corrispondere "ai costumi, all'indole della nazione, e al modo di leva dei militi". Presso le nazioni molto incivilite il soldato può essere ben guidato facendo appello principalmente all'amor patrio, all'onore e all'amor proprio. Questo metodo però non è adatto per i popoli abbruttiti dall'ignoranza, da "cieco dispotismo, o da sciocca superstizione", per i "' ivi, Vol. I p. 29.


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quali vale soprattutto il timore del castigo e la speranza di ricompense materiali; tra questi ultimi l'U. colloca il soldato russo e austriaco. Poco favorevole anche il giudizio sul soldato volontario inglese: "in Inghilterra i soldati e gli ufficiali formano due classi totalmente distinte, conseguenza delle istituzioni del paese [... ]. Nell'esercito inglese reclutato col denaro e composto perciò degli uomini più intemperanti, oziosi e depravati (ai quali talvolta il Governo, per commutazione di pena, aggiunge i condannati a morte), solo la disciplina della frusta può imbrigliare il soldato. Il quale, quantunque bravo, non è guidato al dovere che col bastone, una buona paga e un buon vitto"1 1• Nell'altra categoria di soldati, per i quali non c'è bisogno di una disciplina così dura, l'U. include il soldato francese, prussiano, belga, spagnolo e italiano. Ma poiché ciascun esercito deve avere una propria disciplina, malamente si commenda da taluni la disciplina rigida degl'lnglesi, degli Austriaci, de' Russi, per il ben che essa produce negli eserciti; come pure s'ingannano quelli che preferiscono invece la disciplina generosa e liberale de' francesi . E gli uni e gli altri con pessimo giudizio han cercato di applicare queste diverse specie di discipline agli eserciti italiani; né fin d'ora, per quanto a me pare, si è studiato abbastanza per trovare qual sia la disciplina meglio adatta per noi Italiani, che non siamo né Austriaci, né Russi, né Inglesi, né Francesi32•

Il soldato francese, intemgente e assai sensibile ai sentimenti di onore e amor proprio, ha bisogno di lodi e di distinzioni più che di castighi; per contro riesce assai difficile educarlo alla cieca obbedienza, mentre i mezzi di repressione, dei quali si può fare solo un uso moderato, operano su di lui lentamente. L'italiano assomiglia molto al francese: esso è dotato di molta immaginazione, di costumi dolci, sensibile, appassionato, intelligente, ma non temerario, perché ragionatore; non entusiasta come il francese, perché educato nell' addietro a combattere per una causa non sua, e perché le sue militari tradizioni, attesa la infelice condizione politica della sua patria, non sono splendide come altrimenti sarebbero.

Di conseguenza, per l'italiano la disciplina più adatta si avvicina a quella francese, anche se non deve essere "così liberale come questa, né così moderata". Andrebbe bene anche il modello di disciplina prussiano, "che rigorosamente guida il soldato per la via dell'onore". E a questo punto l'U. descrive le punizioni dell'esercito prussiano, non certo blande. In tutti i casi,

" ivi, Voi. I p. 30. 32 ivi, Vol. I pp. 29-30.


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in quanto all'applicazione della disciplina bisogna molto studiare il cuore umano. Volete comandare all'italiano? mostratevegli amico, dividete con lui le fatiche e le sofferenze; vigilate ai suoi bisogni. Di tal modo la vostra severità sarà accolta con amore. Se non che l' indulgenza è perniciosa, e se v ' accade talvolta dover correre agli estremi, siate piuttosto severo che indulgente. Comunque si voglia esser rigidi nella disciplina, non bisogna però esser crudeli coll'ita- · liano; ed è necessario inoltre evitare l'arbitrio e le odiose vessazioni, che sono proprie degli animi vili; non bisogna degradarlo con pene disonoranti, sottoponendolo al bastone" .

Dopo queste considerazioni sulla disciplina che non hanno perso d'attualità, l'U. passa ad esaminare problemi di armamento, di equipaggiamento e di disposizione delle truppe su] campo di battaglia. In breve, si può dire che la sua ottica è piuttosto conservatrice: è favorevole alla lancia e alla corazza per ]a cavalleria, dà grande importanza ai bersaglieri e al loro speciale armamento individuale (carabine rigate capaci di colpire a grande distanza), ritiene che il battaglione debba essere formato da sei compagnie di cui due scelte, non si preoccupa della riduzione dei tipi e calibri delle artiglierie. Anche riguardo alle battaglie la sua è un'ottica napoleonica: una lotta generale fra due eserciti dicesi battaglia. Laonde le battaglie stabiliscono la riputazione dei generali e degli eserciti, sono lo scopo cui mirano tutte le militari discipline. Esse decidono i grandi litigi delle potenze L... ]. Ed è perciò che tutta quanta l'arte della guerra si fa consistere appunto nel moltiplicare i casi favorevoli, e diminuire gli sfavorevoli, che in questi tremendi urti si possono presentare [... ] Se adunque dalle battaglie dipendono le sorti delle nazioni, ragion vuole che né si offrano, né si accettino se non si spera con qualche fondamento la vittoria...34•

L'U. dedica parecchi capitoli anche alla piccola guerra, e, nel suo ambito, tratta con un capitolo (il XLIX) la guerra di partigiani. La piccola guerra consiste in un complesso di operazioni minute compiute per agevolare "le grandi operazioni di tutto o parte l'esercito". È affidata a distaccamenti di truppe leggere (cavalleria e/o fanteria) e "non ha alcun rapporto immediato con la conquista o difesa di un paese, ma semplicemente merce' sua si cerca di nuocere al nemico, e nel medesimo tempo di assicurare il corpo principale" 35 • L'analisi della guerra di partigiani non presenta nulla di nuovo rispetto al Decker (cfr. Val. I cap. XIV): "un corpo di fanteria o cavalleria irregolare, che combatte ed agisce indipendentemente dall'esercito, 1

ivi, Voi. I p. 32. ivi, Voi. TI p. 145. ,., ivi, Voi. II p. 207. '

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dicesi partito, e gli individui che lo compongono si denominano partigiani". I partigiani non sono solo militari, ma più frequentemente dei civili: poiché ordinariamente i partigiani sono restii ad ogni militare disciplina, non riconoscendo altro che quella dell'obbedienza cieca al loro capo, e si sostengono in campagna togliendo viveri e danari dai paesi nemici, e combattono specialmente per l'avidità del bottino, cosl vogliono scegliersi di preferenza fra la gente risoluta e armigera del proprio paese e non nell'esercito; imperciocché la disciplina e la morale di esso ne scapiterebbero'6•

Seguono le consuete considerazioni (vds. anche Voi. I - capitolo XIV) sulle speciali doti che deve possedere il partigiano (e soprattutto il suo Capo) e sul suo modo di combattere, che l'U. non sottovaluta affatto: qual preveggenza adunque, abilità, presenza di spirito, colpo d'occhio, agilità e coraggio non si addomanda in questa specie di guerra! Il partigiano deve contare più sull'uso della propria forza e coraggio che su quella del corpo cui appartiene; ed è perciò che la sua azione è più adatta ai terreni frastagliati, impervi e montuosi, che ai piani. In Ispagna e Calabria, paesi montuosi e frastagliati, la guerra dei partigiani si è sempre combattuta con molto vantaggio [accenno, quest'ultimo, tipico degli scrittori militari meridionali, a cominciare dal Blanch - N.d.a].

Prestando il fianco a fin troppo facili critiche, l'U. indica tra i capi partigiani famosi i napoletani marchese Rodio e Michele Pezza detto Fra Diavolo (un bandito più che un guerrigliero); gli spagnoli Mina, Gomez, Cabrera e Merinos (che era un curato); e infine il francese Charette e i prussiani Schill e Clausewitz, che si sono distinti nella campagna del 1806-1807 in Prussia e Polonia contro Napoleone. In tal modo, l'U. stranamente accosta Clausewitz a Fra Diavolo, e dà grande importanza a una modesta figura come il Rodio. Il Pieri, che non giudica molto positivamente la sua opera, gli fa carico di non fare menzione di Garibaldi, pur diventato già famoso (nel 1851) per le sue gesta in America e nella guerra del 1848-194937 • Come il suo conterraneo (e compagno di scuola alla Nunziatella) Pisacane, l'U. non poteva soffrire Garibaldi; secondo lo Sticca "[nel 1859] creò i Cacciatori degli Appennini, ma non volendo dipendere da Garibaldi non partecipò alla campagna del 1860-61". Qui noi osserviamo che Garibaldi non può essere ridotto a capo guerrigliero; alla guerriglia vorrebbe ricorrere - ma non vi ricorre - nel 1848-1849, e basta leggere le sue memorie per convincersi che in America più che condurre operazioni di 36 ivi, p. 274. '' P. Pieri, Storia militare del Risorgimento, Torino, Einaudi 1962, p. 579 e Guerra e · politica, Milano, Mondadori 1975 (l'-&l. 1955) p. 155.


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guerriglia e scegliere questa forma di guerra come costante modulo di riferimento, eglifa quello che ha sempre fatto: combattere per terra, per mare o sui fiumi, di volta in volta scegliendo le modalità d'azione più convenienti nella situazione del momento38 • La tattica garibaldina, sia in America che in Italia, è sempre stata molto lontana da quella che l'U., ragione, indica come caratteristica della guerriglia: "questi capi partigiani si sono mostrati altrettanto formidabili nei combattimenti, che veloci nelle loro fughe. La loro tattica consisteva principalmente nel farsi vedere da per tutto, ed in nessun luogo lasciarsi cogliere, offrire sempre con vantaggio il combattimento al nemico, e lasciarsi mai sforzare ad accettarlo"39• Contando sulla sorpresa e sullo spirito dei suoi uomini, Garibaldi attaccava anche quando i rapporti di forze, d'armamento e d'addestramento gli davano palesa.mente torto ... Offensiva ad ogni costo, anche quando tutto avrebbe consigliato di evitare lo scontro: non è stato forse questo il segreto dei suoi successi, e insieme la causa dei suoi insuccessi? Ignorato dal Brancaccio nonché del Bastico, appena nominato dal conterraneo (e amico?) D' Ayala e dallo Sticca, il libro dell'U. non merita di essere dimenticato. Le considerazioni sulla strategia, sulle ferrovie, sulla discip1ina e sull'istruzione dei Quadri denotano un apprezzabile sforzo di superare i rigidi canoni jominiani e danno al lavoro un'impronta spiritualista non frequente all'epoca, che al tempo stesso - almeno nel caso delle ferrovie - non trascura e anzi esalta i riflessi del progresso tecnico. Effettivamente in molte parti l'opera - anche in relazione alle sue finalità didattiche - è poco originale e troppo attenta ai particolari; ma non è giusto, come fa il Pieri, indicarne solo i lati negativi. Non è vero che, come quest'ultimo afferma, "l'opera dell'Ulloa, pur nella sua chiarezza e compiutezza formale, e innegabile utilità, nulla si può dire aveva di veramente originale, e dal punto di vista d'una nuova e diversa interpretazione dell'arte militare napoleonica e della concezione della guerra in senso lato non segnava alcun sostanziale progresso" le le ferrovie? - N.d.a.]. Né può essere condiviso - e ne abbiamo dimostrato il perché - un altro giudizio del Pieri (al quale si associa il Liberti40 ), secondo il quale il libro "è sostanzialmente un'esposizione fatta con grande chiarezza e sano equilibrio dei principi della guerra di Jomini, con l'aggiunta di varie nozioni di carattere elementare". Sempre secondo il Pieri, l'U. avrebbe dedicato uno spazio troppo modesto al problema della guerriglia: noi osserviamo che in compenso ne ha sintetizzato i caratteri con efficacia, visto che il Liberti riporta le sue considerazioni senza criticarle. Della guerriglia egli non è certamente entusiasta e esclusivo fautore (come non lo era lo stesso Garibaldi), ma questo atteggiamento viene condiviso dalla massima parte degli scrittori·italiani e stranieri

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Cfr. G. Garibaldi, Memorie, Torino, Einaudi 1975 . G. Ulloa, Op. cit., Voi. II p. 278. E. Liberti, Tecniche della guerra partigiana nel Risorgimento, Firenze, Giunti - La Barhèra 1972, pp. 25-26. 38

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del tempo, quindi non può essergli rimproverato. Lo stesso Pieri, peraltro, ritiene il libro utile e necessario e loda apertamente l'acume strategico dell'U. perché nel 1848 ha presentato a Carlo Alberto il migliore dei tre piani di guerra possibili per la campagna del 1849,41 con il quale (come scrive l'U.) io dimostrava i vantaggi che si sarebbero ottenuti dall'esercito di Piemonte se avesse scelto per linea di operazione le due vallate del Po, e stabilita la seconda base d'operazione a cavaliere sul detto fiume, obliquamente al quadrilatero fortificato. Il teatro della guerra sarebbe stato il Veneto. Col nerbo delle forze sarebbesi in breve occupata Legnago, e quindi minacciata Verona, e ciò senza tema di compromettersi. La ritirata sarebbe stata sicura per la destra del Po; il nemico non avrebbe osato uscire dal quadrilatero per avanzarsi sul Ticino, per timore d'esser tagliato dalla sua forte linea di difesa.•2•

Tutto sommato, il libro dell'U. avrebbe meritato maggiore e miglior fama; forse gli hanno nuociuto sia le idee politiche dell'autore, ritornato horbonico alla fine della sua vita, sia l'esser egli napoletano e convinto sostenitore delle contestate virtù di quell'esercito. E prima di tacciarlo di scarsa originalità, bisognerebbe una buona volta chiedersi: quale autore in Europa è stato veramente originale, dopo Clausewitz e Jomini? Le "Nozioni elementari di strategia" di Enrico Giustiniani (1851)41

Un autore ancor più filo francese, - e jominiano senza eccezione e senza genio - è invece il piemontese Enrico Giustiniani, maggiore di Stato Maggiore e insegnante di storia e arte militare all'Accademia Militare di Torino. Autore di numerose opere militari in francese (vds anche Voi. I capitolo VIII), il Giustiniani in un libretto di poche pagine che è anche la sua unica opera in italiano (Nozioni elementari di strategia coordinate ad uso dell'insegnamento, anch'essa del 1851) non fa che ripetere - magari peggiorandole - le definizioni jominiane e le digressioni dello scrittore svizzero su punti strategici, linee strategiche, basi e linee d'operazione, linee di comunicazione ecc., con qualche riferimento esemplificativo ma puramente tecnico alla recente guerra del 1848-1849 (ciò non può destare sorpresa, visto il carattere ufficioso e didascalico dell'opera). Basti citare le sue considerazioni sulla strategia, da lui definita "arte di combinare i movimenti generali degli eserciti, che hanno luogo prima della battaglia, fuori dalle offese dell'inimico. È la guerra combinata sulla carta, salvo a modificarne ali' atto pratico 1' applicazione in dipendenza delle circostanze di luogo, di tempo e di spazio, che dominano tutti i dati della teoria". P. Pieri , Storia mii. (Cit.), p. 205. G. Ulloa, Op. cit., Voi. II p. 10. •, Torino, Tip. Militare 1851. •

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Il suo scopo è (si direbbe: naturalmente) quello di "riunire forze superiori sul punto decisivo, onde completare per mezzo dell'azione tattica la preparazione strategica. Ed è questo pure un principio fondamentale dell'arte della guerra". E le differenze tra strategia e tattica restringono nettamente l'azione a quest'ultima branca..... Con questi connotati, si potrebbe affermare che l'opera del G. riprende i concetti dell'Arciduca Carlo (Vol. 1 - capitolo TI) ancor più di quelli di Jomini. Ci limitiamo perciò a ricordare alcune considerazioni che escono dall'ovvio e che denotano una qualche originalità. Anzitutto, la differenza ben delineata tra guerra offensiva e difensiva, con un exemplum anch'esso ben calibrato: sotto il punto di vista strategico la prima tende a profittare del tempo, a sorprendere l'inimico, a costringerlo alla battaglia decisiva. La seconda invece tende a guadagnar tempo, ad evitare le azioni decisive sino al momento in cui si possa obbligare l'aggressore a combattere in condizioni e in terreno a lui sfavorevoli. Nel 1848 l'Esercito piemontese fece dapprincipio la guerra offensiva sotto il punto di vista strategico e politico. L'esercito austriaco invece si costituì sulla difensiva. Il primo commise lo sbaglio di non approfittare del tempo; il secondo raggiunse lo scopo di guadagnar tempo. L'offensiva strategica è la più vantaggiosa, perché consente <li prendere l'iniziativa delle operazioni, costringendo il nemico a manovrare in relazione ai nostri movimenti. Ad esempio "l'iniziativa che prese il maresciallo Radetzk:i nel luglio 1848, obbligò l'esercito piemontese a levare il blocco da Mantova e a subordinare i suoi movimenti a quelli del nemico". Le considerazioni del G. sul ruolo strategico e sull'importanza delle due principali piazzeforti piemontesi del tempo, Alessandria e Genova, preludono al vasto e articolato dibattito degli anni successivi sulla difesa dell'I~a in generale: una piazza per essere strategicamente offensiva deve poter facilitare all'armata, cui serve di punto d'appoggio, il modo di minacciare le comunicazioni dell'avversario. Alessandria, per esempio, ampliata che fosse alle sue antiche proporzioni, è strategicamente offensiva, perché l'armata che l'occupa minaccia le comunicazioni di un inimico che proveniente dall'est si avanzasse per le due rive del Po, tanto nell'intento di marciare su Torino, quanto in quello di marciare su Genova. Genova possiede facoltà strategica per lo sviluppo e la forza intrinseca delle sue fortificazioni. Essa offre alle armate piemontesi una base proficua per le alleanze marittime. Considerata poi come il ridotto dell'Appennino che domina Ja riva destra del Po, essa diventa in grado eminente strategicam ente offensiva [ ... ] Genova infine è capace di contenere grandi approvvigionamenti, ed ohhliga l'inimico a destinare un intero esercito per investirla.


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Non si può dire che il G. abbia una visione ardita, originale e innovatrice della strategia; maggiore originalità - se non preveggenza - egli dimostra invece in fatto di logistica, differenziandosi dalle idee della maggior parte degli scrittori del tempo (non escluso l'Ulloa) che rilengono nocivo a11a disciplina e moralmente inaccettabile il principio della logistica napoleonica di vivere sul paese, con gli inevitabili abusi che ciò comporta. Il G., invece, ne fa una questione di necessità, in 4uesto avvicinandosi allo Chrzanowsky: quando i magazzini sono il solo mezzo che abbia l'esercito per sussistere, le operazioni strategiche sono in certo modo subordinate alla marcia de' magazzini stessi, e la guerra assume il carattere metodico che essa aveva nel secolo scorso. Le operazioni audaci diventano allora rarissime od impossibili, non essendo desse praticabili che quando v'è mezzo d'applicare l'antico aforisma che dice, che la guerra vuolsi nutrire con la guerra.

Ciò non toglie che un esercito che muove dalla posizione di concentramento im.:ontro al nemico deve portare al seguito viveri per più giorni, "ed una Amministrazione previdente avrà ad applaudirsi di averli opportunamente risparmiati; il che otterrà se avrà cura di far vivere sino a quel giorno le truppe a carico degli abitanti e dei Comuni". Il G. si riferisce solo al rifornimento dei viveri, a fronte di una crescente importanza degli altri tipi di rifornimento, a cominciare dalle munizioni; né egli accenna - come l'Ulloa - alle nuove possibilità logistiche che offrono le ferrovie: ma si deve riconoscere che sono questi i criteri fondamentali che domineranno la logistica fino al 191444 • Viene solo il dubbio che, ben conoscendo le gravi carenze dell'organizzazione logistica piemontese nel 1848-1849, abbia voluto in certo senso scusare la mancanza di "operazioni audaci" in questa campagna, e al tempo stesso dimostrare che il pessimo funzionamento del rifornimento viveri era inevitabile, e poteva essere compensato solo con un massiccio ricorso alle risorse locali (che non c'è stato per ragioni, sembra, politiche, cioè per non inimicarsi le popolazioni lombarde; scrupolo ovviamente assente nel campo opposto). Alla stessa stregua del lavoro del G. vanno giudicati gli Elementi di tattica del capitano Ferdinando Augusto Pinelli (Ivrea 1851), che raccolgono questioni tattiche di dettaglio ad uso degli ufficiali di fanteria. Delle sue idee sulla guerra partigiana daremo conto nel successivo capitolo Il; per il momento, basti ricordare che riprende alla lettera la ripartizione dell' arte della guerra di Jomini, "a niuno secondo in erudizione e celebrità". 44 Cfr. F. Botti, La logistica dell'Esercito Italiano - Voi. li ( 1861- 1914), Roma, SME Uf. Storico 1991.


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La "Storia delle guerre ossia memoriale militare politico della storia universale" (1851) di Angelo Marescotti45 e la "Guida dei militari d'ogni grado per la redazione dei rapporti" (1851 J46

Nel primo libro, che ambisce essere "un compendio della storia universale ossia un Memoriale storico", il Marescotti elenca una serie interminabile di guerre, con un'appendice teorica nella quale non esce dal solco jominiano. La parte meno scontata è quella dedicata alla guerra d'indipendenza americana 1775-1783 47 ; convinto sostenitore delle autonomie politico-amministrative locali e regionali, il Marescotti ha una visione assai rosea del federalismo americano e non ne intravede - come fanno invece il Botta e tanti altri - i vistosi e indiscutibili inconvenienti militari ammessi dallo stesso Washington, né attribuisce la vittoria americana alle condizioni geografiche, alla lontananza del Paese dall'Inghilterra, ali' aiuto esterno da parte della Spagna e della Francia ecc .. In fatto di grande strategia, dunque, l'analisi di quella guerra da parte del Marescotti è per lo meno dubbia e incompleta; ma ciò non avviene nel campo tattico. Sulla tattica delle pur malferme schiere di Washington le sue osservazioni sono estremamente interessanti; una volta tanto, troviamo chi sa trarre tutte le conseguenze dal graduale aumento della potenza di fuoco degli eserciti. Poca stima ha delle truppe volontarie inglesi che pur avevano vinto Napoleone: gli inglesi - afferma - "avevano accozzati 50 mila uomini fra le genti venali di tutta Europa, intese principalmente al saccheggio". Dal1' altra parte, Washington non aveva truppa disciplinata da porre in linea; perocché, quantunque ogni americano si fosse obbligato a servire ne' campi, ciascheduno ci rimaneva un anno solo. Quindi Washington disciplinò le sue truppe alla guisa de' bersaglieri, né i battaglioni di Gag e assaliva, ma circondava e avviluppava. E sebbene non accadessero battaglie campali, Gage fu perdente. Fu perdente anche Howe, che successe a Gage -···

Come del resto Garibaldi, Washington non dispone la sua fanteria in battaglia nella classica formazione serrata su due o tre linee, ma le fa combattere - facendo di necessità virtù - in ordine sparso, così come usano combattere i bersaglieri in Europa. Questa tattica è risultata vincente anche contro Lord Comwallis, perché (ma la sua è stata una scelta?) Washington è forse il primo generale ad avere conosciuto il valore delle truppe che si dicono leggere, e che combattono in ordinanza sì,

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Firenze, F. Paggi Libraio, 1851. Torino, Cassone 1851. .-, A Marest,;ulli, Op. cit., pp. 272-275. 46


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ma non stivate entro linee o colonne, le quali sono presto distrutte dalle artiglierie. Infatti due cose bisogna osservare; primieramente come il sommo progresso delle artiglierie non permette nemmeno più l'ordine sottile delle linee di battaglia, cui pertugiano [cioè aprono varchi - N.d.a.] e atterrano micidialmente i grossi parchi de' cannoni [nostra sottolineatura - N.d.a.]; secondariamente come sia opportuno, quando si abbiano uomini poco esperti, e non imperterriti al cospetto dei fuoco, di assimilarli in battaglioni di bersaglieri, e gettarli alla corsa sopra i fianchi e le spalle del nemico, massime sulle batterie, che non possono far danno a gente disunita. In questa guisa si mette anche in azione la perspicacia individuale atta a sup- · plire nell'uomo incivilito alla macchinale disciplina. Di questa perspicacia individuale non si trae ancora frutto negli eserciti. Washington l'una e l'altra cosa pare comprendesse, ed è degno d'imitazione.

Affermazione almeno in parte contradditoria: perché Washington ha deciso di combattere in ordine sparso non potendo fare altrimenti, e forse se 11vesse avuto ai suoi ordini truppe disciplinate e addestrate sul modello r uropeo, avrebbe anch'egli scelto di combattere con le solite formazioni chiuse. Bisognerebbe anche chiedere al Marescotti di chiarire quali sarebbero a suo avviso le formazioni da adottare se - diversamente da Washington - si disponesse di "uomini esperti" e "imperterriti davanti al fuoco" . Che l'ordine sparso vada bene anche a quest' ultimi, il Marcscotti non lo dice: rimane comunque il fatto che egli è il primo autore militare italiano ad accorgersi che il progresso delle armi da fuoco rende superato, semplicemente perché troppo vulnerabile, ]"'ordine sottile" ancora sostenuto da molti scrittori militari coevi, i quali temono che, rinunciandovi, si aprirebbe la via a un'inaccettabile confusione e indisciplina sul campo. Di minor interesse e originalità la parte più propriamente teorica dedicata all'arte militare e alla sua ripartizione. Nella prefazione del libro il Marescotti tiene a sottolineare che il soldato è anche cittadino, e che quindi arte della guerra e politica sono in rapporto stretto, sono due facce della stessa medaglia: se il suo mestiere converte talvolta in istrumento passivo [il soldato], niente di meno non toglie a lui gli attributi della cittadinanza. Anzi si prefigge di sostenerli per gli altri col proprio sangue: sicché avrebbe obbligo, sovra tutti, di conoscere la scienza della civiltà, e del cittadino. Due parti distinte si contengono dunque in questo libro: una per l'arte della guerra; l'altra per la politica, o per l'arte della civiltà, la quale pur troppo si trova sempre compagna della spada; conciossiaché colla spada si è scritta la storia dell'umanità.

Anche per il Marescotti, come per Jomini, i principi "supremi e direttivi" della strategia e della tattica sono semplici e facilrm:nle <.:ompren-


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sibili; ciò che conta è il carattere, che dà la capacità di tradurli in pratica e prevale - come affenna Marmont - sulla stessa intelligenza del Capo_ La strategia "abbraccia le operazioni preparatorie della battaglia, le quali si eseguiscono lungi dal nemico". La tattica "è la scienza delle manovre, che servono a disporre l'armata in cospetto del nemico"48 • Strategia, tattica, fortificazione e armata (cioè l'organica che definisce l'ordine di battaglia, la composizione dell'esercito) sono le quattro componenti del problema strategico, che va risolto in forma matematica: "lo strategico pratico, il generale fornito di occhio tattico è simile a un buon matematico, il quale unisce in sè l'abilità del ragioniere improvvisatore, che lo rende atto a calcolare prontamente gli elementi che concorrono alla risoluzione del problema che gli sta innanzi". La battaglia, scopo di tutti i preparativi di guerra, è "la soluzione di un problema matematico, di cui le leggi sono assolute e algebriche". Se essa non corrisponde ai calcoli, è "per la difficoltà di calcolare forze di doppia natura, morali e fisiche, e gli attriti e gli impedimenti che si oppongono allo sviluppo intrinseco e teorico delle forze medesime"49• Da questa affermazione si potrebbe dedurre che a poco servono i calcoli, visto anche che ciò che vale è il carattere, il colpo d'occhio del capo: ma il Marescotti subito dopo afferma che il tema di una battaglia può risolversi in un modo induhitabile studiosamente nel gabinello di uno strategico; nella guisa medesima che si risolve studiosamente un problema matematico nella scuola di un algeborista. Può similmente risolversi sopra il teatro di una guerra, e sul campo di una battaglia immediatamente, nella guisa medesima che un problema aritmetico immediatamente si risolve in un banco di un ragio-

niere. "' Paragone insostenibile, perché tanto il "buon matematico" che "il ragioniere improvvisatore" operano - per di più in piena tranquillità - su grandezze finite e ben determinabili, mentre il generale opera su grandezze variabili e indefinite, quindi matematicamente non rappresentabili. Sembra quasi un artificio per negare il peso del genio, del colpo d'occhio del generale: così nel Marescotti, che anche dell'arte della guerra fa una questione interamente matematica, assume la massima espressione l'approccio della corrente dei dottrinari. Tale approccio è ben visibile anche in un altro lavoro del 1851, la Guida dei militari d'ogni grado per la redazione dei rapporti, seguìta da riflessioni sui principii generali degli ordini delle battaglie, del racconto degli assedi, passaggio dei fiumi ecc. di "un capitano di fanteria".

4 ivi, pp. 354-356. •• ivi, p. 351. '° Ibidem.


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Questi principi, almeno nel significato attuale del termine, non si trovano: in compenso abbondano le minute istruzioni e descrizioni per schemi, moduli, rapporti ecc. e gli exempla historica (tutti delle guerre napoleoniche o antecedenti) che fanno del libro un fatto soprattutto di costume, perché ben rappresenta la mentalità dei Quadri piemontesi del periodo.

li "Manuale di strategia e storia militare moderna" di Francesco 'Zamponi ( 1858)51 •

Il toscano Francesco Zamponi, "maestro di storia militare nell'I. e R. Liceo Militare di Toscana", destina quest'opera "all'istruzione degli alunni di collegi, licei ed Accademie militari". E precisa di averla scritta non per gli uffiziali dotti ed esperti nelle armi, ché di essi sono discepolo c ammiratore; ma per i giovani che indirizzati alla nobile

professione delle armi studiano nelle Accademie, nei Licei e nei Collegi militari. Il mio libro è da scuola; ebbi in animo di farne un testo, un sommario, una guida pei professori di cotali discipline che preparar debbono al principe e alla patria i difensori, i nobili cittadini, i punti trigonometrici ùegli eserciti' 2•

Lo Z. aggiunge che le sue teorie, senza pretesa di insegnare "con matematica precisione" il da farsi in tutte le contingenze della guerra, potranno però fornire al militare "un criterio giusto e illuminato per giudicare le operazioni dei capitani non collo spirito di parte, non colla mente troppo generosa e parziale del concittadino, né con l'ingiusta austerità del nemico; ma colle ispirazioni della scienza, le quali seppur severe, sono però sempre vere, infallibili ed eguali dappertutto e per tutti senza distinzione di divisa e di bandiera"53 • Non citato (per ragioni cronologiche) dal D' Ayala, il libro dello Zamponi è stato a torto ignorato dallo Sticca e da tutta la letteratura militare coeva e successiva, ivi compreso il Pieri. Eppure questo lavoro, da non trascurare perché massima espressione della cultura militare toscana post-napoleonica e delle sue basi teoriche, diventa ancor più importante per due ragioni essenziali: a) lo Zamponi è il primo in Italia a riportare una valutazione critica della vita e dell'opera di Clausewitz, rettamente citandolo anche in diverse occasioni; b) è il primo in Italia a trattare abbastanza diffusamente di logistica (sia pur nel senso jominiano del termine) e

" Firenze, A spese dell'Editore 1858 (2 parti). i11i, Parte I p. Xli. 53 ivi, Parte Il p. 403.

52


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a darne una sintetica definizione. A questi meriti non piccoli, va anche aggiunto quello di trattare con una certa ampiezza la guerriglia. Et de hoc satis: per il resto, prevedibilmente traspare dal libro il culto di Jomini e dell'Arciduca Carlo. Basti riportare quanto lo Z. afferma nella prefazione: le leggi, le massime, i principii, il dogma strategico sono oggimai sanzionati dai concetti di tutti i famosi capitani, e dal giudizio dei più dotti scrittori militari da Vegezio ad Augusto Wagner onore della letteratura militare alemanna, sebbene nei suoi Principii di strategia svolti colla relazione della campagna del 1796 in Gennania non abbia che ripetuto o dottamente ampliato quanto insegnò il celebre Arciduca Carlo, che sarà sempre il Senofonte, il Polibio, il Vegezio, il Napoleone dell'Austria e della Germania [nostra sottolineatura - N.d.a.]. Ogni precetto, ogni combinazione di guerra volli che avvalorato fosse da quanto di meglio e d'imitabile hanno nei moderni tempi operato le ispirazioni del genio e la lunga pratica di guerra5'.

Nemmeno il napoletano Sponzilli era mai giunto a tanto nell'adulare questo preteso Napoleone, invece disastrosamente sconfitto dallo stesso Napoleone; ma questa debolezza del toscano Z. si spiega - anche se non si giustifica - con il fatto che l'Arciduca, nato a Firenze, era pur sempre un illustre esponente del Casato di Lorena, che governava allora il Granducato di Toscana. E a definitiva conferma della ferrea appartenenza dello Z. alla corrente dei dottrinari, basta citare queste altre parole, che riportano non solo nello spirito, ma alla lettera o quasi il pensiero di Jomini nel Précis: le buone teorie fondate sui principii, giustificate dagli avvenimenti e congiunte alla storia militare ragionata saranno sempre la vera e migliore scuola di chi può aspirare al comando di anni. E se cotali dottrine non basteranno a formare un gran capitano, se a lui mancano le occasioni e il genio della guerra congiunto alle sublimi virtù che si vogliono in un supremo comandante, formeranno senza dubbio valenti ed eruditi uffiziali i quali, favoriti dagli avvenimenti, potranno annoverarsi almeno fra i condottieri di secoad'ordine.55

Anche a prescindere dall'incondizionata fede jominiana, lo Z. non può essere considerato autore nazionale e italiano. Compie un lungo e abbastanza dettagliato excursus sugli autori europei coevi e del secolo XVIII, con particolare riguardo ai francesi; ma fra di essi non compaiono nomi italiani. Le sue citazioni di autori italiani si limitano al Palmieri (brevemente ricordato), al Montecuccoli e a fuggevoli cenni all'Ulloa (del quale cita solo

54 55

ivi, Parte I p. Xlll. ivi, Parte Il pp. 403-404.


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il t.:ognome; potrebbe anche essere qualcuno dei fratelli di Gero]amo), al Ilotta e al Blanch. Dell'excursus sugli autori europei non fa parte Clauscwitz, pur menzionato in altre circostanze. Dei tedeschi oltre al Wagner, "scrittore sommo tedesco" cita il colonnello Willisen, lodando assai anche il generale Valentini e il Tiedemann, il quale "nel suo Corso di strategia che meritatamente menò tanto grido per tutta la Germania militare, afferma l'Oll aforismo alquanto aspro nella forma ma vero nella sostanza, che il modo civilmente più ingiusto per preparare una guerra è anche militarmente il migliore" 56 • Di Clausewitz - non può stupire - lo Z. non è grande ammiratore. Cita lavorevolmente una sua opinione piuttosto ovvia a proposito delle fortezze (t.:he possono essere ben difendibili dal punto di vista tattico, ma non avere alcuna importanza strategica) 57 e delle manovre trasversali in montagna (che sono assai più difficili a causa del terreno, della mancanza di strade e de)]e forti posizioni che vi può aver occupato il nemicor. Riportiamo integralmente quanto egli dice del generale prussiano, che considera - diversamente dagli altri tedeschi - un autore senza avvenire: generale e professore d'arte militare del principe reale di Prussia nel 1810, 11 e 12. Morì a Breslau nel 1831. Le sue opere consistono in un Corso d'arte militare scritto con sistema metafisico al punto che alcune idee si direbbero in contraddizione coi principii che ba dettati poco innanzi [giudizio forse ripreso dal Précis di Jomini - N.d.a.]. Nel suo primo apparire i Prussiani menarono gran vanto di quest'opera; ma presto decadde nella stima universale [nostra sottolineatura - N.d.a.J. Ha scritto pure la Storia delle campagne del 1796 in Italia e quella delle Campagne del 1799 in Italia e in Svizzera. In queste la critica è spesse volte guidata dalla passione più che daJla ragione (sic). Ha scritto la Storia della campagna del 1812 in Russia, quella della Campagna del 1813 fino all'armistizio, e le Campagne del /8/4 e /8/5 in Francia. Queste quattro c;unpagne contengono i tratti caratteristici delle grandi manovre né abbondano generalmente in dettagli. Però sono molto istruttive.~ pure un'opera pregevole gli Schiarimenti strategici di alcune campagne di Gustavo Adolfo, di Turenne e di Luxemburg con altri materiali storici concernenti la strategia. Sono quivi le basi di buoni studi strategici, la cui lettura è di grande utilità anche dopo le osservazioni di Napoleone sulle campagne dei grandi capitani59 •

Giudizio ancora troppo sommario e in chiaroscuro, che però abbraccia molti scritti di Clausewitz e rimane di conseguenza cosa rara, in Italia,

"' " " ,.

ivi, Parte I p. 233. ivi, Parte I p. 265. ivi, Parte Il pp. 393. ivi, Parte TI pp. 3-4 Nota (2).


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO-VOL. Il (1848- 1870)

persino oggi. Anche dopo il 1945, non c'è stato un solo scrittore italiano che abbia fornito qualche sia pur sintetico cenno critico sul complesso delle opere del generale prussiano (e non solo nel Della Guerra), e che non si sia limitato alla pura amplificazione, esaltazione o citazione (come prima si faceva per Jomini o l'Arciduca). Ben diverso il tono che lo Z. usa con Jomini, e soprattutto con lo stesso Arciduca. AI primo rettamente attribuisce il merito di aver combattuto l'errato concetto matematico e geometrico della guerra del Biilow e aggiunge (trascurando di dire che il più deciso avversario di Biilow fu proprio Clausewitz): né il solo Jomini sorse a combattere il Biilow; ché l'illustre Arciduca d'Austria esso pure concordò col primo, e più fu il primo a dare una forma dimostrativa alla scienza [Jomini attribuisce a sé stesso questo merito - N.d.a.]; siccome quegli che in verde età aveva posto in applicazione le regole di sana strategia contro gli eserciti repubblicani di Francia nel 1796. La storia di quella sua campagna ha in sé un trattato di strategia che ha tutto il carattere scientifico e dimostrativo; e nelle sue previsioni quanto alle dimostrazioni, moderno Polibio (sic) attribuisce le vittorie e i disastri delle potenze belligeranti all'aver esse violate o segulte le vere regole della scienza (sic); ed esclude da illuminato sapiente (sic) tutte le piccole cause che le passioni personali e le menti corte e limitate cercano di presentare come origini di grandi avvenimenti [riferimento polemico a Clausewitz ? - N.d.a.]60 •

Lo Z. non può peraltro evitare di rifarsi agli aspetti principali delle teorie di Jomini; a lui si richiama con frequenza e di lui riprende il principio fondamentale delle operazioni, "gran segreto della scienza strategica, gran sorgente delle vittorie" ecc .. Ne fornisce, però, due versioni ben diverse: "operare con le masse contro le parti isolate [quindi più deboli N.d.a.] e tendere a questo scopo in tutte le operazioni"61 , oppure "operare con assoluta preponderanza di forze tra loro ben combinate sopra un punto decisivo"62 • Per lo Z., comunque, l'Arciduca Carlo è più importante di Jomini: è stato lui che "riconducendo la strategia alla sua gran regola di operare in massa, dalla guerra dei sette anni [di Federico II] assai ben dimostrata, salvò la Germania dall'invasione lnel 1796 j"63. A denti stretti, però persino lo Z. deve riconoscere che "se la guerra [del 1796-1797) fu in ultimo favorevole ai Francesi, ciò fu dovuto al capitano delle loro armi in Italia [cioè Napoleone - N.d.a.], il quale applicò con maggior vigoria e più compiutamente il sistema che il principe austriaco aveva seguìto. E diè luogo a un raro fenomeno che difficilmente si rinnoverà, di veder Casa

"°

ivi, Parte I p. 127. .Ibidem. 62 ivi, Parte II p. 5. ., ivi, Parte I p. 111. •

1


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ti ' Austria minacciata nella parte men vulnerabile delle sue fontiere, in quella cioè custodita dalle Alpi Noriche e Retiche"64• Nel giudizio complessivo dello Z., Jomini pur continuamente citato è come schiacciato da11e grandi figure di Napoleone e dell'Arciduca Carlo, ambedue visti - nonostante le vistose differenze - come maestri sia di az.ione che di pensiero. Anche per le opere di Jomini, comunque, lo Z. ha il merito di condurre un breve esame dove non gli sono risparmiate critiche, per quanto le meriti assai meno del tanto elogiato Arciduca. che somiglia tanto - checché ne dica lo stesso Z. - al Btilow. Esame non sereno, nel quale tra l'altro sono stranamente dimenticate le due opere fondamentali di Jomini, il Tableau e il Précis (vds. Voi. I- capitolo E a Jomini lo Z. rimprovera tutto, meno quel dogmatismo e quella fede eccessiva nei principi e nelle regole, della quale lui stesso è prigioniero .... Dell'uomo dice, in poche parole, una verità indubbia: che cioè "nacque i11 Svizzera, ma tratto dall' amor per la guerra a combattere per più nazioni, vide e conobbe in tutte le sue fasi l'Europa militare e politica". Del Trattato delle grandi operazioni militari dà un giudizio molto positivo e lo consiglia c0me opera eccellente ai giovani, accompagnandolo però con rilievi critici:

m.

L' autore con metodo sempre analitico formula in quel trattato le combinazioni della strategia e della tattica. Guidato da critica dotta e imparziale traccia con mano ferma e sicura i principi generali della scienza militare fino allora considerati come giochi di fortuna, o come ispirazioni del genio. Le campagne di Turenne, di Federico II e di Napoleone sono le sorgenti inesauribili delle quali evoca i fatti e le prove che avvalorano le sue massime ed il suo dogma [sul quale lo Z. non ha nulla da dire - N.d.a.]. Incontestabile è dunque il progresso che lo Jomini procurò con quella sua opera alla strategia; ma credo che assai maggiore sarebbe stato, perché più letto e più volentieri studiato, se più chiaro ne fosse stato molte volte lo svolgimento del pensiero, se meno vaghe fossero talune sue definizioni, più complete tali altre.

Della Storia critica e militare delle guerre della rivoluzione loda l'obiettività ma critica la pletoricità e la scarsa concisione e chiarezza della trattazione; sarebbe stata anche necessaria "più vita" nelle descrizioni, "le quali sono d'ordinario languide e fredde, perché l'autore si è smarrito in dettag1i' non necessari, e dei necessari ha lasciato. Ma nel mezzo a così vasto labirinto, chi non avrebbe per alcun momento smarrito la diritta via?". Per altro verso, riferendosi alla Storia critica e militare delle guerre di Federico Il difende il Jomini dall'accusa, invero meritata, di un'eccessiva cura per particolari poco significativi: siccome aveva l'autore avuto in mira l'ammaestramento dei giovani

64

Ibidem.


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uffiziali, cosi credette, e giustamente, non doversi sfrondare la storia di quell'epoca tanto gloriosa e tanto fertile di avvenimenti militari, da quei dettagli che stanno anzi a far più vari e meno contendenti i precetti e le massime che ogni pagina arricchiscono. I dettagli adunque in apparenza inutili ed annoianti, fanno anzi evidentemente conoscere i difetti e i vizi che al progresso della scienza bellica si opponevano allorché scese in campo il Gran Federigo. Fanno conoscere i sistemi che allora avevano gli eserciti nel marciare, nell'accamparsi, nello schierarsi in battaglia, nell'assalire, nell' occupar posizioni, nel tutto subordinare al sistema dei magazzini. Disegnano insomma il vero carattere-che allora avevano le combinazioni di guerra ...

In quanto alla Vita politica e militare di Napoleone, secondo lo Z. (che a torto la definisce l'ultima opera di Jomini) non v'è libro migliore da consigliare ai giovani; però l'autore non perde alcuna occasione per farsi viepiù gradito alla sua patria novella [la Russia, al cui servizio era passato nel 18 l 3 lasciando l'esercito francese - N.d.a.]. E chi potrà fargliene colpa? Con tutto ciò mai non alterò di troppo la verità. E solo avremmo desiderato che le orme di quei tre grandi evocati dai Campi Elisi, Cesare, Akssandro e Federico II [che nell'opera giudicano Napoleone - N.d.a.] dettassero maggior copia di riflessioni, di paralleli; e più feconde di dottrina antica e moderna fossero le lezioni di quei tre grandi maestri. Con queste premesse, non destano molte sorprese né sono nuove le definizioni delle principali parti dell' arte militare o della guerra; tali parti, comunque, non sono dallo Z. indicate con precisione, né egli dà una definizione di arte (o scienza) della guerra, anche se spesso parla di scienza della guerra. La strategia è una scienza: " La strategia, scrisse l'Arciduca Carlo, è la scienza della guerra; forma i piani, abbraccia e determina il procedimento .d elle imprese militari". È quindi la scienza del generale in capo; qui lo Z . cita anche le definizioni del Grassi e del D' Ayala, "eruditissimi entrambi e della scienza militare sì benemeriti", che la definiscono "la teoria del muover gli eserciti fuori la vista del nemico per condurli dove più giovi a combattere le forze contrarie ed a riparare da esse". Essa ha la sua base nella storia, e pur non potendo essere ridotta "ad assiomi né a calcoli matematici", ammette delle "regole formate sulle osservazioni di tanti avvenimenti". 1n altre parti dell'opera più frequentemente lo Z. parla di principf, che sono cosa ben diversa; e fa la solita confusione che abbiamo notato anche in altri, quando afferma che la strategia "manca di principì assoluti", perché deve tenere conto di una quantità di elementi estremamente variabili e non predeterrninabili65 • Virata verso Clausewitz? Niente affatto, visto che subito dopo sostiene che essa nondimeno ebbe in tutti i tempi i suoi principii fondamentali che ogni buona com-

"' ivi, Parte Il p. l.


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binazione di guerra ispirarono e diressero. Se il genio e l'uso di guerra valgono a variarli opportunamente è ben applicarli al bisogno, essi però sono immutabili e non dipendono né dalla natura delle armi né da quella dei tempi e dei luoghi. Nello spazio di trenta secoli non pochi furono i valenti condottieri di eserciti i quali lo stesso principio applicarono quali più e quali meno felicemente M_

Dunque, come per Jomini anche per lo Z. i principi assoluti e immutabili ci sono e sono sempre esistiti; variano solo le loro modalità di applicazione. Ma ancora una volta il suo ragionamento si avvita su se stesso e si contraddice: perché afferma che gli antichi non conoscevano le teorie stralegiche, "le quali se fossero state note ad Annibale, si compivano i giorni fatali di Roma"67 e che l'arte della guerra moderna ."deve considerarsi come affatto nuova, e quasi vèrun insegnamento efficace può trarsi da quelle famose battaglie dei Greci e dei Romani, i qualipur ne fanno i prodi soldati della terra"68• Eppure lo Z. si diffonde a lungo sulle vicende militari dell'antichità, e richiama anch'egli - come tanti - il famoso detto di Napoleone che bisogna imparare l'arte della guerra e i suoi principi dai condottieri d'ogni tempo... Riguardo alla tattica, lo Z. esordisce bene: "è l'arte di ordinare e muovere un esercito o parte di esso in presenza del nemico per combatterlo con vantaggio". Ma, subito dopo, solita proposizione jominiana o tipica dcli' Arciduca Carlo: la strategia è la scienza mentre la tattica è l'arte della guerra e riguarda le modalità per tradurre in pratica i concetti e piani della strategia ecc .. Lo Z. dà anche una definizione di statistica militare, disciplina al tempo tenuta in grande considerazione perché la conoscenza e la circolazione di dati geografici, economici ecc. sui vari Paesi e regioni erano assai meno agevoli di oggi. Essa fornisce i dati di base per i piani di campagna, e "significa la più esatta e maggior cognizione possibile di tutti gli elementi di potenza e di tutti i mezzi di guerra che possiede il nemico contro al quale ci apparecchiamo a combattere"6 Infine la geografia militare, che risente del grande ruolo che ha nella visione jominiana (ma non in quella clausewitziana): "descrizione dettagliata e strategica del teatro di guerra con tutti gli ostacoli che natura e arte possono opporre al nemico, e esame dei punti decisivi permanenti che ha una frontiera o tutta l'estensione di un paese"70• Della logistica lo Z., come già accennato, è il primo autore italiano a dare una definizione, che è un po' confusa e comunque jominiana, perché assomiglia alla tattica: "con la voce logistica vuolsi esprimere l'applicaQ.

66 ivi, Parte II p. 5. '' ivi, Parte I p. 143. 68 ivi, Parte II p. 3. ,.. ivi, Parte II pp. 142-143. ivi, Parte I p. 143. 11 '


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zione pratica dell'arte di muovere gli eserciti, ch'è quanto dire la scienza di applicazione di tutte le scienze militari". Essa serve a organizzare e ben condurre le marce, fondamento della strategia e dei suoi principi perché li traducono in pratica rendendo possibile il rapido, preciso e tempestivo concentramento delle forze. Nel libro viene dato un certo spazio anche alla "combinazione dei magazzini o depositi di vettovaglie con quelle spettanti al sistema delle marce", dove lo Z. riprende, poco aggiungendovi, le considerazioni di Jomini o di altri autori fin qui esaminati. Riassumiamo brevemente le idee meno scontate: - il sistema di vivere sul paese (dal quale Napoleone ha tratto grande vantaggio ma in Spagna e Russia ha abusato) non può essere applicato ovunque. La campagna del 1812 in Russia dimostra che "in guerra ciò che giova in una occasione, in una contrada, in una stagione e contro un nemico, è di danno grandissimo in altro tempo, diverso paese, in altra stagione e contro un altro nemico""; - un comandante supremo deve organizzare "una ricerca uniforme e legale di viveri, foraggi e carri ch'egli farà, potendo, esattamente pagare" e deve costituire i relativi magazzini in posizione favorevole rispetto alle linee di comunicazione dell'esercito. Questo generico orientamento, però, non può eliminare tutte le difficoltà, né è possibile "marcare con esattezza una linea tra il possibile e l'impossibile; il che non si può mai fare, perché dipendente da troppe e troppo variabili combinazioni"; - in paesi poco fertili e poco abitati non c'è alternativa alla costituzione di magazzini al seguito delle truppe, le quali non si devono allontanare troppo dagli stessi. Occorre pertanto disporre di mezzi di trasporto in numero sufficiente e idonei al movimento anche su cattive strade, dotando inoltre le truppe di molini portatili [come già suggerito, sulla base dell'esperienza della guerra di Spagna, dal Maresciallo Marmont - N.d.a.], perché molto spesso non manca il grano, ma mancano i mezzi per macinarlo e per cuocere il pane; - quando il teatro della guerra è vicino alle coste, se l'esercito riesce a controllarle bene può essere rifornito agevolmente via mare. In questo caso il comandante supremo deve però evitare di essere "tagliato fuori dalle sue comunicazioni, rinchiuso tra le colonne nemiche e la ripa del mare, e costretto a portare le operazioni lungi dalla sua base naturale". Egli deve comunque costituire una riserva di razioni indipendente dai rifornimenti marittimi e mantenere sempre aperta una linea di ritirata "sovra un punto del suo fronte strategico che sia opposto alla linea del mare" (idee riprese da Jomini);

11

ivi, Parte Il p. 306.


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- le linee di operazioni parallele a un fiume sono le più favorevoli, "perché diminuiscono ne11' esercito il numero dei carri necessari al trasporto delle vettovaglie, e facilitano di queste il trasporto medesimo"; occorre però controllare le rive del fiume. Oltre che di strategia e tattica, lo Z. si occupa anche di politica militare, della quale non dà una precisa definizione. Con tale termine, comunque, intende quel complesso di provvedimenti che in pace assicurano una buona preparazione dell'esercito alla guerra e - una volta che quest'ultima è dichiarata - creano le migliori premesse perché essa prevalga nell'avversario, conducendo operazioni in armonia con lo scopo della guerra. La tematica trattata presenta pochi spunti originali ed è in gran parte di origine jominiana. Molto ben delineato anche il ruolo fondamentale de11o Stato Maggiore e del Capo di Stato Maggiore, che servono per lasciare al comandante in capo le libertà di pensare. In particolare un Capo di Stato Maggiore è ai tempi nostri l'intermediario per il quale il generale in capo comunica coll'esercito; concentra in sé tutti i deltagli che tengono al personale e al materiale dell'esercito, ne tiene i registri, ne riceve i rapporti e li analizza; scrive gli ordini e li trasmette [... ]. Raccoglie tutti i documenti topografici, statistici e militari che spettano al proprio paese ed agli esteri amici e nemici. È l'agente che tutto mette in azione, è l'uomo che veglia su1I'amministrazione e sulle militari operazioni, scende ai minuti dettagli e si associa alle più alte combinazioni. Con animo benigno e non debole e con nobile ma non affettata dignità accogliè le dimande, ascolta i dipendenti, ne considera le ragioni e i diritti, inanimisce i timidi, frena l'ardore dei bollenti, distrugge le prevenzioni [... ] e mantiene una sola famiglia d'uomini f... J. In campo le mani dello Stato Maggiore sono vuote di trofei, il suo labbro non è annerito dalla polvere, la sua spada non è sempre snodata. Ma alla punta del giorno è tra i bersaglieri a riconoscere le posizioni dell'avversario [ ...] guida le colonne d'attacco attraverso le palle e il fumo [... 1- Improvviso, comparisce attraverso le cariche di cavalleria, dispone un'imboscata, accenna la direzione alla manovra che taglierà la ritirata al nemico. Nel campo è notte f... ], le truppe medicano le lor ferite e riposano. La forza dorme, veglia il pensiero, il generale e lo Stato Maggiore meditano e dispongono[ ...] Si disegna il piano che dee servire alla storia [... ] poscia si vola a comunicare le più segrete istruzioni [...]. Per lui dunque [cioè per l'ufficiale di Stato Maggiore N.d.a.] pericoli senza gloria, generosi sforzi senza spettatori, venturosi successi senza testimoni, intrepidezza senza gloria, belle azioni senza lo storico72•

Organizzazione e disciplina sono due altri capisaldi della riflessione dello Z .: "Le leve o coscrizioni danno una confusa moltitudine incapace a

12

ivi, Parte I pp. 248-250.


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muoversi con ordine[ ... ] È duopo formare di quelli elementi un corpo i cui membri possano prontamente obbedire ai movimenti che vuolsi loro imprimere ed eseguire i servigi che ci proponiamo ottenerne. Ecco ciò che dicesi organizzazione di esercito, necessaria essa pure alla sicurtà e salvezza deUo Stato"73 • Il concetto di disciplina è assai diverso da quello dell'Ulloa; consiste essenzialmente nel rispetto di leggi, regole e regolamenti, e delle norme del diritto delle genti. Si deve, in particolare, rispettare i costumi, le proprietà e le persone delle regioni che sono teatro della guerra: è questo un essenzial punto del diritto delle genti e sommamente rispettabile e sotto il rapporto morale e nel vero interesse degli eserciti. Contuttociò non è stato sempre nella natura della guerra. Ed a coloro i quali dicono [come l'Ulloa - N.d.a.] che se Napoleone avesse strettamente imposto ai suoi soldati cotal disciplina avrebbe fatto passi di testuggine, avvi ragion di rispondere che ogni capitano deve oggimai guardarsi bene dal seguirne l'esempio, appunto perché quell'abbagliante riflesso di straordinario genio diè a conoscere avere un limite anche la forza dell'intelletto e l'azione dei battaglioni74•

Presso i popoli più civili la disciplina è rafforzata dalla religione, "ch'è sempre la miglior sicurtà che possa aversi de' costumi degli uomini". La giustizia ne è la premessa, ed essa serve essenzialmente da cinghia di trasmissione della volontà del comandante in capo a1l'intero esercito, trasformando in movimento pensato e calcolato quell'istinto che porta il coscritto a "serrarsi nel suo rango per aggiungere la sua alla forza del compagno". Ciò che lo Z. teme di più è "la corruzione dei costumi, l'ozio, la mollezza e l'impunità, donde nasce lo spirito d'indipendenza e di sedizione": sono questi i nemici che distruggono ogni disciplina. Della guerra di partigiani secondo lo Z., noi tratteremo nella parte dedicata a questo argomento; essa infatti occupa un cospicuo spazio nel libro, cosa poco frequente. Per il momento, ci limitiamo a constatare che egli non considera sotto questo profilo la guerra d'indipendenza americana 1775-1783, ma - influenzato anche dal Botta da lui esplicitamente citato - si sofferma soprattutto sulla personalità di Washington, il quale "se non fu un genio, perfettamente comprese lo spirito di quella guerra". In particolare il suo sistema difensivo congiunto ad un' eroica fermezza nel concetto già stabilito, quantunque ostacoli infiniti e d'ogni maniera ne ritardassero l'attuazione, fu fecondo di grandi risultamenti. E per la natura deUe cose come che' dovesse egli opporre a truppe agguerrite cittadini nuovi alla guerra e non istruiti, il complesso delle sue operazioni

n ivi, Parte I p. 251. .,. ivi, Parte I p. 256.


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sosterrà sempre l'analisi senza temere la censura dei periti nell'arte. A cui devesi la gloria di aver fatto sorgere la guerra di bersaglieri [cosl pensava anche l'Ulloa - N.d.a.], che più largo sviluppo ebbe nelle prime campagne della rivoluzione, ed è pervenuta oggi all'apogeo del suo funzionamento. Washington dunque meritò della patria e della scienza militare... 75 •

Se si tiene presente che intende essere espressione di un pensiero militare ufficiale e destinato alle scuole, il libro dello Z. tutto sommato è un testo onesto e serio, senza essere molto originale, né guardare troppo ai progressi della tecnica (non vi si parla di ferrovie, telegrafo ecc.). Ciò che gli nuoce di più è la pretesa di tracciare un panorama europeo senza prima aver accennato a un panorama italiano, e senza possedere sufficiente capacità di discernimento tra un autore e l'altro. Infondata infine, anche se scusabile, la pretesa di dare maggior risalto all'Arciduca Carlo rispetto a Jornini, derivante solo da piaggeria cortigianesca.

le "Nozioni elementari di arte e storia militare ad uso degli ufficiali di fanteria" di Camillo Linati (1862) 76 • Un libretto di sole 174 pagine anch'esso con pronunciate finalità didatlidle, nel quale l'autore - lenente colonnello di fanteria - finalizza l'esposizione della materia allo scopo di "allettare i giovani ufficiali dell' esercito a studi più serii e profondi e degni di loro", ma senza tedio e fatica anche per coloro che "di serie lettere poco si dilettano". Delle principali voci di arte militare dà le consuete definizioni jorniniane. Dopo un sintetico esame comparativo dell'esercito italiano e dei principali eserciti europei, il L. tratta dell' ordine sparso, della tattica di cavalleria, della combinai.ione delle tre Armi sul campo di battaglia e delle operazioni secondarie di guerra (facendo riferimento alla recente Istruzione sulle operazioni secondarie della guerra compilata a cura del Comando del Corpo di Stato Maggiore). Gli ultimi due capitoli sono dedicati alla geografia militare d'Italia (con particolare riguardo all'Italia Settentrionale, probabile futuro teatro di guerra) e alle guerre e battaglie combattute dai tempi dell'antica Grecia in poi. Del L. giova ricordare in particolar modo una definizione tutto sommata corretta, moderna e non dogmatica di strategia e tattica, e l'esatto etimo del termine guerriglia: strategia è l'arte di scegliere la propria base e stabilire linee di operazione, di concentrare e dirigere le grandi masse, e di procurarsi degli scontri a vantaggio di posizioni e di numero; di predisporre infine ogni cosa onde sia riparabile la disfatta, profittevole e decisa la vittoria. La

.,, ivi, Parte I p. 105. 6 '

Torino, De Giorgis 1862.


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tattica comprenderà il reclutamento, istruzione, organizzazione ed armamento delle diverse armi; i modi di accampare, marciare e combattere, e di determinare l'azione concorde della fanteria dell'artiglieria de11a cavalleria e del genio [...1. Dimostrerà la strategia in quel punto del campo di battaglia importi spingere il maggior nerbo ed operare più tenace sforzo; disporrà la tattica le linee e le riserve, ordinerà il fronte di battaglia, i cambiamenti di fronte, sul cardine additatole, e le successive manovre fino a raggiungere lo scopo. E dopo aver ricordato le gesta dei partigiani spagnoli che hanno sconfitto le armate di Napoleone, il Linati mette in evidenza (cfr. anche Voi. I Cap. XIV) l'origine prettamente militare del termine guerriglia, che nell' esercito spagnolo significa reparto di fanteria disposto in ordine sparso: "e osserverò di passo che il nome di guerrillas che si applica alle bande di partigiani significa propriamente catena di bersaglieri, e che il comando spagnolo analogo al nostro" stendetevi" suona precisamente en guerrilla". In una recensione insolitamente ampia sulla Rivista Militare ltaliana71 il direttore Gian Giacomo Corvetto riconosce che il libro raggiunge le finalità che si propone l'autore e auspica che la sua buona riuscita "possa servir di sprone a spingere altri sul campo della letteratura militare italiana, eh' è sì deserto". Le lodi del Corvetto sono però accompagnate da critiche non lievi: dati poco aggiornati e cenni troppo sintetici sugli eserciti europei; definizioni di strategia e tattica chiare, che però si scostano alquanto "da quella forma didattica e precisa che si pretende dalle definizioni"; l'autore non accenna alla logistica "parte essenziale dell'arte della guerra, ch'è il nesso indispensabile tra la tattica e la strategia, e che ben si può accettare da uno Jomini". Su quest'ultimo punto il Corvetto ha ragione; non altrettanto per le definizioni, pur sempre migliori di quelle della generalità degli autori italiani dell'epoca, proprio perché poco jominiane. Le "Conferenze d'arte militare tenute in Milano" (1866)78 e la "Tattica elementare della fanteria in Austria" (1851-1852)79 di Carlo Corsi

Le Conferenze sono l'opera teorica più importante di Carlo Corsi (uno dei più grandi scrittori militari italiani del XIX secolo, al momento maggiore di SM). 1n esse dopo una breve rassegna delle guerre napoleoniche e dei loro ammaestramenti, l'autore esamina le mutate condizioni della strategia e della tattica dopo il 1815 in relazione al progresso tecnico; sotto questo aspetto, nelle sue riflessioni si nota una singolare dissimmetria. In campo strategico è tendenzialmente conservatore e in campo tattico non ritiene che l'aumento della potenza di fuoco possa rivoluzionare il combatti71

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"Rivista Militare Italiana" 182 - Anno VI Vol. IV, pp. 314-318. Milano 1866 (Senza Casa Editrice). Torino, Tip. S. Franco 1863.


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mento e le formazioni della fanteria; ciononostante è ammiratore convinto della regolamentazione tattica austriaca e prussiana, che - più flessibile e realistica di quella francese e italiana - ha introdotto da tempo l'ordine sparso come forma alternativa di schieramento sul campo di battaglia. Nel libro si nota anzitutto un giudizio equilibrato sull'Arciduca Carlo come generale (cosa assai rara, anzi unica in Italia a quel tempo), peraltro accompagnato da un acritico apprezzamento per le sue opere. Secondo il C. egli applicava gli stessi principi di Napoleone, ma dovendo dipendere dalla Corte di Vienna non aveva come lui piena libertà d'azione, né aveva lo stesso carattere, la stessa determinazione, la stessa prontezza d'ingegno. Si distinse soprattutto per l'abilità nella difensiva, nelle ritirate e nell'evitare complete disfatte; nel campo dottrinale, il C. gli attribuisce il merito di aver promosso nuove idee per lo schieramento della fanteria in battaglia. Infatti il regolamento austriaco del 1837 recepiva almeno in parte le sue idee, relaLi vamente a due ordini di problemi: a) la distinzione tra evoluzioni meramente propedeutiche e addestrative di pace e di piazza d'armi ed evoluzioni sul campo di battaglia, più semplici e rapide; b) l'introduzione dell'ordine rado (o ordine sparso) come schieramento alternativo rispetto alla tradizionale linea geometrica e serrata di due o tre ordini di tiratori, da adottare in sostituzione dell'ordine in linea almeno in due casi, "come ordine accessorio per coprire le truppe serrate e come vero e proprio ordine di combattimento sui terreni impediti" [cioè rotti, difficili o montuosi - N.d.a.]. Merito non piccolo, visto che il C. ricorda che i pregiudizi nei riguardi dell'ordine rado, ancor presenti nel citato regolamento del 1837, sono "tuttora verdi e vigorosi". E aggiunge: non pago di ciò l'Arciduca Carlo pubblicava ufficialmente, una Guida per la istruzione pratica di campagna ed un'Istruzione pei generali intorno ai principtfondamentali dell'Arte della guerra. La prima di tali opere era un manuale di piccola tattica applicata per mezzo di esempi; la seconda un trattato di strategia e gran tattica illustrato pure da esempi (... ]. Migliore scorta per la istruzione veramente utile degli officiali d'ogni grado non s'era veduta per lo innanzi [... ). Anche oggi lo studio di quelle due opere può essere assai proficuo. 80

Della strategia di Wellington - condottiero che il Balbo è l'unico a citare con un certo rilievo - il C. coglie bene il carattere difensivo - controffensivo. In Spagna la sua manovra lenta e prudente, che evitava di spingere a fondo l'azione, era giustificata e resa redditizia dalla piccolezza della sua base, dalla consapevolezza dei grandi rischi ai quali si sarebbe esposto se il nemico fosse riuscito a separarlo da quest'ultima e dalla ferma intenzione di prolungare il più possibile una guerra così dannosa per l'Impero francese:

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C. Corsi, Conferenze d'arte militare (Cit.), p. 36..


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inutile ch'io vi rammenti lo scarso vigore delle sue manovre offensive nei Pirenei e sulla Garonna, e la ostinata sua difesa a Waterloo, ove, forse per la prima volta sui campi d'Europa, egli apparve audacissimo, accettando la battaglia in condizioni tali da dover vedere quasi sicura la sua più compiuta disfatta. Insomma l'arte sua propria di guerra fu offensivo-difensiva; perché mentre egli appariva assalitore sul teatro della guerra, su] campo di battaglia poi preferiva mettersi sulle difese ... 81•

Il C. passa poi a descrivere le mutate condizioni dell'Europa politica e militare dopo cinquant'anni. fu questo periodo, "la pace pare siasi sforzata di rendere impossibile la guerra", e in particolare la guerra offensiva e le grandi battaglie campali del periodo napoleonico. Le vie di facilitazione attraverso le quali gli eserciti francesi erano penetrati nel cuore delle principali nazioni europee sono state sbarrate da grandi piazzeforti, e più in generale i nuovi concetti della fortificazione permanente derivano dall'intento di ostacolare il più possibile la guerra manovrata. Lo sviluppo dell' àgricoltura ha reso coperte, frastagliate e ricche di ostacoli quelle pianure sgombre di ostacoli che di frequente erano state teatro delle battaglie; d'altra parte sono di molto aumentate le strade, "talché si può dire che la guerra sia stata trasferita dai campi alle strade". La logistica è stata perfezionata in ogni sua parte, e specialmente nei trasporti e nel carreggio; la geografia e cartografia hanno fatto grandi progressi rendendo assai più conosciute che in passato le regioni dove si fa la guerra. Le ferrovie hanno reso possibile il rapido trasporto di grandi masse di uomini e materiali a enormi distanze, l'introduzione del vapore ha diminuito di molto le difficoltà e i rischi dei trasporti marittimi, e il telegrafo ha reso possibile la trasmissione immediata degli ordini. La potenza di fuoco è di molto aumentata grazie al perfezionamento delle armi portatili e artiglierie (cannone o fucile rigato, sistema a percussione, caricamento a retrocarica, ecc.): ne sono derivati mutamenti di capitale importanza nella tattica e l'incremento degli esperimenti sulle corazze. L'uomo è cambiato ancor di più che il materiale; con il continuo incremento dell'istruzione popolare è cresciuto assai il potere della stampa ("che un commissario di polizia dell'epoca napoleonica faceva tacere o parlare a suo talento") e l'influenza della pubblica opinione. Si sono perciò di molto allentati, rispetto al passato, "quei ceppi morali in virtù dei quali gli uomini e le masse erano maneggevoli come cadaveri nella mani dei potenti". L'amore per la vita militare è diminuito per diverse ragioni, tra le quali l'accresciuta civiltà. La guerra non può più essere considerata un mestiere, mentre gli eserciti europei si compongono quasi per intero di coscritti rassegnati a compiere il dovere loro imposto dalla sorte, ma sospiranti il

" ivi, pp. 33-34.


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giorno della loro liberazione. Scarsissimo nei tempi ordinari è il numero dei volontari, e va sempre più scemando quanto più dura la pace e s'allontana la probabilità d'una guerra. I Sott'Uffiziali stessi difficilmente si adattano a rimanere alle armi dopo finito il loro tempo d'obbligo, perché fuori dalla milizia veggono agi, guadagni, ozi e illusioni che la severa e parca vita delle armi loro non può offrire 82 •

In relazione alla mutata situazione, guerra e strategia hanno perduto il carattere risolutivo che avevano ai tempi di Napoleone; vi si nota "un offendere riguardoso come di chi non voglia chiudersi la via della riconciliazione"; si respinge, quasi come un insulto, l'idea che si miri a conquiste territoriali, e invece si proclama di scendere in campo per i più sacrosanti interessi del proprio paese, o per quelli di un popolo amico, o in nome dell'umanità, della giustizia e del diritto delle genti. Si fa appello alla pubblica opinione, e "si guerreggia colla stampa non meno che col cannone". Ne consegue che la guerra è assai meno grave al paese ove la si fa, ma costa assai più a chi la fa. Insomma la guerra è oggi inceppata; i popoli che si accingono a farla, i Monarchi che la intimano, i generali che la conducono hanno assai minore libertà d'azione di quella che ebbero sul principio di questo secolo. Quell'intricato, immenso sviluppo di interessi economici che come una gran rete ammaglia oggi tutto il mondo civile, ritarda, trattiene la guerra, le fa inciampo ad ogni passo, la ferma tostochè lo può, prima che giunga a un punto decisivo. Lo spirito e i costumi di questi tempi le sono avversi83.

Purtroppo il C. - dando inizio a un equivoco quasi secolare, che ha caratterizzato anche l'inizio delle due guerre mondiali del XX secolo scambia il volere con il potere, la convenienza con la possibilità, trascurando il fatto elementare che la strategia è anzitutto arte del possibile, e che nemmeno a Napoleone era riuscito a tradurre in pratica parecchi suoi progetti di guerra rapida e decisiva, miranti ad abbattere il nemico. Cosl, dopo aver ben elencato tutti gli ostacoli che ormai si oppongono alla strategia risolutiva di marca napoleonica, come rimedio trova conveniente [ma anche possibile?] solo ... una versione esasperata della stessa guerra napoleonica. Il modo più adatto per farla sarà, in generale, "propriamente rapidissimo, direi istantaneo se ciò fosse possibile"; si tratta di prender risolutamente l'iniziativa e far guerra di masse, grossa, corta, impetuosa, risolutiva, spingendosi a fondo col massimo vigore nella direzione giudicata più conveniente, spezzando gli ostacoli delle difese nemiche quando non si possa scansarli o superarli altrimenti, senza

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ivi, p. 43. ivi, p. 46.


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badare a sagrifizt, serrandosi addosso al nemico, costringendolo a pronta battaglia decisiva l...J. L'esercito nemico sia l'oggettivo primo delle operazioni: si miri ad annientarlo. 84

Il che equjvale a dire, con dubbia coerenza: bisogna neutralizzare le molteplici difficoltà che si oppongono a guerre di tipo napoleonico con guerre ancor più -napoleoniche, senza badare a perdite nonostante la maggior sensibilità della pubblica opinione, e per di più diminuendo il periodo di preparazione nonostante il progresso dei materiali e il maggior divario tra pace e guerra anche nella vita degli eserciti... Priorità assoluta, dunque, alla strategia offensiva; la difensiva e la strategia temporeggiatrice per il C. convengono solo in caso di forte superiorità dell'avversario e in circostanze nel1e quali si renda necessario guadagnare tempo: "come mal convenga all'offensiva siffatto lento e timido modo di operare, ce lo hanno mostrato le campagne nostre del 1848 e 1849". In caso di nuova guerra contro l'Austria converrebbe al nostro Esercito intraprendere senz'altro l'offensiva nel Veneto," non solo per le ragioni ora dette, e perché avremmo là il paese dalla nostra, ma anche perché abbiamo attitudine maggiore alla offesa che alla difesa, sia pel carattere nostro nazionale e militare, sia per lo stato delle nostre frontiere verso l'Austria, e tenuto conto della quantità e qualità dei mezzi che possediamo per l'offesa a confronto di quelli che abbiamo per la difesa"85 ; la vera arte della difesa, comunque, è quella difensiva- controffensiva. Il C. esamina abbastanza diffusamente anche un problema di importanza basilare, ovunque dibattuto da allora fino alla prima guerra mondiale: 1e concrete incidenze dell ' accresciuta potenza di fuoco delle nuove armi sulla tattica e sull'impiego in battaglia delle tre Armi principali (fanteria-artiglieria-cavalleria). In merito, la posizione di C. è moderatamente innovatrice. Egli ritiene che coloro che preconizzano una guerra basata sul fuoco, sul1a fortificazione permanente e campale e sulle macchine sono fuori della realtà, e che prevarrà sempre l'uomo: siffatte idee intorno alla potenza delle macchine e agli effetti della loro prevalenza negli eserciti non sono nuove. Ebbero voga ai tempi del Basso Impero, in eserciti composti di soldati che non avevano fiducia in loro medesimi, e comandati da generali che non aveano fede nei loro soldati, negli eserciti bizantini_ Furono sperimentate in grandissime proporzioni, col maggiore sviluppo possibile, secondo i mezzi d'allora, e contro nemici fidenti più nel loro valore personale che nelle arti balistiche. Sconfitte, fughe, vergognose disfatte d'eserciti ne furono i risultati. Il coraggio dei barbari soverchiò le macchine dei Greci [...l. V'è certo una buona dose di fantasticheria in quel quadro che si vuole porci

.. Ibidem. " ivi, p. 47.


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innanzi agli occhi, di battaglioni e squadroni distrutti dal primo all'ultimo uomo nel correre all'attacco86•

Secondo il C. gli effetti del fuoco in combattimento non saranno così devastanti come potrebbero apparire dalle esercitazioni di pace nei poligoni, /;Ìa perché il tiratore di fronte al nemico non può essere così preciso e tranquillo, sia perché il terreno rotto e coperto tipico dell'Italia impedisce a fucili e cannoni di sfruttare tutta la loro efficacia e fornisce sempre ottimi ripari. Non bisogna, dunque, attribuire esagerata importanza ai ritrovati meccanici; nella fattispecie occorrono formazioni di manovra e di combattimento "leggere, flessibili, maneggevoli, atte ai più rapidi movimenti, che diano poca presa al fuoco, che possano mantenersi ordinate e riordinarsi con facilità, ed evoluzioni semplicissime e pronte, andando per le linee più co1te, evitando le curve e gli angoli". A queste condizioni, però, secondo il C. non soddisfa il regolamento francese del 1831, ancor basato sulle evoluzioni tattiche del periodo napoleonico, e imitato dagli eserciti che hanno sP-guito il sistema francese [tra i quali quello italiano - N.d.a. I . Egli perciò propone "1' ordine rado combinato colle artiglierie" come formazione di combattimento; piccole colonne "di compagnia, di divisione o di piccolo battaglione" [nel senso di unità uguale o inferiore a11a compagnia - N.d.a.] come formazione di manovra; movimenti rapidi, però senza forzare; manovre sul campo di battaglia per la via più breve ed evitando inutili ritardi; massima rapidità e semplicità delle manovre per passare dall'ordine di marcia a quello di combattimento. Comunque, "ciò non esclude affatto le forme in linea spiegata e in colonna di battaglione, anche di 500 uomini e più, che in certi casi possono ancora essere opportune, anzi utilissime". Inoltre nell'andare all'assalto le formazioni debbono raffittirsi, "affinché si ottenga nel momento decisivo quella soverchianza di massa che assicura il successo" 87 • La regolamentazione auslriaca - prosegue il C. - ha recepito per prima questi principi fondamentali. Il fuoco non deve essere il protagonista principale del combattimento (come avveniva nella vecchia tattica prussiana del secolo XVIII), ma deve essere un mezzo "per aprire o preparare la strada alla baionetta, cioè all'assalto o al contrassalto". Le fanterie francesi della Repubblica e dell' Impero, che hanno usato il fuoco con questo criterio, hanno ottenuto risultati più decisivi di quelli dei prussiani del tempo, i quali davano più importanza al fuoco; ma nell'ultima guerra dello Schleswig-Holstein (1864), i Prussiani, colle loro armi da caricarsi per la culatta, i loro ordini a fronte spicciolato e a grancli riserve Lcioè radi e profondi - N.d.a.], e le ,.. ivi, pp. 50-53. 01 ivi, p. 55.


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loro idee di progressivo rinforzo del combattimento, accennano di voler tornare agli antichi amori [.. _]. Sistemi siffatti sono ottimi per mandare in lungo le guerre. Noi preferiàmo alla truppa che si rassegna a combattere in quel modo, quella che va dietro alle palle che ha lanciato88. Scontate le idee del C. sulla maggiore mobilità che deve avere l'artiglieria. K'' Nettamente conservatrice la sua posizione sulle future possibilità della cavalleria, che non può essere una sorpresa perché deriva daJla tendenza a sottovalutare i riflessi dell'aumento della potenza di fuoco. Secondo alcuni - scrive il C. - l'efficacia delle armi rigate impedirebbe per il futuro di impiegare grandi masse di cavalleria in azioni ardite e risolutrici alla maniera napoleonica, consigliando piuttosto di ricorrere a unità di fanteria montata, che cioè usano il cavallo non come mezzo di combattimento e di urto, ma solo come mezzo per il rapido trasporto di fucilieri. Senza negare l'utilità di "alcune compagnie di buoni tiratori armati di carabine della migliore qualità e montati su forti cavalli di marcia", il C. ritiene che la cavelleria tradizionale, capace solo di agire a massa e non con il fuoco ma con l'urto, sia meno vulnerabile di quanto sostengono alcuni. Perciò in futuro essa potrà ancora rendere nelle battaglie, e prima e dopo, quei grandi servigi che rese altre volte, a condizione che non rimanga inoperosa sotto la vista e il tiro del nemico, che sappia cogliere il momento opportuno per agire, e allora soltanto apparisca improvvisa quanto più può agli occhi dell'avversario, e giunga e assalga senza perdere tempo; che sappia vantaggiarsi dei terreni alquanto coperti; che rinunci agli ordini troppo massicci e alle evoluzioni troppo complicate; che manovri larga, leggera, rapida; che carichi a fondo, e incalzi col massimo vigore [... ]. Impraticabili per buona cavalleria debbono essere soltanto i terreni montuosi, o paludosi, o rotti [... ]. Non debbono esserlo i campi molto alberati, o tagliati da piccoli ostacoli, i boschi e le macchine rade, i terreni sparsi di vigne, orti e case ... 90• Così quelli che per taluni sono nuovi fattori che ostacolano l'impiego della massa di cavalleria, per il C. diventano nuovi atout a favore della cavalleria stessa, per la quale egli suppone o spera che nonostante il terreno e il fuoco riesca a conservare - diversamente dalla fanteria - una massa sufficiente per caricare con buone prospettive di successo. Le considerazioni sull'ordinamento e l'evoluzione delle unità sul campo di battagUa sono senza dubbio la parte più apprezzabile delle Confe-

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89 90

ivi, p. 57. ivi, p. 58. ivi, p. 61.


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t't'ltZe del 1866. Esse riprendono le tesi principali di un'altra opera prece-

de nte, Della tattica elementare della fanteria in Austria ( 1851-1862). Si tratta di una critica velata ai regolamenti piemontesi, nella quale il C. nfferma che gli austriaci, pur sconfitti nel 1859, usarono una tattica di fanteria sancita nel regolamento 1851 e più perfezionata e realistica di quella franco-piemontese, con formazioni che sapevano adattarsi al terreno e ricorrere all'occorrenza all'ordine sparso, oltre che con evoluzioni assai semplici. La superiorità della tattica austriaca era già emersa nel 1848-1849, quando le fanterie piemontesi addestrate secondo il modello francese solo a 11 'ordine serrato in linea, "mandavano a spasso le teorie guibertiane, pigliavan la corsa, e la linea di battaglia diventava una catena, la colonna 11110 stanno [cioè una fonnazione irregolare - N.d.a ], la tattica una confusione. Cosl in Crimea, cosl in Italia. In quel modo non si avevano né i vantaggi dell'ordine stretto né quelli dell'ordine rado: si aveva il disordine, si avevano le grosse perdite"91 • Il C. mette poi in evidenza che il regolamento 1851 non prescrive norme fisse e rigide da applicare in ogni caso: esse sono valide solo per le esercitazioni di piazza d'armi, lasciando campo libero, in guerra, al genio tattico dei comandanti e raccomandando semplicità e realismo nell' addestramento in terreno vario. I nuovi regolamenti 1862 hanno ulteriormente perfezionato il regolamento 1851 , fino a fare della nuova tattica austriaca "la forma, presa tale e quale, di ciò che oggi si fa sul campo di battaglia, corretta e ridotta a dottrina".92 Più in generale, il C. sfatando pregiudizi assai diffusi loda le dottrine austriache come "prima solenne consacrazione ufficiale" di un nuovo modo di combattere imposto da un mutato contesto politico-sociale e da diverse forme di reclutamento. Non basta più - egli afferma - stretta disciplina, fede al giuramento, alla bandiera e al sovrano: oggi cogli eserciti levati per coscrizione, con pochi mesi di attivo servizio, colle lunghe paci e le corte guerre, con questo tepido spirare di civiltà progrediente che rammollisce le fibre e i costumi, coll'immenso aumento dei Quadri e il libero ascenso ai gradi, e con questo modo spicciolato di combattere[ ... ], oggi, dico, quegli argomenti non bastano più. Ci vuole un sentimento più forte, più istintivo, più comune; e più ancora ci vuole l'abito della guerra, un'Algeria, un Messico, un Caucaso, o almeno la schifosa piaga di qualche migliaio di briganti che qualche volta combattono93• Con queste idee, il C. si discosta dalla communis opinio - della quale risente anche l'Ulloa - che ritiene il soldato austriaco incapace di autonome iniziative e abbisognevole di rigida disciplina anche sul campo di battaglia.

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C. Corsi, Della tattica elementare della fanteria in Austria, (Cit.), p. 72.

2 • 93

ivi, p. 130. ivi, p. 5.


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Per altro verso le sue idee non sono certo nuove, nemmeno in Italia: come abbiamo visto, esse erano già state sostenute con scarsi risultati nel 1849 dallo Chrzanowsky, quindi in senso stretto non sono dovute ali' aumento della potenza di fuoco e/o all'esperienza delle guerre. La Tattica elementare della fanteria in Austria viene ampiamente recensita sulla Rivista Militare 1864 dallo stesso direttore Gian Giacomo Corvetto, il quale però non sembra dare rilievo al punto essenziale, cioè la preferenza data allo schieramento sul campo di battaglia in ordine rado anziché in ordine serrato94 • Il Corvetto (che si firma C.) si sofferma soprattutto sulle idee del C. in merito a alcune questioni non così importanti e nuove, a cominciare dalla convenienza o meno "che i corpi tattici (brigate, divisioni, corpi d'eserciti) si schierino [in battaglia] l'uno dietro l'altro, costituendo così ogni linea un distinto corpo tattico, e non esistendovi tra le linee altroché l'autorità del comandante supremo, oppure l'uno accanto all'altro, avendo ciascuno una sua parte in linea, come cioè ben dice l'autore,di fronte e fondo". lo merito il Corvetto concorda con il C., il quale propende per il primo metodo "non però in modo esclusivo, ammettendo che vi siano dei casi nei quali possa convenire il secondo". È dello stesso avviso del C. anche su altre due questioni: la necessità che, per evitare confusione nelle manovre, anche nell'esercito piemontese sia adottato il principio austriaco di non assegnare ai battaglioni un posto prefissato nelle evoluzioni di brigata, e la necessità di dotare di cavallo gli aiutanti maggiori di battaglione (come fanno gli austriaci) per facilitare la rapida trasmissione degli ordini che loro compete. La trattazione da parte del C. e del Corvetto di queste questioni dà un'idea di quanto fossero ancor rigidi e geometrici gli ordini di battaglia del tempo, e quanto complicate le evoluzioni. Altrettanto rigida era la mentalità dei Quadri: il Corsi ricorda che le innovazioni del regolamento austriaco furono, almeno all'inizio, accolte molto male dagli ufficiali più anziani, e secondo il Corvetto cosl è avvenuto anche in Italia, quando per le innovazioni di assai minore portata introdotte dal nuovo regolamento per gli esercizi di fanteria piemontese del 1852 "udimmo imprecare e criticare amarissimamente alle innovazioni, come a cosa che dovesse mettere a sfascio l'esercito. Così pure avvenne due anni or sono in Francia ...". I due scritti del C. prima citati già abbozzano con sufficiente chiarezza i due problemi principali de)]' arte militare nel XIX e XX secolo: i vincoli e le possibilità della strategia di matrice napoleonica e fronte del progresso tecnico e delle crescenti esigenze logistiche, e l'influsso della crescente potenza di fuoco sulla tattica. È quest'ultimo problema ad assumere maggior rilievo e interesse: perché, per la strategia, si tratta solo di ripetere il più possibile - nonostante crescenti ostacoli di ogni genere - quei modelli napoleonici che hanno trovato la ragione del loro successo anche in irripe-

" "Rivista Militare Italiana" 1864 -Anno Vlll, Voi, IV pp. 255-264.


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tibili condizioni favorevoli, come i larghi spazi aperti e la frequente possibilità di fare a meno dei rifornimenti da tergo. Pregi e limiti dell'opera del C. non sono ben colti dallo Sticca, peraltro l' unico ad aQbozzarne un'analisi critica95• Afferma a ragione che "la toscana ridondanza del facondo maggiore di Stato Maggiore avrebbe potuto essere senza danno condensata" e che "bandito tutto ciò che sa di stereotipato e di rancido, [nel libro] si inneggia al combattere libero e aggressivo"; ma non si capisce in base a quali elementi il libro - sempre a parere dello Sticca "consacra durabilmente la proclamata superiorità delle istituzioni militari prussiane". Giudizio quanto meno inesatto, perché il C. loda soprattutto i regolamenti austriaci e anzi teme che i prussiani stiano tornando all'antico culto per il fuoco a scapito del movimento. Si inserisce dichiaratamente nelle questioni teoriche trattate dal C. il capitano di Stato Maggiore Filippo Gazzurelli, che nella sua opera Tattica delle tre Armi (Modena, 1868) raccoglie le lezioni di arte militare da lui Lenute alla Scuola Militare di Modena. Nonostante i limiti dovuti alle sue finalità didattiche, il lavoro del Gazzurelli merita di essere brevemente ricordato per diverse ragioni: a) sostiene la necessità di ridurre i bersaglieri, perché sottraggono alla fanteria gli elementi più validi. Essi non dovrebbero essere concepiti come "truppe cui principalmente compete di combattere in ordine aperto", ma come una sorta di Commandos in anteprima, cioè come truppe incaricate di speciali missioni, colpi di mano ecc.; b) mette in evidenza che Ìe formazioni di combattimento della fanteria e l'ordinamento dell'Esercito (brigate o divisioni?) devono tener conto del terreno e di fattori specifici e propri di ogni nazione e ogni Esercito. La brigata, comunque, meglio si adatta al terreno italiano; c) sottolinea le maggiori possibilità che, rispetto al passato, offre una difesa con le nuove armi a retrocarica e appoggiata a posizioni forti, con accorto sfruttamento della fortificazione campale; d) afferma che, anche per gli ufficiali inferiori, "entro certi limiti l'iniziativa è un diritto ed è anche un dovere".

"Della filosofia della guerra" (1869) di Alessandro Ballanti96 In quest'opera dal titolo assai impegnativo Alessandro Ballanti, tenente di fanteria non altrimenti noto, indaga sulla natura della guerra e sul suo rapporto con la politica. Se per filosofia si intende in generale "attività intellettuale che mira a elaborare una concezione complessiva e razionalmente fondata della realtà del mondo e dell'uomo" (Dizionario Garzanti), il B. non · scrive un'opera di carattere filosofico, ma si limita a fornire un complesso di considerazioni e di exempla spesso poco originali sul complesso argomento, 95 96

G. Sticca, Gli scrittori militari italiani, Torino, Cassone 1912, pp. 232 e 290. Firenze, Cassone 1869.


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che denotano peraltro una non comune cultura e una valutazione critica assai centrata della portata degli avvenimenti politico-militari - non solo in Italia - nella prima metà del secolo XIX (ivi compresa la guerra italiana del 1848-1849, ma stranamente escluse le guerre del 1859 e 1866). Il libro non ha come principale obiettivo l'esame tecnico-militare della problematica della guerra; solo alla fine vi si esaminano molto, troppo brevemente le parti componenti l'arte della guerra, il cui significato risulta avulso dal contesto generale e anzi spesso in contraddizione con il resto del1' opera. 11 B. intende piuttosto "rintracciare e studiare tutte le relazioni che la guerra ha con la filosofia, dimostrare quale sia la sua vera missione in mezzo agli uomini, e quanto eserciti d'influenza negli umani destini". E per lui la guerra "non è soltanto quel complesso di operazioni tattiche, strategiche e logistiche in cui si svolge l'arte e la scienza militare; ma essa è ancora più azione morale umana, ed è per essa che le varie società si agitano, si rivolgono, si modificano e trasformano continuamente...". Inoltre nelle guerre concorrono tutti i dati fisici e morali della esistenza umana; e tutti questi dati corrispondono armonicamente tra loro; per cui ne risulta quel tutto grandioso, che è la guerra considerata sotto .il duplice aspetto di questione e azione morale e materiale [... ]. In tal modo sembra che la guerra sia il vincolo universale, che insieme riannodi le arti e le scienze, che coordini le passioni ed opinioni dirigendole per suo mezzo a servire al progresso della umanità, che riavvicini i popoli e li assimili gli uni agli altri, e li costituisca in unità per mezzo di quegli stessi agenti che parrebbe dovessero dispiegarli 97•

Queste premesse denotano una chiara impostazione spiritualistica; ci si aspetterebbe perciò che trattando della strategia il B. ne faccia risaltare una volta tanto gli aspetti non puramente matematici e scientifici. Avviene esattamente il contrario: la strategia è "il calcolo dello spazio e del tempo coordinato all'azione della guerra L... J. Per un tal calcolo la strategia è eminentemente scienza dimostrativa, come ce l'insegnarono Btilow, Willisen, Wagner [non Clausewitz! - N.d.a.] ecc. con i loro trattati di strategia pura". E poiché il tempo e lo spazio sono il fondamento d'ogni calcolo delle scienze dimostrative, ne consegue che essa è necessariamente una scienza. Ciò corrisponde pienamente al concetto che della strategia ha - ancor più che la scuola dei dottrinari - l'Arciduca Carlo: ma il B. sembra esitare nel1' ammetterlo, anzi critica l'Arciduca mettendolo nello stesso calderone con altri autori italiani (senza mai citare Jomini): l'Arciduca Carlo definì semplicemente la strategia chiamandolo scienza della guerra; l'espressione per sé stessa è esatta quando però si

.., ivi, p. 415.


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I - ARTE MILITARE E SUA RIPARTIZIONE

sia prima definito che cosa sia la scienza della guerra. La spiegazione che dà il dotto guerriero austriaco della sua definizione è la seguente: "Questa scienza, egli dice, forma i piani e determina il procedimento delle imprese militari". Tutto ciò è vero; ma restringe di troppo né suoi dettagli, e né vari uffici pratici il carattere delle funzioni strategiche. Così pure altri insigni scrittori di cose militari per aver voluto determinare troppo nelle sue particolarità militari l'ufficio della strategia, hanno finito per darcene una spiegazione incompleta e perciò inesatta. Incorreva nel medesimo inconveniente il D' Ayala (Dizionario Militare), definendo la strategia esser la tecnica del muovere gli eserciti fuori la vista del nemico, per condurli dove più giovi a combattere le forze contrarie e riparare ad esse. Così pure il Grassi, il Foscolo e tanti altri...98 •

Segue un'immagine del teatro della guerra che è la perfetta riproduzione di queJla di Btilow: esso "viene esattamente descritto per iµezzo di una rete geometrica disegnata dalla scienza dello strategico. Su quelle linee, su quegli angoli, si svolgono le operazioni strategiche della guerra, il cui risultato è di aver agito in un dato tempo sopra un dato spazio col prodotto delle forze per il tempo e Io spazio". Ne consegue il principio della "massa moltiplicata per la velocità", che viene tradotto in pratica con l'altra formula di "operare con assoluta preponderanza di forze tra loro ben coordinate sul punto decisivo". Nulla di nuovo per quanto riguarda la tattica: anche qui il B. non accenna mai al ruolo dei fattori morali, ma anzi cita il Cattaneo (Voi. I capitolo X) là ove, sulle tracce dello Zambelli, questi afferma che nella guerra contemporanea non conta più il valore dei combattenti ma solo il loro numero. Perciò la tattica è "tutta riposta nell'azione materiale del combattimento" ed è stata profondamente modificata dalle armi moderne, che hanno imposto di sostituire con l'ordine "sottile e disteso" l'ordine "compatto e profondo dell'antichità". Può essere definita come "arte di ordinare o muovere un esercito o parte di esso in presenza del nemico, combatterlo con vantaggio"99 • Il B. ha almeno il merito di parlare - come lo Zamponi - della logistica, naturalmente nel confuso significato che le dà Jomini. Nella fattispecie i suoi contenuti diventano ancor più confusi, visto che non si capisce bene in che cosa essa differisca dalla strategia, o dalle altre branche dell'arte della guerra: "la logistica è ausiliaria della strategia, ed è l'applicazione pratica dell'arte di muovere gli eserciti. Anch'essa è un calcolo dello spazio e del tempo in cui le masse devono muoversi, per essere dirette sopra il teatro della guerra. In verità la logistica è anche l'applicazione di tutte le altre scienze militari; giacché non si saprebbe muovere gli eserciti senza pos-

per

98 ivi, p. 419. "' ivi, p. 417.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

sedere e la scienza strategica, e l'arte tattica e tutte le altre arti e scienze ausiliari, o complementarie della guerra" 100 • Il B. si occupa anche di politica della guerra e dei suoi rapporti con la politica interna ed estera, definendola "scienza e arte per cui si provvede alla guerra, e si coordina in modo opportuno da servire agli interessi dello Stato e della nazione". Essa definisce lo scopo della guerra e ne appronta i mezzi, organizzando e disciplinando le forze armate in funzione dell'obiettivo da raggiungere. Inoltre "politica della guerra è il profitto che si trae dalle battaglie, l'uso che si fa della vittoria ed il modo con cui si ripara alle sconfitte. Finalmente fanno parte della politica della guerra tutte quelle arti, per cui uno Stato si acquista l'alleanza militare o la neutralità di altra potenza; come pure l'azione diplomatica che raccoglie i vantaggi e i diritti della vittoria delle armi ... ". Da una parte la pianificazione strategica deve essere coordinata con gli obiettivi politici; dall'altra l'uomo politico prima di decidere deve consigliarsi con il generale, acciocché si possa anzitutto discernere, se le conseguenze probabj]j della guerra siano di tal natura da offrire al paese danni maggiori o minori, che non mantenere la pace" 101 • Solo la politica e la diplomazia possono ben preparare, dunque, la guerra, che è soggetta a calcoli di opportunità e di probabilità. Di opportunità, perché una guerra che turbi profondamente l'equilibrio politico internazionale finirà col suscitare contro lo Stato che la intraprende le ostilità di tutti gli altri; di probabilità, perché (altra contraddizione rispetto al concetto matemati'co di strategia, il quale farebbe sì che una scienza derivi da un'arte) la guerra è "un calcolo di probabilità in cui influiscono mille cause morali e fisiche, che sfuggono sovente alla preveggenza umana". Bisogna attendere il momento più opportuno per deciderla: ma questa attesa è "non solo difficile, ma pressoché moralmente impossibile per le masse, le quali si lasciano più spesso e facilmente dominare dalle passioni e dallo spirito di parte" 102 • Un governo ha il dovere primario di provvedere a un'efficiente difesa militare; un paese non ha mai potenza morale se non possiede anche potenza materiale. Gli Stati preparati alla guerra possono garantirsi una più lunga pace, giacché è più facile aggredire un Paese debole, che uno pronto a difendersi. E qui il B. conduce un duro attacco al pacifismo, con parole pienamente attuali: coloro che continuamente declamano contro gli eserciti e gli apparecchi militari, coi quali i governi attendono a render forte un paese, mal comprendono Io spirito e il movimento delle società umane. Costoro si illudono sopra progetti di pace assoluta, e di completo disarmo generale come se la guerra fosse fatta solamente da quei

100

ivi, p. 420. ivi, p. 331. 102 ivi, p. 334. 101


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popoli che la vogliono. Voler la pace del paese è cosa buona e onesta; ma non sempre si può essa conservare, a meno che non si voglia rinunciare ad ogni indipendenza e progresso politico, sul che riposa la vita delle società civili. Quanti popoli avrebbero preferito la pace alla guerra! Ma pure contro lor voglia dovettero entrare in campo; e se non erano preparati dovettero rassegnarsi ad accettare il giogo straniero. Nè si ridica che perché non si hanno nemici vicini, o perché si è in pace con ogni Stato, debba perciò un paese rinunziare ed abbandonare ogni apparecchio militare. Ogni Stato in ogni tempo è un nemico possibile e probabile d'un altro Stato; tutti gli Stati vicini in un'epoca più o meno remota avranno interesse ad estendere sovra di esso la loro supremazia, e ad opprimerne la potenza10 3• La potenza di uno Stato si fonda sul numero dei cittadini, sulle loro virtù militari e sulla ricchezza; "la forza di uno Stato più ancora che nel 11umero dei suoi soldati consiste nelle loro virtù militari; il valore dei citlHdini è il più fermo e valido appoggio della sicurezza di una nazione". Più l'11c di soldati coraggiosi c' è bisogno di soldati valorosi, perché il coraggio è una dote naturale che può anche degenerare, mentre il valore "è virtù del!' animo acquistata con l'educazione, è la perfezione del coraggio". Esso viene rafforzato dallo spirito di corpo, che "si fonda specialmente nella liducia di una milizia (reggimento, battaglione o altra unità) nelle sue leggi d' organizzazione, nella sua fratellevole unione e bravura, e nel nobile orgoglio di conservare intatta la reputazione acquistatasi. Questa forza 111orale che è il carattere dei bravi soldati, deve essere ricavata dalle loro gloriose tradizioni, dal merito dei superiori, e dallo spirito marziale che deve infiamma gli animi di tutti, ed eccitarli a una nobile gara di emulazione"104. Infine, le ricchezze sono uno dei principali fattori della potenza militare; solo con il denaro si possono avere le artni, i materiali e le fortificazioni. Con le sue grandi ricchezze nazionali l'Inghilterra ha potuto affrontare e sconfiggere Napoleone, "pagando del suo gli eserciti di sei coa1izioni eur6pee, allestendo flotte e creando con l' oro del suo commercio ostacoli continui al grande guerriero". La ricchezza, però, non è tutto: per non diventare un fattore di debolezza anche militare, gli ordinamenti interni devono sapersi rinnovare in tempo. L'immutabilità converte anche le istituzioni più liberali e democratiche in tiranniche; proprio l'Inghilterra pur credendo di essere la prima potenza d'Europa, dimostra di essere entrata riel suo primo periodo di decadimento, appunto per la tenacia della sua politica conservatrice. In pochi anni questa nazione ha dovuto combattere due terribili insurrezioni nelle Indie, ed altre non lontane deve attendersene fomentate dalla Russia; e

'

03

ivi, p. 342.

'°' ivi, p. 351.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO- VOL. Il (1848-1870)

dovette rinunziare al possesso o protettorato (come si chiamava diplomaticamente) delle Isole Jonie, costrettavi dalla logica politica. L'Irlanda frattanto le si ribella, mentre le riforme elettorali sono tal questione per essa da portare lo squilibrio della sua macchina sociale e politica_ Tutti sanno come la sua autorità morale abbia perduto nelle ultime questioni dello Schleswig e dello Holstein in cui dovette subire, ad onta delle sue proteste, l'umiliazione del mercato di Gastein fvillaggio austriaco nel quale, dopo la vittoria prussiana del 1864 contro la Danimarca, fu firmato un accordo tra Austria e Prussia che non teneva conto degli interessi della Inghilterra, protettrice della Danimarca N.d.a.]'05 •

Una buona organizzazione militare è anche la meno dispendiosa dal punto di vista economico. Per avere una buona organizzazione militare occorre che essa ottenga il concorso di tutti i cittadini e sia assicurata con eserciti nazionali e permanenti, escludendo i mercenari perché "il soldato non può essere morale, che quando esso sia un cittadino in armi, chiamato per legge alla difesa della patria" 106_ Occorre curare più la qualità che la quantità degli eserciti, perché in ogni epoca si è visto "quanto sia difficile l'ordinamento delle grandi masse", e quanto sia facile che quest'ultime siano sconfitte da un numero di molto inferiore "di bene ordinate ed esperte milizie". Un esercito deve essere anche omogeneo: gran danno ha causato a Napoleone in Russia, l'essere a capo di un esercito sterminato, non omogeneo né per nazionalità ne per ordinamento tattico. Lo dimostra anche la guerra in Italia nel 1848-1849, sulla quale il B. la pensa come il De Cristoforis (si veda il successivo cap_ IV): abbiamo esperimentato come per essere le forze nazionali del paese in gran parte rappresentate da legioni di volontari, e dalla agglomerazione di piccoli eserciti dei piccoli Stati in cui era frazionata la nazione italica, non si riuscisse negli anni 1848-49 all'intento di riacquistare l'indipendenza nazionale. Che se il valore italiano pervenne allora a guadagnare qualche battaglia, o ad ottenere qualche prospero successo nelle insurrezioni; però la deficienza di unità e di armonia nelle singole parti dei corpi combattenti, sia per il comando, sia per l'organizzazione, sia per il concetto politico, ci fece perdere entrambe quelle campagne. È vero che a ciò contribuirono ancora gli spiriti opposti delle varie sette e partiti in cui si scindevano gli Italiani, e che le ambi zioni ed i timori parziali di alcuni principi, l'avere alcuni di essi disertata la causa nazionale, furono cause per cui l'impresa subì i noti rovesci e disastri. Ciò non toglie però che se per la concordia dei partiti, e la saggezza dei capi si fosse riuscito a formare un solo e grande esercito, compatto per unica forma di disciplina uniforme, scuola tattica, unità vera di comando e di dipendenza, avremmo potuto vincere quelle cam-

IOS 106

ÌVi, p. 329. ivi, p. 360.


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pagne in cui noi avevamo vinto diverse battaglie. Al contrario non nocque ali' Austria l'avere avuto la peggio in tanti scontri, fatti d'arme, ed alcune Giornate campali; poiché sicura di poterci colpire nei punti e momenti decisivi con preponderanza di forze, ad altro non badava che a coglierci precisamente in quel punto ed in quel momento. Ed a tale intento essa possedeva quelle cose appunto di cui noi disgraziatamente mancavamo, cioè: un esercito organizzato regolarmente, ed obbediente ad una sola disciplina e ad un solo comando; per cui possedeva ancora unità d'azione, e concordia nei movimenti tutti diretti a raggiungere un solo obbiettivo designato da un solo concetto strategico e politico. In Lombardia noi vedemmo nel 1848 il popolo milanese combattere eroicamente per cinque giorni entro le mura della città; ma si vide ancora come al sesto giorno, dopo essere riusciti nell'intento di scacciare gli Austriaci, appena quattrocento uomini uscissero alla campagna; mentre se ne avrebbero dovuti slanciare trentamila sulle piste del nemico. Perciò deve dirsi che la forza nazionale risiede veramente nel popolo, non come cittadinanza disciolta, ossia non organizzata militarmente; ma solamente perché esso la produce, come il campo produce le annone che si ripongono nei grandi magazzini frumentarii, che devono alimentare le popolazioni. Queste forze adunque devono essere raccolte, ordinate e regolarizzate in esercito, acciocché efficacemente sieno dirette allo scopo prefisso, e non restino frustrate per essere disperse e disorganizzate'"'.

Poiché la guerra è una necessità, sono necessari gli esercili; "e poiché gli eserciti sono necessari è certo, che questi non saranno buoni e valenli se non siano pennanenti". Non bastano le armi, il coraggio e l'uniforme per formare un esercito: "occorre soprattutto la disciplina, ossia la scuola degli eserciti, alla quale il cittadino apprende non solo l'arte e le abitudini della guerra; ma ancora quella educazione e quelle virtù che possono rendere nelle più critiche circostanze i più eminenti servigi alla nazione". Il costo degli eserciti permanenti è però ingente, e invano si cerca di diminuire i bilanci della guerra o di studiare nuovi sistemi per fare economie: per queste ragioni specialmente si grida a squarciagola che si sopprimano gli eserciti; in caso di pericolo il paese si leverà tutto in anni. La teoria non manca di attrattive; ma come accade di pressoché tutte le dottrine seducenti, non è praticabile; giacché in questo modo non si provvede né alla sicurezza ne alla gloria del paese. Si citano le costituzioni della Repubblica elvetica, come modello dell'amministrazione di una libera società. Ma non si guarda all'eccezionale condizione di quegli Stati, che sussistono unicamente perché si vuole che ancora sussistano. Ma quando la Frdllcia, i Russi, gli Austriaci hanno voluto violare il territorio di quella Repubblica, chi lo ha impedito?'°"

,1r, ivi, pp. 358-359. "" ivi, p. 362.


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[L PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO- VOL. Il (1848- 1870)

A questo punto, il B. cita - con analoghe considerazioni - il dialogo tra un ufficiale svizzero e un ufficiale piemontese riferito dal De Cristoforis (cfr. il prossimo capitolo IV). E commenta con riflessioni analoghe a quelle del Balbo, del Blanch e di tanti altri la guerra nazionale della Germania contro Napoleone nel 1813, che non avrebbe avuto successo senza il concorso del1'esercito regolare, cosi come quella spagnola del 1808-1813, che anch'essa non avrebbe liberato quella nazione senza gli errori strategici di Napoleone e l'intervento dell'esercito di Wellington. Né vale - egli afferma - presentare gli eserciti permanenti come strumento del dispotismo: Roma e la Grecia furono sempre in armi e con tuttociò furono liberissime; l'Inghilterra e la Prussia furono pure munite di eserciti stanziali, senza cessare con ciò di essere il modello dei popoli che si reggono a libertà. Del resto che cosa sono gli eserciti se non che una parte del popolo stesso, per cui si temono tante sciagure? [... ]. Se nel1'esercito manca il sentimento della dignità e libertà del Paese, è segno manifesto che ancora il popolo ne è privo. 109

li libro è recensito dalla Rivista Militare ltaliana1 1°, la quale ritiene che possa essere letto proficuamente e con interesse "da quanti desiderano di veder raccolta come in un quadro, e a grandi tratti la sublime epopea delle guerre antiche e moderne". Al tempo stesso, la Rivista critica la scarsa rispondenza tra il titolo e i contenuti dell'opera, che non risponderebbero pienamente alla vastità e grandezza dell' argomento; questo perché il B. "non ci porge egli stesso un concetto generale al quale tutta la sua opera sia informata, come si richiede in lavori di questa natura". Il lavoro sarebbe riuscito più completo fra qualche anno, "dopo che l'autore si fosse cimentato in opere di minore importanza che gli avessero conferito l'autorità necessaria per trattare una sl vasta materia". Sarà anche vero, ma non si può rimproverare a un autore la giovane età: se mai, questa è un ulteriore motivo di lode. Il B. scrive cose pregevoli su parecchi argomenti, in particolare sul rapporto tra politica interna e estera e tra economia e guerra, che tratta meglio di Jomini e dello stesso Clausewitz; ciononostante, le critiche della Rivista Militare sono l'unico segno di interesse per la sua opera, caduta in immeritato oblio. Spiace anche constatare che il B. da allora in poi non ha più scritto nulla; sarebbe interessante sapere il perché.

Cenni sulle definizioni di arte militare e strategia di Agostino Ricci (1863) e Nicola Marselli (1867-1869) Agostino Ricci e Nicola Marselli sono i due maggiori scrittori militari della seconda metà del secolo XIX. Poiché la parte più interessante e di

"" ivi, p. 363. """Rivista Militare Italiana", 1869 -Anno XIV, Voi. N pp. 598-600.


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maggior peso dei loro scritti viene pubblicata dopo il 1870, essi verranno esaminati in forma organica nel Voi. ID (1870-1915). Tuttavia, già prima dal I 870 enunciano le loro idee in tema di arte militare e strategia, che qui brevemente indichiamo anche perché riassumono ottimamente l'esprit del1'epoca, la rotta lungo la quale si muove tutto il pensiero militare italiano. Il ligure Agostino Ricci - diversamente dal napoletano Marselli, che si e formato ai severi studi della scuola militare della Nunziatella - è autodidatta, filofrancese e nettamente jominiano. Nella sua opera del 1863 Introduzione allo studio dell'arte militare 111 mostra di avere un concetto dell'arte militare napoleonico, anche se più jominiano che clausewitziano: fa infatti consistere il genio esclusivamente nella capacità tutta artistica di applicare " i principi inconcussi, che il raziocinio sa scoprire e che l'esperienza dimostra veri" a una data situazione propria e nemica, come appunto solo Napoleone sapeva fare. Ma quando si tratta di strategia peggiora e non migliora i concetti jominiani, avvicinandosi all'Arciduca Carlo (cfr. Vol. I, cap. Il). Per lui, infatti, la strategia è il ramo principale dell'arte militare considerata sotto il rapporto dell'azione dell'annata in campagna; essa è la scienza delle grandi operazioni di guerra. L'Arciduca Carlo nel suo bel lavoro sulla strategia la definisce quel ramo dell'ane militare il quale insegna quali siano i punti più utili ad essere occupati in un teatro di guerra e quali le linee a percorrersi per passare dall'uno all'altro di tali punti. Questa definizione, a mio avviso, è la più esatta che si sia data finora della strategia.

Nessun accenno alla concentrazione delle forze nel punto decisivo: ma ulteriore peggioramento - sempre sulla scia delle teorie de11' Arciduca Carlo - là ove indica i due principi fondamentali della strategia nell'interruzione delle linee di comunicazione dell'esercito nemico e nella difesa delle proprie; per la "gran tattica" e la logistica, invece, definizioni affini a quelle di Jomini. Nel periodo considerato Nicola Marselli non dedica all' arte militare e strategia, come fa il Ricci, uno specifico trattato: ciononostante le sue idee sono già ben ferme e chiare e denotano una maggiore elasticità di quelle del Ricci, in certo senso dando corpo alle contraddizioni dell'epoca. 112 In linea generale il Marselli hegelianamente tende a conciliare gli opposti; per lui "la cosa migliore al mondo è la misura", perciò bisogna "credere nella scienza, ma non nella esagerazione di essa". Con queste premesse ci si aspetterebbe una sua posizione mediana rispetto ai dottrinari e agli ideologi, anzi una maggiore vicinanza a quest'ultimi. In effetti, in

"' Torino, Cassone, 1863. '"N. Marsclli, Il problema militare dell'indipendenza nazionale, "Rivista Militare Italiana" 1867, Voi. 1 pp. 173-201, Voi. TII pp. 26-53; Vol. lV pp. 29-72.


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questo almeno avvicinandosi a Clausewitz respinge ogni differenza tra teoria e pratica: "signori, la teoria che dispregiate è la riflessione della pratica, e però non è la profezia del fatto, come il volgo crede, ma la sua regola". Nega anche - diversamente da Jomini - ogni valore assoluto ai principI: "nell'arte della guerra i principi generali, le massime assolute, le soluzioni positive sono da evitare, perché sul campo militare vi ha solo una regione elevatissima nella quale donùni l'assoluto, e nel rimanente il relativo è quello che ha occupato il trono dell'assoluto e si è proclamato re e dio". Riguardo agli autori del passato, come Clausewitz e lo stesso Jomini non ha alcuna stima per Billow: "applicare la geometria alla strategia, gli è quanto voler misurare colle spanne le bellezze del nostro gran tragico". In quanto a Jomini, "è stato per le operazioni militari ciò che i grammatici, gli estetici e dirò anche i pedanti sono per la lingua e le arti: egli ha dovuto adottare questo termine, scartar quell'altro, definire, separare, distinguere, classificare, esemplificare, applicare, dichiarare, spiegare, polemicizzare". Lo accusa, perciò, di ricercare e studiare soprattutto "principii secondarii e terziarii e quartarii invece di afferrare i pochi dominanti". Sotto questo aspetto (è una vera sorpresa per il lettore!), sempre a suo giudizio "i libri che da questo lato valgono meglio sono quelli dell'Arciduca Carlo: poche teoriche e due beHe applicazioni a due campagne ripiene di utili insegnamenti". Così, inopinatamente gli scritti dell'Arciduca Carlo sono indicati anche dal Marselli come esempio di buona letteratura slralegica e non come archetipo delle teorie dei dottrinari. E sono artificiosamente contrapposti a quelli di Jomini, che nonostante i loro limiti e la manìa de]J'analisi minuta e della ricerca di leggi e leggine, sono pur sempre assai meno "dottrinari" di quelli dell'Arciduca Carlo. Ciò non toglie che con lo stesso Jomini, o meglio con il condensato deUe sue teorie, anche MarseUi sia totalmente d'accordo, là ove afferma- discostandosi radicalmente da Clausewitz - che i principi della strategia sono solamente tre: 1° Operar concentrato in guisa da opporre la massa del proprio esercito aJJe frazioni dell'inimico. 2° Operare sulle comunicazioni dell'inimico senza esporre le proprie. Questo principio contiene tre gradazioni, che sono: formarsi una base - tenervisi in comunicazione - tenervisi in comunicazione minacciando quelle dell'inimico. 3° Operare per linee interne.

Vi è, nell'indicazione di questi principi, anche un po' dell'Arciduca Carlo, e della sua preoccupazione di non scoprire le proprie linee di comunicazione: ma essi sono pienamente compatibili anche con il punto di vista di Jomini, al quale il Nostro riconosce "la gloria di aver primo formulato in organico sistema i supremi principi dell'arte della guerra". E come Jomini, afferma che "essi sono il risultato ed insieme il punto di partenza di tutto lo studio delle grandi operazioni militari, essi sono immanenti nell'arte della


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guerra, essi danno la vittoria a chi sappia applicarli con accorgimento - that is the question -, essi hanno guidato tutti i grandi capitani, a cominciare da Alessandro e a terminare a Wellington, e loro hanno ammannita la vittoria". Tipicamente jominiana è del pari la centralità dell' exemplum historicum dei grandi capitani e della geografia nel ragionare strategico: "da questa istoria scaturirà la parte suprema dell'arte militare, la quale nel fatto è incominciata dopo la storia, è nata dalla storia, sebbene sia necessario che in ordine al metodo fornisca almeno le definizioni ed alcuni principii che è mestieri premettere alla storia...". Compatibile con quella jominiana anche la definizione che il Marselli dà di strategia, anche se (come l'Arciduca Carlo) ne parla come di una scienza, confinando l'arte nel campo della tattica: la strategia è la scienza dei principi che abbracciano l'insieme del teatro della guerra, che regolano la direzione suprema secondo la quale muovere gli eserciti, che guardano ai predominanti fini della guerra; la tattica e la logistica sono l'arte dei mezzi per raggiungere quei fini. Le due branche non sono poi che diverse facce di un medesimo contenuto, la guerra, il cui principio è stato sì profondamente e brevemente definito da Napoleone: Separarsi per vivere, unirsi per vincere. I grandi fini che occupano la strategia si riducono a tre: una base, una linea d' operazione ed un obiettivo.

Fin dai loro primi scritti, dunque, i due più grandi scrittori militari italiani della ~econda metà del secolo XIX, anzi dell'intero secolo, si mantengono assai lontani da Clausewitz e rimangono sostanzialmente nel solco jominiano.

SEZIONE m - Scritti minori sulla Rivista Militare: riflessi strategici e tattici delle nuove armi Lo studio del nuovo quadro nel quale strategia e tattica devono operare non può certo considerarsi esaurito dalle opere prima citate. Molti altri scritti lo toccano, magari senza approfondirlo e con l'occhio rivolto a altri argomenti. Di essi daremo man mano conto nel prosieguo dell'opera; per il momento ricordiamo due contrapposti articoli sulla Rivista Militare del periodo. Nel 1863 R.M. (non meglio identificato) nega che ferrovie e nuove armi da fuoco possano "rendere prossima una radicale trasformazione del1' arte della guerra" 113• Le ferrovie renderanno più agevole il rapido concentramento delle forze .anche da località lontane fra di loro, quindi potranno esservi delle eccezioni a regole strategiche in passato fondamentali, come

"3

R.M., La moderna tattica, "Rivista Militare Italiana" 1863 - Anno VII , Vç>I. lll, pp.

175-177.


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quella di non diradare le forze; "ma sul campo di battaglia non vedo possibile altra innovazione che maggior uso dei bersaglieri (tirailleurs) e meno frequente addensamento di battaglioni". La vittoria nelle battaglie dipenderà sempre dell'"occupazione di siti dominanti, o vantaggiosi (punti tattici)" e nell'aggirare sempre che sia possibile il fianco del nemico; le artiglierie potranno sempre essere attaccate dalla fanteria, "siccome avvertiva già in remota epoca uno scrittore italiano". Il perfezionamento delle armi da fuoco imporrà dei mutamenti nella fortificazione permanente ma non negli scontri campali, "perché l'impiego di mezzi meccanici atti a coprire e a salvare le truppe e il materiale dagli effetti struggitori delle armi di precisione non potrebbe accordarsi né con la rapidità delle mosse, né collo slancio che rende efficaci gli urti della fanteria e cavalleria". Nella guerra del Messico proprio l'esercito francese, che per primo si è servito delle nuove artiglierie con grande vantaggio, in un attacco si è esposto troppo presto al fuoco di artiglieria ed è stato respinto, Perciò noi vedremo forse col tempo vano in parte lo slancio mirabile delle truppe di sl valorosa nazione [la Francia] a cagione delle armi di precisione tanto micidiali, laddove gli eserciti che conservano con grande cura le riserve, avranno vieppiù sicure le ritirate per la cresciuta facilità di tenere l'avversario a distanza. Quindi le prime potranno meno efficacemente valersi della vittoria che spesso le accompagna, ed i secondi ristabiliranno più facilmente le sorti della guerra, e giungeranno fors' anche a vincere la prova in una campagna un po' lunga.

All'ignoto autore sembra, insomma, che l'accresciuta potenza del fuoco possa neutralizzare il tradizionale élan francese, rendere le vittorie meno frequenti e definitive, prolungare la guerra favorendo chi ha maggior copia di riserve. E la guerra di secessione americana 1861-1865 fatta anche larga parte alla insipienza dei condottieri [circostanza, questa, alla quale la maggior parte della critica europea coeva attribuisce il prolungamento di quel conflitto - N.d.a.] dimostra come l'uso delle strade ferrate poi trasporti delle soldatesche e l'impiego dei nuovi ingegni per l'offesa dell'inimico, non giovino spesso che a rendere frequenti le battaglie, senza che poi ne emerga pronto conseguimento di alcun utile obiettivo.

Previsioni importanti e sostanzialmente centrate, perché lasciano capire - anticipando quanto sarebbe avvenuto nel 1914 - che I' élan francese a poco serve ormai contro le potenti artiglierie, e che - lungi dall'abbreviare la guerra - i nuovi mezzi tecnici potranno prolungarla, rendendo le battaglie meno risolutive. Se non sono "trasformazioni radicali" queste ... Non si capisce proprio perché l'autore ci tiene tanto a sembrare conservatore. Francesco Sponzilli, già eminente rappresentante del pensiero militare napoletano (dr. Yol. I - capitoli IV, V e IX) si dimostra sotto molti aspetti di


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parere opposto. In un articolo sulla Rivista Militare del 1864 (nel quale, per inc iso, aggiunge al proprio nome la qualifica di "capitano del genio lllilitare", omettendo di precisare che si tratta del genio napoletano e che al momento egli, già colonnello dell'Esercito borbonico nel 1859, è maggior generale a riposo dell'Esercito italiano) ritiene a torto che, in futuro, la fortificazione campale perderà molta della sua importanza anche negli assedi, perché potrà essere facilmente vanificata dalle nuove armi rigate, mentre gJi assedi si ridurranno a duelli di artiglierie 114. Sul piano generale secondo ché gradatamente si aumenta la portata delle armi da fuoco, debbe ritenersi che si eviteranno sempre più le stragi e le carneficine degli antichi tempi - e che la guerra dei tempi presenti è certamente più nobile, e più adatta ai principii e ai bisogni dell 'umanità L... ]. Tutto adunque concorre a dimostrare che la scienza e l'arte della guerra in generale han d'uopo di modifiche e di mutamenti radicali f...]. Vi è da sperare moltissimo che nella guerra dei tempi presenti da un canto le offese saranno più terribili e micidiali, da un altro canto si diminuirà immensamente in durata t... J. Oggi infatti la società non potrebbe restare impassibile al cospetto clei massacri e della carneficina di una lunga e spietata guerra; ma però ritenendo taluni conHilti indispensabili pel generale sviluppamento dell'odierna civiltà e per abbattere gli ostacoli che s'infrappongono sul cammino del progresso, deve renderli assolutamente [... ] della minor durata possibile, onde goder dei vantaggi che puoi fruttare la guerra, però senza stancare immensamente gli eserciti - senza desolare i paesi in cui ha luogo - e riescendo di non grave nocumento al commercio [ ...]. In quest'epoca adunque [...] che tutta l'arte della guerra dopo aver percorso lo stadio dai tempi di Ariano e Vegezio fino all'Arciduca Carlo [dunque non è tramontata l'antica adorazione - N.d.a.] volge a una naturale tra-;formazione - in quest'epoca era naturale l'invenzione di altri mezzi belligeri e distruttori i quali, quantunque più violenti, nondimeno varranno a rendere giù parziali i conflitti fra le nazioni, ed in guisa che non si avranno a deplorare i feroci eccidi degli antichi tempi, non tralasciando per altro di apportare alla società quel bene e quei frutti che invano si cercherebbero in seno a lunghissima pace.

Quando lo Sponzilli formula queste poco azzeccate previsioni è in corso ormai da tre anni la sanguinosissima guerra di secessione americana, nella quale a un massiccio impiego dei nuovi mezzi di fuoco e delle ferrovie corrispondono perdite senza precedenti anche tra la popolazione civile... Le infondate profezie deJlo Sponzilli sono accompagnate da una serie di considerazioni, nelle quali se ne trovano anche di condivisibili e equilibrate; così egli afferma che i mutamenti da apportare potranno essere definiti più nel dettaglio solo quando si potrà stabilire attraverso una guerra l'effettivo ren-

11 • F. Sponzilli, La guerra nei tempi presenti dipendentemente dai progressi delle armi da fuoco, "Rivista Militare italiana" 1864 -Anno IX, Voi. TI pp. 301-311.


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dimento delle nuove armi, e che la fortificazione permanente e dovrà prevedere la costruzione nella maggior misura possibile di casamatte (cioè di costruzioni con il tetto a prova di bomba) e polveriere anch'esse a prova di bomba. Lo Sponzilli ha inoltre il merito di contestare le affermazioni del Cantù e altri, mutuate dallo Zambelli (Vol. I - cap. X) secondo le quali i soldati antichi erano più valorosi e più scelti, mentre "l'aumentarsi delle macchine nelle legioni era segno di degradazione dello spirito militare di quei tempi" e "le armi da fuoco negli eserciti hanno reso i successi più dipendenti dal numero che dal valore". Lo spirito mi1itare "considerato razionalmente e non al modo dei repubblicani antichi" - egli replica - non sta nel provocare massacri, ma "nello attingere a un gran proponimento col minimo spargimento di sangue". In realtà le vere cause del decadimento dello spirito militare non sono dovute al "pensiero umanissimo di combatter da ]ungi, e a quello generoso di avere meno armi difensive [cioè corazze ecc. - N.d.a.]", ma al fatto che sotto l'Impero il servizio militare era ormai considerato dai cittadini come cosa vergognosa, le esenzioni si vendevano, i gradi si ottenevano per intrigo e non per merito, e le legioni cominciarono ad ammettere nei loro ranghi prima i barbari, poi i proletari, poi gli schiavi e persino i malfattori. Le armi da fuoco - prosegue lo Sponzilli - non sono inumane come sostengono alcuni, perché statisticamente su 5000 colpi sparati solo uno va a segno. Esse richiedono ai combattenti più valore e non sono affatto le armi dei vili, perché noi crediamo che il valore, o per dir meglio il coraggio [richiestilnei cimenti, è in ragion diretta della durata del pericolo, e nell'inversa dei mezzi difensivi [cioè delle corazze o altre protezioni individuali - N.d.aJ. .. La·sentenza di merito è [perciò] a vantaggio dei moderni e non degli eserciti antichi: irnperciocché in questi, di tutto il tempo che·trascorreva dal che scoprivasi la faccia del nemico, fino a che se ne vedevano le spalle, ben pochi erano i momenti di pericolo vero, e tali momenti che ben si direbbero istanti, erano quelli dell'urto delle linee [... ] dalla qual maniera di combattere nasceva che stando molti vili negli ordini, molti ne soggiacevano alla spada dei pochi prodi di quel partito che restava vincitore, onde le stragi e i massacri d'ogni sorta. Ma per converso negli eserciti nostri il pericolo comincia dal primo istante in cui si scopre, e seguita fino all'ultimo in cui si perde di vista l'inimico; ond'è che a restar saldi in tanto tempo di pericolo, senza altre coperture che la propria camicia, ci vuole gran valore e gran coraggio - e se le uccisioni sono minori di quelle dei secoli passati, è per la natura delle armi nostre, per il modo con cui si sono adoperate, e non per il poco valore di chi le maneggia. Un modo sbagliato di dimostrare una tesi condivisibile. Facendo dipendere la quantità di coraggio richiesta solo dalla durata dell'esposizione al pericolo e dalla rnraz.z.a, lu Spunz.illi arriva a<l affermare che nei tempi


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antichi la corazza diminuiva la probabilità di colpi mortali, quindi i combattimenti richiedevano meno coraggio; il contrario avverrebbe nei combattimenti con le armi da fuoco del momento. Più semplice sarebbe stato conslatare che, poiché anche le armi da fuoco uccidono sempre di più (e le viltime delle guerre napoleoniche erano già state assai numerose), esse richiedono all'uomo un'analoga capacità di affrontare il pericolo (a maggior ragione nel duello, perché si tratta di un atto individuale volontario e non vi e l'atmosfera della battaglia, né il particolare spirito della collettività militare). Lo Sponzilli è comunque l'unico a contestare apertamente un luogo comune, che dallo Zambe11i e dal Blanch in poi è diventato una sorta di postulato, come tale non soggetto a verifiche e ammesso come vero da gran parte degli scrittori militari. Per contro, in pieno periodo di guerre nazionali egli rimane attaccato alla prospettiva delle guerre limitate e umanitarie tipica di Jomini e del suo idolo di sempre, l'Arciduca Carlo.

Conclusione I contributi teorici prima esaminati non sono sempre originali e lasciano a volte trasparire contraddizioni e lacune. Non ci risulta però che nello stesso periodo ali' estero siano comparse opere di maggiore originalità: Jomini e - in misura molto minore - Clausewitz continuano ad essere i riferimenti principali. Rispetto al passato, il pensiero italiano denota una tendenza abbastanza netta al ritorno a concetti tipici delle guerre nazionali di tipo napoleonico, come tali "corte" e "grosse". Una certa attenuazione subiscono le istanze umanitarie - peraltro poco convinte e convincenti - tendenti a non spingere a fondo la guerra, che sono tipiche di taluni autori "scolastici" della Restaurazione. Se mai, la debellatio dell'avversario viene ritenuta un obiettivo ideale, reso però problematico da nuove esigenze logistiche o altre circostanze che ci si sforza di aggirare o attenuare. La battaglia rimane, per tutti, il baricentro della guerra; ma in essa assumono rilievo sempre maggiore la ricerca delle formazioni di combattimento meno vulnerabili e lo sfruttamento del terreno, resi necessari dall'aumento della potenza di fuoco. Infine, almeno per il momento - se si eccettua il Corsi rimangono ancora in ombra gli esatti termini del rapporto tra ferrovie, logistica e strategia.



CAPITOLO II

GUERRA RIVOLUZIONARIA, GUERRIGLIA E INSURREZIONI NEL PENSIERO EUROPEO E ITALIANO

Ad un comandante cli partigiani, niun terreno deve parere troppo difficile, niuna distanza troppo grande, niun monte impraticabile,[...]; né ci si deve dare soverchio pensiero della debolezza delle proprie forze; per tali intraprese si calcola, come già fu deuo, sulla sorpresa, e quando non si può arrivare a così dire, inattesi, è meglio nulla intraprendere L...J è cosa impossibile assoggettare a regolarità le operazioni d' una campagna di partigiani; perché gli stratagemmi che si possono adoperare, e la qualità delle circostanze variano in questo argomento ull'infinilo

ISTRUZ. PEL SERV. DI GUERRA DELLA INFANTERJA , CAVALLERIA E ARTIGLIERIA VOLGARIZZATE SULLA TERZA EDIZIONE TEDESCA DELL'ANNO CORRENTE. (Torino, Tip. Ferrero 1852).

Premessa: significato dei termini e loro rapporto. Abbiamo finora trattato della guerra classica della guerra fra eserciti: ma con la continua contrapposizione guerra regia/guerra di popolo e con il ruolo delle insurrezioni popolari in tutta Europa, nel periodo 1848/1870 i vocaboli guerra rivoluzionaria, guerriglia e insurrezione sono all'ordine del giorno. Gli avvenimenti chiariscono definitivamente il significato controverso di questi termini, sul quale giova ora soffermarsi completando gli accenni del Voi I (cap. XN). Il termine "guerra rivoluzionaria" (o "sovversiva") è di particolare attualità anche oggi. La Pub. SME n. 5895 Nome nclatore Militare (Esercito) de] 1969 la definisce "forma di lotta, condotta all' interno di una Nazione da una parte dei cittadini, con o senza l'aiuto esterno, a11o scopo di rovesciare il governo e/o le Istituzioni, o quanto meno di paralizzarne le azioni e le funzioni. Si avvale prevalentemente della guerriglia come strumento di azioni militari, però senza escludere il ricorso a vere e proprie operazioni tradizionali. Può manifestarsi anche in concomitanza con una guerra generale o limitata". A loro volta John Sky e Thomas W. Collier nel 1986 (cioè in piena guerra fredda) hanno scritto che


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l'espressione "guerra rivoluzionaria" designa la conquista del potere politico con l'uso della forza armata [... ]. La presa del potere deve avvenire da parte di un movimento popolare o comunque dotato di una vasta base sociale, deve comportare un periodo relativamente lungo di conflitto armato e deve essere finalizzata all'attuazione di un programma politico o sociale largamente propagandato [ ... ]. Esiste una persistente confusione tra la guerra rivoluzionaria e la guerriglia. È una confusione comprensibile, in quanto la prima comprende la seconda. Ma la tattica guerrigliera [... ] costituisce soltanto uno dei modi di condurre la guerra rivoluzionaria[...]. Le azioni di guerriglia, da parte loro, possono non avere uno scopo rivoluzionario [ ...]. Essenziale per ogni definizione di guerra rivoluzionaria, tuttavia, è l'esistenza di un obiettivo rivoluzionario; i mezzi specifici da utilizzare per raggiungerlo sono di secondaria importanza. La guerra rivoluzionaria si distingue anche per ciò che non è. Non è una "guerra" nell' accezione comune del termine, non una guerra internazionale, dalla quale ci si attende di solito (sebbene in misura variabile) che i combattimenti portino, presto o tardi, a un accordo negoziato tra le due potenze belligeranti . Sul piano pratico, la netta distinzione tra i due tipi di guerra può essere sfumata. Le guerre rivoluzionarie avvengono ali' interno delle nazioni e hanno come obiettivo la conquista del potere statale. Ma quando la definizione va oltre questa semplice distinzione tra "guerra" intemaz i onali e "guerra" rivoluzionaria, la chiarezza cede il posto ali' oscurità.'

Fino a che punto queste definizioni dei nostri giorni si attagliano alle forme di guerra rivoluzionaria comparse nel secolo XIX e alle relative teorie, a cominciare da quelle di Mazzini e Garibaldi? In questo caso, il fine ultimo o prioritario è sempre la cacciata dello straniero dall'Italia e/o la sua unificazione, sotto l'egida sabauda o meno: i prìncipi locali, e le loro forme - Stato, sono combattuti solo in tanto in quanto ostacolano il processo di unificazione. Il trinomio unità, libertà e indipendenza non a caso colloca al primo posto l'unità e al secondo la libertà; l'unità è il presupposto della libertà che solo in una Italia unita e forte può essere sicura, quindi unità e libertà sono il presupposto, il veicolo necessario, per l'indipendenza, obiettivo finale. Ne consegue che la guerra rivoluzionaria nel concetto del 1848-1870 non è solo interna: è interna e internazionale insieme. La guerra a fondo all'Austria non ammette limitazioni di alcun genere: l'obiettivo è rivoluzionario, ma, anche in questo caso, la guerriglia è solo una delle forme che essa può assumere. Di frequente, nella storia, guerriglia e operazioni classiche condotte dall'esercito regolare convivono; né sono escluse operazioni di guerriglia condotte da aliquote di forze regolari in concomitanza con altre di tipo

' AA.VV., Guerra e strategia nell'età contemporanea (a cura di P. Paret), Genova, Marietti 1992, pp. 362-363.


Il - GUERRA RIVOLUZIONARIA, GUERRIGLIA E INSURREZIONE

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l'lassico (lo dimostra il ruolo delle milizie in molti scrittori, che verremo l·st11ninando a cominciare dal Saluzzo e dai fratelli Mezzacapo). L'innesco sia di guerre di tipo classico che di operazioni di guerriglia è I' i11surrezione. Secondo l'Enciclopedia Militare 1933 "le guerre d'insurre1.ione appartengono al tipo delle 'guerriglie' e derivano da oppressione dura l· insopportabile di un popolo sopra un altro. Sull'esito influiscono il r arattere e la coscienza del popolo oppresso, e le caratteristiche del terreno d1c, più sarà difficile, più agevolerà le operazioni degli insorti [... ]. Le diffirnltà principali in cui gli insorti si trovano sono dovute al problema dei rifornimenti dei viveri e munizioni; al problema del comando; al problema d!.!1coordinamento delle operazioni [... ]. Generalmente gli insorti sono poco oli i a resistere a forze regolari che in numero non esiguo si trovino davanti a Né" 2. Definizione non del tutto soddisfacente: non sempre e non necessaria111tmte l'insurrezione sfocia nella guerriglia, perché gli insorti possono condurre anche operazioni classiche o miste; non sempre la guerriglia ha inizio l'On un'insurrezione. Non sempre e non necessariamente l'insurrezione deriva dall' oppressione di un popolo su un altro: può essere rivolta anche rnnlro un governo composto da elementi o partiti locali. Le osservazioni ddl ' Enciclopedia sulle difficoltà che incontra l'insurrezione fanno pensare :i tempi prolungati: frequentemente, invece, l'insurrezione dati i suoi 1.:;1ratteri si esaurisce in tempi ristretti, con la riuscita o il fallimento. Poiché l'esito dell'insurrezione è legato al numero e alla decisione dei partecipanti, tutto sommato ci sembra più rispondente la recente, breve definizione del dizionario Garzanti: "ribellione collettiva; in particolare, l'insorgere unanime di una gran parte della popolazione contro i poteri dello Stato" [che, però, spesso è uno Stato straniero - N.d.a.]. Va solo osservato, in proposito, che l'insurrezione nel periodo ora considerato raramente coinvolge in modo diretto gran parte delJa popolazione e raramente si accende e si sviluppa nelle campagne, né è mai accaduto che essa abbia riguardato unicamente il contado. In genere essa ha avuto i suoi punti focali nelle città, cioè negli agglomerati della parte di popolazione più cosciente e meno illetterata. Rimane da stabilire il rapporto tra guerriglia, insurrezione e guerra. La queslione - largamente dibattuta anche prima del 1848 - se debbano essere le bande u innescare l'insurrezione o viceversa, ci sembra di lana caprina: possono verificarsi l'uno o l'altro caso, oppure tutte e due le cose insieme; su questa materia gli schemi teorici precostituiti hanno meno che mai ragion d'essere. Si deve solo dire che la guerriglia, forma di guerra che può essere condotta anche da un numero esiguo di uomini in una vasta zona, non necessariamente va abbinata con l'insurrezione o da essa nasce: l'importante è che abbia il consenso di buona parte della popolazione, senza il quale essa si estingue.

'· "Enciclopedia Militare ", Milano, Ed. Popolo d'Italia 1933, IV 368.


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Né è vero - o è sempre vero - che, come afferma Carlo Jean, la guerriglia "non è una particolare forma di guerra, ma un tipo particolare di operazione militare, svolta da forze sia regolari che irregolari in coordinamento con operazioni convenzionali e a loro sostegno o autonomamente a esse" 3 • Tutto dipende dal concetto di guerra: se essa viene concepita non come mero conflitto tra Stati, ma - più modernamente - come lotta armata tra gruppi organizzati (Bouthoul, Panebianco)4 oppure come "atto o condizione di violenza sociale o di gruppo mirante a raggiungere o difendere un obiettivo politico" (Buchan)5, evidentemente anche la guerriglia assurge a dignità di forma strategica di guerra e non solo di forma operativa, anche se in altri casi, può essere una forma operativa temporanea. Le recenti, vittoriose guerre nazionali e anticolonialiste del terzo mondo dimostrano solo una cosa: che la guerra di oggi non ha scherni fissi e che, in essa, né la guerra che chiameremmo classica, né la guerriglia hanno valenza fissa e definitiva. È un fatto, comunque, che quando le forze della guerriglia raggiungono un certo livello quantitativo e qualitativo, esse passano almeno in parte a operazioni rientranti nella guerra classica: Dien Bien Phu docet.... Non ci sembra esatta nemmeno l'affermazione del Jean che "le operazioni di guerriglia non si prefiggono in via prioritaria né di occupare territori, né di distruggere le forze nemiche, ma di conquistare il consenso della popolazione"6. Il consenso della popolazione è un mezzo, non un fine: lo scopo della guerriglia è evidentemente politico (anche se non necessariamente rivoluzionario) e il suo obiettivo militare consiste nell'arrecare il massimo danno al nemico, contendendogli il controllo del territorio; una volta perduto il controllo almeno parziale e temporaneo del territorio, la guerriglia si estingue. Per contro, il semplice controllo del territorio mantenuto dalla guerriglia per tempi prolungati può provocare la défaillance morale dell'avversario, e quindi il raggiungimento dei fini politici. La riprova di queste affermazioni volte a chiarire il quadro è fornita nelle pagine seguenti.

SEZIONE I - Guerra rivoluzionaria e esercito permanente negli scritti di Marx, Engels, Bakunin e Blanqui

Prima di indicare quali sono i nuovi autori italiani che dal 1848 al 1870 trattano della guerriglia e della guerra rivoluzionaria, è opportuno gettare un rapido sguardo alle idee che circolano oltr' Alpe. Karl Marx, Frederich Engels e Auguste Blanqui sono stati i maggiori rivoluzionari europei del

'· "Enciclopedia deLle Scienze Sociali" , Roma, 1st. Enc. lt. 1994, Voi. IV p. 490. • lvi, Voi. IV pp. 465-467. 5• "Enciclopedia del Novecento", Roma, 1st. Enc. It. 1978, Voi. Ili p. 470. 6 Enciclopedia delle Scienze Sociali", (Cit), Voi. IV p. 489.


Il - GUERRA RIVOLUZIONARIA, GUERRIGLIA E INSURREZIONE

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secolo XIX, e ne rappresentano rispettivamente l'anima tedesca e l'anima francese e latina: qual'è la loro posizione nei riguardi dell'insurrezione popolare, della guerriglia e più in generale delle forme militari che deve 11ssumere la rivoluzione? Molto brevemente si può affermare che le loro idee nei riguardi della guerriglia sono sotto diversi aspetti antitetiche rispetto a quelle del Mazzini e del Bianco e analoghe a quella del Pisacane (vds. prossimi capitoli V e Vl). Il loro approccio è ispirato da un freddo realismo, e da una concezione materialistica che poco spazio lasciano alla fede nei miracoli che dovrebbero essere compiuti da una spontanea e compatta quanto improbabile lotta armata popolare, sorretta solo dal numero e dall'entusiasmo. L' insurrezione delle città è solo la prima fase, l'avvio della guerra rivoluzionaria: quest'ultima per avere successo deve ben presto sfociare nella costituzione di un esercito di massa, che combatta l'esercito della borghesia adottando sostanzialmente la stessa strategia di origine napoleonica. In questo quadro, grande importanza assume la professionalità degli ufficiali, da scegliere esclusivamente per merito e non per grado di nobiltà. Naturalmente, nella mobilitazione dell'esercito rivoluzionario dovrà essere seguìto il modello di mobilitazione totale di tutte le energie della Nazione tipico dei primi anni della Rivoluzione Francese; solo nel lungo periodo, e quando la rivoluzione avrà trionfato, i nuovi rapporti sociali e di produzione e il progresso tecnico daranno vita a una nuova strategia con nuovi mezzi di guerra, capace di superare quella di matrice napoleonica. In questo quadro il ruolo della guerriglia è residuale: è solo una delle forme che può assumere la guerra rivoluzionaria e di popolo, e non la più importante. E se rimane almeno in parte un esercito permanente che - come nel caso della Rivoluzione Francese - possa fornire una prima intelaiatura al nuovo esercito di massa, tanto meglio ... Discende da questi orientamenti il giudizio di Marx e di Engels sulla guerra italiana del 1848-1849. Il Piemonte avrebbe dovuto condurre non una guerra con le modalità tradizionali, ma una vera guerra rivoluzionaria, totale e nazionale. Perciò i piemontesi commisero sin dall'inizio un gravissimo errore contrapponendo agli austriaci soltanto un esercito regolare e volendo condurre una delle solite, honnétes guerre borghesi. Un popolo che vuole conquistare la sua indipendenza non deve limitarsi ai soliti mezzi di guerra. Sollevazioni in massa, guerra rivoluzionaria, guerriglia dappertutto, ecco l'unico mezzo con cui un popolo piccolo può vincere uno grande.1 Per Marx e Engels, dunque, il carattere rivoluzionario della guerra non sta in una forma militare o nell'altra, ma nella mobilitazione di tutto il

' K. Marx - E hngels, :iul Risorgimento italiano, Roma, Editori Riuniti 1959.


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popolo e nel superamento dei vincoli anche umanitari della guerra regia, limitata sia negli obiettivi che nello strumento. Quest'ultima forma di guerra è da evitare prima di tutto in quanto inefficace, non solo e non tanto perché condotta al servizio degli interessi della monarchia. La guerriglia è un coadiuvante, uno dei tanti mezzi, come per il Balbo; non è certo il mezzo principale per ottenere l'indipendenza nazionale, anche perché Marx ed Engels non rifiutano affatto - in nome del trionfo della rivoluzione europea alla quale mirano - una guerra offensiva e di coalizione al di fuori dei confini nazionali. Essi ritengono che la rivoluzione non può essere innescata da movimenti armati, ma che se mai quest'ultimi ne sono la conseguenza. Eserciti rivoluzionari e guerra sono cioè il frutto della rivoluzione spontanea delle masse, non i suoi presupposti: così era avvenuto anche in Francia nel 1792-1973. Al tempo stesso, si guardano bene dal sottovalutare, in nome degli astratti imperativi dell'internazionalismo, l'importanza specie per i tedeschi dello spontaneo sentimento nazionale. Per questo si oppongono decisamente, nel 1848, all'ingresso dalla Francia in Germania di una Legione di emigrati polacchi e tedeschi che, con l'aiuto del Governo e dei rivoluzionari francesi, avrebbe dovuto portarvi la rivoluzione. Lungi dallo spingere il popolo tedesco a insorgere, una siffatta impresa avrebbe rischiato di cementare intorno ai governi reazionari e ai loro eserciti il sostegno popolare, come poi di fatto è avvenuto; il forte spirito nazionale del proletariato tedesco non poteva accettare una rivoluzione portata dallo straniero. In definitiva, per Marx e Engels il carattere rivoluzionario di una guerra deriva solamente dai suoi obiettivi e dal gr_ado di partecipazione popolare. Prima ancor che un mezzo per ottenere obiettivi politici e di classe, quest'ultima è vista alla maniera clausewitziana: cioè come un rinvigorimento del carattere della guerra stessa, come una condizione affinché essa abbia comunque successo. A ulteriore riprova della mancanza non tanto di qualsivoglia prevenzione di Engels nei riguardi della formula dell'esercito permanente, ma della sua netta preferenza per quest'ultimi, basti citare quanto scrive su Gli eserciti italiani del 1855 a proposito dell'esercito piemontese, di quello napoletano e degli altri minori8• I suoi elogi all'Esercito sardo sono persino eccessivi, quindi antitetici rispetto ai giudizi, spesso negativi, della maggior parte degli scrittori "laici" italiani del tempo: le istituzioni militari del Piemonte sono "molto buone"; di tutti gli Stati italiani, questo Paese "ha la migliore posizione per creare un buon esercito"; "l'esercito piemontese è bello e marziale come qualsiasi altro in Europa"; il suo sistema di reclutamento è caratterizzato da "una grande elasticità, che gli permette di accrescere e diminuire in ogni momento la forza sotto le armi, [e che] deriva da un sistema di reclutamento molto affine a quello della Prussia"; i bersaglieri sono "una fanteria leggera, ottimamente addestrata, assai più forte che in ogni altro esercito"; gli uffi' ivi, pp. 131-135.


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ciaJi piemontesi sono "altamente qualificati", e non è vero che sono tutti arislocratici. Al contrario, la guerra del 1848/1849 "ha lasciato sull'esercito una certa impronta democratica che non sarà facile distruggere", perciò " possiamo affermare con sicurezza" che la massa degli ufficiali inferiori si è guadagnata i gradi in guerra, "o che per lo meno non ha legami con l'aristocrazia". E dopo aver messo in evidenza che l'esercito piemontese si è battuto bene anche nel 1848/1849, Engels conclude che fino al 1848, una certa parte d'Italia ha guardato al Re di Sardegna come al futuro capo dell'intera penisola. Benché lungi dall'aderire a tale opinione, noi tuttavia crediamo che se l'Italia riconquisterà mai la sua libertà, le forze piemontesi saranno il principale strumento militare per raggiungere tale fine, e formeranno nello stesso tempo il nucleo del futuro esercito italiano. Dovranno sopportare, prima che ciò avvenga, più di una rivoluzione interna, ma gli eccellenti elementi militari che contengono sopravviveranno a tutto questo, e potranno anche trarre profitto dall'essere immessi in un esercito davvero nazionale. Gli altri eserciti italiani per Engels non contano niente; non vale rùente nemmeno l'esercito napoletano, "del quale meno si parla e meglio è. Non ha mai brillato gran che di fronte al nemico, e sia combattendo per il Re, come nel 1799, sia pure per la Costituzione, come nel 1821, si è distinto per le sue fughe ... ". Engels considera attentamente anche il peso determinante che il progresso tecrùco e i fattori economici esercitano sulla tattica e sugli ordinamenti militari, con argomentaziorù analoghe a quelle degli ufficiali sosterùtori del(' esercito permanente. Nel 1868 scrive che nulla dipende dalle condizioni economiche preesistenti quanto precisamente l'esercito e la marina. Armamento, composizione, organizzazione, lattica e strategia dipendono anzitutto in ogni epoca dal livello raggiunto dalla produzione e dalle comunicazioni. Qui hanno agito rivoluzionariamente non le "libere creazioni dell'intelletto" dei comandanti geniali [come sostiene Diiring - N.d.a.J, ma l'invenzione di armi migliori e la modificazione del materiale umano; nel migliore dei casi l'azione esercitata dai comandanti generali si limita ad adeguare la maniera di combattere alle nuove armi e ai nuovi combattenti.9 In proposito Engels cita anche un'affermazione del capitano di Stato Maggiore prussiano Max Jahns, secondo il quale "la base della guerra è in primo luogo la forma economica generale della vita dei popoli". A questa legge, come dimostra la guerra d'indipendenza americana 1775-1783, non •- F. Engcls, Antidurùig, Roma, Ed. Riuniti 1968, pp. 177-185.


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si sottrae nemmeno la guerriglia; alle rigide formazioni di fanteria portate ad alto grado di perfezione da Federico Il si opposero, nella guerra d'indipendenza americana, le schiere dei ribe11i che, pur non avendo istruzione, sapevano tirar meglio con le loro carabine a canna rigata, che combattevano per i loro più personali interessi, che quindi non disertavano come le truppe mercenarie e che non facevano agli inglesi la gentilezza di muover contro di loro alla stessa maniera, in linea e su piano aperto, ma procedevano in gruppi sciolti e rapidamente mobili di franchi tiratori e al riparo dei boschi. La formazione di linea [della fanteria inglese] era qui inefficiente e soggiaceva agli avversari, invisibili e inafferrabili. Fu riscoperta la guerriglia, nuovo modo di combattere dovuto a un mutamento del materiale umano [... ]. Solo un popolo di cacciatori, quali gli americani, poteva riscoprire la guerriglia, ed essi erano cacciatori per cause puramente economiche. Questi stessi Yankees dei vecchi Stati si sono [poi] trasformati in agricoltori, in industriali, in navigatori e in mercanti che non fanno più la guerriglia nelle foreste vergini....

Sempre secondo Engels, la Rivoluzione Francese ha completato la trasformazione della tattica e degli ordinamenti iniziata con la rivoluzione americana: ma l'ha fatto a tutto discapito della guerriglia, e con riflessi solo tattici. Infatti, ai ben addestrati eserciti a lunga ferma della coalizione dei suoi nemici la rivoluzione francese ha potuto opporre solo masse di cittadini - soldati poco addestrati [cioè la nazione armata-N.d.a.]: ma con queste masse si trattava di proteggere Parigi, quindi di coprire un territorio determinato e questo non poteva farsi senza una vittoria in una battaglia campale di masse. La semplice guerriglia non era sufficiente, doveva essere trovata un'altra fonna che permettesse l'impiego di masse e questa forma fu trovata con la colonna [ ... ]. Questo nuovo modo di combattere era dunque diventato necessario grazie soprattutto al mutato materiale umano fornito dalla Rivoluzione Francese.

Napoleone, che porta la nuova tattica alla perfezione, può comunque contare sia sull'artiglieria resa più mobile dal sistema Gribeauval, sia sul fucile con calcio ricurvo mod. 1777, che sul modello del fucile da caccia agevola il puntamento su un uomo singolo. Per Engels sono, insomma, le modifiche del!' elemento uomo indotte dall'economia e il progresso tecnico a dettare le forme di combattimento. Lo dimostra anche l'evoluzione degli armamenti navali, e in particolare [siamo nel 1868 - N.d.a.] il continuo aumento di potenza delle corazzate, delle quali egli prevede fin da allora il tramonto: noi non abbiamo nessuna ragione di arrabbiarci se vediamo come in questa gara tra corazza e cannone, la nave da battaglia raggiunge quel vertice di perfezione tecnica che la rende tanto esorbitante-


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mente costosa quanto inutilizzabile militarmente [a causa dei progressi dell'ultimo prodotto della grande industria, cioè la "torpedine autopropulsa" - N.d.a.] e come questa lotta riveli conseguentemente, anche nel campo della guerra navale, le leggi di quell' interno moto dialettico per cui il militarismo, come ogni altro fenomeno storico, sarà condotto alla rovina dalle conseguenze del suo proprio sviluppo. Anche qui noi vediamo con chiarezza che non è assolutamente vero che !'"elemento primitivo" debba "essere cercato nella violenza politica immediata e non solamente in una potenza economica indiretta". [affermazioni del suo avversario Diiring- N.d.a.] .Al contrario! Che cosa appare precisamente come l'" elemento primitivo" della stessa violenza? La potenza economica, la disponibilità dei mezzi della grande industria

Le considerazioni di questo materialista rivoluzionario tedesco fanno da utile antidoto sia al mito dei "regolari" del Fambri, che vede nei coloni americani della guerra d'indipendenza solo un'orda indisciplinata, sia alle teorie salvifiche e astratte dei democratici italiani sostenitori della nazione armata. Engels è ben lontano dalle interpretazioni di coloro che, persino dopo il 1945, :-:i sono ostinati a presentare la guerriglia come una sorta di passe-partout nel quale cercare la ricetta del successo o come cartina di tornasole per stabilire illusoriamente - fino a che punto una guerra è rivoluzionaria e popolare, e anzi moderna, democratica e progressista. Quella di Engels è un'interpretazione evolutiva: i progresso delle tecnologie e lo stato economico-sociale dei popoli dettano le strategie e tattiche migliori, senza preclusioni. Sono così uguahnente possibili le scoperte o innovazioni come le riscoperte, senza quei riferimenti fissi, quegli schemi che invece privilegiano sia il Fambri sia i suoi avversari. Per altro verso, potrebbe stupire un poco l'indulgenza e anzi l'apprezzamento sostanziale dei tedeschi Marx e Engels per il modello militare prussiano. In buona sostanza, la loro concezione militare non è che la sublimazione, l'estensione ai limiti estremi dei principi di mobilitazione generale di tutto il popolo senza eccezioni e esenzioni, applicati con successo dalla Prussia nel 1813 contro Napoleone. Per questo Engels nel 1865 scrive che "il servizio obbligatorio per tutti è la sola istituzione democratica che esiste in Prussia" e che "i nostri eserciti moderni non possono avere che due basi ben definite: l'arruolamento volontario, mezzo antiquato utilizzabile solo in casi eccezionali, come in Inghilterra, o il servizio militare obbligatorio. Tutti i sistemi di coscrizione o sorteggio non sono appunto che forme molto imperfette del servizio militare obbligatorio". E coerentemente con questa visione, Engels si impegna non tanto ad attaccare il militarismo prussiano o l"'universal caserma prussiana", come la definivano taluni scrittori italiani, ma a dimostrare che la monarchia e l'aristocrazia prussiane non vogliono realmente un esercito operativo basato sulla leva generalizzata, perché esso farebbe acquistare troppo peso alla piccola borghesia (dalla quale escono i Quadri intermedi) e alle classi lavoratrici, dalle quali escono i soldati1°. 10 ·

F. Engels, La questione militare e la classe operaia, Ed. Maquis 1977, pp. 43-65.


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Nonostante tutto, pur essendo acerrimo nemico sia dello statalista Marx che del militarismo, subisce il fascino del modello militare prussiano anche il celebre anarchico e agitatore russo Michail Bakunin. Esamineremo meglio, nel Vol. III, i contenuti di interesse militare del suo libro Stato e rivoluzione (1873): per il momento, ci limitiamo a riferire la sua interpretazione delle insurrezioni del 1848. Come Mazzini egli crede nelle rivolte popolari non spontanee ma organizzate, unico modo per contrastare quella grande forza che sono gli eserciti permanenti al servizio della monarchia. A suo avviso i radicali prussiani avevano trascurato l'unico mezzo che avrebbero potuto opporre alla forza dello Stato: "la forza rivoluzionaria popolare previamente organizzata". In tal modo il troppo facile trionfo delle rivolte popolari sugli eserciti, che segnò l'avvento della rivoluzione del 1848 in quasi tutte le capitali d'Europa, fu un danno per i rivoluzionari, non solo in Germania ma anche in tutti gli altri paesi, perché suscitò in loro la sciocca convinzione che sarebbe sempre stata sufficiente la minima manifestazione di popolo per spezzare ogni resistenza militare. A causa di tale convinzione i democratici e i rivoluzionari della Prussia e della Germania in generale, credendo che avrebbero sempre potuto, se necessari o, impaurire il Governo con un movimento popolare, non ritennero indispensabile né di organizzarlo né di orientarlo, senza parlare del potenziamento della passione e della forza rivoluzionaria del popolo".

Il socialista Auguste Blanqui rappresenta il punto di vista francese sulla gueqa rivoluzionaria; di lui va anzitutto ricordata la dura polemica del 1852 contro Mazzini, accusato di essere un nazionalista ita1 iano pseudorivoluzionario che vuole solo ricostituire la nazionalità italiana, fare dell'Italia una potenza di primo piano, di cui sarebbe il capo, ben inteso; stabilire la supremazia di questa potenza, crearle un esercito permanente, una flotta, un bilancio, in una parola tutti gli elementi di forza o di oppressione dei governi attuali, poi parlare ad alta voce nei consigli della diplomazia e soprattutto umiliare la Francia, perseguitarla, bloccarla, metterla al bando d'Europa, farla precipitare dal suo splendore materiale e morale (sic). 12

Blanqui dunque è - a sua volta - un vero nazionalista, nemico di chiunque , anche se rivoluzionario, desti il sospetto di voler far precipitare la Francia da quello "splendore" del quale lui stesso stranamente si mostra

" M.A. Bak.unin, Stato e anarchia (1873), Milano, Universale Economica Feltrinelli 1996, p. 186. 12 • A. Blai14ui, Socialismo e azione rivoluzionaria, Roma, Editori Riuniti! 1969, p. 140.


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assai poco soddisfatto, visto che vuol cambiarlo con l'insurrezione armata. Attacca Mazzini anche per la _sua pretesa idealistica di sollevare ]e masse in nome di alti ideali, quando esse sono disposte a battersi solo per avere pane e benessere, e per il suo orrore per tutto ciò che mira al riscatto sociale e ostacola il predominio borghese. Ma soprattutto, si lancia contro di lui perché ha attribuito alle idee socialiste di sovversione sociale il fallimento della reazione popolare al colpo di Stato di Napoleone ID nel dicembre 1851, quando invece "il movimento di dicembre è fallito per motivi puramente militari. Non si sono trovati né generali né soldati quando è stato necessario combattere, ma truppe spaventate". Prevedibilmente il Blanqui vede nell'esercito permanente francese a lunga ferma il principale nemico del proletariato (con ciò stesso ammettendone, però, l'efficienza) e nel programma del 1870 ne invoca l'abolizione (beninteso: nella forma del momento) accompagnata dalla formazione di un "esercito nazionale sedentario" e "dall'armamento generale degli operai e deBe popolazioni repubblicane". Sta di fatto che nel 1871 è stato uno dei principali capi e animatori della Comune di Parigi; e nelle Istruzioni per un 'insurrezione armata del I 86813 sviluppa tesi che hanno molti punti di contatto con quelJe di Marx ed Engels e dello stesso Mazzini, partendo da due presupposti: a) un'insurrezione popolare parigina secondo i vecchi metodi non ha più alcuna probabilità di successo, perché il governo ha studiato attentamente le rivolte di piazza e ha adottato tutte le contromisure militari più opportune; b) l'insurrezione spontanea e la resistenza da parte di forze non disciplinate, frazionata e non col1egata dietro le numerose barricate spontaneamente sorte qua e là, è destinata a soccombere, perché dà modo alle forze governative di concentrarsi di volta in volta contro ciascun focolaio di resistenza, eliminandoli progressivamente tutti. Di conseguenza "la tattica, o piuttosto l'assenza di tattica" da parte di codeste insurrezioni, nelle quali ciascuno fa quello che vuole e combatte solo nel suo quartiere senza alcun contatto con altre posizioni, è funesta "davanti a un militarismo violento, che ha ora al suo servizio le formidabili conquiste della scienza e della tecnica, le ferrovie, il telegrafo elettrico, i cannoni rigati, gli chassepots [nuovi fucili francesi a retrocarica - N.d.a.]". I soldati combattono le guerre civili controvoglia e costretti dalla disciplina spietata, obbediscono solo alla paura e sono incapaci della minima iniziativa; tra le file del popolo, invece, ci si batte per un'ideale e si superano i soldati anche per intelligenza. Per vincere, però, mancano l'unità e l'insieme che fecondano, facendole concorrere al medesimo scopo, tutte queste qualità, rese impotenti dall'isolamento. Manca l'organizzazione. Senza organizzazione, nessuna possibilità di successo. L'organizzazione è la vittoria; la dispersione, la morte. [ ...]. L'esercito ha sul popolo soltanto due grandi vantaggi, il fucile Chas-

a

A. Blanqui, Socialismo ... (Cit.), pp. 249-256.


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sepot e l'organizzazione. Quest'ultimo [vantaggio] soprattutto è immenso, irresistibile. Fortunatamente glielo si può togliere e, in questo caso, la superiorità passa agli insorti.

L'organizzazione vale più delle superiorità dell'armamento da parte dell'esercito. L'artiglieria in città fa più rumore che danno, l'impiego de1la granata a mano presenta numerosi inconvenienti e può essere sostituito con efficacia quasi pari dal selciato; l'arma per eccellenza degli insorti è perciò il fucile. All'interno delle case valgono le pistole e le armi bianche e in un assalto la picca, la spada o la partigiana da otto piedi avrebbero la meglio sulla baionetta. Né - a suo giudizio - rappresentano un vantaggio per l'esercito governativo i nuovi boulevards, cioè le celebri "strade strategiche", diritte e larghe, del barone Haussmann, che solcano la città di Parigi in tutte le direzioni, ma sono impraticabili sotto le sparatorie delle case ai lati e rappresentano in sostanza un vantaggio per la difesa. Il rimedio che Blanqui propone ha molte analogie con le tesi dei sostenitori della superiorità dell'esercito regolare: con i vecchi metodi tutto il popolo soccomberebbe se la trnppa volesse resistere, ed essa resisterà fioche non avrà di fronte se non forze irregolari, senza direzione. Al contrario, la vista di un esercito parigino ben ordinato, che manovra secondo le regole della tattica, stupirebbe i soldati e ne farebbe cadere la resistenza Inostre sottolineature - N.d.a.].

Si tratta dunque di improvvisare un' organizzazione militare sul campo di battaglia, seguendo il modello delle antiche repubbliche greche e di quella romana: nelle repubbliche dell'antichità, fra i greci e i Romani, tutti conoscevano e praticavano l'arte della guerra. Il militare di professione era una specie sconosciuta. Cicerone era generale, Cesare avvocato. Lasciando la toga per l'uniforme, il primo venuto si trovava colonnello o capitano e ferrato a freddo all'istante. Finché non avverrà lo stesso in Francia, noi resteremo borghesi fatti a pezzi a lor piacere dagli ufficiali di carriera [nostra sottolineatura - N.d.a.].

A questo punto Blanqui critica aspramente i giovani istruiti, operai e borghesi, che per spezzare "il giogo aborrito" pensano di prendere la penna e solo la penna e non la penna e la spada, come è dovere di ogni buon rivoluzionario: ebbene, nulla! si fa un giornale, si va in prigione, e nessuno pensa ad aprire un libro di manovre, per imparare in ventiquattr'ore il mestiere che costituisce tutta la forza dei nostri oppressori e che ci darebbe la vendetta e il loro castigo.

Un'organizzazione militare presuppone un Comando unico, e, "fino a


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un certo punto", anche ufficiali dei vari gradi. I borghesi rivoluzionari e socialisti oltre a saper combattere solo con le penna, sono anche rari: mancano i Quadri per fonnare un esercito? Ebbene! bisogna improvvisarli sul terreno anche durante l'azione. Il popolo di Parigi fornirà gli elementi, ex-soldati, ex-guardie nazionali. La loro rarità costringerà a ridurre al minimo il numero degli ufficiali e sottufficiali; non importa, lo zelo, l'ardore, l'intelligenza dei volontari compenseranno questa mancanza, l'essenziale è di organizzarsi a qualunque prezzo. Basta con queste sommosse tumultuose di diecimila uomini isolati, che agiscono a caso, in disordine, senza nessun pensiero unitario, ciascuno nel suo angolo e secondo la propria fantasia! Non più barricate a dritta e a manca, che fanno sprecare tempo, ingombrano le strade e ostacolano la circolazione necessaria all'uno e all' altro partito. Il repubblicano deve avere libertà di movimenti tanto quanto le truppe. Le idee del Blanqui fanno apparire ben chiare le peculiarità della situa,.ione de]la Francia, dove anche la rivoluzione è centralista, perché basta sollevare il popolo di Parigi per sollevare la Prancia. Tuttavia, insieme con quelle di Marx e Engels esse dimostrano da un lato quanto sia errato - ieri e oggi - far coincidere la guerra rivoluzionaria solo con l'insurrezione spontanea o con la guerra partigiana, e dall'altro quanto quest' ultima in Europa specie dopo gli avvenimenti del 1848-1849 abbia perduto ogni sua prospettiva di diventare la carta vincente e sostitutiva degli eserciti regolari e della strategia classica.

SEZIONE II - Esercito regolare e guerriglia negli scrittori italiani Da un punto di vista strettamente tecnico-militare, dopo il 1848 in fatto di teorie della guerriglia c'è ben poco da inventare ancora. Non può, dunque, stupire più di tanto se nel periodo considerato le due maggiori opere italiane su questo argomento - alle quali si aggiungono alcuni studi minori - contengono pochi spunti teorici e tecnici originali. Esse sono nondimeno interessanti, per tre ragioni: perché rispecchiano anche l'esperienza spesso amara delle guerre d' indipendenza, perché intendono ambedue fornire gli strumenti pratici per evitare che le migliori qualità dei volontari vadano malamente disperse come nel 1848-1849, e perché sono dovute a due uomini (l' agitatore siciliano e generale garibaldino Giuseppe La Masa e il colonnello inglese garibaldino Ugo Forbes) i quali senza dubbio posseggono quell'esperienza diretta che era spesso mancata - non per loro demerito - ai teorici della

guerriglia della Restaurazione, a cominciare dagli stessi Mazzini e Bianco.


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Quest'esperienza intendono trasfonderla ad altri, per preparare meglio i futuri cimenti: non si tratta dunque di due opere teoriche vere o proprie, ma di testi che sono una via di mezzo tra il lavoro di propaganda, il manuale e l'istruzione, e come tali vanno studiati e interpretati.

La fusione tra forze regolari e guerriglia nel libro del La Masa "Della guerra insurrezionale tendente a conquistare la nazionalità" ( 1856)14 Il siciliano Giuseppe La Masa, uno dei capi della rivoluzione siciliana del 1848, gregario di Garibaldi nella spedizione dei Mille e organizzatore deHa squadre dei picciotti siciliani, con il suo libro intende diffondere tra i patrioti un "sistema di guerra insurrezionale, adatto a conquistare la nazionalità nostra", precisando che il concetto fondamentale che vi viene esposto "ha l'adesione di quasi tutte le nostre notabilità politiche e militari che risiedono in Piemonte" 15 (per questo viene ritenuto uomo di Cavour in Sicilia). A tal fine intende fondere insieme l'apporto delle forze regolari e quello dei cittadini combattenti, opportunamente organizzati in bande di guerriglieri che agevolano e facilitano le operazioni dell'Esercito. Nega infatti che con le sole armate regolari si possa conquistare la indipendenza ·(le guerre di Spagna, di Grecia, di America dimostrano il contrario) e constata che "nei tempi a noi vicini" vi sono state anche nazioni che "senza o con poche truppe regolari" hanno ugualmente cacciato lo straniero: ma questo obiettivo - particolarmente nel caso italiano - verrebbe raggiunto meglio e soprattutto in breve tempo con la disponibilità di forze regolari. · Di qui la sua insistenza sull'abbinamento delle due componenti; così facendo ha davanti agli occhi la guerra del 1848-1849, quando cadde l'Italia sotto il giogo che aveva spezzalo, perché delle due grosse armate, che in essa si mantengono [gli eserciti piemontese e napoletano - N.d.a.], una si mostrò alleata con lo straniero, e l'altra non ebbe l'ardimento di abbracciare insieme co' popoli, che glie le offrivano, le rivoluzioni dei diversi Stati, e combattere con l'aiuto delle loro bande il comune nemico [ ... ]. L'istessa sventura si ripeterà sempre dove in simili casi le truppe regolari e i cittadini non armonizzano pienamente fra loro nella fiducia e nella azione' 6•

Quindi, a parere del La Masa coloro che "portando ad esempio la disorganizzazione del passato rivoluzionario italiano" sostengono che le sole

14 ·

Torino, a spese dell'autore 1856. Cfr. anche E. Liberti, Op. cit. pp. 308-314.

" ivi, p. XXII. 16 · ivi. pp. 11-12.


II - GUERRA RIVOLUZIONARIA, GUERRIGLIA E INSURREZIONE

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forze regolari possono risolvere il problema dell'indipendenza nazionale, sono in errore: volendosi anche ridurre in solo esercito regolare ogni elemento belligero e rivoluzionario, si ammortizzano di egual maniera le principali forze nazionali, l'entusiasmo generale e lo spirito guerriero si spengono, e tutto si concentra su una parte che è inabile a difendere dalle forti invasioni la Patria.

Al contrario, come dimostra la guerra di Spagna, la vittoria piena e definitiva può essere ottenuta in breve tempo solo con ambedue le componenti, cioè con un forte esercito regolare appoggiato dai guerriglieri che molestano ai fiànchi e alle spalle al nemico. E qui il La Masa cita sia il 13aJbo (Vol I, cap. XI) che il francese De Corvey, secondo il quale in Spagna se gli spagnoli di cui noi occupavamo le principali città avessero potuto concentrare un'armata nazionale comandata da capi affezionati, questa armata riunita ai corpi di guerrillas avrebbe potuto scacciare più celermente il nemico17•

Di conseguenza "noi tratteremo della guerra regolare in quella p_arte l:he potrà avere rapporto coi partigiani e coi comuni, onde tessere all'azione quell'unità che è la principale base, su cui si possa innalzare un'opera esatta e utile di guerra". Ciò premesso, il leit-motiv che percorre le sue pagine è l'organizzazione, quell'organizzazione che appunto è mancata nella guerra del 1848-1849, nella quale le principali cause del fallimento delle rivoluzioni furono la mancanza di organizzazione nelle armi, la poca o nessuna istruzione militare nei rettori delle rivoluzioni, il bisogno non concepito della solidarietà dei popoli insorti. Ciascuna parte di Europa rivoluzionaria ebbe forza di vincere nel primo stadio, in quello della sommossa, perché anche senza organizzazione questa prima vittoria può riportarsi sulle masse regolari dai popoli; nel secondo stadio però, in quello della guerra, le rivoluzioni caddero, perché i despoti avevano lo scudo degli eserciti disciplinati, reso adamantino dalla disorganizzazione delle masse popolari e dalla divisione di esse colle truppe disciplinate. 18

Oltre all'organizzazione, un altro cardine delle teorie del La Masa è la disciplina; su questo punto egli concorda con il generale Allemandi, secondo il quale i volontari arruolati in varie parti d'Italia nel 1848-1849, pur mancando di organizzazione regolare e di disciplina e con capi improv-

ivi, p. 16. "· ivi, p. 3.

17 ·


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visati, hanno ugualmente dimostrato valore e abnegazione ammirevoli. Ma questa eccezione non deve servire da regola: "le truppe volontarie sarebbero in seguito, senza dubbio cadute in dissoluzione, perché mancanti d'organizzazione regolare e di disciplina"' 9• Questo perché gli ordinamenti militari "improvvisati alla cieca, senza esame, e senza coscienza" producono solo confusione, disordine e diffidenza. Per il La Masa prima di dichiarare una guerra nazionale (velata critica al Mazzini) occorre ponderarne attentamente le conseguenze, valutare i danni e i sacrifici che essa comporta, trovando rimedi aderenti alla realtà e alla natura umana e non "in modo fallace, pauroso, diplomatico o fantastico". Infatti è cecità peggiore di un tradimento il gittare, senza esame e coscienza nei terribili sforzi della guerra, una nazione . Una sommossa può iniziarsi dal nulla e compiersi celermente con la potenza di un popolo una guerra contro uno straniero potente ha bisogno di eserciti, di popoli armati e di organizzazione. Unità di comando nelle armi, governi militari e stati d'assedio per tutta la nazione; quindi non parlamenti, non circoli, non giornali -. niente altro che i bollettini del Comando generale e i giornali ufficiali [...] È questo il nostro programma generale... 20

In questo quadro egli intende occuparsi solo della seconda fase dell'insurrezione, quella più difficile nella quale si deve affrontare la reazione del1' esercito nemico e quindi è necessario dare un ordinamento militare all'intera nazione insorta. Per la prima fase, che si riassume nell'insurrezione delle singole città e nella loro difesa, riporta in appendice all'opera un lavoro inedito compilato dal patriota milanese Riccardo Ceroni nel 1849, il "Progetto per costituire in istato di difesa permanente le città del Lombardo-Veneto e dei Ducati che si conquisteranno sul difensore austriaco", recante sia le procedure (costituzione di una Commissione che previa ricognizione compili un dettagliato piano di difesa) sia gli accorgimenti di vario ordine da seguire. Per la seconda fase dell'insurrezione, i criteri generali per l'azione combinata delle forze della guerriglia e dell'esercito regolare sono compilati dal La Masa facendo continuo e puntuale riferimento agli scritti di Cesare Balbo(Vol. I - cap. Xl), del quale riporta anche l'opuscolo del 1827 sulla guerra difensiva nella penisola. Come Balbo, parte dalla constatazione che il terreno montuoso, rotto e coperto tipico della penisola favorisce una guerra nazionale, e in particolare la costituzione e l'azione di "bande e comuni armati", ai quali vanno aggiunti gli eserciti regolari dei singoli Stati. Infatti (progetto troppo ottimistico)

1 • ivi, p. 136. "' ivi, p. 147.


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le annate regolari [dei vari Stati italiani] le consideriamo come nostre perché la prima parte della rivoluzione vittoriosa farà nazionali per amore o per forza i battaglioni che ora sono nemici a' loro conterranei. Queste truppe riunite formeranno il nucleo dell'esercito regolare, che deve servire di centro e di sostegno alla guerra21• I lineamenti d'azione strategica e tattica delle forze nazionali e i compiti generali deU'esercito regolare e della guerriglia sono così definiti: faremo sorgere distinti dalle masse confuse questi elementi di bande e di comuni con quegli ordinamenti che possono farli agire nel modo più franco e naturale, e collegarli all'unità d'azione colle truppe regolari. Così gli uni appoggeranno gli altri. L'armata regolare farà suo teatro d'operazione le pianure della Lombardia e del Veneto che formano il centro dell'Alta Italia. I Partigiani in colonna, unitamente ai distaccamenti dell'esercito ed ai comuni armati, difenderanno la parte montuosa del Tirolo, del Cadore e del Friuli. Il nemico, combattuto nel centro dalle masse regolari e rinculato nella circonferenza, viene molestato e rotto dai partigiani, i quali in terreni montuosi possono facilmente di giorno e di notte combatterlo con ogni vantaggio, senza compromettersi in azioni non convenienti alla loro tattica. I rinforzi di uomini e munizioni sono del pari combattuti dai partigiani, e possono essere o vinti o preda delle loro armi, ovvero stancati, posti in disordine e in ritardo nei loro disegni strategici e nelle loro marce tendenti al ricongiungimento22• Come il Mazzini e il Bianco, anche il La Masa parte dal presupposto ben noto che gli eserciti regolari, costituiti e addestrati per affrontare battaglie campali a forze riunite, sono estremamente vulnerabili alla azione dei partigiani, tanto più in un terreno come quello italiano: sappiamo ancora come le truppe regolari, trovandosi in terreni montuosi e combattute dalle guerriglie, fanno divenir principa1e quella parte che è secondaria nella guerra metodica, e ricorrono spesse volte alla piccola guerra per sostenere in faccia al nemico le masse delJ' esercito. Sicché [quando] noi adoperiamo, oltre all' armata regolare nei terreni aperti, l'arte dei partigiani come principale nei luoghi montuosi e frastagliati che formano la parte maggiore <l'Italia, non solo seguiremo l'esempio di quanto per istinto hanno operato le nazioni, ma useremo ancora del consiglio che additano ai loro seguaci i dotti militari contrari alla guerra dei popoli [come Jomini e i suoi seguaci N.d.a.]. In questo modo utilizzeremo a nostro vantaggio tutto ciò che hanno i nemici colla loro esperienza e colle dottrine insegnato ai loro eserciti, traendolo dal modo medesimo di combattere del popolo. Diciamo tolto dal popolo, perché organizzando la piccola guerra, i

,1. ivi, p. 10. "- ivi, p. 13.


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militari non hanno fatto che regolarizzare quella dei partigiani, ossia bande, essendo costretti dal terreno a trasandare la teoria delle grandi operazioni, ed a ricorrere, come unica risorsa, alla guerra combattuta alla spicciolata23•

In questo approccio teorico, la guerriglia o "piccola guerra" ha pari dignità rispetto alla "grande guerra" e non è che un adattamento dell'arte militare al terreno e alle caratteristiche dei combattenti, anche se il pensiero militare ufficiale non l'ha considerata a sufficienza perché "i sostenitori del dispotismo che hanno bisogno solamente dell'arte degli eserciti per tenere soggette le nazioni, non hanno voluto dar forma e sviluppo ad un elemento che non trovano utile alla loro forza, anzi contrario"24 • A questo punto, il La Masa polemizza con le idee espresse "in un estratto del giornale d'Austria, che troviamo trascritto nel Decker" (Cfr. Vol. I, cap. XIV sz. I) a proposito della piccola guerra: noi osserviamo che se il giornale d'Austria pretende che per piccola guerra non debba intendersi né quella dei posti avanzati, né quella delle vanguardie, né quella dei distaccamenti e corpi isolati, a qual corpo e a qual modo appartiene dunque la piccola guerra? Siccome non giova ed è anzi contrario agli eserciti sostenitori di tirannide il dirlo, si contentano meglio di cadere nelle contraddizioni e neJle inesattezze, che confessare di appartenere la piccola guerra esclusivamente ai popoli armati e alle loro guerriglie, cioè alla guerra insurrezionale2'.

Qui il La Masa prende un abbaglio, almeno a proposito di quanto veramente scrive il Decker: perché - come già abbiamo detto - il colonnello prussiano non sottovaluta affatto la guerra partigiana né afferma che essa non fa parte dell'arte della guerra: intende solo distinguerla dalla piccola guerra. Quest'ultima comprende 1e operazioni di guerra svolte da piccoli reparti di truppe regolari con modalità stabilite per regolamento, chiamate secondarie perché coadiuvano e proteggono l'azione della massa principale dell'esercito. Per non confonderla con tali operazioni, secondo il Decker la piccola guerra andrebbe denominata "guerra fatta in piccolo", precisando che essa - come la guerra insurrezionale del La Masa - non è soggetta ad alcuna regola e ha l'unico scopo di "colpire in misura sensibile il nemico nei punti dove non può portare masse considerevoli, tenerlo sul chi vive, molestarlo, affaticarlo, togliergli i viveri e tutto questo senza correre grossi pericoli ...". Anche il colonnello prussiano, come il La Masa, lamenta che non si attribuisce alla guerra partigiana tutta l'importanza che ha... L'unica rilevante differenza rispetto a quest'ultima è che egli si muove in una pro-

23 · ivi, p. 15. " ivi, p. 101. 25 ivi, p. 102


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spettiva esclusivamente militare, e vorrebbe la guerra partigiana fatta da militari o almeno diretta da militari. Il sistema di direzione politica, l'organizzazione di comando, gli ordinamenti dei reparti partigiani, l'organizzazione addestrativa e scolastica ecc. che corrispondono all'impostazione generale della guerra nazionale del La Masa ricordano, in parecchie loro parti, le soluzioni indicate dal Pisacane (si veda il successivo cap. V) e dal Pepe (Vol. I. cap. XIII), con la differenza fondamentale che, ovviamente, egli crede assai più del Pisacane e del Pepe 11clla guerriglia e considera la monarchia piemontese il perno della lotta per l'unità nazionale, proponendo la nomina dello stesso re di Sardegna a ditlatore militare. L'ordinamento politico e militare sottostante da lui proposto ubbidisce a tre esigenze fondàmentali: l'unità di azione, il controllo militare I.! la stretta disciplina dei reparti della guerriglia, anche "per serenare l'animo ai paurosi che nei partigiani vedono i masnadieri e peggio". Il re è assistito da un "Consiglio Ministeriale" del quale fa parte un rappresentante per ciascuno degli Stati insorti, a sua volta eletto da un "Consiglio Centrale di guerra degli Stati insorti". Quest'ultimo - composto da due membri per ciascun Stato - è 1'organismo più importante; elegge lo Stato Maggiore Generale dell'Esercito in guerra, gli "Stati Maggiori divisionali o sub-divisionali degli Stati insorti" e i comandanti dei distretti. Gli ufficiali eletti non devono essere stranieri, devono essere conosciuti dai citLadini e avere la loro fiducia. I partigiani non hanno "né un comandante generale, né i comandanti delle divisioni e suddivisioni di essi, per la ragione che ciascuna parte del paese che entra nel teatro di guerra sarà comandata dagli uffìziali superiori delle truppe regolari, e però dal comandante generale delle Armi". I fondi necessari per la guerra nazionale sarebbero raccolti con un "Prestito Nazionale" forzoso, al quale parteciperebbero tutti i cittadini agiati, ivi compresi gli ecclesiastici. Le forze militari sarebbero ordinate su: - forze regolari, suddivise in esercito attivo provvisorio (400.000 uomini) e esercito di riserva (200.000 uomini). A tal fine, l'esercito di 200.000 uomini dei vari Stati disponibile fin dal tempo di pace sarebbe completato con la coscrizione obbligatoria; - milizie mobili volontarie (o partigiani mobili) (1/4 dell'esercito), destinata a operazioni coordinate con quelle dell'Esercito. Queste ultime sono divise in colonne, guerriglie e squadriglie. Ogni colonna è composta da 8 guerriglie; ogni guerriglia da 12 squadriglie; ogni squadriglia da lO uomini. Tutti avrebbero una divis~ e un armamento uniforme (fucile corto con baionetta). Sono considerate come corpi appartenenti all'esercito; . - milizie distrettuali volontarie o partigiani distrettuali, che tranne casi eccezionali combattono le truppe nemiche solo quando si trovano sul loro territorio, formano una sorta di riserva per i partigiani mobili e servono soprattutto quali informatori, guide, esploratori, fiancheggialori e retroguardie di quest'ultimi;


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- milizia urbana obbligatoria, composta da tutti i cittadini capaci di portare le armi: ha il compito di mantenere l'ordine interno. Non manca un breve accenno alla Marina, che "riunendo sotto un comando nazionale i materiali e gli uomini che servono attualmente negli Stati diversi, è sufficiente a fornire una forza ragguardevole per l'inizio gigantesco della nostra impresa; e quando e dove sarà necessario rinforzarla e ringrandirla, ha essa tali elementi idonei ed estesi da farci riposare tranquilli sull'effettuazione celere ed esatta di quanto si richiede per questa parte utilissima dalla forza militare"1.6. La formazione organica più originale prevista dal La Masa è quella dei "distaccamenti dell'Esercito da mettersi in promiscuità coi volontari mobili", composti da fanteria e cavalleria. Senza molta coerenza, visto che in altra parte del testo definisce la guerriglia un modo naturale e istintivo di combattere, il La Masa tratteggia compiti e caratteristiche di queste speciali unità come segue: questo corpo lo faremo servire da anello tra le truppe regolari, e i volontari mobili e distrettuali. Per la sua formazione deve mirarsi al talento e istruzione militare non comuni negli uffiziali e all'esatta disciplina nei soldati. Questo corpo è il capo che fa muovere tutte le altre frazioni organizzate dei volontari che lo circondano; è l'elemento che deve dirigere e militarizzare la nazione combattente. Non è per mettere in esecuzione la teoria della grande guerra , che richiedonsi ufficiali istruiti nella scienza militare; è per metterli alla direzione di un metodo che ha per primo vantaggio le risorse, e pel più forte strumento i popoli organizzati, è vero, ed ardenti di guerra, ma nuovi e ignoranti nell'arte del combattere [ ... ]. Le più grandi risorse che sono immense nella guerra combattuta alla spicciolata da una Nazione passano non di rado inosservate dai condottieri di guerriglie, privi d'istruzione militare, laddove difficilmente possono sfuggire alla vista di chi conosce o per teoria, o per pratica l'arte del combattere. Per evitare tutti gli inconvenienti che nascer potrebbero nella guerra combattuta dai popoli, in ciò che riguarda l'istruzione, la disciplina e il comando, destiniamo in ogni distaccamento uno Stato Maggiore all'immediazione del comandante in capo21•

Con qualche concessione in più all'importanza e efficacia della guerriglia, il libro del La Masa non è , in sostanza, che una "variazione sul tema" e un approfondimento - vivificato dall'esperienza bellica - delle teorie di Cesare Balbo (Vol. I cap. XI)_ Identica è la matrice politica di riferimento, l' union sacreé sotto la monarchia piemontese; vi si trovano a volte - ma sempre fuggevolmente - anche Guglielmo Pepe e Carlo Pisacane.

26 ·

21.

ivi, p. 39. ivi, pp. 125-126.


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Per altro verso, il libro del La Masa precorre e teorizza quel coordina111cnlo tra le due componenti, che grazie all'intelligente opera di Cavour e ;dia disponibilità di Garibaldi viene raggiunto nel 1859-1860 in modo uncora imperfetto, ma in misura pur sempre maggiore di quanto avviene 11t lle guerre precedenti e seguenti. Al La Masa, comunque, sfugge che solo 1111 grande esercito nazionale avrebbe potuto risolvere definitivamente 1111 • antinomia che invece rimane sullo sfondo.

li "Compendio del volontario patriottico"(l854) del colonnello inglese w 1ribaldino Ugo Forbes12, Come dice lo stesso titolo, questo libro del colonnello inglese Ugo 1:orbes - combattente nelle file garibaldine come comandante di colonna e

di Legione sia nel 1848/1849 che nel 1860 e 1867 - ha il dichiarato aspetto di un manuale, quindi risponde a finalità eminentemente pratiche e diremmo quasi morali . Sulla base di una ragguardevole esperienza diretta al comando di volontari, con l' empirismo tipico della mentalità inglese il Forbes intende ~ondensare in poche pagine tutte quelle nozioni e quei concetti che possono ,neglio servire ai futuri ufficiali dei volontari e ai volontari stessi, dando loro ciò di cui, nella guerra del 1848-1849, hanno dimostrato di aver più bisogno: istruzione, disciplina, organizzazione. Lo stesso Forbes descrive come è nato il suo lavoro (finora ingiustamente ignorato sia dalla letteratura militare "scolastica" che da quella "laica" anche dopo il 1945, e stranamente non citato nemmeno dal Liberti): I primi cenni per questo lavoro furono scritti nell'inverno del 1849, continuandoli giornalmente a grado a grado ch'io vedeva quei punti sui quali i volontarii avevano più particolarmente d'uopo di spiegazione e consiglio. Una considerevole parte delle note fu compilata mentre che avevo il comando della Seconda Legione Italiana nella ritirata da Roma ali' Adriatico sotto il Generai Garibaldi nell'estate del 1849. Alcune circostanze però m'impedirono di dare a' miei appunti la forma di libro prima dell'autunno 1851. La pubblicazione della prima edizione fu cominciata in dicembre 1853: ed una seconda edizione nel 1855 in due volumi con numerose incisioni in acciaio. Un piccolo volume di estratti fu pubblicato nella primavera del 1857 onde metterne una certa qual porzione, in formato economico, alla portata di tutti. Poco si supponeva in allora che un grandioso movimento di volontarii dovesse sorgere in Inghilterra ed in Italia. La prima parte dell ' opera tratta di guerra d'insurrezione, irregolare, cioè GUERRIGLIA; il rimanente è dedito a ciò che si chiama GUERRA

28 · Napoli, Samperia Nazionale 1860 (ciò significa che l'edizione 1860 del libro è stata Mampata nell'ex-Stamperia Reale di Napoli subito dopo l'entrata nelle città delle truppe garibaldine).


IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

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REGOLARE, e particolarmente al servizio degli uffiziali di battaglione, di modo che, quando l'energia della nazione è chiamata in vigore per resistere ad un'invasione, i volontarii dei Corpi irregolari ed i regolari possano conoscere il servizio speciale d'ogni branca della difesa pubblica, ed i modi diversi di vicendevolmente assistersi l'un l'altro. In autunno 1853 vi aggiunsi i'APPENDICE, per il motivo che molti potrebbero essere i giovani patrioti che si trovassero al comando di un battaglione, ed essere obbligati di manovrare con altri battaglioni in una brigata; oppure, potrebbe un uomo inesperto trovarsi al comando d'una piccola forza distaccata, composta d'infanteria, cavalleria ed artiglieria, ed in tal caso gli sarebbe necessario qualche schiarimento sui modi di utilizzare quelleArmi.29 ·

La traduzione italiana riduce, in alcune parti, il testo originale inglese. All'inizio del libro figura l'approvazione di Garibaldi, che lo definisce "adattatissimo a' nostri volontari", e nel contempo ricorda che alla Convenzione dei Delegati delle varie Società Liberali del 19 luglio 1854 ha approvato l'opera (già esistente in inglese e in italiano) e ha fatto voti affinché fosse tradotta anche in francese e tedesco, "essendo la più pratica di quelle conosciute dalla convenzione, ed essendo indispensabile per i Volontarii Patriottici". Infine, si aggiunge che "quest'opera ottenne in America il soprannome di Bibbia de· Volontarii, e le autorità militari, non che quelle della scuola militare, hanno dichiarato che dovrebbe essere non solo nelle mani de' Volontarii, ma di ogni militare in qualunque siasi ramo del servizio". Questa autoesaltazione persino eccessiva, e l'accenno ai fatto che il libro - non si stenta a crederlo - è stato particolarmente apprezzato in un Paese che, come gli Stati Uniti di allora, basava la sua difesa soprattutto sulla rapida mobilitazione di un esercito di milizia, hanno una loro ragion d'essere nei contenuti e nelle finalità del libro. Se Garibaldi poco o nulla si era occupato di questioni organizzative e logistiche, concentrando le sue energie sullo sfruttamento dell'unica grande caratteristica delle truppe volontarie, l'entusiasmo, il Forbes prende spunto soprattutto dalle amare vicende della guerra 1848/1849 per agire sui cuori e sullo spirito prima ancor che sulle menti dei volontari, e per convincerli che non bastano l'entusiasmo e il valore individuale. In questo contesto, per il Forbes guerra regolare e guerriglia non sono due forme di operazioni escludentesi a vicenda e coincidenti rispettivamente con la guerra degli eserciti dinastici o regia, e con quella dei popoli che vogliono abbattere i tiranni: clausewitzianamente sono invece due momenti diversi, due forme che si integrano a vicenda della guerra che un popolo deve sostenere per conquistare la libertà. In tal modo egli mira ad evitare che l'avversione politica agli eserciti regolari, che sono anche dina-

29

ivi, pp. 2-3.


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Miei, si trasformi solo per questo fatto in avversione per la guerra campale e per il severo addestramento che richiede, poco amato da uomini valorosi, 11w spesso abituati agli agi borghesi, come sono i volontari. E come per il Mazzini, anche per il Forbes la guerriglia è l'arma del più debole, un Nistema naturale di lotta adatto per un popolo appena insorto, quindi senza poter avere - per il momento - né capi militarmente competenti, né armi, né 11n qualche ordinamento militare ben definito. Se, in queste condizioni, i volontari insorti affrontassero gli eserciti permanenti pretendendo di condurre una guerra regolare, sarebbero facilmente debellati; per questo sul frontespizio del libro campeggia il detto del generale Dufour, condottiero delle milizie svizzere nella guerra del Sunderbund, che "per formare un l'Scrcito non basta raccoglier uomini, e mettere le armi in mano ad essi". Per questo, con logica solo apparentemente paradossale il Forbes giunge ad uffermare che le armi - eterna preoccupazione dei capi degli insorti d'ogni lcmpo - sono persino dannose all'inizio, quando le "teste calde" sempre presentì nelle poche e deboli bande partigiane appena formatesi potrebbero spingerle ad affrontare prematuramente le truppe regolari, andando così incontro a sicura distruzione.30 Discende da queste premesse un'empirica teoria dei "due tempi", nella quale il Forbes tenta di fondere insieme la preoccupazione per la disciplina e l'addestramento di forze regolari tipica di Carlo De Cristoforis (cap. IV), con l'esigenza di far nascere rapidamente dall'insurrezione un esercito regolare che è allo sfondo del pensiero di Pisacane. Si lrova anche qualcosa del Bianco nella sua tesi che sono poche bande rese progressivamente più numerose dall' adesione popolare alla causa u dare origine all'insurrezione (non viceversa, come pensa il Mazzini) e che, all' inizio, solo con procedimenti tipici della guerriglia, miranti a logorare il nemico senza impegnarsi, è possibile a tali bande acquistare crescente sostegno popolare e prestigio, evitare di essere distrutte, mettere in crisi l'esercito nemico e, nel contempo, dare tempo all'esercito regolare della rivoluzione di organizzarsi. Egli non ritiene possibile, infatti, formare un esercito regolare fin dal1' inizio dell'insurrezione, ciò che rende la guerriglia un passaggio inevitabile. Di conseguenza assegna alle bande partigiane il compito di fiaccare l'esercito nemico e nel contempo di dare tempo alle forze regolari dell'insurrezione di addestrarsi e organizzarsi. Guerra "irregolare" e guerra "regolare" acquistano così ciascuna il suo ruolo e il suo tempo diventando ambedue ugualmente importanti, mentre la "guerra irregolare" è sinonimo di guerra d'insurrezione e guerriglia. Abbiamo già accennato sia ali' empirismo del Forbes, sia ai suoi primari obiettivi psicologici e morali, diremmo di più: didattici e di metodo; per questo all' inizio del volume egli chiarisce subito che i diversi sistemi '"· ivi, p. 27.


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IL PENSIERO Mil.ITARE E NAVALE ITALIANO -VOL. II (1848-1870)

ordinativi in uso hanno ciascuno vantaggi e svantaggi_ Riconosce che uno strumento militare efficiente ha bisogno di un buon governo alle spalle e del consenso popolare, ma non si addentra in indagini sociologiche e da buon inglese bada soprattutto alle cose pratiche militari, sottolineando talune esigenze poco sentite dai volontari d'ogni tempo: l'organizzazione è necessaria in ogni annata onde possano i soldati soccorrersi e aiutarsi reciprocamente senza confusione, e col più grande possibile vantaggio scambievole[ ...]. Senza una buona organizzazione, non vi può esistere unità d'azione e mutua fiducia[ ... ]. Con un sistema militare ben organizzato ognuno ha la sua parte da compiere in concordanza con le sue capacità e conoscenze [...]. La recluta dovrebbe dimostrare un giusto rispetto al suo istruttore, e far attenzione ai suoi avvertimenti, considerando che è molto più noioso d'istruire che d'imparare [... ]. La recluta deve abituarsi alla precisione e all'attenzione, anche nei più minuti dettagli, senza di che non diverrà mai un perfetto soldato. Né armi né altro oggetto devono mai essere lasciati sudici o in cattive condizioni [... ]. L'entusiasmo è una bellissima cosa sotto un certo aspetto, e qualche volta produce prodigi: ma non si può costantemente contarci sopra. Un'istruzione fondamentale è d'altra parte sicura o efficace, e non tradirà mai coloro che vi si affidano, né impedirà lo scoppio dell'entusiasmo, ma lo ajuterà più tosto [ ... ]. Il coraggio della soldatesca individualmente preso non dev'essere confuso col coraggio richiesto dalla massa - dacché quella grande maestra, la Pratica, prova che quegli stessi uomini che si sono provati separatamente tanto intrepidi, se disorganizzati, sono stati messi in rotta da un numero più piccolo di uomini, dei quali il coraggio individuale era assai inferiore, ma che essendo bene disciplinati, agivano di concerto, e sentivano che potevano dipendere l'uno dall'altro. Quel soldato, che per orgoglio o per impazienza sdegna sottomettersi ad alcuni giorni d'esercizio, di noia e di scomodo, si eentirà della sua sciocchezza quando si troverà in faccia al nemico[ ... ]. E un gravissimo errore il supporre che l'ordine e la precisione siano soltanto necessarii in parata per l'apparenza, e che in combattimento contro il nemico i ranghi si scompongano e che la regolarità cessi di esistere [... ]. I volontari, in generale, si considerano soldati appena possono discretamente portare l' arme, caricare e far fuoco. Ma queste cose soltanto non bastano a trasformare un borghese in soldato. Il suo insegnamento dovrebb'esser diretto in modo da dargli quella fondamentale istruzione che costituisce la superiorità del soldato sul cittadino non militare nelle operazioni di massa, cioè: precisione e celerità ne' movimenti. Di questi punti il principale si è la precisione, senza della quale la celerità è di poca utilità [... ]. Se a questo non si pone mente, i volontarii, quantunque ben esercitati nell'uso delle armi da fuoco, non si mostreranno nel giorno del combattimento, altro che una moltitudine armata. 31

'' ivi, pp. 5-9 e 79.


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Siamo molto lontani dal Cattaneo che ingenuamente pretendeva che la Immazione del soldato si riassumesse nel maneggio del fucile. Pare, invece, cli sentire De Cristoforis (Cfr. cap. IV), et pour cause: l'edizione del libro 1111a quale ci riferiamo è quella napoletana autorizzata il 26 ottobre 1860, il l'hc significa che la ristampa del libro viene decisa quando Garibaldi è uncora dittatore a Napoli e i suoi volontari - il cui punto forte certamente 11011 era la disciplina, né l'addestramento - stavano ancora combattendo l.'ontro l'esercito permanente borbonico. E, come De Cristoforis, il Forbes insiste su un altro caposaldo: la scelta e la formazione degli ufficiali, ripetutumente da lui indicata come obiettivo prioritario anche perché istruire i t·oscritti per un esercito regolare in tempo di pace è cosa assai meno ardua "che non il preparare in fretta de' volontari in principio d'una rivoluzione, che spesso sono impazienti, insubordinati, sospettosi, e convinti che l'istru,,,ione militare sia cosa superflua, e che il buon successo dipenda dal coraggio". Ai volontari, perciò-prosegue il Forbes- bisogna far capire che "è inutile creare eserciti d'uomini a mezzo istruiti e chiamarli soldati", ma che fino a quando non saranno ben istruiti, farebbero meglio ad astenersi dal rnmbattere, se non come partigiani. 32 Nessuna concessione al sistema di elezione degli ufficiali, che il Forbes ritiene ottimo solo sulla carta e in teoria, ma che in realtà dà luogo a molteplici inconvenienti, intrighi, corruzione, malumori e dispute. Tuttavia, la scelta degli ufficiali è soggetta a molti errori: le più gra11di difficoltà che un popolo dovrà incontrare nella sua guerra contro un tiranno domestico sono la mancanza di ufficiali competenti per organizzare, istruire e condurre i soldati patrioti. La maggior parte delle persone capaci di questo servizio sono, per educazione, per abitudini e per parentela, affezionate all'interesse dei despoti; e dei pochi che si uniscono al popolo, la più parte sono guardati dai loro concittadini con sospetto, talvolta con ragione, e altre senza.

Il popolo, militarmente incompetente, crede che per essere ufficiali bastino coraggio e buona volontà, "e da questo errore ne succedono molti disastri". In passato persone oneste ma incapaci, nominate ufficiali senza averne le qualità, sono state accusate di tradimento, mentre l'unica loro colpa era l'incapacità. A coloro che sono incaricati di organizzare un esercito, dovrebbe perciò essere concesso tempo sufficiente, e dal canto loro i giovani patrioti "dovrebbero comprendere, che non possono diventar subito buoni ufficiali semplicemente col leggere alcune opere militari, ma solamente coll'unire la pratica alla teoria e alla riflessione"33 • Il Mazzini, il Bianco, il Pisacane indulgevano fin troppo, nei loro scritti, all'immagine di

2 ' · ivi, pp. 77-78. "· ivi, p. 207.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. 11 (1848-1870)

un popolo italiano desideroso di unirsi, compatto nell'odio allo straniero e ai tiranni, voglioso di battersi, pronto a dare comunque un generoso contributo alla grande causa della libertà e indipendenza. Un'immagine che nella realtà quotidiana non è mai esistita né poteva esistere, in Italia e all'estero: per questo il Forbes intende mettere in guardia tutti da perniciosi ottimismi e preparare i volontari ad affrontare le difficoltà e l'opposizione o indifferenza dei cittadini, ricorrendo a una serie di exempla historica nei quali spiccano gli ostacoli e i problemi che ha incontrato Washington nel fare di gruppi di cittadini male armati, mal riforniti e indisciplinati qualcosa che assomigliasse il più possibile a un esercito regolare. Interessanti - e persino gustosi - i riferimenti alla necessità di neutralizzare le spie prezzolate, i fomentatori di discordie, i diffusori di false notizie, coloro che al minimo insuccesso diffondono scoramento e paura, dimenticando che il metodo più sicuro per indurre una nazione a trascurare la lotta per la sua libertà "si è quello di inculcarle la massima, che il buon successo è impossibile". Ugualmente deleteri per la causa sono coloro che dopo una vittoria proclamano prematuramente che la lotta è terminata, diffondendo illusioni ben presto destinate a cadere. Occorre anche non far circolare notizie che potrebbero favorire il nemico se ne viene a conoscenza: quindi bisogna convincere "i giornalisti patrioti che essi non debbono, per spacciare pericolose notizie, sacrificare il bene pubblico alla loro vanità (o schifoso mercato) di poter pubblicare maggior numero di chiacchiere che i loro confratelli" 34 • Bisogna anche considerare il gran danno che arreca alle operazioni di guerra "l'importuna intervenzione di civili (specialmente letterati) nei piani e dettagli della guerra"35 • Non mancano interessanti riferimenti a due aspetti generalmente poco trattati: le donne e la logistica. L'apporto delle donne è dal Forbes giudicato "inestimabile": ma solo come vivandiere, per curare feriti e ammalati, preparare fasciature e vestiario, fabbricare cartucce. In questo senso, esse rendono alla causa un servigio prezioso quanto quello dei combattenti: "è qualche volta accaduto, però, che donne, sia per un estro particolarmente romantico, o per una natura straordinariamente virile, siano entrate nelle file dei volontarii come soldati, recando disturbo, confusione e dispute tra gli uomini, e cagionando più danno che profitto alla causa"36 • Per quanto riguarda la logistica, il Forbes sottolinea che da rifornimenti regolari e abbondanti dipende non solo la salute delle truppe, ma il loro morale e la capacità operativa stessa dell'esercito. Se si vuole che non manchino mai i viveri e i mezzi di trasporto, occorre pagare al contadino e al cittadino ciò che forniscono (comprese le informazioni), evitare esazioni arbitrarie e non indispensabili, non tassare alcun paese al di là delle sue pos-

,. ivi, p. 32. ivi, p. 252. 36 ivi, p . 199. 35


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~ibilità e riscuotere le contribuzioni forzate con imparzialità e con il 111uggior ordine possibile, proteggendo in tal modo gli abitanti dal sac1:hcggio ed evitando di inimicarsi il contadino o di punire e scoraggiare ~·oloro che sono favorevoli alla causa37 • La guerriglia e la fisionomia delle bande che la conducono si inquadrano perfettamente in questa cornice di orientamenti e norme pratiche "bivalenti", che il Forbes completa con tutta una serie di minute prescrizioni l' nozioni sull'uso delle armi e delle artiglierie (con un certo spazio dedicato anche ai razzi), sul modo di attaccare e difendere le città, sui "doveri speda li de' corpi di bersaglieri (o d'Infanteria leggera) in guerra attiva", sugli ntti tattici (avanguardie, retroguardie, scorte, pattuglie, convogli, barricate r ee.) più frequenti che il volontario è chiamato a compiere, sulla guerra di montagna ecc .. Nell'analisi del Forbes acquistano rilievo tre aspetti: la necessità che i protagonisti della guerriglia siano ben consapevoU dei suoi limiti e possihi Iità; l'esigenza - sentita anche dal Mazzini e dal Bianco - di coordinare e organizzare l'azione delle bande; la delicata fase del passaggio dalla guerra " irregolare" alla guerra "regolare" e il rappo1to tra formazioni guerrigliere e esercito regolare, tenendo comunque presente che "un organamento (speciale e adatto al caso) è tanto richiesto pel servizio irregolare quanto per quello regolare, affinché ognuno che vi è ingaggiato senta che egli non è isolato, e può fidare su' suoi compagni; oltrechè le bande possono essere così riunite insieme da formare ognuna come l'anello di una grande catena. Con un buon organamento, i mezzi di ogni specie alla portata dei patrioti si renderanno di grande importanza"38 • Più che di guerriglia, Forbes parla di "guerra popolare" (o irregolare) o "insurrezionale". Come avviene per il Mazzini, essa più che una scelta è l' unica via da percorrere all'inizio di una guerra nazionale contro i tiranni, perché "è la sola che possa intraprendere un popolo insorgente, non versato nell'arte della guerra regolare; giacché quando le masse sono oppresse, il loro tiranno, naturalmente, impedisce alle sue vittime di farsi esperte nel1' uso delle armi, e nelle manovre delle truppe regolari"39 • Essa "produce lo sviluppo di molti ingegni naturali", perciò i volontari vi possono prendere ''una parte attiva ed utile non appena arruolati". Può servire contro un'invasione o contro un esercito locale al servizio di un principe odiato, "ma sarebbe mutile di portare tali elementi oltre le frontiere naturali con disegno aggressivo, od anche d'utilizzare i diversi corpi al di là de' proprii vicini". Il giudizio morale e politico che su di essa viene dato dipende dall'esito: "quando questa specie di guerra ha felice successo, si chiama Rivoluzione, e i soldati sono lodati e distinti col titolo di Patrioti:

n ivi, pp. 188-189 e 216-217. ,. ivi, p. 29. 19 ivi, p. 12.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO -VOL. Il (1848-1870)

quando soccombe a forza maggiore, od al tradimento, viene trattata di Ribellione, e perfino di Brigantaggio, ed i soldati sono impiccati per infamia come briganti. Dipenderà dall'esito e non dalla giustizia della causa quale di queste due denominazioni deve essere applicata alla nostra lotta" 40• Anche le formazioni guerrigliere hanno bisogno di disciplina, perché essa serve a tener unito qualunque numero di uomini, facendoli agire come uno solo e senza confusione, ed assicurare loro i vantaggi derivanti dal MUTUO SOCCORSO, "che è il principio di solidarietà applicato militarmente". Infatti il coraggio delle masse armate è "una materia di fiducia nei loro compagni, più che in loro medesimi", e questo può essere ottenuto solo con organizzazione e disciplina. Un primo errore che il popolo deve evitare, è di credere che il successo dell'insurrezione sia completo e irreversibile, una volta che le truppe regolari del principe siano state cacciate dalla città; bisogna, invece, attendersi il ritorno in forze del nemico e prepararvisi. A questa esigenza si risponde sia con la pronta organizzazione di un esercito regolare, sia rifiutando qualsiasi compromesso con il principe, perché "il popolo si dovrebbe ricordare che libertà e servaggio sono opposti l'uno dell' altro quanto il giorno e la notte - che nessun impegno può essere durevole tra principii opposti"41 • Un secondo errore, dovuto all'ignoranza in materia militare, consiste nel volere, in seguito ai primi successi, condurre la guerra d'insurrezione con gli stessi principi adottati dalle truppe regolari. Invece ciascuna specie di guerra, per essere efficace, dev'essere rinchiusa nella sua propria sfera d'azione. Le forze della guerra irregolare dovrebbero essere tenute perfettamente organizzate e le loro operazioni essere sistematiche, mantenendo nulladimeno, in ogni circostanza, la distinta impronta di guerriglia; nella quale condizione può abbisognare tempo a una nazione per creare un'armata regolare, alla quale, quando in parte, e anche quando interamente formata, le bande irregolari possono fraternamente rendere grand' assistenza.

Ciononostante, i combattenti di una guerra d'insurrezione hanno meno ordine nei loro ranghi delle truppe regolari, perché sono riuniti in fretta e nel loro comportamento prevale, più che la disciplina, l'entusiasmo e l'influenza dei Capi. Essi combattono divisi in bande apparentemente isolate, "ma dovrebbero sempre far parte di un ben organizzato assieme, come gli anelli di una catena"; non dovrebbero però essere concentrati - tranne casi particolari - in corpi numerosi e compatti. Questo perché, al contrario di quanto avviene per le truppe regolari,

'"· ivi, p. 13. ''· ivi, p. 18.


Il - GUERRA RIVOLUZIONARIA, GUERRIGLIA E INSURREZIONE

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per Truppe Irregolari questa concentrazione, se prolungata, diventa piuttosto una sorgente di debolezza, perché le bande sono composte di giovani, bene intenzionati è vero, ma inesperti, che facilmente cedono all'influenza dell'impulso momentaneo, e se quell'impressione (ciò che tosto o tardi certo succede) tornasse a essere cattiva [ ... ], più che vi saranno uomini riuniti insieme, più sarà irrimediabile la confusione•2•

Non si deve nenuneno commettere l'errore di trascurare l'organizzazione, la disciplina e l'istruzione delle truppe regolari arruolate per la causa dei patrioti (cioè, detto in chiave moderna, non si deve assecondare la pronunciata diffidenza dei guerriglieri per le forme e gli ordini degli eserciti regolari); infatti il successo iniziale della guerriglia può essere effimero, e come dimostra la stessa guerra d'indipendenza americana 1775/1783 - la guerriglia da sola non può risolvere il conflitto43 • Comunque, nel caso che le truppe del despota riescano a riorganizzarsi dopo essere state sconfitte dall'insurrezione iniziale, la guerriglia può guadagnare il tempo sufficiente per il consolidamento dell'insurrezione, nel quale intervallo di tempo un'armata regolare e patriottica può e dovrebbe organizzarsi, non coll'ammegliorare solamente un'orda numerosa, vestita in uniforme e priva di disciplina e d'istruzione militare, ma cominciando a formare (con quei mezzi che sono a nostra portata) sopra solide basi, una soldatesca veramente nazionale, facendola esercitare in località tranquille e libere da ogni modestia, ed anche collocando quei depositi in un sito sicuro ogni qual volta possano essere minacciati da un nemico.«

L'esercito regolare diventa così lo sbocco obbligato e il superamento della prima fase della guerra, affidata a forze non ancora militarmente organizzate. Non si tratta più - come per il Pepe e il La Masa - di mettere sotto controllo le formazioni guerrigliere, o di coordinare l'azione (contemporanea) delle due diverse componenti. Invece secondo che le diverse provincie saran fatte libere dagli eserciti del tiranno, esterno o interno, la guerriglia locale diverrà inutile e sarà parzialmente o tutta incorporala nell'esercito regolare. Ma se qualche disastro in seguito sopraggiungesse ali' esercito patriottico regolare di modo che si verificasse una nuova invasione delle provincie, o della Nazione, allora la forza della guerriglia dovrebbe ripristinarsi, distaccando immediatamente dall'esercito regolare quegli ufficiali e soldati che meglio sono atti a questo tipo di guerra, e inviandoli in quelle parti ov'essi dovranno essere più utili. In tal caso, le bande possono (senza il

•~ ivi, pp. 15-16. 43 · ivi, p. 70. 44 · ivi, pp. 19-20.


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Il,

PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. li (1848-1870)

procedimento iniziatore de' nuclei) essere formate a un tratto delle loro piene forze.

La guerriglia durerà fino a quando 1' esercito patriottico regolare sarà completamente organizzato e disciplinato, tenendo presente che otto o dieci bande di 100-150 uomini attivi operanti di concerto sui fianchi e alle spalle del nemico potralll)o cooperare alla distruzione del nemico meglio di 10.000 uomini agenti a massa; al contrario, in una battaglia regolare rendono di più 1.000 uomini di truppa regolare che non una turba irregolare di 10.000 uomini. Quest'ultimo principio vale anzitutto per i nuovi volontari, che "possono, in caso di emergenze, essere utili se sono comandati da ufficiali esperti, e se le compagnie fossero formate mettendo alternativamente nel primo rango un soldato ben disciplinato e un nuovo volontario, e nel secondo rango tutti volontarii, che regolerebbero i loro movimenti da quelli del primo rango". 45 È preferibile che l' insurrezione cominci nelle città o nelle campagne? e quali sono le circostanze e le condizioni perché essa riesca? Il Forbes è forse l'unico a rispondere senza incertezze e contraddizioni a questi interrogativi, affermando che "le insurrezioni che hanno avuto principio in campo aperto, sono state generalmente le più felici, hanno radici più profonde e non possono sedarsi con un disastro solo", perché "in cotal guerra i regolari consumano le loro forze col colpire un'ombra eh'essi non possono cogliere, ma che incessantemente li colpisce"46• Un'insurrezione generale e simultanea, però, difficilmente riesce: è preferibile di cominciare, come fu fatto in Spagna, da piccolissime bande d'uomini risoluti [... ]. Gli uomini più adatti per una tale intrapresa sono quelli che si credono già sospetti dal Governo, e suscettibili d'essere arrestati. Persone trovantisi in tali circostanze, farebbero molto meglio d'appigliarsi ai boschi e alle montagne, e colà formare nuclei per future bande, piuttosto che di restare a portata degli sgherri dei despoti, ed essere sacrificati senza resistenza.

Durante i primi giorni dell'insurrezione, ciascun nucleo delle bande deve comprendere pochissimi uomini (tre, cinque o dieci). I primi nuclei devono evitare l'incontro con il nemico e trarlo in inganno mediante false informazioni, obbligandolo a continue marce e contromarce forzate senza alcun risultato. Così facendo diffondono lo scoraggiamento tra le truppe nemiche e per contro accrescono la .fiducia nel successo delle bande tra i contadini, che sono incoraggiati ad aiutarli in vari modi, mentre altri giovani compromessi sono indotti a rinforzare le file partigiane.

., ivi, pp. 27-28. " ivi, p. 23.


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Una sola banda, grande o piccola che sia, non avrebbe che poca speranza di successo, e sarebbe ben presto circondata; ma una molteplicità di piccole bande, fra tre e dieci miglia discoste l'una dall'altra, ma pure connesse e in circolazione tra loro, non possono essere circondate, specialmente in una catena di boscose montagne, come gli Appennini, che si estendono dalla Savoja alla Calabria. Venti bande, più o meno contigue, dovrebbero essere messe sotto la direzione di un Capo di grandi capacità; ed a misura che le bande divengano più grandi, potrebbero, con vantaggio, essere suddivise in modo da non eccedere la dimensione adottata. 47

Per quanto riguarda l'insurrezione delle città, "è di pochissima utilità che una di esse si sollevi se il paese circonvicino resta indifferente alla causa". In una città dove la guarnigione è forte, ]'insurrezione popolare ha poche probabilità di riuscita; sono rari anche i casi in cui l'insurrezione è spontanea, totale e improvvisa. Quindi, un'insurrezione deve essere organizzata: ma se i cospiratori sono pochi, difficilmente possono indurre a sollevarsi tutto il popolo48• Se invece i cospiratori sono molti, aumenta la probabilità che per tradimento, imprudenza o incidente il Governo venga informato, e possa quindi soffocare la rivolta. Per ultimo, il Forbes ha una posizione assai precisa sull'organizzazione militare di pace di uno Stato e sulla costituzione dell'Esercito in tempo di guerra: per portare un Popolo libero ad essere sempre in difesa contro l'invasione, le estorsioni o gl' insulti, e pur nonostante mantenere con paga regolare una piccola annata permanente, limitata alle Anni speciali (genio, cavalleria e artiglieria) con alcuni corpi di bersaglieri e veterani e la Marina, sarà necessario che sia organizzata una Guardia Nazionale ed istrutta, onde i cittadini più giovani possano, in qualunque emergenza, essere tratti a sorte e mobilizzati; ma allora sarà indispensabile che la parte maschia della popolazione sia convenevolmente aJlevata come uomini, e non come giovinette. 49

Se ne deduce che egJi non è sostenitore di un modello di nazione armata di tipo svizzero, ma piuttosto - a parte la Marina, esclusivamente composta allora di personale volontario - di un Esercito "lancia e scudo". Né si può dire che esalti troppo il ruolo dello spontaneismo volontario nella difesa nazionale: ci tiene, anzi, a rimarcare la differenza tra Guardia Nazionale (o Civica) e Milizia volontaria. La prima è una obbligazione imposta a ogni cittadino; la seconda è un'obbligazione volontaria, la quale

1 • · ivi, pp. 25-26. " ivi, p. 21. 49 · ivi, p. 204.


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però, una volta assunta, diviene obbligatoria come l'altra. Perciò "incalcolabili danni arrecano al pubblico quei volontari per servire fino a tanto che dura il loro capriccio, e per periodi assai brevi fissati antecedentemente"50• Anche il Forbes aderisce al concetto - tipicamente francese - di Guardia Nazionale vista come serbatoio per l'esercito di prima linea. Quando è appena costituita, la Guardia Nazionale è in grado solo di mantenere l'ordine pubblico o di difendere una città mediante i parapetti o le barricate; ma poiché nessuno può servire nell'esercito regolare in guerra prima di essere addestrato, "è della più alta importanza che essa, che è il braccio dritto del popolo, sia con la massima celerità possibile messa in stato di servire come se fosse truppa di linea"51• L'arruolamento dei volontari, "benché sia inutile quando è insubordinato e senza disciplina", va incoraggiato, perché il soldato volontario può rendere meglio "del meno intelligente e meno istruito soldato, quantunque d'abilità uguale nell'istruzione militare, particolarmente nelle Armi speciali": ma non può essere il solo mezzo per riempire i vuoti di un esercito che si trova di fronte al nemico. Tali lacune "dovrebbero essere colmate in modo regolare, tirando a sorte dai ruoli d'una ben organizzata guardia mobilizzata, e nulla dovrebbe lasciarsi al caso in sl importante materia"52 • In conclusione, il libro del Forbes - un inglese che è, per così dire, al di fuori della mischia - ha il raro pregio di aderire meglio degli scritti di tanti altri più illustri autori dei due campi contrapposti alle reali condizioni in cui inevitabilmente si erano svolte e si sarebbero svolte le guerre d'indipendenza italiane, dando l'esatta sensazione di ciò che allora mancava ai reparti volontari per farne degli efficienti strumenti di guerra. Lungi dall'essere solo tali, le sue osservazioni e raccomandazioni mettono il dito sulla piaga e ricordano a tutti - volontari e non - quali sono state le lacune del 1848/1849 e che cosa si deve fare, nel concreto, per evitare che si ripetano. Lo fanno in forma sovente indiretta, ma chiara; e anche se hanno carattere tecnico, non si può sottacere la loro valenza politica, psicologica o spirituale. Non riguardano esclusivamente i reparti volontari, ma si attagliano benissimo anche alle formazioni regolari, che - specie in Italia - molto di frequente accusavano le stesse lacune dei reparti volontari, a cominciare dall'organizzazione di comando e della logistica. La domanda che il Forbes induce a porsi, è, anche in questo caso, una sola: a parte l'ostilità e la diffidenza di singoli ufficiali per i volontari, era veramente in grado l'esercito piemontese del 1848/1849 di dare ai volontari ciò di cui avevano dimostrato di avere più bisogno, cioè quel buon inquadramento, quell'appropriato addestramento e quell' organjzzazione prima di tutto logistica, dei quali le stesse formazioni regolari

~,. ivi, p . 22 l. s,. ivi, p. 69. ,2. ivi, p. 221.


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avevano vistosamente dimostrato di essere prive? A questa domanda in altra opera abbiamo già risposto di no.53 In tema di guerriglia, la sua riflessione ha due grandi pregi. Il primo è di sfatare con grande acume la diffusa convinzione - tuttora viva - che vi sia contrasto insanabile e totale contrapposizione tra le forme organizzative, addestrative, disciplinari e gerarchiche di un buon esercito regolare permanente, quelle di un esercito di milizia e quelle di formazioni partigiane o di insorti. Il secondo è l'assenza della frequente e contrapposta pretesa di fare della guerra "regolare" o della guerra "irregolare" una sorta di idolo o mito o, al contrario, qualcosa da mettere al bando. Clausewitzianamente, per il Forbes ciascuna forma di lotta è ammissibile e anzi indispensabile, quando ne ricorrano le condizioni e quando rappresenti, al momento, la carta migliore da giocare per raggiungere rapidamente la vittoria. Ancora una volta, quindi, lo spirito che anima l'opera del Forbes induce ad evitare la frequente confusione tra guerra sovversiva o rivoluzionaria (cioè guerra con obiettivi politici rivoluzionari) e guerra condotta con procedimenti operativi tipici della guerriglia, necessari solo in determinate condizioni favorevoli e indipendentemente dai suoi obiettivi politici o dal sostegno popolare; quest'ultimo è indispensabile anche quando si tratta di formare un grande esercito nazionale sul modello del Pisacane. Un altro aspetto importante dell'opera è la delimitazione di analogie e differenza tra volontari, guerriglieri, Guardia Civica e cittadini che entrano a far parte di un'organizzazione tipo nazionale armata. Il volontarismo, cioè lo spontaneo arruolamento nelle formazioni, è il tratto comune sia dei guerrigliero che del volontario: un guerrigliero è un volontario dell'armata regolare in fieri; il volontario - e in generale il soldato di un'armata regolare - può trasformarsi in guerrigliero. Non tutti possono essere guerriglieri o volontari: nel Forbes è ben vivo il carattere straordinario di queste due forme di reclutamento e ordinamento, rispetto alle quali l'arruolamento nell'esercito regolare costituisce la norma. Nella sua ottica i volontari costituiscono un'élite alla quale accredita senz'altro maggiore intelligenza, maggiore cultura e entusiasmo del soldato comune, e parla dei contadini soprattutto come indispensabile organo di supporto logistico. Ciò non toglie, però, che è ben lungi dal presentare l'esercito regolare come tomba e negazione delle belle virtù dei volontari: è anzi la sua meta... Per tutte queste ragioni, anche il lavoro del Forbes dà un insostituibile contributo per fare un po' di luce non sospetta di parzialità, sulla tanto vexata quaestio del rapporto tra guerriglieri, volontari e esercito regolare.

" Cfr. F. Botti, La logistica dell 'Esercito Italiano, Roma, SME - Uff. Storico 1991, Vol. II (1831-1870).


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Contributi minori: Riccardo Ceroni (1849), Ferdinando A. Pinelli (1851), Francesco 'Zamponi ( 1858), Gerolamo Ulloa ( 1859), A. De Cesare (1863). Nei trattati di arte militare e negli scritti del periodo si trovano numerosi anche se episodici accenni al1a guerriglia e all'insurrezione, spesso vivificati dall'esperienza delle campagne di guerra. Esamineremo in ordine cronologico i più significativi, cominciando da Riccardo Ceroni, scrittore milanese ex-cadetto dell'esercito austriaco, poi tra i capi delle Cinque Giornate di Milano del 1848 e maggiore di Stato Maggiore dei corpi volontari che si battono sulle montagne lombarde nello stesso anno. Annotando e spesso contestando duramente il libro del generale prussiano Guglielmo di Willisen sulla Campagna d'ltalia del 1848, R.C. non risparmia critiche né all'esercito regolare piemontese e ai suoi capi, né a coloro che dovrebbero dirigere l'insurrezione delle città e i corpi volontari o la guerrig1ia sulle montagne e nelle campagne. Riconosce perciò che, nonostante tutto, il generale prussiano "ha messo pur nondimeno il ferro in qualcuna delle nostre piaghe, che mal potremmo nascondere, con risolutezza tale da meritarsi la gratitudine nostra". Per quanto riguarda l'insurrezione - a cominciare da quella di Milano "fummo giganti tutti nelle sollevazioni. delle nostre città; fummo tutti pigmei, tutti ineguali di mille cubiti all' altezza del mandato, il giorno dopo la vittoria [cioè quando, cacciati abbastanza facilmente i presidi austriaci, ci si doveva subito preparare al loro inevitabile ritorno in forze - N.d.a.j""'. R.C. non dà grande importanza alle discordie e divisioni, che - egli ricorda - si sono già verificate nelle insurrezioni in Spagna, Grecia e Polonia e sono in certo senso fisiologiche. Piuttosto, è cosa amarissima il dover confessare che nessuna delle due fazioni, che professavano opinioni opposte [cioè: i sostenitori della "guerra regia" e della "guerra di popolo" - N.d.a.], ebbero i requisiti inseparabili della riuscita di ogni impresa: INTELLETTO E ENERGIA. Intelletto di cose guerresche e politiche; intelletto di tempi, d'uomini , di luoghi; energia rivoluzionaria e militare. Avevamo bisogno di due buoni Ministri della guerra e delle finanze [nel Governo provvisorio lombardo - N.d.a.] e ci mancarono. Avevamo bisogno d'un buon capitano e d' un buon quartiermastro generale - e ci mancarono l'uno e l' altro anch'essi [...]. La Giovine Italia[ ... ] s'affacciò alla Rivoluzione senza catechismo, senza programma, senza disegno. Carlo Alberto commette a insigne pittore la tela della battaglia di Legnano e dell'esercito, ch'ei doveva condurre contro al moderno Barbarossa, non cura intanto se non le esterne apparenze. Mazzini teme le soldatesche regolari, pericolose a libertà - e non si studia di aver pronto un ordinamento di guerriglie, ch' ei possa applicare con vaste propor"· G. Willisen, La campagna d'Italia del 1848, p. 163, Torino, Cassone 1851 (commento di R. Ceroni).


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zioni nei dì della lotta. Il campo costituzionale non ha un piano di guerra; la tenda repubblicana non ha un piano d' insurrezione [... ] siamo schietti: qual colpa avevano i repubblicani degli errori militari commessi nella prima campagna [dai generali piemontesi - N.d.a.]? Qual colpa i costituzionali, nella seconda, se il generale, nelle cui mani ei s'erano colla miglior fede abbandonati [lo Chrzanowsky N.d.a.], trascina pei capelli l'esercito sotto le forche caudine [a Novara - N.d.a.]? Non erano giusti i rimbrotti de' Piemontesi, se il Governo lombardo non seppe soccorerli di pronti e numerosi rinforzi? Se i primi dodici battaglioni di riserva, misti di Piemontesi e di Lombardi, giunsero al campo "senz'armi e senza divisa"? Se gli altri dodici battaglioni, tutti lombardi, vi erano mandati tardissimamente nel giugno, e in condizione sì miserabile, che di essi scriveva il loro generale: "I battaglioni manovrano passabilmente, ma si può dire che nessuno, né uffiziali, né bass'uffiziali, né soldati, conosce ciò che sia il servizio militare propriamente detto" ? Se anche questa divisione "non era provveduta di tutti gli oggetti di vestiario e di arredo indispensabile per poter mettersi in marcia"? Se, infine, avrebbero bensì potuto "munirsi i dodici battaglioni e battersi in luogo determinato, ma non già entrare in campagna, né eseguire movimenti militari"?

Come si può constatare, R.C. non appartiene né alla schiera di coloro che idolatrano la guerra regia o tra eserciti regolari, né ai fautori della guerriglia, ma ritiene sia sempre e solo questione di organizzazione. La necessità di organizzare la guerra in tutte le sue manifestazioni possibili pervade anche tutta la sua opera, fino a fare dell'organizzazione - come avviene per il De Cristoforis, il La Masa e tanti altri - una vera ossessione. Il suo motto è "Organizzare: ecco la parola magica donde sarebbe uscita la nostra salute" . E compila un Progetto per costituire in istato di difesa permanente le città del Lombardo-Veneto che si conquisteranno sull'invasore austriaco , lavoro assai ben congegnato che viene molto apprezzato come si è visto dal La Masa, e pubblicato nel suo libro del 1856. Nei riguardi della guerriglia, R.C. non è certamente tra coloro che sostengono l'inutilità di organizzarla e disciplinarla, ma è profondamente convinto che anch' essa deve essere preparata di lunga mano, e regolarmente: la Guerra per bande era la parte militare dei dogmi della Giovine Italia. Il conte Balbo che, a quanto credo, non contò mai trà suoi affigliati, propugnava or sono tre annj quella medesima idea, siccome redentrice de' patrii destini [è inesatto: propugnava non solo la guerriglia, ma anche la guerra di eserciti - N.d.a.]. Ma perché non se ne stringevano le norme dentro a' limiti d'una breve guida, nei termini d'un regolamento pratico, come un manuale d' avamposti, come una teoria di evoluzioni? Il libro che ne scrisse il conte Bianco è troppo barbaro di stile, troppo diffuso, troppo inferiore al soggetto. La campagna della Valtellina del duca di Rohan, la storia dalla rivoluzione spagnola, la vita di


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Wellington (di Elliot e Clarke), quella di Zumalacarreguy, di Henningson, le gesta di Spartaco descritte dal Maissner, avrebbero offerto materiali eccellenti. La tattica delle tre Arnù del Decker, il manuale dello Stato Maggiore di Lavarenne o di Werklein, le opere di topografia di Correard, di Etzel, di Reichlin Von Meldegg, li avrebbero completati. In caso di assoluta urgenza bastava forse per tutti il trattato della Piccola guerra del Brand. Quivi l'organizzazione delle bande leggere, quivi le regole d'attacco e difesa de' luoghi, quivi l'appostare, il marciare, il tragittare de' fiumi, quivi tutta l'arte insomma dell'infestare il nemico colle guerriglie.55

Invece, non si è preparata né la teoria della guerra d'insurrezione, né la pianificazione per tradurla in atto. Nessuno impediva agli esuli di adattare alle specifiche esigenze dell'insurrezione il modello del Ministero della guerra e degli Stati Maggiori e la relativa ripartizione dei compiti; si sarebbe dovuto "creare i Quadri dell'esercito regolare, compilare uno statuto per le guardie nazionali, uno statuto per la difesa delle città e delle fortezze, convenire del regolamento d'esercizio, del codice militare, dei vari manuali d' istruzione, che si sarebbero momentaneamente adottati, scegliendoli tra gli esistenti presso le più libere nazioni"56 • Tutto questo non si è fatto: "a Milano, come a Londra, un'eguale indefinibile leggerezza". Infatti la Giovine Italia "educava i fedeli al martirio, non alla vittoria! Dovevamo essere soldati - e ci si voleva sacerdoti a forza". Così le due fazioni, che - messe per il momento da parte le reciproche antipatie - avrebbero potuto, accordandosi, raggiungere il comune obiettivo, "rnisfecero entrambe al sacrosanto mandato della Nazione, non perché l'opera dell'una inceppasse quella dell'altra, ma perché nessuna delle due ebbe pieno intelletto né coscienza chiara di ciò che s'apparecchiava ad operare". Pur avendo fatto parte di un Comando di truppe volontarie, R.C.- esattamente come il Forbes - non nasconde certo le magagne di queste truppe speciali. Difende perciò a spada tratta l'operato del generale Durando, criticato anche dal De Cristoforis: quest'uomo che aveva accettato il comando di un esercito del quale non vi era al mondo il più disordinato, causa la mancanza d'ogni disciplina militare, gli abusi d'ogni sorta, le malversazioni, i protettorati, gl'intrighi, vecchia cancrena dell'antico governo pontificio, e che per dare qualche forma a tutlo ciò, aveva avuto di tempo appena un mese, e promesso di larghi poteri, ma in effetto poteri ristretti, e pochi aiuti e pochissimi danari: quest'uomo onorevole è stato oltraggiato, calunniato ...

"· ivi, p. 174. S6. ivi, p. 175.


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Un' altra accusa che R.C. muove sia alla leadership politico-militare piemontese che a quella lombarda è di non aver proceduto a una vera e propria mobilitazione di tutte le risorse disponibili e alla leva in massa, sul modello spagnolo o prussiano del 1813. Accenna, pertanto, a ciò che si sarebbe dovuto fare e che non si è fatto, suggerendo un "modello" non dissimile da quello al quale accenna nelle linee generali lo stesso Balbo, derivante, in sostanza, dalla combinazione delle operazioni di un esercito regolare creato in poco tempo con la leva in massa e la requisizione dei cavalli, e con quelle della guerriglia: "guerra di tutta la nazione - guerra insurrezionale - guerra d'esercito e di città e di bande - guerra dal cannone al coltello"57 • E non guerra difensiva, ma guerra offensiva, fino a puntare su Trento e Trieste e a sollevare l'Ungheria... In questo contesto, la guerriglia è "utilissima al caso nostro", anche se "dalle prove di Roma credo che la popolazione nostra sia meglio adatta degli Spagnoli agli eserciti regolari"; bisogna inoltre tenere presente che il terreno dell'Italia settentrionale non può essere paragonato a quello della Spagna, solcata da continue montagne. Le operazioni delle forze partigiane non devono, però, essere autonome, ma "subordinate a quelle dell'esercito e anzi designate da' suoi capi". L'organizzazione delle truppe regolari a sua volta deve avvicinarsi molto a quella delle unità della guerriglia, ed essere caratterizzata da semplicità, mobilità, elevata autonomia operativa e logistica dei reparti, massimo sviluppo delle truppe leggere come già fa l'esercito austriaco, per poter agire sul terreno italiano e combattere la guerriglia. R.C. indica ben 17 compiti per le unità della guerriglia58, ,tra i quali acquistano rilievo il mantenimento e la protezione delle comunicazioni (anche telegrafiche) tra i vari corpi dell'esercito e la distruzione di quelle nemiche, la costituzione di presidì montani con le forze regolari, l'attacco ai convogli nemici (con indicazione dei generi e materiali più appetibili), le pattuglie e l'attacco a reparti isolati, l'organizzazione di insurrezioni nei paesi occupati, la cattura di prigionieri e dei principali favoreggiatori del nemico e la liberazione dei nostri, la raccolta di informazioni e la diffusione di voci false e contradditorie, le azioni dirette a favorire le diserzioni e a disperdere i lavoratori per conto del nemico e i suoi foraggiatori, e anche la caccia a personale specializzato prezioso come "i medici, i chirurghi, gli speziali del nemico; gli artiglieri, gli uomini del genio e dello Stato Maggiore; i barellieri e i pontieri". Insomma: tutto si può dire, meno che R.C. assegni alla guerriglia un ruolo marginale, a parte la dipendenza da un unico comandante militare. Le diffidenze e le preoccupazioni per la disciplina tipiche dell'ufficiale di corpi regolari emergono invece in talune brevi considerazioni che il

" ivi, p. 296. 58 · ivi, pp. 313-3 I 6.


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capitano Ferdinando Augusto Pinelli dedica alla guerra partigiana nel suo citato libro del 1851 Elementi di tattica59• Ha quasi l'aria di scusarsi se si occupa di "partigiani e corpi franchi, i quali mai appartengono a un'armata regolare": ma poiché l'Italia è circondata da alte montagne, può accadere che la fanteria leggera o anche di linea debba agire insieme con queste speciali unità. Una visione, insomma, nella quale non c'è spazio per un loro impiego indipendente dalle operazioni dell'esercito regolare. Il Pinelli non fa alcuna distinzione tra partigiani o volontari e sembra precorrere la costituzione di unità alpine, là ove afferma che i corpi franchi sono particolarmente acconci per le guerre di montagna. Essi devono constare in massima parte almeno, di uomini nati nei luoghi dove si agita la questione: i cacciatori di professione, ed i contrabbandieri riescono di somma utilità in questa milizia come quelli che ordinariamente a un fisico robusto uniscono la più perfetta conoscenza del paese. Essi debbono essere armati alla leggera, non astretti a una precisione matematica dei movimenti, ma da ciò non si deve trarre la conseguenza, come purtroppo si usa quasi sempre, che essi non debbano andar soggetti a disciplina..

Pur ammettendo che "i vantaggi che queste bande possono arrecare alle armate sono incalcolabili", sulla disciplina insiste molto, indicando i pericoli del contatto tra partigiani o volontari e corpi regolari, perché in questo caso "è impossibile che il mal esempio non si propaghi, facendo così venir meno ogni possibilità di successo". Nelle guerre nazionali spesso la gioventù entusiasta si arruola in questi corpi speciali, ma "se un nobile e santo entusiasmo può in taluni tener luogo d'istruzione e di disciplina", questo sentimento ben presto si spegne di fronte ai disagi e "dà luogo a recriminazioni, discordie e disordini fatali". Per questo è meglio che questi giovani si arruolino nella fanteria dell'esercito regolare, ove i maggiori lor lumi inlellettuali potrebbero riuscire di grande utilità, e anche perché non essendo essi più in gran numero non potranno sensibilmente alterarne lo spirito, tanto più se si avesse cura di dividerli in corpi diversi: e poi una fanteria, quantunque non ottima, se unita a vecchi reggimenti, può essere di giovamento per i combattimenti in massa.

Le considerazioni del Pinelli sulle doti non comuni che il capo partigiano deve possedere, sui compiti delle unità partigiane, sulle loro modalità d'azione ecc. sono quelle di sempre; non scontata, comunque, la sua affermazione che nei corpi franchi vale più la qualità degli uomini che la loro quantità, anche perché "non è poi tanto facile formare buoni corpi franchi o di partigiani: molti credono che basti indossare una divisa ed impugnare "' P.A. Pinelli, Elementi di tattica, Ivrea, Tip. CurbiI 1851, pp. 61-65.


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schioppo per essere capaci di combattere alla spicciolata: l'errore è veramente grande!". Ben diverso da quello - sostanzialmente riduttivo - del Pinelli il giudizio sulla guerra partigiana di Francesco Zamponi, che nel suo citato Manuale di strategia e storia militare moderna del 1858 (vds. cap. I) le dedica uno spazio insolito e si guarda bene dal sottovalutarla o dallo scongiurarla, come fa il suo maestro Jomini. Riconosce, anzi, che una guerra nazionale e di popolo sul tipo di quella spagnola è giusta e inevitabile, osservando anch'egli che "non vi ha esercito comunque disciplinato e prode che possa a lungo vittoriosamente lottare contro un gran popolo risoluto e intrepido, sostenuto da forze regolari e comandato dai Ballestreros, dai Castagnos, dai Romana, dai Reding e dai Cuestas" 60• Le considerazioni sulla guerra partigiana sono sparse un po' ovunque nel libro, perché - come Jomini - lo Zamponi la fa rientrare nelle guerre di religione, nazionali e di montagna. Ci limitiamo a osservare che la sua descrizione della crisi che - come è avvenuto in Spagna - incontra un esercito regolare invasore costretto a combattere contro un popolo intero, è efficace anche se non certo originale. Da ricordare ancora il suo giudizio assai favorevole su Washington: "il complesso delle sue operazioni sosterrà sempre l'analisi senza temer la censura dei periti dell' arte. A lui devesi la gloria di aver fatto sorgere la guerra di bersaglieri [cioè di tiratori che combattono in ordine sparso e con fuoco libero, non a comando come si usava nella fanteria di allora - N.d.a.], che più largo sviluppo ebbe di poi nelle prime campagne della rivoluzione, ed è pervenuta oggi all'apogeo del suo perfezionamento"61 • Si può dedurre da questa considerazione dello Zamponi che i procedimenti tattici di Washington tenevano gìustamente conto dell'indole e dello scarso addestramento delle sue milizie, le quali non combattevano una guerra partigiana. Di quest'u1tima lo Zamponi dà una definizione senz'altro più accettabile di tante altre di ieri e oggi, rifacendosi anche al dizionario del D' Ayala (Voi. I, cap. IV e V): il nome di partigiano o, secondo il chiarissimo D' Ayala, di condottiero e di capo di gente armata fu,ori dall'esercito (chef de guerillas) trae visibilmente origine dalle antiche guerre, nelle quali o particolari principi o semplici capitani si mettevano alla testa di un partito, radunavan soldati e con essi facevan guerra a loro volontà e a loro spese foss' anche sotto il patrimonio di un gran principe o di un gran signore di quel paese [... ].Il principale scopo di ogni guerra di partigiani è di colpire fortemente il nemico sui punti nei quali non possiamo portare grandi masse, di tenerlo sempre all'.erta, di tribolarlo, affaticarlo e intercettargli i viveri. Tutto questo senza esporlo a grandi pericoli. Dif-

"° F. Zamponi, Manuale di strategia (Cit.), p. 178. •• ivi, p. 105.


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ferisce dalla piccola guerra non perché questa appartenga o concorra a fare la gran guerra; ma piuttosto perché è una guerra fatta in piccolo, e non comprende le operazioni secondarie della gran guerra com'è della piccola guerra. Di più in questa tutto può essere regolare o tutto compreso in un sistema regolare; mentre nella guerra di partigiani tutto è irregolare; in quella le operazioni militari sono necessariamente legate alle operazioni principali della gran guerra; e in quella di partigiani sono affatto indipendenti62 •

Dopo queste azzeccate considerazioni, però, lo Zamponi - forse per non irritare troppo l' establishment politico e militare del momento - cerca di far capire che si tratta di una forma di guerra ormai superata, che "non esiste più in tutta l'estensione del suo significato". Infatti anche quella che al momento potrebbe essere chiamata guerra partigiana "va essa pure soggetta a tali regole che il suo vero carattere le tolgono; né i corpi Partigiani indipendenti sono più ammissibili negli eserciti moderni"63 • Un modo assai sbrigativo di liquidare teorie e prassi dei non pochi patrioti e scrittori coevi, che credono nella guerriglia! Un'altra concessione alle teorie ufficiali riguardo alla guerriglia, sta anche nell'affermazione che "la strategia non ha regole per prepararla, né massime generali per dirigerla, dipendendo dalla politica più che dalla spada i suoi successi"64. Senza dubbio in questo tipo di guerra il quadro politico-sociale ha importanza predominante: ma presentarla come una specie di vacanza o assenza della strategia, è errato. La strategia non si applica solo alla guerra tra eserciti, come mostrano di credere, sotto l'influsso di Jomini, parecchi scrittori italiani del tempo: più corretto, dunque, dire che la strategia della guerra partigiana non può essere - né per l'esercito regolare che tenta di reprimerla né per le forze della guerriglia stessa - quella della guerra tra eserciti regolari. L'origine della guerra partigiana per lo Zamponi è molto antica: definisce "partigiano di prirn' ordine" il conte Ernesto di Mansfield, che operò nei Paesi Bassi nella prima metà del secolo XVII. Inoltre cita - insieme a quella del Decker - due opere sulla guerriglia, che non sono mai state menzionate da altri studiosi italiani fino ai nostri giorni e che non esistono in Italia oggi. Uno è il libro / partigiani in campagna del tenente colonnello tedesco Emmerich, che ha condotto la guerra partigiana a favore dell'esercito degli alleati contro Federico II di Prussia nella guerra dei sette anni (1756-1763) e poi è stato messo a morte; l'altro è un non meglio precisato trattato di un certo Ewald. Di ambedue lo Zamponi dice che sono le opere preferite dai "dotti uffiziali di Germania", perché "racchiudono regole pratiche, massime utilissime, e verità di somma importanza; lo stile parla alla

62.

63 64

ivi, pp. 164-165 e 189. ivi, p. 165. ivi, p. 173.


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sola intelligenza, occupa l'immaginazione, e con tali elementi la lettura ne è assai più utile che dilettevole»65 • Un altro scrittore che della guerra partigiana si occupa con una certa ampiezza è il generale Gerolamo Ulloa, del quale abbiamo già esaminato (vds. cap. I) le brevi e poco originali considerazioni che dedica all'argomento nel libro del 1851 Dell'arte della guerra, per la verità senza sottovalutare -in linea teorica-l'efficacia dell'azione dei partigiani, specie là ove come in Spagna o in Calabria - il terreno favorisce la loro azione. Ben diverso è il suo approccio nel successivo libro (diversamente dal primo, non citato dal Liberti) Guerre de l'indépendance italienne en 1848 en 1849 66 • In questa occasione l'Ulloa si dimostra sostenitore della guerra tra eserciti regolari, negando che sarebbe stato possibile condurre con successo la guerra partigiana nel Lombardo-Veneto e in particolare sulle Alpi. La sua visione del ruolo della guerriglia in generale e del rendimento dei corpi volontari è assai riduttiva: ammette tuttavia che Sirtori, Medici, Manara e altri bravi volontari si sono distinti a Venezia e Roma; e anche se il soldato di professione è preferibile ai volontari e alle guardie nazionali, "questi ultimi hanno il dono dell'entusiasmo e della spontaneità, doti dalle quali si può trarre un grande vantaggio, e qualche volta degli effetti potenti e decisivi"67 • Al di là di queste concessioni, l'Ulloa critica duramente - come aveva fatto lo stesso Forbes - la mentalità prevalente nella migliore gioventù italiana del 1848, la quale riteneva la disciplina militare un servaggio avvilente, un'invenzione dei tiranni, destinata a trasformare dei cittadini in una macchina incapace di avere dei sentimenti e di ragionare, alla quale pertanto ciascun uomo libero aveva il dovere di sottrarsi. Essa si illudeva che il mestiere delle armi non è che pedanteria, e che, per fare bene la guerra, non c'è bisogno né di questa disciplina soffocante, né di militari di professione. Errore deplorevole! 68

Trattando poi, della difesa di Venezia, giudica un errore la costituzione di quattro legioni della guardia civica disposta il 13 aprile dal Governo provvisorio della città, che invece solo il 24 maggio (cioè due mesi dopo la rivoluzione) si decide a formare un esercito regolare: quando la patria è in pericolo, ogni cittadino deve essere soldato, è un errore stabilire delle differenze tra esercito regolare e guardia civica. Ciascun cittadino, è vero, è tenuto a mantenere l'ordine nella sua città, ma ha un dovere ancor più grande da compiere, che è la difesa contro

65 • ivi, pp. 190-193. "' Paris, Hachette 1858 (2 Voi.). 61 · ivi, Tomo II p. 359. 68· ivi, Tomo O p. 258.


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IL PENSIBRO MILITARE E NAVALE ITALIANO -VOL. Il (1848-1870)

gli attacchi dall'esterno. Quando l'esercito regolare non è impegnato in operazioni la guardia civica diventa inutile, perché l'ordine interno può essere mantenuto dallo stesso esercito; quando invece l'esercito combatte all'esterno della città, la costituzione di reparti della guardia civica non fa che sottrarre alle forze combattenti la gioventù, immobilizzandola in servizi interni69• L'Ulloa dirige poi i suoi strali contro la condotta delle operazioni dei corpi volontari sulle montagne lombarde nel 1848 da parte del generale Allemandi, e, più in generale, contro la guerra partigiana che egli aveva proposto: il generale Allemandi, incerto sulle decisioni operative da adottare, non sapendo se combattere con La fanteria in Linea [cioè a ranghi serrati come negli eserciti regolari - N.d.a.] o in ordine sparso e con i procedimenti dei cacciatori, continuò a predicare la crociata, e propose al Governo, nel mese di maggio 1848, di prendere in considerazione una proposta fatta dal comitato di Treviso, consistente nel costituire squadre autonome di 25 uomini ciascuna, contro le quali, come si affermava nel suo rapporto, "nulla avrebbe potuto, nè il cannone, né la fucileria del nemico"! L'Ulloa obietta che "fare la guerra nelle contrade lombardo-venete con delle piccole bande armate, significava ricadere nell'infanzia dell'arte militare, quando la guerra trovava la sua principale risorsa nella destrezza e nel valore individuale: in una parola, era la negazione dell'arte militare". Segue un paragone tra le condizioni della guerra d'indipendenza spagnola 1808 - 1813 e quelle della guerra nel Lombardo - Veneto, con considerazioni non certo originali miranti a far risaltare le differenze tra i due teatri d'operazione, differenze che - naturalmente - portano a escludere la possibilità e la convenienza di fare una guerra partigiana nelle regioni italiane. Premesso che "la guerra partigiana può essere qualche volta (sic) utile nei paesi montagnosi e coperti", l'Ulloa mette in evidenza che le bande, oltre a essere comandate da capi di grandi qualità e perfetti conoscitori delle regioni ove operano, devono essere sufficientemente forti da non aver bisogno di altri sostegni, per portare colpi vigorosi al nemico. Occorre inoltre che si appoggino a un forte esercito regolare, che dal canto suo difende le piazzeforti e il territorio contro le imprese del nemico; così è avvenuto nella guerra di Spagna, dove le bande erano sostenute dalle forze regolari nazionali, dall'esercito inglese e dalla flotta e dai tesori dell'Inghilterra. Per contro nel Veneto - prosegue l'Ulloa - non vi era un esercito regolare, e anche il terreno spagnolo era assai diverso da quello del Lombardo-Veneto:

69 ·

ivi, Tomo JI pp. 91-92.


il - GUERRA RIVOLUZIONARIA, GUERRIGUA E INSURREZIONE

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il teatro della guerra in Italia si limita alla zona compresa tra l'Isonzo e il Ticino, e lascia in disparte le Alpi Orientali e le Alpi Retiche che hanno un'influenza secondaria sulle grandi operazioni strategiche. 1 due eserciti dovevano necessariamente combattere e rifornirsi nelle piane della Lombardia e nelle Venezie, senza aver occasione di portare sulle Alpi le grandi operazioni di guerra. Era sufficiente qualche distaccamento più o meno forte per sostenere i montanari del Cadore e del Friuli; e per i passaggi delle Alpi Noriche, alcune bande sostenute da una brigata potevano guardare o forzare la frontiera del Tirolo.70

A questa visione geostrategica diametralmente opposta a quella del Pisacane e dei sostenitori della guerra condotta dai corpi franchi sulle montagne, l'Ulloa aggiunge la valutazione della diversa attitudine delle popolazioni alla guerriglia: mentre in Spagna le bande erano composte da bellicosi montanari induriti da una vita sobria, abituati a tutte le privazioni, impregnati di fanatismo religioso, in Italia, al contrario, i contadini e i montanari restarono generalmente tranquilli a casa loro, e solo la gioventù delle città prese parte alla guerra. Ma questa gioventù, allevata mollemente tra tutte le comodità della vita, occupata in studi speculativi e quasi completamente ignara dei maneggio delle armi, si era arruolata nelle bande per andare a combattere in un paese sconosciuto, al comando di capi stranieri; e con queste bande organizzate in squadre, si è preteso e si pretende ancora di essere in grado di combattere il nemico nelle fertili pianure della Lombardia, piene di strade e di corsi d'acqua, accessibili ovunque, senza possibilità di sorprese, senza che al tempo stesso sia facile celare i propri movimenti al nemico.

La condotta delle operazioni da parte del generale Allemandi dimostra appunto, secondo l'Ulloa, questo asserto. Il Consiglio militare dei corpi volontari da lui stesso costituito a Treviso a fine maggio 1848 in uno dei suoi proclami, si è rivolto ai volontari in questi termini: "A voi che per primi avete preso le armi, offrendo la vostra vita per la Patria e la libertà; a voi che troppo spesso siete trattati con orgoglioso sdegno o di proposito abbandonati con malanimo da parte dei pedanti dell'esercito, ecc.". E più avanti continuava: "oggi non si tratta più di condurre delle campagne militari tradizionali che si fanno con gli eserciti, e che si concludono con dei trattati segreti, dei quali i popoli fanno le spese". Così si trattavano i militari e gli eserciti! Si può forse vedere in questo comitato una cosa diversa da una fonte di dissolvimento delle forze regolari? Ben presto il generale Allemandi, a causa della sua debolezza, sarebbe stato c~stretto a riconoscerlo. Il 25

'~ ivi, Tomo II pp. 93-94.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. il (1848-1870)

maggio 1848 egli nominò il colonnello Morandi comandante superiore dei corpi franchi alle dipendenze del comitato. Ben presto il disordine aumentò a causa delle divisioni tra i corpi franchi, alcuni dei quali non volevano riconoscere l'autorità del comitato. Il generale Allemandi ebbe modo di pentirsi della sua incapacità, allorché dopo la resa di Vicenza, avendo richiamato da Treviso le forze che la presidiavano non fu affatto obbedito, e così fece perdere a Venezia più di 4000 volontari71. Più che di una serena analisi, queste aspre parole dell 'Ulloa - dettate dall'amara esperienza della difesa di Venezia - a ssumono l'aspetto di un vero processo ai volontari, e non solo alla guerriglia in sè. Esse si basano soprattutto sui gravi difetti delle truppe volontarie condannati anche dal Forbes; ma, in fatto di strategie e ordinamenti, non dimostrano certo la stessa severità nel condannare quelle forti lacune della guerra tra eserciti e dei suoi strumenti, che pure esistevano ed erano a loro volta il facile bersaglio delle invettive dei sostenitori di sistemi e strategie alternative che tendevano a esaltare fin troppo il ruolo delle forze militari non professionali. In tal modo critiche unilaterali e senza appello come quelle dcll ' UJloa finivano con l'accreditare grandemente la confusione e l'incomunicabilità tra guerra di eserciti regolari e guerra regia, favorendo proprio il ricorso a quei sistemi " alternativi" da lui condannati. Non si può certo dire che la Rivista Militare, nata nel 1856, dedichi molte pagine alla guerriglia e alla sua relazione con la guerra classica. L' unica eccezione è un articolo del 1863 a firma dell'ufficiale di fanteria A. De Cesare, con un titolo emblematico: La guerra e la guerriglia72 • Fin dalle prime righe il De Cesare enuncia con chiarezza lo scopo del suo scritto: la è opinione di qualche moderno scrittore che la guerriglia facesse parte della guerra in generale; e vistala anzi a sviluppare nelle ultime vicissitudini europee vorrebbesi formarne di quella una parte interessante d'ogni tnrttato militare. Noi intendiam contrastare questa opinione... Dunque: di guerriglia si deve parlare il meno possibile! Per dimostrare questo suo asserto il De Cesare fa ampi riferimenti al Forbes, e cita anche Garibaldi e la sua campagna del 1860; da taluni accenni, inoltre, appare chiaro che su quanto scrive ha una certa influenza il poco favorevole andamento delle operazioni contro il brigantaggio nell'Italia Meridionale, che nel 1863 sono al culmine. Le massime dettate da grandi capitani come Napoleone, Federico, l'Arciduca Carlo ecc. - osserva il De Cesare - non possono essere applicate alla guerriglia, i cui precetti sono spesso l'esatto opposto di quelli degli eserciti regolari. Infatti 7

1.

ivi, Tomo Il p. 95.

Anno VII - Voi. IV maggio 1863, pp. 180-190. II tenente di fanteria A. di Cesare non va confuso con Raffaele de Cesare, autore della Fine di un Regno (1894- Rist. 1975 Roma, Newton Compton- 2 Voi.). n. "Rivista Militare Italiana "


fl - GUERRA RIVOLUZIONARIA, GUERRIGLIA E INSURREZIONE

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la guerra[ ... ] tende a vincere il nemico ed è arte o scienza a seconda che si tiene alla pratica o alla teoria. La guerriglia invece [ ... ] anzi che formarsi scopo di vincere il nemico, si forma mezzo di quello per giungere al suo scopo. E ciò val quanto dire che non tende a vincerlo militarmente ma ad inquietarlo, acciò che la politica potesse poi vincerlo. E la scienza stessa della guerra non vi in.fluisce menomamente; ed i principi scientifici vengono appena nella guerriglia desunti dalla guerra regolare per modificarli a seconda del proprio bisogno. È arte quindi essa a considerarsi; ed è anzi contraria bene spesso alle regole di sana scienza militare; avendo oltre allo scopo diverso anche mezzi differenti [... ]. Non si può riscontrare la guerriglia ad alcuna suddivisione della guerra, ed ha anzi specifica strategia, peculiare tattica e rara e disperata fortificazione; servendo alla politica più assai che ad altro.

La condotta di operazioni di guerriglia non ha alcuna analogia con il "dove, come e quando" della guerra regolare, perché le bande di guerriglieri muovono spesso "a casaccio, con mezzi vari, e rinunciando a quelle leggi di umanità che regolano la guerra tal come la pace". Esse non hanno una vera e propria base d'operazione, che è sostituita da boschi e montagne; e ricorrono alla concentrazione delle forze solo quando si profila la possibilità di sferrare un attacco, disperdendosi subito dopo. Sconfitte dalle truppe, le formazioni guerrigliere anziché darsi per vinte formano i nuclei di nuove bande, "alle quali riuscendo comodo da principio per la piccolezza del numero di evitare il nemico, è facile educarsi a vincerlo, acquistar fiducia nel paese, e contrastare le truppe che si movessero per quelle vicinanze". La guerriglia tende per quanto possibile a rendere inutili i vantaggi che derivano alle truppe regolari dalla loro accurata organizzazione, e prima sua massima c'è un paradosso, che per altro si è sperimentato inalterabilmente vero; tutti gli uomini stupidi e vigliacchi che siano, mal destri e cattivi possono raccolti in masse riuscir buoni a qualche cosa. Nessun merito intendiamo con ciò ledere a quelli tanto bravi e valorosi di cui ve ne ha pure gran numero nelle armate volontarie, l'ingegno naturale dei quali è bellamente sviluppato nelle guerriglie: come ne fan prova i Durando, Fanti, Cucchiari, Cialdini, Tiirr, Bixio, Sacchi, ed altri tali.

Secondo il De Cesare Garibaldi è stato a volte un guerrigliero, ma certamente non un brigante, e se le operazioni di guerriglia alle quali anche i volontari di Garibaldi hanno fatto ricorso vanno distinte dalla guerra, a maggior ragione vanno çlistinte dal brigantaggio. Su questo punto egli dissente dal Forbes, per il quale i volontari o guerriglieri vincitori sono chiamati patrioti, mentre quelli che soccombono sono detti briganti: secondo noi è lo scopo che i volontari si propongono, e i mezzi che tengono per metterli in atto, che diversificano gli uni dagli altri; ed eroi sono sempre stati i caduti con Carlo Pisacane, mentre sgherri vilissimi


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

saranno sempre tenuti i soldati che ora ne manda [nel meridione N.d.a.] la carità cristiana del Papa - re [cioè i briganti, al tempo protetti dal Vaticano - N.d.a.].

Vi sono molte differenze tra il modo di agire dei volontari e quello dei briganti. Il Forbes indica come obbligo primario dei volontari quello di rispettare la proprietà, cosa che non fanno i briganti con i loro ricatti; afferma, poi, che i volontari non devono avere una base d'operazione ma contare sulla protezione delle popolazioni: i briganti, invece, "non si allontanano mai troppo dalla loro base d'operazione che è il confine pontificio, e ricevono aspra caccia dalle stesse guardie nazionali"; raccomanda di tenere poca cavalleria, ma le più forti bande di briganti sono a cavallo. Infine, "la superficiale istruzione ed educazione tenuta dai volontari, è forse calcolata nelle orde brigantesche? Hanno esse per iscopo d'inquietare e hanno colore politicò, oppure tendono solo a rubare?". Evidentemente, al tempo c'è bisogno anche che qualcuno dimostri che i volontari o guerriglieri sono cosa molto diversa dai briganti, e questo fatto dice già molto. Il De Cesare, tuttavia, accomuna anche queste due forme di lotta armata ben diverse da quelle degli eserciti regolari, sostenendo che "nuoce il pigliarle in considerazione, inferocendo e indisciplinando i soldati, educandoli a una scuola alla quale anzi che adattarsi è più decoroso di essere vinto". Perciò negli ordinamenti militari non si deve tener conto della necessità di condurre operazioni di controguerriglia, e la possibilità di costituire reparti ad hoc per queste esigenze temporanee potrebbe essere presa in considerazione solo se essi potessero poi essere impiegati in altro modo. E poi ché la guerriglia non ha niente in comune con l'arte della guerra, "ciò valga a risparmiare ogni possibile menda al nostro esercito, se agendo con tante abnegazione e sacrificando tante illustri vite, non è riuscito a completamente spegnere la piaga del brigantaggio che infesta le province meridionali". La chiusa del De Cesare fa del suo articolo una sorta di saldatura tra il problema della guerriglia e quello del brigantaggio, che ci accingiamo ad affrontare; sotto questo profilo le sue tesi suonano come giustificazione dei mancati successi dell'esercito nella debellatio del banditismo. Non vi è dubbio, comunque, che esse si inseriscono ancora una volta nel pensiero jominiano e anticlausewitziano, indicando la guerra come governata da principi fissi e avente come fine unico la vittoria; solo con queste premesse allora come oggi non accettabili, può reggere la dimostrazione che la guerriglia non fa parte della guerra, cosa negata da Clausewitz .


CAPITOLO lii

L'INTERVENTO DELL'ESERCITO NELL'ITALIA MERIDIONALE DAL 1860 AL 1870: REPRESSIONE DEL BRIGANTAGGIO O CONTROGUERRIGLIA?

L'intervento dell'Esercito nell'Ita1ia Meridionale dal 1860 in poi, ha dato luogo a controverse interpretazioni. Dal punto di vista tecnico-militare esso rimane un interessante caso concreto, rispetto al quale vanno valutate le teorie già esaminate nel precedente capitolo Il. In particolare quelle dolorose vicende, assai lontane, inducono a riflettere sulle difficoltà oggettive che le forze regolari di ogni tempo hanno dovuto superare in siffatte situazioni fluide, dove i confini tra il "politico" e il "militare" sono sfumati , né riesce facile distinguere l'"amico" - o il cittadino - dal "nemico". Le sintesi più recenti, e anche più attendibili e equilibrate, sulle operazioni contro il brigantaggio sono quelle del generale Bovio, nella sua Storia dell'Esercito Italiano (1861-1990) e del Tuccari sugli aspetti tecnico-operativi.1 Secondo il genera1e Bovio Il termine brigantaggio, ormai entrato nella consuetudine anche storiografica. è riduttivo. In realtà, soprattutto nei primi anni, il fenomeno ebbe connotazioni tali che il termine più appropriato per definirlo

sarebbe quello di guerra civile f... ]. Senza conoscere i trattati sulla guerra per bande [... ] le bande operavano con i classici sistemi della guerriglia ... 2

L'Esercito italiano combatte dei guerriglieri o dei banditi? A parer nostro, tutti e due. Se si tratta di "una forma di lotta particolare" la quale viene condotta "con l'appoggio almeno parziale della popolazione" e si sviluppa "con azioni aggressive improntate a fluidità, rapidità e sorpresa"3, da ' O Bovio, Storia dell'Esercito Italiano ( 1861-1990), Roma, SME - Uf. Storico 1996, pp. 53-68, e L. Tuccari, Memoria. sui principale aspetti tecnico-operativi della lotta al brigantaggio dopo l 'unità (1861-1870), in "Studi Storico-Militari" 1984, Roma, SME - Uf. Storico 1985, pp. 203-270. 2 O. Bovio, Op. cit., p. 61. 1 Pub. SME n. 5895 Nomenclatore Militam F..wm:itn, Roma I 9R4, p. 61.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il ( 1848- 1870)

un punto di vista strettamente tecnico-militare l'Esercito si trova di fronte dei guerriglieri: è ben noto che - a parte i procedimenti d'azione tipici della guerriglia - specie nei primi anni le bande de] Sud si moltiplicano fino a raggiungere una forza stimata in 80.000 uomini4, hanno anche il classico "santuario" fuori dai confini (rappresentato dallo Stato pontificio e da certi conventi), ricevono appoggi politici e morali e aiuti di ogni genere dall'esterno, godono persino di un certo consenso da parte dell'opinione pubblica europea più retriva. Il banditismo ha sempre effettivi molto ridotti; quello del 1861-1865 ha bande composte anche da centinaia di uomini e arriva a impegnare severamente 120.000 soldati regolari. Dato, questo, che da solo dimostra che l'Esercito sostiene vere e proprie operazioni di controguerriglia contro numerose formazioni che in certi periodi godono di consistenti appoggi da parte della popolazione civile, perché altrimenti non sarebbe loro possibile sostentarsi e fruire di tutte le informazioni possibili. Al tempo stesso è un fatto assodato che in molte aree del Sud il banditismo era un fenomeno endemico con il quale (come con la delinquenza organizzata) i poteri costituiti avevano non di rado stabilito dei patti di convivenza; ed è ugualmente ben noto che, fin dall'inizio, alle azioni di tipo militare delle bande contro quello che continuano a chiamare l'Esercito piemontese "occupante", si accompagnano numerosi e crescenti atti di delinquenza comune, ricatti, grassazioni, sequestri di persona, ruberie e saccheggi, taglieggiamenti dei benestanti locali. Tutti eccessi non sporadici ma rientranti nella vita quotidiana delle bande, che gli emissari e ufficiali borbonici inviati dal governo in esilio di Roma per "disciplinare" l'azione delle bande tentano invano di eliminare o ridurre, ben sapendo che - come poi è avvenuto - siffatti comportamenti tolgono in misura crescente l'indispensabile consenso della popolazione civile, e in particolare degli strati sociali più evoluti e benestanti. I guerriglieri, dunque, spesso non si comportano come tali ma, non rispettando i canoni fissati da Mazzini e Bianco (Voi. I, cap. XIV) oltre a rendersi ostili aliquote crescenti della popolazione, non ubbidiscono a un unico centro direttivo; atteggiamento tipico delle bande di briganti, che però non impedisce loro di agire come guerriglieri attaccando anche forze consistenti dell'Esercito. . Non intendiamo qui ripercorrere tutte le vicende della dura lotta che ha termine intorno al 1870 con l'eliminazione lenta, progressiva, non indolore delle bande; ci limitiamo solo a riferire i principali giudizi di autori coevi, quando possibile di ambedue le parti in lotta. In proposito, si deve constatare che gli scritti e gli studi del periodo 1861-1870 sul brigantaggio finora ignorati - sono abbastanza numerosi e risalgono in massima parte al periodo 1862-1865, che segna anche la maggior crescita del fenomeno. Non

•- Dato riferito da P.G. Franzosi, La campagna contro il brigantaggio meridionale post-unitario, "Rivista Militare" n. 2/1976, p . 74.


lll - L'INI'ERVENTO DELL'ESERCITO NELL'ITALIA MERIDIONALE

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sono, dunque delle "storie" ma dei tentativi coevi di interpretare una realtà nuova, e come tali, non possono essere ritenuti sereni, né obiettivi. Nonostante questi limiti, essi forniscono un'insostituibile immagine dei sentimenti dei contemporanei, dei protagonisti e vanno molto al di là degli aspetti puramente tecnico-militari, che nella fattispecie hanno interesse non preminente. Per queste ragioni gli scritti in questione hanno importanza almeno pari a quella dei documenti d' archivio; perciò non si spiega facilmente, oggi, perché finora sono stati poco o nulla studiati e citati.

Le due opere di base di Marco Monnier ( I 862) Nel 1862 Marco Monnier (nome non altrimenti noto) pubblica due libri, uno in italiano e l'altro in francese: Le Notizie storiche sul brigan-

taggio nelle province napoletane dai tempi di Fra Diavolo ai giorni nostri5 e l'Histoire du brigandage dans l'Italie Méridionale6; per descrivere il brigantaggio in Basilicata nel 1861, il Monnier afferma inoltre di aver utilizzato "la preziosa guida" del libro dì Camìllo Battista Reazione e brigantaggio in Basilicata nella primavera del 186J7. Questi contributi sono stati finora, a quanto ci risulta, ignorati: ne troviamo un fuggevole accenno solo nel libro di Luigi Cadorna Il generale Raffaele Cadoma nel Risorgimento Italiano, 8 nel quale il condottiero della prima guerra mondiale traccia un affettuoso ritratto del padre.Raffaele, riportando le sue riflessioni sulla lotta al banditismo, che inquadra in questo modo: "ho tolto le precedenti notizie sul brigantaggio negli Abruzzi dal libro di Marco Monnier Notizie storiche sul brigantaggio nelle province napoletane, il quale dice di averle raccolte dallo stesso Intendente De Vrrgili che ho poc'anzi nominato'"!. Eppure in misura diversa, ma sempre importante, alla descrizione degli avvenimenti e dei protagonisti fornita dal Monnier - così come alla sua valutazione delle cause remote e vicine del banditismo - sembrano aver attinto i principati autori che dal 1862 al 1865 hanno scritto sull'argomento, almeno in senso sostanzialmente favorevole all'opera dell'Esercito. Il Monnier fa un'interessante analisi di tipo storico e sociologico, prima ancor che politico, della situazione dell'Italia Meridionale nel 1860-1861 e dei suoi precedenti, fino ad affermare che, mutatis mutandis, il generale Cialdini deve far fronte a una situazione analoga a quella che aveva trovato in Calabria all'inizio del secolo il generale francese Manhès, inviato da Murat a stroncare la ribellione. La sua tesi di fondo è semplice: su fenomeni endemici nella società meridionale come il banditismo è la delinquenza '· Firenze, Barbèra 1862. • Paris, M. Levy Frères 1862. 7 Potenza, Star. Tip. V. Santanello 1861 · • Milano, Treves 1922, p. 203. •- M . Monnier, Histoire du brigandage ... (Cit.), p. 3.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

organizzata (camorra), si innesta la crisi inevitabilmente prodotta dalla caduta del potere borbonico e dal passaggio dei poteri a un nuovo governo, che invia sul posto un luogotenente e che è ancora sostanzialmente piemontese, prima ancor che italiano. Così stando le cose, il Monnier intende dimostrare "la differenza enorme che esiste tra i disordini delle province napoletane e le insurrezioni dei carlisti e dei vandeani", dissipando "la confusione consapevolmente alimentata da certi giornali per dare ai sommovimenti di questo paese le dimensioni proprie di una guerra civile" 10• In una società da sempre dominata dall'arbitrio, dalla paura, dalla forza che prevale sul diritto, da un potere corruttore che non combatte la delinquenza, la magnanimità del nuovo governo (che dopo Gaeta accorda due mesi di congedo ai soldati borbonici) fa rifluire verso le loro case una massa di uomini già profondamente corrotti dalla vita oziosa nelle caserme borboniche; essi si trovano senza mezzi di sussistenza e, date le loro abitudini, la mentalità imperante tra il popolo, la corruzione della società, non riescono a reinserirsi nella vita normale, non si adattano a lavorare ma ingrossano le file del brigantaggio e della delinquenza. Nei primi tempi essi non pensano affatto a restaurare la monarchia borbonica, non sono mossi da sentimenti di onore e fedeltà; d'altro canto non intendono servire sotto le bandiere dell'Esercito italiano, un po' per antipatia verso i piemontesi, un po' perché il servizio nel nuovo Esercito era più duro e meno pagato che nell'esercito borbonico, ma "soprattutto perché (me lo hanno confessato candidamente almeno una ventina di filo-borbonici), Vittorio Emanuele era un re troepo bellicoso, ed essi non accettavano affatto di fare guerra all'Austria". E stato solo in un secondo tempo, quando i soldati licenziati e i disertori si sono uniti ai malfattori sulle montagne, che la cospirazione borbonica "organizzata a Roma, a Napoli e ben presto in tutto il paese, ma mancante di soldati" ha deciso di utilizzare questi uomini. Solamente da allora il brigantaggio ha acquistato un colore politico e ha guadagnato l'appoggio anche del clero. Alla sua diffusione hanno contribuito gli errori del nuovo governo, che ha dissipato in poco tempo la grande popolarità invece conquistata presso il popolo napoletano da Garibaldi: ma "dire che il lazzarone [napoletano] è partigiano di Francesco Il di Borbone o repubblicano, significa solo dimostrare che non si è mai messo piede in questo paese, dove non si tratta tanto di principi o convinzioni, ma di simpatie o antipatie". Dal canto loro, "i saccheggiatori non chiedevano di meglio che di ricevere venti, trenta e fino a cinquanta scudi al giorno, e di legittimare le rapine. Essi non erano più dei ladri, erano diventati dei partigiani". Seguono lodi all'operato dei generali piemontesi e in particolare di Ferdinando Pinelli, che, accusato di barbarie "dai filantropi di Londra e Parigi, che i malfattori abruzzesi non minacciavano affatto nelle loro case e nelle IO.

ivi, p. 74.


lii - L'INTERVENTO DELL'ESERCITO NELL'lTALIA MERIDIONALE

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loro famiglie", è costretto a lasciare il comando, non senza però aver distrutto il banditismo (sic) prima di partire. Con qualche fucilazione, il generale aveva provocato la resa di centinaia di banditi e salvato migliaia di vite: perché "i banditi arroccati a Valle Castellana non rubavano solamente, ma uccidevano". Si è biasimata - prosegue il Monnier - la fucilazione di Borjès, e Victor Hugo ha scritto che il governo italiano facila i sostenitori della monarchia: ma che cosa poteva fare il governo italiano? a quale scopo distinguere tra !'onest'uomo e il brigante? con quale diritto giustificare i delitti e i furti commessi dall'uno insieme all'altro? Si era visto Borjès sodale di Croceo in tutte le sanguinose imprese della Basilicata. Da allora in poi, la legge è stata inflessibile: "saranno fucilati tutti coloro che sono colti con le armi in mano". Questa legge era stata fatta per dei banditi, perché ormai non v'erano che banditi in queste parodie di guerra civile. Non un Italiano di cuore, non un ufficiale del re decaduto, non uomo al quale i capi della reazione filo-borbonica avrebbero voluto stringere la mano, si era unito alle bande di Croceo o di Mittica. Che cosa dunque era venuto a fare Borjès - uno spagnolo - in queste ignobili imprese da taglia-gola? bisognava essere indulgenti con lui perché era spagnolo? I napoletani sarebbero insorti violentemente contro questa ingiustizia. In effetti più tardi, quando su preghiera del principe di Scilla il generale La Marmora ha acconsentito all'esumazione e al trasporto a Roma della salma di Borjès, un grido d'indignazione si è levato da tutti i villaggi della frontiera [con lo Stato Pontificio]. Un'ondata di proteste è partita per Caserta, per Napoli e per Torino. L'implacabile rancore dalle popolazioni non sa più distinguere: il legittimismo, per loro, è il brigantaggio.''

Il Monnier chiude con la fucilazione di Borjès (dicembre 1861) l'opera, constatando, con eccessivo ottimismo tipico anche di altri autori del periodo, che il banditismo è ormai alla fine: sono rimaste solo poche bande, e il generale La Marmora, apprezzato per le sue virtù piemontesi, controlla ormai saldamente la situazione. Tant'è vero che - egli riferisce - ha avuto l'ardire, mancato ai luogotenenti suoi predecessori, di ordinare la leva di 30.000 uomini, che pressoché ovunque ha avuto successo ed è stata accolta con entusiasmo. Le "Storie della caserma" (1854) e "Il Brigantaggio alla frontiera pontificia

dal 1860 al 1863" (1864) di Alessandro Bianco di Saint Jorioz. figlio di Carlo Il conte Alessandro Bianco di Saint Jorioz, figlio del più celebre Carlo (Vol. I - cap. XIV) e ufficiale di cavalleria come il padre, è stato scrittore

Il.

ivi, pp. 246-247.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II ( 1848- 1870)

militare di buona vena e a somiglianza del padre provvisto di una non comune dote di spregiudicatezza e libertà di giudizio. Le due sue opere principali non riguardano solo la guerriglia, ma anche la guerriglia e l' insurrezione in genere; pertanto il luogo più opportuno per collocare gli scritti del figlio di tanto padre è questo capitolo. Appare oggi singolare, per inciso, che il figlio di uno dei capi dei moti contro ]a monarchia piemontese e del massimo teorico della guerra "alternativa" di stampo mazziniano sia stato accolto senza ostacoli nell'armata sarda e vi abbia ricoperto incarichi di rilievo, come quello di ufficiale d'ordinanza del generale Bava nella guerra del 1848-1849 e di Capo di Stato Maggiore de] generale Govone nella campagna contro il brigantaggio meridionale, che aveva molte analogie con le operazioni condotte dagli eserciti regolari contro quella guerriglia che era stata così appassionatamente sostenuta dal padre. A.B. dedica le Storie della Caserma 12 - raccolta di ritratti e di episodi edificanti ad uso didattico per i sottufficiali e la truppa - al generale Bava, il quale però ricusa la dedica e lo invita a dedicarle all'esercito piemontese. Di rilievo nell'opera un affettuoso ritratto de] padre con notizie su1la sua vita, sufficiente per sfatare definitivamente le tesi di coloro che hanno presentato il figlio come un rinnegato, un traditore degli ideali del padre con il quale avrebbe avuto forti dissensi. Seguendo il consiglio del generale Bava, dedica il libro all'armata piemontese, "devota al trono e protettrice dell'ordine»; ma sulla teoria della guerra per bande dice, semplicemente, che "proponevasi insegnare agl'italiani come combattere e vincere lo straniero oppressore", il che equivale a coglierne almeno il lato positivo; e dell'opuscolo Due parole ai militari italiani scritto dal padre in Svizzera arriva a dire che era "gagliardo e eloquente". Giudica il padre "meritevole di un onorato posto in questa galleria di prodi, e di virtuosi, essendo stato per eccellenza un uomo puro, buono, onesto, valoroso e sapiente, uno de' migliori cittadini che gli ultimi cinquant'anni abbiano dato al1'Italia". E così affronta lo spinoso argomento della partecipazione di Carlo Bianco ai moti del 1821 e 1834: s'accostava il 1821, e gli animi in fermento s'affratellavano nella vasta associazione de' Carbonari in cerca d'un intento mal definito e procacciato con mezzi timidi, inefficaci, ma nazionali; Bianco entrò nelle file con idee che per istinto di cuore e logica di mente erano innanzi d'assai a quelle dei capi; né allora egli, nuovo d'armi e d'influenza, poté fare che prevalessero [ ...] Primo fra quelli che iniziarono il moto in Alessandria nel 1821, Bianco meritò menzione specialmente onorevole dallo storico della rivoluzione piemontese, Santarosa, e l'avrebbe meritata dalla nazione, se i vizi ch'erano alla base dell'edifizio non l'avessero rovinato nel giro di poche settimane. 12 A. Bianco di Saint lorioz, Storie della caserma ovvero cinquecento aneddoti militari tratti dalle migliori istorie militari dei tempi moderni, Torino, Fory e Dalmazzo 1864. Stranamente il ritratto del padre (pp. 256-258) non figura nell'elenco dei personaggi citati in calce al libro, forse perché assai favorevole.


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Nessuna condanna, dunque, di que11a che era pur sempre una sedizione militare contro la monarchia, ma solo rammarico perché - par di capire - le modalità scelte non consentivano di raggiungere lo scopo, che era nobile e santo. Anzi: nei commossi ritratti di Giacomo Garelli, ufficiale piemontese compagno d'anne del padre perito sulla forca dopo i moti del 1821, dell'ufficiale dei Carabinieri Giambattista Laneri impiccato anch'egli nel 1821, dell'altro ufficiale Efisio Tola impiccato nel 1833,'3 il figlio di Carlo Bianco fa la sua scelta di campo, che è inequivocabilmente dalla loro parte. Giacomo Garelli "vedeva la sua patria oppressa e governata per predilezioni e favori e cortigianerie oscurissime e tristi. Vedeva la povera Italia divisa e conculcata, e perduta la sua dignità di nazione e il libero suo governarsi". La città di Alessandria nel 1821 "è il convegno della soldatesca che vuole la federazione italiana e la libertà, come erasi riunita nella città di Monte Forte nel Reame di Napoli la soldatesca patriottica. E i rovesci de' Napoletani a Rieti aprirono il campo a' rovesci de' piemontesi a Novara [nel 1821, contro le truppe·legittimiste - N.d.a.]". Nei tempi che videro il padre ribellarsi "i pubblici uffizi, massime ne11a milizia, concedevansi per arbitrio o predilezione, senza irrecusabili esperimenti di cognizioni scienti.fiche o militari". Nel 1839 "la polizia piemontese, sospettosa e inquisitrice, andava famelica di vittime, le quali fossero a esempio ciecamente immolate", mentre i due commilitoni che denunciarono il Tola e testimoniarono contro di lui "ebbero poi a godere il premio di Governi corruttori". Come il padre, A.B. desidera ardentemente un'Italia una, indipendente e libera: ma diversamente da lui - e da Mazzini - non pensa che questo possa essere ottenuto senza la monarchia e senza l' apporto di un disciplinato esercito regolare, anche se apprezza senza aprioristiche chiusure - là dove ci sono stati - i risultati e l'alto valore morale delle insurrezioni popolari. Un atteggiamento, insomma, equilibrato, attento ai fini più che ai mezzi, ben lontano dalle utopie anche se non privo di contraddizioni. Della guerra di Spagna 1808-1813 dice che fu una guerra per la quale si conobbe quanto possano i popoli, sebbene inesperti d'arte militare, allorché abbiano fermo di vincere e seppellirsi sotto le rovine della loro città. Ogni goccia di sangue versato per la patria produce nuovi difensori, e quelli spenti, altri e più fieri risorgono, allorché abbiano fermo di vincere o di seppellirsi sotto le rovine della loro città[... ]. In questa guerra spagnola, si vide fino a qual punto estremo possano giungere o la ferocia o l'eroismo della creatura umana [... ]. Nuove battaglie, dico, furono queste, che vado raccontando, né da Napoleone aspettate; bisognava palmo a palmo conquistare il terreno; dispersi oggi i nemici, tornavano più infesti e numerosi domani, il pugnale e il veleno spensero più vite, che non le armi guerresche; ed è santo ogni mezz.o, purché diretto alla salute della patria

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" ivi, pp. 258-263 e 442.


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[nostra sottolineatura - N.d.a.]. La malattia, la fame, la dura necessità, che domarono fin qui ogni ente mortale, non vinsero gli spagnoli: morivano, non si arrendevano••.

Riguardo agli aspetti politici di quella guerra, però, il giudizio di A.B. è più sfumato: da ambedue le parti vi erano ragioni e torti, perché - viste le loro riforme in campo politico e sociale - i francesi non erano ispirati solo da sete di dominio, mentre dell'altra parte non tutto fu amor di patria, "ché vi si aggiunsero le ignoranze superstiziose e le ferocie d'uomini sanguinari". Loda anche il valore degli svizzeri nel secolo XIV, i quali "erano i più eroici soldati e nel medesimo tempo si mostravano i più eccellenti cittadini. E questa unione così rara spiega la loro potenza come popolo ..." 15. Al tempo stesso, non sottovaluta affatto le negative ricadute militari del federalismo, dell'amore della libertà, della democrazia, che secondo taluni apologeti erano stati la vera causa della vittoria della "nazione armata" di Washington nella guerra d'indipendenza degli Stati Uniti (1775-1783) 16. Nessuno come lui sa descrivere le <lif:ficoltà prima di tutto logistiche che Washington con la sua perseveranza e la sua abilità ha dovuto superare, con i vari Stati gelosi della loro autonomia, discordi, riluttanti di fronte agli inviti di un governo centrale privo della necessaria autorità. Tutti gli negavano i soccorsi e i rinforzi, sì che "nessun esercito forse ha vissuto in più dure e sciagurate condizioni dell'esercito americano", minato dalle diserzioni e indisciplinato, dove tutti i corpi pretendevano di agire "per proprio conto e secondo le loro particolari convenienze". E i nazionalisti più ardenti erano anche i nemici più acerrimi degli eserciti permanenti, "i più sospettosi della libertà civile, cioè quelli che vedevano l'armata, lo spirito militare, la militari disciplina, con occhio più geloso e ostile". Secondo A.B. la rivoluzione americana è stata provocata e guidata dalle classi colte e benestanti, è stata la rivoluzione di un'élite che il popolo si è limitato a seguire. Washington raccomandava che gli ufficiali fossero solo gentleman; ed è stato grande, non perché ha introdotto un nuovo tipo di guerra, ma perché ha saputo adeguare il tipo di guerra da condurre all'obiettivo politico e alle effettive possibilità delle forze a sua disposizione, in relazione alla situazione del momento. E così egli che tante volte si era rifiutato di ascoltare gli inviti a prendere l'offensiva, nel 1798, ormai anziano, di fronte alla prospettiva di una guerra con la Francia scriveva al suo successore nella Presidenza degli Stati Uniti: "io presentisco facilmente, che se noi entrassimo in una seria lotta con la Francia la guerra differirebbe molto da quella da noi per lo passato sostenuta. In quella, il tempo, una prudente riserbatezza, lasciar il nemico logorarsi sino a che noi fossimo provveduti d'armi e di truppe disciplinate per

ivi, pp. 78 e 440-44 l. " ivi, pp. 619-636. •• ivi, pp. 688-690. 14


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combattere [nostra sottolineatura-N.d.a.], era questo un sistema per noi saggio e naturale. Ora invece, se noi avessimo a combattere co' francesi, sarebbe d'uopo assaltarli ad ogni passo e continuamente e senza posa pugnare". Venendo alle cose italiane, A.B. non parla mai di Garibaldi, né sembra che abbia molta stima dei volontari lombardi del 1848-1849. Descrive la riuscita azione di sorpresa delle truppe austriache del principe Taxis (composte per la maggior parte di italiani) contro i volontari di presidio a Castelnuovo, i quali "gavazzavano nelJe taverne, o mollemente assisi sotto quel ridentissimo cielo s'addormentavano sognando alle vicine vittorie, all'agognato ritorno ...". E all'arrivo degli austriaci, "interrompono, atterriti, le ebbre canzoni, i sogni ridenti ... ". Vero è, però, che non dimentica gli eroismi dei volontari di Manara e di Dandolo alla difesa di Roma nel 1849, e esalta la resistenza del popolo veneziano nell'assedio austriaco del 1949, nel quale ''Venezia si acquistò grande gloria, solo perché il popolo tutto unito in un solo volere veramente volle e veramente fece". Furono, insomma, le milizie popolari veneziane a essere protagoniste; questo deve essere un motivo di speranza, perché "ove tutti gli italiani, come il popolo veneziano, saranno uniti in uno amore e una fede, e uniti combatteranno, e forti combatteranno, e lungamente combatteranno, la vittoria verrà". Una posizione che assomiglia molto a quella di Balbo: l'importante è che gli italiani combattano tutti uniti e combattano a lungo, non importa come. Ma, al tempo stesso, dura e aperta è la polemica contro il mazzinianesimo, e wntro tutto ciò che può minare il valore fondamentale della disciplina nell'esercito. Coloro che sono morti in nome dell' onore e del dovere, che si sono sacrificati sul campo "con stupenda abnegazione" per la Bandiera, vennero con disprezzo avviliti da alcuni scoccubrini saputelli dicendo: il soldato è una macchina! Il vu]go stolido adottò la frase senza comprenderla, e il marchio fu improntato. Chi dice annata, dice ordine; gli è perciò che fuvvi un tempo che una caritatevole setta italiana, amica e fautrice in nome di Dio e del popolo del disordine, tentò cristianamente e fratellevolmente di far cessare questo stato di macchina per fare di noi delle baionette intelligenti, ciò che nelle buone armate suona come il peggior seme che mai vi sia di soldato, ed è sinonimo di ladro, fuggiasco, ribelle e vigliacco soldato. Vi si lavorò per lunga fiata e pertinacemente, ma indarno [...]. Questa macchina è dunque ben potente per resistere allo spirito di rivolta, spirito che ad una ad una ha vinto le diverse potenze, i troni, le leggi, le società, gli altari? [... ]. Voi ci stimate poca cosa, o eccelsi imbrattamondi, perché noi siamo delle macchine che una volontà straniera fa muovere [...]. Nel mentrecché le vostre labbra predicano la dissoluzione, l'anarchia, il disonore nelle armate, una voce interna, mormora nella vostr' anima, e vi dice che il sagrifizio è una virtù, e che la dignità del carattere è superiore all'indi• pendenza dello spirito. 17

17

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ivi, pp. 693~694.


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La macchina militare ha una prodigiosa intelligenza, che però gli è servita solo nella sfera delle cose morali; ma quando l'esercito "ba penetrato, rare volte gli è vero, nella sfera delle cose politiche, essa si è infallil bilmente smarrita". Il soldato non è una macchina, perché "nei più ordinari accidenti della vita, ciò che voi chiamate macchina, è ben attivamente intelligente, destro, ingegnoso, buono e divoto, di quello che voi noi crediate". E avversare le baionette intelligenti non significa negare il beneficio della istruzione nelle armate: ."nessuno più di me è fautore che alle armate si prodighi ogni possibile cognizione e si sviluppi quanto più si possa l'intelligenza". Con queste parole, A.B. intenda stigmatizzare due dei più gravi difetti degli Eserciti italiani e in particolare dei volontari, che li condannano alla sconfitta. Il primo è quello di voler continuamente giudicare e commentare conseguentemente alle loro idee gli ordini del Capo; esse [cioè le truppe - N.d.a] continuamente, e Dio sa con quale senno, misdicono dei loro superiori, condannano senza criterio le mosse !oro ordinate senza darsi pensiero e senza conoscere il motivo che così fa operare il generale, propongono nuovi movimenti, pospongono gli ordini ricevuti, inventano piani diversi e i più sciocchi e i più avventati che mai sia possibile lo immaginare. Questo difetto che si può chiamar vizio di natura nelle italiane milizie, è perniciosissimo, e può a vere le più funeste conseguenze, tanto più se le mosse che loro si fanno eseguire non s'accordano colle loro idee bislacche e stordite' 8•

Allora subentra la sfiducia, il dubbio e il timore, la disciplina si allenta, tutti mormorano, e così l'esercito più forte, che avrebbe potuto essere efficiente e ottenere vittorie se fosse stato unito, compatto e pronto a eseguire la volontà del Capo, "non è più che un'accozzaglia di quella gente perversa e incapace di cui sopra già abbiamo ragionato". Vi è poi un secondo e ancor più grave e dissolvente vizio: alla prima percossa della avversa fortuna, ecco la discrepanza delÌe opinioni ripullulare, riapparir le fazioni, rianimarsi le male estinte discordie, le quali sempre straziano e sempre rovinano come han rovinati tutti i grandi e sublimi conati della infelice penisola. Una parola risuona più frequente di tutte sul labbro italiano, la parola: tradimento! Quando le turbe vigliacche fuggono dal campo dell'onore sogliono tutte gridare: tradimento! [... ] Generali, Ministri, Governi, deputati, tutti coloro che maneggiano i pubblici affari, tutti sono sospetti di tradimento...

Anche il popolo francese, durante la Rivoluzione, era diviso in fazioni che si combattevano tra di loro: ma quando lo straniero invase il suolo della

"· ivi, pp. 694-695.


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Patria comune, tutti i francesi uniti diedero di piglio alle armi e lo respinsero valorosamente. Questo, purtroppo, non avviene da noi, perché gli italiani hanno vivissima fantasia, animo aperto a tutti i sentimenti generosi ed eroici, ma in essi è debole e scarso soprattutto il sentimento del dovere, "quel vigore dell'animo che non piglia moto dalla immaginazione, né dal variare dei casi, né dagli sbalzi della passione", ma si accresce e mantiene, combatte, resiste e si rianima perché ispirato dalla fede nei principi e nel trionfo della giustizia: "ma solo quella nazione ha il titolo di valorosa e grande, quella sola merita bene di viver libera e rispettata dal mondo, che sa resistere all'infortunio e raddoppia il coraggio e gli sforzi quando raddoppiano gli ostacoli, quando i pericoli si fanno maggiori e più numerosi" 19 • Parole che si colorano di profezia, con ogni probabilità ispirate ad A.B. (siamo nel 1854) dalle dolorose vicende della guerra 1848-1849. Per questo egli insiste su due esigenze specifiche nella situazione italiana: l'unione tra i cittadini e la disciplina nell'esercito minate prima di tutto da quei difetti così severamente condannati: Negli Stati come oeJle monarchie il popolo è tutto, e nulla assolutamente le individualità; ma il popolo, come ogni principio di questo mondo, non esiste che nell'unione. Forza sovrana e complessa è la forza popolare, la quale, retta dall'unione, dà ordine sicuro e progresso; fluttuante e senza legame, conduce ritto aJI' anarchia o alla schiavitù. Nella vita di una nazione havvi un'ora solenne che decide senza appello de' suoi futuri destini, e quest'ora è quella in cui ella si costituisce nella unione. L'ltalia non può essere felice e forte che alla condizione di essere indipendente e libera; ed essa non può essere indipendente e libera che alla condizione di essere unita. L'istoria ci insegna che le nazioni non adempiscono mai niente di veramente grande, non fondano mai niente di solido e durevole senza unione.

Questo concetto di unione nazionale di A.B. implica - anche se egli non lo dice - la saldatura tra esercito e forze popolari; però se si toglie ai soldati il freno ferreo della disciplina "voi non avrete più eserciti, più difensori della patria, ma bensì masnade di sgherri feroci, di malandrini, una razzumaglia insomma mascalzona e scellerata, qualche cosa di vizioso, di scettico, di infingardo come una baionetta intelligente"; al tempo stesso l'obbedienza militare non sarà mai perfetta, "quando non sia passiva e assoluta". E dimenticando l'esaltazione prima compiuta di quegli ufficiali che, come il padre, non hanno esitato a prendere la via della rivolta, egli aggiunge che "chi manca alla disciplina e alla subordinazione è reo dello stesso delitto di chi fugge in faccia al nemico: il castigo e la vergogna dovrebbero essere i medesimi, e lo sono in ogni ben disciplinato esercito".

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ivi, p. 692.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

Anche la prospettiva dell'insurrezione popolare, della guerra di popolo, viene da lui liquidata con poche, amare battute, che toccano il problema di fondo della guerra 1848-1849 e attaccano duramente i progetti mazziniani e garibaldini: quando le sorti delle anni piemontesi cominciarono a declinare, uno scoccalfuso di gran rinomanza [cioè Mazzini - N.d.a] scriveva: "Rallegriamoci, la guerra regolare dei Principi è finita, ora comincia quella del1' insurrezione popolare che deve salvare l'Italia". Ma gli Austriaci, come l'esercito ebbe ripassato il Ticino, padroneggiarono tutta la Lombardia e quasi tutto il Veneto senza che si alzasse una di quelle centomila faci preconizzate nei sogni fantastici dell'utopista. Quella sua idea che doveva sorgere annata e terribile tosto che Carlo Alberto le avesse ceduto il campo, quella sua idea che protetta dalle baionette dell'esercito piemontese, ghiribizzava in Milano tante strane fantasie, si lasciò pazientemente legare dal manigoldo tedesco. Mentre il soldato combatteva nel campo, all'ombra protettrice delle sue baionette sorgevano sonori declamatori, satirici beffardi a soffiare la maldicenza, le calunnie, le divisioni, gli allarmi; gridavano vile il prode Piemontese; maledicevano l'Italiano, il più gagliardamente Italiano di quell'epoca d' impotenza e d'inettitudine piena; e disoneste rampogne, e impudenti vituperii accompagnavano il rantolo di chi motiva per la Patria20

Il motto che conclude il libro - res nec verba - è anch'esso un' indiretta polemica contro chi si è limitato a criticare l'Esercito piemontese, senza fornire valide alternative. Non si può essere, perciò, troppo severi con A.B., che esalta le gesta del padre e dei suoi amici, ma al tempo stesso condanna coloro che minano la disciplina. Forse certe affermazioni sono il prezzo da pagare, per farsi perdonare altri giudizi sparsi nel testo; forse in lui rivivono le frequenti contraddizioni tra bene supremo della Patria e disciplina formale; forse queste contraddizioni sono tipiche di un'epoca di transizione, nella quale 1a monarchia piemontese sta avviandosi ad essere compiutamente costituzionale e nazionale, dunque marcando la diversità rispetto ai tempi che videro Carlo Bianco ribellarsi. L'unica cosa che colpisce, e che potrebbe essere segno sia di ingenuità che di astuzia, è la speranza di A.B. che un libro sotto certi aspetti cosi problematico, venga adottato come testo nelle scuole reggimentali per la truppa. Una cosa è certa: egli non è certo un forcaiolo, un reazionario, un arido e impersonale teorico ligio alle forme di una sorpassata strategia; in tutto ciò che scrive sono i fatti, sono gli uomini, sono i sentimenti e le passioni a prevalere. Cosa che avviene ancor di più nell'opera successiva Il Brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863 ( 1864)21. In questa occasione A.B.

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ivi, pp. 695-696. A. Bianco di Saint Jorioz, 1l brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863 studio storico - Politico - statistico - morale e militare, Milano, G. Daelli 1864. 21


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affronta un argomento per lui doppiamente delicato senza iattanza, senza imprudenti generalizzazioni, dimostrando attaccamento all'Esercito ma al Lempo stesso guardandosi bene intorno, senza illudersi troppo sui risultati dell'intervento militare. Egli è confortato da un'esperienza diretta, perché, come si è detto, partecipa alla lotta contro il brigantaggio meridionale come capitano Capo di Stato Maggiore del generale Govone, al quale dedica il libro. Ciononostante la sua indagine, lungi dall'essere incentrata sugli aspetti militari, è rivolta principalmente alla ricerca della causa politico-sociali, economiche e storiche del brigantaggio, con giudizi impietosi ma difficilmente contestabili nei quali dimostra un acume e una sensibilità sociale al tempo non comuni, tanto più apprezzabile in un militare. Più volte ricorre nel libro l'affermazione che il brigantaggio ha cause complesse e radici anche storiche - profonde che non si possono estirpare solo con il rigore, quindi "la questione del brigantaggio non è interamente e neppur principalmente militare"22• Così la parte puramente tecnico-militare è, in sostanza, quella che occupa minor spazio e che ha meno spunti originali; nondimeno essa è preziosa, perché A.B . è uno dei pochi autori - se non l'unico - a fornire un' immagine della guerriglia vista "dall'altra parte", e quindi a descrivere difficoltà e problemi dell'aspra controguerriglia condotta in quelle zone per e~perienza diretta. Richiamiamo l'attenzione sulla data di pubblicazione (1864) del libro: in quel momento la lotta contro il banditismo impegna una parte cospicua dell'Esercito e suscita nella pubblica opinione interrogativi e problemi dei quali si trova eco anche nei giudizi dell' autore. Stupisce perciò che un ufficiale di Stato Maggiore abbia potuto pubblicare proprie personali riflessioni su un problema così delicato, controverso e ancora più che mai aperto. E v'è da stupirsi ancor di più, se si considera l'insolita franchezza con la quale A.B. dipinge, senza alcun velo, la situazione politico-sociale e militare del Mezzogiorno, con pesanti giudizi - oltre che sulla polizia e magistratura sulla poUtica dello Stato pontificio, sul dero locale e sui comandanti francesi che presidiano la frontiera dalla parte pontificia. Senza contare le forti critiche alla politica del governo italiano... Secondo il Parmentola (che riprende la notizia dal Manna) a causa della pubblicazione del libro A.B. "perdette il grado di capitano"23 (e quindi fu probabilmente collocato a riposo). Non si stenta a crederci: rientrato in possesso delle sostanze paterne, A.B. ha forse potuto sopportare senza troppi traumi la defenestrazione. Non ci soffermiamo più di tanto sull'analisi che A.B. fa dei mali del Mezzogiorno, con durissime espressioni delle quali facciamo grazia al lettore. In breve:

'' ivi, pp. 18 e 259. " V. Par mentola, Carlo Bianco, Giuseppe Mazzini e la teoria dell'insurrezione (Estratto da "Bollettino Domus Mazziniana" n. 2/1959, Pisa. Giardini 1959, p. 22).


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aprite le pagine della storia napoletana e vi troverete ad ogni piè sospinto degli atti di nefando brigantaggio [... ]. Tutto in questo paese favorisce il brigantaggio: la povertà dei coloni agricoli; la rapacità e la protervia dei nobili e dei signori; l'ignoranza turpe in cui è giaciuta questa popolazione; l'influenza deleteria del prete; la superstizione, il fanatismo, l'idolatria, fatte religione e santificate; la mancanza di senso morale pressoché totale; la nessuna elementare conoscenza dei dettami d'onore, di probità, di pudore; la sregolatezza dei costumi; lo spettacolo schifoso della corruttela negli impiegati, nelJa magistratura, nei pubblici funzionari; la rapina, il malversare, lo sciopero e la malafede fatti articoli di legge; [favorisce il brigantaggio] la configurazione stessa del paese, coperto di interminabili catene di montagne altissime e di vasti dirupi, di macchie foltissime e di oscure, fitte e immense foreste; le idee del governo borbonico che di quelle montagne non davasi cura, non vi tagliava strade, non vi costruiva ponti; la mancanza totale di commercio, di vita sociale, di movimento industriale, di comunicazione qualunque intellettuale o materiale, a tal punto che vi sono ancora numerosissimi distretti vedovi di una strada comunale, ignorata la vista di una vettura, sentieri così malagevoli e pericolosi che i muli istessi non si peritano che con molta prudenza a percorrerli [ ... ]. Tutti i tribunali d'Europa insieme riuniti non basterebbero a giudicare tutti i delitti ignorati, le angherie, le vessazioni, le prepotenze e le nere ingiustizie commesse su quelle alture dai nobili, dai ricchi, dagli uomini preposti agli impieghi, dalle locali amministrazioni, da tutti insomma [... ]. Il governo borbonico per sistema non solo lasciava in1punite sunili u1famie e non puniva gl'infedeli e disonesti suoi impiegati, ma li lodava e li promoveva per soprassello e quasi per insulto alla morale pubblica [ ... ] facendo puntello del suo trono della malvagità e corruttela della burocrazia governativa, e del prevertimento e scompiglio dell'amministrazione e della giustizia.,.

Cosa rimarchevole, secondo A.B. le situazione politico-sociale non è affatto migliorata dopo il 1861, anzi sotto l'aspetto dell'economia e della pubblica amministrazione presenta elementi peggiorativi. L'origine del brigantaggio sta prima di tutto nelle feroci inimicizie che dividono i maggiorenti di ogni paese: i più ricchi sono chiamati borbonici dai meno facoltosi e questi s'intitolano liberali, per rendersi forti con questo nome e poter denunziare gli altri e sfogare l'accidia e la vendetta per antiche prepotenze sofferte da quelli durante il cessato governo borbonico, che era governo di partito ed ove il denaro assicurava l'impunità. I partiti si fanno nelle plebi dei clienti, e se ne giovano ali' occasione per spingerli al saccheggio degli avversarj, e così nasce _e così si alimenta il brigantaggio. I signorotti sono padroni delle cariche comunali e dei gradi della

,.. A. Bianco di S.J., Il bril{antaRRio ... {Cit.), pp. 11-13.


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Guardia Nazionale. Di quelle si servono per sperperare il danaro del Comune, e di questi per dominare e tiranneggiare. La plebe è manomessa in ogni maniera; arrestata, taglieggiata, malmenata, torturata e derubata con usure spaventevoli e scellerate [... ]. Gli uomini saliti al potere, a cui fu affidato l'onore grandioso di far capire l'Idea Nazionale ai popoli meridionali, si dimostrarono tutti minori degli eventi e piuttosto cupidi di private utilità che della utilità patria. Codesta generazione di uomini si dié a credere stoltamente che il trionfo de11a rivoluzione si riducesse al trionfo di una parte politica prevalente; la quale, fatta padrona del campo, avrebbesi recato nelle mani i monopolii degli uffici pubblici, siccome premio della vittoria[... ]. Una riforma e un rinnovamento di quei logori ordigni del caduto regime era nei voti di tutti gli onesti; e che cosa ebbesi a simulacro della riforma? Un precipitare de' tristi ed inetti, ed un levarsi di altri tristi e inetti.2-~

I poteri e l'ampia libertà di amministrare sé stessi concessi dal governo centrale ai Comuni saranno forse fonte di prosperità e di vantaggi per il resto del1a Nazione, ma nei Comuni del Meridione - lungi dal fornire buoni risultati - "sono fonte di malcontento nelle popolazioni per le imposte cresciute a dismisura, e specialmente per quelle sui generi di prima necessità le quali in talun Comune sono veramente enormi"26• Il voto di fatto non è libero e spesso viene comprato; la corruzione delle autorità comunali è assai diffusa anche sotto il profilo militare (favoreggiamento della diserzione e della renitenza alla leva; mazzette anche in natura pagate al Segretario comunale per ottenere l' esenzione)27. Le cause principali del brigantaggio vanno attribuite proprio a "tutti questi malandrini camuffati da onest'uomini e mascherati da pubblici funzionarj'', e non al Governo centrale, che le plebi meridionali" non conoscono e non capiscono". Questo ''brigantaggio del1a città" - così lo chiama A.B. - è cento volte peggiore e più dannoso di quello propriamente detto del1a campagna,perché dei ladri della montagna se ne può venire alla totale distruzione con poca fatica, perché si conosce e si sa dove si annidano e perché si può affrontarli quando si voglia; ma il brigantaggio della città è dappertutto e in nessun luogo; è occulto, misterioso, vastissimo, diramatissimo e impalpabile [... ]. Non si distruggerà mai il brigantaggio della montagna, finché non si sarà sradicata sino all'ultima fibricella la mala pianta del brigantaggio della città.28

Per altro verso, il brigantaggio è alimentato dell"'etema e indistruttibile" piaga della camorra, "innestata nelle abitudini di questo popolo sven-

~, ivi, pp. 18 e 22-23. ivi, p. 339. " ivi, p. 63. 28 · ivi, p. 67. 20.


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turato e dalla quale provengono tutti i mali e tutte le sozzure". La camorra, che è ladroneccio, estorsione e assassinio organizzato, è una funesta eredità del regime borbonico, "è il brigantaggio fatto cittadino e impune" ed è madre, nutrice e educatrice del brigantaggio; quest'ultimo non potrà mai essere distrutto senza distruggerla_ Purtroppo essa si è infiltrata, innestata in tutti i rami della pubblica cosa, in tutti i negozii, in tutte le amministrazioni, in tutti i municipj, nei tribunali, ne' dicasteri, in chiesa, nelle officine, nelle reggie [ ... ]. Si è fatto molto per distruggere o almeno disperdere la camorra, ma la camorra è lungi dall'esser distrutta; non è nemmeno scomposta, e più fiera, più audace e ribalda rialza le sue centomila teste come l'idra [... ]. Distruggere la camorra? è questa una parola che è assai presto avventata, ma che fa tremare e penosamente meditare i più eccelsi uomini di Stato; nobili soldati come quella bella [ ... ] figura di Alfonso La Marmora; e quell'anima tutto fuoco, quella mente svegliata [... ] di Enrico Cialdini. 29

Lo sciogJimento dei Consigli comuna1i "è un pal1iativo, e qualche volta anche un rimedio che peggiora e inasprisce il male"; infatti le rielezioni di alcuni Consigli comunali hanno dimostrato che la camorra dominante è ancora la più potente, ne' si potrebbe trionfare che mettendo l'influenza militare dalla parte del partito contrario; ma non è conveniente, per ragioni facili a comprendersi, che l'Autorità militare pesi in tali cose_ Ma una ragione che domina le altre si è quella, che anche il partito contrario venuto che fosse al potere, si regolerebbe come gli antecessori. 30

Un altro fattore determinante che favorisce il brigantaggio è l'appoggio dello Stato Pontificio e della maggior parte del clero locale. Spesso i conventi sono covi e centri logistici delle bande, e il clero, che gode di gran prestigio, incita alla ribellione. I briganti hanno in territorio pontificio dei "santuari", dai quali partono per compiere incursioni nel territorio dell'ex-Regno di Napoli e rientrarvi subito dopo, eludendo la sorveglianza delle truppe italiane dislocate alla frontiera. E lo possono fare, anche perché i comandanti delle truppe francesi incaricate del controllo della frontiera dall'altra parte sono tutt'altro che propensi a collaborare con le autorità militari piemontesi ed esercitano un'azione di controllo assai labile. La Corte di Francesco Il, che ha trovato asilo a Roma, finanzia le bande e organizza il reclutamento di nuovi adepti, costituendo appositi centri che non sono seriamente disturbati e sono anzi favoriti dalle autorità pontificie. L'arruolamento e il rinforzo delle bande è favorito anche dalla tradizionale, forte emigrazione stagionale - per fame -

29 · ivi, p. 20 e 67. '"· ivi, p. 68.


III - L'INTERVENTO DEll'ESERCITO NELL'ITALIA MERIDIONALE

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dall'ex-Regno di Napoli negli Stati della Chiesa. È facile, infatti, per gli arruolatori allettare con buone paghe gli emigranti bisognosi. Secondo A.B. i poteri dello Stato centrale collaterali a quello militare (polizia, magistratura, dogane, Prefetti e impiegati delle Prefetture) spesso sono conniventi, inefficienti, corrotti o troppo indulgenti, e anziché collaborare lealmente con le autorità militari, fanno la fronda contro l'Esercito. In particolare 'T amministrazione della giustizia in questi paesi fu favoreggiatrice, fomentatrice, connivente alle diserzioni e al brigantaggio"31, liberando molto spesso manutengoli, delinquenti e banditi catturati dall'Esercito. Di conseguenza il popolo non può avere fede nei tribunali, cerca la giustizia nella vendetta, e poi per sfuggire alla legge si fa brigante. Sono aumentati a dismisura i rapimenti' a fini di riscatto, che assai raramente sono denunciati; le guardie di pubblica sicurezza sono al momento migliorate, ma hanno ancora bisogno di riforme e vaste epurazioni, visto che per lungo tempo "furono una ciurmaglia di bricconi, rotti a ogni vizio e a tutte le violenze".32 In ogni caso volerne nuovamente e partitamente enumerare gli abusi di potere, Je soperchierie, ed il malcostume, è cosa anziché ardua impossibile [... ] gl'individui che la compongono sono il fecciume di quanto havvi d'immorale e di perverso nelle fogne e nei postriboli di Napoli.33

Infine un giudizio durissimo sui doganieri, i quali "sono i primi contrabbandieri dello Stato, anzi i soli contrabbandieri, perché non tollerano contrabbandi da loro non diretti e che non volgano a loro profitto". Nutrono profondo affetto per il Borbone, anche perché gli "uffiziali doganali" sono stati tutti caporali e sergenti delle famigerate squadriglie del generale Vial, e i doganieri loro dipendenti nel 1860 hanno formato i primissimi nuclei delle bande. Perciò "sono le prime spie e i più attivi amici dei briganti attuali; bisogna guardarli a vista perché non diano le loro armi ai briganti". Ben di verso dagli altri corpi il comportamento dell'Arma dei Carabinieri, superiori ad ogni elogio per "la sua condotta morale, il modo urbanissimo col quale disimpegna il servizio, il suo contegno". I Carabinieri sono ammirati dalle popolazioni meridionali, alle quali "avendo presente il modo vile, dispotico e barbaro e brutale con cui erano trattati dai gendarmi borbonici, non par vero che il servizio politico e l'ordine pubblico si possano tutelare con tanta moderazione, prudenza e dignità di modi"34• In questo quadro, accanto ai Carabinieri "finora, dacché cadde l'antica dinastia e durante l'imperversare dei governi e delle luogotenenze, un solo agente moralizzatore fuvvi in queste province, ed agente attivo e animoso,

ivi, p. 345. ivi, pp. 164 e 168. ivi, p. 354. ,.._ i vi, p. 355. 3

1.

3

2.

33 ·


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

quanto modesto ed insciente della utile e santa opera sua, e questo fu l'Esercito"35· Gli errori del governo, che A.B. stigmatizza senza alcuna remora, ne hanno però reso difficile l'azione; è stato anzitutto un errore sciogliere rapidamente tutto l'esercito napoletano, fornendo èosì le prime reclute alle bande che venivano formandosi. La condizione del soldato, paragonata a quella del contadino, era assai migliore; e questi uomini tornati alJe loro case non vi hanno trovato che fame, miseria e un lavoro duro al quale non erano più abituati, scegliendo così inevitabilmente di darsi al brigantaggio. Il secondo e più grave errore politico è stato quello di alimentare rivalità, ripicche, reciproche accuse tra autorità militari e autorità civili dello Stato, che hanno conservato tutti i loro normali poteri. Ciò è avvenuto perché non potendo il Governo mettere mano ai mezzi coercitivi che avrebbe voluto, e proclamare ad alta voce e sperticatamente che intendeva governare con lo Stato d'Assedio, senza passare agli occhi degli esteri per Governo violento ed imposto colla bajonetta ai napolitani, a mezzo di disposizioni dubbie, ambigue, elastiche, emanate sottovoce e privatamente, mise la cosa senza il nome, e dando al militare amplissimi poteri, lasciò intatte ed influenti le Autorità civili, cosicché si trovarono ben tosto a fronte due Autorità che si urtarono, due influenze che si contrapposero, due volontà che si controbilanciarono, due attriti che male combaciarono assieme, due forze finalmente che si paralizzarono, creando cosl uno stato di soggezione, d' incertezza, di malessere, di fiacchezza negli affari e negli uomini deputati a disimpegnarli.

La vittima di questo anomalo stato di cose è stata quasi sempre l'ufficiale inferiore, modesto e oscuro esecutore di ordini esposto in pari misura alla crudeltà degli assassini e ai tranelli disonesti, alla malafede dell'impiegato civile: perché nell'esercizio delle violente sue vicende, comunque le circostanze forzino un incidente a mancare di certe forme legali, ecco un appicco per l'intervenzione dell' Autorità civile, che ipocritamente, si dice costretta a procedere. L' Autorità superiore militare, che ha trasmesso all'orecchio dei subalterni ordini ricevuti all'orecchio e in lingua sibillina, perché forse opposti a qua1che articolo dello Statuto, o perché non ha posizione nettamente tracciata ed assolutamente legale, corrispondente all'ampiezza di questi ordini ricevuti e trasmessi, abbandona alla soddisfazione della legalità conculcata il malavventurato ufficiale inferiore che li ha eseguiti, il quale cade nelle unghie di un fisco spietato ~ ne esce malconcio nell'onore e fraudato nella carriera.36

"· ivi, p. 22. "' ivi, p.151.


ill - L'INTERVENTO DELL'ESERCITO NELL'ITALIA MERIDIONA LE

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A.B. ammette, in proposito, che "l'ingerenza militare assoluta" è spesso illegale, e qualche volta anche dannosa: ma date le circostanze eccezionali, e la frequente insufficienza dell'azione dei prefetti., "la truppa ha dovuto e debbe necessariamente ingerirsi ancora e per lungo tempo in modo autocratico di molte cose che non le spettano, nel solo scopo di evitare mali maggiori e più funeste conseguenze". Oltre tutto, l'Esercito può contare assai poco sulle Guardie Nazionali costituite localmente, le cui armi sono spesso catturate dai banditi o cedute loro spontaneamente. La costituzione di queste milizie ha risentito di gravi difetti d'origine, ai quali si è cercato di porre rimedio con qualche buon risultato; tutti volevano fare l'ufficiale e i militi non c'erano; le armi venivano spesso abbandonate nei corpi di guardia aperti alla merce' del primo venuto; le liste includevano personale inaffidabile e escludevano altri buoni elementi; le elezioni dei comandanti erano viziate e frutto di intrighi; si abusava del grado per commettere soprusi e angherie. Vi sono stati casi in cui i galantuomini, cioè i benestanti, "hanno dichiarato apertamente di non voler montar la guardia e prendere parte a un'esercitazione, pel solo motivo di non [voler] trovarsi uniti a11a canaglia, come essi chiamano i poveri contadini e operai''37• Il grado di capitano in molti paesi era affare di lucro per chi lo rivestiva, e non poche volte si è verificato che i rriiliti, i quali trascurassero un dovere o anche per affari urgenti vi fossero impediti, non altro si avevano in pena che di dover pagare due, tre e fino a sei carlini al capitano che ne faccia suo pro. Oltre ad essere strettamente dipendenti da questa realtà, gli aspetti più propriamente tecnico-militari - descritti da A.B. con profluvie di nomi, biografie dei briganti più famosi, analisi della diversa situazione nei vari Comuni - riguardano soprattutto gli elementi raccolti. dall'autore per esperienza diretta, nella fascia di frontiera con lo Stato Pontificio. I briganti, cioè il nemico, si suddividono in comuni e politici; banditi comuni e politici, però, sono ugualmente "ciurme di ladri prezzolati, il cui scopo finale è il bottino". Francesco II lo sa e li finanzia; li aiuta con armi, denaro, consigli e nuove reclute, non tanto perché riescano a far insorgere contro il nuovo Governo le popolazioni, ma perché spera soprattutto in un intervento straniero, e intanto ha bisogno di spargere tra le popolazioni con atti di terrore e di delinquenza il malcontento e la sfiducia nel nuovo governo. Man mano che è diminuita la speranza di un aiuto straniero, sono diminuiti anche i finanziamenti da parte dell'ex-re, sostituiti però da quelli dell'aristocrazia napoletana emigrata, dei legittimisti di tutti i Paesi e del Papato.

TI

ÌVÌ,

p. 49.


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IL PENSIERO MJLITARE E NAVALE ITALIANO-VOL. Il (1848-1870)

Anche se è riuscita a provocare danni morali e materiali incalcolabili, secondo A.B. - che però esprime un giudizio limitato alla zona di frontiera con lo Stato Pontificio - l'attività delle bande come fatto puramente militare è poca cosa: "tutta la tattica brigantesca si è finora ridotta alle semplici proporzioni di un andirivieni; a passare e ripassare la frontiera in più punti; ad invadere e bruciare dei piccoli borghi di montagna; a scorrazzare per pochi istanti il nostro suolo; a fuggire precipitosissimamente quando si vedono inseguiti dalle truppe". I briganti possono contare sull'omertà e sugli aiuti della popolazione, che si guarda bene dal segnalare alle truppe il loro arrivo e i ]oro movimenti e per contro spesso non aiuta i reparti dell'Esercito nei loro bisogni logistici: sono però pochissimi coloro che ingrossano volontariamente le bande, composte per lo più da gente prezzolata che viene dall'esterno. Ciononostante i banditi possiedono tutti i requisiti classici del buon guerrigliero, che mancano al soldato napoletano e all'uomo di città: "cioè sveltezza, attività, energia, sobrietà, robustezza, valore, ardimento e intelligenza, non disgiunto il costume e la particolare calzatura, che cotanto li favorisce nelle loro scappate sulle più ripide, scoscese e aspre montagne, sicché ti paiono non creature umane, ma caprioli, daini e cervi...". 38 Ciò che pregiudica il rendimento delle loro azioni "è la mancanza assoluta e perenne di un piano di operazioni, un concetto militare, un'idea generale di regolare e ragionato invalidamento, una logica tattica nell'operare, una connessione finalmente nei criteri miJitari e nena applicazione dei principj i più elementari della guerra piccola, o per bande, o di partigiani che si voglia dire [... ]. Una delle tante cause della non riuscita delle tentate operazioni delle molte bande organizzate alla frontiera fu certo quella di aver agito con capi indipendenti, ciascuno per proprio conto e senza un piano prestabilito". Detto cosl, sembrerebbe che A.B. pretenda, a torto, che l'attività delle bande possa essere disciplinata e regolata come quella delle truppe regolari. Ma più avanti chiarisce meglio il suo pensiero, e cerca di stabilire delle differenze tra l'azione di questi piccoli nuclei di uomini e la guerriglia spagnola. Anzitutto mancano al banditismo dei capi di prestigio, delle personalità spiccate; uomini come Chiavane sono solo dei masnadieri; gli ufficiali di corte di Francesco Il si sono sempre rifiutati di mettersi a capo di gente siffatta; l'unico Capo vero (per le cui doti di ingegno, ardimento e forza morale lo stesso A.B. dimostra rispetto) è stato Borjès. In secondo luogo sulle azioni partigiane propriamente dette prevalgono semplici atti di delinquenza,e bisogna pur dire che questi capi banda o non fossero mai stati militari, o se lo furono siano stati ufficiali assai mediocri e dozzinali, poiché nella lunga storia della guerra per bande di questi scorsi anni, non si

38 ·

ivi, p. 33.


ID - L'INTERVENTO DELL'ESERCITO NELL'ITALIA MERIDIONALE

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trova ad ammirare un'azione veramente ardita e condotta a fondo con intelligente energia e pertinacia; non uno stratagemma militare, cotanto opportuni e ovvii in questo genere di guerra; non un attacco combinato con sapienza militare e capitanato disperatamente; non uno di quei lampi di sagacità militare che fanno gli uomini di genio; non una di quelle matte e ingegnose azioni che così giustamente illustrarono [in Spagna] i nomi di Mina, Merino, Milans, Empecinado [... ] e cento altri celeberrimi partigiani, che tanti disastri e tanti sfregi fecero patire alle truppe regolari loro avversarie [ ... ]. Io non ricordo che in due anni un palo di telegrafo sia stato rovesciato, un filo tagliato con premeditazione, una comunicazione intercetta, una ritirata attaccala di coda o di fianco, un falso assalto, un allarme, una sorpresa notturna, una abbarrata di ponte, una chiusa di stretto, una imboscata, sia mai avvenuto, per istancare e sgominare le truppe, intralciare i loro movimenti, compromettere le loro operazioni; ed all'infuori della imboscata di Castronuovo, che loro riuscì in parte e che finirono per pagar caro, tutte le altre imprese ebbero luogo a loro danno e fa11irono tutte.39

Dalla parte opposta l'esistenza dello Stato dipende solo dalla "presenza, consistenza, forza, divozione e attività delle truppe", che però non possono contare sull'aiuto e sulle informazioni della popolazione e delle stesse autorità governative. Bisogna fare miracoli ogni giorno "per sopperire con truppa scarsa, affranta e decimata dalle epidemie ai cento diversi bisogni del diuturno e notturno servizio". Intanto gli agili briganti ti appariscono e ti scompariscono innante colla stessa prontezza di ombre, fantasmi o larve, e già sÒno lungi da qualunque persecuzione ed al sicuro da ogni pericolo, quando il nostro povero ed eroico fantaccino, mal calzato ed illogicamente vestito e soverchiamente carico di oggetti perfettamente inutili in simil guerra, ancora si trova alle falde della montagna trafelante e spossato, e qualche rara volta anche coli' epa vuota da dodici a quindici ore, e le scarpe logore e i piedi insanguinati e laceri..w

A.B. fornisce poi particolari sulla dislocazione delle truppe alla frontiera, assai frazionate su tre linee di piccoli posti fino a far ritenere il dispositivo pericoloso: ma questa è "una necessità assoluta e inesorabile", sia per essere informati, sia per proteggere i paesi dalle piccole bande, sia infine per impedire il vettovagliamento dei briganti. È "una fortuna, anzi un miracolo" quando le truppe si imbattono nei briganti, perché le bande - di ridotta consistenza per facilitare il movimento, l'occultamento e il vettovagliamento si muovono solo di notte con notevole celerità e in zone impervie, per cui anche se viene segnalata una banda e la sua direzione generale, non si sa

39 · 40

ivi, pp. 35-36. ivi, pp. 33-34.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO- VOL. Il (1848- 1870)

bene dove mandare le truppe per intercettarla. Di giorno rimangono nascoste o si addentrano nei boschi, e prima che si possa raggiungere la località dove si sono nascoste, si sono già allontanate. Esse temono la truppa: ma ciò avviene solo per mancanza di coraggio, poiché in realtà su quelle vaste distanze, in quei deserti di selve e di valli, in quel terreno accidentato, rotto, montuoso, ripido e aspro, le nostre compagnie sono un punto nello spazio, e le bande, per quanto piccole fossero, potrebbero, se il volessero, schiacciarle. Invece si nascondono a qualche centinaio di metri dal luogo ove passa la truppa, e questa procede senza vederle, e senza nemmeno sospettarle !41 Per quanto attiene ai criteri generaJi di condotta della controguerrigJia (al momento di competenza del generale Alfonso La Marmora, comandante del VI corpo e VI dipartimento militare), A.B. difende quest'ultimo dal1' accusa di aver emanato alle truppe ai suoi ordini disposizioni poco flessibili e non adatte al tipo di guerra da condurre, che hanno causato "immobilità e impaccio" dei reparti riducendone la mobilità. In particolare, nega che il La Marmora: - abbia vietato di varcare al bisogno i limiti delle zone e sottozone assegnate a ciascun Comando, che invece devono essere "necessari confini al comando e all'amministrazione, non alle mosse della milizia"; 42 - non abbia permesso che si corrispondessero ai soldati le razioni viveri in contanti, perché si procurassero il vitto dove è possibile e opportuno trovarlo lungo la strada, e abbia invece preteso che il vettovagliamento avvenisse solo ricorrendo ai generi forniti dalla sussistenza militare; - abbia prescritto perlustrazioni giornaliere, "strettamente regolate e limitate pedantescamente". Piuttosto, secondo A.B. alla facoltà di poter vestire le truppe come richiesto daHa stagione e dal servizio, e di pagare al soldato la razione in contanti, il generale La Marmora avrebbe dovuto aggiungere solo quella, che è dritto o necessità militare in tempo di guerra, cioè, che si possa provvedere un distaccamento del vitto e d'ogni altro bisogno che incontra (e che non gli giovi cercare altronde) pagando le cose con buoni pel Sindaco del paese più vicino. [Infatti] spesso s'incontra perlustrando un armento da sfamare i soldati, o legna d'un bosco privato da ardere, e soddisfare così il bisogno e nel tempo più opportuno, con più facilità che a volerne trarre d'altronde, dando indizii ai briganti delle mosse, e perdendo tempo.

" ivi, p. 255. 4

2.

ivi. p. 261.


111- J,' JNTERVENTO DELL'ESERCITO NELL'rfALIA MERIDIONALE

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A parte questa esigenza (che per essere soddisfatta richiederebbe l'assenso de] governo), il generale La Marmora - prosegue A.B. - ha lasciato libertà d'azione ai generali suoi sottoposti. Ne è derivata "una gran varietà di modi e di indirizzi nelle diverse zone militari per la guerra contro i briganti, varietà in parte opportuna e giusta, per quanto sia conformata alla varietà de' ]uoghi e alle loro diverse condizioni, in parte inutile e talora dannosa, ma inevitabile". Di conseguenza ciascun generale ha potuto dimostrare la sua effettiva capacità e la sua attitudine - o meno - a gestire questo tipo di guerra. Dove il generale era uomo capace di agire d'iniziativa e adatto a questo tipo di guerra, né zone, né bagagli, né viveri gli hanno mai impedito di condurre operazioni ardite e efficaci; dove, invece, il Comandante non fosse così appropriato al caso [... ] quando egli fosse uomo per sua natura fatto più all'obbedienza che al comando, troppo piegato alle severe particolarità della disciplina, troppo rispettivo a disciogliersene con quegli ardimenti che talora possono promettere più splendidi effetti, son seguiti que' procedimenti più impacciati e quella scarsezza di risultamenti, che han dato luogo alle osservazioni che abbiamo lette tempo fa contro tutto il

sistema seguito nella guerra contro i briganti nelle Provincie Meridionali.43

Se in questa guerra a volte non si sono seguiti gli indirizzi più efficaci richiesti dalla situazione, la colpa è solo di alcuni generali; "la quale colpa pare meglio si correggerebbe col toglierli, che col consiglio che desse loro chi li comanda [cioè il generale La Marmora-N.d.a.] di imitare i colleghi più arditi". Non ci soffermiamo sulle proposte di A.B. per sanare la situazione sociaJe che alimenta il brigantaggio (lavori pubblici, ferrovie e strade, buone leggi e buona amministrazione, lotta alla disoccupazione ecc.). Nella parte finale del libro egli documenta il peggioramento deUe condizioni di vita delle popolazioni, il rincaro dei prezzi e dell'istruzione pubblica, e persino il peggioramento dell'amministrazione in genere (nella quale sono rimasti gli elementi moralmente peggiori - non quelli migliori - del passato regime). Di rilievo la sua critica al piemontesismo, cioè al tentativo di imporre leggi fatte in Piemonte (e pensate solo per il Piemonte) a una realtà ben diversa, che le rifiuta perché non sono adatte. Invece "Bisognava non toccare, non innovare, aspettare e ]asciar correre tutto come esisteva, ed appena appena accomodare il tanto necessario ai principi costituzionali iniziati [... ]. L' Italia non era e non è fatta; le leggi son provvisorie, e per le cose provvisorie voi create un profondo malcontento?"44• La lotta al brigantaggio nell'Italia Meridionale è cosa troppo complessa per considerarla esaurita con la testimonianza di A.B., la quale è tuttavia

n ivi, pp. 262 e 264. ... ivi, pp. 266 e 371.


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una delle pochissime dalla parte dei protagonisti militari, e ha in più il pregio della franchezza e di andare molto al di là degli aspetti puramente tecnico-operativi. I suoi giudizi sono limitati a quanto avviene in una ben delimitata e ristretta fascia di confine, dove assume rilievo massimo il passaggio delle bande dallo Stato della Chiesa al territorio italiano e viceversa; tuttavia quanto dice è più che sufficiente per stabilire che: a) la grande maggioranza della popolazione, pur favorendo di frequente o non ostacolando (magari per paura) l'azione delle bande, non ha scelto la lotta armata al loro fianco; b) questo è avvenuto anche perchè tra le bande hanno prevalso gli atti di delinquenza comune sulla guerra alle truppe italiane; c) il banditismo nell'Italia Meridionale non può essere presentato come guerra di popolo contro l'occupazione piemontese, come fanno taluni scrittori; d) la ribellione al nuovo stato di cose, che ha peggiorato e non eliminato o attenuato i màli precedenti, è solo una delle componenti dell'insieme. Per queste ragioni gli scritti di A.B. sull'argomento avrebbero meritato di essere conosciuti e citati nelle opere successive, a cominciare da quella del Cesari sul brigantaggio che invece non ne fa menzione, pur riprendendone pressoché alla lettera parecchi giudizi e i dati biografici sui più famosi briganti. 45

I ricordi del generale Enrico Della Rocca, primo comandante militare dell'ex-Regno delle due Sicilie Gli scritti del Bianco non sono né una vox clamans in deserto, né frutto di soggettive impressioni di un ufficiale inferiore insofferente e indisciplinato: lo confermano, tra l'altro, le memorie del generale Enrico Della Rocca, nominato primo comandante militare dell'Ex-Regno delle Due Sicilie a fine 1860'46. Carica tutt'altro che ambìta: il Della Rocca afferma di aver assunto tale alto Comando al posto del Cialdini che lo aveva rifiutato, di aver tentato senza successo di essere destinato ad altro incarico nel Nord, di aver dato più volte le dimissioni. Egli riferisce di aver accettato l'incarico solo su preghiera del re, a condizione che gli fossero mandati tempestivamente fondi e rinforzi (sempre mancati), e di avere pieni poteri. Già a fine 1860, infatti, la situazione del Meridione era grave: le bande armate che infestavano le campagne s'ingrossavano di tutti i malcontenti e dei disoccupati, che condotti da qualche ufficiale dell'esercito borbonico, o da qualche altro poco accetto nell'esercito gari-

"· Cfr. C. Cesari, Il brigantaggio e l'opera dell'Eserr:ito Italiano dal 1860 al 1870, Roma, Ausonia 1920. ... E. Della Rocca, Autobiografia di un veterano, Bologna, Zanichelli 1898, Vol. Il (1859-1893), pp. 108-127.


lii - L' INTERVENTO DEIL'ESERCITO NELL'ITALIA MERIDIONALE

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baldino, [...] scorrazzavano sulle frontiere e anche nelle province napoletane [...]. Mi toccava dividere, suddividere le truppe poco numerose [... ]. Le truppe lasciate nelle province meridionali erano in gran parte impegnate intorno a Gaeta col Cialdini, ed altre in Sicilia sotto la condotta del Brignone, e dal Ministero non riuscivo a farmi inviare rinforzi, mentre ogni giorno moltiplicavasi il numero della gente, sorpresa con le armi alla mano. Feci fucilare alcuni capi e pubblicai che la medesima sorte sarebbe toccata a coloro che si fossero opposti, armi alla mano, agli arresti. Erano tanti i ribelli, che numerose furono anche le fucilazioni, e da Torino mi scrissero di moderare queste esecuzioni, riducendole ai soli capi. Ma i miei Comandanti di distaccamento, che avevano riconosciuta la necessità dei primi provvedimenti, in certe regioni dove non era possibile governare, se non incutendo terrore, vedendosi arrivare l'ordine di fucilare soltanto i capi, telegrafavano con questa formula: - Arrestati, armi in mano, nel luogo tale, tre, quattro, cinque capi di briganti - E io rispondevo: - Fucilate. Poco dopo il Fanti, a cui il numero dei Capi parve straordinario, mi invitò a sospendere le fucilazioni, e a trattenere prigionieri tutti gli arrestati. Le prigioni e le caserme rigurgitarono; il numero dei carcerati crebbe a dismisura, e cosl pure crebbero i disordini, specie dopo la presa di Gaeta[ ...]. Neppure a Napoli mancavano cause di disordini ... I disordini, dunque, sono diffusi e non episodici già a fine 1860, quando Gaeta e Civitella del Tronto sono ancora assediate, i Borboni non si sono ancora rifugiati a Roma e il nuovo Regno d' Italia non è ancora nato: fatto che di per sé porta ad escludere fin d'ora che la causa primaria e scatenante del banditismo sia stato il malgoverno dei generali e politici venuti dal Piemonte. Certo, il della Rocca non accenna - come pur fanno, oltre lo stesso Bianco, altri militari - alle cause sociali, politiche ecc. della già grave situazione dell'ordine pubblico, né ai possibili rimedi in questo campo: ma sono cose non di sua competenza. Un generale, il quale riceve il compito di reprimere i disordini, questo deve studiare e fare, e non altro. Numerose le fucilazioni, certo; ma numerosi e diffusi erano anche gli atti di ribellione, e bisogna pur dire che, specie (ma non solo) a quel tempo, era cosa normale passare per le armi banditi e/o guerriglieri catturati con le armi in mano. Le rimanenti considerazioni del Della Rocca sono incentrate su due aspetti: il mancato invio di truppe sufficienti e di fondi da Torino nonostante le sue continue sollecitazioni, e la descrizione del contesto nel quale si sviluppano i disordini e il banditismo. Dà ancora una volta le dimissioni, perché viene sostituito il generale Pinelli con il Mezzacapo, senza consultarlo e dichiarandolo indipendente dalla sua autorità. Il Pinelli si era distinto nella lotta contro il brigantaggio in Abruzzo ma era stato momentaneamente sospeso (per poi essere reintegrato) perché combattendo contro truppe specialmente papaline, era stato preso in tranello dal Consiglio comunale d'un piccolo paese reazionario e trattenuto per poco, quasi prigioniero; liberatosi subito, s' era vendicato con un proclama fulminante contro clericali e papalini...


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Dovendosi occupare di questioni interne a causa della malattia del luogotenente del re Parini, il Della Rocca ha modo di toccare con mano anche il deteriore clima morale che alimenta il banditismo, non certo nato con le malefatte dei "piemontesi: avendo dovuto occuparmi più particolarmente della polizia, m'ero convinto di quanto fossero numerosi gli elementi sovversivi rimasti in Napoli dopo la partenza dei Borboni. C' era chi continuamente lavorava a indisporre i napoletani contro di noi, e sceglieva ad istrumento tutti i malcontenti, non del nuovo stato di cose i quali erano in piccolissimo numero, bensì del destino che li condannava alla fatica e alla miseria. Per esperienza avevo potuto convincermi che il servizio della polizia non era condotto con tutto lo zelo e la coscienza politica necessaria a simili uffici; perciò invece di prevenire il male, ci toccò, cosa incresciosa, di reprimerlo con le punizioni, e con la forza, più che con la persuasione, imporre nel popolo il rispetto alla legge e alla moralità. Molte deficienze in fatto di moralità si dovevano lamentare anche nelle classi medie e nelle alte...

A questo punto il Della Rocca cita tutta una serie di episodi anche gustosi: l'offerta di una mazzetta da parte di un affarista in cerca di importanti commesse, la richiesta di "un uomo che portava un nome iUustre nelle scienze e nella politica" di non mandare il figlio ufficiale all' assedio di Messina ma di destinarlo a luoghi più tranquilli, richieste di raccomandazione da parte di persona abbiente per mantenere un parente nell'alloggio a suo tempo requisito da Garibaldi e abusivamente al momento affittato, ecc.. Come da quelli del Bianco, anche dai ricordi del Della Rocca si trae un'immagine abbastanza precisa della situazione che rende, oltre che inevitabile, necessaria una dura azione repressiva deU'Esercito. Azione tanto più dura quanto più vengono meno fin dall'inizio - o meglio, non esistono - tutti quei poteri e quelle condizioni politico-sociali ed economiche che con mezzi idonei e meno violenti di quelli che può usare la forza militare, dovrebbero prevenire e combattere il diffuso ribellismo sociale e l'illegalità generale ad arte alimentati dal cessato regime, le cui cause erano peraltro estremamente radicate nel tempo, e ancor più nel costume quotidiano.

I tre volumi sul brigantaggio di Giacomo Oddo (1863-1865) Giacomo Oddo ha pubblicato dal 1863 al 1865 un ponderoso lavoro in tre volumi sul banditismo47, nel quale più che inquisire, annega tutto ciò che attiene al brigantaggio in un'ampia descrizione della situazione politica del-

" G. Oddo, Il brigantaggio o l'Italia dopo la dittatura di Garibaldi (3 Voi.), Milano, presso Giuseppe Sforza Di Nicola 1863-1865.


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l'epoca, corredata da numerosi e interessanti documenti; in tal modo il titolo se non ingannevole risulta improprio. La sua analisi del brigantaggio e delle cause vicine e lontane che lo favoriscono è peraltro scarsamente originale e non dice molto di più di quella del Bianco, del quale cita con frequenza lunghi passi Ìnsieme con brani della relazione della Commissione parlamentare d'Inchiesta sul fenomeno. Marcata è anche l'analogia di taluni suoi giudizi e passi con il libro del Monnier; a parte questi limiti, l'Oddo riporta interessanti e rari documenti e si diffonde di più su taluni aspetti, a cominciare dalle cause lontane. Fiero nemico del potere temporale della Chiesa, mette in particolare evidenza le responsabilità del Vaticano e del clero locale - basso e alto - nel fomentare il brigantaggio facendo di Roma un suo sicuro santuario; l'opera è perciò violentemente anticlericale. Antifrancese e fortemente contrario - come Garibaldi e Mazzini - alla politica di Napoleone lll, lo accusa di appoggiare i disegni di restaurazione dei Borboni, fino a concludere che, a causa dell'occupazione francese di Roma e del tipo di vigilanza falsamente neutrale esercitata dalle truppe francesi lungo il confine tra lo Stato Pontificio e l'ex-Regno di Napoli, "l'ltalia meridionale è stata ed è presentemente travagliata dai briganti; le nostre interne miserie si moltiplicano di giorno in giorno sempre di più; imbaldanziscono i nemici nostri e cospirano contro la volontà di tutta la nazione; siamo umiliati in faccia all'Europa..." 48 • Riporta anche una lettera scritta nel 1831 dal futuro Napoleone III a Papa Gregorio XVI49, nella quale si dichiara a favore della causa della libertà, contro il potere temporale e per la sua separazione da quello spirituale. Ma il 12 dicembre 1850, da Presidente della Repubblica francese, Luigi Napoleone ha già cambiato idea, e cosl commenta l' intervento militare francese che nel 1849 ha posto fine alla Repubblica romana: "le nostre armi hanno rovesciato a Roma quella demagogia turbolenta che aveva compromessa in tutta la penisola italiana la causa della vera libertà; ed i nostri bravi soldati banno avuto il grande onore di rimettere Pio IX sul trono di San Pietro". Più in generale, l'Oddo accusa i governi straniéri, i reazionari europei e la stampa internazionale di aver condannato la recente uccisione a Parma del colonnello reazionario Anviti, presentandola come l'inizio della politica dell' assassinio da parte dei rivoluzionari Italiani; però si disse di più, e più amaramente, della morte del colonnello Anviti, che di tutte coteste stragi. Gli stranieri che nella terribile vendetta del popolo pannense videro i saturnali della rivoluzione, nel brigantaggio del napoletano scorgono guerra civile, reazione, rivoluzione, legittimismo. Gli Italiani, e mi duole il dirlo, che i primi fatti sentirono con dolore e levarono alta la voce contro tanta barbarie, a

•• ivi, Vol. I pp. 43-44. .. ivi, Vol. I pp. 36-39.


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poco a poco caddero nell'indifferenza, ne parlarono come di cosa naturale, e di presente ne leggono le relazioni come di cosa lontana dalla patria loro. E frattanto la storia prepara una pagina di sangue che arriverà ai posteri disonorevole per noi! Non è infatti di un popolo avanzato nel cammino della civiltà tollerare a lungo nel proprio paese la serie di tante scelleratezze, senza ricorrere anco agli estremi rimedi ... 50 L'Oddo, perciò, si ripromette di ricercare le cause del banditismo e di richiamare su di esse l'attenzione degli italiani. Dedica molte pagine a ricordare che si tratta di un fenomeno endemico nell'Italia Meridionale, dove da secoli i governanti sono venuti a patti con il banditismo e la camorra per utilizzarli per i propri disegni e meglio opprimere il popolo. Non concorda, tuttavia, con la tesi - sostenuta anche dal Botta - che "negli abitanti degli Appennini meridionali siavi al sangue e alla crudeltà naturale inclinazione", e che da questo derivi la situazione di illegalità diffusa del momento: non ammetto che l'uomo nasca feroce, ma per mal governo lo diviene, ed è sviamento di passioni. La coltura dell'animo, che in alcune classi dei cittadini napoletani fece ciò che i governi non fecero, produsse uomini di grande fama nelle virtù civili e politiche, ed eroi diede quella terra, grandi come gli eroi de11a Grecia e di Roma. Ma i figli del basso popolo, specialmente i nati nelle valli e sui monti, non avendo cultura né modo di formarsela, restano con le passioni della natura, coi pregiudizi dell'infanzia, con tutti gli errori di famiglia, col fanatismo religioso, con le tradizioni, stolte sì ma parlanti a quelle menti fantastiche, strumenti facili a maneggiarsi da chiunque, sia un perverso, sia un onest'uomo[... ]. Sl, è vero, nell' età nostra il brigantaggio non è possibile che nelle sole province di Napoli, ma è vero del pari che colà il terreno al brigantaggio fu preparato dalla tirannide, da un governo, detto sapientemente la negazione di Dio, che lasciò quegli infelici popoli senza progresso di sorta, nella stessa condizione di barbarie in cui trovavansi ai tempi di Murat e di Manhès. Se il Borbone da Roma sostiene il banditismo, non è per creare un vero e proprio movimento politico: "l'aiuto principale si aspettava da fuori, ed intanto si aveva bisogno di un mestatore qualunque, di un agitatore, d'un terrorista che mantenesse il timore e spargesse il malcontento nelle popolazioni, quindi generar facesse la sfiducia nel governo nuovo" 51• La causa maggiore della persistenza del brigantaggio è appunto l'esistenza della frontiera con lo Stato Pontificio, nelle cui vicinanze è particolarmente diffuso; ma "una volta che la bandiera tricolore sventolasse in Campidoglio" il bri-

"" ivi, Vol. I p. 11 s1. ivi, Vol . ll1 pp. 475-476.


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gantaggio non potrebbe più esistere e diventerebbe al più una faccenda che riguarda la polizia. Comunque sia, i briganti rimangono solo tali: voler loro dare il carattere politico gli è concedergli una qualità che assolutamente non hanno [... ]. Mi si obietterà forse che essendosi detto che Francesco II accettasse la cooperazione di Chiavone e lo sovvenisse dei proprio denaro; arruolasse e pagasse Tristany e la sua banda, si avrebbe ragione di chiamar politiche quelle accozzaglie di briganti di cui vi parlai, tanto più che di visi il brigantaggio in comune e politico; ma ciò io facevo appunto perché il mio lettore si persuadesse che non tutte le bande combattono per il Re decaduto, e che in quelle in principal modo della frontiera [con lo Stato Pontificio] assumevano un carattere politico per le eccitazioni e gli incoraggiamenti che ricevevano dal seggio pontificale, e per le condizioni delle persone che le spingevano alla frontiera, e le fornivano di stipendio, di vestiario, d'armi e di munizioni [... ]. La lunga storia delle gesta brigantesche ch'io ho narrate, provano e convincono chicchessia, che di politico non hanno che il nome e l' abito; ma che in fin dei conti non sono che ciurme di ladri prezzolati, il cui scopo prefisso è il bottino" .

Da questa interpretazione "minimalista" del brigantaggio, da lui indicato essenzialmente come un fenomeno di delinquenza comune fomentato dall'esterno, si potrebbe dedurre che l'Oddo è assai vicino alla monarchia e aH' establishment piemontese; invece non nasconde le sue simpatie per Garibaldi e per le correnti d'opinione che lo appoggiano, ed è estremamente critico nei riguardi della politica seguita dal governo conservatore italiano nel Meridione, che colloca tra le cause della persistenza del fenomeno. Le sue critiche possono essere così riassunte: - estensione indiscriminata alle province meridionali delle istituzioni amministrative piemontesi, "senza prima studiare delle province stesse i bisogni essenziali né l'abitudine di esse ad istituzioni proprie, non tutte cattive, migliori alcune di quel1e del Piemonte";53 - eccessivo centralismo; trasferimento al Sud di molti impiegati piemontesi che non conoscono i problemi locali e provocano ritardi e danni all'amministrazione; - conferma nei loro incarichi o promozione di molti impiegati del passato regime, lasciando per contro da parte, nella miseria, molti liberali onesti e di chiara fama e destituendo gli impiegati nominati da Garibaldi. A questo errore si aggiunge la persecuzione dei liberali filo-garibaldini;

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ivi, Voi . ID pp. 474-475. ivi, Vol. p. 45.


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mancato, energico intervento per soffocare il banditismo ali' inizio, quando sarebbe stato facile: "moltiplicavansi i briganti; le province desolate domandavano forza ma indarno, questa era concentrata in Napoli e intorno a Gaeta; domandavan fucili per armare la guardia nazionale, ma fucili non vi erano o non si mandavano. Buoni patrioti, conoscitori del Paese avvertivano il Governo del vero stato di cose, e i rimedi opportuni gli suggerivano, e nomi di persone oneste e valenti gli mettevano davanti da collocare al governo delle singole province, ma il Luogotenente non provvedeva, ed il gabinetto di Torino mandava i suoi favoriti ai nuovi posti"14; mancato accoglimento del consiglio di inviare al Sud i fondi necessari per le nuove opere pubbliche (in particolare strade, ferrovie, ponti) dando così lavoro a molti disoccupati, e per contro, sciupìo di uomini e denari in cose inutili, che appesantiscono il bilancio dello Stato; mancato invio di un'energica protesta al governo francese, perché copre con la sua bandiera quel "covo di malfattori" che era ed è Roma: "il governo, mal guarentendo così i diritti nostri, l'italica nazione ha umiliata lasciandole sul collo questi stranieri.."; "i briganti correvano ad armarsi in Roma, e di là tornavano armati negli Abruzzi; le vie di comunicazione non vennero custodite, né fu mai chiuso il passaggio a quell'orde scellerate che han trovato diletto negli incendi e nel sangue"; mancati provvedimenti (o provvedimenti sbagliati) contro la camorra napòletana, che prospera soprattutto nelle carceri con la complicità del personale di custodia (l'Oddo la descrive minutamente, e afferma, tra l'altro, che sarebbe stato necessario trasferire i detenuti da Napoli per troncare i loro legami con l'esterno);55 mancata utilizzazione, specie all'inizio, delle Guardie Nazionali, più utili della truppa perché conoscono i luoghi e le persone, e inoltre sono dappertutto, mentre la truppa può essere solo in alcuni luoghi. Ne consegue l'omertà delle autorità municipali locali e dei benestanti, che non si sentono protetti e perciò volenti o nolenti favoriscono i briganti e non segnalano i loro movimenti; tendenza generale del governo a fare del banditismo solo una questione di ordine pubblico, ignorando le proposte degli ufficiali e dei patrioti per combattere le radici del banditismo e in primo luogo la miseria. In tal modo provvedimenti che denotavano solo la volontà di ricorrere alla forza "indisponevano gli animi, favorivano lo spirito reazionario, aumentavano il numero dei briganti";~ mancata riforma della Magistratura napoletana (che funziona male e ivi, Vo l. pp. 48 e 49. ivi, Vol. 1 pp. 333-379. ivi, Voi. I pp. 425-426.


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con ritardo ed è corrotta, perché su di essa può tutto sia il governo che l'oro dei privati, lascia le sedi vacanti ecc.) e mancato allontanamento dai magistrati che hanno condannato i patrioti. Lo stesso vale per la polizia, per la quale l'Oddo cita i duri giudizi del Bianco; - esuberante numero di impiegati a volte incapaci, che appesantiscono l'erario; - errata politica nei confronti dell'alto clero napoletano, e in particolare dell'Arcivescovo di Napoli acceso e dichiarato filo-borbonico. Tra i numerosi e poco noti documenti prodotti dall'Oddo acquistano speciale rilievo il diario del generale Borjès, la circolare ai rappresentanti all'estero del Presidente del Consiglio Ricasoli, i discorsi in Parlamento di Raltazzi e dello stesso Ricasoli, le lamentele dei cittadini di Lucera (Foggia) contro l'operato poco efficace di un generale, il diario di un anonimo combattente di fanteria. Il generale Borjès è spagnolo, e per quanto non manchino certo generali borbonici che hanno seguìto Francesco Il a Roma, nel settembre 1861 viene inviato in Calabria da Malta per "proclamarvi l'autorità del legittimo Re Francesco Il" (fatto che già dimostra la scarsa fiducia che i militari dcli' entourage di Francesco Il banno nell'impresa, o forse, la loro pavidità). Borjès riceve dal generale borbonico Clary istruzioni irrealistiche, basate sulla speranza (o meglio sull' illusione) che egli possa con faciltà trovare gran numero di seguaci per ricostituire prontamente a nome del deposto re un'amministrazione statale e un piccolo esercito regolare. Il diario del generale, che come si è visto finirà fucilato dai piemontesi quando onnai era vicino al confine pontificio e si accingeva ad espatriare, è la dimostrazione che egli trova solo dei briganti i quali - al contrario di quanto spera -intendono servirsi per i loro fini personali e di rapina dell'appoggio di Francesco Il e del clero, ma non servire il Borbone mettendosi ai suoi ordini e riconoscendolo legittimo rappresentante del monarca. Di qui i suoi difficili rapporti con Croceo, da lui definito "il primo ladro che io abbia mai conosciuto", e la sua difficoltà di trovare seguaci, anche se le popolazioni si mostrano favorevoli. Le cause della diffidenza di Croceo - e dei capi briganti in genere - sono ben esposte in un brano del diario di Borjès in data 28 ottobre 1861: De Langlois, uomo che temo assai intrigante, mi narra che ieri sera ha avuto una conferenza di più di due ore con Croceo, e che questi gli ha detto: "Se io ammetto una organizzazione, non sarò più nulla; mentre restando in questi boschi sono onnipotente, nessuno li conosce meglio di me; se entriamo in campagna, ciò non accadrà più. Del resto i soldati mi hanno nominato generale, ed io ho eletto i colonnelli e i maggiori e gli altri ufficiali, i quali nulla più sarebbero, se cadessi. Del resto io non sono stato che caporale, il che vuol dire che di cose militari non me ne intendo! Del che ne segue che non avrò più preponderanza il giorno in cui si agirà militannente. 57 >1.

ivi, Vol. Il pp. 315-316.


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Dichiarazioni del tutto verosimili, perché corrispondono alla linea d'azione (indipendente e insofferente di ogni limitazione, legame o disciplina) adottata dal Croceo e dai principali capi briganti; è innegabile che quest'ultimi mettono costantemente sul fondo delle loro imprese il furto, il ricatto, il saccheggio, non l'azione per raggiungere obiettivi politici comuni e la disciplina e unità d'azione che essa richiede e che segnerebbe per loro una diminutio capitis inaccettabile. La circolare del Ricasoli agli agenti all'estero datata 24 agosto 1861 è importante, perché intende tutelare l'immagine internazionale del nuovo Regno e fornire ai diplomatici la versione del governo sugli avvenimenti al Sud, combattendo la tesi "dell'oppressione che il Piemonte farebbe pesare su quello sfortunato paese, strappato colle insidie e colla forza ai suoi legittimi dominatori, ai quali brama tornare anche a prezzo di martirii e di sangue". In ogni epoca - afferma il Ricasoli - i rivolgimenti politici sono stati accompagnati da strascichi di lotte fratricide e di sangue, che hanno richiesto del tempo per essere sopiti; comunque non si può paragonare le ribellioni del Sud con i sommovimenti politici interni in passato avvenuti in Francia, in Spagna, in Inghilterra, per i quali nessuno ha mai negato ai governi legittimi il diritto di reprimerli. Il brigantaggio non è una protesta armata contro il nuovo governo; i briganti non hanno un programma politico, ma a loro interessa solo il saccheggio e la rapina, anche se sono strumentalizzati dai Borboni e dal clero: "dei generali e ufficiali rimasti fedeli al Borbone, neppure uno ha osato assumere il comando dei briganti napoletani e la responsabilità dei loro atti". Il brigantaggio non è così diffuso come taluni scrivono; il vero brigantaggio esiste solo al confine con lo Stato pontificio, dove può essere alimentato dall'esterno. Esso non è una reazione politica, né è cosa nuova: "è il frutto delle guerre frequenti e continue colaggiù combattute, delle frequentissime commozioni politiche, del mal governo continuo". Di qui i veementi attacchi del Ricasoli al governo borbonico, che ha corrotto le popolazioni "anziché rinvigorirle, ordinarle, moralizzarle". La polizia era "il privilegio concesso ad una congrega di malfattori di vessare e taglieggiare il popolo a loro arbitrio, perché esercitassero lo spionaggio per conto del Governo; tale era la camorra". L'esercito era stato educato non a difendere la Patria ma a difendere il Re contro i cittadini, e non aveva nessuna consistenza morale, né spirito di corpo o culto dell'onor militare, lacune dimostrate contro Garibaldi. Dopo la caduta dei Borboni molti soldati borbonici, "avvezzi agli ozi e alle depravazioni delle caserme, disusati dal lavoro", si sono fatti briganti: "se nelle loro atroci imprese portano talora la bandiera borbonica, egli è per un resto d'abitudine, non per affetto. Si disonorarono non la difendendo [contro Garibaldi], ora la disonorano facendone un segnacolo agli assassini e alle rapine". Il Ricasoli conclude negando che le popolazioni napoletane siano contrarie all'unità nazionale e indegne della libertà: a Napoli le tante congiure filoborboniche sono sempre fallite, e le popolazioni hanno sempre larga-


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mente risposto agli appelli per la costituzione delle Guardie Nazionali e l' arruolamento di volontari, accorrendo a combattere i briganti. Se il brigan1aggio perdura, ciò è dovuto alla natura del terreno che lo favorisce, e al fatto che nel napoletano non sono stati sospesi i diritti costituzionali. Né si deve trascurare l' appoggio fornito ai briganti da Roma e da una parte della reazione europea; ciò dimostra, tra l'altro, che il potere temporale "non solamente è condannato dalla logica irresistibile del principio di unità nazionale, ma si è reso incompatibile colla civiltà e colla umanità". In questa occasione il Ricasoli non accenna ai rimedi, né al programma futuro del governo; ma a fine 1861 difende il suo operato in Parlamento.58 Replica alle critiche alla polizia affermando che "in due soli anni non si possono completamente educare i funzionari" e che i Carabinieri sono stati accresciuti e raggiungeranno presto il previsto numero di 19.000. Nell'Italia Meridionale vi sono 50.000 uomini dell'Esercito, cifra da lui giudicata sufficiente. Loda il contributo dato dalla Guardia Nazionale, e assicura a torto che "il brigantaggio sotto l'ultima luogotenenza fu ridotto a limitate proporzioni; non è comunque vero che non è stato dato incremento ai lavori pubblici, e che non sono stati utilizzati funzionari napoletani. Del resto il capo dell'opposizione Rattazzi non suggerisce soluzioni diverse: occorre un'incisiva azione diplomatica per por fine agli aiuti al brigantaggio provenienti dagli Stati pontifici, e il governo deve valersi della Guardia nazionale e dei cittadini tutti perché si prestino a distruggere i briganti, trattandosi della loro vita e delle loro sostanze".

Aspetti tecnico-militari delle operazioni contro il brigantaggio Anche se manca costantemente una direzione unitaria delle formazioni armate che si oppongono al nuovo stato di cose, le operazioni dell' Esercito contro il brigantaggio non sono diverse dalle operazioni di controguerriglia. E come sempre è accaduto agli eserciti regolari che banno dovuto combattere la guerriglia, anche il nuovo Esercito italiano non è affatto preparato a questo particolare tipo di lotta, prima di tutto per la mentalità dei comandanti e l'equipaggiamento e J'addestramento; scontati e difficilmente evitabili anche disagi e malattie tra la truppa. Interessanti, in proposito, le osservazioni coeve del generale Raffaele Cadoma, nominato comandante della divisione militare di Chieti a fine luglio 1861, e il resoconto delle disposizioni operative dei comandanti di recente fornito dal Tuccari.59 Il Cadoma mette bene in rilievo le modalità d'azione delle bande e i loro

58

ivi, Voi. ID pp. 67-73.

"" L. Cadoma, Il Generale Raffaele Cadorna nel Risorgimento Italiano (Cit.), pp. 199-211 e L. Tuccari, Art. cii.. Cfr. anche C. Cesari, Op. cit. e O . Rovio, Op. t:it..


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vantaggi rispetto alle truppe regolari, ammettendo a chiare note che "il sistema segulto da altri, e da me stesso sul principio, era fallace". Anziché intraprendere onerose e complesse operazioni di ricerca (che cadevano spesso nel vuoto anche perché conosciute in anticipo dai banditi), era meglio cercar di sapere da spie ben pagate dove erano i covi, per poi sorprendervi le bande con rapide azioni notturne di sorpresa, che in tal modo avevano esito sicuro. "Ma tale sistema - aggiunge il Cadoma - prevaleva a rilento, anche per la ripugnanza del governo di concedere larghi fondi per lo spionaggio". Le azioni di controguerriglia hanno perciò, nella maggior parte dei casi, le caratteristiche che risultano dalle disposizioni operative citate dal Tuccari, le quali non sono certo nuove e originali e possono essere così riassunte: le operazioni di controguerriglia si svolgono per lo più di giorno; quindi di notte i briganti, avvalendosi della perletta conoscenza dei luoghi, possono agevolmente spostarsi e preparare o compiere le loro azioni di sorpresa contro obiettivi indifesi; il successo delle azioni militari dipende molto dalla collaborazione della popolazione e delle autorità locali, dalla raccolta di informazioni e dai rapidi collegamenti, tutti settori assai carenti; nonostante i tentativi dei comandanti di grado elevato di disciplinare la materia, di fornire istruzioni dettagliate ecc., molto dipende dalla personale iniziativa e dalla capacità dei comandanti in sottordine, che possono anche mancare. Così i cittadini di Lucera indirizzano al Parlamento una lellera di pro-testa contro l'operato del generale Srnith Doda, "la cui incapacità ed inerzia, per non dir altro, doveva produrre la desolazione di queste belle contrade, e la rovina di tutti i proprietari"00• Secondo la lettera il Doda tende a mantenere eccessivamente accentrate nella sua sede di Foggia le forze a sua disposizione e in particolare la cavalleria, distaccando aliquote di truppa troppo ridotte che poi spesso soccombono di fronte a forze superiori, con gravi perdite. E viene definito codardo, perché si rifiuta di soccorrere un distaccamento avanzato di fanteria di 20 uomini che si trova alla distanza di un chilometro ed è circondato dai briganti che ne fanno scempio, né ordina il loro inseguimento. Come già si è accennato, l'Oddo riporta anche brani di lettere di un mmtare di fanteria non meglio identificato (probabilmente un ufficiale) a un amico milanese (forse lui stesso), il quale traccia un quadro delle operazioni nei primi mesi del 1862 in Puglia. Quanto egli afferma smentisce le ottimistiche affermazioni del Ricasoli sulla progressiva estinzione e localizzazione del banditismo e ben mette in rilievo le difficoltà, i pericoli, i disagi di ogni genere che devono affrontare i reparti in quelle zone. In merito, il militare fa un'affermazione significativa:

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G. Oddo, Op. cii., Vol. III pp. 450-454.


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la nostra fatica è gettata al vento se non saremo spalleggiati da numerosa cavalleria; e di questa appunto si difetta; è facile alla fanteria tendere un agguato; ma allorché i briganti accorti della nostra presenza ci fanno una scarica e fuggono, ci vorrebbe in tale occasione la cavalleria a dar loro la caccia. I briganti cadrebbero allora in altro agguato teso pure dalla fanteria, ed in tal modo si opererebbe la distruzione del brigantaggio. Il Ministero dovrebbe agire con più energia, e se dal principio avesse tenuto tutt'altro metodo, e non avesse adoperato mezzi termini, il brigantaggio sarebbe a quest'ora estinto. Ma intanto che si fa? Ogni giorno crescono le bande, la truppa è stanca e in malo stato; è ben difficile che passi un giorno senza che si facciano 15 o 20 miglia inutilmente ...

È ben noto che non di rado le bande - a cominciare da quella assai numerosa del Croceo - sono a cavallo; la mancanza di cavalleria è perciò particolarmente sentita specie in terreni pianeggianti. Sintomatico un articolo a firma C.Z. che compare al1'inizio del 1863 sulla Rivista Militare62 , nel quale si propone la costituzione di unità di bersaglieri a cavallo, armati di carabina e sciabola e montati su piccoli cavalli meridionali o sardi (che sarebbero una riproduzione dei chasseurs d'Afrique francesi, utilizzati con profitto in Africa). Infatti i briganti a cavallo, a loro volta armati di fucile e sciabola, se incontrano un distaccamento di cavalleria non inferiore di molto o superiore fuggono e vanno a prendere posizione in qualche punto forte da essi ben conosciuto, ove attendono la cavalleria inseguitrice che si trova in difficoltà, essendo annata solo di sciabola e · pistole; se invece a inseguire i briganti fossero dei bersaglieri montati, essi scenderebbero da cavallo e potrebbero attaccare alla baionetta i briganti. Anche costituendo per dare la caccia ai briganti dei distaccamenti di fanteria e cavalleria non verrebbe meno l'utilità dei bersaglieri a cavallo, perché in questo caso i briganti potrebbero attirare la cavalleria lontano dalla fanteria, per poi scendere da cavallo e prendere posizione, affrontandola in condizioni di superiorità di armamento. L'autore perciò conclude: "non crediamo che la creazione di questo corpo sia la panacea da curare la piaga del brigantaggio, ma bensì di meglio combatterli, e con minori perdite e con meno affaticare la fanteria". Non risulta che la proposta sia stata accolta; si tratta comunque dell'unico cenno che la Rivista Militare di quegli anni dedica al banditismo e al modo migliore di combatterlo. Gli aspetti logistici richiedono particolari adeguamenti, resi necessari dall'esigenza preminente di assicurare la massima mobilità e leggerezza delle colonne; ciò vale in particolar modo per il vettovagliamento, sempre dimostratosi difficoltoso e irregolare anche per le truppe che conducono normali operazioni in campagna. Su questo argomento non molto ••. ivi, Vol. IIl pp. 461-462. 02. C.Z., Bersaglieri a cavallo, in"Rivista Militare Italiana" Anno XII - Vol. II - marzo 1863, pp. 264-270.


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approfondito dal Tuccari (e per nulla da altri autori), merita un breve cenno quanto afferma l'ex-ufficiale Paulo Fambri, sia pur a sostegno della discutib* tesi che è inutile mantenere organizzato fin dal tempo di pace il vettovagliamento, per garantirne il miglior funzionamento in guerra. A suo giudizio i sistemi previsti non sono comunque applicabili alle truppe mobili, tant'è vero che nelle province meridionali dove le sono in continua marcia o distaccamento, il servizio delle sussistenze non è che una finzione legale dove l'impresa generale [titolare del contratto per il rifornimento dei viveri a tutte le truppe di stanza in una data regione - N.d.a.] figura di distribuire i viveri ai funzionari delle sussistenze e questi ai· corpi. La bisogna sta cosl sulla carta, mentre in fatto si procede in quest'altro modo, che gli impresari incaricano i sindaci dei vari Comuni ai quali corrispondono una somma considerevolmente al di sotto di quella accreditata loro dal Governo, e che i Sindaci alla volta loro si sbarazzano dell'incombenza rimettendo ogni cosa nei distaccamenti, ai quali però, come è naturale se non giusto, corrispondono una somma anche in qualche parte diminuita, onde la truppa da ultimo si trova assai volte scemata d'un buon terzo e qualche volta pedino della metà il proprio scotto [cioè il controvalore della razione viveri corrisposto in contanti a ciascun soldato, invece di fornirgli i viveri in natura - N.d.a.] 63·

Altro aspetto finora poco noto, il quale fa sì che all'aumento dei disagi e delle fatiche corrisponda un'alimentazione più scarsa del saldato. Notiamo, inoltre, che la corresponsione della razione viveri in denaro, oltre ad essere soggetta al grave inconveniente della decurtazione esposto dal Fambri, non può garantire al soldato un'alimentazione regolare e sufficiente: non sempre è possibile trovare nei paesi dei viveri per tanti uomini e a buon prezzo, e non sempre si trovano sul cammino delle truppe centri abitati o luoghi dove è possibile acquistare viveri.

La relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sul brigantaggio nelle province napoletane ( 1863).

È sicuro indice della gravità della situazione la nomina da parte della Camera di una Commissione d'Inchiesta sul brigantaggio (presieduta dal generale garibaldino Sirtori e avente come segretario il Massari), la quale presenta i risultati dei suoi lavori al Parlamento ai primi di maggio 1863 e, in certo senso, indica i principi sui quali si baserà la successiva e spesso criticata legge Pica, in vigore dall'agosto 1863 al 31 dicembre 1865.

"· P. Fambri, Volontari e regolari, Firenze, Le Monnier 1870, p. 194


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La relazione che ne deriva, pubblicata nello stesso anno 1863,64 ancòra una volta non dice cose del tutto nuove rispetto a quanto affermano il Bianco e l'Oddo. L'interesse delle sue conclusioni sta nella presa d'atto ufficiale di una certa situazione e, soprattutto, nell'indicazione di rimedi peraltro non miracolistici, perché scaturiscono direttamente dalle principali cause che alimentano il banditismo, tutte difficili da rimuovere in tempi brevi; tant'è vero che alcune di esse sono tuttora (2000) operanti. La Commissione nota, anzitutto, che il fenomeno si sviluppa di preferenza in certe zone e in altre no. Le zone dove le bande sono più numerose e attive sono quelle nelle quali le condizioni del contadino sono più misere, quindi la prima causa predisponente è la condizione sociale del campagnolo; ma la 1clliseria non avrebbe effetti così perniciosi se ad essa non si fosse accompagnato il malgoverno borbonico, il quale ha lasciato in eredità all'Italia unita gravissimi mali morali come "l'ignoranza generosamente conservata e ampliata, la superstizione diffusa e accreditata, e segnatamente la mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia"; il delitto più orribile dei Borboni è stato quello di "togliere ad un intero popolo la coscienza del giusto e dell'onesto". Altra causa predisponente individuata dalla Commissione è la secolare tradizione del brigantaggio, la quale fa sì che il brigante non sia guardato dagli strati più bassi della popolazione semplicemente come tale, ma come "l'uomo che con la sua forza sa rendere a sé e agli altri la giustizia a cui le leggi non provvedono". L'azione delle bande è favorita oltre tutto dalla natura dei luoghi, montuosi, selvaggi, privi di strade, ricchi di boschi impenetrabili; infine va tenuto conto che ogni mutamento politico provoca delle crisi, e che Francesco II tale crisi ha aggravato ad arte, fino a dichiarare all'ex-Ministro Dentice che "se io debbo lasciare il regno, legherò ai miei successori cinquant'anni di anarchia". Il suo obiettivo era di "operare la restaurazione per mezzo della guerra sociale, aizzando le passioni e i risentimenti del povero contro il ricco e l'agiato, del proletario contro il possidente"65. Da queste circostanze la Commissione deduce che senza mancare mai delle sue vere caratteristiche, il furto cioè, il saccheggio e l'assassinio, il brigantaggio nei tempi delle sue prime manifestazioni teneva più dell'indole politica, la quale andò poi successivamente dileguandosi, finché non riprese le sembianze di guerra sociale senza cessare con ciò di essere aiutato e sostenuto da coloro medesimi che primi lo accesero e lo promossero. Ond'è che a noi sembra questione all' io tutto oziosa il definire se il brigantaggio sia esclusivamente politico oppure esclusivamente sociale, essendo

64 · Cfr. Il brigantaggio nelle province napoletane - relazioni dei deputati Massari e Castagnola colla legge sul brigantaggio, Milano, Ferrari 1864. ., ivi, p. 37.


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evidente che se nella essenza è il sintomo di un profondo male sociale, non cessa dall'essere adoperato ed usufruttuato per fini meramente politici. Il partito politico, che non vergogna di cercare i suoi proseliti ed i suoi paladini tra gli assassini e ladri, toglie ad altri la molesta cura di giudicarlo ... 66

Perché il brigantaggio persiste, e i rimedi contro di esso si sono rivelati inefficaci? Nel cercare una risposta a questi interrogativi la Commissione indica tutta una serie di cause in massima parte già esposte dal Bianco: errori commessi da tutti (la dittatura garibaldina come le successive luogotenenze); incerto indirizzo governativo; troppo rapidi mutamenti degli uomini; successivo richiamo alle armi degli ex-soldati borbonici, che aumenta considerevolmente il numero di ex-soldati disertori entrati a far parte delle bande; discordie tra cittadini e diffusa tendenza a usare le cariche pubbliche per combattere i propri nemici personali; "inveterata corruzione" delle autorità comunali e provinciali e conseguente favoreggiamento dei briganti da parte delle stesse; cattivo funzionamento della burocrazia; cattiva amministrazione della giustizia; "la molla essenziale e principale di qualsiasi azione contro il brigantaggio manca, vale a dire, non c'è polizia L---1 delle guardie di pubblica sicurezza niente altro diremo, fuorché essere le spese si fanno per mantenerle, denaro assolutamente sprecato"_ Intorno a quelle guardie è unanime il parere delle autorità di qualsivoglia ordine o della cittadinanza; "tutti hanno concordato nel dichiarare che esse non corrispondono menomamente allo scopo col quale vennero istituite, e che anzi invece di contribuire alla conservazione dell'ordine pubblico, sono elementi di perturbazione"67 • I provvedimenti che la Commissione indica per eliminare tutti questi mali si riassumono in una buona amministrazione e in oculate riforme sociali in gran parte mai compiute: incremento dei lavori pubblici e della istruzione pubblica, "affrancazione" del tavoliere delle Puglie e miglioramento delle condizioni dei "terrazzani" pugliesi, emancipazione delle terre, eliminazione dalle controversie sull'utilizzazione dei terreni demaniali, miglioramento dei boschi rendendoli accessibili, costruzione di strade e ferrovie, miglioramento della polizia e della magistratura, provvedimenti per assicurare una più efficace custodia delle carceri e ridurre il numero eccessivo di detenuti in attesa di giudizio, provvedimenti per neutralizzare la dannosa influenza del clero contro il nuovo governo. Riguardo ai metodi per Ja repressione del banditismo, la Commissione ritiene che, in linea di principio, la lotta al banditismo sia compito delJa polizia, non dell'Esercito; se l'Esercito non ha ottenuto fino a quel momento i risultati sperati, ciò è dovuto proprio alla mancanza di una polizia efficiente capace di fornire informazioni sui movimenti delle bande, tanto più .., ivi, p. 38. 1 • ivi, pp. 55 e 57.


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che i briganti sono sempre ben informati sui movimenti dell'Esercito. Specie per combattere piccole bande, una buona polizia e pochi Carabinieri sono più efficaci dei reparti militari; per questo occorre aumentare i Carabinieri e in particolar modo i Carabinieri a cavallo, creando una rete capillare di stazioni su tutto il territorio. Occorre anche eliminare tutto quel vasto tessuto di complici, manulengoli, favoreggiatori che consente alle bande di vivere, a cominciare dal "banditismo urbano" (cioè dai numerosi abitanti dei paesi e delle città che direttamente o indirettamente li aiutano e li favoriscono). Quindi la legge deve consentire la pronta destituzione e sostituzione di sindaci, ufficiali della Guardia Nazionale ecc. che non fanno il loro dovere; deve essere consentito alla autorità militare di bloccare i movimenti di merci, bestiame, viveri ecc.; infine occorre mobilitare prontamente la Guardia Nazionale e squadriglie di volontari. Un altro ordine di provvedimenti riguarda la legislazione penale: si deve porre fine alle fucilazioni immediate, senza processo, di banditi colti con le armi in mano e alla consegna degli altri alla magistratura ordinaria (che peraltro tarda nel giudicarli e spesso li assolve, creando disparità di trattamento). Per eliminare questi inconvenienti e rendere la giustizia più pronta occorre conservare la pena di morte istituendo tribunali militari, che condannino alla massima pena solo i banditi colti in flagrante; per gli altri si dovrebbe prevedere la deportazione in isole lontane e il sequestro dei beni, in modo da allontanare i detenuti dalle proprie residenze e dalle proprie famiglie, alle quali tengono molto, e da impedire loro di godere del frutto delle loro azioni perverse. Infine, a chi si consegna spontaneamente dovrebbero essere concesse congrue riduzioni di pena. Le voci del campo opposto .filo-borbonico Non si conoscono pubblicazioni o documenti di parte borbonica pubblicati prima del 1870, nei quali il banditismo venga esaminato nei suoi caratteri generali e nelle sue finalità vere o presunte. Abbiamo tuttavia rintracciato due saggi o libelli, l'uno che descrive i sentimenti e i giudizi dei napoletani filo-borbonici nel 1862, e l'altro che vuol rispondere - giungendo fino all'insulto - al libro del Saint Jorioz. L'anonimo Saggio Sl!,Ua questione napoletana considerata dalla stampa rivoluzionaria (1862), senza indicazione di località e casa editrice, per "stampa rivoluzionaria" intende proprio la stampa favorevole al nuovo governo italiano, che considera "rivoluzionario" perché sovvertitore di antichi valori e di antiche tradizioni delle popolazioni napoletane. Loda l'opera dell'ex:Re di Napoli per migliorare le condizioni del suo Regno e in particolare della Sicilia, e lamenta che il Regno di Napoli, con dieci milioni di abitanti, è diventato una ·semplice provincia del Piemonte che ne ha solo quattro. Definisce i nuovi venuti "un'accozzaglia di stranieri che si respingono per ogni verso, e


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fondano il loro potere su] terrore e su le baionette", trattando le province napoletane come terra di conquista. Ed esclama: "quale riunione può esservi tra popoli, che sono refrattari l'uno per l'altro, attesa la loro configurazione topografica?". Con il nuovo stato di cose ]a città di Napoli - prosegue l'anonimo autore - ha visto improvvisamente annullati i suoi interessi politici, morali e religiosi; da essa si sono allontanati la Corte, il ceto aristocratico, i Ministeri, le sedi centrali delle principali istituzioni. Con la fusione dei debiti pubblici i 10 nùlioni di abitanti del Regno di Napoli (che hanno solo 550 milioni di debito pubblico) si accollano il peso di oltre 1000 milioni di debito pubblico di 4 milioni di piemontesi; sono stati cacciati dalla pubblica amministrazione uomini probi e intelligenti, che non avrebbero potuto ostacolare l'unità nazionale, e sono stati sostituiti da impiegati piemontesi. Aggravando la miseria e la disoccupazione, sono stati licenziati gli operai napoletani degli stabilimenti e arsenali militari goveniativi, sostituendoli con personale piemontese: come se ci fosse bisogno di maestranze di altre regioni "nella più popolosa e importante città d'Italia, che ha primeggiato sempre per la perfezione nelle scienze e nelle arti". L'economia è paralizzata; distrutti il commercio e l'agricoltura; le tasse aumentano; manca lo spirito imprenditoriale; la delinquenza è sempre più diffusa e per contro il governo è incapace di garantire la sicurezza dei cittadini ... In un siffatto approccio, non ci si può stupire più di tanto se i soldati ex-borbonici diventati briganti - per i quali il Ricasoli pronuncia in Parlamento dure parole di disprezzo - per l'autore del libello diventano degli eroi, se i briganti diventano dei nobili combattenti per la libertà del Sud e se gli unici assassini sono i piemontesi, i cui capi (Cialdini, Pinelli) sono solo "esecutori - carnefici della rivoluzione" e esponenti del partito mazziniano, che "ha obbligato a sedere sul trono çlel Piemonte da Re, senza autorità, senza governo e senza fede, un Sovrano che, divenuto schiavo de' Comitati, lacera i fasti de' suoi antenati". Il cosiddetto banditismo, secondo l'autore, è una "reazione aperta e tutta nazionale" del popolo meridionale, più ammirevole di quella spagnola del 1808-1813. Contro i francesi gli spagnoli hanno potuto contare su tutte le risorse del Regno ed erano tutti uniti, popolo, soldati, grandi proprietari, ufficiali in ritiro, Corte, ecclesiastici; nel caso di Napoli, invece, il re ha dovuto abbandonare il Regno e le sue fortezze e far cessare la rivolta già iniziata negli Abruzzi. Sicché senza nome, senza direzione, spinti dagli eccessi tirannici del potere usurpatore, e dalla lacrimevole vista delle sofferenze generali, i soldati del1' antica annata reale anziché violare l'antico giuramento hanno preferito raccogliersi in bande su le giogaie patrie, con benevolenza accolti dovunque; i contadini senza capi; le popolazioni senza armi, senza denari, e senza piano preordinato, si sono sollevate con spontaneo slancio e con un istinto superiore allo stesso terrore ivi predominante. Dimostrazione evidente della insopportabilità del giogo piemontese, e della grandezza

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del sentimento nazionale, cui non manca che una coordinazione di forze per dirigerlo, onde affrettare la restaurazione dell'autonomia in un paese, che ha reso memorando e storico il movimento del vespro siciliano, e che presto o tardi deve trionfare.

Perché non si sia ancora trovata questa direzione unica l'autore non lo spiega, né accenna agli innegabili e diffusi atti di delinquenza comune de1le bande; in compenso elenca 15 Comuni (tra i quali S. Marco, Rignano, Vieste ... ) "messi a ferro e a fuoco", i quali dimostrano "lo spirito del regime piemontese" nel napoletano, diseducando il soldato con il dargli l' abitudine alla crudeltà, anziché insegnargli la generosità verso i nemici. Degli 80.000 abitanti di quei paesi, molti sono stati uccisi o sono periti nell'incendio; gli altri vagano tuttora, in questo rigido inverno, in cerca di soccorso. Le nazioni civili non dovrebbero abbandonare 10 milioni di uomini all'arbitrio di ''una fazione di vampiri e maniaci (sic) che sembrano creati a tutt'altra immagine, e che si credono autorizzati a ogni massacro non appena applichino l'epiteto di briganti" . Infatti, oggi si pretende di chiamare galantuomini coloro che in nome della libertà incarcerano, esiliano, fucilano, saccheggiano le chiese e i luoghi religiosi; come se ciò non bastasse, essi impongono ai popoli anche il tributo della carne da cannone (cioè la leva militare), "opprimendo le famiglie de' molti refrattari, che ripugnano di fare gli sgherri armati de1la rivoluzione". Chi, come già ai tempi delle sommosse antinapoleoniche, "mosso <la santa indignazione", disapprova simili mostruosità e intende mantenersi fedele alla religione dei padri, alle leggi e alla patria indipendente, è invece chiamato brigante; per meritare il nome di galantuomo "bisogna plaudire, ed encomiare quando si sente, che le fucilazioni (fino a 20 agosto [1862] ultimo) oltrepassavano le 10.000; che le prigioni non bastando più per gl'immensi detenuti sospetti di mantenersi fedeli al governo legittimo, se ne spedivano le torme per mare a Genova e altrove". Questo lavoro anonimo nel quale no_n si trova una sola parola di deplorazione per quegli atti di delinquenza comune e quelle atrocità la cui generalizzazione pur impedirà ai legittimisti di sfruttare a fondo il brigantaggio, rende tuttavia molto bene quegli stati d'animo e quelle frustrazioni localistiche anche giustificate, che guadagnano al brigantaggio immeritate sim- . patie e perciò ne prolungano la durata. Il secondo scritto al quale abbiamo accennato è una lunga lettera al Bianco di Saint-Jorioz del delegato di Pubblica Sicurezza locale Vincenzo Tofani, dal Bianco stesso accusato nel suo libro di disonestà, interesse privato in atti d ' ufficio, ecc.68 • Tofani fa anzitutto osservare al Bianco che cade in contraddizione, da una parte affermando che nel popolo meridionale 68 · V. Tofani, Il brigantaggio alla frontiera pontificia • tenera del delegato di Pubblica Sicureu.a Vincenzo Tofani in risposta al libro del Conte Bianco di Saint Jorioz, Napoli, Tip. Giornale di Napoli 1864.


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non si trova che "putridume" e "carcame", dell'altra attribuendo ai briganti doti di "sveltezza, attività, energia, sobrietà, robustezza, valore, ardimento e intelligenza". Subito dopo gli contesta il diritto di giudicare: "chi siete voi, che vi levate a censore di una sì gran parte degli italiani? [...]. Voi siete un presuntuoso, che volete erigervi a Tribunale infallibile, giudicando di tutto e tutti, senza nozioni di legislazione, di amministrazione, delle abitudini e dei costumi nostri; voi siete il rappresentante d'una casta, che sogna ancora un'era pro-consolare". Gli fa poi notare che lo stesso Esercito ha condannato il suo libro, "anzi lo ha disprezzato, e prova ne sia l'onorevole repulsa, che fece il generai Govone alla vostra dedica". Segue una puntigliosa contestazione dei fatti che il Bianco gli addebita e una lunga e particolareggiata esposizione dei propri meriti e dell' efficacia della sua lotta contro il banditismo. Il tutto suffragato da numerose testimonianze civili e delle amministrazioni municipali accusate dal Bianco di essere spesso conniventi con i briganti; però mancano significativamente attestati scritti di militari che contestino le affermazioni del Bianco, per quanto il Tofani faccia numerosi nomi di ufficiali, che a suo dire potrebbero testimoniare a suo favore. Il Tafani si occupa solo di questioni personali, e non di carattere generale; ma afferma che è perfettamente naturale che una dinastia da secoli regnante, lasci dopo la sua caduta un partito ad essa favorevole: "come dunque vuolsi pretendere il contrario da questo popolo, per tanto tempo da quel governo demoralizzatore tenuto in fatale abbrutimento?". Tullavia lo spirito pubblico, a suo giudizio, non è quello descritto dal Bianco a tinte cosi fosche: "la rivoluzione del 1860 segna un'era nella storia delle rivoluzioni, per la sua spontaneità, per la moderazione, per gli effetti, e la stampa europea ammirava stupefatta negli abitanti di queste Province una maturità di senno politico impreveduto". Sono segni positivi la sottoscrizione per le vittime del brigantaggio, le "dignitose dimostrazioni di un intero popolo fatte alle reprobe parole del Cardinale Antonelli", e l'entusiasmo con cui nell'aprile 1862 è stato accolto a Napoli e proprio nelle province più infestate dal brigantaggio il re Vittorio Emanuele Il. Il Tofani, poi, nega che le idee del Bianco siano quelle di tutto l 'Esercito: se cosl fosse, "guai guai a queste province, il brigantaggio piuttostochè distruggersi, dominerebbe gigante!". Tranne qualche eccezione, egli afferma - i comandanti militari hanno capito che occorre unità d 'azione, cioè perfetto accordo dell'Esercito con le autorità civili, la milizia cittadina e il popolo, e che il diffidare di tutto e tutti, "è orgoglioso isolamento, il quale, impolitico per sé stesso, sciupa inutilmente la forza, il valore, l'ardimento, la stupenda abnegazione de] nostro soldato nella lotta che sostiene". Prova ne sia che il generale Pallavicini ha ottenuto brillanti risultati "non tanto per la scienza strategica usata (ché profonda strategia militare non abbisogna nella guerra di briganti)", ma perché ha saputo avvalersi di tutte le forze vive del popolo, risollevando lo spirito pubblico. Questo generale non ha affatto trovato il brigantaggio "nella natura e negli


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istinti di queste popolazioni" come afferma il Bianco, ma ha avuto fiducia in loro, facendole cooperare alle sue azioni. L'ultima accusa del Tofani al Bianco è di "aver ammaestrato i nostri nemici de' loro errori, e palesata la strategia del Supremo Comando Militare", presentando la popolazione meridionale come umiliata, stanca, pronta a insorgere a ogni occasione, le autorità e istituzioni locali come complici e sostenitrici del brigantaggio, e "le orde brigantesche capaci di abnegazione, e di rendersi potenti, se un uomo di genio e di nome le capitanasse". In tal modo la parte borbonica, già avvilita e scoraggiata dai suoi sforzi infruttuosi, ha riacquistato la speranza perduta e la capacità di tentare altri sforzi, che avranno certamente l'esito di quelli precedenti, ma intanto causeranno altre sciagure alle infelici contrade del Sud. Senza entrare nel merito dell'operato del Tofani, è un fatto da diverse parti testimoniato - e accertato dalla Commissione di inchiesta - che l' apporto della polizia e delle pubbliche amministrazioni locali è stato non di rado insufficiente, e che spesso l'Esercito si è trovati di fronte a casi di corruzione, complicità, malafede e scarso spirito di collaborazione: come si fa a collaborare con chi non collabora e/o non si dimostra affidabile e amico?

Conclusione Gli eventi del periodo dal 1848 al 1870 segnano un indubbio regresso della prospettiva "alternativa" della guerriglia. All'essenza della guerra napoleonica (guerra, non si dimentichi, che è totale e ideologica) non pochi rivoluzionari indirettamente o direttamente, con il pensiero o con l'azione, rendono omaggio. In sostanza l'esperienza delle guerre dal 1848 al 1870 conferma il ruolo di protagonisti agli eserciti regolari, che hanno avuto abbastanza facilmente ragione anche dell'insurrezione delle città. Per questo le opere sulla guerriglia nelle campagne, oltre ad essere poche, tengono i piedi per terra e concepiscono la guerriglia stessa unicamente come ausilio alle operazioni dell'esercito regolare , non come loro sostituzione: dell'esercito regolare si discute la composizione, la costituzione, gli obiettivi ecc. ma non la formula in sé. In fondo lo stesso Forbes non fa che suggerire - con il suo manuale il miglior metodo di rendere i volontari, per disciplina e addestramento, del tutto simili ai soldati c;lell'esercito regolare: né indica loro delle vere e proprie strategie o tattiche "alternative". L'insurrezione popolare delle città riscuote maggiore attenzione, se non altro perché numero.si e assai interessanti sono gli episodi di questo genere nel 1848/1849 e anche nel 1859/1860: ma anch'essa viene vista generalmente come un mezzo per aprire la strada all'intervento delle forze regolari . o per accompagnarlo, comunque come una tappa per costituire appena possibile un esercito secondo la formula classica. In diversi casi, si ritiene che le ferrovie e le armi moderne facilitino più gli eserciti regolari nel reprimere


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le rivolte popolari nelle città, che gli insorti. Coloro che specie all'estero intendono fornire norme per combattere gli eserciti all'interno delle città arrivano ad auspicare - come fa Blanqui - una maggiore istruzione militare e la rapida formazione di Quadri tra gli insorti, a imitazione dell'esercito regolare. Quest'ultimo purtroppo sta dall'altra parte, anche se i soldati non possono essere animati dallo stesso spirito combattivo, dallo stesso entusiasmo e magari dalla stessa intelligenza degli insorti. Come si vedrà anche in altri capitoli e in particolare in quello sulla difesa dello Stato (cap. XI), l'esperienza spagnola viene citata e studiata spesso: ma solo per dimostrare il grande apporto che potrebbero dare alla guerra contro lo straniero le milizie popolari improvvisate e/o l'insurrezione di tutto un popolo e la sua lotta con ogni mezzo, ivi compresi i metodi tipici della guerriglia, peraltro vista non come vero e proprio metodo "alternativo" e quindi come nuovo modello da porre costantemente a base della difesa nazionale. Quando nella guerra del 1866 l'Esercito italiano è sconfitto, questa sconfitta anche dai più fieri avversari della monarchia e dell' establishment militare non viene certo addebitata ali' esercito regolare come formula in sé, ma alla sua costituzione e al suo impiego in quell'occasione. Alla monarchia e al governo si muove il rimprovero di non aver voluto continuare la guerra, rafforzando detto esercito fino a fare della guerra di eserciti una guerra di popolo (quest'ultima come sempre intesa come lotta dell'esercito e del popolo insieme, non come lotta del solo popolo senza l'esercito). Questa visione realista - e qualche volta "minimalista" - del ruolo della guerriglia non può stupire: nel periodo 1815-1848 si teorizza sulla base di speranze o di postulati difficilmente realizzabili; nel periodo ora in esame si hanno invece davanti agli occhi ben definite realtà ed è possibile trarre dagli eventi precisi ammaestramenti. In Italia come nelle altre principali nazioni europee, non è possibile trovare riscontri concreti alle teorie della insurrezione e della guerriglia generalizzata e estesa che avevano inizialmente affascinato molti patrioti; tutti, alla prova dei fatti, possono constatare che non è questa la strada, perché tra l'ideale e il possibile c'è notevole differenza. Ciò non significa che le tradizionali e ormai ben note difficoltà degli eserciti regolari nel soffocare la guerriglia specie in terreni montani tutt' a un tratto vengano meno: lo dimostrano gli insuccessi delle truppe austriache al comando del generale Auersperg nel combattere le bande d'insorti che infestano le impervie e mal conosciute montagne della Dalmazia e si avvalgono di "santuari" nel Montenegro. La Rivista Militare (et pour cause), così commenta questa ennesima, cattiva prova data dalle forze regolari: quanto a noi, l'insuccesso dei generali e dei soldati austriaci contro alcune bande d'insorti, non ci strapperà alcuna di quelle parole di meraviglia che abbiamo letto nei giorni scorsi nei diarii di Vienna. Sono quegli stessi diari che prima del 1866 cercavano di insinuare nel pubblico che i generali e i soldati italiani valevano ben poca cosa, perché più di una volta le loro operazioni contro i briganti o riuscivano


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infruttuose, stante il sicuro rifugio che questi trovavano nel territorio pontificio, o volgevano a male perché gli elementi della natura o l'asprezza dei luoghi contrastavano alla bravura delle nostre truppe. Coloro i quali non sono militari non si fanno un intiero concetto di ciò che sono queste gue"e; essi non comprendono che tutta la scienza dei generali e tutta la bravura delle truppe, che avrebbero campo di rivelarsi nelle grandi operazioni di guerra, non servono bene spesso a nulla quando si ha da fare con un nemico il quale trova la vittoria nella fuga o nel rintanarsi in un territorio che è per lui un riparo sicuro e ove al suo inseguitore non è pennesso di porre il piede. La ingratitudine che il Ministero austriaco stava per commettere verso il generale Auersperg, al quale aveva già destinato un successore, perché egli non era riuscito nel tempo prefisso dai giornalisti di Vienna a spuntar l'impossibile, quante simili ingiustizie non ricorda verso provetti Generali di altri Eserciti? [nostre sottolineature - N.d.a.1 69

La sfumata ma chiara allusione della Rivista Militare all'impossibilità per il nostro esercito di spegnere in breve tempo il banditismo del Sud, da una parte dimostra che anche per l'organo ufficiale del Ministero della guerra non sussiste alcuna differenza tra guerriglia e brigantaggio, dell'altra che per avere ragione della guerriglia - quindi anche del banditismo - i soli mezzi militari non sono sufficienti, anche se di essi non si può certo fare a meno. Ha dunque ragione il Bianco, quando - lui militare - afferma che la questione del brigantaggio non è principalmente militare: ciò equivale a dire che solo con la rimozione delle cause politico-sociali che lo favoriscono il fenomeno può scomparire. A tal proposito, sulla base degli scritti prima esaminati è possibile chiarire una volta per tutte se il brigantaggio ha fisionomia politica, oppure se è una semplice questione di deUnquenza comune da reprimere con tutti i mezzi possibili. Fenomeno politico e sociale il brigantaggio lo è stato certamente: lo dimostrano la sua diffusione e i vasti appoggi dei quali ha goduto, lo dimostra il fatto che ha richiesto per ben dieci anni 1' intervento della parte più efficiente dell'Esercito e che ha reso necessaria la nomina di una Commissione d'Inchiesta parlamentare con conseguenti leggi eccezionali. Al tempo stesso esso non è mai stato, non è mai riuscito a diventare un vero e proprio partito o movimento politico, con relativo programma condiviso da vasti strati della popolazione e con una direzione politica unitaria, capace di coordinare gli sforzi dell'ala militare. La delinquenza comune, sempre presente in qualsivoglia gruppo irregolare che si opponga con le armi allo Stato, in questo caso enziché essere una componente fisiologica e minoritaria che sfugge al controllo è rimasta sempre prevalente, nonostante taluni fiacchi sforzi iniziali della Corte borbonica e del governo pontificio di inquadrarla, strumentalizzarla e control69

Cronaca politico-militare, "Rivista Militare Italiana" Anno XIV -· Voi. JV dicembre

1869, pp. 580-582.


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larla, di militarizzarla insomma. Questo ha segnato la sconfitta delle bande e il loro sia pur lento dissolvimento, provocato dal fatto che il coagulo di forze sociali e politiche che avevano interesse a appoggiare il banditismo si è andato sempre più assottigliando. Svanite le prime illusioni del 1860/Ì 861, chiunque, anche se filo-borbonico, avesse un'attività economica da svolgere, o dei possedimenti e beni da proteggere, è stato sempre più danneggiato dall'azione delle bande; a questo si aggiunga la scarsa credibilità politica e morale della Corte e del suo entourage all'interno dell'ex-Stato borbonico, nella quale non si trova nessun uomo disposto a battersi, a rischiare per la causa; una causa di per sé sempre più screditata e perdente, che ha grandemente favorito l'azione militare, a sua volta diventata sempre più efficace man mano che i Quadri dell'Esercito, per così dire, acquistavano esperienza, "si facevano le ossa". In sostanza, la costante mancanza di direzione politica e quindi militare unitaria non ha consentito al banditismo di andare al di là della prima fase della guerriglia, quella della comparsa e crescita. Mancano le successive due fasi (quella di consolidamento, di riorganizzazione secondo criteri comuni e di offensiva generale, e quella di espansione anche con operazioni di tipo classico). Quest'ultima avrebbe richiesto la graduale costituzione di un vero e proprio esercito locale invano tentata da Borjès, visto di malocchio sia perché spagnolo, sia perché intendeva imbrigliare e disciplinare l'azione delle bande, cioè la libertà assoluta d'azione dei più celebri capi-banda. Tutto questo dimostra, ancora una volta, la necessità generale che la guerriglia - se vuol trionfare - perda il connotato "di classe" e guadagni il consenso anche della maggior parte della popolazione, estendendosi in particolare alle classi intellettualmente ed economicamente più evolute: la contrapposizione crescente tra galantuomini e cafoni non ha consentito il raggiungimento di questo obiettivo. In questo quadro, finora le voci citate sono state in forte prevalenza quelle del campo opposto alle truppe italiane, miranti a presentare l'annessione del Sud come una conquista e a mettere in luce gli eccessi della repressione. 70 Riteniamo perciò di aver corretto almeno in parte lo squilibrio, dando spazio anche alle voci e alle valutazioni dei militari e, per così dire, dell' establishment politico. Quali i risultati complessivi di questa rivisitazione, anche alla luce degli eventi successivi fino ai nostri giorni? Il risultato è uno solo: appare chiaro e indiscutibile che dal 1860 in poi fenomeni endemici nella realtà del Sud e tuttora ben vivi sono aggravati dagli errori del nuovo governo e dalla crisi economico-sociale che ne consegue. Quest'ultima non casualmente è del tutto simile a quella che, nel 1799, ha provocato la caduta della Repubblica filo-francese partenopea per opera delle bande di diseredati del Cardinale Fabrizio Ruffo11• 10 • 7 1.

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Cfr., ad esempio, C. Alianello, la conquista del Sud, Milano, Rusconi 1872. Cfr. A. Manes, Un cardinale condottiero - Fabrizio Ruffo e la Repubblica Parten~pea, Aquila, Casa Ed.Vecchioni 1929.


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La Repubblica partenopea del 1799 non aveva un solido esercito: per fortuna il nuovo Regno d'Italia lo ha. E per sfortuna, il degrado delle istituzioni, il cattivo funzionamento o le posizioni più o meno filo-borboniche di Magistratura, polizia e pubbliche amministrazioni, l'inaffidabilità e la frequente corruzione degli Enti locali, dei Comuni, della Guardia Nazionale rovesciano fatalmente e per forza di cose sulle spalle dell'Esercito anche compiti che non dovrebbero essere suoi e ai quali non è affatto preparato, al tempo stesso favorendo fino a renderli quasi inevitabili la durezza della repressione e i suoi errori e eccessi, peraltro finora spesso lamentati ma scarsamente documentati dalla pubblicistica. Su tale durezza e sui contenuti della legislazione in materia va detta una parola chiara: posto che non solo i banditi, ma anche i guerriglieri colti con le armi in mano sono stati sempre passati per le armi - fino ai nostri giorni - da qualsiasi Esercito, la famigerata "legge Pica" (15 agosto 1863, n. 1409 - dovuta non a un deputato piemontese che non conosceva il Sud ma al deputato liberale abruzzese Giuseppe Pica, incarcerato e perseguitato dai Borboni) intende proprio regolare, legalizzare e moderare la situazione creatasi al Sud, mantenendola nel solco della legalità e evitando sia le fucilazioni senza processo, sia gli inconvenienti e le ingiustizie provocati dai ritardi, dal lassismo e dall'inefficienza della Magistratura ordinaria. È il classico caso - che si verifica non solo a quel tempo - di una situazione eccezionale provocata da] degrado delle Istituzioni, che perciò ha richiesto o meglio imposto l'adozione di provvedimenti a loro volta eccezionali; di qui l'istituzione di tribunali militari e la conferma della condanna a morte solo per chi oppone resistenza armata e come massima pena (se ci sono attenuanti, sono infatti previsti lavori forzati a vita). L'Art. 3 della legge mira a una pacificazione, prevedendo lo sconto da uno a tre gradi di pena per chi si presenta spontaneamente entro un mese. L'Art. 5 mira a togliere al banditismo il terreno sociale di coltura, prevedendo il domicilio coatto (deciso da una Commissione presieduta dal prefetto) per sospetti, manutengoli e camorristi. Inoltre, la relazione introduttiva alla legge precisa che il provvedimento è temporaneo, e può essere applicato regione per regione solo per decreto reale. Né è senza significato il fatto che, come ricorda la Commissione d'inchiesta, le fucilazioni sommarie non sono conformi alla nostra legislazione; nel silenzio della legge sono state suggerite da una ferale necessità. Il sistema delle fucil~ioni non ha altra sanzione se non quella del fatto; ed il fatto non può prevalere sulle ragioni indeclinabili della legge. Affrettiamoci a dichiarare che cotesto sistema desta il maggiore rincrescimento e la più viva ripugnanza a coloro che sono costretti a praticarlo ed eseguirlo: ai militari. Questo rincrescimento ci è stato reiteratamente espresso dal generale La Marmora e dai più distinti generali ed ufficiali che militano sotto i suoi ordini. Ad essi si deve anzi che il male non sia stato ancor più grande di ciò che è, e che non debbasi deplorare che abbia avuto maggiore ampiezza. Il generale La Marmora ha usato e


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usa la vigilanza più indefessa, e non tollera che i suoi subordinati oltrepassino mai i rigori imposti dalla dira necessità. 72

Insomma, la legge Pica colma una vacatio legis, introduce per quanto possibile elementi di moderazione e di diritto nella repressione, conferma che la responsabilità è individuale, non è affatto espressione della durezza della repressione stessa, che anzi vuol mitigare. L' establishment politico ha fatto degli errori; ma tra di essi, non ci può essere questa legge, che se mai è il riflesso amaro di una situazione non altrimenti fronteggiabile. Per obiettività va aggiunto che non si poteva pretendere che il nuovo governo ponesse fine in pochi mesi a mali endemici del Sud e in particolare a fenomeni di delinquenza organizzata e a situazioni di disagio economico-sociale talmente radicati da essere pienamente riscontrabili e immutati anche a fine secolo XX, cioè a distanza di oltre un secolo. E come evitare la profonda crisi di- trapasso dai vecchi ai nuovi poteri, in una siffatta situazione? Ha perciò ragione il generale Luigi Cadorna, che commentando i citati ricordi sul banditismo del padre generale Raffaele afferma che "i rimedi duraturi contro questa grande piaga sociale non potevano essere che d'ordine economico e d'ordine morale, lenti quindi gli uni e gli altri, e neppur possibili, finché represso lo stesso brigantaggio col ferro e col fuoco, non fosse sottentrata la piena tranquillità [Nostra sottolineatura N.d.a .]. Non possono, pertanto, essere del tutto condivise talune affermazioni del maggiore Franzosi, il quale nel 1976 ha scritto che "il brigantaggio va represso, la guerriglia prevenuta" e che "anziché ricercare la distruzione dei briganti, l'esercito avrebbe dovuto tendere a conquistare il favore popolare, ristabilendo l'equilibrio interno politico e sociale compromesso. Bisognava non fucilare indiscriminatamente chi veniva trovato in possesso di armi, ma garantire la possibilità e la convenienza di una resa non rovinosa L... ]. Si volle invece prendere il toro per le coma, contrapponendo la guerra regia alla guerra per bande, non immaginando che la vittoria non consisteva nella distruzione delle bande ma nel raggiungimento di ben altri obiettivi ..."73• Anche l'esercito francese uscito dalla Rivoluzione nel 1799 ha spietatamente represso i moti popolari della Vandea: perciò non si tratta di una guerra regia contro una guerra per bande, ma semplicemente di azioni di controguerriglia. Queste tesi portano comunque acqua al mulino di chi presenta la lotta al brigantaggio solo come una repressione arbitraria e inutilmente dura compiuta dall'Esercito: non è stato l'Esercito ad andare di propria volontà al Sud, e a decidere la repressione. Da che mondo è mondo, in questi casi l'obiettivo fondamentale che viene assegnato allo strumento mi1itare è l'eliminazione delle bande e il ristabilimento dell'ordine pub-

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1.1.

Il brigantaggio nelle province napoletane - relazioni ecc. (Cit.), pp. 153-154. P.G. Franzosi, Art. cit.


m-

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blico: è in questo stesso fatto che l'Esercito trova la sua legittimazione e il suo ruolo. La prevenzione del fenomeno - così come i provvedimenti intesi a facilitare il dissolvimento indolore delle formazioni armate - sono compiti non dell'Esercito ma dell'autorità politica, che nel caso specifico proprio con la legge Pica ha cercato di facilitare - con scarso successo - la resa delle bande. A parte questo, sia il banditismo che la guerriglia vanno prevenuti e insieme repressi e combattuti militarmente. Si tratta di un binomio inscindibile, perché senza prevenzione, senza efficaci provvedimenti collaterali ed senza il concorde contributo di tutte le Istituzioni, l'azione militare è da sola inefficace; ma anche l'azione preventiva e i provvedimenti collaterali senza il deterrente e l'esempio dato dall'intervento militare sono inefficaci, se non altro perché visti - specie al Sud - come segno di debolezza del potere costituito. Per ultimo, la legge Pica non ha mai consentito di "fucilare indiscriminatamente chi veniva trovato in possesso di armi"; manteneva, è vero, la pena di morte, ma sarebbe stato ben strano se l'avesse abolita, visto che il codice penale civile del tempo la prevedeva per reati assai meno efferati e gravi di quelli abitualmente commessi dai briganti. Senza contare che, come giustamente osserva la Commissione, se si togliesse la pena di morte la guerra diventerebbe più sanguinaria; i soldati non darebbero quartiere a coloro che hanno straziato i loro compagni, quando sapessero che costoro non saranno puniti con tutto il rigore delle leggi. Le popolazioni dal canto loro non ravviserebbero in questa decisione il senso di umanità dal quale sarebbe informata, ma la interpreterebbero come tacita confessione della impotenza del Governo e delle leggi contro il brigantaggio.

Né ci pare giusto affermare - come fanno il Franzosi e altri - che il brigantaggio si sviluppa in diverse e ben definite fasi, delle quali solo la prima - dal 1860 al 1863 - ha carattere politico e sociale, "e possiede i caratteri veri e propri della guerriglia sia nelle motivazioni che nei metodi di lotta" (Franzosi). Se è endemico e diffuso, un carattere politico e sociale il banditismo lo ha sempre, anche quando (e ciò normalmente è avvenuto fin dall'inizio) la sua azione non va molto al di là della delinquenza comune; vero è invece che - come già detto - falliscono i fiacchi tentativi dei Borboni di disciplinarlo, organizzarlo e trasformarlo in partito o movimento politico unitario, e del governo ,pontificio di strumentalizzarlo. Secondo il Franzosi, poi, la vera differenza tra banditismo e guerriglia non è data dagli atti di criminalità comune (visto che per l' establishment dominante è criminale qualsiasi atto di ribellione), ma dall'appoggio popolare: se la maggioranza della popolazione è consenziente "si può affermare che si tratta di guerriglia: in caso contrario, di brigantaggio". Come dire che i guerriglieri sono dei banditi che hanno avuto successo, o viceversa... In realtà è sempre stato possibile tracciare una linea di demarcazione abbastanza netta tra atti di criminalità comune e atti di criminalità


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politica: la stessa Commissione d'Inchiesta ammette che da sempre il bandito è stato spesso visto dal contadino nullatenente del Sud come vindice e difensore dei suoi diritti_ In altre parole, il banditismo in ogni tempo ha potuto vivere e prosperare solo se e quando godeva di complicità e simpatie nel corpo sociale, che quindi non sono tipiche della guerriglia e solo ad essa indispensabili; e i suoi procedimenti d'azione sono sempre stati quelli tipici della guerriglia, a maggior ragione quando le sue forze erano più deboli. Quando i1 governo pontificio ha finalmente stipulato con quello italiano il patto di Cassino per la cattura e l'estradizione dei briganti (24 febbraio 1865)74 non ha trasformato ipso facto la guerriglia in banditismo e non ne ha cambiato la natura (come afferma il Franzosi) ma semplicemente, dall'evidenza di una serie di fatti avvenuti, all'interno dello stesso Stato Pontificio e ben documentati dal Cesari75 , è stato costretto a prendere atto che il banditismo anche nei territori pontifici e "amici" di frontiera rimaneva un fenomeno essenzialmente delinquenziale, che senza dare i vantaggi politici sperati disturbava notevolmente i benestanti, i cittadini, i proprietari e le attività locali. Per tutte queste ragioni, la lotta al banditismo nel Sud lungi dal rimanere un mero fatto interno e di ordine pubblico, acquista notevole valenza anche teorico-militare. Al banditismo si sovrappone la reazione al nuovo stato di cose che al1' inizio non manca di avere buone carte in mano, e che è stata progressivamente condannata dal graduale venir meno dell'appoggio popolare, pur perdurando gran parte delle cause che l'avevano spinta, all'inizio, a un accelerato sviluppo. Essa dimostra che cosa è necessario alla guerriglia per avere successo; e al tempo stesso, che cosa avviene quando movimenti politici rivoluzionari o contro-rivoluzionari non riescono né a sfruttare fino in fondo la spontanea reazione popolare, né a sfruttare e mantenere sotto controllo, disciplinandola, la delinquenza comune, né a conquistarsi l'appoggio di vasti strati della società. La restaurazione nella quale sperano la corte borbonica in e silio a Roma, il governo pontificio, i reazionari legittimisti di tutta Europa fallisce, per tre ragioni essenziali: a) non si riesce a realizzare la saldatura - che almeno all' inizio era possibile - tra banditismo e spontanea insurrezione popolare; b) le grandi potenze - a cominciare dall'Inghilterra - non intervengono o si mantengono nella sostanza favorevoli al nuovo Regno; c) lo stesso governo francese, che mantiene proprie truppe nello Stato della Chiesa e al vitale confine Sud con l'ex-Regno del1e due Sicilie, finisce con l'abbandonare l'iniziale atteggiamento filo-borbonico e con il consentire una collaborazione più stretta e sincera del comandante francese locale con i comandanti italiani, per impedire finalmente i movimenti delle bande attraverso il confine.

,. C. Cesari, Op. cit., pp. 72-73. " ivi, pp. 53-59.


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Ne consegue che l'antistato e fenomeni endemici che minano da sempre la società meridionale finiscono con il volgersi contro la stessa causa borbonica o con il rimanerle estranei, rendendo il nuovo governo colpevole se mai di non aver stroncato prontamente gli stessi, antichi fenomeni che nemmeno fino al 1860 si riusciva a contenere. Si legge in una corrispondenza da Palermo del giornale L'Esercito (25 marzo 1865): la questione della pubblica sicurezza è aJI' ordine del giorno, i malandrini di nuovo imbaldanziti, rubano e ammazzano che la è una cuccagna. La stampa di qui e le popolazioni gridano contro il Governo perché non pone riparo a tanto male, i deputati, nuovi Geremia, inveiscono contro i ministri e piangono sulle rovine... della pubblica tranquillità, ma come fare se le autorità non trovano nelle popolazioni, non già un attivo concorso nella repressione, ma almeno un appoggio nelle ricerche? a che pro gridare quando qui tutto è inerzia, quando i cittadini stessi col loro passivo contegno sono più di ostacolo che di aiuto alle autorità e agli agenti della pubblica forza? Dunque anche in Sicilia, regione da sempre antiborbonica, la delinquenza nelle campagne e i disordini imperversavano: tutta colpa del nuovo stato di cose, oppure strascico di quello vecchio? La seconda di queste ipotesi è la più vicina al vero; essa in ogni caso non rende certo responsabili di uno stato di cose indegno di una nazione civile le autorità militari, che fanno semplicem~nte quanto è consentito dai mezzi e dalle forze, a loro disposizione, insufficienti dato il radicamento sociale dei fenomeni. E sintomatico che né la Commissione d'inchiesta, né altre autorità politiche abbiano criticato - pur avendone in certo senso l'interesse - l'opera dell'Esercito; sull " 'altro" piatto della bilancia si deve perciò tenere conto di questo, e dei sentimenti di una parte crescente della popolazione, testimoniati - tra l'altro - da questa lettera di ringraziamento dei cittadini di Muro Lucano al generale Pallavicini: porgendo a Lei queste ingenue testimonianze di perenne e sentita gratitudine, i cittadini di Muro Lucano non pretendono aggiungere nulla al Suo altissimo merito, riconosciuto ormai dalla coscienza pubblica, ma di esprimere una verità che trovasi nel cuore e sulle labbra di tutti. L'idra feroce e infame del brigantaggio, che alzava testé minaccioso il suo settemplice capo, è stata felicemente da Lei spinta in uno spazio più breve che non .si sarebbe osato sperare. Non mai tanto valore si è congiunto a tanta moderazione, né una energia infaticabile a così rara sagacia e prudenza. Le combinazioni più splendide non vennero contristate da verun atto arbitrario, che le stesse circostanze straordinarie rendevano pressoché inevitabili, né la voce sola di un innocente sorse tra l'eccidio degli assassinio"76

'~ "L'Esercito" l marzo 1865, p. 221. O


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LL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

L'Esercito non ha conquistato e oppresso, ma ha agito - in ottemperanza al compito ricevuto dal governo - per ottenere una pacificazione e ristabilire l'ordine pubblico, cosa che data la situazione degradata era ormai possibile solo manu militari: da questa premessa dovrebbe partire un'analisi storica equilibrata e obiettiva, come tale capace di calarsi nella realtà del tempo e di ricostruire, intorno ai nudi eventi, i sentimenti e il pensiero di tutte le parti in causa e degli scrittori coevi.

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PARTE SECONDA

QUALE GUERRA E QUALI STRUMENTI PER L'INDIPENDENZA NAZIONALE? LE GRANDI FIGURE DEL PENSIERO MILITARE (DE CRISTOFORIS, PISACANE) E IL PENSIERO MILITARE DELLE GRANDI FIGURE (MAZZINI, GARIBALDI)



CAPITOLO IV

CARLO DE DE CRISTOFORIS: CUORE ITALIANO E MENTE JOMINIANA

Premessa Carlo De Cristoforis e Carlo ·P isacane - civile e lombardo l'uno, ufficiale di carriera e napoletano l'altro - sono i due massimi scrittori militari del periodo e ben ne riassumono i caratteri e le contraddizioni, con opere vicine anche nel tempo che proprio perché di opposta ispirazione e impostazione si integrano a vicenda. Più noto e più esaltato il primo, forse per il carattere ortodosso del suo pensiero; noto e studiato il scwn<lu, anche nel dopoguerra, per le sue teorie politiche prima che per quelle di interesse militare. Ambedue, finora, sono stati sovente mal studiati e interpretati anche da chi li ha lodati; se molto li divide, molto anche li unisce. Ambedue sono caduti combattendo per l'unità, libertà, indipendenza nazionale - trinomio che concordemente giudicano indissolubile - dando prova della necessità di unire con coerenza pensiero e azione, teoria e pratica; ambedue, sia pur con letture diverse e diversi percorsi intellettuali, hanno tratto dalla traumatica e amara esperienza della guerra 1848- 1849 la necessità di trovare urgenti rimedi alla carenza di leadership e di organizzazione dimostrata sul campo dalle schiere italiane, indicando ai connazionali le idee, i modi, i mezzi e i tempi per riacquistare quella autonoma capacità militare, senza la quale un popolo non può essere veramente libero e indipendente. Rispetto alle fonti teoriche esaminate nei precedenti due capitoli il loro lavoro costituisce pertanto un unicum, qualcosa di staccato e di diverso che le ignora e ne è ignorato, assumendo l'aspetto della ricerca di una via originale e, al tempo stesso, di un messaggio nel quale ricorrono elementi autòbiografici.

Matrici e collocazione teorica del libro "Che cosa sia la guerra" Con il libro Che cosa sia la guerra - Metodo di studio pratico esposto per via d' esempi (pubblicato postumo a Milano nel 1860 dall'amico e com-


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Il, PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

pagno d'armi G. Guttièrez), 1 Carlo De Cristoforis (d'ora in poi C.D.C.) rientra tuttora nel ristrettissimo novero degli scrittori militari italiani più validi e celebrati. Per inquadrare con serenità e rigore scientifico la sua opera militare bisogna prima di tutto rifarsi alle più toccanti esperienze militari e insurrezionali della sua vita. dalle quali egli si sforza di trarre i più utili insegnamenti. Partecipa, nel 1848, alle cinque giornate di Milano, semplice combattente nonostante la sua laurea in legge; successivamente fa parte della Legione di soli 400 volontari di Luciano Manara e infine nel 1853 ha parte attiva nella fallita insurrezione mazziniana di Milano. Le poco felici vicende della guerra del 1848, dalla quale emerge un'evidente carenza di leadership militare, lo deludono fino a farlo rimanere in disparte - lui fanatico dell'azione - nella breve ripresa delle operazioni del 1849, perché giudica a ragione la partita ormai perduta. Contemporaneamente matura nel suo animo generoso e sensibile il desiderio di approfondire ad ogni costo la conoscenza di quelle discipline militari che si erano dimostrate tanto carenti nei Quadri - piemontesi e non - che avrebbero dovuto condurre la guerra contro l'Austria. Pensiero e azione in lui come in tutti gli spiriti migliori del Risorgimento - vanno uniti: è tormentato dalla febbre di agire, di battersi, di acquisire esperienze pratiche militari sul campo, e contemporaneamente, arde dal desiderio di compie studi militari regolari. Riesce a soddisfare le sue aspirazioni nel 1853, quando in via eccezionale viene ammesso alla Scuola Imperiale d 'Applicazione di Stato Maggiore di Parigi, che frequenta con profitto fino al marzo 1855 guadagnandosi, benché straniero e italiano, la stima dei superiori e colleghi. L'intento di scrivere un'opera militare matura in lui, però, assai prima del 1853: come scrive il Guttièrez, già dopo l'amara esperienza del 1849 "egli giudicò l'Italia impreparata alla redenzione nazionale, ancora abbujata da molti pregiudizi, incerta nel principio e nel simbolo della sua rigenerazione, quindi disunita; immatura negli studii pratici, i militari più che mai; esuberante di sentimentalismo poetico, ma poco predisposta razionalmente, ignara poi dei grandi sacrifici che le nazioni deggiono incontrare per scuotere la schiavitù [... ]. Come l'amore del paese e l'infelice sorte dei ' Alla prima edizione del libro pubblicata postuma a cura dell'amico e commilitone Guttièrez (Che cosa sia la guerra - metodo pratico di studio del capitano Carlo De Cristoforis Dottore in legge, Allievo della Scuola di Staio Maggiore di Parigi, Istruttore reggimentale nella Legione Anglo-Italiana, Direttore del Collegio Militare di Sumbury in Londra - opera postuma edita secondo gli intendimenti dell'Autore per C. Guttièrez, Milano, Ditta Boniardi - Pogliani di E. Besozzi 1860), ne fanno seguito altre quattro (Milano - Barbini 1868; Modena - Sarasino 1894; Roma 1925 - Ufficio Storico SME, quella alla quale ora ci riferiamo; Roma 1938 - Ed. Roma - a cura di R. Morretta). Tuttora insostituibili, per una miglior comprensione della vita e dell'opera, sono i volumi dello stesso Guttièrez, Il Capitano De Cristoforis, Milano, Ditta Bernardi - Pogliani di E. Besozzi1860), e del capitano N. M. Campolieti, La mente e l'anima di un eroe, Milano, Stamp. Ed. Lombarda 1907. Importante anche la recensione (redazionale) della Rivista Militare all'edizione 1894 (Rivista Militare 1894, Vol. I pp. 350-362).


IV - CARLO DE CRISfOFORIS

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coloni aveangli inspirati i lavori economici, l'amore della libertà lo sospinse agli studii della milizia. Venne da ciò la concezione del suo libro Che cosa sia la guerra, ideata a insegnamento rapido de' suoi coetanei, tanto la prova da lui fatta durante la guerra del 48 avealo convinto, come già accennai, che l'Italia non difettava di valorosi soldati, ma molto di capaci ufficiali" 2• Il Guttièrrez aggiunge che e.o.e. inizia quest'opera nel 1849 e che nel 1850 ne porta a termine una prima versione, per poi riscriverla di suo pugno altre sei volte, via via ampliandola e perfezionandola anche grazie agli studi militari compiuti a Parigi. Essa è dunque un tipico work in progress, "ed è naturale: ideata colle idee generali e indecise nella giovinezza, per dieci anni s'accompagnò coli' autore seguendolo nella virilità, onde risente del rassodamento del suo ingegno e delle più vaste cognizioni che lo arricchirono, e del tatto pratico militare [assai scarso - N.d .a.] ch'egli acquistò nel corso della sua normale esistenza"3• Un work in progress interrotto nel 1859 dalla morte in combattimento dell'autore; il libro è da lui considerato ultimato solo nella primavera del 1858 (un anno prima della morte), quando da Londra scrive all'amico Guttièrez: "li libro è finito e se ne farà un'edizione in inglese; per l'italiana ci penserai tu"4 • E cinque giorni prima di morire scrive al Guttièrez: "Ti mando il libro militare che bo portato meco per isbaglio: conservalo bene, e così i documenti miei, e pensa alla stampa di esso" 5 (gran parte dei documenti è andata perduta in circostanze poco chiare, anche in seguito al furto della cassetta d'ordinanza con il denaro di e.o.e. dopo la sua morte). Discendono da queste circostanze le matrici teoriche del libro di un autore la cui formazione militare, oltre ad essere più teorica che pratica, non è - e non può essere - che tipicamente francese, incompleta e - se vogliamo - cosmopolita. In una "lettera a peYsona dilettissima" citata dal Guttièrrez, egli scrive: "quando saremo liberi a casa nostra, quando P.... sarà fatto ministro gli domanderò: quanto avete viaggiato e dimorato in Francia? quanto avete viaggiato e dimorato in Inghilterra? e nel Belgio quanto? e in Isvizzera quanto? se mi risponde: non sono uscito d'Italia - non gli darò il mio voto". Sotto il profilo strettamente militare, nella "Bibliografia Ragionata" che costituisce il capitolo XV di Che cosa sia la guerra egli indica tutte le fonti alle quali si è abbeverato, ammettendo a chiare lettere che "l'autore vorrebbe aver indicato molti più libri italiani, e ve ne sono certamente di buoni, ma egli li ignora, avendo fatto fuor di patria la propria educazione militare. Basterebbe a provare lo studio intelligente che si fa del mestiere in Italia, la teoria piemontese del 1851"6 [dovuta al La Marmora N.d.a]. ~ Guttièrez, Op. cit.. ,p. 129. '· ivi, p. 129. '· ivi, p. 226. ' ivi, p. 239. ~ C.D.C., Op. cit., p. 229.


Il. PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

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Queste poche parole, e le vicende della sua vita, bastano a stabilire in prima istanza che C.D.C. è scrittore italiano nell'anima, nel carattere, nella profonda e soprattutto disinteressata aspirazione all'unità e indipendenza nazionale che sovrasta ogni altra sua passione, ma più di tanti è di formazione culturale europea e anzi francese e jominiana, senza aver avuto il tempo di approfondire le sue acquisizioni teoriche riferendole specificamente al caso italiano, come fanno altri autori coevi e lo stesso Pisacane. La massima parte degli autori da lui citata è francese; degli italiani dedica due sole righe a "Cattaneo, La guerra" (sic), forse riferendosi al saggio a Della milizia antica e moderna del 1839. Non è escluso, però, che C.D.C. confonda Carlo Cattaneo con il suo collaboratore Andrea Zambelli, la cui opera ben più pregnante si intitola appunto La guerra (vds. Vol. l, capitolo X). Esagerate, comunque, le sue lodi a questo lavoro, che definisce "hrimitabile esposizione di generali, utilissime idee". Un po' poco, e un po' troppo! Nel testo mostra (fatto raro) di aver letto Clausewitz e ne condivide parecchi giudizi: ma non ne cita le opere, criticando però i suoi avversari Decker e Billow. A suo parere i libri di Decker (vds. Vol. l - capitolo XIV) "non s'occupano che di pedanterie, e chi ha bisogno d'imparar sui libri quelle inerzie, che trovate per esempio nel volume delle petite guerre, sarà sempre incapace di comandare un plotone. Non si fa la guerra col testo in mano, ove sono previste tutte le modalità che possono occorrere in un caso dato; si fa la guerra dietro un principio, la cui applicazione deve per necessità lasciarsi all'intelligenza del comandante"7 • Critica fortemente anche Btilow, accusandolo di pedanteria proprio come fa Clausewitz, e conclude: "angolo o non angolo, rispettate il principio e poco importa che l'angolo sia ottuso o acuto". Ma qui va osservato che per Clausewitz - da lui in proposito citato - l'importante era vincere, non rispettare il principio ... Dopo le memorie di Napoleone, "TI miglior libro di guerra" viene da lui indicato nell'Esprit des Jnstitutions Militaires del Maresciallo Marmont, lavoro a sfondo pratico assai utile ma poco interessante e originale dal punto di vista strettamente teorico, perché si richiama a molte idee di Jornini. Di quest'ultimo, e dell'Arciduca Carlo, dà un giudizio non entusiastico e interlocutorio: Il libro capitale dell'Arciduca Carlo, Principes de stratégie, è anch'esso al disotto della sua fama. Troppo minuto, principalmente nella descrizione delle operazioni parziali; non è quindi chiaro, non apre la mente a concezioni nette e distinte. Le Précis de l'art de la guerre di Jomini, benché scritto con direzione di principii, non è fatto per formare de' buoni ufficiali, ma dei generali in capo. Ma s'è così, fa troppo spesso ingiuria all'intelligenza del lettore - spesso il lettore vi trova, non senza qualche molestia, cose utili a dirsi a bambini, non ad uomini; bastino per

7 ·

Ibidem.


IV - CARLO DE CRISTOFORJS

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esempio gli ultimi capitoli. Nel Traité des grandes opérations militaires (tom. II, pag. 326) non capisce l'artiglieria: ''Les canonnades", dice, "sont des compliments aux quels on répond sans peine". S'accorse poi del negozio, e nella seconda edizione si contentò di dire: "L'artillerie à présent a plus de part au succès des batailles, mais sans cesser d'etre secondaire". Coprì la macchia con un buco. Ma con tutto ciò l'Arciduca Carlo e Jomini furono, dopo l'epoca napoleonica, i primi scrittori che altamente intesero l'arte della guerra, e se inoltrai quel giudizio non fu per arrogante vilipendio, né per mordere il seno della nutrice o per far come l'asino al corbello, ma perché realmente dopo di loro la nozione dell'arte s'è di molto ancora schiarita, innalzata, semplificata.• Come meglio vedremo in seguito, questo giudizio è sostanzialmente smentito nel corso dell'opera, che, se non ba la stessa fede dello Arciduca Carlo nelle formule geometriche e nei calcoli di spazio e tempo, certamente - al di là delle intenzioni dell'autore - nell'impostazione e nei concetti fondamentali che la ispirano è jominiana e dottrinaria come poche: lo si vede già dal sottotitolo (improvvidamente trascurato nell'edizione 1925), nel quale si intende basarsi appunto su quegli exempla historica, che anche per Jornini sono il riferimento primario della elaborazione teorica e conducono a principi immutabili da applicare nella pratica. Come tanti al suo tempo, C .D. C. critica l'astrattezza della letteratura militare: la tendenza generale degli scritti di milizia è indirizzata più all'indagine minuta dei fatti [cioè ali' histoire - bataille - N.d.a.] che allo studio delle norme direttive. Quel ciarlatanismo tecnico, inoltre, che troppo spesso riveste la esposizione di norme semplici e piane, porta lo scoraggiamento nelle menti oneste, nelle quali genera la segreta credenza che per essere capaci di guidare una compagnia agli avamposti o di tracciare un rivellino, si richieda l'intelligenza di Euclide. Questo ozioso apparato di scienza e quella inutile sovrabbondanza di minute particolarità, già indicarono urgente la necessità di rivolgere l'attenzione dei militari studiosi ai PRINCIPII - Nell'arte militare non essendo possibile di prevedere e sciogliere tutti i casi in anticipazione, è necessario che l'ufficiale conosca più che tutto le norme generali del suo mestiere9 • Intento chiaro, .ma non certo nuovo né originale: cosl come non certo nuovo, né originale è il motto - ripreso da Marmont - che figura in testa al capitolo I: "nessuna delle opere moderne sull'arte militare fornisce una dottrina completa ... e i principi non vi sono affatto stabiliti". Constatazione che era già stata di Jornini e dello stesso Clausewitz, i quali proprio per

' ivi, p. 230. '· ivi, p. 3.


IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO- VOL. li (1848-1870)

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questo avevano tentato - con un certo successo - di definire quel corpo dottrinale completo, del quale più a torto che a ragione C.D.C. continua a riscontrare la mancanza, cosa accettabile all'inizio del secolo XIX e ancora nel 1815, ma non nel 1858. In fondo anche in Italia - lo abbiamo dimostrato nel Voi. I e lo dimostreremo ancora - si erano già avuti parecchi e non spregevoli tentativi: rimane comunque la mancanza di un'opera capace di fornire le basi teoriche essenziali e soprattutto un metodo pratico ai giovani ufficiali, com'è nell'intento di C.D.C ... Pur avendo finalità pratiche e didattiche, il suo è dunque un lavoro che si mantiene nel campo della teoria generale e non affronta complesse questioni di teoria e prassi strategica come lo Sponzilli: né intende indicare - come gli scritti del Pepe, del Durando e di tanti altri - le linee d'azione strategica per la guerra d'indipendenza nazionale.

Il principio "nuovo, unico e sommo" della massa, fondamento della strategia: sue origini Come Jomini, fin dalle prime righe dell'opera C.D.C. parla di principi, anzi va più in là: "se poi oltre a ricondurre l'arte ai Principii, si dimostrasse che non ha più principii, ma che tutta l'arte della guerra è retta da un principio unico, gli studi militari ne sarebbero evidentemente agevolati. Tale appunto lo scopo del presente libro" 10• Un modo di ragionare aprioristico e scientificamente poco corretto: un principio unico esiste o non esiste, si tratta di dimostrarlo bene; che poi questo agevoli o non agevoli gli studi militari, è un fatto importante ma pur sempre secondario e "derivato". Premesso che "i principii sono la cosa più pratica di ogni altra possibile, poiché danno la norma dell'agire non in un solo caso, ma in una quantità di casi - in tutti quelli, cioè, della stessa specie", e che "un'istruzione militare senza principii insegna l'arte della guerra, ma non a fare la guerra", questo principio "unico" o "sommo" per C.D.C. consiste in un breve asserto: "la vittoria è decisa dall'urto della massa"11 • Proposizione un po' vaga e non troppo chiara, che C.D.C. si sforza di illustrare e illuminare, per tutta l'opera, con largo ricorso ai soliti exempla: quel principio, per conseguenza della sua singolarità, diventa il criterio generale pratico della verità militare, tanto nel povero campo delle specialità più minute, quanto in quello delle più ampie generalità [ ...]. È poca cosa, ma questo poco è ricchezza grande; non è l'albero ma è il seme; - da lui vedremo discendere tutte le modalità della strategia, tattica, dell'amministrazione, delle manovre, della fortificazione ecc. ecc. Posto un caso, sarà un prezioso filo per ritro-

10 11

·

Ibidem. ivi, p. 4.


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varne la soluzione [... ]. Il principio non è dunque invenzione di nessuno - è il trovato della necessità - e da 60 anni si pratica, più o meno bene [solo da 60 anni? - N.d.a.J. Solo è da osservarsi che esso è stato finora un principio confuso nella folla degli altri precetti del1' arte; qui non si è fatto che ridargli l'importanza che merita e riporlo al posto che gli spetta, alla cima cioè dell'edificio [...] e ciò appunto allo scopo di render più facile la pratica, perché più facile riesce conoscere ed esercitare un mestiere, le cui parti abbiano un legame, un modulo, un criterio comune 12 • Dimenticando le grandi battaglie decisive dell'antichità classic'a e figure di condottieri come Annibale, Alessandro, Cesare, Scipione, C.D.C. indica (a torto) questo principio come prodotto primario dell"'arte nuova" che nasce solo con la Rivoluzione Francese, arte che ricerca non l'occupazione o la difesa del territorio (come nelle guerre dinastiche del secolo XVIII), ma la.distruzione dell'esercito nemico in grandi battaglie, tenendo presente che "per distruzione non s'intende la morte dei soldati, ma lo scioglimento del loro legame comune come massa organica fcosa che normalmente può avvenire solo infliggendo al nemico perdite tali, da dimostrargli l'inutilità di continuare a combattere - N.d.a .]. Le masse di soldati improvvisati e poco addestrati mobilitate dalla Rivoluzione tendevano istintivamente a riunirsi in grosse formazioni molto mobili, perché vivevano sul paese e non erano appesantite dalla logistica. Le armate francesi agivano quindi offensivamente e in masse compatte: "Il mezzo più semplice" scriveva Carnot nel marzo 1793 al Comitato di difesa generale "di supplire, nei limiti del possibile, ali' arte con il numero, è di fare una guerra di masse, vale a dire dirigere sempre sul punto da attaccare la maggior quantità possibile di truppe di fanteria e artiglieria" [...] Il principio nuovo fu noto in tattica dopo il '93;

Napoleone l'applicò poi alla strategia[ ...] Federico II serve d'anello tra i due sistemi... 13• Con queste affermazioni, C.D.C. dà un fiero colpo al suo stesso principio: perché il vero problema - come dimostrato da Napoleone - sta nel1' essere più forti del nemico sul punto decisivo anche con forze complessivamente inferiori, non nel creare a priori forti masse, per compensare la scarsa qualità. Diversamente.da Jomini, e ragionando in modo analogo a Clausewitz, C.D.C. non ammette alcuna eccezione al suo principio: "i principi non sono elastici; essi non hanno eccezioni; se ne avessero, quale ragione vi sarebbe per dirli principi e non eccezioni essi medesimi? Quelle che si chiamano eccezioni non sono che prove della nostra ignoranza-, sono indizio che non

,2. ivi, pp. 3-4 e 9. "· ivi, pp. 7-8.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

siamo riusciti a trovare il più alto principio che anch'esse abbraccerebbero"'4. Ne' la massa va intesa solo come unione di forze materiali: al contrario, "la massa, ripetiamolo, sta unita per forze morali; è perciò che la cognizione del cuore umano è la base della scienza della guerra; è perciò che molti dimenticando che la guerra è una scienza morale più che una scienza geometrica, pochi sono saliti all'intelligenza chiara del suo principio [della massa]" 15 • Le definizioni di strategia e di tattica date da C.D.C. discendono dalle precedenti constatazioni sull'arte nuova: se lo scopo della guerra è la vittoria, e questa è decisa dall'urto della massa più forte, la strategia, che sceglie il luogo più conveniente alla lotta, sarà l'arte di condurre in massa l'esercito NON combattente [cioè: non a contatto col nemico - N.d.a.] sul punto decisivo. La tattica invece, la quale manovra le truppe nell'atto della offesa a fine di urtare la linea del nemico nel posto più conveniente, sarà l'arte di condur in massa l'esercito combattente sul punto decisivo' 6 • A corredo di queste definizioni jominiane C.D.C. osserva che "tutte le altre definizioni già date dalla strategia e dalla tattica non toccano il principio generale che le regge, la massa", il che non è sempre vero. E, più a ragione, aggiunge: "Che cosa avete per esempio imparato nei Principii di strategia dell'Arciduca Carlo (1817) che la strategia è la scienza, e la tattica l'arte deJla guerra? Qual norma pratica ne potete ricavare?" Ma - osserviamo - non si può pretendere che una definizione di strategia fornisca delle norme pratiche. Che cosa intende, in generale, C.D.C. per arte? Lo precisa nel suo dramma del 1849 Notte e Mattino. L'arte, egli dice, si compone di due elementi: l'idealità, che è creazione dell'umana fantasia, è la "parte divina" ed è comune a tutte le arti; la materia, che è il complesso di mezzi che la natura fornisce all'artista per plasmare il suo ideale, ed è caratteristica speciale di ogni arte 17. Se si trasportano queste concezioni nel caso specifico del disegno strategico e tattico, se ne deduce che in ambedue i casi il Capo militare, per il quale la materia da plasmare è l'esercito, non può limitarsi ad applicare cognizioni scientifiche, a pensare e a scrivere, perché allora sarebbe solo un artigiano o operaio; ma anche crea, esegue, agisce, perfeziona, ordina fino a compiere l'opera sua, che è il conseguimento della vittoria mediante la realizzazione del principio di massa. Strategia e tattica, dunque, per C.D.C. in quanto arti sono anche e soprattutto scelta, creazione, azione. Cosa che oggi è scontata ma che allora - come si è constatato nel

1 •·

ivi, p. 150.

"· ivi, p. 161. 1 •·

17 ·

ivi, p. I O. G. Guttièrez, Op. cit., p. 79.


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Vol. I - non lo era affatto, perché si trovava spesso chi, come l'Arciduca Carlo, riduceva la strategia a scienza, le cui formule si ricavavano abbastanza facilmente dai principi immutabili dell'arte della guerra e dalla geografia. Per C.O.C., perciò, "il genio [anche militare - N.d.a] è la percezione sicura della proporzione in cui devono essere combinati quei due elementi dell'arte". Stupisce che concetti così moderni non siano recepiti dal curatore dell'edizione 1925, che così commenta, in nota, la definizione di strategia data da e.o.e.: . Una tal definizione sarebbe più propria per la logistica. "La strategia - così come la definisce il Corticelli nel suo manuale d'organica - è la sintesi della scienza militare (sic) od in altri termini è la risultante degli atti organici, logistici e tattici, coi quali si svolge ogni campagna - Atti strategici non si danno; vi è bensì un pensiero strategico, che dapprima presiede all'opera della preparazione e quindi determina e informa la condotta delle operazioni indirizzandole al raggiungimento di un dato obiettivo militare, o militare e politico a un tempo". E il Marselli definisce la strategia " quella branca della scienza bellica che ha per oggetto il piano che regola e coordina le operazioni militari" 18•

Segno non equivoco, questo, dell'immeritata influenza che ancora nel nostro secolo e non solo in Italia ba avuto sia il superato concetto originario di logistica di Jomini, sia quel concetto cli strategia come scienza e pensiero e non come azione, che è tipico dell'Arciduca Carlo e più in generale delle correnti cli pensiero anticlausewitziane facenti capo ai "dottrinari". Tornando a C.D.C., alle definizioni cli strategia e tattica fa seguito l'esaltazione cli Napoleone e dell'importanza del punto decisivo: la scelta del punto, o tattico o strategico, in cui l'urto della massa è più terribile pel nemico, è di prima importanza - Lo scopo delle manovre sì tattiche che strategiche è di trovarsi più forti del nemico sopra un punto dato, diceva Napoleone a Mosca. La buona scelta di questo punto decisivo, occupato il quale, il successo sia tanto completo che si possa impunemente rimanere anche inferiori altrove, è l'opera più ardua del Capitano. Quel punto decisivo è il centro di gravità dell'assalto, è quel punto dove uno sforzo dato esercita il suo massimo effetto. t:,,fa è spesso ben difficile di scoprirlo 19•

In altra parte del testo C.O.C. aggiunge che l' ordine di battaglia deve essere impostato in modo da consentire di portare la massa sul punto decisivo, e "se il terreno non ne indicasse alcuno, l'ordine di battaglia verrebbe determinato dallo scopo della propria sicurezza, cioè dalla necessità ,. C .D.C., Op. cit., Nota (1) a p. 10. ivi, pp. 10- 11.

19


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lL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. li (IMR- 1870)

di coprire la linea di ritirata, ossia di operazione, la quale è per sè stessa perpetuo punto decisivo"20• Affermazione dubbia o contraddittoria perché - per quanto prima affermato - il vero punto decisivo esiste sempre e serve soprattutto a conseguire uno scopo positivo, cioè a battere il nemico, non so]o e non tanto a rendere sicura l'eventuale ritirata. Sul concetto di punto decisivo il ragionamento di C.D.C. non è, dunque, troppo lineare; e bisogna anche confrontare le sue idee in proposito con l'altro concetto - base di massa. Da una parte egli - citando innumerevoli esempi e naturalmente Napoleone - sembra ritenere che si tratta del punto dove si riesce comunque a essere più forti dell'avversario; in altra occasione afferma che si tratta di un particolare topografico da contendere al nemico ad ogni costo, quindi di un possibile punto dello schieramento avversario fortemente tenuto e difeso21 : di qui l'importanza della geografia. Ciò non toglie, però, che la realizzazione del principio della massa sembrerebbe dipendere soprattutto da valutazioni relative alla situazione delle forze proprie e nemiche: se il mezzo certo della vittoria è di opporre alle masse del nemico

una massa più forte (sia più forte per numero, o lo sia per valore, poco importa, che sia più forte, è il bisogno), uno degli scopi massimi di un disegno di guerra sarà di manovrare in modo da dividere in due o più fazioni l'esercito avversario per gettarsi poi successivamente sull'una o sull'altra frazione con tutta la propria massa riunita22•

Affermazione importante, della quale va ben sottolineato il fatto che per e.D.C. la massa è un insieme di fattori, morali o materiali che siano, i quali comunque assicurano la superiorità sul nemico. D'altra parte, massa e concentrazione per e.o.e. sono due concetti ben distinti: né deve intendersi per concentrazione la non interrotta continuità delle forze; spesso anzi, o per vivere o per marciare o per ingannare il nemico o per occupare punti diversi, i varii corpi di un esercito restano disgiunti; per concentrazione non s'intende accumulazione: ma sibbene una tale disposizione di tutte le divisioni d' un esercito o di tutte le compagnie d'un reggimento, la quale ci renda sempre possibile il riunirsi prima dell'arrivo dell'esercito o del reggimento nemico [... ]. Si dice dunque concentrato quell'esercito che in relazione alla posizione del nemico ha maggiore possibilità di riunirsi [... ]. Di qui appare l'importanza massima di buone linee sicure di comunicazione in un sistema di guerra come l' attuale, ove la vittoria è data dalla massa23 • "' ivi, p. 90. 2 1. ivi, p. 14. 22. ivi, p. 26. 23 ivi, pp. 15-16.


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Inoltre "il principio sommo [della massa] è ben distinto da quello d'ordine inferiore della concentrazione, poiché spesso il principio della massa in luogo di consigliare la concentrazione delle forze, esige il contrario. Dopo una battaglia perduta, la ritirata delle varie fazioni dell'esercito può essere concentrica o può essere eccentrica .. .''24. Insomma: oltre a non riassumersi nella semplice quantità delle forze, il principio della massa non necessariamente richiede l'ammassamento preventivo delle forze: l'importante è che esse siano sempre in condizione di intervenire a tempo e luogo opportuni e che, se agiscono divise, il loro impiego risponda a criteri unitari, anche perché, secondo Napoleone, "per principio, la riunione di diversi corpi d'armata non si deve mai fare nelle vicinanze de) nemico"25 • Nel capitolo conclusivo del libro C.O.C., ritorna sul principio della massa e sulla sua valenza pratica, questa volta specificando - e ce n'è bisogno - che è un principio sommo ma non è l'unico (come par di capire all'inizio del libro): "è provato che tutte le modalità della guerra sono rette da principii, pochi, una dozzina (sic), ma essenziali. È provato che tutti questi principii vari dipendono da un solo supremo, base, generazione e 1uce di tutti, dal pa<iso uniforme che il sergente insegna, ai profondi disegni strategici che la mente di Bonaparte concepisce. Il principio sommo è chiaro, ovvio, facilmente intelligibile; è semplice appunto perché è sommo"26• E qui - più a sproposito che a proposito - C.O.C. cita Clausewitz, secondo il quale "i principe della guerra sono sì facili a comprendersi, che basta perciò il buon senso ordinario. In tattica come in strategia si ha bisogno di certe conoscenze speciali, ma esse non possono paragonarsi alle altre scienze né per la loro diversità, né per la loro profondità". Il che equivale a direi che, per Clausewitz, avviene esattamente l'opposto di ciò che vorrebbe dimostrare C.O.C.: che, cioè, i famosi principi sono poco più che tautologie e quindi, all'atto pratico, hanno limitata importanza, non hanno influenza decisiva sull'attività dei comandanti, né possono essere determinati con metodi scientifici. A conclusione del libro C.O.C. afferma (come già lo stesso Napoleone) che la "parte divina dell'arte militare è funzione degli ingegni di quei capitani che insegnarono al mondo, e che si chiamarono Cesare, Cromwell, Turenna, Clive, Bonaparte - non di queJli che avranno bisogno di libri - era dunque inutile parlarne a lungo. Per noi basta sapere che v'è un metodo di studio migliore degli altri"27 • Queste idee contraddicono in modo inequivoco le sue precedenti affermazioni, secondo le quali l'arte nuova incomincia solo con la Rivoluzione Francese, i cui eserciti raccogliticci per primi realizzarono il principio della massa (come se solo gli eserciti improvvisati e di massa potessero realizzare 24 · 25 · 21>.

27·

ivi, p. I 9. ivi, p. 21. ivi, p. 216. ivi, p. 223.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il ( 1848- 1870)

tale principio). In quanto al maresciallo francese Turenne (avversario del nostro Montecuccoli e da C.D.C. significativamente ma poco accortamente incluso al posto di quest'ultimo tra i geni militari) all'inizio del libro egli osserva che inutile per noi, forse anche dannoso (prima conseguenza del principio) è lo studio delle campagne di Turenna, di Condè, di Montecuccoli. 11 meglio a farsi è studiare le campagne di Turenna e di Federico scritte da Napoleone; là è tutto ciò che vi si può imparare, specialmente quanto alla parte della guerra che Napoleone chiama la parte divina, la conoscenza, cioè, del cuore umano, la costanza, l'energia di risoluzione2&.

A parte il fatto che è proprio con Federico Il, il quale dispone di un piccolo esercito di qualità spesso inferiore numericamente a quello degli avversari, che si vede una magistrale e reale applicazione del principio della massa (vds. Vol. I, capitolo I), questo è uno strano modo di ragionare. I casi sono due: o le campagne di Turenna e di Federico non hanno alcun interesse attuale, e allora non vanno studiate, e nessuno, nemmeno Napoleone, può renderle interessanti; o sono utili, e allora vanno studiate sui testi migliori. Che Napoleone (opinione peraltro da verificare) sia per e.o.e. colui che ne ha scritto meglio, significa però una cosa sola: che gli studi su tali campagne sono ancora utili anche ai fini dell'applicazione del principio napoleonico della massa, e che quindi non risponde a verità l'affermazione di C.D.C. che l'arte nuova inizia con la Rivoluzione Francese, e che l'applica.zione del principio della massa è un espediente obbligato per eserciti di masse di cittadini improvvisatisi soldati. A proposito del principio e della sua applicazione, e.o.e. mette in campo anche la matematica. Nei calcoli - egli afferma - vi è una quantità che può mutare di grandezza, e che si chiama variabile; ve ne è invece un'altra che conserva sempre lo stesso valore, e che si chiama costante. Inoltre "in altri calcoli vi è una parte dell'equazione che non dipende per nessun conto dal caso particolare a cui si vorrà poi applicare; ve n'è un'altra che si chiama coefficiente d'esperienza, che rende poi quella prima parte dell'equazione atta a sciogliere il dato caso particolare"29• La prima parte, costante, sarebbe il principio della massa; le altre, variabili o inquadrabili nel coefficiente d'esperienza, sarebbero "la disposizione del terreno, il numero delle truppe, il loro valore, le armi ecc. ecc.". Paragone azzardato, non tanto e non solo perché l'effettiva valenza bellica di quella che C.O.C. chiama una costante è sempre e in ogni caso data da una sommatoria di variabili che non consente mai di considerare un semplice principio teorico come costante; ma perché la realizzazione del principio stesso ,. ivi, pp. 8-9. 29 ivi, p. 223.


IV - CARLO DE CRJSTOFORIS

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richiede - al di là dei contenuti della massa - l'esatta valutazione di una disparata serie di fattori variabili concernenti il nemico, 1' ambiente naturale e la situazione, fino a far escludere che il problema operativo possa essere considerato un'equazione nella quale è possibile, per il comandante, determinare tutte le variabili necessarie. Anche il comandante di genio si troverà di fronte a degli imprevisti, derivanti da più o meno inevitabili errori di valutazione: il suo genio, anzi, si rivela proprio dal colpo d'occhio, dalla prontezza di spirito con la quale sa affrontare le nuove situazioni, cogliere l'attimo fuggente, rimediare agli errori magari trasformandoli in vantaggi. La conclusione di C.D.C. è, comunque, che "primo: non sarà mai vera quella soluzione del caso particolare la quale sia contraria al principio; secondo: non si risolverà il caso se non si applicherà rettamente il principio"30• È ora possibile inquadrare meglio i concetti e le definizioni di C.D.C. nel pensiero europeo e italiano, con particolare riguardo alle correnti dei "dottrinari" e degli "ideologi" facenti rispettivamente capo a Jomini e Clausewitz (vds. Voi. I, capitoli Il e ID). Nonostante le frequenti citazioni del generale prussiano, la smodata fede nei principi - e anzi in un principio unico - allontana C.D.C. in modo netto e inequivocabile dal suo pensiero, che nega la possibilità di ingabbiare in principì o formule sempre valide la complessa, multiforme realtà di una guerra e di una strategia percorse dalle forze morali e segnate dal genio del capo. Dallo studio prima di tutto de11e campagne di Federico Il, invece, Jomini si convince che "il segreto della vittoria consiste nel portare il grosso de11e forze su di una sola ala dell'esercito nemico". E per lui l'arte della guerra si riassume "nell'organizzare lo sforzo superiore di una massa·contro delle parti deboli". Esiste perciò, anche per lamini, un solo principio fondamentale per tutte le operazioni di guerra: 1°) portare la maggior parte delle forze disponibili di un esercito sul punto decisivo sia del teatro di guerra sia di un campo di battaglia; 2°) fare in modo che questa massa non sia solamente presente sul punto decisivo, ma sia anche abilmente messa in azione. A questo punto, non c'è bisogno di spendere molte altre parole per riscontrare una stretta parentela tra il principio fondamentale di lamini e il principio unico che C.D.C. rivendica di aver scoperto, parentela confermata anche dalla grande importanza da ambedue concordemente attribuita agli exempla historica, dalle definizioni di strategia e tattica, dalla comune pretesa di indicare un principio - guida che caratterizza le vittorie di Napoleone e può tuttavia essere applicato da tutti. Talune marginali critiche a Jomini non scalfiscono la sostanza della posizione teorica di C.D.C., che va inserito nei "dottrinari" nemici di Clausewitz anche se - diversamente da Jomini, che non lo fa mai - più che quest'ultimo, critica l'Arciduca Carlo. Tutto questo non è poi tanto poco: nessun autore italiano aveva osato criticare quei due mostri sacri ...

30·

ivi, pp. 223-224.


210

IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO- VOL. Il (1848-1870)

Tattica, mobilità e manovre: importanza dell'artiglieria

C.D.C. dedica distinti capitoli (il V, il IX e il X) a tre argomenti (tattica, mobilità e manovre) legati insieme, perché tutti riferiti alla capacità dell'esercito di effettuare movimenti tempestivi e rapidi. Così facendo - è un suo merito - si guarda bene ·dal presentare solo la strategia come scienza, pensiero, pianificazione; anche la tattica discende dal principio sommo della massa, e in particolare come in strategia per concentrazione non s'intende accumulazione, così in tattica per impiego simultaneo delle forze non deve intendersi l'azione effettiva di tutte nello stesso tempo, sebbene che tutte rendano servizio [cioè: svolgano una ben determinata funzione che rechi un contributo al risultato complessivo - N.d.a.]. Così le riserve, i fiancheggiatori, le retroguardie ecc., ecc. non agiscono realmente se l'attacco è nella fronte, ma possono però dirsi parte utile dell' esercito31 •

Segue una serie di considerazioni sulle formazioni e sulle modalità di impiego delle truppe sul campo di battaglia improntate a molto buon senso, che oggi appaiono quasi ovvie e scontate ma che allora non lo erano affatto: - la necessità che tutt~ la massa de11a fanteria partecipi al fuoco e al tempo stesso presenti al fuoco nemico il minor bersaglio possibile ha imposto l'adozione di un ordine di battaglia sottile, con la fanteria spiegata su due o al massimo tre righe; . - il passaggio dall'ordine profondo di marcia all'ordine sottile di battaglia è il momento più pericoloso;32 - di qui l'importanza crescente delle truppe leggere (bersaglieri e cacciatori), "la cui funzione principale è appunto di coprir gli spiegamenti in battaglia, distendendosi lungo la fronte delle colonne"; - l'ordine di marcia deve essere scelto in funzione dell'ordine di battaglia da adottare, "né mai si deve pensare a far mutare fonnazione ai soldati durante il cammino, qualunque sia l'utilità apparente che se ne possa ritrarre"; - per raggiungere un dato scopo non si devono impiegare truppe in quantità eccessiva, ma occorre proporzionare lo sforzo alla resistenza: "in caso diverso nasce disordine e difficoltà di comando"; - "l'assalto pei fianchi è nelle grandi come nelle piccole operazioni una manovra di quasi certa riuscita. L'influenza sua è però decisiva soprattutto verso la fine del combattimento, perché allora la massa nemica s'è già interamente disposta per un ordine di battaglia deciso, e più lungo tempo è perciò necessario a cambiare spiegamento»;

3

1.

2 ' ·

ivi, p. 76. ivi, p. 77.


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"l'elemento costitutivo di una massa è l'ordine. È l'elemento pel quale esercito si distingue da moltitudine; sciogliete la massa e nasce la sconfitta, la disfatta";33 - in montagna, date le difficoltà del terreno difficilmente chi attacca può mantenere l'ordine de11a propria massa. Come ha scritto Napoleone, in montagna anche nella guerra offensiva bisogna condurre solo combattimenti difensivi e obbligare il nemico ad attaccare. Comunque "non si deve mai attaccare frontalmente delle truppe che occupano buone posizioni sulle montagne, ma occorre stanarle occupando delle quote sui loro fianchi o sul loro tergo"; · "non si può commettere errore più grave di quello di lasciarsi battere alla minuta in una linea di posti di montagne ... Non si devono occupare le montagne che per piccoli distaccamenti, mentre il grosso delle forze agisce in vicinanza .... Le forze principali occupano la posizione centrale della valle" (citazione letterale di Clausewitz riportata da C.D.C.)34 • Queste due ultime massime sono state completamente trascurate, nel nostro Esercito, sia nel 1915-1918 che nella campagna di Grecia del 1940-1941. Ma il clou çl.eJl'interessante capitolo che C.D.C. dedica alla tattica sono le considerazioni relative al rapporto tra formazioni, terreno e situazione e alle riserve. Citando come al solito Napoleone, egli sull'argomento delle formazioni polemizza apertamente con Jomini: "non v' ha ordine naturale di battaglia presso i moderni ... nulla su questo rapporto si può descrivere d' assoluto (Nap., "Notes et Méf'). Tale è l'opinione del più grande capitano dei tempi antichi e moderni, e la dimostrò nei variissimi casi delle sue quattordici campagne. Nonostante questa memorabile osservazione, gli scrittori che dai tanti e varii esempi delle sue campagne credettero poter formulare precetti di scuola (Jomini sopra tutti), mossi da smanie di sistemi, vollero ad ogni costo arrivare ad una classificazione, e ne uscì quella dei diversi ordini di battaglia: parallelo, obliquo, obliquo rinforzato ad un'ala, obliquo rinforzato alle due ali, al centro, concavo, convesso e che so io. In nulla di tutto questo sta la verità pratica. Tutto è falso, fittizio. L'ufficiale studioso infatti, dopoché ha appreso quelle noiose classificazioni (ho sempre visto che è carattere del falso l'essere noioso), nulla ancora saprebbe rispondere a chi gli domandasse: come nascono quegli ordini diversi in questi piuttosto · che in altri casi? Come, quando, perché si ha a scegliere piuttosto l'uno che l'altro? - La risposta manca nelle scuole; anzi non vi si fa nemmeno la domanda [questo, evidentemente, vale anche per le allora celebrate scuole francesi , le uniche frequentate da C.D.C. N.d.a.]35 •

33 ·

ivi, p. 81. " Ibidem. 35 · ivi, pp. 88-89.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

Le considerazioni che C.D.e. fa sull'impiego delle riserve muovono tutte da un concetto - base, dedotto. dallo studio delle battaglie napoleoniche: "l'arte di ben dirigere una battaglia consiste particolarmente nell'impiego giudizioso e tempestivo delle riserve"36 • Nelle battaglie vi è "un momento prezioso" da cogliere, che è il momento in cui la massa nemica comincia a scomporsi, e vi inizia il disordine: è questo il momento della crisi. Se, allora, il generale ha la possibilità di accrescere prontamente le sue forze, ha la vittoria in pugno: da ciò la ragione delle riserve, l'azione delle quali lascia tempo alla

nostra massa di ricomporsi per prepararsi a nuova lotta ·e insieme non lo permette al nemico. La riserva deve muoversi, per conseguenza, solo nel momento della crisi; per lei l'espressione punto decisivo indica piuttosto una scelta di tempo che di luogo. Ma quel momento è un istante fuggevole [... ] è allora che le pronte e le giuste decisioni non vengono che dalla calma d'uno spirito ben armato e pronto alla lotta suprema, perché ha tutto prima calcolato [... J. Ecco dunque che cos'è una riserva: è una massa che si mantenne ordinata fino al momento della crisi r...l37• Più che minute, noiose e insignificanti prescrizioni, nel capitolo dedicato alla tattica e.o.e. si sforza di fornire dei criteri, che in relazione ai tempi possono essere senz'altro definiti avanzati e appropriati, a dispetto dell'impostazione generale dell'opera che rimane jorniniana. Ma dopo così promettenti critiche e premesse generali sempre valide, lascia doppiamente delusi la vera ossessione di e.D.C. per la massa ordinata, che troppo spesso coincide, in pratica, con una massa di fanteria a contatto di gomiti, già allora - come dimostra la stessa guerra del 1859 e fors'anche lo stesso episodio nel quale e.o.e. ha perduto la vita - diventata troppo facile bersaglio per la fucileria e soprattutto per il cannone nemico. Invece per C.O.C. ciò che più importa è conservare in battaglia i ranghi serrati, perché "quando la massa non è conservata[ ...] il soldato non ha più la forza morale che risulta dal contatto dei gomiti: Chacun se commande, dice Bugeaud, ciascuno non consulta più che le sue proprie forze, vede giungere sopra di lui un gruppo; egli è .troppo debole per resistere - ripiega. I vicini di destra e sinistra ragionano egualmente, tutti si ritirano..."38 • Forse su queste parole pesano le esperienze dirette dell'autore, che ha combattuto in corpi di volontari non sempre saldi al fuoco, la cui principale qualità non era e non poteva certo essere l'ordine e la disciplina e che combattevano come potevano. Rimane, comunque, il fatto che le masse della Rivoluzione Francese indicate da e.o.e. come le prime ad applicare - con grande successo - il suo nuovo

ivi, p. 86. ivi, pp. 82-83, 85 e 86. "· ivi, p. 81. 36

37 ·


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principio, non combattevano certo secondo le modalità da lui suggerite, né brillavano per disciplina ... Più scontate le sue idee sulla mobilità, tra le quali, tuttavia, si trova anche un sommario esame dell'impiego delle ferrovie. La mobilità è, ovviamente, lo strumento principe per realizzare la massa sul punto decisivo. Essa si può incrementare in vari modi: - con idonee formazioni di marcia e idonea disposizione degli accantonamenti e accampamenti, in funzione della ripresa del movimento; - riducendo le impedimenta e i carriaggi; - costruendo buone strade, come ha fatto Napoleone e come ha fatto l'Austria dopo il 1815, con "]e be1Ie vie che dal Tirolo vanno in Lombardia e quella dello Spltigen fino a Lecco"; - con truppe allenate e adatte alle grandi marce: "Napoleone diceva: volete vincere? fate dieci leghe al giorno"; la maggiore o minore velocità delle marce "è proporzionale alla disciplina, ossia all'unità della massa. Fu con vecchi soldati che Napoleone fece le sue più corte campagne [.. ,l. Il segreto della guerra è nelle gambe e il tempo ne è l'elemento più prezioso; ogni perdita di tempo è perdita di forze" 39• Si è anche fatto ricorso, in passato, al trasporto di truppe su carri: dal bisogno della mobilità estrema nella guerra moderna in cui vince la massa, nacque spesso l'idea di far viaggiare in posta [cioè su carri e carrozze probabilmente requisiti - N.d.a.] reggimenti, brigate e fino divisioni intere - l'evacuazione totale del territorio francese alla fine del 1795 è dovuta al pensiero di Carnot di far viaggiare per posta una riserva di quaranta battaglioni al soccorso ora di Mauberge, ora di Dunquerque, ora di Landau; questa piccola massa riunendosi successivamente alle truppe già stanziate sui tre punti, decise le tre vittorie successive"°.

Un ultimo espediente, già usato da Ariovisto e ne11e guerre della Rivoluzione, è di far trasportare unità di fanteria sui cavalli delle unità di cavalleria, insieme con i cavalieri. Infine, le ferrovie: che le strade di ferro abbiano d' assai semplificata la questione della mobilità delle truppe, è abbastanza chiaro; ma il soldato osservatore già s ' avvede fin d' ora che esse avranno in prossime guerre una grande influenza sull'applicazione del principio, perché eviteranno lo sminuzzamento delle riserve. Queste potranno tenersi ammassate, e sarà anche lecito per conseguenza di diminuirne la forza totale; i veloci trasporti sono il modo di far valere 50.000 uomini per 100.000. Poter far marciare i soldati è moltiplicarne il numero41 •

39 ivi, pp. 38-39. "'. ivi, p. 39. • 1. ivi, p. 40.


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Che le ferrovie - va osservato - moltiplichino il rendimento delle riserve è vero, ma non è sempre vero: perché occorrerebbe una ferrovia per ogni itinerario che deve compiere una riserva... Senza dubbio esse facilitano il concentramento delle forze: ma i loro vantaggi logistici? e i vantaggi che in pari misura arrecano al nemico? Le distanze - afferma C.O.C. - non vanno misurate ad occhlo o con la carta, "ma co' piedi, co' piedi del soldato", cioè col tempo, come fanno i montanari. Fin qui va bene: ma da questa constatazione, peraltro derivante da comune buon senso, egli coglie l'occasione per un peana all'ormai superato e settecentesco passo eguale sul campo di battaglia: il calcolo esatto del tempo è adunque implicato nel principio sommo delle masse, e se ne indusse il passo eguale, che pennette di prevedere esattamente il tempo necessario a percorrere un dato spazio con una data andatura specialmente nelle disposizioni tattiche. La necessità del passo eguale nasce inoltre dal fatto del movimento ondulatorio che prende marciando una massa compatta f...] come mai adunque una massa profonda od estesa potrebbe muoversi senza scomporsi se l'ondulazione non fosse resa uniforme e regolare? [ ...]. Così, e più che ad altro, il passo eguale e il passo cadenzato, lo obbligo ai soldati di partire col piede sinistro primo, il suono dei tamburi, ecc. furono introdotti allo scopo di formar prima e conservare la massa42 •

Concetto, questo, dove la massa sembra ancora una volta coincidere checché ne dica C.O.C. - proprio con l'accumulazione delle forze, con la costituzione di falangi a contatto di gomito fin dall'inizio del combattimento. Nel linguaggio militare del tempo si parla spesso di battaglia campale, battaglia in campo aperto ecc.: ma da nessuna parte d' Europa il terreno era ed è una tavola da biliardo. C.O.C. non spiega affatto come si fa a calcolare con sufficiente esattezza il tempo degli spostamenti in campo tattièo, nel caso - da considerarsi normale - che il terreno presenti ostacoli naturali anche di non grande rilievo, come colline, zone boscose, piccoli corsi d'acqua o avvallamenti che costringono pur sempre a interrompere il passo eguale. E se - come egli sottolinea più volte - le formazioni possono variare ali' infinito, come si può pretendere che i tempi dei movimenti di dette formazioni siano calcolabili con esattezza, tanto più di fronte alla possibile offesa nemica? Per ultimo, il legame tra passo eguale e realizzazione del principio della massa c'è e non c'è, non è certo così costante come vuol far apparire e.o.e.. Avevano forse il passo eguale le armate francesi del 1793? I molti pregi delle precedenti considerazioni di C.O.C. sull'azione in campo tattico sono oscurati anche dalla sua pretesa di dettare uno schema

.,. ivi, p. 42.


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fisso d'azione, enunciando una "teoria degli attacchi parziali" che consiste nel realizzare la massa conducendo anzitutto un attacco parziale sul punto decisivo. Solo con un attacco parziale a premessa di quello generale, infatti, "noi possiamo avere mano libera nella battaglia e ritirare o rinforzare le truppe, secondo che il punto contrastato si manifesti realmente o no essere il nodo della battaglia. - Di qui il legame fra necessità del1e riserve, gli attacchi parziali, l'ordine non parallelo ecc., e il principio. L'impiego simultaneo di tutte le truppe ad un tratto, presto toglierebbe la compagine di massa a tutto l' esercito"43 • La teoria degli attacchi parziali eleva le funzioni del generale, perché "accresce nella guerra la parte e l'azione dell'intelligenza, che negli attacchi generali e paralleli, usati nell'infanzia dell'arte, era pressoché nulla [e Cesare? Alessandro? Annibale? - N.d.a]. .. È l'ingegno che sa guidare, più che la moltitudine guidata, ciò che ora decide l'esito" (concetto, quest'ultimo, analogo a quello di Zambelli e Cattaneo - vds. Vol. I, capitolo X). In proposito, si può osservare che anche nell'antichità al condottiero si richiedeva intelligenza e coraggio morale, oltre che fisico; e anche nell'antichità le riserve erano importanti ... Più pertinente, perciò, la citazione che C.D.C. fa del Foscolo, autore che pure non include nella bibliografia ragionata: "la guerra dai grandi capitani fu considerata più scienza di mente e calcolo di forze morali, che impeto di braccia"44• Dopo la tattica C.D.C. affronta con un capitolo separato le manovre; più che tali, quest'ultime sono nella sua concezione le evoluzioni, cioè i movimenti per passare da una formazione ali' altra. La tattica - egli afferma - cerca di ordinare le truppe in un dato spazio per affrontare il nemico, e si sforza di far avanzare o retrocedere il tutto senza confusione: "furono a tale scopo introdotti dei movimenti uniformi e calcolati g~ometricamente, i quali compongono la cosl detta teoria, ossia l'ordinanza delle manovre. L'arte di manovrare le truppe è necessaria specialmente agli ufficiali subalterni..."45 • C.D.C. avrebbe fatto meglio a trattare questo argomento contestualmente alla tattica: perché, anche in questo capitolo, finisce col parlare più di tattica (cioè di disposizione delle truppe sul terreno secondo un concetto operativo), che di vere e proprie evoluzioni; e nonostante la precedente affermazione che non si può definire a priori la miglior formazione sul campo di battaglia, si sforza di dimostrare che la miglior formazione di combattimento della fanteria è quella su due righe (così come prevede la nuova teoria piemontese del 1851, da lui giudicata la migliore d' Europa). Tuttavia trattando minutamente di evoluzioni e formazioni egli parte da concetti assai validi:

43

ivi, pp. 93-94. ivi, p. 95. " · ivi, p. 97. 44 ·


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il soldato che vede l'ordine di combattimento diventare diverso da quello di piazz,a d'armi, dice fra sè: È NATO DISORDINE. Così è; una battaglia perduta, vide l'acuto ingegno del Maresciallo di Sassonia, è una battaglia che si crede perduta. Così è; il principio universale della Teoria [delle manovre] consiste tutto nella norma seguente: Le manovre devono essere L'immagine della guerra. Troppo spesso si è dimenticato nelle teorie oggi in vigore in Europa, in tutte, che le manovre non devono servire a varie parate, la cui pedantesca regolarità faccia credere al soldato, allorché è trasportato sul campo di battaglia, che i nemi_ci abbiano già acquistato un vantaggio se vede menomamente scomparire quella geometria di linee e angoli a cui malamente fu abituato46•

Meritano di essere ricordate anche altre affermazioni, come quella che la difficoltà della guerra non sta nel capire ma nel fare, quindi le manovre devono essere semplificate al massimo, perché l'arte militare sta tutta nel1'esecuzione e in combattimento si eseguono bene solo le cose semplici. Inoltre nella teoria non sono le considerazioni geometriche che devono prevalere, ma le considerazioni morali, giacché l'unità della massa si mantiene specialmente per forze nwrali di disciplina, d'onore ecc.; a creare l'abitudine di questi sentimenti di collettività (e quindi d'ordine) sono dirette le ordinanze47 • Di fronte al nemico - aggiunge C.D.C. - giova di più adattarsi al terreno che "ostinarsi a voler rette e nonnali". Ma subito dopo rovina tutto, sostenendo che "tutta la precisione deve consistere, anche in tempo di pace, non in un simmetrico allineamento, ma solo ne' due seguenti punti: - cadenza di passo; contatto di gomiti". Come se si trattasse di poca cosa, di una decisa virata verso l'abolizione di formazioni artificiose! Eppure, subito dopo C.D.C" fa altre affermazioni e stremamente centrate, come quella che "il principio delle manovre vuole che si addestrino i soldati non solo all'ordine ma anche al disordine" e che "la guerra e non la pace è lo scopo dell' istruzione". Invece - egli constata - avviene esattamente l'opposto: "le teorie attuali, giova ripeterlo, sono in modo concepite, ch'è appunto quando cresce il bisogno dell'ordine, quando c'è caso urgente, che scemano le ragioni di operare secondo il loro spirito e di fare come vogliamo sia fatto"48• Nonostante le numerose, acute e ancor attuali osservazioni, la portata innovatrice delle idee di C.D.C. su formazioni ed evoluzioni rimane assai ridotta: per lui ciò che veramente importa - e condiziona i movimenti - non è l'allineamento ma la cadenza del passo, e soprattutto il contatto di gomito, 46 · ivi, p. 1()0. " ivi, p. 104. " · ivi. p. 102.


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che ritiene due capisaldi anche per ragioni morali. Per di più, venendo a parlare del fuoco sostiene che "l'essenziale dei fuochi, la sola cosa essenziale, è che nessuno faccia fuoco né prima del comando né dopo quello di finire"49 • Contatto di gomito, passo cadenzato e fuoco a comando, è quello che importa veramente: a poco vale il resto, a poco valgono talune sensate prescrizioni sul fuoco come questa: "non risparmiate cartucce a palla e bersagli. È là che il soldato impara la carica, là soltanto; è alla carica a palla, non alla carica in bianco in piazza d'armi (Gustavo Adolfo vi contava ancora novantacinque tempi!) a cui il soldato presta attenzione [ ...]. Quattro cartucce sparate valgono quattro giorni d'istruzione teorica"50 • Ancora una volta e.o.e. bilancia queste prescriziorù ricordando che " più si è disciplinati, meglio si tira; fu constatato in Inghilterra che i reggimenti più immobili nei ranghi sono quelli _c he tirano meglio". Riguardo al · rapporto tra fuoco e movimento, parte dalla constatazione che "nessuna truppa aspetta il nemico che arriva risoluto alla bajonetta ad anni cariche; è il soldato fuggente adunque che sopporterà il nostro fuoco e sarà inseguito dai nostri proiettili". Quindi "la nuova teoria dovrà subordinare i fuochi alla baionetta e ordinarsi dietro tal principio L...J. Il fucile, dice il Maresciallo di Sassonia, non è che il manico della bajonetta"51 • Nell'assalto non si deve mai sparare prima di essere giunti a cinquanta passi dal nemico, e si deve sparare senza fermarsi. Sparare a più di settantacinque passi significa ispirare coraggio al nemico: invece "tutti i colpi da vicino feriscono, l'effetto morale è veramente terribile, la nostra massa marcia compatta, la massa nemica comincia ad ondeggiare al nostro avvicinarsi ad anni cariche, e l'urto, e ancor più il terrore dell'urto, la trascina alla fuga". Tesi che lasciano perplessi: se l'ultima fase dell'assalto deve avvenire ad armi cariche, significa che dopo aver sparato - come vuole C.O.C. - a cinquanta passi dal nemico, proprio a distanza così ravvicinata e nel momento più delicato, quando occorre continuità nel movimento, bisogna sostare per ricaricare. In questa fase perciò il nemico potrebbe contrattaccare, e comportarsi esattamente al contrario di quello che pretenderebbe C.O.C.. Le idee di C.O.C. sulla cavalleria e l'artiglieria toccano questioni di fondo ampiamente dibattute fino alla prima guerra mondiale. A proposito della cavalleria, le sue idee possono essere così riassunte: - "la cavalleria costituisce il nesso dei varii corpi fra loro e di tutti con le riserve. È la vista e l'udito dell'esercito, il terrore della fanteria. Essa affatica l'esercito nemico e lascia riposare il nostro"; 52 - il principio della massa impone di mantenere compatte e allineate le unità di cavalleria, affinché l'urto sia maggiore. Per questo, in "· ivi, p. 110. '°· Ibidem. "· ivi, p. ll l. '~ ivi, p. 116.


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alcuni paesi, nelle cariche di cavalleria la carriera, che scompone le righe, è stata sostituita dal gran trotto; nell'istruzione di cavalleria poco importano i movimenti con sciabola e lancia a fronte dell'istruzione ippica: un buon cavaliere sarà anche "un buon maneggiatore d'arme". Queste armi sono sempre le armi bianche; - così come la baionetta è l' anna vera delJa massa di fanteria, J' arma vera della massa di cavalleria è la lancia (come sosteneva Montecuccoli), anche se essa richiede perfetta padronanza del cavallo ed è appunto adatta all'urto della massa ma non al combattimento a corpo a corpo, dove prevale la sciabola (la miglior lancia è da lui giudicata quella inglese, corta e elastica; quella piemontese è troppo lunga e pesante); con la lancia deve perciò essere annata la cavalleria pesante, mentre la sciabola deve essere l'armamento della cavalleria leggera, così come "non più la baionetta, ma il fucile è l'arma di quelle truppe di fanteria che combattono in ordine sparso, bersaglieri, cacciatori ecc. ecc."; 53 la cavalleria leggera, infatti, "non urta, ma si precipita nella mischia del nemico già disordinato per raccogliere i frutti della vittoria, oppure esplora e riconosce. Ambedue queste funzioni conducono al combattimento corpo a corpo ed a percorrere terreni intercisi o boscosi, e la lancia vi sarebbe d'insopportabile ingombro"; i corazzieri andrebbero aboliti, perché le corazze appesantiscono il cavallo senza proteggere il cavaliere. I dragoni, in origine fanteria montata, hanno ormai perso la loro funzione originaria e vanno considerati cavalleria leggera: diversamente non sarebbero né buoni fanti, né buoni cavalieri, come già osservava il Foscolo; molti capi di corredo sfarzosi della cavalleria sono fatti per la parata e impacciano il soldato in guerra. È sbagliato privilegiare le esi.. genze di parata anche destinando i soldati più alti e prestanti alla cavalleria e quelli più bassi alla fanteria: dovrebbe avvenire il contrario, perché ciò che più importa è il cavallo e il cavallo deve essere alleggerito il più possibile, deve essere sano e agile. Per lo stesso motivo, cavalli grassi e di forte taglia rispondono sempre e solo a esigenze di parata. e.o.e. è comunque lungi dal dare alla cavalleria troppa importanza, e questo è un suo merito. La giudica un'anna in via di superamento a tutto vantaggio dell'artiglieria, cioè del fuoco, e questo è un merito ancor maggiore. Infatti il progresso della civiltà, che mura le case del]' agricoltore ove erano steppe o brughiere, e con siepi e cinte indica l'arrivo del proprietario

S).

ivi, p. 119.


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sui terreni prima vaghi o indivisi, frammenta le grandi pianure e rende perciò ogni giorno sempre meno utile la cavalleria [... ]. L'importanza tattica della cavalleria [... ] scema ogni giorno, ma per la stessa ragione s'accresce ogni giorno quella dell' artiglieria, che coi tiri curvi o indiretti raggiunge il nemico ove non può il cavallo. Da Wagram in poi l'artiglieria fu dimostrata l'arma decisiva delle battaglie, perché è quella che conserva maggiorazione sulla fanteria. 54 Un altro concetto fondamentale, assai moderno e avanzato per quei tempi, è che "dacché sono le masse, e le sole masse, quelle che decidono della vittoria, l'uso principale a farsi del cannone e dell'obice non è contro l'artiglieria nemica, ma contro le agglomerazioni di uomini [.. .]. Una batteria deve di preferenza sopportare il fuoco dei pezzi nemici piuttosto che rispondervi e perdere tempo in un mutuo fuoco fra batteria e batteria, mentre agiscono le masse che sole determinano l'esito finale". Altri due criteri d'impiego estremamente moderni sono l'abbandono dell'azione per pezzi isolati e il concentramento del fuoco sul punto più conveniente (da ottenere con la manovra e delle traiettorie più che con la riunione dei pezzi in un'unica massa: soluzione, questa, che può non essere conveniente) e soprattutto I"'indipendenza" dell'artiglieria, che significa il suo accentramento anche organico al livello di G.U. elementare e complessa: tutte riforme dovute al generale napoleonico Sénarmont. Prima di Sénarmont, infatti, si riteneva che l'artiglieria avesse bisogno di essere sempre protetta dalla fanteria, quindi ciascun reggimento di fanteria aveva anche due pezzi di artiglieria reggimentale55 • In sintesi i criteri d'impiego fondamentali dell' artiglieria sono diventati tre: " 1° concentrazione di fuochi sovra un sol punto; 2° poco curarsi di controbattere; 3° azione indipendente" 56 • Ne è derivata anche l'esigenza di semplificare, alleggerire, rendere più mobili e unificare maggiormente nei calibri i materiali. Infatti il principio supremo della guerra che applicato all'artiglieria la con-

centrò in grandi agglomerazioni indipendenti, ha reso anche più mobili gli eserciti stessi, che non sono più obbligati ad aspettare riserve di materiali diversi nè gravi furgoni e vetture, traini che non possono passar dappertutto. Allora alla sua volta l'artiglieria potè più direttamente sentire il bisogno di semplificarsi, di alleggerirsi, di mobilizzarsi, per poter essa pure tener dietro alla fanteria impaziente, e volle che gli artiglieri montassero sugli avantreni e sui cassoni in Piemonte, sugli avantreni e sui cavalli sottomano (di diritta) in Prussia, e già aveva prima indotto Napoleone I a far soldati anche i conduttori ( 1800)57• ivi, p. 128. ivi, p. 132. ivi, p. 134. ,., ivi, p. 136.

54

55 • 16 •


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Secondo C.D.C., il punto essenziale della riforma di Valliére in Francia (1732) è stato la leggerezza del pezzo; successivamente Gribeauval (1765) e Cavalli in Piemonte (1844) hanno curato l'uniformità. Napoleone m (1852) ha perfezionato leggerezza e uniformità; la sua riforma, benché non ancora apprezzata come merita, è "così importante e così vera quanto lo fu quella del Gribeauval". Egli ha sostituito 1a bocca da fuoco da 8 (che data la modesta gittata non poteva se non con gravi perdite di serventi controbattere con la mitraglia il tiro delle carabine dei cacciatori, mortale anche a 500 m) incavalcando sullo stesso affusto da 8 la bocca da fuoco da 12, prima relegata nel parco di riserva. In tal modo l'artiglieria francese dispone: di un solo calibro da 12 detto canon-obusier, che pesa solo 60 Kg in più del materiale da 8 e lo sostituisce; di un solo tipo di affusto e di soli tre tipi di munizioni (palle piene, granate, scatole a mitraglia; quattro tipi, se delle dotazioni fanno . parte anche gli Shrappnels). Altre due riforme dell'artiglieria, secondo C.D.C., si renderebbero necessarie in relazione alla raggiunta "indipendenza" dell' Anna, che ha già fatto sì che vengano armati di fucile anche i serventi: l'assegnazione del servizio di trasporto delle munizioni da fucile alla stessa fanteria (e non all'artiglieria come al momento avviene) e la costituzione delle batterie su 8 pezzi (come in Piemonte) e non su 6 (come in Francia). Riguardo al trasporto delle cartucce per fucile, un piccolo carico per reggimento o per brigata basterebbe. La stessa fanteria ne diverrebbe più mobile, e potrebbe arrischiarsi ad occupare posizioni più distanti e più ardue che ora non osa pel timore che la riserva di munizioni ch'è portata con tutte quelle della divisione e quindi con gravi cassoni, non possa seguirla. - Gli inconvenienti del sistema presente paiono già sentiti, poiché generalmente è ormai solo nell'artiglieria, ad onta del vizio del sistema, che si è obbligati a conservar due capitani in una compagnia.- Il capitano in seconda è incaricato della distribuzione delle munizioni, e quindi sta con la riserva5ll. La batteria di otto pezzi rende più agevole il concentramento del fuoco su un solo punto, facilita l'azione di comando e consente economia di personale e materiale, "perché otto bocche da fuoco forniscono opera sufficiente a una forge [forgia, attrezzatura usata per riscaldare i ferri dei cavalli e quindi adattarli meglio al piede - N.d.a.] e due affusti di ricambio bastano; nelle batterie di sei se accade di doverne dividere alcuna a mezzo, un ufficiale diviene inutile"59•

" ivi, p. 137. La saggia riforma suggerila da C.D.C. viene attuata molto più tardi (Cfr. F Botti, La logistica dell'Esercito Italiano - Voi. Il (1861-1918), - Cit.). "'· C.D.C., Op. cit., pp. 137-138.


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Da queste idee assai acute e moderne si deve dedurre che e.o.e., fante e anzi cacciatore, ha la mano più felice parlando di artiglieria e cavalleria, che di fanteria: forse ciò dipende dall'impostazione dei suoi studi francesi, nei quali era preponderante la problematica relativa alle "Armi speciali".

Logistica e amministrazione: l'esempio napoleonico Alla logistica nel senso indicato da Jomini (Vol. I, cap. me.o.e. non attribuisce soverchia importanza: solo un fugace accenno nel capitolo dedicato alle marce, ovviamente in relazione ali' esigenza di organizzare e rendere sempre più celere il movimento: poiché dopo l'apparizione del nuovo principio delle masse, la vittoria appartiene al generale che seppe riunire le sue truppe prima del nemico, per coglierlo meno forte di sé, il principio medesimo delle masse accrebbe pure l'importanza di quella parte della scienza militare che è detta Logistica (da logis, alloggio) - Essa calcola il tempo necessario a percorrere un dato terreno60• Tutto qui: un po' poco, con una indicazione anche al tempo largamente incompleta della sfera d'azione della logistica, che, come si è visto, secondo Jomini si estende praticamente a tutte le branche del lavoro di Stato Maggiore, diventando attività organizzativa ed esecutiva dell'azione di comando. Ma, come tutti ancora fanno in Italia e all'estero al suo tempo, e.o.e. chiama Amministrazione quella che oggi intendiamo Logistica, cioè la disciplina che si occupa di tutto quanto è necessario per consentire all' esercito di vivere, muovere e combattere61 • Egli inizia il capitolo VI dedicato a questo argomento mettendo in relazione anche l'organizzazione dei rifornimenti con la necessità di realizzare il principio della massa: la mobilità estrema che devono possedere gli eserciti moderni in conseguenza del principio delle masse, importò anche non potessero più recar con sé tutto ciò di cui nulla ostante abbisognavano come potevano gli eserciti antichi. Si dovette quindi modificare totalmente il sistema di sussistenze, di approvvigionamenti, di trasporti - in una parola si dovette riedificare totalmente il sistema d'Amministrazione [...]. Nessuno è ora buon generale che non sia anche buon amministratore. L'amministrazione militare comprende non solo quanto concerne la contabilità, ma anche quanto concerne i rapporti fra la contabilità e le operazioni di guerra. Comprende adunque le nozioni: I di Intendenza e 2° di base e linee d'operazione.62 0

ivi, p. 40. Sull'evoluzione del concetto di logistica, Cfr. F. Botti, Op. cit. , Introduzione al Vol. I (1831- 1848). 62· e.o.e., Op. cit. , Voi. I. 00

1


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La base d'operazione è composta da una catena di magazzini ove sono custoditi gli approvvigionamenti d'ogni genere necessari all' esercito; la linea d'operazione é "la strada che partendo dalla base conduce al punto decisivo strategico, detto nelle scuole obiettivo". Seguono una serie di considerazioni sull'importanza, anche per Napoleone, delle basi e delle linee di operazione che qui non ripetiamo, essendo cosa assai poco originale. Così come non ripetiamo le minute considerazioni di C.O.C. sulla problematica logistica del tempo, già da noi trattata nel Voi. I dell'opera La logistica dell'Esercito italiano63• L'unica cosa notevole è l'opportuno elogio dei molini portatili usati per la prima volta dal Maresciallo Marmont, poi estesi a tutto l'esercito francese e da questi impiegati in Algeria dopo il 1830, perché "il più difficile, nelle guerre in paese coltivato, non è l'avere il grano, è l'avere i mulini per mutarlo in farina e i forni per cangiarlo in pane"r>4. La maggiore mobilità richiesta agli eserciti e la necessità di concentrarli di volta in volta su determinati punti del teatro d'operazioni hanno imposto: - la centralizzazione di tutte le branche dell'amministrazione militare nelle mani dell'Intendente, al quale Napoleone aveva conferito amplissimi poteri. "Ciò nulJ'ostante né l'Intendente capo, né alcuni dei suoi subordinati, ponno intervenire nell'amministrazione interna dei corpi, la quale spetta ai generali; solo possono verificarne la contabilità. Loro compito è di sorvegliare la legittimità del consu,rw"65 ; la militarizzaz.iune dell'Intendenza, che prima di Napoleone era un corpo civile compresi i trasporti: "quando, e non ha guari in molti paesi, s'avevano per conduttori di treni vetturali e avventizi, carrettieri e contadini, che altro potevasi aspettarne se non ciò che avveniva: che cioè quei conduttori all'incontrar del nemico tagliassero le corde e fuggissero coi cavalli?"; la scomparsa, con Napoleone, del sistema d'amministrazione per compagnia. Prima era il capitano che provvedeva, per conto suo, all'ap• provvigionamento, al vestiario e all' equipaggiamento e ai viveri della compagnia: "ma come ora recarsi dietro nelle guerre moderne quella complicazione enorme di trasporti che non può evitarsi quando in un reggimento sianvi diciotto amministrazioni diverse?". Tutte queste riforme sono da C.D.C. fatte risalire al periodo napoleonico; il che è vero solo in parte, perché dei tentativi di militarizzare i Servizi e i trasporti e soprattutto l'accentramento dell'amministrazione al livello di reggimento si erano avuti anche molto prima66 • Vero è, comunque, che la logistica anche intorno al · l 860 era sostanzialmente ferma ali ' esperienza napoleonica; ma C.O.C. non tenta certo di andare più in là, né indica 63 efr. F. Botti, Op. cit., Voi. I . .. e.o.e., Op. cit., Vol. I. 0 '·

ivi, pp. 50-51.

06

Cfr. F. Botti, Op. cit., Voi. I.


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la necessità di compiere ulteriori passi in avanti, che pure emerge dalle guerre dopo il 1815. Vi si trova solo un accenno alle ferrovie: ora che le strade di ferro sono mezzo di trasporto militare, la necessità della custodia delle linee d'operazione e l'importanza dei Block:haus cresce; prima che si lanci un convoglio, non solo si deve sapere (come basta nei trasporti ordinari) che la via è intatta in quel momento, ma devesi anche essere certi che lo sarà anche per tutto il tempo del tragitto. 67

Oltre che aumentare le esigenze di sicurezza, le ferrovie forniscono anche dei vantaggi logistici? Questo e.o.e. non lo dice. E dell'esperienza del periodo dopo il 1815 si limita a citare fugacemente, come esempio in negativo, l'organizzazione dell'Intendenza piemontese nel 1848 e dell' Intendenza russa nella guerra di Crimea 1855 - 1856: basta per essere buon Intendente essere capace di capire un principio [il che non è vero: occorrono molte altre doti, a cominciare daJI'esperienza, dall'energia e dal senso pratico - N.d.a.]. Meglio adunque avere uomini intelligenti che de' mestierai. Dell'esercito piemontese del 1848, che aveva leggi amministrative a centinaia e non un solo amministratore intelligente, lo stesso Bava dice: "Alla fine di luglio, senza perdita di alcuna battaglia, le nostre truppe si sono di.scomposte, a malgrado che la via del Piemonte fosse aperta dietro di esse, ed avessero a stanziare nel paese più fertile della Europa" (Relazione). Violazione del principio per inintelligenza o malvagità fu lo stesso: i Russi, il cui esercito ha pure una biblioteca di regolamenti, perdettero più uomini, mi diceva un ufficiale di Stato Maggiore francese, dopo l'armistizio che durante la guerra in Crimea. Gli alleati poterono allora vedere il loro terribile pane, i loro fetidi ospedali; poterono scorgere quanto vi sia facile la malversazione; v'è un aneddoto di certe camicie da darsi ai soldati e pagate dall'erario, delle quali non si diede ai soldati che la tela, e l'ago il filo per farle, che è davvero assai curioso, se è al tutto vero68 •

Sere a proposito della crimea C.O.C. non accenna nemmeno alle epidemfo e al cattivo funzionamento del Servizio sanitario dalla parte piemontese e franco-inglese: Sul Servizio sanitario, anzi, la sua visione è piuttosto retrograda, visto quanto è avvenuto nelle battaglie di S. Martino e Solferino nella stessa guerra del 1859 al quale egli partecipa. Bisogna impedire - sostiene che si trasportino indietro i feriti durante il combattimento, perché "la massa si affievolisce, la continuità delle linee è interrotta, e la pietà è spesso velo della viltà. Abbisognano tre uomini sani per portare un ferito, e a Novara un mio amico vide quattro uomini portarne un quinto che era sano"69• Inconve-

1 • ·

e.o.e., Op. cit., pp. 48-49.

ivi, p. 51. ""· ivi, p. 115. oa.


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niente reale ma inevitabile, che poteva essere eliminato solo organizzando meglio con personale specializzato e mezzi di trasporto ad hoc la prima cura e lo sgombero dei feriti, come già sostenevano i medici di Napoleone70• Per C.D.C. invece, si tratta solo di applicare il vecchio e ormai superato principio di abbandonare i feriti senza soccorso, per soccorrerli solo dopo il combattimento: "il soldato lo sa: alla guerra non si va per vivere, ma per morire; tutto vi si guadagna, e non vi si perde che una cosa sola, la vita; [... ]. È solo dopo il combattimento che comincia il diritto d'ospedale ..." 11 • Poco acuto anche il suo esame dei sistemi di rifornimento di Napoleone, al quale attribuisce il merito di aver introdotto nell'amministrazione dell'esercito francese "un'inconcussa tradizione di onestà", il che non è vero perché anche nelle sue truppe - a cominciare dalla campagna d'Italia erano continuate le malversazioni su vasta scala. E pur osservando che "in rapidi movimenti prolungati, una mal governata macchina amministrativa perde la sua elasticità" e subentrano il saccheggio e il disordine, presenta in modo idilliaco il sistema di rifornimento delle armate della Rivoluzione e di Napoleone, dove più che mai il saccheggio e il disordine amministrativo erano la nonna e il rifornimento regolare e la paga puntuale un'eccezione, praticamente costringendo le truppe al saccheggio delle risorse locali. Per C.D.C . invece - che è convinto sostenitore dell'insostituibiJità dei magazzini - è vero il contrario: quanto alle requisizioni, nacque ali' epoca del rinnovamento della guerra (1792) il sistema delle requisizioni in grande, cioè delle requisizioni non già abbandonate all'avidità e all'insolenza del soldato, ma organizzate dall' Intendenza medesima. La stretta conformità di tal sistema al principio, l'ha poi fatto a poco a poco interamente prevalere e ne hanno formato la base del sistema di alimentazione adottato da Napoleone. Esso consisteva in due punti essenziali: 1° Vìvere ogni sera sul paese occupato. 2°) Trarre con sè nei cassoni il pane per più giorni. 72

Certo, la soluzione ideale è quella che C.D.C. si ostina ad attribuire a Napoleone, quando invece molto di rado è stata applicata effettivamente, prima e dopo il 1815: distendersi quanto basta per trovare viveri e non tanto da trovarsi dispersi; trattare gli abitanti con lealtà; pagare quando possibile in contanti, pagare i viveri con il denaro ottenuto imponendo contributi (di solito, invece, le truppe napoleoniche, ma anche le altre, imponevano contributi senza pagare i viveri!). E C.D.C. non ha nulla da eccepire nemmeno sull'abolizione da parte di Napoleone delle tende, sistema che favorisce la mobiJità ma non giova certo alla salute de] soldato.

70. F. Botti, Op. cit., Voi. I pp. 139-167, 11. e.o.e., op. cit., p. 116. 72. ivi, p. 53.


IV - CARLO DE CRISTOFORIS

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Fortificazione, geografia e topografia Diamo solo qualche rapido cenno dei capitoli che C.D.C. dedica alla geografia, topografia e fortificazione, argomenti da considerare tutto sommato secondari. A proposito di geografia militare, C.D.C. continuamente richiama la validità della "teoria idrografica" di Teofilo Lavalleé, che probabilmente ha influenzato anche Giacomo Durando (vds. Voi. I, cap. XII) e si basa sullo studio del senso e dell'andamento dei corsi di acqua e relativi bacini che modellano il terreno, segnando le valli e le linee spartiacque e dando così un significato ai rilievi. Particolare importanza strategica assumono le testate delle valli e i punti dove si congiungono i corsi d'acqua che a dette valli danno origine. In linea generale, secondo C.D.C. applicando il principio idrografico all "'arte della guerra ricondotta a un principio unico" si riesce a determinare la migliore ubicazione delle fortezze, mentre a proposito dell'impiego delle forze mobili egli prevedibilmente cita l'affermazione dell'Arciduca Carlo che "la situazione delle montagne e il corso. dei fiumi determinano invariabilmente le linee e i punti sui quali gli eserciti debbono incontrarsi; è perciò che le battaglie decisive sono state date molte volte negli stessi luoghi, benché con circostanze ed eserciti diversi"73 • Da considerazioni di carattere puramente geografico C.D.C. passa a considerazioni di carattere geostrategico, non molto originali perché in vario modo affini a quelle del Durando, del Balbo e di altri. Le valli del Po e del Danubio - afferma - sono i due teatri di guerra dove si decidono le guerre europee; e il San Gottardo (come già sosteneva il Durando) è "militarmente il Re delle Alpi", perché da esso partono il Reno, il Rodano, il Reuss e il Ticino, "ciò che vuol dire Germania, Francia e Italia". Ne consegue che - come già sosteneva Napoleone - la valle del Po è la chiave dell'Italia, e come già sostenevano Gioberti e Balbo, "l'Italia continentale [... ] è il vero bastione della penisola, la quale ne segue la sorte e non gli è mai di alcun soccorso". In essa gli elementi strategicamente più importanti sono Alessandria, dove confluiscono le principali strade provenienti dalle Alpi, e l'Adige, che è "la linea più importante della regione Cispadana; il vero e solo decisivo teatro delle guerre italiane, quindi la suprema linea militare d'Italia, il ridotto della fortezza"74. Una visione delle possibilità difensive dell'Italia tipicamente "continentalista" e non mediterranea, insomma; non a torto il curatore dell'edizione 1925 annacqua le certezze di C.D.C., osservando che se Napoleone, anziché un'Italia militarmente debole, si fosse trovato davanti un solo popolo di 20.000.000 di abitanti deciso a battersi (con una ragguardevole

73 ivi, p. 63. " ivi, p. 62.

•·


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flotta, ima capitale ben fortificata e opifici, arsenali, piazzeforti), avrebbe modificato il suo concetto che la chiave d'Italia è nella valle del Po. In effetti, prosegue il curatore, "la stessa storia d'Italia, la romana, smentisce il detto napoleonico. Annibale era padrone della Valle Padana e campeggiò, per molti anni vincitore, a sud di Roma; eppure dovette sgombrare. Vinse la costanza e l'alto sentimento patrio de' nostri avi. L'Italia si può difendere fino a che vi saranno italiani. La parte peninsulare d'Italia offre ancora non poche difficoltà all' invasione"75 • Scontate le considerazioni di e.o.e. sull'importanza della topografia; molto interessante, invece, ciò che e.o.e. dice delle fortezze, della "fortificazione passeggera" (cioè campale) e della funzione e ubicazione degli ele'- menti fortificati. Sottolinea il loro legame con la geografia e con il concetto strategico difensivo del Paese, che gli fa giudicare non favorevolmente il celeberrimo sistema fortificato di Vauban ai confini della Francia: "è dalla applicazione dell'arte della guerra ricondotta a un principio unico, che viene pure decisa la grande questione delle linee di fortezze, se utili o no. Rimane certo che le fortezze, le quali non dominano una valle intera, sono inutili e anzi dannose, perché non servono che a invitare [il difensore] a dividere le proprie forze"76 • Così la triplice cintura di fortezze creata da Vauban nel 1690 per proteggere il territorio francese era in armonia con i criteri strategici del tempo, che assegnavano agli eserciti il compito di difendere il territorio e non - come ora - di distruggere la massa nemica. Quindi essa è superata, perché costringe a disperdere le forze in minuti presidi, e vi dovrebbero essere sacrificati 100.000 uomini. Al contrario, secondo e.o.e. la fortificazione moderna deve consentire al comandante di mantenere unita la massa delle forze, specie quando esse sono numericamente inferiori al nemico; anche la tattica sia dell'assediato che dell'assediante discende da questo principio. Le fortificazioni permanenti hanno uno scopo strategico; quelle passeggere hanno uno scopo tattico. Un'opera, sia essa permanente o passeggera, deve anzitutto rendere possibile il defilamento, "altezza tale di parapetto che basti a proteggere il terrapieno che sta dietro". Altra "regola suprema" è che la costruzione conservi "tanto spazio interno che basti alla formazione e ai movimenti della massa dei difensori". La forma generale dell'opera deve essere sempre convessa verso l'esterno, in modo da obbligare l'assalitore a percorrere uno spazio maggiore del difensore; a quest'ultimo basta percorrere la corda dell'arco anziché tutto l'arco come l' attaccante. E poiché l'altezza del parapetto dovuta al defila.mento impedisce al difensore di vedere il fondo della fossa e di far convergere il fuoco su un dato punto, è nata l'esigenza del fiancheggiamento, che consente di concentrare il fuoco delle altre parti più vicine su ogni parte dell'opera, e viceversa. Espressione della necessità di

75 · 1 •·

ivi, pp. 61-62. ivi, p. 64.


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realizzare il fiancheggiamento è stata l'invenzione del bastione, dovuta a un italiano (San Michele a Verona, 1528) e perfezionata da Vauban. Le fortificazioni permanenti possono essere di deposito o di manovra. Nelle prime sono custoditi, con poche forze, i rifornimenti necessari all' esercito, in modo da consentire a quest'ultimo di portare la propria massa sul punto decisivo, senza essere costretto a distogliere una cospicua quantità di forze e a rallentare la marcia; le seconde proteggono i fianchi della massa dell'esercito in movimento, e insieme ostacolano i movimenti del nemico. Le linee fortificate continue sono utili a un esercito numericamente molto superiore all'avversario; "fuori di questo caso esse sono la prigione e la tomba degli eserciti, e conducono all'assurdità della guerra di cordone"77; le linee fortificate a intervalli, invece, "non presentano questo pericolo, e sono le migliori per un esercito che non sia sproporzionatamente inferiore al nemico". A proposito della fortificazione campale (al tempo detta di campagna, temporanea o passeggera) C.D.C. cita i detti di Napoleone, evidentemente ancora validi, che "le posizioni intrinsecamente forti che normalmente presenta il terreno non possono consentire a un esercito di fronteggiare forze nemiche superiori senza essere potenziate con l'arte" e che "i principi della fortificazione di campagna hanno bisogno di essere migliorati: questa parte importante dell'arte deJla guerra non ha fatto alcun progresso dall'antichità in poi''78• C.D.C. sottolinea che la fortificazione di campagna, come queJla permanente, "ha per norma suprema la concentrazione della massa sopra il punto più minacciabile". È a questo concetto che «tutte le altre considerazioni di simmetria, di tempo, di spesa, di solidità, di spessore, di parapetti, di inclinazione di scarpa, di difese accessorie, ecc. ecc., debbono assolutamente cedere". L'altro criterio. che deve guidare l'ufficiale di Stato Maggiore nella scelta del tracciato generale dell'opera è il suo scopo; una volta fatto questo, egli deve tenere conto della disposizione del terreno. Anche l'opera campale deve racchiudere uno spazio proporzionato alle esigenze difensive delle forze destinate a difenderla, né troppo grande né troppo piccolo. In essa deve essere sempre previsto un ridotto, che è l "'anima di una buona difesa" perché deve consentire sia la formazione della massa anche dopo l'abbandono del parapetto, sia di ben conservare la massa anche mantenendo il parapetto, perché l'idea di una sicura ritirata sostiene il morale del soldato. In tal modo pochi uomini riuniti in massa riescono a conservare Hpossesso di un'opera cosl vasta, che se fosser dispersi sui parapetti non riuscirebbero a difendere. Di conseguenza i migliori ridotti sono i block-haus, caserme difensive a prova di bomba che permettono al soldato di "riposarsi tranquillamente al riparo dei fuochi curvi che sono i più molesti e pericolosi".

n ivi, p. 150. " ivi, p. 159.


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Gli scarsi progressi della fortificazione campale prima e dopo Napoleone sono da C.O.C. attribuiti all'errato metodo d'insegnamento che viene seguito, troppo teorico ed esclusivamente libresco, nel quale "di un'arte essenzialmente pratica si fa un'arte di costruzioni geometriche; allora a poco a poco il natural desiderio di bei disegni simmetrici fa dimenticare quell'elemento terreno, che disturba quella simmetria"79. L'arte della fortificazione passeggera dipende essenzialmente dal terreno: perciò il metodo di insegnamento dovrebbe essere in fortificazione passeggera (come lo è in tutte le arti) il medesimo che il metodo di creazione. Per imparare bisogna creare [... ). La prima lezione di un professore di fortificazione che abbia ben inteso il principio della guerra e la sua applicazione speciale a quella modalità dell' arte, dovrebbe essere la distribuzione di un pezzo di creta molle ad ogni scolaro od una passeggiata fuori di città con zappe e badili. Poi dovrebbe dir loro: "Eccovi a comandare 100 uomini, ed eccovi assaliti da 1000. Approfittate del terreno dove siete, e difendetevi [...1. Le forme di fortificazioni passeggere insegnate nei libri non sono e non devono essere tenute che come forme tipiche, alle quali debba la costruzione avvicinarsi il più possibile in un terreno dato. Nelle scuole adunque di fortificazione passeggera poco intricatevi in ricerche di geometria descrittiva, di piani quotati, di soluzioni di problemi di difilamento sulla carta - lasciate l ' aula e prendete la campagna con zappa, badile, quattro picchetti e trenta f!letri di corda80 •

"Essenziali qualità dell'ufficiale " e della leadership I vari aspetti della guerra, della strategia e tattica·e della battaglia vanno verificati alla luce di ciò che C.O.C. afferma a proposito della leadership e delle modalità per il reclutamento e ordinamento dell'esercito, in una parola: della sua organizzazione e preparazione fin dal tempo di pace. Questioni scottanti al tempo della nascita del libro, perché in poche occasioni come nella guerra italiana del 1848-1849 erano emersi i riflessi della carente leadership politico-militare, della carente preparazione e del carente ordinamento . Ciò che e.o.e. dice delle doti del Capo è un interessante e ancora attuale concentrato di saggezza militare, che spesso sfiora l'ovvietà: vero è, però, che - come osserva lo stesso C.O.C. - "nulla è fatto alla guerra finché resta a fare qualcosa, e invano si pensa a molte cose se non si pensa a tutte. Sono sempre piccole imprudenze contrarie al semplice buon senso [ ... ] quelle che fanno perdere le battaglie". Le sue affermazioni sono quasi sempre condivisibili; tuttavia vi si riscontra la mancanza di ciò che in ogni tempo più di tutto ha contribuito a 1 •· 80 ·

ivi, p. 164. ivi, p. 171.


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fare di una massa di uomini un esercito, cioè un'unità da portare al combattimento: l'esaltazione delle doti morali del Capo, il valore dell'esempio, l'onestà, tutto ciò insomma che gli rende possibile conquistare - come hanno saputo fare tutti i capitani più famosi - il cuore del soldato. Ecco, sembra che la conquista da parte del Capo del cuore del soldato non importi più di tanto a C.D.C.: per questo, forse, accanto alle doti di Napoleone egli esalta quelle di Wellington, generale inglese a capo di un esercito di volontari tenuto con la frusta più che con altri mezzi, e che disprezzava. Non solo Clausewitz, ma la gran parte degli autori fin qui esaminati ivi compreso Jomini - hanno esaltato, sull'esempio di Napoleone, il colpo d'occhio, l'istinto del Capo: non sempre a ragione C.D.C. sembra volergli sostituire l'attività, dimenticando che - secondo un vecchio detto - gli ufficiali che producono maggior danno sono proprio gli zelanti poco intelligenti. E così afferma che l'attività implica quasi sempre per necessaria conseguenza la prontezw .delle decisioni, ch' è il frutto della esatta e chiara cognizione delle circostanze; chi vuol fare bene la guerra, cioè presto, deve sapere; - l'istinto a cui fu assegnato gran parte dei successi dei grandi capitani, è spesso costituito da una serie di ragionamenti veloci tanto che non ne rimane memoria, è figlio perciò delJa perfetta cognizione dei fatti8 '.

"Cognizione" o capacità di valutazione? e come, in guerra, può essere possibile anche per il comandante più attivo e dotato del miglior servizio d'informazioni, conoscere tutto del nemico, comprese le sue intenzioni? Evidentemente non si tratta di p~a e semplice attività: solo l'intuito, il colpo d'occhio, l'istinto, la capacità di valutazione, in una parola: il genio innato possono supplire alla mancanza - inevitabile, anche se in varia misura - di informazioni o al loro eccesso, che costringe a saper scegliere tra una massa di notizie, quelle che sono veramente importanti e autentiche. Secondo C.D.C., è assolutamente necessario che un comandante sappia scegliersi collaboratori intelligenti e in grado di fargli rapporti chiari e precisi: ma non va più in là su questo tema, e non affronta - come fa Jomini - le questioni connesse con l'organizzazione di buoni Stati Maggiori. Trattando di fortificazione, tuttavia, accenna alla necessità che gli ufficiali di Stato Maggiore siano pochi e abbiano una formazione a sfondo pratico piuttosto che teorico, quindi non proiettata solo sulla geodesia e sulla cartografia82 • È comunque condivisibile l'insistenza di C.D.C. sull' attività, specie quando afferma - citando Clausewitz - che un comandante deve andare a vedere il più possibile con i propri occhi, non fidarsi troppo dei collaboratori, decidere prontamente e controllare gli ordini. Ma non è del tutto " ivi, p. 209. ivi, p. 106.

12·


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convincente quando collega, come sempre, questa linea di condotta all'applicazione del suo prediletto principio della massa: se tutta l'arte della guerra è retta da un principio unico, il quale appunto perché è unico è sempljcissimo e quindi comprensibile da ogni intelligenza - la difficoltà non stà più che nell'applicarlo con prestezza di risoluzione onde prevenire il nemico nella formazione della massa sul punto decisivo strategico e tattico; - la differenza tra capitano e capitano non stà più che nell'esecuzione8'.

C.D.C. pretende di riferire al principio del1a massa anche taluru sani criteri - peraltro non originali, ma già risalenti a Federico II di Prussia sull'unità di comando e sull'autonomia operativa dei comandanti in capo, anche in campo navale: qual esercito comandato da un club discutente è mai sfuggito alla disfatta e al disonore? Machiavelli giustamente imputa molti dei disastri di Venezia e di Firenze alla gelosia che spingeva quelle repubbliche a mischiarsi in ogni atto dei loro generali ... Luigi XIV [ma anche Federico II, o Napoleone Imperatore - N.d.a.] poteva fare con due parole ciò che a Guglielmo d'Orange poteva appena riuscire con due mesi di negoziazioni a Berlino, Monaco, Bruxe11es, Torino e Vienna [ ... ] . Un esercito senza unità di comando è simile a un uomo che ]jtiga con sé stesso. Mandar piani già preparati al generale comandante, imporglieli, decidere in un gabinetto di cose lontane e mutabilissime è il miglior modo di farsi battere84 •

Naturalmente il criterio dell'unità di comando rende poco opportuni e dannosi anche i consigli di guerra; e qui C.D.C. cita Napoleone (avrebbe potuto citare anche Federico II). Solo il comandante sul campo, che ha l'intera responsabilità delle operazioni, deve decidere. Prevedibili e non originali le restanti affermazioni: gli ordini devono essere chiari, brevi e tempestivi, e i subordinati del generale devono trasmetterli ali' istante: "il peggior partito della guerra è quello di non prenderne alcuno"; occorre iniziativa e bisogna dominare le circostanze, non subirle; "non aspettate mai a piede fermo; il piede che aspetta non è mai fermo"; "l'attività che si traduce in prontezza di decisioni, si traduce pure in iniziativa"; "la guerra è un principio d'azione; l'offensiva è quindi il carattere generale che bisogna darle"; e, infine, la citazione del detto di Clausewitz che "l'audacia è una forza veramente creatrice. La maggioranza di quelli che passano per prudenti non sono che vili"85 •

83 ivi, p. 200. ... ivi, pp. 22 e 24. 85 · ivi, p. 213.


IV - CARLO DE CRISTOFORIS

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Reclutamento, mobilitazione e disciplina: perché gli eserciti permanenti a lunga ferma? La parte dell'opera di C.D.C. più discussa e studiata è il capitolo XII, dove tratta della "composizione e organizzazione dei corpi, cioè del modo di reclutarli e di fame un efficiente strumento di guerra", tenendo presente un concetto fondamentale che continuamente ricorre: tutti i particolari del1' organizzazione di un esercito devono essere dimensionati per le esigenze della guerra_ Fino al 1848 e oltre, specie negli eserciti dinastici italiani era avvenuto l'esatto contrario, quindi queste sue idee sono assai meno scontate di quanto si creda. Oltre che dall'approccio pratico e pragmatico ai problemi, le teorie di e.o.e. sul modo di reclutare e formare un esercito per la guerra sono segnate dalla prospettiva fin troppo esclusiva della guerra tra eserciti e quindi della battaglia da combattere a ranghi serrati, senza che vi trovi un sia per limitato rilievo la guerra insurrezionale o partigiana, la guerriglia insomma, o almeno quella guerra di truppe volontarie entusiaste che pure è l'unica da lui conosciuta, e che proprio per questo egli decisamente disapprova. Per ben comprendere l'approccio teorico di e.D.e., è necessario prima esaminare brevemente gli avvenimenti del 1848 e dei 1853 a Milano e in Lombardia, che lo vedono protagonista. Nelle cinque giornate di Milano del marzo 1848 si batte valorosamente, è anzi tra i più valorosi. E il 4 luglio 1848, dopo aver seguito Luciano Manara uscito da Milano con i suoi (soli 400) volontari, scrive alla madre: non sia mai che tu pensi ad abbandonare Milano. Che onore ci faremmo in faccia alle altre nazioni se fuggiamo nei momenti del pericolo? Se le donne resteranno, resteranno anche molti uomini: molti che si sarebbero chiusi in casa usciranno armati; sarà la popolazione di Milano e non solo i giovani milanesi che avranno difese le sacre mura, come nei felici e gloriosi giorni di marzo [... ]. Se diventeremo vecchi, i nostri i figli rimarranno a bocca aperta quando diremo loro che nemmeno le donne e i fanciulli fuggirono, ma prepararono barricate le strade e le case, mentre li uomini si battevano intorno a Milano, e che furono le donne e i fanciulli che incendiarono le case quando il nemico fu vincitore. Viva Milano e Mosca!116

Ma i lombardi non erano i russi ... eppure una siffatta esortazione implica anche molta fiducia ne11o spontaneo spirito combattivo de11a popolazione milanese: fiducia che già comincia a vacillare di ll a un mese, quando e.o.e. mostra di credere non più nell'insurrezione delle popolazioni di Milano e Brescia ma nei volontari, "armati sulle montagne". Il 4 agosto 1848, cioè due giorni prima della incruenta capitolazione di Milano ... G. GuUièrez, Op. cit., pp. 63-64.


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di fronte alle truppe di Radetzky tornate agguerrite, scrive alla madre che solo un grave pericolo può ormai far rinascere una nazione invecchiata dopo secoli di servitù, e farle ritenere la disunione come il suo grande nemico: "per queste ragioni [...] desidero veder presa Brescia, i Tedeschi di nuovo intorno a Milano e anche dentro, e noi armati sulle montagne a tener viva quell'ultima scintilla del sacro fuoco; che se il vento ritornerà fav<r revole, rialzerà la fiamma che non si spegnerà mai più, perché la Vestale avrà... imparato come si ravviva..." 87• Speranze che ben presto, alla prova dei fatti, si rivelano fallaci illusioni, dando luogo a traumatiche disillusioni. Ciò che awiene a Milano e in Lombardia nel 1848-1849 e nel 1853 è ben descritto dal Campolieti e dal Guttièrez, il quale ricorda tuttavia il detto (non originale) di e.o.e. che "un convoglio di munizioni distrutto può valere il silenzio d'una batteria nella battaglia del giorno dopo, ed un convoglio di grano impedito, lo sperdimento di un battaglione" 88 • E a proposito della fallita azione verso il Tirolo dei volontari di Luciano Manara dei quali e.o.e. fa parte, lo stesso Guttièrez osserva che "se a Manara fosse stato mantenuto il comando che ebbe parte ndo da Milano di comandante generale di tutti i corpi volontari ticinesi e lombardi, o in altre parole più generiche, se il principio insurrezionale non si fosse soffocato, Trento sarebbe stato preso indubitamente, e mi è facile provarlo"R9 • A quest'ipotesi eretta a fonte di certezza storica il Guttièrez unisce un' altra ipotesi addirittura lapalissiana: "se l'Italia avesse il 10% de' suoi cittadini pensanti in questo modo Lcioè come C.O.C. nella citata lettera alla madre -N.d.a.] non avrebbe certamente bisogno della carità altrui per diventar nazione"00• Come dargli torto? ma era proprio questo che non era avvenuto e non poteva avvenire, non solo tra la popolazione ma anche tra i volontari che ne erano l'élite. C.O.C. - al quale non manca una buona dose di realismo - non tarda a prenderne atto, fino a ritenere che per vincere la guerra contro l' Austria occorrono essenzialmente schiere ben ordinate e disciplinate capaci di battersi in campo aperto, quali si possono ottenere solo con soldati a lunga ferma; le insurrezioni popolari e le schiere di volontari ricche solo di entusiasmo non bastano, sono fiammate temporanee che si spengono alla prima difficoltà, delle quali il nemico può facilmente aver ragione sfruttando a fondo il fattore tempo. Il Guttièrez dedica pagine illuminanti alla successiva insurrezione mazziniana di Milano contro gli austriaci del 6 febbraio 1853, alla quale partecipa anche C.O.C .. Quell'insurrezione - egli afferma - fu ben preparata

"'· ivi, p. 65. 88 ivi, p. 52. 09 · ivi, p. 50. ... ivi, p. 64. Nota (1).


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sulla carta, ma eseguita in modo pessimo , perché "chi lo preparò non conosceva il cuore umano; ei non seppe prevedere che di quei tremila congiurati non duecento avevano animo di affrontar quell' impresa''91• La conquista del Castello di Milano "era cosa facilissima, come sono sempre facili le sorprese cogli austriaci (è il segreto di Garibaldi)", e una volta preso il Castello, tutta la guarnigione sarebbe stata alla fine: ma se il colpo andò fallito fu soltanto perché dei seicento cospiratori che, secondo il piano, dovevano assalire il Castello, non se ne presentarono che cento, e venti soli penetrarono nel forte. Fu lo stesso in Piazza del Duomo [... ]. E quanto accadde qui fu ripetuto in tutti i punti che furono assaliti; dei congiurati si batté appena il 5% ·in media, e fu quel piccolo numero che fece cose veramente formidabili ...92. Certo, se i congiurati fossero stati di più, e più decisi...Sta di fatto che non lo erano, non lo erano mai stati, non lo sarebbero mai stati. Più-che la forza austriaca nel 1848 e nel 1853 pesa la disunione e la scarsa determinazione degli italiani, civili o militari, nobili, borghesi o plebei che fossero. E lo stesso Guttièrez ben conclude che Mazzini dal mancato tentativo [del febbraio 1853 a Milano - N.d.a.] avrebbe dovuto convincersi di due verità; l'una, che è fuori del corso naturale delle cose il pretendere che una popolazione ·inerme, dedita alle cure private, ai negozi, agli amori, passi da un istante all'altro alle fucilate e al sangue; l'altra, che non è il solo elemento del basso popolo quello che può garantire l'esito di queste imprese. Il coraggio eroico, lo spirito di sacrificio, l'amor patrio puro, la poesia del pericolo, la santità della parola data, la forza d'iniziativa sono facoltà e istinti delle anime superiori, delle perle della società, e le perle sono rare a ritrovarsi93• Valutazioni conclusive, queste del Guttièrez, che vanno bene sia per gli avvenimenti del 1848 che del 1859: che l'insurrezione non piaccia a certi signori lo si sa; ma in tal materia non è questione di simpatia od antipatia. Piace di più anche a me una battaglia d' Arcole o di Austerlitz, ma c'è il guaio che i Bonaparte vengono una volta ogni venti secoli. Intanto l'insurrezione fu il principio iniziatore della nostra lotta; già dissi i risultati che seppe ottenere nel 48: tutte le più famose guerre nazionali s'appoggiarono ad essa, l'Olanda, l'America, la Grecia, la Spagna (sic). Nella guerra nostra del 59 [...] sebbene il Conte di Cavour avesse il giorno stesso -

91 ivi, pp. 165-166. .,_ ivi, pp. 166-167. 0 '· ivi, p. I 68.


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della battaglia di Magenta mandato un dispaccio a Milano con queste parole: Fuoco a tutte le miccie, si lavorò a tutt'uomo a nascondere anche le corde da far miccia; e le famose barricate del giorno dopo che i tedeschi erano in fuga, sono un trofeo nazionale degno di chi fa la guerra a Carlo Cattaneo94 _ La nostra insurrezione dunque - se così si può chiamare - dà ragione a quanto prevedeva Balbo nelle Speranze d'Italia (Vol. I - cap. XI). Queste parole del Guttièrez, se aggiunte agli scarsi ed edulcorati particolari da lui forniti sulle vicende che nel 1848 hanno visto protagonista e.o.e. portano a dare credito a quanto afferma il eampolieti, il quale accusa a chiare lettere il Guttièrez di aver omesso di "ricercare tutto quello che avrebbe potuto, e che ora è impossibile rinvenire o sapere" e di "aver disperso o soppresso una parte di lettere, di documenti e di notizie"95 • Lo stesso eampolieti - diversamente dal Guttièrez - documenta in modo sufficiente che cosa hanno fatto - e soprattutto che cosa non hanno fatto - i pochi volontari di Luciano Manara; mentre in quei giorni si succedevano rivo]te di città e diserzioni di soldati austriaci, cominciava da parte nostra l'inesperienza di tutti ad agire concordemente e razionalmente. Invece di usare quella intrepidezza così spontaneamente prodotta come lava di vulcano, per raccogliersi, cementarsi e nuocere al nemico molestandolo e togliendogli ogni ardimento e ogni speranza, si concedeva molto a cose di poca importanza, o dannose in quell' urgenza. E lentamente e discordi procedevano le cose, mentre tutti si affaccendavano a progettare, a discorrere e quasi a congiurar da settari: l'unica cosa che fossero avvezzi a fare gl 'ltaliani96 • Prevale, insomma, un concetto dilettantistico e declamatorio della guerra, tipico di chi non è prima di tutto psicologicamente preparato a farla sul serio; ad esempio non si pensa a far prigioniero e a tenere come ostaggio il duca di Modena, che passa da Milano con debole scorta. E per la logistica, basti ricordare che dal maggio all'agosto 1848 i volontari si sono spesso ridotti senza scarpe e che poterono vivere solo grazie al buon cuore - quando c'era - degli abitanti; per l'organizzazione e l'inquadramento, i piccoli nuclei usciti da Milano andarono ingrossando sino a raggiungere 500 uomini nella colonna Manara, 1200 nella colonna Arcioni, 800 nella colonna Torres. Erano in sostanza battaglioni. E invece i loro comandanti assunsero il nome e il grado di comandanti

94 ·

ivi, pp. 50-51.

., N.M. Campolieti, Op. cit., pp. 4-5. 96 ivi, p. 101.


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di divisione, con battaglioni di 100 uomini, compagnie di 20, tra i quali un capitano, un tenente, un sergente. Scrive nelle memorie di guerra il generale de Wet dei suoi commilitoni ufficiali, che fanciulli i quali avessero scherzato non potrebbero aver inventato niente di meglio per loro piacevolezza di quanto qualcuno di loro fece. E lo stesso è a dire degli Italiani del 1848 [ ... ]. Un giudizio consimile emette il colonnello Cecilio Fabris nello sUJdio poderoso che fa di quella campagna. Fra questi capi nacque poi una insulsa gelosia, e nei volontari si dimostrò grande indisciplina, quando occorreva la disciplina97•

Se il generale svizzero Allemandi, che prende il comando il 3 aprile, non si fa mai vedere dai suoi volontari e comanda solo con proclami e messaggi, il generale Durando, che gli succede, commette l'errore più grande che si possa fare con le truppe volontarie: ne distrugge il morale lasciando inattiva la colonna Manara a Monte Suello per oltre due mesi, "a marcire dalla noia, dallo stento e dallo strapazzo". L'unico addestramento che viene fatto (solo per pochi giorni) è qualche esercizio di piazza d'armi; e il Campolieti annota che le lettere di quei giovani alle famiglie fanno indispettire per la noncuranza e per l'imprevidenza che subirono. Costretti a mettere sino a 30 sentinelle per compagnia per notte, su luoghi elevati esposti a temporali, e coi panni portali <la Milano, senza più scarpe, né altro, ammalarono quasi tutti, sino a 50 al giorno. Una buona parte dei volontari, come risulta dalle loro lettere, chiedevano alle famiglie libri da leggere per non morire di noia. 98

Lo stesso C.D.C. chiede libri di economia politica; e il Campolieti ci tramanda un suo frammento incompleto, preparatorio per il libro Che cosa sia la guerra, nel quale egli condanna l'"ozio castrense": [Bisogna trascorrere - N.d.a.l in continui esercizi l'ozio forzato dei bivacchi; ben diversamente (ciò che non è difficile intendere) del generale Giacomo Durando che dopo aver comandato per tre mesi d'ozio continuo i volontari stanziati in Tirolo, li lasciò meno disciplinati, e s'era possibile, meno istrutti di prima99•

L'ultimo colpo ai volontari - e a maggior ragione a C.D.C. - è la resa di Milano il 6 agosto 1848, con i volontari ignari degli avvenimenti, lontani e dimenticati, che nulla possono fare, né per raggiungere l'obiettivo del Tirolo, nè per correre in aiuto della loro città. In questa occasione, la popolazione di Milano non dà certo prova di animus pugnandi, e come scrive il ivi, pp. 101-102. ivi, p. 110. .. Ibidem.. 97 98

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Baroni, "i milanesi dell'agosto, fortificati, armati, con più di 40 mila guardie nazionali e volontari, con un esercito sussidiario alle porte, con tutta la Lombardia che in massa accorreva in loro aiuto, con 20 mila volontari, che a tutto parati tenevano Como, Bergamo, Brescia e tutta la costiera delle Alpi, ignominiosamente e senza colpo ferire aprirono le porte all'austriaco"100. A questo punto, è facile comprendere perché questi infausti avvenimenti feriscono in modo grave e irreparabile l'animo di C.D.C. e distruggono letteralmente il suo entusiasmo. Il colpo è tanto più doloroso, visto che il 3 aprile 1848 scrive alla madre: "in meno d'ùna ventina di giorni sono a Milano, terminata la guerra" e che il 4 luglio 1848, in fondo alla citata lettera, aggiunge: "P.S. Se il pericolo cresce, presto siamo a Milano con Durando" 101 . Sono, con ogni probabilità, questi retroscena a esasperare il C.D.C., facendogli scrivere proprio contro i "soldati improvvisati" parole di fuoco che risultano espunte dal testo della prima edizione curata dal Guttièrez. Ciò è avvenuto, secondo il Campolieti, perché "tanto il Guttièrez quanto il De Cristoforis militarono esclusivamente tra i volontarii. E forse parve al Guttièrcz, che queste opinioni potessero più nuocere che giovare all'amico. Inoltre egli fu emigrato in Piemonte dopo il 6 febbraio 1853, ma non ne fu trattato bene, e non fu mai tenero con i Piemontesi"102. In effetti quanto scrive C.D.C. suona aperta condanna non solo per i volontari, ma per le insurrezioni popolari, la "guerra per bande" e la "nazione armata" di cittadini - soldati alla caldeggiate da Carlo Cattaneo sul mode11o svizzero. Le parole di C.D.C. soppresse nel testo della prima edizione del Guttièrez e citate dal Campolieti sono le seguenti: "L'uomo coraggioso non è ancora soldato; chi ha uniforme, armi e coraggio non ha per questo ancora diritto di chiamarsi col nobile nome di soldato. Senza esercito pennanente, che equivale a dire senza disciplina, non si ponno vincere battaglie difensive in luoghi forti; ed è per questo che mentre vediamo operar miracoli da una popolazione coraggiosa che si difende dietro le mura delle proprie case, il sesto giorno cacciato il nemico, sopra 30.000 uomini validi, vediamo uscirne 400 alla campagna [cosl é avvenuto dopo le cinque giomate - N.d.a.]. "Per cui io credo fermamente, io Milanese, quanto segue. La popolazione insorta in Lombardia nel marzo 1848 ha costretto da sola il maresciallo Radetzky a ritirarsi fino al Mincio, la linea dell'Adda non essendo più tenibile dopo la perdita di Brescia e di Cremona. Ma il maresciallo Radetzky non si sarebbe ritirato, dico, che alla pianura di Montechiaro, e non più in là. Credo fermamente che ivi (raggiunto come fu dal 2° corpo d'esercito, ancora intatto) riunendo la propria massa, ristorata di viveri, di munizioni e di riposo, in 15 giorni sarebbe

Cit. in N.M. Campolieti, Op. cit., p. 117. ivi, pp. 103 e 113. 12 " ·ivi, p. 120 Nota (1).

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rientrato in Milano. Se il maresciallo si ritirò sino a Verona, lo fece solo per non trovarsi colto dall'esercito regolare piemontese lontano dalla propria base d'operazione. Le trombe, per quanto ne dica il Capponi, han sempre fatto tacere le campane". "Chi vuol avere una chiara idea di ciò che è insurrezione popolare, legga Napier. Vedrà che senza la presenza degli Inglesi in Ispagna, le guerrillas sarebbero state prestam.e nte sterminate. Le truppe spagnuole più di fresca lena furono spesso più d'ingombro che d'aiuto all'esercito regolare, tanto che alla fin fine Wellington rifiutava d'agire con esse. "Il popolo era volonteroso di prender le armi, e sarebbe stato facile di formare parecchi battaglioni di fanteria. Ma Senhonbery (si noti allora il primo capitano d'Europa), che poco s'aspettava da soldati appena tolti all'aratro, ma temeva che se la spedizione non poteva riuscire, senza tal aiuto non sarebbe riuscito del tutto. E Guglielmo concorse in questa opinione" (Macaulay, Hist. of England, spedizione d'Irlanda 1690). Con soldati volontari mentre rintonano le campane e s'arrolano gli studenti, fosser per tutti coraggiosi come Giuda Maccabeo, vincerete una battaglia, e perderete la campagna. L'esercito è la spada del capitano; vorreste voi avere una spada esaltata". <1> "Presto appare che paesani e cittadini benché valorosi sono incapaci di tener terreno contro soldati veterani la cui vita intera è una preparazione pel giorno della battaglia, i cui nervi sono stati asserviti da una lunga familiarità col pericolo, ed i cui movimenti hanno tutta la precisione di un orologio (Macaulay)". <2> <1> (Nota del Campolieti). Che cosa sia la guerra. (Milano, Barbini 1868, p. 326-7). Le parole da ed è per questo sino alla fine del brano, sull'autografo, conservato al Museo del Risorgimento di Milano, sono cancellate in modo deliberato da non farvi comprendere lo scritto. Si vede benissimo, che le cancellature non furono dell'autore, e si deduce, che deve averle fatte il Guttièrrez, per le seguenti ragioni. In primo luogo non ebbe in mano l'autografo altri che lui. E poi si determinò a pubblicare le parole che vanno da ed è per questo sino a uscirne, non avrebbe ricopiato una parte sola di quelle parole, che sforzando molto la vista, e con la lente si riesce a gran pena a decifrare. La ragione di questa, e di altre arbitrarie soppressioni, io credo che sia il fatto, che tanto il Guttièrez quanto il De Cristoforis militarono esclusivamente tra i volontari. E forse parve al Guttièrez, che queste opinioni potessero più nuocere che giovare all'amico. Inoltre egli fu emigrato in Piemonte dopo il 6 febbraio I 853, non ne fu trattato bene, e non fu mai tenero coi Piemontesi. <2> (Nota del Campolieti) Questo brano fu soppresso interamente ed è cancellato sull'autografo. Va a p. 218, dopo le parole: ''Non era la esaltazione, era il suo effetto tattico Oa disposizione per masse) ciò che dava la vittoria ai repubblicani del 1792; e la nuova tattica avrebbe vinto, anche senza esaltazioni" 103•

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ivi, pp. t 19-121.

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Nel 1859, alla vigilia della guerra, C.D.C. scrive al Guttièrez: "la mia preferenza sarebbe di nùlitare con Garibaldi perché sarei sicuro di battermi presto (quale divinazione!) ma ad una condizione: che il corpo sia costituito su esatta disciplina" 104. Implicita critica al "garibaldinismo", pienamente coerente con le idee prima espresse. Subito dopo, vedendo la sua "condizione" non soddisfatta, chiede di entrare ne11'esercito sardo, ma la sua domanda non è accolta, facendone un ''volontario per forza". Accade, cosi, che il volontario C.D.C., paradossalmente considerato un sovversivo dai generali piemontesi, ancor più di questi ultimi e dello stesso Balbo è in realtà fautore esclusivo dei grossi eserciti permanenti a lunga ferma, il più possibile numerosi anche in tempo di pace. All'inizio del capitolo XII, infatti, C.D.C. - capovolgendo talune sue precedenti affermazioni sulla guerra di masse di soldati improvvisati che avrebbe generato il principio, e non viceversa - presenta gli eserciti permanenti di leva come riflesso dell'introduzione del "nuovo" principio della massa: quando l'introduzione del principio nuovo della guerra rese indispensabile una mobilità ed una compagine di massa assai maggiore che nella guerra antica, il cittadino non poté più dall'oggi al domani diventar soldato, non si trattava più di difendere il suolo, ma di muoversi in cerca dell'esercito che assaliva e di prevenirlo nella agglomerazione di una massa preponderante sovra il punto decisivo; - più non importò adunque avere precisamente i più valorosi, ma i più pazienti; bastò ancora, è vero, per essere prode di mano, saper smuovere in grilletto e maneggiare il leggero fucile, ma bisognò di più essere atto a lunghe e lontane fatiche e marce. Fu adunque necessaria una lunga e preventiva educazione fconcezione opposta a quella di Carlo Cattaneo - N.d.a.], e il mestiere di soldato si specializzò non più in famiglie o caste, ma in individui. Come all'apparire della polvere era già scemato il bisogno del valore personale, così ali' apparire del nuovo principio che richiedeva masse di gente educata all'uopo, non vi furono più volontari, ma coscritti'"'. Il concetto di disciplina di C.D.C. è legato a queste nuove esigenze della guerra. Il coscritto appena arrivato al deposito, per diventare soldato deve prima saper obbedire, deve cioè essere disciplinato: la disciplina è obbedienza cieca dell'inferiore, e se volete esagerar la cosa per avere un'idea ancor più netta, dite che il soldato è una macchina che si muove a parole. Vi sono molti a cui questo ripugna, e che negano la disgustosa necessità dell'obbedienza cieca (appunto perché la trovano disgustosa).

'°' G. Guttièrez, Op. cit., p. 229.

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·C. De Cristoforis, Op. cit., p. 172.


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Ma quei molti che non hanno mai abitato una caserma, o sono cattivi cittadini, che quando si tratterà di decidere sui campi le vecchie questioni della giustizia offriranno alla nazione un esercito impotente dimenticano che secoli di pace non possono cancellare un giorno di battaglia perduta. Bisogna prendere gli uomini come sono. Gli uomini si conducono più col terrore che con l'amore. "I declamatori che raccomandano la debolezza e l'indulgenza per il soldato, raccomandano la corruzione degli eserciti e delle città. L'ingiustizia sola nuoce in tutti i tempi, ed i soldati si dorranno più d'un ingiusto perdono che d'un meritato castigo". Sapete chi scrisse cosl? Foscolo. Giustizia - nulla di più, nulla di meno. Nella disciplina non è a guardarsi né a severità, ne a dolcezza. Questi sono elementi estranei alla giustizia, quindi estranei allo scopo 106 • Dalla necessità della disciplina è nata l'altra degli eserciti pennanenti. Infatti l'esperienza - prosegue e.o.e. - non ha solo dimostrato la necessità della disciplina; ha dimostrato anche che l'ubbidienza cieca e immediata, la quale mantenendo ogni soldato al suo posto impedisce che la mas sa ondeggi sul campo di battaglia, "non si ottiene che per la lunga abitudine interiore" . 107 L'educazione vera richiede perciò molto tempo: si crede facilmente che bisogna educare il soldato, ma si crede già però che tale educazione consista nell'esercizio del fucile e nella conoscenza della manovra - qui sta l'errore. La parte più difficile e più lunga dell' educazione militare non è l'educazione delle braccia e delle gambe, ma l'educazione della testa (idea dell'ubbidienza, del1'onore, della solidarietà). È perciò che si dice che per fare un buon soldato ci vogliono quattro anni; bastasse conoscere la manovra del fucile mi proporrei di fare buoni soldati tutte le guardie nazionali di quel paese che volete, in quattro mesi [ .. .]. L' errore comune di voi che parlate di milizia, senza aver servito, è adunque di credere che il . soldato di leva sia un uomo intelligente quanto voi e me. Ben altro. Come tutti gli spiriti rozzi, non è capace di ricevere idee se non gliele fate penetrare sotto una forma. È cosl che l' idea della collettività (spirito di corpo, onor di bandiera, fiducia) non penetra nella sua testa se non per mezzo del tocco del tamburo, che ha fatto levar insieme il gamellino della cucina a tutto il reggimento durante quattro anni di seguito. È cosl che l'idea della disciplina non penetra nella sua testa che attraverso il lucido dei bottonit08 • Non basta l'entusiasmo [tipico delle formazioni volontarie - N.d.a.] per ottenere grandi risultati. In guerra vi sono due fasi: la preparazione e la lotta effettiva. L'entusiasmo va bene per la preparazione, ma assai raramente è cosa buona per "la lotta lunga, paziente, faticosa, fatta più di marce e disagi "'"·ivi, pp. 174-175. 101 · ivi, p. 178. "..·ivi, p. 179.


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che di combattimenti": una volta iniziata la campagna, serve più la pazienza che l'entusiasmo. La disciplina e l'esercito permanente sono una necessità per vincere: sono un male per altri aspetti, ma un male necessario per chi deve combattere. Quindi armarsi bisogna, perché vincere bisogna; e non si tratta di togliere gli eserciti, ma la ragione degli eserciti. Ma voler soldati - cittadini, è non voler né soldati né cittadini; non v'è transazione possibile - il giusto mezzo, il mezzo termine del soldato - cittadino (insulso come tutti i mezzi rimedi) è consiglio di gente che vuole il fine, la vittoria, e rifugge dai mezzi. Respingere il rimedio perché il rimedio è amaro, è agir da bambini; è consiglio di gente che non sa che quando s'è fatto un esercito s'ha quasi fatta una nazione'00•

Discende da questo concetto anche un duro attacco a coloro che caldeggiano la "nazione armata" sul modello svizzero. A costoro è a rispondersi in una parola: l'ordinanza svizzera è buona in Svizzera. Ed è ancora concedere assai, perché sebbene le difese naturali possano bilanciare in Svizzera l'assenza di istruzione e la poca disciplina, uomini di lunga esperienza e speciali, Rudtoffer, Unger ed altri, sostengono chè "la Svizzera senza esercito permanente non potrà mai impedire il passaggio di truppe straniere sul territorio". Fu infatti invasa nelle ultime guerre [quelle napoleoniche - N.d.a.] da Francesi, Russi, da quanti vollero, appunto come l'Italia che non aveva soldati affatto. Un ufficiale svizzero mostrando i 130 pezzi d' artiglieria che stanno nell'arsenale federale, diceva a un ufficiale piemontese: "Noi abbiamo, è vero, i pezzi, ma non abbiamo chi sia capace di servirli" ed aggiungeva poi: "Di 100.000 uomini che può armar la Svizzera, solo 10.000 resisterebbero, e di più, ben inteso, contro un altro esercito svizzero" - Né qui si parla di valor personale, si parla di organizzazione: [...] gli stessi uomini formano un buon esercito, e ne formano un cattivo a seconda dell'organizzazione 110 •

Anche il sistema di reclutamento prussiano (basato su un esercito a larga intelaiatura con breve ferma generalizzata, che in caso di mobilitazione viene completato con una massa di richiamati) secondo C.D.C. " fu nelle guerre del 1848 e 1849 riconosciuto insufficiente a creare un esercito di buoni soldati, cioè di uomini perfettamente disciplinati e istruiti e capaci di sopportare le fatiche di una lunga guerra". Più in generale, C.D.C. afferma che le classi richiamate - e in particolare le più anziane - sono quelle che danno il minor rendimento in guerra, e lo ha dimostrato anche la guerra del 1848 - 1849111 •

'"'· ivi, p. 183. 0 " ivi, p. 181 111 · ivi, p. 182.


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Sempre a proposito di reclutamento C.D.C. esclude, per ragioni morali, la pratica della surrogazione, perché la coscrizione senza surrogazioni e privilegi è un mezzo d'unità e ricchezza nazionale, "nuovo lato pel quale il principio delle masse tocca non solo all'essenza della civiltà nostra, la solidarietà, ma alla sua causa stessa: "la produzione specializzata". La facoltà di surrogazione esclude dall'esercito le classi più intelligenti; con un · esercito che ammette le surrogazioni è possibile un colpo di Stato, mentre solo con un esercito che le vieta è possibile "il godimento di un'armata libertà". C .D.C. loda peraltro il sistema prussiano di reclutamento regionale, diverso da quello francese che sparge le reclute di una stessa provincia in tutti i reggimenti. Infatti, una delle maggiori spinte al valor militare è l'onore; ma quando il soldato francese che abbia ben combattuto torna al suo villaggio, non vi trova i testimoni del suo valore. "Il soldato resta quindi meno legato al proprio reggimento, che ordinariamente porta di più il nome della provincia, e si scema lo spirito di corpo fondamento dell'unità, fondamento dell 'amor della bandiera, sangue e nervo della massa (ch'è forza più morale che meccanica), sua vita nei momenti del pericolo o nei giorni d' infortunio" 112 • Pur criticando tutti i vari sistemi di reclutamento e mobilitazione del tempo, C.D.C. non suggerisce una formula precisa: osserva solo che i] passaggio dal piede di pace al piede di guerra è difficile soprattutto per le Armi che hanno bisogno d'istruzione maggiore. La mobilitazione deve però avvenire per tutte le Armi nello stesso spazio di tempo, perché la fanteria non può combattere senza cavalleria, artiglieria o treno. Considerazioni abbastanza ovvie e generiche, che tra l'altro ammettono ciò che C.D.C. non vorrebbe ammettere, cioè la necessità di completare in ogni caso con richiamati le unità dell'esercito permanente sul piede di pace. Meno ovvia, invece, l'affermazione che fin dal tempo di pace devono essere in servizio nei reparti tutti i comandanti delle unità-chiave previste per il tempo di guerra, cioè tutti i capitani, tutti i maggiori e tutti i colonnelli; si deve però mantenere alle armi in pace "il minor numero possibile di generali di brigata, affinché la guerra abbia a lasciar luogo alla capacità riconosciute - nessun generale di divisione; quattro soli divisionari iJpettori per le quattro Armi" 113 • Seguono interessanti valutazioni critiche sul vestiario, 1'equipaggiamento, l'armamento e l'amministrazione del soldato, tutte improntate a un aureo concetto: così c·o me le manovre, anche tutte queste branche, così come il servizio e l'amministrazione interna di compagnia e di caserma, devono essere improntate al principio che la pace deve essere l'immagine della guerra. Ne consegue che il vestiario e l'equipaggiamento, "sovracca-

112 ·

ivi, p. 174. mivi, p. 190.


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richl di inutilità che dopo tre giorni di campagna si logorano o si gettano", dovrebbero ridursi al solo necessario per la guerra: ne verrebbe diminuito il peso che deve trasportare il soldato da 12 a 14 chilogrammi. In particolare, "la norma igienica dell'abbigliamento è che la parte superiore del corpo sia tenuta fresca, e calda la parte inferiore. La norma militare è che lo stesso abbigliamento serva al soldato, senza alcun cambiamento, tanto in pace che in guerra, e che per raggiustarlo e tenerlo in buon aspetto abbisogni una ridicola moltitudine di operai". L'abbigliamento degli ufficiali, invece, deve essere tale che a 200 passi si confonda con quello del soldato e visto da vicino "appaia riccamente abbigliato". Infatti "l'uomo è cosi fatto, che l'abito ricco è mezzo di disciplina; il soldato rispetta anche l'abito". Prima del combattimento il soldato deve abbigliarsi nel modo migliore, perché ciò eleva il suo morale ed è segno di rispetto per il nemico; però le spalline - che in origine servivano a proteggere il combattente dai colpi di sciabola - sono ormai inutili e devono essere abolite anche per gli ufficiali, perché è controproducente per il morale della truppa vedere gli ufficiali che se le tolgono prima del combattimento, per non essere individuati dal nemico. Molto severo il giudizio di C.D.C. sui fucili per fanteria leggera e sullé carabine al momento in dotazione nei vari eserciti, che non possono essere considerati armi da guerra perché sono troppo delicati, vanno bene al più per sparare da fermo senza mai muoversi e richiedono troppo tempo per il caricamento: fa eccezione il fucile inglese (modello Pritchett sistema Minié), la migliore arma sia per la fanteria di linea che per i bersaglieri. Abbiamo già notato che uno dei lati più deboli delle teorie di C.D.C. sulle formazioni di combattimento della fanteria è la mancata valutazione della crescente efficacia del fuoco, che rende anche la formazione della fanteria su due righe sempre più vulnerabile. Egli invece si preoccupa maggiormente delle asperità del terreno che possono ritardare o ostacolare l' adozione delle formazioni regolari, e ritiene che il problema vada risolto non cambiando le formazioni stesse, ma aumentando i bersaglieri, perché la composizione degli Eserciti varia in Europa ogni trent'anni col variar dell'agricoltura e col crescere della civiltà; come compiere oggi prestamente, serrati e con ordine geometrico, conversioni o grandi spiegamenti quando ad ogni passo la riga incontra la siepe o il fossato, che indicano la suddivisione crescente della proprietà o le meraviglie dell'irrigazione?114. Riguardo ai servizi interni di caserma, e.o.e. giudica "assolutamente assurdo" il sistema piemontese che obbliga l'ufficiale a rimanere tutto il giorno in caserma a stretto contatto coi soldati, perdendo gran parte della sua autorità morale, perché in questo modo "l'ufficiale, che non dovrebbe '"·ivi, p. 189.


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comparire in compagnia che per premiare o punire, è ridotto al mestiere di sergente", né gli avanza tempo per lo studio: "non parlo dello studio a tavolino, ma di quello che si fa vivendo e conversando con chi sa, e parla meglio di noi". Si dovrebbe anche pagare meglio gli ufficiali, perché "una paga conveniente è parte dell'autorità, è parte dell'educazione". e.o.e., che è stato in Inghilterra e conosce l'esercito inglese, ritiene che il modello inglese sia il più valido, perché l'ufficiale - che rimane lontano dalla truppa e non si occupa dell'addestramento e della vita di caserma ma è "gentiluomo di atti e pensieri" - è riconosciuto "istintivamente per superiore" dal soldato medesimo. [Ma dov'è, a11ora, ]'"attività" tanto caldeggiata da C.D.C.? L'inglese non è l'italiano, né in alto né in basso - N.d.a.]. Molto più centrate e attuali, invece, le critiche di e.o.e. al complesso di minute norme che regolano o meglio soffocano la vita di caserma specie negli eserciti piemontese, francese e austriaco, perché tali da non poter essere osservate in guerra, con dannosi riflessi morali sulla truppa: come avanti al nemico l'ufficiale piemontese potrà compier il servizio meridiano della gamella e della cucina a cui abituò per trent'anni di pace il soldato? Come potrà fare le abituali ispezioni il caporale austriaco? - Noi potranno certamente, né alcuno mai penserà a comandare che lo facciano - ma allora che penserà il soldato? Quello scemamento di sorveglianza non lo disporrà a prendersi maggiori e dannosi arbitrii? - Come potrà il furiere conservare in campagna quella portentosa quantità di libri e registri prescritti nella pace? E l'aiutante maggiore francese [ma anche quello piemontese e italiano - N.d.a.], potrà compilare le meravigliose situazioni quotidiane impostegli nelle caserme? E quando la routine della pace sia sconvolta, non si troverà allora il contabile disposto a malversare, e il superiore meno atto a verificare? E come il soldato potrà reclamare, e il capitano sorvegliare, se i modi di amministrazione del furiere diventano a un tratto (e appunto nel momento in cui la chiarezza si fa più necessaria) necessariamente nuovi e necessariamente arbitrari, perché i modi abituali della pace sono impraticabili? [... ]. Non è perciò buona amministrazioni di compagnia quella che non può stare nel sacco del furiere 115 •

Analisi complessiva: un'opera utile ma non nazionale, frutto di studi settoriali e incompleti e di troppo breve esperienza militare

Carlo De eristoforis: un dotto ufficiale dei volontari che, per reazione a infelici esperienze personali, ritiene si debba comandare con il terrore, non crede ai volontari, né alla "nazione armata" né alla guerra per bande, ed è fautore convinto degli eserciti permanenti, per la semplice ragione che solo con personale a lunga ferma si può infondere nei ranghi la vera '

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ivi, pp. 198-199.


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disciplina e ottenere la mobilità, la pazienza, la persistenza degli sforzi per realizzare la massa e così vincere non solo le battaglie, ma la guerra. Un fatto assai anomalo, che assomiglia a un "pentimento" e va attentamente valutato. Di lì a pochi mesi, Garibaldi lo avrebbe - almeno all'apparenza smentito: con un pugno di quei "soldati improvvisati" da lui tanto disprezzati, avrebbe avuto ragione di un agguerrito esercito a lunga ferma - dove non mancavano cervelli militari di prim'ordine - come era quello napoletano. Ma si sarebbe estremamente superficiali, se non si replicasse subito a possibili e troppo facili critiche ricordando le molteplici circostanze che hanno favorito il successo dell'impresa garibaldina nel 1860, così come in altre e più numerose occasioni hanno votato al fallimento imprese analoghe. E la leadership e i reggimenti napoletani, possedevano forse - nella misura necessaria - i requisiti morali e materiali che e.o.e. riteneva essenziali per la vittoria, a co.minciare da quella che egli chiama "organizzazione", dalla disciplina, dalla motivazione? Troppo facile sarebbe anche contestare a questo autodidatta militare che studia sotto la minaccia del capestro, costretto a istruirsi come può fuori d'Italia e su testi stranieri - talune ingenue formulazioni teoriche, tutt'altro che frutto di serena e meditata analisi. Il suo concetto di massa e di punto decisivo è contradditorio e ancor di più di quello di Jomini non esce dal1' ovvietà, perché pare indiscutibile che bisogna saper anzitutto distinguere, in qualsivoglia problema, cioè che è più importante e ciò che lo è meno, e concentrare le energie su ciò che è più importante: è una necessità della vita, non della strategia. Anche la pretesa di far entrare sempre e ovunque, nel passo del soldato come nella figura del capo, il principio generatore e unico della massa, in parecchi casi non regge: e che dire della carente visione pratica del combattimento di fanteria, della malaccorta insistenza sulla necessità di soccorrere i feriti solo al termine del combattimento per non guastare la massa, del già allora inaccettabile concetto di disciplina e del rapporto gerarchico? i dodici principi ai quali accenna, quali sono e in che misura sono riferibili a quello della massa? A queste cadute su aspetti importanti, vanno contrapposte le tante buone, moderne e attuali idee delle quali è costellata l'opera, e che ne fanno - almeno per chi sa ben distinguere il grano dal loglio - un libro utile e interessante anche oggi. Nè può essere trascurato che aspetti di dettaglio errati o arretrati del suo pensiero denotano solo carente esperienza pratica, perché stranamente discendono da criteri generali acuti, moderni e condivisibili, come ad esempio quello che nessun schema fisso è possibile adattare sul campo di battaglia, e quello della crescente importanza del fuoco e della decrescente importanza della cavalleria. In sostanza, come spesso accade nelle creazioni artistiche, gli obiettivi principali, i significati che l'autore cerca (ciò che vuoi dimostrare insomma) in Che cosa sia la guerra non sono raggiunti o sono raggiunti solo in parte : ma, in compenso, durante il cammino l' autore - lo voglia o meno - fa


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venire alla luce gemme preziose, che compensano la caducità di quelli che l'autore vorrebbe indicare, senza riuscirci, come caratteri e pregi della sua ricerca. Che cosa sia la guerra è dunque un libro che non scopre, di primo acchito, i suoi aspetti positivi. Un libro che va correttamente interpretato e giudicato con le più idonee chiavi interpretative, che nella fattispecie sono quattro: a) la reazione di un cuore appassionato alle amare esperienze del 1848 e del 1853, dove l'autore viene letteralmente e visibilmente trauma~ tizzato dalla disunione, dal disordine e dall'indisciplina, dalla scarsa preparazione ecc.; b) la breve esperienza militare dell'autore (solo con truppe volontarie).; c) C.O.C. non conosce bene gli eserciti permanenti, perché non ha potuto viverne la vita quotidiana: quindi tende ad attribuire loro più virtù - e meno difetti - di quanti ne abbiano, specie sotto l'aspetto morale e disciplinare; d) la sua incompleta e unilaterale formazione culturale, su opere d'oltralpe e in scuole d'oltralpe, tra ufficiali d'oltralpe, a sfondo matematico e proiettata sulla problematica della fortificazione e delle Armi dotte. Solo in questo modo si può spiegare perché e.o.e. dice cose più sensate e durature ragionando di artiglieria, cavalleria e fortificazione, piuttosto che di combattimento e formazioni di fanteria; solo in questo modo si può spiegare l'ottimistico quadro della logistica di Napoleone; solo in questo modo, e solo in un animo esacerbato dalle conseguenze della disunione e dell' indisciplina, può infine nascere l'autentica ossessione per la massa, da lui intesa soprattutto come unione preventiva, coesione, concordia, unità, autonomia del generale, unicità di comando e indirizzo, disciplina delle intelligenze, preparazione alla guerra (cioè all'unico scopo del1'esercito) ecc ... Un ufficiale russo, cioè della nazione ove più forti erano le differenze sociali, scriveva nel 1852 che le punizioni disciplinari devono tener conto dei tempi e dello stato della società, e che, comunque ''un esercito composto da uomini che fanno il loro dovere solo per timore di punizioni, porta con sé un principio di disorganizzazione, che ha la sua origine nel principio stesso che lo fa obbedire", per la semplice ragione - egli afferma - che dopo qualche mese di guerra le punizioni non bastano più per mantenere la disciplina116: esattamente l'opposto di quanto sostiene e.o.e. Ciò che dice l'ufficiale russo si trova di frequente anche in altri trattati, francesi e non, del tempo: se, dunque, C.O.C enuncia - è, forse, questa la caduta maggiore della sua opera teorie del genere sulla. disciplina, è solo per reazione uguale e contraria di fronte a proprie infelici esperienze; lo stesso può dirsi della sua ammirazione per i duri metodi disciplinari inglesi e per il modello di ufficiale inglese, adatti all'indole di quel popolo e al particolare sistema di reclutamento. In tal modo, sfugge a e.o.e. - forse perché è esasperato dalle regole del servizio

11 •-Ètudes sur l'art de la guerre par un officier russe, Paris, Librerie Militaire Dùmaine 1852, p. 123.


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di caserma piemontese o austriaco, da lui giustamente condannati - che specie in Italia vale soprattutto la particolare e istintiva abilità del comandante di vaglia di saper essere opportunamente presente o assente, a seconda dei casi e delle situazioni. La figura morale di C.D.C., gli elevati sentimenti e gli ideali che lo ispirano come tanti altri giovani della sua generazione, il coraggio e la determinazione che dimostra anche di fronte alla minaccia del capestro austriaco meritano di essere riproposte alle nuove generazioni digiune di ideali: ma ciò non toglie che, da un punto di vista storico e strettamente tecnico-militare, non bisogna farsi influenzare troppo dall'alta figura morale dell'autore. Mai come nel caso di Che cosa sia la guerra si rivela la necessità che il critico abbia ben chiari, nel suo bagaglio teorico, i caratteri e le linee di tendenza del pensiero militare europeo - e francese e italiano in particolar modo - coevo e della Restaurazione; le varie teorie vanno poi confrontate con gli avvenimenti italiani del 1848-1849, che non solo nel caso delle idee di C.D.C. sono un autentico banco di prova che inesorabilmente distrugge illusioni e speranze, insieme con molte teorie che ne sono figlie. In altre parole, nel 1848-1849 vengono inevitabilmente alla luce gli italiani - e le loro espressioni militari - così come sono, non come dovrebbero o potrebbero essere. Bisogna dare atto a C.D.C. di essere stato trai pochi a capire questo e a trarne - sia pure a modo suo - le conclusioni, nonostante i suoi ideali e la fede ardente che lo anima e mai lo abbandona. L'ossessione nella vita e nell'opera - per l'azione, per l'attività, per i fatti insomma e non per le vuote parole, dimostra che egli dopo tutto sente esattamente ciò che è più importante e che ai suoi tempi rimane solo speranza sempre smentita dalla realtà: che gli italiani agiscano tutti insieme e accettino quella severa disciplina di guerra che proprio per loro è estremamente necessaria, visto che da sempre sono un popolo diviso, privo di vocazione e tradizioni militari, tendenzialmente poco docile. Per questo accanto alle criticabili insistenze su un concetto antiquato di disciplina, va pur considerato che egli sottolinea molto la necessità che il comandante sia soprattutto giusto, cosa alla quale gli italiani sono particolarmente sensibili; e non si stanca mai di ripetere che addestramento, vestiario, logistica, amministrazione, armamento ecc. ecc. devono essere dimensionati per le esigenze della guerra, e non per quelle della pace e della parata: cosa alla quale gli italiani erano (e sono) particolarmente restii. Questo cuore, italiano come pochi, è fin troppo immerso nella cultura militare francese, inevitabilmente e prevedibilmente jominiana, quindi amante del metodo, della logistica, della razionalità, della disciplina, della preparazione accurata e del livello medio, che fanno premio sul genio del Capo e sullo spirito combattivo dell ' esercito esaltati invece da Clausewitz come fattori di vittoria. Ma ancora una volta, C.D.C. mostra di ritenere che gli italiani, poco disciplinati e poco portati a una preparazione seria e accurata, a un metodo insomma, abbiano bisogno di tutto ciò che deriva dal1' impostazione teorica Jominiana.


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In definitiva, il paradosso di un volontario e di un mazziniano più realista del re, sostenitore più di Balbo e di altri di un modello militare corrispondente alla "guerra regia", è più apparente che reale. Né si potrebbe seriamente rimproverare a C.D.C. - nella prima gioventù mazziniano sia pure sui generis e più volte protagonista di congiure, progetti e moti insurrezionali - di non essere mai stato un sostenitore della guerra per bande e delle insurrezioni mazziniane: se non lo è stato, come minimo la storia gli ha dato ragione. Si devono accettare con molto rispetto le opinioni di uno dei non molti italiani che avendo effettivamente partecipato con coraggio e rischio personale ai tentativi mazziniani, proprio per questo ha potuto considerare attentamente le ragioni della loro mancata riuscita militare. Mancata riuscita militare che però - alla resa dei conti - non è stato un completo fallimento, ma ha dato anche dei frutti politico-sociali. Riferisce il Guttièrez che, alla vigilia della guerra del 1859 e dopo i ripetuti e costanti fallimenti delle insurrezioni italiane, C.D.C. esclama a un convito: "Mazzini? Grande Cittadino, al quale gli Italiani devono riconoscenza e rispetto: noi vediamo oggi le conseguenze anche del 6 febbraio" [cioè della fallita insurrezione di Milano del 1853, alla quale partecipa anche C.D.C. - N.d.a.) 117 • Giudizio solo apparentemente contraddittorio, da parte di un sostenitore convinto della guerra fra eserciti regolari in campo aperto. Perché? lo spiega lo stesso Guttièrez: la vita d'un uomo, e tanto più d'uomo politico che agisce da quasi mezzo secolo [cioè Mazzini - N.d.a.], non la si giudica giorno per giorno ma in tutt'intera l'epoca in cui visse ed operò. Che risulta? quale è il sonunario finale? che quest'uomo mantenne l'Italia irrequieta, in stato di protesta e minaccia; risulta che tutti i suoi tentativi, dei quali spariscono i dettagli e le proporL.ioni parziali, visti nel loro complesso, rivelano un gran principio, una gran mente e più di tutto un gran carattere [ ... ]. E il tentativo più pazzo., l 'impresa più avventata., il 6 febbraio [1853 a Milano], fu il fatto più gravido di conseguenze. Fu per esso che si accrebbero le persecuzioni in Lombardia, e che quindi si diffuse più generale l'odio contro l'Austria [ ... ] fu esso [ ... ] che suscitò le ostilità dirette col Piemonte, che mise il mondo politico in tale agitazione, che finalmente un'altra sfera di uomini politici "non demagoghi, non rivoluzionari esaltati [ ... ] ma bensì statisti che seggono a ·capo dei loro Governi, uomini insigni, avvezzi a consultare più le voci della ragione che a seguire gli istinti del cuore" (Cavour, seduta del Parlamento piemontese del 6 maggio 1856), quest'altra sfera di uomipi si accorse che l'Italia era in una condizione anomala ed infelice ! Ce ne volle! " 8

Per C.D.C. , dunque, i moti mazziniani hanno svegliato le coscienze degli italiani e vanno apprezzati per i loro riflessi morali, sempre presenti 117 G. Guttièrez, Op. cit, p. 169. "' ivi, pp. 171-172.


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e incombenti anche nelle più radicali e meno condivisibili tesi del libro. Questo vale, in fondo, anche per il giudizio critico di e.o.e. non tanto sulle grandi, naturali doti di Capo militare di Garibaldi, ma su quello eh' egli considera il lato debole e meno condi visibile dei suoi metodi. Scrive, in merito, il Guttièrez che, nella campagna del 1859 alla quale partecipa come comandante di compagnia volontari agli ordini di Garibaldi, l'anima ardente e avventuriera di C.O.C. dovette sentirsi nel suo elemento; non così la parte intellettiva e razionale del suo spirito, che s'era applicato per lunghi anni a studiare la guerra e che avrebbe voluto ritrovare in essa anche le sublimi emozioni che sa dare la scienza[...]. Pare dunque ch'ei disperasse in quel genere sparpagliato e senza norma di combattere [peraltro l'unico possibile per truppe poco disciplinate e addestrate - N.d.a], di subordinare il sentimento alla parte intellettiva. Aveva scritto già a me da Ivrea "buona volontà, istruzione nessuna" e a Varese fu udito esclamare "Che maledetto modo di far la guerra!". Egli, rigoroso estimatore della disciplina, dotto in matematica, in topografia, nel genio, conoscitore profondo delle manovre, di strategia f ...] dovette trovarsi fuori del suo centro d'intellettuale attività in mezzo al disordine, all'incertezza, all'inesperienza di poche miglia di volontari con pochissimi ufficiali veramente istruiti. 119 Come lo stesso Guttièrez, e.o.e. non accetta il principio che la disciplina delle truppe volontarie è cosa ben diversa da quella delle truppe regolari. Con ogni probabilità, in merito e.o.e. era della stessa idea dei Guttièrez, che dopo aver ricordato che le tre principali qualità di condottiero di Garibaldi - l'impeto, la velocità, il prestigio sopra il nemico corrispondono alla più pura tradizione classica, osserva: la vittoria è per tre quarti nelle sue mani; vi si aggiunga la scienza, e quella non sarà solo gloriosa, ma utile. Si danno a Garibaldi pochi soldati, mal disciplinati, male in arnese, peggio armati: è tutto il rovescio di quanto si dovrebbe fare, perché il concetto supremo della guerra in Italia ancora non si comprende. A Garibaldi, che eminentemente possiede le qualità morali della guerra, perché non dare invece gli istrumenti più perfetti? 120• Una cosa, però, va qui ben chiarita e sottolineata: che quella scienza in qualche modo posseduta da e.o.e. e non posseduta da Garibaldi, non è e non può essere nazionale. Non lo è per necessità, non tanto per scelta: e.o.e. prende ciò che cerca dove e come può, e - da buon autodidatta militare - lo elabora come può. È assente in lui il richiamo all'antichità

119 •

ivi, p. 244 e 248.

t2!1.ivi, p. 245.


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classica, alla nostra storia nazionale, che rendono cosl palpitanti altri scritti più o meno coevi, come quelli del Foscolo, del Grassi e del Pisacane. Il mondo militare di C.D.C. comincia con la Rivoluzione Francese: un limite teorico, storico, tecnico - militare ma non morale, perché anch'egli vorrebbe ardentemente ciò che prima di lui hanno voluto il Foscolo, il Grassi e tanti altri. La sua opera, al tempo, sarebbe stata assai utile per i subalterni di qualsiasi esercito, perché - al di là dei limiti teorici - almeno l' obiettivo di fornire un "metodo pratico di studio" agli ufficiali più giovani e inesperti viene raggiunto, e l'opera si mantiene positivamente lontana da questioni teoriche che hanno poca importanza per i Quadri inferiori. Ciò non toglie che essa sia italiana, ma non nazionale: per la semplice ragione che ha cercato nelle scuole, nella storia e nella cultura militare francese - non in Italia - le sue basi teoriche, né riesce a dare -loro una veste, un carattere specificamente nazionali. Per il resto, vale quanto afferma il Campolieti: "Egli non volle fare un trattato, perché sentì di non conoscere le battaglie e la guerra, se non dai libri" 121• Che questo sia vero lo dimostra la sua fine, nella quale accanto ad un encomiabile valore, mostra il limite maggiore delle sue teorie: quello di continuare a ritenere che la formazione serrata e l'attacco alla baionetta di per sé equivalgono a una corretta applicazione del principio della massa e dell'offensiva.

Conclusione. Carlo De Cristoforis nel pensiero militare coevo e successivo: ragioni della scarsa aderenza di molte valutazioni critiche Nello stesso anno 1860, dopo la liberazione di Milano compare sul Politecnico 122 una recensione non firmata (dello stesso Carlo Cattaneo) riferita non a Che cosa sia la guerra, ma al valore morale del libro del Guttièrez per la gioventù e soprattutto alla vita e alla mente di C.O.C.: delle idee di quest'ultimo, e di quelle del Guttièrez, si dice solo: "Guttièrez intrecciò ai pensieri dell'amico i suoi. Non accetteremo tutti i suoi, né tutti quelli dell'amico suo. Riprova egli [ancor di più C.O.C. - N.d.a.] l' armamento svizzero; ma ciò che propone a riforma della guardia nazionale, è appunto una parte dell'istituzione svizzera; bisogna prenderla tutta; e anche andar più innanzi": tutto qui. Riprenderemo in esame le teorie del Guttièrez su questo e altri argomenti, che sono solo le sue: intanto interessa rilevare che, nella critica coeva_e successiva, gli aspetti relativi alla vita e all'eroica fine dl e.o.e. hanno prevalso sull'analisi organica e profonda dei contenuti dell'opera. Non si sottraggono a questa linea di tendenza i citati lavori del Guttièrez e del Campo lieti, che tra l'altro dedicano largo spazio anche ai suoi scritti non militari.

2 ' ' N.M. Campolieti, Op. cit., p. 551. '"" "Il Politecnico·· Vol. VIII - 1860, pp. 519-527.


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Il Guttièrez non analizza i contenuti dell'opera, ma il contesto nel quale prende corpo; il Campolieti dopo una sommaria e troppo benevola descrizione dei contenuti dell'opera commenta un giudizio del Marselli e il concetto che C.D.C. ha della disciplina, e definisce (a torto) Clausewitz (non Jomini) come "il suo più grande precursore e il suo solo rivale" 123 • Affermazione, quest'ultima, totalmente priva di fondamento, perché l'adoratore di un principio unico che governerebbe la guerra non trova alcun spazio tra gli "ideologi" di Clausewitz. Più centrate le considerazioni del Campolieti sul giudizio del Marselli. Quest'ultimo non sembra aver ben letto e meditato Che cosa sia la guerra e la letteratura militare italiana ed europea coeva e precedente, quando scrive che, prima di cadere a S. Fermo, presso Varese, il fervido patriota aveva combattuto prima un' altra battaglia, quella dei sani principii della guerra contro gli errori strategici e le pastoie tattiche d'una scuola, non solamente italiana, che mostravasi dimentica delle tradizioni della guerra napoleonica. Il suo libro è un' idea, come ha ben detto il Guttièrez, intorno alla quale si aggirano gli esempi della storia militare di tutte le epoche, per fame testimonianza della sua verità. E l'idea è quella della massa. Tutta l' arte della guerra è dominata da un solo principio, e questo è che La vittoria è decisa dall'arto della massa ... Come si vedrà nel seguito, noi crediamo sia possibile elevarsi ad un'idea più comprensiva di quella della massa, ma ciò non menoma il valore della massa e non infirma il concetto del De Cristoforis. Questi ha un merito incontestabile, che divide con i fratelli Mezzacapo, ed è di avere nel periodo dal 1848 al 1859, nel periodo di gestazione del nostro Risorgimento [e la Restaurazione? - N.d.a.], ricondotto le menti degli italiani all'ossequio dei principi della guerra napoleonica, di aver osato parlare di principi, quando simile parola destava un orrore poco sacro, e di aver fatto ciò con la scorta continua delle applicazioni storiche. Il suo libro non è didattico, non è astratto, non è tessuto con rigide formale 1•.• J . L' autore comprese qual valore abbiano gli esempi storici nello studio dei principi e delle regole della Scienza della guerra ... 124 Per il Marselli, più che la massa degli eserciti belligeranti intesa come valore puramente numerico, vale la forza, data dalla qualità delle forze; e il Campolieti ha buon gioco a osservare che, per la verità, il concetto di massa in C.D.C. è un insieme di forze morali e materiali che riunite danno comunque la superiorità delle forze nel punto decisivo, che è ciò che più importa. A parer nostro, dunque, il Marselli si è lasciato ingannare da talune considerazioni non lineari e "materialiste" che pur si trovano, a proposito della massa, nel libro. 123

N.M. Campolieti, Op. cit., p. 546. ivi, p. 547(Cfr. anche N . Marselli, I.a Guerra e la sua storia, Milano, Treves 1875, Vol II pp.89-90). '

24

·


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Non risponde a verità nemmeno l'affermazione del Marselli che C.D.C. ha riscoperto i sani principi della guerra napoleonica contro le deviazioni del tempo: prima di lui, a cominciare da Jomini e Clausewitz, tanti scrittori - anche in Italia - hanno studiato e dato un loro valido contributo all'interpretazione delle guerre napoleoniche, pur con risultati e acquisizioni non sempre condivisibili e corrette. Non è stato certo C.D.C.- né lo stesso Napoleone I - a scoprire il valore del principio della massa; per la verità, parlando di principi e citando numerosi exempla C.D.C. non ha "osato" proprio niente, perché - al contrario - di principi dopo Napoleone si è parlato decisamente troppo: tant'è vero che l'opera di Clausewitz non è che una reazione "spiritualista" a certi schematismi.... Infine il libro non è certo astratto, e qui ha ragione il Marselli: ma diversamente da quanto egli afferma, è didattico, perché vuol insegnare un metodo pratico di studio, ed è tessuto con una sola rigida formula: quella della massa. Sul concetto di disciplina, invece, notiamo semplicemente - con soddisfazione - che in questo unico caso il Campolieti non si allinea con l'opinione di C.D.C., e attribuisce a semplice reazione le sue idee. Nel 1894, all'uscita della terza edizione modenese di Che cosa sia la guerra, il colonnello Cesare Airaghi, dotto scrittore militare caduto valorosamente adAdua nel 1896, dedica all'opera una delle più lucide recensioni che si conoscano 12~. L' Airagbi ritiene che "un'opera nostra completa sul1'Arte della guerra, come quella del De Cristoforis non l'abbiamo ancora. Ed essa è ancora buonissima", anche perché "per scuotere il giovane studioso, per innamorarlo dell'argomento, per dare la prima mossa a questi studi, nessun libro è più adatto di quello del De Cristoforis". Dopo di questo, però, l' Airaghi muove al libro due critiche fondamentali. La prima - che condividiamo pienamente - è che esso pecca nella forma didattica dell'esposizione e risente di "stiracchiature". Questo perché nel periodo in cui fu scritto dominava l'idea napoleonica, tutti erano alla ricerca dei grandi principi dell'arte, e poi del principio unico che si sognava sarebbe il gran segreto dell'arte, la chiave della vittoria [cos1 ha fatto Jomini - N.d.a.]. Questa ricerca, che somiglia a quella della pietra filosofale, alla ricerca dell'assoluto, fece scoprire certi principi sommi, che, non sono errori no, ma non sanno di nulla, sono pure identità. Tale è quello del De Cristoforis La vittoria è decisa dall'urto della massa [... ].Si dice[ ... ] che vince la massa più forte;· ma cosa vuol dire più forte? più numerosa? più agguerrita? meglio armata? meglio condotta? più coraggiosa? Chi ci dà il coefficiente di ciascuno di questi elementi di forza? il modo di valutarlo? il più forte è quello che vince: come si vede questa è

un'identità.

125

C.Airaghi, Scritti vari, Città di Castello, Tip. Lapi 1901 , pp. 275-279.


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La seconda critica, che condividiamo solo in parte, è che C.D.C. dimostra "poca conoscenza e considerazione degli autori tedeschi, non nascosta del resto, anzi affettata". Questo avverrebbe perché il libro era destinato a insegnare l'arte della guerra ai giovani italiani per condurli contro i tedeschi, quindi si preferisce guardare alla Francia. Secondo l'Airaghi, C.D.C. cita spesso Clausewitz "nei punti più importanti" (il che non è vero), mentre nella bibliografia non figura né Clausewitz né alcun altro autore tedesco (il che è vero). Ma ciò che è ancor meno vero (e che dimostra quanto poco l' Airaghi abbia capito Clausewitz pur apprezzandolo), è che "il libro del De Cristoforis rispecchia primieramente le teorie del più grande degli scrittori di cose militari, del elausewitz, che emise appunto il principio più sommo sotto la formula più chiara anche, che la vittoria è data dalla preponderanza della forza sul punto decisivo". Se mai, questo lo ha fatto Jomini! (vds. Vol. I - capitoli II e ID). Nel 1900 il colonnello Enrico Rocchi fornisce un'interpretazione opposta rispetto a quella dell' Airaghi, ma ancor più da respingere, perché oltre tutto contraddittoria126 • Dopo aver definito e.o.e. "il primo scrittore positivista della moderna scienza della guerra" (con ciò stesso includendolo nella folta schiera di coloro che - diversamente da Benedetto Croce - del1' arte della guerra napoleonica trascurano i preminenti elementi spirituali, o attinenti alle doti non misurabili del genio), il Rocchi afferma che "chiarisce e illustra con una concezione generale, unica nella moderna letteratura militare, il principio della concentrazione delle forze" e aggiunge che (addirittura) il De Cristiforis può sotto questo aspetto considerarsi l'apostolo di Napoleone ben più dello Jomini, perché il primo assurge alla sintesi del pensiero del grande condottiero, mentre lo scrittore francese non fa che analizzarne le teorie [non é vero;ne studia soprattutto le campagne - N.d.a.]. Il De Cristoforis traccia a grandi linee il concetto napoleonico della guerra moderna e ne mostra la ripercussione nella condotta delle operazioni militari, mentre Jomini, con lo studio analitico delle campagne napoleoniche [questo é in contraddizione con quanto detto in precedenza - N.d.a.J, tenta di gettare le basi di una scienza strategica, la quale, informata a tendenze soverchiamente dogmatiche ed a rapporti geometrici, offre Io sdrucciolo al dottrinarismo della guerra.

Dunque per il Rocchi l'allievo supera il maestro; e nel suo giudizio e.o.e., imbevuto di cultura francese e perciò jominiana, sarebbe il vero apostolo di Napoleone. Questo solo grazie a quel principio della massa che non è affatto il segreto delle vittorie napoleoniche e che non è cosa nuova,

126 E. Rocchi, L'Evoluzione del pensiero -italiano nella scienza della guerra, "Nuova Antologia" Fase. 287 - 1° agosto 1900, pp. 505-506.


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visto che era stato applicato dal più grandi condottieri della storia , e per ultimo, da Federico 11... Se è solo per questo, come si può parlare di "concezione geniale e unica" di C.D.C.? A questo giudizio, acriticamente ripreso anche dallo Sticca127, se ne aggiunge a distanza di qualche anno un altro, che è totalmente opposto: nel 1908, infatti, il colonnello Alberto Cavaciocchi scrive nella Rivista Militare 128 che " De Cristoforis si era mantenuto fedele alla dottrina di C lausewitz e dei suoi predecessori", di Clausewitz riprendendo le defini:doni di strategia e tattica, e indicando la strategia come "l'arte di condurre in massa l'esercito non combattente (sic) sul punto decisivo": definizione che assomiglia - pareggiandola - a quella di Jomini, ma non certo attribuibile a Clausewitz... E proprio perché tende a ridurre a un solo principio l'arte della guerra, come può C.D.C. essere definito "fedele alla dottrina di Clausewitz", dottrina che fra l'altro non é tale e non esiste? Completamente fuori bersaglio è anche il breve esame - tra l'altro eccessivamente, anzi totalmente in positivo - che nel 1924 compie il colonnello Ettore Bastico nel suo libro L'Evoluzione dell 'arte della guerra 129 • Non è vero che l'opera "si ispira ai più alti concetti spiritualisti": in parecchie parti - si veda lo stesso principio della massa e l'importanza data ali' artiglieria, alla fortificazione, ali' amministrazione - è più materialista che spiritualista, e in questo senso va temperata l'affermazione di C.D.C. che "la guerra è una scienza morale". Non è vero che i suoi insegnamenti sono "simili a quelli dati dal Clausewitz". Non è vero che il libro è "un vero lrattato di arte militare": assomiglia di più a un manuale pratico, e solo in questo senso è (fatte peraltro le debite eccezioni), "una severa condanna al formalismo allora imperante". Né si può convenire sul fatto che "il De Cristoforis è uno dei pochissimi che abbia saputo intendere l'arte napoleonica in tutta la sua semplice grandezza", grandezza invece dovuta solo al genio del capo, nella quale, quindi, il principio unico di C.D.C. ha un'importanza relativa. Ardire, offesa, iniziativa ecc., qualità caldeggiate da C.D.C. e esaltati dal Bastico come sue meritorie e originali acquisizioni, sono solo degli antichissimi ferri del mestiere che si trovano ovunque, anche negli scritti di Federico Il di Prussia. Dopo aver osservato - contraddicendo la precedente affermazione - che il libro è una sintesi armonica di fattori materiali, intellettuali e morali [e il concetto errato di disciplina? - N.d.a], il Bastico esclama: "e in quale altra opera il nuovo esercito italiano avrebbe potuto e dovuto creare le fondamenta da porsi alla sua-dottrina di guerra, se non in questa che continuava, elevandola ancora a maggiore altezza, la nobiltà del pensiero militare itaG. Sticca, Gli scrittori militari italiani, Torino, Cassone 1912, pp. 285-286. A. Cavaciocchi, Della partizione teorica dell'arte militare, "Rivista Militare Italiana" Anno LIII - 1908, Vol. N disp. Xl, p. 2311. '"'E. Bastico, L'Evoluzione dell'arte della guerra, Firenze, Casa Ed. Militare Italiana 1924, Voi. II pp. 175-179. 127

,12,.


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liano?". In proposito, noi osserviamo che più che fonte di pensiero e di dottrina, il libro vuol essere - ed è - "grammatica della guerra" (definizione dell' autore), guida pratica, strumento provvisorio per rimediare hic et nunc alla scarsa preparazione dei Quadri inferiori, per cominciare a farli pensare, per richiamare la loro attenzione sui grandi problemi della guerra: ma ciò non toglie che in fatto di pensiero e dottrine militari nazionali, il Balbo, il Pepe, il Durando, il Bianco, lo stesso Pisacane e tanti altri hanno prima fornito miglior materiale e migliori strumenti per adattare alla realtà italiana le grandi correnti di pensieri europee, senza far pesare troppo - come fa C.D.C. - l'influsso della scuola francese. Dipendente da quelli del Marselli, del Rocchi e del Bastico, e anzi ancor più entusiastico - e perciò ancor meno attendibile - è il giudizio del colonnello Emilio Bobbio nel 1927130, secondo il quale C.D.C. "si può considerare parallelamente e meglio di Jomini, l'apostolo del pensiero del grande Napoleone sulla guerra". Giudizio esagerato e infondato, come quello che in Che cosa sia la guerra non vi è "nessun plagio di opere militari precedenti, nessuna imitazione del Jomini o del Marmont", ma bensì si trova in quest' opera "tutta la originalità e la potenza del genio italiano". Sarebbe esagerato parlare di plagio: ma se si va a leggere l' opera del maresciallo napoleonico Marmont Dello spirito delle istituzioni militari131 (non a caso giudicata da C.D.C., per l' approccio pratico ai problemi, "il miglior libro di guerra dopo le memorie di Napoleone"), vi si trovano tutti i capisaldi principali di Che cosa sia la guerra, che a questo punto potrebbe essere considerata proprio una libera rielaborazione e un ampliamento di concetti enunciati - dall ' alto della sua grande esperienza bellica e di comando sotto Napoleone - da un maresciallo francese che è stato, vedi caso, grande artigliere. Anche il libro di Marmont è rivolto ai giovani, e più che delle nozioni teoriche, intende trasmettere delle esperienze. Anche il libro di Marmont si presenta ovviamente - e non è il solo in Francia - come un condensato di ammaestramenti dell'epoca napoleonica, tant' è vero che, secondo il generale Carboni, "nella letteratura tecnica d'oltralpe il libro è considerato un capolavoro e fa testo suH'arte militare dell'epoca napoleonica [... ] ed è certamente la pubblicazione di carattere divulgativo più utile che esista, per la intima, completa intelligenza dell' arte militare napoleonica 132• Anche il maresciallo Marmont ritiene che "la vittoria non è data dal numero di uomini che si uccidono, ma da quelli che si spaventano" , ciò che non è s uperamento dell' arte militare napoleonica ma semplicemente corretta valutazione delle ricadute morali della sua strategia. E anche Marmont, vedi caso, esordisce ripromettendosi di spo0 " E. Bobbio, la guerra e il suo sviluppo storico, Torino, Schioppo 1927, pp. 188-190. '" Firenze, Le Monnier 1939 (prima traduzione italiana; introduzione a cura del Geo. G. Carboni). L'opera è stata pubblicata per la prima volta nel 1845. m ivi, p. XII.


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gliare l'arte militare "dal ciarlatanismo tecnico" e raccomanda la lettura degli scritti di Napoleone, perché poco c'è da sperare dalle narrazioni degli ufficiali subalterni, "tessuto di errori e di menzogne". Inoltre, come C.D.C. egli afferma che la guerra di oggi costituisce un'arte affatto nuova, che non troverebbe nessun modello né insegnamento nelle guerre dei Greci e dei Romani [... ]. Mi sono proposto di riassumere brevemente lo spirito delle operazioni, dell'organizzazione e delle istituzioni militari. Ho cercato di dimostrare che in questa materia nulla deve essere lasciato al caso; che tutto deve dipendere da un principio generatore dal quale discendono le conseguenze necessarie [nostra sottolineatura - N.d.a.].1 33

Ecco le origini del "principio nuovo!". Non basta: troviamo nel libro di Marmont - la cui impostazione teorica è fondamentalmente jominiana - analoghe considerazioni sull'importanza del principio della massa (importanza che C.D.C. non fa che esasperare) e analoghe definizioni di strategia e tattica. Per un generale - dice anche Marmont - il carattere deve prevalere sull' intelligenza, e occorre anzitutto grande preveggenza e iniziativa. Egli

deve tende a mantenere sempre riunite le sue forze e indurre il nemico a dividerle; deve soprattutto saper afferrare "l'attimo in cui il nemico ha ceduto alle apparenze, per attaccarlo con forze superiori" . Si tratta, dunque, pur sempre di realizzare il principio della massa... Anche per Marmont la strategia ha un duplice scopo: "1 ° riunire tutte le truppe, o la maggior quantità possibile, sul luogo del combattimento, quando il nemico non vi ha che una parte delle proprie; in altri termini, procurarsi una superiorità numerica per il giorno della battaglia; 2° coprire e assicurare le proprie comunicazioni, minacciando tuttavia quelle del nemico" 134. La tattica, in un campo più ristretto, ha lo stesso scopo: "la base degli ordinamenti, il fine proposto, é sempre di essere più forte del nemico in un punto determinato della battaglia" 135 • A questo punto, è legittimo chiedersi qua1e differenza di rilievo ci sia tra l'impostazione del libro del Mannont e quella di Che cosa sia la guerra: si può solo osservare che quest'ultima opera tende ad essere ancor più schematica, rigida e perentoria di quella del Mannont, e che il maresciallo francese - pur mettendo in rilievo molto maggiore la necessità che il generale conosca il cuore umano e sappia suscitare il consenso, l'entusiasmo delle truppe, ecc. - dà importanza maggiore alla superiorità numerica, giudicando sotto l'aspetto della qualità come più o meno equivalenti i principali eserciti d'Europa. Rispetto a Marmont duole rilevare che ben poco di nuovo dice C.D.C., e che quel poco, è spesso cosa discutibile assai. Persino i titoli dei capitoli

133 ·ivi, p. XVIII. '" ivi, p. 9. '" ivi, p. 11.


256

Il,

PENSJERO MIUTARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

richiamano quelli del Mannont, che sono: "Principì generali"; "Della tattica"; "Delle manovre"; "Dell'artiglieria"; "Delle fortificazioni"; "Dell' amministrazione", "Dell'organizzazione e formazione delle truppe" ecc.. A queste prime constatazioni ne vanno aggiunte altre relative alle marcate analogie tra le rispettive vedute sui principali aspetti tecnico-militari. Anche Mannont è favorevole al reclutamento regionale a lunga ferma e guidica migliore la formazione di combattimento della fanteria su due righe, con i battaglioni su sei compagnie ecc.; anche per Marmont la lancia è l'arma principale della cavalleria, la cavalleria leggera deve essere armata solo di sciabola e l'equitazione è la parte più importante nell'addestramento della cavalleria. Naturalmente anche Marmont - grande riformatore dell'artiglieria napoleonica - dà grande importanza a quest'Arma, alla sua mobilità ecc. Egli considera, come C.D.C., le piazzeforti divise in di deposito e di manovra, e critica anch'egli con le stesse parole Vauban ... Riguardo all"'amministrazione" (cioè alla logistica odierna), oltre alla tesi sull'utilità dei molini C.D.C. riprende quasi alla lettera le considerazioni di Mannont sulle riforme moralizzatrici napoleoniche, senza peraltro - ciò che costituisce un demerito - dare risalto ad altre sue idee come quelle sulla costruzione speditiva dei forni di campo, sulla necessità di migliorare l'organizzazione sanitaria e gli ospedali, ecc .. Le differenze fondamentali tra C.D.C. e Marmont rimangono due, una di carattere morale e disciplinare e l'altra riguardante le fonti della teoria strategica. La prima è data dalle già citate, equilibrate e umane considerazioni di Mannont sulla disciplina e sul morale del soldato; la seconda depone invece a favore di C.D.C., che critica l'Arciduca Carlo e riscontra gli effetti nocivi della sua mancanza di autonomia operativa, mentre invece Marmont - come tutti anche in Italia - definisce a torto i Principi di strategia dell'Arciduca Carlo "un'opera che non si studierà mai abbastanza[ ... ] un quadro che comprende tutte le regole della grande guerra",136 lodando in modo eccessivo anche le sue operazioni del 1796 sul Reno 131 e dimenticando come al solito le sue gravi sconfitte di fronte al vero genio della guerra. Il colonnello Bobbio conclude le sue peregrine considerazioni affermando che "come il Clausewitz per la Germania, l' Ardant de Picq per la Francia, il De Cristoforis è il maestro dalla cui lettura lo spirito ne uscirà sempre rafforzato, purificato". Ne dubitiamo: perché, a parte tutto il resto, tanto varrebbe proporre ai Quadri la lettura del libro - molto più pratico nonostante i suoi limiti teorici - del maresciallo Mannont, dove tra l' altro non si trovano molte insistenze, forzature e schematismi. Sulla Rivista Militare del 1932 il maggiore Argan chiude la serie dei giudizi entusiastici dell'anteguerra con uno studio dove accanto a giuste e misurate considerazioni abbondano non condivisibili interpretazioni e

6 " · 31

'

ivi, p. XIX. ·ivi, p. 75.


IV - CARLO DE CRISTOFORIS

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errori 138 • Secondo l'Argan C.D.C. sarebbe stato l'unico - dopo Machiavelli, Montecuccoli e Palmieri - a "tentare l'esposizione di una dottrina militare generale", il che non è vero sia perché parecchi altri autori andrebbero ricordati, sia perché C.D.C. e gli altri non hanno certo esposto una dottrina. Né vediamo in che cosa le idee di C.D.C. possano definirsi italiane, visto che in massima parte sono di chiara ascendenza francese; in.fine, non è vero che Carlo Cattaneo - come ricorda l' Argan prendendo per buona un' affermazione dello stesso C.D. C. - ha scritto "La guerra". Nel secondo dopoguerra, il tenente colonnello Giovanni Broggi riprende sostanzialmente i giudizi del Marselli e del Bastico e parla di "storicismo" del pensiero militare di C.D.C., ma senza ricordare che la storia per lui comincia con il 1793 e oltr' Alpe 139. Piero Pieri in Guerra e politica e nella Storia Militare del Risorgimento140 fornisce l'analisi tuttora più approfondita e meditata di Che cosa sia la guerra, senza peraltro citarne la netta dipendenza dal Marmont e senza considerare - al di là del principio unico della massa - altri non trascurabili aspetti che meglio servono a lumeggiare i caratteri reali dell'opera. In tal modo sfugge al Pieri, ad esempio, che il concetto di disciplina rigida e assoluta di C.D.C. è legato soprattutto alla (pretesa) necessità di mantenere ad ogni costo unita e a contatto di gomito la massa anche sotto il fuoco (formazione già da molti al tempo ritenuta superata perché sempre più vulnerabile, la quale non si mantiene senza obbedienza cieca) e che certe palesi esagerazioni di C.O.C. sui caratteri della disciplina non sono che una reazione alle sue negative esperienze tra le truppe volontarie. Dire che C.D.C. ha un concetto antiquato della disciplina non basta: bisogna vedere il perché. Pieri riscontra, a ragione, l'influsso su C.D.C. del modello di "esercito di caserma" francese: ma questo non spiega tutto, perché gli autori francesi e anche italiani del tempo - a cominciare dallo stesso Marmont - mettono in evidenza che il soldato francese e latino non può essere trattato come un automa e che bisogna saper fare appello, al momento giusto, al suo cuore e ai suoi sentimenti, curando il suo benessere morale e materiale; senza contare l ' insistenza di e.o.e. sulla necessità che l ' addestramento sul terreno e la vita di caserma siano dimensionati per le esigenze di guerra e non di pace e le sue critiche al regolamento interno di caserma francese. Anche la ferma lunga per C.D.C. è solo una necessità addestrativa connessa alle esigenze di guerra, perché - come in fondo pensava lo stesso Mazzini, sia pur giungendo a conclusioni opposte - per fare di un gruppo di uomini un'unità capace di affrontare il nemico in battaglia in campo aperto e di reggere al fuoco, di sopportare i disagi della guerra, ci vuole tempo. ·C. Argan, n pensiero di Carlo De Cristoforis e la guerra moderna, "Rivista Militare

138

Italiana" n. 3/1932, pp. 501-524. 9

·G. Broggi, Carlo De Cristoforis, "Rivista Militare " n. 10/1959, pp. 1315-1326. P. Pieri, Guerra e politica, Milano, Mondadori 1975, pp. 156-173 e 226; ID., Storia militare del Risorgimento, Turino, Einaudi 1962, pp. 579-585. "

140


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

Il Pieri, insomma, troppo si sofferma sulle accuse a C.D.C. di volere un esercito da caserma e sul suo difettoso principio della massa. Ciononostante, è l'unico - dopo I' Airaghi - a comprendere che la insistenza eccessiva di C.D.C. sul principio unico lo allontana da Clausewitz e lo avvicina a Jomini come al dogmatismo illuministico e pre-napoleonico, nonostante la sua ammirazione per Napoleone e le sue tesi sul "principio nuovo". E giustamente anche Pieri, come Airaghi, nota che C.D.C. non fa menzione di Clausewitz nella biografia, peraltro citandolo diciassette volte nel testo, ma solo su argomenti secondari. Sempre secondo Pieri, nel libro non compaiono motivi di libertà, di eguaglianza sociale ecc., né i riflessi dei profondi studi di economia agraria e di sociologia del1' autore. Il che è vero: ma siffatti motivi rimangono estranei agli scopi puramente tecnico-militari e contingenti dell' opera, mentre la concezione elitaria di C.D.C., i suoi riferimenti al soldato - contadino rozzo e ignorante (che definiscono per contrasto la figura dell"'ufficiale - gentiluomo") non fanno che prendere atto - in un manuale - della realtà sociale del tempo, che è quella che è. Una realtà tale da essere non modificata, ma rispecchiala dalle formazioni militari e dal tipo di disciplina, che può permettersi di essere rilassato e elastico solo con combattenti motivati, consapevoli e autodisciplinati. È sempre la realtà che alimenta e consiglia lo scetticismo di C.D.C. sulle formazioni improvvisate, sulle insurrezioni e sulla guerra per bande; realtà riferita anche al carattere degli italiani. Secondo Pieri, Garibaldi con l'impresa dei Mille ha compiuto "l'ultimo e più splendido dei tentativi mazziniani": ma non era anche quella un'impresa tipicamente di élite? Le critiche di Pieri al principio della massa centrano il cuore del problema: bisognerebbe però dire che quanto ha tentato - ovviamente senza riuscirci C.D.C. (cioè la scoperta della chiave delle vittorie napoleoniche) lo aveva tentato prima Jomini, e che è questo il motivo principale della divergenza di Clausewitz da Jomini. Bisognerebbe anche dire meglio, e in modo più lineare e chiaro, dove e come l'opera è più valida: perché Pieri, dopo aver tanto criticato il principio della massa e il dogmatismo e schematismo che ne deriva, in Guerra e politica arriva alla poco coerente conclusione che C.D.C. "spicca" tra i teorici italiani del secolo XIX "per lo sforzo di sollevare i principi a un principio unico", cioè proprio per la parte meno viva, più dogmatica, più caduca e discutibile del suo pensiero. D'altro canto Pieri pretende da un autodidatta, inesperto compilatore di un manuale pratico, le virtù dello studioso che si dedica a un'opera puramente teorica, che vuole compilare un trattato vero e proprio sul1' arte della guerra alla stregua di quelli del Clausewitz e Jomini, con i quali il paragone è improprio. Non ci appare perciò giustificata - anche alla luce delle critiche che gli muove - la sua affermazione che "il teorico lombardo ha una propria innegabile personalità di interprete della guerra, e sotto questo rispetto a noi sembra il maggior teorico italiano del secolo XIX e per questo ne abbiamo parlato più a lungo".


IV - CARLO DE CRJSTOFORIS

259

Che il libro sia .stato - e possa essere - utile ai giovani e vada apprezzato è innegabile; ma ciò non può far dimenticare che è il prodotto di una cultura militare notevole ma incompleta, settoriale e non nazionale, e che risente fin troppo di un'esperienza anch'essa incompleta e dell'animo appassionato dell'autore. Solo questo limite può aver fatto dimenticare a e.o.e. nel capitolo Essenziali qualità dell'ufficiale, troppo lodato dal Pieri, che coeup d'oeil e capacità di comandare anche senza il bastone sono, appunto, le essenziali qualità dell'ufficiale, e che secondo i canoni enunciati da e.D.C., Garibaldi sarebbe stato un mediocre comandante. Così come mediocre comandante sarebbe stato anche Napoleone, al quale importava vincere ma assai di meno importava l'ordine e l'uniforme delle sue schiere, e che una notte, trovata una sentinella addormentata, si è messo a fare la guardia al suo posto anziché farlo fucilare (come avrebbe fatto C.D.C.). Questo ci dice una cosa sola: che C.D.C. avrebbe potuto diventare ma purtroppo non ha fatto tempo a diventare - quello che il Bastico e il Pieri vorrebbero. Egli ha, comunque, una grande scusante: nell'Italia politicamente e culturalmente subalterna del tempo, un'opera di arte e storia militare veramente nazionale - e perciò originale e nuova - non era possibile. Né si può dire che un libro come il suo è un prodotto degli avvenimenti del 1848-1849 e non poteva essere scritto prima: perché il suo riferimento esclusivo è l'arte militare napoleonica con le interpretazione che ne danno Jomini e Marmont, mentre gli eventi del 1848-49 sono citati solo come conferma. Siamo stati troppo severi con C.D.C.? Non ci sembra. I nostri giudizi trovano conforto in una importante recensione redazionale dell'edizione 1894 di Che cosa sia la guerra, comparsa sulla Rivista Militare dello stesso anno.141 Vi si riconosce che il libro contiene ancor utili precetti, ma si dimostra che l'asserto principale di C.D.C. - la vittoria è decisa dall'urto della massa - non è più valido né in campo strategico né in campo tattico: "non fu esattamente vero ai tempi napoleonici e lo è molto meno oggidl". Non è più valido in campo strategico, perché nell'odierna guerra di nazioni si tratta molto spesso di proteggere il territorio nazionale dal1' invasione del nemico, non solo di ricercare e sconfiggere con l' urto della massa l'esercito contrapposto. Infatti gli eserciti odierni sono "vere masse di popolo inquadrate e spesso male inquadrate, che giudicano dei vantaggi e dei danni con gli occhi del popolo, non con quelli del quartier generale. E nel campo tattico non si tratta più di unirsi a contatto di gomito, ma piuttosto di diradarsi per sfuggire agli effetti delle nuove armi ... ». In conclusione, secondo la Rivista Militare " la teoria del De Cristoforis è una teoria, per cosl dire, matematica, epperciò nel suo primo fon-

1.A proposito di una nuova edizione del libro di Carlo De Cristoforis (corredata di

14

note), "Rivista Militare Italiana.. 1894 - Vol. I Disp. 1·, pp. 350-362.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

darnento, astrattamente parlando, è sempre vera"; ma non tiene conto a sufficienza che la guerra e il modo di condurla sono influenzati in misura predominante da fattori socio-politici e morali, quindi non è sempre e a tutti applicabile, perché bisogna considerare elementi che sfuggono alla matematica e rientrano nel campo delle passioni umane, dei fattori spirituali. Ecco il vero volto di un'opera, che taluni si sono ostinati a definire clausewitziana e spiritualista.


CAPITOLO V

ARTE MILITARE, INSU&REZIONE E NAZIONE ARMATA NEL PROGETTO DI RIVOLUZIONE NAZIONALE DI CARLO PISACANE

Preme~ Parlando cli Carlo Pisacane, non si può evitare un confronto immediato, istintivo con Carlo De Cristoforis (vds. il precedente cap. IV). Ambedue non uomini da tavolino, ma uomini - e si direbbe anzi scrittori - d'azione, pronti a tutto sacrificare per la causa nazionale; ambedue capaci di onorare le loro idee nel modo più gravoso e meno frequente, dando il loro sangue e la loro vita a breve distanza di tempo l'uno dall'altro, senza vedere quegli eventi dal 1860 al 1866, che - senza forse - avrebbero visto il loro cuore, i loro sentimenti feriti e addolorati nonostante la raggiunta unità e l'ascesa della nuova Italia tra le grandi nazioni europee. Ambedue, però, profondamente diversi nelle origini e nel sentire, sì che sotto vari aspetti Carlo Pisacane (d ' ora in poi C.P.) può essere definito l" 'anti-Cristoforis", anche se i due non si conoscono. Le sue teorie in campo politico, sociale e militare sono radicàlmente opposte a quelle del De Cristoforis. Non mancano, tra i due, idee in comune in fatto di addestramento, di strategia e tattica, di principi della guerra, di modalità per la sua corretta condotta da parte del generale e persino di disciplina, riconoscendone ambedue la necessità e la fondamentale importanza in guerra. Ma C.P., pensatore - oltre che italiano - nazionale come pochi, ricerca più che altro nell'antichità classica e in Italia, non nella Rivoluzione Francese e in Francia, le fonti della sua ispirazione. Li divide inconciliabilmente il giudizio sugli eserciti. permanenti e sul tipo di disciplina più adatta per gli italiani; soprattutto, Carlo De Cristoforis lascia fuori dalla porta quelle considerazioni di carattere sociale, economico e politico, che in C.P. sono il cardine delle sue teorie militari, diversamente da quelle del De Cristoforis basate sullo spontaneo entusiasmo e sullo spirito combattivo delle masse cli cittadini. Pesa, infine, su C.P. la sua formazione di ufficiale di carriera, uscito da quella vera fucina di eletti ingegni - spesso profondamente italiani - che è stato il Collegio Militare della Nunziatella di Napoli. I motivi di carattere politico-sociale si innestano in un profondo sentimento nazionale, del quale rappresentano l'estensione e il completamento, non l' origine; per questo egli può essere definito, più che un sociologo militare, un militare sociologo. Un militare sempre e comunque, che ricerca nelle pieghe della y_uestione sociale e nelle fotti passioni e istanze che essa genera, il miglior


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

modo di dare corpo all'idea nazionale e all'esercito che la realizza, la simboleggia, ne assicura le conquiste. Spinto dalla necessità e dai tempi, lo studente e il dottore in legge Carlo De Cristoforis diventa - si direbbe quasi, si improvvisa - uomo d'azione, volontario, comandante militare, studioso di cose militari. Spinto sempre dalla necessità e dai tempi, l'ufficiale C.P., uscito da severi studi militari, reagisce alle strettoie della routine di caserma di un esercito dinastico cercando "fuori", tra il popolo, le ragioni e gli obiettivi del rinnovamento della Nazione e quindi dell'Esercito. In tal modo il percorso intellettuale di C.P. è esattamente l'opposto di quello del De Cristoforis e risente di limiti opposti. Quest'ultimo, che non conosce la routine di caserma e del tempo di pace negli eserciti dinastici a ferma lunga, li vede come un "modello" ideale e ne ignora i difetti, credendoli ·rimedio unico e definitivo alle carenze delle formazioni improvvisate; al contrario C.P., ufficiale di carriera e aristocratico che tardi, all'estero e d'occasione viene a contatto non con gli strati sociali più umili, ma con coloro che ne rappresentano in un modo o nell' altro le istanze e le speranze, anzi le utopie, crede più del dovuto nella forza delle spontanee energie popolari anche per rigenerare lo strumento militare. Sarebbe perciò un grave errore limitarsi a un esame strettamente tecnico dei contenuti militari delle teoriedi C.P., oppure - al contrario lasciarli in un canto come fatto marginale, incentrando invece l'analisi come molti hanno fatto - sugli aspetti sociali, per essere più chiari: sul suo socialismo che invece va inserito in un più vasto ordito dove acquista la luce, la voce più autentica. Con questa prospettiva, per l'analisi del pensiero originale di C.P. ci rifaremo, senza intermediazioni, ai lavori curati da Aldo Romano: la Guerra combattuta in. Italia negli anni 1848-1849 (1851) 1, i quattro fondamentali Saggi storici-politici-militari sull'Italia (1851-1856)2 e gli Scritti vari, inediti e rari\ che integrano e a volte anche sostituiscono le due opere principali. Va ancora premesso che nel pensiero militare di C.P. - e lo dimostreremo - non si nota alcuna evoluzione; vi emergono però contraddizioni e interrogativi, dovuti molto probabilmente alla mancanza di tempo ed esperienza per approfondire i vari argomenti e alle passioni che divorano l'autore.

SEZIONE I - Guerra, strategia e storia: il primato militare degli italiani. I concetti - chiave di nazione e rivoluzione Secondo Rodolfo Savelli, per C.P. "il problema vero della nuova Italia era questo: spingere le masse, con lo stimolo di interessi propri, a battersi

I. 2.

J.

Milano, Ed. Avanti 1961 (d'ora in avanti Guerra 48/49). Milano, Ed. Avanti 1957 (4 Vol. - d' ora in avanti Saggi). Milano, Ed. Avanti 1964 (3 Vol. - d' ora in avanti Scritti)


V - CARLO PISACANE

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per l'Italia. Il socialismo era il mezzo, la Nazione, nella comp]eta unità del suo a1to va1ore storico, i1 fine vero e grande. Il Pisacane credeva che 1'Ita1ia sarebbe tornata grande"4 • Nazione e memoria storica - quindi storicismo, inteso come ricerca di radici autentiche dell'italianità anche militare, nel!' antichità classica - sono dunque le radici primarie de] pensiero di C.P.. Le amare vicende de11a guerra del 1848-1849 spingono tutti a una riflessione critica; da] canto suo, egli così si esprime: La naziona1ità è l'essere di una nazione. Un uomo che liberamente opera, liberamente vive ed esprime i propri pensieri, possiede completamente il suo essere, ma se un ostacolo qua1unque impedisce lo sviluppo delle sue facoltà, ne interdice la volontà, ne arresta i moti, l'essere più non esiste. Nella stessa guisa, bisogna che non frappongasi ostacolo di sorta a1la libera manifestazione della volontà collettiva, e che veruno interesse prevalga sull'interesse universale, quindi la nazione non può scompagnarsi dalla piena e assoluta libertà [nostra sottolineatura - N.d.a.], né ammettere cJassi privilegiate o dinastie, o individui la cui volontà, attesi gli ordini sociali, debba assolutamente prevalere5• Per C.P. " un italiano non sarà mai né Francese, né Tedesco senza una forza estrinseca che vio]enti i] suo naturale". Egli respinge ogni malinteso internazionalismo, che si trasformerebbe in autolesionismo: coloro ("non molti") i quali affermano che anche se privi di nazionalità gli italiani potrebbero ugualmente godere di libertà, sono in errore, sono degli utopisti: la più parte di costoro son dotti, pei quali, a loro credere, è patria il mondo; e codesta vanità può, in parte, adonestare il loro asserto che, assurdo quanto quello di nazionalità senza libertà, male adeguerebbesi con la loro dottrina. L'essere privi di nazionalità vuol dire che un elemento straniero debba, nella nostra patria, preponderare, e in ta1 caso è indubitato che la libertà individua1e verrà lesa6•

È vano anche sperare che un popolo straniero ci conquisti, per poi donarci, ]a libertà: questa è l'utopia "più assurda e codarda" (così pensava anche Mazzini). Infatti il forte troverà maggior vantaggio nel comandare, che nel francare completamente il debole; senza che, la libertà ottenuta in dono non potrà essere che condizionata, quindi mutilata; non è libera una nazione convinta, ch'altri, volendo, possa rapirgli la sua libertà [...]. L' Italia per essere libera, deve essere indipendente, e libertà e indi4.

,.

R. Savelli, Carlo Pisacane -Profilo, Firenze, Vallecchi 1925, p. 69. Saggi, 111, pp. 78-79. ivi, p. 97.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il ( 1848-1870)

pendenza non altrimenti si ottengono che conquistandole; l'Italia deve fare da sè7 • C.P. non ammette, perciò, alcuna limitazione della nazionalità e alcuna soggezione dell'Italia alla Francia, polemizzando aspramente con coloro che "credono fennamente adoperarsi per il bene della patria, col tessere una continuata apologia di Francia, mostrandocela quale astro che dovrà dar norma e rischiarare il nostro avvenire"8, o che vagheggiano l'unità mondiale: l'unità mondiale vi sarà, ma non già come pretendono costoro, distruggendo le nazionalità, incorporandosi insieme, o assorbite dalla preponderanza di una fra esse; ma come un individuo, associandosi co' suoi simili, viene abilitato ad uno sviluppo maggiore delle proprie facoltà, del pari nell'associazione universale, ogni nazione, lungi dal perdere la sua individualità e l'indole propria, troverà campo più vasto di svilupparla [... ]. L' associazione universale non potrà aver luogo, se prima non si costituisca strettamente ne' propri caratteri e non ci sia fra tutte che un 'uguaglianza uni versalmente sentita9 • La scoperta polemica contro le principali tendenze dell'intellettualità italiana del tempo non si ferma qui: la libertà, infatti, non può essere ridotta alla pura libertà di stampa, perché "pure i scrittori che si faranno a propugnare l'utile della propria nazione, giungeranno a un punto che intaccheranno il protettore, e la forza li farà tacere, se l'oro non giungerà a comprarli". L'aspirazione alla libertà "è un sentimento naturale dell'uomo", non una dottrina: "allo schiavo è forza che sia educato secondo i voleri del padrone; ma per vivere da uomo libero basta seguire gli impulsi della propria natura, né havvi necessità d'educazione" 10 • In politica la dottrina segue e non precede i fatti; "né le Nazioni si addottrinano e so1tono dalla loro semplicità a furia di libri e giornali, ma progrediscono attraverso una serie di fatti terribili e sanguinosi"11 • Discende da questi orientamenti la forte avversione di C.P. alla monarchia, qualunque sia la forma politica che essa assume. Non c'è spazio alcuno per compromessi; con la conquista dell'unità nazionale da parte di una monarchia assoluta prevarrebbero come sempre interessi dinastici su quelli di tutti e nascerebbero nuovi mali, perché " tutte le miserie ed umiliazioni che ora si riscontrano in ogni principato in cui è divisa l'Italia non

7 · I. 9 ·

IO

ivi, p. 99.

ivi, p, 155. Ibidem ivi, p. 100. ivi, p. 101.


V-CAR LO PISACANE

265

cesserebbero, ma, a queste, altre ne verrebbero aggiunte che dall' accentramento del potere e dell'amministrazione naturalmente risultano". Ne consegue che "col dispotismo non v'è nazionalità, qualunque lingua parli il tiranno, qualunque sia il luogo ove ebbe i natali [ ...]. I prìncipi non hanno patria, ]oro patria è il mondo che si parteggiano. Ove cercano le spose, ove gli runici? fra i connazionali forse? mai no: fra questi cercano sgherri e cortigiani; loro runici sono gli altri prìncipi, pronti a muovere le armi in loro difesa" 12• Questo vale anche nel caso delle monarchie moderate e costituzionali; infatti i regimi moderati, per loro natura, nascondono e leniscono i mali che, non essendo abbastanza sentiti per obbligarci a ritorcere in noi medesimi lo sguardo, ci sospingono alla ricerca dei mali dei popoli più infelici, che dalla nostra immaginazione esagerati, ci sembrano molto più di quello che realmente sono, facendoci perciò benedire le dorate catene. Il morale non compTCsso, ma logorato, illanguidito, perde la sua elasticità, ed a servi beati l'insorgere riesce impossibile [...]. La mezza )jbertà, le concessioni, non sono uno stato di transizione per giungere ad affrancarsi da ogni giogo, ma un efficace mezzo di cui giovasi la forza per garantire le sue usurpazioni; è uno . stato non di scuola, ma di paralisi. La politica estera di una monarchia costituzionale è "codarda e ipocrita" , perché tende a tutelare gli interessi di una dinastia, fingendo di propugnare i diritti deUa Nazione; in tal modo, a discapito del popolo minuto, con il regime costituzionale si avvantaggiano solo "monopolisti, dottrinari, giornalisti, editori". Più in generale, C.P. è contrario al regime parlamentare in genere, anche senza i1 re: contrario per i ben noti difetti del parlamentarismo: i desideri, i concetti, le passioni di pochi non potranno essere quelli di tutti, la parte non può eguagliare il tutto. InoltTC tal governo dovrà essere forte, quindi sarà immancabilmente tiranno [ ...]. La nazione sarà libera nel momento delle elezioni, poi abdicherà la propria sovranità nelle mani di coloro che l'urna popolare menerà al potere; i candidati saranno vari, quindi il popolo si scinderà in partiti ed avverrà quel ch'è sempre avvenuto, il partito prevalente sarà tirannico come gli altri, e questi schiavi in permanente cospirazione contro di esso, e le continue lotte intestine roderanno le viscere della nazione, e sarà impossibile la continuità di sforzi, la perseveranza, la costanza che forma la felicità e la grandezza dei popoli 13. La vera libertà, per non diventar menzogna, oltre che la nazionalità richiede anche l'uguaglianza, che non deve essere solo politica ma de ve 12 · 13 ·

ivi, p. 81. ivi, pp. 107-108.


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avere precisi risvolti econonùci; altrimenti essa "è derisione, allorché i rapporti sociali dividono i cittadini in due classi distintissime, l'una condannata a perpetuo lavoro per miseramente vivere, l'altra destinata a godersi il frutto del sudore di quelli [... ] è un ritrovato per concedere al ricco, oltre i suoi diritti politici, la facoltà d'avvalersi di quelli dei suoi dipendenti" 14. Nazionalità e libertà presuppongono anche una stretta unità nazionale, una sola capitale, un solo governo centrale, peraltro con larghe autonomi.e concesse ai Comuni: in questo senso il pensiero di C.P. non si discosta da quello del Mazzini e del Pepe, anche nelle ragioni della sua avversione al federalismo, che all'atto pratico significa solo conservazione dei particolarisnù locali favoriti dalle monarchie al servizio dello straniero. Lo spirito unitario ha profonde radici storiche: "gl' italfani sono unitari, tali {urono gli antichi ed una tale aspirazione, fra moderni, comincia da Dante". E priva di fondamento la tesi che dividendo l'Italia in vari Stati con una politica estera comune ci si garantirebbe dal dispotismo; la tirannide del governo in un piccolo Stato non è diversa, e anzi è peggiore di quella che opprime una grande nazione; e se i federalisti credono di evitare simili pericoli in un piccolo Stato con una saggia costituzione, gli stessi provvedimenti potrebbero essere adottati con pari efficacia in uno Stato più grande. Più in generale, se i vari Stati in cui si dividerà l'Italia avranno simili interessi, perché non potranno reggersi coi medesimi ordini? se interessi diversi, allora i stranieri saranno arbitri fra noi. Vedremo riprodotto il miserabile spettacolo delle repubblichette del medioevo, che, civilissime com'erano, chiamavano i semi-barbari a decidere le loro contese. Gli Stati soc·comberanno in una lotta parlamentare; in un congresso federale, se non forti abbastanza per farsi ragione con le armi, invocheranno l'aiuto straniero. È questo un fatto storico innegabile.... 15 • Senza nominarli, C.P. giudica perciò "assurde e volgari" le teorie di gradualisti e federalisti come Gioberti, Balbo e Durando, che sostengono una progressiva unità con la riduzione del numero degli Stati: avverrebbe esattamente il contrario, e se J'ltalia si dividesse in due soli Stati l'unità diventerebbe quasi impossibile, perché un grande Stato tende sempre all'autoconservazione, e l'uno cercherebbe di conquistare l'altro che, esaurite le proprie forze, finirebbe col chiedere l'aiuto straniero. Né i principi italiani 'farebbero mai lega contro l'Austria, alla quale debbono il trono. In generale, "la federazione altro non è che uno stato di transizione per giungere all'unità; e quando i costumi, il clima, le razze, la lingua, la religione, la geografia non costituiscono che una sola nazione, l'unità è un fatto superiore ad ogni calcolo"16 • Lo spiccato senso dell'identità e unità nazionale - dal quale discende tutto il resto - porta C.P. a pole-

04 ·

" 16

ivi, p. 106. ivi, p. 109. ivi, p. 110.


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mizzare indirettamente con il Pepe, criticando con aspre parole coloro che sperano nell'aiuto inglese e francese, e soprattutto coloro che vedono nelle istituzioni politiche e militari di questi due grandi potenze un modello da seguire. Del sistema politico inglese - una falsa democrazia con al vertice una classe di privilegiati che si spartisce le cariche e conduce la politica nazionale, con alla base un popolo che vive nella miseria e non ha nessun reale potere - è critico severo e implacabile, mentre nella Francia del suo tempo, caduta sotto la tirannide di Napoleone m, vede un esempio in negativo di bonapartismo, di eccessivo centralismo, di corruzione. Dal punto di vista militare, è critico severo della guerra di Crimea 1855-1856, dove i generali di ambedue gli eserciti hanno dato prova di incompetenza, miopia strategica e scarsa cura per i loro uomini... La condanna si estende, anzi, a tutti i governi d ' Europa, costituiti - sia pur con diversi gradi di libertà concessi al popolo - sui vecchi principi di autorità, tradizione e forza, ai quali C.P. contrappone quelli nuovi di libertà, nazionalità e diritto. Da questa contrapposizione nasce "la lega dell'Europa intera contro le nuove idee"; perciò sarebbe sufficiente impedire che uno Stato finora vassallo come l'Italia sieda insieme a loro nei consessi Europei, per far volgere contro di noi le armi delle maggiori potenze. La conclusione è che "il Risorgimento italiano altro non potrà essere che la vittoria delle nostre armi sull'Europa dei Re"' 7 • Per il riscatto nazionale, però, "la sola guerra di popolo, e guerra affatto rivoluzionaria, può solo riscattare l'Italia dal suo servaggio", senza ammettere interferenze della monarchia o impossibili alleanze. Le coalizioni sono sempre deboli; è assurdo pensare che tutti gli Stati possano cooperare all'ingrandimento di uno solo. I principi italiani non potranno mai condurre una guerra veramente nazionale, e mai gli Stati italiani hanno subìto un protettorato italiano: si sono sempre scelti un protettore straniero più potente e più lontano. Perciò L' Italia non subirà mai il giogo di un potere che abbia il benché minimo carattere d'uno dei presenti Stati in cui essa dividesi: tutto ciò che è esclusivamente piemontese, napoletano, romano ... non è italiano. Un prlncipe, durante qualche disastro [ ...] può scendere a patti per salvare il trono degli avi; però all'Italia fa d'uopo una rappresentanza nazionale, per cui non siavi altro utile se non quello dell'intera Italia, e che dirà: tutto o nulla [...]; durante la guerra l'Italia non dovrà averne altro che il punto strategico determinato dal corso delle operazioni militari. Un principe non può, con animo sgombero da sospetti, armare l' intero popolo italiano e trasformarlo in un esercito, e per tema di non poterla padroneggiare e perché la natura del suo governo noi comporta; il principe dovrà guerreggiare con l' esercito, e la nostra è guerra da combattersi dall' intera nazione10•

ivi, p. 87. "· ivi, p. 94.

1 ' ·


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Gli italiani debbono combattere la guerra del risorgimento da uomini perfettamente liberi, e "richiedere all'esaltazione delle schiere, e al bollor delle passioni popolari quei geni che mai non mancano nella tempesta". Ne consegue un duro attacco a teorie come quelle di Balbo, non nominato: "il credere che la libertà debba seguire l'indipendenza è funestissimo errore, è quel desso che nel '48 ci ricacciò nella schiavitù" 19• Appare chiaro, da queste sommarie indicazioni, che la rivoluzione di C.P. deve essere eminentemente nazionale: ma per essere tale, deve essere contemporaneamente anche sociale. Nessuna via di mezzo, né politica né sociale né militare, è possibile: "il fine che si propone la rivoluzione è quello di sgomberare l'Italia dà stranieri, qualunque lingua essi parlano, e da tutto ciò che viola l'indipendenza e la libertà individuale. La guerra sarà menata di forza finché questo fine non sia compiutamente conseguito [...]. Una nazione libera non può mai soccombere se prima non abbia esaurite tutte le sue forze a propria difesa". Non ci sono tempi diversi per la guerra d'indipendenza e per i problemi politico-sociali interni: si tratta anzitutto di distruggere i poteri locali, con i quali non ci potrà mai essere guerra e unità nazionale. Guerra e rivoluzione camminano di pari passo: ma perché l'Italia oggi non è? forse le Alpi non ci dividono dal resto d'Europa? il mare non ci circonda coi propri flutti? la lingua non è comune? non abbiamo comune la storia, la letteratura, le passate grandezze, e la presente miseria? L'Italia non esiste, perché esistono gli Stati napolitani, toscani, sardi, lombardo-veneti. Quando spariranno questi Stati, l'Italia esisterà di fatto; l'Italia non deve farsi, ma .debbono invece disfarsi gli Stati esistenti, e l'Italia sarà. Fare l'Italia non è opera di costituzione, ma di distruzione, ovvero opera rivoluzionaria; non è un nuovo patto da imporre all'Italia, ma l'abolizione di ogni patto esistente. La rivoluzione rovescia i Governi, abolisce le leggi vigenti e con le leggi i tributi, annienta la polizia, e da questa distruzione sorge di fatto l'indipendenza del Comune, in cui si spenderà il patrimonio come lo spendere della famiglia; in cui i cittadini medesimi si ripartiranno le gravezze di molto diminuite perché non vi saranno più corti, diplomazia, pensioni, e quella turba innumerevole di esattori, d'insinuatori, di magistrati, che assorbono i tesori della nazione...w. Nessun compromesso nemmeno nei rapporti tra le varie classi sociali;

prima che la Nazione sia costituita, il governo dice agli oziosi proprietari: voi non avete diritto alcuno sulla terra, se volete vivere, lavorate; ai contadini: la Natura non ha concesso a

••. ivi, p. 97. "' Scritti, III, pp. 242-243.


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nessuno la proprietà della terra, tutti sono padroni di coltivarla e la nazione garantisce loro il frutto de' lavori; per fare ciò con ordine, associatevi. Si rivolge al capitalista e gli dice: tu non sei che un usurpatore delle altrui fatiche, il capitale è proprietà nazionale; a te altro non spetta che una porzione uguale a quella degli operai, e devi, secondo le tue attitudini, lavorare come essi lavorano21• Non senza forzature e opinabili interpretazioni, C.P. cerca la conferma della validità di questo asserto nella storia antica e recente, e in particolare nella Rivoluzione Francese, nella guerra del 1848-1849 e negli avvenimenti che la seguono, fino alla conquista del potere da parte di N:apoleone III. Nella Rivoluzione Francese C.P. vede principalmente l'esempio più recente del tradimento delle aspirazioni popolari all'unità, all'eguaglianza e all'abolizione dei privilegi; simbolo di questi tradimenti è stato l'Impero. A maggior ragione ciò è avvenuto in Italia, dove i sovrani dell'epoca pre-rivoluzionaria avevano ispirato ai sudditi il disprezzo per sé stessi, di modo che "dediti all'imitazione, cominciarono ad assaporare le dottrine d'oltremonte [cioè dei fautori francesi della Rivoluzione - N.d.a], che forse non avrebbero trovato favore se invece d'essere non altro che imitatori fossero stati italiani". In particolare i milanesi prima dell'arrivo dei francesi erano giunti a un tal grado di disprezzo per sé stessi, che nelle commedie, nelle farse di strada, scrive Napoleone, usavano rappresentare l'Italiano astuto ma codardo, ed un grosso capitano, alcune volte francese, il più sovente alemanno, forte, prode, brutale che, dopo essere stato burlato dall'italiano, terminava per dargli delle busse·con grandi applausi degli italiani spettatori22. Dopo il 1789 le monarchie e le repubbliche oligarchiche itali.a ne di fronte alla minaccia d'invasione francese si sono dimostrate vili e dimentiche dell'interesse nazionale, perché allora "l'utile d'Italia voleva la colleganza francese, e la voleva eziandio l'utile del Piemonte". Prevalsero invece interessi dinastici e localistici, e tutte caddero ignominiosamente. Lungi dal portare disinteressatamente la libertà come speravano gli ingenui patrioti e dottrinari italiani, i generali francesi si dimostrarono solo rapaci conquistatori, saccheggiando i musei, imponendo gravosi contributi e rispondendo alle proteste - come fece il generale Championnet a Napoli - con la frase di Brenno "guai ai vinti". I liberali italiani andati al potere sotto la protezione delle baionette francesi dimostrarono solo servilità, arbitrio, corruzione, con inconcludenti e garrule assemblee (qui C.P. cita il Foscolo, che li definisce "antichi schiavi, novelli tiranni, uomini che non erano né politici né guerrieri"). In

21 Saggi, ID p. 242. "'· Saggi, l, p. 108.


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quanto ai prlncipi, "dal 1796 al 1815, in imbelle e vergognoso ozio, furono spettatori dei grandi avvenimenti e attesero che la spada de' stranieri li ridonasse il trono. Non appena lo calcarono mostraronsi raffinati carnefici per quanto erano stati inetti politici e vilissimi guerrieri"23 • Infine l'aristocrazia italiana del passato splendore conservò solo il nome; essa "non è materia di storia", perché "operò solo nei suoi tenebrosi e sozzi intrighi di corte". Non tutto, però, è stato negativo in quel periodo: se i milanesi si comportarono peggio di tutti e poco o nulla fecero i romani per reagire ai soprusi francesi, meglio si sono comportati gli emiliani, che presero le armi contro gli austriaci, e molto diversamente dai milanesi si sono comportati i napoletani: "la repubblica partenopea surse, non ascoltarono lodi e dolcezze, ma fragor d'armi, gemiti di morenti e stormeggiar di campane"1A. Come il calabrese Pepe, dunque, anche C.P. vede nel Meridione le faci più promettenti della rivoluzione nazionale, e da questi avvenimenti deduce che "la sorgente nazione italiana bisogna cercarla nel popolo". Infatti da elementi così discordi "sgorgano i primi concetti di nazionalità italiana", e in quest'epoca ha inizio la storia moderna dell'Italia. Si è visto allora un popolo feroce, che fra i dirupi delle Alpi e degli Appennini, fra le strade di Pavia, di Verona e di Napoli sparge il terrore fra i stranieri; pochi oratori e scrittori che pieni di coraggio civile rinfacciano a' conquistatori le usurpazioni ed i vanti e proclamano i propri diritti, furono il germe del futuro popolo italiano, che, innaffiato dal sangue dei martiri, cominciò ben presto a gettar le sue barbe. 25 C.P. non accenna mai all ' indubbio effetto positivo che in questo periodo ha avuto sugli italiani la coscrizione introdotta da Napoleone,. ma non è vero che non parla delle qualità dimostrate dalle truppe italiane al servizio della Francia in Spagna e Russia; lamenta anzi che

i tristi avvenimenti del '15 e del '21 fruttarono la taccia di poco accorto e poco armigero ad un popolo che dominò colle armi e colle leggi il mondo, ad un popolo che risorse colle glorie guerriere della Lega Lombarda, ad un popolo infine che, in tempi assai prossimi,

lasciò in tutta Europa gloriose tra~ce sui Campi di battaglia, per una causa non sua. 26

Certo, egli è lungi dall'enfatizzare questa partecipazione, per la semplice ragione che mal si accorda con il concetto di guerra nazionale premi-

"· ivi, p. 107. ivi, p. I09. "· ivi, p. 113.

24 •

""

Guerra 48149, p. 314.


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nente nelle sue teorie, e ancor di meno con la sua ostilità a11a Francia e con

il suo stesso modello .di esercito, che non deve mai essere al servizio di un tiranno quale egli considera anche Napoleone I. Con una siffatta, chiara impostazione, le matrici del pensiero politico e militare dì C.P. si caratterizzano per una radicale contrapposizione a modelli d'oltralpe; quello di C.P. è un pensiero eminentemente nazionale, che prende spunto dalla reazione all'ignavia e agli egoismi dinastici e regionali di monarchie che hanno oltr'alpe i loro referenti e protettori, e che depreca fortemente quell'autolesionismo esterofilo, che è caratteristica degli italiani non solo del suo tempo.

Necessità della guerra nazionale: la polemica con i pacifisti Se il concetto di nazione e rivoluzione è questo, nel socialismo di quest'ufficiale non vi può essere nessuna traccia di internazionalismo e pacifismo, anche se il suo concetto di guerra e pace è quanto mai lontano dai clichés attribuiti ai militari dall'antimilitarismo d'ogni tempo e di ogni colore. I propugnatori della pace - egli dice - dovrebbero dimostrare che tutti gli interessi dei vari popoli - e delle varie classi in ciascun popolo - sono "in perfetto ed equo equilibrio"; oppure, se c'è squilibrio, dimostrare come si possa ristabilire l'equilibrio senza la guerra, cioè come possa essere cambiata la natura umana: ma finche l'Europa è in balla di tre o quattro despoti sostenuti da una selva di baionette; finché in Europa, la decima parte degli abitanti vivono, oziando, nell'opulenza, mentre nove decimi vivono producendo nella miseria, parlar pace perpetua, parlo ai signori del comitato delJa pace, è inutile ipocrisia.21 Pur avendo sempre militato - e con onore - in un tipico esercito permanente come quello napoletano, C.P. odia gli eserciti permanenti, unico puntello del potere dispotico. Ma ai pacifisti, che vi vedono semplicisticamente il simbolo della guerra, egli obietta che essi

non si distruggono con impedire che l'Austria faccia un prestito in Inghilterra, costringendola così a farlo con maggior profitto in Italia con la forza delle baionette; ma con argomenti che dimostrino a quelle stupide masse i vantaggi che la libertà loro promette e, nel tempo stesso, attaccandoli con la forza della disperazione ed il coraggio d'un profondo convincimento28. Una pace stabile nel mondo potrà esistere soltanto "allorché ciascun popolo sarà sovrano, ed avrà quei limiti che la natura ha segnati alle diverse

" "

Saggi, Il, p. 10. ivi, p. 11.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

nazionalità". Basta un principe ambizioso e guerriero che sguaini la spada, per sconvolgere i trattati sui quali si basa la sempre precaria pace... Nella divisione degli Stati, nel disegno della carta europea, la possibilità d'una guerra è il primo elemento che i despoti prendono in considerazione; d'altro canto la neutralità ad ogni costo è un assurdo; come è impossibile l' esistenza di un individuo il quale vivendo in società non abbia interessi comuni con essa, e non abbia volontà, è del pari impossibile concepire una Nazione il cui principio sia la neutralità ad ogni costo.29 Non ci può essere pace e fratellanza, dunque, senza giustizia. Sulla base di queste convinzioni, C.P. critica la dottrina e la pratica cristiana, constatando che non c'è mai stata la fratellanza predicata dalla Chiesa, perché "il mondo sempre in possesso dei più astuti e dei più forti è la storia dell'umanità", mentre i rapporti sociali sono dominati dall'egoismo30 • L'invito a considerare gli stranieri, i satelliti del dispotismo come nostri fratelli da convincere e non da uccidere, è segno "dell'eterna contraddizione del mondo cristiano"; né si dovrebbe predicare - come fa la Chiesa - un'obbedienza rassegnata ai governi, anche quando sono dispotici e malvagi. Oltre ad essere fortemente anticlericale e antipapista, C.P. è anche antireligioso, il che - sempre sulle onne dell'illuminismo e del razionalismo gli fa ritenere erroneamente che gli uomini siano mossi solo dalla ragione e dall'interesse. Vede nel cristianesimo, con una visione distorta e sbilanciata in senso opposto, solo l'avvilimento delle antiche virtù, sostituendo così la visione idilliaca del mondo contemporaneo con una visione idilliaca del mondo classico: ai Romani e ai Greci non venne mai in mente dirsi fratelli, e ne · ammiriamo, stupefatti, l'amor di patria, gli atti generosi, il continuo prevalere dell'utile pubblico sul privato: mentre il mondo cristiano, che si disse un mondo di fratelli, ci presenta il miserando spettacolo d'una moltitudine di voleri e di mire, scaturigine d'ignobili fazioni e guerre civili atrocissime. In queste parole va ricercata la divergenza di fondo di C.P. dal Mazzini: "il fato di una nazione, Mazzini nol cerca nei rapporti sociali e internazionali d'onde scaturiscono le guerre, le conquiste, le rivoluzioni, ma abbandona la terra e lo cerca nel cielo". Se la rivoluzione consistesse solo nel far rivivere nell'uomo - con l'apostolato - quella scintilla divina che è stata soffocata dal dispotismo, allora essa sarebbe inutile, perché già sarebbero aboliti i mali che vuolè combattere.

,. 30 ·

Scritti, II. p. 190. m, pp. 168-170.

Saggi,


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C.P. non crede, pertanto, nell'apostolato, nell'educazione del popolo che è il fondamento del credo mazziniano, e che tra l'altro porta a mettere al bando scrittori e libri che non sono in armonia con le tesi dei pretesi interpreti della volontà nazionale. In proposito, egli enuncia un altro concetto-chiave della sua visione politica e militare, nel quale si sente l 'influsso del Romagnosi e dell'illuminismo: l'indole umana, i suoi istinti, le sue propensioni sono inesorabilmente invariabili, e sono le forze di cui il sistema sociale deve avvalersi per produrre la pubblica felicità, la quale sarà, necessariamente, nulla, se coteste forze si combattono e si elidono perché applicate in opposta direzione, e massima se tutte cospireranno al medesimo scopo. Quindi non è l'uomo che deve educarsi, ma sono i rapporti sociali che <leggono cangiare affatto e ciò basterà per trasformare un popolo di egoisti e dissoluti in un popolo d'eroi; amor di patria e fratellanza vi sarà quando l'utile privato verrà indissolubilmente legato coll'utile pubblico, quando ognuno adoperandosi pel proprio bene, farà eziandio il bene dell'universale. 31 Quello di C.P. non è dunque mero bellicismo o militarismo, ma antipacifismo derivante dalla realtà dei rapporti tra individui e Stati, che non lasciano alcun spazio ad illusioni. Tanto più che "utile o nociva, la guerra è un fatto che c'è forza accettare, l'Italia deve ad essa le glorie passate e la schiavitù presente, e da essa, solamente, può sperare giorni migliori" 32• Quando ci sarà la pace, non sarà che il frutto di una guerra "lunga e terribile". E qui affiora un altro motivo traente dell' opera di C.P.: la superiorità militare - storicamente comprovata - degli italiani sugli altri popoli: discorrendo in questo libro di guerre e di battaglie, e volendo convincere noi stessi, gl'italiani, della superiorità che abbiamo su' stranieri come guerrieri, è giusto, mentre tutti gridano contro la guerra, rammentare che senza la guerre la civiltà non sarebbesi sparsa sul mondo romano. I barbari settentrionali sarebbero rimasti barbari senza conquistare il decrepito Impero. E chissà se gli oltremontani possedessero la civiltà che ora vantano, se nel cinquecento non si fossero rotolati in Italia. La civiltà tende a livellarsi come le acque; la guerra non fa che abbattere le dighe, distrugge città e nazioni, ma in ognuna di queste vicende l'umanità progredisce, verso la civiltà mondiale, d'un secolo; dovrebbero perciò accarezzarla coloro che la grandezza patria a quella dell'umanità sacrificano volentieri. 33

La saldatura tra guerra, rivoluzione sociale e istituzioni· militari e civili dovrebbe essere assicurata da un "patto sociale"34 che abolisca ~tte le leggi

31 32

33

,.

ivi, pp. 163-164 e 170. ivi, p. 10. Saggi, lll pp. 10-11. Saggi, m, pp. 226-229.


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preesistenti e stabilisca che tutte le "tasse e ogni specie di gravezze" sono annullate, per essere sostituite da "un'imposta unica sulla ricchezza da un congresso italiano ripartito sui Comuni, dai consigli comunali ripartiti sui cittadini". La potestà politica e giudiziaria risiede nel popolo del Comune, che elegge a suffragio universale un consiglio comunale; a sua volta quest'ultimo elegge nel suo seno un unico individuo al quale trasmette il proprio mandato. Lo stesso avviene a livello nazionale, con l'elezione di un congresso nazionale. Oltre che una centralità politica, il Comune ha anche una centralità militare. Il consiglio comunale ha il compito di raccogliere e affrontare tutte le risorse materiali richieste dal congresso nazionale, che per quanto riguarda la parte militare fissa il contributo in uomini o denari in ciascun Comune alla guerra, nell'intesa che ''Tutti i cittadini, qualunque sia il sesso e l'età, pongono sé medesimi e le loro sostanze a disposizione della patria, finché non siasi ottenuta la piena vittoria sui nemici di essa". Inoltre anche l'esercito, "esecutore supremo dei voleri della nazione", applicherà il criterio elettivo, eleggendo i propri capi. Con l'abolizione immediata delle tasse, la sospensione (e dopo?) dei fitti che gli affittuari devono pagare ai proprietari ecc., C.P. tende a creare le premesse affinché vengano prontamente eliminate le ingiustizie sociali, in modo c;he "i contadini e gU operai saranno contenti di lasciare per poco la vanga ed il martello, ed impugnare il moschetto a difesa degli acquistati diritti. Se la vittoria assicura a tutti l'agiatezza, e la disfatta le ricaccia nella miseria, tutti saranno valorosi. Ecco il segreto di cui si avvalsero i nostri progenitori per soggiogare il mondo"35 •

Strategia, tattica e principio della massa: Carlo Pisacane pensatore clausewitziano? Nonostante il suo estremismo politico-sociale, C.P. non getta via ma elabora, adatta e perfeziona il bagaglio teorico appreso alla Nunziatella. Il suo è un tentativo non privo di cadute e forzature, ma ricco di spunti pregevoli, di innestare sulla nostra tradizione classica le teorie prevedibilmente a sfondo jorniniano e dogmatico assimilate alla scuola militare, di rimeditare in senso nazionale e unitario la nostra storia militare come avrebbe voluto fare il Foscolo, cercando di infondere negli italiani del tempo ciò che loro soprattutto manca: l'orgoglio per le proprie tradizioni militari, che hanno radici molto lontane, e la fiducia in sé stessi, senza soggezioni anche spirituali a tutto ciò che viene d'oltralpe e specie dalla Francia. Medita con intelligenza (come pochi - e non certo De Cristoforis hanno saputo fare al suo tempo) sulle azioni e sugli scritti di Napoleone;

"

ivi, p. 224.


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non conosce Clausewitz e non lo cita, ma la sua visione di una guerra non di dinastie e eserciti, ma dell'intera nazione, di una guerra che non ammette limiti e compromessi e termina solo con la conquista piena dell'indipendenza nazionale, di una guerra che è anche rivoluzione, lo avvicina a Clausewitz più di tanti altri, anche perché è nemico degli eserciti permanenti del tempo, ma non degli eserciti regolari e della guerra classica e napoleonica tra eserciti. Aldo Romano riporta negli Scritti vari, inediti e non36 una raccolta di "Principi di scienza militare" a lui non attribuibili con certezza. Si tratta di pensieri non originali, in massima parte di Federico Il, Napoleone I oppure Jomini: ma pienamente in armonia con il pensiero di C.P., che forse li ha annotati per utilizzarli come guida e riferimento, ed è stato perciò colpito della loro aderenza alla realtà della guerra. Vi si trova, ad esempio, questa affermazione (tolta in gran parte dagli scritti di Napoleone) che ben riassume anche il credo militare di C.P.: i generali in capo sono guidati dalla propria esperienza, o dal loro genio. La tattica, la scienza dell'ufficiale del genio e dell' ufficiale di artiglieria, possono apprendersi nei trattati, ma la conoscenza della grande Lallica non s'acquista che con l'esperienza e con lo studio dell'istoria delle campagne dei gran capitani. Gustavo Adolfo, Turenna, Federico II, e Alessandro, Annibale, Cesare, hanno tutti agito con gli stessi principi: tenere le forze riunite, non essere deboli su di alcun punto, portarsi con rapidità sovra i punti importanti, tali sono i principi che assicurano la vitluria. 37

Anche se quel "non essere deboli su alcun punto" lascia perplessi e potrebbe essere in contraddizione con il principio della massa così come è stato applicato anche da Napoleone, è un fatto che C .P. crede nei principi e nel principio della massa, che secondo lui ha radici storiche profonde ed è tornato in onore con la Rivoluzione Francese: "Bonaparte non fu il creatore, ma quello che meglio comprese e meglio applicò un tal sistema, comune ai generali francesi ed originato dall'esperienza sulle quali aveva meditato l'intera nazione"38 • Principio che vale anche in tattica: ''In questi campi, in queste battaglie [quelle di Napoleone - N.d.a.], tanto dalle ·antiche differenti, !'evoluzioni prendono nonna da quel principio medesimo che formava la base dell'antica tattica: operare il massimo sforzo sulla chiave delle nemiche difese. Da questo principio ne derivano tutti gli altd' [nostra sottolineatura, che denota un'analogia con Carlo De Cristoforis - N.d.a.]: la conclusione è che, come per Jomini, ·tanto in tattica come in strategia per conseguire il successo, occorre "operare il massimo sforzo sul punto debole dell'inimico". Queste parole implicitamente sottolineano l'importanza dèlle battaglie, che del resto il concetto di guerra nazionale spinta a fondo già pn;suppone:

,. Scritti, I, pp. 2 1-51. 37 · ivi, p. 46. "·

ivi, II, p. 189.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

"le marce conducono un'armata allo scopo d'operazione, le battaglie ne decidono il possesso [...] l'apogeo della tattica è costituito dalle battaglie". Di più: le battaglie sono anche l'apogeo delle rivoluzioni, perché sono i punti trigonometrici della stoi;-ia, segnano il passaggio da un periodo di progresso all'altro, sono il trionfo delle idee, l'astratto tradotto in realtà e azione. 39

In particolare, esse sono tipiche dell'ultimo periodo delle rivoluzioni. Lo si deduce dal concetto "ternario" che C.P. ha dello sviluppo di quest' ultime, ne] quale par di trovare qualcosa che ricorda i tre stadi della civiltà di Giambattista Vico (l'età degli dei, degli eroi e degli uomini): Le rivoluzioni traducono l'astratto in realtà, danno forza al diritto,

proclamano col comune e difendono colle baionette le idee accettate dalla ragione. In esse si possono considerare tre distinti periodi, cioè: quello delle idee accettate e degli individui pronti a proclamarle; quello del movimento; e quello del sostenersi. Al primo si richiedono apostoli; al secondo cospiratori arditi e decisi; al terzo ingegni elevati, uomini di Stato, mezzi materiali40•

In sostanza, al di là delle motivazioni sociali il concetto di arte della guerra, strategia e tattica di C.P. non si discosta molto da quello di Jomini. Come quest'ultimo non ammette valide allemative alla guerra tra eserciti condotta secondo i canoni napoleonici, fino a scrivere che "una è la guerra, una è la scienza, sia guerra di popolo che guerra regia"41 • Peraltro Jomini vede come una jattura quelle rivoluzioni e quelle guerre di tutta la nazione che C.P. - come Clausewitz - giudica invece l'unico mezzo per la rigenerazione nazionale. E ne11a visione di C.P, lo schematismo, il dogmatismo, l'eccessiva cura del particolare, la ricerca di regole che caratterizza l'opera deUo scrittore svizzero (cfr. Vo1. I, cap. si attenuano notevolmente, sì che la sua impostazione dei concetti diventa flessibile e intelligente, fino a risultare spesso antitetica alla visione di Jomini e ad avvicinarsi piuttosto ali' approccio clausewitziano. Tipica è la definizione che C.P. fornisce di scienza della guerra, "un assieme di conoscenze" - che solo tali rimangono, e devono quindi essere applicate a un caso concreto - riguardanti l'organizzazione e la manovra di un esercito, il modo di farlo muovere e combattere ecc.:

m

questa scienza ha principi invariabili, definizioni che ne costituiscono il linguaggio, e un'immensa raccolta di sciolti problemi che compongono la storia militare, la conoscenza dei quali guida alla 39 · 40

•1.

ivi, Il, p. 56. ivi, pp. 57-58. ivi, p. 214.


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soluzione di quelli che le circostanze possono presentare. Essa è priva affatto di teoremi, e quindi può paragonarsi alla descrittiva in matematica. La scienza della guerra può dividersi in due rami: tattica e strategia. Generalmente il secondo di questi si considera come la parte sublime della scienza. Ma secondo noi, la differenza tra le due parti sta in questo, che l'una s'impara, l'altra [cioè la strategia - N.d.a.] è un assoluto dono della natura [...]. La strategia non si apprende, il genio solo l'ispira [...]. La tattica è figlia dello studio e non può essere scompagnata da lunga pratica nelle cose militari [ ...]. Essa è l'insieme di infinite minuziosissime conoscenze [... ] la loro applicazione presenta [ ...) numerosi ostacoli che richiedono a superarsi sveltezza ed esperienza, non genio [...). Se [invece) scendiamo dalle semplici conoscenze teoriche di strategia alla loro applicazione, emerge allora più sempre il bisogno delle rare qualità indispensabili a un generale in capo[ ...) il colpo d'occhio atto a conoscere il punto debole del nemico è retaggio del genio[...). Per applicare queste scienze è indispensabile che il generale in capo sia dotato d'intrepidezza senza pari, d'immensa sveltezza di mente, di ferma volontà, di fiducia somma nelle proprie idee, di calma inalterabile, e finalmente, d'assolutismo senza durezza nel comando, . per guadagnarsi il rispetto e l'amore a un tempo delle masse. Se manca uno solo di questi doni naturali, ad onta di qualunque vastità di conoscenze non s'avrà mai un vero generale in capo·•2• C.P. indica anche, nelle grandi linee, come collegare J'arte della guerra alla società. L'esercito deve comporre un sistema armonico, nel quale tutte le parti concorrono al conseguimento di un unico fine. La tattica esclude qualsiasi impresa condotta autonomamente a termine dai singoli e richiede uno sforzo d'insieme: potrebbe dirsi che l'apparecchio militare (quale lo definisce il Montecuccoli) è l'ossatura che l'incastella, che gli dà forma; le provvisioni, o regolamenti militari, i quattrocento e più muscoli che gli danno il movimento; il capitano la mente che concepisce; il sentimento nazionale, l'amor della patria il cuore, d'onde le passioni che gli danno l'impeto. L' apparecchio militare dipende assolutamente dalle armi e dai principi della guerra grossa [cioè della guerra tra eserciti regolari che si scontrano in battaglia - N.d.a): a quelle si adattano gli ordini e !'evoluzioni, a questi la forza dell'esercito, la sua ripartizione, la base dell'operazioni coi suoi magazzini, le sue linee, i punti dove si raccolgono le schiere... Fin qui è l'arte della guerra. La coscrizione o deletto, la disciplina, l' amministrazione accordano i principi dell'arte con le istituzioni nazionali. Noi dalle armi moderne, dal modo di c9mbattere determineremo gli ordini; dalla giacitura del nostro suolo, delle nostre frontiere, la forza dell' esercito e la proporzione fra le diverse armi; adatteremo il tutto alle istituzioni sociali43• "

ivi, pp. 81-83.

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Saggi, IV, pp. 53-54.


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Il relativismo e la flessibilità che C.P. dimostra con i concetti prima esposti lo allontano notevolmente da Jomjni, e ancor più dall'Arciduca Carlo. Molto più chiaramente - e con minori contraddizioni e ambiguità di quanto fa Jomini, egli sa distinguere tra guerra come scienza, come teoria che obbedisce ai principi e si impara più o meno bene a tavolino, e guerra come arte, cioè come applicazione dei principi teorici alla realtà, nella quale eccellono solo i grandi capitani E nella sua visione non solo la tattica, ma anche la strategia è azione, quindi applicazione: perfetta armonia con Clausewitz, il quale sosteneva che tutta la difficoltà dell'arte della guerra sta nell'applicazione. Ne deriva un'abissale lontananza dall'Arciduca Carlo - e a volte dallo stesso Jomini - per i quali la strategia è essenzialmente studio, teoria, piano, preparazione, e solo la tattica è azione. Senza contare, poi, che rovesciando certe affermazioni di Jomini e ancor più dell'Arciduca Carlo, egli giudica - sempre come Clausewitz - la strategia come branca nella quale più rifulge l'arte e il genio del generale, mentre la tattica è essenzialmente questione di dettagli, di studio e di esperienza, dove non occorre il genio. Del resto non manca di criticare Jomini, definendolo - già con una punta di disprezzo - "autore certamente non sospetto ai troni"44. E oltre a non concordare con la sua l'affermazione che Federico II avrebbe inventato l'ordine obliquo (cioè l'aggiramento di un'ala dell'avversario)4S, una volta tanto (è l'unico caso che finora abbiamo incontrato, dopo tante critiche parziali e lodi generalizzate) egli del tutto a ragione accomuna rettamente lo stesso Jomini, l'Arciduca Carlo e Btilow nello stesso schieramento di coloro che intendono sottomettere l'arte della guerra a regole fisse e matematiche: quali siano i migliori punti strategici, quali le linee d'operazione da scegliersi, in che modo possano classificarsi questi punti e queste linee, è affatto inutile parlare; solo giudice: il genio del generale [è, questa, già una non tanto implicita critica a Jomini - N.d.a .]. Le regole intorno a particolari siffatti sono disprezzale da chi possiede la scienza: non giovano che a illudere gli intelletti mediocri sulla propria capacità. Parecchi autori hanno scritto su tale scienza. Biilow cercò di sottometterla a regole matematiche e fu trascinato a false conseguenze [così pensava anche Clausewitz, e persino )omini N.d.a]. L'Arciduca Carlo ha dato estese e minuziose definizioni, ampliate poi dall' Jomini. Fra questi tre autori il solo che abbia dato prove di essere generale in capo è l'Arciduca. Biilow e Jomini non hanno mai comandato in capo, e l'historia militare scritta dal secondo è opera laboriosissima ma che non rivela potenza di genio. Biilow e Jomini, generali in capo da tavolino, studiandosi di sottomettere a regole una scienza come la strategia, tentavano tarpare le

ivi, pp. 44. ••- Saggi, II, p. 183.

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ali al genio. Essi spettano [cioè appartengono - N.d.a] a quei moltissimi che sono persuasi il segreto della guerra, dopo le campagne di Federico e Napoleone, esser noto, e poter ciascuno, a forza di studio, diventar generalissimo. Ma è strano che l'Arciduca Carlo, il quale riuniva le alte qualità del capitano, abbia voluto scendere a quei particolari, e tentar quasi di porre la scienza a portata di tutti [per la verità, lo ha fatto ancor più di Jomini - N.d.a.]. Il tentativo ad ogni modo riuscì affatto infruttuoso, e noi vediamo pur appellarsi ai mezzi termini, in quei medesimi che sono d'altra parte capaci di ripetere a mente le regole accennate da quei maestri, che pure sono i soli importanti davvero tra gli scrittori di strategia. Le conoscenze strategiche si riducono alle brevissime definizioni date da noi. Il sublime della scienza consiste nel comprendere chiaramente il terreno o concepire quelle operazioni militari, ardite, rapide, e concentriche che menano ai grandi successi. 46 Giudizi da condividere totalmente. Sono i primi in Italia - ripetiamo - a dare un'esatta co1locazione teorica ai due autori unanimamente considerati maestri - e riferimenti costanti - per il pensiero militare europeo e italiano. Spiace solo per l'assenza di Clausewitz, dispiacere temperato dal fatto indubitabile che C.P. è spesso clausewitziano senza saperlo, e senza aver mai letto Clausewitz. Non può comunque essere condiviso il disprezzo di C.P. per i "generali in capo da tavolino", quali sono stati Jomini e Htilow: per scrivere bene di strategia, non occorre essere o essere stati generali in capo. Né si può condividere la stima di C.P. per l' Arciduca Carlo come condottiero di eserciti; dopo tutto egli è stato disastrosamente sconfitto da Napoleone e costretto a ritirarsi, dimostrandosi comandante troppo timido, troppo prudente e troppo in attesa di ordini · dalla Corte. Ma, forse, in questo caso almeno, C.P. non riesce a scuotersi del tutto di dosso l'eredità delle scuole militari napoletane, dove l' ammirazione sperticata per l'Arciduca era una mod·a assai diffusa, come dimostra anche lo Sponzilli (cfr. Vol. I - capitolo IX). Per ultimo - in questo discostandosi, ma in positivo, da Clausewitz anche C.P. secondo la moda del tempo individua uno stretto rapporto tra geografia e strategia, fino a fare di quest'ultima, di fatto, una geostrategia. Anch'egli, come il Durando, si rivela seguace del Lavallée (vds Vol. 1cap. XII), ricercando attraverso lo studio dei corsi d'acqua - e delle relative displuviati - le chiavi per una corretta interpretazione delle possibilità e degli ostacoli che il terreno pone all'azione, e per l'individuazione dei punti strategici. In merito, egli scrive: la natura ci somministra regole generali, onde calcolare il terreno sul quale si opera: basta seguire il corso delle acque per dividerlo mili-

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Scritti, Il. p. 86.


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tannente [... ]. In un paese selvaggio la strategia è ridotta alla sua più semplice espressione; essa va complicandosi a misura che la civiltà e il commercio aprono nuove vie"47•

Il ruolo primario della riflessione storica: saldatura tra passato e presente militare L' exemplum historicum ha costantemente un ruolo primario nelle teorie di C.P.. Esso serve anzitutto - come avviene per Jomini - a giustificare i principi della strategia. E cosl trattando della scienza della guerra e dei suoi principi, afferma: Qualch'esempio che produrremo potrà essere utile a meglio spiegare quanto abbiam discorso, tenendoci a qualche fatto della Storia, il quale, non ispiegato dalla medesima, quanto a manovre, verrà per noi possibilmente tradotto nel linguaggio militare...48• AJ tempo stesso, C.P. con assai maggiore chiarezza del Blanch e di tanti altri individua le radici storiche della strategia, che dunque non nasce quando se ne comincia a scrivere, non nasce a tavolino ma nello scontro tra nazioni, fino ad essere un' emanazione della nazione: quando una nazione sceglie una patria, si ferma su di un suolo, con la patria sorgono le istituzioni militari e civili: si cercherà rendere a' propri guerrieri più facile il muovere e il combattere, primi rudimenti di tattica; si avrà un paese da difendere, un altro da attaccare, quindi una base ed un obietto, primi rudimenti di strategia49• Naturalmente il concetto di nazionalità, così forte in C.P., non può a sua volta che essere fondato su ragioni storiche, oltre che geografiche; ma questo non basta. Tutta la parte del pensiero di C.P. che riguarda gli ordinamenti militari, i rapporti interni, i rapporti tra istituzioni militari e civili, la necessità di costruire un'organizzazione militare in armonia con i principi di libertà e vera democrazia sociale, la polemica contro gli eserciti permanenti e di parte e - più in generale - contro il professionismo militare, poggiano su una riflessione storica assai profonda, condotta da C.P. specie nel I, II e IV Saggio. Più che una rottura con il passato, quindi una rivoluzione, la parte militare de] pensiero di C.P. - anche là ove essa è nuova e originale - è una controrivoluzione, un ritorno al passato; in questo senso, egli tenta di conciliare al meglio gli ammaestramenti dell'antichità classica romana con la realtà del momento e le sue concrete esigenze.

" · ivi, pp. 86-87. 48 · ivi, p. 116. 49 • Saggi, II, p. 13.


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Con un viaggio nel passato spesso interessante e originale anche se inevitabilmente ricco dei limiti tipici delle storie "a tesi", C.P. intende prima di tutto dimostrare una cosa della quale gli italiani del tempo hanno per la verità gran bisogno: il loro primato storico in campo militare, che non è ristretto all'antichità classica ma continuamente si è rinnovato. Per C.P. "il primo errore, che ci faremo a combattere, è la credenza quasi universale che i Greci furono, nella arte bellica, nostri maestri"50• In realtà "all'epoca in cui la storia prende le mosse, l'Italia è adulta, li guerra è un'arte, non cosl per la Grecia". L'esercito greco che muove all'assedio di Troia descritto da Omero non è una compagine uniforme che obbedisce a un solo capo, ma un insieme di diverse formazioni tribali con diversi capi; quindi nei combattimenti la massa perde qualsiasi importanza di fronte alle gesta di pochi eroi. Il perfezionamento della tattica greca avviene ali' epoca di PBlopida ed Epaminonda, cioè a più di 380 anni dalla fondazione di Roma; ma nelle narrazioni delle battaglie dei Romani dovute a Tito Livio leggiamo i provvedimenti, il disegno di chi imperava sulle schiere, e quindi il muovere di esse, d' una ala, del centro, non già degl'individui [...]. E questi ordini già esistevano centosettantasei anni dopo la fondazione, perché conforme ad essi venne regolata la classifica dei cittadini quando fu istituito il censo5 '.

Inoltre la falange, formazione serrata di uomini armati di larissa, non fu che un'imitazione dei grossi battaglioni persiani e degl'immensi quadrati egizi, "ordinamento naturale a' numerosi guerrieri asiatici, ed adattato alle pianure dove combattevano". Al contrario i guerrieri romani - per avere spazio sufficiente per il libero maneggio delle armi - occupavano ciascuno uno spazio di cinque o sei piedi quadrati. E "non fu una grande e pesante parte di un intera fronte che formò l'unità dell'ordine di battaglia romano, ma il mobilissimo manipolo: e le tre fronti su cui si schieravano i manipoli non erano continue". Questo modo di combattere - particolarmente adatto al terreno italiano - non era una caratteristica dei soli Romani, ma di tutti i popoli italici e anzi presso alcuni di essi, quella della guerra alla nascita di Roma era già un'arte in decadenza. Noi italiani non solo siamo stati, ma saremo in avvenire i più grandi maestri di guerra del mondo. E il primato militare italiano, che ha origine nella Roma repubblicana e ad essa si ispira costantemente, continua anche dopo: Da Romolo e Scipione noi portammo l'arte della guerra a11a più grande perfezione. La guerra gallica, le guerre puniche, offrono gli esempi de' più vasti concetti strategici che potrebbe concepire un moderno generale. Le battaglie del Vesuvio, d'Ilipa, del Metauro, di

50

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ivi, p. 10. ivi, p. 13.


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Zama, sono splendidissime combinazioni della tattica. L'ordine manipolare, di origine affatto italiana, fu il migliore che convenisse alle armi dell'epoca; ripartiti in tale ordine, noi abbiamo sfondato le caterve dei galli, squarciate le falangi macedoni, rotti i catafratti orientali, ed i loro innumerevoli eserciti dispersi. Nel medioevo sortimmo dalla barbarie ricorsa, e le dotte campagne di Castruccio, di Dal Verme, di Sforza, del Pramino... segnano il nostro secondo corso di vita militare. Dopo due secoli e non prima, Turenna e Montecuccoli, e questi italiano anch'esso, imitano quei tornei strategici, quel dotto guerreggiare che durante il XIV secolo costumarono gl'ltaliani. Le eccessive ricchezze ammassate dai pochi, e per conseguenza la miseria de' molti produssero la corruttela; da questa la servitù, e con la servitù sparirono le virtù militari. Non di meno l'Italia, deposto l'elmo e la spada, prese la penna, meditò sulle sue gesta, e dai fatti ricavò la scienza della guerra. Il Machiavelli propugnava la necessità degli eserciti nazionali quando tutta l'Europa guerreggiava coi mercenari, e determinava i principi immutabili degli ordini, delle evoluzioni, e del modo di governarsi in guerra. Allo scorcio del XVII secolo l'Italia contava presso a centocinquanta scrittori di cose militari. I tardi stranieri, due secoli dopo il libro di Machiavelli, non avevano né ordini né evoluzioni stabilite; gli uni e le altre cangiavano secondo i capricci di un Maestro di Campo Generale. Finalmente cominciarono i loro progressi sorretti nei primi passi da guerrieri italiani, i fratelli Colonna, il Duca di Ferrara, il maresciallo Trivulzio, i famosi organatori di milizie Naldo, Brisighella, Medici, Vitelli furono loro precettori; ed a capitanare le lbro armi vediamo più tardi, il Duca di Parma, Ambrogio Spinola, Montecuccoli competitori di Errico IV, di Maurizio, di Turenna. Noi siamo i medesimi italiani; il cielo, il clima, i monti, le valli non sono cangiati, né cangiata perciò è la nostra temperie, l'indole nostre. La sola disciplina, il timor della pena, che quasi in uno stato di completa apatia sospingono i settentrionali ad affrontare le offese nemiche, non sono per noi moventi efficaci. Noi vogliamo combattere per una cagione che ci muove ed accende, e però, pessimi soldati regi, siamo fatti per essere invincibili soldati della libertà. 52 Come già aveva fatto il Pepe (Voi. I - cap. XIII) l'ufficiale meridionale C.P., scrivendo nel 1857 ai "Fratelli di Sicilia" per scongiurare ogni tendenza separatista, ci tiene a rimarcare il primato storico delle Due Sicilie in ambito nazionale:

l'egemonia italiana si è sempre riscontrata, e riscontrasi tutt'ora, nei nove milioni che abitano dal Tronto al Lilibeo. Finché le Due Sicilie gemono sotto il dispotismo, il resto d'It~a non può sperare libertà;

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Scritti, III, pp. 159-160.


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non appena la rivoluzione rumoreggia alle falde del Vesuvio e dell'Etna, l'Italia tutta freme, e l'Austria paventa; se fra noi trionfa la libertà essa non resta mai alle frontiere, ma spandesi tosto fino alle Alpi. Cotesto nostro ascendente è confermato da quasi otto secoli di storia; e qualche articolo di giornale [forse si riferisce polemicamente al primato militare piemontese sostenuto dal Gioberti, dal Balbo, dal Durando e dal Mazzini - N.d.a.] non potrà mai togliere alle Due Sicilie e concedere al Piemonte le forze materiali che quelle posseggono, la loro vastità, le ricchezze, l'energia del popolo e la postura geografica che ne fanno la base naturale delle operazioni contro gli stranieri invasori. Chi decise la crisi rivoluzionaria del '48, chi diede lo Statuto allo stesso Piemonte, se non la pressione esercitata dalle stesse Due Sicilie?53 Gli specifici aspetti della storia militare dall'antica Repubblica di Roma in poi servono a C.P. per dimostrare la superiorità degli eserciti di cittadini dei popoli liberi su quelli mercenari o permanenti al servizio dei nemici della libertà. L'introduzione delle armi da fuoco che avrebbe semplificato l'addestramento (tesi non certo originale, sostenuta dal1o Zambelli e dal Cattaneo - Cfr. Vol. I - cap. X) e le masse male armate e poco addestrate della Rivoluzione Francese, secondo C.P. accreditano la tesi (spesso ricorrente nel suo pensiero) che anche un esercito improvvisato, e mal preparato può essere condotto alla vittoria applicando l'antico principio della massa. La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-1849 è naturalmente un'aspra critica a Carlo Alberto e ai generali piemontesi, che non hanno applicato nessuno dei principi strategici e ordinativi sostenuti da C.P. - a cominciare da quello della massa e del Comando unico - e hanno mostrato tutti i limiti delle monarchie costituzionali, delle guerre dinastiche e non di popolo e degli eserciti permanenti. Gli attacchi alle classi dirigenti civili e militari sono però accompagnati da un messaggio di fiducia nella capacità del popolo italiano di riscattarsi autonomamente e di riprendere il suo posto in Europa, senza imitare affatto le formule politico~militari francesi e inglesi. C.P. giudica fin troppo positivamente il periodo daJ 1814 in poi, dove, sia pur con insurrezioni fallite e sconfitte, il popolo ha dimostrato la sua volontà di rinascita: noi italiani siamo stati i maestri di guerra del mondo: ma assoggettati poi, per nùstra corruttela, agli stranieri, fummo dimentichi per lungo tempo di ogni sentimento di dignità nazionale. Dal 1814 comincia una serie di sanguinosi e nobili tentativi, pei quali ancorché sfortunati, l'Italia moralmente redimendosi, al 1848 comparve risorta alJ'occhio stesso degli stranieri, che la spezzavano. Ed oggi l'Europa sa che l'Italia c'è; e la tirannide europea ne teme, e i

"· ivi, p. 161.


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Popoli fidano nel di lei avvenire per sé stesso, e nell'associazione delle sue forze alla salute comune54 • Nelle meditazioni sulla guerra del 1848-1849 acquistano rilievo due aspetti, che sono il riflesso della personale esperienza di C.P. quale capitano dei volontari in Lombardia nel 1848 e magna pars militare della Repubblica Romana del 1849: la sua avversione per i corpi volontari e speciali e per Garibaldi che ne è l'emblema, e in secondo luogo la sua diffidenza per le rovinose inframmettenze politiche nella condotta della guerra, oltre che per l'incompetenza o incoerenza con cui anche governi o commissioni democratiche (come era quella che reggeva la Repubblica Romana) intendevano regolare le questioni militari, tarpando le ali a chi intendeva applicare i sani principì della strategia e corretti criteri ordinativi [cioè a lui stesso - N.d.a.]. Il giudizio sui volontari lombardi ricorda quello del De Cristoforis: critica aspramente (non è il solo) la condotta della guerra da parte del generale Durando, e dei volontari dice che abbandonati da tre mesi a loro stessi, e senza oggetto, alla frontierà del Tirolo, avevano conservato l'indisciplina e perduto l'entusiasmo. I 12.000 lombardi giunti al campo non erano né cittadini né soldati, ma pessime reclute; l'inazione, i disagi, e le mene della camarilla [contraria alla guerra a fondo contro l'Austria - N.d.a.J, che principiava a lavorare, avevano abbattuto lo spirito dell'esercito, e i soldati rimanevano al loro posto solo perché costretti dalla disciplina [ecco dove nasce il criticato concetto di disciplina di De Cristoforis N.d.a.]. Né essi destavano più la simpatia degli abitanti [...]. I lombardi, i romani, la divisione dei battaglioni di riserva, in tutto 20.000 uomini, dovevano considerarsi come truppa poco solida e incapace di stare in linea55 • L'avversione per i corpi speciali alla quale abbiamo già accennato non è legata solo all'esperienza del 1848-1849, ma ha un profondo fondamento tecnico, di carattere generale. C.P. è convinto (non è il solo) che la fanteria non può avere schemi fissi e assoluti di combattimento; ma ne deduce (e qui sta l'originalità del suo pensiero) che proprio per questo, a seconda della natura del terreno o di altre circostanze, la fanteria normale deve saper combattere anche alla spicciolata, cioè non in formazioni serrate, ma - come si diceva allora - "da (o in) bersaglieri": è grossolano errore credere che per i fanti il combattere a modo di

bersaglieri fosse una cosa accessoria e non già principale, e distinguere perciò i fanti leggieri da quelli di battaglia. Se nella divisa, nelle armi, negli ordini o nel modo di esercitare questi ultimi, vi è

54 ·

"·

ivi, p. 140. Guerra 48/49, pp. 121-122.


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qualcosa che li rende meno spediti degli altri, è un fallo gravissimo: la massima speditezza deve considerarsi come la qualità principale delle moderne fanterie, che debbono esser tutte composte di bersaglieri, i quali secondo le circostanze combattono in colonna o in battaglia. Anche l'armamento della fanteria deve essere unico: se la carabina in dotazione ai bersaglieri è migliore del fuciJe, allora bisogna darla in dotazione a tutti; in caso contrario bisogna eliminarla, perché la fanteria deve combattere tutta allo stesso modo, e in guerra i calibri diversi complicano il rifornimento delle munizioni. Nella fattispecie la carabina è più precisa del fucile, ma richiede per il tiro più calma e braccio più saldo, e soprattutto più tempo per la carica. E il vantaggio del tiro preciso a grandi distanze è poco significativo in guerra ... perciò, dovendo armare tutta la fanteria allo stesso modo, è un'assurdità giustificare l'esistenza dei bersaglieri dicendo che non sono soldati che combattono in modo diverso, ma solo soldati scelti: "i triari moderni, come quelli degli Antichi, non possono esistere dopo una lunga pace; essi debbono cercarsi credendoli necessari, fra soldati provati in guerra ed accostumati più degli altri al periglio e alla fatica; ma è cosa ridicola dichiarare triari alcuni battaglioni solo perché più esercµati, ed uomini più belli e meglio vestiti». Italiani, Greci e Spagnoli sond d'altro canto bersaglieri naturali; e sarebbe del pari assurdo e inutile "se noi della gente più tarda formassimo dei battaglioni di granatieri destinati a combattere in linea continua"56 • La seconda ragione della posizione di C.P. sui corpi speciali è di carattere . morale e disciplinare. In questo senso, il suo giudizio su Garibaldi non si discosta per nulla da quello di un generale piemontese o napoletano; questo dovrebbe far riflettere coloro che alquanto semplicisticamente, vorrebbero inquadrare le fobie dei generali piemontesi o italiani monarchici per il "garibaldinismo" nei contrasti tra fautori della guerra regia e della guerra di popolo, oppure ridurle a meschine invidie di mestiere. In realtà. le idee di C.P. rispecchiano anzitutto la preoccupazione per l'efficienza morale complessiva dello strumento, che può derivare solo dalla sua omogeneità e intercambiabilità, da una disciplina uguale per tutti e dalla mancanza di tensioni e rivalità interne. A queste preoccupazioni, C.P. aggiunge anche le istanze democratiche: criticando la proposta del generale svizzero Dufour di destinare due delle sei compagnie di un battaglione a combattere da bersaglieri, egli obietta che queste compagnie ben presto si considererebbero qualcosa di speciale, da cui nascerebbero contrasti e riluttanza della truppa a sottoporsi all'occorrenza al comando di ufficiali di altre compagnie. Perciò questo ripiego non è conforme a un principio che nella moderna democrazia deve considerarsi come base dell'organamento d'un ,._

Saggi, IV, pp. 63-64.


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esercito; non ammettere fra le soldatesche altra distinzione, eccetto quelle che risultano della diversità delle anni, né mai destinare alcuni uomiru specialmente a un servizio che possono tutti ugualmente soddisfare; con questo principio si ottiene nell'amministrazione, ne11a disciplina, nei movimenti, la massima semplicità e speditezza57 • La ''Legione italiana" di Garibaldi che arriva alla difesa di Roma ne] 1849 è appunto 1' emblema dei corpi speciali tanto .avversati da C.P.. Essa - senza

avere addestramento e armamento diversi da quelli delle truppe della Repubblica Rpmana .- era composta da troppo numerosi ufficiali da lui giudicati valorosi e pronti d' ingegno, ma assolutamente digiuni di "pratica e di teoriche militari". Aveva "diverso soldo, divisa e disciplina" rispetto a tutto il resto dell'esercito, e benché fosse "il corpo più benemerito" della Repubblica, disgraziatamente nella generalità di questo corpo regnavano dei pregiudizi nati dalla mancanza di cognizioni militari dei capi, che facevano disprezzare tutto ciò che era regolare e tradizionale. Ed i militi della Legione non avevano rispetto veruno per gli ufficiali degli altri corpi. e però l' armata temeva l'immediato contatto della Legione. Garibaldi conosceva ciò e cercò ottenere individualmente quello che non poteva ottenere dalla massa, e difatti moltissimi individui abbandonarono il corpo per arrolarsi nella Legione'8• In sostanza la Legione è una fonte di dissolvimento e di disordine all'interno delle truppe della Repubblica, che già non brillano per disciplina. Ne conseguono grossi ostacoli per l'organizzazione delle truppe, della quale C.P. è l'anima; e fin qui, le sue parole di critica all'operato dello stesso Garibaldi in queste circostanze sono pienamente giustificate. Assai meno accettabili - anche se non sempre infondate - sono le considerazioni di C.P. sulle qualità di Garibaldi come generale, le quali denotano un forte astio personale derivante sia dalla passionalità di C.P., sia dalla scarsa comunicabilità e differente mentalità tra l'ufficiale di carriera proveniente da studi regolari e il Capo naturale che non ha mai messo piede in una scuola militare o in una caserma, sia infine dal semplice fatto che Garibaldi e i suoi metodi, in Lombardia come a Roma, sono stati costantemente l'ostacolo principale che C.P. si è trovato davanti, per far accettare i suoi disegni rispondenti a]Ja strategia classica, che non sono mai stati approvati. Dimenticando di aver scritto che "la strategia non si apprende, il genio solo J'ispira"59 C.P. accusa Garibaldi di non avere "il genio e la scienza di un generale", di essere solo un capobanda abituato a comandare piccoli reparti, le cui capacità militari sono state gonfiate dalla stampa. Quest'ultima "senza

1 ' ·

ivi, pp. 75-76. Scritti, Il, pp. 23-24 "· ivi, p. 83. 58 ·


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tener conto di queste circostanze, proclamò Garibaldi gran generale prima che fosse giunto in Italia [da Montevideo]". Nella Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-1849 gli contesta persino, oltre a quelle strategiche, le qualità di capo guerrigliero: nelle manovre di Garibaldi non vi è concetto strategico. Come tattico, egli ha l'abitudine di fare delle marce lunghissime senza scopo prefisso, e affatica perciò inutilmente le truppe; giunto in un luogo forte, si arresta e attende il nemico; quindi non ha neanche il genio del partigiano, che deve essere continuamente o in ritirata o in offensiva. Nel combattimento impegna la sua gente in dettaglio, e non può mai ottenere un risultato decisivo. 60

Secondo C.P. nella guerra in Europa - della quale al momento Garibaldi non ha esperienza - "tutti i vantaggi che possono ottenersi dal terreno, dagli uomini e dalle armi, sono stati ridotti a una scienza, che darà sempre la superiorità a chj la possiede" (se fossero vere queste parole, allora Garibaldi sarebbe stato sempre un generale perdente). E contraddicendo le idee da lui espresse in sede puramente teorica, aggiunge che non è possibile il diventare generale in un mese: un uomo valoroso e intelligente potrà in poco tempo diventare un buon capo di corpo, ma per muovere le masse, per regolare l'amministrazione, per provvedere alla sussistenza di un esercito, bisogna una somma intelligenza, accompagnata da lunghi e profondi studi [che nemmeno Napoleone, da C.P. tanto esaltato, aveva compiuto - N.d.a ]61 •

Un'altra contraddizione di C.P. si rileva a proposito del giudizio sulle doti di Garibaldi come capo guerrigliero, che in altri scritti è opposto rispetto a quello precedente: il suo bello aspetto, il suo modo esclusivo di vestire, le sue abitudini l'aveano circondato di un tale prestigio da far credere a lui stesso di avere la capacità di gran generale, mentre egli non avea che il genio del guerrigliero [nostra sottolineatura - N.d.a.], il quale impegna gli uomini quasi individualmente, senza fare uso delle masse, solo mezzo decisivo in guerra; credeva di poter condurre un'armata di 30.000 baionette, nel modo stesso che si conducono trecento uomini 62•

Si può osservare, in proposito, che il governo della Repubblica Romana ba avuto il torto di creare le premesse per un pernicioso dualismo e ancor più di tollerarlo - tra il debole generale Roselli, formalmente "' •• "'·

Guerra 48/49, p. 148. IBIDEM. Scritti, II, p. 23.


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comandante in capo, e Garibaldi, che naturalmente tende a schiacciarlo con la sua prorompente personalità e riesce sempre a fare di testa sua. C.P., aiutante di Roselli, è la principale vittima di questo contrasto. In sostanza, con questi oscillanti giudizi C.P. mostra di non capire - o di non voler capire - tre cose: a) con truppe come quelle che nel 1849 avrebbero dovuto difendere Roma, non era possibile compiere quelle manovre classiche su larghi spazi di sapore napoleonico che egli vagheggiava. Garibaldi non mancò di farglielo notare, e aveva più ragione che torto; b) quale altro generale italiano possedeva in misura così elevata quel carisma che per stessa ammissione di C.P. era sempre necessario, e ancor più necessario per scuotere una gioventù da secoli imbelle e farla combattere con l'indispensabile unità e coesione? c) C.P. pretendeva che Garibaldi si uniformasse agli ordini e direttive che egli gli impartiva a nome di un Capo senza prestigio come Roselli, cosl come avrebbe dovuto fare un generale di ben ordinato esercito regolare in campagna, tenuto a eseguire gli ordini che gli porta un qualsiasi ufficiale di Stato Maggiore. Ma le condizioni della difesa di Roma erano quelle della difesa in genere di una città da parte di un esercito regolare, erano cioè da manuale? la strategia e la tattica si devono o no adeguare allo strumento disponibile? Il giudizio su Garibaldi mette perciò in luce uno dei limiti più severi delle teorie di C.P., cosl come sono state finora esposte: la speranza - che facilmente può trasformarsi in illusione - di poter trasformare in tempi ristrettissimi in ordinate schiere atte a combattere una guerra classica, delle formazioni improvvisate con Quadri inesperti, dalle quali solo capi naturali anche se incolti come Garibaldi potevano cavare tutto il possibile, almeno a breve termine. Nella fattispecie, le vistose lacune e l'eccessiva estensione delle fortificazioni di Roma in rapporto alle forze disponibili portarono C.P. a ritenere più conveniente abbandonare la città con l'esercito per affrontare l'agguerrito corpo di spedizione francese in campo aperto; ma le forze della Repubblica Romana non disponevano - per sua stessa ammissione - della capacità di manovra, dell' addestramento e dell' inquadramento necessari per poter affrontare con successo battaglie campali contro un simile avversario. Coglie perciò nel segno il generale Mondini, che conclude un suo recente studio sulla difesa di Roma sposando il diverso parere - poi prevalso - del Mazzini, il quale non aveva fiducia nella capacità combattiva in campo aperto delle truppe della Repubblica e anche per questo era più propenso a difendere la città. Oltre tutto, secondo Mazzini Roma era un obiettivo di altissimo valore politico la cui difesa - anche se soccombente - avrebbe assunto le forme della guerra di un popolo inerme contro un possente esercito, attirando l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale e creando così favorevoli premesse per ulteriori rivendicazioni63 •

63 ·

L. Mondini, L'aspetto militare della difesa di Roma nel 1849 (in AA.VV., Giuseppe Mau.ini e la Repubblica Romana, Roma 1949, pp. 37-62).


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Ancor più dello studio delle passate vicende dell'Italia, l'esperienza del 1848-1849 funge da elemento catalizzatore delle idee di C.P.. In particolare il contrasto fra la visione fin troppo politica del Mazzini e la sua visione fin troppo militare lo induce a considerare - anche sul piano generale - che le inframmettenze politiche nella condotta delle operazioni sono sempre nocive, e che il capo militare deve essere sempre autonomo e unico responsabile delle scelte per ottenere la vittoria Siffatti principi sono evidentemente anticlausewitziani, perché non sempre le esigenze politiche consigliano di condurre una guerra a fondo, per conseguire una vittoria decisiva sull'avversario. Questa invece rimane - in tutte le occasioni - l'unica prospettiva possibile per C.P., pur cosl elastico e "clausewitziano" in altre occasioni e pur così attento al legame tra Istituzioni militari e società, legame che di per sé stesso non tollera alcuna rigidità nella ragione puramente militare.

SEZIONE II - Critica ai due modelli estremi: eserciti permanenti e corpi speciali o bande di guerriglieri

Ragioni dell'inefficienza morale degli eserciti dinastici La preoccupazione principale e costante di C.P. è di armare la rivoluzione: armarla non solo materialmente, ma prima di tutto moralmente. In buona sostanza, si tratta di trovare il modo di restituire alle schiere armate della rivoluzione nazionale italiana l'antico valore, l'antica coesione, l'antico spirito combattivo la cui perdita è stata causa delle sventure della Patria, e che non di rado sono comparsi anche nella guerra del 1848-1849. Premesso che, ovviamente, la vera disciplina e lo spirito combattivo incomincia dai piani alti della gerarchia, C.P. osserva che negli eserciti regi la scelta dei capi militari è ristretta a una cerchia di favoriti, e non certo estesa ai migliori. Il comandante supremo ricerca soprattutto i1 favore del Re, "scudo e difesa sicurissima a qualunque errore" ; e piuttosto che la stima della pubblica opinione, il generale tiene in maggior conto "un ciondolo inviato dai penetrali della reggia, segno di schiavitù più che di onore". Ne conseguono "la paralisi, il dubbio continuo, il temporeggiare, la prudenza spinta alla pusillanimità, e per conseguenza meschine imprese, disastri, o patti vergognosi". Nulla di tutto questo deve avvenire negli eserciti di un popolo libero, dove bisogna dar modo al valore e all'ingegno di rivelarsi aumentando l'impegno di tutti. Solo così facendo "un generale d'esercito, avido di conservare l'aura popolare, stimolato dalla sferza d'una stampa libera e severa, sollecito di soddisfare alla pubblica aspettazione e impedire che un rivale, con arditi disegni, lo soppianti, precipitasi in quelle audacissime imprese che sono l'impeto di un popolo corrente verso la libertà"1,4.

64

Saggi, III, pp. 91-92.


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Nell'attuale stato di cose, generali, Stati Maggiori e comandanti di corpo negli eserciti italiani sono "gente in gran parte senza genio, non altro ch'emissari vilissimi d'un più vile padrone"; è l'interesse individuale, più che la disciplina, a mantenerli legati al trono. Invece, nei gradi inferiori "questo stesso interesse è in ragione inversa al merito. Un giovane militare fidente nei suo ingegno non può che aborrire il sistema del favoritismo e mal piegarsi all'umiliante mestiere del cortigiano". Più in generale, pur riconoscendo che "sotto le divise degli eserciti di Napoli o del Piemonte battono assai nobili cuori" e che molti ufficiali giudicano finita l'era dei prlncipi, C.P. mette sotto accusa il sistema di formazione e selezione dei Quadri: gli uffiziali sogliono ottenere il loro grado o dopo una lunga carriera, o passando 1a vita come soldati nella più stretta comunità, o pure dopo la educazione delle scuole ove egualmente è radicato lo spirito di corpo che li stacca dai cittadini. La posizione di un ufficiale, che dura invariabile quali che siano gli avvenimenti politici, lo rende non curante dell'avvenire; esso aspira solo all'elogio dei suoi superiori e dei suoi camerati, per esso il pubblico è nell'esercito, la patria nel quartiere[...]. Finalmente nella massa dei soldati, i quali menano una vita schiava e misera, che aborrono il servizio, che anelano il momento di ritornare in seno dei loro parenti e dei loro conterranei, l'interesse individuale è in opposizione diretta con la forza di coesione. La disciplina segue ogni altra legge, essa è più efficace sulla massa dei soldati che sugli uffiziali, i quali facilmente fne] possono conoscere il lato vulnerabile. Dal nostro ragionamento si desume che, in generale, negli eserciti la massa degli individui sui quali l'interesse individuale agisce nel senso opposto alla disciplina, e quella su cui queste due forze cospirano allo stesso effetto, sono nella ragione di 100:5. Quindi, nella massa principale di queste forze è una lotta continua tra la disciplina e l'interesse individuale.

In questa lotta, la disciplina non è così forte come potrebbe sembrare a prima vista: essa "è come la forza di un getto d'acqua che batte sulla fonte da cui esso è attinto; se questa fonte vuole affrancarsene non deve che negargli il suo soccorso[... ] quindi, se ogni soldato ricusa essere il carnefice dell'altro, questo basta per rompere i potenti mezzi d'azione della tirannia"65 • Come si è arrivati a questa situazione? In merito C.P. compie un excursus storico, dal quale risultano due aspetti essenziali: a) "l'esperienza ci ha insegnato, a nostre spese, che la propaganda politica deve progredire d'accordo con l'organizzazione militare"; b) la storia dei popoli liberi dimostra che essi "non trovarono mai necessario un esercito permanente per tutelare la loro libertà". Perciò nell'interpretazione della storia che egli ci

"'

Scritti, Il, pp. 203 e 205- 206.


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fornisce, si trovano ampie tracce delle idee del Blanch, dello Zambelli e del Cattaneo (Cfr. Vol. I Romani - che erano un popolo "eminentemente guerriero" - hanno fatto gran parte delle ]oro conquiste senza avere bisogno di un esercito permanente. Ma non appena furono corrotti dal lusso, divennero tiranni degli altri popoli e i confini del loro Impero non furono più quelli indicati dalla natura, ebbero bisogno di forze permanenti che poi imposero loro dei tiranni, e la loro potenza militare gradualmente decadde. Al contrario, ]e "repubbliche dei mezzi tempi" (cioè i Comuni) mancarono totalmente di organizzazione militare e per questo caddero nelle mani di coloro che possedevano la forza militare. Questi due esempi servono a dimostrare il punto centrale della riflessione di C.P. sull'organizzazione militare, che tende a mettere in rilievo l'importanza gradualmente assunta dalle fanterie a partire dall'età d ' oro della cavalleria, nella quale l'arte militare era riservata ai pochi eletti che potevano dedicare tutto il ]oro tempo all ' addestramento, e che disponevano delle risorse necessarie per l ' acquisto di cavalli e armature. Con il successivo sviluppo dell' industria e dei commerci, la nobiltà chiusa nei suoi castelli decadde e le città divennero Stati in cui fiorirono le scienze, la letteratura e le arti. Ma per dedicarsi alle loro pacifiche attività i mercanti commisero l'errore di lasciar cadere in dispregio il mestiere delle armi, e assoldarono compagnie di ventura. Avvenne così che terminate le guerre, i mercenari volgevano spesso le loro armi contro lo stesso governo che 1i aveva assoldati, e nacquero i tiranni. Quest' ultimi anche per ragioni economiche arruolarono sempre più numerose fanterie; ma per C.P. il fattore determinante - come già pedl Blanch e lo Zambelli - è stata la scoperta della polvere. Dopo l'introduzione delle armi da fuoco la fanteria divenne veramente Arma di massa, e i suoi ranghi non furono più formati "da eletti individui, a' quali bastava il sentimento della gloria per animarli a un'impresa". Così la disciplina divenne più dura, anche perché tutto era basato sul genio e l'intelligenza del solo capitano e quindi per conseguire lo scopo era necessaria un'obbedienza passiva. ln seguito

n.

Gustavo Adolfo, Federico Il e Napoleone perfezionarono la disciplina e ne formarono lo spirito degli eserciti. La disciplina diventava sempre più rigorosa e necessaria a misura che, con lo sparire dei privilegi, spariva tra soldati e uffiziali l'influenza del nobile sul plebeo. Vi era però un forte sentimento nazionale, un intenso amor di gloria che quei monarchi, benché dispotici, sapevano infondere nelle loro truppe66. C.P. ammette dunque che spesso, nella storia, regimi liberi banno trascurato le armi, perdendo le loro libertà; e che, al contrario, sovrani "'

ivi, pp. 200-201.


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dispotici sono riusciti, a volte, a infondere nelle loro truppe il sentimento nazionale e l'amor di Patria. Se ne deduce che non sempre il soldato è mosso da interessi materiali ... C.P. legge, poi, la storia un po' a suo modo: anche negli eserciti romani della Repubblica, o nelle compagnie di ventura, o negli eserciti monarchici ma nazionali di Spagna, Francia e Inghilterra e ancor prima dell'invenzione della polvere, la disciplina era assai dura ... Ciononostante, pur con qualche accentuazione e generalizzazione eccessiva (l'esercito francese, inglese, ecc. anche nell'età post-napoleonica erano al servizio dello Stato, valorosi e permeati da forte spirito nazionale), C.P. ha ragione quando afferma - riferendosi in particolar modo all'Italia che dopo il 1815 ha inizio per gli eserciti ''un'epoca di vergogna o di abbassamento" , nella quale il corso irresistibile del progresso "ha spogliato il trono del diritto divino" (qui bisognerebbe aggiungere, a parer nostro: "specie agli occhi del1a borghesia e delle élites protagoniste di tale progresso"). Ne consegue che I monarchi, deboli l'uno rispetto all'altro perché mancanti della confidenza del popolo, non possono avventurarsi in guerre lontane per tema che il popolo li sbalzi dal trono; quindi è che si sono legati insieme per difendersi contro il turbine che li minaccia, e gli eserciti hanno perciò cambiato la loro missione. Essi non possono più chiamarsi eserciti nazionali, giacché invece di rappresentare gli interessi di una nazione, rappresentano quelli di un individuo[... ). Ma dovendo i tiranni servirsi di questi eserciti per lanciarli contro lo stesso popolo da cui essi nascono, non bastava il restringere sempre più la disciplina fino a quello stato di esagerazione in cui si trova al presente; bisognava, di più, che_il soldato dimenticasse affatto che nasceva dal popolo, e che fra il popolo aveva fratelli ed amici, bisognava di questo esercito formare una casta, i di cui interessi non solamente fossero divisi, ma in opposizione con quelli della società [... ). Ai giovani di carattere violento, nell' esercito si assicurò l' impunità del loro difetto permettendo loro di esercitarlo contro l'inerme cittadino. La dissolutezza e la crapula furono incoraggiate, onde distrarre gli spiriti dalla riflessione, e gl'intrighi del governo posero sempre il cittadino in urto diretto col soldato. A Lione, la notte, erano sovente disarmate le sentinelle dai cittadini; un granatiere uccise una volta uno degli assalitori; era un agente di polizia. Finalmente, di ogni reggimento si è formato una famiglia. Un militare deve rinunziare alla sua esistenza individuale come un frate e staccarsi completamente dal popolo [...]. In Francia, un uffiziale il quale non ama il giuoco, il caffè, che non sempre è in compagnia degli altri, è considerato come mauvais camerade.61

La cieca disciplina degli eserciti permanenti è un motivo continuamente ricorrente nell'opera di C.P,. così come avviene nell'opera del Filan"·

ivi, pp. 201-202.


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gieri, da lui citato. A suo giudizio questa disciplina, basata solo sulla obbedienza passiva, oltre ad essere degradante è nociva in guerra, dove "spegnendo la volontà, diviene impossibile lo sviluppo delle grandi passioni che sono i moventi delle gloriose gesta [...] non sono gli ordini, non è l'istruzione, non l'ubbidienza che inspira il valore del soldato, che forma le colonne delle sue file! Ma è il convincimento di combattere per una causa che l'interessa e lo esalta che produce tali miracoli"68 • A maggior ragione ciò è vero per gli italiani, perché (troviamo riflessioni del genere in diversi altri scrittori italiani meridionali a cominciare dal Pepe e dall'Ulloa): la disciplina, bastante a rendere il russo e l'inglese ottimo soldato, non basta, con diverse gradazioni, all'Italiano, al Greco, allo Spagnolo, al Francese eziandio; questi popoli debbono combattere sotto il pungolo d'una passione che li esalti; questi popoli hanno troppo discernimento per sacrificarsi come ciechi strumenti del1' altrui volontà[ ...]. Paragonate il soldato italiano a Pastrengo [vittoria del 1848 - N.d.a.] e lo stesso soldato a Novara [sconfitta definitiva del 1849 - N.d.a.] e scorgerete ad evidenza come il convincimento e l'esaltazione siano per tutti i popoli di svegliato ingegno moventi assai più efficaci che la disciplina e il terrore. ln virtù del loro discernimento cotesti popoli, e particolarmente gl'Italiani, combattono da eroi in lontane regioni, e mollemente, se manca l' esaltazione nel proprio paese; nel primo caso essi veggono nella disfatta la loro ruina, nel secondo un pretesto per tornarsene a casa [...]. Un e~ercito d'italiani, guerreggiando per conto d' una dinastia e per cagioni che non comprende, sarà il peggiore degli eserciti europei; se però combatterà per una causa sentita e popolare, sarà invincibile69•

Ciononostante, C.P. ritiene indispensabile in guerra una cieca obbedienza (sic), la quale però "dura pei novizi, divien costume e sarà l'effetto non già del timore, o servilità d'animo, ma di un profondo convincimento". La sua non è quindi disciplina lasca, ma discipJina derivante da intima convinzione e comunanza di idee, quindi più che altro, autodisciplina: concetto molto moderno, ma da sempre difficile da realizzare. In quanto al particolare carattere degli italiani, anche per aver ragione dei loro difetti Carlo De Cristoforis suggerisce un indirizzo disciplinare opposto. Come De Cristoforis, però, anche C.P. pensa che il soldato apprezzi soprattutto la costanza e la giustizia: "il soldato, cui da principio saranno sembrate dure le misure di rigore prese dal generale, ne riconoscerà poi l'utile [... ] e crescerà per quello in lui la stima, mentre presto o tardi cangerà l'amore in disprezzo per colui che abbandoni, per ignoranza o smania di popolarità male intesa, le sue truppe all'indisciplinatezza e al disordine"10 •

68

69 · 10 ·

Scritti, III, p. 51. Saggi, III, pp. 15 l e 152-153. Scritti, il, p. 112.


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Perciò una volta decisa la guerra .e raccolte le schiere, l'obbidienza passiva è indispensabile, "altrimenti non sarebbe possibi]e compiere veruna impresa". C.P., che naturalmente conosce molto bene i difetti dell'esercito permanente borbonico fino a farne il paradigma dello strumento militare dinastico, ci tiene anche a far notare agli antichi coUeghi che far parte di un esercito dinastico non è avvilente solo per la truppa, ridotta a cane da guardia: non solo siete i carnefici del popolo, ma i carnefici di voi medesimi; voi siete le vittime le più tormentate del dispotismo; un pensiero, una parola, l'antipatia di un vostro superiore, di un cortigiano, di un birro, basta a privarvi dell'impiego, gettarvi in un carcere, sottoporvi, rifatti civili, alle legnate, moschettarvi, un sanfedista; oggi passeggerete facendo pompa della vostra divisa, domani sarete in un carcere in balla della brutalità di un birro11 •

Pur ammettendo che un lungo tempo trascorso sui campi di battaglia e una serie ininterrotta di vittorie "possono formare quelle schiere di veterani che amano la guerra per la guerra, che tutto il loro utile si riassume nel1' utile della vittoria, come erano le schiere napoleoniche"72, C.P. si sforza anche di demolire una delle argomentazioni principali a favore degli eserciti permanenti: la loro superiorità addestrativa. Sempre come De Cristoforis, egli critica - evidentemente sulla base di un'esperienza diretta - i loro sistemi addestrativi irrealistici e l'istruzione meramente da parata, che non hanno alcuna aderenza al]e esigenze della guerra vera, su terreno vario. Coloro che si esercitano con le carabine dette di precisione, facendo caricare l'arma da un domestico e sparando col braccio e l'arma sorretti da un appoggio, "s'accostumeranno a questi modi e in guerra saranno da meno di chi mai avesse maneggiato moschetto". D'altro canto, "è cosa umiliante per un giovane di umor bellicoso, che pieno d'ardore corre ad offrire i suoi servizi alla patria, vedersi costretto ad imparare i giri sull'asse ed i movimenti della testa; o le sue illusioni svanisconc ~ l'ardire del suo animo s' ammorza, o pure concepisce un disprezzo per coloro che insegnano tali cose"13 • Anche ne1le grandi manovre a partiti contrapposti Ja parte strategica viene esclusa, e coteste esercitazioni non possono considerarsi come l'assalto che due schermitori per addestrarsi eseguono con armi cortesi, ma bensì come que' duelli da scena ove si stabiliscono i colpi, le parate, i passi, e financo il cadere del vinto; e come questi duelli non sono certamente scuola di scherma, così que' ludi non sono scuola di guerra1• .

11

n. 13 1

•·

Scritti, ill, pp. 143-144. Saggi, IIl, p. 152. Saggi, III, p. 160. Saggi, IV, pp. 166-167.


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C.P. ritiene che, al momento, la vera difficoltà non consista tanto nel-

!' addestrare il soldato al maneggio del fucile e a muovere in ordinanza, ma nell'esercitare i Quadri alle manovre tattiche reali necessarie sul campo di battaglia. L'istituzione degli eserciti permanenti non facilita affatto l'acquisizione da parte dei Quadri della pratica necessaria in questo campo; infatti (cosl pensava anche De Cristoforis), in terreni perfettamente piani e sgomberi, in piccole frazioni muovono le schiere ad esercizio e ripetono continuamente quelle mosse che servono solamente ad addestrare i militi; spendesi così tempo e fatica in queste minutaglie, trascurando la parte più interessante della tattica [... l Le esercitazioni delle milizie perpetue di cui menasi gran vanto, altro non sono che inut~ ripetizioni che rimpiccioliscono l'animo del milite, suscitando idee false e facendogli contrarre nocive abitudini, molto più dannose dei lievissimi vantaggi che si ottengono dalla precisione ed insieme de' movimenti 75 • Numerose e giuste anche le critiche alla formazione degli ufficiali di Stato Maggiore, che oltre a possedere doti innate come la calma, l'ingegno ecc. , dovrebbero acquisire la conoscenza del terreno, delle varie Armi e delle grandi evoluzioni, studiando e applicando le teorie apprese "in quelle grandi esercitazioni che mai si praticano, o assai raramente e imperfettamente, dagli eserciti permanenti". Invece questi ufficiali di Stato Maggiore non sono che topografi, e molti dottissimi fra loro, mancano affatto della pratica delle loro incombenze; la maggior parte, poi, sono oziosi scelti per favore, lavorando meno che ogni altro ufficiale de11 'esercito e più che ogni altro retribuiti, avv~zzi a parteggiare coi generali non già l'occupazione, ma il lusso e l' ozio, quindi in uggia a tutto l'esercito e quindi l'idea falsa e dannosa che essi siano in guerra inutili affatto76• Inutile anche inviarli a prestar servizio per qualche tempo in Arma diversa da quella di origine: in questa occasione, infatti, essi non affinano la loro capacità tattica, ma acquistano solo la pratica minuta del servizio in caserma e delle esercitazioni della truppa, cose indispensabili per un ufficiale d'Arma ma inutili o quasi per un ufficiale di Stato Maggiore.

Il contrapposto giudizio su guerra per bande e insurrezione: insostituibilità dell'esercito regolare La critica agli eserciti permanenti del tempo, al loro tipo di disciplina, al loro addestramento e al loro modo di essere aveva spinto Mazzini e ivi, p. 32. ,._ lbidem.

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diversi aderenti al movimento mazziniano a disperare di avere subito disponibili per la guerra nazionale "schiere disciplinate", e a presentare come unica alternativa la "guerra per bande", cioè una guerra naturale, spontanea che non richiedeva alcun specifico addestramento d'insieme (Vol. I - cap. XIV). Opposta, anche in questo, la posizione di C.P.: da quanto abbiamo detto risulta chiaramente che il suo strumento militare risponde a "modelli" classici, pur con molte innovazioni al suo interno, che in seguito esamineremo. Si tratta infatti di un esercito pur sempre costruito per battere l'avversario in battaglie campali di stampo napoleonico, che pertanto rimangono la meta della strategia e l'oggetto della tattica. Non è del tutto esatto affermare che C.P. rifiuta la "guerra per bande": piuttosto egli - con una posizione non molto difforme da quella del Blanch, del Balbo e di altri - sulla base dell' esperienza storica ne ridimensiona il ruolo e vede piuttosto nell'iniziale, spontanea insurrezione specie delle città il modo più conveniente per dare respiro e for.la popolare a una guerra che, come già si gia si è visto, sia essa ''regia" o "di popolo" ubbidisce ai medesimi principi. In tal modo C.P. non nega ma anzi propugna la necessità di una larga partecipazione popolare alla guerra: intende però vagliarne i modi, i tempi e le circostanze, ben distinguendo tra guerra per bande e insurrezione. Come forma di tale partecipazione egli incomincia ad escludere la Guardia Nazionale: nel 1848 il popolo si accontentò di cacciare l'austriaco dalle città, e tutto finì Jì. Anziché riunirsi, piombare sul nemico e distruggerlo, "si lasciò persuadere dell'aristocrazia che fosse bastante sacrificio per ogni cittadino, e sufficiente garanzia per la libertà, quella di iscriversi nei ruoli della Guardia Nazionale e dei reggimenti, che con tutta la lentezza del tempo di pace si venivano ordinando"n. In realtà, la Guardia Nazionale è "una di quelle assurde istituzioni" che sono figlie del dualismo costituzionale: "essa rappresenta l'esercito del popolo contro l'esercito del despota. Ma nella guerra contro i tiranni, e nelle guerre nazionali, il che suona lo stesso, il popolo tutto deve radunarsi al campo, né deve esservi distinzione tra il soldato e il cittadino: militi tutti, soldati nessuno". Al tempo stesso, C.P. è contrario a qualsiasi concezione elitaria della guerra di liberazione nazionale: ne consegue una forte avversione per l'operato della Giovane Italia e delle sette in genere. Quest'ultime dopo il 1815 hanno fallito, giacché "per lor natura conservando la stessa gerarchia e gli stessi principi de' governi assoluti, sono inette a conquistare la libertà. ed inoltre restringendosi il moto fra i settari, l'universalità dei cittadini rimane indifferente. [... ] Dunque non stranieri, non sette, non prìncipi sono tre veri, i quali non risultano dai sofismi e dalle dicerie dei dottrinanti, ma dai fatti". In particolare, anche per la parte militare le sette prendono a modello il dispotismo: come quest'ultimo intende muovere a un solo cenno i suoi battaglioni,

"· Gue"a 48/49, p. 311.


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cosl quelle vorrebbero disporre de' loro ascritti, separati non solo materialmente, ma eziandio dalle circostanze e dall'utile di ognuno. Vane speranze, sono pochi quelli che si muovono, la nazione rimane indifferente spettatrice. Se qualche volta trionfano, allora hanno nel loro seno il germe della dissoluzione, la gerarchia della setta, e le sue esigenze si sostituiscono al Governo, in cui prevalgono le cupe e forti abitudini de' cospiratori78 • Da questi negativi caratteri delle sette (scoperto è l'attacco al Mazzini e al Bianco) discende, secondo C.P., anche la vana pretesa di dirigere e organizzare la guerra per bande; quest'ultima per sua natura rifiuta ogni organizzazione, perché è composta da formazioni improvvisate che spontaneamente si formano e che dopo l'azione si disperdono rapidamente per non essere individuate e distrutte: questa è la guerra per bande, decretarla, e pretendere d'organizzarla e dirigerla, vuol dire non comprenderla. Un centro dirigente donde partissero le numerose bande che vadano a caracollare intorno al nemico è il sogno prediletto d' alcuni, accettato volentieri <la quelli i quali ambiscono essere capi indipendenti e non già parte di un solo esercito79 • Su questo argomento, C.P. dichiara esplicitamente di voler distruggere "certi pregiudizi sparsi in Italia per ignoranza, accettati da alcuni per ambizione, e che han fatto credere il guerreggiare per bande un metodo di guerra da sostituirsi con vantaggio, con le milizie popolesche, alla guerra grossa". Egli parla di "sogni" e "chimere" di coloro che ne sopravvalutano l'importanza, tendendo piuttosto a confonderla con la guerra di partigiani (nel senso settecentesco del termine - Vds. Vol. I - cap. XIV). I partigiani, ricorda C.P. - erano dei volontari che offrivano i loro servigi all'esercito e operavano in modo del tutto autonomo, taglieggiando il paese nemico e il proprio. Con l'aumento del numero degli eserciti e il perfezionamento della piccola guerra essi hanno perso importanza, e anzi: "la moderna civiltà riprovando questo scorrazzare di bande feroci ed indisciplinate, i partigiani più non esistono". I generali al momento vi suppliscono con le "partite", formazioni regolari che distaccano con alcuni speciali compiti. Di conseguenza, sècondo C.P. anche se si volesse trasformare la guerra per bande in guerra di partigiani (cioè in guerra di formazioni irregolari al servizio di un esercito), l'idea di un unico centro dirigente sarebbe sempre assurda, perché i partigiani operano nella più completa autonomia. Di più: diversamente dalle evanescenti bande che non hanno bisogno né di ordini né di disciplina, il partigiano - le cui formazioni non si sciolgono - può sfuggire alle ricerche solo grazie all'abilità di chi lo comanda. È necessaria più abilità nei Quadri e militi partigiani, che in " "'

Saggi, m, p. 178. Saggi, IV, p. 192.


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quelli di un battaglione nella guerra campale: quindi (altro colpo alle teorie del Mazzini) "è assurdo il dire che una gioventù inesperta alle armi possa con più frutto operare da parteggianti che a grosse schiere in un esercito". C.P. si oppone anche a un'altra "chimerica idea sparsa in Italia": quella della guerra di montagna, nella quale un pugno di giovani arditi potrebbe difendersi contro un nemico più forte. In primo luogo si tratterebbe di una guerra difensiva, mentre la guerra rivoluzionaria deve essere offensiva per eccellenza; in secondo luogo essa può essere vantaggiosamente combattuta solo dalle popolazioni locali, che "per istinto guerriero, non tradirono mai i principi dell'arte". In conclusione, le guerre per bande di montagna e di partigiani non possono essere condotte da giovani soldatesche e inesperti ufficiali, ma solo dagli abitanti del luogo e in forma spontanea, senza ordini né disciplina: di più è cosa assurda pretendere che la gioventù esordisse con le più difficili imprese; sarebbe poi strano sperare di vincere la guerra in un tal modo, eziandio ammettendo che tutte queste imprese avessero esito felice. Le guerre delle rivoluzioni non solo debbono strettamente, come in ogni guerra, attenersi à principi dell'arte, ma sono le epoche in cui l'arte sviluppasi e progredisce80•

Un popolo non addestrato alla guerra, e anche senz'armi e senza ordinamenti, potrà vincere le battaglie e sostenere una guerra campale, ma "non avrà parteggianti se prima non abbia addestrate e costumate a fatica le scbiere"81 • E per dimostrare una delle sue tesi più ricorrenti (quella che il principio della massa può essere applicato anche con formazioni improvvisate), oltre che alla condotta della guerra da parte di Washington nella guerra d'indipendenza americana, ricorre alla strategia usata dagli insorti della Vandea nel 1793. In quest'ultimo caso (interpretazione assai discutibile) "il difetto d'ordinamento obbligava l'armata [degli insorti] di marciare in massa". L'esercito della popolazione vandeana fu "il più celebre e il meno ordinato" degli eserciti improvvisati; i vandeani correvano alle bandiere all'avvicinarsi del nemico e, dopo averlo vinto, si scioglievano, tornando alle proprie occupazioni, pronti sempre ad ogni chiamata. I capi erano uomini senza istruzione, ma le poche idee guerresche che possedevano erano giuste, perché attinte al modo di combattere dei loro nemici. I Repubblicani furono respinti e vinti più volte da quell'esercito, perché, lungi dal combattere alla spicciolata, gli insorti avevano per abitudine di formarsi in masse profonde e precipitarsi sull'avversario. Privo di generali, l'esercito dei regi peggiorò sempre e finì per essere disfatto, né più le vittorie si rinnovarono per quel partito. Ricominciò l'insurrezione ma per bande, e finì per degenerare in lotta di masnadieri82•

"' " 11.

Saggi, IV, pp. 195-196. ivi, p. 194. Scritti, II, p. 95.


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In uno scritto sulla scienza della guerra di fine 1849 C.P. dalla guerra di Vandea deduce perciò che "se il popolo vuole, se accorre in massa all'appello della Patria [ma se non accorre? - N.d.a.], senza appoggio di regolare esercito può comporne uno ed ottenere la vittoria". Rimane ora da chiedersi se la "guerra per bande" per C.P. ha un suo sia per ridotto ruolo, oppure se è semplicemente da evitare. In merito il suo atteggiamento è tutt'altro che lineare: in un frammento degli Scritti si trova la frase "assurdità della guerra per bande", e nelle considerazioni finali della Gue"a combattuta in Italia negli anni 1848-49 egli definisce la guerra per bande "infanzia dell'arte militare" (quindi preludio necessario: l'infanzia precede la gioventù), aggiungendo che "una banda potrà battere la campagna per sollevare il Paese; ma se non riesce in otto giorni, è meglio che si sciolga, essa sarà più dannosa che utile". Le bande pesano inutilmente sugli abitanti e sui viaggiatori, fino a indurre le popolazioni a "desiderare il nemico per salvarsi dagli amici". Non possono essere dirette e coordinate da un unico centro, anche perché "per avere un centro direttore è necessaria una base, e per avere una base è indispensabile un esercito". Oltre tutto un tal modo di combattere non solo è dannoso, ma dà origine a individualismi e personalismi vergognosi per un popolo libero. Invece Repubblica vuol dire sostituzione della volontà e dell'interesse collettivo all' individuale. Repubblica vuoi dire eguaglianza, mentre le bande le quali vogliono emanciparsi dal resto dei cittadini rappresentano il privilegio [ ... ]. Il popolo può vincere una battaglia, ma in ordine regolare e compatto, e non già in drappelli e sbandato come i selvaggi83 • Sulla possibilità di costituire in breve tempo un esercito - alla quale Mazzini e De Cristoforis non credono - ·C.P. è estremamente fiducioso: a suo giudizio non è questione di amalgama o di addestramento, ma di materiali: in uno Stato dove esistono le armi, gli arsenali ed i cavalli, è cosa facilissima porre in piedi un esercito. Molti vedono ciò impossibile; essi credendo lunghi e difficili i metodi militari, vagheggiano solamente il sistema di combattere insurrezionale, alla spicciolata, il quale non può menare a decisivo successo. Il grande errore sta nel credere un metodo distinto ciò che non è che infanzia dell'arte militare. Questi due metodi di combattere non esistono separati, ma l'uno è il punto d'onde l'altro mosse per giungere al presente grado di perfezione.s..

"Infanzia" solo in senso storico, come metodo di guerra primitivo, oppure come iniziale (quindi necessaria) manifestazione militare di una

83 84 ·

Guerra 48/49, pp. 113-114. Scritti, li, p. 64.


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rivolta popolare, da organizzare al più presto con la costituzione di un esercito regolare? Tutte e due le cose. Infatti nei Saggi C.P. corregge il tiro, e ammette implicitamente che le operazioni delle bande possono essere utili; peraltro (come già sostenevano il Blanch e il Pepe) una condizione indispensabile che richiedesi alla riuscita delle intraprese delle bande è un esercito, una piazzaforte che arresti il nemico, che gl'impedisca di impadronirsi dell'obietto a cui accennano i suoi sforzi; altrimenti, se giunge a impadronirsene, non ha nulla a temere delle bande; sosta, rivolge in essa tutti i suoi veliti, le allontana, raccoglie vettovaglie sul nuovo punto, e procede.85

Insomma, l'unica idea ferma, costante e coerente di C.P. è che la guerriglia deve al più presto sfociare nella costituzione di un esercito, perché solo un esercito può conseguire una vittoria definitiva. Queste tesi si fondano su considerazioni non certo nuove a proposito delle guerre di Spagna e di Grecia, per le quali C.P. intende combattere "le assurde e perniciosissime idee" di persone "ignoranti della milizia" che avrebbero letto "senza studio" la storia di queste campagne. Naturalmente anch'egli mette in rilievo i vantaggi che ha fornito alla guerriglia contro Napoleone la conformazione del terreno della penisola Iberica; ma sottolinea che in Spagna oltre alla guerriglia operarono ben otto eserciti, e "la Spagna fu liberata perché Napoleone fu disfatto in Germania, e perché difesa da 200.000 armati e dal Duca di Wellington. In un tempo più vicino, Don Carlo h_a combattuto contro Cristina con le bande e quasi senza esercito. Il risultato è abbastanza noto" 86 Il riconoscimento dell'importanza degli eserciti regolari e dell'aiuto straniero non gli impedisce di esaltare lo spirito combattivo e l'odio allo straniero allora dimostrati dal popolo spagnolo, sia pure dimenticandosi di far notare che lo spirito nazionale che ha spinto la plebe spagnola (o anche russa e tedesca) contro Napoleone aveva poco o nulla, alle sue radici, motivazioni economiche o speranze di riscatto sociale_ Rimane, comunque, una visione riduttiva della guerra per bande, assai più pronunciata di quella del Pepe, del Balbo e del Durando. Tale sfiducia si accompagna a una fiducia persino eccessiva nelle insurrezioni, con tale termine intendendo principalmente (ma non solo) le rivolte armate nella città per scacciare i presidi austriaci; nelle quali egli intravede la necessaria premessa per la formazione di un esercito, e/o per coadiuvare le operazioni delle forze regolari rendendo insicure le comunicazioni alle spalle degli eserciti nemici. La distinzione tra insurrezione e guerriglia non sempre è chiara, perché C.P. sembra prevedere una forma mista, quando ipotizza (come il Pepe) che "in Italia un nucleo di forze che partisse ad esempio dalle Calabrie potrebbe produrre l'insurrezione [solo 15 · Saggi, IV, p. 191. ... Guerra 48149, p. 313.


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delle città? - N.d.a)" e puntando verso nord si ingrosserebbe tendendo a diventare esercito, in modo da essere già forte all'incontro con un nemico indebolito dalle lunghe linee di comunicazione; il contrario avverrebbe per un nucleo insurrezionale che si formasse in Lombardia, il quale si ritirerebbe verso Sud fino a quando non fosse in condizione di riprendere 1' offensiva. In ambedue i casi, le formazioni si addestrerebbero e tenderebbero a diventare un esercito carnmin facendo, e grazie al contatto con le popolazioni potrebbero facilmente mettere al loro attivo ''piccoli fatti d'armi brillanti" contro convogli, reparti nemici isolati ecc., che altro non sono che atti di guerriglia (anche se C.P. non li chiama così). Dalla disciplina e dal modo di combattere di questi nuclei iniziali dipenderà la disciplina e il modo di combattere dell'intero esercito; in proposito, se quel corpo dai primi momenti comincerà a battersi alla spicciolata a somiglianza dei masnadieri, quel metodo propagandosi diverrà cagione della disfatta de11'esercito; se dai primi momenti si farà comprendere al soldato l' efficacia delle masse, s'otterrà un esercito invincibile1' . Per l'insurrezione delle città, che è al centro della sua riflessione, C.P. parte da una constatazione anch'essa non nuova: è più facile cacciare i . presidi nemici da una città, che impedire il loro rientro. Le insurrezioni, date le diverse condizioni in cui si trovano i vari Stati e le diverse città, molto difficilmente potrebbero essere simultanee, e anche se lo fossero, "non in un tratto, ma successivamente ne verrebbe sgombero il suolo dal nemico". Anch'esse non possono essere ordinate dall'alto, perché "difendere a palmo a palmo e casa per casa la città, è un genere di guerra che non può ordinarsi dal popolo o dal militare; il popolo bisogna che lo faccia spontaneamente"88 , né esse possono essere dirette da comitati che riuscirebbero solo d'impaccio "al libero operare del popolo" . Comunque, una volta che l'insurrezione ha avuto successo la parola d'ordine deve essere/are massa all'esterno: ogni città, ogni terra, ogni borgo che scacci dalle sue mura il nemico, non ponga tempo in mezzo, non curi di apprestarsi a difesa e di innalzare barricate, tempo perduto, sangue inutilmente sprecato, ma la gioventù abbandoni le sue dimore, raccolga tutte le armi, tutte le vestimenta, tutte le vettovaglie che può e, accordandosi co' vicini, corrano tutti a far massa89 • Difendere le città non è sempre necessario: la difesa di una città non coordinata con un piano di guerra esterno è solo un errore, che costa "inutili

17·

"' 9 ~

Scritti, Il, pp. 106-107. Guerra 48/49, p. 275. Saggi, IV, pp. 202-203.


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e preziose vittime". Le città devono essere difese solo quando si ritiene necessario ritardare la marcia di un corpo nemico, o si spera nell'aiuto di potenti soccorsi. E l'insurrezione popolare ha successo, in tanto in quantd riesce a trasformarsi rapidamente in esercito regolare. Questo vale in particolar modo per l'Italia (che non è la Francia, dove per rovesciare il governo bastano poche migliaia di insorti a Parigi)_ Più in generale, i] rovesciare un governo non è impresa difficile; un odio profondo contro di esso basta. L'esercito è facilmente sorpreso e vinto da un'insurrezione, quindi fraternizza col popolo, il governo cambia, e ]a nazione è preparata agli attacchi stranieri. In Ita1ia la cosa è ben diversa; l'esercito da combattere è un esercito straniero, che nel cuore d'Italia possiede una base formidabile ed approvvigionata [cioé il quadrilatero - N.d.a.]; e se anche benigna fortuna seconda il popolo nelle sue prime gesta, e l'oste nemica è cacciata a1 di là delle Alpi, immediatamente nuove schiere scenderanno in Italia; epperò insorgere e vincere non basta agli Italiani, ma bisogna che, dopo l'insurrezione, essi siano pronti a sostenere una guerra con una delle più formidabili potenze militari del mondo [che pur si basa su un esercito tipicamente dinastico, permanenlt: e non nazionale! - N.d.a.]. Quindi la necessità che un esercito sorga subito, numeroso, compatto."° Questo esercito non può essere composto da uomini arruolati con la forza o adescati col guadagno, feccia pronta ad ammutinarsi e "codarda in ordinate battaglie", ma da cittadini coscienti che difendendo la Patria ritengono di difendere se stessi. Il fucile con baionetta è la migliore arma possibile, ma in un'insurrezione tutte le armi sono buone. Quindi la mancanza di armi non deve essere una scusa, "tutti devono correre sotto la bandiera, anche disarmati saranno utili". E a maggior ragione un esercito appena nato dall'insurrezione non deve ammettere corpi speciali (altra idea quasi ossessiva di C.P.), perché dannoso c impolitico è per un nuovo governo di accettare le bande che gli sono condotte da qualche individuo. Troppo sovente il capo, orgoglioso d'aver condotto cinquanta uomini alle bandiere, chiede condizioni incompatibili con l'uniformità e la disciplina dell'esercito e ne diventa un dissolvente[ ...]. Un uomo comincia in proprio nome e per conto proprio l'arruolamento, ed ecco sostituito un individuo al Governo; gli arruolati si dedicano ad esso e non già alla patria; il governo invece di onorare la volontà di ogni cittadino che corre alla bandiera, onora solamente un tal capo [... ] e i capi di nuclei come potenza arnica91 • Dopo questo attacco indiretto a Garibaldi, il pronunciato ottimismo di C.P. sulle future possibilità d'insurrezione è dimostrato da queste parole, che lo avvicinano se non al Mazzini, al Bianco: 90

"-

Scritti, II, pp. 97-98. Guerra 48149, p. 327.


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che cosa manca dunque all'Italia? Un primo nucleo di arditi, che si faccia l'iniziatore delle rivoluzioni. Oggi il ragionare è inutile; la stessa diplomazia, per pronunciare la sua sentenza sulle nostre sorti, aspetta i fatti; se l'Italia non insorge, e presto, si dirà che la presente agitazione è promossa da pochi turbolenti, e non è sentimento nazionale. Congiurate dunque, nelle città, nei borghi, nelle campagne, ma non vi perdete in sforzi inutili e rischiosi per spandere la vostra tela. Siete sicuri che una città, una provincia è pronta a insorgere? Formate un ardito disegno, traetelo in atto, e siate certi della vittoria. Cominciate il movimento, fate massa, precipitatevi sui centri ove sono i governi, ove si raccolgono gli attrezzi di guerra. Rovesciato il governo, l'esercito che era contro di voi sarà con voi, in men che balena sarete giganti92• Troppo facile, troppo semplice! Dov'è il realismo che C.P. vuol dimostrare, quando parla della guerra per bande? Ottimismo eccessivo anche sulle possibilità di rivolta del Meridione: parlando della passata lotta senza quartiere in Calabria tra i partigiani di Gioacchino Murat e quelli del Borbone, C.P. osserva che "troppo ingiustamente gridasi contro il brigantaggio di quel1'epoca" e che le due parti erano entrambe spregevoli. Ormai il progresso ha cambiato i tempi: nessuno insorgerebbe più a favore di Ferdinando, ma forse le cime di que' monti sarebbero punto di rannodamento per tutti coloro che amano la patria e aborrono lo straniero. Forse molte città inalberando la bandiera italiana, rinnoverebbero i prodigi di valore di Amantea, di Crotone, e di Maratea, né credo che darebbesi ai combattenti il nome di briganti93•

In quest'ultime parole dell'agosto 1856 si trovano, con ogni evidenza, le radici della tragedia di Sapri; esse fanno parte di uno scritto sull'Avvenire dell'Esercito Napoletano, nel quale C.P. si illude sul malcontento che trasparirebbe dalle file di quell'esercito, e afferma addirittura- sulle tracce del Pepe- che la gioventù italiana fonda sulle milizie napoletane le sue speranze; le invita ad essere il primo nucleo intorno a cui verrà a rannodarsi il grande esercito italiano. Spera veder brillare le loro baionette sulla sponda del Po; non già come, nel 1815, strumento della dubbia ambizione di un re, non come nel 1848 sordamente raggirate dalle mene di una perfida corte; ma muovendo a guerra nazionale ...94• Oltre a far riapparire il "meridionalismo" geostrategico e militare del Pepe, queste infondate speranze dimostrano che quando C.P. meno di un anno dopo tenta l'impresa di Sapri trovandovi la morte, non agisce affatto

n 93 •

..

Scrilli, m, p. 223. ivi, p. 204. ivi, p. 190.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848- 1870)

contro i propri principi (come sostengono alcuni), ma opera in piena coerenza con essi. Rimangono da spiegare le stroncature dell'"assurda" guerra per bande, che si trovano in talune parti della sua opera; stroncature assai strane e contraddittorie, visto che le insurrezioni - come egli stesso afferma - non possono essere guidate e possono quindi assumere spontaneamente forme diverse in luoghi diversi. Ma forse, più che alla guerra per bande in sé, esse sono dirette da C.P. - uomo assai passionale - contro gli uomini che la sostengono e che nuocciono al suo progetto - a sua volta non privo di aspetti utopistici - di formare subito un grande esercito nazionale. Ciò che a C.P. importa soprattutto, è di dimostrare l'insostituibilità di un esercito regolare, che combatte secondo principi strategici classici; di conseguenza, insurrezioni e guerriglia valgono solo in tanto in quanto ne preparano la rapida formazione, non come soluzione strategica alternativa.

SEZIONE III Il modello geostrategico e ordinativo per la guerra nazionale. Possibilità e vincoli del terreno della penisola Dopo aver indicato che cosa non serve alla difesa dell'Italia, C.P. esamina le caratteristiche dell'Italia e le condizioni che il terreno pone a chi attacca e a chi si difende in tre occasioni: nelle riflessioni del 1849-1850 sulla guerra d'indipendenza appena finita; nel terzo Saggio, dove perviene anche a una prima indicazione della quantità di forze necessarie per difendere il territorio nazionale; nel quarto Saggio, dove tira le fila e chiarisce meglio o corregge le considerazioni precedenti, definendo anche la forza totale che dovrà avere il nostro esercito. Se si eccettua un diverso modo di calcolare le forze nel terzo e nel quarto Saggio, il quadro che risulta dalle riflessioni di C.P. è comunque unitario, ed è basato su una premessa ben salda: la difesa dell'Italia deve essere affidata solo a forze nazionali. Bisogna allontanare - egli afferma "finanche la più piccola causa che possa macchiare (sic) la nostra gloria nazionale"95 • Francia e Inghilterra potranno dare un contributo indiretto alla causa nazionale, ma solo alla condizione che "ognuno combatterà le proprie battaglie sul proprio suolo, né bisogna ammettere sotto le nostre insegne uomini che non siano nati in Italia". Ciò premesso, diremo agl'inglesi: volete voi soccorrerci? Voi il potete con poca fatica, e grande vantaggio nostro; costringete il vostro governo a bandire il non intervento; impedite col vostro poderoso naviglio che si molestassero le nostre coste per distrarci dalla mortale tenzone che bisogna sostenere sulle terre lombarde. Diremo ai Francesi: imitateci, rovesciate il " - ivi. p. 66.


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governo che vi disonora, assalite gli Austriaci sul Danubio mentre noi li assaliremo sul Po, ed a Vienna stringeremo fraternamente le destre, stringeremo la colleganza fra due popoli liberi e forti e non già l' assurda lega del protettore al protetto ò del maestro al discepolo, come vorrebbe l'ignobile schiera dei dottrinanti infranciosati96•

Nonostante la mancanza di aiuti esterni, C.P. ostenta fiducia e in base alla sua discutibile convinzione che basta disporre delle armi e del materiale per costituire un esercito, ritiene che i due principali Stati italiani, Napoli e il Piemonte, già offrano all'Italia tutti i mezzi necessari per costituire grossi eserciti, sì che facendo la metà degli sforzi che ha fatto la Francia nel 1793 "l'Italia porrebbe in armi 500.000 uomini, forza più che sufficiente per far testa all'Europa tutta se tentasse valicar le Alpi"<n. La fiducia di C.P. si accresce con l'esame delle caratteristiche geografiche del territorio nazionale, che considera suddiviso in due teatri di guerra con distinte caratteristiche, l'uno del Nord (bacino del Po) e l'altro del Sud (bacini dell'Adriatico e del Tirreno). Premesso che "la topografia dell'Italia c'indica il metodo di guerra da tenersi", nel teatro del Sud la guerra deve essere difensiva, e il terreno offre la possibilità di scegliere il luogo e il momento della battaglia. Se un esercito perde la valle dell'Arno e del Tevere, il sistema montuoso degli Abruzzi gli offre le stesse possibilità di manovra, per contro obbligando il nemico a dividersi e a distogliere continuamente forze dal grosso. Il terreno italiano si presta egregiamente alle manovre strategiche e al movimento e concentramento delle forze; non è quindi vero che il vantaggio delle zone montane della penisola consista [come sostenevano il Balbo e Pepe - N.d.a.] "nei passaggi difficili che esse offrono, facilitando così una guerra alla spicciolata": ben lungi, quindi, dal credere il terreno dell'Italia vantaggioso alla guerra, perché offre posizioni da difendersi con pochi uomini, lasciamo ai guerriglieri il sogno delle Termopili; secondo noi tali posizioni non esistono, perché tutte possono girnrsi9i .

Le possibilità di aggiramento si verificano anzitutto sulle Alpi: quest'ultima catena di monti è il primo ostacolo che la natura ba eretto a difesa del territorio nazionale (il secondo è il Po), ma da quando il progresso l'ha attraversata "con numerosi e facili passi", la sua importanza militare è assai diminuita. In sostanza,. C.P. non crede che la difesa dell'Italia debba essere organizzata in avanti e sulle stesse Alpi, perché la stagione invernale le rende quasi inaccessibili, ma liquefatte le nevi, un'armata non incontrerà grandi ostacoli per valicarli. Egli è

""· Ibidem. 97 · Scritti, Il, p. 65. "" ivi, pp. 61-62.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

vero che tutti questi passi offrono delle posizioni in cui una truppa parata a difesa potrà tener testa a un nemico molto superiore, ma è cosa ben difficile l'accertarsi quale dei tanti passi sceglierà il nemico; difenderli tutti sarebbe disegno rovinoso affatto 99 • Nel teatro di guerra del Nord le condizioni geografiche sono assai diverse da quelle del Sud. Il terreno va considerato diviso in due parti, l'una dal Ticino al Mincio, l'altra dal Mincio all'Adige. Nella prima il nemico è in svantaggio, perché vi si trovano città ostili all'Austria, popolazioni pronte a sollevarsi, comunicazioni facilmente interrompibili; nell'altra il nemico ba l'appoggio deJle fortezze del quadrilatero, comunicazioni aperte e soccorsi pronti. Perciò "l'armata italiana deve prendere una vigorosa offensiva, cercare il nemico e attaccarlo, manovrando sempre nel basso Po" 100• L'insurrezione deve tenere conto delle condizioni geografiche. Potrebbe sembrare conveniente che essa sia simultanea, ma se ciò avvenisse non sarebbe forte ovunque allo stesso modo, e il fallimento in un punto potrebbe diffondere sconforto "forse decisivo" negli altri. È quindi meglio che l'insurrezione sia progressiva e "ingrossi inoltrando, come un torrente". Non importa che il nemico trovi resistenza nella sua marcia; importa che l'insurrezione si diffonda alle spalle dell'invasore. In tutti i casi l'Italia meridionale dovrebbe essere il perno del movimento generale. Ai figli del Vesuvio, che già tante gloriose vittime banno dato, spetta l'iniziativa del movimento. Se l'Austriaco inoltra, l'insurrezione deve chiudergli il passo a1 ritorno. Il movimento intanto ingrossandosi deve ottenere il pieno successo. Un'armata regolare, che al fine ricorderà di essere popolo, e popolo Italiano, formerà il nucleo deJJe forze 101 • Questa visione geostrategica "meridionalista" - contrapposta alle teorie del Balbo e del Durando - ricorda quella del Pepe; diversamente da quest'ultimo, però, C.P. non crede affatto alle Calabrie come ridotto estremo e base per l'offensiva o controffensiva. Se l'esercito si ritirasse dal ridotto degli Abruzzi e dalla linea del Volturno verso le Calabrie, la sua distruzione sarebbe inevitabile, "dappoicbé nelle Calabrie il fronte strategico, ristretto quasi al fronte di manovra, l'obbligherebbe a sostenere l'urto diretto di un nemico baldanzoso per tante vittorie" 102 • Comunque i numerosi materiali di guerra accumulati nel Regno di Napoli potranno finalmente essere impiegati per il risorgimento dell'Italia; e supponendo che nei primi momenti della rivoluzione possano entrare in 99

Guerra 48/49, pp. 18-19.

100 •

Scritti, Il, p. 62.

101

ivi, pp. 68-69. Guerra 48/49, p. 22.

12 " •


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campo cinquantàmila uomini, date le caratteristiche topografiche de] terreno il nemico avrebbe bisogno di forze doppie, e di altrettante per guardarsi le spalle: "impresa colossale che non può certo intraprendere senza lunghi preparativi". Nel terzo Saggio, che riguarda la rivoluzione, C.P. mira soprattutto a infondere negJi italiani fiducia nelle possibilità strategiche che avrebbe contro l'Austria il sia pur ridotto esercito sorto dalla insurrezione. Premesso che la popolazione dell'Italia a metà secolo XIX è la stessa deJla Francia del 1789, mentre ]'estensione della nostra frontiera è 1/3 di quella francese, C.P. osserva che ne] periodo della Rivoluzione la Francia pur schierando 800.000 uomini ai suoi confini non riuscì in nessun punto a ottenere una rilevante superiorità sul nemico, né a coordinare l'azione dei vari eserciti. Invece Ja difesa deJl'ltalia può avvalersi della cerchia delle Alpi: il nemico è costretto a raccogliere le sue forze in paese sterile e dirupato, mentre gl'italiani si trovano nella valle del Po, regione ubertosa ove popolose e ricche città, numerose strade, un maestoso fiume forniscono, trasfondono facilmente le vettovaglie'°3 •

Gli attacchi in vari punti della frontiera non potrebbero essere simultanei, perché non sarebbe possibile definire a priori tutti gli ostacoli che attraverso i monti potrebbero ostacolare la marcia di un esercito. Dato il terreno, le varie frazioni dell'esercito invasore non potrebbero prestarsi reciproco concorso. Ogni attacco non solo rimarrebbe isolato, ma allo sbocco delle valli non potrebbe presentare che delle teste di colonna di ridotta consistenza alle nostre truppe, Je quali avrebbero così modo di far massa contro le forze nemiche più vicine. Di conseguenza, C.P. ritiene che all'Italia basterebbe concentrare nella valle padana 250.000 uomini per conservare la superiorità in ogni scontro. Inoltre i nemici della Francia hanno sempre avuto un solo e ben definito obiettivo strategico, Parigi; ma i nemici dell'Italia non ne avrebbero alcuno, perché "l'importanza de11e varie capitali sparirebbe con la rivoluzione; né pottebbesi questa, ad onta degli sforzi che farebbero gli stolti, attribuire a una sola fra esse, sia anche Roma, perché l'indole nazionale no] tollera". Queste considerazioni del terzo Saggio sono assai ottimistiche, anzitutto perché vorrebbero dimostrare che la rivoluzione italiana sarebbe in grado di difendersi da ogni parte contro le invasioni degli eserciti di tutta Europa (e non contro. la sola Austria), salvo poi a prevedere una quantità di forze sufficiente forse (data anche la loro prevedibile, non eccelsa qualità) per .difendere la rivoluzione stessa contro un solo nemico. Senza· contare che, se l'Italia non ha mai avuto un "cuore" geostrategico paragonabile a Parigi, nel Nord, nel Centro e nel Sud ha tuttavia città importanti sotto tutti gli aspetti, che né il difensore né l'invasore potrebbero trascurare.

10 '·

Saggi, lii, p. 154.


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Nel quarto Saggio la prospettiva cambia. C.P. considera la difesa dell'Italia già unificata dalle invasioni straniere: ma più che altro ha l'aria di voler correggere ]e precedenti considerazioni, perché evidentemente il terreno e Je possibilità che esso offre a più eserciti che vorrebbero valicare le Alpi non cambiano. Tant'è vero che facendo riferimento alle affermazioni del terzo Saggio sente significativamente il bisogno di precisare che "trattandosi di determinare la forza dell'intero esercito, non ci atterremo al possibile ma al certo, e verremo applicando i principi testè stabiliti"; questi nuovi principi si riassumono in due esigenze geostrategiche. La prima - di carattere generale - è che in ogni frontiera vanno considerate: 1°) ]e linee di operazioni principali del nemico, che portano dalla sua base d' operazioni al cuore del paese da difendere; 2°) le linee secondarie, "le quali conducono con giro più lungo alle spalle di quei punti strategici che si trovano sulle linee principali". Per sbarrare le prime sono approssimativamente necessari 200.000 uomini; le seconde vanno difese con un corpo d'esercito capace non già di vincere, ma di ritardare la progressione del nemico per dare tempo a uno degli eserciti principali di accorrere. Per questa esigenza, in zone montuose bac;;terehhero 10.000 uomini disposti a sbarramento "dei difficili passi", ma per maggior sicurezza, questo numero va portato a 20.000. La seconda esigenza geostrategica riguarda specificamente l'Italia: diversamente dal caso della rivoluzione nazionale, le sorti dell'Italia già riunificata "dipendono da] possesso della valle del Po, ed ·è perciò l'Italia settentrionale il terreno che bisogna disputare ad un invasore". La possibilità di sbarchi sulle coste della penisola non costituisce una minaccia reale, perché "senza il concorso dei popoli,. un esercito sbarcato su di una costa non può mai spingersi alla conquista di una nazione, esso deve limitare le sue operazioni in ristretto spazio e una sola disfatta basta per annientar1o""l4. In base a questi principi (che almeno in linea di massima, avrebbero dovuto essere considerati anche prima) C.P. raddoppia le forze necessarie per difendere la penisola, il che non è poco: due sono le principali linee d'invasione, una orientale, l'altra occidentale; questa compresa fra le fonti deJla Stura e della Dora Baltea, e quella fra l'Adriatico e la cresta che separa le acque che versano in questo mare da quelle che versano nel Danubio; quindi due eserciti, l'uno orientale e l'altro occidentale, di duecentomila uomini ognuno, difenderebbero con vantaggio queste due linee [nostra sottolineatura - N.d.a.]; inoltre il Tirolo, il Sempione, il Gottardo, la valle della Bormida, sono le linee secondarie da guardarsi ognuna da ventimila uomini; e aggiungendo a queste due forze un esercito di riscossa [cioè di riserva, per il contrattacco - N.d.a.] da cinquanta a sessantamila uomini, pronto eziandio ad opprimere qualunque tentativo che

'°'· Saggi, m, P. 109.


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potrebbe farsì sulle coste italiane, ne risulta che la forza dell'esercito capace a difendere l'Italia dal mondo intero (sic), è tra i cinquecentomila e seicentomila uomini.105 Inoltre ritiene necessario tener conto di un'altra esigenza: l'Italia sarà forse chiamata a "combattere la causa della rigenerazione europea sul Danubio", quindi nello stabilire i rapporti tra le Armi e il numero dei cavalli e dei materiali, occorre andare al di là di quanto sarebbe strettamente necessario per la difesa del territorio nazionale, e pensare anche al suo avvenire di grande potenza106• In conclusione, gli sforzi di C.P. per dimostrare che bastano 250.000 uomini concentrati nella valle Padana per difendere la rivoluzione dagli eserciti di tutta Europa sono vani: lo dimostra - senza volerlo - egli stesso nel quarto Saggio. Troppo pronunciata anche la sua sfiducia in un sia per limitato ruolo della guerriglia, sfiducia che supera di gran lunga la visione anch'essa riduttiva del Balbo, del Pepe e del Durando. Più di quelli di quest'ultimi autori, i principi geostrategici della guerra italiana di C.P. si inquadrano nell'arte militare classica e nell'ortodossia napoleonica, anche perché non concorda con la tesi del Balbo e del Pepe che il terreno montuoso della penisola non favorisce le grandi manovre strategiche di modello napoleonico e centro-europeo. Per il resto, i due punti fermi del pensiero militare di C.P. - la forza del quadrilatero nel Nord e il primato del Sud nell'insurrezione nazionale - coincidono con quelli del Pepe.

"Guerrieri perfetti con sentimenti cittadini": criteri di base per l'organizzazione delle forze Da un punto di vista strettamente militare il Saggio IV, nel quale C.P. tratta nel dettaglio dell'ordinamento dell'esercito, è paradossalmente la parte di minore interesse e più caduca dell'intera opera, per una serie di ragioni: a) in questa parte, raramente C.P. è originale. In molti casi riprende il modello svizzero di nazione armata; in altre occasioni si sente l'influenza del Filangieri, del Pepe e dello Zambelli (vds. Vol. I); b) more solito, non c'è nessun calcolo dei costi dei materiali, delle munizioni e degli equipaggiamenti per il gran numero di forze previsto, e dei risparmi che assicurerebbe il nuovo "modello"; c) il sistema è troppo esclusivamente basato sulla buona volontà, sul consenso e sull'entusiastica partecipazione dei singoli e dei Comuni che li rappresentano; d) tale entusiastica partecipazione alla guerra nazionale non è di tutto il popolo e cioè di ogni classe, ma del solo proletariato, il quale con provvedimenti di carattere economico utopistici dovrebbe essere improvvisamente sollevato dalla miseria, inducendolp così

105

·

IOb.

ivi, pp. 110-11 l. ivi, p,113,


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a vedere nella guerra allo straniero anzitutto la difesa dei suoi interessi; e) con una siffatta semplicistica impostazione, la guerra di popolo allo straniero non sarebbe più tale, perché diventerebbe la guerra di una sola classe, automaticamente spingendo le altre ad allearsi con lo straniero o nella migliore delle ipotesi a rimanere indifferenti. Con queste caratteristiche la formula militare di C.P., pur partendo da diagnosi in gran parte realistiche, sul piano delle soluzioni concrete cade spesso in un progetto utopistico di segno opposto a quello del Mazzini, anche sotto il profilo del suo raccordo con la realtà sociale. Il punto di partenza già dà adito a dubbi e interrogativi: "L'arte della guerra, da quarant'anni, ha raggiunto il sommo della perfezione (sic). Ma la costituzione militare non ha progredito: essa attende, per adattarsi ai nuovi ordini civili, il risorgimento dei popoli; allora scorgendo con quanta facilità (sic) possono addestrarsi i guerrieri e comporre gli eserciti, si riconosceranno i pregi della moderna arte del guerreggiare" 101 • Un altro criterio per la ricerca dei migliori ordinamenti militari deve essere di "garantire la patria dalla prepotenza militare senza disarmarla". Gli utopisti, i dottrinari pur impegnando tutte le loro forze per risolvere questo problema non ci riescono, perché vogliono conservare tutto il loro potere "senza avere né la forza né la virtù per sostenerlo". La visione di C.P. è pessimistica fino a riconoscere i vantaggi di chi dispone di un potere assoluto per il controllo dell'esercito: se non è nelle mani di una monarchia "sostenuta dal prestigio, dalle tradizioni, dagl 'interessi di cui s'è fatta centro", il potere cadrà inevitabilmente nelle mani del più forte, cioè di chi ha le armi. Di conseguenza un esercito sarà sempre setta e tanto più perniciosa quanto più libero sarà il reggimento [cioè il sistema politico - N.d.a.]: imperrocchè [... ] nei governi detti costituzionali l'esercito ha un'opinione, e questa opinione dovrà essere la tiranna del paese, quella che dovrà assolutamente prevalere perché propugnata da gente armata e unita da vincoli solidissimi. Anche un governo civile con estesi poteri militari è "il peggiore dei reggimenti"; in tal caso chi regge il potere è sempre codardo, non perché teme il nemico ma teme la fama che i guerrieri acquistano in campo. Se costretto alla guerra, vorrebbe vinta la contesa e debellato il proprio esercito; spesso tremano più d'una vittoria che d'una disfatta. Scelgono a capitanare le schiere uomini di poca elevatura sperando di padroneggiare'08• Per queste ragioni hanno torto quei governanti che, privi di senso pratico, vorrebbero istituire "supreme potestà militari, da essi create, da essi

107 • 101 •

ivi, p. 18~ ivi, pp. 186-187.


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dipendenti" cori il compito di dirigere la guerra e giudicare i generali. Costoro secondo C.P. non comprendono che l'unico tribunale che può giudicare un generale vittorioso è quel1o composto da membri "quanto il generale stesso cari alle milizie". Egli vuol percorrere una strada diversa: non intende concedere al1 'esercito potere autonomo e poi "con mille ripieghi e ritrovati strani" cercare d'imbrigliarlo, e così presenta il modello che ora ci accingiamo ad esporre, lasciando al lettore di giudicare se ha raggiunto - o meno - 1' arduo obiettivo che si propone: abbiamo formato l'esercito, ma gl'interessi particolari di ogni milite li abbiamo rimasti indissolubilmente legati al paese; il suo utile dipendente dalla sua condizione di cittadino, non già di soldato; quindi l'esercito ha cessato così di essere setta; all'amor proprio di corpo abbiamo sostituito il sentimento nazionale; e l'unità di comando e d'azione è risultato non già di un'esistenza staccata da quella della nazione, ma del modo di ammaestrare le schiere, che trasforma l ' ignobile dogma della cieca ubbidienza in convinzione profonda. Chi dubiterà che il miglior guerriero, con tale istituzione, capitanerà l' esercito? Egli assumerà il comando, né troverà al di sopra di sè nessuna potestà che possa intralciare i suoi disegni. La Nazione l' incarica di debellare i nemici e lascia ch'egli medesimo determini il numero delle soldatesche e i sussidi necessari all'impresa. Un tribunale terribile, i suoi compagni d' arme, esecutori dei suoi disegni, cari alle soldatesche quanto egli medesimo, dovrà giudicarlo e decretare la sua gloria o la sua infamia.'09

Qui sorge spontaneo un interrogativo: anche in questo caso, chi impedirà a un Capo militare di grande personalità e prestigio, che gode del consenso e della larga fiducia dei cittadini in armi - inevitabilmente l'élite della nazione - di invocare tutti i poteri civili e militari, magari in nome della suprema salute della patria in guerra? un generale che conduce a suo piacimento le operazioni e ha facoltà di fissare egli stesso ciò che i1 paese gli deve fornire per la guerra, non è forse , in pratica, un dittatore militare? non fa prevalere la ragione militare su que11a politica sempre e comunque? C.P. spregia gli eserciti permanenti, salvo poi ad affermare, in altra parte dei suoi scritti, che il dispotismo europeo ha acquisito il controllo della situazione in virtù del suo alto grado di efficienza militare, che gli consente di intervenire ovunque. Per questo egli pensa che anche le forze contrarie al dispotismo dovrebbero organizzarsi militarmente e coalizzare i loro sforzi, mantenendo all'interno delle forze militari la stessa severa disciplina, perché "stabilito il governo, la opera nostra deve essere quella di mantenere la severa disciplina, e non altro" 110•

109 · 110 ·

ivi, p. 188. Scritti, 11, p. 216.


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Quadri elettivi ed esercito di cittadini - e non di soldati di professione sono i due capisaldi dell'organizzazione militare che nasce dalla rivoluzione. L'elettività dei Quadri è già stata proposta dal Filangieri e dal Pepe; essa viene giustificata da C.P. con ragioni prima di tutto efficientistiche e morali. L'introduzione di tale principio risponde a un complesso di necessità e di diritti e tende a salvaguardare l'autonomia interna dell'Istituzione. Infatti: a) occorre epurare il nuovo esercito da coloro che, nei passati avvenimenti, si sono mostrati "non soldati ma sgherri", e gli unici giudici competenti e imparziali in merito sono gli stessi militari; b) una parte di cittadini destinati a compiere una speciale missione ha il diritto inalienabile di scegliere i suoi capi. Infatti i governi rivoluzionari del 1848 "facendosi tutti facili distributori d'impieghi", hanno commesso gli stessi errori e le stesse ingiustizie che le monarchie commettono "per corruttela"; c) l'elettività dei Quadri, basata sull'elezione del livello gerarchico superiore da parte di quello inferiore, premia il merito. Non risponde a tale scopo, a giudizio di C.P., né l'avanzamento per anzianità che "concedendo al tempo quel che invano spera il merito" spegne le passioni e l'emulazione e mette l'esercito in mano a uomini troppo anziani, né l'avanzamento per esami, i quali non accertano le indispensabili attitudini pratiche dell'individuo; invece con le elezioni si tiene conto che "ogni ufficiale subisce un esame perpetuo in faccia ai suoi camerati, che sono i veri incorruttibili giudici" 111 • Il diritto di eleggersi i propri capi "trasforma in un istante l'esercito regio in cittadino" e sbarra il passo al dispotismo, perché i capi militari non debbono gradi e onori a un solo monarca ma all' esercito stesso, quindi non tradiranno mai esercito e nazione per farsi servi di un solo uomo. Superfluo rilevare, a questo punto, che C.P. individua molto bene i mali, ma i rimedi da lui suggeriti - già falliti nella Rivoluzione Francese e anche nella Rivoluzione russa del 1917 - all'atto pratico si sono dimostrati peggiori del male che dovrebbero curare. Un esercito intento alle elezioni non è impiegabile, e che dire se esse avvengono - come vuole C.P. per eliminare gli incapaci - all'inizio della guerra? I sostenitori del cosiddetto "esercito da caserma" insistevano fin troppo sul valore formativo della lunga ferma e della lunga permanenza, tutti insieme, in caserma. E cosl, nel suo modello, siccome la concentrazione e lo spirito di corpo rendono un esercito pericoloso per la libertà [ma più efficiente, o meno efficiente? N.d.a.], sono queste due cause appunto che bisogna attaccare. Eccetto le guarnigioni indispensabili alle frontiere, il rimanente dell'esercito potrà disperdersi in tutte le contrade dello Stato. Non più caserme, onde distruggere le abitudini monastiche: e come ogni famiglia è dolente di alloggiare lo sgherro di un tiranno, allora dovrà 111

Scritti, m, p. 156.


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ascriversi ad· onore di ricevere nel suo seno un guerriero e un rigeneratore della patria. La disciplina non deve esercitare la sua influenza sul soldato che nelle ore di servizio e di scuola, stabilite da regolamenti invariabli [... ]. I soldati e gli ufficiali non avranno altra occupazione che quella del loro mestiere; il tempo, che ora viene tolto dal noiosissimo e degradante servizio di caserma, che non ha altro oggetto che di staccarli dal popolo, sarà da essi consacrato allo studio, e saranno guerrieri perfetti con sentimenti cittadini 112 • C.P. non pensa certo - come il Pepe - a un esercito "lancia e scudo" con ridotta aliquota di forze permanenti che ha funzioni di pronto intervento: tuttavia vi si avvicina molto. A denti stretti, tra le righe, nei Pensieri sugli eserciti permanenti del marzo 1850, discorrendo della Svizzera e degli ammaestramenti del 1848-1849113, è costretto ad ammettere che: una nazione libera deve non solo difendere sè stessa, ma essere pronta sempre per sostenere la causa degli altri popoli; un disarmo universale potrà avvenire solo quando ogni nazionalità sarà rinchiusa entro i suoi confini naturali, e quando i tiranni "saranno tutti piombati nell'abisso ora aperto per inghiottirli"; se terminata la guerra l'esercito venisse interamente sciolto, sarebbe impossibile far accorrere alle armi e convertire in buoni soldati "artisti e commercianti" per correre in difesa di un altro popolo; comunque, solo quando - dopo qualche generazione - si giungerà a dare al popolo un'organizzazione militare, l'esercito permanente potrà sparire. Nella Relazione sulle operazioni militari eseguite dalla Repubblica Romana (novembre-dicembre 1849) osserva che "per una nazione educata e libera [non è evidentemente il caso dell' Italia - N .d.a.] l'organizzazione militare della Svizzera conseguirebbe lo scopo; ma essa, peraltro, urta in un altro scoglio": finché l'amore per le armi e lo spirito nazionale non saranno ben radicati in un popolo, "le semplici milizie che corrono alle bandiere non per istinto guerriero, ma solamente per ubbidire alle leggi, non possono avere la solidità degli eserciti permanenti. Un ottimo generale e un buon Stato Maggiore possono fare molto, ma troveranno sempre grandi ostacoli". A questo punto, va sottolineato che per C.P. gli ostacoli si supererebbero con il rimedio di sempre, cioé mantenendo permanenti i corpi speciali [allude, con ogni probabilità, anzitutto a artiglieria e cavalleria, che richiedevano lunga istruzione N.d.a] e un piccolo nucleo di truppe veterane proporzionato all'estensione del paese, formato solamente di cittadini d'integerrima condotta [cioè: forze d'élite! - N.d.a]. Questo nucleo sarebbe la scuola per la 112 · Scritti, II, pp. 207-208. "' Scritti, II, pp. 125-126, 197-209.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il ( 1848-1870)

quale passerebbe il popolo tutto, manterrebbe viva la disciplina, e diffonderebbe l'onor militare nell'esercito quando il popolo correrebbe a formarlo. Alla Svizzera inoltre, paese non ricco, verrebbe aggravio dal mantenere le truppe; non così all'Italia, alla quale il mantenimento d'un nucleo di soldati eletti sarebbe ben poco oneroso.

In fondo, come già avviene per il De Cristoforis, anche per C.P. il modello svizzero vale solo per la Svizzera, è l'ideale da raggiungere ma si discosta alquanto dalla realtà italiana. Trattando nel gennaio 1850 della guerra del Souderbund, egli riconosce che il genio del generale Dufour (comandante in capo svizzero) dimostra che lo spirito militare degli svizzeri con l'aiuto di una buona organizzazione e di un buon generale ha fornito delle milizie capaci di compiere operazioni assai più brillanti di quella degli eserciti permanenti delle monarchie assolute europee; ma è

ben lungi dal trarre analoghi ammaestramenti dalla guerra del 18481849. In merito, va ricordato che nel giugno 1848 il generale Eusebio Bava scriveva che i nostri battaglioni di riserva [misti di lombardi e piemontesi - N.d.a.] che si avvicinano non contano che padri di famiglia, disusati al maneggio delle anni che credevano non dover mai più riprendere, sospiranti i loro focolari e pensierosi dell'esistenza della prole che vengono di abbandonare [non erano certo previsti sussidi o misure assistenziali - N.d.a.]. Questi battaglioni non hanno che dei quadri, senza connessione, senza spirito di corpo e privi di qualsiasi azione sui loro subordinati. 11•

In altra parte della relazione il Bava aggiunge che giunsero in fine dodici battaglioni di riserva, misti di Piemontesi e Lombardi, ma erano senz'armi e senza divisa, non vollero prestare il debito giuramento, e ad alta voce si facevano intendere che non si sarebbero battuti se non quando fossero stati ammaestrati e vestiti, per non venire dal nemico tenuti in conto di rivoltosi ed esposti quindi al pericolo della fucilazione. " 5 Ebbene, nel gennaio 1850 C.P., pur non concordando sempre con il Bava, su questo aspetto fondamentale è sostanzialmente d'accordo con il generale piemontese: le riforme ch'ei propone nel suo opuscolo sono utilissime, ma è necessario mirar più in alto. Rimedio pEincipale a molti mali dovrebb'essere una modificazione nel modo d 'arruolamento. "'· Relazione sulle operazioni militari dirette dal gen. Bava comandante il 1° C.A. in Lombardia, 12 ottobre 1848 (senza località t: Eù.) - Doc. IX. 115 ivi, p. 42.


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Valgono meglio le giovani reclute che non le classi composte da padri di famiglia, ed è grave danno il non conservare nel/'esercito un nucleo di veterani che servano di esempio ai giovani [nostra sottolineatura - N.d.a.] 116 •

In conclusione, se C P. è sempre e in ogni caso contrario a un forte esercito a lunga ferma, non lo è affatto alla conservazione anche in tempo di pace di un nucleo di forze permanenti destinate a inquadrare e addestrare le giovani classi, che accorreranno al bisogno alle anni . Giovani classi, abbiamo detto: perché essere dei buoni combattenti significa anche escludere la convenienza di costituire eserciti di massa. Nello stesso gennaio 1850, ricercando le ragioni del fallimento dell'insurrezione del Ducato di Baden nel 1849 e del suo soffocamento da parte degli eserciti germanici coalizzati, C.P. scrive (in parte confermando e in parte smentendo altre sue considerazioni) che in un paese ove non sia altra risorsa militare che uomini e armi, un generale di genio, con questi soli mezzi, può porre in campo un esercito e presentare in una battaglia masse di baionette capaci di ottenere la vittoria. Se poi, come in Baden, esistono quadri di un esercito regolare fdunque anche gli eserciti regolari, e i 'loro Quadri, possono servire! - N.d.a.] il vantaggio è immenso; e la prima idea doveva essere quella di fondere la truppa di linea colla Volkswehr e formare una sola massa di armati 117 • Che differenza sostanziale c' è tra queste idee e quelle del Balbo, dei Pepe o del Durando? Si può solo dire C.P. dimostra, in diverse occasioni, di saper adeguare alla mutevole realtà i suoi principi teorici. L'eccessiva fiducia - dimostrata in più occasioni - nella capacità combattiva delle masse improvvisate è contraddetta dalla constatazione che, nelle diverse fasi delle rivoluzioni europee, "il nostro partito si mostra sempre mancante nella parte militare che forma il solo sostegno dell'assolutismo"; quindi i giovani patrioti [come ritiene necessario anche Blanqui N.d.a.] "dovrebbero a tutt' uomo consacrare i loro ozi ad acquistare le cognizioni indispensabiJi alla guerra ed allenare il loro corpo agli stenti ed ai travagli, piegandolo agli esercizi di violente ginnastiche, giacché la patria non ha bisogno che di guerrieri per decidere la gran lite" 118 • La preparazione militare del temp'o di pace serve dunque, e come; a questo punto si deve concludere che su questo e altri aspetti, come la necessità o meno di forze permanenti e Quadri di professione, le possibilità delle masse di combattenti improvvisate ecc., le oscillazioni di C.P. sono

116

117• 111·

Scritti, Il, p. 178. ivi, p. 186.

ivi, p. I 87.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

principalmente dovute all'incompleta messa a punto teorica delle sue idee, in gran parte formulate per esigenze contingenti e quindi variabili, oltre che dominate dalla necessità di giustificare il suo operato. Contraddittorio anche il suo atteggiamento nei riguardi della Svizzera; da una parte esalta quel modello di nazione armata, dell'altra dimenticando che tale modello esclude interventi offensivi al di fuori del territorio deUa Confederazione, accusa la Svizzera stessa di essere venuta meno aUa sua missione, perché se le sue forze fossero intervenute nel 1848 in Lombardia, "ora l'Italia sarebbe una e forte, l'Austria distrutta, e la Francia non sarebbe caduta sì basso, né soffrirebbe indugio la causa dell'umanità, e il popolo svizzero coronato di gloria, non temerebbe alcun intervento straniero che minacci la sua indipendenza" 119 • Considerazione del tutto oziosa: la Svizzera non era intervenuta, perché un siffatto intervento avrebbe sconvolto tutti i principi della sua politica estera e militare. E come si conciliano le lodi alle sue milizie, con l'ammissione che "la disciplina e l'organizzazione degli eserciti permanenti è giunta, possiamo dire, quasi alla sua perfezione?" 120 • Come si concilia la tesi generale della necessità di interventi militari esterni solo per aiutare la causa della libertà, con il rifiuto veemente e sempre saldo di qualsivoglia intervento straniero - e non solo della Francia e Inghilterra - nella rivoluzione italiana? Le considerazioni prima indicate sono in almeno parziale contraddizione anche con quanto C.P. afferma nel quarto Saggio a proposito dell'arte militare e dei concreti criteri con cui impostare l'ordinamento dell'esercito. Dopo aver riconosciuto l'efficienza degli eserciti permanenti del momento, egli afferma in apertura del saggio che "fra un popolo libero l'arte della guerra progredisce rapidamente, sotto la monarchia procede incerta e lenta o decade, trasformandosi i generali in cortiggiani e 1' arte riducendosi a gretto meccanismo". A parte l'aleatorietà dei concetti di progresso e (}>.,cadenza per l'arte militare, ciò non è sempre vero: lo dimostrano Luigi XIV, il Re di Prussia, la monarchia inglese e via dicendo. Così come non è sempre vero che "la forza dell'esercito deve essere stabilita secondo le frontiere che bisogna difendere" 121• E se, come ammette lo stesso C.P., si deve intervenire all'esterno? se mancano le risorse umane o economiche? le alleanze non servono forse anche a questo? C.P. afferma, poi, rettamente che una grande nazione non dovrebbe prestabilire la forza dell'esercito, ma in caso di guerra proporzionarla all'impresa da compiere; "nondimeno le armi dotte, i carriaggi, gli attrezzi, che bisogna addottrinare e apparecchiare durante la pace, è d'uopo determinarle, epperò la necessità di prestabilire la forza dell'intero esercito ed a questa far corrispondere il materiale ed i corpi speciali, nonché i cavam, che non possono, come i fanti, in pochi giorni addestrarsi" 122 • Altro riconoscimento della 119 ·

120 · 121

122

ivi, p. 192. ivi, p. 193.

Saggi, IV, 109. ivi, p. 108.


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necessità di mantenere in piedi le Armi speciali o dotte (artiglieria e genio) anche in pace; accanto a tutto questo, afferma anche che ''non già la ragion di guerra, ma le entrate dello Stato, il numero delle soldatesche necessarie a presidiare le città. l'umore più o meno guerresco del principe" sono i fattori sui quali si basano gli ordinamenti militari monarchici del momento: ma questo vale per gli ordinamenti militari di ogni tempo e di ogni Stato... Nonostante il suo progressivismo sociale e il poco coerente materialismo che affiora in talune parti della sua opera, l'economia, la tecnica, i problemi di produzione del materiale rimangono ai margini dell'attenzione di C.P., che in questo si differenzia dal Blanch. Il rapporto tra futuri ordinamenti e progresso tecnico gli è sconosciuto: dimostrando scarsa preveggenza scrive che "l'esperienza di tante guerre ha dimostrato che duecentomila uomini formano un esercito che già sul medesimo campo di battaglia comincia ad essere poco maneggevole, e risentesi di quel principio, di quella legge meccanica, per cui perdesi in tempo ciò che guadagnasi in forza" 123 • Così stando le cosa, a suo giudizio anche un piccolo Stato di due milioni di abitanti potrebbe difendersi da un prepotente nemico, perché 200.000 uomini ben comandati in difesa, tengono testa a forze triple ... Non ha alcuna fiducia nelle ferrovie e nel telegrafo, le cui possibilità si sarebbero viste già nella guerra del 1859: in campo militare non ne parla affatto, e per la parte di interesse sociale li vede solo come strumenti del capitalismo, che aumentano lo sfruttamento del proletariato e lo impoveriscono sempre di più. In conclusione, l'analisi teorica e storica e i criteri generali che sono alla base dell' ordinàmento dell'esercito indicato da C.P non mancano certo di forti cadute e limiti, specie là ove vorrebbero aprire strade nuove e sbarrare drasticamente strade vecchie. Troppo spesso l'abuso momentaneo di. certi istituti o il loro imperfetto adeguamento a quanto avrebbe richiesto una data situazione sono da lui ritenuti ragioni sufficienti per abolire - e non riformare - gli istituti stessi. Senza contare le non infrequenti contraddizioni, le quali fanno pensare una cosa sola: che, quando si tratta di costruire il nuovo (criticare è facile) per C.P. si dovrebbe soprattutto applicare a situazioni concrete un modello puramente ideale di riferimento, che solo tale resta. Questo vale anche per il modello ordinativo da lui proposto nel IV Saggio, che ora esamineremo brevemente. In proposito, va notato che le considerazioni di tale Saggio (scritto dal 1851 al 1856) sono precedute dal primo scritto importante di C.P., Sul momentaneo ordinamento dell'esercito lombardo in aprile 1848, 124 da lui presentato a Carlo Cattaneo non appena ammesso - nello stesso mese - nell'esercito lombardo. In questa occasione senza rinunciare fin che possibile ai suoi principi C.P. dimostra un certo pragmatismo, con soluzioni ordinative che si discostano spesso dalle proposte del Saggio in questione. In breve:

'"· IBIDEM. "' "Il Politecnico" 1860, Vol. Vlll pp. 270-274.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. 11 (1848-1870)

i vari corpi volontari devono essere concentrati e riuniti sotto un solo capo, perché "la prima idea che deve campeggiare nell'organizzazione di un'armata, bisogna che sia quella di renderla compatta per quanto si può_ L'armata lombarda, mancando di officiali, deve più di ogni altra evitare le suddivisioni''; l'esercito lombardo deve essere composto di 4 brigate pluriarma (2 rgt di fanteria, uno di cavalleria, e una batteria ), più una riserva di artiglieria di 32 bocche da fuoco; in base al criterio di impiegare il minor numero possibile di ufficiali, il reggimento di fanteria (4500 uomini) sarà su 3 battaglioni, con ciascun battaglione su 7 compagnie di 180 uomini ciascuna (2 plotoni). La batteria sarà su 8 pezzi, il reggimento di cavalleria su 6 squadroni di 80 uomini, divisi in 4 plotoni. Il battaglione in battaglia si schiererà su tre righe; bisogna evitare di complicare la contabilità; ogni reggimento avrà un maggiore che vi è addetto, e ogni compagnia avrà un solo registro, "su cui saranno scritti i nomi e i connotati di ciascun soldato e i suoi effetti. Nel medesimo registro, il capitano avrà cura di scrivere un giornale storico della compagnia". Ricompare, infine, la prospettiva dell'esercito permanente. Tutta la gioventù lombarda deve presentarsi alle armi con obbligo di rimanervi fino al 1849, "epoca in cui se la guerra è finita, si darà all'esercito un'organizzazione permanente; e la sua forza si proporzionerà ai bisogni della nazione" .

Fisionomia del nuovo Esercito italiano: Nazione armata o formazione d'" élite"? Se si fa astrazione dal principio dell'elettività dei gradi, le grandi linee dell'ordinamento dell'esercito proposto da C.P. nel citato IV Saggio rispondono a considerazioni di carattere puramente tecnico-militare e poco risentono delle sue concezioni politico-sociali. Senza riferirsi ai costi, C.P. parla di un esercito (sul piede di guerra) di 500-600.000 uomini suddivisi in 16 legioni (così egli chiama, all' uso romano, i corpi d'armata), ciascuna con forza variabile da 10.000 a 30.000 uomini (ossia composte da 8 a 32 battaglioni di fanteria, più aliquote variabili di altre Armi). Al di sotto della legione la divisione, unità anch' essa a composizione variabile che raggruppa due o più brigate di fanteria, artiglieria o cavalleria. La divisione viene costituita solo per ragioni di comandabilità ed è a costituzione temporanea e monoanna; . la catena gerarchica normale è quella legione-brigata. Quest'ultima - come il battaglione, la batteria o lo squadrone-è monoarma e a composizione fissa. In totale l'esercito comprenderebbe: 125 brigate di fanteria, ciascuna su 4 battaglioni e una compagnia di esploratori (100 fanti a cavallo);


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V - CARLO PISACANE

- 60 brigate di cavalleria, ciascuna su 4 squadroni. Delle 60 brigate 26 sono di cavalleggeri, 22 di dragoni e 12 di corazzieri. Le 34 brigate di corazzieri e dragoni hanno, inoltre, ciascuna uno squadrone di esploratori; - 30 brigate di artiglieria, ciascuna su 5 batterie di 8 pezzi, per un totale di 1200 pezzi. Di esse 14 sono di cannoni da 6, 6 di cannoni da 12, 6 di obici, 4 a cavano. La composizione dell'esercito risulta dallo specchio seguente: SPECCHIO DI TUTIO L'ESERCIT0 125 Uomini

Cavalli

Macchine

= =

Stato Maggiore Esploratori Fanteria Cavalleria Artiglieria Traino delle munizioni ed attrezzi da guerra Ingegneri e pontonieri Corpo sanitario Traino delle vettovaglie

150 17.735 360.000 55.260 33.500

330 18.580 2.000 45.780 32.560

4.380

19.500

30.000

8.798

12.968 4.000

3.850 5.000

890 350

52.000

80.000

30.000

Totale

555.103

218.100

44.418

=

=

La struttura gerarchica - sottolinea C.P. - deve essere studiata in relazione alle effettive esigenze di guerra; ciascun grado deve rappresentare una effettiva diversità di funzioni; devono essere evitate le cariche inutili tipiche degli eserciti dinastici, che ritardano la trasmissione degli ordini. Essa è composta da · - generale (senza altra specificazione), che è il comandante supremo dell'esercito; - tribuno (comandante di legione); - maestro di campo (comandante di divisione di fanteria, di artiglieria o di cavalleria, con alle dipendenze un numero variabile di brigate di taliAmù);

"' Saggi, IV, p. 134.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

brigadiere (comandante di brigata); colonnello (comandante di battaglione, squadrone e batteria); capitano (comandante di compagnia, mezzo squadrone o mezza batteria); tenente (comandante di plotone o sezione d'artiglieria); sergente (comandante di squadra). Battaglione, squadrone e batteria sono, insieme, le unità tattiche e amministrative fondamentali di ciascuna Arma; esse devono quindi essere comandate da ufficiali di pari grado. Un sergente , un tenente e un capitano verrebbero rispettivamente incaricati delle funzioni di aiutante maggiore; sergenti, tenenti e capitani in aggiunta a quelli che inquadrano le compagnie verrebbero incaricati anche della parte logistica, perché per queste incombenze "non dovranno esservi nuovi gradi creati a posta come quelli di forieri, tenenti - colonnelli ecc.". Ciò equivale a dire che, con una visione assai antiquata, C.P. a questi livelli non ammette alcun incarico esclusivo, alcuna specializzazione in campo logistico. Desta perplessità anche lo scalamento verso il basso del grado di colonnello, fino a fargli comandare una batteria di 8 cannoni o uno squadrone, con una funzione che verrebbe equiparata a quella del comando di circa 800 fanti. Una siffatta struttura non consente di raggiungere l'obiettivo della diminuzione complessiva dei Quadri; essa compensa solo la diminuzione dei generali che C.P. presenta come una grande innovazione rispetto agli eserciti dinastici, dove sono assai più numerosi 126 • Antiquata anche la visione del livello di divisione monoarma e a costituzione temporanea, facendo così del corpo d'armata -. legione l'unica unità pluriarma: livello troppo alto per assicurare, anche allora, un'efficace cooperazione. Spesso condivisibili e originali le considerazioni sulle varie Armi e sulla logistica, dove C.P. a volte concorda con Carlo De Cristoforis e altre volte è di lui assai meno moderno. La fanteria deve essere armata di un unico tipo di fucile, nel quale vanno privilegiate a scapito della precisione del tiro e della leggerezza, la facilità di maneggio, la solidità e la rapidità di caricamento dell'Arma. Oltre alla baionetta applicata al fucile, il fante dovrebbe essere armato di una buona daga con guardia. Circa l'utilità della baionetta C.P. è assai più tiepido del De Cristoforis: essa è utilissima, anzi decisiva, nell'attacco o difesa di trincee e luoghi chiusi o per difendersi dalla cavalleria, ma "in attacco e in difesa è riposta nel fuoco la potenza dei fanti". Negli scontri tra colonne o linee in battaglia essa è di impiego poco frequente, "quindi si conserva ancora per un pregiudizio militare, perché siamo sempre riluttanti a smettere gli usi antichi" 127 • Oltre ad essere di un solo tipò, cioè senza corpi speciali, la fanteria dovrebbe eliminare [come poi è stato fatto dalla Francia - N.d.a] le diverse

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IBIDEM.

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ivi, p. 68 e 73.


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mostrine che contraddistinguono i varì corpi; "avveghacchè visibili a] nemico, queste distinzioni gli sono nonne onde giudicare del numero delle schiere oppure delle mosse di guerra; un numero progressivo, il meno visibile che sia possibiJe, è la sola distinzione che debba esservi tra i vari battaglioni dei fanti [soluzione francese fino al XX secolo - N.d.a.] , e l'uniformità distrugge eziandio qualunque idea di privilegio e di rivalità" 128 • Il vestiario deve essere comodo, pratico e rendere il soldato poco visibile: niente spalline, ed è "assurdo" vestire il soldato di rosso. Le soluzioni de] momento sono completamente bocciate da C.P., che propone un cinturone di cuoio con cartucciera scorrevole eventualmente sorretto da cuoi incrociati sul petto, scarpe con uose di cuoio, colore dei vestiti grigio-ferro o turchino, elmo in cuoio con doppia visiera. Il carico del soldato deve essere ridotto al minimo possibile; ogni compagnia, per i ]avori di fortificazione campale, deve portare al seguito "dieci pale, dieci zappe, una quantità di cordino, ed un certo numero di pioli per tracciamenti". l battaglioni di fanteria devono essere robusti e omogenei (6 compagnie senza differenze tra di loro e 720 uomini); date le perdite presumibili per ferite, malattia ecc., battaglioni più piccoli non sarebbero convenienti. Per evitare una eccessiva riduzione della massa di cavalleria disponibile e consentire alle brigate di fanteria di svolgere compiti autonomi, quest'uJtime dovrebbero essere dotate di una compagnia di esploratori, che altro non sono che soldati di fanteria forniti di cavallo, con armamento diverso dagli altri . Soluzione inaccettabile, perché introduce un corpo estraneo e ibrido nella brigata di fanteria; tanto varrebbe aumentare in proporzione la cavalleria! La cavalleria deve "vincere al mostrarsi, al muovere, fugando il nemico con l'aspetto e la voce; inseguire e macellare i fuggenti; incrociare il ferro e combattere a corpo a corpo" 129• Le soluzioni organiche indicate da C.P., pur basate su considerazioni analoghe sulla lancia e sull'armamento, sono assai meno lungimiranti di quelle del de Cristoforis: oltre a prevedere nelle brigate di fanteria una sorta di mezza cavalleria, egli vuol conservare i corazzieri, "terribili perché li si crede invulnerabili", e ritiene ancora ''utilissime" le corazze. Ogni brigata di corazzieri o dragoni deve avere due squadroni di esploratori di cento cavalli ognuno: in tal modo, un'unità speciale di cavalleria dovrebbe fare l'esplorazione ... per conto di un'altra unità di cavalleria, che non ne sarebbe capace. Per tutte queste ragioni, l' obiettivo della semplificazione organica e dell'omogeneità che C.P. vorrebbe perseguire per tutto l'esercito, ne] caso della cavalleria non viene raggiunto. Riguardo all'artiglieria, anche C.P. è fautore del suo impiego a massa e delle batterie a 8 pezzi: ma anche in questo caso, le soluzioni da lui indicate

i2a 129 ·

ivi, p. 64. ivi, p. 87


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non concordano con la necessità - giustamente sottolineata da De Cristoforis - di ridurre i tipi e i calibri, quindi anche di semplificare il rifornimento munizioni e il carreggio. Diversamente dal Pepe C.P. ritiene ormai poco utile 1' artiglieria da montagna, perché "in oggi le grandi strade rotabili accavalcano le catene dei monti, ed abbiamo visto trasportare, prima che queste strade esistessero, attraverso le Alpi e i Pirenei, l'artiglieria di calibro ordinario" 130 • È però deciso avversario dell'obice - cannone da 12 (invece ritenuto da De Cristoforis il pezzo fondamentale) e sostiene che per la sua mobilità è ad esso preferibile il cannone da 6, mentre per le grandi distanze è migliore l'obice da 16. Ne consegue che la sua artiglieria risulta assai più differenziata di quella del De Cristoforis: su un totale di 1200 pezzi, 560 (circa la metà) sono da 6, 240 da 12, 240 di obici da 16, e 160 di pezzi leggeri per artiglieria a cavallo (cioè con tutti i serventi montati su un cavallo e non trasportati su avantreni, cassoni e carri). I pontieri dell'artiglieria andrebbero uniti al genio; per il resto, nulla di nuovo per quest'Arma dotta. C.P. ha invece il merito di soffermarsi sugli organi dei Servizi e in particolare sul rifornimento dei viveri, "la cosa meno apprezzata, comechè fosse la più interessante per l'esercito". lnfalti neU'ultima guerra combattuta in Italia, vari disastri furono causati dal modo irregolare con cui tale servizio facevasi. Durante questa guerra alcuni ignorantelli, i quali suppongono che l'esaltazione supplisce a tutto, stimavano come cosa vergognosa curare i corpi prima di combattere; aberrazioni .di stupidi, di uomini a cui la natura non concesse quella calma necessaria a compiere grandi cose; un buon generale lascerà, le mille volte, distruggere dal nemico qualche migliaio di uomini, piuttosto che appiccar battaglia, per difenderli, a corpo digiuno. Così pensano i guerrieri moderni, così gli antichi, e così pensarono i guerrieri dei tempi eroici ... 13 ' .

In Europa secondo C .P. gli eserciti si approvvigionano facilmente, anche se non giungono rifornimenti da tergo: capita spesso, però, che la distribuzione interna e capillare dei viveri, che non mancano, lasci molto a desiderare. A questi inconvenienti "non è possibile rimediare col numeroso traino, e col rigore verso gl' impiegati dell ' annona: le cagioni di tali disordini si trovano più in alto, esse si riscontrano nel disegno della guerra, nel carattere del generale" 132• A questo punto, va ben sottolineato che C.P. è il primo scrittore militare italiano a sostenere che, in pratica, il disegno operativo deve tener conto anche delle esigenze logistiche: per ottenere la regolarità dei rifornimenti ritiene necessario che "il disegno di guerra non solo fissi precedentemente la sua fronte d'operazione, ma ripartisca ed assortisca su di esse le schiere, no. i 3 1.

3 • 2.

ivi, p. 106. ivi, p. 122. ivi, p. 124.


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onde proporzionare al loro numero le vettovaglie che si spediscono nei diversi punti: quindi è necessario che il generale preveda tutto il seguito della campagna". Né egli deve cambiare idea a ogni mossa del nemico: perché in questo caso non vi sarà nel suo piano di guerra nulla di presunto e di certo, e "ove credeva d'inviare diecimila uomini, ne invierà trentamila, e di quinci [... ] il disordine inevitabile nella condotta e distribuzione delle vettovaglie". Ma oltre che dalla capacità del generale, «le evoluzioni strategiche da cui dipende l'esito di una campagna, dipendono a loro volta dalla pronta esecuzione con cui viene provvisto l'esercito, nei modi e nei luoghi prescritti". Per quanto riguarda il rifornimento del vestiario, "ramo complicatissimo dell'amministrazione e sorgente di gravissimi abusi", la soluzione di C.P. è semplice: ogni soldato acquista da sé il vestiario, e per quanto riguarda le armi, elmi, cofazze, cavalli, calzature, attrezzi da campo, carriaggi, pane e viveri provvede lo Stato 133 • Per la sanità militare, C.P. intende occuparsi solo di ciò che avviene sul campo di battaglia, cioè del primo soccorso e dello sgombero dei feriti sugli ospedali, che sono solo civili e verranno dislocatii là ove viene indicato dal Comando dell'esercito. Molto interessanti le sue idee riguardo alla struttura dell'amministrazipne militare (cioè della logistica attuale, visto che "provvede agli stipendi, alle armi, alle munizioni, a' vestimenta, a' cavalli, agli attrezzi da campo, ai camaggi, al pane, ai viveri, allo strame".) Poiché la buona riuscita delle operazioni dipende dalla logistica, sarebbe errato rendere l'amministrazione indipendente dal Comando; tuttavia C.P. prevede, in proposito, un' organizzazione del territorio - e quindi anche amministrativa e della logistica di produzione - che limita assai l'effettiva autonomia del comandante delle forze operanti, e affida anche la logistica di produzione alle autorità locali. Il territorio dello Stato è suddiviso in 11 circondari militari, Enti di importanza fondamentale sia ai fini amministrativi e logistici sia sotto l'aspetto del reclutamento, dell'addestramento, della giustizia militare e della selezione - o meglio elezione - dei Quadri. Ogni circondario militare deve reclutare, vestire e armare 50.000 uomini; dal punto di vista amministrativo il circondario militare sostituisce il commissariato di guerra o l'Intendenza, che al momento esercitano i necessari controlli amministrativi senza alcuna efficacia, perché essi "riduconsi a una semplice verifica delJe forme, e queste, fatte complicatissime, sono intralciamento in pace e impraticabili in guerra". In ogni circondario militare viene eletto un consiglio di amministrazione, il quale esercita nei riguardi delle truppe fornite dal circondario stesso i poteri logistico-amministrativi che negli eserciti dinastici sono affidati al Ministero della guerra, nomina gli impiegati dei magazzini e depositi, invia presso i reparti propri rappresentanti con l'incarico di assu"'- ivi, p. 155 e 158.


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meme l'amministrazione, e ba alle dipendenze i carriaggi delle vettovaglie. Inoltre in ogni battaglione, squadrone o batteria la truppa elegge un consiglio di sorveglianza, incaricato di "esaminare minutamente se i generi fomiti dagli amministratori abbiano le qualità richieste, ed avendo il diritto di rifiutarli". Gli impiegati amministrativi sono equiparati al grado militare ma non hanno il potere di comandare, e da parte degli inferiori è loro dovuta "considerazione, ma non obbedienza"; per contro sono tenuti ad ubbidire agli ordini degli ufficiali dai quali dipendono (capi dei corpi, comandanti delle legioni, generale). In caso di guerra l'amministrazione si semplifica e accentra: i consigli di circondario nominano un questore, capo della logistica di tutto l'esercito, che dipende direttamente dal generale e dal Capo di Stato Maggiore (maestro generale di campo). Ciascun consiglio, inoltre, delega i suoi poteri a un commissario; i commissari, impiegati nelle varie legioni, "dipenderanno dal questore e dal comandante la legione, e dal maestro di campo". Nel concetto di C.P. l'amministrazione è liberata da un onere sempre sensibile qual'è il pagamento degli stipendi, per la semplice ragione che essi non vengono pagati né agli ufficiali né alla truppa, fatta eccezione per coloro i quali, arruolati "volontari o per sorte" in caso di guerra, oltre a rischiare la vita subissero anche rilevanti danni economici per l'interruzione del lavoro; al rimborso di quanto dovuto a quest'ultimi penserebbero i Comuni. Senza tene( conto che - secondo quanto egli stesso ha affermato sarebbe pur sempre necessario anche in pace un ridotto numero di Quadri in servizio permanente, C.P. ritiene infatti che: - la dipendenza dello stipendio dal grado ha introdotto la venalità negli eserciti stanziali, facendo del soldo l'unico movente: "tutti, o quasi, gli ufficiali de' moderni eserciti militano per bisogno, militano per vivere con lo stipendio che percepiscono, ogni altra passione non ha pungolo per essi. Il dispotismo giovasi grandemente di questa loro condizione"; - l'esistenza di coloro che la patria arma a propria difesa deve dipendere dalle sorti della patria stessa e non da quelle dell'esercito, "altrimenti ogni guerriero griderà viva l'esercito e muoia la patria"; - secondo il nuovo ordinamento sociale non esisterebbero più i non abbienti (sic), e tutti dovrebbero pagare le tasse; quindi una parte delle tasse necessarie per pagare gli stipendi all'esercito, colpirebbe gli stessi militari, il che sarebbe assurdo; - non vi deve essere nessuna differenza di stipendio e trattamento tra ufficiale e soldato, perché in campagna l'agiatezza degli ufficiali tra gli stenti dei soldati fomenta il malcontento e l'indisciplina; - se vi è differenza di condizione sociale tra i cittadini, è giusto che essa sparisca "quando raccolti sotto il vessillo nazionale hanno il nobile incarico, ognuno secondo la propria facoltà, di difendere la patria".


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Riguardo all'educazione militare, al reclutamento e all'addestramento dell'esercito, C .P. non fa che riprendere la tematica del Pepe e il modello svizzero. In sintesi: massimo sviluppo dell'educazione militare nelle scuole civili, che dovrebbe andare dai 7 ai 15 anni e fare di ciascun giovane "un milite provetto" sotto tutti gli aspetti, compresi l'equitazione e il tiro al bersaglio; durata teorica dell'obbligo militare dai 18 ai 50 anni, ma reclutamento dell'esercito attivo - che si rinnova completamente ogni tre anni - tra i volontari o per estrazione a sorte, solo tra i giovani dai 18 ai 25 anni (quindi "nazione armata" impropria); ferme iniziali brevissime e differenziate (8 giorni per la fanteria, 15 per l'artiglieria, 30 per il genio; gli appartenenti alla cavalleria e al treno saranno congedati solo quando si dimostreranno sufficientemente addestrati nell'equitazione e nel maneggio delle armi); richiami frequenti. Per il reclutamento dell'esercito in ogni circondario viene eletto a suffragio universale un consiglio del de/etto (cioè di leva) che provvede a tutte le operazioni. Ogni sei mesi i fanti e i cavalieri riuniti in brigate e gli artiglieri in batterie vengono richiamati e acquartierati per 10 giorni, nelle stesse località in cui risiedono; ogni anno si radunano per un mese i 50.000 uomini di ogni circondario; ogni tre anni si formano due eserciti, che per tre mesi si esercitano a partiti contrapposti consentendo così anche ai gradi più elevati di affinare le loro capacità. Ancora una volta in analogia a quanto prevede il Pepe, anche C.P. accenna alla costituzione con il personale in congedo di milizie comunali ripartite in battaglioni, alle dipendenze del Comune, con il compito di mantenere l'ordine interno; in caso di guerra le milizie forniranno anche i presidi delle fortezze, pertanto dipenderanno dal Comando militare. Anche in questo progetto compare la prospettiva dell'economia: "un tale esercito non costerà allo Stato che la prima spesa di armi, attrezzi, macchine da guerra, carriaggi, e perennemente il nutrimento di sessantamila cavalli" 134. Ad ogni soldato di cavalleria lo Stato fornisce il cavallo e i foraggi; dei cavalli necessari all'artiglieria, solo 1/3 sono di proprietà dello Stato e nutriti a sue spese, mentre 2/3 sono proprietà di privati, tenuti a metterli a disposizione solo in caso di guerra o di esercitazioni. Il sistema prima indicato suscita forti perplessità, per almeno quattro ragioni. La prima riguarda la durata della ferma iniziale, in tutti i casi specie se si tiene conto del tempo necessario per l'elezione dei Quadri, la distribuzione delle armi ecc. - troppo breve per assicurare una prima amalgama delle unità. La seconda riguarda il nucleo di forze permanenti al quale accenna C.P. in altri scritti, che nel IV Saggio scompare. La terza riguarda il tempo necessario per istruire gli ufficiali e quindi la loro effettiva permanenza alle armi. Par di capire che la ferma iniziale degU ufficiali è assai più lunga di quella della truppa, visto che all'atto del primo arruola-

' 34·

ivi, p. 171.


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mento "gli ufficiali degli esploratori, quelli dell'artiglieria, quelli degl'ingegneri verranno inviati alle rispettive scuole dove rimarranno ad istruirsi per due anni; gli ufficiali di cavalleria saranno obb1igati di assistere alla loro scuola per soli tre mesi" 135 • Se gli ufficiali devono essere eletti tra coloro che hanno dimostrato capacità ed esperienza, come fanno questi giovani inesperti e nuovi alle armi a dimostrare ai loro elettori tali qualità? come può un ufficiale rimanere alle armi per tanto tempo, senza stipendio o - al massimo - con lo stipendio pagato dal Comune a fine ferma? chi accetterebbe, a queste condizioni, di fare l'ufficiale? Gli onori e l'amore per la Patria non possono sostituire tutto... Per ultimo, se l'importanza data da C.P. aJla logistica e la necessità di semplificare, decentrare e "privatizzare" talune incombenze possono essere condivise, non aJtrettanto si può dire del progetto di affidare a personale civile anche i Servizi logistici di prima linea e i trasporti, che già Napoleone, per ragioni disciplinari e per eliminare dualismi, aveva ritenuto necessario "militarizzare": senza contare che la soluzione data da C.P. al vecchio problema degli organi di comando logistico non elimina certo gli inconvenienti... 136•

Conclusione: Carlo Pisacane è stato solo un utopista perdente? Che resta, dunque, di Pisacane? Troppo facile sarebbe classificarlo tra i vinti e i sognatori; troppo facile, negli ultimi anni del secolo XX, sorridere delle sue più ingenue utopie sociali e militari, smentite dai fatti. Nel volgere di qualche anno insieme con la sua vita tramonta anche il suo progetto miJitare, letteralmente demolito da quegli avvenimenti del 1860-1861 dove prevale esattamente 1' opposto di tutto ciò che aveva indicato come una vera e propria formula militare e sociale per l'unità nazionale. La storia ha dunque brutalmente decretato la sconfitta totaJe del pensatore, delJ'uomo e dell' ufficiale della Nunziatella, caduto nel 1857 a capo di una spedizione contro quel regime borbonico, del quale il fratello maggiore Filippo, anch'egli ufficiale, rimase sempre fedele servitore. Questo idealista che tutto dà alla Patria cade con la taccia di brigante, mentre i compagni della Nunziatella, i Cosenz, i Mezzacapo, i Pianell ecc., che magari avevano continuato fino al 1860 a servire nell'esercito napoletano, sarebbero diventati influenti generaJi de] nuovo Esercito italiano, meritando altissime cariche e onorificenze. E così capita che il meridionale e meridionalista militare Giuseppe Ferrarelli, nelle sue Memorie Militari del Mezzogiorno d'ltalia, 137 ignori un nome che nella storia militare d'Italia è pur sempre più significativo di quello di generali come Boldoni, Materazzo o

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136 · 131

Saggi, IV, p. 161. Cfr. F. Botti, La logistica dell'Esercito Italiano, (Cit.), Voi. I, PARTE PRIMA. Bari, Laterza 1911.


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altri, da lui fin troppo esaltati. Capita anche che "Enrico Cosenz, i Mezzacapo, Francesco Carrano e gli altri amici militari del periodo genovese non vollero rivendicarne le idee, che probabilmente avevano almeno in buona parte condiviso, e si rifiutarono persino di curare l'edizione postuma del saggio sull'ordinamento dell'esercito italiano". 138 Pisacane fu meno fortunato dello stesso De Cristoforis: nel 1932 Nello Rosselli, anch'egli socialista, per la parte più propriamente di interesse militare esclamava: povero dottrinario! Andare interrogando la storia d'Italia per rendersi conto se mai sarebbe stato possibile richiedere agli italiani soUevati di far la loro guerra, la guerra di popolo, allo straniero e al dispotismo, e bastarono Colombières e una brillante, corta campagna di eserciti stanziali [cioè la guerra del 1859 - N.d.a.], calcolata per dilatare il Piemonte ne11a valle del Po e la influenza francese nella penisola, a determinare la formazione fulminea d'un regno unito dell'Italia centrale e settentrionale. Andare farneticando della imprescindibile necessità preventiva di guadagnare alla causa del rinnovamento italiano il consenso attivo delle maggioranze, e il Mezzogiorno cadde di botto in mano di Garibaldi, tra la suprema indifferenza di novanta su cento dei siciliani, dei calabresi, dei napoletani. Improvvisazione? Fortuna? Eppure l'Italia sotto il segno sabaudo è viva, è cresciuta, s'afforza [siamo nel 1932! - N.d.a.]. D' accordo: ma quante volte e da parte di quanti, dal '60 in poi, non s'è avuto ragione di deplorare che la gran massa degl' ltaliani, anziché contribuire a formarla, l'abbiano soltanto lasciata fare! 139 Un dato certo, che fa impressione, è l'assoluta solitudine fisica, morale, intellettuale e anche finanziaria di C.P.. Esule in Francia e Inghilterra, diversamente dal Pepe disprezza quant' altri mai il pur collaudato modello politico e militare di questi Paesi che l'hanno ospitato, e non vi trova nessun vero amico; il Piemonte lo lascia tranquillo e gli consente di dedicarsi ai suoi studi, ma la monarchia e il sistema politico-militare piemontese sono come tutti gli altri bersaglio delle sue critiche veementi; combatte fianco a fianco con Garibaldi e Mazzini, ma nella sostanza non ha alcuna stima per le loro idee politiche e militari. E gli esuli? Nel luglio 1855, due anni prima della morte, egli scrive: mi dichiaro poi scettico, in tutta la estensione della parola, nel credere alcuni poveri esuli (che si consideravano ben fortunati di conservare, sotto la sferza de' bisogni materiali l'indipendenza delle proprie opinioni) arbitri delle sorti d'Italia; cotesta idea è puerile. Se ciò fosse gli Italiani sarebbero vilissimo gregge, che si lasciano con-

138•

1"'·

V. Gallinari, Carlo Pisacane teorico militare, "Memorie storiche Militari 1980" Roma, SME - Uf. Storico 1981, p. 41. N. Rosselli, Carlo Pisacane e il Risorgimento Italiano, Torino, Einaudi 1977 (Ristampa 1· Ed. 1932), p. xn.


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durre secondo il capriccio di pochi armentieri. Il '48 siamo stati vinti, quindi uomini e principi vanno cangiati [... ] In Italia gli uomini -Nazione non gettan mai profonde radici, havvi troppa vita individuale per verificarsi ciò'40• Può un popolo, una rivoluzione vivere senza "armentieri"? Risponde egli stesso di no, quando nel terzo Saggio afferma che "la riuscita, l'indirizzo della rivoluzione, dipenderà da quella gioventù intelligente, non dotti, ma illuminati combattenti di cui il popolo naturalmente se ne fa testa" 14 1• "Armentiere" vuol essere egli stesso, in sostituzione di quelli del 1848; la sua triste fine dimostra quanto è stato profeta, parlando dello scarso successo - e della solitudine - degli "uomini-Nazione"... Con chi, insomma, vuol fare la rivoluzione C.P.? solo con quel mitico popolo minuto che non conosce e che non ha mai frequentato, che rimane sempre evanescente nonostante i suoi sforzi, che non ha un solo uomo al suo interno per il quale C.P. dimostri stima e amicizia? Pensatore e uomo solo, C.P. non dialoga, ma polemizza frontalmente; non giudica, ma condanna sempre e subito. Egli sembra ignorare completamente tre dati di fatto elementari: che ogni teoria vale in tanto in quanto ha precise fondamenta nella realtà, quindi è a quest' ultima che deve piegarsi, non viceversa; che la politica - come la strategia, come i modelli ordinativi che ne derivano - è l'arte del possibile, dunque del compromesso; che l'animo umano è complicato, e non è sempre mosso solo da interessi economici (Garibaldi, uomo pratico, ben lo sapeva; i suoi volontari lo dimostrano). Sullo scrittore ha prevalso spesso l'uomo. Sono stati, in sostanza, la solitudine e l'amarezza a portarlo ad esasperare i concetti e a certe azzardate costruzioni con malferme fondamenta; altrimenti non si spiegherebbe la lucidità di molte diagnosi e di molti ragionamenti teorici, alla quale corrispondono prognosi e terapie contradditorie e in odore di utopia, come la credenza che basti eliminare il diritto di proprietà per ottenere subito sia il benessere del proletariato rurale sia un entusiasmo patriottico che ba radici assai più complesse. O come l'insistenza su una guerra di popolo che non sarebbe tale ma diventerebbe di fatto la guerra di una sola classe, con l'impossibile eliminazione dell' apporto della borghesia e dei ceti intellettuali, che anch'essi hanno legittimi (e non sempre egoistici) interessi da difendere e che in fondo, sia pur malamente, si sono battuti nel 1848-1849 assai di più del proletariato. Bisogna rinunciare a una lettura meramente formale, letterale dei suoi scritti e andare al di là della lettera, dei pensieri, dei vocaboli per coglierne la sostanza, il significato autentico; bisogna - più di quello che dice - considerare ciò che vorrebbe dire, e ciò che magari avrebbe detto se, invece di essere uomo d'azione sfortunato, perseguitato e solo, fosse stato un ascol-

m, pp. 116-117.

140 ·

Scritti,

1 1 • •

Saggi, Hl, p. 122.


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tato maftre à penser del suo tempo. Se questa operazione si fa oggi con i pittori, scultori e poeti, perché non farla con uno scrittore militare? Forse un siffatto approccio diventa più facile alla fine del secolo XX, dopo aver visto il mesto tramonto di ideologie messianiche e dogmatismi ... Di C.P. va anzitutto ricordata l'innegabile e chiara statura di pensatore e storico militare nazionale, che assai più del Balbo, del Pepe, del De Cristoforis di tanti altri raccoglie l'eredità del Foscolo e concilia l'avvenire con il passato. Non ha conosciuto Clausewitz, si professa materialista e esalta il principio della massa quasi quanto De Cristoforis e Jomini; ciononostante può essere definito scrittore più clausewitziano che jominiano. Di Jomini e dell' Arciduca Carlo è critico severo, il primo in Italia a mettere fine a una scomposta, servile e immeritata ammirazione per questi due mostri sacri, alla quale non si sottrae lo stesso De Cristoforis. La sua visione dei contenuti di strategia e tattica rimane in molte parti ancora valida; le sue riflessioni sulle varie Armi sono ricche d'interesse, insieme e con molte altre sui più svariati argomenti che si trovano qua e là. Se spogliato da talune esasperazioni, il rapporto tra nazione, guerra e pace da lui individuato non ha perso lo smalto: non c'è dubbio, infatti, che non ci potrà mai essere pace e fratellanza tra i popoli senza giustizia, senza che ciascun popolo conservi la sua identità e possa vivere sicuro entro i confini che la natura gli ha indicato. Pienamente valida anche la visione del rapporto tra nazione, libertà e questione sociale: la nazione è veramente tale solo se non ammette figli e figliastri; la libertà per essere veramente tale, deve essere anche - oggi tutti lo ammettono - libertà dai bisogni materiali. L'adesione dei ceti popolari - e in particolare dei contadini, cioè della grande massa della popolazione - alla grande causa del riscatto nazionale è stato un problema reale emerso per la prima volta in tutte le sue dimensioni - e nei risvolti militari - nel I 848-1849. È stata anche la principale causa della divergenza di C.P. da Mazzini, e non vi è dubbio che la sua mancata risoluzione, e la scarsa "nazionalizzazione" delle masse italiane fino al XX secolo, hanno pesato negativamente sulla nostra storia nazionale e pesano ancora sul rapporto Stato-cittadini. In questo caso come nell'ordinamento dell'esercito, si tratta di andare al di là delle forme esasperate della proposta di C.P.: perché il suo socialismo risente delle utopie del tempo ma non deriva da odio di classe o dall'esperienza di contrasti sociali forti e quotidiani, da un ribellismo e rivendicazionismo fine a sè stessi,-bensl dalla nazione e da una ben precisa, incontrovertibile esigenza: trovare finalmente braccia salde e cuori fidenti per la guerra di riscatto nazionale. Non rivoluzione sociale quindi, ma rivoluzione nazionale, che per essere veramente tale è costretta a diventare anche sociale. Socialismo sui generis, perché gli mancano i due ingredienti classici e fondamentali, fino al XX secolo: l'internazionalismo e il pacifismo. La critica agli eserciti permanenti, punto di partenza del progetto militare di C.P., vorrebbe elevarsi sul piano generale ed europeo, ma è anzitutto italiana e napoletana: prende cioè spunto sia dalla sua esperienza


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diretta, sia della indubbia, cattiva prova che detti eserciti hanno dato nel 1848-1849. Ciononostante essa rimane sostanzialmente fondata, perché indica molti dei mali che anche secondo il Pepe e il d' Ayala affliggevano l'esercito napoletano. Le lacune operative e logistiche dell'esercito piemontese denunciate da C.P. sono più o meno le stesse che emergono dagli scritti del Durando e dei generali e ufficiali piemontesi protagonisti del1a guerra del 1848: molti di questi mali, che incidono nell'efficienza combattiva, non scompariranno nemmeno negli eserciti nazionali fino al XX secolo. I veementi attacchi di C.P. agli eserciti permanenti non hanno, peraltro, il crisma dell'originalità, né sono tipici del XIX secolo o dello schieramento politico democratico e rivoluzionario del tempo. Essi toccano il problema reale del soldato-cittadino: anche se si stenta a crederlo, era contrario fin dal 1828 agli eserciti permanenti lo stesso Maresciallo Radetzky, personificazione del dominio dell'Impero austriaco sull'Italia ("l'Impero del male"di allora) e del militarismo dinastico tanto aborriti da C.P.. Sulla Rivista Militare del luglio 1865, trattando della legislazione penale militare un certo P.M. [non meglio identificato] ricorda che, "cosa strana e quasi incomprensibile", il Maresciallo Radetzky scriveva, con argomentazioni sorprendentemente analoghe a quelle di C.P.: "Gli eserciti permanenti convengono solo in certi tempi e in talune occasioni [ ... ]. La forza di un paese riposa sovra un organamento conveniente della sua landwehr [cioè dellè milizie popolari di riserva sul modello prussiano - N.d.a.]. Questa istituzione, che è la più naturale, è pure la migliore. Essa f... ] mantiene nel popolo [... ] un ardore guerriero, che non degenera facilmente, perché quelli che la posseggono non cessano mai d'essere cittadini. Quando un popolo è animato da tali sentimenti è invincibile [... ]. Se consultiamo la storia, essa c'insegnerà che mai una-nazione sotto le armi è stata vinta [... ]. In nessun luogo la rettitudine di questo ragionamento è più evidente quanto nella storia antica. Atene nei suoi giorni di gloria [... ] non aveva altro esercito che i suoi cittadini; i soldati cittadini di Roma hanno conquistato il mondo, ed hanno mantenuto la dominazione romana fino al giorno in cui la creazione di eserciti permanenti ha prodotto la decomposizione dell'Impero. Gli stessi risultati hanno avuto luogo nel Medio Evo e nei tempi moderni le Landwehr, abilmente dirette, hanno sempre fatto piegare gli eserciti permanenti". Le riflessioni di questo ufficiale napoletano pongono anche un interrogativo, che non potrà mai trovare risposte univoche: la cattiva prova complessiva data dall'esercito napoletano del 1860 - specchio esemplare dei difetti degli eserciti permanenti - è dovuta appunto a questi difetti, o alla convinzione di buona parte dei Quadri e delle truppe che ormai non valeva più la pena di combattere contro la storia e la Nazione? Un fatto è certo: i brillanti successi riportati in battaglie campali contro questo esercito dalle schiere garibaldine, che assomigliavano molto alle "milizie improvvisate" comandate da un Capo di prestigio nelle quali C.P. aveva tanto confidato, in un anno - come il 1860 - che segna la sconfitta di molte altre sue previsioni e concezioni accreditano almeno uno dei motivi conduttori della sua


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indagine. Ma che sarebbe avvenuto, se i mille si fossero trovati di fronte ali' esercito permanente francese, o austriaco? Se sfrondato di elementi caduchi e contingenti, il concetto di disciplina di C.P. è estremamente moderno: non sono mai stati e non sono, infatti, i formalismi della vita di caserma del tempo di pace, i severi regimi disciplinari, le perfette esercitazioni di pace, le lunghe ferme a fare di un esercito uno strumento efficiente. Come egli stesso afferma clausewitzianamente, ciò che vale è la coesione interna, la volontà di vincere, la comune accettazione di valori, insomma, "le ragioni più lontane, le quali dalla costituzione della società direttamente dipendono". Chi oserebbe, oggi, contestare il suo concetto di guerra di tutta la nazione e non solo dell'esercito, la necessità che l'esercito sia in stretta simbiosi con la società, la necessità che non vi siano soldati da una parte e cittadini dall'altra, ma cittadini-soldati? Tralasciamo la minuta analisi critica delle forme ordinative del suo esercito: anche qui, l'improponibile e utopica elezione dei Quadri se vista in prospettiva ben sottolinea che una gerarchia efficiente si regge sul consenso e sulla fiducia della base, e che i migliori e meno fallaci giudici di ciascun livello geran.:hil:u, sono senL.a dubbio gli inferiori ... Il decentramento anuninistrativo e logistico, l'educazione militare e patriottica della gioventù nelle scuole, sono altri aspetti interessanti e non caduchi. Lo stesso concetto di nazione armata (che in senso stretto non è tale perché basata sui volontari e sull'estrazione a sorte) meglio di tante altre consimili utopie tiene conto delle esigenze di uno Stato moderno e dello scarso rendimento delle classi più anziane. E tra le righe emerge anche un'importante verità da non dimenticare oggi: che, cioè meno un popolo è militare e propenso ad accettare come invece hanno fatto gli svizzeri - un'educazione militare, più necessita o di aiuto straniero o di forze professionali a lunga ferma, che per fortuna non sempre assomigliano all'esercito napoletano nell'immagine che ne dà C.P., ma che tuttavia, corrono questo pericolo. Fervente patriota, ma nemico acerrimo delle monarchie (o repubbliche) costituzionali e degli eserciti permanenti, (cioè dei due capisaldi politico-militari degli Stati europei fino al XX secolo), C.P. è stato vittima di un generalizzato ostracismo da parte del pensiero militare ufficiale. Oggi le antiche remore possono e devono finalmente essere rimosse, per riconoscere serenamente che più di Carlo De Cristoforis e degli altri autori coevi egli avrebbe meritato - e merita - gli allori di isolato fondatore di un pensiero militare nazionàle, come tale non dimentico della storia e delle millenarie tradizioni militari del nostro popolo. 11 Gioberti ha affermato che una letteratura non può essere nazionale se non è popolare: ebbene, il pensiero e il concetto di storia militare di Carlo Pisacane sono autenticamente nazionali, proprio perché racchiudono e sintetizzano le passioni e aspirazioni più autenticamente popolari, inserendole in un disegno strategico e organico di respiro nazionale. Lo fanno con forme sovente caduche e criticabili, ma lo fanno e lo fanno per la prima volta precorrendo i tempi: è questo che importa.


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In linea generale l'effettiva dimensione militare e tecnica dell'opera del Pisacane non è finora stata studiata a fondo e con i necessari riferimenti al pensiero strategico europeo e italiano, a cominciare dall'esatta consistenza dell'ancoraggio a Jomini, Machiavelli e Blanch. Nel secondo dopoguerra è stato più volte significativamente riedito con frequenza il Terzo Saggio dedicato alla rivoluzione, con un approccio essenzialmente filosofico e politico-sociale che ha sottovalutato o disinvoltamente accantonato la dimensione nazionale e militare. Il risvegliato interesse per l'opera di C.P. dopo il 1945 è perciò dovuto al clima politico-sociale di quegli anni; per le stesse ragioni non si trova analogo interesse dal 1857 al 1940, quando l'apporto di C.P. - figura ovviamente scomoda non solo per i militari, i conservatori e la monarchia - viene assai trascurato. L'unica eccezione è un articolo del capitano Francesco Vairo nella "Nuova Rivista di Fanteria" del 15 maggio 1910, che rettamente interpreta lo spirito, più che la lettera, dei suoi scritti, apprezzando l'attenzione da lui dedicata all'educazione della gioventù e osservando che nessuna milizia sarà possibile senza quella perfetta preparazione morale e militare del popolo che Pisacane nel 1856 agognava e credeva possibile qualora l'Italia fosse libera e una, ma che ancor oggi, dopo mezzo secolo di libertà, resta per noi nel campo della retorica e del lirismo patriottico. Perché ancora, noi modernissimi, facciamo pompa di pusillanimità e di ignoranza di cose di guerra, come allora quand'egli scriveva; perché ancora la parola Patria per molti, per troppi, è vuota di senso... Né il Vairo disapprova le sue idee sulla costituzione di un esercito di cittadini, ma ne fa solo una questione di tempo, di maturazione dello spirito CIVICO:

siano pure le milizie, ma a tempo e luogo, quando cioè saremo maturi per la trasformazione dei nostri ordinamenti, quando, in una parola, avremo appreso non solo a studiare e ammirare la storia romana, ma a praticare l'antica virtù dei cittadini della grande repubblica. Credo però che ci toccherà aspettare e non poco: rimandiamo quindi la soluzione del problema ai nostri posteri! [nostra sottolineatura - N.d.a.J. Mariano D' Ayala nella sua bibliografia del 1854 può citare· solo la Guerra combattuta in Italia nel 1848-1849 (1851), precisando che essa è dovuta a un giovane ufficiale del genio napoletano ma senza commentarne i contenuti' 42 , il che può essere legittimamente interpretato come una sostanziale lontananza di idee tra quei due ufficiali napoletani che pur si cono142·

M. D' Ayala, Bibliografia Militare Italiana , Torino, dalla stamperia reale 1854, p .

320.


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scevano bene, avevano ambedue cuore italiano e provenivano ambedue dalle Anni dotte e dalla stessa scuola della Nunziatella. Giuseppe Sticca nel 1912 gli dedica quasi una pagina di elogi peraltro generici, affermando dopo alcune inesattezze a proposito delle loro opere - che C.P. e Carlo De Cristoforis, "due attori che si completano, ambedue morti per l'Italia, sono i

maggiori scrittori di cose militari della vigilia gloriosa del nostro Risorgimento". Lo Sticca ricorda, inoltre, che La guerra combattuta in Ttalia nel

1848-1849 è stata tradotta in tedesco "dal Colonnello Closman" (deforma43 zione di A. CLOTZMANN, che effettua la traduzione nel 1852)1 • Negli anni Venti Rodolfo Savelli fornisce una sintesi accettabile del suo pensiero e del suo pensiero militare, correttamente agganciando il concetto di nazione predominante in C.P. al suo socialismo. Per altro verso il rapporto tra libertà della nazione e libertà dell'individuo non riceve dal Savelli la dovuta attenzione; anche l'esame degli aspetti militari delle teorie di C.P., pur corretto, risulta troppo affrettato. Comunque, il Savelli riconosce a ragione a C.P. il merito di aver per primo indicato le masse come future protagoniste della storia politica e militare dell'Italia, sì che la guerra 1915-1918 è stata nell'ultimo periodo "guerra di masse e guerra rivoluzionaria e se abbiamo voluto vincere, e distruggere l'Austria[ ...] abbiamo dovuto dichiarare la guerra lotta di liberazione, e promettere ai soldati che, tornando, essi sarebbero stati i protagonisti dell'avvenire [...]. Bisognava giungere al soldato cittadino. E tale fu il soldato e l'esercito della Grande guerra!". In conclusione, a parte particolari non accettabili (come le elezioni) o caduchi, per il Savelli "le idee del Pisacane intorno alla concezione e alla funzione dell'esercito in una società 144 moderna, sono le stesse che oggi contano e si impongono" • Il libro di Nello Rossel1i Carlo Pisacane nel Risorgimento ltaliano (1932) 145 è di qualche interesse per i particolari sulla vita di C.P., ma - pur indicandone l'importanza - non approfondisce la parte militare; interessante invece il giudizio di Gramsci su C.P. scrittore militare. In linea generale, Gramsci nota che è mancato nel Risorgimento un "fermento giacobino nel senso classico della parola" e che il Pisacane è "figura altamente interessante perché dei pochi che intese tale assenza, sebbene egli stesso non sia stato 'giacobino' così come era necessario all'Italia" 146• Dal punto di vista militare, secondo Gramsci C.P. è forse da collegare al Machiavelli, il quale comprese la necessità di "subordinare organicamente le classi popolari ai ceti dirigenti per creare una milizia nazionale capace di eUminare le compagnie di ventura".· Egli considererebbe "il problema di soddisfare le rivendicazioni popolari prevalentemente dal punto di vista militare" e nel1e sue teorie vi sarebbero delle contraddizioni: ,.,_ G. Sticca, Gli scrittori militari italiani, Torino, Cassone 1912, pp. 237-238. t,u R. SaveUi, Op. cit., pp. 56, 99 e 101. 145 · Cfr.. N. Rosselli, Op. cit.. '" A. Gramsci, Quaderno 19 - Risorgimento Italiano (1934-1935), Torino, Einaudi 1977 (a cura di C.Vivanti), p. 58.


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il Pisacane, nobile napoletano, era riuscito a impadronirsi di una serie di concetti politico-militari posti in circolazione dalle esperienze guerresche della rivoluzione francese e di Napoleone [ma questo è avvenuto per tutti - N.d.a] trapiantati a Napoli[ ...]. Pisacane comprese che senza una politica democratica non si possono avere eserciti nazionali a coscrizione obbligatoria [la Prussia del suo tempo era democratica? - N.d.a.], ma è inspiegabile la sua avversione contro la strategia di Garibaldi [è invece spiegabile - N.d.a.] e la sua diffidenza contro Garibaldi; egli ha verso Garibaldi lo stesso atteggiamento sprezzante che avevano verso Napoleone gli Stati Maggiori dell'antico regime.' 47 Degli studi del dopoguerra, quelli del Pieri (1955)'4x sono i più completi e seri e fanno da base agli scritti successivi; tuttavia anche il Pieri incorre in alcune inesattezze e a volte fornisce discutibili interpretazioni. Non esatta, ad esempio, la sua affermazione che C.P. non accenna alle gesta dell'esercito italico sotto Napoleone; come abbiamo dimostrato in precedenza, questo accenno - sia pur non troppo marcato - c'è. Sfugge al Pieri che C.P., pur condividendone alcune idee, è stato il più severo critico di Jomini, né va condivisa la sua affermazione che egli ha poco in comune con C]ausewitz. A parte le dissonanze su aspetti anche importanti, se si valuta l'opera di C.P. nel suo complesso vi si trovano anche punti importanti delle teorie di Clausewitz: sostanziale antidogmatismo; guerra di nazioni e non più di eserciti, tendenzialmente spinta a fondo; importanza preminente del genio strategico del Capo abbinato allo spirito dell'esercito francese; esatta valutazione della nuova strategia sorta dalla Rivoluzione. Forse perché non ha potuto consultare gli Scritti usciti solo nel 1964, il Pieri, poi, non nota le contraddizioni di C.P. a proposito del sistema militare svizzero, da lui giudicato non interamente riproducibile per l'Italia, né avverte che il suo concetto di nazione armata non esc1ude la presenza anche in pace di un nucleo permanente, ciò che già lo differenzia profondamente dal modello svizzero. Non è vero che in C.P. non compare la guerra assoluta tipica di Clausewitz: il suo è proprio un tentativo di trasformare la guerra limitata tipica dei re,-della diplomazia, degli Stati del tempo in una grande guerra nazionale, la quale non può che essere assoluta, offensiva, spinta a fondo, perché vi partecipa tutto il popolo. A proposito dell'impresa di Sapri, il Pieri nota "l'intima contraddizione psicologica che indusse il freddo ragionatore a gettarsi allo sbaraglio in un'impresa disperata" e parla di ''uno dei tentativi più schiettamente mazziniani". Al contrario, si tratta di un tentativo pienamente coerente con il meridionalismo strategico di C.P. e con la sua errata convinzione che ormai bastasse una scintilla di pochi animosi nel Sud per propagare gradualmente l'insurrezione nella penisola, trasformando subito gli insorti in esercito. 147

· i vi, p. 104. '" P. Pieri, Guerra e politica (Cit.), pp. 173-205 e Storia militare del Risorgimento (Cit.), ad indicem.


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Mazzini (contrario a quella spedizione) voleva, invece, un'insurrezione simultanea e pilotata in tutta l'Italia e pensava alla costituzione dell'esercito solo una volta raggiunta- ma con la guerriglia - l'indipendenza. Secondo Pieri C.P. non accenna mai al sistema di reclutamento prussiano (esercito regionale di coscritti con obbligo militare esteso a tutti, ferma molto breve, buon nucleo permanente di Quadri forniti in prevalenza dell'aristocrazia, massimo sviluppo dell'addestramento perché la ferma è solo istruttiva). Per forza! Questo efficiente esercito (così come quello russo o austriaco) dimostrava l'esatto contrario di ciò che C.P. voleva dimostrare: che cioè era possibile ottenere un esercito efficiente e permeato di forte spirito nazionale o militare anche con Quadri permanenti e aristocratici e soprattutto senza rivoluzione sociale. Sfugge, piuttosto, al Pieri che la "nazione armata" di modello prussiano, con obbligo militare generalizzato, è assai meno di élite di quella di C.P., forinata non dalla totalità delle classi più giovani, ma dai volontari ed estratti a sorte di queste classi. Il giudizio conclusivo del Pieri, infine, va condiviso solo in parte. D'accordo sul fatto che l'arte militare di C.P. "anche nella e~-pressione più caratteristica e originale della nazione armata rimane il prodotto spirituale di un ufficiale vissuto nell'orbita dell'esercito da caserma, il quale, mentre ne denunda con spregiudicatezza i gravi difetti, non riesce a concepirne una migliore". Che anche il nuovo modello di C.P. abbia seri difetti tecnici e riproduca in molte parti quello vecchio, è vero; il concetto di nazione armata però è tutt' altro che caratteristico e origina1e. Ancor meno condivisibile l'affermazione del Pieri che le teorie di C.P. rappresentano "il massimo e più originale sforzo di ricavare da un'arte militare già invecchiata e anchilosata, e destinata dilla tre lustri a segnare il proprio definitivo tracollo, le estreme possibilità". Questo non è vero: a) perché nella guerra del 1870-1871, alla quale il Pieri si riferisce, l'arte militare di impronta francese e jominiana non è tramontata affatto; b) perché sarebbe facile dimostrare che in questa occasione lo strumento militare francese era pieno di difetti, e che i generali francesi hanno applicato solo il peggio - non il meglio - di Jomini; c) perché, come meglio si vedrà in seguito, i generali prussiani nel 1870-1871 si sono rifatti a quell'eredità napoleonica, della quale anche C.P. sa ben cogliere molti caratteri distintivi; d) perché sia Clausewitz che C.P. colgono nelle masse di armati ricche di spirito comandate da Capi generati della Rivoluzione Francese, il nuovo volto della guerra. In proposito, non è affatto vero che Clausewitz "considerava l'esplosione rivoluzionaria e bellica de1 venticinquennio franco-napoleonico come una cosa eccezionale"; è vero il contrario: questo per Clausewitz - come per C.P. - era il nuovo volto della guerra. Se mai, ciò era vero per Jomini ... Nell'introduzione a una delle tante riedizioni recenti del terzo Saggio (1970) 149, Franco Della Peruta non individua bene le matrici principali del

149

C. Pisacane, La rivoluzione (con saggio introduttivo di F. Della Pcruta), Torino, Einaudi 1970, pp. I - LXXll.


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pensiero militare di C.P., dando troppa importanza al Blanch. Non è vero che "l'abolizione degli eserciti permanenti era una de1le condizioni essenziali per la vittoria della rivoluzione": C.P. sperava nella loro sconfitta ad opera dell'insurrezione e dell 'esercito nazionale (che altrimenti non sarebbero serviti a nulla), non nella loro totale abolizione. La sua avversione agli eserciti permanenti, mutuata (questo il Della Peruta non lo dice) dal Filangieri, era dovuta al fatto che essi erano l'unico presidio delle monarchie dispotiche italiane (era l'abolizione di queste ultime l'obiettivo primario della rivoluzione) e, al tempo stesso, erano l'antitesi dei nuovi principi sui quali doveva essere costruito il suo esercito nazionale. Il Della Peruta afferma anche che, specie per la scelte dei Quadri, C.P. "si trovava di fronte la difficoltà di dover conciliare i termini della contraddizione - cui si è ripetutamente accennato - tra democratismo estremo e ruolo della personalità, tra esigenze autoritarie e necessità delle competenze e capacità funzionali (particolarmente acuita in un organismo fondato anche sulla disciplina come l'esercito)". Nessuna contraddizione: per C.P. la milizia è uno stato eccezionale, dove necessità fa legge e dove ci si richiama alle esperienze classiche, dalle quali si deduce che solo con Capi geniali e ben scelti e con una disciplina severa, anche le masse improvvisate possono ottenere la vittoria. Il suo motto è perciò indisciplina in pace, disciplina in guerra (il contrario di fatto avviene per i regimi dispotici). Le elezioni dei Quadri, mutuate dal Filangieri e dal Pepe, trovano la loro prima legittimazione prima di tutto nelle esigenze di efficienza, nella necessità di far scaturire dalle masse - e col loro indispensabile consenso - Capi geniali (come era avvenuto con la Rivoluzione Francese) e di tutelare l'autonomia dell'esercito: le ragioni della democrazia e il raccordo tra Istituzioni militari e società vengono dopo. Condivisibile ma troppo sintetica l'interpretazione che del pensiero militare di C.P. dà Giuseppe Caforio nel 1975 150• Il saggio di Vincenzo Gallinari (1981) 15 1 dopo quello del Pieri del 1955 è il migliore su di lui. Il Gallinari mette bene in rilievo che la sua è una guerra totale e che egli ha l' abitudine "di tralasciare i fatti, anche importanti, che contraddicono le proprie idee"; ciononostante, anche il Gallinari cade in inesattezze e fornisce interpretazioni non corrette. Anzitutto, non è vero che tra i referenti teorici di C.P. si trovino il Btilow, padre dell'arte militare "geometrica", e l'Arciduca Carlo: è vero il contrario, e lo abbiamo dimostrato. Così come abbiamo dimostrato che non è vera l'altra affermazione del Gallinari - ripresa dal Pieri - che C.P. ba incontrato la morte in un'impresa che contraddiceva tutte le sue teorie. Il Gallinari nota poi che C.P. è "perfino" contrario allo "stendersi in bersaglieri" della fanteria di linea (cioè al suo schieramento in battaglia in ordine sparso, a intervalli), perché sempre secondo C.P. "in una

''°- C. Caforio, Appunti per una storia del pensiero militare italiano - C. Pisacane, "Rivista 5 ' '-

Militare" Il. 1/1975, pp.83-87. V. Gallinari, Art. cit..


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linea di bersaglieri [cioè di uomini schierati ad intervalli - N.d.a.] domina molto il valore individuale sul quale non può farsi calcolo severo, mentre una linea continua di battaglia presenta solidità e ispira fiducia al soldato". Ma questi erano allora i criteri generali di schieramento in battaglia della fanteria, tanto più validi per le masse di soldati improvvisati sulle quali egli contava. Su questo punto, però, la posizione di C.P. non era affatto rigida, visto che ricorda anche che le formazioni devono sempre adattarsi al terreno. Non è comunque vero che, come afferma il Gallinari, queste idee sono in contraddizione con l'altra - ben nota - che tutta la fanteria al bisogno deve essere addestrata a combattere in ordine sparso, "in bersaglieri". C.P. è contrario ai bersaglieri, più che alla loro tattica; con questa tesi, egli intende semplicemente sostenere che i reparti di fanteria devono tutti avere le stesse caratteristiche della specialità bersaglieri, ed essere in grado ·di svolgere, all'occorrenza, in proprio i compiti speciali di avanguardia, disturbo ecc. affidati - al momento - solo ai bersaglieri, che sono pertanto da abolire come corpo speciale. Gallinari non approva il concetto dell'"indipendenza assoluta" del Capo militare dal governo, durante la guerra. Ma tale indipendenza non è assoluta: probabilmente ricordando la sua negativa esperienza quale mente militare della Repubblica Romana, C.P. intende semplicemente affermare che, una volta concordato il piano di guerra - il cui obiettivo nel caso della guerra nazionale è estremamente chiaro, e si riassume nella cacciata dell'esercito austriaco dell'Italia - qualsiasi altra inframmettenza politica nella condotta delle operazioni sarebbe inutile e dannosa. Infine il Gallinari come il Liberti 152 - non comprende che l'avversione di C.P. per la guerriglia è dovuta a una ragione sola: che ammettendo la possibilità e il vantaggio di ricorrere - sia pur in forma non esclusiva - a questo tipo di guerra, veniva automaticamente a cadere la sua tesi - cardine che nella seconda fase del1'insurrezione era necessario e possibile concentrare tutte le masse armate e costituire subito un esercito nazionale, perfezionandolo nel corso stesso della rivoluzione. Nello scarno capitolo dedicato alla questione militare del suo libro Carlo Pisacane - vita e pensiero di un rivoluzionario (1982) 153, Luciano Russi interpreta all'esatto contrario un passo che C.P. dedica nel quarto Saggio a Jomini, da lui citato in positivo per soffragare il noto principio che le truppe non possono combattere con valore, se non credono nelle ragioni della guerra. E, in pr:oposito, va chiarito che !"'anonimo e pregevolissimo autore" dei Tableaux des guerres de la Révolution Française non è altro che lo stesso Jomini... Il Russi riprende poi nella sostanza la citata affermazione di Gramsci, quando ritiene - a torto - che l'opera del Machiayelli sia per 12 .

s E. Liberti, Tecniche della guerra partigiana nel Risorgimento, Ed. Giunti - G. Barbèra 1972, pp. 314-342. "'· L. Russi, Carlo Pisacane - vita e pensiero di un rivoluzionario, Milano, li Saggiatore 1982, pp. -111-117 e 266-272.


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C.P. "il momento - chiave della ri-fondazione della relazione tra la quistione militare e la quistione politica". Ne] pensiero di C.P. invece esiste nella storia un continuum che, iniziando dai primi tempi di Roma, dimostra il legame tra peculiarità nazionali dell'Italia, efficienza militare e milizie cittadine: Machiavelli è tappa importante e nulla più; più di Machiavelli per il modello organico di C.P. contano la Rivoluzione Francese (non Napoleone) e il Filangieri. Il Russi poi non concorda con coloro che vedono nel concetto di nazione rumata di C.P. una pura e semplice ripetizione della formula del Cattaneo, mettendo in luce la diversità della matrice ideologica e politica. Si tratta di un fatto tecnicamente irrilevante: le due formule sono diverse non tanto per questo, ma per la sostanziale (anche se non formale) lontananza di C.P. dal modello svizzero ripreso dal Cattaneo. Perché, per Jui, di fatto non tutti, ma solo una parte dei cittadini - i volontari e gli estratti à sorte delle classi più giovani - devono diventare soldati. Senza contare che ritiene necessario anche un nucleo di forze permanenti... Infine, il Russi aderendo a torto alla tesi del Pieri sulla lontananza del concetto di guerra di C.P. da quello di Clausewitz, afferma che per C.P. la guerra non è - come per il generale prussiano - la continuazione della politica con altri mezzi, ma lotta di massa e rivoluzione. Si può obiettare che Clausewitz non ha mai escluso che la guerra potesse essere lotta di massa; e proprio in quanto tale, proprio in quanto rivoluzione, la guerra di C.P. non può non essere un fatto politico, anzi è la guerra più politica di tutte, fino a identificarsi con la politica stessa, anziché esserne continuazione o separata derivazione. Né, infine, è condivisibile quanto afferma in anni recenti (1990) Giuseppe Conti, riprendendo in parte il Pieri1 54: che, cioè, "i riferimenti di C.P. alla Svizzera sono pressoché inesistenti, còsl come lo sono del resto quelli alla Francia della Rivoluzione". Come si è visto, del modello svizzero parla più volte con favore, pur riconoscendo - non è il solo - che non è del tutto applicabile al modello di esercito prettamente nazionale e italiano da lui vagheggiato; e pur essendo antifrancese e cercando i suoi exempla nella storia nazionale e non oltr'alpe, giudica favorevolmente gli eserciti della Rivoluzione, come dimostrazione di quel che si può ottenere con masse di soldati improvvisati ma animati dall'entusiasmo patriottico e comandati da Capi naturali. In conclusione, tutti gli autori prima citati danno rilievo al Machiavelli e a] BJanch e non mettono in sufficiente luce lo stretto legame tra la visione militare di C.P. e quella illuministica del Filangieri, pur indicato spesso come ispiratore di C.P. in altri campi; né avvertono a sufficienza tutta la portata del disegno del napoletano C.P. di gettare le basi di una storia militare e una strategia nazionali, nelle quali al primato italiano si aggiunge-

154 ·

G. Conti, Il mito della nazione armata, "Storia Contemporanea" Anno XXI - n. 6 dicembre 1990, p. 1160.


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rebbe il primato meridionale. Perciò il C.P. non rappresenta, dal punto di vista militare, un elemento di rottura, ma di continuità con la tradizione napoletana del Filangieri, del Blanch e dei Pepe, e in certo senso anche con l'eredità jominiana da lui contestata. Di Jomini egli ripete la manìa di fornire delle ricette sicure; ma come le ricette di Jomini e dello stesso Mazzini - dai quali si dissocia - anche le sue partono da una sorta di variabile indipendente, che non può mai essere tale: la possibilità teorica che solo tale rimane - di ottenere la vittoria con capi geniali e masse di combattenti ricche solo d'entusiasmo, corrispondenti al ritrovato spirito combattivo e nazionale di tutto il popolo itaUano. L'obiezione è una sola: la rinascita di tale spirito nelle masse, nel popolo della penisola era veramente dietro l'angolo? Che cosa fare se ciò non dovesse avvenire, o dovesse avvenire solo in parte, C.P. non lo dice e non lo pensa: questo limite gli è costato la vita. L' unilateralità della sua proposta lascia perciò un interrogativo insoluto: fino a che punto ]e masse di soldati improvvisati potevano bastare, e mantenere l'entusiasmo, non contro gli inefficienti eserciti permanenti delle monarchie italiche, ma contro quelli ben più saldi dei grandi Stati europei?



CAPITOLO VI

GUERRA, STRATEGIA E STRUMENTI PER L'INDIPENDENZA NAZIONALE NEL PENSIERO DI GIUSEPPE MAZZINI Prem~

Mazzini e Garibaldi, uomini assai diversi e tra loro spesso discordi, sono i più eminenti rappresentanti dell'anima "laica" delle guerre d'indipendenza nazionale. Dal loro pensiero emerge una continua e concorde ricerca dei modi e dei tempi per estendere il movimento nazionale a tutto il popolo, in tal modo potenziandone prima di tutto la capacità militare e consentendo così all'Italia di fare da sé, senza essere costretta a pagare pesanti pedaggi ad altre Nazioni per l'aiuto ricevuto. I loro scritti hanno quindi una valenza militare di prim'ordine, finora poco approfondita. La loro è un'aspirazione che trova assai poco conforto negli avvenimenti, ma che tuttavia merita un esame organico finora mancato, estremamente utile per inquadrare in una più completa dimensione teorica (senza restringerli alla consueta e a volte artificiosa alternativa guerra di eserciti/guerra partigiana o di popolo) gli aspetti strategici e ordinativi delle guerre per l'unità e indipendenza nazionale 1848-1870. Al pensiero militare di ciascuna di queste due grandi figure verrà dedicato un capitolo, per poi tracciare un quadro conclusivo delle analogie e differenze, in larga misura coincidenti con la diversa esperienza umana e il diverso carattere di due uomini pur uniti dall'amore genuino per la loro terra;va da sé che i loro scritti sono dominati dagli eventi, sono spesso messaggi, dunque il giudizio teorico deve tenerne conto. . In tempi recenti Egidio Liberti e Carlo Jean hanno parlato di mutamenti nel pensiero militare di Mazzini dopo il 1848, fino a fargU riconoscere alle forze rniUtari regolari un ruolo essenziale accanto a quelle della guerriglia e/o dell'insurrezione. 1 Non concordiamo del tutto con questa interpretazione. Nel Vol. I, al quale rimandiamo2,· abbiamo già dimostrato che - sul piano generale e in linea di principio - anche prima del 1848 M. non disconosce affatto l'importanza degU eserciti regolari, e che i suoi sforzi - come del resto quelli del Bianco - sono al momento diretti a trovare il modo di farne il più possibile a meno, ma solo all'inizio dell'insurrezione, creando peraltro lepre1.

2•

E. Liberti, Op. cit., pp. 295-301 e C. Jean, Guerra di popolo e guerra per bande nell'Italia del Risorgimento. "Rivista Militare" n. 6/1981, pp. 57-66. F. Botti, Il pensiero militare e navale... (Cit.), Vol. I - cap. XIV, pp. 874- 893.


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messe per una rapida formazione di forze regolari, al servizio della Nazione e non più della monarchia, non appena fosse stato possibile. Questa linea l'unica possibile - era suggerita ai mazziniani della realistica constatazione che per il momento non era possibile avere dalla loro parte gli eserciti dinastici locali: in altre parole, l'atteggiamento di M. era dovuto a ragioni politiche del momento e non tecnico-militari, mentre le sue differenze rispetto alle teorie di Pisacru;ie erano dovute più ai tempi, che ai modi per costituire forze regolari. Né la guerra regia - tanto deprecata da11o stesso M., dal Cattaneo, dal Pisacane e da altri - può essere fatta coincidere con la guerra di eserciti: per i nemici della monarchia piemontese l'aggettivo regia assume un significato limitativo riferito all'obiettivo politico della guerra, che è solo dinastico (quindi non nazionale o popolare) e piemontese. È da questo limite prettamente politico che deriverebbe - a loro giudizio - la cattiva strategia rimproverata ai generali piemontesi, che invece è dovuta - questo va ben sottolineato - non tanto al ricorso all'esercito regolare, ma a un suo cattivo impiego e al rifiuto o alla scarsa considerazione di rutti quegli apporti - teorizzati anche dal Balbo3 - che avrebbero potuto potenziarne l'azione e portarlo alla vittoria. Riguardo alle modalità di reclutamento e ordinamento delle forze, già nel 1833 M. accenna alla formula della Nazione Armata - poi ripresa dal Cattaneo e da tanti altri - come base del nuovo esercito, da costituire appena possibile (tanto meglio se fosse disponibile subito!) Esso è di milizia e di cittadini-soldati, non a lunga ferma. Da un punto di vista strettamente teorico, avulso da ogni situazione contingente, né M. né Bianco, hanno mai ritenuto - in linea generale - la guerra partigiana una sempre valida alternativa alla guerra tra eserciti, ordinata, regolare, condotta secondo i principi strategici. Se avessero fatto questo, avrebbero semplicemente spregiato il genio di Napoleone e i principi strategici da lui applicati, cosa che nessuno dal 1815 ad oggi si è mai sognato di fare, a qualunque credo politico appartenga. Ciò che, invece, rimane il cardine del pensiero militare del Mazzini prima e dopo il 1848, è il fatto - già allora ampiamente riconosciuto, almeno in linea teorica - che il modo di condurre la guerra, e quindi anche il suo strumento più efficace, dipende dagli obiettivi politici e dalla situazione politico-sociale del momento, oltre che dalla geografia politica del Paese. Più o meno quanto aveva detto Clausewitz! L'aspra critica di M. alla condotta poJitico-strategica della guerra 1848-1849 da parte dei generali e principi italiani - e in particolar modo da parte della monarchia e dei generali piemontesi - alla fin fine si riduce al fatto indiscutibile, che tale strategia non poteva essere - e non è stata all 'atto pratico - vincente. Altra cosa, infine, è la critica di molti democratici all'esercito permanente a lunga ferma e in particolare ai suoi costi, alla sua disciplina cieca e assoluta e soprattutto al suo impiego, molto di fre3.

ivi, capo XI pp. 669-715.


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quente all'interno. Tra criticare alcune sue forme deprecandone soprattutto l'impiego all'interno e giudicare inutile l'Istituzione mHitare, c'è una bella differenza; si può solo dire che, in taluni, la critica si spinge troppo in avanti, fino a giudicare aprioristicamente pedantesca, inutile, superata la strategia della guerra di eserciti, e a ritenere quest'ultimi inutili e dannosi. È il grande sogno o mito - tale sempre rimasto - della nazione armata, che significa "esercito il meno possibile" e poi all'atto pratico finisce col dare luogo a una strategia di masse e a una guerra assoluta di tipo napoleonico, che comporta ancor più sangue e sacrifici. Dopo il 1848 non sono gli orientamenti di fondo del M. sul problema militare a cambiare: sono i dati di fatto della situazione del momento. Ciò gli impone, semplicemente, di mettere l'accento su alcune componenti, su alcuni strumenti di lotta già ben presenti anche in passato nel suo progetto politico, senza peraltro escluderne altri: tutto qui. Si può anche osservare che, se mai, il cattivo rendimento delle forze regolari piemontesi, le carenze della leadership politico-militare di Torino, il voltafaccia dell'esercito napoletano che nel 1848 dopo essersi spinto fin nella pianura padana per combattere gli austriaci viene richiamato a Napoli dal Re, avrebbero dovuto rafforzare nel M. e nei suoi seguaci la fiducia nella guerra per bande. Ciò sicuramente nel periodo considerato non avviene, anzi avviene il contrario: perché? Prima del 1848 tutti i prìncipi italiani senza alcuna eccezione - e quindi anche i loro eserciti - erano per il M. il primo ostacolo all'unità, libertà e indipendenza nazionale. La guerra del 1848/1849 aveva dimostrato che vi era pure un esercito dinastico - quello piemontese - al quale lo stesso M. riconosceva di essersi battuto con valore, benché mal guidato e frenato. D'altro canto l'insurrezione simultanea delle città e campagne su tutto il territorio nazionale non si era rivelata realizzabile, anche se rimaneva un obiettivo ottimale da perseguire. Per M. non si trattava più, dunque, di fare a meno - almeno all'inizio - delle forze regolari, ma piuttosto di creare le condizioni politiche necessarie perché esse potessero essere impiegate al meglio delle loro possibilità e con più ambiziosi obiettivi politici, accanto a quelle scaturite spontaneamente dall'entusiasmo popolare. Insomma: se quest'ultime forze non potevano fare da sole, è anche vero che una guerra affidata solo all'esercito regolare era a sua volta votata alla sconfitta, e che esso doveva essere affiancato, più che dalla sola guerriglia, dall'insurrezione generale, che è cosa diversa. Al contrario di quanto lasciano capire il Liberti e il Jean, M. dopo il 1848 non solo non cambia nessuna delle sue precedenti idee in campo militare, ma anzi trova il terreno più adatto per realizzarle, approfondirle, saldarle meglio alla sua visione politica. Prima di passare alla parte militare vera e propria, è dunque necessario cogliere bene tale visione, dalla quale discende il ruolo e la costituzione dello strumento militare vero e proprio, per "strumento militare" intendendo le forze comunque .armate e ordinate che potevano battersi per l'unità, la libertà e l'indipendenza nazionale contro il solo, vero nemico: l'esercito austriaco.


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È quest'ultimo l'obiettivo di sempre del M., che alla base di pensiero e azione della sua vita dopo il 1848, pone quattro costanti: Nazione e Europa; interventismo e rifiuto di ogni aiuto straniero; strategia napoleonica; strumento militare di conseguenza basato sul concorso di tutte le forze disponibili quali che esse siano, senza riconoscere affatto alla guerriglia il ruolo di unica forma di guerra. Nazione, giustizia sociale e pace Per Mazzini, Nazione e Europa non sono due termini in contrasto ma complementari, che rappresentano l'unica vera garanzia di giustizia, libertà e pace. La Nazione significa anzitutto superamento dell'"incerto e pericoloso" cosmopolitismo illuministico della seconda metà del secolo XVID e consente di contrapporre alla Santa Alleanza dei re (1815) la Santa Alleanza dei popoli: la nazione è termine intermedio fra la umanità e l'individuo; il quale, se non può n6 suoi lavori appoggiarsi a una forza collettiva formata dai milioni che dividono con lui tendenze, costumi, tradizioni e favella, riesce ineguale allo scopo e ricade, per impotenza di meglio, a quello del proprio bene, e da quello nell'egoismo. E le teoriche del cosmopolitismo vi rovinavano: e l'assurdo immorale ubi bene ibi patria era infatti ed è assioma primo à suoi promotori. Il culto della nazione venne opportuno a moltiplicare le fone dell' individuo e a insegnargli come si possa rendere efficacemente giovevole all' umanità il sacrificio e il lavoro d'ogni uomo. Senza patria non è umanità, come senza organizzazione e divisione di lavoro non esiste speditezza e fecondità di lavoro. Le nazioni sono gl'individui della umanità come i cittadini gl'individui della nazione. Come ogni uomo vive d'una vita propria e d'una vita di relazione, così ogni nazione: come i cittadini d' una nazione devono farla prospera e forte coll' esercizio delle loro diverse funzioni, così ogni nazione deve compiere una missione speciale, una parte di lavoro a seconda delle proprie attitudini per lo sviluppo generale, per l' incremento progressivo dell ' umanità. Patria ed umanità sono dunque egualmente sacre. Dimenticare l'umanità sarebbe un sopprimere ogni intento al lavoro: cance11are, come alcuni vorrebbero, la nazione sarebbe un sopprimere lo strumento col quale noi possiamo raggiunger l'intento. La patria è il punto d'appoggio dato alla leva che deve operare a pro dell'umanità. Tendenza innegabile dell'epoca ch'or s'inizia è quella di ricostituire l'Europa ordinandovi, a seconda delle vocazioni nazionali, un certo numero di Stati equilibrati possibilmente per estensione e popolazione. E questi Stati, divisi, ostili, gelosi l'uno dell'altro finché la loro bandiera nazionale non rappresentava che un interesse di casta o di dinastia. s'assoderanno, mercé la democrazia, intimamente più sempre. Le nazioni saranno sorelle. Libere, indipendenti nella scelta dei mezzi a raggiungere il fine comune e nell'ordinamento delle loro forze per tutto


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ciò che riguarda l'interna vita, si stringeranno a una fede, ad un patto per tutto ciò che riguarda la vita internazionale. L'Europa dei popoli sarà una, fuggendo a un tempo l'anarchia di una indipendenza assoluta e il concentramento della conquista•.

Da questo concetto - che implica una totale solidarietà nazionale e europea, e al tempo stesso, rende la nazione non un'idea o un semplice obiettivo politico, ma un'esigenza etica e sociale primaria da soddisfare senza indugi - discende l'approccio del M. sia al problema sociale che a quello militare, basato sul rifiuto sia della lotta di classe, sia della contrapposizione forze regolari/forze irregolari e della contrapposizione fra Stati. Per M. i cosmopoliti atterriti dalle continue guerre hanno commesso l'errore di "confondere il gretto nazionalismo delle razze regali (sic) con la nazionalità dei popoli liberi ed eguali"; invece di avversare la costituzione di nazioni, in seno ad ogni libera nazione le varie componenti dovrebbero -associarsi in un Comitato Nazionale che esprima bisogni e tendenze del Paese; i delegati dei Comitati Nazionali a loro volta costituiranno il "Comitato Centrale della democrazia europea"5• Tutto questo potrà avvenire solo quando le nazioni saranno costituite; ma nel caso dell'Italia finché nazione non sia[ ...] durerà per forza di cose lo stadio d'insurrezione, da governarsi con norme e poteri eccezionali come il fatto stesso dell'insurrezione. Fino a quel giorno, unico concetto della democrazia italiana dev'essere quello di un esercito, militante a conquistare il terreno alla pacifica manifestazione della volontà nazionale; unico intento il vincere, unica suprema norma, l'energia concentrata di tutti gli elementi, di tutte le forze attive nella battaglia [...]. Dovunque sorgerà una bandiera d' insurrezione, dovrà sorgere per tutti, in nome di tutti [ ... ]. Dovunque sorgesse, in quell'ora suprema, una bandiera di federalismo, una bandiera, che in nome di un principe o di uno Stato mirasse a localizzare o smembrare in più campi, l'insurrezione dovrà rovesciarla Un governo d'insurrezione, uno per tutto quanto il paese, dovrà assumere la direzione del moto [...]. Ma qualunque siasi, sarà uno, o l'insurrezione soccomberà. Il federalismo, errore dopo la vittoria, sarebbe delitto prima. Non terrore organizzato, non proscrizioni, non diffidenze sistematiche di classi intere: la bandiera nazionale, sciolta al vento una volta, non può avere nemici in Italia che i tristi, pochi e codardi[... ]. Non anarchia, non tentativi di sovvertimento nelle condizioni sociali, non predicazione inconsiderata di sistemi stranieri, esclusivi, imperfetti e tirannici [allusione alle correnti d'idee socialiste e comuniste specie francesi, tacciate dal M. di materialismo e di anteporre il benessere individuale al riscatto nazionale - N.d.a]. Le riforme [...] spettano alla Costituente; ma spetteranno al governo delJ'insurre-

4.

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G. Mazzini, Scritti Editi e Inediti, Milano, Daelli 1864, Vol. VII pp. 218-219. ivi, Voi. Vili pp. 42-43.


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zione decreti di miglioramento immediato alle classi più povere, tanto che il popolo sappia che la rivoluzione si inizia per esso, ed abbia conforto nella battaglia, la certezza che i suoi più cari non morranno, fra le vittorie della patria, di miseria e di stenti.6 Prima del problema sociale viene il problema nazionale, che è la premessa per risolvere gli altri. E il problema nazionale va a sua volta inquadrato nell'ambito europeo: la carta d'Europa deve rifarsi. In questo è riposto il segreto del moto dell'epoca, il segreto dell'iniziativa. Occorre costruire la leva prima di agire; conquistare il terreno prima d'imprendere o edificarvi. Il pensiero sociale non uscirà dai termini delle nuda teorica se prima questo riordinamento europeo non abbia luogo [nostra sottolineatura - N.d.a]. Ponetevi sott'occhio la carta d'Europa. Studiatela con guardo sintetico, nell'ossatura generale geografica, nei grandi indizi somministrati dalle linee dei monti e dei fiumi, nell'ordinamento simmetrico delle sue parti. Paragonate le antiveggenze suggerite da questo esame al collocamento attuale delle razze e dei principali idiomi [ ...]. Poi guardate alla carta governativa, ufficiale, segnata dai trattati del 1815. Nel contrasto tra le due troverete la risposta decisiva agli errori, alle lagnanze della diplomazia. L'europeismo del M . si colora di toni che la storia ha rivelato purtroppo utopistici. Si oppone con veemenza - e fin qui, nulla da dire - al "gretto spirito di nazionalismo", agli egoismi nazionali i quali dimenticano "la grande verità, che la causa dei popoli è una". Rifiuta la supremazia permanente d'una sola nazione, condanna "la stolta pretesa, innalzata da ciascun popolo, di essere capace di risolvere colle proprie forze e per l'utile proprio il problema politico, sociale, economico", ma fa del nazionalismo quindi anche della real-politk- solo una piaga tipica e esclusiva dell' ancien régime, delle monarchie, destinata quindi a sparire: la nazionalità, alla quale d' Ancillon dava per base il principio seguente: qualunque popolo, per superiorità di forze e posizione geografica possa farci danno, è nostro naturale nemico; qualunque non può nuocere a noi, ma può, per forza e posizione, nuocere al nostro nemico, è nostro naturale amico, è la nazionalità principesca delle aristocrazie e delle razze regali. La nazionalità dei popoli non cova siffatti pericoli; fondata sul lavoro e sul moto comune, avrà per conseguenza la simpatia, l'alleanza [...]. La causa delle Nazionalità ha fin d'ora fatto assai più per l'alleanza dei popoli e cacciato più germi del futuro ordinamento pacifico, che non tutti i sistemi dei socialisti francesi, o tutte le varie formole di cosmopolitismo e d'armonia universale, recitate da Fourier, Corbe( e soci.7

6.

ivi, pp. 92-95. ivi, pp . 206-207.


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Nonostante la condanna delle utopie socio-politiche e pacifiste coeve, è proprio sulla questione dei rapporti tra Stati e Nazioni europee che M. perde di vista la realtà, indicando nello Stato nazionale costituito secondo i principi da lui indicati- a cominciare dal rispetto dei confini naturali segnati dalla geografia - l'unica forma etica e l'unico rimedio per porre fine alle guerre e agli egoismi nazionali. Le guerre europee sono per lui dovute solo a violazione de11e indicazioni costanti della storia e della geografia, nella quale intravede addirittura un disegno provvidenziale. Si tratta solo di rispettare queste indicazioni: a chi studia "con severità religiosa" la carta d'Europa, infatti, salta agli occhi una serie di divisioni naturali, un riparto visibile di funzioni, una indicazione di Nazionalità equilibrate, sia dalla cifra della popolazione probabile, sia, dove questa è troppo diversa, da condizioni geografiche destinate a controbilanciare le forze che, pareggiando potenza di assalto e potenza di difesa, porrebbero fine, dove fossero consacrate dall'ordinamento politico, alle cupidigie di conquista o supremazia; avvierebbero i popoli d'Europa all'associazione pacifica, al lavoro liberamente fraterno verso un intento comune [...]. E le linee di quel disegno, scolpite sulla forma della nostra Europa, ricevono conferma dalla storia, che è l'Evangelo eterno, il verbo dell'Umanità, la definizione della sua Legge di Vita ...8 Sulla questione economica e sociale, la cui esistenza e importanza non nega affatto, M. è invece assai meno utopista. Semplicemente, ritiene che una guerra nazionale non possa essere guerra di una sola classe, e che il concetto di giustizia sociale sia già insito in quello di nazione e rivoluzione nazionale, che dunque ne è il presupposto: ci venne da taluni apposto che noi non tocchiamo, se non di rado e sfiorando, la quistione economica e non parliamo abbastanza al popolo de' suoi interessi materiali. A rimprovero sì fatto basterebbe per noi una sola risposta: noi organizziamo il popolo; e credete che il popolo ordinato, compatto, conquistata la coscienza della propria potenza dimenticherà i suoi diritti? Credete che a fronte di un esercito di popolazioni indipendenti per ordinamento spontaneo, fratelli dell'altre classi, ma perciò appunto esigenti fratellanza reciproca, la borghesia oserà monopolizzare, sprezzando, i risultati della rivoluzione? [ ... ]. Ogni rivoluzione è menzogna, quando non migliora le condizioni d' esistenza di tutti [...]. Non sono possibili libertà, eguaglianza ed associazione tra individui i quali non abbiano raggiunto quel grado di sviluppo morale, intellettuale e materiale, del quale sono capaci, in una data epoca, tutti gli individui formanti Nazione [... ]. Perché il lavoro materiale non assorba il tempo che ogni uomo deve consacrare al proprio sviluppo intellettuale e morale,

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ivi, Vol. X , Roma, per cura Ed. 1880, pp. l 34-135.


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è necessario che il lavoro frutti più che oggi non frutta [... ]. I pochi e

incerti socialisti che scrivono sistemi di emancipazione senza dire al popolo sorgi e parla, non faranno che cattivi libri e non produrranno un solo benché menomo miglioramento nelle sorti dei poveri popolani.9

M. si rende ben conto dell'importanza dell'elemento contadino, della necessità di educarlo: ma la sua è una politica dei tempi brevi e dell'azione immediata, la quale non può essere tradotta in atto che dagli elementi più consapevoli, dalle avanguardie non solo del mondo contadino, ma anche di quello operaio e della borghesia. All'inizio del 1865 scrive al Circolo Politico popolare di Torino: non limitate il vostro apostolato d'educazione agli operai in città; studiate ogni modo per diffonderlo alla campagna. Là vive negletta, abbandonata da tutti, una classe numerosa, sorgente della principale ricchezza dello Stato, nella quale i mutamenti civili e politici passano inavvertiti, perché inutili ad essa. Là, mentre noi parliamo e talora operiamo progresso, l'immobilità nella miseria, nell'ignoranza, è legge. Oggi quella classe è nelle mani del clero catlolirn, perché nessuno le parla d' una religione migliore: guarda, servile, all'agente governativo, perché nessun altro si pone a contatto con essa, o accenna a desiderio di migliorarne le sorti. Occupatevene caldamente. '0

Se nel 1865 i contadini sono ancora nelle mani del clero cattolico, ciò significa due cose: che, lo voglia o no, il movimento dell' unità italiana ha dovuto e deve fare a meno di essi; che i limiti dell'apostolato del M., il qua1e tenta invano, da sempre, di coinvolgere il popolo, sono anche quelli della realtà italiana, nel quale, come si legge nel proemio al Voi. XII degli Scritti editi e inediti, l'azione rapida e concorde era ostacolata, oltre che "dalla passiva ignoranza delle moltitudini, segnatamente nelle campagne", dagli "abiti d'egoismo e d'inerzia connaturati a borghesie che, rinchiuse ab antico nei confini dei municipi nativi e dei vecchi Stati, non avevano vivo e gagliardo senso di nazionali legami" 11 • Poteva questa realtà essere mutata da M. o da chiunque altro, in poco tempo? La risposta è negativa: quello di M. in questo caso non è idealismo-utopico, ma realismo. Vanno quindi respinte le tesi di coloro che addebitano al M. un eccessivo idealismo, scarsa attenzione per i risvolti sociali del problema del riscatto nazionale, ecc .. Tesi accreditate anche dal cavouriano Valsecchi nella sua Storia del Risorgimento, dove afferma che egli guarda alle anime "ma vi sono anche degli spiriti più positivi, più concreti [come il Cattaneo?

9 · 10 11

ivi, pp. 10-11. ivi, Vol. XIV, Roma, per cura ed. 1885, p. 166. ivi, Voi. xn, Roma, per cura ed. 1883, p. IX.


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- N.d.a.] che pensano, invece, alle necessità materiali [... ].Nelle grandi nazioni d'Europa, in Francia, in Inghilterra, il progresso è in pieno sviluppo. Qui da noi, invece! Miseria, scarso.lavoro, poche industrie, una agricoltura arretrata: nessuna idea del progresso" 12 • Per il Valsecchi, l'Italia di allora doveva prima progredire, poi diventare Nazione: ma - obiettiamo noi - l'esistenza di un grande mercato nazionale e l'eliminazione di inutili e parassitarie barriere e sovrastrutture locali, non era di per sé la premessa indispensabile per uno sviluppo del quale avrebbero beneficiato anche le classi più umili? In definitiva, per M. il progresso economko e sociale dipende da quello politico: solo con il raggiungimento dell'unità, libertà e indipendenza nazionale - da ottenere inevitabilmente con la forza - il popolo italiano avrebbe potuto migliorare le proprie condizioni di vita, nel quadro dello sviluppo economico che l'unità - e solo l'unità- avrebbe reso possibile. A tal fine, dopo il 1859, acquista rilievo un altro architrave del suo pensiero, con fondamentali risvolti militari: la necessità di un nuovo Patto Nazionale, cioè di sostituire lo Statuto piemontese del 1848 con una nuova legge fondamentale dello Stato (oggi diremmo, una nuova Costituzione) che sia però italiana e sia formulata con il concorso di tutti. Invece l' establishment politico del momento - scrive polemicamente nel 1863 - intende mantenere come base della vita della nuova Italia riunificata una legge che, come lo Statuto, "in un momento difficile, orsono quindici anni, un re dava precipitosamente, a soddisfare quattro milioni e mezzo di uomini appoggiati in un lembo del settentrione [cioè i soli piemontesi - N.d.a.], quando l'unità d'Italia era creduta utopia e nessuno quindi poteva pensare a interrogarla" 13 • Nella visione mazziniana, date le sue basilari implicazioni, l'unità e indipendenza nazionale diventa non solo necessaria, ma urgente e indilazionabile. Si tratta di demolire al più presto, con la forza, l'innaturale edificio politico-militare della Santa Alleanza, obiettivo che non è punto di arrivo ma di partenza: di fronte a questo imperativo categorico che chiama all'azione immediata, non c'è spazio per il pacifismo e la non violenza, che significano solo conservazione dell'assetto esistente. Ai conservatori, ai moderati, agli attendisti e gradualisti, a coloro che predicano "libri e non armi" dimenticando che il popolo non sa leggere, egli oppone il motto "libri, sistemi e anni". Deciso il suo no al neutralismo: "la neutralità sistematica può essere il grido d'un giorno, d'una fazione di uomini diseredati d ' ogni vasta e profonda veduta, come d'ogni ampio concetto di vita nazionale, ma non può diventare la norma politica d'un popolo grande e morale" 14. In Inghilterra il movimento per la pace, la scuola di Manchester,

12 1'· 1 •·

F. Valsecchi, Storia del Risorgimento, Roma, ed. Radio Italiana 1854, pp. 26-27. G. Mazzini, Scritti Editi e Inediti, Roma, per cura Comm. editrice 1884, Vol. XIII p. 223. ivi, Vol. X p. 353.


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di Cobden e Bright, ha sostituito a] programma del governo inglese - spesso tradito - di libertà politica e economica per tutti i popoU del mondo, una politica di non intervento che, non essendo stata applicata dai Governi dispotici, è diventata espressione non di un principio ma "d'un fatto, d'una abdicazione locale, e, annunziando la determinazione di non intervenire pel Bene, incoraggiò i despoti a intervenire pel male", a tutto danno del "senso umano, senso morale, sentimento di solidarietà". Diversamente da Garibaldi, M. rifiuta di partecipare al Congresso della pace di Ginevra del 1867, ai cui membri indirizza una polemica lettera che riafferma gli stessi princip1 di Pisacane: "la Pace non può essere che conseguenza della Libertà e della Giustizia. Perché non dare al vostro Congresso i] battesimo di quei nomi egualmente sacri? Perché sostituire al fine la conseguenza?". La pace - prosegue M. - può diventare una legge universale, solo attraverso la lotta per stabilire la Giustizia e Libertà sulle rovine di tutti i poteri fondati non sui principi, ma sugli interessi dinastici. Si tratta di una lotta, di una guerra santa come Ja pace, perché ne deve discendere il trionfo del Bene. E qui M. fa un lungo elenco di "guerre sante": da quelle della Cristianità contro l'invasione maomettana, dalla guerra di popolo dei Paesi Bassi contro la Spagna, fino alle recenti guerre d'indipendenza di Grecia e Polonia: voi avete fra voi parecchi dei miei concittadini italiani: non uno solo che non sia presto a ricominciare la lotta contro l'Austria, se l' Austria tornasse mai a invadere le nostre terre Lombardo-Venete; Garibaldi, mi dicono, vi reca l'assenso suo: chiedetegli s'ei non sogna, in questo stesso momento, guerra contro le masnade papali.

Le battagJie che il Congresso della Pace vuol respingere non sono evidentemente queste, ma quelle che violano la libertà in seno a un popolo, e la Giustizia nelle relazioni internazionali. Come abolirle? "]a questione dei mezzi è suprema". Occorrerebbe anzitutto ottenere il disarmo generale e simultaneo, per poi sostituire agli eserciti permanenti il popolo armato sul!'esempio svizzero: "pensate riuscirvi senza la Rivoluzione? Gli e serciti permanenti sono oggi l'unica tutela ai Governi esistenti: credete persuadere il suicidio ai Governi?". E anche se in alcuni Stati dove vi è libertà d'opinione questo risultato potesse essere ottenuto pacificamente, "non lascereste quei pochi Stati in balia dei vasti Stati dispotici, che rimarrebbero armati [dunque gli -m;erciti permanenti sono superiori alla Nazione Armata N.d .a.], e tra i quali Ja legge del silenzio vi toglie ogni mezzo d'azione?". Da questo approccio risulta chiaro che Ja visione politica del M. non può che essere dominata dalla necessità dell'azione e della guerra, e - per il resto - relega la pace a un ipotetico e utopistico futuro, ne] quale si siano affermate - prima - Ja pace e la giustizia. Il problema si restringe, quindi, all'esame di quale sia la sua guerra, guerra che egli vuole dominata dai principi e non dagli interessi. Ciononostante, non si può negare che il


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Nostro ha una visione dei rapporti internazionali e dei problemi interni spesso assai più realista di quanto qualche studioso vorrebbe far credere. Ad esempio la priorità della liberazione del Veneto rispetto a quella di Roma (sulla quale insiste fino al 1866 e che lo divide da Garibaldi) corrisponde non casualmente all'ipoteca di Napoleone III su Roma, e all'interesse francese di vedere indebolita - piuttosto che rafforzata - l' Austria in Italia. E non senza qualche ragione nel 1861 respinge l'accusa dei suoi avversari moderati di praticare una politica di piazza: "la politica di piazza fece Nazioni la Francia, la Spagna, la Grecia, la Svizzera; e la politica d'anticamera, che è la loro [cioè dei moderati monarchici italiani al potere N.d.a.] non ha fondato se non la loro impotenza e la necessità di nuove inevitabili rivoluzioni".15

L' "interventismo" mazziniano: guerra nazionale e insurrezione "Interventismo" è una parola nata nel 1914-1915, per indicare principalmente coloro che - specie nella sinistra massimalista - erano allora favorevoli senza riserve a una guerra a fondo ali' Austria, da loro vista come ultimo baluardo del conservatorismo reazionario in Europa. Come Pisacane, insomma, vedevano nella guerra all'Austria una tappa ineludibile - e la premessa - per il riscatto popolare, nelle condizioni del momento. In questa prospettiva, l'interventismo era limitato a quella guerra e a quelle condizioni politico-sociali; esso non implicava affatto la rinuncia all'antimilitarismo inteso come opposizione ai grossi eserciti permanenti, ai costosi armamenti navali e alle guerre coloniali, che - secondo il movimento socialista - costituivano il principale ostacolo alle aspirazioni popolari, sia perché servivano a reprimerle, sia perché sottraevano cospicue risorse all'elevazione del tenore di vita delle classi più umili. M. è stato - con Pisacane - il primo grande interventista. Per lui, come per gli interventisti del 1914-1915, "non è la guerra che dà gloria agli eserciti; è l'intento, è la santità della guerra"16 • I suoi scritti dal 1848 al 1870 sono un continuo invito non alla guerra, ma alla guerra nazionale, offensiva e assoluta all ' Austria, vista come unico mezzo per liberare l'Italia dal dominio di un grande Stato con un valido esercito, rispetto al quale - come riconosciuto dallo stesso M. - l'armata sarda, espressione militare di uno Stato che intorno al '1850 contava solo 4,5 milioni di abitanti, non poteva fare da sola. Acceso anticavouriano, M. definisce Cavour "un Machiavelli di seconda mano" e non si stanca di predicare l'insurrezione e l'azione contro l'Austria, in polemica coi moderati. Questo perché, a suo giudizio,

,s.

••

ivi, Voi. XV, Roma, per cura Comm. editrice 1886, pp. 6-14 Vol. XI, Roma, per cura, Ed. 1882, p. 257. ivi, Vol. IX, Roma, per cura. Ed. 1877, p. 84.


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nessun altro mezzo esiste. V'è chi creda in oggi in un'Italia fondata dalla diplomazia? V'è chi ripeta con Balbo, con Durando, cogli altri scrittori moderati, anteriori al 1848, che l'Europa governativa rinsavita indurrà l'Austria, con alcuni compensi in Oriente, a sgomberare il Lombardo-Veneto? Avanza il Piemonte: v'è chi crede nella iniziativa della Monarchia Sarda? V'è chi la consigli? Si mostri e lo dica. Non v'è [... ]. L'insurrezione deve dunque predicarsi dai nostri al popolo come unica via di salute. 17 Al tempo stesso, pur essendo come Guglielmo Pepe acerrimo nemico del federalismo, è nemico altrettanto acerrimo del "piemontesismo" e del "fusionismo" tipico della politica di Cavour e consistente nel concepire e preparare, più che l'unità d'Italia per virtù di popolo, l'estensione graduale dei domini del Regno di Sardegna, approfittando delle contingenze favorevoli. Di qui la sua opposizione nel 1858 al "Manifesto della Società Nazionale Italiana" di Torino che intendeva promuovere l'emancipazione d'Italia sotto la dittatura militare e politica di Vittorio Emanuele Il, del quale mette (a ragione) in dubbio anche le capacità militari. E rivolgendosi agli aderenti alla Società Nazionale, richiama l'amara esperienza del 1848: egli ha, voi dite, né -magazzeni dello Stato, vestiario per 100.000 uomini, al di là della cifra dell' esercito attuale; 200.000 fucili negli arsenali, 20 batterie di campagna già pronte. Meschini materialisti! Non aveva Carlo Alberto vasti elementi di guerra e un esercito prode, floride finanze, e devozione volenterosa di tutto un popolo? Perché fu vinto, sconfitto due volte? perché dormono le sue ossa su terra straniera?11 Non è vero - prosegue M. - che il re piemontese fu vinto "per le civili discordie, per le fiacchezze dei governi provvisori, per le iattanze, per le ambizioni, pei sùbiti umori dei popoli". Fu vinto perché ''non seppe o non volle tradurre in fatto il concetto della Guerra Rivoluzionaria Italiana"; perché rifiutò di avvalersi dell'entusiasmo delle popolazioni del Lombardo-Veneto, sciolse i volontari, "indugiò fino ali' ultimo mese l' ordinamento dei corpi regolari lombardi, e li disordinò anzi tratto, preponendo alla loro formazione ufficiali ch'erano il rifiuto dell'esercito sardo"; perché fu anzitutto monarca sardo, e "sostitul il disegno d'un Regno settentrionale, alla grande idea nazionale, e gittò colla sciagurata proposta della fusione, in aperta violazione delle promesse, un pretesto di ritrarsi ai prìncipi, un seme di discordie e sos~tti nel core dei popoli" (che, pur essendo italiani, non amano solo per questo i1 dominio piemontese e i suoi modelli)1 9 • Alla critica alla condotta della guerra 1848/1849 M. aggiunge la critica di politica estera e di sicurezza piemontese dopo la guerra, che in sostanza

11 ·

ivi, Vol. X pp. 8-9. "· ivi, p. 174. •• ivi, pp. 175-176.


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mira a non offendere troppo le grandi potenze, rinuncia alla propria autonomia, mostra eccessiva fiducia nelle contingenze internazionali per eliminare l'influenza austriaca in Italia, e pur di non ricorrere all'apporto popolare, è disposta a ricorrere all'interessato aiuto straniero, in pratica sostituendo all'influenza austriaca neJle cose italiane, quella francese ugualmente imperialista - di Napoleone m. Fin dalla guerra 1848/1849 emerge chiaramente il concetto mazziniano di politica estera e di guerra per l'indipendenza nazionale; quest'ultima non deve essere fondata sulle circostanze, sulla scelta del momento opportuno, sull'iniziativa della monarchia piemontese: "le circostanze bisogna crearle. E sommano in una: l'INSURREZIONE". ln quanto all'iniziativa della monarchia piemontese (che poi sfocerà nella guerra del 1859), queste sue considerazioni del 1853 as~umono toni profetici: concessa, istigata, diretta quindi inevitabilmente dai gabinetti francese e inglese - dacché, senza questo, l'iniziativa regia è impossibile - avrebbe per intento, nella mente dei due gabinetti, costringere l'Austria esitante a secondarli nella loro guerra allo Tsar: nella mente del Re di Piemonte, un' ampliazione qualunque de' suoi domini. E l'Austria, o vincerebbe - e non è difficile - una seconda battaglia di Novara; o, battuta, affaccerebbe proposizioni d'accordo che sarebbero - e questo è certo - immediatamente accettate. Il Piemonte otterrebbe forse una zona di Lombardia, più probabilmente i Ducati. Il Veneto e i passi delle Alpi rimarrebbero in ogni modo in mano ali' Austria; e le povere popolazioni sommosse sarebbero consegnate, ultime tradite, alla vendetta imperiale.2()

L'insurrezione popolare organizzata e diretta dall'alto ovunque sia possibile, è l'unica scintilla valida per scatenare la guerra nazionale: in Europa "la guerra tra i govenù non precederà - quando i governi non insaniscono ma seguirà l'insurrezione dei popoli". L'unica guerra inevitabile è quella derivante dalla questione d'Oriente, la quale sarà decisa dal1'lnghilterra solo quando la Russia minaccerà Costantinopoli e dalla Russia solo quando le rivolte interne distrarranno forze dei suoi possibili nemici e minacceranno l'esistenza dell'Impero turco: in tutte le altre questioni, le guerre tra governi pendono dal beneplacito dei banchieri, i quali le vietano e le vieteranno finché, rotto da un popolo il cerchio fatale, non diventi per essi necessità il tentare di controbilanciare, con sùbiti straordinari guadagni in un punto, perdite irrevocabilmente subìte, per fatto non loro, in un altro. 21

Per iniziare 1' azione non si deve aspettare che in una guerra europea l'Austria si schieri con l'uno o l'altro dei contendenti: per quanto questa sia 20 ·

"

pp. 338-340. ivi, p. 321.

ivi,


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l'opinione più diffusa, per M. è anche "la meno sagace". L'astuta diplomazia imperiale, infatti, farebbe scendere in campo l'Austria solo a fianco di chi sta per vincere, e si guarderebbe bene dall'allearsi con la Russia: "l'inazione accertata è quanto la Russia può chiedere all'Austria". Ma quand'anche l'Austria contro i suoi stessi interessi decidesse di affidare le sue sorti a una guerra, "dove sarebbe il vantaggio per noi? Se essa sceglie ad alleata la Russia, l'Ungheria, Vienna e la Germania sono perdute per noi: la nostra insurrezione perisce presto o tardi nell'isolamento. Se essa congiunge le armi con quelle delle potenza occidentali, abbiamo non uno, ma tre potenti nemici". Oggi - prosegue M. - l'incertezza delle sue mosse fa sì che l'Austria non abbia alleati; un'insurrezione italiana non vedrebbe la Francia o l'Inghilterra schierarsi a fianco dell'Austria, che è un alleato debole e quindi non desiderato, perché scosso non solo dall'insurrezione italiana ma anche dall'inevitabile insurrezione ungherese. La guerra regia eventualmente iniziata dal Piemonte potrebbe essere arrestata facilmente, con qualche amichevole proposta da parte di Vienna: "ma la guerra di popolo? La guerra di popolo, sfuggendo al cenno dei gabinetti, sopprimerebbe l'utile degli accordi: le Potenze, alle quali tornerebbe inutile }'alleanze di un fantasma di Stato, direbbero all'Austria: ben vi sta; salvatevi, se potete e come potete''22. Come aver ragione dell'esercito austriaco? Con argomentazioni non nuove, perché analoghe a quelle del Durando (Vol. I, cap. XII) M. si sforza di dimostrare che le forze che può mettere effettivamente in campo l' Austria in Italia sono ridotte, non hanno le spalle sicure e non possono essere facilmente accresciute: per il resto, "volete dunque, o italiani, conquistarvi Libertà e Patria senza battervi con anima viva?". In particolare, secondo M. (siamo sempre nel 1853) l'Austria è costretta a mantenere 160.000 uomini alla frontiera turca e 95.000 uomini alla frontiera con la Russia. A queste forze, che non possono essere spostate, bisogna aggiungere i presidi delle numerose fortezze e le truppe necessarie per mantenere l'ordine interno in un Impero, nel quale i 4/6 della popolazione sono di razza slava. Rimangono, perciò, per l'Italia circa 90.000 uomini (ridotti a 75.000 se si detraggono gli ammalati, gli addetti ai servizi ecc.). Queste truppe si stendono su una linea di 400 miglia dal Trrolo a Ancona, né possono essere considerate come una massa unica: occorre, infatti, sottrarre ai 75.000 combattenti altri 24.000 uomini circa, dislocati tra il Po e l'Appennino e tra l'Appennino e il Tirreno in piccoli presidi che possono essere facilmente eliminati da una decisa insurrezione, la quale sarebbe in grado quanto meno di impedirne il concentramento; senza contare la forte presenza di ungheresi nelle truppe austriache, e i fermenti di nazionalità ai quali essi non sono impermeabili. Questo quadro internazionale e italiano decisamente ottimistico, nel quale in tutti i casi la potenza militare austriaca si rivela una tigre di carta e la

22 •

ivi, Vol. Vlllpp. 341-342.


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guerra regia piemontese un mezzuccio insufficiente, serve a M. per giustificare la sua formula di una guerra di popolo basata sull'insurrezione. Non si deve aspettare nemmeno l'insurrezione di altri popoli: "l'opportunità, per un popolo di venticinque milioni, sta nel volere. L'opportunità c'incalza, ci preme ogni giorno, ad ogni ora; a ogni vittima che more sul patibolo; a ogni persecuzione che caccia centinaia d'uomini nostri nelle prigioni"23 • Nessuna union sacreé sotto l'egida monarchica [ecco il punto di divergenza fondamentale con Garibaldi - N.d.a.]: la guerra regia, per M., e quella di popolo hanno obiettivi e modalità di condotta diverse e inconciliabili. La guerra regia respinge ogni progetto che, per quanto utile per l'esito della guerra, sia in contrasto con la prassi diplomatica o violi i trattati. Per gli uomini ligi alla monarchia la guerra è guerra di forze regolari, condotta colle vecchie nonne delle guerre governative da generali di re: guerra, alla quale le leve in massa, le barricate, le bande, sussidio all'esercito, l'elezione di capi militari nei ranghi, le paghe ravvicinate, le infrazioni a diritti di patriziato o d'anzianità, la vigilanza esercitata da commissari politici sulle operazioni, le rapide promozioni e le destituzioni solenni, le audacie appoggiate sul calcolo di forze morali, tutti gli elementi insomma delle guerre nazionali, sono segreti ignoti o sospetti; e sospetto è il popolo, al quale ogni azione compiuta, ogni battaglia vinta con forze proprie infonde coscienza di un diritto, funesto al principato futuro; sospetto ogni consiglio d' uomini di parte non regia, solamente perché il seguirlo accresce importanza a un elemento pericoloso24 • A questo tipo di guerra M. contrappone la guerra nazionale repubblicana intesa "come guerra, anzitutto, di popolo", l'unica che può salvare l'Italia, in quanto "guerra di tutte le forze regolari e irregolari della nazione, capitanata da uomini di provato amor patrio, diretta da un'Autorità suprema, sciolta da ogni obbligo da quello in fuori del vincere, senza speranza fuorché d'una secura e lieta coscienza, senza fiducia fuorché nel combattere, senza aiuti fuorché nel moto simultaneo dei popoli, senza programma fuorché quello della sovranità nazionale"25• In questo tipo di guerra con tutti i mezzi possibili, bisogna chiamare il popolo ad essere protagonista, suscitando nel suo interno l'entusiasmo e l'amore di Patria. Nessuna contrapposizione tra popolo e esercito: non si tratta di sostituire l'esercito, ma al contrario di renderlo più efficiente potenziandone l'azione. Infatti da quel fermento deve escir 1' esercito, composto di nuovi elementi, rinvigorito di nuovi capi, innalzato a dignità propria dall'esercizio

· ivi, p. 321. ,... ivi, p. 324. ~,. ivi, p. 35.

23


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della facoltà elettorale; e deve muovere fiancheggiato dalle fazioni irregolari dell'insurrezione, protetto contro i I tradimento dall'occhio vigile degli agenti governativi, inanimito dall'azione universalmente ordinata dall'interno. I popoli sono gli alleati naturali deJla nostra guerra: allargare il cerchio dell'insurrezione quant'oltre si può, creare per ogni dove nemici al nemico, rompere arditamente i vincoli coi quali la diplomazia separa le nazioni, difendere il passato assalendo, è legge non solamente di fede politica, ma di tattica che vuol vincere26 •

In sostanza M. tende a sostituire le arti diplomatiche e la tradizionale tendenza - per chi, come il Piemonte, è il più debole - a procurarsi in Europa sicuri e forti alleati prima di entrare in guerra, con lo scatenamento di tutte le energie interne, quindi popolari, in guerre "assolute" sul modello di quelle d'indipendenza spagnola o americana, da lui esplicitamente citate come modelli di guerre nazionali, e non solo e non tanto come modelli di efficacia della guerra per bande. In questo quadro, tutte le carte sono da M. puntate sulle insurrezioni, che "sono avviamento alla guerra e non guerra" e possono essere iniziate anche senza armi, perché "l'armi devono - e nelle città possono - conquistarsi al nemico; e a conquistarle bastano animo deliberato davvero e coltella". Esse sono "la battaglia per conquistare la rivoluzione, cioè la Nazione. L'insurrezione deve dunque essere nazionale: sorgere dappertutto colla stessa fede, colla stessa bandiera, collo stesso intento. Dovunque essa sorga, deve sorgere in nome di tutta Italia, né arrestarsi finché non sia compiuta l'emancipazione di tutta Italia"21 • Una volta iniziata l'insurrezione italiana - scrive M. nel 1853 - essa trascinerebbe inevitabilmente quella ungherese. Le insurrezioni d'Italia e d'Ungheria coinvolgerebbero, a loro volta, anche Vienna e la Germania: "non seguirebbero gli altri popoli? non seguirebbero la Francia? l'iniziativa d'Italia è l'iniziativa delle nazioni: il 1848 rifatto su più larga scala e, con popoli affratellati. La nostra insurrezione è oggi mai il solo fatto difficile da compiersi, la guerra è un mero problema di direzione" 28 • M. punta tutte le sue carte proprio su questo fatto che egli stesso definisce "difficile da compiersi", e che dunque più che essere tale, è solo una speranza o meglio un'illusione. A tal proposito, non prende mai in esame l'ipotesi che le insurrezioni sperate e propagandate non si verifichino o si verifichino solo in parte, vanificando così tutto il suo programma politico-militare. E ammette, per di più, che l'insurrezione italiana possa fungere da scintilla ad insurrezioni di altri popoli europei ma non il contrario; al tempo stesso, esclude che essa possa essere appoggiata da governi stranieri: "aveste patria e libertà dalla rivoluzione francese del 1830? Le

"' 27 · 28 ·

ivi, p. 325. ivi, pp. 33 e 219. ivi, Vol. X p. 302.


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aveste dalla repubblica del 1848? L'iniziativa francese vi darebbe, o miseri, non la libera Patria, ma l'impulso alla monarchia che, impotente a fare di per sè, è vigile a preoccuparvi la via; e la diplomazia europea, consigliera ai vostri principi di concessioni e di leghe; e la guerra regia sostituita alla nazionale, e le sue vergognose, inevitabili, fatali disfatte"29 • Ne deriva questa esortazione ai suoi seguaci: "se volete rimaner padroni del vostro moto, della vostra guerra, del vostro intento, vi occorre, e v'incombe di muover da voi". Per ]'insurrezione - osserva piuttosto ottimisticamente M. - c'è tutto. Non è vero che non si può contare sul popolo delle campagne: "non è vietato educarlo; noi non possiamo averlo che a fatti, e lo avremmo con pochi decreti che ne migliorino le condizioni". Il popolo delle città - e ve ne sono innegabili prove - è "prode, pronto e devoto, più assai che non tutti quanti noi siamo, letterati, giornalisti, pedanti di milizia, filosofia sociale e politica". Le armi non mancano per l'insurrezione, "e l'insurrezione le procurerà per la guerra". In quanto alJe posizioni, "abbiamo la lunga linea dell'Appennino, la Valtellina, il Tirolo, il Friuli, tutto un semicerchio di valli addossato alle Alpi" . Secondo un cliché allora corrente, anche M. - come già si è acct!nnato - indica come esempio dell'efficacia di una guerra di popolo quella spagnola del 1808-1813, invitando gli scettici, coloro che "in Italia ricusano l'oggi per paura del poi", a studiare le pagine del Précis di Jomini sul1e guerre nazionali e a meditare "su11a guerra de11a penisola iberica scritta, non dirò da Torreno, ma dai generali francesi". Forse M. allude al La Mière, ispiratore del Bianco; in tutti i casi, dimentica troppo disinvoltamente che (-Vol. I, cap. XIV) Jomini accanto all'affermazione che nessun esercito può aver ragione di una guerriglia che coinvolga Lfatto non irrilevante: è questa la vera difficoltà - N.d.a.] tutto un grande popolo, ha anche riconosciuto che senza appoggio di forze regolari le forze della guerriglia sono costrette a cedere, come è avvenuto in Vandea e nel Tirolo. Quella spagnola è stata certamente un magnifico esempio di guerra nazionale e di popolo: ma anche di guerra nazionale con forte aiuto straniero, che nel caso specifico era affidato dall'Inghilterra niente meno che alla Royal Navy e all ' esercito volontario di Wellington ... Esempio dunque improprio, visto che M. voleva - o meglio, sognava - una guerra dove il popolo italiano avrebbe dovuto essere l'unico protagonista, travolgendo con la sua forza spontanea ogni ostacolo interno e esterno e lottando non solo contro la presenza austriaca in Italia, ma contro ogni altra presenza, a cominciare da quella francese. Non vi è dubbio che il pensiero di M. perde quota ogni volta che si immischia in questioni strettamente tecnico-militari e, in genere, ogni volta che si tratta di passare dai principi teorici della guerra nazionale - di per sè condivisibili - alla concreta realtà. Volere non è potere; l'optimum non è

29 ·

iv i, Vol. VIII p. 299.


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sempre possibile; tra programmi e piani - e speranze - v'è differenza. M. non tiene conto di questa differenza ma punta tutto su una carta molto incerta, su un elemento di forza estremamente difficile çla determinare a priori e dunque da pianificare, come l'effettiva volontà di insorgere ovunque del popolo italiano sia delle città che dalle campagne. Non può nemmeno essere troppo realista, visto che in tal modo darebbe ragione ai suoi avversari e che i suoi scritti sono - non bisogna mai dimenticarlo - di propaganda e di proselitismo, sono degli incitamenti all'azione più che delle fredde analisi teoriche. Di tutto questo risente - come già prima del 1848 - il suo programma politico-militare, che rimane sempre quello da lui enunciato nel 1853: diritto e dovere di insorgere per essere nazione libera e viva; diritto e dovere di guerra contro ogni nemico interno e esterno della nazione; diritto e dovere di vegliare efficacemente affinché la Guerra Nazionale non sia sviata dall'intento o tradita [... ]. E come conseguenze dirette: Maneggio supremo della guerra affidato a un Potere Nazionale, acclamato daJla volontà del Paese; Arma~ento del popolo; ordinamento di Milizie nazionali a fianco d'ogni esercito regolare appartenente a una provincia d'Italia che scendesse in campo per la Nazione30•

In tal modo la guerra "nazionale" e di popolo del M. diventa una questione eminentemente politica. Si tratta essenzialmente di non far1a condurre dal re o dai generali, ma dai rappresentanti del popolo: in quanto agli eserciti regolari, l'importante è che accettino l'autorità del popolo: tutto il resto è da definire nel concreto ed è in sottordine, a cominciare naturalmente dall'effettivo concorso e ruolo della guerra per bande.

Quella di Mazzini è stata una teoria strategica napoleonica? la notevole differenza tra "volere" e "potere" Ciò che M. ci ha lasciato in campo militare risponde a una ben definita visione strategica che manca nel Bianco. In prima approssimazione, e da un punto di vista puramente teorico, la sua strategia può dirsi di ispirazione napoleonica e in certo senso anche clausewitziana, quindi classica. Napoleonica, perché tendente a spingere la guerra all'assoluto, con mobilitazione di tutte le forze e risorse, rapide offensive e concentramento della massa delle forze nei punti decisivi suggeriti prima di tutto dalla geografia; clausewitziana, perché tale da privilegiare i fattori spirituali e la capacità della leadership, ricercando l'apporto delle diverse componenti disponibili, senza eccessivi schematismi nelle modalità di carattere e strategico e tattico per la condotta della guerra.

30

ivi, pp. 344-355.


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Si potrebbe obiettare che Napoleone non ha mai creduto nella guerre di popolo in senso mazziniano, ma che anzi in Spagna, Russia e Germania l'ha sublta, fino a veder disfarsi in quelle contrade i grossi battaglioni dell' armée, strumento peraltro dimostratosi valido solo fino a quando l'ha potuto impiegare in battaglie decisive sotto la sua guida. Per Napoleone "nazione armata" significava soprattutto un grande esercito nazionale basato sulla levée en masse: ma qui stiamo parlando dello strumento tipico della Rivoluzione Francese, del Consolato e dell'Impero in una data fase storica per un dato Paese, in una determinata situazione geopolitica e contro determinati eserciti nemici. Cosa diversa sono i principi strategici della guerra napoleonica, i quali - sia pure in tempi successivi, in un diverso contesto e con diversi mezzi e uomini - sono pienamente recepiti da M .. Anzi: le insurrezioni popolari, le formazioni volontarie servono a realizzare proprio una guerra offensiva e assoluta di stampo napoleonico, avuto riguardo alle specifiche condizioni della guerra nazionale italiana, che ha qualche analogia con quella francese di fine secolo XVill. La nostra guerra, però, non poteva essere alimentata con le ricche risorse demografiche e industriali di un grande Stato solido, centralizzato, indipendente e con solide tradizioni militari come era ormai da secoli la Francia della Rivoluzione, per la quale si trattava di respingere il nemico dalle frontiere o di invadere gli Stati vicini, non di attaccare e eliminare il nemico all'interno del territorio nazionale e dei suoi stessi Stati minori, come avveniva per l' Italia del Risorgimento. Le idee di M. risaltano, in particolar modo, dalla critica alla guerra piemontese del 1848/1849. Carlo Alberto - egli dice - cadde "perché né egli né il suo Stato Maggiore Generale, seppero, o mostrarono sapere di guerra"; perché non entrarono in guerra con "una ·mossa strategica, iniziatrice, rapida, decisiva" 31, e anziché manovrare per impedire agli austriaci di ricevere rinforzi da Oltr' Alpe bloccando le valli dell' Adige, del Piave e del Tagliamento, attaccarono frontalmente il quadrilatero; perché "i veri punti strategici d'ogni guerra nazionale italiana stanno nel Tirolo, nel Veneto, in Trieste; e il re [Carlo Alberto] rifiutò il Tirolo per non irritare la Confederazione Germanica, rifiutò il Veneto per ira contro la forma repubblicana adottata dal popolo, rifiutò Trieste per non offendere il commercio inglese"32• Per tutta la guerra non si colsero le ripetute occasioni di impegnare battaglia con il nemico: così "la lentezza, l'irresoluzione perenne, le passeggiate militari inutili, parvero le caratteristiche d ' una guerra che voleva rapidità, audacia suprema, concentrando di forze a una decisiva bat-

Si deve obiettare che, per ragioni fondamentalmente logistiche e ordinative, nel 1848 Carlo Alberto anche volendo non sarebbe stato in grado di iniziare fin dai primi giorni una guerra offensiva, rapida e decisiva contro l'Austria (Cfr. F. Botti, La logistica dell'Esercito Italiano 1831-1881 - Voi. I, Roma, SME - Uf. Storico 1991, parte prima pp. 59-354). "· G. Mazzini, Scritti Editi e Inediti (CiL), Vul. X p. 177. 3'-


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taglia". Altro che "guerra rivoluzionaria" ! M. accusa - non a torto - Carlo Alberto di non aver saputo fare la guerra classica, quella di eserciti, quella non solo di Napoleone I ma di }:ederico II. . D'altro canto, da buon interventista attento soprattutto al quadro politico e. ai valori morali, sempre sulla base dell'esperienza del 1848-1849 M. non crede a un tipo di guerra italiana preparata solo in senso jominiano al quale pensano di solito gli Stati Maggiori, e osserva nel 1855: l'opinione che l'esito di una guerra dipenda da un grado maggiore o minore di accuratez~a negli ordini e negli elementi militari - che il pensiero politico dirigente non abbia a far col successo - che basti una certa misura di precauzioni sul materiale della guerra, e di valore nei combattenti per vincere - è un immenso errore. Io fui testimone in Lombardia, nel 1848, della progressiva, infallibile distruzione d'ogni probabilità di vittoria sotto l'influenza di una data politica. 33 Anche per M., dunque, non c'è buona strategia senza che - a monte non vi sia una buona politica. Ma la sua guerra di popolo - e l'insurrezione in particolar modo - rispondono a precise opzioni strategiche-generali, che rimangono costanti al variare della situazione politica italiana e delle conseguenti esigenze che ne derivano. La sua geostrategia dopo il 1849 e almeno fino alla guerra del 1866 rimane "nordista", tendente cioè a indicare nella pianura padana il teatro della guerra e nei -possedimenti austriaci dell'Italia Settentrionale - prima il Lombardo-Veneto e, dòpo il 1859, Venezia e il Veneto - l'obiettivo prioritario della guerra, con Roma sempre in seconda linea e il meridione come riserva. Rispondono a questa logica la fallita insurrezione di Milano nel 1853, i tentativi insurrezionali nel Veneto, l'opposizione di M. ai tentativi di Garibaldi contro Roma. Scrive M. nel 1853: senza l'azione iniziatrice o simultanea del Lombardo-Veneto, una insurrezione in Italia aveva ed avrà per sempre pericoli centuplicati[ ...]. Nel Lombardo-Veneto sta la chiave, il punto strategico dell'insurrezione italiana. Pel peso d'una tirannide efferata quanto l'austriaca, per somma minore d'ostacoli, giacché quella tirannide s' appoggia su forze nazionali, per importanza militare di posizione, per materiale da guerra, ozioso [cioè inutilizzato - N.d.a.] in oggi e prezioso ad una impresa emancipatrice, Napob dovrebbe, non v' ha dubbio, assumere gli onori dell'iniziativa. Pur nondimeno - e dacché - lo scrivo con dolore, Napoli sembra dimenticare la lunga e splendida tradizione di martiri e di nobili tentativi ch'essa diede alla Patria comune - le migliori spenmze del Paese accennano, siccome a Roma per l'idea, alle terre Lombarde per l'azione decisiva insurrezionale. Il nostro principale nemico è l'Austriaco; e nemico s'assale dov' è e dove può ferirsi al core, per modo che non risorga. Napoleone marciava direttamente sulle Capitali; la tattica [qui sarebbe meglio dire strategia - N.d.a.] dell'insurrezione "

ivi, Yol. IX p. 114.


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deve essere la stessa:; tentar la vittoria dove una vittoria prostra e dissolve le forze nemiche e trascina con sè i risultati più generali. Una, non dirò vittoria, ma battaglia vera sulla ·terra lombarda, e l'insurrezione di tutta Italia, son cose identiche'.l-0 .

Anche nel caso che le forze regolari siano sconfitte in battaglia in Lombardia., l'insurrezione potrebbe scatenarsi simultaneamente nel Centro e nel Sud: senza che il nemico possa venirne a capo. Nel caso, invece, che la battaglia in Lombardia fosse vinta, ne risulterebbe troncata alla base la lunga linea d'operazione spinta dal nemico fino a Foligno, impedendo il concentramento delle sue forze. Di qui la teoria (non nuova) dell'insurrezione simultanea., che ha un sicuro fondamento logico ma confonde volere con potere: una vittoria siffatta non s'ottiene se, come dissi, il moto non procede

e non prorompe almeno simultaneo al sorgere dell'altre parti d'Italia. Ogni altro moto è annunzio ali' Austriaco; e se gli è dato tempo per farsi forte nei punti strategici, per incatenare le città col terrore o, se uc1;orre, prepararsi a sgombrarle e cingerle dal di fuori, la guerra italiana non potrà conquistare la Lombardia; l'insurrezione sarà impossibile o inefficace.

M., insomma, vorrebbe l'insurrezione là ove essa è - dal suo punto di vista - più conveniente strategicamente: non dove essa si manifesta spontaneamente per effetto di eventi imprevedibili. Rimane da stabilire che cosa M. intende per insurrezione, qual è - sempre ad avviso di M. - il suo rapporto con la guerra per bande e quali criteri strategici essa deve seguire per saldare la sua azione con quella dell'esercito regolare. Secondo l' Enciclopedia Militare 1933 le guerre di insurrezione "appartengono al tipo delle guerriglie" e hanno come forma d'azione "le sorprese, i colpi di mano, gli agguati ecc.". L'Enciclopedia aggiunge che gli insorti "sono poco atti a resistere a forze regolari che in numero non esiguo si trovino davanti a sè", citando quali esempi di " guerre insurrezionali" quella spagnola 1808-1813, quella del Tirolo del 1809 contro Napoleone, quelle dei cristiani contro i Turchi35• Il concetto che ne ha M. è assai diverso: posto che le insurrezioni sono sollevazioni popolari armate contro l'occupazione militare straniera e/o contro tiranni domestici, esse non fanno parte della guerriglia ma comprendono in sé anche la guerriglia, intesa soprattutto come forma d' azione tattica nelle campagne. Per M . l'insurrezione riguarda principalmente - anche se non esclusivamente - i centri abitati ai quali, probabilmente memore dell ' insurrezione

34 35

ivi, Vol. Vlll, pp. 276-277. Enciclopedia Militare, (cit.), Vol. IV p. 368.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. ll (1848-1870)

nel 1848 delle città lombarde, guarda con particolare attenzione. In linea generale e senza escludere a priori le campagne, egli pensa di preferenza a insurrezioni che hanno inizio nei centri abitati di una certa importanza e si estendono poi alle campagne; oppure che, fallite nelle città, si spostano con gli elementi superstiti nelle campagne. Si tratta di criteri non enunciati chiaramente dal M., che però possono essere ricavati con sufficiente attendibilità dalle istruzioni da lui emanate e dalle considerazioni militari sparse nei suoi scritti. Una cosa, comunque, è certa: che egli, pur ammettendo la necessità di avere sùbito i contadini dalla parte della guerra nazionale, dopo il 1849 non indica mai nelle campagne e quindi, nella guerra per bande che solo nelle campagne è possibile - il fulcro e la scintilla dell'insurrezione. In secondo luogo, sempre dopo i1 1849 - e sulla base dei concreti ammaestramenti della guerra - accanto all'insurrezione popolare (organizzata e non spontanea) indica come nuovo soggetto politico e militare i volontari. Tra quest'ultimi prevale l'elemento cittadino e borghese e non quello campagnolo; essi sono quindi una specie di avanguardia e d'élite che supplisce con l'entusiasmo al carente addestramento e che può condurre sia la guerra per bande o in montagna, sia la guerra per così dire classica, partecipando con ordinamenti e Capi propri alle operazioni dell'esercito regolare. Conformemente alla sua idea - base che la conquista e difesa della Nazione è affare di tutti e non delle sole élites, Pisacane odiava qualsivoglia forma di volontarismo e di truppe speciali; M. invece fa del volontarismo - e delle formazioni cui dà luogo - un simbolo della nuova guerra nazionale (che tuttavia dovrebbe riguardare tutti, anche se ha i suoi centri di reclutamento nelle città). Un quadro variegato e non sempre coerente insomma, nel quale accanto alla situazione contingente e agli ammaestramenti della guerra rimangono ben ferme e valide le acquisizioni del periodo precedente (Vol. I, Cap. XIV), a cominciare da quella di "guerra di popolo" e di insurrezione popolare, contrapposte alle congiure d'élite e ai pronunciamenti militari della carboneria. Si è già accennato al fatto che per M. l'insurrezione popolare deve essere la scintilla della guerra, innescando l'entrata in campo degli eserciti regolari che poi diverrebbero - con i volontari - i protagonisti principali. Come si accende questa scintilla e con quali modalità raggiunge i suoi obiettivi? All'iniziativa della monarchia egli contrappone l'iniziativa popolare, la quale "può sorgere da qualunque località, da qualunque nucleo di Italiani arditi e volenti; dalla provincia come dai grandi centri; da un raccozzarsi di Bande Nazionali, come da un Vespro o dall'insurrezione di massa". Peraltro, preso atto che "il periodo delle vaste cospirazioni è finito" e che le agitazioni progressive di popolo del 1848 non possono più ripetersi, M. corregge il tiro a proposito dei grossi centri e delinea i caratteri di una strategia periferica, che parta cioè da centri abitati secondari e non dalla capitale: l'iniziativa nei grandi centri è difficile e pericolosa: esige concorso di troppe forze per non correre rischio d'essere presentita e impedita; è


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decisiva se vince e rovinosa negli effetti, se schiacciata sul primo sorgere. Non giova fidare le sorti del paese a un solo tratto di dado. I punti migliori per l'insurrezione sono quelli, nei quali una vittoria è semenza inevitabile di altra vittoria e una disfatta lascia intatte le forze su altri punti. I centri di secondo e terzo ordine presentano un doppio vantaggio: costituiscono, insorgendo, un fatto importante per sé e una diversione a favore dei grandi centri. O il nemico marcia contro quei moti, o si smembra; o si concentra sui punti strategici, e lascia luogo e tempo all'insurrezione per allargarsi e ordinarsi [... ]. Dovunque, dalla Sicilia al cerchio delle Alpi, s'incontrino venticinque o trenta fra voi capaci o vogliosi di fare, ivi si riveli indipendente un poco d'azione italiana: piombate a sorpresa sovra un distaccamento nemico, sopra una cassa governativa, e - se i vostri concittadini non seguono rapido

il vostro grido di guerra - ricovratevi ai monti, ordinatevi in Bande Nazionali [nostra sottolineatura - N.d.a.], porgete ad altri l'esempio. La parola d'ordine è INSURREZIONE: incarnatela in voi.36

In questo caso, dunque, M. indica la guerra per bande in montagna come un ripiego, nel caso che l'insurrezione nei centri abitati non riesca. Più oltre, M. condanna senza ambiguità "l'idea che fa dipendere l'azione dai pochi grandi centri nazionali, dalle Capitali [...] conseguenza del pregiudizio monarchico, che avvezza gli animi a ingigantire l'importanza d'una Corte, d'una città, nella quale ha seggio il governo, o d'un dato individuo". Non può comunque essere tassativamente escluso che l'insurrezione possa venire anche dalle capitali: "quando un paese è preparato - quando su tutti i punti si è disposti a seguire - poco importa, da dove viene la prima mossa''31. L'insurrezione può andare sia dal centro alla periferia, che dalla periferia al centro: l'importante è non fare dell'insurrezione dei grandi centri "una condizione assoluta di moto", come è avvenuto nel 1848. L'insurrezione deve "localizzarsi"; ogni centro insurrezionale deve badare a sé stesso, senza pretese di continui contatti con numerosi altri centri, che servono solo a facilitare l'azione della polizia e a riempire le prigioni. Al tempo stesso, deve essere evitata "l'anarchia, la smania di una esagerata indipendenza individuale", che ha prodotto il fallimento dei tentativi del 1852 e 1853. Queste norme sono forse in contrasto con la strategia della guerra di eserciti? è M. stesso a dare una risposta. Per il tipo di azione da lui delineata, le nonne che possono stabilirsi sono poche; l' altre derivano dalla natura degli elementi e dalle circostanze spettanti a ciascuna località, e sono tali che non giova far palesi. Un'insurrezione è un fatto di

guerra: le regole generali applicabili all'una, sono applicabili

36

G. Mazzini, Scritti Editi e Inediti (Cit.), Voi. VIII pp.350-353.

"· ivi, p. 356.


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IL PENSIERO Mll.,ITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

all 'altra [Nostra sottolineatura - N.d.a]. Concentrare il più gran numero di forze possibili sovra un punto dato; ottenere una vittoria; seguirne rapidamente il corso senza concedere così al nemico il tempo di riaversi: è questo, come della guerra, il segreto dell' insurrezione [... ]. Il Partito non deve spendere i mezzi che possiede in più direzioni, ma scegliere uno dei punti strategici per l'insurrezione, accumulare su quello ogni mezzo, ogni attività, prepararvi rapidamente l'azione, darle moto, combattere, vincere, osare, cacciar via la guaina dal ferro. 38

Scritte nel 1856, quest'ultime parole ben compendiano la prassi strategica sempre seguita da M., teoricamente corretta e classica, ma all'atto pratico di scarso successo, sempre per la stessa ragione: la mancanza del presupposto di base, cioè di quel concorso spontaneo e unanime di forze, senza il quale non sono possibili né insurrezioni né guerre di popolo. Questo, a prescindere dalle forme diverse che possono assumere, e che passano in seconda linea. In sostanza, egli dimentica che la strategia - in quanto figlia della politica arte del possibile - è a sua volta arte del possibile, quindi la sua qualità si misura solo dal successo o meno, non dalla correttezza dei presupposti teorici. Ne' Napoleone né Clausewitz hanno mai dimenticato questo: dunque il costante e forte divario tra presupposti iniziali e realtà o risultati ottenuti, fanno di quella di M. una strategia napoleonica e clausewitziana solo alla superficie, all' apparenza. È una buona strategia non que11a che può riuscire, ma quella che dimostra di riuscire; e dire che, se tutto il popolo italiano insorgesse, il problema dell'indipendenza nazionale sarebbe risolto, è solo una tautologia o una speranza, non un programma o un piano.

Forze regolari e irregolari: nazione armata o volontari? Dopo aver preso in esame i criteri strategici della guerra nazionale, occorre approfondire gli strumenti e le loro modalità d'azione, indicando più nel dettaglio ruolo delle forze irregolari e loro rapporti. A tal proposito, senza accennare al fatto che M . non fa differenza tra principi strategici della guerra nazionale - e in particolare tra quelli della insurrezione e quelli della guerra di eserciti - il Liberti ricorda che l'agitatore genovese ristampa e diffonde anche dopo il 1848 il suo "studio" del 1832 sulla guerra per bande (Voi. I, cap. XIV), che - va osservato - non è semplicemente tale, ma è piuttosto un'istruzione e una guida per i militanti. In particolare, lo ristampa nel 1849 durante l'effimera difesa della Repubblica Romana e nell'aprile e luglio del 1853, anno cruciale - come si è visto - per la definizione dei reali parametri de] pensiero militare mazziniano39•

'.IL 39 ·

ivi, Vol. IX pp. 228-229. E. Liberti, Op. cit.. pp. 292-298.


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Nella prefazione alla ristampa del 1849, M. - che al momento, nella difesa di Roma, ha alle dipendenze non delle bande di insorti, ma un esercito regolare che Pisacane, ufficiale di carriera, vuol impiegare come tale - accenna chiaramente alla coerenza del suo atteggiamento prima e dopo il 1848, smentendo così pretesi mutamenti di linea: "concedendo alla stampa uno scritto dettato sedici anni addietro, io non devo aggiungere che poche parole. Ancora come oggi io pensavo che ogni guerra d'indipendenza ha da porre in moto, ad ottenere trionfo, due elementi, il regolare e l'irregolare, nucleo d'esercito e l'insurrezione. All'esercito provvede lo Stato; all'insurrezione provvede il popolo". E- ahimè- sempre nel 1849 indica inconsapevolmente le cause vere dei fallimenti futuri, che non sono fallimenti solo suoi ma dell'Italia pur risorgente: "dove il popolo si giace inerte per propria colpa o negletto, nessuna guerra può diventare nazionale, e comporsi con la vittoria". Nella prefazione alla edizione dell'aprile 1853 dopo aver constatato ottimisticamente che la guerra del 1848/1849 ha ormai educato il popolo alle armi e preparato i Quadri per le bande, sembra indicare in quest'-ultime lo strumento militare protagonista e iniziatore dell'insurrezione e la scintil1a della guerra nazionale. Infatti le bande non sono - nel mio concetto, tutta la guerra italiana: esse non ne sono che il cominciamento. L'insurrezione deve tendere a formare un esercito regolare dal quale solamente può escir la guerra decisiva, finale. Le bande hanno a essere alla Guerra Nazionale ciò che i bersaglieri sono all'esercito [cioè elementi non inquadrdli nelle rigide formazioni di combattimento della fanteria, che - sempre a beneficio del grosso - combattono in ordine sparso, con rapidi spostamenti e fuoco libero e non a comando, sulla fronte e sui fianchi della fanteria di linea in combattimento, nel sistema di avamposti, nell'avanguardia ecc. N.d.a.j. La piccola guerra deve essere il preludio della grande: la battaglia deve distruggere il nemico infiacchito, scoraggiato, illanguidito negli ordini, dalle zuffe incessanti dei partigiani. Gli ordini delle Bande devono dunque accostarsi quanto è possibile agli ordini che prevarranno nella composizione dell'esercito. Questi concetti sono ripetuti da M. nel luglio del 1853, dove tra l'altro cita, accanto a quello del La Mière, anche il trattato del Decker (Vol. I, cap. XIV), il quale secondo taluni storici di oggi fornirebbe un' immagine deformata e riduttiva della guerra per bande. Come si concµiano queste idee del M., con quanto egli scrive sullo stesso argomento prima del 1849 e nello stesso anno 1853? Intanto, non è condivisibile l'affermazione del Liberti, che cioè secondo M. "le bande possono esse stesse suscitare l'insurrezione allorché questa diventa il punto terminale di un movimento dalla periferia al centro". Parlando di tale movimento, M . - come già abbiamo visto - intendeva riferirsi alla sua forma preferita di insurrezione (cosa diversa dalla guerra per bande), che è quella dai centri abitati periferici verso la capitale; tant'è vero che - scrive - in questo caso l'insurrezione nazionale "irraggia da uno o più fochi potenti di


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mezzi materiali, di moltitudini numerose e di prestigio esercitato sugli animi". Ciò non può avvenire - tanto più all'inizio - per la guerra per bande, che ha pochi mezzi e non coinvolge la massa degli abitanti delle città. Se ne deve dedurre che il Liberti fa arbitrariamente coincidere la insurrezione con la guerra per bande. Si tratta di due cose ben diverse: la insurrezione nel concetto mazziniano riguarda anche - anzi soprattutto - i centri abitati; la guerra per bande è solo una modalità operativa dell'insurrezione praticabile nelle campagne, o meglio in terreni montani e difficili. Almeno nella formula del tempo, essa quindi non può essere estesa ai centri abitati. Né il Liberti né lo stesso M. fanno emergere con chiarezza queste clifferenze: anzi M. - come si è visto in precedenza - nel 1853 indica la guerra per bande solo come ripiego, proprio nel caso che l'insurrezione tentata nelle città dai soliti, pochi animosi non trovi sufficiente appoggio tra la massa dei cittadini. E si deve anche ricordare che per il M. prima del 1849 le bande non erano - come per Bianco - la scintilla dell'insurrezione, mentre nelle prefazioni alle ristampe prima citate, esse oltre a non distinguersi chiaramente dall'insurrezione dovrebbero dare il segnale della guerra nazionale... Ha perciò ragione il Douglas Scotti quando osserva che "il rapporto città-campag·n e non fu visto con chiarezza da nessuno degli studiosi esaminati, ed è proprio qui, quasi certamente, che risiede la maggior debolezza e la ragione della sconfitta dei rivoluzionari democratici"40 • Per il M. non si può parlare di evoluzione del pensiero dopo la guerra del 1848/1849, ma solo di contraddizioni rispetto ad altre affermazioni dello stesso periodo e magari dello stesso anno. Contraddizioni in fondo, marginali e dovute al mutare delle circostanze: perché prima e dopo il 1848 egli continua a ripetere che ciò che in ultima analisi gli interessa, sono le iniziative rivoluzionarie e i loro obiettivi: non le loro forme e modalità, che possono mutare in relazione alla situazione.' In conclusione, se M. anche dopo il 1848 ripubblica e dichiara valido la sua istruzione sulla guerra per bande, non è perché - aprioristicamente e sul piano generale - assegna a questa forma di guerra, valida soprattutto in terreno montano e nelle campagne, un ruolo strategico preferenziale e decisivo, ma perché vuol fornire ai suoi seguaci una guida utile nel caso che sia possibile o conveniente adottarla, cosa che dipende dalle circostanze e dunque non può altrettanto aprioristicamente essere esclusa (ad esempio, prima del 1866 pensa a un'insurrezione nel Veneto). L'unico mutamento di rilievo rispetto al periodo pre-1848 sta nel riconoscere all'esercito regolare un ruolo decisivo, però in relazione alle mutate circostanze e non a nuove opzioni teoriche. Già nel programma del Trium-

40 ·

V. Douglas Scotti, La guerriglia negli scrittori del Risorgimento Italiano prima e dopo il 1848-1849, in "Il Risorgimento" Anno XXVII - N. 3, Milano, Ottobre 1975, p. 97.


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virato della Repubblica Romana (29 marzo 1849) si accenna a "forza e disciplina dell'esercito regolare sacro alla difesa del paese, sacro alla guerra della nazione per l'indipendenza e libertà d'Italia"41 • E di fronte al tentativo d'invasione del territorio della Repubblica da Sud, da parte dell'esercito del Re di Napoli, il M. parla di guerra di popolo, di "resistere milizia e popolo, capitale e provincia". Poi invita i cittadini ad armarsi, a dare inizio a una guerra che deve essere ''universale, inesorabile, rabbiosa". E sintetizza in queste poche parole il ruolo rispettivo dell'esercito regolare e delle bande: mentre Roma assalirà il nemico di fronte [evidentemente, con l' esercito regolare - N.d.a], recingetelo, molestatelo ai fianchi, alle spalle. Roma sia il nucleo dell' esercito nazionale del quale voi formerete le squadre. Resistete dove potete. Dovunque Ja difesa locale non è concessa, i buoni escano in armi; ogni cinquanta uomini formino una banda; ogni dieci uomini, una squadra nazionale [... ]. E tutte le bande, tutte le squadre, tormentino, fuggendone l'urto, il nemico; gli rapiscano i sonni, i viveri, gli sbandati, la fiducia, gli stendano intorno una rete di sferro che si restringa, lo comprima né suoi moti e lo spenga.42

Ciò vuol dire: preminenza dell'azione dell'esercito e concetto della guerriglia clausewitziani (Voi. I, cap. XIV), nel quale le bande devono diminuire l'efficienza operativa del nemico in vista dello scontro con le forze regolari, che dunque è il clou delle operazioni. Coerentemente con questa impostazione, gli scritti successivi del M. ruotano intorno a due terni principali: la difesa dall'accusa di antimilitarismo (cioè di negare il ruolo dell'esercito nella guerra nazionale e di minarne la disciplina provocando diserzioni, ammutinamenti e malumori al suo interno) e il tentativo - assai mal riuscito - di far aderire ufficiali e soldati al suo concetto di guerra nazionale. In tutti i casi, egli mira a cambiare l'atteggiamento politico dell'esercito, prima ancor che a riformarlo; le sue critiche agli eserciti dinastici, pur essendo analoghe a queile del Pisacane e dei sostenitori della nazione armata, non raggiungono mai i toni violenti, radicali e apodittici dell'ufficiale napoletano. Particolarmente utile per capire ciò che pensa il M. dell' esercito regolare e del ruolo delle bande è quanto scrive nel 1856, in una lettera a un avversario moderato dalla quale, tra l'altro, si trae altra conferma sia della sua visione clausewitziana del ruolo delle bande, sia del fatto che, anche prima del 1848, il movimento mazziniano non aveva mai tentato di ignorare l'apporto delle forze regolari al1a causa nazionale. Per M. si tratta di cambiare il concetto di impiego, non lo strumento in sé; su questo punto, egli è assai più conservatore di Pisacane:

''- G. Mazzini, Scritti Editi e Inediti, Vol. Vll pp. 17-18. 41. ivi, pp. 28-29.


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Gli uni gridano che senza esercito regolare non può vincersi la guerra italiana; ma chi lo nega tra noi? chi non lo ha detto? quale tra le stampe, tra le istruzioni escite dalle frazioni del partito che dicono più avventate, non ha chiamato alla crociata gli eserciti o non ha cercato insegnare come si formino? Pur nessuno può far che i fatti non siano; nessuno può negare che l'esercito napoletano sia stato due volte sconfitto; sotto Gioacchino Murat, la prima, che oggi invocano come ricordo di gloria a un discendente ignoto; dopo la rivoluzione del l 820, la seconda; nessuno può dimenticare la conclusione della campagna lombarda nel 1848, e la rotta di Novara nel 1849. Gli eserciti soli dunque non bastano. I battaglioni ordinati e le artiglierie, se male adoprati o collocati, a guerra regolare e soli, in faccia a una forza nemica superiore di cifra, sono impotenti a salvare la loro nazione. Gli altri gridano sollevazione, bande armate, guerra di popolo; ma intendono essi guerra di moltitudini disordinate, anarchia, barricate e non altro? o non piuttosto che la guerra di popolo, d'un popolo che vuol conquistarsi libertà e Patria, deve combattersi con metodo e concetto diverso da quelli che reggono generalmente le guerre di conquista o di preponderanza, combattute tra governo e governo? Intendono che le barricate debbano esser metodo, sistema di guerra, o non piuttosto che la barricata cittadina, cominciamento di guerra, debba mantenersi inalzata, perché il nemico non possa giovarsi rapidamente e senza ostacoli d'una vittoria, perché l' eser cito nazionale, se mai vinto in uno scontro importante, abbia tempo a riordinarsi e conforti dal valore del popolo a farlo? Intendono che le bande debbano riconquistare il territorio italiano da per sè sole, o non piuttosto che giovino come fiancheggiatori, come bersaglieri all'esercito, e come scuola virile, educazione ai pericoli, da darsi a una gente che da secoli non combatte? Intendono che una Nazione si fondi difendendo città, o non piuttosto che, in una guerra d'indipendenza, le battaglie campali debbano alternare colle difese, come quella di Saragozza? No: non è, non può essere dissidio tra noi per questo. Vogliamo, noi tutti, gli eserciti: non son essi italiani? non s'alimentano col fiore della nostra gioventù? non cercammo averli, non li avemmo, dovw14u~ s'inalzò la nostra bandiera? Ma sappiamo, noi tutti, ch e una guerra destinata a fondar la Nazione ha bisogno di chiamar sul campo tutte le forze della Nazione, esercito e popolo; sappiamo che le battaglie della Rivoluzione Francese cangiarono strategia e tattica a un tempo in Europa; sappiamo che, come diceva Napoleone, non si difendono le Termopili colla carica in dodici tempi; che la guerra italiana non può vincersi nel quadrilatero delle fortezze lombarde, ma in Tirolo, nel1' Alpi venete, a Trieste, a Fiume; che il popolo armato deve dare forza morale e appoggio materiale all'esercito; che noi dobbiamo, ad assicurar la vittoria, lacerare colle nostre baionette i trattati del 1815, e portar nelle nostre mucciglie una nuova carta d'Europa; che, per avere i popoli in armi, è necessario mostrar loro tutto un popolo in armi: che l'audacia dev'essere la nostra prudenza, il popolo la nostra riserva, ogni nostra città, gremita di barricate, un deposito per l'esercito, ogni villaggio un posto avanzato, ogni siepe un'imboscata, ogni uomo un soldato. V'è chi possa dire: io dissento? v'è chi possa, dopo il 1848, dire al popolo, quando escirà vincente dalle barricate: tornate alle vostre case:


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noi, coi soli battaglioni regolari, vinceremo le vostre guerre? E se, rifuggendo dal mal vez:zo di dare esagerazione ai vocaboli, noi consentissimo una volta a discutere fraternamente sui modi coi quali una nazione può emanciparsi dallo straniero,non ci troveremmo tutti concordi nella necessità d'armonizzare le due grandi leve d'ogni guerra nazionale, milizie ordinate e popolo in arrni?4J Sempre nel 1856, M. così si rivolge ai "soldati italiani" del momento, con tale termine intendendo sia i soldati piemontesi, sia quelli appartenenti agli altri eserciti dinastici della penisola: a molti fra voi, furono sussurrate, artificio usato d'antico dai vostri padroni a dividerci, accuse stolte contro di noi: esservi il partito nazionale avverso; volervi ad ogni patto disciolti; voler cancellata l'istituzione militare, creduta arnese d'oppressori e fatale alla libertà della Patria [... ]. Ma anche se vi riuscisse, a torto, incerta la nostra fede, non vi rassicura la necessità de11e cose? Con che vinceremmo? Noi non possiamo aver patria mai senza guerra; guerra da non conchiudersi, se non quando le nostre handiere s'affratelleranno con quelle degli ungheresi e degli altri popoli redenti, per entro le mura di Vienna. Fin là, mjlitari italiani, noi abbiamo bisogno di voi [... J. Noi vogliamo L'ITALIA NAZIONE, vogliamo un ESERCITO NAZIONALE, che ne protegga l'unità e libera vita" . Seguono le consuete critiche dei rivoluzionari democratici alla "istituzione della milizia avanzo del medioevo", che invece deve diventare una compagine al servizio della Patria e non della tirannide, far largo al merito, eliminare al suo interno favoritismi e corruttela, eleggere i gradi, non prendere le armi contro i concittadini ma contro il nemico. Così facendo "le guerre patrie ritempreranno l'istituzione militare, innalzandola al concetto di missione. E liberato d'ogni pericolo di liti fraterne, interprete egli pure, come tutti i cittadini, del Patto Sociale, il militare italiano sarà l'apostolo armato della civiltà e della missione italiana in Europa". Al di là di formulazioni teoriche, l'atteggiamento di M. nei riguardi dell'esercito risponde a questi concetti. Ciò che gli interessa veramente, è che si batta per i suoi obiettivi politici; le sue modalità di reclutamento e ordinamento passano in seconda linea. Lo chiama spesso a agire, a intervenire nelle guerre per l'unità nazionale anche quando il Governo non lo vorrebbe; condanna !'indifferenza dei suoi Capi, che non sentono il dovere di protestare, di intervenire di fronte a eventi - come la cessione di Nizza e Savoia, l'intervento francese contro Garibaldi nel 1867 a Mentana, ecc. nei quali è in gioco l'onore e la dignità nazionale. Al tempo stesso respinge ripetutamente l'accusa di aver provocato

0

'"'

ivi, Voi. IX pp. 213-215. ivi, pp. 187-188.


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diserzioni. Un suo articolo sull' Unità italiana del 4 giugno 1860, quando era già iniziata l'insurrezione in Sicilia45 , inquadra questo evento nella situazione italiana del momento, che ba provocato la spontanea adesione ai moti - e la partenza per la Sicilia al seguito di Garibaldi - di parecchi giovani generosi di altre parti d'Italia, compresi quelli sotto le armi. Capovolgendo i suoi precedenti orientamenti geopolitici, in questo momento M. vede negli avvenimenti siciliani non un episodio locale ma il moto dell'intero Sud, il quale "conquistato dall'insurrezione, segnerebbe l'ora dell' emancipazione generale - dell'emancipazione di Venezia e Roma - dell'emancipazione da tutti gJi stranieri". Anche per le sue potenzialità militari, al momento il Meridione è diventato il nuovo baricentro dell'insurrezione nazionale: Là, nel Mezzogiorno d'Italia, sta un esercito di 120.000 uomini, che oggi combatte pel dispotismo, domani, trasformato dal mutamento dei capi e da una promozione generale dal basso all'alto, combatterebbe la battaglia della libertà. Là sta un elemento di popolazione che, cessato il dualismo tra le province al di qua e le province al di là del mare, porterebbe immediatamente quell'esercito a 160.000 uomini. Là sta un vasto materiale da guerra, sta il più potente naviglio militare d'Italia. Là sta la vera base d'operazione della guerra italiana [nostra sottolineatura - N.d.a.], e sta l'elemento di forza morale, che manca tuttora al moto della Nazione..:••.

Bisogna perciò aiutare in tutti i modi il Meridione; "il fermento si estende nelle file della milizia" e in particolare tra le migliaia di volontari che, chiamati per conquistare la libertà per l'Italia e arruolati nell'Esercito, disertano per imbarcarsi per la Sicilia. Ma il governo, anziché trarre da questi generosi impulsi delle forze che potrebbero essere "sovrabbondanti all'impresa", ha scelto la via della repressione: da un lato, imprigionamenti, dissolvimento di brigate, circolari alla Guardia Nazionale perché vigili sulla frontiera, accumulamento di truppe agli estremi punti del territorio toscano; dall'altro, accuse pubbliche e segrete agli uomini di parte repubblicana e a me che scrivo [...]. Trovano in una mia lettera scritta col core traboccante di affetti a un generale [ ... ] eccitamento alla diserzione, allo smembramento dei corpi componenti l'esercito. Trovano nella sùbita partenza di alcune centinaia di giovani dalle file di due brigate, prove di non so quale cospirazione di dissolvimento premeditato47• Quella lettera - precisa M. - intendeva solo ribadire il programma di allargare l'insurrezione, e "inculcava la massima che i soldati del nostro esercito devono sentirsi ITALIANI e non SARDI; non altro". Per il resto,

" ~ 1 • -

ivi, Vol. XIII pp . 206-215. ivi, Vol. XI pp. 206-207. ivi, pp. 207-209.


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poiché l'esercito è un insieme di uomini e di cittadini, non di macchine, vi sono momenti supremi nei quali "una santa disobbedienza" può salvare il paese. In particolare, credo che varcando - poco dopo la pace di Vtllafranca [che ha amaramente concluso la guerra del 1859 dopo una trattativa diretta, senza il Piemonte, tra Francia e Austria - N.d.a.], e quando non era concentramento di truppe, né negli Abruzzi, né nelle terre soggette al Papa - il confine della Cattolica [cioè il confine dello Stato Pontificio presso Cattolica - N.d.a.], i nostri Capi militari avrebbero salvato il Paese, fondato la sua unità, risparmiato il sangue ch'or si versa in Sicilia e che bisognerà pur troppo versare altrove. Ma non credo giovevoli lo smembramento dei corpi, biasimo le diserzioni parziali; e so che i nostri hanno lavorato a impedirle, e consigliato chi si era allontanato dalle file a ridurvisi di bel nuovo, pregando venia dai corpi. 1 giovani che abbandonarono recentemente le due brigate non obbedirono a disegni premeditati, a insinuazioni di preti o repubblicani; obbedirono a un impulso di cuore, a un incauto desiderio di bene, a un ardore di patria e di libertà che dovrebbe far balzare il core ai reggitori, se avessero core... 48• Ciò equivale a dire che M. avrebbe voluto non atti d'adesione individuale che poi si traducevano in atti d'indisciplina almeno formale, ma nientemeno che la compatta adesione dell'Esercito - e dei suoi capi - ai suoi programmi di "interventismo" e di prosecuzione della guerra fino alla cacciata definitiva dello straniero, dal Nord-Est Italia come da Roma. Ancor più chiara, a proposito delle diserzioni, una sua lettera del settembre 1861 alla redazione dell'Unità Italiana, nella quale, rispondendo sempre alle stesse accuse, vorrebbe distinguere tra diserzione e diserzione: la diserzione, quando s 'esce da file inerti per accorrere là ove si salva il Paese [come al momento sta avvenendo - N.d.a.], può, in certi e rarissimi casi, avere approvazione da noi, e dovrebbe in ogni modo avere indulgenza da tutti. La diserzione dalle file dell'esercito patrio, per vivere vita indipendente, è di grave danno morale, e merita castigo severo. La diserzione per trapassare nelle file straniere o d'una tirannide che tenta l'ultima prova, è delitto senza nome, che merita punizione e abbominio da tutti, a qualunque partito italiano appartengano. E perché provocheremmo noi i nostri soldati al delitto? con quale intento? a qual prò? non è l'esercito nostro gloria e speranza di tutti noi? Non lo invochiamo noi forte, generoso, compatto per la guerra nazionale che ancora ci avanza?49 Per M. sarebbe tradimento di Venezia, Roma e della Patria se, nel momento stesso in cui si sta cercando di provocare l ' insurrezione nel

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ivi, pp. 209-210. ivi, Vol. XIII p. 59.


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Veneto "alla quale le forze regolari possono sole assicurare l'ultima decisiva vittoria", si tentasse di provocare proprio la dissoluzione dell'esercito che fronteggia il nemico: perciò "non ci attribuite, a salvare voi stessi, diserzioni che derivano dalla pessima amministrazione dell'esercito, e dall'avarizia colla quale è trattato il soldato che chiamerete domani forse a preservarvi col proprio sangue i vostri dominì"50• Anzi, "l'esercito italiano non ha migliori amici di noi"; di noi - aggiunge M. - che vogliamo farne non un cieco strumento al servizio degli interessi d'un solo Monarca, ma l'apostolo armato della Nazione e "la forza a servizio del dovere sociale"; di noi, "che vorremmo le promozioni in ragione unicamente del merito, la retribuzione in ragione degli stenti durati e del rischio, le punizioni in ragione della responsabilità, le ricompense limitate all'inoltrarsi nei gradi, le pensioni e le terre serbate all'epoca nella quale cessa per età o per ferite il servizio, e alle famiglie povere dei combattenti". La conclusione è, addirittura, che "l'esercito è la gemma d'Italia. Nemico d'Italia sarebbe chi tentasse di dissolverlo". I veri cospiratori a suo danno, e a danno della monarchia, sono "gli uomini i quali, pur protestandò di volere Venezia e Roma, mantengono l'esercito inefficace ad appoggiare virilmente i negoziati, o a tradurli, occorrendo, in minaccia; e protestando di volere forte il Paese, ricusano di armarlo; e protestando di volere l'Italia concorde, s'ostinano a non permetterli leggi sue, invece di leggi improvvisate tredici anni addietro pel Piemonte, quando Nazione non era ... ". Il problema delle diserzioni è evidentemente legato al concetto di disciplina al quale deve ispirarsi l'istituzione militare, e al rapporto in atto tra Esercito e società civile. Su questi aspetti generali, le idee di M. coincidono perfettamente con quelle di D' Ayala, di Pisacane e di tanti altri rivoluzionari: sul soldato deve sempre prevalere il cittadino, sulla disciplina formale quella sostanziale, sull'obbedienza a uno solo l' obbedienza alla Patria. L'Esercito non deve essere separato dalla società civile ma anzi interpretarne e attuarne la volontà anche a pre:a;o deila vita; se il governo del momento tollera ancora senza reagire la presenza e i soprusi stranieri in Italia, esso è sciolto dal dovere di obbedire passivamente all'autorità legittima e ha non solo il diritto, ma il dovere di seguire coloro che [come i mazziniani - N.d.a.] fanno sventolare la bandiera del completo riscatto nazionale. La sua esistenza è giustificata solo dalla protezione dell'unità e indipendenza nazionale contro lo straniero; poiché presta giuramento di fedeltà solo alla patria, non può falsarlo solo perché i governanti lo falsano. Quindi "non può rinunziare la propria parte - e la prima - nell'impresa emancipatrice, senza rassegnarsi ad essere davanti all'Europa, al Paese e a sè, anziché esercito d'uomini liberi e di cittadini a tutela della Nazione, accolta armata a beneficio d'individui, senza "'

ivi, pp. 60-61.


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coscienza propria, senza missione, e condannata alle condizioni servili del feudalesimo" 51 • In virtù di questo principio M. in una lettera del giugno 186352 a un ufficiale dell'Esercito che - per seguire i suoi sentimenti mazziniani - vorrebbe dimettersi e "rifarsi cittadino", lamenta il dualismo tra Esercito e Paese, la separatezza dell'Esercito, "la tradizione monarchica dell 'obbedienza passiva". Conseguenza di questo errato indirizzo è il fatto che, al momento, al confine del Veneto Trecentomila Italiani armati, educati a guerra, disciplinati, provveduti di materiale per ogni battaglia, stanno di fronte a meno di centomila soldati dell'Austria - il terreno occupato dal nemico è terreno ita]jano - un fiume li separa - e un grido di: guerra all'Austria! libertà per nostri fratelli! non esce da quelle file. Il silenzio è in essi così profondo, che mal sapremmo discernere, ove non fosse l'assisa, quali siano gli amici, quali i nemici. Io non credo che esista un altro Paese in Europa, dove l'invasione straniera non provocasse a manifestazioni di guerra un esercito nazionale. Gli scritti di M. dal 1849 al 1870 non si esauriscono in queste prese di posizione. Il loro aspetto più caratterizzante - ancorché non del tutto nuovo - sta piuttosto negli espliciti e ripetuti riferimenti al modello svizzero di nazione annata, che autorizzano a collocarlo tra i fautori di questa formula organica alla quale, del resto, aveva - sia pure en passant - accennato anche nel 1833, come forma organica militare strettamente connessa al concetto politico-sociale di nazione53• Al tempo l'ordinamento tipo nazione armata veniva unanimemente ritenuto poco idoneo all'offensiva, il che per i democratici era un pregio e per i conservatori un limite. Come lo stesso M. non si stancava mai di ripetere, per eliminare la presenza straniera dell'Italia era invece necessario che la guerra, oltre che nazionale, fosse decisamente offensiva: ma pur definendo la Svizzera- anch'essa nemica dell'Austria ....., "codarda nella pace" 54, ne esalta il modello militare senza mai chiedersi se esso sia o meno adatto alla specifica situazione italiana. E lo fa particolarmente intorno al 1860-1861, cioè nel periodo nel quale Carlo Cattaneo - senza mai citare la guerra per bande - apre le pagine del Politecnico a un dibattito assai approfondito sull'applicabilità del modello svizzero alla specifica situazione italiana. Come tanti altri. autori italiani coevi, M. pare interessato soprattutto allo spirito della formula tecnicà, anziché alla sua lettera. Inoltre - non è il solo - accanto alla leveé en masse esalta il volontarismo, che come

SI 52 53

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ivi, Vol. XIlI pp. 126-127. ivi, pp. 184-193. ivi, XIV p. 880. ivi, Vol. VIIl p . 336.


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fenomeno tendenzialmente d'élite è - altrettanto tendenzialmente - il surrogato del consenso di massa e dalla coesione nazionale, premesse politicosociali indispensabili per una completa realizzazione del principio della nazione armata. Se tutti - o almeno la gran parte dei cittadini - danno tutto per la causa nazionale, non c'è alcun bisogno di distinguere i volontari da coloro che tali non sono, né tanto meno di distinguerli da coloro che, per obbligo, fanno parte dell'esercito nazionale; la contraddizione tra volontarismo e nazione armata non è invece colta dal Mazzini (non è il solo). More solito, quella di M. è una nazione armata con molti temperamenti, nella quale ciò che veramente è essenziale, è la ricorrente tesi dell'allargamento della base di reclutamento dell'Esercito italiano in guerra, in modo da sfruttare meglio le risorse demografiche del Paese. Ed è una nazione armata che al momento rimane più che altro un'aspirazione, un obiettivo ideale, una meta da spostare a un ipotetico futuro. Da un suo scritto del 1860 traspare, infatti, una forte delusione per lo scarso impegno politico e militare dei suoi seguaci, ai quali indica ciò che dovrebbero fare (e che, dunque, al momento non fanno): avevate accolto tutti con plauso il concetto della Nazione Armata: chi vietava a voi d'eseguirlo? chi lo vieta in oggi, quando appunto l'opposizione straniera dovrebbe incitarvi ad un atto d'indipendenza? Chi vieta, a venti, a trenta, cinquanta tra voi, il riunirvi in ogni città, costituirvi in Sezione? [... ]. Chi vieta a voi l'armarvi? Che cosa impedisce che in ogni città emancipata s'ordini una Società di Carabinieri [cioè di cittadini tiratori scelti annati di carabina - N.d.a.], a imitazione di quelle che esistono a Genova e altrove; a imitazione di quelle che esistono in ogni città della Svizzera?[...]. Perché non esce da ogni Convegno una petizione al Governo, chiedente una politica apertamente italiana - l'armamento del Paese - la Guardia Nazionale fatta realtà e non menzogna - l'introduzione in essa dell'elemento popolare oggi escluso - l'adozione del sistema svizzero?55 Nel gennaio 1861 afferma che mezzo milione di uomini in armi sarebbero l'argomento più convincente per indurre lo straniero a lasciare l'Italia, indicando come esempi da seguire non solo quelli - classici - della Svizzera e della Prussia, ma anche gli Stati Uniti (2 milioni di uomini di milizia su 23 milioni di abitanti), l'Olanda quando combatteva le battaglie per l'indipendenza, la Francia del 1794, la Grecia del 1821-22. Poiché al momento l'Italia - egli afferma - mette in campo solo 200.000 uomini su 22 milioni di abitanti, "chiedo che essa chiami ad armarsi, tra milizie e esercito regolare, il tre per cento della popolazione". Prop'o rzione già adottata normalmente dai governi - egli osserva - non tanto per una guerra d'indipendenza e di popolo come la nostra, ma anche per guerre qualunque,

ss.

ivi, Vol. XI pp. 143-144.


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magari ingiuste e invise al Paese. Segue un appello, nel quale sembra aderire piuttosto al modello "lancia e scudo" e individuare nella Guardia Nazionale - avversata da Pisacane e da molti altri - la base del reclutamento tipo nazione annata: convertite, con una legge, le Vostre Guardie Nazionali in milizie della Nazione. Ampliatene gli ordini, comprendendovi, divisi in categorie, tutti i cittadini dai venti anni ai quarantacinque, riservando gli uomini d'età più inoltrata alla leva in massa. Annate i primi e abbiate, pei secondi; depositi di armi nei punti strategici. Ordinate una istruzione militare di trenta giorni per tutti gli armati. Fondate tiri di carabina in ogni località d'una certa importanza. Scegliete a istruttori gli uomini dell'esercito regolare che, per ferite, per età, o per altra cagione, dovrebbero ritrarsi dal servizio attivo. Fate conto, per gli artiglieri, per gl'ingegneri, per l'Armi speciali, dei molti elementi stranieri appartenenti a popoli che parteggiano per la nostra Causa56•

La Guardia Nazionale deve essere divisa "in categorie di mobilizzabili a guerra, di chiamati, occorrendo, a presidio dei luoghi muniti, di riserve o nucleo della leva a stormo [dal tedesco sturm, cioè leva in massa - N.d.a.] nell'estreme necessità". Inoltre in ogni Comune devono essere costituiti - e adeguatamente.finanziati- tiri a segno nazionali "per le compagnie scelte al maneggio de11e armi di precisione". L'esercito permanente non va abolito, ma "serbato a insegnamento, esempio e nervo di guerra", in modo che possa essere "nucleo educatore e modello della Nazione Armata e ordinata intorno ad esso ad ausiliario e riserva". Al tempo stesso, M. invita il governo a "abolire pel futuro la coscrizione e ordinare la nazione all'armi, giusta il metodo Svizzero. Avrete l'affetto del popolo, che non ama essere svelto [cioè separato, allontanato - N.d.a.] senza necessità da' suoi, e avrete presto, occorrendo, un milione di combattenti"57 • Dunque: in un futuro imprecisato la nazione armata, come in Svizzera, potrà fare a meno di un "nocciolo duro" di forze permanenti? È chiaro che M. intende per "coscrizione" l'arruolamento obbligatorio in un esercito di leva a ferma tendenzialmente lunga e quindi permanente, cosa diversa dal sistema svizzero dove - oltre a una disciplina pur sempre severa - si usano brevi periodi d'istruzione e brevi richiami annuali peraltro anch'essi obbligatori. Tenendo conto della realtà italiana, la nazione armata per il M. rimane solo un obiettivo ideale da' raggiungere in futuro. Sempre in relazione a tale obiettivo ideale i volontari rappresentano piuttosto la realtà del momento e non sono in contraddizione - come dovrebbero essere - con il principio democratico della nazione armata, ma ne sono una sorta di avanguardia. Problemi tecnici o finanziari egli non se ne pone; piuttosto, poiché dire "' 57

ivi, p. 253. ivi, Voi. XIII pp. 91-92.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

"volontari" all'epoca significa soprattutto dire "imprese e tentativi di Garibaldi", non rinuncia a pretendere che siano delle baionette pensanti anche quando seguono Garibaldi in imprese che egli disapprova, perché contrastano con le priorità operative e strategiche da lui al momento stabilito. Ad esempio nel I 860 - dopo l'infausta pace di Villafranca tra l'Austria e la Francia di Napoleone ID - vorrebbe senz'altro continuare la guerra, perché - assicura con il consueto ottimismo - centomila volontari al segnale della riscossa accorrerebbero dall'Italia Centrale, mentre 400.000 Guardie Nazionali affidate a Garibaldi potrebbero difendere le province liberate senza richiedere un solo uomo dell'Esercito58 • Ma in altre occasioni vorrebbe che i volontari non seguissero ciecamente Garibaldi, o che facessero senza di lui... 11 rapporto tra esercito permanente e di milizia, tra volontarismo e guerra di popolo, tra disciplina formale e disciplina sostanziale che M_ affronta nelle sue pagine, è cosa anche oggi assai complessa e controversa; gli vanno quindi perdonate talune contraddizioni e talune opinabili riflessioni legate alle passioni del momento e più smentite che confermate dalla storia. Le sue pagine sono sempre dominate dall'ansia di completare al più pn::slo e con qualsiasi me:a,u la rivoluzione nazionale: un movimento, cioè, che anche oggi si giudica spesso incompiuto, incompleto, rimasto a live11o di establishment senza coinvolgere l'intero popolo italiano e in particolare i ceti popolari. In questo senso va considerato come una sorta di suo amaro viatico politico e militare insieme - quanto scrive nel 1868-1870 alla vigilia de11a liberazione di Roma, avvenuta non per forza di popolo (come aveva sempre sognato) ma grazie a quelle contingenze internazionali che aveva sempre sdegnato, e che provocano di per sé il ritiro delle truppe francesi da Roma, nel corso della guerra franco-prussiana59• La diagnosi della situazione politica e economica del nuovo Regno è ancor più pessimista del solito: l'Italia, appena nata, minaccia di dissolversi; "la corruzione invade, scendendo dall'alto, le membra della Nazione"; vi è un forte dualismo tra governo e governati che genera reciproca diffidenza e resistenza da parte del governo di fronte alle aspirazioni popolari; prosperano "guerricciole meschine e locali"; la crescente miseria e le ingiuste tasse inaspriscono il popolo e "lo fanno proclive ad ascoltare il linguaggio di chi attribuisce quei mali alla tentata unità". In questa situazione, mentre il governo, il Parlamento e la loro stampa dichiarano che la rivoluzione italiana è compiuta, "noi, viventi al di fuori di quella sfera, affermiamo il contrario. In questo dissenso sta il segreto della crisi perenne, che affatica e minaccia di perder l'Italia". Una rivoluzione nazionale per M. può dirsi compiuta, solo se il Paese ha raggiunto i suoi confini naturali, e se ha stipulato - sostituendolo allo Statuto piemontese -

58 · 59 •

ivi, Voi. XI pp. 146-148. ivi, Voi. XVpp. 37, 108-109, 144.


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un nuovo Patto Nazionale, con il quale sono accertate e fatte nonna di-legge le tradizioni, la fede comune e le tendenze di tutti gli italiani. . Invece "la Francia imperiale, già dominatrice dell' Alpi frapposte, occupa e vieta all'Italia il suo centro nazionale, Roma. L'Austria ha il Trentino e l'Istria. Da Nizza fino al Quarnaro, che Italia chiude e i suoi termini bagna, la frontiera italiana è schiusa a Governi stranieri". E per quanto riguarda l'interno, l'Italia rimane il caso - unico nella storia - "d'un popolo che sorge muto, che vuol essere Nazione e non dichiara l' insieme dei principi in virtù dei quali è chiamato ad assumerne.il nome". Gli indirizzi politici e i provvedimenti del governo aggravano la situazione e alimentano il malcontento del popolo, a cominciare da quelli concernenti 1' Esercito, che sono ispirati da criteri antitetici a quelli auspicati dallo stesso M.; un Esercito "numeroso, pretoriano, separato dal popolo, presto a spegnerne nel sangue le aspirazioni", quindi sviato dalla sua missione naturale. Senza alcun vantaggio per il Paese, esso esige una fortissima spesa: "e dacché ogni somma, comunque vasta, è pur limitata e non basta a che tutti i componenti l'esercito abbiano compenso ragionevole alle fatiche e ai pericoli. è ripartita in grossi stipendi ai capi, che importa serbarsi a ogni patto devoti, e in misere, insufficienti paghe ai soldati''. . Poiché l'esercito può reprimere solo le ribellioni aperte, per impedire le ribellioni tacite che alimentano le altre, "esercitare influenza sulle elezioni municipali, maneggiar gli animi nelle province" si rende necessario a uno Stato con questi mali un altro esercito civile: la numerosa burocrazia statale, che costa anch'essa carissima e nella quale, come nell' altro esercito, sono pagate bene solo le cariche più alte. Ai primi due si aggiunge poi un terzo esercito, "esercito di gendarmi, di birri, di delatori e di spie, di gente corrotta e che genera corruzione", il quale pesa fortemente anch' esso sull'erario, tanto più che si tratta di denaro da maneggiare nel segreto e a discrezione di pochi. Per queste ragioni e molte altre, le finanze dello Stato versano in grave dissesto, al quale si pone rimedio solo "con un continuo accrescimento di tasse che uccidono il presente, e di prestiti che uccidono l'avvenire" . Decisi d' urgenza, questi ultimi sono conclusi a condizioni sempre più onerose, che a causa della diminuzione di fiducia nello Stato italiano all'interno, sono imposte generalmente da capitalisti stranieri ... Infine le tasse, sempre più esose, richiedono un quarto esercito anch'esso parassitario di esattori. In tal modo, per M. la questione militare non è - come oggi - che un aspetto della questione dello Stato, a sua volta legata a una grave crisi politico-sociale.

Le guerre piemontesi e italiane dal 1855 al 1866: progetti, riflessioni cri-

tiche e risvolti geostrategici Se si tiene conto degli orientamenti politico-strategici generali prima sommariamente descritti, l'atteggiamento di M. nei confronti della guerra di


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

Crimea e di quelle di indipendenza (1859 e 1866) non presenta elementi nuovi ed è persino prevedibile. Non va tuttavia trascurato che, specie in occasione delle guerre del 1859 e 1866, la sua visione geostrategica - anche se risente troppo dei vecchi, conclamati principi idealistici e anzi utopistici - non di rado risulta assai più centrata e lungimirante di quella dell' establishment politico-militare del momento, con particolare riguardo all'opportunità e necessità di non investire frontalmente il Quadrilatero e di estendere la guerra anche oltre i confini naturali nazionali. Con previsioni pessimistiche e non sempre azzeccate, in occasione della guerra di Crimea 1854-1856 M. dimostra la sua ostilità quasi patologica alla politica di Napoleone ID e la sua opposizione assoluta a guerre che non siano quelle nazionali. Nel 1854 prevede (a torto) la sconfitta franco-inglese in Crimea e lo scatenamento da parte di Napoleone ID, per rivalsa, di una guerra contro la Germania, che costringerebbe l'Austria a intervenire. Quindi, invita i suoi seguaci a sfruttare il momento propizio e iniziare l'insurrezione: "conviene insorgere, prima che l'Italia divenga teatro d'una guerra napoleonica o regia..."(,(). Il 16 febbraio 1855 indirizza ai soldati piemontesi in partenza per la Crimea una lettera, che inizia con la frase "quindicimila tra voi stanno per essere deportati in Crimea" e dipinge a tinte estremamente fosche la disorganizzazione e la situazione logistica delle forze franco-inglesi" che assediano Sebastopoli - invero difficile61 - prevedendo una prossima vittoria russa contro truppe sfinite e decimate dalle epidemie. Secondo M. i governanti e generali stranieri, anziché attaccare la Russia nell'unico suo punto vulnerabile, la Polonia, "s'ostinano a confinare la guerra in una estremità dell'Impero, sopra un breve spazio di terra, tra il mare ed il nemico, dove non può essere che carneficina". I soldati piemontesi non vanno a morire per la Patria, per la causa nazionale: in Crimea "si combatte, a parole, per proteggere l'indipendenza dell'Impero ottomano; nel fatto, per interessi mercantili dell'Inghilterra, e per mire politiche dell'Imperatore dei Francesi: anziché contro l'Austria, le truppe piemontesi combattono a fianco dell'Austria e per volere del1'Austria, visto che "stretto il trattato del 2 dicembre, l'Austria chiese la diminuzione dell'esercito sardo, o l'occupazione della vostra Alessandria, o l'invio di 20.000 fra voi in Crimea. Il vostro governo si arrese, e firmò il terzo patto". La Crimea è una guerra "senza scopo" e "immorale" anche per l'Inghilterra, il cui Governo "dopo aver tradito l'Italia in mano ai suoi oppressori nel 1814, dopo aver freddamente approvato l'assassinio di Roma [cioè l'intervento militare francese per abbattere la Repubblica "' 1 • ·

ivi, Vol. IX pp. 58-63. Tale situazione era oggettivamente molto difficile, specie per quanto riguarda le condizioni igieniche e il clima, che hanno causato la diffusione anche tra le truppe piemontesi del colera, con mortalità assai elevata (Cfr. F. Botti, La logistica... Cit., Voi. I capo IX, pp. 79-85).


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Romana -N.d.a.] nel 1849, ha ora vibrato - inefficacemente, io confido - un colpo mortale al Partito nazionale italiano, alleando Piemonte e Austria"62 • Se si tiene conto dei suoi orientamenti generali, anche l'atteggiamento di M. nei confronti della guerra del 1859 è del tutto prevedibile: si tratta di una guerra francese e non italiana, voluta da Napoleone ID per mantenere legato a sè l'esercito e creare un diversivo alla difficile situazione interna, sostituendo all' influenza austriaca in Italia quella francese. Il Re di Sardegna cerca solo di approfittarne, estendendo i suoi domini con una guerra che, come quella del 1848, nel suo intento rimane sempre piemontese e non italiana. Fin dal suo inizio, M. prevede perciò che la guerra avrà termine con una pace che (come sarà poi quella di Villafranca) sarà conclusa all'insaputa dei patrioti, tradendo le speranze per l'unità italiana e le aspirazioni per liberare anche il Veneto. Di fronte a questa situazione, M. si oppone come sempre alla realpolitik piemontese: "non si caccia dall'Italia l'Austriaco senza il concorso di tutte le forze italiane. Non s'hanno tutte le forze italiane, se non combattendo in nome di tutti, dichiarando che si vuol fondare Unità di Nazione. Non si combatte per Unità di Nazione, seguendo un Re che non può rovesciare il Papato, e un despota straniero che intende a fondare in Italia un trono per un membro - Mural o Napoleone Bonaparte non monta - della propria famiglia"63 • Senza appello la condanna del progetto politico di Napoleone ID per l'Italia, mirante a creare - secondo "il deriso" progetto di Gioberti - una Confederazione Italiana "sotto la presidenza irresponsabile del Papa che, fuggente davanti alla maestà del popolo, rientrò in Roma al fulgore delle bombe straniere". Il programma dei repubblicani deve perciò essere quello di insorgere specie nel Lombardo-Veneto, al Centro e al Sud, armarsi, allargare i moti scoppiati in Toscana, "italianizzare" la guerra e trasformarla in guerra nazionale, proseguirla fino alla cacciata dell'Austria dal Veneto: "i repubblicani faranno 1a parte loro contro il nemico comune. Ma essi non possono prendere impegni con altri che col Paese; essi non possono accettare un programma di guerra che ignorano; essi debbono serbare intatta la libertà di condotta, onde provvedere, a seconda della coscienza, ai casi della Patria a misura che si svolgeranno"64 • Occorre sventare i disegni di Cavour, che pur di sfuggire alla necessità di promuovere la rivoluzione e allearsi con essa, "mendica l'alleanza anti-italiana del Bonaparte". E inoltre, i giovani che nelle loro regioni e città avrebbero potuto suscitare l'insurrezione, sono stati esortati dal Governo piemontese ad abbandonarle, a concentrarsi in Piemonte e a arruolarsi nell'esercito sardo [come meglio vedremo in seguito, Garibaldi invece collabora a questo progetto - N.d.a.].

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" M.

G. Mazzini, Scritti Editi e Inediti (Cit.), Vol. IX p. 88. ivi, capo X p. 213. ivi, p. 192.


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I destini d'Italia dipendono da Roma, da Napoli e dalla condotta delle milizie volontarie: "Roma rappresenta l'unità della Patria; Napoli e i volontari possono costituirne l'esercito". Se verrà lasciata all'arbitrio dei governi, la guerra finirà con un nuovo trattato di Campoformio o con una divisione dell'Italia che si limiterà a sostituire i padroni nuovi ai vecchi. La disciplina, che viene predicata come segreto della vittoria proprio dai moderati responsabili del fallimento delle insurrezioni del 1848, all'atto pratico non è, come essi la intendono, che servilità e inerzia fatale di Popolo. La disciplina, come noi la intendiamo, può esigere una forte unità per tutto ciò che concerne l'andamento della guerra regolare; può esiger silenzio su tutte le questioni di forma; ma non che l'Italia sorga o giaccia a seconda dei cenni d' un Dittatore [Vittorio Emanuele II - N.d.a.], senza programma, e d' un Despota straniero [Napoleone llI - N.d.a.], e non manifesti altamente la sua volontà d'essere libera e una65 • Gli avvenimenti prendono una piega totalmente diversa da quella che avrebbe voluto M., la cui influenza su di essi è nulla. Nel 1859 si combatte una guerra di soli eserciti come quella del 1848, che si conclude con l'umiliante ·pace di Villafranca tra Francia e Austria senza neppure invitare alle trattative il governo piemontese, e con l'altrettanto umiliante cessione della Lombardia al Piemonte non da parte dell'Austria, ma della Francia che a sua volta la riceve dall'Austria. M. critica aspramente anche le popolazioni della Toscana e dell'Emilia insorte, che anziché costituire un ]oro governo insurrezionale come embrione di governo insurrezionale nazionale, si danno subito al Piemonte. Le vittorie franco-piemontesi sono dovute, a suo giudizio, soprattutto agli errori strategici dei comandanti austriaci, che all'inizio mantengono divise le loro forze e attaccano prematuramente battaglia a Solferino con un fiume alle spalle, quando "dalla posizione di Valeggio essi potevano dominare i soli due punti nei quali il passaggio del Mincio è meno difficile". Cosa rimarchevole, M . vede inconsapevolmente nell'esercito austriaco del 1859 i riflessi e i limiti delle teorie dell'Arciduca Carlo di cinquant'anni prima (Vol. I, cap. Il). I soldati austriaci - osserva - sono valorosi e disciplinati, ma mancano dello slancio e dell'audacia dei francesi e dell'entusiasmo patriottico degli italiani; gli ufficiali, ben istruiti e addestrati, sono però incapaci di andare - se e quando occorre - al di là degli ordini; i generali, conservatori e anziani, "sono avvezzi a guerre maneggiate dai lontani cenni del Consiglio Aulico, mancano di potenza iniziatrice, hanno scienza, non genio; prudenza, non ardire; regolarità quasi pedantesca, non energia e rapidità di concetto".

65 ·

ivi, p. 306.


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Non accetta la pace di Villafranca, che supera le sue pessimistiche previsioni: invita perciò - ancora una volta inutilmente - l'Esercito a protestare e le popolazioni a insorgere. E per combattere i nocivi riflessi internazionali della guerra e i tre imperialismi reazionari - francese, austriaco e russo che schiacciano l'Europa continentale, propone all'Inghilterra di uscire dal suo isolamento e dalla neutralità, mettendosi alla testa dì una lega dei principali Stati europei, la quale "si dichiarasse mallevadrice dell'indipendenza e della libertà di ogni Stato, per tutto ciò che concerne le sue faccende interne, e presta a proteggere, anche a patto di guerra, quella libertà e indipendenza contro qualunque invasore"("'. Una siffatta organizzazione internazionale troncherebbe alla base i disegni dell'imperialismo, e con le ingenti forze che potrebbe mettere in campo dissuaderebbe chi volesse intraprendere nuove guerre, isolando Napoleone ill. Pur mutando le circostanze, i criteri di base ai quali M. si ispira in occasione della guerra del 1866 sono gli stessi da lui suggeriti per la guerra del 1859. Fin dal 1864 egli dimostra - contro le argomentazioni dei moderati e degli attendisti - che dei 500.000 uomini circa che compongono l'esercito austriaco, potrebbero esserne schierati contro l'Italia solo 170.000; a questi sarebbe possibile contrapporre un esercito italiano dì almeno 300.000 uomini (dei quali 30.000 volontari garibaldini), più gli insorti del Veneto e Trentino, sui quali si può contare. Inoltre prevede (a torto) che avverranno certamente numerose diserzioni tra le varie nazionalità dell'esercito austriaco, e prevedibili agitazioni in Ungheria, in Galizia e in Serbia; di conseguenza, la vittoria contro l'Austria sarebbe "certa e immancabile". M. suggerisce anche 1a linea d'azione strategica e ordinativa da seguire: non v'affidate per quel disegno ai vecchi generali: non sono da tanto. Consigliatevi con uomini nuovi, con ufficiali non immiseriti nelle pedantesche teoriche delle vecchie scuole: abbondano e potremmo, occorrendo, indicarli. Ponete a cardine della guerra che il Quadrilatero si vinca fuori, al di là del Quadrilatero. Costringete l'Impero a difendersi: sarà perduto. Non dite che gran parte dell' esercito v'occorre pel Mezzogiorno. Mobilizzate centomila uomini di Guardie Nazionali, e affidate loro, alle vostre spalle, la custodia delle città e delle fortezze. Ordinate, come spesso vi dicemmo, il Paese [meridionale] stesso a difesa contro i masnadieri ...67 • E già nel 1865 enuncia il programma: la guerra all'Austria ha bisogno di tutti gli elementi di forza esistenti nella Nazione: dell'esercito, come dell' insurrezione e dei volontari. Aiutare rapidamente, potentemente, universalmente, senza suscitare

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ivi, p. 355. ivi, pp. 22-23.


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questioni generatrici di discordia, una iniziativa Veneta, perché il Veneto emancipato si unisca all'Italia: è questo tutto il programma. Solamente è necessario vincere, e vincere in modo che dia all'Italia coscienza di sè.

La successione "pilotata" degli avvenimenti per M. dovrebbe essere: insurrezione nel Veneto - risposta di nuclei di volontari italiani e manifestazioni nel Paese - intervento dell'esercito regolare. Nei tre articoli La guerra, Le due guerre, Missione italiana - vita internazionale (14 maggio 23 giugno 1866)68 , premesso che "il Paese deve esigere che la guerra si faccia" e che "la guerra per l'emancipazione del Veneto fu finora dovere; oggi è necessità", M. ne indica altri caratteri. DEVE ESSERE ESCLUSIVAMENTE ITALIANA. Questo perché - come dimostra l'arrogante tutela di fatto esercitata da Napoleone III su11' Italia dopo il 1859 - il concorso straniero si paga sempre molto caro. NESSUNA ALLEANZA CON LA PRUSSIA. Il governo prussiano ha violato i principi di libertà e democrazia sia all'interno che nei rapporti internazionali (alleanza con la Russia contro l'insurrezione polacca e guerra di Danimarca del 1864). Oltre che immorale, un'alleanza sarebbe un errore e un pericolo: un errore, perché il governo prussiano, inviso ai tre quarti delle popolazioni germaniche, renderebbe impopolare anche la causa italiana; un pericolo, perché è costretto a guadagnarsi la benevolenza della Confederazione Germanica, quindi ostacolerebbe le nostre operazioni nel Trentino, in Tirolo e in ogni altro territorio sul quale vi siano pretese germaniche. Le alleanze si fanno solo con le forze che non è altrimenti possibile avere dalla nostra parte; in tutti i casi, anche senza alleanze una guerra della Prussia all' Austria distrarrebbe la metà delle forze austriache dall'Italia. ALLEANZA CON I POPOLI OPPRESSI DALL' AUSTRIA (Ungheresi, Boemi, Serbi, Slavi meridionali, "popolazioni bipartite fra l'Impero austriaco, e il turco"). Questo perché "là stanno le sorti d'Europa e le vostre: là vive il segreto di un'epoca che potete, volendo, far vostra". GU ERRA NAZIONALE DAVVERO, CIOÈ D' ESERCITO E DI VOLONTARI. In questa occasione M. espone compiutamente il suo punto di vista sui volontari, distinguendoli dall'Esercito e riservando ad essi il ruolo di esclusivi rappresentanti della volontà popolare (anche se - osserviamo noi - l'esercito è composto in gran parte da contadini, cioè dalle autentiche masse popolari, mentre i-volontari non sono che un élite). Il governo intende limitarne il numero, e il Ministro de11a guerra dichiara di non volere la leva in massa; per M. invece il loro numero deve essere illimitato: "chi ha il diritto di imporre confini all'entusiasmo del Paese per la propria salute, pel proprio onore?". D'altro canto, i volontari non possono essere considerati una semplice unità combattente dell'Esercito: non si può pretendere da queste

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ivi, capo XIV pp. 181-211.


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truppe speciali un'adesione passiva, con giuramenti e patti riguardanti questioni estranee alla condotta del1a guerra: perciò "siano i volontari liberi da ogni vincolo, fuorché da quello che la necessaria unità del disegno di guerra esige". Il loro ruolo è particolarmente importante, non solamente perché il terreno, sul quale, se la guerra è saviamente condotta, dovrà decidersi la vittoria, è mirabi1mente adatto alla libera, indipendente, spedita, impreveduta azione dell'elemento volontario - non solamente perché è necessario utilizzare le forze e il coraggio di quanti, presti al sacrificio di sé, riluttano nondimeno a sommergere le loro individualità nelle rigide, cieche discipline dell'Esercito - ma perché i volontari rappresentano la spontaneità del Paese, perché danno alla guerra il battesimo popolare (sic), perché accertano l'Esercito che g1i è riserva onnipotente la Nazione, perché mettono sulla bilancia il caro e temuto nome di Garibaldi, perché sono pegno vivente ai popoli che si combatte, non so1amente in virtù d'un cenno, forse d'un interesse dinastico, ma in virtù d'una idea ..... "NON LIMTTAZTONI IMPROVVIDE, OBLIQUE 0T LIBERTÀ". M. esorta il governo a non soffocare, in nome della disciplina di guerra, l'entusiasmo popolare: "il grido di guerra pel Veneto è la più possente arma vostra contro ogni nemico [...]. Non inceppate le pubbliche manifestazioni, 1e ordinanze delle Associazioni: da ognuna di quelle escirà un incoraggiamento ai combattenti, una voce che infonderà dubbi e terrore nel nemico. Non esigete che un popolo combatta al buio ...". Gli obiettivi geopolitici e geostrategici della guerra - la prima dell'Italia unita - indicati da M ., non si limitano alla cacciata dell'Austria dal Veneto e alla conquista di sicuri confini naturali a Nord-Est. Oltre ad essere decisamente troppo ambiziosi, in realtà essi si avvicinano assai a quella real-politik che anche in questo caso M. mostra di sdegnare, là ove scrive che si deve scendere in campo "in nome non di un interesse, ma di un principio". Si tratta - egli scrive - di provocare ]a caduta dell'Impero austriaco e al tempo stesso di quello turco, sia perché "le due anomalie staranno o cadranno insieme", sia perché "uno sguardo alla nostra posizione geografica e la serie dei nostri ricordi storici indicano come gran parte delJa nostra futura vita economica sia intimamente connessa colle regioni orientali". L'Italia deve cogliere l'occasione "per inaugurare queJla politica eh' io chiamerò nazionale, ~ per ritrarne vantaggi decisivi, immediati". A tal fine

è indispensabile una stretta alleanza coi tre elementi, E11enico, Slavo-meridionale e romano. Porgendo ad essi una mano amica e · aiutandoli a comporsi in Nazioni, l'Italia promuoverà il moto ungherese e il risorgimento della Polonia, e s' aprirà ad un tempo la via dell'Oriente. Delle tre grandi comunicazioni fra 1'Europa e l'Asia - quella del Bosforo, del Mar Nero e del Caspio, quella dell'Eufrate, di Bagdad e del Golfo Persico, e quella che da Suez attraverso il Golfo Persico conduce ad Aden - le prime due saranno un giorno


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dominate dall'elemento Ellenico e dallo Slavo, la terza richiede ordinarie amichevoli relazioni tra noi e l'Egitto. Il costituirsi dei tre elementi accennati in nazioni, significa il disfacimento dell'Impero Austriaco e del Turco in Europa.

L'obiettivo strategico dell'esercito deve perciò spingersi molto al di là del Veneto. Applicando il principio che "alla gloriosa marcia da Marsala al Volturno deve tener dietro la più gloriosa dalle Alpi al Danubio" (Langiewitz), esso non deve essere Verona. Mantova, Venezia, ma Vienna. E agli italiani e ai loro governanti e generali M. indica l'ardita linea d'azione per realizzarlo: movete [... ] direttamente su Vienna, e scendete ad un tempo sulla costa orientale dell'Adriatico. Vi preceda un manifesto che annunci l'ora dell'emancipazione alle popolazioni aggiogate sotto l'Austria e il Turco, le chiami all'avvenire accennato e offra, base dell'insurrezione, l'alleanza italiana. Ponete antiguardo alla doppia mossa una Legione ungarese e una Legione polacca. Additate agli Slavi meridionali Carlopago, Zara, Ragusa, Cattaro, Dulcigno; e dite loro, impossessandovi di quei porti, che li serbate, prezzo dell'insurrezione, per essi. 200.000 uomini dell'esercito sulla via d'Udine e Laybach; 50.000 volontari cacciati ad operare tra gli slavi del Mezzodì; il nome di Garibaldi e una parola di libera, potente, audace vita italiana bastano a farvi capi del riordinamento europeo, e schiudere alla Patria vostra un avvenire più grande delle due grandi epoche che costituiscono il vostro passato.

Scendendo ancor più nel dettaglio, M. esamina anche le due possibili opzioni strategiche del nemico e i conseguenti provvedimenti da adottare, sia nel caso che i 130.000 uomini dell'esercito austriaco (questa è la forza nemica che calcola) si ritirino per la via del Tirolo o per quella di Udine davanti alla nostra invasione, sia nel caso che le forze nemiche si organizzino a difesa del Veneto. Nella prima ipotesi, l'esecuzione del concetto strategico riesce "agevole e semplice" (ma in effetti - noi riteniamo oggi - è semplicistica): "ponete fra il Po e l'Oglio un campo di 45.000 uomini , tra Guardie Nazionali e soldati; un altro di 25.000 in Ferrara; un corpo d'osservazione di 65.000 sul Veneto; cacciate i 50.000 volontari e Garibaldi nei paesi slavi meridionali; e seguite col grosso dell'esercito fino a Vienna il nemico" (ma perché il nemico si dovrebbe subito ritirare fino a Vienna, senza nemmeno tentare una difesa sulle forti posizioni delle Prealpi e Alpi Orientali, che poi saranno teatro della prima guerra mondiale?). Nel caso che l'esercito austriaco rimanga nel Veneto, "aumentate allora il primo campo destinato a proteggere la Lombardia sino a 90.000 uomini (45.000 Guardie Nazionali e 45.000 soldati regolari); aumentate il secondo, destinato ad assicurarvi sul Po fino a 55.000 uomini (25.000 Guardie Nazionali e 30.000 soldati): v'avanzano, per compiere il disegno


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[cioè per avanzare verso Vienna - N.d.a.] 275.000 soldati, lasciando i 50.000 volontari all'impresa tra gli slavi del mezzodì". In tutti i casi, secondo M. si può contare su una sicura superiorità di forze. L'Austria, costretta a far fronte a Nord a 300.000 prussiani e a proteggere i confini dell'Est con la Russia, non potrà schierare più di 200.000 uomini contro l'Italia; a questa forza noi possiamo opporre 350-400.000 uomini, più 50.000 volontari almeno e le forze insurrezionali del Veneto e del Trentino. More solito, nei suoi calcoli sono completamente assenti i costi economici, le modalità per reperire e istruire i Quadri e le misure logistiche per armare, sostenere, far muovere e combattere una siffatta massa. È però lungi dal farsi illusioni: giudica gli uomini dai quali dovrebbe dipendere il disegno strategico da lui suggerito non all'altezza del compito, mentre gli italiani "hanno già l'eroismo, non ancora il concetto delJa sola lotta che sia degna dei nostri fati". Perciò "la guerra si trascinerà, per entro al Quadrilatero o altrove, immemore della questione politica, improvvida dell'avvenire, nel circolo angusto di mosse che sarà segnato da una ispirazione non italiana e percorso da una scienza puramente militare e nella quale l'ingegno tattico predominerà sul genio strategico". Tanto pili che l'attacco frontale attraverso il Quadrilatero è suggerito proprio dalla Francia... L' esito delle battaglie di Custoza e Lissa (nelle quali oltre alla mancanza di "genio strategico" emerge, per la verità, anche la mancanza di "ingegno tattico"), va al di là di quest'ultime pessimistiche previsioni. Naturalmente M. ne attribuisce tutte le responsabilità al governo e alla monarchia, che pure - ricorda - avevano avuto cinque anni per prepararsi e avevano ottenuto tutto ciò che avevano chiesto. Le accuse che M. rovescia sul governo sono in gran parte centrate, anche se - forse - calca un po' troppo la mano a proposito del trattamento dei volontari. La monarchia, egli afferma, rifiutò dapprima ogni aiuto di volontari; poi, costretta dall'agitazione pubblica, li accettò limitandoli a 20.000; poi, nuovamente minacciata, ne raddoppiò il numero, ma negando i bersaglieri e le guide elementi indispensabili ad ogni fazione guerresca; - poi concesse, purché li comprassero del loro, alle guide il cavallo, ai bersaglieri la carabina; e frammisti a disegno d' elementi sospetti, guidati in parte da ufficiali superiori inetti e malvisi, armati di vecchi fucili di portata tre, quattro volte inferiore a quella delle carabine nemiche, li mandò, con intendimento di screditarli e mostrarli inefficaci, a cozzar colle rupi, e richiamandoli quando inoltravano, per mandarli più dopo a rioccupare posizioni afforzate .. 69 •

Altre colpe sono quella di aver negato a Garibaldi il comando della flotta da lui chiesto; non aver voluto occupare Trieste, "che fu, e il governo

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ivi, p. 225.


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lo seppe, per oltre a venti giorni vuota di ogni soldato e affidata a una Guardia civica per tre quarti italiana"; non aver appoggiato la sollevazione degli Slavi del Sud, che gli era stata proposta dai loro capi. Infine, gli errori strettamente operativi: tenne inerte la flotta, finché a pacificare e deridere a un tempo il grido unanime del Paese, la mandò sprovveduta d'ogni cosa indispensabile a vincere e comandata da un Capo noto a tutti per assoluta inettezza [l'amm. Persano - N.d.a.], all'inutile impresa e alla sconfitta di Lissa; - e, ricusando ogni consiglio nostro, della Prussia e dei migliori fra i suoi capi militari, per obbedire a quello venutole da Parigi, cacciò, capitanata da chi fu principale autore della rovina del 1848 [il generale La Marmora - N.d.a.l, parte dell'esercito a una impresa impossibile per entro il Quadrilatero, dove un favoloso disordine nelle mosse secondarie e l'assoluto difetto d'un insieme nelle marcie e nelle operazioni affrettarono il rovescio di Custoza. Poi, ingigantito per paura o cagioni arcane il rovescio, posò inconcepibilmente sull'armi, finché, iniziati gli accordi, mandò Cialdini a invadere dove non eran nemici, richiamò - a poche miglia da Trento - Medici, solo tra i generali dell'Esercito che accennasse seriamente a una importante operazione di guerra.

Subito dopo le due sconfitte destinate a pesare così sinistramente e per lungo tempo sulla nostra storia nazionale, la linea di M. è prevedibile: continuare la guerra, non accettare di concludere la pace subito e in condizioni così sfavorevoli, tanto più che le forze di terra e di mare non hanno subìto perdite tali da minare la loro capacità combattiva. Mentre si sta concludendo la pace scrive: non so - è dubbio tremendo e non oso scrutarlo a fondo - se tre secoli di tirannide austriaca, spagnola, francese e papale abbiano spenta, o soltanto assopito l'anima dell'Italia, e se ciò che vediamo faticosamente compiersi sia veramente il risorgere di un popolo o un moto di cadavere galvanizzato da influenze straniere, senza vita, senza coscienza di sè, e destinato a ricadere nella immobilità della morte non sì tosto cessino quelle influenze: so che una pace per la quale si riceva da noi, come elemosina di seconda mano, Venezia e si abbandonino al nemico il Trentino, i passi de11' Alpi'Friulane e l'Istria, sarebbe disonore eterno e rovina: so che pace sì fatta sta per segnarsi: so che abbiamo una popolazione di 22 milioni, 350.000 uomini in armi, oltre a 30.000 giovani volontari sul campo, Garibaldi a loro capo, generali d'esercito che erano pochi anni addietro soldati della rivoluzione e giurati combattenti per l'altrui libertà e per la propria, e che né da esercito, né da volontari sorge un fremito generoso che in nome dell'Italia dica: potius mori quam foedari: tutto fuorché il disonore [...]. È possibile che un paese intero si rassegni a cadere dove un individuo non cade senza uno sforzo supremo, nel fango dell'impotenza o della codardia, davanti alle Nazioni che guardano ad esso? È possibile che l'Italia accetti di .,..


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essere additata in Europa come la sola nazione che non sappia combattere, la sola che non possa riavere il suo se non per beneficio d'armi straniere o concessione umiliante dell'usurpatore nemico? 10

Oltre che sull'aspetto morale di queste sconfitte senza reazione, M. insiste molto sulla perversa eredità geostrategica di una pace, che segna la rinuncia a rivendicare territori autenticamente italiani e costringerà l'Italia a iniziare in condizioni di svantaggio i futuri conflitti, "lasciando anzi tratto al nemico il terreno e le posizioni che devono servirgli di base e dargli le più forti probabilità di vittoria". Segue l'indicazione dei territori che dovranno essere italiani: le Alpi Giulie e Carniche; l'Alto Friuli; il litorale istriano (compimento di quello veneto"), l'Istria, "necessaria all'Italia come sono necessari i porti della Dalmazia agli slavi meridionali", la "Postonia o Cassia" (al momento dipendente da Lubiana). Nostro è anche il Trentino fino alla displuviale delle Alpi Retiche, e nostre sono le acque che ne discendono fino al Po; tutto vi è italiano, compresa la lingua: "su 500.000 abitanti solo 100.000 sono di stirpe teutonica, non compatti e facili a italianizzarsi". Dal punto di vista geostrategico, queste posizioni secondo M. hanno importanza vitale per Ja sicurezza e l'indipendenza dell'Italia. Proprio dai passi dell'Alto Friuli nel 1848 sono scese le forze austriache che ci hanno sconfitti in Lombardia e hanno assediato Venezia, mentre l'Istria "è la chiave della nostra frontiera orientale, la Porta d'Italia dal lato dell' Adriatico, il ponte che è fra noi, gli Ungaresi e gli Slavi. Abbandonandola, quei popoli rimangono nemici nostri: avendola, sono sottratti ali' esercito nemico e alleati del nostro"71 • L'altra porta d'Italia è il Trentino: non dimenticate che monti, fiumi, valli di quelle Prealpi sino al lago di Garda formano un vasto campo trincerato [eretto] dalla natura chiave del bacino del Po - che l'Alto Adige taglia tutte le comunicazioni tra il nemico e noi; e ad essere sicuri bisogna averlo; che là si concentrano tutte le vie militari conducenti per la valle del Toce e il Tonale a Bergamo e a Milano, pel Sarca e pel Chiese a Rocca d' Anfo, per la riva sinistra dell'Adige a Verona, per le sorgenti del Brenta a Bassano - che il Trentino è un cuneo cacciato tra la Lombardia e la Venezia, non concedente che una zona ristretta alle comunicazioni militari dirette fra quelle due aJi deJI' esercito nazionale che mentre il nemico, giovandosi deH'Istria e dei passi dell' Alto Friuli da voi concessi, opererebbe a Oriente sul Veneto, gli rimarrebbe aperta l'invasione a Occidente pel passo di Colfredo, per la Valle d'Ampezzo e per quella d' Agordo: - che tutte le grandi autorità militari, fino a Napoleone, statuirono unica valida frontiera all'Italia esser quella segnata dalla natura sui vertici che separano le acque del Mar Nero e quelle del seno Adriaticon. 10

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ivi, pp. 212-213. ivi, p. 216. ivi, p. 217.


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Accettando una siffatta pace, l'Italia verrebbe condannata a essere potenza di terzo rango in Europa e avrebbe sospesa sul suo capo la spada di Damocle dell'invasione straniera, il che significherebbe "impossibilità di sciogliere o scemare l'esercito; impossibilità d'economia, incertezza d'ogni cosa, assenza d'ogni fiducia per parte dei capitalisti e d'ogni sicuro sviluppo di vita industriale, diminuzione progressiva di credito, accrescimento progressivo di disavanzo, rovina economica e fallimenti", crescenti agitazioni e discordie, guerra civile "in un tempo più o meno remoto, ma inevitabile"73. Un catastrofismo che per fortuna la storia non giustificherà del tutto; ma ciò non toglie che la valutazione geostrategica dei pericoli che presenta il confine orientale sia sostanzialmente esatta. La Strafe - Expedition del 1916 lo dimostra; cosl come è stata sostanzialmente confermata dalla storia la previsione di M. che "la pace qual è ci condanna a una nuova guerra, e la guerra, non giova illuderci, troverà l'Austria più forte e compatta di prima". Anche l'annessione della Bosnia-Erzegovina nel 1878 è in certo senso prevista dal M., là dove afferma che l'Austria, sconfitta dalla Prussia e .respinta dalla Confederazione germanica ormai dominata dal Kaiser vittorioso nel 1866, cercherà compensi ad Oriente, verso le popolazioni slave ancora soggette alla Turchia, e avrà dalla sua parte gli Slavi meridionali, " disperati ormai d'ogni aiuto italiano e certi di signoreggiare l'Impero".

Il banditismo, perché? Modo di combatterlo Dal 1848 al 1870 M. e il suo movimento rappresentano, in sostanza, l'opposizione politica e parlamentare all' establishment che governa il Paese: di qui l'interesse per il giudizio di M. su un fenomeno persino oggi soggetto a controverse interpretazioni. Il banditismo meridionale viene da lui presentato anzitutto come conseguenza politico-sociale del "fusionismo" piemontese e della mancanza di un "Patto Nazionale" (cioè di una nuova Costituzione) alla quale abbiamo prima accennato, anche se - diversamente da taluni studiosi di oggi - egli è ben lungi dal vedere nei "masnadieri" (cosl li chiama, senza complimenti) i generosi difensori dei diritti del Sud conculcati dall'occupazione militare piemontese. In altre parole, si tratta per M. dell'altra faccia di una politica della monarchia e dei governi moderati, che ha impedito all'Italia non solo di realizzare l'unità e l'indipendenza nazionale con onore e con l'apporto di tutto il popolo, ma anche di completarlo con nuovi strumenti di governo. Naturalmente, anche per M. la semplice repressione militare non basta. Nel gennaio 1861, quando il malcontento dell'Italia Meridionale comincia a manifestarsi, invita i1 governo a cambiare politica: invece di "diffidare e reprimere", dovrebbe "secondare e guidare"'4. Dovrebbe far suo il pro73. ivi, pp. 217-218. 74. ivi, capo XI pp. 254-256.


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gramma di Garibaldi, e "invece di usar tutte le arti possibili a disfarne il temuto esercito, conquistarlo accrescendone il numero e ridonandogli il Capo". Inoltre bisogna evitare di "chiamare a funzioni eminenti, a segretariati regi, gJi uomini [prima] costretti dal popolo a rassegnare l'ufficio". Con una diversa politica, «voi non dovrete più temere manifestazioni di Guardia Nazionale contro i vostri impiegati in Palermo, elezioni dubbie nelle Provincie napoletane, linguaggio ostile di stampa, agitazioni di popolo malcontento. E potrete, invece di accentrare il fiore del vostro esercito nel Sud - come se là, e non oltre il Mincio, minacciasse il nemico - dire a due terzi del Paese: proteggete l'ordine da voi stessi; e fare dell'altro terzo un campo per la libertà di Venezia». Se l'unità italiana - scrive nel giugno 1861 - è minacciata da un malcontento, "che può domani o doman l'altro prorompere in moti locali e alimentare la trama dei nemici della nostra libertà", ciò è dovuto anzitutto al fatto che l'impresa di Garibaldi nel Sud è stata arrestata senza aver potuto compiere l'unità nazionale: "una rivoluzione non può arrestarsi a mezza via senza scapito della propria vitalità"75 • E a fine 1863 dipinge a tinte fosche la grave situazione dell'intero Paese, tale da far pensare a una parte degli italiani che sarebbe meglio tornare all'ancien regime. Di questa crisi, il banditismo meridionale è solo una delle manifestazioni:

il malcontento è gravissimo nel Paese e crescente: poco meno che universale nelle terre napoletane, universale in Sicilia, e se non prorompe in insurrezione è dovuto agli uomini sospetti, calunniati di parte nostra: largamente diffuso in Lombardia e se vi rimane più tacito, è dovuto agli austriaci accampati sul Mincio: serpeggiante nel centro d'Italia e nelle stesse 'province che sole possono credersi liberate dall'armi regie [ ...]. Poche centinaia di masnadieri sfidano nelle province meridionali le mosse di settanta e più mille soldati. Le leve non si compiono in alcune parti d'Italia se non coi rigori dello stato d'assedio [... ]. Voi [rivolto al governo e ai moderati - N.d.a] ci additate i renitenti alla leva e il masnadierume del mezzodì. Ma poi che voi tacete deliberatamente dell'unità nazionale e delle vie che vi menano, cos'è la leva pei chiamati se non il distacco dalla famiglia e da ogni cosa più cara per esulare, sotto disciplina severissima e privazione, in lontane terre, senza scopo finché d'essere un dì o l'altro cacciato in piazza a reprimere ogni aspirazione di cittadini e meritarne l'odio? Se aveste detto agli italiani: "noi vogliamo inalberare la bandiera d'Italia:Sul Campidoglio e San Marco: abbiamo, per questo, bisogno d'uomini: compita l'impresa, la coscrizione sarà abolita e il Paese armato tutto e ordinato militarmente a difendersi", voi non avreste a lagnarvi oggi di renitenti. E se invece di accumulare nel mezzodì migliaia e migliaia di soldati regolari, avvezzi a guerra diversa e guidati da capi ignari dei luoghi, degli uomini e delle cose, aveste detto ai cittadini delle terre infestate dai masnadieri: "a voi 15

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ivi, capo XIII p. 35.


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tocca di provvedere alla vostra salute, a noi d' aiutarvi: costituite per ogni dove, scegliendo, tra gli uomini noti per onestà, per energia e per fatti, che vi spianarono la via a liberarvi dalla tirannide, comitati di difesa locale, e li fortificheremo del nostro assenso; ordinate i vostri giovani in colonne di volteggiatori, e vi daremo, se vi mancano, armi e sussidi in denaro; a voi tutelare il paese, a noi la frontiera: eccovi Garibaldi a capo supremo dei vostri volontari"; i masnadieri sarebbero spariti in due mesi. Ma voi tremaste del Paese e di Garibaldi ...76 • Il momento è particolarmente delicato: oltre che l'aggravarsi del problema del banditismo, su questi giudizi del M. pesano infatti le leggi eccezionali e i durissimi provvedimenti adottati dalle autorità militari in Sicilia per scoprire e punire i renitenti alla leva. Ne consegue una tempesta parlamentare, e per protesta contro il governo che difende l' operato dei Comandi militari, Garibaldi e molti altri illustri deputati dell'opposizione si dimettono. Aurelio Saffi - seguace fedele di Mazzini e interprete della sua anima - così condanna quei fatti: "il brigantaggio, la camorra, la renitenza alla leva rendevano sempr~ più gravi le condizioni di Napoli e di Sicilia, e legislatori e ministri ricorrevano a espedienti feroci di esecuzioni sommarie, di torture, di leggi eccezionali e di sfrenato arbitrio militare, che inacerbivano il male spogliando l'innocenza d' ogni difesa e la giustizia d'ogni santità'm. Sempre secondo il Saffi, quei fatti erano espressione dello " scisma profondo" che si era creato tra " l'Italia militante pel compimento delle proprie sorti" e "l'Italia ufficiale, dominata da interessi di parte e da influenze straniere". Gli atti del governo e i voti del Parlamento aggravavano ogni giorno di più questa dissociazione: per inconsulta fretta di ridurre a unità le differenze locali, gli ordinamenti dell'antico Piemonte furono a mano a mano imposti, per decreti regì, alle province annesse, sopprimendo, sotto il peso di una pedantesca uniformità scriniocratica, tradizioni native, istituti e costumi consacrati dal tempo. Sotto colore di liberali disposizioni, ma in realtà per conciliare al nuovo Stato i vecchi partiti e accrescere d'elementi conservatori la consorteria governante, si ammettevano, nell'esercito e negli impieghi civili, uomini già addetti, nella milizia, nella Magistratura, nella Polizia, al servizio dei caduti Governi, mentre n'erano proscritti i patrioti meno disposti a servire ai tempi e alle esigenze della fazione che s'era recato in mano il monopolio dei pubblici affari18• Il quadro prima tracciato da M. e i rimedi da lui indicati non derivano, quindi, delle emozioni e passioni del momento. Con essi M. enuncia i linea-

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ivi, pp. 219-220. ivi. pp. xxxvm - XLII. ivi, p. LIV.


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menti costanti del suo programma - e di quello dell'opposizione politica in genere - per reprimere fenomeni che sono da lui deprecati e ritenuti da combattere, ma con metodi diversi da quelli che sono stati adottati dal governo; e sono ritenuti non conseguenza dell'unità nazionale, ma del modo di realizzarla. Dal banditismo nell'ex-Regno di Napoli, che ha· notoriamente i suoi "santuari" nello Stato Pontificio e viene favorito e alimentato da Roma, M. trae inoltre lo spunto per maggiormente ribadire la necessità che le truppe francesi lascino Roma e che la Città Eterna diventi finalmente capitale d'Italia. Rivolgendosi al governo, nel luglio 1861 così lo ammonisce: oggi voi avete nel Sud i cominciamenti dell'anarchia: dell'anarchia che potrete combattere, non vincere colle anni, se non ne troncate le sorgenti. E le sorgenti dell'anarchia stanno in Roma. Da Roma esce l'ispirazione che la suscita, esce l'oro che la paga, escono i capi che la dirigono. In Roma si temprano l'armi che scannano i nostri nelle province meridionali. Roma è la base d'operazione delle orde di masnadieri che infestano le terre napoletane. A voi bisogna avere Roma o perire [... ] lasciate che il Popolo d'Italia parli la sua parola. L'Europa è stanca dell'intervento francese. Porgete un milione di firme a base delle sue proteste. Avrete Roma senza pericoli e senza concessioni codarde. 79

In proposito M. cita anche le parole del Ministro inglese Lord Russel, il quale ritiene l'occupazione francese di Roma in contrasto oltre che con le leggi internazionali con le giuste aspirazioni italiane, e dichiara che "non è permesso al Gabinetto francese di rimproverare all'Italia i turbamenti delle province meridionali, quando la bandiera ·francese protegge il Papa nel mantenere un asilo, nel quale ogni capo di masnadieri può trovare un rifugio a preparare bande per future incursioni in province pacifiche"80• M. condanna, comunque, duramente gli eccessi deUa repressione del banditismo affidata all'Esercito: "noi vi rimproveriamo gli impotenti metodi di terrore spiegati nel mezzodì d'Italia; condanniamo le fucilazioni lasciate ad arbitrio di militari, cacciati ad un tratto in paesi ove ignorano uomini e cose, e devono commettere inevitabili errori, e non le inventiamo"81 • Per evitare questo egli suggerisce, come si è visto, di affidare la repressione del banditismo a forze locali sotto il comando di un uomo di grande prestigio come Garibaldi, liberando da questo ingrato compito l'Esercito che potrebbe essere spostato senza pericolo alla frontiera del Nord-Est, in vista di quell'azione nel Veneto che per M. rimane sempre prioritaria rispetto alla stessa conquista di Roma.

79 IIO.

"·

ivi, p. 43. ivi. p. 101. ivi, p. 164.


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In tal modo, anche per questo grave problema nazionale - e per M. che pure è suo avversario, più che ammiratore - GaribaJdi diventa il deus ex machina: «si chieda a Garibaldi di recarsi, con ampiezza di poteri, nelle Province Meridionali a spegnere, nell'entusiasmo recato al Paese e nel1'ordinamento militare del popolo, le sorgenti d'un brigantaggio che rinascerà, se i mezzi adoperati a vincerlo non sono che repressivi, come la testa de11'Idra» 82 • Una proposta mirante anche ad affossare, compromettere, togliere di scena un concorrente scomodo? Conclusione

Gli aspetti di interesse militare del pensiero mazziniano - assai più numerosi e complessi di quanto la critica storica abbia finora lasciato capire - sono utopistici, e italianamente faziosi, solo nella misura in cui è utopistico il suo disegno politico. All'atto pratico il gioco delle diplomazie internazionali e la real-politik della grandi potenze - le sue bestie nere - banno vanificato i suoi ambiziosi programmi, e bene o male hanno cons~ntilo ili raggiungere ugualmente l'agognata unità nazionale. Ma come? Il prezzo pagato è stato fin troppo alto; lo dimostrano le umiliazioni inflitte all'Italia sia dopo la vittoria del 1859 che dopo la sconfitta del 1866, la sostituzione del1a pesante tutela francese a quella austriaca dopo il 1859, la presenza di truppe francesi a Roma fino al 1870 e la presenza di mercenari stranieri - sinistri residui dei tempi passati - nel Regno di Napoli fino al 1860 e nello Stato della Chiesa fino a1 1870. Fatti che segnano dolorosamente il pensiero mazziniano e lasciano fuor di dubbio sulla vita del nuovo Stato nazionale un'ombra che neppure il XX secolo ha cancellato, ostacolando un dignitoso inserimento dell'Italia nel consesso europeo. I programmi insurrezionali di M. sono sempre stati un fallimento, e la guerra italiana anche dopo il 1849 non è mai stata una vera guerra di popolo: ma scorrendo le sue pagine, e cogliendone lo spirito senza badare troppo alla lettera, si comprendono molto bene le ragioni sociali, politiche e militari per le quali le vittorie nel 1848-1870 sono state sempre mutilate o incomplete, mentre le sconfitte hanno lasciato nel tessuto sociale, nelle stesse compagine militare divisioni profonde, ferite rimaste aperte, diffidenze tra diverse regioni non ancora scomparse. Se si guarda alla storia italiana del XlX e XX secolo, suonano ancora come ammonimento le amare parole che M. indirizza ai suoi seguaci di Bologna, Genova e Faenza nel 1868, dopo la sconfitta garibaldina a Mentana contro le truppe francesi, senza che nessuno in Ita1ia insorgesse o protestasse, con il governo prono ai voleri della Francia e Parlamento e Esercito inerti: "'- ivi, pp. 70-71.


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l'orrore è per la vita morale e politica, per l'anima di una Nazione, ciò che il credito è per la sua vita economica [...] ricordo con amarezza, siccome meritate dagli Italiani dell'oggi, le parole che Foscolo indirizz.ava agli Italiani del 1815: "la Nazione che ostenta la boria del nome e non sa farlo rispettare col proprio coraggio; la Nazione che si lamenta dello stato servile e non OSA sollevarsi, fuorché a parole, all'indipendenza... somministra ragione di deriderla come vana, pretesti d' opprimerla come orgogliosa, e occasione di giovarsi delle sue ricchezze a riprometterle libertà ed aggregarla a nuovi popoli cooquistati".83

Anche se non si sofferma - né si può pretenderlo - su dettagli tecnici, M. come pochi sa dimostrare che in una guerra le forze comunque in campo soffrono sempre i compromessi di gabinetto, e riescono a esprimere tutto quanto è nelle loro possibilità solo se in ogni momento esiste un raccordo . pieno e sicuro tra la loro azione e le aspirazioni, la volontà, l'onore della Nazione intera e non solo dell' establishment. Senza tale raccordo le forze messe in campo da uno Stato - regolari o irregolari che siano, male o bene armate - perdono la loro anima e, con essa, le battaglie e la guerra. In proporzione inversa alla qualità di tale rapporto, dinùnuisce il bisogno di volontari e di altri succedanei delle forze regolari. Da un punto di vista strettamente tecnico-militare, gli scritti di M. dimostrano ancora una volta che espressioni come guerra nazionale, guerra di popolo, guerra rivoluzionaria hanno un senso solo se riferite all'obiettivo politico della guerra, non alle sue modalità di organizzazione e condotta, a11e sue strategie, ai suoi strumenti, ai quali è sempre e in ogni caso·richiesta una cosa sola: vincere, superare l'avversario. Per questo un esame del suo pensiero militare ristretto solo alla ripubblicazione delle istruzioni sulla guerra per bande, o a talune sue riflessioni sulla parte da riservare all'Esercito nella lotta per l'unità e indipendenza nazionale, lascerebbe largamente inesplorato - quindi anche falsato - il pepsiero geopolitico e geostrategico di una grande figura del Risorgimento, clÌe dell'azione rivoluzionaria - quindi necessariamente violenta e di forza, quindi in senso lato militare o di interesse militare - ha fatto non un semplice programma, ma la nùssione di un'intera vita al servizio dell' Idea nazionale e della giustizia, viste come premessa indispensabile di una vera e duratura pace, e di un assetto internazionale capace di restituire all'Italia i giusti confini naturali e il suo naturale ruolo nel Mediterraneo. Perdente nel breve periodo e quasi sempre superata dagli avvenimenti che avrebbe voluto governare, la sua opera politico-militare ha con il tempo rivelato un respiro storico e geopolitico che ancora fa pensare. Essa oggi ricorda quanto sia impervia, lunga, difficile la strada per dare all'Italia unità anche spirituale, libertà, indipendenza, dignità e sicurezza. Nel XX secolo la Repubblica da lui vagheggiata non ha certo guarito gli italiani dai loro mali

.,,

ivi, Yol. XV pp. 26-28.


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IL PENSCERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

antichi e radicati, né lo poteva fare: tuttavia mai come ai nostri tempi si può constatare che egli aveva ragione, quando sosteneva che non sarebbe mai nato uno Stato capace di rendere all'Italia il suo posto in Europa e con Istituzioni - a cominciare da quella mi1itare - salde, sane e efficienti, senza l'impegno concorde, onesto, attivo e costante, il solidale e spontaneo concorso, i sacrifici di tutti gli abitanti della penisola.


CAPITOLO VII

GARIBALDI SOLO UOMO D'AZIONE? ASPETII MILITARI DEI SUOI SCRfITI: STRATEGIA E TATIICA, NAZIONE ARMATA E MARINA La guerra nazionale, il banditismo e il clero

Diceva Maometto che "al giudizio finale l'inchiostro dello scrittore sarà stimato allo stesso prezzo che il sangue del guerriero". Nella sterminata letteratura sul Risorgimento e su Garibaldi (d'ora in poi G.) si è finora prestata scarsa attenzione ai suoi scritti di interesse militare, come se si trattasse di una quantité négligeable; siamo perciò costretti a ricordare, sull'argomento, un nostro vecchio e troppo sommario saggio'. Intendiamo colmare questa lacuna, perché ciò che l'Eroe nizzardo ba scritto ha diritto ad occupare un posto di tutto rispetto nella letteratura militare del suo secolo, anzi resiste ottimamente - in molte parti - all'usura del tempo. Non c'è da stupirsi: non avendo egli compiuto studi militari o civili regolari, non avendo fatto lunghe routines di caserma, essendo rimasto sempre estraneo e spesso ostile all' establishment politico-militare, il suo pensiero non è stato condizionato dai molti idola dottrinali del tempo, per ciò stesso caduchi. Anche per questo, chi oggi voglia indagare sulla parte propriamente tecnico-militare dei suoi scritti è obbligato a ricostruire prima in qualche modo il carattere, il modo di sentire, il temperamento che governano le azioni e segnano la vita estremamente travagliata di un uomo, che può subito dirsi senza esitazione molto libero, e al tempo stesso come pochi nato per la guerra, per l'azione armata. Abbiamo a suo tempo scritto che "Garibaldi, in ciò simile a molti condottieri d'ogni tempo, fu principalmente uomo d'azione; lo fu per carattere, mentalità e temperamento, ancor prima che per necessità; ma ridurne la figura solo a uomo di fatti e non di parole e di penna (in ciò facendo pesare gli scarsi studi civili e l'assenza di studi militari), non sarebbe storicamente esatto, oltre a non rendergli giustizia. Come già è avvenuto per Annibale e Napoleone, nel suo caso più che un 'corpus' sistematico di dottrine militari che non è mai esistito, parlano i fatti e ciò che l'uomo scrisse o disse pressato dagli avvenimenti: la sua scuola fu il combattimento, la sua palestra il campo di battaglia, la sua teoria la preparazione - soprattutto degli animi- all'azione o l'ordine per l'azione"2 • '·

F. Botti, Garibaldi teorico e scrittore militare: realtà di una leggenda, "Rassegna del1' Arma dei Carabinieri" n. 4/1982 (e inoltre in AA.VV., Garibaldi condottiero, Milano, Franco Angeli 1984, pp. 97-118).

1

ivi.


3%

[L

PENSIERO MlLITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

Questa constatazione consente di sgombrare subito il campo da taluni equivoci, che hanno sempre avuto grande peso nei giudizi - in positivo o in negativo - sull'Eroe nizzardo. Tutto è stato G., meno che un generale con a sua disposizione gli Stati Maggiori, l'apparato logistico e amministrativo, l'organizzazione per il reclutamento e l'addestramento, il corpo di ufficiali sperimentato tipici di un esercito regolare. Tutto è stato il G. scrittore e teorico militare, meno che autore di forbite e ben assestate teorie strategiche o tattiche, meno che uno studioso il quale - come Jomini, Clausewitz e tanti altri - ha potuto permettersi il lusso di meditare, limare, elaborare, perfezionare i suoi pensieri a tavolino e nella quiete di uno studio. Ancor prima che essere apostolato, propaganda o dottrina, tutto ciò che dice o scrive è in gran parte diretto a ottenere scopi pratici e immediati. Esprime prima di tutto le sue decisioni, le esigenze del momento, la necessità di avvincere gli animi e di indurli a seguirlo spontaneamente, ché la costrizione era un'arma che non poteva e quindi non voleva usare. I suoi scritti, insomma, come pochi altri rispecchiano il detto di Napoleone che "un comandante deve essere un ciarlatano", deve cioè ricercare in tutto ciò che.fa, dice e scrive effetti morali, ricercare il consenso dei sottoposti, scuoterli, ottenerne fiducia. Anzi, diciamolo chiaramente: molte volte, incerta è la distanza che li separa dalla demagogia. Ciò non significa che siano meno importanti delle azioni: sono essi stessi azione, servono a configurarla, le danno un significato. Qua e là queste azioni illuminano però delle riflessioni teoriche e tecniw-militari più che sufficienti per delineare con chiarezza se non una vera e propria dottrina militare garibaldina - il suo approccio strategico e tattico, una personalità di capo militare che in pochi casi come nel suo, è personalità dell'uomo tout court. Ogni scrittore, ogni uomo, ogni generale è dominato in tutti i suoi atti da un personale modo di sentire la realtà che lo circonda; tanto più questo vale, quando si tratta del grande dramma della guerra e della guerra di indipendenza nazionale. Ebbene, nel popolano - quindi anche nel generale G. noi vediamo riflesso ciò che Mazzini diceva del popolo italiano nel 1848, lamentando la sua scarsa adesione agli ideali repubblicani: il popolo non era - né sarà mai in Italia - monarchico; ma era ciò che oggi chiamano opportunista; vedeva una forza ordinata, un esercito d'italiani presto a combattere contro l'abborrito straniero, e, a quanto gli predicavano uomini tenuti fino a quell'ora da esso in conto d'apostoli della libertà, unica sua salute; quell'esercito era capitanato da un re; le acclamazioni salutavano quindi liberatori, esercito e re3• Mentre Mazzini accetta la guerra del re solo a patto che essa sia compatibile col suo tenace disegno strategico per una guerra nazionale ma al tempo stesso repubblicana, G. non ha queste preciusioni di carattere 3

G. Mazzini , Scritti Editi e Inediti (Cit.), Voi. VII p. 164.


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politico; nonostante i dissidi coi generali piemontesi gli va bene anche la "guerra regia"; guarda alla guerra in sé convinto che essa - a prescindere da chi la faccia e come, dal prima e dal dopo - abbia comunque un segno positivo; ciò che lo occupa e lo preoccupa, è soprattutto la sua effettiva prospettiva di riuscita e, in relazione a essa, la sua condotta. E di fronte alla causa dell'unità e indipendenza nazionale, per G. - che pure nell'anima rimane repubblicano - non ha molta importanza che si instauri in Italia una monarchia, o una repubblica. Ugualmente errato sarebbe parlare di contraddizioni nelle sue idee, o di evoluzioni: quando la situazione muta, mutano in lui anche idee e azioni. Nel suo caso, più che di pensiero e azione che si compenetrano, è più appropriato parlare di azione e di esigenze connesse con detta azione. All' azione non cessa di pensare anche quando rimane inattivo a Caprera, o quando, come avviene dopo il 1871, ripone la spada nel fodero; sarebbe perciò fuori luogo banalizzare (come fanno Montanelli - Nozza e Mack Smith) la sua personalità, o ricercare nel suo pensiero e nei suoi scritti la perfezione formale, il rigore puramente teorico, i giudizi univoci e inimitabili, la cosiddetta fede nei prindp1 costanti dell'arte de11a guerra, o quant'altro appartenga a una visione accademica e neutra della letteratura militare, quant'altro si ha il diritto di pretendere da chi è stato in prevalenza scrittore militare. 1n lui parla non un bagaglio teorico o dottrinale che non possiede, ma l'esperienza condita con una grande dose di buon senso popolano; nessuno come lui odia le chiacchiere, le astrazioni teoriche, i "dottori". Appare costantemente dominato dal senso del reale e del possibile, al quale sacrifica spesso le proprie personali convinzioni e i propri ideali. Perché di principi e ideali, molto alti, ne possiede: ma non fino al punto da lasciare che essi in lui soffochino la capacità di valutare la situazione contingente, e di trarne le linee d'azione più convenienti per ottenere non l'optimum, ma almeno il possibile. Anzi: non perde mai occasione di fare del proselitismo. I grandi ideali di democrazia, di libertà, di pace, nei quali pur crede, diventano spesso anch'essi degU strumenti contingenti, delle bandiere da additare ai seguaci. In tutta la sua opera politica e militare prevalgono due esigenze elementari e non certo nuove, dalle quali però diversamente da altri trae (senza riguardo agli affari propri, e dimostrando un vero amore per l'Italia) tutte le conseguenze, fino in fondo: che l'Italia può e deve conquistare libertà e indipendenza con le- armi e con forze proprie, smentendo così antiche prevenzioni che facevano degli italiani un popolo imbelle; che, pertanto, per ottenere questo risultato, occorre superare le molte divisioni, le posizioni personali e riunire in un solo fascio tutte le forze nazionali, a cominciare dagli eserciti regolari e senza alcun schematismo aprioristico nella modalità · di condotta della guerra. Per lui, l'importante è trovare degli uomini con dei fucili disposti a combattere, senza chiedere altro, per la causa nazionale: non richiede nulla di più, e nulla di meno. Non ha prevenzioni e riserve politiche di alcun genere, né


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nutre rancori personali; i suoi orientamenti politici, il suo modo di concepire l'apporto che egli stesso e i suoi seguaci intendono dare alla causa nazionale risultano una volta per tutte chiari dal comportamento tenuto all'inizio della prima e seconda guerra d'indipendenza. Nel 1848 proprio lui, acceso anticlericale, antico mazziniano, cospiratore, disertore della Marina sarda condannato a morte nel 1834 dalla monarchia e costretto a lunghi anni d'esilio, offre dapprima i suoi servigi a Pio IX poi chiede invano di entrare nel1' armata sarda, con ciò stesso dimostrando in quanto poco conto tenga sia i capisaldi politici che quelli militari del mazzinianesimo. Emblematico il rifiuto di Carlo Alberto e del suo entourage moderato, che diversamente da lui non dimenticano; secondo i] re "ci è assolutamente impossibile nominare Garibaldi generale: se vi sarà una guerra marittima lo si potrebbe impiegare come capo di corsari, ma in caso diverso la sua nomina nell'Esercito significherebbe disonorarlo". E il Ministro dell 'futerno piemontese Ricci cerca di dirottarlo dal Piemonte a Venezia insorta, indicandogli come impiego migliore "il comando di alcune piccole barche, con le quali, come corsaro, potrebbe essere utilissimo ai veneziani". Invece di recarsi a Venezia, G. offre - sempre con scarso successo - i suoi servigi al governo provvisorio lombardo, e poi nel 1849 diventa magna pars della difesa della Repubblica romana. Ùl tal modo dimostra di non dare molta importanza alle sue precedenti esperienze personali di capitano marittimo e di combattente - anche per mare - della libertà: evidentemente, si rende conto che i giochi decisivi avvengono per il momento in campo terrestre, e che le forze regolari rimangono il perno della guerra d'indipendenza. Eppure, nel 1848 in Piemonte le sue capacità in campo marittimo sono tenute in gran conto, non solo come espediente per toglierlo di mezzo. Scrive il 26 giugno 1848 il giornale torinese moderato La Concordia:

e

il giorno 22 è arrivato in Nizza il tanto sospirato nostro concittadino Giuseppe Garibaldi, generale della Legione italiana in Montevideo. Egli venne con un brick armato di sei pezzi di cannone ed accompagnato da più di un centinaio di suoi scelti compagni, tra i quali il colonnello Anzani. Speriamo che il Governo sarà sollecito nel dargli una destinazione od un posto degno di lui. Se il Garibaldi fu valoroso generale per terra, fu anche più buon ammiraglio di mare [...]. Noi teniamo che il comando di mare sia la sua vera partita, per essere egli esperto capitano, profondo matematico e valoroso guerriero. I nostri bisogni attualmente non sono meno urgenti in mare di quello che lo sieno in terra. Destini adunque il Governo il Garibaldi a dirigere il blocco di Trieste, e dia il comando d'una parte del1e forze di terra al prode Anzani [ ...]. Ora chi più convinto dell'Anzani della santa causa che si sostiene? dell' Anzani esule lombardo, perseguito dalla tirannide austriaca? Chi di lui più pratico del terreno di cui è figlio e su cui si combatte?

Lo stesso avviene quando il Piemonte prepara la guerra del 1859 contro 1' Austria. Nel febbraio dello stesso anno viene chiamato a Torino, dove ha


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colloqui con il Cavour e con Vittorio Emanuele. Non si fa nessuna i11usione: ma accetta. benché repubblicano e nemico dell 'establishment, di dare il suo contributo a un programma politico e militare che si compendia nel motto "Italia e Vittorio Emanuele": il conte di Cavour [... ] mi trovò certamente docile all'idea sua di far la guerra alla secolare nemica d' Italia. Non m' ispirava fiducia il suo alleato [cioè Napoleone Ili - N.d.a.], è vero: ma come fare, bisognava subirlo. Bisogna arrossire, ma pur confessarlo: colla Francia per alleata, si faceva la guerra allegramente; senza di essa, nemmen per sogno! [... ]. E tutto ciò per non sapere, o non volere, far uso degli elementi nazionali a disposizione, ed essere sempre la causa del nostro povero paese in mano a malvagi, o della casta delle dottrine [cioè dei " dottori", dei politicanti inconcludenti e chiacchieroni - N .d.a.l, assuefatta ad argomentare con lunghe ciarle, ma non ad oprare gagliardamente." L'idea di far la guerra col Piemonte all'Austria non era nuova per me, né quella di far tacere qualunque convincimento per me, allo scopo di far l'Italia comunque sia [ ... ] lo posso con orgoglio dire: fui e sono repubblicano; ma nello stesso tempo [diversamente da Mazzini - N.d.a.] non ho creduto il popolare si stema esclusivo al punto, da imporsi colla violenza alla maggioranza d' una nazione\

Da questo programma, da questo modo di pensare non si discosterà mai. Le vicissitudini, le discordie con l' establishment politico e militare piemontese (e con i suoi agenti anche tra le sue file), così come con Mazzini e i radicali intransigenti (che abbondano anch'essi tra i suoi seguaci), accentuano in lui la sfiducia per i politici e le assemblee, e lo scarso interesse per i dibattiti parlamentari, ai quali pur essendo stato più volte eletto deputato partecipa assai poco. Il governo moderato che regge i destini della nuova Italia fino all'avvento del Depretis (1876) è la sua bestia nera sia in fatto di politica estera e di sicurezza che interna, e nel 1872 lo bolla come "Governo di ladri". Ma anche dopo l'ascesa al potere del Depretis, tiene a precisare di non sentirsi affatto vincolato dall'antica amicizia con gli uomini che compongono il nuovo governo: "noi li loderemo se faranno bene; ma se faranno male li accuseremo davanti al Paese, poiché chi loda il male è servile, e noi non pecchiamo di servilismo". Dopo soli venti mesi, infatti, accusa il governo di essere solo "un'intendenza di casa Reale" e di essere, "incapace di governare" perché "marcio nel timone". Incapace, come meglio vedremo, anche in campo militare e nava]e ...5 • Una sostanziale solitudine politica quindi quella di G., che abbinata al suo temperamento quanto mai libero e insofferente di qualsivoglia condi-

•.

G. Garibaldi, Memorie, Torino, Einaudi 1975, pp. 269-270 (d'ora in poi Memorie). S. Furlani, Garibaldi candidato elettorale, Roma, Tip. Camera 1982, p. 808.


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zionamento esterno, di scorridore delle pampas e dei mari, lo spinge a rifiutare - quando e se può - qualsiasi ingerenza di politici o di altri comandanti militari nella preparazione e condotta delle operazioni da lui volute o dirette: di qui i contrasti con Cattaneo, Mazzini e Pisacane - cioè con uomini che stavano dalla sua stessa parte - nel 1848/1849 e quelli con i generali piemontesi (e specie con La Marmora, Fanti e Cialdini) nel 1859-1861 e 1866. Contrasti che se non nascono solo per sua colpa, sono fuor di dubbio favoriti dalla sua indole e dal suo carattere, prima ancor che dalle sue idee politiche (di per sè - lo si è visto - tutt'altro che radicali, almeno nelle linee di fondo). Durante la difesa della Repubblica Romana nel 1849 chiede invano la dittatura, suscitando l'opposizione e lo scandalo di Mazzini e di Pisacane e la diffidenza dell'Assemblea; e nella memorabile impresa del 1860, non appena giunto in Sicilia si fa nominare dittatore delle Due Sicilie. Come scrive nel 1910 il capitano Ermanno Finocchi, la forza delle cose condusse Garibaldi, dichiarato nemico d'ogni specie di tirannide, a considerare la dittatura come rimedio estremo nelle calamità della patria e degli eserciti, e in conseguenza non solo l'invocò con animo deliberato per altri, ma non si peritò di richiederla talvolta risolutamente per sè. Egli vide che il dispotismo legittimo [ ...] è un bene per le milizie che combattono per la patria, e che fuori di questo dispotismo, in taluni casi calamitosi, non v'è salute pubblica né fortuna bellica6•

In questo - prosegue il Finocchi- G_ non fa che pensare come Machiavelli, secondo il quale "l'autorità dittatoria fece bene e non danno a11a Repubblica [dell'antica Roma]. .. Perché nuocciono alle Repubbliche i magistrati che si fanno e l'autorità che si danno per vie straordinarie, non quelle che vengono per via ordinaria". Similmente G. ricorda ·di aver chiesto la dittatura a Roma nel 1849, "come in certi casi della mia vita avevo chiesto il timone di una barca che la tempesta spingesse contro i frangenti". E commentando la sconfitta militare della Repubblica francese nel I 870-1871, scrive che qui giova ripetere essere grande errore dei popoli che rimangono padroni di loro stessi, come successe alla Francia e alla Spagna a poco tempo di distanza, di non eleggere il governo di un solo uomo onesto, col nome di Dittatore od altro, ma d'uno solo! Non ricorrere ai governi molteplici, generalmente di dottori (sic) che passano la maggior parte del tempo a deliberare invece di agire celermente come esigono le urgenti circostanze.7

1.

E. Finocchi, Della dottrina militare garibaldina, Ascoli Piceno, Stab. Tipografico Adriatico e Roma 1910, pp. 86-87. ivi, pp. 87-89.


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Questo atteggiamento non è che una delle tante ricadute della sua avversione al clero, ai "dottori", ai generali "accademici" e ai politicanti, unica e vera causa della sua totale estraneità - più che divergenza - rispetto all'approccio politico-militare mazziniano, da lui assimilato senza tante sottigliezze all'atteggiamento della monarchia e dei moderati nei suoi confronti: in ambedue i casi si tratta di forze negative, perché ostacolano l' azione militare diretta, l'unica per lui valida e necessaria, l'unica che gli interessa. Insomma: si rende conto che, come nota sempre il Finocchi, "la forza delle cose è fattore prepotente che attraversa le tesi dei dottrinari se non le uccide addirittura"8 • Coerente con questa constatazione - e non incoerente, come a prima vista potrebbe sembrare - è il suo atteggiamento nei confronti del grande probJema de11a guerra e della pace: almeno in questo, è sostanzialmente d'accordo con Mazzini e Pisacane. Non rifiuta di partecipare come fa Mazzini - al Congresso Internazionale di Ginevra deJJa "Lega deJJa pace e della libertà" tenutosi dal 9 al 12 settempre 1867. Con quale spirito si reca a questo appuntamento, lo scrive egli stesso: "la breve campagna del '67 nell'Agro romano [culminata con la sconfitta di Mentana - N.d.a.] fu da me preparata in una escursione sul continente italiano [da Caprera] ed in Svizzera, ove assistetti al Congresso della Lega della pace e della libertà". Dunque, proprio mentre interviene a un Congresso sulla pace, prepara una spedizione militare ... Senza contare che, come afferma il Ponchiroli, "quella gli parve un'ottima occasione per esporre ai democratici europei i diritti e le aspirazioni su Roma"9• Probabilmente - va aggiunto - gli parve anche un ottimo diversivo per sviare l'attenzione delle polizie dal suo progetto, al quale, anche in sua assenza, continuava a lavorare il figlio Menotti .... Nessuna contraddizione, ma anzi coerenza fino al tramonto della vita. Non si stanca mai di predicare arbitrati internazionali per porre fine alle guerre, che come tanti ritiene conseguenza delle ambizioni dei despoti, così come condanna le enormi spese - già allora - in armamenti e per il mantenimento di grossi eserciti stanziali. Ma al tempo stesso nel 1878 cita ' un detto del repubblicano radicale francese Louis Blanc: "la pace sarà possibile solo quando i popoli non avranno padroni" e, "siccome è inutile sperare l' adempimento del diritto italiano [a compiere l'unità nazionale strappando all'Austria Trento e Trieste - N.d.a.] da congressi o da arbitrati internazionali inattuabili, mentre durano le dispotiche prepotenze", invoca l' unità di governo, popolo e-esercito per compiere la futura, "santa missione" 10 • La pace, il disarmo sono, anche per Garibaldi, un bene supremo e 1'unica garanzia per il benessere dei popoli: ma si tratta di obiettivi proprio per questo difficili da raggiungere, che devono essere conqui1:,tati, perché non 8

10 ·

Ibidem. G. Garibaldi, Memorie (Cit.), pp. 400-401 e 464. G. Garibaldi, Scritti e discorsi politici e militari, Bologna, Cappellil937, Voi. lll pp. 271-272 e 275 (d'ora in poi SD).


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rappresentano un bene in sé ma possono derivare solo da uno stabile e giusto assetto internazionale, nel quale ogni popolo sia padrone in casa propria e non vi siano più tiranni stranieri o domestici. Si tratta di obiettivi utopistièi, ma solo nella misura in cui è utopistica la possibilità di eliminare gli ostacoli per raggiungerli. In questo, si trova in Garibaldi una sorta di fideismo, come se l'avvento peraltro problematico di una vera democrazia repubblicana nei principali Stati, bastasse a spegnere ogni contrasto tra i popoli. Di qui una fiducia incondizionata e senz'altro eccessiva e contradditoria nel governo, nella monarchia e nelle libere istituzioni dell'Inghilterra, forse dovuta a riconoscenza per l'aiuto inglese specie nella campagna del 1860 (in un discorso del 1864 a Southampton, ammette che "senza l'aiuto dell'Inghilterra non sarebbe stato possibile compiere ciò che facemmo nell'Italia Meridionale")1 1• Ad ogni modo, le sue lodi e le sue patenti di democrazia - che si estendono anche alle istituzioni militari inglesi - trascurano molti dati di fatto della realtà inglese: il predominio del!' aristocrazia in quel Paese, il vero carattere del reclutamento (esclusivamente volontario e a lunga ferma) dell'esercito, il ruolo e il significato degli imponenti e costosi armamenti navali, il vastissimo Impero coloniale le cui risorse sono sfruttate senza scrupolo alcuno dalla madrepatria, la costante e spregiudicata difesa dell'esclusivo interesse nazionale che ha sempre contraddistinto la politica estera inglese (cosa che, per inciso, non viene tenuta in conto da coloro che, come l'inglese Mack Smith, accusano proprio di "nazionalismo" lo stesso Garibaldi)1 2 • Non ama presentarsi come un soldato e soprattutto, non ama la vita di caserma. Nel 1864, sempre parlando agli inglesi, precisa: "io non sono di professione sc;>ldato, non mi talenta la professione di soldato. Mi feci soldato perché trovai i ladri in casa, e mi armai per discacciarli. Divenni soldato per combattere contro gli oppressori del mio paese ...°. In altra occasione scrive: "io non amo la guerra. Furono le lacrime degli oppressi che mi posero la spada in pugno. Sono i dolori della Venezia e dell'Istria che mi turbano i sonni. È la grande figura di Roma, manomessa dai più vili esseri che sieno mai nati [il clero - N.d.a.] , la quale dà palpiti al mio cuore". E il 28 settembre dello stesso anno, dopo Aspromonte e dalla prigionia del Forte Varignano a La Spezia, indirizza un nuovo appello alla nazione inglese, presentandola come vessillifera della giustizia e libertà in tutto il mondo e invitandola ad associarsi alla Francia e agli Stati Uniti per promuovere un congresso mondiale con sede a Londra, che dovrebbe risolvere pacificamente le controversie internazionali: . non più guerre possibili ove un congresso mondiale possa giudicare delle differenze insorte tra le nazioni! Non più eserciti stanziali con cui ivi, Voi. JJ, Bologna, Cappelli 1935, p. 219. ''- D. Mack Smith, Garibaldi, Milano, Mondadori 1993, p. 233. " SD, Il, p. 223. 11


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la libertà è impossibile [nostra sottolineatura - N.d.a.]. Che bombe! che corazze! Vanghe e macchine da falciare! Ed i miliardi sprecati in apparati di distruzione vengano impiegati a fomentare le industrie e a diminuire le miserie umane14•

Condanna, perciò, la corsa agli armamenti da parte delle principali potenze europee e deplora che sia accolta quasi con favore dai popoli: "è cosa veramente da stupire che la generalità degli uomini occupati principalmente ed egoisticamente dal proprio bene materiale, guardi non solo con indifferenza a questa anormale situazione del mondo, ma stupidamente ne ammiri, e le micidiali scoperte, ed i preparativi enormi e rovinosi di distru. " z10ne. Conclude il suo intervento al Congresso, proponendo una serie di risoluzioni inevitabilmente utopistiche, come tutte quelle di questo genere: "1 ° Tutte le nazioni sono sorelle. 2° - La guerra tra loro è impossibile. 3° - Tutte le querele che sorgeranno tra le nazioni dovranno essere giudicate da un Congresso. 4° - I membri del Congresso saranno nominati dalle società democratiche dei popoli - 5° Ciascun popolo avrà diritto di voto al Congresso, qualunque sia il numero dei suoi membri" 15 • Nel 1875 cerca di conciliare ancora una volta queste dichiarazioni di principio pronunciate alla vigilia del tentativo su Roma con le aspirazioni all'unità nazionale, e in un messaggio alle popolazioni di Trento e Trieste sl:rive: "io sono per l'arbitrato internazionale, cioè per l'assoluta abolizione della guerra fra nazioni e nazioni. Le popolazioni che formano l'impero d'Austria sono oggi da me considerate sorelle dell'Italia [... ]. Quindi non guerra fra le nazioni; ma ciò non toglie che si debbano manifestare al mondo alcune reclamazioni di alta giustizia: Trento e Trieste" 16• Se non vede di buon occhio la vita e la disciplina di caserma, considera l'istruzione militare diffusa in tutto il popolo come l'unica garanzia per l'indipendenza e la libertà e come salvaguardia per la dignità di ciascuno. In un proclama inedito al termine della gµerra del 1866 così rivolge ai suoi volontari: "se fossimo padroni in casa nostra io vi direi: 'cambiate i vostri fucili in zappe e bidenti ed avanti in una vita conforme alla legge di Cristo', ma siccome i potenti della terra vogliono sempre gli uomini caini brutti di sangue e che sulle porte di casa padroneggiano certi uccellacci [... ], perciò dico: alla carabina, alla santissima carabina! e spero che sino i bambini vostri eserciterete a .quell'arma ormai baluardo sicuro dell'indipendenza nazionale" 17• In tal modo nel caso italiano la carabina, lungi dall' essere un simbolo di violenza e di guerra, diventa strumento e simbolo di libertà, indipendenza, emancipazione popolare.

,. IS.

•• 11

ivi, p. 152.

ivi, pp , 408-413. Memorie, p. 464. SD, II, pp. 363-364.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. li (1848-1870)

Sono sempre e solo i fatti a dettare le linee d'azione da lui indicate. Contrario alla pena di morte, nelle sue imprese v{ ha fatto ricorso quando era necessario; anche negli scritti sul modo ·di affrontare un altro grande problema nazionale, il banditismo, si dimostra tutt'altro che alieno dal ricorso alla repressione. Con il banditismo ha a che fare già prima della battaglia del Volturno nel 1860, quando insorgono le popolazioni del Sannio e di Isernia, sotto la guida del Vescovo locale e con l'appoggio di truppe borboniche: insurrezione domata a fatica e con gravi perdite da reparti garibaldini inviati sul posto. Nell'aprile 1861, probabilmente in riferimento a un progetto - sostenuto anche dal Mazzini - di inviarlo con parte dei suoi volontari a combattere il banditismo, compila una "Memoria" 18 nella quale propone di "mandare i Quadri dell'Armata meridionale in quelle provincie del Mezzogiorno, ove vi è più pericolo di reazione. Non raccogliere di bassa forza, se non quegli individui che trovandosi dispersi per le città, cagionano dei torbidi e disciplinati potrebbero essere utili"; vorrebbe essere inviato nel Sud come commissario regio con nomina temporanea, e vorrebbe essere autorizzato a sostituire gli impiegati dello Stato poco accetti alle popolaz1om. Accusa più volte il Governo di essere il principale responsabile - con le tasse, la coscrizione ecc. - del banditismo, e di aver arbitrariamente sostituito gli uomini da lui preposti al governo dell' ex Regno delle Due Sicilie con "individui ligi alla fazione, ad onta del malcontento dei popoli di quelle province". Dopo aver deprecato le fucilazioni facili dell'Esercito e iJ tentativo di presentarle come vittorie militari, non si nasconde però le colpe altrui, ed esclama: e chi sono poi quei briganti? poveri infelici! se non sono alcuni sciagurati contadini che morivano di fame e che furono ingannati dai preti, saranno i figli bellicosi della montagna che, indispettiti daJ malissimo Governo, si riuniscono alle bande per vendicare la morte di qualche parente spietatamente fucilato. E poi chi lo creò il brigantaggio, chi lo fomentò, chi lo mantiene?... il maggiore interessato al mantenimento del brigantaggio e chi lo mantiene veramente per suoi fini, è Bonaparte [Napoleone m - N.d.a.]; minori interessati e tanto accaniti, sono i Borbonici e i preti '9•

Ciò significa, in sostanza: le gravi colpe del Governo non possono far dimenticare che, approfittando appunto del malgoverno che crea malcontento, i reazionari Borbonici, i preti e Napoleone III lo alimentano per i loro fini... Per questo nel 1862 raccomanda ai siciliani di Cefalù di guardarsi "dai seduttori borbonici, murattiani e malvagi" che pescano nel torbido, ribadendo il programma "Italia e Vittorio Emanuele"20 e incitando i napo" SD, I (Bologna, Cappelli, 1934), pp. 255-256. ,.. SD, fil, pp. 401-402. 7JI SD, II, p. 110.


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tetani a respingere "chiunque venga a parlare di autonomia, di confederazione di principi stranieri". La diagnosi più pessimistica sugli aiuti esterni al banditismo si trova in un promemoria per un messaggio al re del 1864, nel quale fa riferimento al progetto di affidargli la lotta al banditismo nell'Italia Meridionale: dite: che sono disposto ad andare dove mi manda ma che, credo, .un altro potrebbe capitanare l'impresa mentre io potrei essere più utile qui. Lo stato dell'Italia Meridionale è il seguente: qui il Governo è più odiato di quello del Borbone e gli amici suoi sono gente interessata che lo tradiranno all'uopo o fuggiranno come fecero gli amici degli altri. Qui vi sono tali elementi di malcontento da spaventare, ed il giorno in cui il nostro esercito sarà occupato sul Mincio vi sarà nel centro e nel Mezzogiorno d'Italia un cataclisma di reazione come mai si vide. Qui piomberanno tutti i retrogradi del mondo e pensate con che potenza sostenuti dal clero mondiale, da quasi tutte le aristocrazie, da tutti i detronati e dalla Santa Alleanza. Che mi lasci nel Mezzogiorno, che mi dia i poteri che vuole ma che in sostanza mi lasci fare. Esso ormai non deve temere che io mi faccia Re di Napoli, né che io voglia proclamare la Repubblica. Organizzeremo qui dugento mille uomini che saranno tanto suoi come l' esercito regolare. Spero potremo sedare la ribellione, egli potrà disporre di tutto l' esercito regolare 21•

Anche in questo caso, come quando si tratta di combattere nemici esterni, G. è pronto a offrire senza secondi fini il suo braccio, per un'opera di repressione ingrata e difficile, tesa a consolidare la monarchia e l'Italia. Ma dire - come fa il Mack Smith - che egli è stato un nazionalista, significa non averne ben studiato _e meditato né le azioni, né tanto meno gli scritti. Non è nazionalista chi, come lui, ama il proprio paese di _un amore puro e vero, perché disinteressato e fattivo; chi vuole la propria Patria libera, forte, unita e rispettata; chi auspica l'unità europea; chi sia in gioventù che al tramonto della sua vita si batte con indiscusso valore per la libertà di altri popoli; chi vorrebbe che l'Italia raggiungesse i confini che la natura le ha dato, confini che i grandi Stati europei da secoli hanno già raggiunto. Attacca anzi apertamente il nazionalismo, il bellicismo, lo sciovinismo, la grandeur e la gloire dopo il 1871 impersonate in Francia dal Thiers, e i suoi riflessi militari e strategici: "La guerra è la vera vita dell'uomo". E chi la fa perpetuare in Europa? Poche famiglie che si chiamano Monarchie e quella setta chiamata Chauvins in Francia, di cui è capitano il pericolosissimo Thiers, appoggiato sui grassi Marescialli e sui preti peste del mondo. I Chauvins hanno perduto la gloria e la grandeur de la France e

"- su, 11, pp. 236-237.


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cercano oggi con le spalle ancora nere delle battiture [loro inflitte dai prussiani nella guerra 1870-1871-N.d.a.] di rompere le scatole al mondo con ridicole minacce [... ]. Vengano dunque i ferri degli aratri e delle vanghe per costruire dei [cannoni] Krupp, delle corazze e delle mitrailleuses [cioè le mitragliatrici, già usate dall'esercito francese nel 1870-1871 - N.d.a.]. I Chauvins vogliono la gioire! Venga il sudore dei braccianti, colle denominazioni di tasse, imposte, macinati, ecc., ad impinguare stormi di fannulloni ed indorarli. Vengano i figli del popolo ad ingrossare gli eserciti sedicenti per la difesa della patria, ma in realtà per la difesa dei prepotenti [... ]. Sì, [i chauvins vogliono] la revanche per riconquistare la grandeur che fa le vostre miserie .. .22. Per G., dunque, la gloria e la grandezza di un esercito stanno solo nella causa per cui combatte: anche per questa via, si può intravedere il suo concetto di guerra, lecita solo se al servizio della nazione e non di pochi privilegiati, lecita solo per reagire a aggressioni e prepotenze. Non è antifrancese per principio, come dimostra la sua partecipazione alla guerra del 1870 1871 proprio aJ fianco di coloro che, nel 1849 e nel 1867, erano stati suoi nemici: ma tiene a precisare: pongano in mente i nostri vicini che gl'italiani ambiscono la fratellanza di tutti i popoli; ma che Iloti, servi, giammai lo saranno di nessuno, e che la vera grandezza della Nazione non deve cementarsi sull'abbassamento e sulla miseria delle vicine [... ] se l'Italia ambisce di essere sore11a della Francia, si è colla condizione di non derogare affatto da quei diritti de11' uomo sì coraggiosamente proclamati dall'immortale Repubblica [francese]. Ogni nazione ha diritto di difendersi, anche con le anni, dalle prepotenze altrui, e ciò vale anche quando si tratta di semplici cittadini. A tal proposito ricorda esempi di intervento di navi da guerra degli Stati Uniti a protezione di cittadini americani o di navi americane anche contro di lui, e, per contro, ]'iniziativa di un capitano di corvetta inglese che nelle guerre del Sud-America, vedendolo in difficoltà, fa intervenire un canotto che si interpone tra lui e il nemico e lo mette sotto la protezione "della terribile bandiera inglese". Perciò, anche l'Italia deve seguire questi esempi: se il nostro Ministro degli Esteri, quando i diritti dell'Italia sono calpestati in terra o in mare, presentasse le bocche delle nostre carabine o dei nostri cannoni da cento, sarebbe presto ascoltato, e non si vedrebbe tanto umiliato il nostro Paese23 • Far rispettare anche con la forza - come da sempre 1'Inghilterra e gli altri vecchi Stati hanno fatto - i diritti e interessi del proprio Paese significa 22 ·

u

SD, III, pp. 474-475. SD. III, pp. 302-303, 304 e 315.


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forse essere nazionalisti? Anche per G. - non può sorprendere - la politica di sicurezza e la geopolitica hanno le loro leggi. Questo vale nel caso del!'occupazione francese della Tunisia nel 1881: la Francia, colla distruzione della potenza barbaresca d'Algeri, meritò la gratitudine del mondo civile. Essa possiede coteste immense regioni e può estendere sul vasto continente africano il benefico suo dominio. Nella Tunisia poi è un altro affare. La Francia padrona di cotesto cuneo che si avanza verso Nord tra la Sicilia e la Sardegna, sarebbe una minaccia continua all'integrità del nostro Paese. Col di lei sistema invadente poi a danno degli antichi suoi iloti, come la prova nel voler francesare i nostri corallini [cioè con la pretesa che i nostri i pescatori di corallo nelle acque tunisine chiedano la cittadinanza francese - N.d.a.], essa non dà prova di sincera fratellanza. La colonia italiana a Tunisi è più numerosa di tutte le altre colonie europee prese insieme. E considerando il piccolo tratto di mare che ci divide da quel paese, tutto insomma spinge l'Italia a dover sostenere l'indipendenza assoluta di cotesta Reggenza. 24 · Imperialismo coloniale, a fronte di ben altri appetiti coloniali? Ma la prova migliore del fatto che la sua prospettiva è nazionale ma non nazionalista, e al tempo stesso del suo modo di intendere i problemi europei e insieme quelli del disarmo, sta nell'appello che indirizza "alle potenze d'Europa" nell'ottobre 1960, subito dopo la battaglia del Volturno nella quale la sua fortuna militare raggiunge il culmine. La diagnosi è pessimistica, ma realistica: l'Europa è ben lungi dal trovarsi in una stato normale e convenevole alle sue popolazioni. La Francia, che occupa senza contrasto il primo posto fra le potenze europee, mantiene sotto le armi 600.000 soldati, una delle prime flotte del mondo, e una quantità immensa d'impiegati per la sua sicurezza interna. L' Inghilterra non ha il medesimo numero di soldati, ma una flotta superiore e forse un maggior numero d'impiegati per la sicurezza dei suoi possedimenti lontani. La Russia e la Prussia, per mantenersi in equilibrio, hanno bisogno pure di assoldare eserciti immensi. Gli Stati secondari, non foss' altro che per spirito d' imitazione e per fare atto di presenza, sono obbligati di mantenersi proporzionalmente sullo stesso piede. Non parlerò del1' Austria e dell'Impero Ottomano, dannati per il bene degli sventurati popoli che opprimono, a crollare.25 Se, però, l'Europa fosse un solo Stato, o una confederazione di Stati, "chi mai penserebbe a disturbarla in casa sua? chi mai si avviserebbe, io ve

,. 25 ·

SD, III, pp. 302- 303. SD, I, pp. 338-339.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

lo domando, turbare il riposo di questa sovrana del mondo?" In questo caso, "la guerra non essendo quasi più possibile" tutti gli armamenti diventerebbero inutili, "e gli immensi capitali strappati quasi sempre ai bisogni e alla miseria dei popoli per essere prodigati in servizi di sterminio, sarebbero convertiti invece a vantaggio del popolo ...". Ma il disarmo non dovrebbe essere totale, né morale: "quello che non sarebbe inutile, è di mantenere il popolo nelle sue abitudini guerriere e generose, per mezzo di milizie nazionali, qualunque ambizione tentasse di infrangere il disarmo europeo". Siamo sulle tracce di Machiavelli... Una siffatta, rivoluzionaria iniziativa per l'unificazione dell'Europa dovrebbe essere presa, secondo G., proprio da Napoleone fil, la sua bestia nera: questo perché è pur sempre il capo di una Nazione, alla quale egli riconosce di essere "arbitra dell'Europa" e "avanguardia della rivoluzione". La Francia dovrebbe mettete fine per il bene comune ali' antica rivalità con l'Inghilterra, tracciando insieme ad essa "la base di una Confederazione europea", intorno alla quale si raggrupperanno le nazioni minori compresa l'Italia: "insomma tutte 1e nazionalità divise e oppresse: le razze slave, comprese, non vorranno restare fuori di questa rigenerazione politica alla quale ]e chiama i1 genio del secolo". Utopia o piuttosto precoce presa di coscienza di un problema dalla cui risoluzione dopo oltre cento anni continua a dipendere, per comune ammissione, la vita e il futuro dell'Europa? Per G. nel futuro consesso europeo ogni nazione dovrà avere il suo ruolo e la giusta dignità. In questa esigenza primaria vanno ricercate le ragioni della sua avversione esagerata e quasi patologica al clero, che non sono religiose o di carattere spirituale, ma prettamente militari ancor prima che politiche. Nel clero o meglio nella politica del Vaticano, infatti, vede non solo il principale ostacolo storico all'unità nazionale e a Roma capitale, ma il supporto primario del brigantaggio, la causa e il pretesto primo del!' intervento militare e della pesante ingerenza francese nelle cose italiane dal 1849 al 1870 e - fast but not least - la causa primaria della debolezza militare italiana e della mancata coesione nazionale raggiunta dalle popolazioni delle varie regioni della penisola, in una parola: della mancata "nazionalizzazione delle masse" (Mosse) che è un fenomeno tipico e unico dell'Italia anche dopo i] 1870, in controtendenza in campo europeo. È ben noto che il clero aveva molta influenza sulla popolazione delle campagne. Che la causa nazionale avesse il suo tallone d'Achille nell'atteggiamento dei contadini, G. lo constata a sue spese già nel 1849 in Lombardia: era necessario muoversi, e cambiar di posizione quasi ogni notte per ingannare i nemici, che per sventure d'Italia, massime in quei tempi, trovavano sempre una massa di traditori, disposti a far loro la spia, mentre per noi, anche con pugni d'oro, era difficile sapere esattamente del nemico. Qui facevo le prime esperienze del poco affetto della gente di campagna per la causa nazionale. Sia per essere creatura e pasto dei preti, sia per essere generalmente nemica dei


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propri padroni, che, coll'invasione straniera, eran, per la maggior parte, obbligati ad emigrare, lasciando cosl i contadini ad ingrassare a loro spese26• Lo stesso avviene, sempre a detta dello stesso G., nelle guerre del 1859 e del 1866: Nel messaggio indirizzato agli italiani il 20 agosto 1866 da Brescia, lamenta l'inenia delle popolazioni del Piemonte e Lombardia nel 1859, durante la quale "io ho veduto soldati austriaci passeggiare in pochi, lungi dai loro corpi, requisire quanto abbisognavano e bastonare coloro che non li servivano prontamente, poi carichi di spoglie, satolli, ubriachi ritirarsi tranquillamente al loro campo senza essere molestati"; e ciò che è avvenuto allora, succede nel 1866 nei paesi del Veneto e della frontiera. Segue un poco ascoltato appello agli italiani a scuotersi dell'apatia (la quale fa sl che essi accolgano con la stessa passiva indifferenza il soldato straniero e il loro concittadino), a dar di piglio alle armi e nac;condersi "nei recessi dei loro boschi, dietro le loro siepi, nei burroni", per insegnare allo straniero che questa terra è italiana. Ma ecco l'ostacolo, ecco le possibili obiezioni: il prete è austriaco, mi diranno e ciò spiega le spie di cui abbonda lo straniero, il canchero nel cuore dell'Ita1ia, in Roma il brigantaggio rinvigorito in ragione dell'abbassamento della causa nazionale. L'odio alla stessa causa è nutrito dalla generalità dei contadini. Ne volete una prova? cercate un contadino nei volontari italiani e non lo troverete. Essi vanno solo per obbligo di leva nell'Esercito ma nei volontari non uno! e nei volontari quella classe forte, laboriosa, sobria sarebbe preziosa! ma il prete non ce la vuole perché coi volontari s'istruirebbe il contadino, imparerebbe a maledire gl'istrumenti dell'oscurantismo che lo mantengono in una cloaca d'ignoranza e di miserie. Per lui l'Italia una, libera, rigenerata è nemica del prete ... 27

li peso negativo dei contadini e del clero non si fa sentire solo sui volontari, né è limitato alle guerre d'indipendenza; a fine 1876, cioè ormai "a bocce ferme", indica ancora nel clero e nei contadini una de11e due principali "magagne" militari dell'Italia, come già hanno dimostrato le battaglie di Novara e Custoza: offesi i preti dall'abbassamento del papato e dal trovarsi lesi nella pancia, essi sono nemici dal sistema presente di governo, benché tentennante, e se si trovasse l'Italia a dover sostenere una guerra d'invasione, noi li troveremmo certamente [... l alla testa degli invasori, facendo defezionare non solo la gente del contado, ma gli stessi contadini che si trovano nell'esercito. Io non ho assistito alle battaglie di 26 · 21

Memorie, p. 201. SD, D, pp. 335-337.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. li (1848- 1870)

Novara [I 848] e Custoza [1866], ma so da fonte sicura che i primi a sbandarsi dei soldati dell'esercito furono i contadini; ciò che succederà ogni volta che l'Italia provi un rovescio, perché i contadini sono nemici od indifferenti alla dignità nazionale, al Governo stabilito, avversione in loro suscitata dal prete. 28

I governi passati - prosegue G. - non hanno mai fatto nulla per rimecliare a questa grave sciagura: "ma se si vuole avere un esercito come si merita l'Italia, non si deve trascurare un momento per sanarlo da tale malanno", anche perché "i contadini sono incontestabilmente il nerbo più forte del nostro esercito, sia per il numero, come per la sobrietà e forza fisica, massime per le marcie". Si tratta purtroppo di un caso unico: i popoli più potenti "trovano il fiore delle loro milizie nei braccianti". Specie in Prussia, Russia e Turchia il contadino è fanatico seguace del sovrano e affezionato alla causa nazionale; mentre anche i popoli di Grecia e Spagna hanno dato con le loro guerre nazionali degli esempi. di coesione che mancano in Italia: si può aspettare dai nostri soldati il fanatismo dei soldati russi o turchi? Io non lo credo per le ragioni surriferite. Il Popes russo e I' Ulemas o Softas turco sono amanti del loro paese e fanatizzano col loro esempio i combattenti: ma il prete italiano, unico al mondo, è nemico del • propno paese... 2~.

L'amara - e senz'altro eccessiva e troppo pessimistica conclusione - è che "coi preti l'Italia non vale una potenza di terz' ordine, ad onta dei suoi 25 milioni d'abitanti e d'un milione di militi che essa può mettere in campo"30• L'habitus mentale di G., il suo approccio al grande problema politico-militare e storico dell'unità nazionale è questo. Nel prosieguo della trattazione, sarà nostra cura definire in che modo questi aspetti generali di carattere politico-militare influiscono sui suoi concetti strategici, tattici e ordinativi. Un Capo militare e scrittore clausewitziano? Concetti strategici e tattici.

Nessun scrittore come Clausewitz ha indicato con efficacia e con concetti senza tempo le doti che deve possedere il Capo militare31, a cominciare dal genio guerriero, il quale deriva "da un inclirizzo comune delle energie

"· so, lll, p. 248.

"'

SD, ID, p. 264.

30 ·

so. m, p. 476.

"

K. Von Clausewitz, Della guerra, Milano, Mondadori 1870, Libro I 58-87 e Libro Il pp. 121-127.


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spirituali verso la guerra". Di conseguenza esso "non consta di una sola di tali forze, il coraggio ad esempio, mentre altre facoltà dell'intelligenza o del cuore manchino od abbiano una direzione non utile per la guerra; esso consiste invece in una congiunzione armonica delle energie, nella quale l'una o l'altra può predominare, ma nessuna deve divergere". Per Clausewitz la prima qualità dell'uomo fatto per la guerra, che è dominio del pericolo, è il coraggio fisico e morale; quest' ultima dote consiste nella capacità di assumersi, all'occorrenza, tutte le responsabilità del caso. La guerra è il dominio delle fatiche, delle sofferenze fisiche e dell'incertezza; quindi il Capo militare, oltre a un certo vigore di anima e corpo, "deve possedere due qualità: una intelligenza che, anche in mezza alla oscurità intensa che la circonda, conservi una luce interna sufficiente a condurla al vero, ed il coraggio di seguire questa debole luce. La prima di tali qualità è stata indicata con l'espressione francese coup d'oeil, la seconda con la parola 'risolutezza"'. Vengono poi, per Clausewitz, la presenza di spirito, cioè la capacità di adottare rapidamente le decisioni necessarie di fronte all'imprevisto; l'aspirazione dell'animo alla gloria e all'onore; la forza del carattere e la perseveranza, perché "in tutti i casi dubbi occorre persistere nella prima decisione, rinunciandovi solo quando vi si sia obbligati da una chiara condizione"; "l'intuito del rapporto che intercede fra la guerra, la regione e il terreno"; infine, data l'importanza degli attriti in guerra, occorre "la volontà energica di un fiero spirito che si innalza imperiosamente, simile ad un obelisco verso il quale convergono tutte le strade di un abitato". Più avanti, trattando della teoria della guerra, Clausewitz accenna con chiarezza anche al ruolo del "sapere militare" e al modo di intenderlo. La predisposizione innata alle cose di guerra non è di per sé sufficiente, né il genio può fare a meno di qualsiasi teoria: tuttavia il Capo militare ha bisogno di un patrimonio assai ristretto di idee acquisite le quali "devono essere indirizzate alle cose che il Capo deve direttamente trattare in guerra" e derivano dall'esperienza storica e personale. Per questo si sono spesso visti negli alti gradi uomini che in precedenza non si erano mai occupati di cose di guerra; e "ciò spiega anche, e soprattutto, perché generalmente i comandanti di esercito più illustri non siano mai usciti dalla classe degli ufficiali eruditi o anche colti, ed anzi la loro posizione anteriore non potesse, nella maggioranza dei casi, conferir loro una grande somma di sapere". Ne consegue che le doti che deve possedere il comandante militare non comprendono necessariamente la cultura, ma si manifestano piuttosto nena capacità di trasformare il sapere in potere: il comandante supremo non ha bisogno di essere uno scrittore di vaglia [...]. Non ha bisogno di essere un fine osservatore della natura umana né un anatomista sottile del carattere individuale [... ] ma deve conoscere il carattere, il modo di pensare, le inclinazioni, i difetti speciali e le qualità di coloro che deve comandare [ ... ]. Non deve occu-


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parsi dei particolari di costruzione di una vettura [ ... ] ma deve saper valutare la durata di marcia di una colonna nelle diverse circostanze che possono influire su di essa; tutte queste conoscenze non si ottengono per mezzo di formule e di meccanismi scientifici, si acquisiscono invece solo con l'esercizio di una sana valutazione delle cose e degli uomini, e per effetto di un talento speciale, particolarmente atto all'uopo. Il sapere necessario per esercitare alte funzioni in guerra deve dunque essere caratterizzato interamente dal fatto che esso può essere acquisito - mediante la ponderazione e cioè mediante la riflessione solo da chi abbia a ciò uno speciale talento, una specie di istinto mentale [...] capace di trarre dai fenomeni della vita solo ciò che ne costituisce l'essenza.

Se si scorre una delle tante opere sulle imprese di G. e sulle operazioni alle quali ha preso parte, non si tarda ad accorgersi di un fatto innegabile: che più di tutti gli altri generali protagonisti delle guerre del Risorgimento, sia in campo italiano che in campo francese e austriaco, egli si è avvicinato alle doti che Clausewitz ritiene indispensabile per un capo militare. Né può essere attribuito alcun peso alle interpretazioni "minimaliste" dei risultati da lui ottenuti nella più celebre e fortunata delle sue campagne, quella del 1860 nell'Italia Meridionale. L'esercito borbonico del 1860 era senza dubbio afflitto da molti mali anche morali - a cominciare dalla camorra - che ne minavano l'efficienza bellica e la competitività; ma ciò non toglie che sia stata una compagine ben armata, la quale contro G. ha combattuto. Al di là di opinabili considerazioni, si deve infatti constatare che i successi di G. nella campagna del 1860 ebbero sempre un prezzo assai alto: 32 morti e 180 feriti (su 1.000 uomini circa) a Calatafirni, circa 1.000 su 6.000 a Milazzo, 506 morti e 1528 feriti (contro i 308 morti e 820 feriti borbonici) nella battaglia del Volturno. Ben a ragione, quindi, lo stesso G. (in polemica con i mazziniani e in particolare con il suo nemico Bertani, che - senza essere stato presente - aveva parlata di "facili vittorie"), scrive nelle sue memorie: fu ben malizioso e non veritiero colui che trattò di facili vittorie quelle del '60, vinte dai liberi italiani sulle truppe borboniche. Io ho veduto alcune pugne nella mia vita e devo confessare che le battaglie di Calatafìmi, Palenno, Milazzo e Volturno fanno onore ai militi e soldati che vi presero parte. Quando su cinque o seimila uomini nostri, circa mi11e furono posti fuori combattimento, ciò prova che non fu tanto facile la vittoria.32

A questo punto, due sono gli interrogativi ai quali dare una risposta: se G. oltre che ottimo tattico (questo, nessuno lo nega) è stato anche ottimo stratega, e se nei suoi scritti si trovano, o meno, conferme di ciò che si

n.

Memorie, pp. 323 e 344 e SME - Uf. Storico, La battaglia del Volturno (a cura di G. Garibaldi junior), Roma 1981 , p. 41.


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intravede dalle sue azioni. Va detto subito che, per sua stessa ammissione, G. non ha mai avuto la stoffa dell'organizzatore, dell'uomo da tavolino, dell'ottimo (e pur indispensabile, anche allora, anche tra le sue schiere) ufficiale di Stato Maggiore. Non ne aveva l'indispensabile preparazione tecnico-militare; ma ancor di più non ne aveva la vocazione, le qualità innate, in breve: la voglia. Considerava l'organizzazione - è un suo limite - come qualcosa di molto simile all'inazione, o - al massimo - come qualcosa che, pur essendo importante, poteva fare anche qualcun altro; a sé riservava solo l'azione, il comando. Nelle Memorie si trovano accenni assai significativi a questo suo atteggiamento: quando, nel Sud America, la Legione italiana da lui costituita inizia a combattere, invita a farne parte il patriota lombardo Francesco Anzani, esule in Sud America dopo aver subìto varie persecuzioni e aver combattuto per la libertà in Grecia, Portogallo e Spagna. L' Anzani accetta e diventa una sorta di Capo di Stato Maggiore della Legione con il grado di tenente colonnello; un collaboratore prezioso per G., che così commenta: l'acquisto di Anzani valse sommamente in tutto, ma massime nell'istruzione e nella disciplina. Provetto nella milizia, avendo fatto le guerre di Grecia e Spagna, io mai ho conosciuto un ufficiale con più coraggio, più sangue freddo e più istruzione d' Anzani. Ripeto, fu un vero tesoro per la Legione; ed io, pochissimo organizzatore, fui ben fortunato d'avere presso di me quell'amico e fratello d'armi impareggiabile. Con lui alla direzione del corpo, io ero certo del buon andamento d'ogni cosa [...]: dimodochè, io potei occuparmi della flottiglia [... ) colmo di cognizioni militari e amministràtive com'era, sistemò il corpo sopra un piede tanto regolare quanto le circostanze potevano permetterlo. 33

Tutti i comandanti hanno bisogno di un valido Capo di Stato Maggiore: ma G. ne ha doppiamente bisogno, perché è "pochissimo organizzatore" ... Questo fa la differenza. A tale lacuna accenna altre due volte: quando a fine luglio 1848 esce da Milano diretto a Bergamo "con un pugno di gente nuda e mal armata, un'altra volta per organizzare, destino niente adeguato all'indole mia e alle scarse mie cognizioni di teorie militari"34 e quando, dopo l'armistizio di Villafranca che conclude la guerra del 1859, accetta il comando delle truppe dell'Italia centrale, con le quali vorrebbe subito liberare l'Italia Meridionale. Ma viene osteggiato in tutti i modi: di conseguenza "io trascinai una ben deplorabile esistenza per alcuni mesi, facendo poco o nulla in un paese ove si poteva, e si doveva far tanto! Organizzare della truppa, tediosissima occupazione per me, con un'antipatia nata per il mestiere di soldato! per me, fatto milite, qualche volta, perché nato in un

33 34

Memorie, pp. 127-128. ivi, p. 192.


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paese schiavo, ma sempre con repugnanza, convinto sia un delitto doversi macellare per intendersi"l.\ Nell'Esercito italiano è spesso stato definito "garibaldinismo" o "alla garibaldina" tutto ciò che sa di improvvisazione, di superficialità, di approssimazione, di avventatezza, tutto ciò insomma che fa a pugni con quel sano concetto di organizzazione, metodo, disciplina, che è alla base di qualsiasi Forza Armata. Ebbene, un siffatto aggettivo - bisogna ammetterlo - non è del tutto privo di fondamento, anche se è al tempo stesso ingeneroso e non appropriato nei riguardi del G. generale e liquida troppo affrettatamente un'eredità storica, un "modello" che invece non lo merita, per la semplice ragione che Je doti e i limiti di G. erano perfettamente funzionali al tipo speciale di truppe ai suoi ordini. Alla luce delJe teorie di Clausewitz, infatti, non necessariamente e non sempre un Capo poco organizzatore - megUo, che non intende occuparsi troppo di lavori da tavolino - non è un Capo. Da sempre si sa che gli ufficiali generali di qualsiasi esercito (giunti a tale grado dopo un lungo iter di studi regolari e di esperienze) si dividono in base alle rispettive attitudini in due categorie: gli organizzatori, cioè i tipici ufficiaJi di Stato Maggiore, e gli "heroic leaders", che invece danno il meglio di sé alla testa delle truppe operanti. Alla prima hanno appartenuto, ad esempio, uomini notevoli come Eisenhower, Alan Brooke, Kesselring, il nostro Maresciallo Cavallero; alla seconda, uomini come Rommel, Patton, il nostro Maresciallo Messe. Ambedue categorie indispensabili: se mai, è ancor più difficile trovare un comandante sul campo, nel quale prevalgano rare doti innate che prescindono largamente dalla preparazione tecnico-militare. Pur non avendo compiuto (come tanti altri, anche ai nostri tempi) studi militari regolari, G. è dunque stato un generale vero. Un generale vero in guerra pensa solo a combattere, a vincere il nemico; non si dedica a intrighi di corridoio, né cura la propria carriera o le proprie ambizioni: è quello che, coi fatti, G. ha sempre dimostrato. Per il resto, non ci soffermiamo neppure sulla dimostrazione che è stato un Capo con preveggenti intuizioni strategiche, e non solo un buon tattico. È sufficiente rimandare, in merito, a studi approfonditi quanto disparati, dovuti sia a militari che a civili, che si succedono da oltre un secolo, e che smentiscono certi giudizi riduttivi del Mack Smith e del Times del 5 giugno 1882:3(' - il giudizio molto positivo sulle qualità di capo e stratega di G. de] generale Nicola Marselli, massimo scrittore militare italiano del secolo-(1889), e quello de] generale Antonio Gandolfi (1883).37 Tali giudizi dimostrano, tra l'altro, che non tutti i generali dell'Esercito del tempo giudicavano G. un guerrigliero e uno "sciabolatore" (si noti anche che il Marselli nel 1860 era ufficiale borbonico); " 36.

37

ivi, pp. 300-301. D. Mack Smith, Op. cit., pp. 199 e 292-293. N. Marselli, La vita del reggimento, Firenze, Barbéra 1889, pp. 198-199 e A. Gandolfi, Garibaldi generale, «Nuova Antologia» voi. 39°, Fase. Xl - 1 giugno 1883, pp. 385-408.


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- L'articolo del capitano Domenico Guerrini Garibaldi divinatore e

maestro (1900);38 - i due articoli del colonnello garibaldino Giovanni Cadolini Garibaldi e l'arte della guerra (1902);39 - l'articolo del tenente Giuseppe De Gregorio su Garibaldi nella commemorazione della battaglia del Volturno (Rivista Militare Italiana 1903, Voi. ID); - lo studio di C. A. Nicolosi sull'Arte Militare Garibaldina (Rivista di Fanteria 1903); - il citato opuscolo del capitano Ermanno Finocchi Della dottrina militare garibaldina (1910); 40 - i due articoli sulla Rivista Militare del capitano Salvatore Sinopoli Il genio di Garibaldi nella difesa di Roma (1915);4 1 - la serie di articoli commemorati vi nel cinquantennio della morte, comparsi nel 1932 sulla Rivista Militare, con particolare riguardo a quello del colonnello De Biase e del ten. col. Castagna;42 - Il volume del 1932 (cinquantenario della morte) Garibaldi condottiero, (con saggi dei principali scrittori militari) edito dall'Ufficio Storico SME e ristampato dallo stesso ufficio nel 150° della morte (1957);43 - il volume di Giuseppe Garibaldi junior La battaglia del Volturno, edito nel 1981 sempre dall'Ufficio Storico;44 - il volume Garibaldi Condottiero, riportante gli atti di un Convegno tenutosi nel 1982 con l'intervento dei principali storici militari;45, e il Quaderno n. 2/1983 della Rivista Militare, con particolare riguardo all'articolo del generale Oreste Bovio sull'arte militare garibaldina. A conferma delle qualità di generale clausewitziano di G. basti citare quanto scrive il Cadolini, secondo if quale "la forza morale che ha saputo infondere ai suoi seguaci [cosa che - osserviamo noi - non è di tutti] è stata accompagnata dalla guida delJa illuminata sua mente". Infatti l'arte della guerra dai più antichi condottieri, sino a Garibaldi, si manifestò sempre con eguali caratteri. Non detta regole matematiche, ma istituisce principii e criteri generali. Chi ne concepisce con calma e chiarezza di mente l'applicazione ai singoli casi, e al concepimento fa 38 ·

"Rivista di Fanteria" Voi. IX - 1900, pp. 643-648. "Nuova Antologia" Vot. XCIX- serie IV - Fase. 7291° maggio 1902, pp. 54-70 e fase. 730 16 maggio 1902, pp. 215-236. "' E. Finocchi, Op. cit.. 1 • "Rivista Militllre " 1915 - Voi. I, Fase. I pp. 148-161 e Fase. IJ pp. 312-331. .,. L. De Biase, Garibaldi, " Rivista Militare" n. 6/1932 pp. 951 -958 e G.G. Castagna, La dottrina militare di Giuseppe Garibaldi," Rivista Militare" n. 6/1932 pp. 959-970. "- Roma, SME - Uf. Storico 1932 (RIST. 1957). Presentazione del Ministro della guerra gen. Gazzera; Saggi dei generali Grazioli, Del Bono, Rocca, Corselli, Schiarini, Cicconetti, del colonnello Reisoli e del maggiore Tosti. .. SME - Uf. Storico, Op. cit.. 45 AA.VV., Op. cit.. ,.


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seguire la rapida reazione, prepara la vittoria. Garibaldi aveva studiato nella storia, e arricchito con la meditazione, tali principii. Come egli avesse studiato si arguisce, non solo dai fatti, ma dalle considerazioni e dalla nomenclatura stessa che leggonsi nei suoi scritti, e dai commentari delle battaglie da lui combattute, che potrebbero trovar posto nei Trattati di strategia e di tattica, come quelli di Napoleone I. La prontezza del suo ingegno chiaroveggente, il prestigio dell'alto suo valore, completarono in lui il gran Capitano. Nella campagna del 1860, allorché per la prima volta Garibaldi fu capo supremo e indipendente di un numeroso esercito, emerse più che mai la valentìa di lui nel dirigere le grandi operazioni strategiche.46

Non ci sembra che le tristi pagine dell'Aspromonte (1862) e di Mentana (1867) siano ta1i, da far modificare il giudizio sulle sue capacità strategiche. In ambedue i casi è stata la politica, anzi la politica estera, a sconfiggere a priori G., a non rendere possibile quell'appoggio più o meno palese del governo italiano, sul quale evidentemente aveva più di una ragione per contare, ripetendo così l'impresa del 1860: senza che il governo piemontese - e l'Inghilterra - chiudessero un occhio, nemmeno quest'ultima non sarebbe stata possibile. E va notato che - diversamente dalla prassi mazziniana - anche nel 1860 G. si è mosso non per provocare, per accendere un'insurrezione popolare, ma solo quando è stato ben sicuro che tale insurrezione era già in atto, e che quindi si trattava solo di intervenireper condurla a compimento e possibilmente estenderla. Come ricorda il Pieri, "Garibaldi era contrario decisamente all ' impresa di Pisacane come, dopo l'esperienza in Lombardia e del '49 nella ritirata da Roma, a tutti i piccoli tentativi di accendere moti insurrezionali; il soccorso avrebbe dovuto muovere a sostegno d'una rivoluzione già scoppiata e consolidata. Con una famosa lettera del 4 agosto 1854 all'"ltalia del Popolo", aveva chiarito il suo punto di vista"47 • G. è stato "sciabolatore e guerrigliero"? Certo: è stato anche questo, ma lo è stato solo dopo aver ben valutato la situazione, e aver constatato che era l'unica via percorribile. E quando la situazione lo richiedeva, è stato molto di più, dimostrando sempre rare qualità: condottiero in battaglie tra eserciti nel Tirolo, nella campagna di Sicilia del 1860, nel Sud della penisola fino al Volturno (quando -questo va notato - si è fermato al momento giusto) e in Francia; abile marinaio, capitano marittimo, ammiraglio, comandante di ardite operazioni combjp~te .i n Sud America.... Come meglio vedremo in seguito esaminando i suoi scritti, non è vero che - come afferma il Jean - considera decisive solo le operazioni "tradizionali", e che - dato anche il terreno italiano - mira a "integrare la piccola guerra con operazioni tradizionali" (se così è, avrebbe allora preferito la "piccola guerra"). 48 In realtà uno dei principali tratti distintivi del suo genio ... G. Cadolini, Art. cii., "Nuova Antologia" 1° maggio 1902, p. 54. 47 P. Pieri, Storia militare del Risorgimento (Cit.), p. 557 nota l. · "· C . Jean, Art. cit..


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militare va ricercato proprio nella capacità di adottare - in base al terreno, al nemico, alla situazione, alle proprie forze - la strategia e la tattica più convenienti, &fruttando al massimo il poco di cui disponeva. Nessuna preferenza, nessuna tendenza aprioristica dunque: ciò che gli interessava era solo il risultato. Se mai, le sue personali convinzioni politiche e le sue esperienze lo portavano a privilegiare tutto ciò che non era guerra classica tra eserciti; ciononostante, fin dai primi tempi del suo arrivo in Italia nel 1848, capì ciò che Mazzini non volle mai capire, che cioé in Italia non c'erano le condizioni reali per la riuscita di una guerra nazionale o che comunque coinvolgesse tutto il popolo compatto; né ha ritenuto possibile, come Mazzini o Pisacane, conquistare subito il contado alla causa nazionale ... E i difetti ai quali abbiamo accennato? Qui ha ragione il Guttièrez, biografo di Carlo De Cristoforis, quando - come si è ricordato - nota nel 1860 che Garibaldi "possiede l'impeto, virtù di Cesare, la velocità, che fu il segreto di Bonaparte, e il prestigio sopra il nemico. La vittoria è quindi per 3/4 nelle sue mani: per essere completa, gli manca la scienza. Col pretesto che non sa manovrare molte forze, gli si dà solo qualche migliaio d'uomini, per di più poco disciplinati e peggio armati; bisognerebbe invece dargli la miglior divisione dell'esercito, con i migliori ufficiali di Stato Maggiore: quella divisione di 12.000 mila uomini nel giorno della battaglia renderebbe per 30.000"49• Abbiamo finora parlato soprattutto di azioni, che sono una manifestazione del pensiero e dimostrano che G. almeno in senso clausewitziano aveva "studiato" la strategia: ma se ce ne fosse bisogno, i suoi scritti dimostrano che egli merita molto di più di quel comando di divisione, del quale parla il Guttièrez. La miglior dimostrazione del suo acume strategico è proprio il ben noto motto di due parole, "Italia e Vittorio Emanuele", al quale - lui repubbJicano - rimase sempre fedele. Il che vuol dire: poiché la politica è arte del possibile, la strategia - che da essa deriva - a sua volta non può essere che arte del possibile. Nel caso specifico dell'Italia, per battere il forte esercito austriaco occorreva riunire in un solo fascio tutte le forze comunque disponibili; ma non si poteva prescindere dall'esercito piemontese, quindi anche dalla monarchia piemontese. Più o meno la stessa visione strategica di Cesare Balbo (Voi. I, cap. Xl), con maggior accentuazione del possibile apporto popolare. Questo è anche uno dei suoi punti di divergenza principaJi con il velleitarismo di Mazzini, che ritiene anch'egJi necessario l'apporto delle forze regolari, ma chiedendo loro di servire quella causa della parte repubblicana, che G. a ragione riconosce minoritaria nel Paese e pregiudizievole per l'unità di comando. Mazzini confonde volere con potere, G. non lo fa: la differenza - a favore di quest'ultimo - è tutta qui. Ne derivano i continui richiami del Nostro all'unità nazionale, alla quale - con le parole e con i fatti - mostra di voler tutto sacrificare, per la

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G. Guttièrez, Op. cii., pp. 244-246.


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semplice ragione che senza unità non v'era - nelle condizioni dell'Italia di a1lora - a1cuna speranza di vittoria. Per questo nei suoi scritti bisogna continuamente distinguere tra gli obiettivi teorici, tra gli ideali e ciò che nella situazione del momento è oggettivamente possibile, tenendo comunque presente, anche in questo caso, che se le forze sono poche e il nemico è più forte, a maggior ragione è necessaria l'unità, premessa e non freno per un'estesa partecipazione popolare alla guerra naziona1e. E anche prescindendo dagli amari giudizi sui contadini, non di rado mostra poca fiducia nello spirito combattivo degli italiani. Nelle Memorie osserva che la Legione Italiana del Sud America in rapporto al numero di residenti italiani in quelle contrade poteva sembrare numericamente esigua, ma "considerando le odierne consuetudini nostre e la nostra educazione", l'afflusso di volontari era stato maggiore di quanto aveva sperato. E nel luglio 1849, quando si ritira da Roma, constata la mancanza di volontà di combattere sia tra la popolazione che tra i suoi seguaci, i quali disertano in gran numero. Si ricorda allora della costanza e dell'abnegazione esemplari di coloro che ba avuto ai suoi ordini in Sud America, i quali piuttosto che piegarsi alla tirannide si adattavano a guerreggiare per anni, privi di tutto, nei boschi e nel deserto: "paragonando quei forti figli di Colombo cogli imbelli ed effeminati miei concittadini, mi vergognavo di appartenere a questi degeneri nipoti del grandissimo popolo romano, incapaci di tenere un mese la campagna, senza la cittadina consuetudine di tre pasti al giomo"50 • Di conseguenza, la sua strategia e la sua tattica non perdono mai di vista lo strumento imperfetto che sono costrette a utilizzare. Sul piano generale, però, intravede per la futura strategia - o, meglio, per la politica di sicurezza - dell'Italia riunita, obiettivi assai ambiziosi. Essa ha anzitutto impronta interforze: come meglio vedremo trattando dei suoi scritti sulla Marina, sia pur senza addentrarsi nei risvolti finanziari delle sue proposte sostiene la necessità che l'Italia, Paese mediterraneo, disponga di una forte Marina. È contrario anche all'imperialismo e a1 colonialismo, che dunque non mette in rapporto con il potere marittimo; oltre che dell'Impero russo basato sull'assolutismo, prevede la fine dell'"immenso Impero britannico" e di quello germanico, "il giorno in cui i popoli servi capiranno il vantaggio di servire se stessi, a preferenza degli altri"51• E giudica "ingiustissime" la guerra di conquista francese della Tunisia, cosl come quella austriaca della Bosnia-Erzegovina (1878). Per quanto riguarda l'Italia, nel 1879 pur riconoscendo "utile e patriottico trovare uno sbocco sicuro all'emigrazione, che disgraziatamente abbandona i1 nostro paese a centinaia di mille", si oppone al progetto di colonizzazione della Nuova Guinea (con a capo proprio suo figlio Menotti)

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Memorie. p. 237.

" so, m pp. 534-535.


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ventilato dal governo, sia perché quest'isola inospitale, lontana e dal clima poco salubre - non a caso trascurata da "un popolo colonizzatore come gli inglesi" nonostante la sua vicinanza ali' Australia - diventerebbe "una vera Cajenna italiana" dove inviare gente scomoda che turba i sonni del governo, sia perché "vi è [anzitutto] la nuova Italia da colonizzare, che reclama i milioni che si sprecano per l'Esercito". Ma quale guerra vuole G.? qual'è, più nel particolare, il ruolo che assegna alla guerriglia nella sua strategia? Quando lascia l'America, non pensa affatto a partecipare a una guerra di eserciti regolari: "giacché non solamente v'erano molti indizi di movimenti insurrezionali nella penisola, ma in caso contrario si era decisi di tentare la fortuna, e procurar di promuoverli, sbarcando sulle coste boschive della Toscana .. .52. Il 18 agosto 1848 incita il popolo di Varese a impugnare qualsiasi arma e insorgere contro l'austriaco: "non trattasi ormai di affrontare le schiere compatte e ordinate di un esercito in campo, ma invece di molestare da ogni parte, alla spicciolata, all'improvviso, senza tregua, il nemico. Ricordate, o cittadini, che ogni croato ucciso è un sudiciume di meno per l'Italia"53 • Vuole, cioè, una guerra totale sul modello di quella di Carlo Bianco di Saint Jorioz; il 9 agosto precedente era già stato fumato l'armistizio Salasco, quindi non si tratta di un semplice invito alla popolazione a concorrer~ alle operazioni in corso da parte dell'esercito piemontese, ma di un tentativo di affidare la prosecuzione della guerra regia alle forze popolari. Come commenta nelle Memorie, "in tale occasione rinatami era la speranza, nutrita per tant'anni, di portare i concittadini nostri a quella guerra di bande, che a difetto d'esercito organizzato potrebbe portare all'emancipazione della patria, promuovendo l'armamento generale della Nazione quando questa avesse avuto veramente l'intima e risoluta volontà di redimersi"54 • Appello caduto nel vuoto; così come cadono nel vuoto il proclama agli italiani del 18 ottobre 1848, e quello ai lombardi del 30 ottobre 1848 con il quale li esorta a scatenare una vera e propria guerra di popolo sul modello spagnolo: "tutti gli italianj sorgano armati e sia guerra di popolo, che sprezza gli ostacoli, deride i pericoli, non conta i nemici; sia guerra di nazionale vendetta, senza sorta, senza misericordia"55• Inascoltato anche il proclama che il 4 marzo 1849 indirizza "ai Popoli della Sabina, dell'Umbria e delle Marche" invitandoli a sollevarsi, così come non ha successo l'invito ai soldati del Re delle Due Sicilie a disertare in massa per arruolarsi nella Legione Italiana, nonostante la promessa di ricchi premi. Notevole una lettera del 1° aprile 1849 da Rieti ai Triumviri romani, con la quale vuol sfatare le malevole voci sparse sul suo conto "da dicitori

52 ·

Memorie, p. 183. SD, 1 p. 94. "'· Memorie, pp. 199-200.

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SD, I p. 98.


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di teorie e garruli fautori di condottieri di cui abbondiamo purtroppo in Italia": mi hanno fregiato alcune volte con gli epiteti di pirata, contrabbandiere o guerrigliero, perché mi è avvenuto di combattere contro i cento, contro i mille, non una sola volta, e vincere; e perché con epiteti diffamanti si procura di oscurare il nome di nemici, tanto più quanto temibili sono. Quando mi si affidi più di cento, io mi sento la capacità di condurli, farli combattere e lo sento nell'intimo del1' anima mia.

Segue la (solita) richiesta di mano libera, per operare dove e come crede: io non vengo con questo_a chiedervi il comando dell'esercito, io vi chiedo soltanto di lasciarmi prendere la via Emilia, autorizzazione a riunire gente ed armi, proclamare la leva in massa sulle strade che io devo percorrere ed incaricarmi della divisione che si trova nel Bolognese, per operare nei Ducati, nella Liguria, in Lombardia ecc. con facoltà illimitate; ed in combinazione colle forze toscane, liguri, piemontesi che operino contro i tedeschi. 56

Diversamente da Mazzini e dal Triumvirato, G. vede la questione della difesa della Repubblica Romana dal lato esclusivamente militare, per cui ritiene che, essendo Roma indifendibile, non tutte alla difesa della capitale dovevano dunque impiegarsi le forze dell'esercito romano, ma internarne la maggior parte nelle posizioni inespugnabili di cui abbonda lo Stato, chiamare le popolazioni tutte alle armi, lasciarmi continuare la mia marcia vittoriosa nel cuore del Regno, e finalmente, dopo d'aver mandato fuori quanto si poteva i mezzi di difesa, uscire lo stesso governo, e stabilirsi in posizione centrale e difendibile. ~7

Si deve ammettere che questa era l'unica strategia possibile, anche se aveva a sua volta scarsissime possibilità di riuscita, per due ragioni essenziali: a) non si poteva fare affidamento (proprio per quanto lo stesso Garibaldi lamentava a proposito dei contadini, dell'indifferenza e ostilità delle popolazioni italiane ecc.) sull'accorrere spontaneo e entusiasta delle popolazioni alle armi o sul loro appoggio; b) le forze regolari della Repubblica, male armate e addestrate, non erano atte a battersi in campo aperto contro truppe agguerrite. In tutti i casi, da questo orientamento emerge la costante tendenza di G. - a prescindere dalle forme della guerra - a fare appello al popolo, come forza viva e traente della guerra, qualunque sia la 56 SD, I pp. 112-116. "· Memorie, p. 228.


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forma che essa possa assumere (cosa che dipende dalle circostanze). Nella guerra del 1859 è comandante dei volontari che si battono con valore contro superiori truppe austriache sulle montagne del Trentino. Ma, anche se mostra di rivolgersi soprattutto alla popolazione delle città, non dimentica affatto di promuovere l'insurrezione popolare, in aggiunta agli arruolamenti tra i suoi volontari e/o nell'esercito regolare; né dimentica la necessità di guadagnarsi subito il consenso popolare. Ne11e istruzioni segrete diramate il 1° marzo 1859 da Torino invita i lombardi a insorgere non appena il Piemonte avrà dichiarato guerra ali' Austria, e aggiunge: 2° se l'insurrezione non sarà possibile nella vostra città, i giovani atti alle armi esciranno e si recheranno nella città vicina, dove l' insurrezione sia già riuscita, o abbia probabilità di riuscire. Tra varie città vicine, preferite quella che è più prossima al Piemonte, dove devono far capo le forze italiane; 3° farete ogni sforzo per disordinare e vincere l'esercito Austriaco, intercettando le comunicazioni, rompendo i ponti, abbattendo i telegrafi, ardendo i depositi di vestiari, vettovaglie, foraggi, tenendo in ostaggio cortese (sic) gli alti personaggi al servizio del nemico e le loro famiglie. 58

Segue l'invito a non tirare per primi sui reparti italiani e ungheresi al servizio dell'Austria, a evitare "conflitti e moti intempestivi e isolati", a proclamare la leva del 10 per mille dei giovani dai 18 a 25 anni, a accogliere come volontari i cittadini dai 26 ai 35 anni che vogliono prendere le armi e a inviare coscritti e volontari in Piemonte. Si devono inoltre abolire i dazi sui. generi di prima necessità "e in genere tutti gli aggravi che non esistono negli stati sardi", limitando nel contempo la libertà di stampa e di associazione, in attesa dell'arrivo del Commissario inviato dall'esercito piemontese. Anche nel maggio 1859 rivolge ripetute esortazioni ai lombardi, affinché chiunque è in grado di impiegare un'arma si batta per la causa nazionale. 59 La sua è sempre una guerra nazionale e italiana, anche se, per ragioni contingenti, deve accettare la leadership piemontese e monarchica; e nei limiti del possibile, continua a contare sull'insurrezione popolare e sulla guerra per bande, senza aprioristicamente indicarne i limiti o preoccuparsi della sua collocazione teorica, ma chiedendo a tutti il massimo possibile e di battersi come possibile. Ciò avviene anche nel 1860, con lo sbarco in Sicilia deciso a sostegno dell'insurrezione siciliana, con l'invito ai siciliani a fare da sé, con la proclamazione della leva in massa in Sicilia ecc .. Nelle istruzioni impartite nel maggio 1860 da Talamone allo Zambianchi (da lui incaricato di invadere lo Stato pontificio per creare una diversione alla ben più importante spedizione

58 59 ·

SD, I pp. 161-163. SD, I pp. 168-169.


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nell'Italia Meridionale) non perde mai di vista la necessità di far insorgere le popolazioni e di guadagnarsi il loro consenso, cercando di conquistare alla causa i soldati italiani del Papa ma evitando di proclamare l'insurrezione nei territori soggetti a Vittorio Emanuele e di arruolare disertori del1' esercito regolare italiano6(). Nel 1866 non trascura di invitare i trentini, per tradizione ottimi tiratori, "a dar di piglio alle famose carabine". In occasione della guerra del 1870-1871 critica aspramente la condotta delle operazioni da parte della Repubblica francese e propone di dare il massimo sviluppo possibile all' impiego dei franchi tiratori e a reparti che agiscano sulle retrovie nemiche. Nel 1876 - a coronamento dell'esperienza di tutta una vita - loda un libro del generale francese Wimpffen dal titolo La nazione armata, e prega il direttore del giornale "La Capitale" di pubblicarne il seguente brano: gli eserciti, qualunque sia il loro numero e il loro valore, possono soccombere, ma un gran popolo in anni mai! Egli è assai più sicuro di conservare il suo territorio e la intiera indipendenza. Siamo dunque questa nazione, non tardiamo di più a diventarlo se vogliamo non essere più Umiliati, né invasi.01

Nel 1878, infine, nel ribadire la sua fede nella nazione armata aggiunge anche che "la guerra nostra non deve essere fatta come la passata coi guanti bianchi; ma al coltello, e non lontano abbiamo l'esempio dei Montenegrini che distrussero dieci eserciti d'uno dei più potenti Imperi del mondo"62• Al centro della riflessione strategica di G. non vi è dunque una guerra limitata agli eserciti o alla stessa guerriglia, ma la guerra di popolo, intesa come necessità che tutto il popolo partecipi alla guerra nazionale nelle fonne e nei modi possibili e suggeriti dalle circostanze. In secondo luogo, i suoi frequenti richiami all'insurrezione e alla guerra per bande sono una chiave interpretativa primaria per ben capire.la sua strategia, sia quella teorizzata che quella praticata. Chi lo ha definito con notevole superficialità un guerrigliero in fondo non sbaglia del tutto: perché non solo la sua tattica, ma anche la sua strategia sono segnate dall'esperienza sudamericana di guerrigliero sia della terra che del mare, e ancor più dalla tendenza - già allora emersa - a combinare o alternare con la massima flessibilità i procedimenti tipici della "piccola guerra" e/o della guerriglia, con i procedimenti tipici della guerra tra eserciti. Sono motivi ricorrenti dei suoi scritti come delle sue azioni l'agguato, l'imboscata, la grande importanza data alla ricerca di informazioni, là ricerca della mobilità, la predilezione per l'azione notturna e per l'azione nelle retrovie nemiche, l'amore per gli stratagemmi, l'adozione di procedi-

"'· SD, I pp. 244-245. 61 SD, III p. 253. 62 SD, III p. 275.


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menti che mantengano le forze divise salvo poi a riunirle se e quando occorre, l'attenzione dedicata alla necessità di guadagnare il consenso delle popolazioni e di mantenere alto il moralè dei volontari, ecc ... Si è detto che la sua è una strategia eminentemente offensiva, ma non lo è sempre; più corretto dire che essa è spesso difensiva, costretto com'è a far fronte a forze molto superiori con forze inferiori anche come qualità. Invece, è la sua tattica ad essere sempre marcatamente offensiva, e lo è essenzialmente per ragioni morali. Del ruolo della guerriglia nel suo pensiero e nena sua azione si può semplicemente dire che, in linea teorica e secondo il suo impulso di libero quanto incolto combattente nelle pampas sudamericane, sarebbe la sua guerra ideale, ma giunto in Italia fa - come sempre - di necessità virtù: pur continuando a preferirla l'applica se, quando e quanto possibile, e diversamente da Mazzini si guarda bene dallo scambiare le speranze con la realtà, così come dal sostenere - come Pisacane - un modello che escluda tassativamente la guerra per bande. Questa linea di pensiero e di azione emerge in particolar modo nella guerra del 1870-1871 al servizio della Repubblica francese, quando - come voleva Clausewitz - non fa che sostenere semplicemente, che tutte le energie, le risorse nazionali devono essere mobilitate contro il superiore esercito prussiano, evitando peraltro di affrontarlo in battaglie in campo aperto, per la semplice ragione che è assai superiore ali' esercito francese, prima di tutto per qualità e addestramento. Nel novembre 1870 scrive ai sindaci del circondario di Dole: un piccolo numero di uomini male armati e peggio equipaggiati non ha certo l'obbligo di combattere contro delle truppe regolari; ma quegli stessi uomini, nazionali od altri, ricordandosi che appartengono ad una nazione che giammai piegherà il ginocchio dinnanzi allo straniero, devono all'avvicinarsi di un nemico superiore in forze, ritirarsi nei loro boschi e foreste con tutto il loro bestiame; e pratici come sono dei luoghi, molestare se non i grandi corpi, almeno gli esploratori nemici, che marciano sempre in piccolo numero, e che tanto maggiormente sono dediti al saccheggio, in quanto che sono liberi nelle loro escursioni.63

Il che equivale a dire: la popolazione francese non deve, come al solito, aspettare passivamente l'esito della lotta - ormai impari - tra i due eserciti regolari ma deve prendere parte attiva, nei limiti delle sue possibilità, alla guerra stessa. E nell'aprile del 1871 indica tra le cause della sconfitta francese il mancato impulso dato alla formazione di reparti di "franchi tiratori", cioè di reparti che agiscono con i procedimenti tipici della guerra partigiana:

63

SD, lii p. 56.


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interrogate gli stessi prussiani, e vi diranno che i tiratori franchi eguagliavano i loro migliori soldati, questi tiratori franchi essendo uomini d'educazione la maggior parte [cioè: borghesi istruiti N.d.a.], e liberi dalla dominazione del prete; e ciò che non è il caso fra la gente delle campagne, la quale dal prete è tenuta nella più crassa ignoranza. Desidero che osserviate come il sistema dei Franchi Tiratori, quasi sconosciuto sotto l'Impero, non sia stato sufficientemente sviluppato sotto la Repubblica, a causa dell'inesperienza di quelli che comandavano e dell'avversione che l'armata regolare ha verso di loro.64

Non disconosce affatto i limiti delle formazioni volontarie ai suoi ordini, che rendono anche per loro poco conveniente affrontare i prussiani in campo aperto. Nelle istruzioni per i volontari e per i franchi tiratori da lui compilate nelJ'autunno 1870 durante il viaggio per raggiungere da Caprera la zona d'impiego, prescrive una vera guerra partigiana, la quale parte dal realistico presupposto che riunire il massimo numero di elementi sul punto tattico e l'obiettivo prescelto; è questa [propugnata da Jomini - N.d.a.] una massima costante di tutti i grandi condottieri che non può impuneamente misconoscersi. A malgrado di tutte le modificazioni della tattica derivanti dal perfezionamento delle armi da fuoco, le masse compatte ben guidate sono quelle che hanno deciso fin da ora le grandi battaglie; conseguentemente, siccome non abbiamo tali masse organizzate [nostra sottolineatura N.d.a.], occorrerà ricorrere alla guerra di partigiani sino a quando l'esercito nazionale possa con vantaggio affrontare l'avversario. 6'

Quale differenza da Pisacane! e quanto più realismo! Seguono leprescrizioni tipiche della guerra partigiana: costituire numerosi "partiti" composti ad esempio di 100 uomini ciascuno, "spinti sulle linee dei nemici e su11e loro retroguardie per molestarli senza tregua, sorprendere i loro convogli, i loro esploratori, i corrieri ed impedire di estendere la loro azione su vasto raggio [... ]. Dieci partiti di 100 uomini, se del caso, [ ... ] riuniti, possono tentare operazioni importanti e finalmente servire, insieme ad altri elementi, di nucleo all'esercito nazionale". Si tratta di obbligare il nemico a rimanere concentrato, rendendo cosl difficili i suoi approvvigionamenti, di tendergli insidie e di stancarlo: "bisogna che ogni cespuglio, ogni albero nasconda un'arma". Le modalità d'azione sono più o meno le stesse già teorizzate da Carlo Bianco di Saint Jorioz: muoversi e operare di notte e dormire di giorno, accettare, specie all'inizio, combattimenti nei quali il successo sia certo, conquistarsi la benevolenza delle popolazioni, ecc.. Nel caso che, impegnato un combattimento di giorno, sia necessario ritirarsi,

64

"'

SD,illp. 90. SME - Uf. Storico, Garibaldi condottiero (Cit.), pp. 370-373.


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bisogna fare ogni sforzo per sostenere la lotta fino a notte, fino a quando, cioè, la ritirata è meno pericolosa. E conclude citando l'esempio di Montevideo, che resistette per nove anni all'assedio di forze nemiche agguerrite. Questo è stato possibile solo perché tutti parteciparono alle difese, con il braccio o cedendo i loro averi alla Patria: "un villaggio della Francia ha più risorse che non ne avesse allora Montevideo; possiamo dubitare della vittoria nella difesa della Nazione?". Istruzioni analoghe sono da lui impartite - su scala ridotta - al figlio Ricciotti (11 novembre 1870) e al comandante Delpeche dei franchi tiratori, a] quale raccomanda di distruggere la ferrovia e la linea telegrafica da Strasburgo a Parigi."" Quando ormai anche le forze della Repubblica sono sconfitte, e dopo la firma deU'armistizio con la Prussia il 28 gennaio 1871, G. non si rassegna e pensa alla ripresa della guerra con una strategia che riproduce su una scala nazionale e strategica i criteri tattici da lui indicati in precedenza ai suoi volontari. Ai primi di febbraio 1871 scrive, in francese, "alcune idee sulla probabilità di intraprendere nuove operazioni di guerra"67, e dei "consigli militari". Le sue proposte si basano sempre su una constatazione elementare, dalla quale sa però trarre tutte le conseguenze questa volta sul piano generale: "pretendere di affrontare le armate prussiane vittoriose in una battaglia campale con un esercito appena formato [quale è quello della Repubblica succeduta all'Impero, affrettatamente costituito e inquadrato con la leva in massa promossa dal Gambetta - N.d.a.] sarebbe una follia, anche a parità numerica di forze. Bisogna dunque ricorrere al sistema di guerra di Fabio: manovrare e nello stesso tempo gettare sulle linee d'operazioni, di comunicazione e sul tergo del nemico dei piccoli reparti autonomi composti da 50 a 1000 uomini armati alla leggera, senza carreggi al seguito o senza artiglieria. S'intende che un distaccamento da 50 a 100 uomini può vivere e penetrare ovunque, spostarsi quasi sempre di notte, e attaccare all'alba qualsiasi reparto nemico ... ". Si potrebbe cominciare - prosegue G. - con 50.000 uomini divisi in 50 colonne di 1000 uomini ciascuna, con una batteria da montagna e un po' di cavalleria; queste colonne potrebbero arrivare fino a 1000, perché arruolando le reclute del 1871 si potrebbe armare 1.000.000 di uomini. Esse dovrebbero agire ciascuna con un differente itinerario all' interno del dispositivo, per condurvi una guerra partigiana avente lo scopo di far emergere capi nuovi, e di obbligare il nemico a dividersi sempre di più, correndo cosl il pericolo di essere facilmente battuto da diverse colonne o centurie capaci di riunirsi quando è il momento. Per contro le forze francesi, suddivise in piccole unità e aiutate dalla popolazione, potranno facilmente rifornirsi e potranno agire negli intervalli tra i reparti nemici senza alcun rischio,

li6. 1 • ·

SD, ID p. 58-61. SD, lll pp. 76 78 e 471 473.


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tagliando le loro comunicazioni e sfruttando nel modo migliore i1 terreno boscoso e montagnoso della Francia che si presta assai alla guerra partigiana. I fatti gli daranno ragione, perché il nuovo esercito repubblicano non riuscirà a ripetere i miracoli del 1792-1793 e sarà abbastanza facilmente sconfitto in campo aperto dai più saldi e addestrati corpi prussiani. Le valutazioni di G., comunque, dimostrano che egli - al di là di proclami e incitamenti volti a rafforzare il morale e la fiducia in sé stessi dei suoi uomini ben si rende conto della superiorità in campo aperto di eserciti ben addestrati e inquadrati come quello prussiano o austriaco: se l'esercito francese viene sconfitto, è perché non è competitivo ne11e battaglie campali. D'altro canto, le sue idee in materia strategica non si limitano all'applicazione per quanto possibile di criteri e procedimenti tipici della guerra partigiana alla guerra tra eserciti o alla guerra dei volontari: quando la situazione e il rapporto di forze lo consentono - e solo in questo caso - sa impostare un ragionamento strategico anche basandosi sui classici principi dell'arte della guerra tra eserciti. Ciò avviene in particolar modo prima e durante la sfortunata guerra del 1866 e soprattutto negli anni seguenti, quando da una parte critica aspramente - e a ragione - la condotta di tale guerra da parte italiana, e dall'altra suggerisce le scelte strategiche che il Regno d'Italia dovrebbe compiere, per far fronte ali' occorrenza sia all'Austria che alla Francia. Tra la guerra del 1859-1860 e quella del 1866, quando il Veneto è ancora in possesso dell'Austria, esamina la linea d'azione più conveniente per l'esercito austriaco, e di conseguenza il dispositivo più idoneo per quello italiano68 • Ha, per la verità, un'idea errata della saldezza delle forze nemiche, che - minate all'interno delle varie nazionalità - potrebbero a suo parere facilmente dissolversi come que]le borboniche del 1860; e parte dalla premessa (assai ambiziosa, se non impossibile) che come questione di vita o di morte l'Italia deve disfare l' esercito austriaco, da sola senza l'aiuto straniero. Perciò essa non deve aspettare di essere attaccata. La lunga linea da Brescia a Bologna che l'esercito italiano deve occupare è favorevole ad una invasione del1' Austria. Essa può gettarsi facilmente coJ grosso delJe sue truppe in mezzo all'esercito italiano e combatterlo parzialmente.

Per far fronte a questo pericolo, il nostro Esercito deve concentrarsi tra Lodi e Parma, con il centro a Piacenza e le due ali a Bologna o Brescia (che devono essere fortificate e ben presidiate, in modo da poter resistere all'arrivo dei rinfora). La direttrice più favorevole per l'esercito austriaco è quella di Milano; viene poi quella di Piacenza e di Bologna. Padrone com'è di Peschiera, Mantova e Borgoforte, potrebbe attaccare da tutte e tre le ..

SD, lll pp. 440-443.


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parti; però, non potrebbe prendere la via di Bologna e Milano senza prima combattere l'esercito italiano con il suo centro a Piacenza. Quest'ultimo dovrebbe evitare una "vergognosa" difensiva, e invece marciare in massa sull'esercito nemico ove si trova fuori delle sue fortezze, e dopo di averlo sbaragliato, marciare subito su Vicenza, ed ordinarvi un campo trincerato ove si raccogliesse il nerbo della insurrezione veneta; seminare il Lago di Garda di cannoniere al punto di esserne padrone. Se la stagione non fosse propizia per marciare avanti, impadronirsi di Peschiera; se favorevole, marciare verso Vienna fino a darsi la mano con la insurrezione ungherese e con quella dei Viennesi stessi, e poi fare i conti. Per fare questo, "non ci vogliono certamente misure cavouriane, cioè disarmare le Guardie Nazionali e proibir loro di coadiuvare l'esercito, ma contemporaneamente alla marcia in avanti dell'esercito, una leva in massa della Nazione". La leva in massa dovrebbe essere accompagnata da misure draconiane, aventi lo scopo di neutralizzare e costringere a cadere per mancanza di rifornimenti le guarnigioni delle fortezze austriache del quadrilatero, che rimarrebbero alle spalle dell'Esercito italiano avanzante verso Est. Si tratta, in sostanza, di fare terra bruciata - come si era fatto in Spagna e Russia di fronte alle armate napoleoniche - intorno ai reparti e alle fortezze austriache: "il quadrilatero mentre occupato dal nemico dovrebbe essere ridotto a deserto, tutto distrutto e le popolazioni trasportate oltre trenta miglia dalle fortezze, in città arniche, con obbligo di mantenerle e il Governo d'indennizzarle dopo cacciato lo straniero". Le guarnigioni delle fortezze nemiche dovrebbero essere controllate da corpi di osservazione coadiuvati da guardie nazionali; in tal modo le comunicazioni alle spalle dell'esercito italiano avanzante verso Est, anche se temporaneamente interrotte, potrebbero essere presto ripristinate, e comunque "un generale di genio non mancherebbe di trovare il necessario per le sue truppe nel Veneto o nella fertile valle del Danubio". Progetti non privi di una base logica, ma troppo ottimistici e radicali. Più coerente e realistica, invece, la strategia da lui suggerita per la guerra del 1866 e gli ammaestramenti tratti dal suo esito sfortunato, sia in terra che in mare. Quando la guerra non è ancora iniziata, G. si dichiara entusiasta dell'idea di sbarcare con un corpo di 30.000 volontari sulle coste venete dell ' Istria e della Dalmazia per sollevarvi le popolazioni contro l'Austria (idea alla quale Vittorio Emanuele II era favorevole ma che venne poi bocciata dal governo e dallo Stato Maggiore): nell' Adriatico saremo coadiuvati dalla flotta; non solo, ma la flotta può essere coadiuvata da noi in tutte le sue imprese sia sul mare, che sulle coste. Contando sul progetto di S.M. nell'Adriatico, io ho raccolto carte, formato il mio piano, incaricato amici di riattivare le relazioni preesistenti con quei popoli [.. ]. Prego il generale Cialdini di gettare un


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colpo d'occhio sulla carta e si persuaderà certamente dell'efficacia di un corpo, che può trovarsi in poche marce alle spalle e sulle comunicazioni dell'esercito nemico. Concludo col dire che io andrò dove mi mandano ma se vale la mia opinione, io sono fortemente per l' Adriatico, e non per il Tirolo69 •

fu tal modo G. intende costringere l'Austria a distrarre forze dal fronte Ovest contro l'Italia e dal fronte Nord contro la Prussia. Va però ricordato, in proposito, che nella storia ufficiale della campagna del 1866 Carlo Corsi definisce l'idea del re e di G. " pericolosa insieme e puerile e contraria all'atteggiamento che il Regno italico aveva preso nei suoi rapporti colle altre potenze europee, le quali per virtù appunto di quell'atteggiamento gli si erano fatte o venivano facendoglisi amiche da avverse che prima erano state"70 • Una siffatta impresa, cioè, avrebbe alienato all'Italia le simpatie e l'appoggio delle principali potenze europee. Sta di fatto che, come dimostrano taluni nostri precedenti studi7': fin dal 17 giugno (cioè fin da prima della battaglia di Custoza) i Prussiani caldeggiano uno sbarco sulla costa orientale dell'Adriatico e a Trieste e la sollevazione dell'Ungheria come linea d' azione strategica più conveniente, onde impedire alle forze austriache in Italia di ritirarsi per volgersi contro la Prussia (come poi è avvenuto); fin dal 1865 la Marina aveva studiato un progetto analogo, che all'inizio del 1866 è ripreso in esame - e ritenuto di possibile attuazione - da una commissione mista formata da due valenti ufficiali, il capitano di vascello D'Amico (poi Capo di SM dell' amm. Persano a Lissa) e l'allora maggiore Agostino Ricci, eminente scrittore militare; in previsione di una spedizione marittima contro l'Austria ad Ancona erano stati ammassati cospicui approvvigionamenti; - dopo Custoza l'avanzata dell' Esercito del Po nel Veneto è ostacolata e ritardata - più che dal nemico - dagli ostacoli naturali, inconveniente che solo con uno sbarco in forze nel Veneto o a Trieste - per il quale sicuramente non mancavano le navi da trasporto - si sarebbe potuto evitare. Le critiche di G. alla condotta della guerra del 1866 ruotano intorno alla mancata applicazione del classico principio della massa, sia a livello di impostazione strategica della campagna, sia nel caso particolare della battaglia di Custoza:

"' 70 ·

7

1.

SD, Il p. 274. Sz. Storica corpo di SM, La campagna del 1866 in Italia, Roma, Voghera 1875, Tomo I p. 3. Cfr. F. Botti, La campagna del 1866: cooperazione Esercito-Marina e trasporti via mare, "Rivista Marittima" n. 2/1989, pp. 87-100 e ID, La logistica dell'Esercito (Cit.),, Vol. Il Cap. 111 e IV.


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l'esercito nostro contava 200.000 uomini, l'esercito nemico centomila; perché far combattere soltanto una metà [cioè l'esercito di La Mannora schierato sul Mincio - N.d.a ... ] dell'Esercito nostro [... ] contro tutto l'esercito nemico in posizioni da lui studiate per tanti anni, e framezzo alle sue formidabili fortezze? L'altra metà del Po comandata dal generale Cialdini restò inoperosa per colpa del Comando Supremo72 • Nella battaglia di Custoza - prosegue G. - il generale La Mannora è stato sconfitto per le stesse ragioni che nena guerra franco-prussiana del 1870-1871 hanno portato l'esercito francese di Napoleone ma soccombere di fronte alle armate del generale Von Moltke, il quale - applicando la tattica napoleonica - ha concentrato la massa delle sue forze contro la destra dell'esercito di Mac Mahon, provocandone la rotta: Custoza per le stesse cause ebbe gli stessi effetti. li nostro esercito schierato da Peschiera a Mantova ricevette i tre corpi d'esercito nemico sulla sinistra che ne fu sbaragliata [... ]. Si vede quindi che Napoleone ID e chi comandava l'esercito italiano a Custoza [La Marmora - N.d.a.] avevano dimenticato le massime più elementari dell'arte della guerra, consacrate fin dai tempi di Epaminonda alle battaglie di Gentra [Leuttra - N.d.a.] e di Mantinea, cioè sostituire la linea obliqua alla parallela; oppure avere il talento di far combattere i molti contro i pochi11. G. depreca il fenomeno di due grandi eserciti italiani - quello del La Mannora e del Cialdini - che si ritirano di fronte a soli 80.000 austriaci, tanto più che quest'ultimi erano separati da fiumi importanti, obbligati a coprire quattro fortezze e con le comunicazioni minacciate da popolazioni pronte a insorgere. Ma depreca ancor più che, nelle polemiche tra La Mannora e Cialdinj e nei numerosi commenti alla guerra, ci si sia dimenticati dell'azione dei suoi forse 6 mila volontari "nudi e malissimo armati"; i quali tuttavia invece di ritirarsi sono avanzati da Salò a Lonato e Desenzano e hanno protetto la ritirata dell'esercito regolare, forse dissuadendo con il loro contegno aggressivo gli austriaci dall'inseguirlo. G. non manca di suggerire una strategia alternativa: anziché agire simultaneamente sul Mincio e sul Po si sarebbe dovuto simulare il passaggio in forze del Mincio con il gittamento di numerosi ponti, sviluppando lo sforzo principale dalla parte del Po; invece è avvenuto l'opposto, e si è affrontato il nemico su un campo di battaglia da lui predisposto. Nel 1877 la riflessione sulla guerra franco-prussiana del 1870-1871 e sulla guerra russo-turca (allora in corso a tutto vantaggio dei russi) porta G. a negare - in linea generale - il valore delle fortificazioni permanenti, che

12.

"

SD, m p. 468. SD, m p. 325.


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assorbono grandi risorse a danno delle forze mobili e in guerra servono solo a sottrarre preziose aliquote di truppe alla massa principale, perché devono essere presidiate (vi è, in questo, una certa contraddizione, dato che - come si è visto - non aveva certo negato i vantaggi delle fortezze del quadrilatero per l'esercito austriaco )74. Ad ogni modo, ricorda che nella guerra del J 870-1871 le grandi fortezze di Thionville, Strasburgo, Belfort, Metz, Parigi sono servite solo "al sacrificio di 400-500.000 uomini che potevano essere più utili in campagna se ben comandati". Sulle sponde del Danubio e nei Balcani, le fortificazioni permanenti da Varna a Vilno sono inutili e nocive, mentre sono utilissime quelle "volanti" sul Don, sullo Jantra e a Plevna. E nella guerra russo-turca ci sono "esempi più recenti, e di maggior considerazione, del danno cagionato agli eserciti dalle numerose fortificazioni". Questi esempi storici gli servono per scatenare una vera campagna contro il progetto (poi attuato) del Presidente del Consiglio Depretis e del suo Ministro della guerra generale Luigi Mezzacapo di fortificare Roma, e in genere contro coloro che ritengono necessario ricorrere alle fortificazioni per la difesa dei confini terrestri e delle coste. A Depretis e Mezzacapo consiglia di meditare sulle parole di Medoro Savini "la patria non vive dentro i muniti castelli; essa vive nel petto dei cittadini". Roma deve essere difesa dalle inondazioni e non attorniata da fossi e baluardi, che sono oltre tutto una sentina di febbri, quindi se mai devono essere eliminati: fortificar Roma, si dice, per salvarla da un colpo di mano d'un esercito che sbarcasse sulle coste del Tirreno! Ma cotesto esercito non andrà a collocarsi sotto monte Mario fortificato; e vi converrà quindi, cominciando da questo monte, eseguire un sistema di forti, il quale abbracci tutta la periferia della capitale[ ...]. Che bel mucchio di milioni eh! per l'Italia, arricchita dai suoi provvidi Governi!

Dopo di che, G. sferra un duro attacco personale al Ministro generale Luigi Mezzacapo (cfr. anche cap. X), che pure aveva combattuto con lui alla difesa di Roma nel 1849: Ma dove ha conosciuto i colpi di mano il generale ministro della guerra? a Perugia o a Roma nel 1849? Mi sia permesso quindi di dubitare della di lui competenza, e per le fortificazioni di Roma e per gli sbarramenti sull' Alpi e negli Appennini. Sarà competente il Presidente del Consiglio dei Ministri? Nessuno lo crede. Oppure il Presidente del Comitato per la difesa dello Stato? Ancora meno. In primo luogo preghiamo che l'Italia non abbia a sostenere guerra con un Ministero Depretis - Mezzaéapo, eppoi raccomandiamo non si sprechino i fondi italiani in fortificazioni inutili, ma si lascino per sollevare le tante miserie che ci affliggono, oppure per le future for"

SD, pp. 255-259; 261.


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tificazioni volanti [cioè campali - N.d.a.] di cui avrà bisogno il nostro esercito quando dovesse affrontare il nemico nell'Italia superiore.

Il modello di difesa ideale da lui indicato è ancora una volta quello del1' Inghilterra. peraltro insulare e quindi riferito a una situazione geopolitica ben diversa da quella dell'Italia. Questa Nazione "non seconda a nessuna potenza in importanza militare e politica è la prima sul mare; mantiene con materna sollecitudine la sua superba e formidabile marina senza farsi fastidio di fortificare le sue coste, che sarebbe lavoro inutile". Ha pochissime forze terrestri; ma un invasore troverebbe ovunque "grandi masse de' suoi prodi rijle volunteers, attorno ai quali si riunirebbe tutta la popolazione valida dell'isola". Non ha mai pensato a fortificare Londra, lasciando "tali inqualificabili azzardi di debolezza" ai governanti francesi e italiani "sempre meno seri e forti". Nel caso italiano, le estesissime coste della penisola e delle isole saranno sempre accessibili a chiunque vi voglia sbarcare, perciò "è ad impedire l'uscita dei nemici che noi dobbiamo pensare; e ciò lo otterremo colla nazione organizzata militarmente e con una flotta degna del nostro paese". Più nel particolare, chi regge l'Italia invece di far fortificazioni contro Roma e tante altre biasimevoli spese, farebbe bene di occuparsi a sostituire due milioni di militi a due o trecentomila soldati che per confessione degli stessi Ministri della guerra sono insufficienti per la difesa dello Stato e intanto l'erario pubblico va per la maggior parte sprecato, e la Marina da guerra che dovrebbe essere uguale a tutte le potenze mediterranee trovasi di molto inferioren.

Tenendo conto di questi principi, G. nel 1881 indica un "sistema di difesa" per battere sia la Francia che 1' Austria, basato sulla disponibilità di ben due milioni di militi e di una flotta di 16 corazzate16. In caso di guerra contro l'Austria, 200.000 uomini devono avanzare lungo la valle dell'Adige fino al Brennero protetti sui fianchi da altri 50.000 che agiscono sulle alture dominanti la valle. 200.000 uomini devono schierarsi nella Val Tagliamento con l'ordine di logorare e ritardare il grande esercito austriaco che scenderebbe da Tarvisio verso Pontebba. Altri 200.000 uomini rimarrebbero in riserva a Verona e altri 500.000 tra Verona, Milano, Genova, Venezia e Bologna; il rimanente milione di militi rimarrebbe in riserva nella penisola. Una volta raggiunto il Brennero, l'esercito dell'Adige dopo aver fortificato la valle dovrebbe ritirarsi e raggiungere quello inizialmente destinato ad agire nella Val Taglia.mento, il quale dovrà

75

SD, lii p. 324. ,.. SD, m pp. 476 478.


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misurarsi con il grosso dell'esercito austriaco "al di qua della Pontebba e nei piani di Lubiana". Dal canto suo la flotta avrebbe il compito di "annientare la nemica ed impadronirsi dì Pola, e di tutta la costa orientale dell'Adriatico". Contro la Francia, si potrebbe addirittura passare all'offensiva: essendo la guerra alla Francia dichiarata e pronti i nostri milioni di militi, cinquecentomila avanzerebbero] per la cornice garantita dalla flotta nostra verso Nizza e la Provenza [cioè attraverso la Riviera Ligure di Ponente - N .d.a.] e 300.000 da Tenda, scendendo alla stessa direzione, mentre altri corpi varcherebbero le Alpi, più al Settentrione. Disprezzando [la Francia] la fratellanza nostra e non contenta del Varo per frontiera, si vada al Rodano.

r

In tutti i casi è assolutamente necessario vincere la prima battaglia, sia perché sul piano generaJe una vittoria iniziale è quasi sempre decisiva, sia perché si deve tener conto degli elementi che compongono in prevalenza l'esercito italiano, e delle gravissime ripercussioni morali che avrebbe su dì loro una sconfitta: io non dubito della bravura dei nostri ufficiali, ed in generale del valore_ italiano; ma la maggioranza dei soldati provengono dalle campagne ed i contadini sono educati dai preti, quindi essi hanno per patria il cielo, e dalla patria italiana ebbero [solo] il macinato, pellagra e miseria. Non amando la patria, per essi un rovescio dell'Esercito è un motivo per tornarsene presto a casa saccheggiando i propri concittadini. E Novara e le due Custoza sono fi per provarlo. Ecco perché si deve vincere a qualunque costo e non sperare di rifare l'esercito vinto a Bologna e a Roma.

Peraltro, in un messaggio "alla gioventù italiana" del maggio 1882 (che può essere definito una sorta di testamento strategico perché scritto poco prima della morte) G. non parla più dei due milioni dì militi, sembra voler considerare solo 200-300.000 uomini dell'Esercito permanente e mostra di avere maggiore fiducia nel valore del soldato italiano formato con il sistema tradizionale: le battaglie del '70 e del '66 furono perdute per colpa dei generali, non per la bravura mancante nei soldati francesi e italiani. Da ciò mi nacque il pensiero e il quasi convincimento che l'esercito italiano ben comandato avrebbe potuto anch' esso disfare l'esercito di Buonaparte nelle condizioni anzi dette_ Quindi non provocando nessuno l'Italia nul1a deve temere. Essa non ha i 36 milioni di abitanti della Francia, né i 40 dell'Austria, ma concentrata com'è con popolazioni disposte a combattere come un solo uomo contro chi volesse invaderci e con una frontiera marcata dalla natura, si può vittoriosamente difendere e si pensi seriamente alla nostra linea naturale di difesa, ai nostri superbi baluardi con un campo trincerato a Saluzzo ed uno a Verona da collo-


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carvi i nostri 200 o 300.000 valorosi sostenuti da immense ricchezze se minacciati71 .

Non rinuncia, però, del tutto all'idea dell'offensiva contro la Francia, anche per riconquistare la Corsica e Nizza: verrà il giorno - afferma - in cui l'Italia, conscia del suo valore, reclamerà queste province, "ma chi ardirà guerreggiare per riacquistare queste province in grembo alla patria, non avendo da offrire ad esse che 54 tasse, il sale a 50 centesimi e la pellagra? Si cambi sistema e si sanino codesti morbi che appestano l'Italia e poi si potrà pretendere all'integrità nazionale". Questi progetti strategici compilati dal 1860 al 1882, ricchi di spunti interessanti ma altre volte superficiali o poco realistici, sono la parte meno felice e più contradditoria degli scritti di G., almeno se presi alla lettera; in questo caso però si tratta di andare al di là della forma - non è certo uomo da compilare piani perfetti a tavolino - per cogliere la sostanza. Ebbene, la sostanza dimostra un sicuro intuito strategico, un vivo senso della geografia e il possesso di doti naturali certamente tali da farlo spiccare tra i generali italiani dell'epoca. Doti che rivelano ancora una volta la propensione del vecchio guerrigliero per la manovra, la sorpresa, la mobilità; la sua è una strategia che potremmo definire "indiretta", non pregiudizialmente offensiva né difensiva, ma tesa a ricercare il massimo risultato col minimo sforzo, evitando di attaccare il nemico là ove è più forte e preparato, e, per contro, sfruttando tutte le risorse del terreno e i vantaggi della posizione geografica per annullare la sua superiorità. Non può essere, a tal proposito, trascurato che una siffatta strategia richiede uno stile di comando assai lontano dalle consuetudini del tempo, consuetudini del resto in uso fino aJla prima guerra mondiate e anche dopo. Uno stile di comando, quello di G., tipico dell'ultima guerra come quello di Rommel, Patton e, in genere, dei comandanti di unità corazzate. "Nella guerra domina la signora fortuna", scrive clausewitzianamente. Se ne deduce che il generale deve essere sempre pronto ad afferrarla: quanti generali si conoscono fra gli odierni, che per essere generali, generalissimi, o più alti ancora, credono d'essere dispensati d'assistere da vicino nelle battaglie, e si contentano da lontano di ricevere delle informazioni e dare degli ordini ai comandanti di corpo loro subordinati. Errore! Il comandante supremo, senza esporsi inutilmente, deve assistere tanto vicino che possibile al centro od obiettivo del campo di battaglia. In alto, ove lo possa, da poter scoprire più terreno e da imprimere una preziosa celerità agli ordini inviati e alle informazioni da ricevere. Il colpo d'occhio dell'uomo che deve dirigere, poi, vale sempre assai di più delle informazioni" .

n. 78

SD, ID pp. 325-326. Memorie, pp. 449-450.


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Altre sue considerazioni sulle doti del generale sembrano ricopiate da Clausewitz, che certamente non ha letto: "l. Il miglior generale è quello che vince. 2. Il coraggio è la prima qualità del guerriero. Egli mancando cli genio sarà un mediocre generale, di sangue freddo, un mediocre soldato ma senza coraggio a nulla egli può servire. 3. Riunito il sangue freddo al coraggio si avrà un guerriero valoroso. 4. Colle qualità suddette ed il genio si hanno i grandi generali". Inoltre non si deve mai impegnare in battaglia tutte le forze disponibiH, ma occorre tenere alla mano circa un terzo della forza "per dare colpi decisivi". E il colpo d'occhio del generale deve individuare subito - per esercitarvi lo sforzo maggiore - "il punto obiettivo del campo di battaglia..." 79• Par di sentire Napoleone! C'è dunque, anche oggi, molto da imparare da questo stratega e scrittore di strategia incolto e improvvisato, a cominciare dall'indomito spirito d'iniziativa, dal rifiuto delle soluzioni più prevedibili e meno rischiose, dal culto della mobilità e della sorpresa, dalla mancanza di schemi, dall'attenzione per i valori morali e spirituali, dall' importanza data alle informazioni sul nemico. Ha perciò ragione il capitano Ermanno Finocchi, quando scrive che Je idee strategiche di Garibaldi non erano tali da vincolarlo a un metodo qualsiasi. Tutto ciò eh' era grandioso era logico per lui e a questa logica egli non ha mai fallato. I preconcetti che potevano rendere subordinata la sua fede al successo delle proprie azioni, non esistevano per lui ed erano senza valore. Egli credeva soltanto in questo assioma fondamentale, che "un popolo disposto a non piegare il ginocchio davanti allo straniero è invincibile"80 •

L'habitus mentale del G. stratega vale ancor più per il G. tattico, anzi: i suoi non pochi scritti di tattica dimostrano che è quest'ultimo a influenzare lo stratega e non viceversa, cosa che non può sorprendere visto che egli impara l'arte della guerra "dal basso" e semplicemente combattendo, in una situazione - come quella del Sud America - dove poco contavano le nozioni teoriche apprese nel chiuso delle Accademie e la routine del servizio cli caserma o presidio8 '. La sua tattica è dominata da un motto, valevole anche per la strategia, che gli ha fruttato la vittoria di Calatafimi e che non è certo stato tenuto presente dal generale La Marmora a Custoza e dall'ammiraglio Persano a Lissa nel 1866: "prima di iniziare un combattimento bisogna riflettere se si può

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80 ·

"

SD, Ili pp. 427-431. E. Finocchi, Op. cii., p. 54. Oltre che alle numerose istruzioni e considerazioni sparse specie negli Scritti e discorsi politici e militari ci riferiremo in particolar modo a S. Furlani, / consigli fallici di Garibaldi (in Garibaldi in Parlamento, Roma, Ed. Camera 1882, pp. 751-762). Si veda anche AA.VV., Garibaldi condottiero, Cit, pp. 23-59. Quest' ultimo scritto è arricchito da interessanti considerazioni del Furlani sulle formazioni della fanteria e dei volontari.


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fare con vantaggio - deciso che sia - bisogna buttarsi a testa prima e non pensare a ritirarsi - le ritirate in presenza del nemico di giorno sono sempre funeste". E nelle Memorie raccomanda "Pertinacia e costanza nelle battaglie: ecco una delle chiavi della vittoria [... ] Pertinacia, costanza e vigilanza soprattutto - questa, poi, mai è abbastanza"82• Cosa rimarchevole, le sue prescrizioni non sono mai riferite al caso migliore, a truppe salde, disciplinate e ben organizzate, ma a uomini poco addestrati, stanchi, mal nutriti ed equipaggiati quali erano spesso i suoi volontari, che tuttavia proprio per questo bisognava spingere e risospingere all'attacco e abituare a combattere, trasformando magari gli elementi di debolezza in elementi di forza. In proposito, vanno subito tenute presenti tre circostanze, dalle quali G. è costretto a trarre tutte le conseguenze: nori poteva contare su rifornimenti regolari; non disponeva quasi mai di artiglierie. Al massimo, poteva contare su qualche pezzo; la fanteria degli eserciti regolari del tempo era addestrata a combattere soprattutto di giorno, in terreno piano e privo di alte vegetazione, in piedi, a ranghi serrati (cioè in ordine chiuso) e con fuoco a comando, in battaglie tendenzialmente decisive. Ciò richiedeva un lungo addestramento e - di per sè - severa disciplina anzitutto formale, che poco spazio lasciava all'iniziativa e autonomia del singolo e/o delle minori unità. A parte la loro crescente vulnerabilità di fronte alle nuove armi, taH formazioni geometriche non potevano essere mantenute da volontari poco addestrati e disciplinati e male armati. G. deve tener conto che, in genere, gli uomini alle sue dipendenze sono ricchi d' entusiasmo, ma al tempo stesso facili a demoralizzarsi, non sempre ben inquadrati, tendenzialmente poco disciplinati anche a causa delle carenze logistiche; né essi possono sostituire l'ardore combattivo con le numerose artiglierie ... Ma i numerosi Hmiti de11o strumento a sua disposizione sono per lui, un forte stimolo per la ricerca di procedimenti, formazioni, modalità tattiche che peraltro una fanteria moderna deve possedere, anche se - allora - erano normalmente prerogative di corpi speciali di fanteria come i bersaglieri. Al tempo, quest'ultimi avevano due funzioni fondamentali: - agire con fuoco libero, movimenti rapidi e in ordine sparso (cioè "aperto"), in terreni montani o difficili nei quali la normale fanteria non era idonea ad operare, oppure poteva agire solo frazionando i reparti e aumentando l'aliquota di fanti che agiva come i bersagJieri; - agevolare e proteggere i movimenti e l'impiego delle normali unità di fanteria che agivano a ranghi serrati (le cui formazioni principali erano la colonna, che facilitava il movimento, e la linea, che favoriva il fuoco). •~ Memorie, p. 449.


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Va detto ancora che per "bersaglieri" si intendeva indicare, al tempo, non solo gli appartenenti al corpo fondato neJ 1836 da La Marmora, ma tutte le unità che combattevano magari temporaneamente con fuoco libero e in ordine sparso. Ciò premesso, G. dichiara di preferire per iJ movimento, la fonnazione in ordine chiuso e in colonna (sia pure di compagnia e non di battaglione come si usava allora), perché "Ja colonna serrata è l'ordinanza più movibile - più offendevole - più difensibile - e nello stesso tempo queJJa che occupa minor terreno - conforme al precetto di guerra di riunire più forze su un punto determinato. Essa non teme mai la cavalleria da qualunque parte venga attaccata, perché può far fuoco facilmente da qua]unque parte - e far fuoco con i ranghi esterni". Ciò non significa però che l'ordine aperto - tipico dei bersaglieri - non sia importante: anzi esso "diventa sempre più importante in ragion diretta d~l perfezionamento delle armi da fuoco" ed è "indispensabile" sia per attaccare che per difendersi. 83 In particolare, "una o più catene di bersaglieri fronteggiando il nemico in qualunque direzione quello si trovi, sono di assoluta necessità. Le catene di bersaglieri mascherano il grosso delle colonne- le difendono dal fuoco dell'artiglieria e de' bersaglieri nemici che tengono lontani, - sono sempre più a portata di osservare i movimenti del nemico - ed infine danno agio allo spiegamento delle colonne, ed al loro avvicinarsi alla linea di battaglia del nemico". In questo caso G. si riferisce evidentemente a volontari impiegati come bersaglieri: ma ammira molto anche i bersaglieri come specialità della fanteria regolare, definendoli "senza dubbio militi non secondi a nessuno". Anzi: vorrebbe l'intero Esercito Italiano "formato alla scuola del bersagliere - e lasciare ai capi di battaglione la facoltà di avere una compagnia formata de' più svelti ed una de' più pesanti". Questo perché i bersaglieri "coi loro movimenti rapidi in ordine chiuso o aperto, credo siano la migliore fanteria possibile", specie nel caso italiano; perciò "i volontari, che sono generalmente tutti giovani, devono essere istruiti nelle manovre celeri del bersagliere". Alle lodi aggiunge però parecchie critiche: con loro si esagera negli esercizi ginnastici, "dimodochè gli ospedali sono sovente popolati di quei poveri giovani"; e, trattandosi di soldati scelti, essi depauperano la normale fanteria suscitandone ]a gelosia. Vorrebbe i] cappello del bersagliere più leggero, ma apprezza la leggerezza del suo sacco, deprecando "la montagna sulla schiena di un povero diavolo", cioè del normale soldato di fanteria, il cui pesante sacco dopo una seria battaglia è destinato ad essere abbandonato, sia il soldato vincitore o vinto. Come Napoleone, ritiene il sacco e la tenda "imbarazzi certi in tempo di guerra e spese esorbitanti per lo Stato"; in questi pesanti equipaggiamenti del soldato vede solo una manifestazione della tendenza a mantenere separato l'esercito dal mondo civile,

1

SD, li p. 581.


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rendendo il soldato indipendente per le sue necessità di vita elementari. 1n sostanza G. ritiene un esempio da imitare anche e soprattutto per i suoi volontari - chiamati spesso ad agire in terreni montani - la mobilità dei bersaglieri, la flessibilità delle loro formazioni, la loro capacità di passare rapidamente da una formazione all'altra: tutte doti che li rendono particolarmente adatti alla guerra di montagna, nella quale ritiene che le catene di bersaglieri "devono essere più numerose ancora, essendo il terreno proprio di quell'Anna". I riflessi di queste idee si vedono nelJe istruzioni da lui emanate il 15 luglio 1866 ai suoi volontari che agiscono sulle montagne del Trentino, nelle quali modifica - dato il terreno - la sua preferenza per le colonne massicce di compagnia: in questa guerra di montagna, i Comandi di corpo devono osservare le precauzioni seguenti: 1°) essi non devono attaccare le posizioni forti del nemico, senza aver prima coronato le alture dominanti, preparato attacchi di fianco, e quindi cacciato il nemico da quelle posizioni, perché il nemico, coi nostri sulla testa, sarà difficile che tenga in qualunque parte, per forte che sia; 2°) L'ordine aperto all'attacco sarà sempre preferibile all'atlacco in massa, potendo quest'ultimo essere micidiale assai e solo da essere adottato in alcun caso ben speciale; 3°) Non è vergogna per un Capo di corpo tenere la sua gente ben coperta ove non sia indispensabile combattere - e soprattutto coperte le sue mosse.

Le migliori posizioni sono sempre - per qualsiasi atto tattico - le più alte, e "poco importa che non siano in linea, basti che esse presentino difese naturali". Le rimanenti, numerose istruzioni da una parte risentono - come sempre - della tendenza ad applicare quando possibile e conveniente procedimenti tattici tipici della guerriglia, e dall'altra della necessità di eliminare inconvenienti, difetti e lacune tipici delle truppe inesperte, improvvisate e poco addestrate. Fanno parte della prima categoria di istruzioni, ad esempio, la descrizione dei vantaggi delle marce notturne· e le frequenti raccomandazioni affinché siano accuratamente organizzate, e si evitino il panico e gli spari inutili a causa di qualche abbaglio. E sulle montagne del Trentino nel 1866 costituisce una "compagnia volante" per reggimento, la quale non è altro che una compagnia destinata ad agire anche lontano dalla zona del rispettivo reggimento, con i procedimenti della guerra partigiana, molestando in tutti i modi il nemico e fornendo informazioni.84 Continue raccomandazioni riguardano il primo difetto delle truppe poco addestrate, quello di sparare molto e inutilmente per poi magari ritirarsi con il pretesto di aver esàurito le munizioni. Bisogna addestrarsi seriamente al tiro; si deve sparare poco di giorno - raccomanda fin dal 1849 - e non sparare per nulla di notte. Si deve curare particolarmente l'addestra-

84

SD, II pp. 286-288.


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mento all'ordine aperto evitando di ammassarsi troppo e di eseguire movimenti complicati sotto il fuoco nemico, che sarebbero eseguiti in disordine dando baldanza al nemico; a breve distanza da quest'ultimo "bisogna essere coperti e caricarlo; è questo il migliore dei movimenti". La carica alla baionetta senza fermarsi a sparare è da lui preferita, sia perché adatta a truppe armate di vecchi fucili (alle quali solo l'assalto può infondere spirito combattivo, e mantenere alto il morale), sia perché il fuoco avanzando - è un errore - il milite che avanza sul nemico dev'avere la coscienza d'essere più forte - o più valoroso ecc. - Egli dunque deve far sparire al più presto la distanza che lo divide dal nemico - quindi caricarlo a passo celere per mettergli la bajonetta nella schiena - all'incontro se fa fuoco - deve fermarsi per caricare e per fare fuoco - il nemico che dobbiamo supporre in posizione - lo fucila come un bersaglio. · L'aumento dell'efficacia delle armi da fuoco non lo induce affatto a modificare questi criteri tattici: "colla precisione delle armi - i fuochi acquistano efficacia sempre maggiore e non si può abbastanza raccomandare a' militi la giustezza del tiro - io sono però d'avviso che le cariche a ferro freddo - almeno per ora - decideranno sempre delle battaglie". Un altro motivo ricorrente nelle sue istruzioni è la necessità che i volontari siano addestrati a resistere senza paura alle cariche di cavalleria; quest'ultime, infatti, sono tanto più pericolose, quanto meno una truppa è addestrata e salda. "La cavalleria incute spavento solo alla canaglia": contro di essa, i reparti di fanteria non devono formare un quadrato come si usa, "ma formino essi una be11a colonna serrata ed aspetteranno i cavalieri fumando la pipa e se quelli ardiscono di venire arrossando le punte delle baionette - i fanti non avranno che a scegliere coloro che vogliono scavalcare - in questo caso non devesi far fuoco alla cavalleria se non che a bruciapelo - o quando a poca distanza essa si ferma per voltar faccia" . In conclusione, "le colonne devono tirare pochissimo quando sono assalite dalla cavalleria pochissimo quando mettono in fuga la fanteria e niente quando caricano alla bajonetta sinché il nemico abbia dato le spalle". La tattica di G. è in perfetta armonia con la sua strategia, e nonostante taluni lati discutibili, può dirsi assai realistica e di qualità sotto parecchi aspetti superiore a quella degli eserciti regolari del tempo, principalmente per l'esaltazione dell'ordine di combattimento aperto, della mobilità e flessibilità delle formazioni, dell ' impiego più appropriato dell'arma individuale. Desta perplessità la sua preferenza per i movimenti in colonne serrate di compagnia, di vulnerabilità crescente specie a causa del fuoco di artiglieria e di bersaglieri nemici; si deve tuttavia tener conto che tale preferenza non è per lui un dogma, e che si tratta di una formazione tipica di reparti poco addestrati e poco saldi, come tale usata spesso da Napoleone negli ultimi anni dell'Impero, quando le reclute inesperte avevano ormai sostituito i veterani della Grande Armeé.


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In quanto al vero e proprio culto della baionetta, è ben nota la sua importanza - nonostante i progressi delle armi da fuoco - fino alla guerra del 1914-1918 e al di là delle dottrine che già nel secolo XIX tendevano a svalutarla: che altro poteva fare un generale senza artiglierie, i cui uomini erano armati di vecchi fucili, e per di più poco addestrati al tiro? Al di là delle modalità tattiche da lui suggerite, l'idea che G. ha della fanteria è assai moderna: è una fanteria flessibile e polivalente, è una fanteria che - come scrive al colonnello Masina nel maggio 1849 "è il vero nucleo della battaglia" e pertanto "abbisogna di tutta la vostra cura"85•

La nazione annata ideale e quella possibile in Italia: ruolo dei volontari G. è un guerriero naturale, non un militare: come molti patrioti del suo tempo, per carattere, formazione, orientamenti politici, precedenti esperienze, non vede di buon occhio né gli eserciti permanenti, Iié la vita e la disciplina di caserma, che rimangono totalmente estranee alla sua mentalità di autodidatta militare (il contrario si può dire, naturalmente, di molti Quadri degli eserciti regolari del tempo, non solo italiani). Ma presentarlo sic et simpliciter come un sostenitore della nazione armata propriamente detta sarebbe improprio: in questo avvicinandosi a Mazzini, egli è piuttosto sostenitore convinto e coerente della guerra di popolo, cioè di una guerra condotta con la partecipazione di tutto il popolo, di lutti i ceti e con tutte le risorse disponibili, a prescindere dalla forma operativa che essa può assumere in un dato momento e dai relativi ordinamenti. A questo punto occorre chiarire bene che, in linea generale, la nazione armata non esclude ma postula la formazione di un grande esercito regolare all'atto dell'emergenza; essa può essere una forma ordinativa della guerra di popolo ma non necessariamente e sempre ne è l'unica forma. Una guerra di popolo può essere benissimo condotta insieme da un esercito regolare relativamente ridotto, milizie locali, formazioni volontarie e formazioni partigiane, o può - al contrario - riassumersi interamente in una guerra partigiana. A proposito dei modelli ordinativi, non esiste un "modello svizzero prussiano"86 • Il modello svizzero - nazione armata propriamente detta esclude totalmente la presenza di un esercito permanente in pace; quello prussiano non lo esclude affatto ma ne fa una struttura essenzialmente addestrativa, composta in pace da tutto il contingente di leva - senza esenzioni che rimane alle armi solo per il tempo che serve per addestrarlo; il modello · francese o piemontese fino al 1861, infine, è caratterizzato dalla presenza anche in pace di un forte esercito permanente a lunga ferma con numerose

" SD, I p. 127 . .._ P. Del Negro, Garibaldi tra esercito regio e nazione armata: il problema del reclutamento (in AA.VV., Garibaldi condottiero, Torino 1984 -CiL, pp. 273 e 275).


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esenzioni, che quindi - diversamente da quanto avviene per il modello prussiano - all'atto dell'emergenza subisce incrementi numerici modesti . Trattando delle idee in campo ordinativo di G., occorre naturalmente tener presente il suo carattere di uomo d'azione e non di teorico puro, la ricerca di effetti morali e di risultati pratici che continuamente si ripromette, la qifferenza in lui fondamentale tra obiettivi ideali e realtà. La sua ben nota formula "Italia e Vittorio Emanuele" è pratica e non teorica, militare e non solo politica. Essa - va ancora sottolineato - indica una fondamentale necessità strategica e ordinativa, derivante dalla constatazione oggettiva che senza utilizzare in un sol fascio tutte le forze disponibili, l'Italia non potrà mai avere speranza di vittoria contro il forte esercito austriaco, né potrà fare a meno di alleati interessati e prepotenti. Per ultimo, va ancora rilevato che la parola "Vittorio Emanuele" significa anche - al di là delle contraddizioni - esercito di Vittorio Emanuele, e che in tutti i casi ciò che a G. soprattutto preme, è la necessità (o meglio la speranza) di mettere in campo forze sufficienti per affrontare con successo i potenti eserciti austriaco e francese. Il Del Negro parla di un'evoluzione dell'atteggiamento di G. nei riguardi della Nazione Annata, suddividendolo in numerose fasi, delle quali la prima va dal 1848 al 1859, la seconda dal 1859 al 1860, la terza dal 1860 all'aprile 1861, la quarta dall'aprile-maggio 1861, la quinta dal 1861 al 1870, la sesta dal 1870 al 1882. Si tratta di una sorta di scala crescente, che va dalla piena accettazione del ruolo fondamentale dell'esercito piemontese nel 1848, al lancio della sottoscrizione per un milione di fucili nel 1859, alla proposta di legge per una guardia nazionale mobile nell'aprile-luglio 1861, fino alla proposta di abolire l'esercito permanente nel periodo 1870-188287 • Una siffatta, rigida suddivisione è superflua e non si addice all'approccio garibaldino al problema. G. non ha mai avuto una concezione teorica e elitaria de11a guerra; al contrario, il suo costante intento è stato quello di individuare di volta in volta il miglior metodo di mobilitare, senza schemi rigidi e nelle circostanze del momento, il massimo numero possibile di forze e di concorsi contro l'Austria. Nella Legione italiana del Sud America ha combattuto con pochi volontari, perché quella non era una guerra di masse e di coscritti e i volontari italiani arruolatisi erano pochi: e come si poteva disconoscere, nel 1848, il ruolo insostituibile dell'esercito piemontese? Ciononostante già nel 1848-1849, come si è visto, G. ritiene necessaria la guerriglia, anzi la guerra di popolo: è quanto basta, perché è indiscutibile che la sconfitta del 1848-1849 è essenzialmente dovuta al fatto che l'esercito piemontese - e quindi anche il peso della monarchia e dei suoi sostenitori - non è stato il protagonista principale, ma è diventato sempre più l'unico: cioè è rimasto solo Vittorio Emanuele ed è venuta meno l'Italia. L'unica svolta nel pensiero di G. avviene forse quando - non a partire

"

P. Del Negro, Art. cit., p. 266.


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dal 1870 ma molto prima, cioè nel maggio 1861 - comincia a sostenere la necessità di sostituire l'esercito permanente con la nazione armata pura e classica, sul modello svizzero. Fino a quel momento non aveva mai negato il ruolo dell'esercito permanente, che era alla base - come si è visto - dei suoi progetti strategici. La sua visione organica rimaneva più quella di un esercito "lancia e scudo", che quella di un esercito tipo "nazione armata", tanto più che il modello alternativo della guerra partigiana, nel quale sperava, non si era rivelato praticabile. Perché e come avviene questa svolta e se si tratta di un'autentica svolta, lo dimostreremo in seguito. Nell'estate 1859 vorrebbe continuare la guerra interrotta da Napoleone lll, e in un discorso presso Ravenna raccomanda di "serrarsi intorno a Vittorio Emanuele", promuove una sottoscrizione di un milione di fucili perché mancano le armi, e aggiunge : "non è che con l'unione e colla forza che noi possiamo conquistare la nostra libertà; io ho la convinzione che, se noi siamo forti, nessuno oserà attaccarci; la nostra nazione tutta intera deve formare un esercito, e quelli che sono incatenati al focolare domestico dai doveri famigliari, possono restarvi come soldati e col moschetto in mano [e gli altri? - N.d.a.J. Quindici giorni sono sufficienti per fare d'un italiano un valente soldato, di cui i1 merito, non consisterà in un'uniforme ricamata. Guardate gli zuavi! sotto il loro costume semplice e comodo, essi provano che sono i primi soldati del mondo".88 Queste parole vanno rettamente interpretate: esse non sottintendono affatto l'abolizione dell'esercito permanente, ma la sua integrazione con una milizia o Guardia Nazionale locale, visto l'accenno ai soldati che rimangono, armati, a casa. Questo intento di G. risulta più chiaro in un discorso del 20 novembre 1859 alla Guardia Nazionale di Nizza: "se [all'inizio del 1860 - N.d.a.] avremo un milione di cittadini armati nell'interno, potremo disporre di duecentomila soldati sul campo di battaglia, e non avremo più bisogno che altri [cioè Napoleone m - N.d.a.l intervenga nelle nostre faccende". Nel dicembre 1859 constata che "gli armamenti [del Piemonte] procedono con lentezza" e sono insufficienti per raggiungere la piena indipendenza nazionale. Questo perché (si notino le analogie con i sostenitori della nazione armata del periodo), in Piemonte prevale purtroppo il sistema di formare un esercito regolare scelto, brillante alla verità ma insufficiente ai bisogni presenti dell' Italia; per cui fa mestieri d'esercito straniero che ci custodisca per nostra vergogna! E ciò perché si diffida sempre dell'elemento nazionale popolare: quantunque oggi si trovi questo elemento, lealmente legato ali' elemento monarchico. Tale si sterna lpiemontese] forma de' soldati bene ordinati per i tempi normali ma non può

88

SD, I, pp. 195-196 e 212.


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formare quell'esercito numeroso, la <;li cui imponenza ed entusiasmo decida brevemente [... ] a permetterci di riannodare i membri di quella sparsa famiglia [italiana] sotto l'unico sovrano possibile, Vittorio Ema-

nuele. Poichè l'esercito regolare è "insufficiente alla meta nazionale", tocca ai "militi cittadini" colmare questa lacuna, e "accrescere quanto possibile di numero" formando tre diverse categorie di militi: 1" sedentari (i meno atti al servizio); 2"attivi (per servizi locali, nei forti ecc., ma in grado di servire anche all'esterno); 3amobili, "composta di quanti uomini vi sono nella regione, capaci di fare il servizio di campagna al di fuori dell'esercito [nostra sottolineatura - N.d.a.]. In questa terza categoria si deve pensare a un sussidio per i bisognevoli ...". Per G., dunque, al momento l'esercito regolare non va abolito, ma solo rafforzato - visto che da solo non basta - e integrato, più o meno con le tre categorie classiche di qualsivoglia reclutamento in qualsivoglia epoca e Paese: l'unico particolare originale, è che anche i militi più atti alle armi devono combattere in reparti al di fuori dell 'esercito (cioè speciali, come sono quelli volontari): cosa che fa la differenza tra la visione di G. e quella di Pisacane, di Pepe e dei sostenitori della nazione armata sul modello svizzero o del modello prussiano, che pensano a un unico, grande esercito regolare89 • Alla fine stesso anno 1859 accetta la presidenza della Società della Nazione Armata: ma "siccome la nazione italiana armata è tal fatto che spaventa quanto esiste di corruttore e prepotente, tanto dentro che fuori d'Italia", per non mettere in difficoltà o allarmare il Governo (si è ormai alla vigilia dell'impresa dei Mille) il 4 gennaio 1860 rinuncia all'incarico, ripetendo però l'invito agli italiani a concorrere alla sottoscrizione per un milione di fucili. Il 20 gennaio esalta "uno spettacolo unico e immensamente benefico per la causa dell' Italia", quello dei contadini toscani che versano in massa il loro obolo per l'acquisto dei fucili, e ringrazia perciò "quei pochi ma benemeriti sacerdoti" che li hanno indotti a compiere questo gesto. Quando nel maggio 1860 sbarca in Sicilia ha l'impellente necessità di rafforzare l'élite dei mille volontari a sua disposizione; invita i soldati del1'esercito regolare piemontese a non disertare, ma assume la dittatura in Sicilia e proclama (con scarso successo) la leva in massa, con norme transitorie in attesa dell'emanazione di una legge unica per tutte le province dell'Italia liberata (incluse naturalmente quelle piemontesi). Le norme di base - poi attenuate all'atto dell 'applicazione - dimostrano che, come sempre, per G. il reclutamento di volontari non è una scelta, ma una necessità: infatti "i militi da 17 a 30 anni [cioè i più validi - N .d:a.] saranno chiamati al servizio attivo nei battaglioni dell'esercito [cioè si fonderanno coi reparti 89

SD, I, p. 217-218 e 225.


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volontari provenienti dal Nord - N.d.a.]; quei da 30 a 40 si formeranno in compagnie per il servizio operale del ]oro Distretto; quei da 40 a 50 saranno pure formati in compagnie per il servizio de] loro Comune". In un appello ai volontari del 19 settembre, infine, G. li invita a "affrettarsi alla generale rassegna di quell'esercito, che dev'essere la Nazione armata, per far libera, e una l'Italia". Queste idee, l'incontro di Teano con Vittorio Emanuele e gli eventi successivi dimostrano che G. continua a pensare a un esercito italiano " lancia e scudo", nel quale la lancia è essenzialmente costituita dall'ex-armata sarda e lo scudo sono - al momento - i suoi volontari, e in un secondo tempo le note tre categorie di militi cittadini, da chiamare e impiegare in caso di necessità. Evidentemente continua a pensare che, nelle condizioni del momento, non si può fare a meno di un esercito regolare costituito sul modello piemontese: ma questa è una colpa e un' abdicazione (come ritengono taluni storici del dopoguerra), oppure una dimostrazione di sano realismo, di autentico amor di Patria e un rifiuto di moduli di parte? Noi propendiamo per quest'ultima interpretazione, perché _il riconoscimento dell'evidente ruolo strategico dell'esercito regolare non escludeva affatto la possibilità di riformarlo utilizzando al meglio e senza schemi rigidi l' apporto di altre forze, anche in campo aperto. Risponde a questi principì una lettera "sull'armamento nazionale" indirizzata da G. il 15 gennaio 1860 al direttore del Court Joumal inglese, che g]i aveva chiesto un parere sull'utilità e sulle capacità combattive dei volontari in Inghilterra (per "volontari" intendendo, in questo caso, coloro che accettano di addestrarsi gratuitamente in pace, e che accorrono spontaneamente alle armi al momento del bisogno per difendere la patria, non coloro che contraggono volontariamente in pace una lunga ferma)9°. In questa occasione G. vuol dimostrare che, sul campo di battaglia, possono benissimo combattere - e fornire elevato rendimento - anche truppe che, come i volontari, non sono addestrate come la normale fanteria di linea a movimenti esatti e ben ordinati. Molti esempi storici provano "che non le sole masse sono utili in guerra, e che i volontari, bersaglieri e zuavi, non hanno bisogno di imparare a combattere in file ordinate come le truppe di linea". Anche i volontari possono acquistare la stessa disciplina delle "schiere ordinate", né l' amor di patria e l'entusiasmo possono essere ritenuti "sentimenti cosl spregevoli e eterogenei da distruggere la regolarità delle milizie nazionali". Se si tiene conto del progresso delle armi, poi, l'impiego di volontari diventa ancor più redditizio: io credo che la teoria della grande regolarità delle masse e delle linee sia generalmente troppo spinta e l'ordine aperto di battaglia troppo trascurato, se si ha riguardo al perfezionamento de11e armi da fuoco e agli ""

"Il Politecnico" 1860, Voi. VI II pp. 199-201 e "Rivista di Fanteria" Voi. IX - 1900, pp. 643-648 (con qualche ùifferenza nel testo).


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ostacoli che l'agricoltura frappone ad ogni passo [... ]. Quanti luoghi si contano in Italia dove uno squadrone formato in linea o un reggimento ordinato in quadrato potrebbe combattere? Credo che ve ne siano ben pochi. D'altra parte se ne possono trovare moltissimi per la guerra minuta dei bersaglieri. Brevemente io ritengo che alcune linee di bersaglieri, sostenute da poche masse di truppe formerebbero l'ordine di battaglia più conveniente nel nostro Paese e in molti altri; e che i volontari possono a tal scopo essere adoperati nelle medesime evoluzioni che i soldati di linea. La battagJia del Volturno di lì a poco gli darà ragione, e la sua conclusione avvalora la necessità di disporre - accanto alle truppe regolari - di mj)jzie sul modello ing1ese: "se la Gran Bretagna mette in ordine i suoi 200.000 volontari [cioè cittadini rifle volunteers, che rafforzano al bisogno l' esercito regolare - N.d.a.] i quali formeranno il nucleo di un milione di cittadini armati in caso di bisogno; se essa prosegue ad istruirJi (e ciò non sarà difficile agU inglesi) in modo che divengano così disciplinati come le milizie rego1ari, noi vorremmo vedere chi oserà invadere l'Inghilterra". Pertanto G. non si dichiara d'accordo con sir John Bourgoine, il quale aveva sostenuto che 50.000 soldati sperimentati metterebbero facilmente in rotta 100.000 volontari. Nasce da queste premesse - sostanzialmente coerenti con l'atteggiamento da lui mantenuto fin dal 1848 nei riguardi dell'esercito regolare - la dura lotta di G. ne] 1861 per la fusione tra i suoi volontari e l'esercito stesso (lotta che, dunque, di per sé riconosce il ruolo principale di quest'ultimo) e contro "il dualismo" volontari - esercito. Anche il celebre "disegno di legge per l'armamento nazionale" da lui trasmesso il 13 aprile 1861 alla Camera dei deputati non è che l'adattamento alJa situazione italiana de] momento del principio dell"'esercito lancia e scudo" e dell'integrazione dell'esercito regolare con forze popolari da lui sempre sostenuto91 • Il provvedimento proposto da G. modifica le norme vigenti sulla Guardia Nazionale (legge 4 marzo 1848 sull'ordinamento della Milizia Comunale, con le integrazioni e modifiche di cui alla legge 27 febbraio 1859 e relativo regolamento di esecuzione in data 6 marzo 1859), prevedendo che: - i corpi distaccati per servizio di gu,erra (già previsti dalle leggi precedenti) siano riuniti in divisioni (prima il livello ordinativo massimo era la Legione di almeno due btg.; in nessun caso la Milizia poteva essere riunita per divisione amministrativa o provincia); - tali divisioni ferebbero parte della guardia mobile, che in tal modo diventerebbe una sorta di nuovo esercito a parte, con caratteristiche ben distinte da quella della guardia nazionale;

.,

Nel commentare tale disegno di legge noi ci riferiremo al citato Garibaldi in Parlamento (a cura di Silvio Furlani), Voi. J pp. 239-451. Utili anche - per il raccordo con il problema della incorporazione dei volontari del 1860 nell'Esercito regolare - / Discorsi parlamentari del generale Giuseppe Garibaldi (a cura dell' Avv. Comm. Scovazzi), Acqui, Tip. Ed. L. Scovazzi 1882.


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- della guardia mobile siano chiamati a far parte tutti i cittadini dai 18 ai 35 anni, fatta eccezione per gli inabili al servizio, per coloro che già fanno parte dell'Esercito e della Marina e per coloro che si trovano in particolari condizioni di famiglia (ai sensi dell'Art. 2 della precedente legge 4 marzo 1848, invece, la Milizia comunale era composta da tutti coloro che "pagavano un censo o un tributo qualunque" e per i corpi distaccati si ricorreva preferibilmente a volontari e/o celibi); - le armi, il vestito, il corredo, i cavaJli e tutto il materiale da guerra necessario siano a carico dello Stato. A tal fine, è previsto uno stanziamento di 30 milioni (in precedenza, invece, il vestito, il corredo e i cavalli erano a carico di ciascun individuo); - i militi siano chiamati a svolgere effettivo servizio ai sensi delle leggi sul reclutamento dell'esercito e delle altre leggi vigenti; - la guardia mobile in servizio sia sottoposta alle leggi e alla disciplina militare (la legge 4 marzo 1848 prevedeva, semplicemente, che i corpi distaccati fossero "sottoposti alla disciplina militare"); - il contingente sia ripartito per province, circondari e mandamenti; la durata del servizio sia quella prevista dall'Art. 8 della legge 27 febbraio 1859 (che autorizza il governo a formare corpi composti di volontari tratti dalla Guardia Nazionale, i quali in guerra fanno parte integrante dell'esercito. Hanno ferma di un anno, che però in caso di guerra è continuativa e dura fino a sei mesi dopo la conclusione della pace). Si tratta di un disegno di legge assai schematico e composto da otto brevi articoli, da completare e approfondire in sede di discussione parlamentare fino alla definizione di una legge organica. Esso è stato finora commentato in modo troppo sommario, traendone conclusioni non sempre lineari. Occorre, quindi, esaminarne un po' più nel dettaglio i reali contenuti innovati vi, tenendo conto anche dell'ampia discussione parlamentare alla quale dà luogo e del quadro degli avvenimenti politico-militari nei quali si inserisce. Si può dire subito che esso non modifica i compiti assegnati ai corpi distaccati della Guardia Nazionale, ma amplia in misura estremamente significativa la consistenza organica di tali corpi, prevedendo che ne facciano obbligatoriamente parte tutti i cittadini - anche quelli privi di censo nella fascia di età più atta all'impiego attivo nell'esercito regolare. Bisogna notare ancora che: - ai sensi dell'Art. 123 della legge 4 marzo 1848, i compiti dei corpi distaccati si limitano alla "difesa delle piazzeforti, coste e frontiere del Regno, come ausiliari dell'esercito attivo". Peraltro, l'Art. 5 della legge 27 febbraio 1859 vi aggiunge "altri servizi interni -d'ordine e di sicurezza pubblica"; - in caso di approvazione senza modifiche del disegno di legge, la composizione delle forze militari terrestri dello Stato sarebbe la seguente: esercito regolare, guardia nazionale, guardia mobile,


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volontari. Quest'ultimi atti all'impiego in campo aperto, che in senso stretto per la guardia nazionale o mobile non è previsto. Risulta, quindi, chiaro che il provvedimento può essere interpretato al massimo come preparazione, premessa o avvio alla nazione armata, ma cosi come è concepito non ha nulla a che vedere con la nazione armata VERA E PROPRIA, né ci sembra "un tentativo di riproporre, questa volta a livello nazionale, qualcosa di analogo alla prima categoria della milizia siciliana''92: tale categoria, infatti, nel maggio 1860 era stata chiamata senz'altro "al servizio attivo nei battaglioni dell'esercito", senza quindi differenziarsi da esso. Perché, allora, G. propone un siffatto provvedimento, con obiettivi così ridotti e con un testo cosi breve e composto in modo tale da prestarsi come poi è avvenuto - alle più disparate interpretazioni e alterazioni? perché, almeno, non modifica ed estende i compiti assai circoscritti assegnati ai corpi distaccati dalle leggi del 1848 e 1859? Probabilmente, non è questo che importa a G. in quel momento; forse scendendo più nel dettaglio non avrebbe fatto che rendere più difficile l'iter del provvedimento, suscitando sospetti di voler scalzare l'Esercito nel Parlamento, che sapeva non certo favorevole a idee del genere. Come sempre sono le circostanze a suggerirgli la sostanza di un testo così ambiguo. Proprio nei giorni in cui viene presentato il disegno di legge, si sta discutendo alla Camera, in un clima infuocato, la sorte dell ' esercito meridionale. Le prospettive per il suo futuro sono, in pratica, pessime e già segnale dai provvedimenti che G. condanna con veemenza nelle sedute del 18 e 20 aprile 1861. Si tratta, dunque, di trovare una soluzione che consenta almeno per il momento il reimpiego dei tanti Quadri e volontari che vorrebbero rimanere alle armi, ma certamente non potrebbero entrare tutti nell'esercito regolare. In secondo luogo, come si è visto già nel 1861 matura un progetto - condiviso anche dal Mazzini - di inviare G. nel Meridione come commissario straordinario del governo per combattere il banditismo, al quale egli stesso si dichiara favorevole prospettando la possibilità di impiegare anche parte dei suoi uomini. Che questo progetto sia collegato a quello sull"'armamento nazionale" lo dimostra la citata sua Memoria di quel periodo, databile ai primi d' aprile nella quale si dichiara disposto a assumere la carica di commissario regio nel Meridione e propone di impiegarvi i Quadri dell'esercito del Sud, e parte dei volontari. E conclude con questa frase: "raccomando il progetto sull' armamento"93 • Allo stesso progetto G. fa esplicito riferimento nella famosa seduta del 18 aprile 1861 alfa Camera, nella quale si batte per evitare lo scioglimento dell'esercito meridionale. Dopo aver accennato alla critica situazione delle province meridionali, aggiunge:

92 ·

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P . Del Negro, Art. cit., p. 278 . SD, I, pp. 355-356.


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però il rimedio che a tale uopo sarebbe necessario, sono persuaso che è da tutti conosciuto. Or bene, perché il Ministero si astiene dall'applicarlo, con tanto danno e pericolo di tutti? Come ho detto l'unico motivo che mi ha mosso a intrattenere la Camera si è l'armamento nazionale. Io non conosco altro rimedio per uscire dalla posizione difficile in cui, quantunque l'ltalia sia fatta, noi ci troviamo ancora, e questo è: armare, armare ed armare. Con tale intendimento ho presentato un progetto di legge alle considerazioni della Camera; io sarò fortunato se vorrà essa esaminarlo, correggerlo, modificarlo se è necessario; ma quel che imploro dai rappresentanti della nazione si è che se ne occupino, perché io credo che questa sia l'unica via di salvamento per il nostro paese. Concluderò che per gli stessi motivi che considero l'armamento come il salvatore della causa italiana, trovo necessaria l'immediata riorganizzazione dell'armata meridionale, come principio dell'indispensabile armamento, come atto di giustizia · e di sicurezza.

Nella stessa lettera di trasmissione del disegno di legge alla Camera, del resto, presenta il disegno di Jegge sull'armamento nazionale come manifestazione della sua volontà di "concorrere per quanto io posso" alla causa nazionale, di fronte "allo stato deplorabile" dell'Italia Meridionale e "all'abbandono in cui si trovano così ingiustamente i miei compagni d'armi". Il provvedimento viene "preso in considerazione" nella seduta della Camera del 22 aprile 1861 e trasformato da un'apposita Commissione in un progetto di legge discusso alla Camera dal 20 al 24 giugno 1861. Altro fatto significativo, in una lettera a Cavour del 18 maggio - cioè prima della discussione - G., già tornato a Caprera, accenna esplicitamente per la prima volta alla necessità che l'esercito permanente sia sostituito - e non solo integrato -dall'Esercito-Nazione: dar a Vittorio Emanuele l'Esercito Nazione e chiamare aècanto a lei gli uomini capaci di realizzarlo. L'Italia darà con entusiasmo quanto si abbisogna [ ... ] se il progresso umano non è una menzogna, l'Esercito Nazione sostituirà lo stanziale, e Lei, avrà fatto un passo immenso dell'Italia sulla buona via. Poi la supplico di credermi, Signor Conte, Italia e chi la regge, devono avere amici dovunque! ma temer nessuno! In 49 io sortiva da Roma con 4 mila uomini ed era obbligato a nascondermi solo nelle foreste. Nel 60 lei ha veduto ciò che si fece con mille. Domani noi saremo in progressione geometrica col popolo che diede i Romani all'universo.94

Non ci si può stupire se sia la Commissione chiamata a studiare il successivo progetto di legge sull'armamento nazionale sia il Parlamento non

"'

Cfr. L. Carpi, Il Risorgimento Italiano - biografie storico-politiche d'illustri italiani contemporanei - Voi. IV, Milano, Vallardi 1888, pp. 121-123.


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concordano con l'intento (più o meno palese e chiaro) di G. di liquidare l'esercito permanente sostituendovi quello di milizia o, almeno, di fare di quest'ultimo - e non dell'esercito permanente - il perno della difesa nazionale. Pur aderendo in linea di massima ai principi di G. e riconoscendo la necessità di ampliare l'Esercito, la commissione sottopone ali' esame della Camera un progetto di legge che indubbiamente si discosta in misura sostanziale dalla lettera e dallo spirito delle peraltro troppo generiche e scarne norme proposte da G. il 13 aprile. Vi si nota, anzitutto, un sensibile restringimento della base di reclutamento della Guardia Mobile: possono essere chiamati a farne parte solo coloro che appartengono alla Guardia Nazionale (quindi, solo i benestanti) e hanno ultimato il servizio di leva (ciò avviene normalmente non prima dei 21 anni); nel contingente che deve fornire ogni Comune sono iscritti anzitutto i volontari - anche non appartenenti alla guardia nazionale - dai 18 ai 40 anni; solo se essi mancano sono arruolati gli altri, incominciando dagli scapoli più giovani; sono aumentati i casi di esenzione; è ammessa la surrogazione, istituzione tipica degli eserciti a lunga ferma sul modello francese. In tal modo sono esclusi dall'iscrizione automatica e obbligatoria nei ruoli della Guardia Mobile (come avrebbe voluto G.) i giovani dai 18 ai 24 anni e a fronte del milione circa di uomini da iscrivere nei ruoli previsti da G., ne sono effettivamente iscritti solo 130.333, suddivisi in 220 battaglioni. Si tratta senza dubbio di un radicale ridimensionamento, che la commissione giustifica da una parte con la semplice previsione che coloro che vorranno arruolarsi volontariamente saranno assai numerosi (uno su mille abitanti), dall'altra con l'opportunità di non gravare ulteriormente sulle classi più povere e in particolare sui contadini, che già sopportano il gravoso servizio di leva: "né maggiore sarebbe l'utilità o l'opportunità di includere questa classe nella guardia mobile, poiché in siffatta specie di milizie alla mancanza di spirito di corpo e di abitudini militari può supplire in gran parte il patriottismo ed una maggior cultura nei loro componenti; ora è disgraziatamente un fatto che al momento presente la classe della quale si tratta non possiede queste qualità in molte parti d'Italia, e ciò non per sua colpa, ma per colpa dei Governi passati che la mantennero nell'ignoranza e nella Sllperstizione [questo inconveniente non vale forse anche per il servizio di leva? - N.d.a.]". In tal modo la Commissione utilizza le stesse argomentazioni di G. sullo scarso .spirito militare dei contadini, traendone però deduzioni opposte. Sempre secondo la Commissione, la Guardia Mobile dipende dal Ministero della guerra e ha i1 compito di "cooperare [con l'esercito - quindi è una forza ausiliaria - N.d.a.] ovunque sia necessario per difendere l'indipendenza e l'integrità dello Stato, la monarchia e i diritti che lo Statuto ha consacrati, l'ordine e la sicurezza pubblica". Si deve addestrare ogni anno per un periodo massimo di 30 giorni; i suoi ufficiali sono nominati tra i cittadini ritenuti idonei al grado, oppure tra gli ufficiali in servizio o in


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congedo. Il livello ordinativo massimo previsto non è più la divisione (che come tale, è pluriarma), ma il battaglione di fanteria. Questo perché, secondo la commissione, un'unità al livello di divisione renderebbe necessario togliere all'esercito regolare - che già ne difetta assai - un cospicuo numero di ufficiali superiori sia per i Comandi, sia per le Armi speciali (cioè artiglieria e genio); in caso diverso "si dovrebbe assegnare tali incarichi a dei non militari, ma così facendo si riuscirebbe ad appagare una vanità, senza vantaggio alcuno, anzi con danno del pubblico servizio". Le Armi a cavallo (artiglieria e cavalleria) richiedono ufficiali e soldati che si addestrino continuamente; quindi devono disporre con carattere di continuità di numerosi cavalli, i quali a loro volta devono essere giornalmente governati. In conclusione, secondo la Commissione i reparti di milizia di queste Armi risulterebbero assai meno addestrati di quelli dell' esercito permanente, ma richiederebbero più o meno la stessa spesa. "Questa verità è stata d'altronde generalmente riconosciuta; e perciò si trova che in tutti i paesi le milizie sono formate quasi esclusivamente di fanteria. E valga, fra i tanti che si potrebbero additare, l'esempio del1a Prussia, che fin dall'anno scorso aboliva la cavalleria dalla landwehr, accrescendo in compenso di una quantità minore la cavalleria dell'esercito regolare". Sulle proposte di G. e sul progetto di legge - con esse in radicale contrasto - della Commissione si apre un lungo dibattito con numerosi squarci interessanti, che qui riassumiamo brevemente solo per la parte di più diretto interesse. L'esame del dibattito - che, va ancora sottolineato, si svolge in assenza di G. - mette a nudo gli indubbi limiti tecnici e le ambiguità che il suo progetto presenta, a cominciare dalle maglie troppo larghe che lasciano spazio eccessivo per le modifiche, e - paradossalmente - dal suo conservatorismo, almeno formale e tecnico. Di conservatorismo, infatti, si potrebbe parlare: · perché ai tre eserciti già esistenti (l'esercito regolare; i volontari che vogliono combattere, ma con ufficiali loro e modalità organiche e addestrative loro, e sempre che condividano gli obiettivi politici della guerra; la guardia nazionale), G. si limita a aggiungerne un quarto denominato Guardia Mobile, che per di più rimane emanazione o variante della Guardia Nazionale stessa e mantiene gli stessi compiti, lasciando però la porta aperta anche a chi non vi appartiene per censo o per altre ragioni. Se ne trae conferma dal fatto - al quale accenna anche il Furlani - che G. al momento vuol solo trovare urgentemente un espediente, una via d' uscita - sia pur parziale e provvisoria - per mantenere in piedi l'esercito meridionale, senza scontentare e insospettire troppo la monarchia, i generali piemontesi e i moderati che dominano il Parlamento. In quanto ai compiti, pare evidente che, con un milione di uomini a sua disposizione e disposti a seguirlo, G. non aveva che da indicarne di nuovi, quando e se riteneva giunto il momento: il suo carisma avrebbe fatto il resto. Inducono a questa ipotesi alcune considerazioni tecniche. Se la Guardia Nazionale, come sottolineano non pochi deputati nel corso del dibattito, in


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passato aveva già dimostrato la sua attitudine a essere mobilitata in guerra a fianco dell'esercito svolgendo compiti ausiliari e territoriali anche fuori sede, che bisogno c'era di prevedere al suo interno una terza aliquota "distaccata per servizio di guerra?" anche ammesso che questa aliquota svolgesse compiti che la Guardia Nazionale non avrebbe potuto svolgere, non era più semplice che, da essa, si traessero i migliori elementi per rafforzare direttamente l'Esercito regolare? e se G. voleva veramente che le forze militari della Nazione fossero espressione di tutte le classi sociali, perché non ha suggerito l'estensione in guerra della base di reclutamento dello stesso Esercito regolare accompagnata dalla riduzione della ferma di leva, riproducendo così il modello svizzero puro o almeno quello prussiano, che ambedue non ammettevano volontari organizzati a parte? In effetti, come dimostreremo nel prossimo cap. X i più coerenti sostenitori della nazione armata non approvavano il dualismo Esercito-Guardia Nazionale, frutto di un cattivo compromesso che bisognava eliminare, prevedendo un unico esercito da mobilitare all'occorrenza, che però fosse espressione di tutta la nazione e non avesse, quindi, i ben noti caratteri di quell'esercito dinastico a ferma lunga, che G. almeno all'apparenza vuole mantenere, senza pretesa di cambiare il sistema ma accontentandosi di un modesto spazio per ciò che più gli sta a cuore. In tal modo G. fornisce valide argomentazioni tecniche ai suoi avversari, come quelle che in caso di guerra si tratta prima di tutto di rafforzare anche numericamente - e non di diminuire, a pro di altre forze l'efficienza dell'Esercito, che in fondo le classi più umili sono già gravate abbastanza dalla leva, e che anche ammessa la possibilità di reclutare tutti, per diverse ragioni tale possibilità rimarrebbe allo stato teorico. Certamente l' establishment non gradiva la leveé en masse, che giudicava il preludio della temuta rivoluzione; ma nelle condizioni economiche e sociali dell'Italia del tempo, era essa veramente possibile, e necessaria? G., capo dei volontari, in tutte le sue azioni, e anche con questo progetto di legge, mostra di essere il primo a non crederci: la leveé en masse della Rivoluzione francese, infatti, è consistita nel1'incorporare interamente nel]' esercito regolare - con metodi anche forzosi - la massa dei cittadini più giovani. Lo stesso Pisacane (cap. V), che non può essere certo definito un conservatore, ha sempre sostenuto la formazione in guerra di un solo, grande esercito nazionale, senza distinzioni e senza corpi franchi o speciali. Per chiarire ancor meglio il problema, qui bisogna distinguere tra esercito del tempo di pace e esercito del tempo di guerra: il principale limite tecnico-militare della proposta di G. era che, appunto, per il tempo di guerra egli continuava ad ammettere troppe distinzioni, pur senza negare il ruolo di "lancia" all'esercito permanente. Se la "lancia" era - com'egli diceva insufficiente, perché rafforzare lo "scudo" e non la lancia stessa? Da tale proposta non traspare quello che avrebbe dovuto essere il movente principale, dallo stesso G. e da altri tante volte indicato: che, dovendo ancora misurarsi con l'esercito austriaco e fors'anche quello


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francese, era per prima cosa necessario disporre di forze in grado di reggere il confronto numerico in campo aperto con questi due potenti eserciti, o almeno ridurre per quanto possibile il divario. Sotto questo profilo, non c'è dubbio che la consistenza numerica dell'Esercito Italiano nella primavera 1861 era insufficiente; era quindi necessario allargare la base del reclutamento e quando si trattava di difendere la Patria, non era più il caso di fare distinzioni di censo o di classe sociale, ma di attitudini e di età. È fuor di dubbio però che la maggior parte delle classi più giovani e dei Quadri più validi avrebbe dovuto far parte dell'Esercito di prima linea senza troppe distinzioni, e che gli altri avrebbero dovuto costituire alle sue spalle le fonti di alimentazione, o provvedere alle varie incombenze territoriali. Per quest'ultime, il milione di armati voluto da Garibaldi era esuberante ... Tra le voci più originali e significative emerse nel dibattito ricordiamo quella del deputato dell'opposizione Petruccelli della Gattina, meridionale di Lagonegro, già liberale rivoluzionario nemico dei Borboni, esule per lunghi anni in Francia e fiero avversario della politica di Cavour. Si dichiara contrario al provvedimento, sia nella prima stesura di G., sia "quale fu poi modificato, dolcificato dagli ortopedisti della Commissione": in ambedue i casi si tratta infatti di una mezza misura, "e con le mezze misure non si salvano gli Stati". E vuole invece dimostrare "che l'esercito. regolare è quello che noi dobbiamo aumentare, non già l'irregolare; che l'armata irregolare, lungi dall'essere in questo momento alcun che di favorevole, ci può compromettere in faccia all'Europa". Se si tratta di combattere il banditismo, la legge proposta è inutile: combattere i banditi è affare delle forze di polizia, non dell'Esercito o della Guardia Mobile. Per questo compito occorre solo un numero di Carabinieri proporzionati all'estensione del territorio, e "una polizia non altrimenti che scritta in sul bilancio". Il compito principale dell'Italia è di liberare il Veneto e Roma: per ambedue le esigenze, le forze irregolari non servono e anzi compromettono il prestigio della nazione di fronte agli altri Stati, perché "gli Eserciti dei volontari, gli eserciti irregolari, ne11 ' Europa conservativa lungi dall'essere una forza, sono un indizio di debolezza. Per l'Europa conservativa tutto ciò che sente di rivoluzione è un sintomo di mancanza di forza, un sintomo di mancanza di diritto. Essa non riconosce che le forze regolari. Essa, per ragioni che non discuto, che sono forse illogiche, strane, essa non riconosce che la forza degli eserciti regolari", In linea generale, per il Petruccelli lo scopo delle armate irregolari è di difendere il territorio nazionale quando l'esercito regolare opera fuori dai confini, oppure di battersi contro il nemico quando è penetrato nel territorio dello Stato; per questo non bastano certo i 130.000 uomini previsti da11a Commissione, ma occorrerebbe la leveé en masse decisa dalla Repubblica francese nel 1792-93. I miracoli che ha fatto il popolo francese in armi in quel periodo non si possono certo ripetere con la Guardia Mobile: "quindi [... ] di esercito


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regolare, quanto ne volete, e sin d'ora; di esercito irregolare, tutti, tutta la nazione, non un giorno prima, non un giorno dopo; perché, lo ripeto, l'entusiasmo non si organizza". Anche per la conquista del Veneto - prosegue il Petruccelli - gli irregolari non servono, sia per ragioni poHtiche che militari. È ben vero che gli irregolari possono invadere il Tirolo o gettarsi sulla Dalmazia, sull'Illiria o Ungheria; ma così facendo l'Italia si metterebbe contro sia la Confederazione Germanica che la Russia, e avrebbe anche per nemica l'Inghilterra. che si è dichiarata contro chi per primo violerà la pace. A parte questo, "egli è altrettanto facile prendere il quadrilatero colle baionette dei volontari, come sarebbe volerlo demolire con le trombette di Gerico f... ]. Contro le mura di bronzo del quadrilatero, ci vogliono gli uomini di bronzo dell'esercito regolare". Nella recente campagna del Sud, dopo tante vittorie "noi abbiamo visto quest'esercito [di Garibaldi] arrestarsi sulle rive del Volturno e non poter procedere oltre verso Capua, che non è al postutto se non una meschina fortezza di quarto ordine". Per il Petruccelli ciò che è veramente importante è che la legge preveda un aumento del numero dei battaglioni di Guardia Mobile da 120 (come proposto dalla Commissione) a 500, non importa come: magari anticipando la chiamata a 16 anni. Bisogna armare il più possibile, sia per ragioni internazionali che per ragioni interne: perciò "credo che in Europa farà maggior effetto quando si dirà che il Parlamento italiano, votando una legge d'armamento, ha chiamato la gran massa dei cittadini sotto le armi, anziché si dicesse che il medesimo siasi rivolto a una nazione di 23 milioni per chiederle solo 130 mila uomini". All'interno tale aumento ha valore morale e educativo. Si tratta anzitutto di convincere l'opinione pubblica che il governo è pronto a far rispettare l'unità d'Italia contro chkchessia e nell'unico modo possibile, cioè con le armi; "io credo inoltre che questo armamento del popolo è una moralità. Gli antichi governi, per corromperlo, gli mettevano in mano un catechismo; noi, che dobbiamo fare una nuova generazione, che dobbiamo rifarlo ed educarlo dandogli un fucile [... ]. Esso insegna a far rispettare i propri diritti ed a rispettare i diritti degli altri [ ...] Machiavelli ha detto: anni

buone, leggi buone". Nel suo intervento Depretis, al momento autorevole esponente della opposizione e futuro presidente del consiglio, dissente dalle proposte della Commissione ma mira a rassicurare coloro che sono contrari alle proposte di G., accennando alla possibilità di attenuarne la portata in sede di applicazione pratica. Anzitutto - egli afferma - non si può parlare di leva in massa, perché lo stesso G. non ci pensa affatto. Il suo disegno di legge per la Guardia Mobile fissa dei limiti di età assai ampi (dai 18 ai 35 anni), ma contestualmente precisa che la chiamata a prestare servizio deve avvenire in conformità alle vigenti leggi del reclutamento: quindi tale disegno di legge, "da taluno interpretato in senso vastissimo e quasi irragionevole", all'atto pratico può essere applicato anche entro limiti modesti. Sempre in materia


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di reclutamento, non concorda con l'affermazione dei generale Menabrea che non si deve allargare la base del reclutamento, per non imporre troppi gravami militari alle classi più disagiate: a suo giudizio è vero il contrario, perché una volta fissato un dato numero di uomini da reclutare, più si allarga la base del reclutamento più i gravami diminuiscono: quindi, limitatevi pure a 220 battaglioni [come proposto dalla Commissione - N.d.a]; quando avrete fatto un'altra esperienza, vi persuaderete che potete aumentarne il numero e perfezionarne l'organizzazione; e con un'altrn. legge, se la patria ne avrà bisogno, verrete a dimandare la facoltà di accrescere queste forze. Limitate pure pel momento questo peso nel suo complesso, si fissi per ora un contingente limitato a solo 220 battaglioni, ma estendete, lo ripeto, la base del reclutamento a quel più grande numero di cittadini che potete. Adesso il peso sarà meno grave, e non vi sarete preclusa la via ad aumentarlo, se le necessità del Paese lo richiederanno. Trattandosi di un servizio che si presta per la difesa dello Stato, pel quale tutti i cittadini hanno l' obbligo eguale d'un simile servizio, il sistema più conveniente è quello che abolisce la distinzione del censo, distinzione ineguale in varie parti del Regno, già

più volte condannata da uomini autorevoli, e, quello che importa, dalla esperienza e dal raziocinio.

Un consenso a G., quindi, tiepido e gradualista. Ben altro l'atteggiamento dei deputati (e ufficiali garibaldini) Cadolini e Miceli, che difendono strenuamente e senza tatticismi o riserve il disegno di legge così com'è. Partendo dal generale convincimento che è necessario "armare con ogni maggiore estensione il paese", il Cadolini ritiene che per tale armamento occorra utilizzare tutti i diversi concorsi possibili, quindi non concorda con la tesi del Petruccelli che si debba rafforzare soltanto r esercito regolare, trascurando la guardia mobile e tutti gli altri elementi ad esso estranei. A suo giudizio, per avvalersi di tutte le sue forze l'Italia deve fare assegnamento su tre distinte componenti: esercito regolare, volontari e guardia mobile, assegnando loro compiti diversi. All'esercito regolare spettano le grandi operazioni militari e l'espugnazione delle fortezze; i volontari sono atti a condurre "le operazioni in terreni montuosi, e potranno anche nei terreni frastagliati delle pianure della valle del Po affrontare in grandi masse i nostri nemici. Dove sarà mestieri fare lunghe e rapide marce, e soffrire le fame e la sete, il freddo, la mancanza di ogni cosa, ed eseguire operazioni perigliosissime, troverete sempre i volontari all'altezza della forma che già si sono acquistate ...". Accanto a queste forze di prima linea, c'è bisogno di altre unità destinate a mantenere l'ordine interno, presidiare le fortezze, sostenere il primo urto contro diversioni o sbarchi nemici sulle nostre coste, "opporsi ai tentativi reazionari che saranno sempre possibili in Italia, finché non sia estirpata la setta dei sanfedisti sola che rinnovi ancora i suoi conati ora con bandiera borbonica, ora senza bandiera, come semplici briganti


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nemici della civiltà e dell'umanità ...". Quest'ultima missione dev'essere appunto riservata alla guardia mobile, la quale rappresenta "un efficace sviluppo" della già esistente Guardia Nazionale, e come tale non chiede ai soli cittadini provvisti di censo - meno disposti degli altri a sostenere per intero le fatiche della guerra - di dare quanto essi non potrebbero dare. Quindi non basta la guardia nazionale organizzata secondo le leggi vigenti, ma è necessario fondare tale istituzione sopra nuovi e più alti principi, per giungere, con più acconce norme a preordinare tutte le forze cittadine in modo che al momento del bisogno tutte siano armate, istruite e disposte a fare il loro compito. Ecco quale deve essere lo scopo della legge che oggi discutiamo [ ...]. E come le guardie mobili possano non solo valere a mantenere l'ordine interno nelle città e nelle campagne, ma altresì costruire una vera difesa nel paese, la storia degli ultimi anni può facilmente provarlo...

L'istruzione militare preparatoria ai militi cittadini dai 18 ai 35 anni servirebbe anche ad educare militarmente i più giovani, preparandoli ·a prestare più agevolmente il servizio di leva; istruirebbe coloro che sono pronti ad accorrere nelle file dei volontari; diffonderebbe lo spirito militare nel popolo, "rendendo comune l'abitudine a portare le armi e dissipando cosl l'avversione al servizio militare che può forse ancora esistere nelle parti d'Italia che, esonerate fin qui dalla leva, verrebbero ancora più a lungo ad adirarsene"; infine, consentirebbe all'esercito di utilizzare in prima linea tutti gli uomini più atti a combattere, proteggendogli le spalle. Per questo il Cadolini accusa la Commissione di aver ristretto la portata del provvedimento, e soprattutto dissente dalla modifica che prevede l'esclusione dal servizio obbligatorio nella guardia mobile dei giovani dai 18 ai 20 anni. Il deputato Miceli critica in modo ancor più aperto e chiaro del Cadolini l'operato della Commissione, accusandola di "aver impicciolito fino a fargli del tutto perdere la primitiva virile sembianza" il provvedimento di G., per sostituirvi "un espediente parziale e ristretto" che non rispetta l'uguaglianza dei diritti e dei doveri del cittadino. Propone perciò che le modifiche della Commissione siano respinte in blocco, e riassume tutte le argomentazioni dei sostenitori di G.: la necessità di rimediare all'insufficienza delle forze nazionali a fronte della minaccia austriaca e dell'invadenza francese; l'inopportunità di escludere dalla chiamata obbligatoria i giovani dai 18 ai 21 anni, e di "pretendere-un censo per poter offrire la vita alla patria", ecc .. Sul versante opposto il deputato napoletano "governativo" marchese Caracciolo, pur ritenendo anch'egli inevitabile un nuovo confronto con l'Austria, difende l'operato della Commissione, che avrebbe conservato delle proposte di G. la parte valida, togliendovi quella "che conteneva difficoltà e pericoli". Per tenere alto il prestigio del nuovo Stato italiano in Europa bisogna "eliminare qualunque elemento che possa generare antago-


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nismo e dissidio, che possa dividerci in qualunque modo al cospetto dello straniero", e bisogna fugare i sospetti di voler avversare "gli interessi conservativi della moderna società". Secondo il Caracciolo il provvedimento di G. non risponde a queste esigenze, per diverse ragioni politiche e militari. Tra i dissensi di una parte della Camera egli premette che la guardia mobile dovrebbe essere considerata come "un'opera sussidiaria dell'esercito stanziale, per la difesa della Patria e per la pubblica sicurezza, a quel modo, a un di presso, che la Landwehr in Prussia, o la milizia nazionale in Inghilterra". Invece, gli obiettivi reali del disegno di legge a suo giudizio sono ben altri: [egli] a11argava oltremodo le basi della sua [cioè della guardia mobile N.d.a.] composizione, formandola per divisioni conformi a quella del1' esercitò stanziale e volendovi inclusi anche coloro i quali non pagavano censo o tributi di sorta. Ciò facendo, la proposta Garibaldi creava un esercito a costa dell'altro [cioè vicino all'altro - N.d.a.], di ordini e di spiriti diversi, ed evitando da una parte un pericolo andava incontro ad un altro: apparecchiava, cioè, le forze per la difesa nazionale, e d'altra parte creava le forze le quali potevano servire per un caso più o meno remoto, più o meno probabile, al disordine e alla rivoluzione.

Il deputato Pantaleoni osserva che, volendo mobilitare tutti i cittadini compresi i braccianti, si trascura il vecchio detto che è il denaro che fa la guerra. Mobilitando tutti, si impedirebbero i lavori dell'agricoltura, del commercio e dell'industria, si ostacolerebbe la costruzione di strade ferrate e porti, insomma "vi toglierete ·1a facoltà di fare la guerra, perché vi toglierete tutti i mezzi della guerra stessa". L'esempio della leveé en masse decisa dalla Convenzione nel 1793 non calza: "la Convenzione non chiamò la nazione che all'ultimo momento sotto le armi, e quando il nemico aveva invaso il territorio; che cosa direste voi se l'Assemblea costituente l'avesse chiamata nel 1789? Non si può chiamare sotto le armi la nazione in antecedenza, senza togliersi così le risorse stesse che questa nazione ci dà, e rendere frustraneo lo scopo che l'armamento nazionale s'intende di raggiungere". Critica il disegno di legge anche il deputato D' Ayala, che pure non è certo un conservatore e un conservatore militare (Cfr. cap. X). Egli ritiene che, volendo istituire una Guardia Mobile nell'ambito della già esistente Guardia Nazionale, si violino le leggi istitutive della Guardia Nazionale stessa e se ne distruggano i pregi e i caratteri distintivi; pertanto per la Guardia Mobile dovrebbe essere usato un altro nome. A tal fine propone un emendamento - poi respinto - per chiamarle "corpo di milizie cittadine". Merita infine di essere ricordata la posizione sostenuta nel dibattito dal generale Bixio, principale collaboratore di G .. Si dichiara contrario ali' elezione dei Quadri della guardia nazionale e mobile invece sostenuta dal D' Ayala, ricordando che G. non vi ha mai fatto ricorso; "dunque non


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bisogna preoccuparsi che il Governo possa in queste nomine mettere l'ufficiale B o l'ufficiale C, che in fin dei conti il Governo per scegliere questi ufficiali sarà sempre in miglior condizione che non siano i con~ tadini". Sui contenuti che dovrebbe avere il progetto di legge in discussione, la sua ottica è sorprendentemente opposta a quella di G., anche se si guarda bene dal criticarne direttamente le proposte. Bixio crede fermamente nena centralità dell'esercito permanente e ritiene indispensabile che l'insieme delle forze regolari, dei volontari e della guardia mobile non sia comunque inferiore a 600.000 uomini. Invece io prendo il quadro pubblicato per decreto dal generale Fanti, e vedo che alla fine dell'anno l'esercito, compresi 18 nùla carabinieri, i quali non fanno sempre la guerra da per tutto, sarà di 302 mila uomini, e, se si aggiungono 50 mila volontari, ammontano a 352 mila. Ora il 2% della popolazione totale d 'Italia di 27 milioni [il 2% era la percentuale normalmente adottata in Europa per stabilire la forza dell'esercito N.d.a.] farà 540 mila; e tutto quello che manca dall'armata e dai volontari deve riempirsi colla guardia mobile [... ]. Quando J'Jtalia sar:i veramente minacciata, sapete cosa succederà? Succederà quello che è avvenuto al principe Eugenio quando qui a Torino ha chiamato 1e popolazioni alla leva in massa, e non ha risposto nessuno, perché esse non erano state organizzate a tempo[ ... ]. Nella mia convinzione non vi era censo o non censo; evidentemente se si parla di censo, c'è qualcosa che dà fastidio, a me non dà fastidio di certo; ma prendiamo le cose come sono. Fate l'esercito forte; se qualcuno può rinnovar miracoli, se

potete fare che l'esercito arrivi a 600 mila uomini, tanto meglio; lasciate la guardia nazionale a casa; ma se non avete l'esercito così ingrandito, se non potete sperare un numero straordinario di volontari, e io dico straordinario se si arrivasse ai 50 mila, allora preparate, se non altro, i Quadri della guardia mobile; verrà la guerra, i soldati saranno pronti ed abili a combattere, e voi avrete preparato quello che non si può far mai quando viene il momento del pericolo. Io propongo pertanto che si formino 380 battaglioni invece di 220; questa cifra che propongo è il risultato di calcoli i più rigorosi lnostra sottolineatura N.d.a.).

Nemmeno Bixio è favorevole all'operato della Commissione e alla forma che sta prendendo il progetto di legge nel corso del dibattito, e il suo emendamento per aumentare a 380 i battaglioni è respinto; tuttavia per lui ciò che più importa è la capacità di far fronte a minacce esterne assicurate solo dall'esercito regolare, né ha troppa fiducia nella possibilità di reclutare dei volontari, visto che prevede che essi non supereranno le 50.000 unità. Un'ottica, una filosofia, quindi, ben diversa da quella di G., incentrata su11e "forze irregolari", sul milione di fucili e - nel caso specifico - sulla possibilità del loro impiego nella lotta al banditismo nell'Italia Meridionale. Per Bixio si farebbe ricorso alla Guardia Mobile - su una base più ampia di quella prevista dalla Commissione ma assai meno estesa da quanto vorrebbe


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G. - solo in mancanza di meglio, cioè nel caso che non si riesca a raggiungere i 600.000 uomini necessari per esercito regolare e volontari; per G., invece, si crea con la Guardia Mobile una nuova pedina fondamentale, indispensabile sempre e in ogni caso. Con quelli del Petruccelli e del d' Ayala, l'intervento di Bixio è estremamente importante. &so aiuta a individuare senza partito preso i limiti dell'operato della Commissione e degli interventi che lo difendono, ma anche quelli delle proposte di G. (significativamente assente durante il dibattito, come se giudicasse la causa perduta). 1n effetti, un'analisi un pò più accurata del suo disegno di legge porta a ridimensionare sia le critiche - assai frequenti nel dopoguerra - al riuscito tentativo della Commissione, del governo e della Camera di svuotare il provvedimento, sia le tesi di taluni suoi sostenitori. Come del resto è avvenuto in tutti i Paesi dell'Europa continentale, anche la difesa nazionale italiana doveva essere basata su un esercito regolare atto a condurre una guerra di eserciti, opportunamente rafforzato all' emergenza; ma da questo alla formula sostenuta dal governo e dagli avversari di G., ce ne corre. Sul dibattito - a detrimento del livello tecnico - grava comunque una pregiudiziale di politica internazionale: chi sostiene G. è contro Napoleone m e la politica francese del momento; chi lo avversa è accesamente a suo favore. Sotto il profilo tecnico, il problema principale era quello della forza da mantenere sotto le armi in tempo di pace, tanto più esigua quanto più il modello di difesa si avvicinava alla nazione armata, o almeno alla sua versione prussiana (ferma del tempo di pace solo addestrativa e quindi breve, per tutti). l conservatori volevano semplicemente conservare l'esistente, cioè il modello francese di un esercito del tempo di pace assai numeroso, che quindi in guerra subisce pochi ampliamenti e comunque non mobilita che parzialmente le risorse umane esistenti. Al contrario, G. e i suoi sostenitori hanno il merito di sostenere la necessità di utilizzare a fondo tali risorse umane, e di voler diffondere lo spirito militare tra il popolo, cosa sacrosanta; ma lo fanno identificando semplicisticamente tali obiettivi con l'incremento di quelle che il deputato Petruccelli chiama forze irregolari, cioè dei volontari e della Guardia Nazionale. E a proposito di Guardia Nazionale e corpi speciali, non v'è che da concordare - in nome dell'importanza della coesione per l'efficienza militare - con il Pisacane, con il De Cristoforis e con numerosi sostenitori della nazione armata, concordi sul principio del coagulo di tutte le forze in un grande e unico esercito nazionale. Va però notato che nessuno, né tanto meno G. o Bixio, valuta le compatibilità economiche delle proposte ordinative, né le esigenze logistiche, di artiglieria, genio ecc. che esse comportano. Inoltre il dibattito lascia aperto un interrogativo al quale anche oggi risulta arduo rispondere: era possibile, data la difficile situazione internazionale, sociale ed economica deU'ltalia del 1861 e degli anni successivi, adottare un ordinamento dell'esercito più economico e più vicino a quello prussiano, mirante comunque ad accoglier~ talwù giusti principi invocati da


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G.? Questi principi non sono stati accolti, e si è fatto male: ma si deve anche dire che certo vittimismo oggi ancor affiorante non è giustificato, perché nonostante le loro imprese nell'Italia Meridionale, i soli volontari per ragioni tecniche - non potevano certo costituire il nerbo delle forze destinate ad affrontare l'esercito austriaco in campo aperto nella pianura padana. Checché ne dicano taluni, il terreno d'impiego più congeniale per queste valorose ma poco addestrate truppe rimaneva quello montano, dove grazie anche alla maestria tattica di G., le poche forze potevano far fronte alle molte, e l'esercito austriaco poteva far sentire meno che in pianura il suo superiore inquadramento, addestramento e annamento. Il disegno di legge sulla Guardia Mobile del 1861 rimane I 'unico provvedimento di legge proposto da G. in materia di reclutamento e ordinamento delle forze. I suoi scritti del periodo successivo non possono essere rettamente interpretati senza tener conto della sempre più critica situazione economica e sociale dell'Italia riunificata, e della sua iniziale speranza - ben presto delusa che il nuovo governo Depretis, giunto al potere nel 1876, metta finalmente mano a estese rifonne anche in campo militare. La sua aspirazione a ordinamenti militari che coinvolgano tutto il popolo rimane comunque costante, al di là de11e diverse e a volte contrastanti soluzioni cone,-rete da lui suggerite. Nel gennaio 1862 così commenta il naufragio del disegno di legge del 1861: "quel mio disegno di armamento nazionale era basato su una vecchia legge piemontese. Non erasi a far altro che chiamarla in vigore. Avete visto come l'hanno annichilito i perversi? Vogliono disarmare tutti gli uomini che essi non maneggiano come inerte bastone. E sì, se fossero avveduti rettori, se iinceramente patriotti, se non celassero segrete mene, non dubiterebbero di me e dei miei e permetterebbero la istituzione dei volontari inglesi nel Regno Unito". Sempre all'inizio del 1862 auspica che I 'Italia "si trasfonni in un solo campo di armati" in modo da rendere breve la futura battaglia decisiva. E assicura che "la Nazione Armata deve prendere, riprenderà, non dubitate, possesso di sé stessa". Accetta la presidenza della Società di Tiro a Segno Nazionale costituita nel 1861; non si stanca di raccomandare a tutti di esercitarsi nel tiro con il fucile. Collega questa attività bellicosa proprio con la salvaguardia della pace: è per evitare la guerra che io chiedeva al governo l'armamento della nazione. La diplomazia sentirebbe ben altro rispetto per noi, attelati in ordinanza di seicentomila [non di due milioni - N.d.a.], pronti a combattere per far nostro il Paese dalle Alpi al Quarnaro. I paurosi ricorderebbero che Roma è Italia [... ]. Gli Austriaci comprenderebbero esser venuta l'ora del loro sgombro dalla Venezia. Né la Spagna chiederebbe l'oracolo di suo Patrocinio per sapere quale attitudini assumere verso l'Italia padrona dei propri destini. Né la Russia so11everebbe la Ucraina per farci paura. Né l'Inghilterra si dorrebbe di averci forti e leali amici. Il popolo di Parigi applaudirebbe...95 • ..

SD, II pp. 5 e 19-20.


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Nel marzo 1862 assicura ai rappresentanti delle popolazioni venete e trentine ancora sotto l'Austria di aver sempre presenti le loro aspirazioni, e conclude dichiarando di aspettarsi molto dalla istituzione del tiro a segno nazionale, perché "il giorno in cui tutti gli italiani sapranno maneggiare un fucile, i prepotenti ci daranno ragione anche senza bisogno di fare la guerra". Al popolo e agli studenti di Parma rinnova la solita raccomandazione di esercitarsi con le armi, e aggiunge che "a migliaia sorgeranno coloro che di nuovo verranno con me, e col nostro prode esercito [nostra sottolineatura - N.d.a.] per togliere il velo alla bandiera dell' emigrazione veneta". La sua potrebbe dirsi una diplomazia popolare e della carabina venata di demagogia, anche se - in realtà - non fa che tener conto dell'antica norma, che senza un forte potere militare dietro non c'è diplomazia che tenga: tutti in anni, tutti destri alle armi, perché, persuadetevi, se oggi ci è dato liberamente parlare, ciò non è per volere degli oppressori, ma perché siamo forti. 1n armi dunque, in armi tutti, e tutte le quistioni del nostro paese spariranno. Sparirà quella di Roma, sparirà quella di Venezia, spariranno tutte e senza il soccorso della Diplomazia. La diplomazia la faremo noi colle nostre armi; la faremo colle nostre carabine [... ]. Nelle armi sta il gran segreto della emancipazione [... ]. Gli studi e le scienze edificano l' uomo; ma ora primo studio siano le armi, con queste_tutti gli ostacoli spariranno ...

Si comprende molto bene, da questi continui appelli, che le effettive possibilità di realizzazione dei principi della nazione armata passano attraverso la diffusione capillare dello spirito militare e nazionale tra tutti i cittadini, che dovrebbero vedere negli esercizi militari un mezzo per tutelare la loro libertà e la pace, senza bisogno di eserciti permanenti: "quando gli altri Stati d'Europa si troveranno sulla gran via umanitaria" - assicura O.contestualmente alle esortazioni a istruirsi nel tiro - "non vi saranno più eserciti stabili, non più flotte, ed i grandi capitali, che distruggono gli oppressori per opprimere altri popoli, s'invertiranno a pro delle altre 96 classi povere" • Come si è visto, a fine marzo 1862 parla di affiancare forze popolari al "nostro prode esercito" per liberare il Veneto, e all'inizio di aprile (messaggio ripetuto a fine maggio) raccomanda al popolo di Casalmaggiore la concordia: "esercito regolare, camicie rosse, guardia nazionale, operai, popolo della città e campagna, tutti, tutti siamo concordi ed otterremo ciò che vogliamo". A distanza di pochi giorni, in un discorso agli ufficiali della Guardia Nazionale di Brescia, si dichiara convinto che essa "all' occorrenza

96 ·

SD, Il pp. 43 e 47.


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saprà prestare un valido appoggio all'esercito nazionale", ma al tempo stesso auspica "che possa venir fra breve chiamata non solo in Italia ma in Europa a surrogare gli eserciti stanziali; avremo allora fatto un gran passo sulla via del progresso". Il 3 giugno 1862 scrive al Parlamento: la Svizzera e la Prussia [le cui organizzazioni militari erano molto diverse, in quanto la Prussia - diversamente dalla Svizzera disponeva di un esercito permanente sia pure a breve fenna - N.d.a.] possono dare armati per il tempo di guerra oltre il 15 per cento della popolazione. Date ai liberi cittadini d'Italia, strettamente uniti intorno al loro valoroso monarca, una organizzazione simile a quella della Svizzera e delJa Prussia, e voi sarete sicuri di sottrarre la corona e il popolo a qualunque illegittima influenza; ed allora sì che, forse senza versar sangue, e per la sola potenza morale di un re appoggiato a tutte le forze vive della Nazione, noi otterremo il compimento dei nostri caldi voti.

Sullo stesso argomento ritorna in un discorso in Sicilia del luglio 1862, all'inizio del tentativo di conquistare Roma, naufragato sull'Aspromonte: per finirla una volta per tutte ci vogliono armi e armati in numero sufficiente f... ]. La nazione può darne al di là del bisogno[ ...]. La Prussia in caso di guerra dà il 15 per cento della sua popolazione [... ]. L'Italia quand'anche non desse che il 10 per cento avremmo sempre più che due milioni di uomini armati [...] con questa forza, credete a me, si va a Roma e Venezia senza combattere...

Al tempo stesso, tiene a chiarire che questo non significa voler abolire o combattere l'esercito: pensate voi che se nel 1860 mi avessero seguìto 100 mila uomini [appunto: 100.000 uomini disposti a seguirlo non vi erano - N.d.a.] io mi sarei fermato al Volturno? No: io avrei marciato in avanti. Non interpretate male le mie parole [ ... ]. Con esse non intendo dire che avrei fatto la guerra all'armata italiana [... ]. NO, questo non sarà mai [ ...]. Non dobbiamo procedere e procederemo sempre d'accordo col Re Vittorio Emanuele e colla valorosa armata italiana. Dicendo che se 100 mila uomini mi avessero seguito non mi sarei fermato al Volturno, io intendo dire che questi 100 mila uniti all' armata italiana, avrebbero potuto arrivare a Roma e Venezia, senza che alcuno potesse dire: di qui non si passa! Persuadetevi, la forza del diritto sta nel diritto della forza. 91

Fino alla guerra del 1866, comunque, al di là di qualche sporadica dichiarazione G. in linea generale non mette in discussione il ruolo dell'e-

91

SD, II pp. 53, 67. 90 e 133-134.


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sercito regolare e permanente: gli preme più che altro l'unità e concordia di tutte le forze nazionali, e come si è visto le sue scritte prima della guerra prevedono sì una leva in massa, ma alle spalle dell'esercito regolare e dei volontari che avanzano verso Est. Lo scenario comincia a cambiare dopo il 1866 e dopo la guerra del 1870-1871. Nel novembre 1872 ritenendo indispensabili severe economie nel bilancio dello Stato a beneficio delle classi più povere, propone di incidere sulla costosa burocrazia, mentre "l'esercito nazionale, e non regio, potrebbe essere numericamente doppio e costare di meno". Ancor più esplicitamente nel febbraio 1873 si dichiara favorevole alla repubblica federale e aggiunge che "il giorno in cui non vi siano più eserciti permanenti, sarà inutile l'accentramento dei poteri costitutivi in un solo sito". L'abolizione degli eserciti permanenti e la loro sostituzione col popolo armato fa parte anche del programma, da lui dettato nel giugno 1873 per la "società democratica" di Amsterdam.98 Specie dal 1874 in poi la situazione economica e morale del Paese e l' assunzione del potere da parte del governo Depretis, che giudica più vicino del precedente alle sue idee, porta G. a radicalizzare le sue posizioni, accentuando la sua ostilità sempre più o meno latente alla formula dell'esercito permanente italiano, e sostenendo con maggior forza la necessità di sostituirlo con la nazione armata99 • Il tutto si accompagna a condanne della corruzione anche militare, a forti attacchi al clero e alla già accennata sfiducia nelle doti militari dei contadini, educati dallo stesso clero. In un messaggio al Parlamento del novembre 1876 denuncia le due "magagne" principali dell'Esercito: una è (come già si è accennato) lo scarso spirito militare e nazionale dei contadini, l'altra è il culto del principio dell'anzianità, in virtù del quale "un baule qualunque" solo per avere alcuni anni in più di servizio è posto a capo di un corpo d'esercito, mentre ufficiali di lui più capaci devono accontentarsi di comandi inferiori: tale vizio genera certamente l'insuccesso in operazioni vitali per l' onore e l'interesse nazionale [... ]. Che la scelta degli uomini che dovevano comandare i nostri eserciti e la nostra flotta non sia stata accurata, lo proverò con un esempio solo, non volendo palesare altri nomi. Nel 1866, mentre la nostra flotta combatteva a Lissa, il generale Bixio, che poteva essere il Nelson dell'Italia [cioè comandare la flotta con successo - N.d.a.] si trovava a Villafranca con una divisione a pied'arm, mordendosi le labbra per non poter egli stesso combattere gli Austriaci che schiacciavano il I corpo dell'esercito nostro. O

98·

""

SD, ID pp. 107, 111, 115. Sull'azione parlamentare di Garibaldi dopo il 1874 si veda soprattutto Garibaldi in Parlamento (Cit.), pp. 763-820 e l'opuscolo Garibaldi candidato elettorale (a cura di S. Furlani), Roma, Ed. Camera 1882.


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Tra i "rimedi eroici e di attuazione immediata" per sanare la situazione economica e militare che G. indica al nuovo Governo, è appunto la nazione armata, grazie alla quale "nel Ministero della guerra da un uomo coscienzioso si possono ottenere delle economie immense"; il tutto però senza toccare le Armi speciali (artiglieria, cavalleria e genio) e la Marina, "arma specialissima che l'Italia non può trascurare senza suicidarsi": le economie quindi si possono fare soprattutto per la fanteria, ad esempio riducendo a 25 uomini le compagnie, come è stato fatto in Francia. Ciò premesso, G. dimostrando eccessivo ottimismo, giustifica il nuovo ordinamento con la mutata _situazione internazionale e interna: se la Monarchia aveva bisogno di un esercito sterminato quando il Governo la screditava e la rendeva invisa alla nazione, oggi non è più il caso; e quando il capo della stessa ha manifestato piena fiducia nei vari rappresentanti dell'Italia, !:esercito permanente può essere menomato indefinitivamente,' e sostituito allo stesso l'esercito nazione, con due milioni e più di militi istruiti nel proprio Comune e produttivi; da rendere il paese non più tributario dello straniero, massime per i cereali []e ragioni della dipendenza dall'estero erano ben altre - N.d.a.]. Non v'è pericolo dunque di moti insurrezionali in Italia. Per ora non credo vi sia pericolo d'invasione essendo la Francia interessata ad esserci amica [ma anche dopo la caduta di Napoleone III, la Francia era tutt' altro che amica - N.d.a.], e l'Austria, ad onta di certe boriose provocazioni de' suoi gradassi, la credo doversi occupare piuttosto de' fatti suoi, che dei fatti altrui [ma "fatti suoi" erano le terre ancora irredente - N.d.a.]. La nazione armata, insomma, come la classica panacea di tutti i mali. I motivi delle economie di bilancio (peraltro non ben dimostrate) che consentirebbe la nazione armata, dei benefici sociali e per la coltivazione della terra ecc. che la sua adozione arrecherebbe si ripetono anche negli anni seguenti. Il 20 novembre 1877, ormai deluso dal governo, scrive che "la quistione importantissima in Italia è l'economica: e questa giammai potrà risolversi, se non si tocca ai 230 milioni del bilancio della guerra, per la metà almeno, sprecati nel lusso di un esercito permanente, che non solo rovina l'erario, ma influisce al deterioramento della razza, mantenendo la miglior gioventù nelle caserme, e privando i campi dei più robusti coltivatori ... ". Un messaggio analogo a quello di un secolo prima del Filangieri (Vol. I, cap. VI), ripetuto da G. anche negli anni seguenti. Nell'aprile 1879 parla di "armare la nazione per essere in grado di liberare le province irredente", cosa ben diversa dalla missione esclusivamente difensiva assegnata alla nazione armata nel novembre 1876. In una lettera agli elettori del maggio 1880, ai vantaggi della nazione armata aggiunge quello di dare all'esercito, per il giorno della battaglia decisiva, cinquantamila soldati scelti e destri al maneggio delle armi, quali sono i carabinieri reali, i doganieri, i questurini ecc., [che sarebbero] sostituiti [all'interno


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del Paese] dalle categorie dei vecchi e troppo giovani. La polizia e pubblica sicurezza [con questa sostituzione] sarebbero assai meglio eseguite, giacché verrebbero fatte dalla gente stessa del paese, pratica dei luoghi, dei dialetti e delle genti. Che volete faccia un Carabiniere siciliano io Piemonte od un bergamasco in Calabria? Egli nulla conosce, siti, favella, costumi; ed il suo servizio, per quanto intelligente sia, a nuJJa sarà giovevole.

Nonostante le lodi al volontarismo e la fiducia nel1o spontaneo concorso popolare nel 1878, ammette che la nazione armata deve essere basata su norme di arruolamento coercitivo e che il volontarismo va superato: "oggi occorre persuadere governo e nazione che mentre la Francia possiede 3 milioni e duecentomila uomini, l'Italia può averne almeno due milioni. Non più volontarii, ma deve servire casa propria chi vuole e chi non vuole. Se l'Austria fa marciare i nostri fratelli contro i bosniaci, che nulla ci devono, perché non faremo lo stesso contro coloro che non vogliono la patria onorata e libera?" E del programma del socialismo, dichiara infine di condividere due articoli "la cui attuazione è indispensabile per migliorare le condizioni materiali e morali dei popoli: la tassa unica e la nazione armata". 100 Da queste considerazioni si potrebbe dedurre che negli ultimi anni di vita G. ha ormai escluso la necessità che uno Stato possegga forze militari permanenti fin dal tempo di pace: ma una siffatta deduzione non sarebbe esatta. Il 3 aprile 1878 propone al nuovo Presidente del Consiglio Benedetto Cairoti di colonizzare l'Agro Romano con i denari che si sprecano nelle fortificazioni, e aggiunge: "dai 17 ai 50 anni ogni italiano sia milite. Beninteso ciò non implica lo scioglimento dell'esercito. Ma darebbe il tono alla nostra organizzazione militare" 101• E nelle considerazioni senza data riportate in fondo al Voi. Ili (1868-1882) degli Scritti e discorsi cosl parla dell'Esercito: "Ove l'Esercito formato dalla parte virile della Nazione ne sia il propugnacolo per la difesa dei propri diritti, la sua istituzione è s.anta. Esso è riunito e si compone [in guerra] d'ogni uomo capace di portar le armi, combatte e vince i nemici del paese, poscia ne resta sotto le armi, quella parte strettamente necessaria per la sicurezza dello Stato [nostra sottolineatura - N.d.a.] e il resto ritorna a casa a ripigliare le consuete occupazioni". Se, invece, l'esercito è al servizio solo del Capo dello Stato e non di tutto il popolo, esso diventa un'istituzione pericolosa per la libertà. Al momento, "chi rappresenta veramente la libertà in Europa sono in particolare la Svizzera e l'Inghilterra dove non esistono eserciti permanenti (sic) e quindi è la Nazione che comanda, corroborati quei due Stati liberi dal Belgio, dalla Svezia, forse da altri Stati, e massime poi dai liberali di tutti i Paesi ...". 100

SD, Il pp. 274-275.

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Memorie, p. 466.


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Che dire di queste posizioni, oscillanti anche negli ultimi anni, tra "esercito lancia e scudo", "nazione annata" o volontari? prima di tutto, queste posizioni sono veramente oscillanti? come risolvere la contraddizione fondamentale tra l'opzione per la formula della nazione armata - che come tale abbisogna di un vasto consenso popolare - e al tempo stesso la constatazione che i contadini (i quali al tempo ne sono inevitabilmente il nerbo) sono militarmente inaffidabili? Il volontarismo - cioè l'élite militare - è oppure no in contraddizione con i principi sui quali si regge la nazione armata? Interrogativi tanto più leciti, visto che della mancanza di spirito nazionale e di spirito di servizio G. non accusa solo i contadini. All'inizio del 1862, cioè nel primo anno completo di vita dell'Italia unita, scrive: le genti d'Italia non sono ancora un popolo che intende la propria missione. I troppi parlano degli avi per non avere a parlare dei nipoti; perché i fatti dei giovani contemporanei suonano ingiurie per essi. La vera e sentita religione della Patria la chiamano flagello i più tristi. Altri una generosa follia [ ... ]. I Ministri, e con essi il loro codazzo, fanno sforzi d'indulgenza verso i perversi che assassinarono l'Italia sui campi lombardi a capo delle torme austriache...

I casi sono due: o si taccia G. di superficialità, di "garibaldinismo" e di pura demagogia, oppure si attribuisce alle sue idee propugnate senza troppo occuparsi dei particolari, una funzione pratica precisa in quanto tali: funzione che può essere solo di educazione, di preparazione degli animi, di incitamento, perché proprio di questo c'è gran bisogno. È stato detto che la nazione armata presuppone un favorevole contesto politico e sociale e un saldo spirito nazionale, basata com'è sul consenso popolare: ebbel).e, per G. avviene esattamente il contrario. La propaganda per l'armamento del popolo e per la nazione armata hanno - al di là dei concreti risultati ottenibili - una funzione educativa e propedeutica. I continui incitamenti a esercitarsi con le armi, i numerosi tentativi di favorire la sollevazione armata del popolo o meglio ancora di assecondarla quando avviene, dimostrano che proprio perché manca agli italiani una radicata coscienza nazionale e l'abitudine alle armi, per G. bisogna fare di tutto per far loro prendere coscienza di sè stessi e convincerli che solo con le armi e a prezzo della vita un popolo può conquistare e difendere i propri diritti e la propria dignità. Dopo Mentana (1867) indica la necessità che tutti, capi famiglia, Municipi ecc. facciano ogni sforzo per educare la gioventù, addestrarla alle armi, rafforzarla moralmente e fisicamente, "correggendola di quei vizi di cui massime le popolazioni meridionali cadono facilmente e stimolandola energicamente ad ogni specie d'esercizio ginnastico idoneo a fare degl'individui svelti e vigorosi". Non esita a criticare fortemente la gioventù cittadina, dalla quale pur ha sempre tratto la massa dei suoi volontari: "essa è indebolita da vita effeminata e poco o niente esercitata ai virili esercizi,


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poco atta alle marce perché non vi si esercitò mai, e si sa quanto questo difetto sia nocivo nella guerra ove le marce celeri e lunghe danno sempre splendidi risultati. Essa è poco assuefatta alle privazioni e quindi in una mormorazione continua quando manca una deHe consuete razioni massime del pane, non sempre ottenibile lontano dai grandi centri" 102• Per il resto, ancora una volta si deve tener presente che, a maggior ragione se si tratta di reclutamento e ordinamento, nessuno meno di G. è schiavo di preconcetti politico-sociali o di principi teorici. Gli accenni - ripetuti anche negli ultimi anni - alla presenza e al ruolo di un esercito permanente dimostrano una cosa sola: che una volta stabilito il principio della nazione armata G. non è affatto contrario alla presenza in tempo di pace di un ridotto nucleo di forze permanenti, e che, anche in guerra, lascia la porta aperta a forze d'élite. Un possibilismo, insomma, che lungi dallo scandalizzare o dall'essere interpretato come contraddizione, deve solo far riflettere sul fatto che anche nel suo caso - come avviene per molti altri - il modello di nazione armata nell'applicazione concreta si avvicina assai a un modello di esercito lancia e scudo. Confermano questa interpretazione i suoi richiami alle soluzioni inglesi, meno contraddittori di quanto sembri perché ciò che per lui veramente importa, è la causa che serve l'esercito e l'affidabilità del sistema politico che lo impiega. In questo senso, se la nazione armata è la forma ideale, i volontari rappresentano il possibile, rappresentano quello che al momento è concretamente ottenibile sulla strada della nazione armata, sono l'avanguardia di un grosso che ci dovrebbe essere ma che ancora al momento non c'è. Pur essendo - come egli stesso sottolinea103 - un'élite proveniente in gran parte della buona borghesia, queste formazioni improvvisate e poco addestrate nel tiro (che dunque anche in questo si differenziano dal modello svizzero o inglese dei rijle volunteers) nella realtà italiana del momento incarnano proprio il moderno principio, introdotto con la rivoluzione francese, della responsabilità della difesa della causa nazionale estesa ai cittadini, quindi viste come garanzia di libertà e dei diritti di ciascuno. In questo senso - e solo in questo senso - non c'è contraddizione alcuna tra la sua insistenza sui principi della nazione armata, e il ricorso effettivo dal 1849 al 1871 a uomini e reparti, che con la nazione armata hanno ben poco a che vedere e per di più rappresentano ciò che i veri teorici della nazione armata - e non solo Pisacane - hanno sempre aborrito: un corpo speciale con disciplina e ordinamento speciale rispetto all"'altro esercito", e inoltre un corpo che basa la sua attività, anzi la sua mentalità su quel culto della personalità e quello spirito offensivo, che i reparti di massa della nazione armata non possono avere. Sul piano strettamente teorico, comunque, è indubbio che espressioni

102 • 103

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SD, Ul P- 585. p. 216.

Memorie,


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come "nazione armata di volontari" non hanno alcun senso: anche se richiede un vasto consenso popolare e un diffuso spirito nazionale e militare, la vera nazione armata sul modello svizzero non può essere che basata sulla chiamata alle armi generalizzata - quindi coercitiva - e dcri cittadini all'atto dell'emergenza. Quando questa non è possibile, l'alternativa è l'esercito permanente eventualmente integrato da formazioni volontarie. Quest'ultime più che un surrogato sono l'antitesi teorica della vera nazione armata; dimostrano l'impossibilità di tradurla in atto, anche per carente spirito militare e nazionale delle popolazioni e non solamente - come par di capire da molte analisi contemporanee - per deliberata volontà dei ceti dirigenti di escludere il popolo da un dovere e un carico, che se da una parte ne comportano l'armamento e quindi ne aumentano pericolosamente il peso politico, dall'altra richiedono il pagamento di un prezzo poco gradito dalla massa dei cittadini. I progetti ordinativi di G. e la loro realizzazione con il fenomeno del volontarismo rappresentano, dunque, la stessa cosa: un tentativo di rimediare a ciò che non esiste ( o esiste in misura non sufficiente e tale da favorire - di fatto - la fonimla dell'esercito dinastico a lunga ferma). Per ultimo, occorre chiedersi: fino a che punto i volontari e le loro imprese sono legati alla figura, all'ascendente inarrivabile di G.? potevano esistere dei volontari senza di lui? Le soluzioni da lui indicate sono imperfette e poco approfondite: tuttavia vanno viste come un tentativo di risolvere un difficile problema che al tempo è prioritario, che non è stato risolto in modo soddisfacente neppure dai suoi avversari e che, in tutti i casi, comporta Ja diffusione dello spirito unitario e militare trn tutti i ceti e in tutte le regioni, coerentemente sostenuta per tutta la vita da questo grande italiano, prima ancor che grande generale. I suoi reali e costanti orientamenti in canipo organico sono riassunti nel "Messaggio alla Gioventù Italiana" (n. 1378) che si trova al termine del Vo1. III degli Scritti e Discorsi politici e militari: "un fatto incontestabile è però questo! Che noi abbiamo un Esercito troppo forte per le nostre finanze e troppo debole per difenderci dai prepotenti nostri vicini. Comunque sia e comunque vadano le cose, noi tutti senza eccezione dovessimo pensare ad una difesa nazionale. La parte principale di tale difesa appartiene certamente all'Esercito ed io non dubito che esso faccia il suo dovere quando ben comandato. E così la nostra Marina. Ciononostante io sono d'opinione diversa da coloro che stabiliranno per sistema: di lasciar fare a chi tocca".

La Marina : politica delle grandi navi; Lissa e la tattica navale Oltre che comandante di forze anfibie in Sud America. G . è stato capitano di lungo corso della Marina mercantile e ottimo marinaio. Si .è già visto che rievoca il modello inglese (che è anche del Filangieri - Cfr. Vol. I, cap. VI) di una difesa del territorio nazionale affidata a milizie cittadine e a una forte Marina; e anche quando - negli ultimi anni di vita - invoca forti


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economie per l'Esercito, si preoccupa di precisare che queste economie non devono interessare anche la Marina. A parte questi fugaci accenni, nei suoi scritti ha espresso con sufficiente chiarezza le sue idee non solo in materia di politica navale e relative costruzioni, ma anche in materia di tattica navale' 04 • Il tutto - com'è suo costume - riferito alla grande tematica della guerra e della pace. Nel Memorandum alle potenze europee perché si uniscano in Confederazione e mettano fine alle guerre, scrive, dimostrandosi cattivo profeta, che "al pensiero dell'atroce distruzione, che un solo combattimento tra le grandi flotte delle potenze occidentali porterebbe seco, colui che si avvisasse di darne l'ordine, dovrebbe rabbrividire di terrore, e probabilmente non vi sarà mai uomo così vilmente ardito per assumerne la spaventevole responsabilità". A G., che pure si è conquistata la sua fama di combattente per l'unità italiana in campo terrestre, non sfugge certo il fatto geo-politico fondamentale che l'Italia è immersa nel Mediterraneo, quindi ha interessi marittimi e deve avere una buona Marina da guerra. Nell'agosto 1861 accetta il titolo di membro onorario del comitato promotore della Società Italo-Orientale, avente lo scopo di promuovere i commerci marittimi con l'Oriente. E raccomanda che i piroscafi (cioè le navi a vapore) siano costruiti "di legname solido, di gran portata, con macchine proporzionate ad elica, acciò all'occorrenza possano essere armate in fregata da guerra. Verun lusso superfluo e dispendioso in ornamenti". E nel marzo 1880 ribadisce che "il nostro Governo può e deve fare delle importanti economie in tutti i rami dell'amministrazioni, meno che nella Marina. Questa io considero siccome base principale della nostra esistenza presente e futura, per cui si deve ad essa la maggior energia e i maggiori sacrifici". Ne deriva il suo incondizionato appoggio a11a politica di costruzione di nuove, grandi corazzate del Saint Bon e del Brin, nonostante le ingenti spese - rivelatesi poi insostenibili per il bilancio dello Stato - che l'integrale attuazione del loro programma avrebbe comportato. ln particolare lamenta le opposizioni a loro fatte "o per imperizia o per un mal fondato sistema di economia", e nella seduta della Camera del 27 febbraio 1875 rompe un silenzio che durava fin dal 1861 (e quindi dalla polemica sullo scioglimento dell'esercito meridionale) per appoggiare il progetto di legge presentato il 28 novembre 1874 dall'ammiraglio Saint Bon, riguardante l'alienazione di 33 navi da guerra, onde creare le disponibilità finanziarie per la costruzione di nuove e più potenti corazzate. In questa occasione, G. "benché vecchio marinaio" dichiara la propria incompetenza, non conoscendo bene la situazione del naviglio da guerra: ritiene comunque che si debba prestar fede a quanto dìchiara il Ministro a proposito del naviglio da alienare, concordando con il suo progetto di

104 ·

Cfr. SD, I, pp. 340-341 e 405; SD, m pp. 295-296, 362-363, 454-468, 556; Garibaldi in Parlamento (Cit.), pp. 603-605; Memorie, p. 461.


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costruire in sua sostituzione "delle corazzate forti, le più forti che si possono trovare oggi nella marina inglese, russa, germanica, americana; insomma in tutte le marine delle grandi nazioni del mondo" [veramente, il Saint Bon intendeva costruire navi in grado non di uguagliare, ma di superare le più potenti unità delle grandi Marine - N.d.a.]. E giudica indispensabile potenziare la Marina, "perché noi, quasi isolani, dobbiamo certamente, con un litorale immenso quale è quello dell'Italia, sia per la protezione delle nostre strade ferrate, che sono la maggior parte lungo il litorale, sia per la protezione del nostro commercio e delle nostre coste, noi dobbiamo avere una Marina competente". Si tratta di motivi che ricorrono nel dibattito tra le due· Forze Armate fino al 1914, e nelle tesi dei "navalisti". Il suo interesse per le costruzioni navali, comunque, non si limita alle corazzate: nel giugno 1872 scrive all'industriale Luigi Orlando per esporgli il progetto di un nuovo tipo di nave porta-torpedini, una delle prime del genere. Interessanti le sue considerazioni sulla battaglia di Lissa nel 1866, il cui cattivo esito a suo giudizio dipende principalmente da un cronico difetto di leadership sia politica che militare, continuato anche dopo. Dopo il 1876 attacca duramente il Presidente del Consiglio Depretis, già Ministro della Marina nel 1866: il famoso Ministro della Marina di Lissa, che rovinò la nostra marina mercantile colla [tassa di] ricchezza mobile, ha trovato un avvocato per il più importante di tutti i Ministeri italiani [cioè il Ministero della Marina N.d.a.]. E vorrei domandare ad ambedue: perché si lascia una fregata di primo ordine, come il Vittorio Emanuele, onneggiata sopra una boa in questi mesi coi venti regnanti da libeccio - traversia di Napoli? E qui devo ricordare il colpevolissimo ~istema di cercare i Ministri di Marina tra gli avvocati, i generali di cavalleria etc. e non tra gli uomini di mare. Di qui l'amministrazione di tale importantissimo ramo fatta un bordello, la nostra flotta ludibrio dell'Austria.

I marinai italiani, se opporlunamente addestrati, non sono secondi a nessuno: ma, come avviene anche nella Marina francese, gli ufficiali della Marina italiana non valgono i marinai. Ciò avviene perché la loro formazione e selezione non tiene conto del fatto che "la specialissima delle Armi è la Marina. Ove di più dell'intelligenza e scienza necessarie a tutte le armi speciali, vi vuole lo stomaco fatto al mare". Invece gli Ufficiali di Marina italiana fanno i loro studi in collegio, vanno a bordo troppo vecchi e sono generalmente scelti nella classe del privilegio per nepotismo o a forza di raccomandazioni. Sistema erroneo che porta generalmente al comando della robusta e svelta marineria italiana giovinetti gracili collo stomaco non fatto al mare e quindi poco atti a far buona figura nelle ardue faccende della Marina e nei terribili combattimenti navali odierni ove vi vogliono tempre d ' acc1a10.


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Gli ufficiali inglesi - prosegue G. - sono superiori agli ufficiali francesi e ai nostri, proprio perché navigano fin dalla più tenera età. E qui azzarda un paragone tra la Marina e la cavalleria: ''un giovane che monta a cavallo per la prima volta a vent'anni non sarà mai un buon cavaliere, "ed un altro che vada a bordo d'un bastimento per la prima volta a 15 anni sarà sempre un povero Marino". Sia a Lissa che a Custoza nel 1866, emerge appunto la stessa carenza di leadership, cioè "la mancanza di quella ferrea volontà d'un capo, che prima d'abbandonare la vittoria al nemico tenta ogni mezzo possibile per afferrarla". In ambedue i casi siamo rimasti padroni del campo di battaglia, eppure lo abbiamo abbandonato come se si trattasse di una ritirata, quasi di una fuga; "qui apparisce chiaramente gran difetto di genio militare". ll principale errore di Persano è stato di non aver inseguito la flotta nemica che si ritirava, pur disponendo ancora - nonostante le perdite - di forze superiori: "se si mancava di carbone o di munizioni si poteva mandare in Ancona, e supplirsi frattanto reciprocamente i mancanti da quei bastimenti che non avevano combattuto l---1- Inseguendo il nemico comunque fosse si costituiva la vittoria. O il nemico combatteva e v'era probabilità di vincere, o fuggiva [e allora] essendo le nostre navi superiori in velocità qualche nemico doveva rimanerci. Prendendo spunto dalla battaglia di Lissa, G. fa una lunga serie di considerazioni sulla tattica navale e sulle formazioni più idonee, richiamando l'esempio di Nelson e della sua tattica a Trafalgar e Aboukir. In questo senso, "Tegetoff pare aver seguito l'esempio di Nelson ed attaccò nel centro la malformata linea italiana. Oggi colle corazzate a sperone questo modo d'attacco è infallibile se il nemico ha la imbecillità di aspettarvi in linea di battaglia e fermo". Le sue critiche sono fondate e ben meditate, a cominciare dal fatto che "la campagna marittima del 1866 peccò per il concetto operativo, cioè di attaccare Lissa invece di distruggere la flotta austriaca". A suo giudizio, dei tre Capi della flotta italiana (l'ammiraglio Persano comandante e i suoi sottoposti ammiragli Albini e Vacca) il meno colpevole è Persano, perché Albini è rimasto spettatore da lontano con le sue otto fregate con 400 cannoni di grosso calibro, mentre Vacca a un certo punto si è sottratto al combattimento e ha lasciato il Re d'Italia a combattere da solo contro un gruppo di corazzate nemiche. Anche l'ammiraglio Persano, comunque, ha commesso molti errori, ha iniziato il combattimento in Hnea sottile di fila anziché attaccare il nemico di fronte; è passato sull 'Affondatore combattimento durante e non il giorno prima, creando equivoci e fornendo pretesti "a coloro che trovavansi già poco disposti a combattere il giorno 20"; ha dato alla 2• squadra delle navi in legno (Albini) l'ordine di tagliare la ritirata al nemico, non eseguibile perché una ~quadra che non aveva voluto impegnare battaglia, tanto meno era in grado di impedire la ritirata al nemico; è stato dominato dal timore infondato, che il nemico gli tagli la ritirata verso Ancona.


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Riguardo alla tattica navale in genere, G. ritiene che sia vantaggioso assumere l'iniziativa e attaccare la squadra nemica con la formazione in colonna per divisioni; il vantaggio di questa formazione consiste nel fatto che "mentre la testa di colonna assale il centro nemico, le divisioni seguenti obliquando a destra e a sinistra potranno con forza superiore schiacciare un'ala". La forza principale delle corazzate è nello sperone, perché "la questione d'impenetrabilità delle corazze non essendo risoluta, l'efficacia dei cannoni resta anch'essa dubbiosa". Quindi si deve ricercare l'urto a cuneo e in massa, cioè "a misura che si avvicina la linea nemica serrarsi sulla · corazzata del centro ed al momento dell'urto aver formato un cuneo tronco colla metà almeno delle corazzate alla minor distanza possibile l'una dal1' altra". Dopo l'urto la mischia deve essere continuata a cannonate e fucilate; "molto conto deve farsi sull'arrembaggio, e quindi [occorre] aver degli uomini idonei e delle armi per fare buona figura; a tal fine ogni corazzata dovrebbe imbarcare due compagnie di fanteria di Marina". Infine il favore del vento non è così importante come una volta, ciononostante "sembrami non da disprezzare mac;sime se il vento ed il mare sieno forti".

Morale, logistica, disciplina e addestramento G. ha curato poco la disciplina delle sue schiere improvvisate? si è occupato poco dei rifornimenti? pur essendo "padre de' suoi soldati", ha fatto "abuso eccessivo del valore e dell'intelligenza quando li trova intorno a sè", come scrive il Guttièrez? 105 Sono più o meno le stesse accuse rivolte a Napoleone, idolatrato dai soldati, che li ha lasciati senza troppo dolersi saccheggiare i paesi invasi, portandoli però al fuoco senza curarsi delle perdite. Per verificare la fondatezza degli addebiti a G., occorre anzitutto ricorrere a quanto scrive, per poi esaminare la coerenza delle sue azioni rispetto alle idee, al pensiero 106• Sollo questo profilo si deve constatare che l'azione di comando di G. - non può essere altrimenti - è basata sull'esempio e sul consenso dei sottoposti, il cui morale gli sta a cuore più di ogni altra cosa; al tempo stesso non può permettersi di trascurare né la logistica, né la disciplina. Due branche strettamente connesse: sia perché la sua tattica non può riuscire senza una disciplina almeno sostanziale dei Quadri inferiori e della truppa, sia perché l'estrema mobilità che richiede ai suoi reparti e la loro carente organizzazione logistica lo obbliga a vivere sul Paese, quindi ha bisogno estremo del consenso, dell' appoggio delle popolazioni, che atti d'indisciplina, prepotenze, abusi e richieste eccessive possono compromettere. rns. 106-

G. Guttièrez, Op. cit. p. 245. Cfr., in merito, S. Furlani, / consigli tattici ... (Cit.), e inoltre: SD, I pp. 121-122; SD Il, pp. 279 282, 290, 296, 31 3, 3 17-321, 332-333, 342-345, 350-353, 356; SD ill, p. 59.


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Conciliare consenso e disciplina non è facile, e i suoi scritti lo dimostrano: essi comunque smentiscono chi lo accusa di avere chiuso un occhio - o tutti e due - di fronte a certe mancanze dei suoi sottoposti. Gli sta anzitutto a cuore l'esempio del Capo; il suo è fuori discussione, quindi si rivolge così ai suoi Quadri: "un ufficiale dev'essere il padre de' soldati che comanda e dev' esser prode - Egli s'accorgerà della verità di quest'assioma - in tutte le circostanze - ma massime nell'ora del pericolo ove il milite che ha fiducia nella bravura del Capo che ama, farà miracoli per contentarlo ed averne una lode [... ]. In una massa anche informe ove il miUte vede i suoi ufficiali, i suoi Capi pagare di presenza - egli è fidente, li circonda - fa baluardo a loro del suo corpo - diventa la pugna una gara di generosità reciproca - davanti alla quale sparisce il pericolo". Gli ufficiali, però, non devono "pagare di presenza" solo in combattimento: in aderenza al principio fondamentale - da lui sempre ribadito - del1'esempio, si indigna una volta che trova gli ufficiali a mangiare in un' osteria mentre i loro uomini sostano allo scoperto, a digiuno e sotto la pioggia; e nella guerra del 1866 prescrive che "tutti gli ufficiali i quali hanno le truppe accampate non dovranno tenere alloggi nei paesi presso cui sono stabiliti i campi, ma devono stare in mezzo ai volontari da essi comandati, sia per dovere di servizio sia per dividere seco loro le fatiche del campo". La ricerca de] consenso, ]'esempio non bastano: occorre mantenere la disciplina, anche per combattere gli abusi e le vessazioni nei riguardi della popolazione civile, la cui collaborazione - sia ai fini logistici che informativi - è preziosa. Nei suoi scritti ricorrono frequenti le raccomandazioni sull'importanza della disciplina: "si ricordino bene i militi che non può esservi esercito senza disciplina - e che la disciplina dei corpi composti di patrioti deve essere più scrupolosa di quella dei corpi del dispotismo". La cura anche logistica de] personale deve essere sempre in prima linea: durante le operazioni nell' Italia Centrale nell'aprile 1849 raccomanda ai comandanti di compagnia di mettersi d'accordo coi fornitori per avere il pane del giorno dopo, di curare che ogni milite abbia nel sacco i viveri per un giorno, e poiché si tratta di far compiere le prime marce a uomini inesperti e poco disciplinati, "è mestieri che gli ufficiali tutti non perdano un momento di pazienza e si rendano generosi d'ogni sforzo per la buona riuscita in tutto: assistere per esempio le distribuzioni del pane e del vino e fare tante altre minute cure che non giova ricordare all'intelligenza e al cuore di essi". Grande cura, specie nelle soste, deve essere dedicata dagli ufficiali al morale dei propri uomini. Nella guerra del 1866 raccomanda, durante una tregua: "scartare gli elementi nocivi che possono essersi introdotti nei Corpi. Gli ufficiali devono considerare i loro militi come propria famiglia. Quindi all'obbligo di averne molta cura essi aggiunger devono quello di istruirli moralmente. Capitanare i crocchi nei bivacchi e far capire i motivi delle vittorie e delle sconfitte".


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Oltre che curare in tutto e per tutto i propri uomini e vivere in mezzo a loro, gli ufficiali devono mantenere in tutti i modi rapporti corretti e cordiali con le popolazioni, impedendo qualsiasi sopruso o arbitraria requisizione: le raccomandazioni in proposito non si contano, e anche i rimbrotti non mancano. Nel proclama del gennaio 1871 all'armata dei Vosgi - uno dei suoi ultimi documenti operativi - accanto alle lodi, non manca di rilevare che "la condotta degli ufficiali nei riguardi dei soldati lascia molto a desiderare: tranne qualche eccezione, essi non si occupano a sufficienza dei loro uomini, e infine di mantenere buoni rapporti con gli abitanti del Paese, che sono buoni con noi e che dobbiamo considerare come fratelli ...". Raccomandazioni che trascendono gli aspetti puramente morali, perché dietro di esse vi sono due ben precise e ·concrete necessità: la prima è che l'unica leva di comando valida e sicura con truppe volontarie è riposta nel consenso, nel prestigio personale del coma11dante, non nella costrizione; la seconda è che, dato l'eterno, cattivo funzionamento dei rifornimenti, solo con la collaborazione della popolazione civile i volontari possono ugualmente vivere e combattere. Riguardo alla disciplina, checché .se ne dica G. ha idee ben precise e assai moderne, da lui riassunte in queste poche parole indirizzate ai Mille in Sicilia nel 1860: tra le qualità che devono primeggiare negli ufficiali dell'Esercito Italiano, oltre il valore, deve contarsi l'amabilità, che attrae e vincola l'affetto del soldato. È difficile che un ufficiale valoroso, ed amato dai suoi subalterni, non ottenga da loro quella disciplina, subordinazione, e slancio necessarii nelJ'ardue circostanze e soprattutto quella costanza per sopportare i disagi delle lunghe campagne e quella pertinacia, che nelle pagine decide quasi sempre della vittoria. Col rigore si può ottenere una severa disciplina: ma è preferibile ottenerla coli' affetto e l'ascendente t... ]. Uno sforzo di più per decidere della vittoria: ma il soldato è sfinito!, si risponde. La voce, allora, d'un ufficiale di prestigio e amato, basta per spingere nuovamente alla pugna i più avviliti.

G. più di tutti sa che essere un buon ufficiale in guerra è sempre e in ogni caso difficile, ma ancor più difficile è essere ufficiale volontario. Scriveva nel 1868 il Guerzoni, uno che se n'intendeva perché patriota e ufficiale garibaldino con all'attivo parecchie campagne: se due parole forestiere bastassero a spiegarci, diremmo senz'altro che un ufficiale de' volontari dev'essere soprattutto un gentleman e mai un troupier. Ma se questa definizione non definisce abbastanza, soggiungeremo: un ufficiale deve aver fama di valore, di onestà e di patriottismo, tre qualità che il volontario più del regolare è capace di apprezzare, e preferisce a tutta la dottrina di Montecuccoli e Jomini; poi sia in grado superlativo cortese e decoroso [ ... ]. E dovrebbe, s'intende, esser colto nelle cose militari, ma quanto basta: capace di distinguere le teorie che si possono applicare ai volontari da quelle che non si possono [... ]. Ma quel che più importa deve impersonare l'esempio del disinteresse, del sacrificio e del dovere.


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In lui si deve sentire sempre il volontario e mai il mestierante. Gli ufficiali che hanno sempre sulJa bocca la promozione o i sei mesi di paga; gli ufficiali che arrivano alla tappa e piantano i soldati alla porta del quartiere od ai fasci d'armi dell'accampamento e non si fanno più vedere; che sono già colle gambe sotto la tavola quando il soldato non ha ancora avuto la razione [ ... ). Gli ufficiali, in una parola, di mestiere, di carriera o di ventura, gli eroi di parata e i pedanti non sono ufficiali di nessun esercito certamente; molto meno de' volontari nei quali i difetti delle persone e le macchie de' caratteri non possono essere corretti o nascosti dalla legge della disciplina e dagli ordini de' cattivi [...]. Né bisogna credere, come vorrebbero coloro che non ci sono mai vissuti in mezzo, che i volontari non curino e non ascoltino i loro ufficiali. Il volontario arriva al campo o al deposito assetato di trovare un'organizzazione confacente alla sua indole, e quindi di sapere subito chi lo istruisce e gli comanda. li disordine, la confusione lo urtano e lo sconfortano; e il primo lamento che s'ode alla bocca del volontario è questo: "tutti comandano". '0' Le insistenze di G. sull'impegno da parte dei Quadri, quindi, sono ben giustificate; lo si è accusato di aver scelto male gli ufficiali suoi diretti collaboratori, ma a parte il fatto che ciò non è sempre vero (molti protagonisti della campagna del 1860 sono poi diventati apprezzati generali dell'esercito regolare), qual'era la materia prima di cui disponeva, e quanto era il tempo a sua disposizione per formare dei comandanti? i suoi ripetuti successi sono la migliore risposta: ha scelto come e quando ba potuto, rendendosi ben conto delle doti non comuni che deve possedere un ufficiale: "o voi! Che non sentite nell'anima vostra i sentimenti dell'onore, dell'abnegazione, del1' eroismo - non vi gettate nella carriera delle armi per comandare ad uomini - se di una scintilla generosa è capace il vostro cuore da coniglio, accingetevi negli opifici di guerra e negli spedali - anche ll potrete servire il vostro Paese". Nella scelta degli ufficiali non guarda alla dottrina, ma all'esperienza e alle prove date di saper comandare come egli vuole, di fronte al nemico. I suoi successi presuppongono, oltre tutto, che intorno a chi ha comandato vi sia stato anche chi ba ubbidito, chi ha eseguito. E come può un Capo militare, siano Je sue forze volontarie, regolari o irregolari, ignorare il valore della disciplina? Non lo ignora certo G .. Nè si può dire che trascuri l'addestramento o che non si preoccupi delle perdite; piuttosto la. necessità di agire rapidamente non gli ha mai consentito di addestrare, preparare e equipaggiare come si deve i suoi uomini. È perciò costretto a fare il possibile per eliminare questi inconvenienti: di qui l'insistenza per gli attacchi alla baionetta. Ma a Calatafi.mi, a Milazzo, sul Volturno, oppure di fronte agli austriaci nel 1859 e 1866, quale sarebbe stata

im.

G. Guerzoni, Studi militari sull'ultima campagna insurrezionale per Roma, "Nuova Antologia" Voi. VII - 1° aprile 1868, pp. 551-553.


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l'alternativa, di fronte a un nemico sempre molto superiore in fatto di fuoco? Rimaneva solo il rapido movimento in avanti per "aggrapparsi" al nemico, impedendogli così di usare bene le sue armi. Le considerazioni sulle formazioni di combattimento alle quali si è fatto cenno già dimostrano la sua preoccupazione per le perdite; quest'ultime sono comunque conseguenza inevitabile dello scarso addestramento. Durante la campagna del 1859, ad esempio, così rimprovera i suoi volontari per gli errori commessi: il primo è quello di ritirarsi ammonticchiati, e non in catena, con molto meno probabilità di essere feriti. Il secondo, che i più lontani dal combattimento devono con la loro buona contenenza sostenere i più impegnati nella loro ritirata. 11 terzo sta negli immensi tiri sprecati, non solo troppo lontani, ma anche senza vedere il nemico, e spesso contro i compagni stessi più avanzati, perché si rimane subito senza cartucce, ciò che serve di pretesto ai codardi per ritirarsi. Il quarto si è nel gran numero di militi che vanno via col pretesto di accompagnare i feriti ... 108

Ancora una volta - né può essere altrimenti - in ciò che scrive G. addestramento, disciplina e logistica camminano insieme. E sempre riguardo ali' addestramento, quando - come avviene in particolar modo nella campagna del 1866 - può contare su qualche giorno di sosta nelle operazioni, tiene ben presente la vecchia e saggia norma degli eserciti regolari di approfittarne per l'azione morale e l' addestramento,U)IJ con particolare riguardo a quell'impiego dell'arma individuale da lui sempre ritenuto prioritario, come dimostra la sua incessante attività per promuovere il tiro a segno tra i cittadini; frutto forse dell'amara constatazione, che i suoi volontari non sapevano sparare, nè mantenere la disciplina del fuoco ... il suo pensiero sul1' addestramento è perciò ben riassunto da queste poche righe dedicate nelle Memorie ai volontari del 1866: "Guerra! combattere! chiedevano tutti. E se avessimo avuto almeno un mese d'organizzazione, di scuola di campo, ed armati dovutamente essi avrebbero operato miracoli" 110 • È vero che, in un discorso del 1860 prima citato, aveva affermato che per fare un soldato bastano 15 giorni: ma si trattava, allora, di infiammare gli animi.

Conclusione · Garibaldi e Mazzi,ni: due nemici, perché? Delle azioni, del ruolo di G. e Mazzini si è finora parlato molto: troppo poco, invece, dei loro scritti militari, anche se il Furlani, il Del Negro e pochi altri in tempi recenti hanno dato un valido contributo per inquadrare meglio anche sotto questo aspetto la figura dell'eroe nazionale nizzardo. ""' SD, I p. 82 e IIl pp. 581-582. SD, II pp. 289-290; 313-314, 329-330, 337, 340-341. 110 Memo rie~ p. 391. 109 ·


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Per tracciare in tutte le sue espressioni una figura storica occorre evidentemente prenderne in esame - oltre che le azioni - gli scritti, i progetti, gli orientamenti: perché ciò nel caso due protagonisti della storia nazionale come Mazzini e G. almeno per la parte militare ciò non è stato fatto, o è stato fatto in modo episodico e frammentario? Probabilmente fino al 1940 hanno pesato ragioni di opportunità, visto che si trattava di due forti avversari de11a monarchia, di due oppositori della formula politico-militare per così dire tradizionale da essa rappresentata anche nel secolo XX. Dopo il 1945, il limitato interesse generale per la problematica militare e per il Risorgimento hanno contribuito a lasciare ancora nell'ombra questi importanti tratti della personalità dei due uomini, ignorati o quasi dai biografi più recenti. L'analisi condotta ha avuto quindi lo scopo di consentire sia una loro conoscenza più completa, sia un bilancio dei loro reali orientamenti in campo militare. Non si tratta certo di due irriducibili nemici degli eserciti regolari, né della guerra napoleonica e classica tra eserciti: al contrario nessuno come loro è stato vicino alle grandi linee, ai contenuti spirituali del modello di guerra totale, rapida, e decisiva, mirante a toccare i punti deboli del nemico, introdotto da Napoleone. Ambedue hanno fondamentalmente rimproverato alle forze regolari piemontesi e italiane non di essere tali, ma di non riuscire ad aver ragione rapidamente - cioè alla maniera napoleonica - dei forti nemici dell' unità nazionale. Ambedue hanno di conseguenza ritenuto necessario il coinvolgimento di tutte le energie popolari, lamentando l'insufficienza prima di tutto numerica dell'esercito tradizionale, che ha costretto l'Italia - dal 1855 al 1870 - a subire la pesante e interessata tutela e ingerenza della Francia di Napoleone m. Ambedue - e questo è i1 ]oro più serio limite - non hanno mai ritenuto necessario approfondire - o far approfondire - i riflessi di politica internazionale, economici o tecnico-militari, d'inquadramento, logistici, funzionali in genere, delle pur ardite ed interessanti soluzioni da loro suggerite. Tali soluzioni rimangono così un po' sospese nel vuoto; in ogni caso, se non sono tali da essere affrettatamente liquidate come irrealizzabili, non consentono nemmeno entusiastici quanto superficiali apprezzamenti. Visto che parecchio i due uomini hanno - al di là delle apparenze - in comune, quali sono dunque le ragioni vere del loro notorio dissidio? Tali ragioni sono di fondamentale importanza, perché consentono di meglio individuare le peculiarità politiche e militari della loro figura; esse vanno fondamentalmente ricercate nei loro scritti. A tal proposito G. - a parte i non rari accenni polemici a Mazzini e ai mazziniani nelle Memorie - dedica parecchie pagine ad aspri attacchi a Mazzini 111, che cominciano dall'ironico spregio per i suoi copiosi scritti: "Mazzini il grande filosofo, i1 grande

11

'-

SD, IIl pp. 481-504 e 580.


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maestro, che il libero pensatore Luigi Stefanoni chiamò 'riputazione usurpata' e di cui il capitano Graffìgna a Lima mi chiedeva 'Generale, ma è possibile di fare un libro con tutto ciò che ha fatto Mazzini?'. Eppure gli adoratori dei suoi scritti hanno fatto una biblioteca". Sarebbe piuttosto banale attribuire le incomprensioni reciproche alla differenza, che pure esiste, tra l'uomo di pensiero e l'illetterato uomo d' azione, tra il comandante sul campo e il politico, tra il teorico e il troupier, tra il cospiratore e tessitore di trame sottili e il guerriero per istinto, che affronta il nemico a viso aperto [... j. G., che si autodefinisce "repubblicano di fatto" mentre Mazzini lo sarebbe solo "di ciarle", gli riconosce "il merito d'un arduo e coraggioso apostolato repubblicano di tutta la vita" e di essere stato inarrivabile in fatto di apostolato morale. Se si fosse limitato a questo "ed avesse lasciato da parte la sua sfrenata pretensione di voler farla da generale in capo dirigendo le cose di guerra, in cui non seppe correggersi nemmeno colle ripetute e perenni lezioni di fortuna contraria, egli certo avrebbe conservato un merito reale". La sua maggiore grandezza, perciò, "consiste nell'enonnità delle colpe monarchiche" . Una chiara incompetenza operativa e militare insomma, p~ggiorata dalla costante tendenza a fare a ogni costo "il generale in capo", pur non sapendo scegliersi i collaboratori dai quali fu sempre tradito. Questo grave difetto secondo G. deriva al Mazzini dall'essere il più eminente rappresentante "dell'immensa turba dei dottori politici [cioè degli intellettuali che vogliono occuparsi di cose politiche e militari - N.d.a.] che traviano le genti e che servono anche senza volerlo, di cariatide al dispotismo". La chiave è proprio qui: nell'autentico odio di G. per questa categoria tanto potente quanto nociva, perché anziché prendere atto della realtà pretende di addomesticarla con le sue teorie, e perché anziché fare e decidere, annega i problemi in un mare di chiacchiere. Nascono da questo giudizio la predilezione mai smentita di G. per la dittatura in momenti difficili, così come il suo amore per l'azione militare a utonoma, senza tutori o direttori politici. I tentativi insurrezionali di Mazzini, a cominciare da quello del 1834 al quale G. ha preso parte constatandone le ragioni del fallimento, sono lui causticamente liquidati con queste poche parole: "in un giornale francese La Gironde, che ho letto oggi, in un articolo infame contro di noi, ci si accusa dei miserabili nostri tentativi di insurrezione. Chi scrisse tale articolo è un vigliacco o un prete. Ma sia detto tra noi: dobbiamo confessare essere stati poco onorevoli i moti rivoluzionari di Mazzini ' con un soldato morto, un caporale ferito e un altro fucilato' ". Ma ciò che G. non può in nessun modo perdonare a Mazzini (che ironicamente chiama spesso "generale in capo") è il costante sabotaggio alla preparazione e condotta di tutte le sue imprese, dalla guerra del 1848 a quella del 1870-1871 in Francia. Sabotaggio o non collaborazione la cui origine è - in linea generale - la condanna del "collaborazionismo" di G., che essendo secondo Mazzini "uomo senza principi", accetta di collaborare con la monarchia piemontese e il suo Esercito, dimenticando l'obiettivo politico


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prioritario, dell'instaurazione della Repubblica. Tale ostilità si è manifestata, secondo G., in due modi: o impedendogli di raccogliere fondi e aderenti per le sue imprese, o provocando azioni diversive, divisioni e diserzioni tra i suoi volontari. G. tiene a precisare che ha sempre avuto orrore per la guerra civile, che proclamare la Repubblica o estendere - nel 1860 - la guerra allo Stato Pontificio significava combattere contro l'Esercito (cosa da lui mai voluta) e che comunque, si trattava di prendere atto che la causa repubblicana era nettamente minoritaria nell'Esercito e nel Paese. Feriscono in particolar modo G. due fatti connessi con i suoi mal riusciti tentativi di eliminare da Roma il governo papale, restituendola all'ltalia: la strategia mazziniana per la difesa della Repubblica Romana nel 1849 e "il tradimento" di Mazzini in occasione del suo tentativo su Roma nel 1867, conclusasi con l'intervento francese e la sconfitta di Mentana. Nel primo caso, secondo G. il concentramento di tutte le forze della Repubblica a Roma "ha facilitato al superiore esercito francese di poterle sterminare d'un colpo", mentre il suo richiamo a Roma dopo il combattimento di Velletri ha impedito l'invasione del Regno di Napoli, "ove acclamati dalle popolazioni noi potevamo dar mano all'insurrezione siciliana essendo l'esercito borbonico in istato di scioglimento"m; questi due errori sono stati la causa principale della caduta della Repubblica. Nel secondo caso, per G. i fatti hanno dimostrato che l'insurrezione di Roma preparata dai mazziniani non poteva riuscire e che Mazzini, provocando con le sue mene la demoralizzazione dei volontari e la diserzione di ben 3000 di loro (cioè la metà), ha reso inevitabile la sconfitta. Ai sogni, ai progetti irrealistici e ai tentativi di Mazzini G. contrappone, semplicemente, la necessità di prendere atto della realtà, che oltre ad essere militare, è anche politica e sociale. In quanto all'accusa di mancanza di principì, si chiede "se non sia un principio santo il concetto dell'unificazione patria propugnato da tutti i grandi italiani di tutti i tempi". E conclude: 1848, qui comincia l'ostracismo a cui mi condannarono gli amici di Mazzini, e che dura oggi (1872) più ostinato che mai, il di cui motivo o pretesto, fu senza dubbio, per voler io marciare coi miei compagni, sul campo di battaglia allora sul Mincio, e nel Tirolo, e ciò perché era un esercito regio quello che stava alle mani cogli Austriaci. E si osservi: che i capi che allora tormentarono il povero moribondo Anzani [cioè il suo principale collaboratore con funzioni di Capo di Stato Maggiore nella Legione Italiana, deceduto nel luglio 1848 a Genova - N.d.a.] chiedendogli che mi ammonisse; sono gli stessi che formano oggi la falange dei servi più fedeli della Monarchia! 112-

Cfr. la corrispondenza tra Mazzini e Garibaldi nel maggio-luglio 1849 in V. Cian, Giuseppe Mazzini e Goffredo Mameli a Giuseppe Garibaldi, "Nuova Antologia" Vol. CLXIIJ - serie V Fase. 985 - 1 ° gennaio 1913, pp. 418-436.


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Dal canto suo, che cosa pensa Mazzini di G.? Partico]armente indicativa, in proposito, è la sua condotta in occasione della difesa di Roma nel 1849, quando - dimostrando che non si tratta di un semplice contrasto tra "il politico" e "il militare" - Mazzini è assai più vicino ai metodi, alla mentalità, alle decisioni operative dell'ufficiale di carriera e suo stretto collaboratore Pisacane, che alle idee di G., un civile e Capo militare d'elezione 113 • Per l'ardente ufficiale e patriota napoletano M. ha espressioni continue di affetto, riconoscenza, stima e lode che non usa mai per G., nonostante il grande carisma dell'eroe nizzardo_ Di Pisacane, che pure è anch'egli uomo d'azione, M. apprezza soprattutto quel lavoro organizzativo e di Stato Maggiore, per il quale G. ha sempre avuto avversione e scarsa considerazione. Oltre che "esecutore rapido e intelligente delle intenzioni del generale in capo e delle nostre" lo definisce "ufficiale nato per la guerra d'insurrezione", e riconosce che "la unità dell'esercito, l'abolizione in esso di ogni privilegio e disuguaglianza [nostra sottolineatura - N.d.a.], il miglioramento degli elementi direttivi, il concentramento su punti che gli assicurassero in un momento dato l'iniziativa, furono opera di Pisacane". È noto che G., anche e soprattutto alla difesa di Roma del 1849, ha sempre tenuto sia a fare di testa sua (in tal modo venendo in contrasto con l'unità di direzione e azione dell'esercito voluta da Mazzini e Pisacane) sia a mantenere in tutti i modi ai suoi volontari la fisionomia di corpo speciale e privilegiato, suscitando le ire di Pisacane. Come risulta dai suoi stessi scritti, per ragioni politiche (cioè per aiutare l'opera a favore della Repubblica - poi rivelatasi inefficace - di alcuni parlamentari francesi a Parigi) il 30 aprile 1849 Mazzini ferma G., che insegue i francesi in ritirata dopo il vittorioso scontro del 30 aprile. E, senza ·preamboli, lo accusa di aver ostacolato, attaccando "con incauto ardire" a Velletri, ]a completa riuscita del piano compilato da lui e Pisacane per battere le truppe napoletane penetrate nel territorio della Repubblica e tagliare loro le linee di comunicazione. Si tratta di dissensi inconciliabili, dovuti al prevalere in Mazzini di ragioni politiche, che gli fanno disapprovare anche l'inserimento da parte di Pisacane di aspre critiche a G. ne] suo libro La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-1849 (Cfr. anche cap. V). In questo caso (scrive il Mazzini) biasimai, come inopportuna e dannosa più che giovevole, l'inserzione di quegli appunti [di critica a Garibaldi - N.d.a.], e notai qual divario corresse tra il mentire e tacere; reo sempre l'uno, onesto sovente e prudente l'altro. [Pisacane] non assentì [a toglierli dal manoscritto N.d.a.]; l'amore al Vero era in lui più potente d'ogni altra considerazione; la discussione fra noi fu animata abbastanza perché ne seguisse un lungo silenzio' 14•

113 ·

114 ·

G. Mazzini, Scritti editi e inediti (Cit.), Voi. VII pp. 186-196 e Vol. XI pp. 24-37. ivi, V ol. XI p. 39.


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Se ne può dedurre che Mazzini non contesta le critiche a G. in sè, anzi parlando di ''Vero" le riconosce veritiere; disapprova solo la loro pubblicazione, evidentemente perché non era nell'interesse del1a causa nazionale gettare pubblicamente delle ombre sulla figura di uno dei pochi uomini di grande prestigio militare, capaci di indurre i giovani italiani a prendere le anni e di guidarli validamente su] campo, anche contro gli austriaci. Sempre riferendosi alla difesa di Roma de] 1849, il Parmentola, il Furlani 115 e altri riferiscono del dissidio tra Mazzini e G. sul da farsi, quando le truppe francesi del generale Oudinot a fine giugno 1849 attaccano Roma e penetrano all'interno delle mura aureliane dominando l'abitato dalle alture. Secondo i predetti studiosi G. propende decisamente per l' abbandono di Roma con le truppe rimastegli fedeli, ma Mazzini senza escludere questa possibilità si dimostra più favorevole (per ragioni politiche, cioè per fare di Roma una città martire suscitando odio per la Francia e simpatia in Italia e all'estero per la causa italiana) alla difesa di Roma, pur riconoscendola militarmente impossibile. È dubbio che questo dissidio sia realmente avvenuto. Probabilmente M. ha oscillato tra la resistenza a oltranza in Roma e i] suo abbandono con il governo, soluzioni entrambe - sia pure in modo diverso - in armonia con il suo programma politico di aumentare i] consenso intorno alla causa nazionale. Ad ogni modo, nei suoi Scritti editi e inediti non ne parla, ricordando solo di aver proposto al Consiglio di guerra tre alternati ve ·(arrendersi; resistere all'interno della città casa per casa; abbandonare Roma non solo con tutte .le forze militari ancora disponibili ma anche con il governo e una parte ragguardevole dell'Assemblea, per recarsi nelle Romagne e cercare di sollevarle contro l'Austria). A questo punto, Mazzini sembra allinearsi con le tesi di G.: scrive infatti di aver subito dichiarato di respingere la prima ipotesi operativa perché disonorevole, e di non aver ritenuto praticabile nemmeno la seconda perché le truppe francesi, evitando sanguinosi combattimenti nell'abitato, si sarebbero limitate a bombardare Roma dalle alture ormai in loro possesso, attendendone la resa. Di conseguenza l'unica ipotesi che anche per Mazzini rimaneva sul tappeto era la terza, ma su di essa i1 comitato di guerra si divise: "Avezzana, i capi romani e altri votarono, a maggioranza di due, perché rimanessimo, ostinati a difendersi, in Roma: Roselli, Pisacane e G. con altri parecchi accettarono la mia proposta ... 116• L' Assemblea però la respinse definitivamente, votando per ]a resa ai francesi; G. uscì ugualmente dalla città, "ma con poche migliaia raccozzate da corpi diversi, senza artiglieria, senza appoggio d 'autorità governativa e in condizioni che vietavano ogni possibilità di successo".

"'· Garibaldi in Parlamento (Cit), VoL I pp, 5-7, 116 G. Mazzini, Scritti... (Cit.), Voi. Vll p. 194.


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Così rifierisce il Mazzini: poco importa se il Consiglio di guerra per parlare con G. si è recato al suo posto di comando che aveva rifiutato di abbandonare (come scrive il Mazzini), o se invece egli, convocato, si è presentato all'Assemblea e là ha dipinto la situazione militare come ormai senza speranza, accennando anche a non meglio specificati "errori" passati che non potevano essere stati commessi che da11o stesso Consiglio di guerra, cioè principalmente da Mazzini e Pisacane (così si legge nel citato volume Garibaldi e il Parlamento curato dal Furlani). Per il resto, Mazzini ha sempre sostenuto in tutti i modi l'arruolamento di volontari agli ordini di G. per le guerre del 1859 e 1866, giudicandolo come espressione della partecipazione di tutto il popolo italiano aJla guerra, della guerra di popolo insomma e non della guerra solo di eserciti, della guerra nazionale e non dinastica o piemontese. Naturalmente, nel 1861 si oppone fortemente allo scioglimento dell' esercito meridionale tentando anzi - a] di là delle intenzioni dello stesso G. - di farne lo strumento principale per l'estensione della guerra all' Austria e allo Stato Pontificio. E oltre a ritenere G. , l'unico Capo idoneo a debe11are rapidamente il banditismo, esclama: " se le moltitudini adorano G .• è non tanto per le doti individuali che lo innalzano al di sopra dei più, quanto perché vedono in lui una vivente incarnazione del principio di unità nazionale" 117 • D'altro canto, per Mazzini, prima ancor che G . viene l'unità nazionale. Quest'ultima va realizzata anche prescindendo dal suo nome; perciò a seconda delle circostanze egli va spinto all'azione, oppure trattenuto. Ciò avviene in particolar modo nel 1860, quando si sta preparando la spedizione nell'Italia Meridionale a sostegno dell' insurrezione siciliana, e nei due falliti tentativi di G. su Roma nel 1862 e nel 1867. All'inizio del 1860, alle prime notizie d'insurrezione in Sicilia, i mazziniani chiedono a G. se è disposto a capitanare la spedizione che si sta preparando per correre in aiuto della rivoluzione siciliana. Assai perplesso sull'importanza del moto e sulle intenzioni di Cavour e del re, egli rifiuta, non negando tuttavia - una volta saputo che il capo designato era il La Masa aiuti in armi e denaro. Mentre G. ancora tentenna, il 12 febbraio 1860 Mazzini scrive ai suoi luogotenenti Bixio, Medici e Bertani: Amici: Voi avete, più ch' altri, il coraggio fi sico; abbiate, ve ne scongiuro, il coraggio morale. Parlate ancora una volta, se lo volete, in modo collettivo, solenne, a Garibaldi; poi ricordatevi che siete uomini, che avete--combattuto com' egli ha combattuto, e che se Garibaldi morisse, la causa dell' unità non dovrebbe perire con lui. Intendetevi fraternamente, senza riserva, con me. Fra noi, dov'è ora il dissenso? Noi accettiamo Monarchia, annessione, Corona d ' Italia in capo di un re - che secondo me, non la merita -; tutto ciò che volete, fuorché una cosa: lo smembramento e il dare addietro. Non è più questione di ciò

111.

ivi, Vol.XIII p.217.


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che chiamate i piccoli movimenti; sebbene quei piccoli movimenti abbiano visibilmente preparato i1 terreno all'Unità. Qui si tratta di porre il Sud fra due leve: il moto dell'Isola, e quello delle province Romane; quest'ultimo si assicura varcando il Rubicone. Abbiamo gli elementi pronti nel basso: chi si assume dirigerli? Garibaldi è l'uomo, lo so; ma s'ei dimentica il suo compito d'iniziatore, l'Italia non avrà altro uomo che osi sostituirsi a lui e trascinarlo? Non puoi essere tu quell'uomo, Medici? 118 Sollecitato ancora a mettersi alla testa del movimento, il 15 marzo 1860 G. dà una risposta che, anche se interlocutoria e non negativa, racchiude tuttavia in se' alcune fondamentali ragioni del suo dissenso dal programma mazziniano: "quanto a sé, consigliava, e molto meno promuoveva, insurrezionj le quali, dove non sorgessero spontanee, sarebbero state apportatrici di sciagure e non di libertà: ma che, se il popolo siciliano, per propria iniziativa, si fosse levato in armi, egli sarebbe andato nell'Isola a portarvi l'aiuto del suo braccio. In contraccambio però del promesso aiuto, voleva essere sicuro del programma: "In caso d'azione," egli scriveva, "sovvenitevi che il mio programma è Italia e Vittorio Emanuele"" 9 • Il programma di M., invece, è sempre stato Italia, non Vittorio Emanuele; Vittorio Emanuele solo in certe occasioni, a denti stretti, per l'unica ragione che dietro di sè aveva un esercito e un consenso più vasto di quello dello stesso Mazzini. Per quest'ultimo, perciò, le circostanze richiedevano più che un patto anche non scritto di collaborazione - una sorta di patto di non aggressione, valido almeno fino a quando si trattava di combattere il comune nemico austriaco. Ancor più netto il dissenso a proposito dell'insurrezione, che per G. deve essere spontanea e per M. guidata e promossa anziché assecondata - dall'elemento volontario. Se nel 1860 M. non condivide le esitazioni di G. e cerca di guadagnarlo alla sua causa e di convincerlo a un'azione immediata nell'Italia Meridionale, nel caso di Aspromonte e Mentana il suo atteggiamento è non solo diverso, ma opposto. Non approva queste due iniziative mal riuscite, sia perché non vi sono premesse politiche favorevoli interne e internazionali, sia perché - come si è visto - il suo obiettivo strategico prioritario - nel primo caso - rimane il Veneto e non Roma. Il 1° marzo 1862, prima dei fatti di Aspromonte, scrive: "io credo santa l'agitazione per Roma. Credo anzi che essa dovrebbe ordinarsi più sempre su vasta scala [... ]. Ma se l'agitazione per Roma, diventando esclusiva, sviasse l'animo degli Italiani dal vero punto obbiettivo in oggi all'azione, Venezia, noi andremmo incontro, temo, a nuove delusioni, e consumeremmo con pericolo e vergogna anche quest'anno senza raggiungere un solo dei risultati pratici che oggi cerchiamo" 120•

111 (

ivi, Voi. XI p. XLIX.

119 ·

ivi, pp. XLIX - LVI. ivi, Voi. XDl pp. 71-72.

1

20.


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È stato profeta: il 1° dicembre 1862 respinge l'accusa di aver spinto G. alla sua fallita impresa: "Non ho mai portato a cielo l'impresa di G., ch'io stimava generosa e santa, come tutte le intenzioni di G., ma impossibile finché governasse il Sig. Rattazzi, e finché la maggioranza degli Italiani fosse, come era ed è, illusa a credere che da un Ministero monarchico possa venirle la conquista di Roma alla Patria" 121 • In realtà - precisa in altra occasione - si è limitato solo ad appoggiarla quando essa era già iniziata, "per cercare che il tentativo generoso diventasse impresa di tutto un popolo". Se tutti lo avessero fatto, "se gli uomini delle terre meridionali avessero, levandosi, complto il debito loro, invece di limitare l'azione al piccolo eroico di G.", Roma avrebbe potuto essere ottenuta anche senza armi. Non ha strumentalizzato, dunque, G., anche perché l'Italia intera sa che Garibaldi non può essere macchina d'alcuno mai, che i suoi disegni son suoi, ch'egli è nato a guidare e non ad essere guidato, e che, s'egli sacrificò talora per generosa illusione il compimento delle proprie ispirazioni, ei non n'accettò mai una che non gli venisse dalla sua coscienza e da un intenso amore all' Italia. Sospettare che Garibaldi potesse essere, nell'ardita mossa su Roma, aggirato, maneggiato da me e vittima inconscia di artifici miei, è sogno di stolto. Dirlo, sapendo il contrario, è opera di tristo. Diffondere sistematicamente l'accusa, quando si è tentalo davvero, e per piu anni, e accarezzandolo per non deluderlo, di ridurlo alla parte di macchina per la monarchia[ ... ] è tal cosa che non ha nome. 122

L'immagine che fino a questo punto Mazzini ci ha dato di G. è quella di un uomo d'azione e di grande prestigio, di un trascinatore, le cui iniziative militari spesso falliscono perché mancano di respiro politico e anche strategico, e perché lo segue un'élite di volontari, non tutto il popolo che pure lo ammira. Nel novembre 1863 M. indica ancor meglio, e inequivocabilmente, che cosa pensa delle doti militari di G.. Si sta preparando anche con contatti con la monarchia l'insurrezione del Veneto, che dovrebbe innescare prima l'intervento di volontari e poi quello dell'esercito regolare contro l'Austria; ma a chi ventila la nomina di G. a comandante in capo dell'esercito, M. cosl risponde: Garibaldi è l'anima d' ogni moto di volontari. Nessuno può dubitare sulla di lui adesione alla dichiarazione che io feci sul principio di questa lettera rcioè: indipendenza dalla monarchia e patti temporanei solo se richiesto da specifiche circostanze - N.d.a.]. Ma sono convinto che tanto per riguardo al passato, quanto per evitare dissensi particolari tra i volontari, la di lui azione dovrebbe essere lasciata libera e indipendente. Subalternizzarlo con un comando al capo dell'esercito sarebbe

ivi, p. 126. ,:.. ivi, pp. 115-1 17.

121


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un errore. Ei dovrebbe essere lasciato alla nostra iniziativa. S'intende che i primi fatti di guerra governativa regolarizzerebbero il contatto dell'insurrezione e del capo dei volontari col disegno generale strategico123.

A proposito del secondo tentativo di G., conclusosi con la sconfitta di Mentana il 3 novembre 1867, non si tratta più di dare priorità alla liberazione del Veneto, diventato italiano con la guerra del 1866; al momento i mazziniani stanno preparando un'insurrezione in Roma e ritengono che un'azione di G . dall'esterno, quando la città non è ancora pronta a insorgere, guasterebbe i preparativi e al tempo stesso impedirebbe che la liberazione della città avvenga sotto l'egida repubblicana. Mazzini scrive il 18 luglio 1867: "individualmente dissento da ogni iniziativa sulla provincia romana. Quell'iniziativa si conchiuderà necessariamente nell'intervento regio, nell'annessione pura e semplice della provincia insorta, in un accordo tra ]a monarchia e il Papato per lasciare a quest'ultimo Roma e Civitavecchia. Dissento da ogni moto su Roma che non sia repuhhlicano.[...]. Praticamente temo che tutto questo subbuglio finirà in nulla. Garibaldi, colla sua credulità a tutti; col suo abbracciare gli elementi più discordi, col suo circondarsi anche di uomini addetti al Governo, non mi par fatto per riuscire". E 1' 8 agosto 1867: "Garibaldi insiste a fare: non credo che riuscirà. Altri gli promette moto -in Roma per settembre. Dubito assai. Intanto, se non fanno, m'hanno rovinato il lavoro; il materiale di Terni perduto; uno del mio Comitato colpito con cinque pugnalate, non so da chi; due altri imprigionati giorni or sono" 124 • Infine, per Mazzini l'ascendente di G., più che essere un merito, una qualità innata e eccezionale dell'uomo, sembra quasi dovuto al carattere debole e facilmente influenzabile di coloro che lo seguono ciecamente anche in imprese nelle quali non vale la pena di seguirlo: conosco i nostri e non ~pero da essi il rifiuto anteriore. }..1olti fra essi seguono l'azione per l'azione: altri sono, in faccia a Garibaldi, deboli come fanciulli. S'ei dice "andiamo", andranno. Ed è probabile che andranno a un secondo Aspromonte. Garibaldi, non separandosi apertamente dal Governo, griderà venuto il momento, "non guerra civile", ed essi obbediranno. S'io dunque fossi in essi, ricuserei l'azione senza patti ... ".

M., insomma, vuole che, oltre a imbracciare un fucile, gli italiani, i volontari pensino; e lo facciano anche quando il loro Capo è G., rifiutandosi di seguirlo incondizionatamente e ciecamente, esigendo che ponga delle condizioni alla monarchia. Argomentazione senza dubbio coerente con i

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ivi, Voi. XIV p. LXXII.

1 "

ivi, Voi. XV pp. XLVlll - Lll.


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princ'ìpi da lui sempre propugnati, la quale ha un solo difetto: Mazzini vi fa ricorso solo quando non basta disobbedire a G.: si dovrebbe anche obbedire a lui, e solo a lui... come se non fosse ammissibile e naturale che qualche volontario avesse sue personali e libere opinioni, diverse sia da quella di Mazzini che da quella di G. Chi ha ragione, chi ha torto? La visione di G. è nel complesso più realista, quindi anche più strategica. Certo, non hà avuto una cultura militare, né una dottrina strategica: ma ha dimostrato che, come diceva Moltke, la strategia è un insieme di espedienti. Talune critiche di Mazzini però colgono nel segno, e indicano le ragioni del fallimento dei tentativi del 1862 e 1867 contro lo Stato della Chiesa. Nel comune intento di rendere gli italiani padroni e partecipi del loro destino, hanno fin troppo ignorato il peso delle contingenze internazionali e il ruolo della diplomazia. I rispettivi torti e errori sono, almeno in parte, giustificati dal fatto che hanno dovuto basarsi, per forza di cose, su un elemento assai aleatorio e variabile come l'effettiva volontà della massa degli italiani di impegnarsi per la grande causa nazionale. Tutto questo avrebbe reso quanto mai utile e necessaria almeno nelle fasi cruciali una collaborazione, che non c'è stata anche per il pronunciato egocentrismo di ambedue. Le difficoltà che G. ha incontrato non sono dovute solo a Mazzini ·e alla monarchia. Esse sono in certo senso indicate dalla composizione sociale dei Mille, cioè dello strumento militare volontario della sua campagna più fortunata (solo 283 - cioè 1/4 - operai e artigiani; per il resto, dunque, un'élite sociale delle regioni del Nord); fatto, questo, che dimostra di per sé l'incompatibilità tra l'esaltazione della nazione amata e quella del volontarismo. A loro volta i limiti di Mazzini sono dimostrati da ciò che gli addebitano tutti i suoi avversari, cioè dall'esito invariabilmente negativo dei troppi progetti e tentativi insurrezionali che cerca di avviare. Ma quanto questi tentativi - come le stesse imprese, come la stessa figura di G., l'unico Capo militare anche oggi popolare in Italia - hanno contribuito a tenere desta la coscienza nazionale, a ricordare agli italiani ciò che molti, troppi tendevano a dimenticare, a preparare una nuova classe dirigente, a elevare le menti e i cuori, a far nascere molti valorosi da un popolo da secoli noto per la disaffezione per le armi? Degli scritti di ambedue molte sono le cose da ricordare anche oggi: il vivo senso dell'unità e della concordia nazionale, la preoccupazione per il buon nome e il prestigio internazionale del Paese, la necessità che l'Italia occupi in Europa e nel Mediterraneo un ruolo geopolitico e militare paritario rispetto agli altri Stati e abbia giusti confini, la necessità di rinnovare e riformare lo Stato eliminando la corruzione e rendendolo più vicino ai cittadini e alle classi più umili, la necessità di dare alle Forze Armate una fisionomia veramente nazionale e non solo dinastica o piemontese migliorandone l'efficienza e qualificando la spesa militare, la necessità di rendere partecipi della difesa nazionale larghi strati di cittadini combattendo localismi, egoismi e clientele e risvegliando in loro una più viva coscienza nazionale e del bene comune.


vn - GIUSEPPE GARIBALDI

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Problemi e esigenze che sono tuttora sul tappeto e che tuttora impediscono all'Italia di occupare nel consesso europeo quel posto che hanno meritato e meritano i sacrifici dei suoi figli migliori. Per questo ad ambedue i padri del Risorgimento, che tali sono stati anche nel campo militare, vanno perdonati, insuccessi, utopie, discutibili progetti strategici. E di ambedue va apprezzato il concorde tentativo di far capire agli italiani ciò che non ,;tvevano mai capito nei secoli passati, soffrendone Je conseguenze: che cioè il benessere, il progresso sociale e economico sono collegati all'unità, libertà e indipendenza nazionale; beni insostituibili che vanno conquistati e difesi dagli italiani stessi con le armi e respingendo le lusinghe di un falso pacifismo. Di queste due figure-chiave comunque, è stato di gran lunga G. a conquistarsi la maggiore popolarità; ciò è avvenuto per le sue doti di uomo d'azione, e per il suo prestigio di Capo militare. Lo ammette persino Carlo Corsi, il maggiore scrittore militare del tempo, che nel 1862125 lo definisce (non è il solo) "piuttosto un abile e fortunato guerrigliero che un gran capitano", ritenendolo, come il Guttièrez, utile solo come comandante di qualche migliaio di volontari; ma subilo dopo è costretto ad ammettere che "è il capitano del popolo per eccellenza" e che "di fatto è una potenza, tanto grande è la sua popolarità". C'è dunque controsenso nelle parole del Corsi: perché - a parte le considerazioni tecnico-militari - se un uomo di tale prestigio militare fosse stato semplicemente un buon tattico, non avrebbe certo potuto conquistarsi una così vasta popolarità, non avrebbe potuto conquistare un Regno e dare all'Esercito una schiera di validi generali cresciuti alla sua scuola. Non ha avuto, è vero, le doti dell'ufficiale di Stato Maggiore; ma è altrettanto vero che, in parecchie occasioni vitali per i destini della Patria, egli è stato ciò che parecchi altri capi di terra e di mare avrebbero dovuto o potuto essere, e non sono stati.

"' C. Corsi, L'Italia e l'Austria, "Rivista Militare Italiana" Anno VII - Voi. I settembre 1682, pp. 213-214.



PARTE TERZA

BILANCIO DELLE GUERRE D'INDIPENDENZA: AMMAESTRAMENTI, CRITICHE E POLEMICHE



CAPITOLO Vili

ESERCITO REGOLARE E INSURREZIONE: STRUMENTI INCONCILIABILI? SPUNTI CRITICI E CONTROVERSA EREDITÀ STRATEGICA DELLA PRIMA GUERRAD'INDIPENDE1'.rzA (1848-1849)

Premessa Come si è visto, le guerre d'indipendenza sono inevitabilmente sullo sfondo del1e teorie mi1itari e del pensiero militare de11e grandi figure del periodo, ma ciò non basta per definirne i caratteri e i riflessi. Oltre che la documentazione d' archivio custodita in buona parte dall' Ufficio Storico SME, su tali guerre esiste una vastissima letteratura coeva e successiva, fino ai nostri giorni. Le critiche a1la leadership politica, e ancor più a quella militare, sono spesso giustificate; proprio per questo rischiano di portare il lettore fuori strada. La ragione è semplice: paradossalmente esse non di rado risultano lacunose e parziali, soprattutto là ove si tratta di studiare non tanto il minuto andamento delle operazioni, ma le cause anche lontane dell'inadeguatezza dello strumento militare e della sua strategia. In primis tali cause vanno ricercate in ciò che pensano degli avvenimenti - e gli ammaestramenti che ne traggono - gli uomini più rappresentativi del tempo, e in primo luogo i militari, cioè i protagonisti principali. Invece si è finora omesso di condurre un esame il più possibile organico e approfondito del modo con cui i protagonisti vivono gli avvenimenti stessi; in uno dei più recenti libri - di stampo divulgativo - sulle guerre d' indipendenza, 1' autore afferma nella prefazione: ci sono due modi per narrare la storia patria: dire con franchezza come sono andate le cose o celare pudicamente gli errori, puntando di preferenza sugli elementi positivi. Purtroppo, salvo le numerose eccezioni, valide però per il solo pubblico specializzato, agli italiani si è sempre preferito raccontare mezze verità, offuscando gli aspetti spiacevoli e controversi'.

G. Rocca, Avanti Savoia! Miti e disfatte che f ecero l'Italia, Milano, Mondadori 1993, p. 7.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALI ANO - VOL. Il (1848 1870)

Segue la consueta va]anga di critiche - piuttosto scontate - aJla condotta militare delle operazioni, alla mancata trasformazione della guerra regia in guerra di popolo ecc .. Nella stessa opera ]'assenza di note, e la descrizione degli avvenimenti ligia alle regole di una sciolta e piacevolmente viva histoire-bataille, fa pensare aJ lettore poco informato che le manchevolezze almeno fino aJ 1945 siano state occultate tra le pieghe della storiografia militare ufficiale, per essere ancora più chiari: siano state sfumate o nascoste dai militari per ovvie ragioni di prestigio, ecc .. Non è così: fin daJla guerra 1848/1849 militari e "laici" hanno dato origine a una vasta letteratura custodita dalle biblioteche, nella quale non c'è un aspetto che non venga sviscerato e analizzato, con polemiche fin troppo aspre e senza molti riguardi per nessuno. Questa letteratura è stata, semplicemente, trascurata o ignorata del tutto; l' histoire-bataille ha così provocato uno dei guasti maggiori , incoraggiando giudizi raramente equilibrati, perché per giungere a conclusioni serene, equilibrate e veritiere, occorre avere il tempo, la costanza e lo scrupolo di leggere tutto quanto è possibile su argomenti estremamente controversi e di darne conto. Per fare un primo esempio - ma ce ne sono tanti aJtri - il 1° settembre 1848, dopo l'infelice conclusione della prima fase della guerra d' indipendenza, con una decisione che oggi apparirebbe sorprendente e che denota grande apertura, il Ministero della guerra piemontese ha chiesto ai comandanti fino al livello di reggimento incluso una relazione sulle operazioni compiute, sul funzionamento dei Comandi e Servizi, sugli inconvenienti emersi e sul modo di ovviarli per il futuro ecc .. Relazioni pubblicate daJl'Ufficio Storico nel 1908-191l2, la cui importanza non richiede sottolineature, perché fino a prova contraria, sono i militari protagonisti ad aver per primi il diritto di parlare e criticare. Cosa che, a detta di uno studioso autorevole come il Pieri, parecchi di essi fanno "con coraggiosa sincerità e intelligenza, e mettendo a nudo le vecchie piaghe dell'esercito" 3• Sono tre volumi (più uno riguardante la campagna del 1849) ricchi di spunti: ebbene, finora nessun studioso ha sentito il bisogno di studiare a fondo questo prezioso materiaJe. Non lo ha fatto nemmeno il recentissimo autore appena citato, la cui opera corre così il rischio di dire cose ovvie e risapute, o meglio quelle "mezze verità, le quali offuscano gli aspetti spia-

2.

3.

Cfr. Cdo del Corpo di SM - Uf. Storico, Relazioni e rapporti finali sulla campagna del 1848 nell'Alta Italia, Roma 1908-1910 (3 Vol.), e ID., Relazioni e rapporti finali sulla campagna del 1849 nell'Alta Italia, Roma 1911 . L'unico valido commento disponibile di tale opera è tuttora quello del generale Saverio Nasalli Rocca (Le nostre tradizioni di comando, Roma, Ed. "Roma" 1910). Fortemente critico specie nei riguardi del Salasco, del Bava e del Della Rocca, il Nasalli Rocca interpreta le relazioni in chiave attualizzante, cioè come dimostrazione dei persistenti e antichi difetti che l'Esercito Italiano ha ereditato da quello piemontese, a cominciare dalla scarsa disciplina e dalle rivalità dei Quadri più elevati, dal formalismo, della tendenza all'accentramento ecc .. P. Pieri, Op. cit. , pp. 836-837.


Vili - LA GUERRA DEL 1848-1849

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cevoli e controversi" (cioè, gli aspetti che meno si accordano, anche in questo caso, con le tesi che vuol sostenere l'autore). Nei limiti del possibile intendiamo ora rimediare, più che a queste lacune, alla metodica che li sottintende. Nei limiti del possibile, perché un esame esaustivo del vasto materiale richiederebbe uno spazio ben più ampio di quello che ci possiamo permettere. È indispensabile dedicare un capitolo alla sola guerra del 1848-1849. In tale occasione, dopo secoli di servaggio straniero re, popoli e eserciti dei vari Stati italiani sono per la prima volta chiamati a fare i conti con un disegno di indipendenza nazionale, che per avverarsi richiede proprio ciò che loro ancora e sempre manca, né si crea ex abrupto con la bacchetta magica: unità d'intenti, impegno assoluto e disinteressato per la causa, rinuncia a ogni settarismo e regionalismo. Mai come in questo caso emergono i tradizionali difetti degli italiani, che ampiamente spiegano la sconfitta almeno temporanea delle aspirazioni degli spiriti migliori. La dura sconfitta - tale per tutti - alimenta una ricchezza e multiformità di voci unica nel suo genere, attraverso la quale acquistano nuovo risalto le principali questioni militari del momento, a cominciare da quelle ordinative e addestrative. Al tempo slesso, la guerra del 1848-1849 è il primo severo colJaudo delle teorie, delle speranze e (diciamolo pure), delle illusioni del periodo della Restaurazione, delle quali abbiamo dato conto nel Volume I. Un brusco richiamo alla realtà insomma, che consente di fare il bilancio della prima metà del secolo e individuare, dopo il collaudo, l'eredità strategica che essa lascia all'altra metà: né va trascurato, a tal proposito, che anche in campo europeo la guerra italiana è di gran lunga la più interessante del periodo, perché vi trovano posto sia lo scontro in campo aperto tra eserciti, sia l'azione delle forze insurrezionali. Come si combinino insieme questi due elementi e quali sia il peso di ciascuno secondo gli autori coevi, è il primo nodo da sciogliere.

SEZIONE I- La voce della monarchia piemontese e dei militari Le relazioni sulla prima fase della campagna (marzo-agosto 1848) Il primo protagonista della guerra è indiscutibilmente l'Esercito piemontese: le citate Relazioni e rapporti finali sulle campagne del 1848 e del 1849 nell'Alta Italia dei militari protagonisti, hanno perciò importanza fondamentale e vanno considerate come la classica pietra di paragone per il vaglio delle rimanenti voci. Daremo risalto soprattutto alle questioni operative e ordinative; a una sintesi degli ammaestramenti di interesse logistico abbiamo già dedicato il capitolo VI del Voi. I ( 1831- 1861) della Logistica dell'Esercito ltaliano4 • A tale opera rimandiamo, pertanto, per

F. Botti, La logistica dell'Esercito Italiano , (Cit.), Voi. I pp. 329- 354.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

una più ampia comprensione di questa parte, ora richiamandone solo taluni aspetti_ Al Capo di Stato Maggiore dell'armata sarda generale Carlo Canera di Salasco5 la commissione che vaglia le relazioni presentate imputa di aver omesso - allegando l'indisponibilità dei documenti necessari - la parte riguardante le operazioni, e di aver taciuto sui difetti fondamentali dello Stato Maggiore alle sue dipendenze, "che pur destarono tante lagnanze". Le altre osservazioni della più alta autorità militare dopo Carlo Alberto sono però ritenute valide, anche se "in lui palesasi forse piuttosto la facoltà di ragionar bene dopo il fatto, che non quella di antivedere q~ali conseguenze debbono nascere da un fatto, prima eh' esso abbia avuto luogo: la qual previdenza [... ] costituisce il fine più nobile per cui s'istituisce negli eserciti lo Stato Maggiore". Con questi limiti i rilievi del Salasco riguardano essenzialmente l'ordinamento e l'organizzazione logistica, da lui giudicati sotto molti aspetti carenti. La suddivisione delle cinque divisioni dell'esercito in due corpi d' armata e in una divisione di riserva a un suo giudizio crea due anelli superflui, che fanno nascere delle rivalità, ostacolano la rapida trasmissione degli ordini, ecc .. Pertanto nel futuro questo ordinamento sempre secondo il SaJasco non dovrebbe essere più adottato (il che avviene alla ripresa delle operazioni nel marzo 1849). Valutazione non condivisibile, perché le pedine che il quartier generale doveva manovrare erano molte, mentre le disfunzioni che pur si sono verificate erano piuttosto dovute alla cattiva organizzazione degli stessi Comandi di corpo d'armata - improvvisati all'emergenza e con scarso personale - e alla mancanza di una riserva di fuoco e di forze nelle loro mani, per intervenire nel combattimento. Riguardo al quartier generale il Salasco nota che il numero dei registri è eccessivo, e che occorrerebbero due colonnelli, uno addetto all'aggiornamento della situazione dei reparti e Servizi, l'altro addetto alle informazioni sul nemico. Occorrono delle guide delle regioni attraversate, "perché i loro chiarimenti sono per lo più necessari per la miglior comprensione di una buona carta logistica". Occorre che lo Stato Maggiore disponga di 20-25 esemplari delle migliori carte degli Stati limitrofi e di ordinanze fidate a piedi e a cavallo; gli ufficiali di Stato Maggiore devono eseguire le ricognizioni, quando portano gli ordini per il movimento devono conoscerne i contenuti, ecc. Tutte esigenze che oggi sembrano ovvie ed elementari; il solo fatto che il Salasco ritenga necessario citarle è indice della mancanza di una buona organizzazione, mancanza alla quale peraltro spettava prima di tutto a lui porre rimedio. I rimanenti suoi rilievi riguardano il reclutamento, l'ordinamento e la disciplina della fanteria e i Servizi logistici. Il battaglione di fanteria inqua-

s.

Relazioni e rapporti finali sulla campagna del I 848 (Cit.), Voi. l pp. 3-24 e Voi. ll pp. 389-390.


Vill - LA GUERRA DEL 1848-1849

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drava 1.000 uomini suddivisi in 4 compagnie di 200-250 uomini, quindi disponeva di so]i 4 capitani: se un capitano era malato o ferito e un altro magari comandato altrove, si aveva un battaglione male inquadrato, tanto più che per la maggior parte ]e compagnie erano composte di soldati "provinciali" (cioè richiamati anziani e con famiglia) i quali avevano raggiunto il reggimento addirittura quando era già in marcia verso la zona d'operazioni. Vi erano 4 ufficiali subalterni per compagnia, ma di essi uno era nuovo e non conosceva nessuno; in quanto ai sottufficiali, spesso cambiavano di corpo ed erano sostituiti da altri meno capaci e esperti. Perciò delle compagnie così composte non possono essere comandate dai loro ufficiali e sottufficiali, nel senso che costoro possono usare solo la forza nei riguardi di uomini dei quali non sanno nemmeno il nome, e di cui non conoscono né il carattere né il morale; ma che cosa può fare la forza di fronte aJla resistenza passiva di 150 o 200 contadini o operai, per la maggior parte coniugati con figli? Tutti i loro desideri e i loro pensieri erano rivolti alla famiglia e al paese natìo, ed essi avevano una sola speranza: che la guerra finisse al più presto; poco ad essi importando del suo scopo e della sua riuscita, e anzi temendo che i successi li allontanassero di più dalle loro attese ....

Questo difetto di base derivante dall'eccessivo numero di riserve poco addestrate e poco motivate, dà origine a inconvenienti che il Salasco dipinge a tinte fin troppo crude, poco generosamente attribuendo al cedimento soprattutto morale della fanteria i rovesci subiti dall'intero Esercito, mentre le altre Arrni si sono comportate meglio: quando si è trattato di eseguire delle marce molto rapide in giornate molto calde, e con distribuzioni irregolari di viveri, infine di sopportare i rigori della guerra, contro i quali nulla può il coraggio, ma che delle anime forti e il vigore del soldato disciplinato avrebbero agevolmente sopportato, la fanteria ha ceduto. I soldati, gettando lo zaino, il berretto, il fucile, tutto ciò insomma che poteva ritardare !a loro marcia, si sono sbandati e hanno preso la strada dei loro focolari, lasciando al loro passaggio lo spettacolo del più completo disordine.

Il Salasco giudica severamente anche i cosiddetti cacciatori franchi (cioè milizie irregolari generalmente composte di volontari e impiegate in missioni particolari) e i corpi volontari in genere. Di questi ultimi elogia i volontari del Griffini, Deferrari, Longoni ecc. e la compagnia dei carabinieri lombardi, ma a1 tempo stesso osserva: questi corpi resero, più o meno, dei buoni servigi all'esercito come truppe leggere, per combattere, non per fare dei servizi, perché essi non ne avevano né la volontà, né l'istruzione, né la disciplina. Più tardi si manifestarono nei loro ranghi dei germi d'indisciplina, anzi di rivolta; in qualcuno, uno spirito repubblicano. In seguito in parecchi se ne andarono, di modo che non si videro più queste compagnie combattere e divenne impossibile disporne per qualche esigenza.


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Per quanto riguarda i Servizi logistici, infine, il Salasco elenca una serie di lacune e inconvenienti che riguardano soprattutto la sanità, il vestiario, il vettovagliamento, i trasporti, l'organizzazione dell'Intendenza. Delle relazioni dei comandanti in sottordine la più interessante, la più lunga e anche la più famosa, è quella del generale Eusebio Bava, comandante del l corpo d'armata. 6 Figura di grande e raro prestigio e ritenuto unanimamente il miglior generale piemontese, il Bava nel novembre 1848 è nominato comandante in capo dell'Esercito ma poco dopo viene destituito, per aver voluto pubblicare la sua relazione allo scopo di reagire a ingiuste accuse dei suoi nemici, che tendono a rovesciare principalmente su di lui stretto consigliere di Carlo Alberto - la responsabilità delle sconfitte. In effetti la sua relazione, per molti versi apprezzabiJe per la franchezza, l'acume strategico, i giudizi centrati su uomini e avvenimenti, abbonda di duri giudizi sull'operato di altri generali e degli stessi "Organi centrali", si da renderne del tutto inopportuna :.._ subito dopo il termine delle operazioni - la pubblicazione, che il Ministro de11a guerra tenta invano di bloccare: in pratica in essa non si salva nessuno, se non il Bava stesso. Fin dalle prime pagine egli critica l'abitudine del re di portarsi troppo avanti con il suo quartier generale, cosa che cagionava molti inconvenienti, "sia perché obbligava l'esercito a tenere quasi inerte una considerevole porzione delle sue truppe a custodia del1 'augusta sua persona, sia perché rendeva più esposta l'Intendenza generale d'armata che gli veniva dietro, e faceva immensamente ingombro il luogo pei molti carri di equipaggi che la seguitavano". Su invito del re compila il piano per una grande ricognizione offensiva su Santa Lucia (6 maggio 1848), ma poi i1 Ministro Franzini lo cambia improvvisamente e l'azione si risolve in un insuccesso. Il Bava coglie l'occasione per stigmatizzare i difetti dell'esercito piemontese: [nel fatto di S. Lucia] fu conosciuta l'importanza dell'unità del comando, il vizio fatale del ritardo degli ordini, le conseguenze funeste · delle mosse ineguali e protratte e tutto ciò che concorre alla rovina delle meglio combinate intraprese_ Egli era d'immensa necessità arrecare a tanta serie di mali un pronto ed efficace rimedio; ma per disgrazia della causa italiana non ci si pensò né punto né poco. Era d'immensa necessità eziandio che la disciplina fosse fatta rispettare con severi e inesorabili esempi: ma una bontà riguardosa quanto ingiusta ne tenne luogo_

Accusa senza troppe perifrasi gli ufficiali superiori di aver dimostrato vigliaccheria nel combattimento di S. Lucia, per essersi fatti vedere a piedi (anziché a cavallo), per essersi tolte le spalline onde risultare meno visibili al nemico e per essersi lasciati crescere la barba, in tal modo perdendo prestigio agli occhi degli inferiori e lasciando credere al soldato di poterli

•.

ivi, Vol. I pp. 25-119.


VIII - LA CilJERRA DEL 184ll-lk49

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imitare, gettando via quei capi di vestiario che gli erano d'impaccio. E a ragione ritiene che, pur imitando pericolosamente Nelson a Trafalgar, essi debbano dare l'esempio: si dice che gli spallini espongono gli ufficiali ad essere il bersaglio dei tiratori nemici: ciò è vero, ma questi medesimi spallini non cessano punto di essere la distinzione del comando: per essi l'ufficiale non resta confuso col soldato [... ] se voglionsi abolire tuttavia qualche distintivo facile a scorgersi dal soldato, anziché permettere che l'ufficiale si celi nella calca e il soldato trascuri la sua tenuta, seguitiamo l'esempio degli eserciti dell'Impero [austriacoJ; esigiamo che all'approssimarsi del pericolo, ognuno faccia orgogliosa mostra della sua divisa di parata, senza timore di essere la mira delle palle nemiche, le quali spesso colgono , più che l' ardimentoso, il vigliacco. Sui dodici battaglioni misti di riserva lombardo-piemontesi il giudizio del Bava è ancora una volta estremamente severo: degli 800 soldati di ogni battaglione solo i 300 piemontesi "potevano dirsi soldati , e anche deboli soldati", perché appartenenti alle classi richiamate. Per di più (come già detto al cap. V - Sz. ID) erano senz'armi e senza divise, non vollero prestare il debito giuramento di fedeltà al re ed ad alta voce si facevano intendere che non si sarebbero battuti se non quando fossero stati ammaestrati e vestiti, per non venire dal nemico tenuti in conto di rivoltosi ed esposti quindi al pericolo della fucilazione [ma avevano ragione! - N.d.a.]. Questo rinforzo, che all'esercito riusciva soltanto d' impaccio e poteva anzi essergli di tristo esempio, era magnificato dai giornali... Seguono duri attacchi alla stampa (accusata di travisare i fatti e di diffondere anche tra la truppa voci infondate che nuocciono al prestigio e all'autorità della Leadership) e aspre critiche alle comunicazioni ufficiali del quartier generale, definite "smilze, fredde e oscure" quindi tali da lasciare la pubblica opinione nell'incertezza e nel dubbio. Alla sconfitta di Custoza il Bava dedica pagine severe, che prendono spunto dalla ritirata caotica per lamentare che la disciplina è troppo blanda e non viene amministrata con l'indispensabile tempestività, rendendo pertanto necessaria una diversa e più capillare organizzazione della giustizia militare. Gli eventi che seguono e la decisione di Carlo Alberto di difendere Milano contro il suo consiglio gJi danno occasione di dimostrare il suo astio per i lombardi, i quali anche nei mesi precedenti pretendevano dai piemontesi azioni rapide e risolutive che, dato anche il loro scarso apporto, non erano possibili. La conclusione attribuisce le sconfitte più alle gravi lacune piemontesi, che alla forza dell'avversario: la mancanza di unità nel comando, la privazione di tutti i servizi speciali in un paese fili Lombardia - N.d.a] dove le proprietà e le persone


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erano cosa sacra per noi, una bontà malintesa e senza mezzi di repressione, compagnie d'una forza sproporzionata con quadri insufficienti, una stampa senza freno che disconsiderava i buoni, esaltava le incapacità e calunniava uomini di cuore i quali meritavano sostegno e incoraggiamento, un'inerzia senza pari in chi aveva obbligo di adoperarsi a rettificare l'opinione pubblica, languidi e freddi bollettini, deplorabile silenzio sui fatti d'armi più importanti, che parve tendesse a nascondere al paese gli sforzi coraggiosi e patriottici dei suoi figli; eccole, a mio credere, donde debbonsi derivare le cagioni dissolventi dell'esercito; non già dall'Austriaco, il quale non può vantarsi di una sola vittoria, e il quale stupito e dubbioso si meraviglia di trovarsi nuovamente sulle rive del Ticino. Spesso si parla di tradimento: ma questo non ha mai esistito davvero che nelle teste di coloro, i quali bramano e suscitano la discordia per poter giungere più facilmente ad un fine colpevole.

Parole molto dure: ma certamente non valeva la pena di privare l'esercito piemontese del suo generale più valido - e di ricorrere a uno sconosciuto straniero che non conosceva l'esercito, il terreno e il nemico - solo per un peccato sia pur grave di opinione. Le rimanenti relazioni mettono sovente in luce - come fa lo stesso Bava - gli inconvenienti derivanti da: - cattivo funzionamento del quartier generale, mancanza di carte topografiche, scarsa rapidità della trasmissione degli ordini ecc.; insufficiente addestramento, indisciplina, scarsa motivazione delle riserve e loro ritardato afflusso; disciplina troppo blanda e male amministrata; cattivo funzionamento dei Servizi logistici, con pesanti riflessi non solo sul morale, la salute e la disciplina delle truppe, ma anche sulla condotta de1le operazioni, ritardate spesso dalle esigenze di distribuzione del rancio; carente addestramento di campagna (in particolare la fanteria non era in grado di adottare la formazione in "ordine sparso", indispensabile sul terreno coperto de1Ja Lombardia). Molto esauriente e ricca di proposte la relazione del principe Ferdinando di Savoia Duca di Genova, comandante della 4' divisione7 • Forse perché protetto dalla sua appartenenza alla famiglia reale, egli fa un'affermazione che non si trova da nessun'altra parte: quando partimmo per la guerra, andavamo a combattere per una causa la quale era grande e generosa se si vuole, ma affatto opposta a tutti i principi in cui eravamo stati allevati. Tutti sanno che l' esercito da noi era stato sempre educato ai principi monarchici. Ad un tratto si cambia la forma del governo, ed eccoci a combattere per ·,.

ivi, Vol. I pp. 235-317.


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sostenere l'insurrezione contro una potenza che ci era stata amica, per andare ad appoggiare principi repubblicani. Codesti principi non potevano a meno, poco alla volta, di diffondersi, durante la guerra, anche presso di noi. Si aggiunga che il vedere quanto poco conto si facesse e dell'esercito e dei servizi che esso rendeva, da coloro stessi che si succedevano al governo, non era fatto per animarci. Fino a che si andò avanti, lo stimolo a distinguersi, il proposito di fare onore alle armi piemontesi, l'entusiasmo, insomma, che era in tutti partendo, faceva tutto dimenticare. Ma era da aspettarsi che, se la fortuna si cambiava ai nostri danni, quelle idee (sopite finché durava il successo) si sarebbero destate e avrebbero disanimati e intiepiditi molti, senza che con questo, però, divenissero capaci di tradimento, come affermavano i nostri fratelli. Coloro che conoscono bene l' esercito, sono convinti che tradimento non vi fu; quantunque non si possa negare che nel periodo dei rovesci quelle idee fossero, in parecchi, una cagione di accasciamento, la quale di necessità doveva influire sull'animo del nostro soldato. Il nostro governo ebbe un gran torto. Invece di gridare guerra, di provocare l'Austria, mentre non faceva nulla per l'esercito, avrebbe dovuto tenerlo pronto a combattere, portare avanti gli ufficiali più attivi e di talento e negli ultimi tempi cambiare anche alcuni dei capi, troppo lontani per il loro modo di pensare dalle idee attuali. Solo dopo aver fatto tutto questo, poteva dichiarare la guerra. T1 Savoia ritiene che per il momento, in previsione della prossima entrata in guerra, non sia il caso di cambiare l'ordinamento fondamentale dell'esercito; si dichiara però a favore del principio "pochi ma buoni", cioè di un esercito composto da "soldati d'ordinanza" (cioè quelli a ferma lunga di 8 anni) e da provinciali; questi ultimi però dovrebbero fare tre anni di servizio (anziché 14 mesi) in fanteria e genio, e 5 in cavalleria e artiglieria, cioè nelle Armi a cavallo. Se ci fosse bisogno di fare appello a tutte le risorse del Paese, potrebbero essere mobilitati dei battaglioni di guardia civica mobile, " bene organizzati e frequentemente esercitati", che sarebbero migliori di quelli del momento, perché ne farebbero parte anche molti uomini che per la prima fase della guerra sono stati arruolati come provinciali. Si dovrebbe inoltre trovare il modo di avere buoni sottufficiali, "la qual cosa ora è veramente disperante, perché non si sa dove prenderli". In quanto ai volontari, essi sono utili solo se arruolati nell'esercito permanente; il comportamento della compagnia studenti di Torino, che prima combatte bene e poi si distingue per indisciplina, lo dimostra. Sempre in probabile relazione alla sua alta posizione, il Savoia fa un altro apprezzamento ardito: dopo aver lodato le doti militari dei piemontesi doc provinciali e non (superiori - precisa - a quelle dei genovesi e savoiardi), afferma a chiare note che "in Italia non vi sono altri soldati, se non i Piemontesi". Anche le altre regioni d'Italia, come dimostrano le guerre napoleoniche, possono dare soldati che, se ben comandati, se sot-


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topostj a severa disciplina e tenuti lontano da casa loro, combattono con valore: "ma sostengo che esse, ancora.per molti anni, non possono formare truppe organizzate e solide al fuoco, dopo il lungo periodo w pace attraversato, col regime attuale dei vari Stati d'Italia e l'indole naturale dei loro popo1i che li porta a una vita molle, e la sfrenatezza degli innumerevoli scritti che circolano sotto gli sguarw di tutti". Per questo all'inizio della guerra non ci si doveva illudere sul possibile apporto degli altri Stati italiani; ridotta alle sole forze piemontesi, "l'impresa era temeraria, folle se si vuole": tuttavia avrebbe potuto avere buon esito se fosse stata condotta più energicamente, puntando subito su Brescia per tagliare la ritirata alle forze austriache.. In questo senso, la scelta w Carlo Alberto w ritirarsi su Milano è stata la peggiore di tutte: o ci si ritirava dietro il Po o si chiedeva subito l'armistizio. E qui Ferdinando w Savoia, come molti altri ufficiali piemontesi, giudica molto severamente il contegno dei milanesi: "erano troppo cattivi soldati perché ci potessero portare un efficace aiuto" in una causa che pure era loro, ma avrebbero dovuto organizzare a wfesa la città o almeno accogliere bene 1e truppe piemontesi, anziché sparare su dj esse e insultarle. La conseguenza è che, mentre prima si diceva al soldato piemontese che bisognava liberare l'Italia e i fratelli oppressi, quando si riprenderanno le armi le truppe saranno sorde ad appelli del genere, e si combatterà solo per dovere e per l'onore delle armi piemontesi. il principe critica aspramente anche l'addestramento dell'esercito; a parte il fatto che la fanteria era per la maggior parte composta da soldati anziani e ammogliati che non potevano certo dimostrare coraggio sotto il fuoco, si trattava di "un esercito fatto per brillare nelle manovre, per abbagliare col numero, ma non un esercito di guerra; per modo che si sarebbe detto che mai si fosse pensato alla probabilità di una guerra". La maggior parte dei soldati richiamati non conosceva l'uso del nuovo fucile a percussione, che dovette essere loro insegnato operazioni durante; inoltre "la maggior parte di essi non aveva compiuto la benché minima scuola, né di tiro, né di bersaglieri". Invece "la fanteria deve essere esercitata giornalmente nella scuola di tiro [... J un uomo che tiri bene e che abbia confidenza nella baionetta avrà un'immensa superiorità morale, massime di fronte alla cavalleria"_ L' addestramento in ordine sparso e allo sfruttamento del terreno, al momento tipico solo dei bersaglieri, deve essere insegnato a tutti, "perché combattendo in un Paese coperto, come la Lombardia, èonviene spesso che certe posizioni siano attaccate tenendo tutta la truppa distesa in bersaglieri per non provocare troppo gravi perdite". Opinione, questa, largamente condivisa da tutti i relatori, tra i quali basti citare il comandante della 4• divisione generale Federici, secondo il quale la questione riguarda prima w tutto i comandanti: l'or scorsa guerra manifestò di quanta utilità sia l'esercitare le truppe alla manovra dei tiragliatori per buschi t: colline, e non già sulle piazze


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d' armi: che se la servitù della piazza d'arme regolare dimostrò di quanto danno si fosse per il semplice soldato, non vi ha termine per poter spiegare quanto lo fosse per i comandanti dei corpi, i quali avendo dovuto eseguire delle marcie per terreni accidentati, colline etc., perduto talvolta fra di esse l'ordine della marcia, e non avendo mezzi a loro disposizione onde rimettere in ordine le loro truppe, od orientarsi e supplire a tali inconvenienti, non potevano talvolta concorrere, come loro era stato prescritto, al tempo delJ'azione.

Oltre a quello logistico, l'aspetto che dà luogo alle maggiori lamentele è l'organizzazione e il funzionamento dello Stato Maggiore. Sempre per il Savoia, "il genio militare e lo Stato Maggiore erano in quantità affatto insufficiente. Lo Stato Maggiore mancava di carte; ed i suoi ufficiali, assai abili disegnatori per la maggior parte, non erano però stati mai esercitati nel loro speciale servizio". Questo inconveniente - notiamo noi - è di ascendenza jominiana, perché legato alla sopravvalutazione dell'importanza della geografia e del suo influsso sulla strategia (Val. I, cap. ll). Esso risulta in particolar modo dalla relazione del Capo di Stato Maggiore della 3· divisione maggiore Somis, secondo il quale, anche se gli ufficiali di Stato Maggiore hanno dimostrato coraggio, amor proprio, impegno negli incarichi loro affidati, non vi ha dubbio che il Real corpo di Stato Maggiore non ha potuto rendere tutto quel servizio che l'armata aveva il diritto di aspettarsi, perché gli ufficiali di quest'arma (sic) sono ignari affatto della formazione dei vari corpi dell'esercito, non che dei loro servizi e loro discipline, ignoranza che loro non si può imputare a delitto ma bensì se ne deve incolpare chi ne aveva il comando, il quale sempre ne volle fare dei topografi, e non mai dei veri ufficiali di Stato Maggiore; quindi è che messi in contatto con questo, o con quell'altro corpo inspirassero poca confidenza, non conoscendo essi il loro linguaggio tecnico, i loro bisogni per gli alloggi, e cose simili, che a primo aspetto paiono di poca entità, ma che però la truppa di linea le dà una grande importanza.

A questo si aggiunge un altro aspetto negativo messo in luce anche da altri, e non solo di quel tempo: i conflitti di competenza tra organi operativi e organi logistici, dovuti a una regolamentazione non sempre chiara8• Scrive il Somis: non riconosco io nella gerarchia militare che due soli principi, cioè quello che comanda e quello che deve obbedire; quindi è che non vi può, né vi deve essere nessuna altra transazione di sorta, non preghiere, non invito[ ... ] e tutto ciò io dico perché appunto ciò.succede da parte del signor Intendente generale d'armata, il quale dà ordine

Si veda anche, in merito, P. Botti, La logistica (Cit.), Vol. 1 Cap. 1 e Vl.


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ai commissari capi di fare tale o tal'altra cosa f... ] e siccome poi è certo di trovare opposizione per parte del Capo di Stato Maggiore della divisione [come era il Somis stesso - N.d.a.] all'esecuzione di quanto irregolarmente si ordinava, esso s~gnor Intendente invita poi o prega il signor generale comandante la divisione a voler compiacersi d'annuire a quanto viene da lui ordinato[... ]. Ciò che si dovette sempre accondiscendere per non incagliare l'andamento generale del servizio.

La commissione istituita dal Ministro del1a guerra Dabormida per valutare i rapporti e dedurne opportune proposte migliorative (la cui anima è l'architetto e scrittore Carlo Promis, esperto di storia della fortificazione e uomo di Carlo Alberto, anche se non - militare), non può che recepire in massima parte i-rilievi prima esaminati9, a cominciare dalla cattiva organizzazione dello Stato Maggiore e della logistica (sulla quale anzi calca la mano), dal cattivo reclutamento, addestramento, vestiario, equipaggiamento della fanteria, dalla cattiva disciplina anche dei Quadri, dall'eccessivo numero di richiamati poco motivati e addestrati, ecc .. La disciplina viene definita dalla commissione "incredibile", e tale da

"perdere l'armata". Essa ha le sue radici soprattutto in una organizzazione che la rende impossibile, nei colpevoli desiderii di tanti ufficiali, che per dispetto o per smodate brame politiche volevano il male della Patria (per bassa vendetta o per farne loro pro), nelle viziose istituzioni giudiziarie che impediscono la subitaneità delle punizioni, quindi in una bonarietà indicibile che non dando utili esempi sin da principio, aumentò siffattamente il numero dei colpevoli d'ogni grado, da superare in breve quello degli onorati e· degni. Né poco vi concorsero i nostri alleati d'ogni nome, pei quali la disciplina era cosa ignota affatto [ ... ]. La disciplina è virtù delle istituzioni e dei capi, ma non potrà mai maturarsi in soldati di 14 mesi di servizio, ed è inutile lo inculcarla quando il vestire stesso degli ufficiali è tutto giorno una perpetua infrazione di essa, quando i soldati rifiutano palesemente sino il saluto ai superiori.

Un'altra critica di fondo della commissione riguarda la preparazione e la mentalità dei Quadri. Gli ufficiali delle Armi non dotte non hanno la cultura militare di quelli francesi, prussiani e di altre nazioni. L'avanzamento per anzianità rende inutile lo studio, e "sin'ora l'ufficiale studioso era piuttosto maleviso che lasciato in pace dai capi supremi, e tra essi quei pochissimi che andavano studiando l'arte della guerra erano astretti a celare ai compagni il loro sapere per sfuggirne i dileggi; la propria ignoranza è allegramente confessata da molti giovani, e purtroppo nei fatti da molti

..

Relazioni e ruppurtìfirwli sulla cumpagrw del 1848 (Cit.), Vol. III pp. 385-455.


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vecchi". All'accademia militare l'arte della guerra viene richiesta e insegnata con troppa superficialità; l'ignoranza, poco dannosa per un semplice tenente, continua anche negli alti gradi, e la storia dell'ultima campagna "ne porge terribili esempi". Mancano le scuole superiori; e "non tutti certamente gli ufficiali superiori e generali possiedono un trattato militare, o sanno orientarsi sopra una carta topografica, o conoscono la combinazione delle tre Armi, o possiedono gli elementi della fortificazione di campagna". Dai rapporti si deduce che pochi generali sanno impiegare 1' artiglieria e sanno fare sapiente uso di quella libertà d'azione che "è virtù sovrana nei capi di secondo e terzo ordine, giacché i programmi di una operazione militare non sono mai letteralmente eseguibili in faccia al nemico". Sono stati mantenuti in servizio, senza sostituirli prontamente, ufficiali "inetti o mal parlanti", e ciò ha dato motivo di disprezzarli e di sparlare. Tant'è vero che i soldati, reduci in Piemonte sul finir di luglio e sul principio di agosto, dicevano apertamente di averne licenza od a voce ed in iscritto dai loro capi, dicevano che alcuni di essi li avevano esortati ad andarsene e ne citavano i nomi. Narra il tenente generale Dt: Sonnaz [comandante del Il corpo d'armata - N.d.a.] (24 luglio) che 4 battaglioni della brigata Pinerolo, da lui mandati per tempo a contrastare il passo al nemico a Salionze, andarono invece a Mozambano, non per timore, o fame, o stanchezza, ma a ciò indotti dalle mene dei partiti estremi, ed intanto di cosl infame delitto non fu neppur fatta parola.

La mancanza di un piano di campagna e, in genere, la scarsa preparazione anche morale della guerra e la sua cattiva condotta sono un altro aspetto sul quale la commissione si sofferma particolarmente. Un popolo deve conquistare prima la sua indipendenza, e poi la sua libertà: "la promiscuità di queste due imprese è fatale, la loro inversione è follia": invece cosl è avvenuto durante la guerra. I soldati degli altri Stati italiani "pochissimo giovarono e nocquero assai", dando soprattutto perniciosi esempi d'indisciplina. Si lasciò campo libero alla stampa, la quale diffuse notizie false e tendenziose che seminavano discordie e nuocevano alla disciplina e al prestigio della leadership. Per esigenze politiche si è cercato di proteggere il territorio della Lombardia anziché operare liberamente, e lasciare che si difendesse da sé stessa; infine "per non eccitare lagnanze negli abitanti presso al Mincio, poeo dediti alla n~stra causa, furono risparmiate le spie del nemico e astretti i soldati agli stenti e al bivacco". "Gravissima trascuranza" è stata quella di non predisporre un piano di campagna; "l'epoca sola della guerra poteva e doveva (anni addietro) essere ignota, la maniera di condurla non mai". Eppure si avevano in mano parecchi elementi per intuire il piano del nemico ... La campagna venne condotta nell' incertezza; la fortezza di Peschiera, che avrebbe dovuto essere subito attaccata, lo fu dopo due mesi; facendo il gioco del nemico ci si


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attardò nell'assedio di Mantova; si condussero operazioni dallo scopo poco chiaro come la "sanguinosa passeggiata mii itare" di Santa Lucia; non si pensò a fortificare né Goito né Valeggio, e nemmeno la naturale via di ritirata per Cremona, Pizzighettone e Piacenza. Riassumendo, secondo la commissione le cause principali dei disastri sono state cinque: 1° pessima organizzazione dell' armata e sue conseguenze;

2° indisciplina; 3° mancanza di unità di comando, di un piano di guerra e di gran parte dell'occorrente in ogni ramo del servizio; 4° poca attitudine di alcuni Ufficiali superiori e di alcune Armi;

5° circostanze politiche, le quali valsero bensì a cagionare ed avviare la guerra, ma in realtà ne impedirono il libero andamento lii riferimento è ai rapporti con il Governo lombardo, che condizionano le decisioni strategiche - N.d.a.].

Il crudo linguaggio dei militari e della stessa commissione a così breve distanza dagli avvenimènti e quando la guerra all'Austria non è ancora conclusa, non può non stupire il lettore di oggi: che cosa chiunque altro avrebbe potuto dire di più sui difetti dell'esercito piemontese? Difetti tali, da richiedere lungo tempo per essere eliminati: gli eventi successivi lo dimostrano. Le relazioni sulla seconda fase della campagna (marzo 1849)

Anche per la seconda fase della campagna conclusasi nel marzo 1849 il Ministro nomina una commissione d'inchiesta incaricata di accertare le cause della sconfitta di Novara, la quale chiede ai principali comandanti delle relazioni e le riassume criticamente. Nel complesso tali relazioni sono assai meno esaurienti di quelle relative alla prima parte della campagna, e riguardano particolari della condotta delle operazioni oggi di ben scarso interesse. Oltre che sulla relazione quella del "genera! maggiore" Chrzanowski (d'ora in poi Chr.) 10, giova soffermarsi su quella del citato tenente generale Ferdinando di Savoia Duca di Genova comandante della 4• divisione (unità che si distingue sul campo). 11 Lo Chr. elenca una serie di fattori negati vi: insoddisfacente morale delle truppe, loro indisciplina e risposte evasive del Ministero alle sue proposte per ristabilirla, perduranti e forti carenze logistiche, cattive con-

10 11

·

Relazioni e rapporti/inali sulla campagna del 1849 (Cit.), pp.1 -23. ivi, pp. 299-351.


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dizioni dei reparti di fanteria sia a causa dei troppi ufficiali di recente nomina non all'altezza del grado, sia per l'incorporazione nelle unità di un' aliquota eccessiva di reclute inesperte e di richiamati con famiglia. In particolare egli ricorda che il 7 gennaio 1849 ha dichiarato al Consiglio dei Ministri che la maggioranza degli ufficiali e soldati era contraria alla guerra e avrebbe combattuto solo per senso del dovere: [... ] pesava sull'animo del soldato il ricordo delle sofferenze e dei rovesci sul Mincio. Egli non poteva dimenticare le penose vicende della difesa di Milano e gli oltraggi che vi aveva dovuto subire il Re. Egli non ignorava che, abbandonato da tutti gli altri Stati italiani, il Piemonte si accingeva a intraprendere una lotta disapprovata dal resto d'Europa. Infine i partiti che agitavano tutta l'Italia avevano diffuso anche nell'Esercito il germe delle loro idee esagerate e delle loro cieche passioni.

Per rimediare a queste gravi lacune occorreva tempo: lo Chr. si era dichiarato perciò contrario a una ripresa sollecita della guerra, come era nelle intenzioni del Governo (che improvvidamente, per esigenze politiche pensava a riprendere la campagna addirittura in gennaio o febbraio, in pieno inverno e con gravi disagi aggiuntivi per le truppe). Solo dopo aver eliminato le lacune logistiche - egli afferma - sarebbe stato possibile iniziare la campagna; in ogni caso, aveva indicato come data accettabile la seconda metà di marzo. Lamenta, poi di aver ricevuto solo il 13 marzo un messaggio telegrafico spedito da Torino fin dal giorno 8, che gli confermava la denuncia dell'armistizio per il 12 seguente. Oltre a ciò, a tale data nonostante le promesse del governo, permanevano in gran parte le lacune da lui denunciate, inconveniente che non ha mancato di· far sentire i suoi effetti alla ripresa delle ostilità. In una situazione siffatta, lo Chr. ha pensato di dare le dimissioni, perché "estraneo al Paese, ero stanco di lottare da due mesi, solo, con le mie obiezioni contro la passione che trascinava le parti politiche, la stampa, il Parlamento, il Governo e lo stesso Re verso una catastrofe disgraziatamente fin troppo probabile". Ma poi ha receduto dal suo proposito, avendo ritenuto che le mie dimissioni, date propriò all'inizio della guerra, sarebbero state accolte sfavorevolmente dall'esercito e avrebbero nuociuto all'immagine internazionale del Paese, accrescendo la baldanza del nemico, e sarebbero state considerate dallo stesso esercito come un argomento in più contro una guerra ormai non più evitabile. Lasciando il comando avrei ancor più aumentato la confusione, e questo avrebbe potuto fiumi accusare di essere la causa della demoralizzazione dell' esercito. Infine, ho creduto che il carattere cavalleresco e generoso del Re e la grande fiducia che mi dimostrava, rendevano per me doveroso non abbandonarlo in uu momento simile.


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Riguardo alla strategia da seguire, affenna che il 17 febbraio aveva rappresentato al Ministro due possibili linee d'azione: una temporeggiattrice e l'altra mirante a ricercare una battaglia decisiva. In quest'ultimo caso, però, se venivamo battuti tutto era perduto per noi, mentre anche in caso di nostra vittoria, per ottenere la debellatio del nemico, date le sue risorse sarebbe stato necessario affrontare altre battaglie. Il Ministero ha risposto che si doveva tentare il tutto per tutto, mirando a sconfiggere rapidamente il nemico. La sconfitta di Mortara viene da lui attribuita soprattutto alla mancata difesa delle posizioni della Cava presso Pavia e al mancato invio di informazioni da parte del generale Ramorino. A proposito della definitiva sconfitta di Novara, invece, getta pesanti dubbi sul comportamento e sulla volontà di combattere specialmente de11a fanteria: la condotta della fanteria durante la battaglia ebbe un'impronta tutta particolare. I battaglioni non fuggirono per nulla, come sarebbe accaduto se tra di essi si fosse diffusa la paura; i soldati se ne andarono lentamente senza affrettarsi. Essi secibravano piuttosto agire in seguito a un partito preso. Trascinati per un islante in avanti, i battaglioni avevano l'aria di ricordarsi che non si dovevano affatto battere. Vi sono stati certamente degli esempi di devozione tra gli ufficiali e soldati, ma la massa era quella che io ho descritto. A causa della sua composizione e organizzazione la fanteria aveva poco spirito di corpo, scarso spirito militare e scarsa disciplina, di modo che il dominio delle personali opinioni vi prevaleva e dettava la condotta da tenere. La maggioranza degli ufficiali e soldati, quantunque per cause diverse, era contraria a questa guerra, e poiché aveva poco ardore per la causa, si è debolmente battuta.

Secondo il generale Ferdinando di Savoia Duca di Genova, la superiorità dell'esercito piemontese, che sulla carta poteva contare su 140.000 uomini, era solo apparente. La 6· divisione e la brigata d'avanguardia erano al confine con la Toscana, quindi troppo distanti per giungere sul teatro di guerra alla ripresa delle ostilità. La 2' divisione di riserva aveva uotnini atti solo a fornire delle guarnigioni; restavano 5 divisioni e una di riserva, per un totale di circa 70.000 uomini. Detraendo da essi 1e reclute, i soldati più anziani, i malati ecc., il Savoia arriva a soli 42.000 uomini effettivamente disponibili per combattere, cifra esagerata in difetto (il Pieri ne calcola 55.000) 12 la quale tuttavia confenna che l'esercito piemontese non superava certo, per numero, quello austriaco. Per il resto egli cerca di difendere le scelte strategiche dello Chr. [a sua volta scelto dal nonno Carlo Alberto - N.d.a.], il quale a suo giudizio fino a Novara non ha sbagliato affatto: la responsabilità dei rovesci è di chi non ha eseguito i suoi ordini, a cominciare dal generale Ramorino che si è ritirato

1 2.

P. Picri, Op. cit., pp. 280-282.


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dalla Cava, non ha fornito informazioni e non ha contrattaccato. Gli errori dello Chr. a Novara hanno, comunque, poco influito sulla nostra sconfitta; dopo tutto dal 1848 al 1849 la preparazione dell'esercito ha fatto dei progressi e molti difetti sono stati corretti. Perciò "del mal esito dell'impresa, che i miei compagni d'arme e io avevamo annunciato con entusiasmo, credo che a nessun altro se ne possa attribuire la causa, che al partito, il quale mentre da una parte ci spingeva alla guerra, dall'altra cercò di disorganizzare la nostra armata". La condotta delle truppe a Novara "fece vedere che la nostra rovina era scritta nei disegni della Provvidenza; la quale [... ] aveva permesso che le ire dei partiti sfiduciassero i prodi soldati, i quali nel 1848 avevano combattuto e sofferto senza mai macchiare il nome piemontese". Una crisi morale insomma, alla quale si aggiunge come nel 1848 "la mollezza dei superiori tutti, che non seppero punire gli abusi, che si lasciarono trascinare da un falso principio di carità e non pensarono che un esempio dato oggi impedisce domani cento delitti". A riprova di queste gravi affermazioni il Savoia elenca tutta una serie di episodi, ma respinge l'accusa che la guerra è stata sabotata dagli ufficiali aristocratici, pur ammettedo che la riscossa era invisa a molti di coloro che i democratici chiamavano codini: si osservi quali furono i corpi che lasciarono più soldati sui campi della Bicocca e di Mortara, e si vedrà che non erano certo quelli i cui ufficiali si vantavano di essere democratici. Si consideri quali furono i corpi che nello sbandarsi dell'armata mantennero intatta la disciplina, servirono anzi a reprimere gli altri; e si vedrà che i granatieri Guardie, la cavalleria e 1' artiglieria - i cui ufficiali erano denominati siccome codini - non ebbero a vergognarsi di simili disordini. Si osservi finalmente che ]a divisione dell'armata, che lasciò più gente sul campo, ed ebbe meno sbandati nella ritirata, fu la 4·"; per la ragione che essa aveva passato l'armistizio nel novarese, ove non era stata corrotta, e che fra i suoi ufficiali non si contavano che ben pochi democratici. La commissione 13 non accetta la tesi dell'esistenza di un vero e proprio partito che ha mirato a disorganizzare l'esercito, anche se si sono verificati episodi che potrebbero farlo pensare. Esclude perciò che - come lasciano intendere lo stesso Chr. e Ferdinando di Savoia - a Novara vi sia stato in parecchie unità una sorta di tacito accordo per non combattere, anche se i colonnelli comanda.,ti, interpellati dal Ministro a fine 1848, riferirono tutti essere gli ufficiali pronti al loro dovere per sentimento d'onore; quanto ai bass'uffiziali scrissero quasi unanimemente essere male idonei; essere inetti alle armi molti fra i nuovi ufficiali promossi;

u.

Relazioni e rapporti finali sulla campagna dei 1849 (Cit.), pp. 575-719.


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essere esausta l'ordinanza [cioè i soldati volontari o di leva a lunga ferma di otto anni - N.d.a.]; desiderare i provinciali Lcioè i soldati di leva a ferma breve di 14 mesi - N.d.a.], e più le riserve, troppo vivamente di restituirsi alle loro case; riuscire infruttuosi tutti gli sforzi per stabilire la disciplina, mancare a ciò la severità e la prontezza dei castighi per mollezza degli uditorati di guerra; molti fra quelli che ebbero qualche licenza essere o tardi o non più tornati; essere frequenti le diserzioni all'interno. Si lamentavano seduzioni di partiti sulla bassa forza, influenze di corrispondenze coi parenti, rappresentanti iniqua la guerra per suggestioni religiose [cioè per sobillazione del clero - N.d.a.] e per avversione ai Lombardi, risentimenti per umiliazioni alle quali l'armata veniva sovente assoggettata per debolezza del Governo, e fuvvi anche chi scrisse non potersi garantire che la truppa passerebbe il Ticino. Generalmente però scrissero essere a sperarsi che ognuno avrebbe fatto il suo dovere, ma di volontà pochissimi ne parlarono, e di entusiasmo tutti si tacquero.

Parole estremamente significative, quanto finora trascurate: se lo strumento era questo ... Almeno nell'ottica odierna, la commissione ha perciò torto a deplorare che i comandanti di reggimento non abbiano risposto "con franchezza" e che le loro parole siano state " poco esplicite": ha invece pienamente ragione a deplorare che il governo, influenzato dalle correnti "interventiste", non vi abbia dato l'importanza che meritano. Non si vede, infatti, come si possa incominciare con ragionevoli prospettive di successo una guerra sia pur giusta (e necessaria al più presto possibile ma solo dal punto di vista politico), quando oltre alle carenze logistiche e organizzative che riguardano in primis la fanteria, il morale dei Quadri e delle truppe è in queste condizioni, e lo stesso Chr. non ha fede nella vittoria... Riguardo alla strategia, la commissione rileva che il piano dello Chr. di agire sulla direttrice Novara-Milano era stato bocciato nell'ottobre 1848 - quando era appena giunto in Italia - da una commissione presieduta dal gen. Bava (con la quale aveva concordato il governo allora in carica), ma era stato da lui riproposto dopo la nomina a general maggiore, benché egli stesso ammettesse che rispondeva a ragioni politiche più che militari. Secondo lo stesso Chr. il piano questa volta era stato approvato dal nuovo governo, che - come si è visto - gli avrebbe prescritto una guerra breve e decisiva; secondo i Ministri, invece, egli era stato lasciato libero di decidere la strategia più opportuna. Ne nasce, dopo Novara, un'aspra diatriba tra lo Chr. e i Ministri Chiodo, Carlo Cadorna (fratello del generale Raffaele Cadorna) e Tecchio, su11a quale, tuttavia, la commissione senza prendere posizione dà torto ai Ministri, anche nel caso che essi avessero lasciato libero lo Chr. di agire come credeva. Infatti risulta, dalle cose esposte, che il piano di campagna fu determinato piuttosto a norma di ragioni politiche che non delle militari . 1.:he


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quantunque di quelle fosse giudice competente soltanto il Ministero, questo, tuttavia, ne lasciò l'arbitrio al generale, mancando alla sollecitudine che doveva apportare nella determinazione del concetto della guerra; e che infine i Ministri e il generale si resero solidamente responsabili del piano di campagna messo in esecuzione.

Ciò premesso, la commissione pur dichiarandosi (un po' pilatescamente) incompetente a giudicare la condotta strategica della campagna, fa allo Chr. due addebiti fondamentali: a) aver inviato a custodire le fondamentali posizioni della Cava proprio la divisione Ramorino che era la meno affidabile, non averne controllato l'operato, non aver ricercato con sufficiente impegno informazioni sul nemico, specie all'inizio; b) non aver colto le occasioni favorevoli che pur si sono presentati anche nella infausta giornata di Novara. Le conclusioni della maggioranza della commissione sono abbastanza equilibrate, e - pur contestate da uno dei membri, l'avvocato Lanza, e naturalmente dallo stesso Chr. - sono lungi dall'attribuire a quest'ultimo la più pesante responsabilità della sconfitta: agli errori fatti dall'antico governo, nella viziosa organizzazione data all'esercito e nella trascuranza della soda sua istruzione, si aggiunsero quelli del nuovo, che per la soverchia estensione dategli, sproporzionatamente ai mezzi, ne peggiorò la costituzione. La scissione politica del paese, le imprudenze e le insinuazioni di tutti i partiti, le tristi rimembranze e le impressioni dell 'esito della prima campagna, esercitarono una funesta influenza sullo spirito della truppa 1... ]. L'armata divenne avversa a questa guerra, per le circostanze fra le quali aprivasi. Il Ministro L..• ] non curò abbastanza di conoscere e di pensare i mezzi di riuscita dell' impresa militare. Il generale quantunque conscio della loro debolezza, non dichiarò abbastanza esplicitamente al Governo l'imprudenza della deliberazione che stava per prendere e ~i fece condottiero di una guerra ineguale, prevedendone un esito infelice. La condotta della guerra fu improvvida, non meno che la sua deliberazione L... 1. L'esercito fu privo d'appoggio, e in seguito di ritirata [...l. Mancò di continuo la conoscenza delle mosse del nemico; mancò, dal punto capitale delle prime posizioni assegnate all'esercito, una divisione, per colpa del suo generale; fuvvi imperizia o non sufficiente solerzia in alcuni altri capi dell'armata; il generai maggiore non seppe far concorrere tutte le forze dell'esercito; non seppe, specialmente a Novara, afferrare le occasioni favorevoli ....

Nella sua "Dichiarazione relativa alle conclusioni prese dalla comrnissione"14 il Lanza ritiene necessario approfondire maggiormente una serie di

·'

ivi, pp. 721 -729.


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questioni, ponendo una serie di pesanti interrogativi che potrebbero aggravare le responsabilità dello Chr., adombrare il suo tradimento e, al tempo stesso, accreditare le voci sull'esistenza di un partito - non si sa se repubblicano, assolutista o austriaco - che avrebbe tentato di dissuadere il soldato dal combattere, anche con volantini sovversivi. Gli interrogativi più pregnanti sul comportamento del Chr. sono due: perché non ha dato le dimissioni visto che prevedeva un disastro, e perché pur avendo avuto notizia da diverse parti che intorno a Magenta e al Naviglio Grande non vi erano truppe austriache, si è deciso ugualmente a iniziare l'offensiva dal-· l'alto Ticino verso Milano. Comunque sia, v'è da concordare con la commissione quando afferma che si .è trattato di un concorso di cause, "ognuna per sé gravissima", del quale la sconfitta "fu la logica conseguenza". Queste cause - notiamo noi emergono chiaramente, tra le righe, non solo dal lavoro della commissione ma anche dalle relazioni: di tutto, quindi, i militari e i membri civili della commissione possono essere accusati, meno che di reticenza. Più di tanti trattati le relazioni esaminate mettono in evidenza le vere caratteristiche del1' esercito piemontese, e le vere cause della sua sconfitta. Secondo la communis opinio di oggi, quello piemontese del 1848-1849 è un esercito di caserma che nelle grandi linee segue il modello francese: ma se certe sue forme sono senz'altro tipiche dell'esercito di caserma, è innegabile che lo strumento che scende in campo nel 1848 - e ancor più nel 1849 - dà larghissimo, anzi eccessivo spazio alle riserve e ai richiamati a breve ferma, con ciò avvicinandosi assai di più al modello prussiano. Richiamati e riserve - e qui sta il punto - sono però a giudizio unanime poco addestrati e motivati: se ne deduce che, purtroppo, l'armata sarda riproduce di ambedue i modelli i difetti, più che i pregi. Se a questa fisionomia organica e addestrativa di base si aggiungono le carenze della leadership, le forti carenze logistiche e la contrapposta superiorità della leadership austriaca, non c'è bisogno di andare tanto lontano per individuare le principali cause dei rovesci, che pertanto sono essenzialmente militari. Attribuire le sconfitte al fatto che buona parte degli ufficiai i erano nobili (cosa peraltro inevitabile, data la composizione della classe dirigente del tempo) sarebbe improprio; si può invece affermare fin d'ora che l'esito della guerra non rafforza certo la fiducia dell'intera ufficialità piemontese nelle nuove correnti democratiche e nelle forze insurrezionali, né la spinge ad apprezzare maggiormente il modello prussiano. Per non parlare dei volontari, dei quali si riconosce il valore, ma non la capacità di battersi in campo aperto con truppe addestrate, e si bolla l'indisciplina... Tre altri fattori di base avrebbero meritato una maggior considerazione da parte dei relatori e delle commissioni: a) la mancanza di affiatamento, di fiducia e conoscenza reciproca tra i" comandanti di grado più elevato, tra questi e il comandante in capo, e tra quest'ultimo e l'autorità politica, che si fa sentire soprattutto nel 1849 e nel caso dello Chr., sconsigliando per


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questa sola ragione la sua scelta; b) l'infinita serie di inconvenienti e disservizi che nasce da una consolidata caratteristica del modello francese, quella cioè di costituire solo all'emergenza le divisioni operative (con relativi Comandi e organi logistici), i Comandi di corpo d'armata operativi, l'Intendenza dell'esercito e i relativi organi direttivi e esecutivi; c) le pesanti responsabilità di Carlo Alberto, che vuol comandare, si impegna, si espone fin troppo di persona, ma non ha la stoffa del Capo e peggiora di molto la situazione, anche con la scelta degli uomini. Questi vuoti nel giudizio conclusivo della commissione non sono evidentemente casuali, ma hanno un preciso significato: salvare fin che possibile la figura di Carlo Alberto - quindi anche l'immagine della monarchia - dalle polemiche e dalla valanga di accuse anche lra generali. Un esame approfondito delle decisioni strategiche adottate dal Comando, che la commissione omette deliberatamente di compiere, non avrebbe infatti potuto evitare di coinvolgere direttamente Carlo Alberto, quali che fossero le colpe dei subordinati; in ciò che osserva la commissione sembra invece che egli non intervenga mai, che non decida mai nulla, che non faccia sentire la sua influenza, anche se l'allusione alla mancata unità di comando e al ripiegamento su Milano nell'agosto 1848 in qualche modo lo chiama in causa. Ciò non toglie che le responsabilità e lacune maggiori vadano individuate nella preparazione e non nella condotta. Per costituire Comandi di livello elevato, organi logistici ecc. efficienti, ci vuole tempo: e a parte l'influsso negativo delle circostanze politiche e di altri fattori prima citati, quale solidità e quale forza combattiva poteva avere uno strumento con Comandi improvvisati, nel quale i reggimenti dell'Arma base avevano ricevuto le reclute e le riserve (peraltro poco o nulla addestrate) mentre già erano in marcia per raggiungere la zona d'impiego? o uno strumento che nel giro di qualche mese cambia sei o sette Ministri della guerra, e rimaneggia gli organici della fanteria nel modo descritto dal Pieri? 15 dov'è nel 1848/1849 la · disciplina dura, inumana e repressiva, che dopo il 1945 molti hanno attribuito all'esercito piemontese? ha fatto più danni la rigida disciplina, o ]a sua mancanza? Molto ci sarebbe da dire, infine, sul comando dell'Esercito, affidato in ambedue i casi a persone non adatte e senza prestigio. Il Salasco era solo un esecutore di ordini; dello Chr. si può dire anzitutto che non credeva nella vittoria, e come si può vincere se il Capo è il primo a non avere fiducia? Tutto il resto, era secondario: nel 1850 bene ha fatto dunque il Ministro La Marmora a contestare questo fatto allo Chr., facendogli osservare che avrebbe dovuto dimettersi16 •

" 1 •·

P. Pieri, Op. cit., pp. 279-280. Lettera in data 17 aprile 1850 (Relazioni e rapporlijinali sulla campagna del 1849, pp. 810-811).


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La difesa di Carlo Alberto, dei nobili e dell'ufficialità piemontese negli scritti di Carlo Promis Secondo l'Art. 5 dello Statuto il re era comandante supremo delle Forze Armate piemontesi; al tempo stesso era irresponsabile degli atti di governo, dei quali erano responsabili solo i Ministri. Mancando uno Stato Maggiore dell'Esercito nel senso attuale del termine, la responsabilità primaria dell'organizzazione dell'Esercito e della condotta strategica delle operazioni nel 1848-1849 competeva perciò al Ministro della guerra. Nella prima fase della campagna le operazioni sono state dirette da Carlo Alberto. Nella sfortunata ripresa delle operazioni del marzo 1849 il generale Chrzanowsky, con il titolo di "generai maggiore" dava gli ordini a nome del re, assumendone la responsabilità; anche in questo caso, però, le prerogative costituzionali del re e del Ministro rimanevano invariate. Ne consegue che Carlo Alberto ha sempre avuto sulle scelte strategiche fondamentali una primaria influenza; né è credibile che lo Chr., notoriamente un suo uomo, abbia preso le decisioni strategiche fondamentali senza l'assenso del re, il cui "non intervento" assumeva anch'esso il preciso significato di un tacito assenso. Rivestono, pertanto, particolare interesse le annotazioni giornaliere scritte da Carlo Alberto in francese durante la prima fase della campagna, la cui traduzione in italiano e pubblicazione viene curata da Carlo Prornis, cioè dallo stesso influente segretario della commissione di inchiesta a lui devoto. Questo fatto dice già molto sull'impostazione del lavoro, che vede la luce nello stesso anno J848 a cura della Stamperia Reale, senza indicazione del!' autore e con il titolo Memorie ed osservazioni sulla guerra d'indipendenza d'Italia raccolte da un ufficiale piemontese. A causa dell'aperta opposizione del Ministro della guerra Daborrnida alla sua diffusione e dei successivi ripensamenti di Carlo Alberto, il libro viene ritirato dalla circolazione a fine 1848 e rimane per il momento pressoché ignorato. Nel 1849, al termine della seconda fase della campagna, ne compare una seconda edizione a cura di un editore privato, comprendente anche le considerazioni sugli eventi del marzo che hanno portato a Novara, con l'aggiunta al titolo della frase "cui fan seguito quelle del 1849 - con note" 17 e curate secondo alcuni dal capitano di cavalleria Gabriele Massimiliano Ferrero del 1° reggimento Savoia Cavalleria. ~ s~condo altri (in minoranza) dal maggiore di Stato Maggiore de Bartolomeis. Viene definito da Piero Pieri "il libro del re", perché riporta il punto di vista e le giustificazioni di Carlo Alberto. Lo stesso Pieri osserva che sulle responsabilità del Comando Supremo "non dice nulla o si mostra reticente"18; giudizio non del tutto condivisibile, prima di tutto perché più che di una traduzione, si tratta di una rielaborazione nella quale si sente "· "

Torino. Fantini e C . 1849. P. Pìeri. Op. cii., p. 837.


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alquanto la mano del compilatore, ed è comunque difficile distinguere tra il pensiero di Carlo Alberto e quello del compilatore stesso. Se da una parte le evidenti responsabilità del re vengono assai sfumate e nella seconda fase del 1849 la sua figura e la sua influenza sembrano scomparse, dall'altra qua e là compaiono aperte critiche al suo operato, magari nei documenti successivamente allegati non si sa bene a qual fine. Per stabilire con certezza assoluta la parte avuta dal Promis, occorrerebbe disporre degli appunti originali di Carlo Alberto in francese della prima edizione 1848, che non ci è stato possibile rintracciare. Ad ogni modo i contenuti del libro dimostrano che il Prornis vi ha avuto un ruolo assai maggiore di quello che egli stesso ha voluto far apparire, e che gli accreditano taluni studiosi. Per la parte riguardante la campagna del 1849, va inoltre tenuto conto che essa non è stata rivista da Carlo Alberto (già in esilio) come la precedente, e che molto probabilmente proprio nell'edizione del 1849 sono stati aggiunti taluni allegati. Va quindi accolta la tesi del Foà e del De Marchi, secondo la quale il Promis non ha solamente tradotto e ordinato il materiale, ma lo ha anche corretto e ampliato19 ; noi aggiungeremmo, ampliato in senso non sempre favorevole a Carlo Alhcrto. Tn proposito, da annotazioni anonime e manoscritte alla copia dell'edizione 1849 esistente presso la Biblioteca Militare Centrale dello SME risulta che: - fino a pag. 214 l'opera è stata compilata da Carlo Promis su appunti di Carlo Alberto, e costituisce l'edizione 1848 poi ritirata dalla circolazione; - da pag. 215 a pag. 272 sono stati inseriti, nel 1849, " documenti inediti" [da chi? dall'editore? - N.d.a.l, cioè la relazione Durando e i cenni - non firmati - sulla ritirata del generale Aix de Sommari va; - da pag. 273 fino a pag. 394 si esaminano gli avvenimenti del 1849. Nella prefazione il Promis prende spunto dal coraggio dimostrato da Carlo Alberto esponendosi al fuoco n_e lle prime linee, per respingere senz'altro l'accusa di tradimento che pende sul suo capo. E sempre nella prefazione spicca la sua polemica contro il governo lombardo, i milanesi e i repubblicani, "tremebondi faziosi che sempre e soprattutto nel giorno del 4 agosto [1848] ci lasciarono soli contro gli Austriaci, che tumultuarono quando non v'era pericolo, fuggirono alla vista di poche baionette, poi fatti animosi dal saperci pazienti spararono bravamente alle nostre spalle!". Chiamano vili e traditori noi piemontesi - prosegue il Prornis - che con tanto irnpetd siano iiCCorsi a liberare e difendere i fratelli lombardi, che abbiamo profuso nell'impresa tanto denaro e tanto sangue, che abbiamo fornito i Quadri e gli istruttori per tutti, e gli eserciti che quasi da soli hanno sostenuto il peso della guerra ... ' 9·

G. Dc Marchi, Noie sloriche sulle "Memorie e osservazioni sulla gue1Ta d'indipendenza d'Italia nel 1848 raccolte da un ufficiale piemontese"' di Carlo Alberto, secondo dornmenti inediti de/l 'archivio Promis., in "Rassegna Stonca del Risorgimento" 1942, pp. 405-42~.


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Il testo inizia attribuendo l'impreparazione e l'insufficiente mobilitazione dell'Esercito piemontese alla sorpresa provocata dalla caduta in Francia di Luigi Filippo e dalle cinque giornate di Milano. Questi eventi imprevisti interrompono i provvedimenti appena iniziati per mettere l'Esercito sul piede di guerra [ma altri provvedimenti avrebbero potuto essere adottati molto prima! - N.d.a.] e costringono Carlo Alberto a dichiarare subito la guerra entrando in Lombardia: vista l'impreparazione piemontese a fronte della potenza austriaca, questo era un atto d'audacia. Subito dopo si accusano i delegati del governo provvisorio lombardo (che si presentano a Carlo Alberto a Pavia) di ignorare la perdurante forza del nemico e la debolezza piemontese, dimostrando di avere uno smisurato concetto delle conseguenze della vittoria dei milanesi nelle cinque giornate e "ponendo come cosa conseguente e ovvia che non vi sarebbe vera indipendenza né si potrebbe dir terminata la guerra senonché dopo conquistata l'Italia non solo, ma benanche la Da1mazia''20. I tanto criticati indugi dell'Esercito piemontese nell'avanzare oltre il Mincio e nel porre l'assedio alla piazza di Verona sono attribuiti alla necessità di completare le divisioni con le reclute lombarde e in genere, di perfezionare l'organizzazione dell'Esercito: "da ciò vedesi che il Re non solo non perdè pure un giorno, ma che anzi poteva essere tacciato di temerità a mettere in opera simili elementi". Però la stampa - si afferma non ha compreso queste esitazioni, e non ha fatto che spargere malumori e indisciplina tra le truppe, con giudizi infondati frutto solo di ignoranza dei rudimenti dell'arte della guerra da parte dei giornalisti: credevano che le mura di Mantova e di Verona si potessero abbattere coi fucili dei volontari; predicavano l'opinione pubblica tener luogo di scienza militare, soffiavano tra i Lombardi l'astio contro i Piemontesi; lagnavansi dapprima che ai Piemontesi soli fosse dato di poter combattere gli austriaci onde tutta loro ne fosse la gloria, poi se il Re faceva affrontare i Lombardi, o se Romani e Toscani combattuti da più forte nemico dovevano cedere, quello era tradimento, eran perdite condotte ad arte [... ]. Concordemente gridavasi che l'esercito doveva entrare nelle province venete, né si badava al fine cui sarebbe riuscita un'operazione cosl piena di rischi e che non avendo nessuna probabilità di buon successo, avrebbe infallentemente rovinato l'esercito italiano e con esso la causa da lui solo difesa. 21 Alla battaglia di CttStoza del 26 luglio 1848, evento cruciale che volge la prima fase della guerra a sfavore delle armi piemontesi, è dedicato dal Promis lo stesso spazio del combattimento preliminare di Staffalo (23 luglio), pomposamente chiamato "battaglia" ed esaltato oltre misura, mentre invece, come osserva il Pieri, è "un brillante ma illusorio successo", frutto 20 Memorie e osservazioni... p. 3. · "· ivi, pp. 59-60.


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di "un'azione slegata e condotta con forze insufficienti", che per di più illude gravemente Carlo Alberto sulle possibili linee d'azione del nemico, preparando la sconfitta di Custoza22 • Quest'ultima viene attribuita non a difettoso concentramento e coordinamento delle forze e a errata valutazione delle mosse nemiche, ma alla stanchezza dei reparti e all'arrivo imprevisto di rinforzi austriaci, come se in ciò non vi fossero responsabilità del Comando. Responsabilità che appaiono evidenti, là ove si afferma che "mentre noi da parecchie ore combattevamo venne al Re una lettera del generale Sonnaz che annunciava come non avrebbe condotto all'attacco di Valeggio senonché alle sei di sera le sue truppe, tanto erano spossate": ma questo non poteva, non doveva essere previsto prima? non erano stati presi, prima, gli accordi? La decisione del re di recarsi a difendere Milano dopo la sconfitta di Custoza, unanimamente criticata, viene giustificata premettendo che quella allora in atto non era una guerra tra soli eserciti, nella quale i popoli erano considerati unicamente come fonte di sostegno logistico: se tale fosse stata, era evidente che un movimento solo rimaneva a farsi all'esercito piemontese, ritrarsi oltre il Po e il Ticino, e dietro queste due fortissime linee fluviali difendere il confine dello Stato antico. Ma diversissimo era il caso nostro: andati come fratelli a soccorrere e difender fratelli che avevano scosso il giogo straniero, noi dovevamo compiere il nostro assunto, mantenere la nostra parola sino alla fine: non potevamo ritirarci su Piacenza se non coll' abbandonar Milano senza un combattimento, senza una capitolazione che mitigasse la vendetta degli Austriaci. Come Piemontesi eraci evidente l'unica via ragionevole di salute nel passare i due fiumi di frontiera; come Italiani sacrificammo la parte al tutto, la provincia alla Nazione; e ne avemmo pur troppo quella riconoscenza che tutti sanno23• Noi osserviamo, però, che lo stesso re si dà la zappa sui piedi, quando nel proclama del 7 agosto 1848 afferma che, costretto alla ritirata dopo Custoza, aveva deciso di difendere Milano "persuaso di trovarla provvista abbondantemente"; ma una volta disposto l'esercito a difesa sotto le sue mura, "ebbimo ad apprendere che si difettava colà di munizioni da bocca e da guerra, mentre le nostre erano state in gran parte consumate nella battaglia datasi ivi subito dopo il nostro arrivo. Concorreva ad aggravare la nostra condizione che il gran parco era stato incamminato verso Piacenza [da chi e perché? - N.d.a], né potea farsi retrocedere perché erano intercette le vie dal nemico". Ciò equivale a dire che un ordine di portata decisiva era stato impartito sulla base di una semplice speranza, senza conoscere la reale situazione della città. Non è compito elementare di un comandante e/o di un

22 ·

P. Pieri, Of. cit., pp. 241-242.

"

Memorie e osservazio11i ... p. 83.


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Comando verificare la fattibilità di un'opzione operativa anche dal punto di vista logistico, tanto più che essa nel caso specifico riguardava l'intero Esercito? e perché era stato fatto ripiegare il gran parco d'artiglieria ancor prima di decidere la linea d'azione da seguire dopo Custoza? Carlo Alberto afferma che dopo la ritirata dal Mincio avrebbe voluto difendere la linea dell'Adda: ma l'ingiustificata ritirata della 1' divisione dalla posizione di Grotta d'Adda, solo perché gli austriaci protetti da una batteria avevano iniziato il gittamento di un ponte in quella località, spezza in due la linea di difesa e lo costringe a rinunciare al progetto: eppure quel generale disponeva di due delle migliori brigate, di tre batterie e tre squadroni di cavalleria...24• Un episodio gravissimo che viene riferito senza alcun commento; né risulta che siano stati presi provvedimenti contro il comandante di quella di visione, generale Aix di Sommariva, al di là della sua sostituzione nei giorni successivi. La giustificazione della decisione di quest'ultimo in una lunga relazione allegata alle Memorie e osservazionf-5 si trasformano in un atto d'accusa all'operato del Comando piemontese da Custoza alla resa di Milano, con aperte critiche anche allo stesso Carlo Alherto e a talune valutazioni del generale Bava, comandante del I corpo d'armata e superiore diretto del generale d' Aix di Sommariva. Non si capisce perché la relazione - che porta la data del 1° settembre 1849 e quindi non. è stato certo vista da Carlo Alberto - sia stato allegata a un testo che avrebbe dovuto essere (almeno secondo la communis opinio degli studiosi) autodifensivo, visto che l'abbandono di propria iniziativa delle posizione di riva destra dell'Adda e il ripiegamento su Piacenza vi sono giustificati dal d' Aix asserendo che: - è stato un errore prescegliere come possibile linea difensiva quella dell'Adda, che richiedeva una lunga e difficoltosa ritirata su terreno privo di appigli, e con il nemico ormai alle calcagna; - sarebbe stato opportuno invece passare subito il Po a Casalmaggiore, 'e di lì lungo la riva destra del fiume, le cui sponde erano entrambe in possesso dell'esercito piemontese, raggiungere Piacenza; - la linea dell'Adda era indifendibile; comunque la posizione più idonea per difenderla era Pizzighettone con l'appoggio di Piacenza; a causa della preminenza della riva di sinistra, la posizione di Crotta d'Adda favoriva l'azione dell'artiglieria austriaca e rendeva inefficace quella nostra; la ritirata è stata decisa anche perché [contrariamente a quanto afferma Carlo Alberto - N.d.a.J le forze della divisione erano scarse; 24

zs

ivi, p. 82. Cenni intorno alla ritirata dalla linea dell'Adda a Piacenw eseguita dalla prima divisione dell'esercito piemontese sotto gli ordini del generale d'Aix di Sommariva (relazione non firmata in data 1° settembre 1849, pp. 252-271 delle Memorie e osservazwm).


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- decidendo d'iniziativa la ritirata, il comandante ha ritenuto di interpretare al meglio le intenzioni del Comando Supremo, che almeno all'inizio, a suo giudizio, erano quelle di ritirarsi su Piacenza; delle sue intenzioni comunque ha avvertito il comandante del corpo d'armata generale Bava. Quest'ultimo, giunto sul posto, ha approvato l'ordine di ritirata del generale d' Aix; - il generale Bava "ha preso un abbag1io" affermando di aver visto a Cornovecchio "una parte della brigata Aosta, tutti gli equipaggi e una grande quantità dell'artiglieria" in ritirata. La brigata Aosta era invece ancora ferma sul posto; - la ritirata dell'Esercito dopo Custoza è avvenuta nel massimo disordine, perché era demoralizzato e stanco: "ora io domando se era da pretendersi che quella sola divisione [cioè quella che doveva difendere Crotta d'Adda - N.d.a.] fosse per isfuggire a questo universale avvilimento, a questa orrenda demoralizzazione a cui tutte le altre truppe soggiacquero"; - perciò, se il generale d' Aix avesse voluto condurre le sue truppe "inutilmente al macello contro la mitraglia austriaca, o farle morire di fame, di sete, di caldo e di stento tenendole in cordone lungo quella parte dell'Adda, come si era divisato", ci sarebbero state forti opposizioni e difficoltà; - in ogni caso non è vero che, come afferma il generala Bava, l' abbandono senza resistenza di Grotta d'Adda, che trascina con sé quello dell'intera linea, ha illuminato il maresciallo RaMtzk:i sulla vera situazione dell'esercito piemontese. Il modo disordinato e caotico con cui avviene la ritirata, che si trasforma in una vera fuga, è stato più che sufficiente per dare al maresciallo un'idea esatta della capacità combattiva residua dell'esercito piemontese; non si comprende perché una decisione "cosi avventata, così vitale pella salute dell'esercito" come quella di difendere Milano, "sia si adottata senza discuterla, senza neppure consultare i generali per udire le loro ragioni pro e contro, indi passarla ai voti e porla in esecuzione, se approvata dalla maggioranza, come usano tutti i capitani, e come usò sempre lo stesso Re in contingenze meno pericolose, meno decisive"; - data la collocazione geografica della città ecc., la decisione del re di difendere Milano appare inesplicabile; "molti fatti posteriori però avvalorano il sospetto che una tal mossa gli sia stata suggerita per aver poscia il destro di prendere il pretesto della mancanza di munizioni per gettar sopra i suoi abitanti la colpa di non aver saputo difenderla, e se questo potesse avverarsi, non si potrebbe attribuire a questa perfidia altra cagione che la smania di comprimere i moti repubblicani suscitati dalla debolezza e dalla sconfitta, mentre la vigoria e la vittoria gli avrebbe raffrenati da prima, poscia col tempo estinti";


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"a suo tempo vedremo che le medesime posizioni di Casalmaggiore, che dovevano servire da perno alla mossa retrograda dell'esercito piemontese nel 1848, eran quelle medesime che avrebbero agevolato le sue mosse offensive nel 1849; mosse che se avessero progredito di conserva con quelle della squadra che dominava l' Adriatico, il tricolore nazionale vessillo avrebbe sventolato a fianco dell'ungarica bandiera, e cosi avremmo spinti sotto le mura di Vienna i guerrieri italiani". La data della relazione, la sua tendenza a abbracciare l'impostazione strategica della guerra e l'ottimismo di quest' ultime considerazioni sulla possibilità di giungere fino a Vienna fanno pensare che oltre al generale d' Aix di Sommariva, il Promis non sia stato estraneo alla stesura e alla pubblicazione di questa relazione, certamente non rivista da Carlo Alberto e in palese contrasto con l'impostazione "giustificazionista" del testo del 1848. Dal canto suo, non intendendo entrare nel merito delle decisioni strategiche la commissione d'inchiesta non si occupa di questi fatti, pur lamentando il mancato apprestamento di difese sulle linee dell'Oglio e dell'Adda e in particolare la mancanza di "un'opera di defilamento a Crotta d'Adda, per moderare l'effetto del dominio della sponda sinistra del fiume". Stranamente mancano dai documenti presentati alla commissione e pubblicati nel 1908-1910 il rapporto del comandante della brigata Aosta e quello dello stesso Aix di Sommariva; quello del comandante delJ'altra hrigata della divisione, generale Trotti, non si sofferma su un episodio così importante (cosa che la commissione, molto lodandolo, mostra di non notare)26 • Infine il capo di Stato Maggiore della l' divisione maggiore Giustiniani si limita a riassumere - senza aver l'aria di farle proprie o giustificarle - le valutazioni del generale Aix de Sommariva. 21 Sembra quasi che si voglia stendere un velo di silenzio sull'operato del generale d' Aix; solo il generale Bava nella sua relazione descrive con ricchezza di particolari l'episodio. Avuta notizia dallo stesso generale d 'Aix che intendeva ritirarsi su Piacenza senza resistere, allarmato si reca immediatamente sul posto, "e con molte difficoltà mi venne fatto di giungere sino alla brigata Regina [al comando del generale Trotti - N.d.a.]. Mi informo di quanto accadde, e mi si risponde che il nemico ba già passato il fiume, cosa che pure era annotata a matita sulla citata lettera del 1° di agosto, e che le nostre truppe sono in ritirata su Piacenza". Di fronte al fatto compiuto, il generale non può che fare buon viso a cattivo gioco, perciò si limita a dire al generale Trotti di eseguire l'ordine di ritirata, curando solo di rallentarla per consentire lo sgombero di Pizzighettone e Codogno. A fronte di questi fatti e delle parole del Bava, risultano ben chiare le responsabilità del d' Aix e la tendenziosità della relazione, nella quale si

26·

Relazioni e rapporti finali sullo. campagna del TR4R (C,it.), Voi. Il p. 220.

v

ivi, Voi. I pp. 192-193.


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cerca in ogni modo di distrarre l'attenzione dalla decisione che gli viene contestata, con critiche alla condotta generale della guerra e giudizi ai limiti dell'ingiuria. Abbandonare senza autorizzazione preventiva una posizione ancor prima che inizi il combattimento, giudicandola senz'altro indifendibile, è cosa da sempre contraria alla disciplina. Nella fattispecie, la posizione era difendibile con difficoltà, non indifendibile; potevano almeno essere difesi - da posizioni più arretrate - gli sbocchi dal ponte. Né è vero che la posizione era di scarsa importanza perché l'Adda poteva essere passata dagli austriaci in più punti: sta di fatto che proprio lì hanno gittato un ponte, il che ha pure un significato. Il Pieri stigmatizza giustamente Ja condotta del d' Aix, giudicandola persino più grave di quella del Ramorino, che si era ritirato non perché voleva evitare i1 combattimento, ma perché "ritenne che la mossa austriaca contro la Cava fosse una semplice finta, per celare il vero sforzo in direzione di Stradella, e si portò di sua iniziativa col grosso della divisione da questo lato... " 28• Per la verità il Pieri critica anche il Bava, perché non si sarebbe recato di persona sul posto e non avrebbe parlato con il d' Aix: ma al punto in cui erano ormai giunte le cose, con la divisione in ritirata, a cosa sarebbe servito? La relazione che difende l'operato del d'Aix di Sommariva è comunque importante per due ragioni: perché è indicativa del clima di scarsa armonia e affiatamento che regna tra i generali di grado più elevato e tra questi e il re, e perché contiene valutazioni tali da far pensare, e da avere grande influsso anche in futuro. Una di queste è la marcata esaltazione del valore strategico della piazza di Piacenza, tale da precorrere i tempi e da anticipare uno dei temi salienti del dibattito sulla difesa dello Stato dal 1861 in poi (Cfr. successivo cap. Xl): Piacenza, quasi limitrofa ad Alessandria, di fianco a Milano, non molto discosta da Parma e Modena, bagnata dal principal fiume della penisola, e situata quasi al lembo estremo dei domini sardi, quasi a contatto con la Lombardia, non meno che col Genovesato, poteva e doveva essere fortificata, o perlomeno fortemente presidiata, perché la sua posizione strategica l'avrebbe posta in grado di poter formare l' appoggio della difesa dell'Adda, e il nucleo di quella del Pò; facile il soccorrerla, facile il vettovagliarla per terra e per acqua, poteva diventare la piccola Gibilterra del Regno dell'Alta Italia, che non poté essere costituito perché più in bontà che in energia spiccava il campione sceso in campo a propugnarne i destini [cioè Carlo Alberto - N.d.a.]. Quella città poteva essere posta in stato di difesà e controbilanciare l'importanza della fortezza di Mantova, nido nel quale l'Austriaco si rintana al primo imperversare di nemica fortuna in Italia.

Nell'evidente intento di alleviare le responsabilità del re (intento che peraJtro raggiunge solo in parte), il libro dà grande importanza alle contin-

"

P. Pieri, Op. cit., pp. 255-256.


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genze internazionali sfavorevoli che, specie negli ultimi tempi della guerra, nuocciono gravemente alla causa piemontese. La Francia lascia sperare il governo di un suo intervento a favore del Piemonte, ma alla prova dei fatti accampa continui pretesti e avanza richieste esorbitanti dal punto di vista finanziario. La flotta piemontese, superiore a quella austriaca, quando quest'ultima si rifugia a Trieste sotto la protezione delle batterie costiere è costretta a desistere da ogni azione offensiva contro la città, perché interviene la dieta della Confederazione germanica dichiarando che Trieste è parte integrante del territorio germanico, e che quindi considera qualsiasi atto di guerra contro la città come atto di guerra contro la intera Germania. Costituisce un valido e fondamentale appoggio alla causa dell'Austria anche l'enciclica del Papa contro la guerra e il ritiro da Torino del Nunzio vaticano, mentre i reggimenti austriaci, la cui forza ·si era notevolmente ridotta, con il probabile consenso dei rispettivi governi sono rafforzati da soldati bavaresi e badesi. Inoltre la politica degli altri Stati italiani danneggia l'azione dell'Esercito piemontese, ben presto lasciandolo solo a combattere contro gli austriaci. Come tutta l'ufficialità piemontese, anche l' autore del libro accusa il governo provvisorio lombardo di essere agli ordini di Mazzini, di perseguire una politica di dannosa autonomia dal Piemonte, di spargere voci calunniose contro il re e i piemontesi e di amministrare in modo caotico e disonesto le cose della guerra, dilapidando molti fondi senza peraltro garantire al Piemonte né un valido concorso di truppe né quel sostegno logistico che fu sempre assente o carente, e che pure rientrava nelle possibilità del paese: ciò è forse dovuto anche al sabotaggio di taluni impresari rimasti al soldo degli austriaci. Particolarmente dure sono le critiche al contegno degli insorti della Repubblica di Venezia e ai volontari toscani. Le truppe della Repubblica erano numerose ma poco addestrate, mal disciplinate e con ufficiali poco validi: quindi hanno consentito agli austriaci di distogliere dall' assedio di Venezia gran parte delle loro truppe per inviarle contro l'esercito piemontese, "la qual cosa non sarebbe accaduta, qualora il numeroso presidio di Venezia fosse stato composto di veri soldati e abili campeggiatori"29 • Le truppe toscane - composte in prevalenza da volontari - si sono battute bene a Curtatone e Montanara, ma poi si sono ritirate commettendo gravi atti d'indisciplina che hanno attirato su di loro l'ostilità e il biasimo delle popolazioni. Il cattivo contegno delle truppe volontarie toscane fornisce l'occasione per elencare puntigliosamente i difetti delle truppe volontarie, tali che nessun buon capitano, niuna savia repubblica antica o moderna li ha voluti mai, seppur non fosse (e ben di rado) per guerre che si sapessero rapide e sicure; ebber volontari sì, ma sparsi nelle truppe e non in corpi

29 ·

Merrwrie e osservazioni (Cit.), p. 143.


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distinti, od almeno militarmente disciplinati: e l'esperienza prova che nessun vero conoscitore dei doveri militari può durare a lungo a capo dei volontari, e siano pur valenti. Sventuratamente, nei paesi poco armigeri, e soprattutto in Italia ove sola provincia militare è la piemontese, queste verità non solo paiono paradossi, ma ingiurie e calunnie contro i martiri della libertà[ ... ]. Vogliono i frutti dell'ordine e della disciplina, ma in nome della libertà non vogliono né l'uno né 1' altra"30 • In proposito, alle Memorie e osservazioni è allegato anche un rapporto in data 15 agosto 1849 sulle operazioni dei volontari lombardi in Tirolo dirette dal generale Giacomo Durando, èhe vi viene continuamente elogiato (per inciso, tale rapporto manca nelle citate Relazioni e rapporti finali sul 1848). L'autore (lo stesso Durando, o il Prornis?) non crede né nelle possibilità dei volontari, né nella guerriglia. Del1e truppe volontarie critica soprattutto la tendenza a lasciare improvvisamente le armi, quando per una qualche ragione politica o militare non approvano più la condotta delle operazioni. Questo difetto capitale rende impossibili sia le operazioni offensive che quelle difensive, perché il comandante non è mai in grado di conoscere su quante forze può contare, e per quanto tempo. E riguardo alla guerriglia, quando dopo l'armistizio dell'agosto 1848 il Durando si sta ritirando verso Bergamo respinge il progetto mazziniano di continuare la guerra facendo insorgere la Valtellina, perché avendo fatto durante dieci anni la guerra in Spagna e Portogallo, era convinto, all'opposto, che tale genere di guerra non è sostenibile in Italia per ragioni di carattere nazionale, di bastarda civiltà, di mancanza di tradizioni, di costumi opposti, e né anco per la natura, per le condizioni agricole, e la configurazi9ne e ossatura del terreno. Politicamente parlando poi, era evidente che tale impresa era un'ostilità manifesta al Piemonte, come quella che aveva per mira di far prevalere nella rigenerazione italiana il principio repubblicano al principio monarchico-costituzionale. I giudizi sugli alleati, sui volontari e sulla guerriglia completano un mosaico, nel quale si riesce a far concorrere nel modo migliore ciascun tassello all'attenuazione delle responsabilità di Carlo Alberto; ciò vale anche nel caso dell'armistizio del 9 agosto 1848, per il quale a coloro che lo ritengono "dannoso e oltraggioso al Piemonte e all'Italia" si obietta che sia gli ufficiali che la truppa non intendevano battersi ancora per una causa nella quale non credevano più: gli ufficiali "adducevano vari motivi onde ottenere permessi e ritirarsi, i soldati si sbandavano in tal numero, che in un giorno, sotto gli occhi del Re che era a Vigevano, un solo reggimento di Casale contò seicento disertori... ". E, dopo tutto, sempre secondo l'autore '°· ivi, pp. 120-121.


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con l' annistizio il Piemonte ha ottenuto anche dei vantaggi. Forse perché dovuta a una "mano" diversa da quella del Promis, la parte del libro - molto più breve - dedicata agli avvenimenti del marzo 1849 è assai meno "giustificazionista" della precedente, con severi giudizi che non possono non intaccare anche la figura di Carlo Alberto, a meno di ritenerlo una presenza ininfluente al campo e un passivo spettatore delle decisioni politiche_ Vi acquistano particolare rilievo elementi già emersi nelle relazioni, come la troppa fretta con cui si decide di entrare in campagna, l'impreparazione materiale e soprattutto morale dell'Esercito piemontese, gli errati presupposti sui quali si basa il piano dello Chr_, la sua incertezza iniziale e i suoi errori, a cominciare da quelli di assegnare la difesa della vitale posizione delJa Cava proprio alla divisione più debole, e di non intervenire con rapidità quando si profila la minaccia austriaca da Pavia. In questo quadro, mentre Radetzky riuniva in sé tutti i poteri civili e militari e aveva potuto formare ed educare i generali e l'esercito a suo modo, Chr. era. solo uno straniero che non conosceva l'esercito, e che "aveva forse più ostacoli da vincere sul campo, che a fronte dei nemici [...Jera generalissimo a fianco di un re poc'anzi generalissimo egli stesso, per cui credo che di duce supremo il nome avesse, non altro" [quindi, il vero responsabile era il re?- N.d.a.]. I capitoli di gran lunga più interessanti sono gli ultimi due (IV e V}, perché in essi si trovano giudizi riassuntivi che riguardano anche il 1848 e stupiscono per la loro gravità, facendo a pugni con quelli della prima parte del libro. Le cause della sconfitta - si afferma - non vanno attribuite a errori strategici o fattori tecnico-militari, ma hanno matrice essenzialmente politica: ciocché gli spiriti leggeri e superficiali tacciano d'ignoranza, non era forse che il risultato del calcolo, e del calcolo il più profondo, il più premeditato, imposto dal desiderio di frenare la soverchia effervescenza di coloro che, spinti da un eccessivo ardore di toccare la desiderata meta, tanto più se ne allontanavano a misura che raddoppiavano di impazienza per conseguirli [cioè: della fazione repubblicana e delle insurrezioni popolari -N.d.a.]. Quel che si potrebbe asseverare senza timore di venir smentiti, si è che quella stessa mano occulta che preparò i nostri rovesci nello scorso anno a Custoza, fu quella medesima che promosse le sventure di Mortara e N ovara nella recente campagna: il solo divario che corre, a mio credere, dall'una all' altra campagna si è che nella prima le truppe caddero all'insaputa nel laccio ad esse teso dalla diplomazia, mentre che nella breve quanto infelice or ora terminata, molti reggimenti e molte brigate chiaramente disvelarono il loro pensiero di non volersi battere, non dirò per conquistare nuove province al loro sovrano, ma né pure per conservare illeso l'onore del sabaudo vessillo, e la integrità della sabauda monarchia...3 1•

31

ivi, pp. 348-349.


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La causa "primaria, se non la sola", della lentezza delle operazioni dell'Esercito piemontese nel 1848, contraria a ogni buona norma strategica, va ricercata neJl'autentico terrore che il governo aveva del partito repubblicano, da lui temuto più di Radetzky e dei suoi croati: perciò "temendosi ad ogni istante l'esplosione di qualche movimento rivoluzionario, dal quale scaturir potessero gravi pericoli pel regime monarchico", si mantennero sempre le città presidiate e le truppe distribuite in modo da poter velocemente accorrere per spegnere eventuali focolai d'insurrezione nelle principali città_ Agli indugi ed errori strategici si è aggiunta 1' opera dei demagoghi, le cui conseguenze negative sono state aggravate dalla politica dei governi e delle corti, che lungi dall'assecondare il generoso slancio popolare, hanno fatto di tutto "per comprimerlo, per soffocarlo"32 • In ogni caso "gli errori strategici sono stati così madornali", da far legittimamente supporre che vi siano state pressioni e minacce delle potenze europee sul governo sardo, per indurlo a non spingere a fondo l'azione nel Lombardo-Veneto e a non cacciarne definitivamente - come sarebbe stato militarmente possibile - l'esercito austriaco. E' stato un errore non interrompere le comunicazioni dell'esercito austriaco occupando il Tirolo e meglio sfruttando i volontari che colà agivano; si è data troppa importanza a Mantova, invece di organizzare un campo federale a Piacenza, per impedire a Radetzky di tentare un'azione contro Milano e formare nuovi battaglioni con la gioventù accorsa da tutta Italia ... Se la campagna del 1848 è terminata così disastrosamente, ciò ~ avvenuto perché venne con troppa precipitazione intrapresa, con troppo languore perseguita, perché l'esercito ed il Re e la nazione vennero insidiati dalla diplomazia, perché quella guerra era di mal occhio veduta dagli altri potentati, e soprattutto fatta con avversione da molti ufficiali e generali, offesi dal modo indecente con cui vennero senza alcun riguardo calunniati o posti in ridicolo; quindi le intestine discordie, anziché scemare, s' accrebbero, le ire si aizzarono, gli odi i del Medioevo riaccesi, evocata la discordia e le municipali antipatie dei secoli di barbarie e di ignoranza. 33

Anche la campagna del 1849 è stata condotta con la stessa lentezza della precedente, sempre da attribuirsi a pressioni internazionali. Infatti che nel campo piemontese non sieno giunte notizie esatte e positive sul concentramento delle masse austriache sopra Pavia, duro fatica a crederlo, giacché, per quante precauzioni il loro duce abbia usato, non è possibile che da 50 a 60 mila uomini con tanti attrezzi di si potessero muovere di soppiatto, e in modo che non una voce, ma un avviso si facesse strada fino agli avamposti del regio esercito... n. ivi, p. 333. " ivi, p. 363.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. 11 (1848-1870)

Anche ammesso che prima della scorreria fatta su Magenta vi fosse in certezza sulle mosse del nemico, questa doveva cessare una volta constatato che là non vi erano nemici, "quindi non saprei come scusare l'inerzia del quartier generale a fronte di quel gran periglio, in momenti così solenni, così decisivi...". Si prosegue ·dimostrando come e perché sarebbe stato possibile allo Chrzanowsky condurre sia un'efficace difensiva, sia una vigorosa offensiva; e si conclude osservando che l'accumulamento passivo deJJ'esercito piemontese a Novara [dove viene definitivamente sconfitto - N.d.a.] non può essere stato che l'effetto dei consigli di chi voleva perderlo, di chi voleva disonorarlo, contraria essendo la scelta di quelle località a tutte le regole della tattica, a tutti i precetti della strategia... 34•

Alla fine dell'opera si indica la causa remota della fiacca condotta della guerra da parte piemontese nel trattato di Vienna, "che perpetua la guerra, e la più fatale delle guerre, quella che infierisce tra fratelli e fratelli, e tra i sovrani e i loro popoli". Tutte le grandi potenze non vi apportano alcun mutamento se non con il consenso di tutti gli Stati contraenti; se la Francia e l'Inghilterra, inizialmente favorevoli ai moti popolari italiani, hanno cambiato poJitica, ciò è avvenuto perché la affermazione del principio di nazionalità lede anche i foro interessi. La Francia teme per l'Algeria e la Corsica, l'Inghilterra per Malta, le isole jonie e le Indie. I posteri potrebbero chiedersi perclié gli italiani hanno combattuto valorosamente per Napoleone ma non per loro stessi: ma un giorno la storia "frugando nei misteri delle diplomatiche tergiversazioni, svelerà agli occhi del mondo le cause da cui provennero le improvvise rotte, le rapide fughe, le inaspettate defezioni, gli errori volontari e involontari, le calcolate inerzie ...". Lungi dall'essere solamente una difesa del re, le Memorie e osservazioni sono dunque un libro ambiguo, con molte aggiunte al testo sulla guerra del 1848 approvato da Carlo Alberto e dalle molte facce. Se sono esistite delle "calcolate inerzie", se sono stati commessi degli errori, se si è agito sotto la paura dei moti popolari, non si vede perché di questo Carlo Alberto non dovesse essere il primo responsabile: e fino a che punto il Promis condivide certi giudizi, specie nella parte riferita al 1849? L'altra opera dello stesso Promis, le Considerazioni sopra gli avvenimenti militari del marzo 1849 scritte da un ufficiale piemontese (ultimate nell'aprile 184935) è una raccolta di articoli sulla Gazzetta Piemontese e sul Risorgimento, che riflettono finalmente il suo genuino pensiero, e vengono

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ivi, p. 381.

3

Torino, Favale, 1849. Va ricordato che il Promis in data 13 giugno si dimise da membro e segretario della commissione d'inchiesta per dissensi sulla " linea" da essa tenuta, rimanendone peraltro segretario fino al 18 agosto, quando la sua domanda di dimissioni venne finalmente accolta.

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vm - LA GUERRA DEL 1848-1849

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da lui scritti su invito del governo piemontese per rintuzzare le accuse di tradimento e le calunnie all'Esercito riportate con insistenza dalla stampa del tempo. Un lavoro, dunque, ancor più "a tesi" del precedente, tant'è vero che dopo la sua pubblicazione gli ufficiali piemontesi regalano al Promis una spada d'onore con la scritta "al suo difensore, l'Esercito". In questa occasione il Promis, pur attaccando sempre con veemenza l'azione deleteria e il disfattismo dei repubblicani e della stampa, parte da premesse opposte a quelle conclusive del lavoro precedente: non parla di congiure e pressioni internazionali, ma intende dimostrare - con una trattazione che dà assai più largo spazio alla problematica strategica e tecnico-militare che "le nostre militari sciagure furono anzitutto prodotte dai nostri mWtari errori". E mentre nell'ultima parte delle Memorie e osservazioni si vuol mettere in evidenza la debolezza iniziale austriaca nel 1848 e le favorevoli possibilità che si aprivano a una decisa offensiva dell' esercito piemontese, in questo caso si descrivono i progressi fatti dall'Austria per rafforzare le sue posizioni e le ragioni della debolezza piemontese; perciò un ufficiale esperto e capace che avesse esaminato il problema di una guerra all'Austria, " vista la mala organizzazione del nostro esercito, la situazione e poca estensione della nostra naturale base di difesa da Alessandria e Genova, non poteva a meno di dedurne condizioni tristissime"36• Senza contare che, mentre noi abbiamo un esercito solo, l'Austria può metterne in campo quanti ne vuole ... L' Esercito piemontese a metà aprile 1848 varca il Mincio, sconfigge gli austriaci a Goito, Borghetto e Monzambano, a fine maggio prende Peschiera e prosegue su Verona: "ebbene quella nostra temerità fu detta timida pru<ienza". E pur essendo costato molte perdite, il successivo periodo delle operazioni sul Mincio "dai più moderati fu detto una volontaria inazione, dagli altri una colpevole esitanza affinché ne venissero disfatte le truppe". Anche i più dotti ufficiali stranieri hanno negato la possibilità di un' azione nostra oltre il Mincio, con forze così esigue ... Né vale sostenere che Bonaparte con poche forze ha cacciato dalle stesse regioni gli austriaci: "a chi cosl parlava e parla, io chiederei volentieri che mi desse anzitutto un Napoleone, poi un'Austria di sessant'anni fa, poi finalmente un terreno campale pure di quell'epoca; pareggiate le partite, allora la critica sarebbe possibile". Molto diverso anche il giudizio del Promis sulla politica della Francia e dell' Inghilterra riguardo alla nostra causa: esse erano favorevoli all' indipendenza italiana, ma anteponevano e antepongono la pace di tutta Europa alla causa di uno solo dei suoi popoli. Avvenne cosl che "due volte il Piemonte preferl l'Italia a sé stesso, due volte l'Europa preferl sé stessa all'Italia". 37 Il Promis depreca, poi, gli attacchi alla nobiltà piemontese e agli ufficiali nobili; la nobiltà piemontese - egli afferma - diversamente dal patri-

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ivi, p. 20. ivi, p. 70.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

ziato di altre parti d'Italia, ha il merito di essere essenzialmente militare, quindi occupa molti gradi nell'esercito: ciò non significa però che non siano numerosi i generali usciti dalla borghesia, alla quale appartengono anche tutti quelli de] genio e quasi tutti quel1i dell'artiglieria. È possibile che alcuni patrizi non abbiano amato la libertà, "o meglio l'abuso enorme che se ne è fatto"; ma gli avversari della libertà esistono in tutte le classi. Eppure si sono addossate agli ufficiali nobili tutte le colpe: sin dal marzo 1848, nominavano come reo di tradimento questo e quel1'altro ufficiale superiore, raccomandavano la calunnia ai soldati, ed iniziavano quella molteplice discordia che fu causa di tanti mali [ ...].A · voce e a stampa fu predicata l'indisciplina e la diserzione, lodato Io spergiuro, inculcato in tutti i modi che l'esercito deve sempre affratellarsi coi rivoltosi purché repubblicani. In mille modi fu fatto intendere ai soldati che i Joro capi li tradivano, che a bella posta li facevan perire quando feriti o malati, che i viveri eran loro rubati per venderli al nemico, che essi avevano tutta la capacità e gli ufficiali tutta l'ignoranza, e finalmente che una nuova commozione politica avrebbe promosso ad insperati gradi o congedato definitivamente ognuno a piacer suo L... 1Ne accadde che, per la prima volta dacché esiste questo Stato nostro, il Re volle la guerra ed i soldati non la voller più; si vollero le baionette inteJJigenti e purtroppo si ebbero. La moralità dei nostri coscritti, che aveva eccitata l'ammirazione di tutta la Lombardia, . degenerò nel marzo ultimo sin nei delitti di Novara.~8

Nella seconda fase della guerra, nonostante le "sterminate promozioni" che hanno introdotto tra gli ufficiali elementi poco validi e hanno privato al tempo stesso l'Esercito di preziosi sottufficiali, il partito repubblicano "per democratizzare l'esercito e distruggerlo, o farlo istrumento di ribe11ione contro il governo, instava onde ne fossero cacciati tutti gli ufficiali esperti, dotti, provati in guerra, autori dei nostri buoni successi, chiamandoli tutti col comodo vocaboJo di aristocratici"39 • Dopo aver duramente criticato il governo "democratico" per aver voluto nel 1849 una guerra impopolare alla quale l'esercito era materialmente e soprattutto moralmente impreparato, il Promis ironizza sulle affermazioni di coloro, "i quali andavano ripetendo che il popolo insorto avrebbe compiuto ciò che era stato impossibile all'esercito, e salvato l'onore e l'indipendenza del Piemonte e di tutta l'Italia". Quale fosse l'entusiasmo popolare per la ripresa della guerra lo dimostra i] fallimento della mobilitazione della guardia nazionale mobile, nella quale Torino ha fornito solo 111 volontari, alcune province 405 e altre, nessuno.40 Con tutte queste sfavorevoli premesse, e tenendo conto della difettosa organizzazione dell'esercito, il Promis afferma che non c'è da stupirsi se la 38 •

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'°·

ivi, pp. 85-87 ivi, p. 53. ivi, pp. 171-172.


VIlI - LA GUERRA DEL 1848-1849

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fanteria si è in gran parte sbandata, ma invece c'è da stupirsi "che abbia ora [cioè nel marzo 1849 - N.d.a.] e lo scorso anno così fortemente combattuto fra tante cagioni di dissoluzione. Bene bisogna concludere che straordinaria sia da noi l'attitudine militare ..."41 • Queste idee non sono del tutto nuove, perché derivano dai lavori precedenti del Promis: la novità maggiore delle Considerazioni è invece una valutazione assai approfondita degli errori strategici commessi dal Comando piemontese, con correlata indicazione della linea d'azione che avrebbe dovuto essere seguita: tutti elementi che nelle Memorie e osservazioni sono appena abbozzati, e mancano nel rapporto della commissione. Secondo il Promis, la geografia e l'esperienza delle campagne napoleoniche indicano chiaramente in Alessandria il perno delle operazioni offensive e difensive contro un nemico che viene dalla Lombardia, e nella linea Alessandria-Genova la naturale base di operazioni dell'esercito piemontese. Ne consegue che ''una base nostra d' operazioni scelta altrove e segnatamente sulla sinistra del Po e presso al Ticino è erronea, e deve, giusta ogni probabilità, portare a pessime conseguenze"42 • Se l'Esercito piemontese nel marzo 1849 si fosse appoggiato ad Alessandria, avremmo probabilmente battuto gli austriaci, i quaJi peraltro difficilmente ci avrebbero attaccati su questa forte posizione. E visto che la maggior parte della nostra fanteria non era tale da poterla impiegare lontano da una sicura base d'appoggio o di ritirata, quest'ultima non poteva essere che Alessandria. Con l'Esercito piemontese sotto Alessandria gli austriaci non sarebbero entrati in Piemonte; e se vi fossero entrati, avrebbero avuto interesse a venire subito a battaglia. In questo ultimo caso, la battaglia sarebbe avvenuta nelle condizioni più favorevoli per il nostro Esercito; né il nemico avrebbe mai potuto staccarci dalla nostra base d 'operazioni. Tenendo conto che per ambedue gli eser~iti la chiave delle operazioni è data dalle posizioni di Pavia- La Cava, cioè dalla confluenza del Ticino nel Po, noi avremmo dovuto ammassare le nostre truppe, singolarmente sulla Cava, e secondariamente da Mezzana Corte a Ca."tel San Giovanni; entrati in Lombardia avremmo accennato a Montechiari e Mantova contemporaneamente; venuti a battaglia (probabilmente sull'Adda) vincitori saremmo andati sul Mincio; vinti, le truppe in ritirata e i fuggiaschi stessi avrebbero naturalmente ripresa la via di Alessandria come la più breve per restituirsi in sicuro. Colà il campo trincerato e la cittadella ci rendevano probabile una vittoria, sicura una lunga difesa. 43

Invece, osserva il Promis, sia nella prima fase della campagna che nella seconda ci si è lasciati guidare da considerazioni politiche e non strategiche

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1.

42 43

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ivi, p. 50. ivi, p. 32. i vi, p. 109.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. li (1848- 1870)

e ci si è lasciati attrarre da Milano. Ma sull'importanza delle insurrezioni popolari, il suo giudizio è opposto a quello dell'ultima parte delle Memorie e osservazioni: se allora i govèrni retrivi venivano accusati di essere vittime della paura delle insurrezioni e di tentare di soffocare lo slancio popolare, in questo caso ci si trova di fronte a valutazioni opposte. L'insurrezione della Lombardia - afferma il Promis - andava considerata nel piano operativo, ma non era possibile stabilirne il valore. Erano insorte le città, non le campagne; forse sarebbe insorta la montagna, ma le operazioni dovevano essere condotte nella pianura, che non si sarebbe mossa. In tutti i casi, se noi avessimo vinto sul Ticino, gli austriaci si sarebbero ritirati sul Mincio; se avessimo perso, gli insorti lombardi sarebbero stati facilmente eliminati. Il governo piemontese, però, non ha tenuto conto delle condizioni militari e strategiche della guerra, perché gli uomini che lo componevano eran di quelli ora assai numerosi che pongono nella robusta volontà e nella forza del popolo una fiducia illimitata, e senza troppa esitanza ne credono l'azione superiore a quella stessa di un grosso esercito; di quanti la pensano cosl non trovasi alcuno forse che sappia di guerra, ed essi il confessano, e dopo aver detto di non saperne nulla, non solo ne disputano ma ne impongono i piani, dicono quanto si debba fare o no, e come e dove, sempre subordinando le armate alle bande insorte44•

Perciò il governo piemontese considerava l'insurrezione come "nerbo principale della guerra", trascurando che "gli austriaci non si potevan distruggere alla spicciolata, come i francesi in Spagna, ma per battaglie e per assedi, cose impossibili agli insorti; e poi la riuscita e gli elementi delle insurrezioni sono le cose più precarie e incalcolabili che mai".45 È così avvenuto che il piano dello Chrzanowsky nella seconda fase della guerra ha dovuto sacrificare la libera azione strategica dell'Esercito "a certi desiderii, dai quali non potè forse declinare".

SEZIONE Il - Le tesi "alternative": Pinelli, Pisacane, Cattaneo, Balbo Collochiamo in questo gruppo gli scritti di coloro che, per una ragione o per l'altra, non condividono o non condividono del tutto le tesi dei difensori di Carlo Alberto. Tra di essi, le posizioni più estreme sono rappresentate dal Pisacane e dal Cattaneo; di quest'ultimo esamineremo contestualmente il più accanito contradditore, come lui lombardo.

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ivi, pp. 103-104.

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ivi, p. 105.


VIIl - LA GUERRA DEL 1848-1849

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Le considerazioni del maggiore Ferdinando Pinelli nella "Storia Militare

del Piemonte" (1855) Non è senza qualche esitazione che abbiamo collocato l'ufficiale dell'Esercito piemontese Ferdinando A. Pinelli tra coloro che sostengono tesi contrapposte a quelle dei difensori di Carlo Alberto. Capitano nel 1948/1849 e autore degli Elementi di tattica (vds. cap. I e II), quando nel 1855 scrive la sua Storia militare del Piemonte46 è maggiore in ritiro; successivamente richiamato in servizio come generale, si distingue per la sua energia e il suo violento anticlericalismo nella lotta al brigantaggio in Abruzzo. Non mancano nemmeno nel suo libro attacchi al clero e alla politica del Vaticano; per il resto, è fortemente avverso sia ai reazionari, al "partito albertino" e alle sue creature militari (a cominciare da Czarnowsky), sia al partito repubblicano e a Mazzini. Si professa liberale moderato e uomo di centro, che vede nell'unità di tutte le forze nazionali intorno alla monarchia e all'Esercito piemontese, l'unita garanzia per la conquista dell'indipendenza. Le sue critiche, perciò, si appuntano soprattutto su Carlo Alberto e sulla leadership militare piemontese, pur riconoscendo il valore e la capacità di diversi generali e ufficiali. Non ha certo simpatia per le tendenze autonomiste e repubblicane che in un primo tempo sembrano affermarsi sia a Venezia che a Milano; il governo provvisorio lombardo è.bersaglio delle sue costanti critiche, perché anziché mettere a disposizione di Carlo Alberto solide e ben addestrate truppe regolari, per mancanza di Quadri, per scarsa partecipazione della popolazione e per incapacità o disonestà di chi era addetto alle cose militari ha privilegiato la formazione di corpi irregolari e non è stato mai in grado di fornire i rifornimenti necessari all'Esercito piemontese. Ciononostante, riconosce che è giusto dire che più combatterono, nelle province non suddite regie, i parteggianti per la repubblica che gli albertisti, i quali più intrigarono che non pugnarono; e Manin, Cattaneo, Tommaseo, Montanelli e lo stesso Mazzini, molto più oprarono in pro dell' Italia, molto più attivi si dimostrarono nell'eccitar i loro concittadini alle armi, che non i fiacchi fautori della dinastia savoiarda: le forze allestite dai repubblicani certamente tendevano a fini diversi che non quello d'ampliare il regno a Carlo Alberto, ma erano pur sempre armi italiane aggiunte alle piemontesi, per cacciar il Tedesco; molto più efficaci sarebbero riuscite se oprato avessero d'accordo, e certo fu male non fare così; ma pur oprarono.47

Loda perciò Garibaldi che, sbarcato in Italia il 29 luglio, pur essendo repubblicano dichiara di voler servire agli ordini di Carlo Alberto, ricor-

'"

F. Pinelli, Storia militare del Piemonte in continuazione di quella del Sa/u zzo - Vol. (1831-1850), Torino, De Giorgis 1855. "· ivi, p . 400.

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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO -VOL. Il (1&48-1870)

dando che i veri patrioti erano solo quelli che in quel momento, avevano impugnato le armi contro gli austriaci. Male perciò hanno fatto sia i repubblicani, che andavano proponendo a questo o quel generale di mettersi a capo di un loro immaginario esercito, sia il re e i suoi Ministri, che hanno rifiutato i servigi di Garibaldi, proponendogli di andare a Venezia (da loro considerata una sorta di covo o ghetto di repubblicani). In tal modo "Carlo Alberto, ognor temente la repubblicana setta, rifiutava a Garibaldi quel grado che prodigava invece a tanti inetti cortigiani": ma pur ammettendo questo, i1 Pinelli è lungi dall'avere stima delle doti di autentico generale dell'eroe nizzardo e apprezza la sua decisione di rifiutare il peloso consiglio del governo piemontese, e di mettersi agli ordini del governo lombardo quale comandante di corpi irregolari. Era infatti questo l'incarico a lui più congeniale, perché se era prode della persona e dotato di quelle qualità tutte che ad ardito partigiano si confanno, era poi lungi dall'esser un perfetto duce di grossi eserciti, come taluni vollero e vorrebbero ancor attualmente rappresentarcelo; e le sue operazioni nel seguente anno nell'agro romano fche secondo i1 Pinelli avrebbe condotto con avventatezza - N.d.a.J hanno potuto convincere tutti i volenti di esserlo: ma sta sempre che se Garibaldi col prestigio del nome e segmto dalla selvaggia e fantastica sua coorte fosse stato posto a capo dei numerosi partigiani che combattevano nelle gole del Tirolo invece di Durando Giacomo (più parolaio che uomo di guerra [... ]), egli avrebbe potuto rendere eminenti servigi alle armi italiane; costretto invece ad attendere a Milano l'attuazione dei nuovi corpi a lui destinati, egli non entrò in azione che quando le cose d'Italia già volgevano a rovina ...48

Gli riconosce anche doti di ottimo marinaio, che gli avrebbero consentito di impiegare meglio Ja flotta della Repubblica di Venezia; è stata perciò una sventura che non abbia potuto recarsi in quella città, e "che con il suo talento marinaresco che abilitato lo avrebbe a far bella di gloria la Marina italiana, abbia sempre preferito le terrestri battaglie, in cui, eccezion fatta del suo persona! valore, la sua perizia era più che mediocre". Lo difende anche dall'accusa assai ricorrente di aver depredato le popolazioni sulle due sponde del Lago Maggiore e nella zona di Mendrisio; in quei territori di montagna ha dichiarato la guerra per bande, "la sola in cui egli versato fosse", ma non ha trovato l'appoggio delle popolazioni. Quest'ultime di fronte al probabile ritorno in Lombardia del dominio austriaco, "non erano per nu11a disposte ad attirarsi l'ira radetzkiana col favorirlo di vettovaglie, che solo concedevangli previa dichiarazione di cedere alla forza f...]; ma è ormai constatato che[... ] egli limitossi a quelle tolte che il sostentamento delle sue genti rendeva indispensabile".

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ivi, p. 527.


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Non è molto tenero nemmeno con le "milizie improvvisate" che difendono Venezia e Roma, criticando in particolar modo la condotta della guerra da parte della repubblica romana, che mancava di saldi ordinamenti militari e aveva capi militari discordi e refrattari a ogni disciplina. Cosl le cose della guerra sono state lasciate nelle mani di una commissione speciale, che non è stata in grado di dare alle operazioni un impulso uniforme: è questa la solita pecca delle improvvisate armate cittadine: in esse ogni caldo patriota è subito scambiato per capo valente, senza por

mente s'egli abbia la più piccola tintura di militari cognizioni, senza le quali è impossibile ch'ei possa efficacemente contribuire al buon andamento delle cose, perché la vieta massima a cose nuove uomini nuovi, molto contestabile in ogni ramo di pubblica amministrazione, è poi assurda nel comando degli eserciti odierni, ove molto più che valore richiedesi scienza e lunga esperienza nei capi; le quali doti sole ponno porre un generale in caso di neutralizzare i vantaggi immensi che truppe ordinate e disciplinate hanno sopra gente collettizia. Con capi valorosi e capaci queste truppe valgono a sostenere assedi e a difendere le mura d'una patria amata, ed egregiamente diffatti operarono queste in Roma, e quelle non molto dissimili, sebbene più educate a disciplina, del Pepe in Venezia: ma volersi esporre tanto colle une che colle altre all'aperto ed intraprendere strategiche operazioni , è lo stesso che volersi esporre a certa ed inevitabile rovina:•

Certamente non si tratta dei soliti, vieti pregiudizi di un militare di carriera piemontese, ma di un assennato ragionamento tecnico-militare, nel quale si valutano pregi e limiti delle milizie irregolari. Lo dimostrano anche le considerazioni alla fine del libro, a commento della caduta di Venezia a fine agosto 1849, dopo ben diciotto mesi di assedio: nella guerra d'indipendenza 1848-1849, afferma il Pinern, amor del vero mi sprona a confessare che fecero prova di maggiore costanza le milizie cittadine che non le stanziali; e ciò non perché fosse nelle prime maggior valore che nelle seconde, ma bensì maggior convinzione; poiché mentre in esse vivida ardeva la santa fiamma del patrio amore, nelle truppe regolari invece questo sentimento era mal desto, perché dall'azione dei governi frenato ed attutito: del che si ha prova chiarissima ove si rifletta che nell'esercito piemontese negli atti ufficiali la campagna del 1849 non venne già, come ragione vorrebbe, intitolata seconda campagna della indipendenza italiana, ma bensì campagna contro gli Austriaci, quasi che il governo arrossisse del motivo che aveva fatto ricorrere di nuovo alle armi il popolo italiano nel 1849.50

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ivi, p. 971. ivi, pp. 1055- 1056.


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A questo si aggiunga - prosegue egli - ch:e nelle guerre dove è in gioco la libertà delle nazioni, le teste coronate e i nobili pensano più agli interessi propri che al bene comune; e temendo di perdere qualcosa dei loro privilegi, propendono per "le moderate misure, le quali non di rado partoriscono danno e vergogna alle nazioni". Al contrario i Capi popolari, o per nobile disinteresse o per desiderio di possedere quanto loro manca, vogliono una condotta energica della guerra e preferiscono le misure estreme. Con questi presupposti l'approccio del Pinelli è ben diverso da quello della commissione d'inchiesta, il cui operato non è certo da lui presentato in modo favorevole. Gli austriaci - afferma - hanno attribuito la vittoria esclusivamente alla perizia del maresciallo Radetzki, trascurando le molte ragioni che hanno loro facilitato le operazioni. Dal canto loro gli italiani, "secondo l'antica consuetudine, ne cercarono la causa nel tradimento: coloro che più erano in colpa, a tutta gola gridando ai traditori, riversar tentarono sugli altri le conseguenze dei propri errori. Prlncipi, generali, ufficiali, soldati, niuno andò esente dall'atroce sospetto ...51". In questa situazione la commissione, costituita il 3 aprile per "soddisfare le assordanti recriminazioni del partito democratico", benché ne facessero parte "alcuni dei più arrabbiati democratici", dopo inutili tentativi di indagine ha sospeso le sue investigazioni, non si sa ancora se per prudenza o per ragion di Stato. In ogni caso questo so, che fra i membri di detta commissione, gli onesti confessarono che se molti furono gli errori, molta la negligenza di alcuni ufficiali altolocati, niuno però fra i Piemontesi macchiò l'onorata divisa col tradimento: non si tennero però paghi di questa dichiarazione gli arrabbiati, ed attribuir volendo ad altre cagioni la riservatezza di quel consesso, ed inventando, ed esagerando almeno qualche proposito sfuggito ad alcuno dei componenti del consiglio, non rifuggirono dal!'intaccare le reputazioni più belle, più pure: a porre al coperto dalla velenosa lor bava non valsero né il dimostrato valore, né i pericoli affrontati, né il sangue sparso, né la stessa morte incontrata sul campo: e mentre pochi e sterili fiori allietarono la tomba dei Passalacqua e dei Perrone [generali caduti sul campo - N.d.a.], la credula moltitudine rivolse la sua simpatia tutta al solo traditore, al Ramorino, la cui disobbedienza da sé sola meritata gli ebbe la subìta condanna, eppure tale è la cecità dei partiti, che mentre la calunnia dilaniava gli onesti, lui traditore in Polonia prima, e poi due volte d'italiani fratelli, riguardato venne qual vittima all'odio dei regii sacrificata.52

D'altro canto, se Carlo Alberto non ha tradito, ba tenuto un contegno sleale e ambiguo in più di un'occasione. Nel Veneto operavano due eserciti romani, uno comandato dal generale Ferrari di tendenze repubblicane, e

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ivi, p. 9211. ivi, pp. 924-925.


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l'altro dal generale piemontese Giovanni Durando (da non confondere con Giacomo), che pur ricevendo paga e grado dal governo pontificio era più ligio a Carlo Alberto che al Papa. Mentre il generale Ferrari combatteva duramente, il generale Durando con condotta poco onorevole non lo soccorreva e temporeggiava evitando gli scontri con gli austriaci. Secondo il Pinelli Durando era uomo valoroso, e se teneva questo criticabile atteggiamento era solo per compiacere al tempo stesso Pio IX (serbandogli per impieghi interni i reggimenti svizzeri) e Carlo Alberto; quest'ultimo lo aveva circondato di consiglieri di sua fiducia e "con poco senno politico e credendosi più possente di gran lunga di quanto il fosse, desiderava veder ridotti alle strette i repubblicani, acciò nella depressa lor fortuna a lui ricorressero per aiuto e a lui si assoggettassero".53 Sleale, secondo il Pinelli, anche il comportamento di Carlo Alberto verso la Repubblica di Venezia, la cui Assemblea il 4 luglio 1848 soffocando la predilezione di molti per quella forma di governo repubblicana che le aveva dato tanta gloria, aveva votato la fusione immediata con il Piemonte. Eppure Carlo Alberto, nel momento stesso in cui faceva ogni sforzo per incoraggiare la fusione tra il Piemonte e Venezia, tramite il Ministro inglese trattava con 1' Austria, dichiarandosi disposto a concludere un trattato di pace che assegnasse al Piemonte la Lombardia fino ali' Adige, e in tal modo abbandonando di nuovo Venezia in mani austriache.54 Escluso il tradimento anche di altri, il Pinelli intende provare con il suo libro che "l'imperizia e dappocaggine dei capi soltanto diedero vinta la causa al Tedesco, e che il soldato italiano ben capitanato varrà sempre a tener fronte ad un numero doppio di austriaci". Non trovano alcun spazio, nel suo scritto, le pretese pressioni internazionali sul Comando piemontese tendenti a non fargli spingere a fondo le operazioni di guerra, e nemmeno il preteso sabotaggio della guerra da parte degli ufficiali nobili; di qui la sua condanna dei capi del partito repubblicano, che anche dopo il plebiscito di fine maggio 1848 favorevole all'unione della Lombardia con il Piemonte ingenuamente od artatamente ritenendo qual calcolata perfidia l'inoperosità di Carlo Alberto, che altro non era che inettezza, e paventando ad ogni modo che lui consenziente od incapace ad impedirlo, la causa italiana avesse a perire, cercavan farle puntello del popolo, e già andavan spargendo sommesse voci di defezione, di abbandono delle province venete e di transizione coll'austriaco governo. Queste cose che molli fra i repubblicani credevan vere, ed alcuni altri cercavan maliziosamente di accreditare, eran poi divulgate e con arte finissima esagerate dai fautori della dominazione imperiale, che non rifuggivano da niun mezzo per seminar zizzania tra gli Italiani.55

Nemmeno il governo lombardo ha tradito: piuttosto all'inizio ha dimo"· ivi, p. 396. "· ivi, pp. 533-534 e 1096-1097. "· ivi, p. 500.


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strato di avere eccessiva e pericolosa fiducia negli effetti della vittoria delle cinque giornate, fino a ritenere le truppe austriache in Italia ormai sgominate, e successivamente a causa delle discordie seminate dai repubblicani ha attenuato il primo ardore. Ciò non toglie, però, che il Pinelli come tutti i piemontesi giudichi molto severamente - oltre che l'operato di quel governo - l'ostilità o indifferenza delle popolazioni della Lombardia nei riguardi delle truppe piemontesi e della causa italiana: "ond'è che alla fiacchezza del governo corrispondendo a capello la tiepidezza delle popolazioni", le ricche e popolose province lombarde fecero mancare i viveri all'esercito piemontese, e solo dopo la prima metà di giugno 1848 poterono far entrare in linea una divisione di non più di 10.000 uomini assai male in arnese, che "prese poca e ingloriosa parte della guerra".56 Chi ha veramente tradito la causa italiana sono stati il re di Napoli, che ha ritirato le truppe terrestri e la flotta con una decisione che è stata la principale causa della sconfitta, e Pio IX, che si è dissociato dalla guerra lasciando cosl le truppe pontificie nel Veneto senza ordini e divise in due eserciti. Di conseguenza, per effetto delle divisioni politiche e delle discordie tra generali, la guerra italiana non è stata diretta da ''un'unica e vigorosa mente", e l'esercito piemontese non ha coordinato le sue operazioni con quella delle truppe del Veneto. In tal modo si è persa l'occasione di approfittare del periodo più favorevole per le armi italiane, e il 22 aprile l'esercito del generale austriaco Thum, succeduto a Nugent, ha potuto congiungersi con quello di Radetzky. È stato questo 1'evento decisivo della guerra, perché dal maggio 1848 in poi il maresciallo Raçletzky, con l'esercito rafforzato e le vie di comunicazione assicurate, è stato in grado di prendere l'offensiva. Da maggio 1848 in avanti, "il coraggio del soldato piemontese suppll sovente all'imperizia dei capi, e paralizzò sino a un certo punto la superiorità strategica dei duci nemici; ma siccome alla fine il valore solo non basta contro numero, senno e valore uniti, cosl le armi subalpine, dopo vasta contesa, dovettero cedere il campo alle fortunate austriache insegne" .57 Le considerazioni di carattere tecnico-militare del Pinelli, che occupano lo spazio maggiore del libro, possono essere divise in due parti: le critiche - sorprendentemente severe anche se dovute a un militare - alla mentalità imperante nell'esercito piemontese (rigida, formalistica, incurante dei bisogni delle truppe e delle esigenze operative) e le critiche alla condotta strategica della campagna. Gli aspetti da lui messi in particolare evidenza e che ha potuto personalmente constatare, sono lo stato dei Quadri e le cattive norme per l'avanzamento (che mantengono a incarichi anche elevati di comando uomini inetti) e la pessima organizzazione logistica. Vi sono gravi carenze nel treno, nel corpo sanitario e nel corpo amministrativo, "il peggiore di tutti: inerte, pigro, vigliacco e rapace, esso fu la vera causa

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ivi, pp. 399-400. ivi, p. 405.


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dei patimenti dei soldati italiani: eppure non uno venne punito!". L'impreparazione non era dovuta solo a cause tecniche o carenze di fondi, ma anche alle malversazioni del passato Ministero: corse voce in allora che gli scaffali del magazzino merci di Torino [dove venivano custoditi tutti i materiali di commissariato dell'esercito, a cominciare dalla stoffa per le divise che poi veniva inviata ai reggimenti per la confezione - N.d.a.J, creduti tutti pieni di panno, non ne contenessero che una sola pezza caduno, e che la profondità d' essi fosse riempita con rotoli di legno ricoperti di panno; io non voglio asseverare 1a verità assoluta di tal cosa, che mi venne accertata però da persona altolocata nell'amministrazione militare e perciò in posizione di conoscere il vero; ma è certo che la depredazione era grandissima tra gli impiegati e che nel personale amministrativo regnava la più sfrontata venalità.58

Come comandante di compagnia nel 1848/1849, il Pinelli ha modo di rendersi conto che la carenza di viveri e le cattive condizioni igieniche, dovute anche al disinteresse di taluni comandanti e al cattivo comportamento e scarso impegno dei commissari, sono la causa principale dell'indisciplina e della prostrazione dell'Esercito piemontese nelle operazioni sul Mincio, con elevato numero di ammalati che assottigliano le file e impediscono di condurre una vigorosa azione offensiva su Verona. Per il resto, le sue considerazioni strategiche - e la conseguente critica alle decisioni del Comando piemontese - sono principalmente dovute alla constatazione che la storia delle guerre passate ci insegna come l'Italia superiore solo si difenda e solo si conquisti o nelle pianure occiden~ del vasto bacino giacente fra le Alpi, gli Appennini e la sponda destra del Po, ovvero ne11a zona di terreno posta al nord-est fra il Mincio e l'Adige. Per uno degli eserciti pertanto la base primissima d'operazione sta nel triangolo isoscele (presa Piacenza qual vertice) formato dalle tre piazze di Alessandria, Piacenza e Genova; mentre per l'altro sta nel quadrilatero irregolare compreso fra Peschiera, Verona, Legnago e Mantova; più vasto il primo, meglio si adatta alle ardite concezioni dell'offensiva; più ristretto, ma perciò appunto più forte, il secondo meglio si accomoda ad una speculata difensiva.59

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Il Po è la linea naturale d'operazione che conduce da una base d'operazione all'altra; tra i suoi affluenti solo il Mincio si presta a una buona difesa strategica, quindi chi domina il corso del fiume è in grado di manovrare a suo piacimento sulle due rive e di scegliere la linea d'operazione che più gli conviene. Il dominio del fiume è ancor più importante per chi attacca da

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ivi, p. 163. ivi, p . 2 14.


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Ovest a Est, perché può far discendere il fiume ai suoi rifornimenti e materiali (cosa che non può fare l'avversario) e percorrendo la sponda destra fino a Ferrara può aggirare gli affluenti di sinistra. Quindi, secondo il Pinelli l'esercito piemontese nella prima fase della guerra avrebbe dovuto agire lungo la riva destra del Po anziché lungo la riva sinistra, migliorare il campo trincerato di Piacenza facendone il centro di rifornimento e la base di partenza dell'esercito, con truppe discese lungo il fiume aiutare l'insurrezione di Cremona e Mantova e soprattutto assediare e conquistare Ferrara anziché Peschiera, in modo da collegarsi con le truppe napoletane del generale Pepe e con quelle pontificie del generale Giovanni Durando operanti nel Veneto. Con questa strategia i Lombardi, solo apparentemente abbandonati a loro stessi, "addormentati non si sarebbero sui freschi al1ori di Milano", e si sarebbero create le migliori premesse per un rapido investimento di Verona, che era li vero obiettivo della guerra. Avrebbe dovuto anche essere subito interrotta la preziosa linea di comunicazione del Tirolo, utilizzando le bande locali e i volontari. Su queste convinzioni strategiche i1 Pinelli basa la sua critica alla cattiva condotta de11a guerra, della quale i due responsabili principali ancorché non unici - sono da lui indicati in Carlo Alberto e Chrzanowski. Carlo Alberto è, in particolare, il "vero colpevole" delle sconfitte di Santa Lucia e Pastrengo. Di lui biasima non solo lo scarso acume strategico, ma ancor di più la mancanza di energia: dopo Santa Lucia, può dirsi che la campagna se non materialmente era moralmente perduta per gli alleati [italiani]: poiché il soldato vide l'incapacità dei duci, i valorosi sfiduciati piansero su tanto sangue inutilmente sparso, e fremettero vedendo mal ricompensato il valore e la viltà impunita: alcuni maggiori colpevoli furono invero dimissionati, fra i quali il generale della brigata Acqui [... ]; ma con tutto ciò la clemenza del re, che qui appellar si potrebbe dabbenaggine, fu soverchia: poiché i divisionari inetti andavano dismessi, gli uffiziali vigliacchi fucilati ed i corpi che sbandati s' erano, decimati: così si fa la guerra.00 Pur invocando severità verso gli ufficiali e generali inetti, il Pinelli è assai poco severo con il generale d' Aix di Sommariva, che - come si è visto - dopo la sconfitta di Custoza a fine luglio 1848 non difende il passaggio di Crotta d'Adda e rende in tal modo impossibile per l'esercito Piemontese di attestarsi sulla linea dell'Adda. Riconosce che quella posizione era d'importanza massima, perché il nemico da lì poteva dirigersi su Piacenza o portar la guerra in Piemonte, precedendo il Bava su Alessandria; ma giudica il d' Aix uomo valoroso, del quale non può essere messa in dubbio "la risoluzione ad adempiere gli ordini ricevuti". Riconosce anche che avrebbe potuto difendere meglio, occupando il villaggio sulla sinistra e/o da posi-

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ivi, p. 350.


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zioni più arretrate, il passaggio, il cui abbandono è stato intempestivo e affrettato; con tutto ciò che il torto principale su lui non ricade, poiché ai sommi capi incombe l'obbligo di dar ordini chiari e precisi che non lascino ambiguità di sorta. Bisognava pertanto prescrivere a quel generale il modo di occupar Crotta d'Adda, ed ordinargli di mantenervisi a qua· lunque costo: ed ove egli eseguito non lo avesse, allora sarebbe stato passibile d'ogni maggior pena. Privo invece dell'ordine perentorio di difendere quel punto fino all'estremo, Sommariva [ ... ] ebbe forse troppa deferenza verso l'avviso dei suoi consiglieri: tuttavia nel ritirarsi verso Piacenza egli, o chi lo consigliava, fecero prova di senno. 61

Giustificazione non convincente: gli ordini erano sufficientemente chiari ed erano stati in seguito chiariti anche dal Bava; una posizione si abbandona solo dopo aver fatto il possibile per difenderla, cosa che il d' Aix certamente non ha fatto: né al tempo, esisteva una differenza tra difesa di una posizione, e sua difesa ad oltranza. Infine, non può essere troppo Iodata la decisione del d' Aix di ritirarsi su Piacenza, perché non è mai stata quella la direzione di ritirata definitivamente prescelta dall'Esercito, quindi ha preso una decisione assai grave solo in base a una supposizione. Il Pinelli non risparmia critiche nemmeno al generale Bava e a talune affermazioni contenute nel suo opuscolo, "scritto di suo ordine da un medico"; lo giudica tuttavia l'unico generale piemontese che nella prima fase della campagna abbia dimostrato di "possedere, in parte almeno, quelle qualità che in un duce supremo più si richiedono"; pertanto, "era il più idoneo forse a riordinar un esercito di cui godeva la stima e simpatia". Nega però che a provocare la sua sostituzione nell'incarico di comandante supremo dell'Esercito con Chrzanowsky sia stata la pubblicazione del suo troppo crudo e critico rapporto sulle operazioni, che venne pubblicato il 12 ottobre 1848, cioè dieci giorni prima della sua nomina a comandante supremo: è dunque forza conchiudere che quelle sue pagine per nulla spiacquero né al re, né agli uomini che a quell'epoca tenevano i portafogli, e che solo.gli intrighi di corte, gli ambiziosi ed invidi nobilotti riuscirono col tempo a rendere esoso al re il vecchio generale, e che finalmente il Ministero democratico, di cui faceva parte in quei giorni chi sempre dimostrossi a Bava ostile, ligio sempre ai voleri dell'anarchica setta, il 15 febbraio soltanto toglieva il comando ad un uomo che non sapeva seco loro consentire nell'assurdo progetto di rinnovare una guerra d'in· va<.ione che niuna probabilità presentava di buon successo.62

La responsabilità di aver allontanato dal comando dell'esercito il Bava

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ivi, pp. 644-645. ivi, p. 771.


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va perciò attribuita a Carlo Alberto e a coloro che hanno condotto il paese a "quella insensata guerra". In particolare, la decisione di sostituire il Bava è stata presa il 7 e 8 febbraio 1849, quando era ancora Ministro della guerra il generale Alfonso La Marmara, estimatore dello Chrzanowsky "per averne udito pomposi elogi a Parigi dal maresciallo Bugeaud". È così avvenuto che "il re, vagheggiando col pensiero 1' idea di figurar nuovamente qual capo dell'esercito in guerra, investiva tuttavia del comando reale di esso Chrzanowsky sotto la denominazione di general-maggiore, a quel modo stesso che Jourdan era generai- maggiore dell'inetto Giuseppe Bonaparte in Spagna; improvvido mezzo di circoscrivere l'autorità del generalissimo, che a quel modo stesso che partorì la scon.fitnl di Vittoria ai francesi, cagionò la perdita della seconda campagna ai piemontesi"63 • Sia sul generale polacco che su Ramorino - scrive il Pinelli - correvano voci di tradimento nelle passate guerre, ma il governo piemontese non si è curato di controllarle; ad ogni modo, questi due uomini sono da lui indicati come i veri responsabili della sconfitta. Ramorino per la mancata difesa della Cava, che consente a Radetzky di penetrare indisturbato in Piemonte da Pavia prendendo alle spalle l'esercito piemontese che punta su Milano; Chrzanowsky per aver subordinato - come tutti i condottieri mediocri - le sue mosse a quelle del nemico, per non aver seguito la riva destra del Po, per l'inerzia dimostrata quando si è profilata la minaccia austriaca da Pavia, per la sconfitta di Mortara e per la scelta di Novara come terreno della battaglia finale, dalla quale consegue una sconfitta decisiva causata dal mancato apprestamento delle difese della città e dalla cattiva disposizione delle forze. A Novara l'Esercito piemontese si è battuto bene; non è vero che J 20.000 piemontesi vi sono stati sconfitti da 15.000 austriaci (come afferma il Wi11isen), perché le forze che hanno effettivamente partecipato al combattimento da una parte e dall'altra erano più o meno pari; è stata solo "una battaglia mal preparata, accettata senza necessità assoluta, timidamente e insipientemente diretta". In quanto a Chrzanowsky, "i suoi errori in questa breve guerra furono così marchiani, che niuna parola meglio varrebbe a dar la chiave dell'inesplicabile sua condotta, che quella di traditore; né a distruggere l'accusa varrebbero le discolpe da lui addotte in una polemica tra lui e i cessati Ministri ...". Per altro verso, il personale valore da lui dimostrato, il fatto che ha rifiutato la cospicua somma che il governo piemontese gli aveva offerto dopo la battaglia, le sue presenti ristrettezze economiche portano a farlo ritenere "fra quelli ufficiali zeppi di pedantesca erudizione che, preziosi nel silenzio del loro gabinetto, nulla valgono nel tumulto dei campi". L'episodio di Casale (città aperta e presidiata da poche truppe, che con

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ivi, p. 776.


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la valorosa partecipazione di tutti i cittadini e sotto il comando del vecchio generale piemontese Solaro di Villanova resiste agli attacchi austriaci fino alla conclusione dall'armistizio) fornisce al Pinelli l'occasione per osservare che a Casale, Goito, Pastrengo, Peschiera, Governolo, Rivoli, Sommacampagna, Sforzesca, le armi piemontesi comandate da generali del vecchio esercito sardo sono state vittoriose; mentre invece a Vicenza, alla Cava, a Mortara, a Novara, "ove eran dirette da uomini estranei a quell'esercito, patito hanno danno e vergogna"_ Hanno, comunque torto coloro che hanno biasimato la conclusione dell'armistizio di Novara: dopo la battaglia le comunicazioni fra l' armata [sardal e le fortezze del regno erano tronche; la sua forza, ridotta dal fuoco nemico, dallo sperpero delle divisioni, e soprattutto dalla disorganizzazione e diserzione, a poco più di 30.000 uomini, era poi cosl moralmente depressa da divenire incapace affatto di tener fronte ad un esercito doppio per numero, e reso baldo dalla vittoria: nulle le munizioni da bocca, scarseggianti quelle da guerra; una sola via di scampo da tergo, disastrose e sterili valli; malfidi e impopolari i Ministri; sossopra il regno agitato dall'anarchia e in procinto di cader in balia della fazione repubblicana".64

Non è finita: perché lo sguardo critico del Pinelli si estende anche al primo dopoguerra, nel quale - a suo giudizio - poco si è cercato di imparare dalla sconfitta, né si è seriamente rimediato ai difetti messi in mostra dall'esercito. Loda l'operato del generale Bava quale Ministro, deprecando il suo allontanamento per le solite, viete ragioni politiche e la sua sostituzione col generale Alfonso La Marmora, troppo esaltato per la sua repressione dei moti genovesi quando invece "altro merito non s'ebbe che di aver conquistato una città che difendersi non si volle". Giudica, nel complesso, in modo poco favorevole l ' operato di quest'ultimo: ne apprezza talune riforme, come il miglioramento del sistema scolastico, l'aumento delle paghe e pensioni ecc., ma gli addebita "la teoria mutata in peggio, il peggioramento del sistema di contabilità, la mancata riforma di un codice militare in cui si impone e si premia la delazione". Nel caso di una nuova guerra, perciò, l'Esercito scenderebbe in campo con gli stessi difetti che sono stati causa delle sconfitte passate, "disordine cioè nella parte amministrativa e nel governo delle vettovaglie, mancanza di mezzi di repressione dell'indisciplina e dei delitti". 65 La maggior piaga è però la "depressione morale" causata dall'applicazione di un errato concetto di disciplina, che non viene associata come sarebbe necessario alla giustizia e all'equità, le quali richiedono che le regole valgano per tutti. Ma se "per i sottoposti vige ferreo rigore, e pel capo invece sfrenata e illimitata ampiezza di potere, questa allora non è più

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ivi, p. 904. ivi, p. 1064.


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disciplina, ma schiavitù all'arbitrio di un solo": ne derivano scoraggiamento dei migliori, timore e abitudini servili degli uomini dappoco, audacia degli intriganti, con conseguente estinzione d'ogni vero sentimento di onore nell'esercito e facilità di renderlo strumento di tirannide. In un paese costituzionale - sottolinea il Pinelli - l'esercito non è più esclusivamente regio ma nazionale, "poiché infine è la nazione che lo paga, ed essa per certo non intende pagare squadre devote alla dinastia soltanto". Occorre perciò tutelare lo spirito militare deUa nazione, che al momento si va deprimendo perché i "popolani e non servili di ogni ceto" si stanno accorgendo che per progredire nella carriera valgono di più "]e aderenze di famiglia, di collegio, di Arma, la servilità, l'adulazione, il gesuitismo" anziché "solide conoscenze militari, carattere leale, azioni valorose e sincero affetto alle nazionali franchigie". E così sono conservati i privilegi delle caste nobili, mentre "il vecchio militar popolano viene costretto a languire nel ritiro" (accenno autobiografico). Contribuiscono a deprimere lo spirito mi1itare anche i recenti provvedimenti del Ministero, che hanno assottigliato nelle file dell'esercito il numero dei valorosi reduci della guerra d'indipendenza, ed espulso dal corpo degli invalidi molti vecchi soldati, costringendoli a mendicare un tozzo di pane. Per di più questa stessa noncuranza per i valorosi venne spiegata nei gradi più elevati: perché appena conchiuso l'armistizio, il governo, invece di procedere contro i codardi, con imperdonabile debolezza obliò ogni colpa. Che un re novello, esercendo il sovrano diritto di grazia, condonasse le pene a semplici comuni, e commutasse anche agli ufficiali le pene incorse, nulla di più consentaneo alla clemenza del principe: ma che uomini rivestiti di gradi cospicui e notoriamente stigmatizzati da corpi interi come vigliacchi, siano stati tollerati nei loro gradi e taluni promossi (potrei nominare alcuni di questi svergognati [... ]), questo fu più che errore: fu delitto di nazionalità. tendente a soffocare i germi di valore nel cuor dei militari che meravigliando videro negletto il valore, premiata la codardia. (,6

Probabilmente in queste invettive vi è traccia dell'animo esacerbato del Pinelli, non nobile e al momento maggiore "in ritiro". Comunque sia, la sua indagine - fatta dall'interno e da un uomo che è stato al fuoco nei gradi inferiori - più di tutte le precedenti mette in luce le reali carenze dell'Esercito e gli errori commessi dalla leadership sia nell'organizzazione che nella condotta della guerra. Imitando i] Bava egli affonda il co1te11o nelle piaghe, perché - afferma - la vera disciplina si tutela rendendo omaggio alla verità e non hascondendola; il che non gli impedisce di giudicare nocivo per la disciplina e il morale dell'esercito "lo sprezzo per la milizia nazionale e

'"

ivi, p. 1067.


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per tutto ciò che riflette le nazionali istituzioni" dimostrato da partiti estremi e organi di stampa. Come militare è portato a dare fin troppo rilievo a tutto ciò che ostacola il sano disegno strategico che ha in mente, ma dalle sue pagine appare chiaro che la vittoria è frutto di un'accurata preparazione politica, morale e militare e di un'azione concorde e con obiettivi chiari, nella fattispecie sempre mancata per ragioni più politiche che militari.

Il commento antipiemontese e antilombardo alla gue"a di Carlo Pisacane (1850)

Nella Guerra combattuta in Italia nel 1848-1849 (1850) 67 la formazione militare di matrice napoletana e l'orientamento politico estremista e antimonarchico di Carlo Pisacane (vds. cap. V), non gli impediscono di pervenire su parecchi argomenti - chiave a giudizi sorprendentemente analoghi a quelli del Pinelli, a cominciare dalla valutazione del terreno del teatro d'operazioni e dalle posizioni - chiave che esso offre. Ritroviamo delle analogie con la sua visione delle possibilità strategiche che offre il terreno italiano anche negli scrittori che trattano della difesa dello Stato (cap. Xl). Sono, in particolare, analoghe a quelle del Pinelli le sue considerazioni sull'importanza del triangolo Alessandria - Piacenza - Genova quale base naturale per le operazioni offensive e difensive dell'Esercito piemontese, sulla necessità di seguire le due sponde del Po e assicurarsi il controllo del Tirolo, sull'importanza e forza del quadrilatero e della linea dell'Adige ecc .. Altre sue idee ricordano quelle dei fratelli Mezzacapo: non giudica le Alpi un ostacolo invalicabile specie d'estate, ritiene errata una loro difesa a cordone, indica nel Po, nell'Arno, nell'alto Tevere (con Foligno perno strategico) successive linee difensive, alle quali ne seguono altre nel Meridione . . Questa visione "peninsulare" della guerra non influenza più di tanto l'ottica con la quale il Pisacane guarda alla guerra del 1848/1849, considerando - pur senza esplicitamente ammetterlo - l'Italia settentrionale come il teatro d'operazioni principale, dove si giocano le sorti dell'indipendenza italiana. Se il Pinelli accusa ad ogni piè sospinto i repubblicani di sabotaggio alla guerra e Carlo Alberto di incapacità, il Pisacane invece ritiene che, se il re pur volendo la guerra e fomentando l'insurrezione a Milano non ha preso rapidamente l'iniziativa militare, l'ignoranza non è sufficiente giustificazione, ma si spiega piuttosto con la corrispondenza diplomatica, dalla quale risulta che il re occupava la Lombardia per supplire alla mancanza degli austriaci e sviare il popolo da altre supposte tendenze; che l'aumento dato all'esercito non era

67

Milano, Ed. Avanti! 1961.


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conseguenza delle sue idee bellicose contro lo straniero, ma precauzione per difendere il suo trono contro il popolo, e quando occorresse, contro la Repubblica Francese; e che la propaganda fatta in Italia aveva per iscopo di frenare il crescente fermento popolare e le promesse di soccorso ai lombardi partivano da subalterni del partito, che forse lavoravano in buona fede. b!I

Entrando in Lombardia solo quando -l'insurrezione di Milano aveva trionfato, Carlo Alberto ha perso un'occasione unica: il sentimento nazionale aveva permeato l'esercito piemontese, ed "il soldato piemontese aveva perciò l'istruzione e la mobilità degli eserciti regolari, con lo spirito delle masse rivoluzionarie: esso era invincibile!" 69 [giudizio esagerato e non suffragato da dati precisi - N.d.a.]. Avrebbe potuto concentrare 20.000 uomini alla frontiera e appena iniziata l'insurrezione di Milano accorrere in suo soccorso, sconfiggendo le truppe austriache che ancora la presidiavano, demoralizzate e senza viveri, e costringendo Radetzky a chiedere subito un armistizio. Pare impossibile che l' entourage di Carlo Alberto "non avesse né cuore né testa abbastanza per comprendere quanto sarebbe stato più efficace e più degno di un monarca e di un guerriero il presentarsi come aspirante ad una corona alla testa dì un esercito vittorioso"70 [in realtà risulta che Carlo Alberto ha deciso di muoversi qualche ora prima - N.d.a .]. Quando Carlo Alberto è entrato in Lombardia, l'iniziativa era perduta e la guerra cominciava allora: "ma il popolo non poteva comprenderlo, esso si vedeva vincitore da per tutto, il nemico in piena ritirata, e quindi supponeva la guerra finita. Scorgeva poi un monarca alla testa di un esercito, proceder a rilento e pieno di circospezione sulle tracce di quel nemico vinto da cittadini disarmati, e pretendere per questa marcia la corona dell'Alta Italia. Certo che le apparenze non favorivano Carlo Alberto". Scontata la critica del Pisacane alle successive sue mosse strategiche, non molto dissimile da quella del Pinelli. Ma se la crisi delle truppe austriache in Italia da marzo 1848 fino a tutto aprile non è stata sfruttata, per il Pisacane la colpa è anche del governo lombardo. In proposito, egli concorda con la tesi del Pinelli e di tutti i piemontesi sulla scarsa efficacia e rispondenza degli apprestamenti militari del governo provvisorio lombardo; stranamente, però, non accenna alla sua poco felice esperienza militare al servizio del governo provvisorio lombardo dal 14 aprile al 1° agosto 1848, durante la quale per incarico del Cattaneo compila una Memoria sull'ordinamento dell 'esercito lombardo e milita nei corpi volontari operanti sulle montagne lombarde agli ordini del generale Durando. 68 · ivi, p. 6 L ""· ivi, p. 58. 111 ivi, p. 60.


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In sostanza egli è favorevole all'applicazione del principio della massa e dell'offensiva sia in campo ordinativo che operativo. A suo giudizio, Radetzky all'inizio della guerra ha commesso dei gravi errori che avrebbero potuto causare la distruzione del suo esercito, ma nemmeno il governo lombardo ha saputo approfittarne: "in una città insorta, ove i cittadini padroni delle case dominano le strade e trovano da per tutto ritirata e punto d'appoggio, un esercito non può vincere, giacché esso non ha obiettivo diretto. Può sperare in un successo nel solo caso che l'insurrezione si agglomeri tutta in un luogo; come fu a luglio in Francia, e a maggio in Napoli. Ma senza questa circostanza un esercito che vuol sottomettere una città bisogna che esca e la bombardi".71 Pertanto Radetzky avrebbe dovuto abbandonare subito Milano, richiamare le truppe del generale d' Aspre dal Veneto e dopo aver rinforzato le piazzeforti concentrarsi a Cremona, di 1ì facendo fronte a un'invasione piemontese o ritornando su Milano. Invece si è ritirato con bagagli e famiglie verso Lodi, il che dimostra che era certo che Carlo Alberto non lo avrebbe attaccato; inoltre il 24 marzo il suo esercito era ridotto in condizioni assai critiche, con solo 25.000 uomini in cattivo stato sulla sinistra dell'Adda e le fortezze mal presidiate. Mantova e Verona, in particolare, avevano le porte custodite dai cittadini, che ne avrebbero conquistato il controllo "se il Municipio, come a Brescia o Cremona, non avesse raffrenato il popolo, e vietato di portare le armi a chi non avesse licenza municipale". Pisacane spinge la sua fiducia nell'insurrezione fino a affermare che se in Lombardia una parola d'ordine preventiva, o un'autorità qualunque sorta dalle barricate avessero concentrato in un unico luogo tutti i cittadini e gli abitanti delle campagne, per il 25 marzo avrebbe potuto essere riunita una nuova massa di ben 100.000 uomini, capace di affrontare i 25.000 austriaci o almeno di tagliare le loro comunicazioni e impedire il loro vettovagliamento, riducendoli all'estremo. Per affrontare l'esercito austriaco che sarebbe stato inviato in soccorso di Radetzky e d' Aspre, il primo nucleo di forze avrebbe dovuto essere costituito dai 12 battaglioni d'italiani che avevano disertato dall'esercito austriaco con ufficiali da loro eletti, ottenendo così 12-13.000 soldati regolari ben addestrati; il materiale sarebbe stato quello tolto al nemico; quindi decentralizzando, per quanto più si poteva, l'amministrazione, e lasciando ad ogni provincia il carico di ordinare, armare e equipaggiare un dato numero di battaglioni attenendosi a un semplice ed unico regolamento sparso da per tutto, lo spirito municipale che tanto impaccia allorché si vuole tutto asservire ad una Capitale, sarebbe stato in vantaggio della causa.12

11.

7 ~

ivi, p. 62. ivi, pp. 48-49.


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Secondo il Pisacane queste truppe sarebbero bastate per sconfiggere i 13.000 uomini del generale Nugent, che hanno passato l'Isonzo solo il 13 aprile 1848. Invece non si sono sfruttate queste possibilità: è così avvenuto che mentre d' Aspre si trovava a Vicenza con 10-12.000 uomini, circa 20.000 montanari stavano avvicinandosi alla città, ma il locale comitato insurrezionale "anziché di lanciarli tutti sul nemico, li respinse sulle montagne, non sapendo che farsene di tanta gente". Anche in Lombardia solo pochi volontari si spinsero sulle tracce del nemico, e questi pochi furono abbandonati e attraversati, mentre desideravano ordinarsi. Allora essi si avvezzarono a vedere i1 Governo ne1 capo che li comandava e s'inaugurò in Italia il tristo metodo delle bande, delle colonne e delle legioni. Non vi fu più il cittadino che individualmente accorre sotto i1 vessillo della patria; ma invece la legione del tale che capitola col governo, quindi non più sentimento nazionale nelle masse, ma solo divergenti culti individuali.

Ecco dove nasce l'avversione del Pisacane ai corpi volontari e speciali, che lo pone sul versante opposto di Garibaldi e, nella sostanza, dalla stessa parte del De Cristoforis. Le sue motivazioni hanno però un carattere sociopolitico, che lo differenziano dalle regioni esclusivamente militari del De Cristoforis; la forza materiale, egli afferma, non basta per portare a compimento una rivoluzione: nella fattispecie, per trionfare essa avrebbe dovuto avere un concetto ispiratore, un chiaro obiettivo di riscatto sociale eh~ andasse al di là de1Ja semplice liberazione della Lombardia dagli austriaci. Poiché questo concetto mancava, "la futura costituzione tanto politica che sociale non era pel popolo di alcun interesse, ed esso poté facilmente essere ingannato e travolto da quell'affluenza d'intrighi menati da un gruppo di persone, metà perfide e metà mancanti d'idee [chiara allusione al governo lombardo - N.d.a_]"_ Il governo lombardo ha nominato comandante militare il generale Lechi, vecchio soldato napoleonico "inadatto al suo ufficio, ove era necessario un uomo che unisse alle cognizioni di generale lo spirito rivoluzionario" [ma dov'era? chi era l'uomo adatto? era forse lo stesso Pisacane, visto che Garibaldi e Giacomo Durando non erano da lui stimati? - N.d.a.]. E ai primi di aprile ha messo a capo dei volontari il generale Allemandi, ingiungendogli però di non apportare alcun mutamento alla loro organizzazione, perché le formazioni volontarie "si sono sistemate da sé, e sottoposte a capi temporanei di loro confidenza, che sarà conveniente di non rimuovere"; ciò basta a dimostrare, secondo il Pisacane, che il governo lombardo non intendeva veramente organizzare e impiegare i volontari e che vi aveva messo a capo il generale Allemandi "solamente per deludere lo slancio che non poteva reprimere". La spedizione nel Tirolo - prosegue il Pisacane - non ha fatto che compromettere inutilmente le popolazioni locali e portare lo scoraggiamento tra i volontari, già provati dai disagi della guerra, dalle privazioni causate dalla


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cattiva amministrazione e "dalla perfida volontà del governo provvisorio". Quando sono stati concentrati a Brescia e Bergamo per riordinarsi, "si cercò di farne dei soldati regi; la qual cosa non poteva conseguirsi senza il bastone austriaco, o pure un anno di rigorosa disciplina". Un ufficiale piemontese si è loro presentato in nome di Sua Maestà il re, "al che la colonna Arcioni rispose concorde: Viva la Repubblica italiana, e si sciolse". In tal modo, una sola parola ha fatto sparire dal campo di battaglia duemila giovani valorosi. Anche il Pisacane critica la condotta delle operazioni in Tirolo da parte del generale Giacomo Durando, il quale resta sulla difensiva disponendo i suoi 5.000-6.000 uomini a cordone, con un dispositivo ovunque debole che avrebbe potuto essere facilmente sfondato. Avrebbe dovuto invece riunire un corpo di 10-15.000 uomini e con esso invadere il Tirolo e stabilirsi a Trento, tagliando al Radetzky l'unica via di comunicazione che gli era rimasta e obbligandolo a risalire la Val d'Adige per attaccarlo; in tal modo, il maresciallo sarebbe stato costretto a lasciare Verona e avrebbe reso possibile ali' esercito piemontese di attaccarlo alle spalle. La neutralità del Tirolo come parte della Confederazione germanica era "un ridicolo pretesto con cui l'Austria si beffava del re": ma se si fosse trattato di una ragione valida, allora era inutile guardare la fr~ntiera di un territorio neutrale, e i volontari avrebbero potuto essere impiegati altrove o sciolti. Infine l'ordinamento dell'esercito lombardo secondo i criteri tradizionali procedeva con lentezza, e non ba portato a nessun risultato. Da questi difettosi apprestamenti il Pisacane deduce che in casi del genere a poco valgono il giuramento e la disciplina, perché non possono essere accompagnati dalla forza repressiva: "quale efficacia possono avere in una massa ove il colpevole trova centomila difensori e il giudice nessun esecutore?". In questa massa occorre perciò mantenere "sempre vive e bollenti" le passioni, che possono diventare un'arma potente e terribile nelle mani del capo. Né si deve imporre alle truppe improvvisate Quadri scelti dall'alto, come si fa negli eserciti regolari dinastici: "quale dovrà essere il risultamento, in una moltitudine ove nessuno ha dimostrato la sua capacità, e ciascun individuo è ignoto affatto alle persone destinate all'ordinamento di esse?". Si avranno solo dei Quadri che devono il grado alla loro servilità, i quali provocheranno l'allontanamento dei migliori elementi, lasciando sotto le bandiere solo coloro che sono attratti dal guadagno: "quindi numero esorbitante d'ignoranti graduati, ed esilissimi battaglioni composti di un'accozzaglia pronta ad ammutinarsi come pronta a fuggire". L' unìco rimedio in questi casi, perciò, è l'elezione degli ufficiali e l'uguaglianza della paga per ufficiali e soldati: solo così si diminuisce il numero di coloro che sollecitano gradi. Anche il Pisacane giudica un errore la difesa di Milano dopo Custoza, perché una città si difende solo nell'ambito di un ben preciso piano strategico, per ritardare la marcia di un corpo nemico o per attendere soccorsi. Diversamente da Carlo Alberto e dai piemontesi, tuttavia, ritiene che la città


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fosse ben munita e ne elenca i copiosi approvvigionamenti, ivi comprese polveri e munizioni; era inoltre possibile fabbricare 350.000 cartucce al giorno_ La resa di Carlo Alberto il 4 agosto ha fatto sì che il popolo milanese abbia visto in lui solo un re straniero venuto con un esercito per consegnare la città al nemico: di qui la sua giusta ira. Visto, dunque, che la difesa di Milano avrebbe segnato la rovina dell'Esercito, "perché i generali di Carlo Alberto non si adoprarono onde dissuaderlo dalla stranissima risoluzione di marciare su Milano? Campeggiava forse nelle loro menti l'idea di reprimere una seconda volta il temuto repubblicanesimo, e farsi immediatamente succedere dagli austriaci, come i regi erano succeduti loro nel marzo?". Anche in questa situazione il Pisacane non rinuncia a indicare fantasiose quanto ottimistiche linee d'azione per il comitato di difesa di Milano, che non lo ha mai ascoltato: la sola misura che avrebbe potuto prendere era sottrarre al controllo piemontese le forze lombarde sostituendo i generali Durando e Griffini Jigi alla monarchia, e concentrare tutte le forze disponibili tra Bergamo e Brescia formando una massa di 40-50_000 uomini che "avrebbe dovuto tentare un colpo decisivo attaccando prima il corpo di Thurn che investiva Peschiera, poi quello di Welden che bloccava Venezia, che sarebbe divenuta la base di questo esercito improvvisato"73 • La critica del Pisacane alla condotta strategica della seconda fase della guerra nel marzo 1849 è ancora una volta e in molte parti analoga a quella del Pinelli, a cominciare dalla mancata utilizzazione di Alessandria come perno delle operazioni dell'esercito e dalla mancata avanzata lungo la riva destra del Po. Ugualmente severo è il giudizio di Pisacane sullo Chrzanowsky; ma sulle cause fondamentali della sconfitta, egli all'opposto del Pinelli, indica nella camarilla reazionaria che circondava Carlo Alberto la principale responsabile. Essa con le sue mene cercò di attaccare la disciplina dell'esercito e si diresse a quell'elemento che dissolverà un giorno le forze dei despoti: l'interesse individuale dei soldati. Trovandoli tutti ignorantissimi e superstiziosi, perché tali li aveva fatti il governo, le riuscl facile d'insinuare il suo veleno. Essa dipinse a neri colori i disagi della passata campagna. Additò i lombardi - mentre il governo nel '48 ne avea contrariato l'ordinamento - come dei codardi che per cattiva volontà non erano comparsi sul campo-di battaglia. Dimostrò la guerra contraria agli interessi de] soldato e del re, che ]o dichiaravano ingannato, e minacciavano annunziando la repubblica. 74

Ciò non impedisce, però, al Pisacane di mettere in evidenza che la posizione di Novara scelta dallo Chrzanowsky "accumulava in sé tutti i possibili svantaggi" e di bollare i gravissimi errori da lui compiuti, indiretta-

n.

"-

ivi, p. 147. ivi, pp. 178-179.


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mente dimostrando che bastavano tali errori a giustificare la sconfitta. Diversamente dal Pinelli, però, getta sulla figuta di Chzanowsky l'ombra del tradimento, e attribuisce le sue principali decisioni non tanto a incapacità e inattitudine di un dotto a dirigere un esercito, ma a secondi fini, in combutta con la camarilla di corte. Lancia perciò una serie di interrogativi stranamente analoghi a quelli dell'avvocato Lanza nell'inchiesta sul 1849 (Cfr. sz. I): perché il generale polacco, che ha condotto la campagna facendosi sfuggire tutte le occasioni di rimediare ai suoi errori, ha dimostrato tanta ostinazione e tanta fermezza da lottare contro le vedute di tutti i suoi generali, dimostratisi unanimamente favorevoli alla scelta di Alessandria come base d'operazione? come mai ha scelto per la battaglia decisiva una posizione così sfavorevole come Novara? còme mai, non avendo fiducia nel generale Ramorino e nella sua divisione lombarda, l'ha inviata a presidiare proprio il punto più delicato sul quale si imperniava la sua avanzata verso Milano? Pisacane conclude che Chrzanowsky affermando che l'Esercito non si era affatto battuto "dopo aver condotto l'esercito di errore in errore [...], calunnia impudentemente l'armata, la quale con altro generale avrebbe potuto vincere, o almeno perdere più onorevolmente" '). Giudica perciò "inesplicabile" la condotta del generale polacco, la quale aggiunta alla sospensione da parte piemontese dell'invio delle armi promesse per favorire l'insurrezione della Lombardia, all'abbandono di Brescia, alla repressione della rivolta di Genova e all'atteggiamento ostile agli insorti che in questa città ha tenuto un vascello inglese, fa pensare che "non si andrebbe molto lungi dal vero credendo l'Austria, la camarìlla piemontese e la diplomazia estera d'accordo, onde sacrificare l'onore della nazione ed opprimere il popolo per mantenere lo statu quo: Chrzanowsky agente di questa infernale unione e Carlo Alberto vittima di essa". 76 Molto severo con Chrzanowsky fino ad affermare che avrebbe meritato l'impiccagione, Pisacane diversamente dal Pinelli è assai benevolo con Ramorino: era un generale poco abile, non ha eseguito ordini peraltro molto oscuri, ma in questa circostanza non è stato che una vittima. Non è vero che la sua disobbedienza ha di per sé causato l'insuccesso dell'intera operazione ideata da Chrzanowsky: "Ramorino avrebbe dovuto, battendosi, eseguire la sua ritirata per San Nazzaro_; ma tale combattimento non poteva a lungo durare, giacché la manovra degli austriaci tendeva a circondare e distruggere i lombardi, se avessero di molto ritardato la loro ritirata. Né la Cava era le Termopili, ove 6 o 7000 uomini avrebbero arrestato la marcia di tutto l'esercito austriaco. Quale vantaggio poteva dunque ottenere Chrzanowsky dalla resistenza di Ramorino? Tutto al più un ritardo di qualche ora nella marcia del nemico. Che avrebbe cambiato alle sue disposizioni?"77•

"' 76·

n

ivi, pp. 211-212. ivi, p. 216. ivi, p. 207.


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Tutto, dunque, è colpa del polacco e della camarilla di ·corte: in questo modo il Pisacane rende indirettamente protagonista non il popolo ma l'Esercito permanente piemontese, che se non fosse stato comandato da "traditori" avrebbe potuto vincere e segnare da solo quel trionfo della rivoluzione nazionale italiana, che dunque non è stato ottenuto - come egli sostiene - a causa della mancanza di obiettivi di rivendicazione sociale, ma solo perché la guerra classica tra eserciti non è stata favorevole alla mal diretta armata sarda. Nel commento ai fatti della guerra e negli ammaestramenti che ne trae specie sotto il profilo dell'ordinamento delle forze, il Pisacane cade negli stessi errori e nelle stesse contraddizioni del Mazzini. Imputa al partito repubblicano non tanto di aver combattuto i disegni di Carlo Alberto, ma di non aver spinto a fondo l'ostilità alla guerra regia, creando quell'esercito repubblicano e rivoluzionario del quale parla il Pinelli, che avrebbe combattuto non solo l'Austria ma i prìncipi italiani, Carlo Alberto compreso. Se i conservatori più accesi tendevano ad escludere e anzi a combattere l' apporto popolare della guerra, Pisacane, al contrario, intende escludere Carlo Alberto e il suo esercito dalla guerra nazionale, a meno che essi - cosa improbabile - si pieghino al disegno non solo repubblicano, ma rivoluzionario. Non unione di tutte le forze, comprese quelle moderate, contro lo straniero, come voleva Garibaldi; ma riscatto nazionale esclusivamente affidato a un esercito popolare che supplisce con il numero, l'entusiasmo e Capi validi alla carenza di istruzione e armamento, e che difende ben concrete conquiste sociali, le uniche che possano dare sostanza al concetto di nazionalità. Si poteva fare a meno dell'Esercito piemontese? this is the question; Pisacane non dimostra questo, anzi senza volerlo, dimostra il contrario. Il soldato piemontese anche a suo giudizio era, almeno all'inizio, buono e animato da amor patrio; solo gli errori della leadership militare e l'azione di sabotaggio e subornazione dei reazionari (non dei repubblicani!) ne hanno, a suo giudizio, minato il morale e la disciplina. Questo dimostra indirettamente che il soldato può avere sentimenti nazionali e battersi bene anche senza avere, per il momento, obiettivi di riscatto sociale, cosa che è l'esatto contrario di quel che Pisacane dovrebbe dimostrare. E la sua analisi delle operazioni lascia capire - senza volerlo - che il problema era solo e sempre di saldare insieme insurrezione e azione dell'Esercito, non di lasciar semplicen;iente fare all'insurrezione rendendola protagonista unica. E che dire, infine, delle ottimistiche possibilità da lui attribuite tanto all'insurrezione popolare, che allo stesso Esercito albertino? Presenta l'insurrezione delle città come più estesa e forte di quanto non fosse, attribuendo solo ai dirigenti le sconfitte e gli errori; ma pur parlando di frequente di masse, sembra dimenticare che le insurrezioni non si ordinano dall'alto e che la massa popolare vera era costituita dalla popolazione delle campagne in pianura. Si è mossa, in parte, la montagna; ma la campagna in pianura -cioé la massa dei diseredati - non si è mai mossa: questo non è un fatto da poco, che può essere trascurato da


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un rivoluzionario. A sua vo]ta, J'esercito albertino avrebbe potuto anche per Pisacane avere abbastanza facilmente ragione di quello austriaco ... La guerra del 1848/1849 ha senza dubbio un'importanza fondamentale nella messa a punto delle teorie di Pisacane; esse non hanno però una base certa e sicura, perché rimane tutto da dimostrare che la rivoluzione sociale, premessa di quella nazionale, sarebbe stata possibile e necessaria, e che ugualmente possibile sarebbe stata la rapida costituzione di un esercito nazionale con le modalità da lui indicate.

L'aspra polemica autonomista, antipiemontese e "pro domo sua" di Carlo Cattaneo (1848) e il diverso parere del maggiore dell'Esercito lombardo Carlo Lorenzini ( 1849-1850) L'opuscolo Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra, uscito a fine febbraio 1849,7H riassume il punto di vista del Cattaneo sugli eventi e gli ammaestramenti che intende trarne. È stato pubblicato per la prima volta a fine ottobre 1848 e in francese a Parigi, dove egli si era recato per far conoscere alla classe politica e alla pubblica opinione francese il punto di vista dei democratici lombardi esuli in Svizzera; intende perciò sfatare la ben nota tesi dell' establishment piemontese, secondo il quale la sconfitta nella prima fase della guerra è dovuta in buona parte all'ostilità e inerzia delle popolazioni lombarde e alla scarsa collaborazione del governo provvisorio di Milano, nella cui azione è coinvolto lui stesso. Ne consegue il carattere marcatamente autodifensivo e autobiografico dello scritto, nel quale il Cattaneo, la cui condotta figura l'unica monda di errori, conserva sempre il centro della scena e vuol dare prova di un acume strategico che gli deriva anche dagli studi geografici in altri tempi compiuti sul teatro delle operazioni, sia pure a fini scientifici. Quegli studi geografici e quella conoscenza de] terreno - e qui egli è nel giusto - che i generali piemontesi certamente non posseggono, cosa che non manca di mettere in evidenza. Cattaneo vuol prevedibilmente dimostrare la malafede e il tradimento di Carlo Alberto e de] suo entourage, ipotizzando mai provati accordi con il nemico; al tempo stesso, come Pisacane ne critica i molteplici errori strategici, la scarsa preparazione e competenza, ecc. e sempre come Pisacane fa emergere l'inadeguatezza dei provvedimenti del governo provvisorio lombardo e le mende degli uomini ai quali, dopo aver esautorato il comitato di guerra del quale egli stesso faceva parte, tale governo affida la preparazione e la condotta della guerra. Così facendo riesce a raggiungere i suoi scopi

"

Lugano, Tip. Svizzera Italiana 1849. Noi ci riferiamo alla ristampa in Tutte le opere di

e.e. (a cura di L. Ambmsoli), Milano, Mondadori 1967 - Vol. IV.


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solo in parte, perché anche da quanto egJi stesso scrive si deduce - come fanno gli autori piemontesi - che, alla fin fine, la Lombardia non ha dato alla guerra tutto ciò che le sue cospicue risorse avrebbero potuto dare, e non è riuscita a mettere in campo una valida forza militare. Anche in questa occasione Cattaneo conferma i suoi sentimenti italiani e democratici e la sua netta avversione all'Austria, che accusa di aver cercato di spegnere negli italiani sotto il suo dominio ogni vocazione militare e di gravare di tasse il Lombardo-Veneto, soffocandone il libero sviluppo economico, commerciale e culturale. E nella prefazione all'opuscolo francese afferma che l'insurrezione di Milano e la guerra che ne è seguita "è solo il primo· stadio d'una vasta\TÌvoluzione, la quale mutando l'attitudine politica dell'Italia, apporterà in sussidio aJla causa della libertà e dell'incivilimento tutte le forze d'una gran nazione". I lombardi, però, hanno commesso l'errore di confidare solo nella forza materiale e in momentanei espedienti, in tal modo sacrificando a ''una larva di potenza militare" una libertà già di per sè vittoriosa. Peraltro non dimostra bene come e perché si sarebbe potuto fare a meno dell'intervento dell'esercito regolare piemontese in Lombardia, a fronte dell'insufficienza degli apprestamenti militari e delle illusioni del governo lombardo dopo le cinque giornate. In compenso, nega che siano stati i nobili a iniziare la rivoluzione in Lombardia: nessun maggiore errore. Nell'ordine cittadino [cioè nella borghesia e nella parte più evoluta del popolo - N.d.a.] era l'anima della nazione; quivi erano più larghi gli studi, e più generose le volontà; quivi era inoltre e la maggior mole dei beni, perocché i patrizi nelle nostre province sono di gran lunga in minor numero e banno minori possedimenti che in tutti gli altri Stati imperiali; stanno infatti alla popolazione solamente come tre a mille; e non tengono più della sesta parte delle terre. Ma un'opulenza accumulata in grandi porzioni sembra maggiore del vero. 79

Le statistiche mortuarie milanesi del mese di marzo 1848 dicono che tra i trecento morti dell'insurrezione non vi erano nobili, e si trovavano solo tre possidenti appartenenti però al popolo: la maggior parte dei morti erano operai, e "le barricate e gli operai vanno insieme oramai come il cavallo o il cavaliere" [in realtà, il Cattaneo include impropriamente tra gli operai gli attuali artigiani, che erano la maggior parte - N.d.a.] . Solo al popolo perciò si deve l'unica vera vittoria della guerra, perché "gli altri son fatti d'arme, onorevoli quanto si vuole, ma senza valevole acquisto di terreno, anzi con perdita dolorosa, assidua, vasta, di province e di città"80 • Come dimostra una sua lettera del 10 gennaio 1848 a Giuseppe Ferraci, il Cattaneo ancor prima dello scoppio dell'insurrezione assume sulle linee

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ivi, pp. 466-467. ivi, pp. 520-522.


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politico-strategiche per raggiungere l'unità e l'indipendenza nazionale una posizione opposta a quella degli scrittori piemontesi, a cominciare dal Balbo, dal Gioberti e dal Durando, che (Vol. I, cap. X, XI e XII) confidavano sopratutto nel Piemonte e in Carlo Alberto come liberatore militare dell'Ita1ia: non sono padroni della loro indipendenza personale: come possono conquistare l'indipendenza di un'intera nazione? Che essi comincino con il conquistare, dunque, la loro libertà nel loro Paese! La monarchia sabauda si è guastata combattendo la libertà religiosa della riforma, la libertà politica della rivoluzione; nel 1814 si è comportata [nella repressione interna] in modo mille volte peggiore che l'Austria; nel 1821 ha tradito [riferimento al comportamento di Carlo Alberto N.d.a.]; nella repressione dei moti del 1834 è stata più crudele che l'Imperatore d'Austria. La corte di Torino ha sempre oscillato tra i gesuiti e i carbonari, tra la Francia e l'Austria, tra l'ambizione e la paura. Il liberatore militare d'Italia [cioè Carlo Alberto - N.d.a.] sarà sempre, magari involontariamente, l'uomo del 1821. Al momento della guerra i patrioti, senza Camere, senza Ministri responsabili, senza leggi inviolabili, diffideranno dei generali, degli ufficiali, della Corte. Si riceverà l ' ordine di fermarsi al momento dell'attacco, di ritirarsi al momento dell'avanzata, e la possibilità di un voltafaccia potrà provocare o produrre gli effetti del tradimento. Chi si ostinerà a cercare una vana indipendenza rimandando la conquista della libertà? Non si raggiungerà ne l'una né l'altra. [ ... ]. Le corti assolutiste non potranno mai guardare in faccia le insurrezioni; solo i parlamenti potranno manovrare tra le contingenze rivoluzionarie.8 '

I prìncipi italiani sono dunque, per il Cattaneo, un obiettivo e non un mezzo; ma trascura il fatto innegabile che solo l'esercito austriaco dal tentativo nazionale di Murat del 1815 in poi ne ha puntellato il potere e tende a sottovalutare la forza e efficienza militare austriaca. Ad ogni modo, la pregiudiziale antipiemontese e antisavoiarda guida costantemente la sua azione prima, durante e dopo le cinque giornate, portandolo a condurre - sia pure con mezzi diversi - un'aspra e tutto sommato, impossibile lotta su tre fronti : le mire di Carlo Alberto e la strategia distorta del suo Esercito, l'Esercito austriaco, i moderati lombardi fautori di una pronta annessione al Piemonte a cominciare dallo stesso podestà di Milano Casati. . Nelle cinque giornate Cattaneo si adopera per organizzare ed estendere l'insurrezione, senza contare su un aiuto piemontese che in effetti non si manifesta né con il promesso invio di armi, né con una pronta avanzata; ma prima dello scoppio dell'insurrezione - moto spontaneo e non organizzato non la ritiene affatto conveniente. Questo perché "per conseguire l'indipendenza era mestieri combattere, e pertanto avere un esercito"; però la aristocrazia retrograda, dopo i fatti del 1814-1815, "aveva immolato alla Austria

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ivi, pp. 474-475.


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sua protettrice i nostri soldati", e i reggimenti lombardi erano dispersi nel1' Impero al comando di ufficiali in gran parte tedeschi o slavi. In queste

condizioni, "un insurgimento di popolo non pareva la prima cosa a cui pensare. La Lombardia è piccola parte di un Impero più vasto della Francia. Sommoverla a tumulto, era esporla senz'esercito alla vendetta di generali feroci, abbandonare le città nostre alla rapina, le famiglie nostre alla violenza dei barbari; cimentare le speranze stesse della libertà".82 A suo giudizio la strada da seguire per ottenere la libertà era diversa. Le finanze imperiali erano in crisi, mentre le diverse nazionalità tendevano a smembrare l'Impero, tenendo ognuna per sé il denaro e gli uomini; solo dalla Lombardia l'Impero poteva sperare un cospicuo sostegno finanziario, quindi sarebbe stato indotto a venire a patti, a concederle "a ritagli" la libertà: "Ci saremmo dunque avviati alla libertà per una serie di franchigie, come accadde in Inghilterra e altrove; il che sarebbe però avvenuto con quella velocità colla quale ogni principio politico ai nostri giorni si svolge". Sostenendo che era possibile per i lombardi ottenere gradualmente la libertà, il Cattaneo non considera che l'Austria non avrebbe potuto concederla a un solo popolo, senza che gli altri rivendicassero uguale trattamento: tutti interrogativi che un positivista avrebbe dovuto porsi. Ad ogni modo il suo comportamento è coerente con il prudente gradualismo dei giorni precedenti solo all'inizio dell'insurrezione, quando cerca di dissuadere coloro che intendono ricorrere alla forza senza aver fatto nulla per prepararla. Non ha fiducia in Carlo Alberto, ma la sua fiducia è ottimisticamente riposta nel resto dell'Italia: "bisogna pigliar tempo per armarci, e perché tutta l'Italia si metta in grado di aiutarci; non ci vuol di meno che tutta l'Italia [ma la situazione politica generale era tale da rendere imminente e possibile questo? N.d.a.]. Andiamo adagio: non cacciamo in bocca al cannone un popolo disarmato, finché almeno non ci mettano alla assoluta necessità di difesa". 83 La prospettiva, o meglio la speranza, di una non meglio precisata guerra nazionale sostituisce così, nella visione iniziale del Cattaneo, il concreto e già possibile apporto dell'Esercito piemontese. Per questo si oppone alle tesi di coloro che durante le cinque giornate vorrebbero l'immediata fusione della Lombardia con il Piemonte, fidando nell'aiuto di Carlo Alberto. Prima bisogna vincere contro gli austriaci, e poi decidere il futuro politico della Lombardia; sarebbe un errore sia darsi a Carlo Alberto, sia proclamare la repubblica: se noi cominciamo a darci al Piemonte, non potremo avere con noi gli altri Stati d'Italia. Tornerà l'antica istoria dei re longobardi e dei duchi di Milano, che misero in sospetto e inimicizia tutta la penisola [... ] Se con Carlo Alberto volete far patti, non è il momento; sareste come il

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ivi. p. 470. ivi, p. 485.


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povero alle porte dell'usuraio. Se volete darvi senza patti, nessuna maggiore imprudenza_ Come mai fidarvi di un principe che vi ha già traditi un'altra volta, e che in questo momento medesimo vi lascia qui sotto alla mitraglia? [... ]_ Se poi il vostro Carlo Alberto sarà il solo che venga a soccorrerci, avrà egli solo l'ammirazione e la gratitudine dei popoli; e nessuno potrà impedire che il paese sia suo. In ogni modo è inutile che voi glielo date; perché, s'egli vince, il paese resta suo; e se non vince non sarà mai suo, né manco se glielo aveste a dare cento volte.84

Questo concetto antistrategico di "guerra separata" lombarda e )'evanescenza della guerra nazionale e dei soccorsi da altre parti d'Italia portano il moderato e gradualista Cattaneo a diventare improvvisamente sostenitore di una guerra a fondo contro l'Austria. Durante le cinque giornate si prodiga per dare una qualche razionalità e organizzazione militare all'insurrezione, concentrando gli sforzi sulla conquista delJe porte della città e sulla liberazione di un rione, sia per averne una sicura base dalla quale trarre uomini e armi, sia per impedire la ritirata austriaca verso i bastioni; al tempo stesso polemizza con i filo-piemontesi che dominano nel governo provvisorio, i quali in attesa dell'arrivo dell'esercito piemontese vorrebbero accettare le proposte di armistizio inviate da Radetsky al solo scopo di guadagnare tempo e rafforzare le sue posizioni. Quando Radetzky abbandona Milano e prende la via di Lodi, sarebbe stato possibile - egli osserva - sfruttare la fitta rete di canali e fiumi per allagare le campagne e impedire il movimento dei cannoni e dei carri; ma occorreva un governo non composto di "ciambellani malcontenti"; inoltre da cinque giorni nessuno aveva potuto riposarsi: così anche se questo era il desiderio di tutti, gli austriaci non sono stati inseguiti_ È fautore della guerra sulle Alpi, e promuove subito l'organizzazione di colonne mobili per occuparle. Ritiene infatti che i giovani, "tanto generosi quanto inesperti dell'arte militare", sulla frontiera alpina avrebbero trovato il terreno più adatto alle loro imprese, perché qui "potevano ad un tempo combattere e studiare, costringendo intanto il nemico a far la guerra in paese sterile e a tutta sua spesa; epperò con pochi soldati, e con nessun vantaggio de' suoi cavalli e delle artiglierie".85 Apprezza il valore di volontari, e accusa il governo provvisorio e i piemontesi di non voler sfruttare le loro possibilità; alla luce della esperienza, però, si dichiara contrario, come Pisacane, alla costituzione di battaglioni di studenti e di "legioni sacre", con parole non equivoche che ancora una volta inducono a non far automaticamente coincidere questioni organiche e posizioni politiche, ed equivalgono a una condanna della formula dei reparti volontari:

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ivi, pp. 509-:'i I O.

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ivi, p. 525.


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i giovani, qu,anto più culti, accoglievano tanto più volonterosi quell'invito alla guerra de11e Alpi. E anteponevano mettersi a spalla la carabina, all'andare colle insegne d'ufficiali recando tra le moltitudini annate il frutto dei loro studii. Pure, l'esperienza mi ha persuaso non doversi commendare l'istituzione dei battaglioni accademici e delle legioni sacre, irrilevanti sempre per numero tra le masse inerti. Egli è come se in corpo vivente si separassero i nervi dai muscoli; l'intelligenza non ha dove incorporarsi; e la forza rimane senza nome e senza impeto.

Il Cattaneo, poi, dà conto del1 ' azione del comitato di guerra per organizzare l'insurrezione delle province, inviando messi, raccogliendo ovunque armi, formando colonne mobili che sfruttando il terreno ricco di corsi d'acqua per fortificare i punti-chiave e ostacolare la marcia del nemico, riescano a fargli fronte vantaggiosamente e a rallentare la sua ritirata. Prive di artiglieria e cavalleria, esse dovranno essere accompagnate "da carri ingombri di fascine e materassi, per farne barricate ambulanti". Tuttavia, non gli sfugge la necessità di formare al più presto un esercito regolare: "il Comitato nostro doveva essere il trapasso a un Ministero di guerra, che ordinasse un esercito regolare". Per tale esercito, mancano però (non è cosa da poco!) i Quadri; e soprattutto per evitare che i gradi più alti dell'esercito siano affidati a ufficiali piemontesi il cui merito è solo di essere ligi alla corte, sono richiamati in servizio i vecchi generali e colonnelli napoleonici dell'ex-Regno d'Italia. Anche questo provvedimento dà cattivi risultati: "con ciò mettevasi a capi della libertà armata uomini avvezzi dalla gioventù alla riverenza del comando assoluto, e irrugginiti inoltre da trent'anni d ' ozio [... ] volevano imporre al moto spontaneo d'un popolo le consuetudini d'un tempo d'obbedienza, e le forme solenni d'un ordine stabilito".86 Il principale ostacolo a una buona organizzazione militare per il Cattaneo è comunque lo stesso governo provvisorio, che senza sentire il parere del comitato di guerra chiede al governo piemontese degli ufficiali fuori servizio per istruire l'esercito lombardo. Il Piemonte "slealmente" aderisce alla richiesta inviando ufficiali già radiati dal servizio per indegnità.. '. Ma oltre a minare moralmente il nuovo esercito, il governo provvisorio ne ritardava la formazione. Infatti "lasciava lungamente oziosi, poi sbandava, forse tremila soldati italiani, che si erano ribellati all'Austria in Cremona e Pizzighettone, e ben altri settemila ribellati altrove. Metteva impaccio di mille sottigliezze nell'armamento... ". F:t Si crea di conseguenza una situazione di continui conflitti, che costringe il comitato di guerra a dimettersi l'ultimo giorno di marzo. In definitiva, il giudizio del Cattaneo sulla prep.a razione e condotta delle operazioni da parte del governo lombardo è analogo a quello dei piemontesi, e così bolla l'inefficienza delle truppe lombarde:

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ivi, p. 530. ivi, p. 531.


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quei reggimenti informi, che parevano alli stipendii del più pitocco popolo del globo, sotto officiali improvvisati - molti dei quali s'erano procacciati per male strade il titolo; altri per l'onesta via di liberalità fatte alla patria, ma senza capacità di condurre i cittadini al tremendo gioco della vita e della morte - marciavano in battaglioni slegati, senza cannoni, senza Stato Maggiore, senza ordine di viveri e carriaggi, senza bandiera; e andavano a mangiare poco utilmente il pane dei soldati, collocandosi a destra e a manca della linea piemontese.88 Nega però che tra i maggiorenti lombardi e l'Austria vi siano stati accordi segreti, quando invece "le corrispondenze secrete colli esterni nemici non erano se non tra i guerrieri gesuiti del quartier generale del re, come la prova degli effetti dimostra"89: (lo dimostrerebbero, cioè, le decisioni operative, non documenti o testimonianze). Nega anche che la stampa libera avrebbe minato il morale dell'esercito: l'esercito era caduto in profonda inerzia, e aveva indegnamente e stoltamente abbandonato alla diplomazia il Friuli, il Tirolo e la Venezia, prima che quei giornali fossero nati, o avessero acquistato alcuna voga. Dacché poi nacquero, si vedrà eh· essi non fecero che ripetere in mille forme il grido d'allarme; e provocare li avari e molli ciambellani a trarre d'ogni parte denaro e armi, e fare grossa e popolare e impetuosa la guerra.90 Dimostra che le linee dell'Oglio e dell'Adda potevano essere difese, e a proposito del valore impeditivo dell'Oglio contraddice il generale Bava, secondo il quale l'Oglio nella stagione estiva mancava di acqua, ed essendo quasi parallelo al Po, esponeva i suoi difensori ad essere stretti tra i due fiumi da un movimento offensivo austriaco nel suo alto corso. L'Oglio egli osserva - era povero di acque, solo perché venivano usate per l'irrigazione: chiudendo le prese d'acqua, la portata sarebbe aumentata in grande misura. Inoltre il terreno tra l'Oglio e il Mincio era ricco di ostacoli e si prestava a un'efficace azione difensiva e di ritardo, quindi dopo la sconfitta di Custoza si sarebbe potuto chiedere l'aiuto della repubblica francese (che sarebbe stato dato), e intanto guadagnare tempo. Ma Carlo Alberto, "nemico più del nome repubblicano che non a' suoi parenti d'Austria", non ha mai veramente voluto questo aiuto: ha solo finto di chiederlo, mentre i generali piemontesi solevano considerare gli ostacoli del terreno solo per non avanzare, e mai per arrestare il nemico. Viene da chiedersi, di fronte a queste tesi: chi impediva alle popolazioni del contado di insorgere spontaneamente, senza ordini e organizzazione dall'alto, come era avvenuto con successo a Milano? Riguardo alla

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ivi, pp. 650-651. ivi, pp. 562-563. ivi, pp. 765-766.


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difesa della città, il Cattaneo osserva che non poteva essere attuata con successo da un esercito - come quello piemontese - ormai sconfitto e senza fiducia nel suo Capo [che peraltro, a suo avviso, avrebbe potuto e dovuto difendere le linee dell'Oglio e dell'Adda - N.d.a.]. Occorreva fare ricorso alle energie popolari, cosa che Carlo Alberto non voleva; d'altro canto, se Milano fosse stata abbandonata dal re, lo stesso timore della vendetta nemica avrebbe spinto il popolo a difendersi gagliardamente, e magari ad aver ragione di un nemico, che aveva affrontato vittoriosamente quattro mesi prima in condizioni assai peggiori, senza armi e senza capi. Tanto più che in agosto 1848 c'erano le armi, i soldati e le risorse, Milano era ben approvvigionata, la montagna era libera e si poteva chiedere aiuto alla Svizzera. Il fatto è che il re né poteva più difendere Milano col solo esercito suo; né poteva sinceramente ed efficacemente associarsi il popolo; né poteva invocare alleati; né finalmente ritirMSi daJJa guerra se il nostro popolo avesse perseverato a combattere; perocché sarebbe stata ignominia lasciarlo perire; e sarebbe stata dappocaggine lasciarlo vincere da sé, sia poi ch'esso s'avesse a costituire in repubblica, ovvero in re1,'1lo. 91

Di fronte a questi dilemmi, secondo il Cattaneo Carlo Alberto e i suoi generali avrebbero scelto un accordo sotterraneo con gli austriaci, per occupare Milano, dissuadere la popolazione dall'organizzarne la difesa e poi consegnarla agli austriaci, ritirandosi in Piemonte. Il popolo milanese era pronto a combattere e l'armata sarda è stata ben accolta e rifocillata con generosità; ma i generali piemontesi e i loro sostenitori lombardi hanno ostacolato la difesa popolare e tentato di diffondere lo sgomento tra i cittadini, evitando di organizzare una buona difesa all'esterno delle mura, per avere poi il pretesto di ritirarsi entro la città e occuparla. Nella notte tra il 4 e il 5 agosto 1848 con la scusa della mancanza di munizioni e viveri i generali piemontesi, chiamati a consiglio da Carlo Alberto, hanno deciso di chiedere l'armistizio, suscitando il legittimo sdegno popolare, perché la mattina del 5 agosto la città era preparata a sostenere ogni assalto. Intanto sulle montagne i volontari, mantenuti lontani da Milano e al comando di generali ligi alla monarchia, hanno ceduto le posizioni e le fortezze e si sono rifugiati in Piemonte o si sono sbandati; solo Garibaldi ha tentato invano di continuare la guerra. Questa è la versione del Cattaneo della mancata difesa di Milano; e le conclusioni che egli trae dalla prima fase della guerra vanno riferite al gennaio 1849, quando il Piemonte si prepara a riprendere la guerra. Il Piemonte - afferma - può imparare molto dalla disfatta, che ha messo a nudo i difetti del suo Esercito; ma quel che più importa, è che la guerra vi ha reso necessaria la concessione da parte del re delle libertà costituzionali, provo,1-

ivi, p. 662.


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cando il crollo delle sue tradizioni feudali e il tramonto del sogno piemontese di un Regno dell'Alta Italia, "grandezza mendace, contraffazione della conquista austriaca". Dalla guerra è emersa la necessità che i gradi militari siano assegnati solo in base al merito, non ai titoli di nobiltà; se il soldato cittadino sarà d'ora in poi perseguito dai camerieri di corte, potrà farsi tribuno del popolo; comandare i battaglioni della guardia nazionale. Egli è tempo di esigere la suprema di tutte le riforme militari: cioè, ridotta l'influenza dei patrizii nell'esercito alla proporzione medesima ch'è il loro numero nelle popolazioni, delle quali si traggono i reggimenti. Perrocché l'esercito altro non deve essere che la parte più giovane e più forte delle popolazioni; e deve pertanto rappresentarle quali sono, e senza preponderanza e soverchieria d'alcuno dei loro elementi.92

La storia della guerra dimostra il fallimento degli eserciti dinastici, che non hanno conquistato due sole miglia di terreno e non hanno saputo approfittare della cris i dell'esercito austriaco provocata dalle sollevazioni popolari: "dove sta dunque la forza della nazione italiana? Sta dove è sempre stata, il popolo delle sue città, senza alcuna scienza di guerra, è più forte che gli eserciti de' suoi monarchi". Nemmeno è vero che, come molti sostengono in Inghilterra e in Francia, e ancor più in Germania, il dominio degli stranieri in Italia è dovuto ai vizi degli italiani e alle virtù degli stranieri: nelle cinque giornate il popolo ha trattato generosamente i prigionieri e lasciato in vita i più famosi sgherri austriaci, mentre quest'ultimi infierivano sulle donne e sui fanciulli. L'errore più grave è però ritenere che la causa italiana sia una questione principalmente, anzi unicamente militare. L'Italia non è serva dello straniero, ma dei suoi prìncipi. L'esercito austriaco può rimanere in Italia solo "come mercenario d'una minoranza retrograda, la quale si conosce impotente a dominare da sé la nazione. E l'austriaco si è perduto per l'arroganza sua di far da padrone, ove i suoi patti erano solo di essere il servo armato..." 93 • Ottantamila stranieri provenienti da regioni povere e semibarbare non potrebbero opprimere con la forza un popolo nobile e intelligente di 25 milioni, senza l' ambizione e la perfidia di prelati e cortigiani; l ' esercito austriaco è stato ignominiosamente sconfitto dal popolo a Milano, Vicenza, Brescia, Bergamo, Varese, Como, Colomo, Venezia... e in ottobre 20.000 uomini "di questa snervata soldatesca" erano negli ospedali. Questi uomini non possono costituire un ostacolo insuperabile: basterebbero non 100.000, ma 50.000 piemontesi, "non dico meglio ammaestrati e ordinati, ma solo non capitanati dai camerieri del re". Con la modesta pro-

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ivi, p. 702. ivi, p. 705.


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porzione dell' 1%, l'Italia potrebbe mettere in campo un esercito di 250.000 uomini, cioè i] triplo dell'esercito nemico: e col favore dei popoli frementi e d'un cielo che divora gli eserciti stranieri, e d'una terra munita di monti, di lagune, di maremme, di fiumi, di canali, d' isole, d ' inespugnabili città, come potrebbe non vincere? Come potrebbe il nemico sdraiarsi sulle nostre terre e suggeme l'adipe agiatamente? E se non vivesse a nostre spese, come potrebbe nella nativa sua povertà, e nello sperpero delle sue finanze, alimentare lungamente un grosso esercito sulle balze del Tirolo e della Carinzia, o dentro le accerchiate fortezzer4

Addirittura, una parte dei nostri combattenti equivalente a quella che l'Austria tiene in casa nostra potrebbe varcare le Alpi e l'Adriatico, "tragittare in Istria; in Dalmazia; cacciarlo da Pola; gettare tra i Croati la scintilla sacra; riconciliarli al Magiaro, farli una volta mercenarii della libertà". Né manca ai nostri popoli la volontà di combattere, "purché solo vi sia chi decreti l'armamento in loro nome" . Se vi sono i soldati, non manca nemmeno in Italia una gioventù studiosa degna di capitanarli; "e l'arte della milizia è semplice, soprattutto ove si tratti di saperne solamente quanto un povero croato. E si vide a Curtatone e Vicenza, quali soldati si facciano in pochi giorni li scolari e i maestri delle nostre università" .95 L'unità nazionale e l'affermazione in Europa del principio della nazionalità sono state dimostrate dalla guerra . Per ottenere l' indipendenza nazionale i liberi Parlamenti locali dovrebbero eleggere una Costituente italiana, la quale a sua volta eleggerebbe un dittatore con il compito di "governare la guerra, attivare le finanze, le banche e le vendite dei beni nazionali, assegnare le quote dell'esercito ai singoli Stati, eleggere i comandanti, infliggere l'infamia ai vili, e a morte ai traditori". Se si conservassero i principi, si avrebbero eserciti che obbediscono solo alle corti; "necessita dunque che i decreti della Costituente trovino eserciti pronti a obbedirla fedelmente; ossia che trovino in ogni Stato un esercito cittadino e non un satellite di corte; al quaJe torni lo stesso combattere i nemici, o trucidare i cittadini". Non si giunge aJl'indipendenza nazionale, se non si ottiene prima la libertà: di qui la polemica del Cattaneo contro coloro che non credono alla guerra di popolo, che sono disposti a comprare a prezzo della libertà e del1' unità l'aiuto dell'Esercito piemontese, e che pensano che il Piemonte potrebbe fare anche senza l'Italia, ma non l'Italia senza il Piemonte: pur troppo una guerra appa<;sionata, aspra e diuturna è necessaria a ritemprare all'antico vigore i popoli e rinnovare tutte le nostre istituzioni. Io non desidero una facile e molle vittoria, che ci lasci servi

"' ivi, p. 706. "· ivi, pp. 706- 707.


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ancora delli interni padroni, e servi ben tosto di padroni stranieri. E quando penso che le guerre intestine dell'Austria ci assicurano l' occasione di una lunga guerra; e che una lunga guerra rifà la milizia italiana; e che, senza il Piemonte, l'Italia tiene ancora venti milioni di popolo: io dico, lo dico con dolore, ma con ferma fiducia: il Piemonte · non è necessario!%

Lo sguardo del Cattaneo si spinge anche all'Europa: il principio morale dell'uguaglianza e della libertà è l'unico che può unire l'Europa, sostituendo quello del dominio di una nazione sull'altra: "ogni popolo deve comperare la libertà col sacrificio d'una barbara ambizione. Non si dominano le genti straniere senza mole d'eserciti, né senza arroganza di generali che poi colle braccia dei vinti opprimono i vincitori". Il principio della nazionalità, che la stessa oppressione militare ha ingigantito proprio perché lo vuol distruggere, dissolverà gli Imperi dell'Europa Orientale e li trasformerà in federazioni di popoli liberi, sul modello americano: "avremo pace vera, quando avremo gli Stati Uniti d' Europa"97 • In conclusione il lavoro del Cattaneo non è che un tentativo di dimostrare ciò che avrebbe potuto fare - da solo - non solo il popolo lombardo ma quello italiano, con una valida guida politica e militare. Ma gli uomini erano quello che erano: dov'erano, in particolare, i Quadri militari validi e esperti, necessari per costituire quell'esercito regolare, che anche il Cattaneo vuole? Manca una vera e propria prova delle sue considerazioni sulle possibilità della Lombardia, e sull'asserito tradimento o malefede della camarilla piemontese. Di fronte al poco che, all'atto pratico, la Lombardia per sua stessa ammissione riesce a dare alla guerra, alla mancata adesione dei popoli degli altri Stati italiani a quella guerra nazionale nella quale spera, al mancato aiuto francese che egli a torto dà per certo, la tesi di coloro che vedevano nell'Esercito piemontese l'unica forza in grado di battersi contro quello Austriaco esce rafforzata, non sminuita come egli vorrebbe; anche la sua affermazione che l'esercito austriaco era facilmente battibile non è dimostrata né dall'intero ciclo delle operazioni del 1848/1849, né dagli eventi precedenti e successivi. Le tesi di Carlo Cattaneo sono controbattute da un altro lombardo, più di lui esperto di cose militari: il maggiore Francesco Lorenzini, ex-ufficiale austriaco, per un breve periodo comandante delle forze attive lombarde nelle cinque giornate dopo la morte di Augusto Anfossi e ufficiale della divisione lombarda, che quindi partecipa in prima linea alle vicende militari della guerra. Egli ci ha lasciati due libri (1849 e 1850) in larga parte autobiografici, immeritatamente ignorati nell'ampia bibliografia fornita dal Pieri 96

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ivi, p. 712. ivi, pp. 7 14-715.


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e - a quanto ci risulta - finora mai studiati o citati dalla critica storica: le Considerazioni sugli avvenimenti del 1848 in Lombardia98 e J militi lombardi in Piemonte dopo il 6 agosto 1848 99 (seguito de] precedente). Il Lorenzini non a caso pubblica i suoi libri a Torino, dopo essersi rifugiato in Piemonte nell'agosto 1848 come tanti altri ufficiali lombardi : tutto sommato è, infatti, filo-piemontese e albertino. Del re critica la scarsa capacità di giudicare gli uomini, ma per il resto, è con lui fin troppo benevolo: attribuisce a ingenuità i suoi errori, e pur ammettendo che era "capitano imperfetto", presenta i suoi insuccessi militari come dovuti solo alla sfortuna, mentre al contrario, sia Napoleone che Radetzky sarebbero stati molto fortunati; gli riconosce il dubbio merito di aver concesso "spontaneamente" la Costituzione, di essersi spogliato "di propria volontà" di gran parte del potere, di aver soccorso "prontamente" la Lombardia, di averla abbandonata per ultimo, e infine, di essere morto di crepacuore per non aver saputo dare 1'indipendenza all'Italia. · I suoi strali sono rivolti soprattutto al governo provvisorio lombardo e al Ministero della guerra, con critiche ancor più severe e circostanziate di quelle del Cattaneo. Quest'ultimo vede ovunque promettenti moti di popolo soffocati solo dall'inettitudine o malafede dei governanti, e ostenta una ben misera opinione dell'Esercito austriaco: al contrario, Lorenzini ritiene che, in generale, bisogna "separare la nuda verità dalle semplici speranze", tende a ridimensionare gli eventi e la portata delle cinque giornate, delle proteste, delle dimostrazioni e delle insurrezioni, e come ex-ufficiale e ottimo conoscitore dell'Esercito austriaco ne loda assai la preparazione, l'inquadramento, la salda disciplina, che sono stati i veri fattori della sua vittoria. In particolare, ritiene che nel 1848 l'istruzione militare austriaca era giunta "all'apice della perfezione", fino a rappresentare un esempio da seguire per gU Stati italiani: se, come l'Austria, tutte le potenze d' Italia avessero approfittato dei decorsi trentaquattro anni di pace, per migliorare il morale e il materiale delle loro armate, se si fossero moltiplicate le case d' educazione militare, se si fosse fatta incetta di libri e nozioni di guerra, se si fosse ovunque raccolto ed estratto il meglio, se si fosse insinuato il puntiglio e la necessità di applicarsi, non solo nelle arti meccaniche, ma ben anco in tutte le scienze che ali' economia e al miglior uso della guerra si riferiscono, nelle passate vicende non avremmo presentato ai nemici solamente degli eroi, ma della furberia, degli inganni, della previdenza, della tattica raffinata, insomma, meno l'esperienza pratica, tutto avremmo potuto utilizzare in nostro vantaggio ed a danno altrui, che la militare strategia veramente comprende. 100 '"· 99 100 -

Torino, presso tutti i librai 1849. Torino, Cassone 1850. 1 militi ... (Cit.), p. 108.


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Non crede - come invece fa il Cattaneo - a una reale possibiJità di sollevare tutta l'Italia, di ricevere soccorsi da altri Stati, di conquistare subito, dall'interno, le fortezze del quadrilatero: io mi ricordo di aver fatto osservare: che non bisognava pretender miracoli; che un popolo abituato ai comodi della vita e snervato nei piaceri non poteva, su due piedi, diventare una falange d'eroi; che una moltitudine di armigeri improvvisati avrebbe sempre avuto la peggio contro una massa compatta di truppe organizzate, ma era fiato al deserto [...]. Mi si rispondeva: che tutta Italia si sarebbe sollevata come un sol uomo; che le truppe ungheresi ed italiane ivi stazionate, avrebbero preso l'iniziativa in nostro favore; che le fortezze del Lombardo-Veneto verrebbero simultaneamente padroneggiate dai propri abitanti; che ogni città, villaggio, casolare, si trasformerebbe in un forte, in un ostacolo; che ogni petto italiano presenterebbe uno scudo al nemico; che tutti gli eserciti della penisola volerebbero in nostro soccorso; che anche gli altri Stati della sfasciantesi monarchia austriaca avrebbero secondato il nostro movimento; che la suddetta potenza, già sgomentata e vicina a un fallimento, doveva impreteribilmente crollare; che la nostra santissima causa era benvista da tutta Europa; che Francia e Svizzera, coi loro eserciti, sarebbero intervenute generosamente, onde cooperare alla conquista della nostr-c1 indipendenza. .. 101

Tra le sue idee e quelle del Cattaneo vi è contrasto totale su altri aspetti importanti: se l'arte militare fosse così semplice come dice il Cattaneo egli osserva- non si capirebbe perché gli Stati d'Europa mantengono inutilmente tante accademie, collegi e istituti di educazione militare; né si capirebbe perché, nonostante una lunga istruzione, non tutti gli allievi diventano buoni ufficiali, e ancor di meno si trovano buoni ufficiali superiori, e pochissimi dotti generali; che poi la studiosa gioventù fosse degna di capitanare, cioè di condurre al macello la moltitudine (non mai soldati agguerriti, perché questi nol consentirebbero), lo credo: ma come la guiderebbe? ...Né si tratta di saperne come un povero croato, ma bensl come gli officiali, che ne spingevano le orde. Finalmente anche per diventare un buon soldato semplice fa d'uopo qualche esercizio. Tutto è facile, quando si considera superficialmente; ma cambia d'aspetto, se si penetra in tutti i rami particolari, ed essenziali che costituiscono l'insieme di un' arte [... ]. Tutte cose semplici; ma intanto ogni giorno, uomini invecchiati nel mestiere, che sono tuttora molto indietro, per non dire peggio [... ). Tutte cose semplicissime, anzi naturalissime; eppure è appunto qui ove, militarmente parlando, si scorgono i veri principi dell'imperfezione, o della perfezione organizzatrice. 102

101 1

Considerazioni (Cit.), pp. 19-20.

°'- ivi, pp. 83-84.


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Ci si trova evidentemente di fronte a1 contrasto radicale tra l'ex-ufficiale di carriera in un esercito che dell'accurata istruzione e organizzazione ha sempre fatto la sua bandiera, e un intellettuale totalmente digiuno di esperienza militare come il Cattaneo, il quale, fautore di un esercito di cittadini, è portato a semplificare troppo i problemi di comando, di istruzione e di organizzazione. Però il Lorenzini è lungi dall'avere un concetto puramente teorico, scolastico e schematico della strategia, come molti militari del suo tempo: dà il giusto rilievo all'esperienza, allo studio, alla conoscenza delle varie branche dell'arte della guerra, la quale consiste "nella maniera più economica, più facile, più pronta e meno pericolosa, per condurre gli uomini alla difesa, o alla conquista di un dato punto"; ma precisa che "la strategia, come la politica, esige fatti e genio, non ciarle e teorie". Un concetto clausewitziano e non jominiano insomma, secondo il quale colpo d'occhio, talento naturale, precisione, costanza, energia e fortuna, sono le rare qualità che costituiscono l'uomo strategico o politico. Le scuole sono eccellenti ed indispensabili, le teorie vogliono essere imparate [ ... ]. Perciò è indegno quell'ufficiale, che spreca un tempo prezioso, destinato aJlo studio indefesso de' suoi doveri ; ma altrettanto compa<;sionevole colui che a tenore dei fatti compiuti, de' spropositi consumati, crede saper altrui dettare (in punto di strategia) infallibili consigli. 101

Il genio strategico, così raro, non lo possedeva certo Radetzky, il qua1e " fu proclamato un genio, senza aver fatto altro, che seguire scrupolosamente le norme prescritte nei regolamenti militari austriaci". Invadendo il Piemonte da Pavia, nel marzo 1849 egli non ha fatto un'operazione strategica lodevole, ma ha commesso "uno sproposito, per non dire una bestia1ità" perché si è lasciato a1le spalle "un vulcano [cioè la Lombardia N.d.a.] di prossima e certa eruzione", l'Esercito piemontese che era certamente non foferiore al suo, e infine la guardia nazionale. Avrebbe dovuto essere sottoposto a un consiglio di guerra... a meno di pensare, che "il tradime·n to non era estraneo a11e disposizioni del vecchio maresciallo austriaco". 104 Ma per il Lorenzini, questa è un'ipotesi da escludere: nelle aspre polemiche che seguono la fine della guerra per giudicare il comportamento dei singoli, in linea genera1e ognuno si studiava di far palesi, o accrescere, le supposizioni favorevoli al proprio assunto, o alla propria causa, dimenticando, o proditoriamente tacendo, quanto poteva in senso opposto influire. Così senza prove di fatto, senza relative fondate induzioni, ma considerando semplicemente gli effetti delle azioni parziali, si pretendeva giudicare e condannare le altrui supposte intenzioni.'os 101 1

04.

IOS.

militi (Cit.), pp. 106-107. ivi. p. 109. ivi, pp. 39-40. /


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Nel caso specifico della condotta delle operazioni, chi conosce bene le differenze tra l'esercito austriaco e quello piemontese sa benissimo a quali cause vanno attribuiti i risultati della guerra 1848/1849: ma chi è ignaro dei vigenti metodi della milizia, che misura gli eventi dagli effetti, chi specialmente decide col cuore ulcerato dal dolore, non può essere giudice competente; e bisogna pur compatirlo, se altamente opinando per un'annata ed esageratamente disprezzando l'altra, finl col sospettare di tradimento quella, sulla di cui virtù contando, riteneva e desiderava vittoriosa, mentre invece purtroppo fu vinta [...]. Ma perché si vorrebbero incriminare i pensieri, quando fatali combinazioni purtroppo indussero a malignare?'°"

In questo modo il Lorenzini fa indirettamente emergere le contraddizioni del Cattaneo e di parecchi altri, i quali parlano di tradimento e di malafede del re e di Chrzanowsky, e al tempo stesso, giudicano con la massima severità la professionalità dei Quadri e la preparazione dell'Esercito piemontese. Riguardo ali' impostazione politico-strategica della guerra, ancora una volta divergendo dal Cattaneo il Lorenzini si limita a constatare che c'era un esercito piemontese in campo, il quale con il suo re alla testa intendeva battersi con gli austriaci. Questo fatto al momento bastava: non si doveva pensare alla politica, all'annessione o all'autonomia della Lombardia, al futuro assetto dell'Italia, ma solo ad assicurare un efficace concorso della Lombardia alla guerra. Non ci poteva essere libertà senza aver prima conquistato l'indipendenza dall'Austria: il resto veniva dopo, quindi non era il caso di fare una guerra separata dalla piemontese, né di fare il processo alle intenzioni piemontesi. Per il Lorenzini, insomma, si tratta solo di prendere atto che l'Esercito piemontese è protagonista fondamentale e insostituibile della guerra ali' Austria: in quest'ottica, a suo giudizio 1' armistizio offerto da Radetzky durante le cinque giornate avrebbe dovuto essere accettato, sia pur con le dovute precauzioni. Anche se probabilmente Radetzky lo chiedeva per far riposare le truppe o per attendere rinforzi, esso avrebbe fornito una serie di vantaggi. Infatti

la nostra salvezza, benché indirettamente, dipendeva dalla venuta del1'esercito piemontese, senza di cui Radetzky nor ci abbandonava [nostra sottolineatura - N.d.a.]; perciò coll'armistizio si sarebbero risparmiate molte vittime, si potevano rinforzare le barricate verso le porte, e si dava tempo all'esercito piemontese di eseguire le sue mosse, onde arrivare alle spalle degli assedianti. Quindi aumentava il numero delle colonne armate, che già da tutte le parti venivano in nostro soccorso, e da tutti insieme con l'appoggio degli stessi milanesi potevasi disfare l'esercito austriaco già componente la guarnigione di Milano e

106 ·

ivi, p. 107.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

impedirgli la ritirata. Ciò avrebbe molto influenzato il morale delle province, avrebbe forse deciso il movimento insurrezionale di Verona e Mantova, avrebbe compìto lo sgomento di tutti i nostri nemici residenti in Italia, e loro avrebbe impossibilitato di ingrossare le fortezze. 107

La mancata accettazione dell'armistizio è solo uno dei tanti aspetti della serrata critica del Lorenzini alla gestione lombarda della guerra, nella quale si avvale della sua competenza militare e dell'esperienza diretta. Condanna il caos imperante nella direzione dell'insurrezione, con due comitati - il consiglio di guerra e il comitato di difesa - che emanavano ordini contradditori, fino a diffondere tra i milanesi l'opinione che, vista la grande disorganizzazione, la cacciata degli austriaci da Milano era stata un vero miracolo. Se i piemontesi non si fossero decisi a muoversi e gli austriaci ad andarsene, la città sarebbe rimasta senza viveri e munizioni, e avrebbe dovuto cedere ... Anche della gestione da parte lombarda della guerra dopo le cinque giornate il Lorenzini, con maggiori particolari e maggiore competenza del Cattaneo, traccia un quadro estremamente critico - fino a risultare sconcertante - in tutti i settori, a cominciare dal reclutamento, dalla scelta dei Quadri e dall'organizzazione pletorica del Ministero della guerra e dei Comandi. Il ritardato approntamento della divisione lombarda e le sue lacune, che ha modo di constatare personalmente, diventano così solo l'appendice secondaria di un tutto dove nulla si trova di buono. Ottimisticamente, però, ritiene che si sarebbero potuti trovare facilmente Ministri della guerra, capi militari e Quadri intermedi migliori. Anzi, in proposito è inaspettatamente ancor più ottimista e superficiale del Cattaneo, e nonostante le precedenti, assennate considerazioni sull'impossibilità di rendere improvvisamente guerriero un popolo da molto tempo non aduso alle armi, vorrebbe dimostrare che con una politica di reclutamento mirante a utilizzare al massimo sia il personale di leva, sia i Quadri e la truppa comunque già appartenenti all'esercito austriaco, sia i volontari, si sarebbe potuto disporre rapidamente di 200.000 uomini (60.000 uomini dell'esercito regolare, divisi in tre corpi d'armata; 40.000 appartenenti a corpi franchi e unità irregolari e volontarie; 50.000 guardie nazionali, 50.000 reclute arruolate con la leva in massa). Non si chiede, però, quale sarebbe stato lo spirito combattivo e l'addestramento di un siffatto personale, né se era possibile armarlo ed equipaggiarlo in così breve tempo; tutto questo ottimismo puramente numerico sembra in contraddizione con la sua insistenza sull'impossibilità di formare buoni ufficiali e buone truppe in poco tempo, e sulla necessità di colmare le lacune logistiche con una buona organizzazione. Prevede di organizzare i Servizi logistici utilizzando personale civile già specializzato, e non concorda con i denigratori dei corpi franchi o irregolari; con tale termine

'

07 ·

Considerazioni..(Cit.), p. 26.


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intende, peraltro, solo coloro che "comandati da un degno capo, riconosciuti dal rispettivo governo ed annunziati ufficialmente al proprio paese" si mettono agli ordini del comandante supremo dell'esercito regolare. Essi non possono sostituire l'esercito regolare, che è in grado di svolgere attività operative ben più importanti; ma ciò non significa che siano inutili, o d'imbarazzo: "che anzi, se non sono in caso di sfidare l'inimico di fronte, possono però sempre inquietarlo, tenerlo a bada, deviargli l'attenzione; molestandolo alla spicciolata, nei fianchi e in tutti i sensi, onde facilitare ali' annata principale l'attacco o la difesa generale"108. Nei Militi lombardi in Piemonte il filo - piemontesismo del Lorenzini non gli impedisce di criticare l'operato degli organi che devono vagliare i titoli degli ufficiali lombardi per l'ammissione nell'Esercito piemontese dopo la prima fase della guerra; al tempo stesso disapprova con forti parole il comportamento assai poco edificante di molti lombardi rifugiatisi in Piemonte. Sugli eventi che portano alla definitiva sconfitta di Novara pone una serie di interrogativi strategici, attribuendo le maggiori responsabilità della sconfitta allo stesso Chrzanowsky e non al solo generale Ramorino comandante della divisione di cui ha fatto parte, il quale pure ha le sue colpe e avrebbe abbandonato il suo posto fin dal 2 marzo. A suo giudizio, il generale polacco avrebbe dovuto controllare se i suoi ordini erano stati eseguiti oppure schierare altrove la divisione lombarda, visto che gli dava poco affidamento. Inviandola a presidiare Alessandria, avrebbe impedito ag1i austriaci di penetrare in Piemonte lasciandosi alle spalle una piazzaforte; e dopo aver fatto questo, avrebbe dovuto invadere la Lombardia, dove poteva contare su una sicura insurrezione. Almeno in questa fase difende la divisione lombarda, i cui componenti avrebbero potuto essere scelti meglio, ma non erano poi così scadenti e male addestrati da meritare le severe censure solo ad essi rivolte; la difesa non riguarda però i comandanti di brigata (dei quali uno sarebbe stato poco all'altezza de] suo compito) e il comandante della divisione prima del Ramorino (generale Perrone), che avrebbe fatto più danno del Ramorino stesso. Giudica severamente anche l'operato durante e dopo i fatti della Cava del generale Fanti, Capo di Stato Maggiore e successore del Ramorino, che mentre quest'ultimo non era presente al posto comando non ha preso alcuna iniziativa e non si è mosso neanche dopo. l()'J I militi lombardi in Piemonte si chiudono con una malaccorta difesa della Guardia Nazionale, i cui difetti secondo il Lorenzini non starebbero nella sua istituzione, ma negli abusi o errori individuali dei componenti: come se non si trattasse di due aspetti intimamente collegati, perché un'istituzione o legge è buona, solo se all'atto pratico si dimostra tale. Eg1i coglie l'occasione anche per condannare l'obbedienza cieca e assoluta tipica del-

108 · 109 ·

ivi. pp. 93-97. I Militi... (Cit.), p. 102.


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l'esercito austriaco, che fa del soldato non un onorato e fedele guerriero, ma un assassino. Se qualsiasi ordine superiore deve essere eseguito ciecamente, diventano possibili da parte degli ufficiali di grado più elevato il tradimento o l'inosservanza degli ordini ricevuti; invece "il guerriero, per essere onorato, deve sentire di essere cittadino, deve conoscere l'importanza della sua missione, deve sapere contro chi e perché va a combattere; dopo ciò la morte sia l'unico castigo alla menoma disobbedienza, o esitazione" .110 Si dice che il soldato non deve ragionare: "è verissimo, e perciò venga esso istruito in modo che non gli resti luogo a dubbi, a osservazioni, a ragionamenti; e perciò non si abusi della sua obbedienza per fargli commettere aggressioni, delitti, assassinii". Se la nazione ha cambiato la sua legislazione, ha cambiato "colore o registro", non si deve condannare una parte della nazione stessa a rimanere immobile o retrocedere: "finché un paese nutrirà nel proprio seno certe caste, le quali, sia per interesse, sia per ignoranza, opinano, tendono, agiscono diversamente da tutto il resto della massa sociale, non sarà mai né libero, né indipendente". Anche per questi aspetti accessori, e al di là dei punti di caduta c de1l' atteggiamento a volte prudente nei riguardi del Piemonte di cui è ospite, il Lorenzini ci ha lasciato un'opera che sia dal punto di vista tecnico-militare che politico non è di interesse inferiore rispetto alla molto più celebre e celebrata Insurrezione di Milano del 1848 del Cattaneo. Ne risultano confermate le inefficienze, le divisioni, le umane miserie, le ambiguità, che sono state la vera palla al piede di ambedue i contrapposti schforamenti politico-militari italiani, e che più di tutto hanno favorito un avversario, il quale ha avuto il vantaggio di una leadership strategica non napoleonica ma prestigiosa agli occhi del soldato, salda, chiara e unitaria, dunque in grado di operare con criteri di stretta razionaJità militare, senza condizionamenti esterni. In questo senso, la figura di Radetzky acquista assai maggiore spessore di quel che vorrebbero il Lorenzini e il Cattaneo. Gli errori piemontesi e gli ammaestramenti della guerra secondo Cesare Balbo

Oltre che con quelle del militare lombardo Lorenzìni, le tesi del Cattaneo vanno confrontate con la contrapposta visione "piemontese" di Cesare Balbo, che pur essendo stato Presidente del Consiglio nella prima fase delle operazioni, non risparmia critiche nemmeno alla preparazione e condotta politica e militare della guerra e, al tempo stesso, verifica alla luce degli eventi le sue precedenti teorie (Voi. I cap. XI).

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ivi, p. 194.


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Nell'Appendice al Sommario della storia d'Italia'11 (1856) egli critica l'impreparazione militare del Piemonte nella quale "Carlo Alberto procedette molto lentamente, insufficientemente". E nota la mancanza di coordinamento tra i tempi dell'intervento dell'Esercito piemontese e quelli dell'insurrezione: i milanesi non avrebbero dovuto iniziare l'insurrezione, fino a quando l'Esercito piemontese non fosse stato pronto. Invece il 19 marzo Carlo Alberto dà ordine di adunare l'Esercito sul Ticino, e il 20 fa sapere agli inviati milanesi che "arde dal desiderio di prestare soccorso" e ha già dato tutti gli ordini possibili; così nella notte dal 22 al 23 "dopo cinque giornate di sollevamento inopportunamente fatto, meravigliosamente proseguito e finito" Milano è libera. Nella descrizione di quanto avviene dopo si trova il nocciolo duro della sua interpretazione: lo stesso giorno 23 marzo "cinque ore prima che giungesse nuova a Torino [nostra sottolineatura - N.d.a.], la guerra d'indipendenza era dichiarata dal piccolo re di Piemonte, cioè di 4 milioni e mezzo di anime, senza una alleanza, né una politica, all'Imperatore d'Austria, cioè di 36 milioni, appoggiato dall'a11eanza d'Europa del 1815 [cioè dai principali paesi d'Europa firmatari della Santa Alleanza e quindi favorevoli allo status quo - N.d.a.l". Benché il Piemonte disponga di forze inferiori a quelle austriache, il primo ciclo di operazioni fino a metà aprile 1848 procede bene e rapidamente. Però l'insurrezione di Milano, della Lombardia e del Veneto - là ove c'è stata - non ha avuto gran peso, non ha annullato - né poteva farlo - le cause della superiorità austriaca, né ha messo in grado l'Esercito piemontese di condurre quelle operazioni rapide e risolutive, che in realtà non erano alla sua portata. Di qui la sua polemica non solo contro i repubblicani e i democratici, ma - fatto rilevante - anche contro la maggior parte del governo e dei consig)jeri del re: il grido d'Italia, cioè dei settari, dei tribuni di piazza, degli oratori di circoli, degli scrittori di giornali, del Governo provvisorio di Milano, forse senza eccezioni, e quello stesso dei Ministri e consiglieri del re con pochissime eccezioni, era che si passasse attraverso i due fiumi [il Mincio e l'Adige, sui quali erano le fortezze del quadrilatero - N.d.a.J, le quattro fortezze, i 60 mila nemici, per dar mano a Venezia, Vicenza e le altre città, e si portasse la guerra agli sbocchi, anzi alle cime del1' Alpi da Como a Trieste. Né fa meraviglia che la povera Italia, inesperta di guerra anche più che di politica, gridasse siffatte stoltezze; sì il può fare che rimangono queste in alcuni libri di uomini anche militari. Quand'anche fosse stata vera, generale ed armata insurrezione, in Lombardia e Venezia, sarebbe stata inutilità, fanciullaggine, correre a dar la mano a' Veneti, prendendo piede in Lombardia, che è la solita

"'

Cfr. e.Balbo, Sommo.rio della storia d'Italia (con appendice - Ed. 1856), Firenze, Sansoni 1962 (a cura di M. Fubini Leuzzi). Cfr. anche, in merito, F. Landogna, La prima

gue"a d'indipendenza nel giudizio di Cesare Balbo, "Bollettino dell'Ufficio Storico" 1927,pp. 257-273.


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perdizione di tutte le guerre d'insurrezione. Ma questo poi non era né poteva essere in Lombardia o né in Venezia, non v' essendo arme colà, né potendone dare il Piemonte, che non n'avea purtroppo, il corredo suo intiero per il proprio esercito; ondechè, chi accusa Lombardi e Veneti di non essersi levati ad insurrezione armata, è poco meno ingiusto che chi accusa il re di non esser corso a congiungersi (quand'anche fosse stato materialmente possibile) con quelJ'insurrezione che non esisteva. Il fatto sta che gli eventi tutti di questa guerra dimostrano ora facilissimamente ad insegnamento (che Dio voglia non disperdere) delle generazioni future, che la somma, che il tutto di questa prima ardita forse temeraria generosa guerra d'indipendenza, era, doveva essere, non poteva non essere se non nell'esercito piemontese; che questo doveva dunque serbarsi, salvarsi, mantenersi, accrescersi, aiutarsi, incoraggiarsi, lodarsi, amarsi e quasi adorarsi unicamente da tutta Italia; e tenersi perciò dal suo capo coraggiosamente, inalterabilmente sulla difensiva, ogni volta che non venisse un'occasione quasi sicura di offensiva; e prendersi, questa allora solamente, e finché durasse l'occasione, tornando poi alla difensiva, dando tempo alle popolazioni di procacciarsi armi ed esercitarvisi; ed ai prìncipi italiani di mandar aiuti, ed ai popoli di accorrervi dando

tempo, insomma, a quel tempo che è il più grande alleato di tutte le guerre d'insurrezione, che era allora i] solo nostro. Ma le solite grida fecero fare una guerra tutta opposta, una guerra in furia, una guerra che volevasi corta e grossa, e questo fu l'errore che perdette tutto, che li perderà se occorre, altre volte; perché da questo nacquero tutti gli altri, piccoli o grandi, numerosi, di rado interrotti, sempre risorgenti, e finalmente fatali" 112

Queste riflessioni dell'Appendice al Sommario della Storia d'Italia vanno integrate con le Note inedite sulla campagna 1848-1849 pubblicate nel 1936 a cura di Eugenio Passamontim, in certo senso più interessanti perché riassumono l'atteggiamento di Balbo sui principali problemi storici e d'attualità del momento, trattati avendo sempre sullo sfondo le vicende della guerra. Quest'ultime non scuotono, ma confermano ]a sua fiducia ne]1'Esercito e nelle tradizioni militari piemontesi, le uniche in Italia; a suo giudizio, infatti, una vera tradizione militare italiana non c'è mai stata. Del ruolo dell'esercito napoletano nella guerra del 1848-1849 non parla: ne mette però in evidenza - polemizzando col CoHetta - il costante, cattivo comportamento in guerra dal secolo XVIII in poi e si dichiara ottimista su] futuro, trovando comunque positivo che ai due estremi d'Italia vi siano due eserciti di 100.000 uomini ciascuno. Ma per cogliere i frutti di questa situazione " è necessario non rifar gli errori fatti", mescolando insieme guerre

112 •

113·

ivi, pp. 466-467. Peraltro, a fine marzo 1848 il Balbo si dimostra favorevole a un rapido intervento piemontese, così come La Marmora (C. Spellanzon, Il vero segreto di re Carlo Alberto, Parenti, Firenze 1953, pp. 31 e 66-67). C . Balbo, Scritti militari (a cura di E. Passamonti), Roma , F.d. Roma 1936, pp. 199-241 .


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esterne e guerre intestine e la conquista dell'indipendenza italiana con quella della libertà, o della supremazia di uno Stato italiano sugli altri. Ciò premesso, gli specifici insegnamenti che Balbo trae dal 1848-1849 accentuano l'insostituibilità e l'utilità degli eserciti permanenti basati sulla leva rispetto a ogni altra forma di reclutamento: esercito volontario sul modello inglese, guardia nazionale e/o nazione armata, leva in massa. L' esperienza storica - egli afferma - dimostra che gli eserciti di leva ebbero gran parte nelle guerre della Rivoluzione Francese e dell'Impero, e che furono protagonisti di gran parte delle rivoluzioni nel periodo seguente, fino al 1848. In quanto a tali rivoluzioni, è fresca in ognuno la memoria, e già il notammo, come che, incominciate senza gli eserciti, esse finirono, poche, bene, le altre, male; ma tutte quante per opera degli eserciti. E notammo pure essere ciò naturale: perché chi ha la forza in mano, non si lascia a lungo scartare dagli affari. E qui, poi, aggiungeremo, essere ciò tanto più naturale, agli eserciti di leva. Perciocché insomma, questa sorta di eserciti è fatta di cittadini che tutti sono giunti o giungono appunto allora aU'età di esercitare i loro diritti politici, che 1i esercitano, mentre stanno sotto la bandiera, e a cui si dice, bensì: voi avete due qualità distinte da non confonder~ mai, di cittadini e di soldati, e che manterranno, forse 99 delle 100 volte, tale distinzione, ma non la capiranno o non vorranno capire alla centesima, la quale sarà appunto la più importante.

Proprio perché in quanto politici, gli eserciti di leva si battono a seconda dei casi per l'una o l'altra parte politica: invano si dice loro: le baionette non debbono essere intelligenti, intelligenti sono coloro che le portano. Invano [si dice loro], dovete essere per la legge; rispondono: dov'è la legge? noi crediamo sia qui. E chi dice loro: dovete essere per il principe, per il potere esecutivo, non fa altro che determinare il loro intervento, ma non lo toglie. E chi dice: dovete essere per la bandiera, lascia l'intervento indeterminato, lo mette in mano di chi porta la bandiera, la toglie meno che mai.

In definitiva di tratta di scegliere tra tre mali: "o avere un esercito forte, che finisca, più o meno largamente, le sue rivoluzioni; o uno insufficiente, che faccia correr il rischio di lasciarle decidere e finire dagli eserciti stranieri; o non averne nessuno, e così rivolgere questo rischio in certezza". Peraltro gli eserciti volontari sul modello inglese non sono convenienti, perché si intromettono nelle rivoluzioni meno di frequente degli eserciti di leva, ma si comportano peggio. · Tra i due modelli di esercito di leva - quello prussiano e quello francese il Balbo, probabilmente influenzato dalla cattiva prova data dalle riserve piemontesi nella guerra, preferisce quest'ultimo, anche se è meno economico. Infatti i soldati di riserva che passano poco tempo sotto le armi, "sono tanto meno soldati e tanto più cittadini. Onde due gravi inconvenienti: che servono


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meno bene contro a qualunque nemico esterno, e sono poi, anche all'interno, più pericolosi, più parteggianti, più entranti nelle rivoluzioni". Certamente non amico dei sommovimenti popolari, egli fa un'altra constatazione: che "uno o pochi paesi fecero eccezione, in Europa, tra le stoltezze, le viltà, le indiscipline del 1848; né si dovettero tali eccezioni ad altro che a quest'abito di disciplina militare" prodotto, appunto, dalla leva e da parecchi anni trascorsi nell'esercito. Se ne deduce che gli eserciti di leva "sono certamente la migliore, la più sana, la più virile, la più efficace di tutte le scuole, danno la migliore delle educazioni, che possa essere per qualunque nazione; migliore, che quella di qualunque altra scuola primaria, secondaria, od universitaria, esistente od immaginabile" Sempre sulla base dell'esperienza storica fino al 1848-1849, Balbo è molto scettico sull'utilità della guardia nazionale: ovunque è servita a poco o nulla, si è divisa in fazioni come i cittadini ed è stata facilmente debellata dagli eserciti. Pur essendo una forma di milizia, non serve né per assicurare l'estrema difesa contro gli eserciti invasori né contro i- moti popolari: al massimo può servire "come supplemento o aggiunta de11'esercito". Chiama erroneamente "guardia nazionale" anche 1'ordinamento tipo nazione armata, che è altra cosa perché prevede un obbligo esteso a tutti i cittadini; e afferma che la guardia nazionale esiste come esercito essa stessa, cioè supplisce alla mancanza d'un esercito, solo in Svizzera e negli Stati Uniti. Ma quest'ultimi non hanno vicini pericolosi, e hanno da temere solo invasioni via mare e provenienti da molto lontano, "epperciò poco numerose, epperciò vincibili da un esercito mediocre ma numeroso, o anche dalla minaccia di esso, come avvenne nell'invasione inglese del 1814". Il caso della Svizzera è diverso e anzi opposto, ma conduce alle medesime conclusioni: la sua neutralità è sempre stata violata quando lo si è ritenuto necessario, il suo esercito non ha mai salvato il Paese dalle invasioni, pur essendo gli svizzeri soldati valorosi. Anche i migliori soldati del mondo hanno bisogno di tempo per raccogliersi e ordinarsi, e la guardia nazionale più degli altri. È vero che l'esercito di leva costa di più in pace: ma, come avviene in genere nella politica, tutto si risolve in un bilancio degli svantaggi e dei vantaggi. Per questo (e qui egli è buon profeta) molte nazioni che hanno sia l'esercito che la guardia nazionale presto o tardi faranno i conti, e concluderanno che è già sufficiente, per la sicurezza esterna e interna, disporre di tre eserciti (esercito stanziale, carabinieri, polizia e guardie campestri), senza doverne pagare un quarto. Discutibili le sue riflessioni sulla "leva in massa", la cui riuscita o meno dipende evidentemente da una sola cosa: il consenso popolare, la fiducia nella bontà della causa per cui un governo adotta questo provvedimento eccezionale. Egli invece fa delle distinzioni, e crede di individuare delle leggi generali su un argomento che per sua natura non ne ammette, perché legato alle imprevedibili passioni dei popoli in un dato momento. Oltre a chiamare, come si è già visto "guardia nazionale" quello che è in


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reaJtà il modello della nazione armata, per leva in massa intende, in senso clausewitziano, il ricorso aJl'armamento generale del popolo, la sua mobilitazione totale in formazioni irregolari una volta che siano stati sconfitti e perduti sia l'esercito regolare di leva, sia quello di l'iserva costituito con le classi più anziane, sia infine la stessa guardia nazionale: pertanto, per BaJbo la leva in massa non significa arruolamento in massa per rafforzare in caso estremo l'esercito regolare. In questo senso, afferma che "le levate in massa sono, fra tutte le forme di milizia, la più terribile, e la più efficace o la più risibile e la più illusoria, secondo i tempi, i luoghi e le occasioni". E non cita la leva in massa del 1792-1793 che pure ha salvato la Francia, ma ricorda che "Napoleone fece il primo errore [di farvi ricorso] nel 1808 e vide scendere, fin d'allora, la sua fortuna; molti dei sollevatori del 1848 fecero il secondo e perdettero la rivoluzione". L'esempio positivo che fa testo è quello della sollevazione del popolo spagnolo nel 1808-1813, la quale dimostra che quanto più sono inciviliti, tanto meno i popoli sono atti alle "levate in massa"; e che, per quest' ultime, in linea generale sono adatti "i luoghi disabitati, e le città mediocri". I nostri tempi di progredita civiltà non si prestano alle leve in massa: lo dimostra quanto è avvenuto nel 1848 in Lombardia, [paese] il quale, essendo molto caldo in parole, scritti, bandiere e feste contro allo straniero minacciante, e perché quasi privo di esercito, era uno di quelli che avrebbe potuto rivolgersi meglio alle levate in ma'>sa; e v'era così confortato da uno scrittore, che si rivolse a un tratto contro a questo [provvedimento], gridando: "che? ci vuol egli far rovinare i nostri bei palazzi e il Duomo, quasi [fossero] fortezze?". E non ne fecer altro.... Una leva in massa non deve mai formare un esercito regolare. Lo si deduce dall'insurrezione della Vandea e della Spagna, nella quale l'insurrezione si è quasi spenta, non appena l'esercito inglese di Wellington ha ottenuto le prime vittorie. Sotto questo profilo, i milanesi nel 1848 hanno fatto come i Vandeani e gli spagnoli: cioé "si sono riposati" non appena è sopraggiunto l'esercito regolare di Carlo Alberto: se questo fosse rimasto al Ticino [cioè non avesse passato il confine N.d.a.J, minacciando e trattando fino ad avere gli 80 mila combattenti, che ebbe in 4 mesi appresso, o i 120.000 che ebbe in 10 e si potevano avere in 8 mesi, certo che i lombardi sarebbersi innalzati a più lunghe e maggiori prove; e forse che essi sarebbero ora liberi, e noi piemontesi, meglio riusciti in ciò che tentammo gloriosamente, ma invano. Per ultimo, le leve in massa non possono essere ordinate dall'alto. Pur essendo gran capitano, Napoleone non riuscì a farle:


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fu rimproverato a Carlo Alberto di non averla fatta in Lombardia; che non la faceva da sé, ed era naturale come spiegammo. Fu detto, che l'avrebbe potuta, passando in Milano invece di Pavia, che l'avrebbe dovuta farla fare per forza, insignorendosi di Milano, invece di correre al Mincio, allo straniero: miserie! Fu detto, che con le rivoluzioni si vogliono usare mezzi rivoluzionari, i mezzi francesi del 1793; i quali, per vero dire, non so che sieno, quando non si nominano altrimenti, e se non sieno forse i supplizi, i macelli, il terrore, la follia. Miserie e, peggio che mai, scelleratezze.

È però consolante il fatto che nel 1848 Milano, Venezia e Roma si siano sollevate, facendo cosl eccezione alla regola che vuole atte alle sollevazioni solo le piccole città: e se si aggiunge l'insurrezione di Vicenza, Bologna e Brescia, se ne deduce che l'Italia, terra classica delle città, in futuro potrebbe emulare la Spagna nella loro difesa. L'esercito regolare è la forma migliore di milizia, ma ciò non significa che si debbano trascurare o disprezzare "le altre forme minori, in quei popoli che, non avendo la forma migliore, fanno bene di ricorrere a queste minori". Nel 1848 i lombardi, non avendo un proprio esercito, avrebbero fatto bene ad arruolarsi nell'esercito piemontese: ma insomma, posto che i loro governi, i quali soli potevano, non fecero il meglio, parecchi lombardi fecero molto bene a levar corpi volontari, come quelli di Griffini e di Manara. E questi non fecero male l'ufficio loro; il secondo principalmente, si disciplinò, si costituì presto e bene in corpo di bersaglieri ordinati. E così, mostrarono di saper adattare al paese nostro quell'altra forma delle levate in massa, le guerriglie, che è un'altra, benché poca, speranza effettuata, un'altra consolazione e conforto d'Italia.

Insufficiente preparazione politica e militare della guerra da parte piemontese; inconsistenza e inaffidabilità delle insurrezioni popolari che non possono essere preordinate; superiorità e insostituibilità degli eserciti regolari e del modello francese a lunga ferma, che dunque non possono né devono fare affidamento su insurrezioni, leve in massa ecc .. Sono questi, per Balbo, i principali ammaestramenti della guerra, da lui ribaditi e meglio chiariti in senso moderato e conservatore nel commento all'opera del capitano svizzero Le Masson, che sarà esaminato nel prosieguo della trattazione. Le obiezioni di Cesare Balbo alle tesi di uno storico neutrale: il capitano svizzero Le Masson

Va collegato con l'interpretazione del Balbo il libro del capitano svizzero Le Masson Custoza1'4, definito dal Pieri "il miglior lavoro dal 11 •

A. Le Masson, Custoza 1848, Paris 1848; Torino, Cassone 1849 (in francese). Di minor interesse, ma anch'essa valida e lodata dal Pieri, la sua Histoire de la campagne de Novara en 1849 par l'autour de Custoza, Turin 1849.


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punto di vista militare",'perché acuto, obiettivo e con molte giuste critiche: tant'è vero che nel I 859 sarebbe stato attentamente letto dal quartier generale francese in Italia, il quale aveva anche pensato di chiamare il Le Masson a conferire con l'Imperatore. 115 Effettivamente l'analisi del capitano svizzero è sintetica, chiara e efficace; e anche se le sue osservazioni fanno emergere deficienze ed errori nel campo piemontese in massima parte già noti, egli direttamente o indirettamente dimostra che: a) non vi è stato tradimento, ma solo carenza di leadership da parte di Carlo Alberto e dei suoi collaboratori, non escluso Bava; b) Carlo Alberto non è l'unico o il maggior colpevole. Anche gli altri Stati italiani, le popolazioni e i governi della Lombardia e del Veneto, le fazioni repubblicane e democratiche hanno gravissime colpe; c) nel campo opposto, Radetzky ha dimostrato di possedere notevoli doti di stratega, ma ha potuto contare - diversamente da Carlo Alberto - sulla superiore saldezza e disciplina dello strumento a sua disposizione; d) l'obiettivo fondamentale dell'Esercito piemontese avrebbe dovuto essere quello di evitare che Radetzky ricevesse rinforzi. Secondo il Le Masson, nel periodo marzo-aprile Carlo Alberto ha commesso tre grandi errori: entrare tardi in Lombardia, senza approfittare della crisi dell'esercito austriaco; non attaccare vigorosamente un nemico indebolito e scoraggiato, e soprattutto non organizzare un' insurrezione generale, che avrebbe stretto l'Esercito austriaco da ogni lato. Ma avendo rinunciato ad avvalersi dell'insurrezione "per ragioni sulle quali è inutile soffermarsi, ma che non sono né politicamente né militarmente ammissibili", Carlo Alberto avrebbe dovuto almeno condurre vigorosamente e senza ritardo la guerra di eserciti. Alla fine d'aprile, l'Esercito piemontese era pronto; ma anziché condurre operazioni lente e inconcludenti "sarebbe stato possibile per 1'Esercito piemontese affermarsi sulla riva sinistra dell'Adige fronte alla Lombardia, occupando gli sbocchi del Tirolo; schierato su un fronte opposto rispetto a quel1a che occupava sul Mincio, avrebbe coperto il Veneto, isolato il nemico, e sbarrato la strada ai soccorsi. 1n questo modo l'Esercito austriaco, minacciato da tutte le parti, privo di rifornimenti in mezzo a una popolazione ostile o insorta, in una parola abbandonato a sé stesso, avrebbe abbassato le armi o almeno tentato di passare attraverso lo schieramento piemontese per guadagnare la frontiera: in ambedue i casi le piazzeforti sarebbero cadute, l' Italia sarebbe stata liberata dalla presenza austriaca e la guerra si sarebbe spostata sulle Alpi e sul1'Is0nzo" 116• Il Le Masson non è per l'offensiva ad ogni costo e si rende conto del1' intrinseca debolezza dell'Esercito piemontese: perciò ritiene che sia stato un errore del governo lombardo e piemontese non accettare la vantaggiosa

11

~

116

P. Pieri, Op. cit.• p. 836. ivi, p. 97.


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proposta di pace avanzata nel mese di giugno 1848 dal governo austriaco, che era disposto a concedere l'indipendenza alla Lombardia, sia pure al prezzo di sacrificare il Veneto e Venezia. Quest'ultima città avrebbe potuto essere abbandonata senza che questo fosse un tradimento, perché "l'ora dell'indipendenza non suona mai nello stesso tempo per un intero popolo". All'inizio di luglio, l'esercito piemontese avrebbe dovuto concentrare le forze e rimanere sulla difensiva: infatti aveva parecchie deficienze e due divisioni, la mista e la lombarda, "i cui componenti non meritavano il nome di soldati". Avendo invece preso l'offensiva, Carlo Alberto poteva solo scegliere quale errore commettere: e ha commesso l'errore di assediare una fortezza assai munita e difesa da forze superiori come Mantova, disseminando le forze ... Anche subito dopo la sconfitta di Custoza, Carlo Alberto ha fatto male a non accettare l'offerta austriaca di un armistizio, che dopo tutto lasciava in mano piemontese il territorio lombardo fino all'Adda, compreso quindi Milano. A loro volta i governi di Milano e Venezia hanno commesso molti irreparabili errori: avrebbero dovuto pensare unicamente alla guerra, invece hanno abbondato solo in leggi e proclami e non hanno fatto nulla di serio. Dopo le cinque giornate l'insurrezione è cessata ovunque in Lombardia, lasciando il posto a una guerra classica condotta assai poco energicamente, nella quale il Piemonte è stato assai poco aiutato dalla Lombardia e dal Veneto, co~ì come dagli altri Stati Italiani. L'organizzazione di reparti volontari ha costituito un'eccezione in questa scarsa partecipazione, ma i governi lombardo e veneziano non l'hanno affatto favorita, commettendo l'errore capitale di voler formare truppe regolari. Cosa che è difficile e richiede tempo ovunque, ma specialmente in questi paesi, e che date le circostanze era oltremodo inutile, perché già esisteva un esercito piemontese. In realtà il ruolo della Lombardia e del Veneto avrebbe dovuto essere quello di proseguire l'insurrezione, di fare delle leve in massa e di fornire ai corpi piemontesi tutti gli uomini che potevano inquadrare, invece di formare degli eserciti regolari di tutto punto r... ] si è cosl perso del tempo prezioso e si sono sprecate grandi risorse per avere solo delle truppe che prima della fine della campagna non furono in grado di misurarsi col nemico. Mancavano tutte le componenti per improvvisare una tale organizzazione in un paese che dopo più di 30 anni aveva solo un piccolo numero di militari di professione, che avevano raggiunto un qualche grado elevato [ ... ] si vedevano gli uomini più estranei alla vita militare trasformarsi improvvisamente in ufficiali superiori, aggiungendo all'ignoranza completa del mestiere delle armi una estrema indisciplina e la più ridicola furfanteria. 111

111.

ivi, p. 97.


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Sul piano generale, secondo Le Masson la crescente mollezza dei costumi e il progresso della scienza militare rendono la guerra ogni giorno più difficile, dando agli eserciti permanenti un vantaggio sempre più marcato contro le insurrezioni popolari. Quindi i popoli che vogliono essere militarmente forti devono fare assegnamento soprattutto su un esercito permanente ben organizzato; nel momento del pericolo possono ricorrere anche a reparti volontari che in una certa misura concorrono all'azione dell'esercito e gli danno il vantaggio del numero, ma queste formazioni improvvisate non devono aver niente in comune con la guardia nazionale, che non può essere considerata una riserva di qualche valore. Il Le Masson non trova niente di scandaloso nel fatto che Carlo Alberto volesse accrescere il suo Regno con l'annessione della Lombardia; in tutti i casi anziché combatterlo, dividere gli animi e minare il morale dell'Esercito con un'indegna propaganda, i radicali, i democratici, i giornalisti avrebbero dovuto capire che per il momento l'unica cosa saggia da fare era di unirsi a lui e combattere, mettendo da parte le discussioni politiche. A loro volta, i principi italiani avrebbero dovuto capire che la guerra all'Austria era nel loro interesse, "perché quale che fosse il suo esito, avrebbe consolidato il loro legame con la nazione e i cittadini assai di più che la concessione di costituzioni, delle quali i popoli non sono mai riconoscenti ai sovrani. D'altro canto, come avrebbero potuto gli Italiani essere riconoscenti verso dei governanti che offendevano il loro s~ntimento ~azionale e sembravano piuttosto temere, anziché desiderare, l' espulsione dell'Austria dall'Italia?" 118 • Carlo Alberto ha costantemente trascurato i principi fondamentali dell'arte della guerra, mentre le truppe piemontesi, e soprattutto le altre truppe italiane, hanno dimostrato "di non possedere quasi nessuna delle caratteristiche che fanno un buon esercito". Hanno mancato soprattutto di disciplina, che non consiste nell'osservanza meccanica dei regolamenti, ma "nell'unione indissolubile dei capi e dei gregari, che ne fa un solo corpo e una sola anima ed è la vera forza degli eserciti e delle nazioni". E qui il Le Masson è facile profeta e censore severo: l'indipendenza è figlia della disciplina, e fino a quando l'Italia non saprà riconoscere e praticare questa verità, non riuscirà a sottrarsi al giogo deJI' Austria; potrà ottenere qualche vittoria, ma i suoi successi saranno sempre effimeri. È solo perché non hanno voluto piegarsi alla disciplina, cioè unire le loro forze e le loro qualità individuali, superiori a quelle della maggior parte degli altri popoli, che i loro abitanti dopo tanti secoli sono ancora in un siffatto stato di debolezza, sia come esercito che come nazione. 119

111 - ivi, p. 106. u,. ivi, pp. 169-160.


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Le considerazioni del Le Masson sono di massima condivise dal Balbo 120 che probabilmente è influenzato dalla sua opera e molto ne loda la lucidità di giudizio, presentandola come prova della possibilità di scrivere la storia militare degli eventi assai più presto e più facilmente della storia politica. Dalla parte giusta - osserva il Balbo - vi era un esercito, quello piemontese, male organizzato e disciplinato, reso ancor più indisciplinato e anzi decomposto dalla rivoluzione; dalla parte opposta, un esercito così ben organizzato e disciplinato da resistere alle scosse della rivoluzione; la vittoria è toccata perciò a quest'ultimo. Questo dimostra che la guerra è cosa positiva e pressoché interamente materiale; che la fortuna è con i grossi battaglioni o meglio ancora, con i battaglioni ben organizzati e condotti; che le buone cause nazionali possono ben essere destinate a trionfare presto o tardi nel corso dei secoli, ma che quando la decisione viene portata sul campo di battaglia, essa non dipende che dall'applicazione naturale della più positiva delle scienze, la scienza della guerra.

Ciononostante, per il Balbo la storia della campagna del 1848-1849 non fornisce degli insegnamenti nuovi o di grande portata; quest'ultimi possono essere tratti solo da campagne condotte da grandi capitani con eserciti per cosl dire di prima qualità, e questo non è il caso della prima guerra d'indipendenza. Pur 19(iandolo, il Balbo non concorda con il Le Masson su alcuni punti essenziali, a cominciare dai veri errori di Carlo Alberto e dall'importanza data dal capitano svizzero alle insurrezioni. Naturalmente non nega - né ha mai negato - gli errori di Carlo Alberto e le sue scarse doti di condottiero, ma riconosce anche che senza di lui l'Esercito non si sarebbe battuto, e che ha dato prova di abnegazione. Bisogna anche tener conto che nessuno dei due condottieri in campo ha dimostrato quella capacità di concentrare le forze sul campo di battaglia, che ha fatto la grandezza di Napoleone; in particolare Carlo Alberto non può essere accusato di non essere entrato rapidamente in Lombardia, e di non aver organizzato l'insurrezione generale. Il periodo più favorevole per l'insurrezione è, in genere, quello che precede l'arrivo di un esercito: lo dimostrano la Vandea 1793, la Spagna 1808, la Germania 1813,... Dopo, essa non ha più i vantaggi di una buona insurrezione, né quelli di un buon esercito. E quando compare un esercito di soccorso, essa non solo si riposa, ma lo disturba e indebolisce. Nella fattispecie Carlo Alberto non pòteva organizzare nuJla, perché una vera insurrezione non esisteva; al di fuori di Vicenza e Venezia, nel Veneto le città non erano insorte; e le insurrezioni possono solo accendersi spontaneamente. Né Carlo Alberto, come suggerisce il Le Masson, avrebbe potuto passare attraverso il quadrilatero trascurando le fortezze, stabilirsi sulla riva '"'- C . Balbo, Scritti militari,(Cit.), pp. 165-198.


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destra dell'Adige ecc .. Un grande campo trincerato come il quadrilatero può essere aggirato, ma non vi si può passare attraverso senza forzarlo. Passando al di là del quadrilatero senza attaccare le fortezze, l'Esercito piemontese si sarebbe privato della sua base d'operazione, perché quattro fortezze e due fiumi avrebbero interrotto le sue linee di comunicazione. E sulla riva destra dell'Adige, sarebbe stato esposto all'azione di tutte le forze militari dell'Impero austriaco, vale a dire 400-500 mila uomini. Comunque, · un esercito come quello piemontese che scende in campo contro una potenza più forte come l'Austria, dovrebbe assicurarsi una base d'operazione adatta sia per l'offensiva che per la difensiva; tale base è data "dalla linea di frontiera alla destra del Po, la linea di Valenza, Alessandria e Genova, prolungata in avanti alla sua sinistra, fino alla Cava [presso Pavia] e, più indietro, a Casale". Premesso che Verona è ]a sola piazzaforte importante del quadrilatero (e non solo la più importante, come afferma il Le Masson) e che la sua conquista libererebbe l'Italia, per il suo assedio occorrerebbe un intero esercito di almeno 100.000 uomini; più in generale, per sradicare dal quadrilatero l'esercito austriaco sarebbero necessari due eserciti italiani. Bisogna infalli tenere conto anche della necessità di far fronte agli eserciti austriaci di soccorso che calerebbero dalle Alpi; e checché ne abbiano detto nel 1848 "gli avvocati, gli oratori e gli strateghi da caffé", i volontari non avrebbero potuto impedire da soJi la calata di Welden o Nugent nella pianura padana, mentre per difendere tutti i passaggi delle Alpi sarebbero state necessarie forze enormi. In conclusione, secondo il Balbo nelle future guerre d'indipendenza occorrerà disporre fio dall'inizio di due eserciti di almeno 60.000 uomini ciascuno, di forza uguale al]' armata di occupazione austriaca: solo in questo modo si potrà liberare da una parte la Lombardia e dall'altra il Veneto, per poi concentrarsi o riconcentrarsi per ]'operazione decisiva della conquista di Verona. E poiché il Piemonte in una nuova guerra potrà mettere in campo solo uno di questi eserciti, occorre che il resto dell' Italia fornisca il secondo. Quanto al Piemonte, mancherebbe ai suoi doveri sia verso sé stesso che verso l'Italia se corresse il rischio di intraprendere una nuova guerra d'indipendenza senza essere sufficientemente sicuro di poter contare su un secondo esercito, che potrebbe essere fornito dal mezzogiorno d'Italia o da una potenza straniera, la quale non può essere che la Francia. Con queste idee, il Balbo cade nell'estremo opposto rispetto al Le Masson. Interpretando a modo suo l'esperienza storica vuol dimostrare che non c'è possibilità di coordinamento, di concorso reciproco tra esercito regolare e insurrezione, ai quali conviene agire in tempi ben distinti: in tutti i casi, quello che conta è sempre e solo l'esercito. Dire che l'azione dell'esercito è preminente è un conto: ma questo non escJude che esso possa avvalersi, là ove è possibile, dell' insurrezione già in atto, coordinando e utilizzando tutti i possibili sforzi e apporti; cosa che in realtà l'esercito piemontese non ha fatto, sia pure non solo per colpa sua. Infine, sostenendo


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che la guerra è un fatto materiale, che quel che contano sono i battaglioni organizzati, ecc., il Balbo svaluta troppo quei' fattori morali, che sono un presupposto di efficienza e che in una guerra d'indipendenza sono ancor più che in altri casi la premessa per la vittoria finale. SEZIONE III - Scritti minori (Gentilini, Orsini, Blanch, Ulloa)

Includiamo in questa parte alcune riflessioni interessanti di autori anche ragguardevoli di varie e opposte tendenze politiche, che non dedicano al commento della guerra 1848-1849 delle opere organiche come i precedenti, ma solo qualche pagina dei loro scritti. Il mazziniano Enrico Gentilini pubblica a Capolago in Svizzera dove è rifugiato, un Riscontro allo scritto intitolato relazione delle operazioni militari dirette dal generale Bava datato 1° gennaio 1849121 , nel quale commenta - con critiche spesso scontate alla leadership militare piemontese - la prima fase della guerra. Si meraviglia che, come ammette anche Bava, non esista un piano strategico; tanto più che sarebbero bastate, per compilarlo, "alcune ore". Le operazioni dell'Esercito piemontese avrebbero dovuto avere lo scopo di impedire a Radetzky di ricevere soccorsi, costringendolo a "rinchiudersi in un piccolo spazio, e operare passivamente"; l'obiettivo era perciò costituito dalle montagne del Tirolo, che con Pavia e Mantova avrebbero formato il triangolo strategico nel quale condurre le operazioni. La mancanza di carte geografiche e topografiche, la mancanza di disciplina della truppa, la tendenza ad arrestare e spiegare le colonne per dare battaglia anche quando non era il caso ecc., dimostrano secondo il Gentilini che il Bava ha torto affermando che "i generali fecero il dover loro"; questo invece era il risultato dell'ignoranza dei Quadri e degli avanzamenti concessi non per merito ma per favoritismi. Anche all'eccessivo numero di uomini delle compagnie (lamentato, come si è visto, dal Bava) si sarebbe potuto "facilmente" rimediare, facendo in modo che nelle compagnie attive vi fossero sufficienti volontari istruiti, sì amministrativamente come nelle cose di guerra, onde al caso formare quadri di nuove compagnie, ed a ciò non venissero meno i furieri; giacché per la promozione o per la morte di questi potevano avvenir gravi guai, come purtroppo avvenne, nell'amministrazione di esse compagnie; oppure si doveva agli estremi aumentare il personale superiore di ogni compagnia, e concedere così almeno qualche posto al merito, aumentando il numero di uomini devoti alla causa italiana, e supplendo al difetto di disciplina e a11'incapacità de' superiori. 122

121

in.

Capolago, Tip. Elvetica 1849.

ivi. p. 10.


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Se le popolazioni lombarde - come scrive il Bava - erano inizialmente ben disposte verso i piemontesi ma poi hanno mutato atteggiamento, ciò è avvenuto perché è cambiato anche il comportamento dell'Esercito piemontese nei loro riguardi: "perché, cioè, fu scoperto o supposto che le intenzioni di quelli che stavano alla testa erano divenute altre da quelle che in su le prime eransi mostrate". Né è vero che, come afferma il Bava, esse non hanno voluto fornire i viveri all'esercito: "ignorate voi forse, signor generale, che l'armata aveva dietro di sè i provveditori, i quali erano ampiamente provveduti, ma sgraziatamente, per trascurataggine vostra o per ignoranza del vostro Stato Maggiore, diventavano poi i provveditori di Radetzky? 123". La mancanza di viveri, perciò, non è stata "il motivo principale della vituperosa fuga", e le sconfitte non sono dovute alla mancata collaborazione delle popolazioni lombarde. Il Gentilini rinfaccia poi al quartier generale piemontese di aver mandato le truppe toscane incontro a un sicuro macello, senza soccorrerle a Curtatone e Montanara, e di aver ordinato o permesso l'inutile incendio dei sobborghi di Milàno ai primi di agosto 1848. E dopo aver indirizzato le ormai consuete critiche all'operato del Governo lombardo in combutta con la camarilla di corte e ai generali piemontesi che hanno retto il Ministero della guerra a Milano e Torino, conclude che la causa delle sventure d'Italia è stata solo l'incapacità e la malafede dei dirigenti politici e militari: occorre perciò per il futuro, a Torino, un valido Ministro della guerra, con collaboratori altrettando validi. Dal suo punto di vista politico, quindi, il Gentilini non fa che ripetere, o amplificare, osservazioni e rilievi già presenti negli scritti dello stesso Bava e di altri piemontesi. . Pur essendo repubblicano, rivoluzionario, nemico dei principi e del dispotismo, Felice Orsini (vds. anche il successivo cap. X) nega che Carlo Alberto abbia tradito; avrebbe voluto vincere, anche se si è comportato alla maniera dei re, accettando di venire a patti dopo la sconfitta, pur di salvare la corona. Ha solo condotto la guerra "con una incapacità che toccava il ridicolo", e dopo aver proclamato, a torto, che "l'Italia farà da sé", ha rifiutato i volontari e mal preparato l'Esercito. I veri traditori sono stati gli altri principi italiani, i quali "corsero alla guerra col prestabilito accordo di ritirarsene, non appena loro si presentasse un'occasione"; Carlo Alberto ha ceduto solo alla forza, e "se poi diceva a Milano che resistesse, nel mentre che trattava con gli austriaci, seguiva ciò che avrebbe fatto qualunque re: voleva migliori condizioni, e tempo". 124 Del fallimento della guerra italiana !'Orsini non incolpa solo Carlo Alberto: hanno confuso e diviso gli animi sia gli scrittori moderati pie-

123 · ' 24

ivi, p. 11. F. Orsini, Memorie politiche Sonzogno, Milano 1858, pp. 41-42 (altra edizione: Torino, De Giorgis 1858).


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IL PENSIERO MIUTARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

montesi come Balbo, Gioberti, ecc., sia Mazzini: "da ciò nacque, che il popolo italiano non si scosse fino nelle viscere; che la rivoluzione rimase parziale e costituzionale; che non furono messi in moto gl'interessi tutti della società; che il contadino si stette muto e inerte alla guerra, che non intendeva; che dopo un primo slancio, l'entusiasmo si spense anche nelle città". Solo la rivoluzione in Lombardia ha fatto eccezione: "là, l'elemento popolare si ridestava; là non riforme, non paga, non misticismo, ma guerra allo straniero, ma libertà e indipendenza. Là insomma grìdavasi Pio IX e riforme, come mezzo a mostrare l' opposizione all'austriaco, non come fine" 125 • La guerra 1848/1849, alla quale ha partecipato solo un esiguo numero di combattenti provenienti da tutta Italia, dimostra che in Italia non è possibile una sollevazione popolare in massa come è avvenuto in Spagna, mentre i moti provocati dal Mazzini hanno solo fatto vittime inutili; manca all'Italia anche un Capo di grande personalità e prestigio, che abbia qualità politiche e militari tali, da renderlo una sorta di Washington italiano. Perciò per il trionfo della causa dell'indipendenza nazionale, non si può fare a meno di un esercito ben organizzato, quale può essere solo quello piemontese. L'indipendenza si può avere anche senza la libertà: ne è esempio la Francia, nazione indipendente e potente in Europa ma sotto il governo dispotico di Napoleone ill. In sostanza l'Orsini, pur rimanendo repubblicano e rivoluzionario come Garibaldi, finisce con l'assumere posizioni affini a quelle dei moderati, anteponendo l'indipendenza alla libertà e riconoscendo indispensabile l'Esercito piemontese, quindi anche la monarchia costituzionale che lo controlla. L'esigenza dell'unità e indipendenza nazionale e la lotta allo straniero, che pure accomunano uomini di diverse tendenze politiche, sono invece guardate come pericoli e come espressione di una fazione nociva al vero progresso e ai veri interessi dello Stato da una figura illustre del nostro pensiero militare: il napoletano Luigi Blanch (Voi. I cap. VII). Lo abbiamo già definito pensatore europeo, non italiano: ma commentando la guerra del 1848/1849 e il suo significato storico si rivela senza ombra di dubbio antitaliano e reazionario come pochi, fino ad affermare: non avemmo alcuna fiducia nel movimento italiano fin dal suo sorgere, anche quando si mostrava puramente giobertiano, e da molti, ma non da noi; s'ignorava che Mazzini ne sarebbe stato l'erede [... ]. Accettammo lealmente la Costituzione, sperando potesse durare e adoperandoci a ciò; ma quando vedemmo la gioia con cui fu accolta la rivolta del febbraio [1848 in Sicilia, che apre il ciclo delle insurrezioni in Europa e vuole, oltre che le libertà costituzionali, l'autonomia N.d.a.] e ci accorgemmo che nel paese vi erano o cospiratori o stolti, meno un piccolo numero senza influenza, disperammo deJJa causa, e ci

'

25 ·

ivi, pp. 38-39.


Vlll - LA GUERRA IJEL 1848-1849

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persuademmo che si voleva sostituire allo stato dell'Italia prima del 1848 una dittatura socialista (sic) che non poteva dare la libertà, perché doveva distruggere lo stato esistente, di cui la libertà deve essere garante, e non poteva dare l'indipendenza perché distruggeva ogni organizzazione militare: così avremmo avuto prima il dispotismo di Mazzini e della sua fazione, poi la anarchia, finalmente la conquista estera. Allora vedemmo la questione italiana sotto l'aspetto di una guerra di princip1, in cui le nazionalità diventavano secondarie: ed i tedeschi [cioè l'esercito austriaco e la politica dell'Austria - N.d.a.] divennero per noi ciò che i francesi dopo il 1789 erano per i patrioti italiani (sic), ed in Piemonte e a Napoli non pensavano alla nazionalità ma al trionfo di que' che avevano dottrine credute più utili al bene comune, benché respinte dalle masse di cui non tenevano conto. '26

Perciò il Blanch contesta l'affermazione di Pier Silvestro Leopardi e Girolamo Ulloa, che la sconfitta del 1848 sarebbe dovuta al ritiro dal Veneto del contingente napoletano, ammontante a 15.000 uomini. In realtà, dedotte le forze impiegate altrove e quelle che seguirono "non senza inganno" il Pepe a Venezia, il contingente ritornato nel Regno non oltrepassava gli 8.000 uomini; è stato quindi "un assurdo" far dipendere da essi le sorti della guerra. Se quel contingente fosse rimasto nel Veneto, ne sarebbe venuto per il Regn.o di Napoli gran danno, facendogli perdere "interi corpi organizzati, a pieno discapito di sua reputazione, e tutto questo, senza alcuna previa intesa col Piemonte! Oh certo, se mai vi può essere alto tradimento da parte di un Ministero, quello è d'impegnare il proprio paese senza l'ombra di un trattato ... " 127 • In realtà - prosegue il Blanch - quegli uomini sono stati mandati in Veneto solo per indebolire il governo di Napoli e salvare la rivoluzione siciliana ... Quei sette battaglioni, rientrati nel Regno, hanno ripreso Messina e l'intera isola: se ciò non fosse avvenuto, la rivoluzione in Sicilia sarebbe continuata, e si sarebbe estesa all'Italia Meridionale fino a raggiungere il Po. Difendendo la repressione del governo napoletano di Ferdinando II dopo il 1848/ l 849 contro le critiche del Gladstone, il Blanch afferma persino che "la reazione è più o meno dappertutto, e ciò è moralmente, psicologicamente, meccanicamente, naturale. La società, minacciata, reagisce ...". Attacca poi con acredine "la fazione" democratica e liberale, che nel 1820 avrebbe esposto il Regno di Napoli all'umiliazione di una facile conquista straniera e rovinato le sue finanze, e che nel 1848, dopo che le finanze erano state riassestate e le persecuzioni politiche erano cessate, "riapriva l'era delle rivoluzioni, e ottenuto lo Statuto, bene accetto a tutto il paese quale termine della lotta, ne ricominciava una nuova, con la mira di gettarci nell'anarchia, di farci perdere definitivamente la Sicilia, e sacri"" L. Blanch, Scritti storici (Vol. Il), Bari, Laterza 1945 (a cura di Benedetto Croce), pp. 375-376. 127 · ivi, p. 374.


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ficare tutte le nostre risorse per ingrandire un Regno, a discapito del nostro, nell'Alta Italia" 128. Di parere opposto a quello del Blanch è il citato generale Girolamo Ulloa (vds. cap. I e Il), già Capo di S.M. di Guglielmo Pepe nella difesa di Venezia nel 1848-1849, ma nel 1859 ripassato dalla parte del Borbone, che segue anche nell'esilio romano dopo il 1860. Eppure nei Brevi cenni sulla spedizione del corpo di Esercito napoletano nell'ultima guerra d'Italia in risposta alle narrazioni storiche pubblicate da Pier Silvestro Leopardi (Torino, Tip. Biancardi 1856), l'Ulloa difende a spada tratta l'operato del Pepe e la sua figura, accusando invece il Re di Napoli - e ancor più il suo entourage, i Ministri e i legittimisti, tra i quali cita lo stesso Blanch - di doppiezza e mala fede, per aver cercato in tutti i modi prima di tener lontano da Napoli il Pepe, poi di ostacolare e ritardare con pretesti vari l'approntamento del corpo di spedizione destinato a recarsi nel Nord-Est agli ordini dello stesso Pepe per combattere l' Austria, e infine di aver tentato evitare - minandone l'operatività e con ordini dilatori - l'entrata in azione delle truppe napoletane, una volta che queste erano giunte sul Po. Efficace dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, delle divisioni, della mancanza di unità d'intenti, delle sotterranee ostilità alla guerra nazionale contro l'Austria che serpeggiano in tutti gU Stati Italiani, e in larga parte degli intellettuali e delle classi dirigenti ... Non si capisce, perciò, la ragione che, poco tempo•dopo, spinge l'Ulloa nelle braccia di quegli stessi ambienti, che ancora nel 1856 mostra di disprezzare tanto: solo risentimenti personali?

SEZIONE IV - Le considerazioni della parte austriaca: Willisen e Schonhals

Per valutare serenamente e con obiettività gli eventi di una guerra occorre gettare lo sguardo anche nel campo avversario. Diamo pertanto quakhe cenno delle opere del generale e scrittore militare prussiano Willisen12·i, che durante la guerra è stato consigliere del quartier generale austriaco, e del generale Scbonhals, anch'egli tra i principali collaboratori di Radetzky 130. Il Willisen fornisce un'interpretazione della campagna assai rispettosa dei canoni classici della teoria strategica, fino a dimostrarsi fedele seguace delle teorie dell'Arciduca Carlo ; eppure vede giusto il Pieri quando osserva che, nonostante "lo stile pretenzioso e a volte insopportabile" e pur mostrandosi assai poco benevolo verso gli italiani, non manca di fare osservazioni penetranti. 131

129 ·

ivi, pp. 384-385. Cfr. La campagna d'Italia nel 1848 e:,posta e giudicata dal maggior generale prussia,w

130 ·

Cfr. K. Schéinhals, Memorie della gue"a d'Italia degli anni 1848-1849 di un veterano

"'

austriaco (2 Voi.), Milano. Guglielmini 1852. P. Pieri, Op. cit., p. 836.

•21.

[WilhelmJ Willisen (dicembre 1848), Torino, Cassone 1851.


VIIl -LA GUERRA DEL 1848-1849

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Come Balbo e altri, il Willisen non intende trarre delle indicazioni teoriche dagli avvenimenti ma, al contrario, trovarvi la conferma pratica di principì teorici ben saldi e già stabiliti, e della linea di condotta che essi avrebbero suggerito ad ambedue i belligeranti. A suo giudizio gli italiani hanno iniziato la campagna con una totale ignoranza della teoria della grande guerra, perché non hanno capito che i loro sforzi dovevano essere tutti rivolti alla linea del Po, e pur avendone mantenuto il possesso per quattro mesi, non hanno fatto nulla per rafforzarla. Inoltre una volta giunti tra il Mincio e l'Adige, avrebbero dovuto interrompere la linea di comunicazione principale austriaca, quella da Verona per Vicenza e Venezia o Udine. La linea di comunicazione attraverso il Tirolo va considerata solo come secondaria, "poiché la linea retta lungo l'Adige, sopra Ala, quando l'armata si trova dietro Verona, è già sbarrata di sua natura, e non restano che le laterali, sopra Schio e per Val1' Arsa, e quella di Bassano per Val Sugana verso Rovereto e Trento, le quali possono ancora servire". L'obiettivo degli italiani avrebbe pertanto dovuto essere Vicenza, e una volta giunti nel Veneto la loro linea di comunicazione per rimanere sicura avrebbe dovuto essere rapidamente cambiata e stabilita su Bologna - Ferrara - Rovigo. Un vero condottiero italiano già prima del Mincio " avrebbe voltato strada per passare il Po a Guastalla o nei dintorni, e circuire, sopra Ferrara e Rovigo, le forti linee del Mincio e dell'Adige, dopo avere assicurata la propria comunicazione. Ferrara era a tale intento. la più importante conquista che si potesse fare, le venti volte più importante dell'inconcludente Peschiera" 132 • L'Esercito austriaco aveva chiaramente dimostrato la volontà di non abbandonare la posizione difensiva di Verona, perciò l'Esercito piemontese avrebbe potuto evitare anche di passare due volte il Po, e "già a mezzo aprile, avanzarsi direttamente sopra Albaredo, passar quivi l'Adige, oppure fra l' Adige e il Po, mascherato Legnago, marciare verso Rovigo. È cosa intesa che in tal caso non avessero a mancare né ponti, né teste di ponte". In un periodo di gravi difficoltà, nel quale non avrebbe potuto mettere in campo più di 25.000 uomini, l' Esercito austriaco avrebbe potuto fare ben poco di fronte a una simile manovra: domando se non sarebbe stato allora ridotto decisamente ad una cattiva linea pel Trrolo, o pure costretto a riaprirsi la sua comunicazione principale col Friuli, per mezzo di una battaglia, data in una condizione strategica la più svantaggiosa. Posto benanche che l'armata italiana avesse potuto eseguire questo movimento con 60.000 uomini alla fine di aprile o al principio di maggio, epoca in cui gli austriaci, in causa dell'insurrezione, erano stati cacciati anche da tutte le città di terraferma del Veneto, non si finirebbe mai di far le meraviglie sulla totale imperizia strategica, colla quale, senza nemmeno un presentimento di quanto importa in una guerra, [l'Esercito piemontese] intraprende non-

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WiJlisen, Op. cit., pp. 39 e 41.


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dimeno cose sì grandi, perde il tempo prezioso della propria superiorità, o in cose secondarie' 33 •

Una volta interrotta la linea di comunicazione tra Verona e il Friuli, se l'Esercito austriaco non avesse abbandonato Verona e non si fosse presentato sul terreno tra Este e Verona stessa, l'Esercito italiano evitando di battersi con una fortezza nemica troppo vicina alle spalle avrebbe dovuto dirigere l'offensiva su Trento attraverso Bassano e la Valsugana, "lasciando osservata Verona e operando contemporaneamente una dimostrazione in Val d'Arsa, al di là di Schio"_ La gravitazione lungo il Po e il rafforzamento delle sue sponde sarebbero stati necessari anche per la difensiva: con Cremona dotata di fortificazioni provvisorie e un ponte stabile sul Po, dopo Custoza l'Esercito piemontese avrebbe potuto agevolmente passare sulla riva destra e qui riprendere fiato e rafforzarsi. Il curatore del libro del Willisen Riccardo Ceroni, ex-ufficiale austriaco lombardo passato nel 1848 dalla parte degli insorti di Milano (vds. cap. Il), condivide nella sostanza le sue idee, non concordando solo sulla scarsa importanza data dal Willisen a Peschiera, che avrebbe potuto essere trascurata solo escludendo la possibilità di una diversione austriaca in Piemonte (peraltro da ritenersi poco probabile) o promuovendo la leva in massa e la guerra per bande in Piemonte e Lombardia. TI Ceroni osserva che le manovre autunnali austriache sull'Adige prima della guerra erano effettivamente basate sull'ipotesi di un attacco a Verona da Est e aggiunge: "però ci sgomentava non poco il leggere nelle memorie del generai Bava, ufficiale d'altronde reputatissimo, che il re Carlo Alberto, avendogli parlato di 'attaccare Verona dalle eminenze e sulla riva sinistra dell'Adige, progetto che aveva alcuni partitanti nell'esercito', egli vi si oppose energicamente". Citando Bava, il Ceroni osserva anche che ai primi di maggio 1848 la forza operativa dell'Esercito piemontese non era di 60.000 uomini come stima Wi1lisen, ma di 45.000; va aggiunto che, oltre tutto, questi 45.000 uomini erano mal riforniti e assai male in arnese. In conclusione, a noi sembra che il disegno strategico suggerito da Wùlisen sia di per sé buono, ma tale da richiedere una forza superiore assai più salda e manovriera e una leadership più dinamica e sempre al corrente delle mosse del nemico. Sono di molto minor peso le riflessioni strategiche dello Schonhals, che essendo stato di stanza in Lombardia dal 1830 al 1848 si avvale della sua buona conoscenza della regione e dell'Italia, le cui vicende storiche e le cui condizioni politico-sociali sono da lui interpretate ad usum delphini. Il Pieri definisce quello del generale austriaco "lavoro interessante e nell'insieme abbastanza equo" 134• Concordiamo sull'interesse ma non sulB l. 134 ·

ivi, PP• 42-43. P. Pieri, Op. cit., p. 837.


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l'equità, e inoltre, restringiamo l'interesse d~l libro non alla parte strategica e militare, ma agli aspetti di contorno. E infatti un'ottima dimostrazione della tipica mentalità militare austriaca (che - intendiamoci - ha anche i suoi pregi) e del sottile veleno antitaliano che contraddistingue 1e riflessioni di questo reazionario nel senso classico del termine, negatore del1 'idea nazionale e del diritto dei popoli all'indipendenza. Per lo Schonhals l'Impero austriaco, con alla testa un Imperatore dal quale dipende esclusivamente l'Esercito, è una costruzione perfetta, custode de1l'ordine e della stabilità in Eµropa; chiunque lo combatta - non esclusi i politicanti liberali austriaci del 1848, che formano il nuovo governo a Vienna - è un traditore, e, nel caso italiano, anche un ingrato che mal ricompensa il governo buono e mite e la disinteressata amjcizia e liberalità dell'Austria. · In tal modo lo Schonhals vede con il fumo negli occhi (tacciandoli di tradimento, demagogia e politica subdola, preparata di lunga mano) non solo i liberali di tutta Italia, ma in primis Carlo Alberto lo stesso Pio IX; e dedica largo spazio a illustrare la costante mitezza delle repressioni austriache e la buona disposizione del suo governo, del quale gli italiani e i lombardi fedifraghi approfittano. Giudica Carlo Alberto come mero strumento della rivoluzione, che se ne avvale fino a quando non verrà anche la sua ora; e dietro tutte le insurrezioni italiane a suo giudizio c'è 1' attenta regia di Mazzini, da lui presentato come rivoluzionario geniale e estremamente pericoloso. Per contro, si profonde in lodi incondizionate al maresciallo Radetzky, del quale rimarca accanto -all'acume strategico la generosità e la costante mitezza verso quegli insorti italiani che pur lo hanno tradito, e verso il Piemonte e 1o stesso Re Carlo Alberto, ai quali impone quando sono ormai alla sua mercé - vantaggiosissime condizioni di armistizio. Nessun sospetto che dietro questo quadro edificante, ci siano precisi interessi austriaci in Italia, e ci sia la non convenienza di alimentare altro odio verso chi opprime la Lombardia. Ci sarà pure stata una ragione nella crescente avversione agli austriaci, che ancor prima del 1848 - come ammette lo stesso Schonhals - si diffonde a Milano, in Lombardia, nel Piemonte e negli altri Stati! Il suo astio maggiore è però rivolto alla nobiltà milanese e alla ricca borghesia lombarda, che sdegnano il servizio dello Stato austriaco e oziano nei caffé, sobillando il popolo contro gli austriaci e finanziando e preparando la rivolta; ha invece parole di simpatia per i contadini lombardi, che si dimostrano fedeli sudditi dell'Impero e accolgono con freddezza e senza collaborare le truppe piemontesi. Dal punto di vista militare, egli indica gli eserciti come restauratori della pace europea minacciata nel 1848-1849: è inammissibi]e l'opinione che il soldato non sia atto che a distruggere; egli sa anche conservare. Tre grandi Stati che già si trovavano sul punto di rovinare, Francia, Pmssia e Austria, furono ~alvi pei soldati.


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Ove sol uno di questi Stati avesse dovuto soggiacere a quel crollo, e cadere in preda all ' anarchia, per lunga pezza la pace sarebbe stata bandita dal mondo. 135

Lungi dall'essere obiettiva, l' opera dello Schonhals è esclusivamente diretta a sminuire il peso e la portata delle vittorie de1l'Esercito piemontese, le cui poche ma troppo esaltate battaglie vinte (come ad esempio quella di Goito) a suo giudizio sono state solo dei combattimenti senza esito definitivo, o hanno segnato una ritirata austriaca autonomamente decisa_ Proprio per questo ciò che afferma a proposito delle insurrezioni e della situazione dell'Esercito austriaco nei primi tempi della guerra, acquista particolare importanza. Nella visione dello Schonhals, infatti, l'insurrezione iniziale de])e città in Lombardia e nel Veneto ha gran peso e mette in gravi difficoltà l'Esercito di Radetzky: quasi quasi è l'insurrezione e non l'Esercito piemontese il nemico principale. Le diserzioni, le defezioni e le capitolazioni in varie città fanno perdere a Radetzky ben 20.000 uomini, perché 1/3 circa della forza a sua disposizione era composto da italiani, "sì che il Feldmaresciallo dopo la sua congiunzione col corpo di Nugent non era più forte di quando scoppiava la rivoluzione, e senza quena diserzione sarebbe stato in grado, appena raccolte le sue forze, di riprender tosto l'offensiva, come era suo divisamento".' 36 Per fortuna "sebbene dell'italiano sia facilissimo fare un soldato, e di più egli sia atto a divenire un valente soldato, come ad esempio lo dimostrarono i cavalleggeri Kress (ora Granduca Alessandro di Russia) ed altre truppe italiane dell'esercito, pure non ama il mestiere delle armi e non può essere chiamata un popolo propriamente guerriero"; cosicché la maggior parte delle truppe lombarde passate agli insorti semplicemente approfittarono dell'occasione per liberarsi del servizio militare, si sciolsero e se ne andarono a casa. Se tutte le truppe fossero passate alla rivoluzione, Carlo Alberto avrebbe potuto disporre subito di 20.000 uomini in più: ciò non avvenne, e a fatica fu formata una divisione lombarda di 8.000 uomini, che non andò mai al fuoco. "Se il denaro che la rivoluzione sprecò nella formazione di una guardia nazionale tanto inutile quanto ridicola, fosse stato impiegato nella formazione di un certo numero di battaglioni leggeri, ella avrebbe almeno fatto qualche cosa pe' suoi; per lo contrario essa non fece che estenuare il paese e trarre a rovina l'infelice Carlo Alberto" 137 • Nel periodo maggio-giugno 1848 l'evento cruciale è stato, per lo Schonhals, la riconquista di Vicenza, avvenuta l' 11 giugno: anche Treviso e Padova caddero, e l'Esercito austriaco poté di nuovo riempire i suoi magazzini e aprire una Iiuova via di comunicazione con il Tirolo attraverso

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36-

1 1 '

SchOnhals, Op. cit., Voi. I p. 98. ivi, Voi. I p. 103. ivi, Vol. I pp. 103-104.


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la Vall' Arsa, vanificando così gli effetti della contemporanea conquista da parte piemontese della posizione di Rivoli, che sbarrava la via del Tirolo per le provenienze da Verona. Lo Schonhals, comunque, ammette che all'injzio della guerra sarebbe stata possibile per i piemontesi la conquista di Trento e la sollevazione del Tirolo italiano, obbligando Radetzky per lo meno a distogliere cospicue forze da Verona, perché non poteva rinunciare all'unica via di comunicazione con il resto dell'Impero. Ma Carlo Alberto ha commesso l'errore di non rafforzare "quelle orde irregolari" destinate a penetrare nel Tirolo "con alcune migliaia di ben ordinate truppe, alcuni pezzi di cannone e un buon generale, al che i suoi savoiardi gli avrebbero somministrato un buon materiale". Invece il generale Allemandi si mostrò talmente poco all'altezza della situazione da venire accusato di tradimento, e sempre a parere dello Schonhals - i volontari non fecero che fuggire davanti alla decisa azione del generale austriaco Welden. Dopo aver messo in rilievo che nel giugno 1848 il governo lombardo ha reso un grande servizio all'Austria rifiutando le vantaggiose proposte di pace inoltrate dal debole governo liberale di Vienna, lo Schonhals osserva che la fucilazione del generale Ramorino è stato "un assassinio legale", anche se si tratta di un "avventuriero rivoluzionario" che avrebbe più che meritato la fucilazione in altre occasioni. Chrzanowsky ha dato ordine al Ramorino di occupare la posizione della Cava entro il 20 a mezzogiorno, cioè troppo tardi, quando già le truppe austriache incominciavano a passare; se la posizione della Cava era tanto importante, avrebbe dovuto essere occupata e fortificata molto prima e con truppe di più sicuro affidamento. La sola divisione lombarda poteva fare ben poco contro l'intero esercito austriaco, anche perché "le nostre truppe, i reggimenti italiani in ispecie erano talmente inaspriti contro que' disertori lombardi, che [questi ultimi] non avrebbero resistito mezz'ora, e se lo avessero tentato sarebbero stati distrutti dal primo all'ultimo". Ramorino ha mandato sulla sinistra del Po quattro battaglioni ed è rimasto sulla sua destra con le restanti forze, perché ha creduto, a torto, che il quarto corpo austriaco valicando il Po a Spessa avrebbe tentato di forzare la stretta di Stradella, che dunque doveva essere difesa; ma Chrzanowsky è stato sorpreso e ingannato al pari di Ramorino, perché ha creduto che il rombo del cannone dalla parte della Cava sarebbe bastato ad avvertirlo del pericolo sulla sua destra. Infondata la valutazione da parte dello Schonhals dei riflessi politici della vittoria austriaca nel 1849, la quale avrebbe salvato l'Italia da una guerra rovinosa, che ne avrebbe fatto il terreno di scontro tra le principali potenze d'Europa. La debolezza dell'Esercito piemontese sia nel 1848 che nel 1849, a suo parere è dovuta anzitutto a11'app1icazione del modello organico prussiano, che ha comportato l'immissione massiccia nell'esercito di riserve poco motivate, poco disciplinate e poco addestrate a causa della brevità della ferma; in tal modo il Piemonte ha rovinato le sue finanze per mettere in campo senza esito un effettivo "in proporzione alle sue forze inaudito" di 150.000 uomini, sconfitto in tre giorni.


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Ma anche se il Piemonte fosse riuscito a conquistare la Lombardia, ne avrebbe conservato il possesso un solo anno, perché la Lombardia non avrebbe mai tollerato di diventare una provincia del Piemonte, mentre la ritirata dell'Austria dall'Italia "sarebbe stata il segnale di una sanguinosa guerra civile in tutta la penisola, e il paese ne sarebbe uscito alla fine più sminuzzato e 'indebolito di prima". Per lo Schonhals la lingua non basta a unire "le diverse tribù di un popolo": lo dimostra la stessa Germania, nella quale scarse simpatie legano tra di loro austriaci, prussiani, bavaresi ecc .. I tedeschi si sono uniti contro Napoleone; ma subito dopo sono rinati ancor più vivi, tra di loro, l'antica divisione e l'antico odio: "così e in maggior proporzione sarebbe avvenuto dell'Italia, se ai capi del partito rivoluzionario fosse venuto fatto di distruggere l'Austria". Affermazioni smentite dalla storia degli anni successivi.

Conclusione Dando dei fatti della guerra 1848/1849 una propria interpretazione politica che non è qui oggetto dì trattazione, Antonio Gramsci non manca di fare di verse osservazioni di interesse militare anche oggi assai stimolanti. 138 A suo giudizio, il problema essenziale era non solo di espellere dalla penisola l'esercito austriaco, ma di impedire il suo inevitabile ritorno in forze, perché l'abbandono dell'Italia avrebbe messo in pericolo l'intera compagine dell'hnpero. In questo quadro, la direzione militare era una questione più vasta della direzione dell'esercito e della determinazione del piano strategico che l'esercito doveva eseguire: essa comprendeva in più la mobilitazione politico-insurrezionale di forze popolari che fossero insorte alle spalle del nemico e ne avessero intralciato i movimenti e servizi logistici, la creazione di masse ausiliarie e di riserva da cui trarre nuovi reggimenti e che dessero all'esercito "tecnico" l'atmosfera di entusiasmo e di ardore[... ]. Si può affermare che quanto più un esercito è numeroso, in senso assoluto, come massa reclutata, o in senso relativo, come proporzione di uomini reclutati sulla popolazione totale, tanto più aumenta l'importanza della direzione politica su quella meramente tecnico-militare.

L'obiettivo strategico nella guen:a del Piemonte all'Austria non poteva essere quello - irraggiungibile e utopistico - di distruggere uno dei più potenti eserciti d'Europa: il Piemonte avrebbe dovuto perciò tendere a disgregare l'Impero, favorendo soluzioni federalistiche e l'assunzione al potere in forma stabile dei liberali, "o almeno crearvi uno stato prolungato

""· A. Gramsci, Quaderni dal carcere.


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di lotte interne che desse respiro alle lotte nazionali italiane e pennetesse loro di concentrarsi politicamente e militarmente". Invece - prosegue Gramsci - le soluzioni del problema allora presentate da varie parti, erano tutte contradditorie e inadeguate: "L'Italia farà da sé" fu la parola d'ordine piemontese del 1848, ma volle dire la sconfitta disastrosa. La politica incerta, ambigua, timida e nello stesso tempo avventata dei partiti di destra piemontesi fu la cagione principale della sconfitta; essi furono di una astuzia meschina, essi furono la causa del ritirarsi degli eserciti degli altri Stati italiani, napoletani e romani, per aver troppo presto mostrato di volere l'espansione piemontese e non una confederazione italiana; essi non favorirono, ma osteggiarono il movimento dei volontari; essi, insomma, volevano che solo armati e vittoriosi fossero i generali piemontesi inetti a una guerra tanto difficile. L'assenza di una politica popolare fu disastrosa: i contadini lombardi e veneti arruolati dall'Austria furono uno degli strumenti più efficaci per soffocare la rivoluzione di Vienna e quindi anche italiana; per i contadini il moto del Lombardo-Veneto era una cosa di signori e studenti come il moto viennese [... ]. Esiste una certa tendenza a sopravvalutare l'apporto delle classi popolari al Risorgimento, insistendo specialmente sul fenomeno del volontariato [... ] posto il principio che "L'Italia fa da sé", bisognava o accettare subito la Confederazione con gli altri Stati italiani o proporsi l'unità politica territoriale su una tale base radicalmente popolare, che le masse fossero state indotte a insorgere contro gli altri governi, e avessero costituito eserciti volontari che fossero accorsi accanto ai piemontesi.

Invece, dimostrando scarso acume "le tendenze di destra piemontesi" hanno pensato di poter vincere gli austriaci con le sole forze regolari piemontesi, o al massimo avrebbero voluto essere aiutate senza contropartite: "nella realtà non si può pretendere entusiasmo, spirito di sacrificio ecc. senza una contropartita neppure dai propri soldati di uno Stato; tanto meno si può pretenderla da cittadini estranei allo Stato, su un programma generico e astratto e per una fiducia cieca in un governo lontano". E Gramsci conclude che la responsabilità della sconfitta va attribuita "sia ai moderati, sia al partito d'azione [... ], cioè, in ultima analisi, alla immaturità e alla scarsissima efficienza delle classi dirigenti". Se all'espressione "destra" o "tendenze di destra", si sostituisce "esclusivismo militare piemontese", c'è molto di vero in queste osservazioni di Gramsci, ampiamente confermate dall'analisi compiuta. Non c'è dubbio che, come ammette persino il Cattaneo, la tendenza della gioventù borghese colta a raggrupparsi in battaglioni a parte con speciale e più lasca e incerta disciplina, anziché assumere quel ruolo di guida militare delle classi inferiori che lo stesso rango sociale e il maggior grado di istruzione loro imponeva come loro primario dovere, è stato un segno non indubbio di debolezza e immaturità sociale e nazionale della classe dirigente italiana. Così facendo i pochi volontari pur valorosi non hanno fatto che impreziosire


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il ruolo di quell'Esercito piemontese che essi non vedevano di buon occhio, come se la disciplina militare per cosl dire tradizionale e il lungo addestramento non fossero una necessità oggettiva per vincere una guerra e non solo qualche combattimento, fossero una cosa solo per gente dappoco e per contadini, fossero un'invenzione di generali tardigradi. A tal proposito, le ripetute considerazioni dei militari piemontesi sulla scarsa idoneità delle truppe volontarie ad affrontare in campo aperto l'Esercito austriaco e sull'impossibilità di contare su un assetto organico costante e senza defezioni dei reparti volontari, non sono certo frutto di prevenzioni politiche o chiusure tecniche, ma sono confermate dal Cattaneo e da altri anche nel campo democratico. D'altro canto era chiaro che - come esplicitamente o implicitamente ammettono il Balbo, l'Orsini e altri - il motto "l'Italia farà da sé" (troppo ambizioso viste le forze in campo) imponeva per forze di cose due sole vie per il successo di una guerra ali' Austria: o un Esercito piemontese ben preparato, ben condotto e competitivo anche per numero rispetto a quello austriaco, o un Esercito piemontese che, non potendo contare sull'aiuto francese, doveva necessariamente fare ricorso su larga scala, senza andare tanto per il sottile, alle forze insurrezionali, ai volontari e a quant'altro fosse disponibile in Italia, inserendo il tutto in un quadro strategico coerente. L'evidenza dei fatti ha dimostrato che né l'uno né l'altro di questi presupposti ineludibili per uno sbocco positivo della guerra si è verificato: c'è stata solo una guerra piemontese, prima di tutto perché solo l'Esercito piemontese ha tenuto nelle sue mani la chiave della vittoria o della sconfitta. È qui che l'analisi di Gramsci si rivela insufficiente e ambigua, si ferma a metà strada: perché le responsabilità vanno equamente divise tra l' establishment politico-militare piemontese, incapace di preparare e condurre bene la guerra con l'Esercito, e tutte quelle correnti d'opinione, quei movimenti e schieramenti i quali hanno preteso o meglio sognato di conquistare l'indi. pendenza e la libertà senza e contro l'Esercito piemontese, quindi anche senza e contro il Piemonte e la stessa monarchia piemontese, quali che fossero i suoi limiti. In altre parole, qui ali' atto pratico si poneva il problema strategico inverso: era realmente possibile cacciare l'Austria con le sole forze insurrezionali, senza l'aiuto dell'Esercito piemontese? Dando torto al positivista e intellettuale Cattaneo, i fatti hanno dato ragione fin da allora all'uomo di spada e d'azione Garibaldi e dimostrato che non era possibile. Si sarebbe, certo, potuto fare questo o quest'altro; intanto non si è fatto, e le vicende del governo provvisorio lombardo e dei suoi provvedimenti militari sono emblematiche. Gli scritti esaminati, quindi, ancora una volta non fanno che confermare che né nel campo albertino e piemontese, né nell'opposto campo democratico e repubblicano si sono tratte le conseguenze da precisi dati di fatto della situazione, i quali tutti portavano ad applicare il duro principio "necessità fa legge". Con la sua Insurrezione di Milano del 1848, Carlo Cattaneo rimane in sostanza il portabandiera di una linea politica e militare perdente almeno


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quanto quella dei retrivi ambienti di corte che sono la sua ossessione e, per lui, il principale e più pericoloso nemico. Ha quindi più torto che ragione il Pieri quando scrive che l'Insurrezione di Milano nel 1848 "è uno scritto polemico, ma dovuto a un'intelligenza superiore; e ad onta delle intemperanze, del suo astio non solo verso Carlo Alberto, ma verso i piemontesi, e del molto materiale documentario apparso in seguito, la sua critica è nell'insieme giusta" 139 • Senza contare che Cattaneo, con il suo astio contro la nobiltà ecc. dimostra di non aver imparato il vero significato delle guerre d'indipendenza americana e spagnola: le guerre naziona1i si vincono unendo insieme tutte le forze sociali e militari disponibili, senza aprioristicamente escluderne alcuna. Non l'hanno forse dimostrato le guerre nazionali anticolonialiste dopo il 1945? In quanto ai Quadri, il problema vero non era (come sosteneva il Cattaneo) di ridurre proporzionalmente tra di essi i nobili, o al contrario di eliminare i Quadri democratici ecc.: si trattava di avere Quadri validi quale che fosse la loro origine sociale, e basta. Se si tiene conto di questo contesto, la sconfitta piemontese diventa automaticamente sconfitta italiana; e l'infinita querelle sul tradimento o meno di Carlo Alberto e dello Chrzanowsky perde molto smalto, perché tutti i mali nascono da divergenti obiettivi politico-strategici e dal mancato concorso reciproco di due forze ugualmente indispensabili per la vittoria, che proprio perché singolarmente troppo deboli, di tale concorso avevano ambedue bisogno. Sotto questo profilo il Balbo e il Cattaneo sono i porlabandiera di due correnti di pensiero contrapposte che tuttavia ispirano in modo ugualmente rovinoso i protagonisti italiani della guerra. La tesi del Balbo sulla necessità e opportunità di fare a meno dell'insurrezione è smentita indirettamente dallo Schonhals, il che è tutto dire; ma il giudizio su coloro che, come il Cattaneo, sostengono la possibilità di ottenere l'indipendenza nazionale senza e contro il Piemonte non può essere che negativo, ed è confermato da uomini non certo ligi alla monarchia come Garibaldi e Orsini. Dal punto di vista dell'arte militare e della teoria della guerra tra eserciti, appare chiaro che da parte piemontese sono stati violati tutti i capisaldi dell'arte militare classica, e non si è tenuto alcun conto di ammaestramenti addirittura millenari, a cominciare dall'importanza di una buona preparazione politica e militare, dall'armonia tra politica e guerra, dalla scelta di un Capo valido e stimato dalle truppe, dall'importanza della logistica e della disciplina, che - come osserva il Le Masson - è coesione, comunione spirituale tra Quadri e truppe in nome di un comune ideale. E che dire della necessità di conoscer.e le mosse del nemico, di avere un piano al quale ispirare le mosse principali, di essere in grado di colpire con rapidità il nemico nel momento di massima crisi? Si potrebbe continuare sulla strada della facile critica, osservando che da sempre un Capo valido tende a mantenere riunite le sue forze e a manm

P. Picri, Op. cit., pp. 835-836.


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tenere divise quelle dell'avversario, tagliando le sue vie di comunicazione. Ma nel raro insieme di fattori negativi che caratterizzano la condotta della guerra da parte piemontese, l'elemento determinante è la mancata tempestività dell'entrata in Lombardia, per cogliere l'Esercito austriaco nel momento di massima crisi; che poi Carlo Alberto mirasse - magari con l'aiuto della diplomazia internazionale - ad annettersi la sola Lombardia, è un fatto secondario, perché una vittoria in tutti i casi era necessaria per il Piemonte, e perché questo già sarebbe stato comunque un primo possibile traguardo per la causa nazionale. La disputa tra il Pieri e lo Spellanzon sul significato dell'avverbio costà 140 lascia pur sempre adito a dubbi, in un senso e nell'altro, e non può risolvere la questione del "tradimento" di Carlo Alberto affidandola a un avverbio. Se per tradimento si intende accordo sotterraneo con il nemico, esso è da escludere, se non altro perché l'abdicazione e l'esilio di quest'uomo così inviso all'Austria e ai suoi generali lo smentiscono. E a qual fine, per conservare che cosa, avrebbe tradito un monarca che espone sé stesso e il trono, rovina le proprie finanze e impone alla nazione e all'Esercito così gravi sacrifici? Un monarca che combatte - con gravi errori tecnico-militari che di per sé giustificano la sconfitta - a Santa Lucia, a Custoza, a Novara? un monarca che poi va in esilio? Più probabile invece che certe scelte strategicamente errate di Carlo Alberto - come la decisione di recarsi a difendere Milano anziché ritirarsi dit:tro il Po dopo la sconfitta di Custoza - siano state dettate da calcoli politici o secondi fini. Dopo Custoza - su questo, vi è larga concordanza l'Esercito piemontese per ragioni prima di tutto morali non era più in grado di combattere. Di conseguenza la difesa di Milano - che pur non è stata una · finzione, visto che i piemontesi hanno avuto 270 tra morti e feriti e 136 dispersi 141 - è stata molto probabilmente decisa da Carlo Alberto contro il parere del Bava e di tutti i suoi generali (che dunque non erano traditori!) per migliorare in tutti i casi le sue chances politiche in visla dell'ormai inevitabile armistizio, e per guadagnarsi al tempo stesso dei meriti nelle future lotte per l'indipendenza, dimostrando di voler soccorrere i milanesi. Francamente in questo calcolo non vediamo che cosa ci sia di tanto aberrante, anche se dal punto di vista tecnico-militare si è trattato di una violazione dei più elementari criteri strategici. Le condizioni dell'Esercito piemontese dopo Custoza e Novara escludevano la possibilità di continuare la guerra non solo per l'Esercito piemontese, ma per l'Italia. La partita avrebbe potuto rimanere aperta, solo con un Esercito piemontese ancora moralmente valido e con un'insurrezione

'"'· Cfr., in particolare, C. Spellanzon, Op. cit., e C. Pischedda, L'azione di Carlo Alberto nelle campagne del 1848-1849, in "Nuova Rivista Storica" 1947, pp. 125-154. 1. EnciciopediaMilitare,Milano 1933, Voi. Vpp. 139-140.

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che si fosse estesa ovunque, e non fosse rimasta limitata ai soli focolai di Venezia e Roma (per ciò stesso destinati a essere spenti presto o tardi). Questo non è avvenuto: eppure in tutte le guerre dal 1848 al 1870, la prima ora in esame è anche quella dove, in Italia e in Europa, le insurrezioni hanno avuto la massima estensione. Ne risulta di per sé dimostrata l'insostituibilità degli eserciti regolari e in particolare dell' Esercito piemontese, della quale molti democratici dell' epoca, che confondono volere con potere e i desideri con la realtà, si ostinano a non voler tenere conto. Per questo ha ragione Panfilo Gentile, quando indica il 1848 come una sorta di eclissi della politica (noi aggiungiamo: di consegnuenza anche della strategia), quindi come una mancata presa di coscienza della realtà: era tanto assurdo pensare di abbattere troni e vincere guerre a furor di un popolo che non esisteva e che non aveva alcuna voglia di entrare in furore, quanto era assurdo supporre che il Piemonte avrebbe potuto battere l' Austria in un duello singolare, senza solidarietà e appoggio europei. Il 1848 fu l'eclissi completa in tutti i Paesi dell'uomo politico. Fu una specie di "revival", di reviviscenza della passione ingenua e incauta, che sarebbe sorprendente suprallutto in un Paese come il nostro di puri machiavellici L... ] sarebbe sorprendente, dicevamo, se il clima quarantottesco non andasse riallacciato alla cultura romantica dei primi decenni del secolo e non ne fosse stato per così dire l'epifenomeno politico. 142

Per altro verso, secondo il Gentile l' esperienza del 1848 non è stata in pura perdita: a parte le conquiste democratiche strappate ai prìncipi e da allora qua e là rimaste (a cominciare proprio dal Piemonte), questo anno "dette a quelli che vennero dopo una coscienza dei veri termini politici in cui andavano articolati i problemi che il Quarantotto aveva sentito ma non aveva politicamente pensato". Noi aggiungiamo che ciò è avvenuto anche per la parte strategica: come e in che misura, sarà argomento dei prossimi capitoli.

u 2.

Panfilo Gentile, Storia del Risorgimento, in "Nuova Antologia " Voi. CDXLN - Fase. 1774 - ottobre 1948, p. 209.



CAPITOLO IX

LE GUERRE DAL 1855 AL 1870: CRITICHE, AMMAESTRAMENTI E RIFLESSI TEORICI

Premes.sa Abbiamo già accennato a molti dei riflessi e ammaestramenti delle guerre dal 1855 al 1870 nei capitoli precedenti e specie in quelli dedicati al pensiero di Mazzini e Garibaldi, ai quali rimandiamo. In questa sede ci limiteremo ad accennare agli altri scritti coevi di maggiore interesse, riguardanti specialmente le ultime due (la guerra del 1866 e la liberazione di Roma). Sulla spedizione di Crimea (1855-1856) e sulle campagne del 1859-1860 vi è relativamente poco da osservare dal punto di vista strategico; di maggior interesse la guerra del 1866 e quella del 1870 per la liberazione di Roma, che consentono di mettere a fuoco il rapporto tra potere politico e militare, i problemi dell'Alto Comando delle Forze Armate, e la rispondenza alle nuove esigenze dello strumento militare nazionale nato nel 1861 e modellato sulla preesistente organizzazione militare piemontese. In questo senso la guerra del 1866, come quella del 1848-1849, è un'autentica miniera di ammaestramenti.

SEZIONE I- Dalla guerra di Crimea (1855-1856) alla campagna del 1859 I caratteri salienti della guerra di Crimea sono già stati da noi illustrati in altra opera sulla logistica, ricorrendo largamente, già allora, ai ricordi dei protagonisti (Genova di Revel, Raffaele Cadorna, Giuseppe Antonio Commissetti)'. Da tali ricordi emerge chiaramente che, nonostante la grande cura posta dal Ministro della guerra La Marrnora nell'organizzare sulla base del principio pochi ma buoni il corpo di spedizione, permangono nell'organizzazione militare piemontese taluni difetti di fondo che erano stati causa non secondaria delle sconfitte del 1848-1849,

,. Cfr. F. Botti, La loglstica dell'Esercito llaliano - Voi. I (CiL), pp. 433-490; Genova di Revel, La spedizione sarda in Crimea - ricordi di un Commissario militare del Re, Genova, Dumolard 1891; C.A. Comnùsetti, Sulle malattie che hanno dominato in Oriente fra le truppe del corpo di spedizione sardo, Torino, Antero e Cotta 1857; A. Ricci, In Crimea, Torino, Roux e Frassati 1896.


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come lo scarso coordinamento e la non chiara ripartizione delle competenze tra Comando e futendenza, l'eccessiva burocrazia, il formalismo dei regolamenti e la loro scarsa aderenza alle esigenze operative, la tendenza a non considerare appieno i riflessi logistici .d elle decisioni operative e degli spostamenti, la perdurante farraginosità del Servizio di amministrazione ecc.. A parte il flagello del colera- contro cui non vi sono rimedi, in Crimea il vitto è spesso insufficiente, malsano e poco gradito; e uno degli ufficiali partecipanti alla spedizione, il colonnello Rossaval, lamenta che "ai festeggiamenti e ai numerosi doni concessi all'altero comandante generale Alfonso La Marmora, non hanno corrisposto adeguati riconoscimenti per coloro dai quali proveniva la gloria", cioè per la truppa e i gradi inferiori. A fronte dei molti premi e onori concessi alle truppe alleate, i Piemontesi, sempre sotto l'egida dei contabili residenti a Torino, .vennero trattati a una stregua semplicemente turca [... ]. Quasi tutti i soldati provinciali [cioè i soldati richiamati che avevano compiuto un servizio militare di leva di pochi mesi - N.d.a.] richiamati sotto le armi ed i nuovi di leva, a guerra finita ritornarono alle case loro soverchiamente indebitati sulla loro massa di deconto causa il maggior consumo di corredo dovuto ai disagi d'una sì lunga permanenza in Crimea. E più crudele, anzi inumana, fu la sorte dei soldati d'ordinanza [cioè di coloro che per sorteggio o volontariamente compivano una ferma lunga - N.d.a.], che avendo necessariamente sciupato il corredo, ne1lo assestamento dei conti trimestrali risultarono anch'essi debitori sul conto di massa, e furono assoggettati a11a ritenuta giornaliera doppia sulla meschina paga, e ciò sino ad esaurimento del debito contratto in servizio del proprio paese! E gli ufficiali? Naturalmente anch'essi fecero sciupio di salute e di vestiario come tutti gli altri. Eppure dovettero rifornirsi dell'intero corredo coll'opulento onorario mensile di f. 150 per capitani e di f. 96 pei sottotenenti. Questa la ricompensa!2

Effetti perversi del sistema amministrativo e contabile del1e «masse», che considerava vestiario e corredo di proprietà individuale del soldato e, nel complicato conto del dare e dell'avere per ciascuno, fissava per ciascun oggetto di corredo una durata minima, che non teneva affatto conto del maggior logorio che avviene in guerra.3 In sostanza la guerra di Crimea non dà, né può dare, degli insegnamenti strategici per il futuro: ma indica il molto lavoro che c'è ancora da compiere nell'Esercito piemontese per renderlo uno strumento veramente atto a condurre operazioni manovrate, a cominciare dall'organizzazione logistica. Essa dimostra solo il valore e l'ingegno del soldato piemontese '(che si fa

2. Col. Rossaval, Cenni sulla campagna di Crimea, Torino, Botta 1905, pp. 50-51. '· Sul sistema delle masse e sulla gestione del vestiario si veda F. Botti, La logistica ... (Cit.), Vol. I cap. li e IV.


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stimare - cosa non facile per un esercito italiano - da alleati e nemici) e fornisce un utile politico piuttosto mal avvertito dalla pubblica opinione. Il generale della Rocca scrive, in proposito, che quando il Cavour decise la spedizione parve a molti uno sproposito, una follia quel sottoporsi a così ingenti spese, nello stato in cui trovavansi le nostre finanze e senza che fosse stabi]Jto un compenso materiale immediato. Fu vivamente attaccato anche il conte di Cavour, e anche un po' il Re, che non soltanto aveva fatto buon viso al disegno d'alleanza, ma diceva volentieri di averla voluta e iniziata egli stesso. Pochissimi furono in grado di poter intendere i grandi vantaggi che ne dovevano derivare, come infatti derivarono ...4 Tutto sommato, le rievocazioni coeve della campagna si riassumono in elogi più o meno retorici. Lo studio più importante e ricco di ammaestramenti del periodo su questo argomento è quello del colonnello Luigi de Bartolomeis sull'organizzazione logistica delle truppe francesi in Crimea, che forse non casualmente indica delle provvidenze e delle predisposizioni miranti a tutelare meglio la salute del soldato, contenute in un libro sulla guerra di Crimea del medico militare francese Baudens5. È questa l'eredità di maggior peso della guerra, che trova particolare risalto anche nei riflessi della campagna del 1859. Quest'ultima campagna, assai breve (26 aprile-11 luglio 1859) è ricca di ammestramenti che, forse perché vittoriosa per i franco-piemontesi, la letteratura militare coeva (e spesso anche quella successiva) rimane assai lontana dal cogliere.6 Essa aiuta anzitutto a comprendere meglio, a vedere in una luce più serena gli eventi della guerra del 1848-1849, e in particolare il comportamento di Carlo Alberto e del generale Chrzanowsky, che il generale della Rocca, Capo di Stato Maggiore del Re Vittorio Emanuele ll durante la campagna del 1859, ricorda di essere andato a visitare durante un viaggio a Parigi con il Re nel 1855, per incarico dello stesso Re. Scrive il della Rocca: l'ex comandante supremo dell'esercito sardo aveva ricusato la pensione offertagli dal governo piemontese nel 1849, e accettato soltanto il rimborso delle spese da lui fatte per la guerra. Seppi che viveva in grande ristrettezza dando lezioni d'arte militare, di matematica, di lingua polacq ecc .. Lo trovai in poveri arnesi, in una camera a tetto

Gen. E. Della Rocca, Autobiografia di un veterano (1807-1859), Bologna, Zanichelli 1897, p. 356. '· Col. L. De Bartolomeis, / Servizi amministrativi presso le truppe francesi in Crimea, "Rivista Militare" Anno IV - Vol. ill gennaio-marzo 1860. ~ Sugli aspetti logistici e relativi ammaestramenti della campagna Cfr. anche F. Botti, La logistica ... (Cit.), Vol. I pp. 537-762. '


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con pochissimi mobili tra cui una scrivania coperta di libri e di carte. Mi riconobbe, e si commosse tutto al sentire che Vittorio Emanuele s'era ricordato di lui; mi fece intendere che ora, come nel 1849, non avrebbe accettato nessun soccorso in quattrini, ma che una udienza del Re sarebbe stata per lui un onore e una grande consolazione[...]. Ritornò con me sugli eventi del 1849, e con la sua voce stridula e battendo ripetutamente il dito sulla scrivania diceva - Se mi ritrovassi sul medesimo campo di battaglia, seguirei il medesimo piano, darei le medesime disposizioni che diedi allora - Ed io, anche rendendo giustizia ad alcune sue disposizioni, come per esempio l'ordine di battaglia del 23 [marzo), tra me e me dicevo: date le medesime circostanze e il medesimo comandante, la disgrazia sarebbe pur sempre la medesima.7

Sta di fatto che, benché gran parte degli scrittori militari coevi commentando la guerra del 1848-1849 abbia sostenuto con buoni argomenti la convenienza per l'Esercito piemontese di utilizzare come base di partenza la zona Alessandria-Casale per poi operare verso Est a cavaliere del Po, Napoleone m nel 1859 finisce con l'adottare un piano analogo a quello di Chrzanowsky: puntare direttamente su Milano per Turbigo - Magenta - Novara, sia pure meglio garantendosi il fianco Sud. Questo piano era stato suggerito all'Imperatore dalla massima autorità vivente in materia di arte militare, il vecchio generale Jomini (Vol. I, cap. Il), al quale egli si era rivolto all'inizio della guerra. Dopo aver escluso la convenienza di operare sulla destra del Po (o contro Pavia) "prendendo il toro per le corna" (perché qui si cozza contro il grosso dell'esercito austriaco), Jomini afferma che "la miglior cosa da fare è riprendere il piano di Carlo Alberto nel 1849, passando il Ticino all'estrema destra dell'esercito austriaco. Ma è indispensabile coprire la strada da Pavia a Vercelli per arrestare gli austriaci, che accorrerebbero da Sud. Sarà dietro questo corpo di copertura che tutto l'esercito sfilerà, per Novara, su Turbigo e Magenta". Commentando il diario del padre Raffaele che aveva partecipato alla guerra, il generale Luigi Cadoma osserva che quest'abile mossa di Napoleone m "è la sola in quella guerra che meriti di fermare l'attenzione dello studioso, poiché la rapidità con cui fu condotta a termine fa uno strano contrasto con la lentezza che caratterizzò le successive mosse da Palestro a Solferino, essendosi impiegati 24 giorni a percorrere i 180 chilometri che intercedono tra quei due punti" 8 • Ciononostante, secondo il Cadoma si tratta pur sempre di una manovra rischiosa, perché con questo spostamento da Sud a Nord i franco-piemontesi si staccavano dalla loro base d'operazioni di Alessandria-Casale, cosa che non era avvenuta per gli Austriaci e che ha condotto, nel 1849, alla sconfitta di Novara. 7

&

Gen. E. Della Rocca, Op. cit. pp. 363-364. Gen. L. Cadorna, Il generale Raffaele Cadoma nel Risorgimento italiano, Milano, Trevcs 1922, pp. 101-102.


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A parer nostro, a parte queste considerazioni del Cadoma è signifr<cativo che la guerra si concluda con la vittoria dei franco-piemontesi, senza che essi siano penetrati nel quadrilatero, e senza che il possesso di questo campo trincerato abbia potuto evitare la sconfitta austriaca. Nel 1848/1849 per la loro sola esistenza le fortezze del quadrilatero erano, per molti autori, un vero incubo; sarebbe eccessivo dire che la guerra del 1859 contribuisce a ridimensionarle, ma in ogni caso essa dimostra che una fortezza, o una posizione, valgono solo per il ruolo che il loro presidio può svolgere nella manovra strategica complessiva, come perno di manovra. Cosa, al tempo, meno ovvia di quanto possa sembrare. Benché avversato da gran parte dei generali piemontesi, il piano di Chrzanowsky nel 1849 non era dunque di per sé cattivo e sicuramente non giustificava l'accusa di tradimento e di secondi fini al suo sfortunato ideatore. Inoltre tra il 1848 e il 1859 vi è un'altra analogia: come già aveva fatto Carlo Alberto nel 1848, il Giulay, comandante in capo austriaco, non sa approfittare della crisi iniziale dell'avversario, attaccando decisamente i piemontesi- con forze superiori- prima che siano giunti i francesi9 • Questo fa dire al generale della Rocca: il nostro piccolo esercito ebbe fortuna davvero, nel trovarsi durante quasi 20 giorni in faccia a un nemico irresoluto, titubante, quattro

volte più numeroso, che non seppe fare mai un passo decisivo, contentandosi di tentare alla spicciolata ora una marcia, ora un passaggio, ora un attacco di avamposti, e facendosi ogni volta respingere completamente dai nostri. Ciò fece dire più tardi al Re Vittorio, quando si parlò di erigergli un monumento in ricordo dei fatti di guerra della campagna del 1859: - Non a me, bensì al Giulay si dovrebbe innalzare il monumento, per averci cosl bene risparmiati prima dell'arrivo dei francesi:' 0

La lentezza delle operazioni dei franco-piemontesi dopo la manovra aggirante iniziale, messa in luce dal generale Cadoma, ricorda la lentezza dei movimenti dell'Esercito piemontese nel 1848; a ciò si aggiunga che, come Carlo Alberto nel 1848, all'inizio della guerra Napoleone ID non ha un piano, e dopo le vittorie di San Martino e Solferino, dirama ordini per il solito passaggio del Mincio e il solito investimento frontale del quadrilatero ... Anche questi aspetti, dunque, contribuiscono ad allontanare i sospetti di tradimento dalla condotta di Carlo Alberto e dello stesso Chrzanowsky. A quest'ultimo viene giustamente rimproverato di non essere riuscito a procurarsi informazioni tempestive e precise sulla dislocazione delle forze nemiche, e di avere comunque reagito in ritardo alla penetrazione •- Sulla pericolosa situazione strategica iniziale dei franco-piemontesi Cfr. l'opinione del generale Woinovich in Alcuni giudizi sulla opera "La guerra dei 1859 per J' irulipendenza d'Italia ", in "Memorie Storiche Militari" - Fase. N , Roma, Comando Corpo di S.M. Uf. Storico 1911. 10 Gen. E. Della Rocca, Up. cit., p. 411.


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ttustriaca da Sud in territorio piemontese: ma nei primi giorni della guerra del 1859 la capacità di reazione piemontese nei riguardi di una decisa minaccia da Sud o da Nord sarebbe stata sufficiente? e il giorno prima della battaglia di S. Martino e Solferino, i Comandi franco-piemontesi non ignoravano forse la posizione dell'avversario che aveva ripassato il Mincio? non hanno forse molto male impiegato la numerosa cavalleria nell'esplorazione? Per fortuna, da parte austriaca sono stati commessi analoghi errori... Il quadro va completato ricordando che, a parte i ridotti effettivi che applicano il principio tipico del modello francese dei pochi ma buoni, nella nuova campagna nessun altro dei difetti dell'Esercito piemontese del 1848-1849 viene eliminato o eliminato del tutto. Ciò vale a cominciare dal vertice, dove il Ministro della guerra generale Alfonso La Marmora - il cui posto è a Torino - si reca al campo nell'entourage di Vittorio Emanuele Il, dando luogo a un pernicioso dualismo con il Capo di Stato Maggiore generale Enrico della Rocca, dei cui negativi riflessi si trova traccia nelle memorie di quest'ultimo. Del cattivo funzionamento de11o Stato Maggiore, della ritardata costituzione di Comandi e Servizi, delle lacune logistiche abbiamo già dato conto nella nostra citata opera sulla storia della logistica; va solo detto che le lacune logistiche e organizzative dell'Esercito francese non sono minori di quelle piemontesi, fino a far ritenere che nella campagna del 1859 questo esercito, valoroso ma sopravvalutato, rivela dei gravi difetti organizzativi che, non corretti, saranno tra le cause principali della sconfitta del 1870-1871. Per ultimo, nel 1848-1849 l'azione delle truppe piemontesi a Custoza e Novara era risultata slegata, episodica, mal coordinata, impedendo di trarre il massimo profitto dalle forze disponibili ivi compresa l'artiglieria. Lo stesso avviene nella pur vittoriosa battaglia di San Martino, per la quale il generale Luigi Cadoma mette in rilievo il contrasto tra le assennate disposizioni date da Napoleone ID alle sue truppe (muovere simultaneamente in formazioni concentrate per essere in grado in ogni momento di venire a battaglia) e que1le del qurutier generale piemontese alle divisioni (muovere solo dopo aver conosciuto i risultati delle esplorazione sulle rispettive fronti, quindi a orari diversi). Di modo che, secondo il Cadoma, "la mancanza di simultaneità in quegli attacchi [a S. Martino] fu la causa principale per la quale, malgrado l'eroico valore delle truppe e le gravissime perdite sublte, la decisione della battaglia si protrasse fino a sera" .11 · Se tutto sommato l'Esercito piemontese dimostra di non aver bene assimilato gli ammaestramenti della guerra del 1848/1849, grazie soprattutto all'intelligenza del Cavour nel 1859 trovano miglior soluzione due cruciali problemi politici e militari mal risolti in precedenza; quello delle alleanze e quello dei volontari. Il motto albertino l'Italia farà da sé, che tanto danno aveva prodotto, viene definitivamente sepolto. Anche la reciproca conventio

11

Gen. L Cadoma, Op. cit., pp. 118 e 122.


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ad escludendum tra Esercito piemontese, volontari e insurrezione tipica del 1848-1849 (teoricamente giustificata dal Balbo e sul versante opposto, dal Cattaneo) viene accantonata dalla più duttile politica del Cavour, che mira a controllare e utilizzare politicamente - non a ridurre o eliminare - il volontarismo e l'insurrezione, in ciò trovando un alleato nello stesso Garibaldi. Come scrive un protagonista (il lombardo Giovanni Visconti Venosta commissario regio in Valtellina), Garibaldi in Lombardia doveva assalire ai fianchi l'esercito austriaco e far sollevare i paesi alle spalle di questo. Cavour voleva; e lo disse anche ad Emilio [Visconti Venosta - fratello di Giovanni - N.d.a.], che i francesi entrassero in un paese già tutto insorto, e non apparissero essi i liberatori d'un paese sottomesso e tranquillo. Ma nel tempo stesso che voleva accendere la rivoluzione, Cavour voleva all' occorrenza dominarla e dirigerla: bisognava quindi mettere accanto a Garibaldi un uomo politico per dirigerne l'azione rivoluzionaria, e tenerla in quei confini politici che erano negli intendimenti del Ministro; compito certamente non facile [ ... ]. Cavour voleva che il commissario procurasse di far insorgere i paesi della Lombardia ovunque gli fosse possibile; che si intendesse con tutta la parte più viva e audace del paese, giovandosi degli antichi elementi rivoluzionari e mazziniani, riordinandoli con la nuova formula Italia e Vittorio Emanuele, e dando loro le più esplicite assicurazioni sui larghi intenti nazionali del governo del re [... ]. Parte importante e delicata del suo compito era poi quella di mantenere. la sua azione nel maggior accordo con Garibaldi. 12

L'insurrezione così pilotata dall'alto di fatto non avviene, o non assume le dimensioni sperate .dal Cavour. In compenso numerosi sono i giovani lombardi che passano la frontiera per arruolarsi nell'Esercito regolare piemontese, e numerosi sono anche i volontari di Garibaldi. Il Visconti Venosta, però, non manca di mettere in evidenza inconvenienti non certo nuovi: la rivoluzione doveva avere un carattere nazionale e non partigiano: qui stava la difficoltà. Per far insorgere i paesi non si poteva ricorrere solo alle persone più intelligenti e misurate, bisognava muovere molta gente: ed ecco venir a galla tutti i vecchi e i nuovi elementi rivoluzionari rimasti fuori fino ad allora da quel movimento. Questi si presentavano con tutte le loro vecchie idee, con le loro vecchie ubbìe, colle vecchie formule e con nuove pretese. Anch'essi, come fu detto dei vecchi governi, non avevano dimenticato nulla, non avevano imparato nulla, e abbastanza ingenuamente avrebbero voluto non curarsi né di Vittorio Emanuele né di Napoleone. 13

12 · 13

·

G. Visconti - Venosta, Ricordi I 847-1860, Milano, Bur 1959, pp. 318;320. ivi, p. 349.


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Come sempre, contro forze superiori Garibaldi basa la sua azione sulla rapidità dei movimenti e alleggerisce al massimo i suoi volontari: ma questo comporta la necessità di fare esclusivo ricorso alle risorse locali, con relativo malcontento dei Comuni e delle popolazioni: le richieste e le requisizioni, si andavano quindi facendo sempre maggiori, sempre più disordinate. Il Ministero della guerra aveva assegnato al corpo dei volontari un Intendente; il quale segul il corpo fin che poté, poi un bel giorno se ne tornò a Torino, e rassegnò le dimissioni al Ministero [...]. Chiunque, anche un semplice caporale, si credeva in diritto di requisire viveri, vestiti, cavalli, senza rilasciare ricevute, o rilasciandone di non valide. I municipi allora si rivolgevano, gridando e strepitando, al commissario generale o ai commissari locali, e questi molto spesso non riuscivano a mettere ordine e render giustizia. 14

Questa logistica spiccia e disinvolta sembra non sia troppo disapprovata dallo stesso Garibaldi, visto che (almeno così riferisce il Visconti Venosta) si dice sorpreso quando alcuni fornitori gli chiedono di firmare dei contratti, ed esclama: "Come? quei mascalzoni di fornitori a cui procuriamo l'onore di vestire questi bravi giovani venuti a dar la vita per la patria, mentre essi poltriscono a casa, osano domandare contratti, patti e firme? Non basta l'ordine mio o suo?" 15 Alle considerazioni sul ruolo dei volontari di Visconti-Venosta, distaccatosi nel 1853 dal Mazzini per diventare monarchico e conservatore, si contrappongono quelle di Agostino Bertani, medico garibaldino partecipante alla guerra come medico capo dei Cacciatori delle Alpi 1'', il quale mostra di non condividere del tutto il motto Italia e Vittorio Emanuele fatto suo da Garibaldi, che, "ammaliato quasi da magiche influenze [quella del Cavour, con il quale ebbe diversi colloqui? - N.d.a.] non seppe essere assolutamente e unicamente l'uomo del popolo; e s'arrestò a mezzo di un cammino che non era il suo". Il Bertani non si limita a descrivere l'organizzazione sanitaria da lui attuata, ma estende i suoi ricordi al contrasto volontari/esercito regolare, vivendo la contraddizione tra "armamento volontario e guerra officiale". A suo avviso, il primo rappresenta "il popolo concorde, deliberato, onnipotente nella coscienza di quanto ci doveva e voleva"; la seconda "il popolo indolente, incerto fra le mal comprese ambagie diplomatiche e la doppia soggezione militare e diplomatica". La presenza tra i volontari di una forte aliquota di studenti, di professionisti e benestanti non lo induce a chiedersi fino a che punto essi rappre-

"· ivi, p. 350. " ivi, p. 370. 1 •·

A. Bertani, / cacciatori delle Alpi nel 1859, i loro feriti, i loro morti, "Il Politecnico" Vol. VIII - 1860, pp. 284-308.


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sentino il popolo e i ceti più umili (che invece costituiscono Ja massa deJl' esercito regolare) né a chiedersi - come fa persino il Cattaneo - se non sia meglio fare dei numerosi giovani istruiti e laureati che si trovano tra i volontari altrettanti bravi ed entusiasti ufficiali subalterni dell'esercito regolare. Infine, non si chiede nemmeno se i volontari siano adatti a1l'impiego in campo aperto contro un esercito regolare agguerrito come l' austriaco, ma al contrario osserva che questo corpo [dei cacciatori delle Alpi - N.d.a.], sì piccolo che fosse, poteva reggere da sé a qualunque genere d'imprese [...]. Ma siffatti corpi, che non potranno mai surgere spontanei se non in guerre di libertà, e che da nessun'altra disciplina potranno mai comporsi né tenersi UJ).Ìti, se non dalla coscienza del dovere e dell'amor patrio, sono appunto per ciò argomento di gelosia e di dispetto ai campioni d'una meccanica ordinanza [cioè ai sostenitori dell'esercito regolare - N.d.a.]. Non nega, tuttavia, la necessità di un esercito, e anche di un "fraterno aiuto" straniero; ma ritiene che "il popolare armamento (epperò l'insurrezione che sola può quasi per incanto attuarlo) sia necessario, affinché il ferreo volere del popolo sia rispettato". E definisce i volontari "soldati della libertà, dico della libertà, e non d' altro; perché la libertà comprende l'indipendenza; e questa non comprende quella. E io non veggo divario tra il despota austriaco e il tiranno di Napoli ...". Ciononostante, i volontari non sanno mai resistere a "un annuncio seduttore", e mettendo da parte le loro più salde convinzioni, "sempre come gli innamorati a dispetto nostro scendiamo a sùbiti accordi, perdiamo i propositi lentamente maturati nella tribolazione [ ...] e purché ci si conceda una buona guerra, e le armi si apprestino contro 1'eterno nemico, immemori e ciechi, sempre accorriamo nelle prime file'\ Così è avvenuto anche per la guerra del 1859, su] cui andamento e sui cui risultati finali il Bertani è prevedibilmente assai critico, ben rispecchiando lo stato d'animo dei volontari (che peraltro - come lui stesso ammette - non è quello della maggioranza): Parve un istante alle menti illuse che, per una splendida guerra di nazionale riscatto, l'una e l'altra forza si volessero dar braccio; si pensava a un'insurrezione, che precorrendo la rapida marcia dei eserciti, e spandendosi vasta e audace, avviluppasse d' ogni parte le masse nemiche. Ma così non fu, né poteva essere; né un'altra volta ancora il potrebbe, la guerra dovendo stare entro i termini d'un alto beneplacito, necessariamente avverso ad ogni armamento che paresse moto di popolo. I più propendevano a vedere nell ' Europa diplomatica l'autorità d'ordinare stabilmente l'Italia, o a veder nell'alleanza francese la forza di costituirla con un fatto di guerra, piuttosto che possibile nell'una o nell'altra la tolleranza e la sanzione d'una rivolta universale; e in tanta mole d' eserciti, pMeva anzi


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questa ad alcuni quasi superflua al bisogno. Ma i meno erano fermi, e ancora il sono, nella certezza che né per atto di diplomazia, né per armi non nostre, allora si sarebbe fatta, né mai per verun evento si potesse fare, l'Italia. Fra questi contrari pensieri, si condussero irrisolutamente per noi le cose della passata guerra; e tra essi vanno tuttavia oscillando e vacillando le menti dei moderati; e si trascina, ora invanita, ora ossequiosa e timida, la po]jtica dei nostri e qualunque in essa si affida. Ma, in verità, non è per questa via che si vedrà mai libera di fatto e interamente l'Italia. Per la prossima, inevitabile guerra, il Bertani prevede che "se i governanti non si consiglieranno ben altrimenti, fuggirà loro prestigio e potenza, e la nazione provvederà", dicendosi ben convinto di giovare alla patria "svelando una volta di più quanto le armi di pochi volenti ·e intelligenti possano in guerra; e quanto abbia in sé il popolo italiano per giungere a tutto ciò che vuole". Come possono i "pochi volenti e intelligenti", cioè i volontari, irnpersonificare tutto il popolo? e come si può aggirare la realtà, che impone - per sua stessa ammissione - di ingoiare bocconi amari? Il Bertani esprime lortuosamente ma non risolve queste contraddizioni, dimenticando che nel 1859 i bocconi amari li hanno ingoiati, oltre ai volontari, lo stesso Cavour, che dà le dimissioni quando apprende l'armistizio di Villafranca, e Vittorio Emanuele II. Pare anche di capire, da quanto afferma, che la guerra avrebbe potuto essere continuata; se è così, non dice come. In realtà quella guerra visto anche che gran parte delle popolazioni lombarde e venete non insorgeva - è sempre rimasta una faccenda tra soli eserciti, e sulla sua pur insoddisfacente conclusione ha ragione il Della Rocca quando scrive:

il Cavour avrebbe voluto che alla peggio continuassimo noi soli la guerra; ma per noi militari era ancora troppo vicino il 1848, e quella tentazione non ci poteva assalire. Sarebbe stata una pazzia, o una colpa gravissima rimanere con 50 o 60.000 uomini contro un esercito di oltre 200.000, del quale, ancorché vinto, avevamo dovuto riconoscere il valore e la disciplina a Palestro e a S. Martino; e Vittorio Emanuele era ben risoluto a non cimentarvisi. Non voleva compromettere il certo per l'incerto; egli sapeva che con l'annessione della Lombardia e dei ducati raddoppiava il suo esercito e che, riorganizzatolo, avrebbe potuto tentare più tardi l'impresa di salvare Venezia e di riunire al Regno dell'Alta Italia la Toscana e le legazioni ... 11• Se l'Esercito piemontese, benché vittorioso, nel 1859 non poteva continuare la guerra, come avrebbe potuto farlo nel 1849, quando era stato sconfitto, e quando non era l'Italia che combatteva l'Austria, ma il solo Piemonte?

17

Gen. E. Della Rocca, Op. cit., p. 474.


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In fondo Carlo Cattaneo, pur rimanendo federalista, intransigente repubblicano, antipiemontese e antimilitarista, mostra ancora una volta assai · minore fiducia del Bertani nell'utilità dei reparti volontari. Rispondendo a una sua richiesta di consigli gli scrive infatti che non bisogna fare le cose a metà, e che la miglior cosa da fare per i giovani lombardi è di arruolarsi in quell'esercito regolare, cosl giustificando la sua posizione: credi tu che con qualunque temperamento, una massa separata e distinta di repubblicani in un esercito reale possa piacere, e che non piacendo, possa venir tollerata? Credi tu che, una volta ingaggiati, non dovranno uniformarsi al tutto e che, se bisogna, non saranno dati ad altri capi? Or bene, in questo caso, è meglio che fino da principio vadano affatto confusi con gli altri: in primo luogo, per non essere predestinati all'assalto di tutte le batterie e brecce fino a completo isterminio; in secondo luogo per non far parere la repubblica più piccola che non è [ ...] chi vuol farsi soldato un giorno o l'altro potrà combattere anche per la libertà, ma intanto si faccia soldato. 18 Ciò non toglie che, in linea di principio, il massimo esponente dell'intellettualità lombarda conservi tutte le vecchie prevenzioni nei riguardi degli eserciti stanziali, della nobiltà, di Cavour e della monarchia piemontese. Il 23 aprile 1859, cioè lo stesso giorno della dichiarazione di guerra da parte dell'Austria, scrive all'associazione degli operai piemontesi rifiutando la candidatura al Parlamento che gli avevano offerta, e riaffermando che "solo le moltitudini pensanti e volenti e pronte alle armi come voi possono, dandosi tutte la mano, far cadere ogni speranza degli inesorabili nemici della nostra libertà. Gli eserciti non hanno mai salvato l'Italia". E nello stesso mese al patriota lombardo filo-piemontese Emilio Visconti Venosta non trascura di dire che "il vostro re [Vittorio Emanuele e i vostri nobili di Milano ci tradiranno una seconda volta... 19 Al lettore viene da chiedersi: tradiranno la causa italiana, o saranno anch'essi costretti, loro malgrado, a chinare la testa di fronte a inesorabili rapporti di forze e a un contesto internazionale poco favorevole, in quel momento, al raggiungimento dei confini naturali ad Est? Questo è il vero dilemma di quei tempi, che fa dello stesso Cavour - dimissionario - una vittima, deludendo le sue speranze non meno di quelle dei repubblicani, di Cattaneo e di Garibaldi. Mai come nella guerra del 1859, perciò, rivela la sua impraticabilità una distinzione rigida guerra regia/guerra di popolo, con relative connotazioni teoriche. Tutti sono costretti dagli avvenimenti a fare non ciò che vorrebbero oppure ciò che sarebbe teoricamente corretto, ma solo ciò che è

m

Cit. in Col. C. Pagani, Milano e La Lombardia nel 1859, Milano, Cogliati 1909, p. 118. "· ivi, pp, 118-119.

1•


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concretamente possibile al momento, e che è pur sempre meglio di niente; questo è il senso dello scritto del Bertani e delJ'inaspettata posizione del Cattaneo. Rende bene lo stato d'animo reale delle popolazioni lombarde, invece, Carlo Corsi, che aveva avuto modo di constatarlo di persona: nelle campagne, specialmente là dove non si erano vedute truppe sarde, i paesani stentavano a capire come avvenisse che i francesi vincitori, se n_e andassero via. Qualcuno, con diverso animo, ne traeva la conseguenza che gli austriaci sarebbero di nuovo venuti innanzi. Parve in quei primi momenti che le masse popolari non avessero gran fede nella stabilità dei risultati politici di quella guerra. Le menti si volgevano trepidando a Peschiera, Mantova e Verona rimaste in potere dell'Austria [...].L'Austria non è vinta, si diceva; il quadrilatero è intatto; Napoleone m ha il grave torto: 1°) di non aver mantenuto la solenne promessa dalle Alpi all'Adriatico; 2°) di avere ancora una volta mostrato al mondo che la potenza della Francia, nelle mani di lui, ha limiti non molto larghi. Non era questo un profondo ragionare; ma i popoli non ragionano. 20

Come si poteva sperare in un'insurrezione anti-austriaca, se il popolo lombardo ragionava cosi? In Toscana, nelle Legazioni pontificie di Romagna, nei Ducati di Parma e Modena l'insurrezione, peraltro limitata ai capoluoghi, ha un grande ruolo politico ma nessun rilievo militare, visto che la resistenza del partito avverso è trascurabile. Essa è comunque indirettamente alimentata - anzi, favorita in modo decisivo - dalle vicende favorevoli della guerra in Lombardia contro l'Austria, che fungono da esca. Lo stato di fatto che si crea dopo la guerra del 1859 rende inoltre impossibile il rientro dei sovrani nei loro Stati, anche se previsto dai trattati. La stessa guerra, dopo tutto vittoriosa, funge da esca alla insurrezione siciliana e alla successiva spedizione dei mille; dunque nei cruciali eventi del 1859-1860 il clou visibile o invisibile della situazione va sempre ricercato nell'Esercito piemontese. Gli aspetti politico-militari di base rischiano peraltro di far trascurare le ricadute precorritrici di un fatto, la cui reale portata potrà interamente essere valutata e toccata con mano, nel nostro esercito, solo nel 1915: l'elevatissimo numero di morti e feriti nelle battaglie di S. Martino e Solferino, al quale si aggiunge il gran numero di morti per malattia - e principalmente per colera - nella campagna di Crimea. Nella letteratura militare coeva il problema viene affrontato soprattutto dal punto di vista umanitario (creazione di una normativa internazionale speciale per il soccorso ai feriti e fondazione della Croce Rossa), e, in genere, dal punto di vista dei rimedi sanitari all'aumento delle perdite, provocato dal progresso delle artiglierie e delle armi portatili. Minore atten-

"' C. Corsi: 1844-1869: Ventir.in.que anni in Italia, Firenze, Faverio 1870, Voi. l , p. 353.


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zione riceve, per il momento, il problema tecnico-militare dell'individuazione di nuove procedure, nuove formazioni, nuovi ordinamenti o nuovi strumenti, in una parola: la valutazione dei riflessi tattici, logistici e strategici della disponibilità di armi sempre più perfezionate. L'argomento delle riforme al sistema sanitario militare piemontese è affrontato senza peli sulla lingua, nella stessa estate 1859, dal dottor Pietro Castigliani, "già chirurgo maggiore nell'artiglieria sarda", il quale commenta un libro del medico bresciano Gualla sugli ospedali militari istituiti nella sua città durante la guerra. 21 Quando scrive il Castiglioni non è più in servizio, quindi può parlare con la massima libertà; e senza giri di parole fa sapere al lettore che "il servizio sanitario militare è noiosissimo e in certi casi faticosissimo; ne ho fatto la prova in due campagne; e non erano appena cessate ambedue, che diedi la mia dimissione, spaventato al solo pensiero di menar la vita di medico militare in guarnigione". A suo giudizio, l'altissima mortalità negli ospedali dopo le grandi battaglie non è dovuta alla speciale natura delle ferite e malattie che (tolti i casi più gravi) sono abbastanza facilmente guaribili; piuttosto, "ad accrescere erroneamente la cifra della mortalità influisce principalmente e quasi esclusivamente la ritardata prima medicazione e cura nei feriti e ammalati di febbre, e lo stato di accumulazione e d'ingombro negli ospedali, che produce l'afa nosocomiale". All'esigenza di pronto soccorso e cura dei feriti e ammalati non si è provveduto adeguatamente, a causa della cattiva organizzazione del Servizio sanitario di pace e di guerra. In tempo di pace ogni reggimento ha un medico di reggimento con alle dipendenze due medici di battaglione, che in guerra diventano tre o quattro. Vi sono poi ospedali divisionali retti da un medico di divisione, i qua1i però per funzionare devono chiedere in prestito uno o due medici di battaglione ai reggimenti. In caso di guerra quest'ultimi rientrano al corpo, mentre le divisioni costituiscono ambulanze divisionali che seguono la divisione, quindi non possono provvedere ad una cura più prolungata dei feriti, che viene fatta in ospedali " temporanei" di prima e seconda linea e di deposito (i più lontani dalla zona di operazioni). In previsione di una guerra, dovrebbero essere subito fatte le nomine di medici militari necessarie per riempire i quadri degli organismi da costituire ex-novo, e completare quelli esistenti; ma nel caso della guerra del 1859, che pure non era giunta inaspettata, "un mese prima [dello scoppio della guerra] si aperse il concorso per un grandissimo numero di medici aggiunti [cioè di medici civili arruolati con il grado più basso solo per la durata della guerra - N.d.a], che sono come i soldati del corpo sanitario; ai rispettivi gradi intermedi fra questi e i medici divisionali, per le ambulanze e per gli ospedali di 1", di 2" linea e di deposito, si provvide solo quindici giorni

21

P. Castiglioni, Del Servizio Sanitario Militare , "Rivista Contemporanea" Voi. 18° luglio/settembre 1859, pp. 133-145.


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dopo la battaglia di Solferino [nostra sottolineatura - N.d.a.]; agli ospedali suddetti non si pensò neppure". Se ne deduce che, secondo il Castiglioni, l'organico per gli ospedali temporanei di 1A e 2A linea e di deposito previsto dal regolamento sanitario del 23 aprile 1859 di fatto non è stato raggiunto nemmeno con l'aumento disposto con decreto dell' 11 giugno 1859. In particolare gli ospedali temporanei - costituiti solo movimento durante, quale anello intermedio con i retrostanti ospedali territoriali - mancavano del personale direttivo in servizio permanente previsto e hanno dovuto essere necessariamente affidati a qualche medico aggiunto senza esperienza. In tempo di pace, i reggimenti e gli ospedali divisionali dovrebbero invece essere i luoghi naturali per prepararsi a far pratica onde ben disimpegnare gli incarichi superiori in tempo di guerra: a che giova, senza un proporzionato numero di uffiziali sanitari pratici del servizio e rivestiti dei gradi intermedi, quella caterva di medici aggiunti , che si nomina d' improvviso allo scoppiar della guerra, o nel caso nostro, dopo un mese di guerra aperta? [ ___] i più sono giovani appena usciti dall'Università, nuovi affatto al servizio, nuovi al particolar sistema di cura, ai farmaci che s'impiegano nel militare, al genere particolare delle malattie, non pratici dell ' armamentario chirugico-militare, degli oggetti di medicatura, dei cassoni d'ambulanza, delle regole amministrative degli ospedali militari, di tutto insomma quello che riguarda la natura affatto particolare del servizio. Tuttavia, con una guida competente e esperta,anche questi nuovi elementi avrebbero potuto fornire buon rendimento: ma le promozioni dei medici in servizio permanente sono state fatte in principio di luglio e conosciute solo a metà mese, "di modo che tutta la guerra passò prima che il servizio sanitario si potesse dire ordinato". E durante ]e battaglie del giugno 1859 che hanno richiesto il massimo impegno, vedevasi la caterva di medici aggiunti sparsi per gli ospedali improvvisati nei diversi paesi, non di rado rimanersi nelle sale colle mani in mano, senza sapere come dar opera al servizio ingentissimo [... ]. Vedevasi qualche raro ufficiale medico divisionale o di reggimento comparire in un luogo, cominciare l'ordinamento di un ospedale, poi scomparire, chiamato d'improvviso ad un altro_ da Novara a Milano, da Milano a Brescia, a Cremona, dalle città ai paesi intermedi, senza aver agio di nulla assestare, nulla finire, lasciando senza ordine e direzione gli ospedali appena piantati, e quasi dappertutto affidando ai medici civili la cura di ricoverare, soccorrere e curare gli infermi. Gli ospedali civili o già esistenti in precedenza, e quelli creati nelle località più vicine ai combattimenti, hanno svolto le funzioni di ospedali militari temporanei assai meglio di quello che ci si sarebbe potuto aspettare;


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ma il sistema era falso, e gl'inconvenienti di sostituire ospedali essenzialmente civili a ospedali, che devono essere essenzialmente militari, non poterono essere evitati. Ci basti accennare gli sregolati versamenti di malati in questo o quell'ospedale, d'onde l'accumulamento grandissimo e sommamente nocivo; gli ordini e contr'ordini delle autorità militari francesi e piemontesi ad amministrazioni civili e a un personale sanitario, che non aveva né unità di azione con quelle, né solidarietà di provvedimenti, come dev'essere quando militare è il capo che comanda, militare è l'ospedale che cura e il medico che riceve l'ordine, militare l'ordinamento e la disciplina nel servizio dell'ospedale stesso...

È così avvenuto che, per una malintesa economia, alla battaglia di Solferino il corpo sanitario non era preparato a far fronte ai suoi compiti, e nonostante l'impegno e la capacità dei rari suoi medici in servizio permanente, ha potuto fornire il personale necessario solo a pochi ospedali, rendendo indispensabile il massiccio ricorso a medici e ospedali civili. Per eliminare gli inconvenienti, secondo il Castiglioni per il futuro sarà necessario migliorare anzitutto il trattamento economico e morale, le condizioni di vita, di carriera e di lavoro, il trattamento di pensione del medico militare, la cui carriera è poco appetibile e non regge il confronto con la professione civile, perché pur essendo laureato dopo lunghi studi, raggiunge il grado massimo di colonnello, è soggetto a frequenti trasferimenti, a forti spese di alloggio e aggiornamento e per le uniformi ecc.. Il suo stipendio è perciò insufficiente: ma non volendo aumentarlo formalmente, dal momento che corrisponde al grado si potrebbe migliorare l'equiparazione ai gradi stessi, equiparando 1' allievo studente al grado di sottotenente, il medico aggiunto al grado di tenente, fino all'Ispettore capo, che sarebbe equiparato a maggior generale. In conclusione, secondo il Castiglioni "bisogna che il corpo sanitario non sia tenuto come un pleonasmo, e che sia saldamente costituito, con sufficiente personale, fin dal tempo di pace", aumentando i medici dei reggimenti e degli ospedali divisionali. Infatti "il servizio di pace è scuola per quello di campo; e l'istituzione del corpo sanitario ha la sua precipua importanza per il tempo di guerra". Quanto afferma il Castiglioni va confrontato con il recente saggio del di Lauro il Servizio sanitario nell'armata sarda del 185922, mirante a dimostrare che le lacune si sono verificate soprattutto nel servizio sanitario francese. In realtà una distinzione netta e precisa non trova sufficienti elementi di sostegno, anche se è innegabile che l'Esercito francese, costretto in parecchi casi ad appoggiarsi agli ospedali temporanei piemontesi, non era certo in condizioni migliori; rimane comunque il fatto che anche nell'Esercito piemontese la raccolta, la prima cura e lo sgombero dei feriti

12.

F. Di Lauro, Saggi di storia etico-militare, Roma, SME - Uf. Storico 1976, pp. 101-116.


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lasciano molto a desiderare, nonostante l'impegno del personale_ Gli ammaestramenti tratti dal Castiglioni circa la necessità di migliorare il corpo sanitario, di rendere più appetibile la carriera del medico ecc. toccano un problema che - mai risolto completamente - si presenterà fino ai nostri giorni. Le sue considerazioni ruotano esclusivamente intorno alle questioni morali, organiche e organizzative del corpo sanitario, come se - anche a prescindere da esse - l'aumento delle perdite in combattimento non rendesse necessario rivedere decisamente il dimensionamento e la collocazione degli organi sanitari, prevedendo in particolare un forte incremento quantitativo e qualitativo dei mezzi di trasporto per il sollecito sgombero a tergo delle divisioni, per i quali al momento è previsto - con tutti gli inconvenienti del caso - il ricorso in larga parte alla requisizione. Questi argomenti, trascurati dal Castiglioni, sono trattati sia pur senza approfondirli in un articolo, L 'effetto delle armi di precisione e il servizio sanitario degli eserciti in campagna'\ che riassume sia il rapporto sul servizio sanitario in Crimea del dottor J.C. Chemu, medico capo dell'esercito francese, sia il famoso libretto Souvenir de Solferino dello svizzero Henry Dunant24, fondatore della Croce Rossa. Dal rapporto del Chernu si deduce che la guerra di Crimea, pur essendo in certo senso limitata, provoca ben 800.000 vittime, delle quali la maggior parte russe (600.000), mentre l'esercito francese ha 95.000 morti, il turco 35.000, l'inglese 22.000, .... I caduti in combattimento sono una minoranza (53.000): gli altri sono deceduti per ferite o malattie, e tra quest'ultime, oltre al colera, imperversa anche il tifo e lo scorbuto. Di fronte a queste cifre, i 12 caduti in combattimento e i 2194 deceduti per ferite o malattie (ma in gran parte per colera) del corpo di spedizione piemontese dicono una cosa sola: che il Servizio sanitario sardo non è certo peggiore di quelli degli eserciti alleati. Dagli accenni dell'articolo alla guerra del 1859 si deduce che l'organico dei medici di un'ambulanza divisionale francese (4) era di molto inferiore a quello dell'ambulanza di una divisione piemontese (10): il confronto andrebbe però esteso anche al numero dei medici previsto per un reggimento. Il libro del Dunant è la prima e più convincente dimostrazione delle lacune del Servizio sanitario dei tre eserciti in campo, s~nza che vi emergano differenze in meglio e in peggio; egli loda l'abnegazione dei chirurghi francesi e italiani come l'impegno del Commissetti, medico capo del Servizio piemontese, e dei suoi principali collaboratori. Non ci soffermiamo sulle sue proposte, che poi formeranno la base per l'istituzione della Croce Rossa25 ; ricordiamo solo i suoi accenni alla 13 24 ·

25 ·

"Italia Militare" Anno 11 - Voi. VII 1865, pp. 194-235. Cfr. la traduzione italiana dell'opera (Milano, Guglielmini 1863). Cfr. , in merito, La providenza della guerra, "Il Politecnico" Vol. XXV - 1865, pp. 552-559; F. Baroffio, Le conferenze di Ginevra 1864-1868, "Rivista Militare Italiana" Anno XIV - Vol. ll apnle 1869, pp. 160-187.


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necessità di prestare ai feriti cure immediate, di migliorare i mezzi di trasporto dei feriti stessi e di disporre di infermieri volontari specializzati. Oltre che a far adottare dai principali Stati norme umanitarie per Ja protezione e cura dei feriti e per la neutralizzazione de] personale sanitario, i suoi sforzi in sostanza intendono istituzionalizzare l'azione di comitati e organizzazioni civili per assicurare i1 soccorso e la cura dei feriti, integrando l'opera de11a sanità militare che ha dimostrato, nelle battaglie del 1859, di non poter più farvi fronte solo con i propri mezzi. Le sue tesi denotano, quindi, la tendenza a trasformare un problema fino ad allora esclusivamente mi1itare in problema civile e umanitario, indirettamente riconoscendo insufficiente l'organizzazione militare. Per la sua cruda descrizione delle sofferenze dei feriti e della difficoltà dei soccorsi, e per l'aspra condanna delle guerre che provocano siffatte conseguenze, Henry Dunant nel XX secolo e specie dopo il 1945, è stato arruolato d'autorità sotto le bandiere del pacifismo e de11'antimilitarismo. Ma pur essendo amante della pace e contrario alle guerre come tutte ]e persone di buon senso, non risulta aver mai sostenuto sic ed simpliciter l' abo1izione degli eserciti e per questa via anche quella delle guerre, o l'istituzione di organismi internazionali di arbitrato ecc., come tutti i pacifisti militanti fanno da secoli. Al contrario, più che svizzero francofono egli dimostra di essere un autentico patriota francese, elogiando continuamente il valore e la virtù dell'esercito francese, presentando nella luce migliore i suoi Capi, e naturalmente, i suoi medici militari, e riconoscendo che anche i suoi intrepidi sottufficiali contribuiscono a rendere l'Esercito francese superiore a quelli delle altre grandi nazioni. Lusinghiera e quasi irreale è l'immagine che egli dà del soldato francese che, combattente implacabile, è generoso con i prigionieri e i feriti nemici, e inoltre rispetta scrupolosamente la proprietà altrui e le popolazioni (cosa che invero un testimone oculare assai attendibile, il maggiore Carlo Corsi, nega). In questo filtro fin troppo benevolo, anche le ben note difficoltà di vettovagliamento dell'Esercito di Napoleone IIl diventano cose di poco conto: "le truppe francesi, pur disponendo abbondantemente delle normali provviste di guerra, grazie all'avvedutezza e alla diligenza deUa ]oro amministrazione, stentano invece a procurarsi i] burro, il grasso e i legumi che abitualmente vengono aggiunti alla razione del soldato ...". Questo a causa delle precedenti requisizioni austriache; comunque .,-- egli si fa scrupolo di precisare - tutto ciò che i contadini lombardi possono fornire viene ]oro scrupolosamente pagato, così come essi sono stati generosapiente indennizzati per i danni di guerra... Cosa ancora una volta negata da] Corsi26 •

26

Secondo il Corsi, anche se il comportamento degli austriaci era peggiore, il soldato francese si comportava come se fosse in un paese conquistato e "pollai, peschiere, bettole, botteghe di salumai erano messe a sacco" (C. Corsi, Op. cii., Pirenze, Vol. I pp. 314-351). Per un confronto con il comportamento degli austriaci' Cfr. P. Giuria, Storia aneddotica della occupazione austriaca nella provincia e nei dintorni di VoRhera., Casa Ed. Italiana, Milano - Torino 1860.


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SEZIONE II - La guerra del 1866 Considerazioni preliminari Sulla guerra del 1866 - e sulla battaglia di Custoza (24 giugno 1866) nella quale essa in gran parte si riassume - vi è stato oltre mezzo secolo di polemiche, riguardanti le responsabilità del generale Alfonso La Marmora, Capo di Stato maggiore all'inizio della guerra e comandante dell'armata del Mincio, e del generale Enrico Cialdini, comandante dell'aliquota distaccata sul basso Po con il compito di puntare su Rovigo e Padova, aggirando i] quadrilatero. Il linguaggio dei fatti è assai crudo, e il verdetto della storia ormai chiaro. Due Eserciti italiani ciascuno superiore di numero a quello austriaco comandato dall'Arciduca Alberto, figlio dell'Arciduca Carlo (Vol. I cap. non riescono ugualmente ad avere la meglio. L'Arciduca Alberto il 24 giugno 1866 sorprende e batte a Custoza l'Esercito del Mincio, che avanza verso Est come se si trattasse di una semplice marcia, ritenendo che il nemico sia ancora al di là dell'Adige (e non come avviene - tra Mincio e Adige, e già appostato sulle alture che il nostro esercito avrebbe dovuto occupare). Per giunta l'Esercito del Po, che si accingeva secondo gli accordi a passare il fiume, appresa la sconfitta sul Mincio si ritira su Modena. Il movimento dal basso Po verso Est è poi ripreso con fatale ritardo, ma, nonostante l'assenza dall'Italia del Nord-Est dell'Esercito austriaco (in gran parte richiamato in patria dopo la sconfitta di Sadowa il 3 luglio) non si fa a tempo a raggiungere Trieste com'era nei piani, e nell'agosto 1866 si è costretti a un armistizio e poi a una pace, in base alla quale l'Austria cede il Veneto a Napoleone III, che lo rimette all'Italia. Evidenti i riflessi negativi per il prestigio de] nuovo Stato e delle sue Forze Armate, riflessi che si protraggono fino al 1915. · La sconfitta nella battaglia di Custoza del 24 giugno non è grave, e le sue perdite sono assai inferiori a quelle della battaglia di San Martino, tanto più che solo una parte delle truppe vi è stata effettivamente impegnata: ma esercita funesti effetti sull'animo del La Marmara, del Cialdini e dei loro sottoposti, inducendoli a ritirarsi senza sufficienti motivi sia dal Mincio che dal Po. In sostanza "l'Esercito italiano, anche solo mediocramente guidato, avrebbe potuto vincere; comunque, l'immeritata sconfitta del giovane esercito non era in sé cosl grave: rivestì invece la parvenza di un vero disastro per quanto avvenne in seguito e unicamente per colpa dei Capi".21 A sua volta la nostra flotta, pur essendo superiore all'austriaca, è sconfitta a Lissa (20 luglio 1866). Per ultimo la preparazione e il quadro politico della guerra sono tali da non assicurare alcun coordinamento con l'alleato prussiano e da garantire

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n.

P. Pieri, Op. cit., p. 759.


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all ' Italia il massimo del danno, compromettendone la credibilità politica e il prestigio internazionale senza che vi sia modo di far validamente fronte agli interessi incrociati della Francia di Napoleone III (contrario a una condotta decisa e offensiva della guerra), della Prussia e dell'Austria. Tra le ricadute più negative sono i sospetti del governo e dello Stato Maggiore prussiani sulla condotta del La Marmora, più o meno apertamente accusato di evitare ad arte una decisa offensiva per compiacere Napoleone III. Quanto è lontano, quanto manca Cavour! Carlo Corsi (che partecipa alla guerra come maggiore Sottocapo di Stato Maggiore del I Corpo d'armata) compila la relazione ufficiale sulla campagna che, ultimata nel 1869, compare (con il I volume) solo nel 1875, dopo essere stata rivista dai tre maggiori protagonisti, cioè i generali La Marmora. Cialdini e della Rocca. Il II volume vede la luce solo nel 1895, cioè vent'anni dopo. Nel 1903 il generale Alberto Pollio, futuro Capo di Stato Maggiore, pubblica il libro Custoza (1866) 28 , assai critico sulla leadership italiana e specie sull'operato dei generali La Marmora e della Rocca e dei generali di corpo d'armata. Dopo la nomina dello stesso generale Pollio a Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, nel 1909 ]'Ufficio Storico pubblica. in due volumi, il Complemento alla storia della campagna del 1866 compilato dal Capo dello stesso Ufficio Col. Alberto Cavaciocchi. Più che di un semplice complemento si tratta di un rifacimento su parecchi punti essenziali della storia della campagna, con giudizi critici sull'operato dei maggiori protagonisti. Come afferma il Cavaciocchi nella premessa, infatti, la relazione fu compilata tra il 1868 e il 1869 e pubblicata integralmente quale fu riveduta da autorevoli persone che ebbero parte principalissima nella campagna. Ne derivò che non poté, specie nella . prima parte, essere tenuto conto di documenti e testimonianze, venuti in luce posteriormente; come pure su taluni punti, che avevano dato argomento a vivaci dibattiti personali, la narrazione risultò parca e sommaria, per non rinfocolare rancori o suscitare nuove polemiche tra i superstiti. Ormai però è trascorso tempo sufficiente, affinché si possa con serenità tornare sull'argomento e fare, sulla base di documenti rimasti in parte inediti, intiera la luce anche su qualchi; particolare, tenuto finora in ombra per riguardi personali, e fornire tutti gli elémenti necessari per quello studio psicologico, senza del quale non è possibile colorire l'ambiente in cui si svolgono le operazioni. Gli elementi necessari per un giudizio sereno scaturiscono con sufficiente chiarezza dagli stessi avvenimenti, visto che in essi si legge una continua violazione di principi e criteri elementari e derivanti da un'esperienza secolare, la cui osservanza non basta ad assicurare la vittoria, ma la cui 28

Torino, Roux e Viarengo 1903 ( Ristampe 1923 e 1935 a cura Uf. Storico; noi ci riferiamo alla ristampa 1923) .


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inosservanza garantisce la sicura sconfitta. Rimangono però da definire gli esatti termini della polemica tra il La Marmora e il Cialdini, che - cosa notevole - non è ristretta agli uffici e agli ambienti militari ma è anche pubblica, e avviene negli anni immediatamente successivi. Occorre anche conoscere il giudizio degli scrittori coevi e dei principali protagonisti, e soprattutto gli ammaestramenti che all'epoca sono tratti da una guerra, che segna dolorosamente per lungo tempo il mondo militare.

w polemica La Marmora - Cialdini Le giustificazioni del La Marmora risultano dai suoi rapporti del 30 giugno e del 12 luglio 1866, pubblicati dalla Ga:a,etta Ufficiale, e soprattutto dalle tre relazioni da lui compilate - su richiesta del Ministero della Guerra - dal 20 dicembre 1868 al 10 gennaio 1870. Tali relazioni costituiscono la seconda parte dell'opera Un po' più di luce sugli eventi politici e militari dell'anno 1866,29 la cui prima parte si riferisce agli eventi che precedono la guerra. Detti rapporti sono integralmente riportati nel predetto Complemento 30 ; ad essi vanno aggiunti gli Schiarimenti e rettifiche del generale Alfonso La Marmara (1868)3' e il volume Il generale Ùl Marmora e la campagna del 1866 - risposta all'opuscolo di Bologna e alla lettera del generale Sirtori, uscito anonimo ma attribuito a Luigi Chiala. 32 Nei suoi rapporti il La Marrnora non fa che lamentare - pur essendone uno dei corresponsabili - la mancanza di unità di comando, e afferma di non aver mai aspirato alla carica di comandante in capo, proponendo per questo incarico il Cialdini, che lo aveva rifiutato. Assicura, quindi, di aver accettato l'incarico di Capo di Stato Maggiore solo per abnegazione e dopo il rifiuto di quest'ultimo. Ma questa posizione non solo non mi ha permesso latitudine e indipendenza completa nel dare ordini e direzioni; ma neanche talvolta di tutto conoscere, sia delle intenzioni concepite, sia delle disposizioni date intorno a me [... ]. Questa qualità, se mi permetteva nelle cose di guerra di proporre, suggerire, consigliare, mi vietava, peraltro, di agire di proprio impulso e di emanare ordini chiari, precisi, assoluti, com'è nella mia natura, quando mi sento in diritto e in dovere di assumere una responsabilità, per quanto grave essa sia; e mi costringeva sovente a

,.,_ Firenze, Barbèra 1873. '°· Cdv Corpo SM - Uf. Storico, Complemento alla storia della campagna del 1866 in Italia, Roma 1909, Voi. I pp. 17-126. " Firenze, Barbèra 1868. 32 · Firenze, Cassone 1868. Il Chiala, collaboratore del La Mannora, è autore anche dei Cenni storici sui preliminari della guerra del 1866 e sulla battaglia di Custoza (Firenze, Voghera 1870 - 2 Vol.), recensito - non senza velate critiche - da Paulo Fambri sulla "Nuova Antologia" (Voi. XX Fase. VIII - agosto 1872, pp. 857-865).


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tacere, cedere, transigere con le mie convinzioni, onde evitare urti, sconcerti, complicazioni e maggiori danni.

Gli opposti punti di vista del La Marmora - fautore di un'azione frontale dal Mincio verso il quadrilatero - e del Cialdini, fautore di un'azione dal Basso Po mirante a aggirare il quadrilatero e a interrompere le comunicazioni dell'Esercito austriaco dal Veneto verso Udine e Venezia, sono inconciliabili. Il La Marmora, perciò, è recisamente contrario alle vedute del generale Moltke sulla condotta generale della campagna, che il 17 giugno l'ambasciatore prussiano Usedom presenta al governo italiano. Tali vedute sono ancor meglio chiarite in un documento presentato dal Von Bernhardi, che è un civile inviato dal governo prussiano per trattare i particolari della condotta della guerra (cosa che giustamente indispettisce il La Mannora, il quale si aspettava l'invio di un generale)'3. La Marmora afferma che la nota all'Usedom è espressione dei "sogni" di "alti personaggi [italiani] importanti e influenti", influenzati dai "variopinti" progetti degli emigrati ungheresi, e dalle solite teorie dei numerosi rivoluzionari "di convinzione e di professione" convenuti a Firenze. Essa "propugnata, e forse anche concepita in parte nelle nostre cancellerie, mi si tenne segreta, per potermela meglio imporre, fino al giorno che io lasciava la presidenza del Consiglio e il Ministero degli affari esteri". A questo punto è utile riassumere brevemente i contenuti della nota, la quale si fonda su un presupposto assai logico, che ambedue gli alleati hanno di fatto disatteso durante ]a guerra: condurre una guerra offensiva a fondo e ben coordinata, in modo da impedire al governo austriaco la manovra delle forze dall'uno all'altro scacchiere, facendo fronte prima alla Prussia e poi all'Italia. Compito essenziale dell'Esercito italiano è pertanto quello di impedire che le forze austriache dislocate in Italia vadano a rinforzare quelle impegnate contro la Prussia. Di conseguenza, secondo la nota l'Esercito italiano non deve lasciarsi imbottigliare nel quadrilatero ma adottare fin dall'inizio una strategia offensiva, tale da consentirgli di incalzare da vicino e in profondità l'esercito austriaco, quando sarà costretto a ritirarsi nelle province centrali del l'Impero: fortunatamente il quadrilatero non è più appoggiato dalla parte del Po, a un territorio neutrale che non può essere utilizzato, come è sempre stata l'Emilia [o meglio, le legazioni di Romagna - N.d.a.] sottomessa alla Santa Sede; e l'Austria non ha fatto i lavori necessari per conservare al quadrilatero la sua antica importanza, specie di fronte alle nuove combinazioni strategiche che consente la formazione del nuovo Regno d'Italia: essa ha trascurato, in particolare, di trasformare Padova in piazzaforte di primo ordine. Queste favorevoli circostanze consentono ora di aggirare questo gruppo di fortezze, la

33

·

Complemento ... (Cit.), Voi. 1 pp. 2~-44.


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cui importanza è ormai così ridotta. Perciò l'esercito italiano non dovrebbe più costituire, come nelle guerre precedenti, i suoi magazzini a Piacenza e Alessandria, ma basarsi su Bologna, Ferrara e Ancona, e in qualche modo anche sulla sua armata navale, superiore a quella austriaca. Partendo da questa base esso dovrebbe aggirare il quadrilatero, passando il Po più o meno all'altezza di Ferrara, per avanzare su Padova e Vicenza.

L'importante, comunque, è che una volta raggiunti i dintorni di Padova, l'Esercito italiano stabilisca le sue comunicazioni verso Bologna, per avere quella libertà di movimento che le circostanze richiedono, e che non gli sarebbe concessa se mantenesse la sua base d' operazioni ad Alessandria Piacenza. Nel caso che l'Esercito austriaco non intenda abbandonare senza combattere le sue comunicazioni attraverso il Veneto, la notevole superiorità numerica dell'Esercito italiano gli darebbe buone possibilità di batterlo. Se invece quest'ultimo si dovesse rifugiare nella piazzaforte di Verona, potrebbe rimanere in comunicazione con l'Austria solo attraverso il Tirolo, e anche in questo caso i corpi volontari italiani, sostenuti dalle popolazioni insorte del Tirolo italiano, non avrebbero difficoltà a interrompere le comunicazioni austriache. Nel caso, infine, che l'Esercito austriaco decida di ritirarsi attraverso il Tirolo, non sarebbe possibile impedirgli la ritirata ma soffrirebbe gravi perdite, e soprattutto, consentirebbe all'Esercito italiano di giungere senza trovare ostacoli alle Alpi Carniche, e fors'anche di precederlo a Villaco, impadronirsi di Trieste con una divisione distaccata e stabilire comunicazioni dirette con la flotta. Sarebbe questa, comunque, la fase critica della campagna: perché se l'Esercito italiano si arrestasse e perdesse tempo nel1' assedio delle fortezze e in operazioni secondarie, darebbe ugualmente tempo all'Austria di concentrare le sue forze prima contro la Prussia e poi contro l'Italia; se al contrario esso incalzasse il nemico in ritirata, e impadronendosi della ferrovia da Trieste a Vienna avanzasse fino al cuore dell'Impero per congiungersi con la armata prussiana sul Danubio, la vittoria non potrebbe sfuggirgli. Per facilitare l'offensiva italiana secondo il Comando prussiano vi è un'altra possibilità: la spedizione di Garibaldi in Dalmazia e l'insurrezione dell'Ungheria e dei distretti limitrofi, che senza contare la demoralizzazione che potrebbe gettare nei suoi ranghi, costringerebbe l'esercito austriaco ad accelerare la ritirata ed a distrarre forze; occorre pertanto organizzarla, favorirla e accelerarla. A perer nostro, il piano prussiano così descritto presuppone uno strumento con Capi validi, ben organizzato e con truppe permeate di forte spirito offensivo, quale è solo quello della Prussia: esso è pertanto troppo ardito per la effettiva possibilità dell'Esercito italiano del momento, che ha numerosi limiti. Tuttavia non manca di una logica strategica, a cominciare dalla necessità di non lasciarsi imbrigliare in una guerra lenta e metodica nel quadrilatero e di impedire, comunque, che l'Esercito austriaco si ritiri


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dall'Italia, per poi ritornarvi in forze. Affine a quello del Cialdini anche se di esso più ardito, segna il punto di massima collisione tra il La Marmora e lo Stato Maggiore prussiano, che lo stima assai poco perché fin dal 6 giugno, in un colloquio a Firenze con il Von Bernhardi, si dimostra del tutto contrario agli arditi progetti di Moltke, propendendo senza equivoci per una guerra "limitata" e tradizionale, senza grandi voli strategici e condotta principalmente dal Mincio e attraverso il quadrilatero. Scrive, in proposito, il Von Bernhardi in un suo rapporto a Berlino: La Marmora è di sua natura un uomo mediocremente intelligente, ed è cresciuto nello stretto ambito di uno Stato di terzo grado; in tale ambiente egli si è venuto formando, in un orizzonte più vasto gli sembra di sentirsi straniero e diventa malsicuro [...]. Così egli è del tutto preoccupato di quei piccoli disegni che si svolgono in uno spazio limitato. Egli null'altro vuole che la conquista della Venezia per l'Italia [...]. La conquista del Veneto [...J non gli sembrerebbe acquistata con una completa vittoria sull'Austria quando perdurassero le guarnigioni austriache qua e là perdute nelle fortezze del1' Alta Italia [...]. La progettata spedizione di Garibaldi gli ripugna,

perché anzitutto questi non gli talenta, tenendolo in conto di un soldato di mestiere, e poi specialmente perché egli teme che lo possa condurre più in là di quanto lo vuole, e che la guerra finisca per uscir fuori da quegli stretti confini nei quali egli la vuol mantenere [... ] poiché egli anzitutto, come molti dei suoi conterranei, considera sempre il Piemonte come il vero Stato e il resto dell'Italia una semplice appendice, e ogni suo sforzo mira a condurre la guerra fuori del Piemonte ...

Non si può negare che il Von Bernhardi colga almeno in parte nel segno: sarebbe troppo attribuire al La Marmora, buon generale piemontese, disegni strategici arditi, spirito aggressivo e il colpo d'occhio e la personalità del grande generale. Ma, se La Marmora è così ·giudicato dai prussiani, allora appare contradditoria la successiva accusa che gli viene da essi rivolta, di aver di proposito rallentato e limitato la guerra, per compiacere Napoleone ID: qui non si tratta di un preciso disegno politico-militare ma solo del carattere, dellafonna mentis dell'uomo, e la sua ipotetica malafede è perciò da escludere. Questa forma mentis emerge prima di tutto quando giustifica la sua contrarietà alle insurrezioni e ai progetti del Presidente del Consiglio Ricasoli, che vorrebbe far insorgere le popolazioni dalmate, croate e ungheresi inviando colà Garibaldi: suscitare rivolte in altri Stati - egli afferma - "mi ha sempre sembrato contrario a ogni principio di umanità, moralità e sana politica". Ammesso che si riesca a farle scoppiare, ben pochi riescono poi a dirigerle e nessuno riesce a frenarle. Le guerre civili che ne derivano sono assai più sanguinose di que1le tra eserciti regolari; quest'ultime banno "regole e riguardi di reciproca convenienza, che con l'attuale progresso civile si vanno sempre più allargando a beneficio dell'u-


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manità". È contraddittorio essere fautori al tempo stesso dell'insurrezione e dell'abolizione della pena di morte; in quanto a me, se a provocare insmrezioni non fossi stato sempre contrario per natura, lo sarei diventato dopo aver visto fucilare con tanti altri, mentre io comandavo a Napoli, il belga Trezogny e lo spagnolo Borjès con tutta la sua banda. Dopo simili atti di rigore, pur giustificabili, con qual diritto potevamo noi pretendere che Garibaldi e i garibaldini non fossero fucilati, se cadevano prigionieri in"terra a noi del tutto straniera, e fra popolazioni che nulla avevano con noi in comune? Nella fattispecie, secondo il La Marmora lo stesso Ministro degli esteri Emilio Visconti Venosta, che poche settimane prima era passato per l'Ungheria, lo aveva informato che gli ungheresi, pur stanchi e scoraggiati per le loro condizioni economiche, non intendevano insorgere ma piuttosto cercare un accordo con Vienna, e che gli emigrati ungheresi a Firenze non avevano alcuna influenza in patria. Egli è perciò favorevole solo a un impiego dei volontari nel Tirolo, in numero non superiore ai 15-20.000; questo perché da una parte un numero maggiore creerebbe problemi di comandabilità e organizzazione, dall'altra a suo avviso nessuna impresa al di là del l'Adriatico è possibile, fino a quando la flotta non si sia resa padrona de] mare: non già che io proscrivessi assolutamente ogni idea di spedizioni al di là delle frontiere, o di diversione su le coste nemiche; ma avrei sempre preferito impiegarvi truppe regolari, anziché volontari. Soprattutto non la credevo cosa da tentarsi all'esordio della cam pagna; ma solo dopo che si fosse spiegato il carattere e le probabilità di esse. Difatti finché l'Arciduca Alberto campeggiava nel Veneto con 80 mila uomini di truppe mobili, appoggiato a formidabili fortezze, difese da altrettante forze di guarnigioni, egli era nel caso non solo di resisterci, ma d'imprendere con gran probabilità di successo operazioni ai nostri fianchi e alle nostre spalle. Non si poteva di conseguenza distogliere dall'esercito principale alcuna delle 20 divisioni attive; e tanto più una volta ammesso che si dovesse agire contemporaneamente dal Mincio e dal basso Po. Queste parole già dicono molto sul concetto d'azione del La Marmora, che teme attacchi ai fianchi e alle spalle da parte dell'Esercito austriaco ed è come ossessionato, calamitato dalla minaccia del quadrilatero. Per lui si tratta anzitutto di impadronirsi delle forti posizioni tra Peschiera, Mantova e Verona, perché solo una volta fatto questo e attestatosi a difesa, gli sarebbe possibile distogliere forze per altre azioni. Un'operazione dal basso Po non gli sembra conveniente, perché "lenta, difficile e piena di pericoli; per cui un insuccesso, o una semplice sorpresa ai fianchi e alle spalle, o la rottura di alcuni argini, può produrre un vero disastro". Il nemico potrebbe agevolmente difendere il terreno tra il Po e Padova avvalendosi dei numerosi fiumi e canali, e disponendo delle fortificazioni di Rovigo di fronte, Verona e


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Legnago da una parte e Venezia dall'altra. Invece operando dal Mincio,è più facile separare e paralizzare successivamente le varie piazzeforti, e si appoggiano meglio le operazioni nel Tirolo. In caso di vittoria si può andare anche oltre Verona; in caso d'insuccesso, l'Esercito potrebbe pur sempre ritirarsi e riordinarsi fra Cremona e Piacenza, senza temere che il nemico entrasse in Lombardia o passasse sulla destra del Po. Convinto di questo, il La Marmora afferma di aver pensato di dislocare sul basso Po solo due divisioni, "ma io doveva pur tenere conto [non era obbligato - N.d.a.] dell'opinione degli altri generali, e massime del generale Cialdini ...". Di qui "l'accordo" col generale Cialdini per agire col grosso dell'Esercito dal Mincio, e con un forte corpo distaccato dal basso Po. Non si è trattato di un errore, e di un errore paragonabile a quello dei prussiani: questi infatti muovevano per penetrare in Boemia in due masse, l'una di 100, l'altra di 140 mila uomini, separati da ostacoli insuperabili, e non poterono congiungersi se non dopo otto o dieci giorni di marcia, e in un territorio occupato da 250.000 austriaci circa, che gettandosi o su l'una, o su l'altra avrebbero potuto schiacciarle isolatamente. Noi invece, da qualunque parte si fosse presentato l' AIciduca Alberto con i suoi 75.000 uomini, potevamo opporgli forze o poco, o molto superiori. Supponiamo poi del resto che, come era mio primo pensiero, avessimo passato il Mincio con 18 divisioni; è estremamente probabile che l'arciduca ci avrebbe lasciato occupare le alture tra il Mincio e l'Adige senza contrastarcele [nostra sottolineatura - N.d.a.]. Ma allora, una volta colà fortemente stabi]jti, qualunque operazione si fosse voluto tentare, o di isolare e di assediare le piazze, o di procedere oltre in una direzione qualunque, il dividersi era di nuovo indispensabile.

Afferma anche di aver ceduto al Cialdini altre tre divisioni oltre alle cinque delle quali già disponeva solo perché il generale Petitti, aiutante generale del quartier generale, gli aveva assicurato che grazie a questo aumento di forze il generale Cialdini sarebbe stato in grado di espugnare Rovigo e proseguire oltre. Queste tre divisioni, invece, a suo giudizio sarebbero state molto utili il 24 giugno [cosa della quale v'è da dubitare, visto che durante la battaglia non è riuscito a impiegare nemmeno tutte le divisioni a sua disposizione - N.d.a.]. Non trova niente a ridire nemmeno sugli strani accordi del 17 giugno con il Cialdini, i quali, in pratica, prevedevano che ciascuno facesse a modo suo: "nessun accordo venne stabilito sui particolari dell'azione rispettiva, che per me troppo era evidente non dovesse, né potesse, combinarsi a puntino. Ciascuno dalla parte sua avrebbe agito secondo le occorrenze e con la necessaria energia per modo da battere o paralizzare il nemico, attraendolo or dall'una parte, or dall'altra". E in un telegramma del 21 giugno considera quello del Cialdini come un "corpo distaccato", per cui lo stesso Cialdini "riceve ampie facoltà di cominciare e progredire le operazioni di guerra in quel senso che gli sembrerà più opportuno, a seconda delle circostanze", con preghiera solo di tenerlo


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informato. Pertanto nei suoi riguardi rinuncia a priori ad esercitare quelle funzioni proprie del Capo di Stato Maggiore, che nonostante tutto esercita per altri corpi d'armata (prova indiretta, questa, che gli era possibile, oltre che necessario, dare ordini anche al Cialdini). Nega anche di aver concordato col Cialdini - come sostiene quest'ultimo - di limitarsi a fare una semplice "dimostrazione" iniziale sul Mincio: non poteva prendere l'impegno di paralizzare 12 divisioni su questo fiume quando il Cialdini stesso insisteva perché richiamasse forze nemiche da questa parte, in modo da rendergli più agevole il passaggio del Po. Il solo modo di richiamare forze era di passare il Mincio con numerose truppe; una volta fatto questo, a seconda dei successi ottenuti da una delle due parti, l'Esercito si sarebbe riunito tutto da una parte, oppure, se l'Esercito del Po fosse riuscito a espugnare Rovigo e raggiungere l'Adige, l'Esercito del Mincio lo avrebbe "considerevolmente rinforzato" [par di capire che, in questo caso, egli non avrebbe rinunciato a mantenere buona parte dell'Esercito sul Mincio, mantenendo così divise Je forze -N.d.a.]. Secondo il La Marmora l'idea della semplice dimostrazione sul Mincio è venuta al Cialdini dopo il colloquio del 17 giugno, t.ant' è vero che il 21 giugno gli ha spedito un telegramma, nel quale precisava che il suo tentativo di passaggio del Po doveva essere preceduto, appunto, da una dimostrazione, e lo pregava di comunicargli se era pronto a farla il 24 giugno, in modo da consentirgli di passare il Po il 26 giugno: telegramma che per il La Marmora sarebbe stato superfluo, se la dimostrazione fosse stata già concordata. E in un' altra lettera del 20 giugno il Cialdini si dice preoccupato della notizia datagli dal La Marmora che truppe austriache dal Mincio si sarebbero dirette verso Lonigo, e conclude esprimendo la speranza che "alla vigilia del mio tentativo sul Po, richiamerete su di voi le forze nemiche". 34 Anche nel caso che egli si fosse limitato a una semplice dimostrazione sul Mincio, e che l'Arciduca Alberto, preoccupato da tale dimostrazione, non avesse contrastato il movimento del Cialdini e quest'ultimo avesse espugnato Rovigo, l'Esercito del Po "non sarebbe giunto alla frontiera illirico-friulano che tredici giorni dopo, vale a dire l '8 luglio, ognuno vede con quali rischi e con quale probabilità d'influenza sull'esito delle operazioni prussiane in Boemia [cioè; sarebbe giunto dopo la battaglia di Sadowa, avvenuta il 3 luglio - N.d.aj". Anche in questo caso l'Esercito austriaco sarebbe stato pienamente libero di ritirarsi attraverso il Tirolo, e di rafforzare l'armata del Nord: e che cosa si sarebbe detto in Prussia, se l'Esercito italiano si fosse limitato daJla parte del Mincio a fare dimostrazioni, e dalla parte del Po a fare delle marce, visto che anche dopo una battaglia campale "sostenuta senza successo, ma con onore, ci accusano di giocare la commedia"? "· Gen. A. La Marmora, Schiurirru:flti e rettifiche... (Cit.), pp.18-19.


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Rimane poco da dire sulla versione che il La Marmora dà delle vicende della battaglia di Custoza, se non che rovescia interamente le responsabilità sui comandanti di divisione e di corpo d'armata, che hanno dimostrato poca energia e mancanza d'iniziativa, giudicando inoltre le truppe valorose ma poco solide. Se il passaggio del nemico sulla riva destra dell'Adige non è stato scoperto in precedenza [ ma poteva e doveva essere previsto! - N.d.a.], la colpa è particolarmente della cavalJeria del III corpo e della divisione di cavalleria De Sonnaz, che hanno avuto ordine formale di spingere il più lontano possibile le loro ricognizioni [ma non sarebbe stato meglio indicare con precisione la linea da raggiungere e posizioni da riconoscere in particolar modo? - N.d.a.] e hanno svolto male il compito; inoltre il generale Sirtori, comandante della 5" divisione del I corpo d'armata, avuta notizia del grande movimento delle truppe austriache al di qua dell'Adige, non ne ha informato il Comando del suo corpo [e i1 servizio informazioni de] quartier generale svolto dal colonnello Duguet? - N.d.a.] . Per il resto, è una successione di "se": "se il comandante del I corpo ...", "se il generale Cucchiari [comandante del II corpo d'armata di riserva - N.d.a.] si fosse avanzato alla testa delle due divisioni, che fin dal mattino dovevano trovarsi a Goito ...", "se finalmente avessimo avuto da quella parte le tre divisioni cedute al generale Cialdini ...". Inoltre "il comandante del m Corpo [generale della Rocca - N.d.a.], sapendo attaccata una battaglia generale[ ...] avrebbe dovuto montare a cavallo alla testa di tulle le truppe disponibili, e avanzarsi sul campo di battaglia...". Nella seconda relazione del 1869 il La Marmora non nega di aver ordinato e raccomandato al generale della Rocca di tener fermo a Villafranca, ma aggiunge che quest'ultimo, nonostante le sue raccomandazioni, "avrebbe potuto fare molto di più", come molto di più ha fatto il generale Pianell nonostante gli ordini di sorvegliare Peschiera. In particolare il della Rocca avrebbe dovuto interpretare meglio gli ordini ricevuti, il cui scopo era solo quello di impedire al nemico di aggirare il fianco destro dell'Esercito. Con la numerosa cavalleria di cui disponeva avrebbe potuto accertarsi che il fianco destro non era minacciato, e che il Il corpo di riserva era comunque vicino; di conseguenza, sarebbe stato possibile impiegare ]a divisione Bixio (la più vicina) per attaccare Staffalo o anche Sommacampagna (ma non Custoza, dove l'addensamento di forze era già grande); questo attacco sarebbe senza dubbio riuscito o almeno avrebbe alleggerito la pressione su Custoza. Fin qui il La Marmora: ma annulla gran parte delJ 'efficacia di questo ragionamento, riconoscendo che "se l'attacco non avesse avuto buon esito, la nostra ritirata su Goito diventava pericolosissima, qualora il nemico si fosse impadronito di Valeggio, come poteva farlo fin dalle 4 pomeridiane". Nessun accenno alla riserva d'artiglieria rimasta inoperosa, ai difettosi ordini di movimento che provocano intasamenti e non consentono di far fronte a un eventuale incontro con l'avversario, alla dislocazione troppo


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arretrata del quartier generale ecc .. Bisogna invece, a suo avviso, ridurre gli effetti della sorpresa verificatasi alla giusta misura, perché il vero è che ben poche battaglie sono avvenute senza che entrambi i combattenti siano stati più o meno sorpresi nelle loro disposizioni, nelle loro mosse e anche nelle loro posizioni. Marengo, Magenta, Solferino sono, senza sortir d'Italia, esempi convincenti . Nel nostro caso speciale, se noi fummo naturalmente sorpresi di trovar gli Austriaci sulla destra dell'Adige, mentre tutti ci assicuravano che ancora stavano sulla sinistra verso Lonigo, non meno sorpresi furono gli austriaci di trovarci in marcia contro di loro [ ...]. La sorpresa sarebbe anche stata tremenda, le disposizioni viziose e il quartier generale colpevole, se realmente, come credeva l'arciduca, avessimo marciato sull'Adige da Goito a Albaredo...

In questo caso l'Arciduca Alberto, dopo aver occupato le alture tra Sommacampagna, Custoza e Valeggio, avrebbe potuto prendere sul fianco sinistro le colonne italiane avanzanti neJJa pianura tra il Mincio e l'Adige. Pertanto il La Marmora, pur essendo stato sconfitto, rivendica il merito di aver evitato il peggio, puntando anch'egli all'occupazione di quelle alture, dove pure è stato sorpreso dal nemico: così facendo, avrebbe evitato una sconfitta ancor più catastrofica. Ma non aiuta certo il lettore a capire come mai, pur essendo stato a sua volta sorpreso, l'Arciduca Alberto diversamente da lui abbia adottato un dispositivo che gli ha consentilo, appunto, di far fronte all'imprevisto e di ottenere la vittoria: non avrebbe potuto il La Marmora, dal canto suo, fare altrettanto? Dopo la battaglia, anziché tener fermo sul Mincio e preparare la rivincita La Marmora decide di ritirarsi sull'Oglio, mentre dal suo quartier generale il 25 giugno alle 04,30 parte un telegramma al generale Cialdini (da lui attribuito al generale Petitti, aiutante generale) nel quale si comunica "essere l'armata in stato deplorabile, incapace di agire per qualche tempo, essendo cinque divisioni disordinate". Questo telegramma ha effetti letali, perché induce il generale Cialdini non solo a rinunciare alla già decisa offensiva oltre il Po, ma a ritirarsi a sua volta su Modena, dando luogo a una dura polemica tra lo stesso Cialdini e La Marmora. Il quale assume la responsabilità di quel telegramma, dicendosi "impressionato per molti fatti avvenuti nella battaglia del 24, che concordavano nel far supporre che le truppe impegnate si erano male o mediocremente battute", fino a fargli esclamare con il generale Petitti "le truppe non tengono!". Tiene però aprecisare che, in quel momento, era quella l'opinione anche di molti generali, i quali "dimostrarono una tale esagerata sfiducia nei loro soldati, che altamente dichiararono al generale Petitti, appositamente spedito presso il I corpo a Volta, che se il nemico avesse passato il Mincio per inseguirlo, non si era in grado di opporre valida resistenza, malgrado le forti posizioni occupate". Inoltre nel predetto telegramma raccomandava al Cialdini di stare all'erta, "il che non vuol dire abbandonare il Po".


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Sta di fatto che dopo aver diramato lo stesso giorno 25 gli ordini per la ritirata, li annulla e decide di non ritirarsi più dal Mincio. Ma il mattino del 26, quando vede il telegramma del Cialdini che gli annuncia la sua ritirata dal Po, "non avendo mai potuto supporre che gli austriaci passassero il Po, e marciassero sopra la capitale [Firenze]", tenta di dissuaderlo con un altro telegramma spedito alle 06,30 dello stesso giorno. E poiché il Cialdini persiste nella sua idea di ritirarsi mi recai da S.M. per dare quelle dimissioni, a cui non avevo pensato prima, e che dopo non ho mai più voluto ritirare. E siccome la ritirata dal Po del corpo del generale Cialdini rendeva necessaria la nostra ritirata dal Mincio, ne provocavo nel tempo stesso l'autorizzazione da S.M .. Le mie dimissioni erano necessarie, per protestare non solo contro l'inqualificabile procedere del generale Cialdini, che si era fatto dare otto divisioni, con tutto l'occorrente per passare il Po ed espugnar Rovigo, e che si ritirava malgrado l'ordine di rimanere [veramente il La Marmora non gli dà ordini tassativi ma come sempre lo "prega caldamente" di "non abbandonare il Po, onde noi possiamo prendere migliore posizione" - N.d.a.], ma eziandio per ottenere, a qualunque costo, quella unità di comando e di direzione, di cui tanto mi ero preoccupato prima della guerra e che diventava già necessità suprema. Non avrebbe toccato a me lasciar il mio posto. Sentivo anzi di aver fatto più del dovere mio di capo di Stato Maggiore. Impedivo il 23 la marcia diretta all'Adige, sulla quale tanto sperava l'Arciduca Alberto [ ... ] e il 24, appena accertata la presenza del nemico, sono pur riuscito a raggruppare tra Custoza e Vtllafranca più di 50.000 uomini, che ci avrebbero assai probabilmente data la vittoria, se tutti avessero fatto ciò che potevano o dovevano [...]. E per me il sacrifizio era tanto più grande che mi veniva assicurato che il generale Cialdini non avrebbe mai accettato il comando e la direzione della campagna, senza che io m'allontanassi dall'esercito. Chi ciò mi asseriva s' era però ingannato; giacché nell'abboccamento che io ebbi pochi giorni dopo col generale Cialdini a Parma, avendogli io chiesto anzitutto s'era disposto ad accettare la direzione della guerra, mi rispose: sì, a condizione che voi rimaniate.

Lo stesso giorno 26 giugno spedisce al Cialdini due telegramnù nei quali ridimensiona il precedente giudizio pessimistico sulla situazione dell'Esercito, afferma che "siamo in troppi a comandare" e gli propone il comando di tutte le forze di terra e di mare (cosa che il Cialdini ancora rifiuta). Non cambia, però, idea sulla condotta strategica della guerra: io era pur sempre persuaso, e forse più che mai, che era preferibile attaccare sul Mincio; ma siccome mi lusingavo che il generale Cialdini fosse investito, o del supremo comando, o almeno della direzione generale dell'esercito, e lo credeva pur sempre partitante dell'attacco dal basso Po; temevo che se lo avessi invitato a venir verso il Mincio, egli vi si sarebbe rifiutato, o avrebbe almeno opposto una resistenza, causa possibile di nuove complicanze e nuovi indugi.


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Non ci soffermiamo sui rapporti tra il Cialdini e il La Marmora nelle successive vicende della guerra, se non per ricordare che - a giudizio dello stesso La Marmora - dopo Custoza il problema dell'unità di comando, lungi dall'essere risolto, peggiora_ A ciò si aggiunga che l'errata valutazione della situazione delle truppe dopo la battag1ia da parte del La Marmora, la ritirata dal Mincio e dal Po e la tendenza a sopravvalutare le possibilità dell'avversario da parte di ambedue, causano una perdita di tempo fatale per l'esito della guerra, che impedisce di sfruttare a fondo la partenza dall'Italia di gran parte delle truppe austriache dopo la battaglia di Sadowa (3 luglio). Sotto questo profilo non appaiono convincenti né gli altri scritti in difesa del La Marmora (i già citati Schieramenti e rettifiche del generale Alfonso La Marmora e Il Generale La Marmora e la campagna del 1866) né quelli in difesa del Cialdini (Risposta all'opuscolo "il generale La Marmora e la campagna del 1866" - attribuita dal Cavaciocchi al col. Minonzi, stretto collaboratore del Cialdini 35 - e Risposta del generale Cialdini all'opuscolo "Schiarimenti e rettifiche del generale La Marmora" 36). In sintesi, negli Schiarimenti e rettifiche il La Marmora nega di non aver preparato la guerra, perché pur avendo assunto il comando solo dal 18 giugno per inderogabili motivi politici, a una campagna per la conquista del Veneto ha pensato fin dal 1859-1860, facendo fortificare Cremona, Lonato e Brescia e approntare divisioni stabi1i; nega anche di aver "perso la testa" dopo la battaglia di Custoza, tant'è vero che già il 27 giugno [ma dal 24 al 26 che ha fatto? - N.d.a.] scriveva al Presidente del Consiglio che le divisioni erano già riordinate, il morale era ottimo e purché comandasse uno solo, era possibile la rivincita; e oltre a rassicurare il 26 giugno i1 generale Cialdini, troppo allarmato dalle prime informazioni, "fin dal 25 telegrafavo al Ministero che gli austriaci non inseguivano, e che ci si stava preparando per una energica difesa di Volta, Goito, Caivrana e Solferino"37 • Al Cialdini, che il 6 luglio (cioè dopo la sconfitta di Sadowa, la conseguente ritirata delJe forze austriache dall'Italia e l'annunciata cessione del Veneto da parte dell' Austria alla Francia) giudica ormai il passaggio del Po "una buffonata", nello stesso giorno risponde che crede ancora conveniente fare tale operazione, aggiungendo che "se siete di avviso contrario ditemelo subito, entreremo noi dal Mincio; giacché per me il peggio sarebbe ricevere la Venezia senza avervi messo il piede"38 • Né condivide l'affermazione del Chiala che, se il 24 giugno fosse riuscito a impadronirsi delle alture tra Peschiera e Verona, avrebbe senz'altro marciato sull'Adige, smentendo così anche il suo difensore. Ricorda anche di aver presentato in Parlamento un'interpe11anza a causa di taluni giudizi della relazione ufficiale prussiana sulla guerra, che

"· Bologna, Zanichclli 1868. ,. Firenze, Civelli 1868. 37 · Geo. A. La Mannora, Schiarimenti e rettifiche... (Cit.), pp.15-16. 31 · ivi, pp. 35-36.


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suonavano ingiusti verso l'esercito italiano e lesivi della sua dignità, ottenendo dal nostro governo l'impegno a pubblicare a sua volta una relazione, la quale provasse quale immenso servigio abbia reso alla Prussia l'alleanza italiana. Con tale interpellanza, ricorda anche di aver ottenuto che il governo prussiano non riconoscesse come ufficiale la relazione del suo Stato Maggiore pubblicata sotto la direzione del generale Moltke. E per quanto riguarda il "piano d'Usedom" prima citato, questo piano, all'infuori del quale l'alleanza italiana sarebbe stata alla Prussia più perniciosa della sua neutralità, viene ora sconfessato dal Governo prussiano, che dichiara non averlo né autorizzato né approvato, e solo conosciuto dieci giorni dopo; mentre non è impossibile che con l'imprudenza con cui esso traversò due cancellerie, l'Arciduca Alberto lo conoscesse prima del 24 giugno. Le smentite - aggiunge il La Marmara - dimostrano che a suo tempo ha avuto ragione a non tenere alcun conto del punto di vista prussiano, e che l'accusa che gli è stata rivolta dai prussiani e da altri di non aver volutamente spinto la guerra a fondo per compiacere Napoleone fil, è infondata. Dal canto suo la difesa del generale Cialdini non manca di avere buone frecce nel suo arco, anche se, non essendo stato effettuato il progettato passaggio del Po dal 25 al 26 giugno, manca la riprova di quel che sarebbe accaduto in questo caso, né risultano pienamente convincenti e ben esposte le ragioni che hanno indotto il wmandante dell'Esercito del Po a ripiegare su Modena, in base a ipotesi - o meglio a timori - sulla possibile azione nemica dopo Custoza che solo tali rimangono, e comunque considerano fin troppo ottimisticamente le possibilità di manovra verso Sud dell'Esercito austriaco, ma non esaminano per niente le residue possibilità di contro-manovra dell'Esercito italiano. Anche se il nemico (come temeva il Cialdini) nonostante le perdite subite a Custoza avesse puntato verso Sud passando il Po dalla testa di ponte di Borgoforte, avrebbe potuto trovarsi con il fiume alle spalle e rinserrato tra due masse, delle quali una (quella del Cialdini) ancora intatta e a lui superiore di numero, e l'altra (quella del La Marmora) che non aveva sublto gran danno a Custoza .e poteva spostarsi rapidamente anche per ferrovia verso Modena e Bologna. Nella citata Risposta all'opuscolo "Il generale La Marmora e la campagna del 1866" si sostiene che il Cialdini aveva convenuto con il La Marmora di fare solo una dimostrazione sul Mincio, anche perché una decisa avanzata sulla sinistra del fiume verso l'Adige avrebbe aumentato la distanza tra le due masse e condotto probabilmente a una sanguinosa battaglia in terreno favorevole al nemico e con una parte sola delle nostre forze. Considerazioni che risentono troppo del senno di poi; di maggior peso la replica a un' affermazione del Chi ala il quale nell'opuscolo Il Generale La Mannora e la campagna del 1866 scrive che se il La Marrnora fosse stato veramente Comandante Supremo, e dopo Custoza fosse rimasto inerte (come è avvenuto) fino all'8 luglio (giorno del passaggio del Po da


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parte del gen. Cialdini), "non solo sarebbe stato il più strano degli uomini, perché avrebbe rifiutato le occasioni di riabilitare la sua fama dinanzi agli italiani, ma sarebbe più colpevole ancora per l'insuccesso di Custoza"39• A queste considerazioni si obietta che sarebbe comodo invero di perdere una battaglia data in condizioni sfavorevoli senza ragione, senza necessità e in opposizione ai concetti prestabiliti, esagerare i risultati avversi della giornata, spargere lo sgomento ovunque, rovinare nel suo esordio il piano convenuto di campagna, dare quindi le dimissioni e poi voler far credere che il gen. La Marmora avrebbe fatto miracoli dopo Custoza; voler far credere che la gran fatalità per l'Italia non furono la battaglia di Custoza né le sue naturali conseguenze, ma che lo fu bensì ed esclusivamente l'apparente inazione, l'immobilità che tenne dietro a quella giornata.40

Sempre ne1la Risposta all'opuscolo del generale La Marmara, le deduzioni del Cialdini dal citato telegramma del La Marmora (o del suo quartier generale) del 25 giugno mattina, secondo il quale l'armata è in stato deplorevole e incapace di agire per qualche tempo, sono ben spiegate, ma da esse ben risulta - al contrario degli intenti dell'autore - che i suoi timori sono esagerati. Infatti il Cialdini ne ha dedotto che: a) l'Arciduca Alberto era libero di disporre come voleva delle sue forze; b) poteva piombare su di lui mentre passava il Po; c) quindi il passaggio del Po rischiava di trasformarsi in un disastro; d) il nemico avrebbe potuto passare il Po a Borgoforte e conqui stare Bologna, prendendolo alle spalle; e) in alternativa il nemico avrebbe potuto gettarsi di nuovo sull'Esercito del Mincio e sconfiggerlo definitivamente41 [se mai, questa era una ragione in più per attaccare dal Po - N.d.a.]. Di fronte a questi timori al lettore di oggi viene da chiedersi: l'unica via da seguire per un Esercito che, come quello del Cialdini, rimaneva non provato da una battaglia e superiore a quello austriaco (costretto comunque a lasciare un'aliquota di forze sul Mincio, per fronteggiare l' ancor numeroso esercito di La Marmora) era proprio quella di ritirarsi su Modena, onde "osservare. gli sbocchi dai distretti lcioè dalla testa di ponte sulla destra del Po di Borgoforte, rimasta in mano austriaca dopo la guerra del 1859 - N.d.a.] e Pontelagoscuro e proteggere la vostra ritirata [cioè di La Marmara - N.d.a.] senza abbandonare Bologna né Firenze"? Nella Risposta del generale Cialdini agli schieramenti e rettifiche del generale La Marmora le ragioni puramente strategiche che lo inducono a ritirarsi dal Po ricevono ben poco spazio, per dimostrare, invece, che tale

Il generale w Marmora e la campagna del /866 (Cit.), p. 22. Risposta all'opuscolo" Il generale w Marmora... " (Cit.), p. 15. ... ivi. pp. 17-18. 39 · 40


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decisione rientrava comunque nelle sue facoltà e che il La Marmara di fatto · l'ha condivisa e autorizzata. Il Cialdini si chiede anzitutto come mai il compilatore del citato opuscolo Il generale La Marmora e la campagna del 1866 (cioè il Chiala) abbia potuto utilizzare numerosi documenti ufficiali, che certamente non sono stati messi a sua disposizione dal La Marmara, visto che quest'ultimo negli Schieramenti e rettifiche afferma di non conoscerlo, e nega di aver comunque ispirato e autorizzato la sua opera. Tali documenti, quindi, non possono essergli stati forniti che dagU archivi dello Stato Maggiore, "fatto che costituirebbe un gravissimo abuso". A parte questo particolare che finisce col gettare un'ombra anche sulla correttezza dello stesso La Marmora, il Cialdini intende provare: Che la dimostrazione del Mincio fu convenuta e che il generale La Mannora non se ne ricorda. 2° Che io volli tenere l'esercito riunito ed operare da una parte sola, dal Mincio o dal Po. 3° Che il generale La Marmora invece volle dividerlo e attaccare contemporaneamente dal Mincio e dal Po. 4° Che il generale La Marrnora ha riconosciuto possibile, al pari di me, che dopo Custoza gli austriaci sbucassero da Borgoforte. 5° Che dopo Cusloza il passaggio del Po era foI1ia, e l' allontanarsene alquanto logica necessità, non solo agli occhi miei, ma ben anche a quelli del generale La Marrnora. 6° Che mi ritirai su Modena senza chiedere ordini, perché rivestito di piena facoltà di agire come meglio mi sembrasse a seconda delle circostanze. 7° Che facendo fio] cattivo uso di quella facoltà, poteva il Generale La Marmora spogliarmene con un semplice telegramma. 8° Che non ho ricevuto mai ordini né istruzioni per iscritto dal Comando Supremo, prima né dopo Custoza. 9° Che la ritirata del Corpo principale su Cremona, Piacenza e Pizzighettone venne decisa e partecipata al generale Garibaldi 24 ore prima di conoscere il mio movimento su Modena, a cui si vorrebbe ora attribuirla. 10° Che il generale La Marmora annunciò a me pure la mattina del 26 il suo progetto di ritirata su Cremona, per riunirsi meco, pregandomi di andargli incontro e proteggerlo dallo sbocco dei distretti [cioè dalla testa di ponte sulla destra del Po di Borgoforte - N.d.a.]. 11 ° Che in seguito a tutto ciò non è ammissibile ah' egli abbia dato le dimissioni per colpa mia, e se pur lo fece, non ebbe ragione di farlo.•2 I°

Il clou di questa serie di controdeduzioni, che presentano gli avvenimenti in una luce totalmente diversa da quella del La Marmara, è la critica· •z. RiJposla del generale Cialdini... (Cit.), pp. 36-37.


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alla sua interpretazione del ruolo di Capo Stato Maggiore, ruolo che secondo il Cialdini viene a torto presentato dal La Marmora come riduttivo e inadeguato alJe circostanze. In realtà - egli osserva - anche se formalmente il La Marmora non ha mai assunto il comando delJ'Esercito e aveva solo le funzioni di Capo di Stato Maggiore del re, "per ciò che tocca la sostanza egli sa meglio di me, che quando l'Esercito è comandato da un sovrano costituzionale, il vero generale in capo re~ponsabile è il Capo di Stato Maggiore [... ] e per conseguenza l'aiutante generale Petitti era il vero Capo di Stato Maggiore dell'Esercito". Quindi, secondo il Cialdini il generale La Marmora era pienamente autorizzato a comandare l'esercito, a dare anche a lui quegli ordini chiari e precisi e quelle direttive e chiarimenti che non gli ha mai dato, a concentrare tutto l'Esercito sul Mincio se lo riteneva opportuno, a proibirgli di ritirarsi dal Po e a dargli comunque ordini precisi sia prima che dopo Custoza: non s'inizia una grave campagna come quella del 1866, resa più difficile e complicata dalla separazione dell'esercito in due gran corpi, l' uno sul Mincio, l' altro sul Po, e quando si deve cominciarla con una uperaziune cusì ddicala com'era il passaggio del Po, non s'inizia, dico, una simile campagna senza dare ordini scritti, ed istruzioni positive, precise e chiarissime. Non si regge il comando di un' annata né si dirigono le sorti di una campagna col mezzo di concerti verbali. La condizione poi di un corpo distaccato [com'era il IV corpo d'armala del Cialdini - N.d.a_) merita speciali riguardi da un generale in capo, e prima di abbandonarlo a sé stesso accordandogli libertà d'azione, bisogna pUT tracciargli la linea, che deve seguire e il concetto supremo di guerra, a cui deve subordinare i movimenti e le operazioni•J.

Nel caso specifico, secondo il Cialdini il generale La Marmora doveva e poteva scegliere nettamente fra le due alternative strategiche, attacco dal Mincio o dal Po: ha scelto invece una terza soluzione "non prevista da nessuno e condannata da tutti", cioè l'attacco dal Mincio e dal Po dividendo le forze. Probabilmente, data la nostra grande superiorità numerica ha pensato di non opporsi al progetto di attacco dal basso Po, "riservandosi però tacitamente di eseguire il suo sul Mincio". E forse ha pensato aggiunge il Cialdini - che se gli attacchi da ambedue le direzioni riuscivano, i due Eserciti si sarebbero riuniti sulla sinistra dell'Adige; e se uno dei due falli va, si sarebbe proseguito solamente 1' altro, impegnandovi tutto l'Esercito o almeno gran parte delle forze_ Il Cialdini spiega, poi, perché era preferibile l'attacco dal basso Po: la grande superiorità delle nostre forze, la povertà del] ' erario, la presumibile brevità della campagna prussiana, "la necessità sentita da tutti di fare

n

ivi, p. 22.


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qualcosa di serio nel minor tempo possibile", erano tutte circostanze che facevano propendere per l'attacco da questa direzione, "perché mi sembrava più spiccio, più decisivo, perché ci conduceva all'infuori del quadrilatero nel cuore del Veneto e sulla più importante linea di comunicazione del nemico; perché collocandoci in grande prossimità della flotta, permetteva fin d'allora di fare assegnamento su qualche operazione combinata di terra e di mare". E nonostante l'impiego di 12 divisioni sul Mincio, "io ritenevo pur sempre, che il corpo principale accorrerebbe a me, appena riuscito il passaggio del Po, e che si varcherebbe l'Adige col nostro Esercito intero". Di qui la necessità di una seria dimostrazione sul Mincio, che il Cialdini, come si è visto, presenta come concordata con il La Marmora. Infatti il 21 giugno al re che gli chiedeva quando sarebbe stato pronto a passare il Po, rispondeva che lo avrebbe tentato, non appena fosse stata fatta una seria dimostrazione sul Mincio. Come si è visto, il telegramma dello stesso 21 giugno al La Marmora, con il quale egli precisa che il suo tentativo sul Po deve essere preceduto da una seria dimostrazione sul Mincio e ne chiede il giorno, per il La Marmora significa che tale dimostrazione non era stata prima concordata; per il Cialdini dimostra invece il .contrario, perché l'aiutante generale Petitti il 22 giugno gli ha risposto, in assenza del La Marmora: "credo poterla assicurare che il giorno 24 sarà fatta dimostrazione sul Mincio", promettendo "maggiori schiarimenti" (che poi non gli sono stati mai forniti) al ritorno del suo superiore. Da questo telegramma [mai citato dal La Marmora - N.d.a.] il Cialdini deduce che o il generale Petitti nello spedirmi il telegramma n. 256 il mattino del 22 e nello assicurarmi che il giorno 24 sarebbe stata fatta la dimostrazione sul Mincio, parlava per conto suo: o rispondeva in questi termini per ordine del generale La Marmora. Comunque sia, il suo telegramma prova che dal Comando supremo si sapeva esservi una dimostrazione convenuta, e da farsi sul Mincio, e mi si rispondeva assicurandomi che si sarebbe fatta nel giorno 24.44 In quanto all'affermazione del La Marmora che "non si poteva condannare 12 divisioni a fare una semplice dimostrazione", secondo il Cialdini tale dimostrazione non era affatto un'operazione secondaria ma avrebbe assunto un ruolo decisivo, perché gli avrebbe consentito di compiere senza contrasto il passaggio del Po, quindi "poco meritoriamente" e "senza usurpare il ruolo di nessuno". D'altro canto, se si voleva veramente attirare e trattenere sul Mincio l'Esercito austriaco, questa azione doveva essere fatta in forze, mentre l'occupazione delle alture da Sommacampagna a Valeggio sarebbe stata indispensabile, solo nel caso che si intendesse attaccare dal Mincio. Se invece ci si doveva limitare a una dimostrazione

"'· ivi, p. 21.


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bastava gettare i ponti, far passare sulla sinistra del fiume la nostra cavalleria, spingerla venti e più chilometri lontano, avvicinare le divisioni ai ponti, accennare il passaggio e attendere il risultato della manovra. Se questa parte sembrava indecorosa e troppo modesta al generale La Marmora, egli poteva assumersi l'impresa di varcare il Po ed affidare a me la dimostrazione sul Mincio. Io l'avrei eseguita senza arrossire. Egli poteva far meglio ancora. Poteva abbandonare l'idea di attaccare dal Po, concentrare sotto la sua mano tutto o quasi tutto l'Esercito, darmi il comando di due o tre divisioni, e sciogliermi cosl da ogni partecipazione, da ogni responsabilità morale nella condotta superiore deUa campagna. Tale era il mio voto.45

Dopo aver sottolineato più volte di non aver mai aspirato al comando dell'Esercito e di aver sempre sostenuto che tale carica doveva essere assegnata al La Marmora, il Cialdini osserva che la ritirata del La Marmora dal Mincio è stata decisa da quest'ultimo prima ancora che egli annunciasse il suo ritiro dal Po, e che tale mossa è stata, nella sostanza, da lui approvata. Il generale La Marmora, con telegramma del 26 giugno, gli aveva infatti concessa "ampia facoltà di cominciare e proseguire le operazioni di guerra in quel senso che le sembrerà più opportuno a seconda delle circostanze", facoltà della quale egli si è avvalso decidendo autonomamente la ritirata dal Po; quindi l'accusa di insubordinazione da parte del La Marmora, per aver abbandonato il Po senza ordine, è infondata: e, una volta appreso che il Cialdini si stava ritirando dal Po, il La Marmora avrebbe potuto pur sempre revocargli l'ampia autonomia che gli aveva concesso o ordinargli di sospendere la ritirata, cosa che non ha mai fatto. D'altro canto - prosegue il Cialdini - se non ha tenuto conto della "calda preghiera" che il 26 giugno il La Marmora gli ha rivolto di non abbandonare il Po, è stato perché il movimento delle sue divisioni verso Modena era già cominciato all'alba dello stesso giorno 26, e giungendo a Ferrara vi ha trovato, oltre al telegramma con "la calda preghiera", un secondo telegramma del La Marmora spedito due ore dopo, nel quale si annunciava "nostro progetto lenta ritirata su Cremona facendo passaggio Po per unirci a Lei. Quando movimento sia pronunziato prego avanzare in modo da darci la mano e impedire che nemico disturbi sbucando dai distretti". Questo telegramma che chiede il concorso del Cialdini alla ritirata su Cremona e lo prega di far fronte alla minaccia austriaca dalla testa di ponte di Borgoforte annulla il primo, perché presuppone la ritirata dal Po e il concentramento de ll 'Esercito intero nella zona Cremona-Piacenza-Modena; esso dimostra, inoltre, che il La Marmora il 26 giugno ha creduto anch'egli possibile che l'Arciduca Alberto passasse sulla destra del Po.

" ivi, p. 26.


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Non risponde quindi a verità la successiva affermazione dello stesso La Marmara (nei suoi rapporti) che "non ho mai potuto supporre un istante che gli austriaci passassero il Po e marciassero sopra la capitale". Né risponde a verità, sempre secondo il Cialdini, l'affermazione del La Marmora che solo dopo aver appreso la ritirata del Cialdini dal Po egli ha deciso, a sua volta, di ritirarsi dal Mincio: se la ritirata del corpo principale su Cremona fosse stata realmente decisa a cagione del mio movimento su Modena, il generale La Marmora, che nel mattino del 26 mi credeva sul Po e mi pregava di rimanervi, non avrebbe potuto scrivere il giorno prima, 25, al generale Garibaldi che la ritirata del corpo principale dalla linea del Mincio era un fatto riconosciuto necessario per prendere una posizione difensiva tra Cremona, Pizzighettone e Piacenza, verso cui si imprendeva il movimento nella notte stessa del 25.46

Il Cialdini ricorda, inoltre, che il 26 giugno il La Marmara gli ha telegrafato: "dopo giornata 24 fCustozaJ capisco che rinunciate al progetto su Rovigo": perciò si chiede perché lo stesso La Marmora non ha riconosciuto che dopo la sconfitta di Custoza - che presenta allo stesso Cialdini in termini così gravi - la situazione era mutata, che bisognava procedere a nuovi accordi e che questo richiedeva tempo. Vi era un mezzo semplicissimo per abbreviare i tempi: bastava avesse realmente comandato l'esercito. Questo lo poteva fare: ma ciò che vi ha di sicuro, d'indubitabile si è che il sistema da lui seguito di procedere per via di combinate intelligenze e di concerti verbali, non doveva riuscire a nulla di bene. Per tal modo la lunghezza de11e discussioni, la deferenza ai consigli altrui, il rispetto per le diverse opinioni, e quindi l'imbarazzo della scelta, fanno perdere tempo, generano esitanze ed esautorano il comandante in capo.47 Dopo aver preso in esame la versione del Cialdini, meritano un breve cenno taluni passi delle citate relazioni del La Marmara sui caratteri delle operazioni moderne, sui criteri ordinativi da esse richiesti e sulla situazione dell'Esercito, che pur essendo a sfondo autodifensivo non sono strettamente connesse con le vicende della guerra ma hanno valenza generale, servendo al tempo stesso a meglio illuminare Ja mentalità del generale. Le guerre precedenti - egli afferma - erano state combattute da piccoli eserciti di 40-50 mila uomini, con anni da fuoco di ridotta portata e su terreni sgombri, che rendevano facile al Capo dirigere i movimenti dei corpi con uniformità, regolarità e una certa precisione. Questo non è più possibile nelle guerre del momento, nelle quali si impegnano una o più battaglie decisive con centinaia di migliaia di uomini forniti di armi da fuoco più 46 ivi, p. 29. ''· ivi, p. 35.


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potenti, e in grado di concentrarsi in tempi brevissimi. Ne consegue che il Capo, anche se dotato di tutte le qualità necessarie, non è più in grado di vedere e dirigere di persona i combattimenti che si impegnano in vari punti tutti da ]uj ]ontani; ]o dimostra ]a battaglia di Sadowa, nella quale le divisioni prussiane marciavano ognuna per conto suo, e vedendo i1 fumo o sentendo il rombo del cannone impegnavano d'iniziativa il. combattimento non appena a contatto del nemico. Hanno perciò torto coloro i quali hanno asserito che "per assicurare la vittoria era necessario avere tutte le divisioni simmetricamerìte disposte l'una accanto all'altra, o l'una dietro l'altra [...] quasiché si dovesse passare il Mincio con circa 100.000 uomini sopra un solo ponte, e tenerci quindi in colonna o altrimenti aggruppati [...]". Se così si fosse fatto, si sarebbe andati incontro a "un enorme o inestricabile e forse fatale ingombro". Al generale in capo spetterà predisporre le operazioni "in modo da non poter esser mai sorpresi, né ai fianchi né alle spalle, e avere costantemente di mira di attirare il nemico, o incontrarlo, in posizione favorevole con forze il più possibile superiori alle sue"; però una volta accesasi la lotta compete ai comandanti di corpo d'annata e di divisione la condotta autonoma dei combattimenti, senza aspettare ordini che il quartier generale non è in grado di impartire, o che giungerebbero troppo tardi. Di qui l'esigenza di avere al comando delle Grandi Unità "generali attivi, capaci, che abbiano iniziativa e non temano le responsabilità"; ma affinché l'azione riesca, deve regnare una reciproca fiducia tra i vari gradi, cosa che si ottiene lasciando al generale in capo piena facoltà di scegliersi i generali in sottordine e di cambiarli, se occorre, guerra durante. A maggior ragione queste qualità devono essere possedute dai comandanti dei corpi distaccati, ai quali, dopo averli forniti di quanto loro occorre, il generale in capo "deve limitarsi a specificare per iscritto in modo chiaro e preciso lo scopo della sua operazione, senza entrare in minuti partico]ari sul modo di eseguirla". Questo del La Marmora è un ragionamento certamente pro domo sua, perché costituisce un altro, duro anche se implicito atto d'accusa nei riguardi di comandanti di corpo d'armata e di divisione (non da lui scelti) che hanno così ma] condotto ]a battagJia; ino]tre il La Marmara cerca evidentemente di giustificare il passaggio del Mincio prima di Custoza, con forze troppo sparse. Ma con queste argomentazioni, si tira la zappa ,sui piedi, per tre ragioni: a) indica indirettamente che cosa avrebbe dovuto essere fatto a Custoza - e non è stato fatto - non solo dai generali in sottordine, ma anche dal generale in capo. A chi spettava fare in modo che l'Esercito non fosse sorpreso e attaccasse battaglia in condizioni favorevoli, con tutte le forze disponibili? b) osserva che il generale in capo durante la battaglia non può dirigere i singoli combattimenti, il che è vero; ma ciò non significa che egli non debba intervenire a ragion veduta - con le riserve e con il fuoco - nelle fasi decisive, e che non debba essere continuamente informato delle vicende della battagJia. Invece, che cosa ba fatto il La Marmara durante la battaglia, se non spostarsi quà e là per raddrizzare situazioni che anche a suo dire com-


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peteva proprio ai generali in sottordine fronteggiare, perdendo così la visione d' insieme e i collegamenti con i corpi d'armata? c) sembra non voler distinguere fra un pericoloso ammassamento iniziale delle truppe al passaggio del Mincio (che poteva e doveva avvenire su diversi punti), e un dispositivo più raccolto, ben ordinato e tale da assicurare una pronta reazione in caso d'incontro col nemico. Evidentemente era quest'ultimo che doveva essere comunque assicurato, e che il La Marmora non è riuscito ad assicurare, anche perché non ha dato disposizioni in caso di incontro con il nemico. Anche le affermazioni del La Marmora - ampiamente condivisibili sulla necessità di assicurare la coesione delle truppe potrebbero ritorcersi contro di lui. Non tutti - egli afferma - a Custoza sono stati valorosi; ma è pur vero che la battaglia non è stata certo perduta per mancanza di valore, e che le truppe al di là di pochi casi di indisciplina hanno tenuto contegno lodevolissimo, dimostrando anche di essere più istruite che nel 1848. Peraltro, esse hanno mancato di quella solidità, che può essere ottenuta solo con lo spirito di corpo e la reciproca fiducia tra Quadri e truppe: e come poteva esistere questa fiducia, mentre dal 60 in poi, mi si lasci dire, pochi vi hanno pensato; e quanto allo spirito di corpo, anziché ravvivarlo, pressoché tutte le disposizioni emanate da quel!' epoca tendevano a scemarlo? Quasi non bastassero quelle inevitabili difficoltà e confusioni, che dovevano nascere naturalmente riunendo sotto le medesime bandiere militari provenienti da tanti eserciti differenti, non si lasciò di aumentarle con innovazioni e cambiamenti ingiustificabili [ ... ]. Da tutte le provenienze, comprese le garibaldine, sono venuti nell' esercito italiano buoni ufficiali e buoni soldati; e se l'amalgama non riusci compatto, come assai compatto era l'esercito sardo che servì di nucleo, e quasi direi di lievito, si deve, come già dissi, ai troppi Ministri che si succedettero, alcuni dei quali, per soddisfare 1'opinione pubblica, si preoccupò più del numero che della solidità. Di qui la sua polemica contro "i nostri faccendieri politici", i quali hanno cercato sempre di abbattere i governi, insabbiando così i provvedimenti per il consolidamento dell'Esercito; e "poiché non ebbero una vittoria da pavoneggiarsi, accusarono di tradimento chi aveva fatto di tutto e aveva forse maggiore interesse per ottenerla" [cioè lui stesso - N.d.a.]. Un altro grandissimo vantaggio, secondo il La Marmora, è la costituzione permanente dei corpi d'armata attivi e delle divisioni, come viene attuata in Prussia [fino alla prima guerra mondiale e oltre, in Italia come in Francia in tempo di pace i corpi d'annata e le divisioni operative non erano costituiti permanentemente e si avevano solo Grandi Unità territoriali, che in guerra si dovevano mobilitare - N.d.a.]. Questo provvedimento, che accresce lo spirito di corpo e l'affiatamento anche tra generali, era stato da lui adottato dopo la guerra del I 859, almeno per le divisioni; ma i Ministri suoi successori lo hanno abolito, "e temo pur troppo che altro motivo non vi fosse se non che la Francia non lo aveva: quasiché in Francia tutte le cose fossero perfelte".


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Di conseguenza, durante la campagna del 1866 in quelle divisioni improvvisate per la guerra, superiori ed inferiori non si conoscevano tra di loro e alcuni non si erano mai visti. Per quanto capace sia un generale - prosegue il La Mannora - sarà sempre più esitante nel dare i suoi ordini, se avrà a che fare con Quadri che non conosce; né saprà valutare bene un rapporto o una notizia importante, se non conosce chi gli fonùsce questi dati. Questa conoscenza sarà ancor più necessaria in futuro, quando "con lo straordinario sviluppo che presero gli eserciti e con i mezzi prodigiosi che si hanno per trasportarli [ferrovie e navi a vapore - N.d.a.], lunghe guerre non avranno più luogo, e le prime battaglie saranno quasi sempre decisive; per cui converrà entrare in campagna fomiti, non solo di tutto H personale e materiale occorrente, ma colle divisioni [già] solidamente costituite; e questa solidità, checché si faccia, non si otterrà senza organizzare in tempo di pace le divisioni permanenti". La previsione del La Marmora sulle guerre brevi - comune a molti autori del tempo - è valida solo a breve termine, cioè se riferita alla ormai prossima guerra 1870-1871: ma per il resto, v'è da dolersi che le sue tesi sulla necessità di disporre di divisioni permanentemente costituite e Comandi e unità ben affiatati non siano state mai tenute nella debita considerazione, fino alla seconda guerra mondiale compresa. V'è solo da osservare che quanto eg1i dice delle divisioni e dei corpi d'armata vale, prima di tutto, nei rapporti tra quartier generale e livelli inferiori; appare perciò contraddittorio che abbia cercato di minimizzare i riflessi negativi della sua assunzione dell'incarico di Capo di Stato Maggiore solo a qualche giorno di distanza dalla battaglia decisiva, quindi senza poter conoscere bene né i componenti del quartier generale, né i suoi diretti sottoposti, o almeno, senza essersi affiatato con essi e senza aver fatto ben conoscere le sue vedute e i suoi intendimenti operativi, cosa che richiedeva tempo: i risultati si sono visti. Insomma, in tutti i suoi rapporti e relazioni il La Marmora non fa che insistere su questioni che attengono, più che all'indole, al carattere, al morale degli uomini. Per questo egli - distaccandosi dal coro - si dichiara assai poco convinto dei vantaggi dell'istituzione nel 1867 della Scuola di Guerra, la quale sul modello della Kriegsakademie prussiana dovrebbe migliorare quella professionalità e quella preparazione degli Stati Maggiori e dei gradi più elevati, che ha fatto difetto nel nostro esercito. A suo giudizio, gli eventi militari del 1866 lasciarono eziandio chiaramente vedere, che i molti inconvenienti capitati dalla parte nostra non pervennero già da difetto d'istruzione scientifica e strategica, come molti credono, e pare lo credesse anche il governo, che in tutta fretta ha organizzato [nel 1867] una scuola di guerra, con gran plauso del poco culto pubblico. lo non intendo di censurare la formazione di questa scuola. Ciò potrei fare tanto meno, visto che dopo il 1849 ho io stesso organizzato una scuola 1;unsimile presso al Corpo di Stato


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Maggiore, per la quale sono passati gran parte dei nostri attuali uffìziali di Stato Maggiore, e che malgrado le sue forme e proporzioni più modeste, ha dato ottimi risultati. La scuola di guerra è cosa ottima, massime se sarà ben composta e ben diretta; ma sarebbe un inganno deplorabile il credere che per essa non si rinnoveranno più gli errori del 1866, i quali non si devono già imputare a deficienza di teoriche istruzioni, di cui i nostri generali e uffìziali di Stato Maggiore erano più del bisogno forniti, ma alla mancanza, or di qua or di là, di calma, di energia, di iniziativa, di risoluzione e quasi ovunque della necessaria abitudine e colpo d'occhio di disporre prontamente e convenientemente le truppe, per impegnarle a tempo opportuno [... ]. Queste qualità non meno che la fermezza necessarie in chi comanda, dipendono dal carattere e dal natural criterio e intelligenza, e non daJla scienza; per cui non si speri che le acquisti chi ha dimostrato di non possederle. È assai più facile che col crescere degli anni avvenga il contrario. Tesi non condivisibile, perché proprio quando difettano Capi naturalmente dotati delle qualità necessarie (che sono molto rari), occorre fare tutto il possibile per aumentare la professionalità e preparazione dei Quadri più elevati, curando la disciplina delle intelligenze mancata a Custoza, infondendo loro una maggiore fiducia in sé stessi, e accrescendo la loro autorità e il loro prestigio agli occhi dell'Esercito. Non si trattava più, infatti, solo di creare buoni ufficiali di Stato Maggiore, ma di formare con una nuova scuola gli alti gradi dell'Esercito. Inoltre il La Marmora, nonostante l'esperienza della guerra - e di quella ancor più indicativa del 1859 - mostra di non capire i riflessi dell'introduzione delle armi a retrocarica, e di non apprezzare le innovazioni tattiche della fanteria austriaca. Scrive infatti nella seconda relazione del luglio 1869: appunto perché abbiamo ottimi battaglioni bersaglieri, impareggiabili massime per preparare e completare i combattimenti, la nostra fanteria di linea dovrebbe essere più solida e più compatta delle altre. Ora tanto più che colla celerità delle armi a retrocarica, l'ordine chiuso ha ripreso quella maggiore importanza che aveva provvisoriamente ceduto all' ordine aperto, durante il breve periodo delle armi di precisione a tiro lento. L'esatto contrario di quanto a ragione afferma il Corsi... si noti anche la sopravvalutazione dell'importanza di una specialità, che dovrebbe avere contro ogni logica - l'esclusiva dello "ordine sparso".

La difesa dell 'operato dei comandanti del I e lii corpo d 'annata a Custoza Come si è il visto il La Marmora - e non è il solo - muove pesanti critiche a11'operato dei comandanti del I corpo d'armata (le cui divisioni non reggono all'urto con il nemico) e del III corpo d'armata, che nonostante gli


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ordini ricevuti avrebbe dovuto intervenire d'iniziativa con le sue divisioni in rinforzo al I corpo. Sulle operazioni del I corpo d'armata la relazione presentata in data 26 giugno 1866 al "Comando Supremo" a firma del generale Pianell (comandante della 2" divisione, che durante la battaglia aveva sostituito il generale Durando, lievemente ferito) è poco significativa48 • Più interessante, perché ricco di spunti critici a sfondo autodifensivo, l'opuscolo del maggiore Carlo Corsi (Sotto - Capo di Stato Maggiore del Corpo d'armata) Delle vicende del primo Corpo d'Armata durante il primo periodo della campagna del 186649 , citato da] La Marmara positivamente "nonostante le molte inesattezze". Eppure il Corsi non risparmia critiche più o meno dirette al quartier generaJe, e per il resto è assai severo con la condotta operativa delle divisioni dipendenti dal I corpo d'armata: l'operato del Comando di cui egli stesso fa parte ne viene, di conseguenza, rivalutato fino ad apparire, da ciò che dice, mondo di errori. fu polemica con i1 Rlistow il Corsi nega che le truppe del I corpo siano state superiori di numero e abbiano ceduto forti posizioni, prima di opporre una qualche resistenza sulle alture di Custoza e Oliosi. E afferma (cosa assai grave) che il Comando del corpo d' armata ignorava lo scopo delle operazioni oltre il Mincio, se cioè si trattasse di una semplice dimostrazione o dell'inizio di una serie di operazioni offensive nel quadrilatero: la prima di queste ipotesi, tuttavia, "ci sembrava più ragionevole e meno pericolosa". Riferisce, poi, che tutte le informazioni raccolte concordavano nel presentare gli austriaci come sfiduciati, sulla difensiva, in procinto di ritirarsi dal ·Veneto e con il grosso delle forze intorno a Verona: sarebbe stato possibile, comunque, spingere i nostri cavalleggeri e bersaglieri più avanti, e così accertare la presenza del nemico sulle alture di Sommacampagna e Castelnuovo. Se ciò non è avvenuto, la colpa non è del Comando del Corpo d'armata: "la 5" divisione (Sirtori) era meglio di chiunque altro in grado di fare ciò: non aveva bisogno di ordini superiori per farlo: doveva.farlo. Meglio ancora sarebbe stato portare le divisioni lo stesso giorno 23, almeno fin sulla linea del Tione; ma ciò non dipendeva dal Comando del I corpo". Perciò, per il Corsi il "servizio di informazione diretta" [cioè delle divisioni, uniche colpevoli - N.d.a.] non ha funzionato. Qui va ricordato che per il La Marmora era invece compito dei corpi d'armata dipendenti organizzarlo, mentre il comandante della 5" divisione (Sirtori) a sua volta obietta che quelle posizioni erano piuttosto sulla fronte della 1" divisione (Cerale) e che comunque distavano della zona di Valeggio, dove si trovava la sua 5" divisione, circa 12 Km di terreno difficile, "sicché il pretendere che io spingessi fin là il mio servizio d'avamposti e di pattuglie, e ciò di notte, era una vera aberrazione": né poteva far riconoscere il giorno 23 le posizioni che

•• Complemento (Cit.), Vol. II pp. 127-136. '" Milano, Tip. Perseveranza 1867.


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avrebbe dovuto occupare il 24, visto che lo stesso 23 egli ignorava ancora ciò che avrebbe dovuto fare il 24. Il Sirtori, invece, non trova giustificazioni a un altro addebito che gli viene fatto dallo stesso Corsi e dal La Marmara, di non aver cioè informato il Comando superiore dell' avvicinarsi di truppe nemiche a lui comunicatogli dagli avamposti, e di altre informazioni avute su un considerevole movimento di truppe nel campo nemico.50 Il Corsi osserva, poi, che se gli austriaci non erano sulla destra del1' Adige il 23 giugno, ciò non significa che non ci potessero essere il giorno successivo. Essi non potevano sperare nulla di meglio che attaccare battaglia a forze riunite in terreno a loro favorevole ; comunque, la distribuzione delle nostre forze e la direzione assegnata alle colonne per la giornata del 24 non erano tali da poterci dare la vittoria, "svantaggio capitale, che difficilmente può essere compensato allorché giunge l'ora della battaglia". Sarebbe stato necessario invece predisporre le forze in modo da assicurarci preventivamente il sicuro possesso di Valeggio e delle alture di Sommacampagna - Custoza, facendo in modo di presentare 35-40.000 uomini nel punto deci sivo nella giornata del 24 ... Tutte critiche non troppo velate al quartier generale, alle quali si aggiunge la constatazione che quello ricevuto dal corpo d ' armata era un "ordine di semplice traslocazione", che non lasciava prevedere "in nessun modo" la possibilità di uno scontro con il nemico; in quanto alla riserva generale d' artiglieria, "non comparve. Non è credibile che non le fosse mandato ordine di avanzarsi anch' essa finvece è avvenuto proprio così - N.d.a.l, ma pare che fosse ancora troppo lontana dal Mincio. Intorno a ciò, nulla so di preciso". Peraltro, il Corsi si contraddice osservando che la possibilità di incontrare il nemico "dovea risultare agli occhi di tutti [quindi, anche del Comando del suo Corpo d'Armata - N.d.a.] dal fatto medesimo del nostro ingresso nel Quadrilatero e dall'avanzarci così direttamente noi verso Verona"; non c' era quindi bisogno che il generale in capo lo ricordasse ai Comandi dipendenti [ma allora perché ha inviato un semplice ordine di traslocazione"? - N.d.a.], e "se dal Comando Supremo non ci fu detto: incontrerete il nemico, neppure ci fu detto espressamente ,wn w incontrerete per f enno". Comunque il Comando del I Corpo d' armata ha raccomandato alle divisioni dipendenti di mantenere il collegamento tra di loro, e di "prendere tutte quelle preoccupazioni che sono richieste dalla possibilità di uno scontro col nemico [...]. Dunque lo scontro non doveva giungere inaspettato; non doveva esservi sorpresa" [ma siffatte generiche raccomandazioni potevano bastare?- N.d.a.]. Se vi è stato uno scontro inaspettato con il nemico in condizioni sfavorevoli, per il Corsi la colpa è solo delle divisioni, che non hanno adottato "le precauzioni suggerite dalle più elementari nozioni di tattica per le marce offensive in vicinanza del nemico" [ma non le hanno adottate perché le ignoravano, o per altre ragioni? - N.d.a.]. E un' altra precauzione, che a suo

"' L. Chiala, Il generale La Marmora e la campagna del 1866... (Cit.), pp. 31-36.


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giudizio avrebbe dovuto essere automaticamente adottata dalle ctivisioni "in considerazione della possibilità d'uno scontro col nemico", era quella di lasciare il carreggio sulla destra del Mincio, come invece ba fatto solo la 3A divisione del gen. Brignone {se cosl è avvenuto, c'era evidentemente bisogno di precisare un aspetto cosl importante - N.d.a.]. Il Corsi accenna poi al ritardato invio degli orctini per il 24 da parte del quartier generale, e di conseguenza, all'arrivo degli ordini alle divisioni solo a tarda notte tra il 23 e il 24, anzi sul far del giorno; per questa ragione non è stato possibile per il comandante del I corpo d ' armata riunire i comandanti di divisione e chiarire con loro i particolari dell'azione da svolgere. Peraltro, il 23 il Comando del corpo d 'armata aveva emanato un preavviso per il movimento del 24, affinché i Comancti dipendenti provvedessero nella notte per il rancio. In questo preavviso giunto molto tardi a qualche ctivisione, si disponeva anche che la distribuzione dei viveri per il 25 " dovea essere fatta negli attuali alloggiamenti, il che equivaleva a dire che i parchi de11e sussistenze e i carri dei viveri dei corpi non dovevano seguire le ctivisioni nella loro mossa mattinale del domani". Troppe cose, secondo il Corsi. avrebbero dovuto capire, intuire, fare - anche senza conoscere bene il concetto d' azione e senza essere ben inquadrati sull'azione da svolgere - i comandanti di divisione! Le sue critiche alla condotta della battaglia si appuntano comunque in particolar modo sul comandante della 1A divisione, generale Cerale. Molto discutibile e contraddittoria è anche la sua tesi che a Custoza non vi è stata sorpresa se non per la 5" ctivisione, e che anche in questo caso la sorpresa non è stata la causa del cattivo esito del combattimento cli Santa Lucia. A suo giudizio, al momento un esercito che manovra in un paese nemico non può più essere sorpreso, perché occupa troppo spazio con le sue colonne e le sue avanguardie; può bensì trovarsi nel caso di dover accettare battaglia senza esservi ben preparato; e Lale fu invero il caso nostro. Poté dunque rimaner sorpreso il generale La Mannora nel trovare il nemico cosl grosso e determinato a battaglia dinnanzi alle nostre teste di colonna, ma nessuno dei generali d'ordine inferiore, tranne il generale Sirtori nel primo momento, può dire di essere slato sorpreso dagli austriaci [ma come può avvenire che sia sorpreso solo il generale in capo? N.d.a.]. Che razza di guerra sarebbe mai quella in cui si sapesse appuntino quando, dove e come debba incontrarsi il nemico? Quel quando, quel dove e quel come sono appunto moltissime volte le tre incognite che rendono difficile la soluzione del problema tattico nella sfera d'azione dei comandanti immediati delle truppe. La strategia indovina da lungi, la tattica invece va a tentoni, e questo è principio salutare, la pratica del quale rende impossibile le sorprese.s• [Nella

" · C. Corsi, Delle vicerule del I corpo d'arrrwlu... (Cil.), pp. 187-188.


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fattispecie è avvenuto il contrario: la strategia non ha indovinato, quindi anche la tattica è stata sorpresa - N.d.a.]. E dopo aver osservàto che a Custoza vi è stata una. troppo sensibile inferiorità di forze nel punto decisivo "cui non fu posto pronto riparo, come sarebbesi potuto e dovuto fare" [ma da parte di chi? - N.d.a.], il Corsi non manca di lanciare una frecciata anche al ID corpo d'armata: "la nostra ala destra non ebbe un da fare proporzionato ai suoi mezzi [cioè non impiegò tutte le forze disponibili - N.d.a.]. La mancanza di precise informazioni sul conto del nemico può solo spiegare fino a un certo punto tali errori. Ne risultò egualmente la funesta mancanza di riserve di fanteria e di artiglieria nel punto decisivo; punto che troppo tardi fu riconosciuto...". Tra le cause per così dire più lontane della sconfitta il Corsi indica giustamente il superiore addestramento della fanteria austriaca, che facendo tesoro dell'esperienza del 1859 ha adottato formazioni flessibili e in grado di adattarsi al terreno frastagliato della battaglia e alla maggior potenza e gittata delle armi; anche l'artiglieria austriaca è stata meglio impiegata della nostra. Da parte nostra, invece, i risultati del lavoro di una commissione nominata nel 1865 per modificare la nostra regolamentazione tattica non sono stati utilizzati dal Ministero, forse perché è mancato il tempo, o forse perché "il gittarsi nel nuovo mise paura". Alla rinnovata tattica austriaca noi abbiamo cosl opposto "le arti dell'antica scuola francese"; in particolare la maggior parte delle truppe non era abituata a raccogliersi e riordinarsi rapidamente come le austriache, e ad eccezione dei bersaglieri, era poco addestrata a combattere in ordine sparso, così come al passaggio dall'ordine sparso ali' ordine chiuso e viceversa [questo è avvenuto anche nel 18481849 - N.d.a.]. In definitiva ad una teorica monca, insufficiente e balzana, aggiungete una pratica superficiale, pedantesca, materiale, come quella che generalmente suol farsi nelle nostre guarnigioni e nei nostri campi d'istruzione. Qual meraviglia allora che sul campo di battaglia, ove non basta conoscer perfettamente la scuola di battaglione, quella dei cacciatori, e il regolamento per le evoluzioni di linea, ma bisogna saper bene che éosa sia buon impiego e stretto accordo dei due ordini, soldati, ufficiali e comandanti, salvo non moltissime eccezioni, non sappiano ove dar del capo, e si trovino quasi nelle condizioni d'un geometra cui si chiegga una statua!52 Anche l'addestramento della cavalleria ha lasciato a desiderare; vi sono state inoltre carenze nei materiali d'artiglieria (mancanza di strumenti per misurare le distanze; pezzi e cassoni troppo pesanti e con carreggiata troppo larga, il che li ba resi inferiori per mobilità a quelli austriaci). Infine, il Corsi

52·

ivi, p. 199.


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constata che le nostre truppe hanno dimostrato di essere molto impressionabili e poco compatte e che nei contadini che compongono la maggior parte dell'Esercito i sentimenti del dovere e di amor patrio "non sono nel mondo di oggi ritegni sufficienti": ciò lo porta a dimostrarsi poco entusiasta del modello prussiano, e a polemizzare con "coloro che vanno fantasticando sui meriti dell'armamento popolare, stracorrendo nel senso delle idee prussiane". La questione capitale nella scorsa campagna - egli aggiunge - non è stata quella di avere o non avere una quantità sufficiente di truppe; sarebbe stato meglio avere, a Custoza, qualche migliaia di uomini in meno, purché i rimanenti "fossero stati tutti di buona tempra". Per fare un buon soldato non occorre lungo tempo; ma purtroppo non tutti i paesi del mondo danno uomini egualmente capaci di diventare soldati valorosi e disciplinati in uno, in due, in tre, in dieci anni di servizio, se volete [...] e qui faccio osservare ai partigiani degli eserciti colossi e del breve servizio, che quindici giorni di guerra felice [come è stata la vittoriosa guerra prussiana contro l'Austria - N.d.a.] non sono sufficienti per giudicare del merito di un esercito ragunaticcio; e che, a pensarvi bene, non tutto ciò che fa buona prova sull' Elba e sull' Oder deve di necessità riuscire bene egualmente sul Po, sull'Amo, sul Sebeto, specialmente in quanto s'appartiene a cose di guerra.53

A <lispt!ltu della tesi dei dottrinari che gli uomini sono gli stessi ovunque, vi è grande differenza di carattere, di costumi, di abitudini e di tradizioni tra italiani e tedeschi, "differenza che andrà scemando nel tempo, ma che oggi è tuttora grandissima". Del resto, gli stessi soldati italiani che hanno combattuto a Custoza, comunque rec1utati, avrebbero potuto benissimo battere gli austriaci, purché meglio guidati e in grado di ben manovrare a stormi e drappelli. La difesa dell'operato del comandante del lil corpo d'armata generale della Rocca viene condotta sia in un opuscolo anonimo corrispondente a quello del Corsi (Cenni sulla campagna del 1866 di un ufficiale del terzo corpo d'armata)54 , sia dallo stesso della Rocca nelle sue memorie. L'opuscolo riprende critiche già note, molte volte però interpretando gli eventi in maniera diversa dal Corsi, e attaccando apertamente il La Marmora. In particolare, secondo l'anonimo autore (il maggiore Corvetto, ·stretto collaboratore del La Marmora?): il cattivo andamento della campagna non è dovuto "a cattivo organamento, ad ignoranza o a difetto d'istruzione", ma a mancanza di unità di comando e a "intromissione di alti personaggi non appartenenti all'esercito";

ivi, p. 210. " Torino, Cassone 1866.

SJ.


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è stato un errore non aver impiegato anche le truppe (equiva1enti a

due divisioni) rimaste nel Sud; - l'armistizio poi conc1uso con la Prussia era stato offerto dall'Austria anche al governo Italiano, offrendo come garanzia le piazze di Verona e Peschiera, purché fossero accettate da un commissario francese. Il consiglio della Corona ha fatto male a non accettarlo in quel momento, per poi ridursi a accettare - alla fine della guerra 1'intero Veneto dalla Francia; nel gran quartier generale è stata creata una carica, quella di aiutante generale [retta dal generale Petitti - N.d.a.], le cui attribuzioni non sono mai state chiare. Era forse un anello intermedio tra Capo di Stato Maggiore e Sottocapo? - il quartier generale ha male utilizzato la cavalleria leggera per riconoscere il terreno nella giornata del 23 giugno; ma per quanto inesatti potessero essere i rapporti della cavalleria e dell'ufficio informazioni del quartier generale, "essi non valgono a giustificare la falsa argomentazione del generale [La Marmora], il quale doveva pure in ogni caso ricordare come, nel 1859, l'esercito austriaco valicasse in una sola notte il Mincio, e si trovasse cosl subitamente pronto a ingaggiare la battaglia di San Martino";55 - lo stesso generale La Marmora "confessa ingenuamente" nel suo rapporto che il quartier generale non credeva che il nemico ci avrebbe contrastato il possesso delle alture tra Pastrengo e Villafranca. Lo prova anche il fatto che il 24 giugno lo stesso quartier generale non era presente sul campo di battaglia [era rimasto a Cerlungo sulla riva destra del Mincio - N.d.a.], dove si sono trovati solo il re con due ufficiali e il La Marmara con un solo aiutante. Di conseguenza la battaglia di Custoza "fu un fatto impreveduto, per il quale nessun ordine, nessuna disposizione preliminare emanò dal Gran Comando dell'Esercito"; la posizione assunta dall'Esercito il 25 giugno, dopo la battaglia di Custoza, era troppo debole. Bene ha fatto, quindi, il Comando del1'Esercito a sospendere la ritirata sul Po inizialmente disposta e a dare l'ordine di attestarsi sulla linea dell'Oglio, che - fortissima per sua natura - consentiva -un agevole riordinamento delle truppe. Peraltro la ricognizione offensiva che il generale della Rocca avrebbe dovuto condurre il 3 luglio con sei divisioni, e che avrebbe potuto fornire l'occasione di una rivincita, è stata sospesa per ragioni non rese note allo stesso della Rocca, lasciando così le truppe in una lunga e nociva inazione fino al 12 luglio; - anche nel nuovo dispositivo assunto dall'Esercito dopo tale data sono stati mantenuti il dualismo e la suddivisione delle forze. Il ss. ivi, p. 11.


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generale Cialdini procedendo verso l'Isonzo ha incontrato prevedibili difficoltà logistiche, e la posizione che hanno occupato i corpi d'armata dei generali della Rocca e Cucchiari "era la più anti.strategica che potesse esistere". A parte queste considerazioni di carattere generale dalle quali non escono bene né il La Marmora né il Cialdini, l'anonjmo autore dedica molte pagine al tentativo di giustificare i1 mancato invio dei rinforzi al I corpo d'armata da parte del generale della Rocca (esplicitamente incaricato di mantenere il possesso di Villafranca con due divisioni e la cavalleria). A suo giudizio, il generale della Rocca era talmente convinto dell'importanza de11a posizione di Villafranca, che anche senza aver ricevuto espliciti ordini di mantenerla non si sarebbe deciso a diminuire le forze a sua disposizione, a meno che non avesse avuto la certezza di non essere attaccato né di fronte, né di fianco. Ma anche se il generale della Rocca avesse inviato una divisione verso Monte Torre e Custoza, la situazione generale sarebbe peggiorata e non migliorata; infatti proprio perché quelle posizioni avrebbero acquistato maggiore forza, il nemico, "avendo ormai il campo libero ceduto dal primo corpo, oltre all'avanzarsi verso Valeggio e nel piano per tagliare le nostre linee di riti.rata, avrebbe rinforzato Je truppe d'attacco colle quali ristabiliva la bilancia rotta dall'invio di quella divisione di soccorso, sicché si sarebbe poi dovuto cedere la posizione in peggiori condizioni, ossia coUa minaccia e quasi colla certezza di impossibile ritirata". Il nemico, anch'esso stanco e provato, di fronte a una forte resistenza avrebbe anche potuto sospendere l'azione per riprenderla l'indomani: ma in questo caso, a causa del disordine esistente nel carreggio e nei magazzini (perché trainati dal treno borghese o già al di là del Mincio), le nostre truppe non avrebbero potuto rifocillarsi e rifornirsi di munizioni durante la notte, e al giorno 25 avrebbero ricominciato i combattimenti in condizioni peggiori del giorno precedente. A maggior ragione, sempre secondo l'anonimo autore, il della Rocca non avrebbe potuto inviare ambedue le divisioni a sua disposizione sulle colline e affidare la difesa di Villafranca alla sola cavalleria, come proposto da C.R.5<·: infatti il terreno davanti. a Villafranca non si presta all'impiego della cavalleria, e in ogni caso le informazioni sul nemico sulle quali il quartier generale si era basato per dare gli ordini per il 24 giugno, davano la massa delle forze nemiche a cavallo dell'Adige, quindi nelle vicinanze di Villafranca. Giustificazioni discutibili, dalle quali risulterebbe che rafforzando le posizioni - chiave della battaglia, paradossalmente si sarebbe spinto il nemico ad aggirarle gettandosi verso Valeggio, e al tempo stesso a

"' Considerazioni tattiche sulla battaglia di Custoza - esame critico di C.R., Torino 1866. L'autore è con ogni pmhahilità il generale Carlo Alberto Radaelli (Cfr. "Enciciopedia Militare",VI 375).


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rafforzare le sue forze sulle colline. Si dà inoltre per scontato che nella notte non si sarebbe riusciti a rifornire di viveri e munizioni le truppe sulle colline a causa del disordine nel carreggio, come se tale disordine non fosse aumentato con la ritirata: né le tanto temute forze nemiche che minacciavano Villafranca erano veramente così numerose, e così vicine, tant'è vero che le forze del m corpo sono rimaste inoperose. Il generale della Rocca, dedica più di cento pagine della sua Autobiografia di un veterano51 all'esposizione del suo punto di vista sull'andamento generale della guerra del I 866 e a difendersi dalle accuse di inerzia che, oltre che dal La Marmora, gli sono state rivolte da più parti e dalla stampa. Lo stesso La Marmora probabilmente si riferisce al della Rocca, quando nei suoi citati Schiarimenti e rettifiche attacca un non meglio indicato "veterano": l'anonimo bolognese [autore dell'opuscolo pro-Cialdini Risposta all'opuscolo il Generale La Marmora e la campagna del 1866 N.d.a.) è della medesima scuola di quel veterano (di cui non tutte le gesta contano nell'Armata attiva) il quale ha scritto delle patrie guerre del 1866, con una ignoranza de' fatti e una leggerezza di apprezzamenti che provano come Egli non abbia guadagnato i suoi distintivi facendo la guerra, o stando vicino a chi la faceva. 58 I ricordi del della Rocca assumono talvolta l'aspetto di una vera e propria requisitoria contro l'operato <lel La Marmora, del quale - oltre che la suddivisione dell'Esercito in due masse, la mancata organizzazione del1'esplorazione che denota "imprevidenza inesplicabile", ecc. - stigmatizza in particolar modo: la vista ormai debole, che per sua stessa ammissione subito dopo la battaglia, non lo rendeva più idoneo al comando operativo; - l'inattitudine a svolgere le funzioni di Capo di Stato Maggiore a fianco del re, anche perché la sua esperienza era limitata, visto che i suoi precedenti incarichi, nei quali aveva pur dimostrato alte doti militari, non andavano oltre il livello di comandante di corpo d'armata; - il mancato orientamento dei comandanti subordinati su scopo e lineamenti generali dell'azione da svolgere e la mancata organizzazione di un quartier generale vicino alle truppe, sulla sinistra del Mincio e perciò in grado di ricevere prontamente le informazioni e impartire tempestivi ordini durante la battaglia; - l'invio dopo la battaglia di comunicazioni alla Gazzetta Ufficiale, che presentano gli avvenimenti in modo distorto, senza mettere in rilievo il valore delle truppe e la loro situazione non compromessa,

" Geo. E. Della Rocca, OP. cit. , pp. 194-298. 58· Gen. A. La Ma.nuora. Schiarimenti e rettifiche ... (Cit.), pp.13-14.


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che non era tale da giustificare una ritirata dietro il Po ed era tale, invece, da poter riprendere subito l'offensiva; l'ipoteca da lui messa sulla carica di Capo di Stato Maggiore, quando invece "per le sue occupazioni nella direzione politica del governo, che lo trattennero a Firenze fino all'ultimo momento, lontano dall'esercito, egli non avrebbe dovuto prendere la responsabilità del comando a fianco del re. I servizi politici da lui resi poi in quella campagna al suo paese e che, egli scrive, furono di ben maggiore peso che una vittoria sui campi di Custoza, poteva renderli più facilmente restando al suo posto di Presidente del Consiglio". Il della Rocca non nasconde che avrebbe accettato volentieri il posto di Capo di Stato Maggiore a fianco del re, come era avvenuto nel 1859: ma La Marmora era Presidente del Consiglio e questo posto se lo era riservato per sé, né il re questa volta era in grado di imporre il suo nome; tuttavia anche se il re si era rifiutato di firmare prima della guerra la sua nomina a "generalissimo", "di fatto però, forse senza volerlo, ma per la indole sua dominatrice, il La Mannora esercitò le funzioni di generalissimo" [come dire: ha avuto ugualmente sufficiente mano libera, cosa in effetti incontestabile -. N.d.a.]. Riguardo al piano di guerra (che sottolinea di non aver mai conosciuto) anche il della Rocca è- come il La Marmora- sostenitore dell'azione principale sul Mincio, e affaccia 1' ipotesi che, poiché il Cialdini secondo gli accordi intendeva passare il Po il 26 giugno, il re e il La Marmora "volevano riservare all'esercito del Mincio una vittoria pel 25, e nello stesso tempo preparare i rinforzi per una rivincita in caso contrario". La strategia suggerita dallo stesso della Rocca nel maggio 1866 in sostituzione di quella del La Marmora è invero ancor più discutibile e tradizionale di quella di quest'ultimo. Essa si riassume nel concentramento di tutto ]'Esercito (compreso l'equivalente di due divisioni rimaste nel Sud) sul Mincio, con due sole divisioni a guardia del Po. Infatti dal Po si sarebbero incontrate maggiori difficoltà che dal Mincio, "senza contare che lasciando scoperto il quadrilatero, la strada su Milano si trovava aperta agli austriaci". Sul Mincio, però, non si trattava di ricercare la battaglia, ma di far cadere il quadrilatero, assediando subito Verona (cioè la piazza più forte) dopo aver conquistato e fortificato le alture tra Peschiera e questa città. Tutto sarebbe stato relativamente facile: ho la convinzione che quando le nostre artiglierie da 40, da 16 sono coperte in batteria, i forti non resistono [... ]. La piazza non resisterà lungamente, ed espugnata Verona, gli altri forti del quadrilatero non sono più da temere. Si vedrà da quale parte si sia ritirato il nemico [che dunque, anche per il della Rocca, non tenterebbe, prima, nulla tra l'Adige e il Mincio - N.d.a.), e si deciderà il da farsi . Queste operazioni non dovrebbero prenderci più di 40 giorni, e siccome è da sperar e che i Prussiani non si saranno lasciati battere, così non


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avremo da operare che contro 150 o I 80 mila uomini. Se si vuole assolutamente agire da due parti, converrà attaccare simultaneamente per dividere le forze austriache, e col telegrafo combinare tutti i giorni i nostri movimenti, in modo da giungere all'Adige verso Albaredo o più in su lo stesso giorno.

Come si è visto, il La Marmora nega di aver presentato le dimissioni subito dopo l'esito infausto della battaglia di Custoza; il della Rocca invece riferisce che nella stessa notte dal 24 al 25 si è recato al quartier generale di Cerlungo, dove il re lo ba informato che il La Marmora aveva dato le dimissioni e gli ha proposto di prendere senz'altro il suo posto; cosa che egli ha rifiutato, convincendo anzi il La Marmora a recedere dal suo proposito in quel momento molto delicato. E a maggior riprova di questo fatto, afferma anche che il 19 o 20 luglio ha incontrato al quartier generale di Ferrara il principe Gerolamo Napoleone (colà inviato da Napoleone III per convincere il re e il Governo ad accettare le proposte di armistizio della Francia), il quale, saputo dal re che egli non aveva accettato la proposta di sostituire il La Marmora dimissionario, gli ha detto che se fosse stato al posto di Vittorio Emanuele II lo avrebbe costretto ad accettare. Il generale della Rocca, inoltre, rivendica il merito di aver convinto il La Marmora, subito dopo Custoza, a non ritirarsi più sul Po come stabilito in un primo tempo, ma ad arrestare la ritirata sull'Oglio. Cosa smentita anch'essa dal La Marmora, il quale nella terza relazione del 1870 scrive che "questa modificazione importante, che altri [cioè il della Rocca - N.d.a.] si volle appropriare, mi venne bensl suggerita a Piadena dal generale della Rocca, ma quando io già l'avevo decisa e ottenuto il consenso di S.M."59 Molto critico con il La Mannora, il della Rocca lo è anche col Cialdini, al quale rimprovera il carattere autoritario e indipendente, tale da non sottomettersi facilmente - per quanto abbia assicurato allo stesso della Rocca il contrario - alle direttive e ordini di un altro generale Capo di Stato Maggiore, sia che si tratti del La Marmora che dello stesso della Rocca. Né il della Rocca accetta le ragioni per cui il Cialdini ottiene la sospensione della ricognizione offensiva a lui affidata ai primi di luglio partendo dall'Oglio, che le sue truppe - egli afferma - hanno iniziato con grande entusiasmo e con la speranza di riscattare l'infelice giornata di Custoza, e che aveva le più favorevoli prospettive di riuscita. Anche questo ripensamento è dunque, per lui, conseguenza della mancanza di unità di comando, visto che il La Marmora accetta la "preghiera" del Cialdini. La difesa da parte del della Rocca del suo operato nella battaglia è semplice: lamentando fortemente i ripetuti attacchi della stampa su istigazione della Consorteria anti-piemontese allora assai potente in Italia, a chi lo accusa di non aver inviato d'iniziativa tutte le sue forze in rinforzo al 1°

59

Complemento ... (Cit.), Voi. 11 p. 82.


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corpo d'armata sulle colline replica che sia dal La Marmora sia dal re ba ricevuto continue raccomandazioni di tener fermo a Vtllafranca e di non spostare le due divisioni ivi rimaste inoperose. In particolare, tra le ore 8 e le 9 del 24 giugno era giunto al suo posto comando il La Marmora lche aveva lasciato il quartier generale sulla riva destra del Mincio e per tutta la giornata si era spostato sul campo di battaglia, perdendo cosl i collegamenti col suo quartier generale e coi corpi d'armata - N.d.a.], il quale gli aveva raccomandato di mandare soccorsi alla 3A divisione del 1° corpo ma al tempo stesso di tener fermo a Vtllafranca, cosa che il della Rocca fece inviando subito una divisione e successivamente un'altra: "non vidi più il La Marmora per tutta la giornata, e non ebbi più da lui ordini dopo le 11, tranne verso le 6 [cioè le 18 - N.d.a.] quello della ritirata dietro il Mincio, né seppi fino alle 4 e mezzo [cioè le 16,30 - N.d.a.] dove egli fosse. Prima però di tornare a Monte Torre egli incontrò il mio Capo di stato maggiore, che non aveva veduto a Villafranca, e lo fermò per ripetergli formalmente gli ordini dati a me". Successivamente è giunto a Valeggio anche il re, che gli ha confermato gli ordini del La Marmora. In realtà, a detta dello stesso della Rocca il La Marmora ha inviato un altro ordine anche verso mezzogiorno, nel quale lo avvertiva di aver dato ordini diretti alle sue due divisioni impegnate sulle colline, e gli raccomandava ancora di mantenere sulle loro posizioni le due divisioni rimaste a Villafranca, mandando però altri rinforzi alla sua 9A divisione (Govone) impegnata a Custoza: cosa che il della Rocca ha fatto inviando la brigata Pistoia del1a stessa divisione (in precedenza dislocata dal Govone, su suo ordine, a Villafranca). Ad ogni modo, il della Rocca tiene a precisare che non ha mosso le due divisioni rimastegli a Villafranca solo per il dovere di eseguire gli ordini ricevuti: dopo la disfatta del 1° corpo e il ritardo del 2° ad arrivare in linea di battaglia, il solo 3° corpo trovandosi a far fronte a tutte le eventualità deUa situazione, io come comandante del 3° corpo giudicai di non dover prendere su di me una disubbidienza, che potesse essere fatale all' esercito, e compromettere la ritirata verso il Mincio. [... ]. Non potevo staccare una delle mie divisioni, non soltanto per rispetto agli ordini ricevuti, ma anche per conservare forze a Villafnmca, dove mettono le tre strade di ritirata di Valeggio, di Quaderni, di Roverbella, ingombre tutte e tre di una quantità enorme di carri. Sapevo il I corpo in ritirata, e dovevo prevedere che il nemico, girando la nostra ala sinistra, si sarebbe impadronito di Valeggio; per ciò conveniva doppiamente assicurarmi le altre due strade, senza le quali l'esercito non avrebbe avuto mezzi di ritirarsi; quindi per chi vede le cose in grande, e non bada soltanto alla località sulla quale si trova, è cosa certa che io avrei commesso un grave sbaglio non tenendomi fortissimo a Vtllafranca. O

Giustificazioni che il lettore di oggi trova senz'altro non prive di logica: viene solo da chiedersi perché, se la posizione di Villafranca era tanto importante, il nemico non l'ha mai attaccata seriamente e in forze,


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lasciando così quelle due divisioni - altrove forse decisive - inoperose, e inducendo perciò a constatare, sia pure con il senno di poi, che se il della Rocca avesse disobbedito, sarebbe stato meglio. Acquista perciò peso quanto afferma il La Marmora nel secondo rapporto del 1869, che cioè il della Rocca avrebbe potuto accertarsi con la cavalleria che non vi erano forze nemiche davanti a Villafranca, per poi inviare almeno la divisione Bixio contro Staffalo e Sommacampagna. Questa osservazione non è invero contestata dal della Rocca, il quale vuol dimostrare, invece, che il La Marmora nel 1869 sostenendo questa tesi ha cambiato idea: infatti egli ricorda che in una lettera del 2 marzo 1867 il suo fido collaboratore maggiore Corvetto lo ha informato di aver parlato di Custoza con il La Marmora, secondo il quale la battaglia è stata perduta dai comandanti di divisione del 1 corpo d'annata, e non si è trasformata in un disastro solo per merito del generale della Rocca, che è stato così prudente da non abbandonare Villafranca per attaccare Staffalo e la Berettara: "rotta la nostra sinistra, egli mi disse, tutto era perduto. A mezzodì trattavasi di impedire un disastro, e non più di vittoria". Sempre secondo i ricordi del della Rocca, l'Arciduca Alberto avrebbe detto nel 1867 al La Marmora, in visita in Austria: "aspettavo soltanto che il generale della Rocca muovesse le sue forze da Villafranca e le sparpagliasse sui colli, come credevo che avrebbe fatto, per scendere al piano e tagliarvi la ritirata". Frase poi riferita dallo stesso La Marrnora al della Rocca, dalla quale si dovrebbe dedurre che nel rapporto del 1869, il La Marmora ha mentito o cambiato idea - non si sa perché - sul conto del della Rocca. Infine, in una lettera dell'agosto 1866 il della Rocca critica duramente e crudamente il vestiario e l'equipaggiamento delle truppe: "non v'è esercito più mal vestito del nostro [...] mi si dirà che si voleva la economia, e io rispondo che la cattiva mercanzia non è mai economica. È un sistema falso, falsissimo, e fin che continuerà così, avremo un esercito di straccioni". I giudizi critici della "Rivista Militare Italiana" negli anni 1866 e 1867 Il silenzio di un organo ufficiòso come la Rivista Militare per un certo numero di anni, su una guerra sfortunata che provoca aspre polemiche tra i più alti gradi dell'Esercito (coinvolgendo inoltre la monarchia sul problema del comando effettivo delle truppe operanti) sarebbe stato più che giustificato. Invece sia pur evitando - per ovvie ragioni - riferimenti diretti alle persone, negli anni 1866 e 1867 la rivista, oltre ad esaminare ampiamente la vittoriosa campagna prussiana contro l'Austria, pubblica studi sulle vicende della guerra in ltalia nei quali non mancano pesanti note critiche. Già alla fine dello stesso anno 1866 l'intero Volume IV (ottobre - dicembre) della rivista è dedicato al commento della nostra campagna, dovuto alla penna dello stesso direttore Gian Giacomo Corvetto (scrittore militare tra i più eminenti del perioùo), che probabilmente è anche autore dei citati Cenni


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sulla campagna del 1866 di un ufficiale del III corpo d'armata. Il della Rocca, infatti, lo cita più volte tra i suoi più devoti collaboratori, ha con lui una corrispondenza epistolare, e riferisce, in particolare, che ha avuto l'incarico di consegnare il carteggio del II corpo relativo alla campagna al Ministero e che lo ha difeso in un articolo sull' Esercito.w Naturalmente il Corvetto non può ancora disporre dei documenti sui quali si basa la successiva polemica del 1868 tra La Mannora e Cialdini, né mostra di conoscere bene i loro inconciliabili disegni di manovra: ma proprio per questo il suo lavoro è interessante e ben rende, senza troppi vincoli, il suo pensiero, che - lo voglia o no - ne fa un sostenitore del Cialdini e un critico del La Marmora. Anzitutto egli rileva il vantaggio strategico iniziale dell'Esercito austriaco, che può assumere una posizione concentrata contro due avversari (a Sud l'Esercito Italiano e a Nord quello prussiano) ciascuno più debole, nettamente separati tra di loro, e costretti a fare i conti sulle rispettive fronti con solidissime fortificazioni austriache. Noi perciò temevamo - afferma il Corvetto - che l'Austria all'inizio della guerra avrebbe lasciato nel quadrilatero le forze strettamente sufficienti per presidiare le fortezze e costringerci a lunghi assedi, per concentrare la massa delle sue forze contro la Prussia, sconfiggerla e poi volgersi contro l'Italia: fortunatamente i gen_erali austriaci non hanno saputo sfruttare questi vantaggi. Il Corvetta premette di non conoscere ancora il disegno di guerra concordato con la Prussia [che in effetti non esisteva - N.d.a.], e mostrando d'ignorare che La Mannora e il Cialdini avevano agito ciascuno a modo suo, afferma che per l'Esercito Italiano esistevano solo due linee strategiche alternative: "o limitarci a guerreggiare nella Venezia e ridurci alle lente operazioni degli assedi, ovvero impiegar una parte dell'esercito negli assedi indispensabili e coll'altra forzare il passaggio delle Alpi, invadere il territorio nemico, marciar su Vienna e cercare di dar la mano su qualche punto ai Prussiani". Per quanto più audace e più difficoltosa, quest'ultima a suo giudizio era la linea d'azione più conveniente, anche perché costringeva l'Austria a mantenere divise le sue forze: ma per poter agire sulla principale linea d'operazione, quella Udine-Villaco, "era necessario che la flotta s'impadronisse di Trieste, e quivi si stabilisse una base secondaria per l'esercito destinato all'invasione, ed era pur necessario che gli austriaci in Italia fossero imprigionati nelle fortezze, e cosl occupati da un secondo esercito da non poter tormentare alle spalle il primo, le cui mosse doveano succedere rapidissime". Il conseguente disegno strategico che il Corvetto a torto suppone sia stato adottato dal nostro Esercito assomiglia molto a quella del Cialdini e dell'Usedom: mentre il IV corpo dello stesso Cialdini doveva passare il Po 00 ·

Gen. E. Della Rocca, Op. cit., pp. 236,270, 291-292.


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e l'Adige puntando su Vicenza per minacciare il quadrilatero alle spalle, gli altri tre corpi dovevano minacciare direttamente il quadrilatero dalla parte del Mincio per richiamarvi tutte le forze nemiche, in modo da consentire al Cialdini un agevole passaggio del Po: "ma di serio impegno non doveasi prendere da questi tre corpi sul Mincio fin che il IV non fosse in misura di attaccare contemporaneamente per l'Adige". E una volta vinta una battaglia e rinchiusi gli austriaci nelle fortezze, mentre due o tre corpi d'armata (sic) avrebbero pensato agli assedi, il resto dell'Esercito agli ordini del Cialdini avrebbe puntato su Vienna. Dei due disegni estremi (quello di attaccare il quadrilatero dal Mincio con tutto l'esercito, e quello di passare il Po a viva forza anche in questo caso con tutto l'Esercito e di puntare su Vienna, senza preoccuparsi d'altro) il Corvetto ritiene che nel secondo vi sia un principio di verità, "imperrocché ci sembra che il grosso dell'esercito avrebbe dovuto fare quello cui fu invece destinato il IV corpo, mentre uno o al più due corpi sul Mincio sarebbero bastati per eseguire quella dimostrazione che vi si volle fare per poter tragittare il Po senza aver subito di fronte l'esercito nemico. Passato il Po e l'Adige, bisognava attaccare il quadrilatero a rovescio e per la sua parte più debole". Ad ogni modo, il disegno strategico adottato non era cattivo: poco felice ne è stata invece l'esecuzione. E su questo punto il Corvetto già dice molte delle cose che si sarebbero dette dopo, e che sia pur non esplicitamente toccano l'operato del La Marmora. L'Arciduca Alberto - egli afferma - ha mantenuto le sue forze concentrate, per poter fronteggiare meglio i due attacchi che lo minacciavano dal Po e c;lal Mincio opponendosi con tutte le sue forze al primo dei due attacchi che si fosse manifestato per poi volgersi ali' altro: per vanificare questo disegno, da parte nostra occorreva perciò che la "dimostrazione offensiva" sul Mincio e l'attacco dal basso Po fossero contemporanei, e a tal fine "doveasi attaccare [sul Mincio] il 26 e non il 24, perché il 24 il IV corpo non era [ancora] in misura di passare il Po". Ne consegue che per il Corvetto l'insuccesso del 24 giugno è dovuto non tanto al concetto della combinazione strategica tra l'azione sul Mincio e quello sul Po, ma "all'impazienza colla quale si è voluto mandarlo in atto". Impazienza - noi osserviamù - che va interamente addebitata al La Marmora, anche se egli non lo dice esplicitamente: così come al La Marmora va addebitato interamente un altro "errore" del quale egli parla, cioè il passaggio del Mincio "su troppo estesa fronte, senza il dovuto collegamento fra i corpi passanti, e lasciando il II corpo in tal positura, donde non potea concorrere cogli altri due alla giornata [cioè alla battaglia - N.d.a.]". Questo errore, osserva il Corvetto, deriva dall'errata previsione che non si sarebbe incontrato il nemico: cosl come solo a questa previsione egli ritiene sia dovuto quello che giudica l'errore più grave, cioè la mancanza dell'unità di comando, la quale fa sì che a Custoza non solo i due corpi d'armata che si sono trovati di fronte tutto l'esercito austriaco, ma anche le divisioni, abbiano combattuto senza alcun collegamento tra di loro.


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Come si è visto, il Corvetto giudica l'azione del La Marmora sul Mincio una dimostrazione (cosa smentita da quest'ultimo, che la ritiene invece l'azione principale e più conveniente); per quanto riguarda la ritirata dal Mincio e dal Po, afferma di non aver capito bene le ragioni che hanno indotto il La Marmora a ordinarla, prendendo solo atto che si è creduto che le nostre truppe dopo l'insuccesso non fossero in grado di attaccare di nuovo, e avessero bisogno di alcuni giorni di sosta e riordinamento. Ha l'aria invece di giustificare la ritirata del Cialdini, mettendo in evidenza che la notizia della sconfitta di Custoza giunge al Cialdini "in termini tali da lasciar credere ancor più disastrose assai le conseguenze della lotta fatale". Nonostante gli errori, comunque, a suo giudizio Custoza "non fu una vittoria né una sconfitta, né per l'una né per l'altra parte"; e nega (diversamente dallo stesso La Marmora) che nel nostro esercito "si siano manifestati sintomi di demoralizzazione e dissoluzione", anche se il treno borghese, al quale si è stati costretti a ricorrere, ha dato pessima prova fuggendo ai primi colpi di cannone, e anche se gran parte delle nostre truppe ha affrontato la battaglia senza aver prima mangiato, "grave torto, che a qualcuno va attribuito" fa chi, se non alla leadership? - N.d.a.]. Quella redazionale del Corvetto non è l'unica voce critica che si leva dalla Rivista Militare. L'impostazione strategica della campagna è criticata anche da un autore illustre come il generale Nicola Marselli, al momento capitano del genio. All'inizio del 1867 egli scrive che, nel 1866, i prussiani sono stati nostri alleati persino nei due eserciti e nelle due linee d'operazione; ma tra le due masse non correva un fiume come il Po e non sorgeva il quadrilatero [frase ambigua, che potrebbe significare che le due masse prussiane - come poi hanno dimostrato gli eventi - potevano più facilmente riunirsi - N.d.a.]. In qualunque modo, rimane sempre fermo che la strategia delle linee convergenti ed esterne, adottate così dai prussiani come dagli italiani, segna un regresso nell'arte della guerra, è un ritorno ai tempi della rivoluzione francese che precedettero la venuta di Napoleone, è un nuovo indizio che nell'interregno dei grandi capitani [le idee] si impaIJidiscono e si oscurano. Anche il Grant [comandante in capo nordista nella guerra di secessione americana 1861-1865 - N.d.a.] ha adoperato cosiffatto sistema, ma la natura della guerra, consistente in una ribellione, l'ampiezza del teatro, la superiorità del numero giustificano il suo piano. I prussiani si sono riattaccati alle prime e ultime tradizioni del gran Federico 11...61 • Nel 1867 la rivista pubblica le Istruzioni dell'Arciduca Alberto ai generali e ufficiali superiori dell'Esercito austriaco per la campagna del 1866 in Italia62 , premettendo che, anche se non vi si dicono cose nuove, è 61

62.

N. Marselli, Il problema militare dell'indipendenza nazionale,"Rivista Militare Italiana" Anno Xli - Voi. I febbraio 1864, p. 184. "Rivista Militare Italiana" Anno Xll - Vol. II giugno 1867, pp. 305-327.


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comunque opportuno ricordare all'inizio della campagna ai comandanti e ai responsabili dei Servizi "quei precetti che possono avere una particolare applicazione sul teatro delle operazioni, dando loro contemporaneamente le relative direzioni di massima". Cosa - noi osserviamo - che non è stata certo fatta nel 1866, da parte nostra, e le conseguenze si sono viste: perciò le raccomandazioni dell'Arciduca Alberto, di fronte alle ormai ben note carenze della nostra leadership, al tempo assumono l'aspetto di indiretta critica ali' operato del La Marmara a Custoza, visto che vi sono puntigliosamente esaminati quei particolari e quegli accorgimenti di importanza solo apparentemente secondaria, che non osservati nei rapporti fra Comandi italiani a Custoza hanno dato luogo a equivoci, malintesi, ritardi con gravi conseguenze. Vi si trovano, infatti, riferimenti al terreno coperto e frastagliato della pianura a Nord del Po, che impone di adottare particolari provvedimenti di carattere organico e tattico (brigata come massima unità tattica; niente impiego a massa di cavalleria e artiglieria ma esplorazione con piccoli drappelli di cavalleria e cacciatori, ecc.). Il quartier generale procede alla testa del grosso, l'Intendenza in coda; gli ordini devono essere compilati in modo chiaro e breve, accennando allo scopo a cui si mira, e "tutto ciò che vi si riferisce deve essere contenuto in un ordine solo, lasciando da parte ogni particolareggiamento". Deve essere emanato un solo ordine generale per tutti, perché "se le disposizioni generali, la posizione e la distribuzione delle singole parti dell'esercito non sono da tutti i comandanti conosciute in egual modo, facihnente avviene che in caso d'improvvisi combattimenti o di uno scontro improvviso col nemico ne nasce confusione". Ogni ordine o biglietto deve portare la data, l'ora, il luogo di compilazione e di ricezione; occorre anche indicare la linea di ritirata eventuale e i1 punto di riordinamento. Nell'ordine generale devono essere indicate le norme per il movimento della riserva d'artiglieria e del parco munizioni; e "per massima generale non sarà mai abbastanza ricordato alle truppe che in guerra devono tenersi punte ad ogni eventualità, acciocché nulla mai giunga loro inaspettato, e per ciò stesso pericoloso". E poiché gli ordini a voce possono essere mal compresi, quando un ufficiale o sottufficiale riceve un ordine da un superiore deve ripeterlo parola per parola, e dopo averlo riferito a chi di dovere ciascun ufficiale di Stato Maggiore deve tornare senza perdita di tempo al Comando, e ripeterlo di nuovo al generale o al Capo di Stato Maggiore, aggiungendo la risposta ricevuta. I rapporti e gli ordini più importanti devono essere però spediti per diverse vie; gli ordini telegrafici devono essere contemporaneamente spediti per staffetta e ferrovia. Sono anche chiariti i rapporti tra comandanti e Stati Maggiori, e le rispettive responsabilità. Un ottimo ufficiale di Stato Maggiore è prezioso per il suo comandante; ma non dev'essere altro che il primo degli organi dei quali quest'ultimo si avvale, e non è mai responsabile delle decisioni del suo Capo. Sul campo di battaglia anche un generale valorosissimo, a capo delle migliori truppe, può andare incontro a un insuccesso; ma ciò che è più


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da condannare è l'incertezza, l'inerzia e la mancanza d'energia, che mandano a vuoto i disegni del comandante e rendono inservibili le truppe meglio disposte_ Un comandante con simili difetti deve essere immediatamente destituito; per contro il generale in capo difenderà da ogni accusa i sottoposti che, pur non avendo avuto successo, banno dato prova di energia, · risolutezza e coraggio personale. Non mancano, infine, accenni all'organizzazione del vettovagliamento, del cui buon funzionamento ogni comandante deve accertarsi di persona, senza permettersi un momento di riposo fino a quando tutto non è in ordine. Dopo le marce forzate le razioni devono essere aumentate, anche senza ordini dall'alto e sotto la responsabilità dei comandanti; "non sarà mai il caso che tale misura non venga ammessa, mentre invece quel generale che avesse lasciato affievolire le forze del soldato per scarsezza di viveri e per poca cura [come è avvenuto da parte nostra a Custoza - N.d.a.], verrà sempre giudicato col massimo rigore". Nell'Esercito austriaco del 1866, dunque, non vi è spazio per palleggiamenti di responsabilità, né esistono settori nei quali preventivamente il generale in capo non porti la sua attenzion~. Difficile trovare un settore del contrapposto Esercito Italiano, nel quale non risaltino i disservizi provocati dall'inosservanza di queste semplici disposizioni, che dunque proprio perché i Quadri erano quello che erano, sarebbe stato più che opportuno ricordare - anche nel campo nostro - all'inizio della guerra, senza dare nulla per scontato. Costituiscono un'indiretta critica alle molte lacune dimostrate dallo strumento anche due articoli (1867) del maggiore dei bersaglieri di Aichelburg63, secondo il quale la campagna del 1866 nonostante il valore dimostrato dalle truppe "scoprì nullameno talune pecche e vizi antichi, i maggiori dei quali lasciando altrui a curare e alla forza stessa delle cose, non mi farò a discorrere che dei minori che apparvero a tutti, e la somma dei quali forma tuttora una specie di malessere e di anemia morale". I provvedimenti di riforma da lui suggeriti sono di ordine tattico, morale e logistico. In essi acquistano risalto la modifica del troppo macchinoso e formalista regolamento di manovra per renderlo più realistico e semplice consentendo alle formazioni di adattarsi rapidamente al terreno, il perfezionamento dell'addestramento al tiro e de11a ginnastica, l'educazione morale del soldato con l'insegnamento anche della storia e della geografia, il miglioramento del ruolo a e delle condizioni di vita del sottufficiale, ecc.. Il de Aichelburg insiste però particolarmente, con parole assai crude, sulla necessità di apportare profondi mutamenti all'uniforme e all'equipaggiamento del soldato, e di semplificare il sistema amministrativo e contabile. Al momento "non v'è operazione contabile militare che non passi per

63•

U. Di Aichelburg, Alcune considerazioni sull'armata italiana dopo la campagna del 1866", Rivista Militare Italiana" Anno Xll - Voi. l gennaio e febbraio 1867, pp. 37 - 68 e

121- 172.

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le cento vie dinnanzi all'approvazione, il perché del più usuale oggetto che il comandante del corpo avrebbe dovuto poter fare da sé con vantaggio di tempo e soprattutto di spesa, importa lettere e autorizzazioni a non più finire, e con spesa maggiore e con tempo sprecato". Il sistema delle masse, e la tendenza dei comandanti di corpo ad aumentare la massa d'economia, fa sì che il soldato, "questo povero ilota della patria", dopo aver messo a repentaglio ]a sua vita per i1 Paese, e aver detratto dall'importo della sua paga giornaliera il costo di quel vestiario che indossa per la sicurezza di tutti, è spesso costretto a decurtare ulteriormente il poco che riceve "onde finir di pagare oggetti di corredo che non avrebbegli prodotto debito senza l'ingordigia mai soddisfatta deUa massa d'economia". Il risultato è che non vi è esercito in Europa - prosegue il de Aichelburg - che vesta la sua fanteria in modo peggiore di quello italiano, però a un prezzo maggiore. Ciò che manca non è tanto e solo l'eleganza, ma la confezione accurata e la qualità de11e stoffe e dei capi di corredo: non v' ha nell'esercito che non abbia ormai osservato con sdegno quei pantaloni della cavalleria i quali, già poveri di taglio, alla prima acqua che pigliano si fanno impossibili o ridicoli, e così quelli della fanteria, e lor giubbe, che un mese dopo incanutiscono, o le scarpe, che dopo una sola marcia si slegano e si sfasciano e abbisognano di riparazioni, e quegli indecentissimi pantaloni di tela, insufficienti per stoffe debolissime e che tosto fannosi indecorosi e ridicoli [... ] e mille altre cose che appariscono a tutti e le quali, vuolsi dirlo francamente, non si veggono che nell'armata Italiana, e sono ora mai qualche cosa più che vergognose. Codesta massa d'economia infine, la quale chiamerei con ben altro nome, ha in ogni cosa un interesse che è sempre in ragione inversa con quello del soldato. Infine sulla Rivista Militare, sempre ad opera dello stesso direttore, già nel 1867 si comincia ad affrontare il tema saliente degli ultimi decenni del seco]o: in che misura ritenere valido il modeUo prussiano, che già la guerra del 1866 - senza aspettare quella de] 1870-1871 - impone ali' attenzione di tutta Europa. Secondo lo Spectateur Militaire del 15 aprile 1867, la vittoria prussiana del 1866 non è dovuta al nuovo fucile ad ago né all'obbligo militare esteso a tutti i cittadini, ma alla grande intelligenza dello Stato Maggiore prussiano, insieme con Ja disciplina di ferro de1J ' esercito e la capacità di tutti gli ufficiali. Il direttore della rivista commenta: "questo è oggi il tema obbligato, tutto è ottimo, eccellente nell'annata prussiana, tutte le qualità sono state i fautori della vittoria, eccetto il fucile ad ago! Ma vi è forse minor disciplina, ordine e subordinazione nell'armata austriaca? vi è minore istruzione nei corpi?"64. La risposta a questi interrogativi sull'ef-

64 ·

Sulla campagna di Boemia nel 1866, "Rivista militare Italiana" Anno XII - Vol. II aprile 1867,p.103.


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fotti.va validità ed "esportabilità" del modello organico prussiano verrà data appieno solo dopo il 1870-1871.

Altri scritti: Ulloa, Cosenz, Casati, De Luigi, Bonghi e Vi/lari

Diamo qualche breve cenno di altri scritti, indicandone solo gli aspetti finora non toccati. Nello stesso anno 1866 il generale Girolamo Ulloa (Cfr. i prec. cap. I e Il), tra i maggiori esponenti del polo culturale napoletano, attribuisce la causa principale della sconfitta non agli errori dei Capi (come fanno più o meno tutti gli autori coevi), ma ai difetti congeniti del sistema, ereditati dal vecchio esercito piemontese e mai eliminati65 • Anzitutto, manca un serio dibattito sulle cose militari sia nel Paese che in Parlamento: le rivelazioni fatte dalla stampa periodica anziché nel Parlamento, intorno lo stato deplorabile della Marina e sui disordini in generale nelle amministrazioni, non danno certamente una grande idea dell'efficacia di quel sistema che è oggi applicato specialmente agli affari della guerra. Il controllo del Parlamento non s'esercita che in maniera incompleta, intermittente; e si trova, in generale, paralizzato da riguardi di partiti, mentre le protezioni, i falsi sistemi, e le resistenze interessate a ogni mutamento, hanno dato da ben sei anni ai Ministri deUa guerra e della Marina le mani interamente libere nelle faccende di guerra e negli arsenali [ ...]. Talché i Ministri della guerra e della Marina hanno governato spesso a discapito del buon senso e della cosa pubblica [...]. E d'altronde, come si può avere mano libera e larga discussione intorno a materie di guerra, se i militari non hanno altra garanzia di loro grado e ufficio, tranne il favore del loro Ministro? L'esempio del colonnello deputato Tamaio, destituito per aver apposta la firma sotto un atto politico ostile alla politica del Ministro della guerra, basta a dare la misura della libertà ch'è lasciata ai militari. 66

Ne derivano carenze nell'istruzione dei Quadri e, più in generale, carenze qualitative che riguardano sia i Quadri che le truppe. E qui l'Ulloa cita l'esempio della Scuola di guerra prussiana, descrivendo i severi studi che vi si compiono, per poi dedurne che ben pochi ufficiali de] nostro Stato Maggiore del momento meriterebbero di far parte dello Stato Maggiore prussiano. Sia per i Quadri che per la truppa si è badato al numero, con promozioni estese e non meritate (come per esempio 1a recente nomina di 150 ufficiali di artiglieria e genio scelti tra giovani non militari istruiti nelle matematiche pure, ma ignari di cose militari); per di più

.., Cfr. G. Ulloa, L'Esercito Italiano e la battaglia di Custoza, Firenze G. Gaston 1866 . ... ivi, p. 10.


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si sono mantenuti nell'attuale esercito Italiano gli stessi regolamenti viziosi piemontesi, che tormentano i poveri capitani di compagnia; le stesse ordinanze di piazza monche e imperfette; le stesse ordinanze di evoluzioni; lo stesso codice penale, che vuol essere modificato e corretto, perché non consenziente alle leggi e ai costumi attuali più miti; le stesse ordinanze e regolamenti pei Carabinieri, che fanno doloroso contrasto colle leggi già esistenti nella più parte degli antichi Stati italiani e colle libertà sancite dalla costituzione. Si sono conservati gli stessi barbari regolamenti di coscrizione, le stesse scuole ed accademie militari i cui programmi di esame sono insufficienti ad ottenere buoni ufficiali, e lo stesso metodo di esame, richiedendosi non già lo esame della scienza imparata, ma sì quello di taluni quesiti già formulati e che punto non sono stati modificati e accresciuti in seguito alle nuove scoperte scientifiche e ai nuovi metodi. Anzi il Ministero de)la guerra ti indica perfino la tipografia che vende tali programmi !67 Insomma il generale napoletano Ulloa, la cui offerta di riprendere servizio all'inizio della guerra del 1866 non è stata accettata, si abbandona a una sorta di acre requisitoria contro il modello militare " piemontese" del momento, ivi compresa la Marina, per la quale "la battaglia di Lissa, l' Affondatore affondato e l'inchiesta che si sta facendo provano che la nostra Marina, ricca di buoni marinai, è povera, poverissima di ufficiali, e che le navi sono cattive e debolmente armate". Le istituzioni militari borboniche soppresse sono da lui indicate ad esempio e giudicate molto migliori, a cominciare dal Collegio Militare della Nunziatella di Napoli. Gli allievi di quel collegio, giunti a metà degli studi "erano molto più istruiti e più versati nelle scienze fisiche e matematiche che quelli già nominati tenenti nell'Accademia Militare di Torino"; e in quanto agli studi militari l'Italia "invece d'avanzare col secolo ha piegato indietro e sino al secolo passato, essendoché era più avanzata l' Accademia militare del generale Parise del 1798 [a Napoli) che quella d'Italia del 1866!"68 • Persino le musiche militari napoletane erano migliori ... L'Ulloa indica come buon esempio i ridotti eserciti a lunga ferma della restaurazione, fondati sul principio del pochi ma buoni; di qui la sua critica al sistema prussiano che si è dimostrato eccellente, ma solo per la Prussia e per una breve campagna di qualche mese, ne11a quale la vittoria è stata ottenuta grazie all' entusiasmo della nazione, alla rapidità delle mosse, alla capacità strategica della leadership, al nuovo fucile ad ago. Però la Prussia - egli osserva - non avrebbe potuto sostenere una guerra lunga: la mobilitazione generale aveva paralizzato il commercio, l'industria e l'agricoltura e disseccato le fonti della ricchezza nazionale. I grossi eserciti sono difficili da alimentare; e "vi vogliono buoni soldati, non già molti soldati, perché molti e buoni soldati è difficile assai d'averne, specialmente in Italia".

67 · ivi, p. 21. ... ivi, p. 22.


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Nasce da queste considerazioni la sua critica alla troppo estesa legge di coscrizione italiana del momento. Essa consentirebbe di mobilitare, in caso di guerra, ben 700.000 uomini, per i quali però mancano generali capaci di muoverli abilmente, ufficiali in numero sufficiente e ben preparati, e il denaro necessario per equipaggiarli e alimentarli: "non si è dovuto in quest'ultima campagna cercare all'estero il necessario per completare l'equipaggiamento dell'esercito? non si è visto che dopo essersi raccolti ben 555.000 soldati, se ne sono potuti mobilizzare appena 220.000? E pure i collegi e i Quadri dell'Esercito non hanno potuto somministrare, per tal forza, il numero necessario di ufficiali d'amministrazione, di ufficiali sanitari, d'ufficiali d'artiglieria e del genio". Dopo aver tanto stigmatizzato i difetti dell'organizzazione, comunque, l'Ulloa finisce anch'egli - contradditoriamente - con il ridurre tutto a una questione di uomini. Nella preparazione dell'Esercito e della Marina prima della guerra - egli afferma - hanno prevalso gli egoismi individuali; si sono mantenuti nelle più alte cariche militari uomini del passato, "i quali banno lasciato sussistere le antiche consuetudini, le antiche istituzioni militari, che riposavano esclusivamente su tradizioni ed interessi di casta, e non avevano che favori e privilegi..." 69 • La stessa imperizia che ha reso carente la preparazione si è fatta sentire anche nella condotta della guerra, vanificando "il coraggio, la disciplina e la istruzione pratica delle elementari ordinazioni di guerra, ch'erano a sufficienza nei nostri militi". L'Italia avrebbe potuto e dovuto dotarsi di uno strumento militare più economico e strettamente commisurato al tipo di guerra da condurre, che si riassumeva nella conquista del Veneto. Anziché disperdere risorse costituendo un numero eccessivo di nuovi reggimenti di fanteria e cavalleria, avrebbero dovuto essere completati e rafforzati solo quelli esistenti nel 1860 dopo l'annessione dell'Italia centrale; inoltre avrebbero dovuto essere formati numerosi reparti di zuavi sul modello francese (che banno maggiore ardimento e intelligenza dei bersaglieri) e numerosi reparti di volontari, incorporandoli fin dal tempo di pace nelle guardie nazionali per addestrarli meglio. Per quanto riguarda la Marina, poiché l'Italia mancava di buoni ufficiali non poteva avere subito una Marina proporzionata alla grandezza dello Stato, quindi sarebbe stato necessario approntare solo le forze navali sufficienti per tenere a bada la squadra austriaca e per forzare l'entrata nella laguna di Venezia. A fare questo sarebbero bastate 27 navi anziché le 37 di Lissa, con una flottiglia di batterie galleggianti e di piccoli monitori adatti alla navigazione nella laguna; invece si è impoverita la finanza, portando il numero delle navi da guerra ·fino a 120 con circa 1300 cannoni, e non siamo pervenuti né a tenere in rispetto il piccolo naviglio austriaco, né ad attaccare il litorale di

""· ivi, p. 30.


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Venezia! Compiuta poi l'unità Italiana si sarebbe creata una grande flotta. E perché avendo tante navi e tanti marinari non si son creati gli Stati Maggiori necessari, levandoli di Francia, d' Inghilterra, d' America e di Svezia ?7° Probabilmente non si è fatto questo solo per interessi di carriera, e per ottenere promozioni più rapide: mentre l'Austria, senza sentirsi umiliata, arruolava eccellenti ufficiali stranieri, noi abbiamo creato di botto un ammiraglio, 4 vice-ammiragli, 10 contrammiragli "che chi più chi meno avran fatto pochi anni di navigazione fra Genova e Cagliari e fra Napoli e Palermo!" Per quanto riguarda la condotta della guerra, prevedibilmente l' Ulloa non è d ' accordo con la strategia del La Marmara, del quale critica, tra l'altro, l'affermazione (nel suo secondo rapporto) che "il Comando Supremo dell'armata era venuto nel concetto di gettarsi arditamente tra le piazze di Verona, Peschiera e Mantova, separarle una dall'altra ecc.". Poiché si supponeva che queste piazze non sarebbero state protette dall' esercito nemico. non vi era nessun ardire; e separarle l' una dall'altra voleva solo dire prendere il toro per le corna... Per l'Ulloa vi è anche contraddizione tra l'affermazione del La Mannora che si intendeva richiamare dalla parte del Mincio la maggior parte delle forze nemiche, e la sua supposizione - peraltro errata - che il nemico avrebbe rinunciato a difendere il terreno tra l'Adige e il Mincio. Ma anche il 4 ° corpo del Cialdini in relazione alla natura del terreno e alla presenza di un forte campo trincerato a Rovigo, per l'Ulloa non era in condizione di svolgere la sua azione con prospettive di successo ... tanto più che l'Arciduca Alberto dalla sua posizione centrale avrebbe potuto, all'occorrenza, far fronte al passaggio del Po da parte del Cialdini - assai lento - spostandosi rapidamente per ferrovia fino a Padova, e giungere prima di lui a Boara, sulla riva destra, senza bisogno di dislocare permanentemente forze sulla sinistra dell'Adige. Perciò si sarebbe dovuto almeno avvicinare le due masse, lasciando a Bologna e Ferrara solo i volontari e una ridotta aliquota di forze regolari. Uno dei due eserciti avrebbe agito per l'alto Mincio, l'altro avrebbe passato l'Adige per aggirare Rovigo; però ambedue si sarebbero tenuti in comunicazione, e sarebbero stati in grado di soccorrersi l'uno con l'altro. Meglio, comunque, sarebbe stato c,oncentrare la massa delle forze sul Mincio, con un corpo di riserva a Piacenza e i volontari a Bologna, passare con 180.000 uomini il fiume e fortificarsi sulla riva sinistra sulle stesse posizioni del 1859. In questo caso, essendo molto inferiore di forze l'Arciduca Alberto non avrebbe accettato battaglia, e si sarebbe ritirato su Verona. Dopo essersi impadroniti di Peschiera e aver conquistato con il corpo di riserva e i volontari il Trrolo, si sarebbe investita questa piazza sulle due rive dell' Adige.

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IBIDEM.


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A questa strategia piuttosto tradizionale, perché pur sempre calamitata dalle fortezze e limitata alla conquista del Veneto, l'Ulloa sulla base degli ammaestramenti della guerra fa seguire proposte di carattere organico più interessanti e innovative, che anticipano il dibattito militare del secolo XX: Forze Armate basate su una forte Marina e un esercito di qualità più ridotto (160.000 uomini in pace e 300.000 in guerra), perché l'Italia, creata dalla natura per essere una grande potenza marittima, deve riacquistare sul mare l'antico splendore, con una flotta "proporzionata al suo commercio (che va a ricevere grandissimo incremento pel taglio dell'istmo di Suez), alla ragionevole influenza che deve esercitare nel Mediterraneo e alla parte attivissima che prender deve nella intricata questione d'Oriente, che va sempre più complicandosi". Date le condizioni delle sue finanze, l'Italia deve rinunciare ad avere oltre che una forte Marina, anche un poderoso esercito. I modelli militari della Prussia, della Francia e dell 'Austria poco le si confanno, perché è in . condizioni del tutto particolari: "infatti, essa manca di grandi tradizioni militari; lo spirito militare della sua popolazione non si è ancora sufficientemente sviluppato; essa è oggi nelle più grandi angustie di finanza; la sua agricoltura, il suo commercio, la sua industria progrediscono lentamente; i suoi campi difettano di braccia per essere coltivati. D'altro canto poi, la sua frontiera di terra, difesa dalle gigantesche Alpi e da fortissimi baluardi, non ha bisogno di grandi eserciti per guarnirla". Le grandi potenze che dominano il Mediterraneo o con essa confinano sono tra di loro rivali, quindi in caso di guerra con una di esse, l'Italia troverebbe appoggio nelle altre: ad ogni modo, con 300.000 buoni soldati, 200.000 guardie nazionali mobili e una potente flotta, si può resistere anche contro Francia e Austria alleate. Ambedue le Forze Armate, per l'Ulloa, dovrebbero fare un salto di qualità. Il servizio di leva sarebbe - per tutte le Armi - di 6 anni, più 5 nella riserva; in tempo di pace i reggimenti, pur essendo meno numerosi, avrebbero forza maggiore; occorrerebbe dedicare più attenzione alle condizioni morali e materiali dell' ufficiale e del soldato, e in particolare migliorare il vitto, le caserme, il casermaggio, l'uniforme soprattutto della fanteria, i regolamenti; rendere più semplice e uniforme l'armamento delle diverse Armi; ridurre la cavalleria pesante, perché l'efficacia raggiunta dalle moderne armi da fuoco rende estremamente rare le cariche di cavalleria in masse compatte; ridurre radicalmente i Comandi territoriali e di piazza, le direzioni di artiglieria e del genio ecc.; ridurre le piazzeforti e batterie costiere, potenziando quelle rimaste; aumentare, invece, gli arsenali, le fabbriche e le manifatture d'armi, per sottrarsi in questo settore alla dipendenza dell'estero. Particolare attenzione deve essere dedicata all'istruzione dei Quadri: bisogna ampliare i programmi d'esame e lasciare più libertà agli esaminatori di interrogare i candidati su ciò che credono più opportuno; per quanto riguarda gli istituti di formazione,


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bisogna ordinare l'Accademia reale [di Torino] sulle identiche basi della politecnica di Parigi, ché non v'ha uguale al mondo; le scuole pratiche per gli ufficiali di artiglieria e del genio, sulle basi di quella di Metz, e quelle per gli ufficiali di Stato Maggiore, sulle basi della Scuola generale di guerra di Berlino; istituire nelle principali università del Regno, come fu decretato dal Barone Ricasoli in Toscana nel 1859, le cattedre di storia e arte della guerra; aggiungere all'officio topografico, gl'ingegneri fotografi e gli ufficiali per la telegrafia dell'esercito e per le strade di ferro; pubblicare una rivista scientifica militare diretta dal generale Capo dello Stato Maggiore. Questi sarebbe anco destinato a dirigere quattro scuole, dette di perfezionamento ...71

A parte la VIS polemica antipiemontese, lo studio dell'Ulloa è apprezzabile soprattutto per lo scetticismo sull'effettiva rispondenza del modello prussiano per l'Italia, per l'indicazione dei suoi inconvenienti in caso di guerra prolungata e per una serie di proposte di respiro interforze, che traendo tutte le conseguenze dall'esperienza della guerra intendono migliorare la qualità complessiva dello strumento, cosa della quale v'è invero gran bisogno in quei tempi. Prevedibilmente le sue valutazioni critiche suscitano la reazione del giornale militare L'Esercito (n. 43, 44 e 46 del 1866), specie per quanto riguarda i difetti da lui attribuiti al modello piemontese e al sistema prussiano, che secondo l'articoUsta corrisponde invece a una generale linea di tendenza verso i grossi eserciti. A tali obiez.ioni l'Ulloa replica con l'opuscolo polemico Risposta al Giornale militare "L'Esercito"12, nel quale ribadisce e chiarisce le sue idee anche con una dotta dissertazione sull'arte della guerra, che dimostra ancora una volta la sua fede jominiana. Un altro illustre generale e scrittore napoletano, Enrico Cosenz (primo Capo di Stato Maggiore dell'Esercito e a Custoza comandante della 6" divisione del II corpo), critica soprattutto l'organizzazione del Comando e l'impiego della riserva durante la battaglia, attribuendo la sconfitta principalmente al mancato impiego di 4 divisioni (2 del II corpo di riserva e 2 del ID corpo del generale della Rocca)73• Non condivide le giustificazioni di quest'ultimo, e ritiene infondata l'affermazione dell'Arciduca Alberto che se le due divisioni del ID corpo non avessero presidiato Villafranca, avrebbe tagliato la ritirata all'esercito Italiano. Per fare questo - egli osserva -1' Arciduca non aveva più forze, perché le aveva già impiegate tutte per respingere sulle colline le divisioni Govone e Cugia; in quanto al della Rocca, avrebbe dovuto e potuto accertarsi bene se vi erano o meno colonne nemiche in direzione di Verona e Mantova, e una volta constatato che colà non vi erano truppe in marcia, 1. ivi, p. 69. n. Firenze, G. Gaston 1867.

1

73·

Gen. E. Cosenz, Custoza e altri scritti inediti (a cura di F. Guardione), Palermo, Libr. Iintt:maz. A. Reber 1913, pp. 33-56.


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"sarebbe stata cosa ovvia il mandare le divisioni sul campo di combattimento, anziché tenerle inattive e inutilmente a posto". Anche il capitano d'artiglieria L.A. Casati (probabilmente in ritiro), in un lungo articolo di fine 1866 sulla battaglia di Custoza, pubblicato dalla Nuova Antologia74 e definito dal La Màrmora "pretenzioso", accredita la tesi delle preminenti responsabilità dei Capi e accenna ai molteplici errori del Comando, ritenendo più conveniente l'attacco dal basso Po, sia pur accuratamente preparato. Lo studio del Casati dimostra che nel corso dello stesso anno 1866, sulla condotta della guerra e sulle cause della sconfitta la stampa del tempo aveva già potuto già dire quasi tutto, se non tutto. Assai originale la sua idea di costruire dei piccoli monitors adatti alla navigazione sul Po e sull'Adige, sul modello di quelli usati nella guerra di secessione; con queste piccole navi corazzate, a suo giudizio, sarebbe stato possibile controllare la foce dei fiumi e dominare le loro acque, mantenendo sgombre le rive e proteggendo il passaggio delle imbarcazioni e il gittamento dei ponti. Un tenente dell'esercito, il De Luigi, nel 1867 sia pur con la dovuta prudenza fa assennate considerazioni sulla campagna, indicando tra le ragioni principali della sconfitta le carenze organiche e addestrative delle truppe, la mancata simultaneità dell'azione sul Mincio e sul Po e l'ingiustificata inerzia delle divisioni del m corpo a Villafranca.75 Accenna anche all'inferiorità della nostra artiglieria, e ammette chiaramente che a Custoza "lo sbandamento fu il torto più grave dei nostri reggimenti". Le cause di tale sbandamento a suo giudizio sono diverse: 1°) i nostri soldati non avevano ben compreso la necessità di rimanere raggruppati intorno ai superiori ed erano abituati a considerare la ritirata come cosa vile, anziché apprezzarne i vantaggi quando era un movimento tattico; 2°) eccessiva importanza attribuita dalla nostra regolamentazione tattica agli attacchi alla baionetta; 3°) abitudine della truppa (ereditata dalla guerra al brigantaggio) all'iniziativa individuale, cosa positiva contro un nemico che combatte come i briganti alla spicciolata, ma negativa se il nemico - come a Custoza - è unito e compatto. Meritano, infine, qualche cenno gli scritti di due illustri non-militari, il deputato Ruggero Bonghi e il prof. Pasquale Villari. 76 Oltre che sull'incompatibilità di carattere e sulle colpe del La Marmora e del Cialdini, il Bonghi fa assennate considerazioni sul problema del Comando (anzi è tra i pochi se non l'unico - a ridurlo ai suoi veri termini). Massimo errore del La Marmora - egli osserva - è stato quello di non aver compreso, che quanto

" "Nuova Antologia" Voi. Ill - 1866, Fase. XIl pp. 752-822. 1 '· Cfr. F. De Luigi, Dopo la campagna: studio politico militare, Milano, Sonzogno 1867. 1 • · R. Bonghi, L'alleanza prussiana e l'acquisto della Venezia - la guerra, "Nuova Antologia" Voi. X - Fase. IV aprile 1869, pp. 665 - 715, e P. Villari, Di chi è la colpa? Ossia la pace e la guerra, "Il Politecnico" Serie IV - Voi. TI Fase. m settembre 1866, pp. 257-288.


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meno esisteva tra lui e Cialdini la fiducia reciproca, tanto più era necessaria "un'organizzazione rigorosa e severa" dell'Alto Comando, che invece è mancata sia nei rapporti del La Marmora con il re, sia nei rapporti tra lui e il Cialdini. Nella fattispecie, la quistione non era se chi il re avesse chiamato accanto a sé, avesse avuto nome di Genera! maggiore, come fu proposto a principio [dal La Marmora] e ricusato [dal re], o di Capo di Stato Maggiore. Ciò che importava è che, comunque egli si chiamasse, vi fosse questa certezza, che il re si consultasse con lui, gli ordini non passassero se non per mezzo di lui, e nessuno avesse arbitrio di fare altrimenti di quello che gli ordini suoi, accordati col principe e dati a nome di questo, prescrivessero. Non solo questo vincolo non doveva mancare, ma neppure il sospetto potea esser lecito che mancasse. A parer nostro, era effettivamente quest'ultima l'esigenza essenziale, che poteva essere soddisfatta senza troppe difficoltà nella pratica quotidiana così com'è avvenuto in Prussia, pur conservando al re le prerogative formali riservategli dallo Statuto. E il Bonghi fa bene a ricordare anche i negativi riflessi che sulla condotta politica della guerra - carente almeno quanto quella militare - ha avuto il mutamento di governo proprio alla vigilia, quando il La Marmara ha lasciato la Presidenza del Consiglio: è estremamente dannoso, egli osserva, che ·proprio in queste circostanze "lo Stato passi dalle mani di chi ha creato una situazione politica, in quelle di chi v'è rimasto estraneo affatto". Il prof. Pasquale Villari sostiene una tesi almeno in qualche parte affine a quella dell'Ulloa. La colpa, a suo giudizio, non è solo di due o tre uomini, e nemmeno del "piemontesismo", di coloro che hanno governato l'Italia fino al 1866. La causa della sconfitta va ricercata nell'arretratezza generale del Paese, perché nella guerra si misurano tutte quante le forze delle nazioni: "la nazione che vince non è quella che ha solamente più eroismo, abnegazione e entusiasmo; ma è la nazione più civile [... ]. La civiltà è un complesso di forze, che formano un organismo vivente, e dove una di queste forze manca, tutte le altre ne risentono. Non è possibile supporre, che la nazione più debole nella pace, riesca nella guerra più forte". Abbiamo, perciò, raccolto nella guerra ciò che abbiamo seminato in pace. Siamo rimasti stupiti paragonando le splendide vittorie prussiane "ai nostri miserabili insuccessi": ma non potrà essere altrimenti, fino a quando la nostra società, la nostra scuola, la nostra industria e la nostra agricoltura saranno così arretrate. Noi abbiamo reso povero un paese che la natura ha fatto ricco; al contrario la Prussia, con la sua industria e la sua mirabile amministrazione, ha reso ricco un paese povero e ha sostenuto la guerra senza nuovi debiti. E mentre i suoi libri sono ricercati in tutta Europa, i nostri non passano le Alpi. .. Anche la nostra industria militare è arretrata: "dobbiamo chiedere allo straniero rotaie, cannoni, fucili, navi e qualche volta anche i macchinisti delle navi". Il cannone rigato è stato inventato in


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Francia, il cannone Armstrong in Inghilterra, il fucile ad ago in Prussia, le navi corazzate sono nate in America. Questa situazione si riflette inevitabilmente anche sul livello culturale e sull'efficienza dell'Esercito; poich,é la cultura del paese è cosl bassa, le nostre scuole militari non possono trovarvi gli insegnanti e il capitale scientifico di cui abbisognano, perciò non possono raggiungere il livello delle scuole militari francesi e prussiane. Più in generale, quando le ciurme delle navi americane o inglesi sono in riposo, voi trovate i marinai occupati a leggere. I nostri sono costretti a dormire o giocare. Quando i coscritti prussiani si presentano al consiglio di leva, la prima cosa che si esamina è se sanno leggere o scrivere. E quando un municipio presenta più d'un analfabeta, si apre un'inchiesta per esaminare la ragione d'un fatto strano. Noi abbiamo 17 milioni d'analfabeti. Quando in tempo di pace, gli ufficiali francesi o prussiani sono di guarnigione, voi li trovate occupati nel disegno, nelle scienze militari, nella storia, e molte opere celebrate di geografia, di storia, di letteratura escono dalla loro penna [... ]. Questa guerra è stata un gran trionfo per la scienza, perché ha provato che la nazione più dotta, riesce la prima anche sul campo di battaglia. In questo quadro desolante, a parere de] Villari il nostro Esercito rimane certamente l'Istituzione meglio amministrata e ordinata e più ricca di valori spirituali; ma può solo migliorar~ quanto trova nella nazione, non certo creare le forze che mancano alla nazione stessa. È vero che la distanza che separa il nostro Esercito dai primi d'Europa è infinitamente minore di quella che separa la nazione Italiana da quelle più civili, ma ormai "esso è giunto a un punto, che a volerlo migliorare ancora, bisogna che il paese pensi sul serio a migliorare sé stesso. E il Ministro della guerra dovrà essere il primo ad esigere, che la nazione tutta quanta progredisca". Il Risorgimento, conclude il ViJlari, ci ha dato due grandi uomini: Cavour, che ha rappresentato il genio politico, e Garibaldi, che ha rappresentato quell' entusiasmo e quel valore popolare che non è mai mancato ali' Italia. Ma la guerra del 1866 ha dimostrato che queste due grandi qualità non bastano; a noi sono appunto mancati gli uomini che supplissero alle qualità che mancavano nel Paese. Sarebbe stata necessaria una vittoria difficile dopo una guerra lunga: in questo caso sarebbero emersi uomini nuovi, si sarebbe formato il carattere della nazione e l'Esercito avrebbe acquistato maggiore esperienza e solidità. Perciò se un popolo cosl intelligente e volonteroso come quello Italiano è caduto in tanti errori ed è rimasto così arretrato, ciò dipende dal modo distorto con il quale si è formata l'Italia, nata soprattutto grazie a fortunate contingenze e all'aiuto straniero. Se vi fosse stata - egli conclude - una vera e propria rivoluzione nazionale condotta con le sole nostre forze e con una lotta lunga e sanguinosa, sarebbe scomparsa una generazione e ne sarebbe sorta un'altra, nuova, agguerrita e capace di governare il Paese. Non è stato così: "i


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governi passati crollarono, quasi senza essere toccati [... ] e la lotta contro l'Austria fu vinta coll'aiuto de11a Francia". Ci siamo trovati liberi e uniti, dopo lotte di poco conto; così "l'Italia nuova si trovò formata degli elementi stessi, di cui era composta l'Italia vecchia, solo disposti in ordine e proporzione diversa. In quel momento bisognava cominciare a riordinare e ricostruire; l'entusiasmo, l'abnegazione e l'eroismo non bastavano più; cessarono i prodigi e cominciarono gli errori".

Polemiche postume e giudizio conclusivo: di chi la colpa? L'esame della letteratura coeva dal 1866 al 1870 è più che sufficiente per chiarire le cause e le responsabilità di una sconfitta che ba segnato la nostra storia e la nostra storia militare fino a oggi, soprattutto per i suoi riflessi morali e in termini di credibilità politica e militare dell'Italia. Come scrive il generale Pio Calza, la ritirata di 200 mila uomini, quasi intatti, di fronte a un'armata di 80 mila che non inseguiva, aggravata dalla sconfitta di Lissa - ove pure noi fummo sorpresi - distrusse completamente l'ottima reputazione che le armi Italiane si erano acquistate nelle guerre precedenti, e tolse ali ' Italia ogni prestigio ed ogni autorità. L'Austria, che ostentò sempre una grande disistima per le armi Italiane, dopo la guerra del 1866 si vantò di potere in ogni evenienza fronteggiare con successo un esercito italiano di forza più che doppia. Tale vanteria trovò credito in tutta l'Europa e specialmente in Germania.n

Il libro del generale Calza che contiene questo giudizio è del 1924 e s'intitola Nuoya luce sugli eventi militari del 1866, ma più che gettare nuova luce, riesamina in chiave attualizzante gli eventi, con deduzioni condivisibili come quella che la mancata organizzazione di un efficiente servizio informazioni da parte del nostro Comando ha avuto riflessi di grande portata e si è ripetuta anche nella prima guerra mondiale. Il fatto che a così grande distanza di tempo si rimeditino quegli eventi è di per sé significativo; in proposito, va ricordato il revival della polemica sulla responsabilità di Custoza nel primo decennio del nostro secolo, con quattro articoli sulla "Nuova Antologia"18 che fanno da contorno al ben noto Complemento sulla guerra del 1866 dell'Ufficio Storico (1909) e al citato libro del 1903

-n P. Calza, Niwva luce sugli eventi militari del 1866, Bologna, Zaniehelli 1924. " Cfr. Geo. L. Dal Verme, Il generale Govone a Custoza, "Nuova Antologia" Voi. CLXXXI Fase. 722 - 16 gennaio 1902, pp. 276-309; Anonimo, Ancora un po ' più di luce sugli eventi politici e militari dell'anno 1866, "Nuova Antologia" Vol. XCIX Fase. 729 - 1 maggio 1902, pp. 119-129; Geo. B. Orero, Dopo Custoza, " Nuova Antologia" Vol. CCXXVIII Fase. 911 - 1 dicembre 1909, pp. 401 - 420; Col. A. Cavaleioechi, Dopo Custoza, " Nuova Antologia" Voi. CXLV Fase. 913 - 1 gennaio 1910, pp. 150 158.


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del generale Alberto Pollio, Capo di Stato Maggiore dell'Esercito dal 1908 al 1914. Interessanti, inoltre, le considerazioni fortemente critiche del generale Luigi Cadoma (anti-Cialdini più ancor che anti-La Marmora) nel suo citato libro il generale Raffaele Cadorna nel Risorgimento Italiano19 : considerazioni non certo estranee alle sue scelte e alla sua azione di comando nella prima guerra mondiale. I predetti studi sono concordi su un punto: nella critica ali' operato - o meglio al non operato - del generale della Rocca, comandante del m corpo d'armata. Si osserva, giustamente, che gli ordini ricevuti dallo stesso della Rocca di "tener fermo a Villafranca" si riferivano a una presenza nemica in forze nella pianura, poi rivelatasi inesistente; quindi il della Rocca avrebbe potuto accertare tempestivamente questo fatto avvalendosi della cavalleria a sua disposizione, rendersi conto che gli ordini erano superati dalla situazione e agire d'iniziativa gettando tutte le sue forze nella battaglia. Sulla Nuova Antologia del 1902 un articolo anonimo pro-La Marmora (forse dovuto al Chiala) dimostra che Vittorio Emanuele II, senza averne la qualità, intendeva esercitare effettivamente ed a ogni costo il comando dell'esercito e vedeva di mal occhio come generale in capo il La Marmora, di personalità troppo spiccata; da questo è nato un deprecabile dualismo del quale, dunque, il primo responsabile è il re. In proposito, il generale Dal Venne nello stesso anno mette in rilievo che il re non aveva, in realtà, al suo seguito il personale e la organizzazione necessaria per esercitare effettivamente il comando, e rivolge forti critiche al La Marmara. Infine, sempre sulla Nuova Antologia va ricordata la polemica del 1909-1910 tra il generale Orero, sosten,itore e antico collaboratore del Cialdini, e il colonnello Cavaciocchi, Capo dell'Ufficio Storico e compilatore del predetto Complemento. L'Orero accusa apertamente il Cavaciocchi di aver cercato di avvalorare "una tesi preconcetta", i cui due punti principali sono: I che diverse sarebbero state le sorti della battaglia di Custoza se il generale La Marmora avesse ascoltato i suggerimenù del re; 2° che la situazione dell'esercito in seguito all'infelice esito della battaglia di Custoza si sarebbe raddrizzata se Cialdini avesse obbedito all' ordine inviatogli dal re di passare immediatamente il Po. O

Il Cavaciocchi precisa che nel Complemento ha sostenuto che solo la ripresa dell'offensiva combinata sia sul Mincio che sul Po avrebbe potuto raddrizzare la situazione e che, comunque, non è vero che il Cialdini, passando il Po, sarebbe andato incontro a sicura disfatta. Sul passaggio del Po, a suo avviso il Cialdini non ha eseguito gli ordini del re né rispettato quanto avrebbe voluto il La Marmora; quest'ultimo, dopo aver sospeso la ritirata 79 ·

Gen. L. Cadoma, Op. cit., pp. 213-268.


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che inizialmente aveva in animo, è tornato a ordinarla non appena ha saputo che il Cialdini non intendeva passare il Po. Va comunque notato che il Complemento non è affatto tenero - come anche il Pollio - con la leadership del La Marmora, e che le tesi anti-Cialdini sono condivise dal generale Luigi Cadoma, pour cause. Infatti il padre Raffaele era comandante di divisione agli ordini dello stesso Cialdini, e nel consiglio di guerra (o meglio rapporto) convocato da quest'ultimo a Bondeno è stato subito da lui interrotto non appena ha incominciato a manifestare la sua contrarietà alla ritirata dal Po. 80 Et de hoc satis: che dire ora, a distanza di tanti anni, di questo accavallarsi di accuse, giustificazioni, deduzioni più o meno fondate, ipotesi, illazioni e tesi frequentemente preconcette, perché "offensive" o "difensive"? In linea generale, va richiamata l'attenzione (e su questo argomento ritorneremo) sul nuovo modo di fare della storia militare, anzi della buona histoire - bataille, inaugurato dall'opera del Pollio e dal Complemento: una storia nella quale il documento d'archivio non è l'unica fonte e si prescinde dall'intento cli voler solo presentare un'arida e neutra esposizione dei fatti, prendendo là ove necessario posizione. In secondo luogo, ci sembra fuor di dubbio che la campagna del 1866 rimane un esempio difficilmente superabile di cattiva preparazione - e cattiva organizzazione e condotta - di una guerra, sia dal punto di vista politico che strategico e organico. Al di là delle responsabilità dei singoli, il germe della sconfitta va quindi individuato in questa cattiva preparazione, che trascura le più elementari norme suggerite dalla saggezza di secoli, e tuttora attuali. Lo ripetiamo ancora: quanto sarebbe servito, nel 1866, all'Italia un Cavour, e anche qualcosa di meno! Riguardo alle responsabilità dei singoli, si deve cominciare dalle responsabilità di Vittorio Emanuele II, che per ovvie ragioni risultano piuttosto sfumate nel mare magnum degli scritti coevi e successivi prima citati, tutti pubblicati quando l'Italia era una monarchia: il re vorrebbe esercitare anche di fatto il comando dell'esercito, ma non si organizza un valido staff e accetta un generale in capo - come il La Marmara - che vuol fare di testa sua; non si oppone al cattivo compromesso tra La Marmara e Cialdini che crea una situazione dell'Alto Comando al limite dell'assurdo e sminuisce lo stesso ruolo della monarchia; lascia fare al La Marmora e poi si intromette quando è troppo tardi, con ordini diretti al Cialdini - o commenti e rimproveri - che aumentano la confusione; accetta, insomma, una situazione del Comando dell'Esercito che prepara la sconfitta senza salvaguardare il vero ruolo della monarchia, contribuendo non ad alleggerire, ma ad aggravare una situazione estremamente difficile, che toccava prima di tutto a lui prevenire a suo tempo. '"· ivi, p. 238.


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Il secondo responsabile è fuor di dubbio il La Marmora, quali che siano i suoi meriti precedenti. Rimane Presidente del Consiglio fino al 18 giugno, quando assume- a nemmeno una settimana da Custoza -il comando dell'esercito. Una linea di condotta che può essere spiegata solo con l'ambizione di tenere il piede in due staffe, parendo evidente anche allora - si pensi a quanto fanno nel campo opposto il Moltke e l'Arciduca Alberto - che il Capo di un esercito in guerra deve conoscerlo a fondo e avere il tempo sufficiente per prepararlo, studiare un piano d'azione, intrecciare rapporti di reciproca fiducia e comprensione con i principali comandanti, farli entrare in sintonia con i propri intendimenti, affiatarsi con lo Stato Maggiore. Come afferma il generale Pollio, "non è ammissibile che si vada ad assumere la direzione di operazioni di guerra vastissime senza una adeguata preparazione, senza conoscere profondamente l'istrumento di cui bisogna valersi, senza almeno un periodo di tempo in cui non si faccia altro che il soldato".8 1 Certo, anche il La Marmora aveva le sue ragioni, le sue attenuanti: ma che dire, in tutti i casi, di un generale che certamente non organizza bene se non altro perché non ne ha il tempo - il suo quartier generale, i collegamenti, le informazioni e la logistica, che lascia i comandanti in sottordine all'oscuro sui suoi intendimenti generali e sugli obiettivi strategici, che non dirama disposizioni chiare e sufficientemente dettagliate in caso d'incontro con il nemico, che non assume un dispositivo che consenta di far rapidamente fronte a imprevisti, e perciò viene sorpreso dal nemico (il quale, peraltro, compie la stessa manovra del 1859: il passaggio rapido sulla riva destra dell'Adige) e che, infine, durante la battaglia perde i contatti con i Comandi dipendenti, senza riuscire a impiegare né la riserva di forze, né quella di fuoco? A maggior ragione certe predisposizioni erano necessarie, visto che i comandanti dipendenti- a suo dire - mancavano d'iniziativa e di capacità decisionale. Sia al La Marmora che al Cialdini va fatto carico di aver concordato una situazione dell'Alto Comando che andava incontro il più possibile alle loro personali aspirazioni e preclusioni, ma creava due masse indipendenti e separate e metteva in condizione il La Marmora di "pregare" o "invitare" il Cialdini, non di dargli - all'occorrenza - direttive e ordini tassativi: e se questo lo poteva o doveva fare, perché non l ' ha fatto, nemmeno nei momenti cruciali in cui era in gioco l'esito della guerra? La suddivisione in due masse non è stata di per sé un errore: errore gravissimo è stato solo quello di non aver creato nessun valido presupposto per un loro impiego coordinato, creandone invece molti per un loro impiego separato. Come ben osserva il Pollio, con l'audacia dei grandi capitani il Cialdini avrebbe potuto (non dovuto) passare il Po, agendo anche da solo contro l'Esercito austriaco. Argomento certamente controverso e discutibile perché non suffragato da precisi dati di fatto, anche se volgendosi dal Mincio verso " A. Pollio, Op. cit., p. 7 ( Ed. 1923).


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Sud e il Po l'Arciduca Alberto avrebbe incontrato a sua volta notevoli difficoltà: ma ciò che non appare controverso, è l'errore compiuto dal Cialdini nel ritirarsi dal Po non al profilarsi cli una precisa minaccia, ma per timori rivelatisi ben presto infondati e senza prendere - come era assolutamente indispensabile - preventivi, rapidi e precisi accordi con il La Marmora sulla linea d'azione da seguire dopo l'infausta giornata di Custoza. Decisione che, oltre tutto, ha effetti morali devastanti completamente trascurati dal Cialdini, e che trasforma definitivamente una sconfitta tattica in pagina oscura della Nazione. Per cli più, la sconfitta non insegna niente: anche dopo Custoza ciascuno dei due generali continua a decidere come vuole, le due masse rimangono separate, si perdono giorni preziosi e anche nella successiva, tardiva e poco agevole offensiva oltre il Po e verso il Veneto e il Friuli, a giudizio dello stesso La Marmora la situazione dell'Alto Comando non migliora, ma peggiora ... Anche qui, dov'è l'azione del re, che pur voleva dirigere, comandare? La guerra del l 866 è stata perduta: nessuna tragedia per il fatto in sé, perché nella storia cli ciascun popolo esistono sconfitte anche gravi; il grave è che essa è stata perduta nel modo peggiore, pregiudicando il nostro prestigio politico e militare e lasciando ferite profonde nel morale, nell'orgoglio e nella coesione dell'Esercito. SEZIONE m

- Cenni sugli ammaestramenti della guerra di secessione americana 1861-1865

In uno studio presentato al XVIII Congresso Internazionale di storia militare (Torino, 30 agosto - 5 settembre 1992) e pubblicato negli atti di quel Congresso82 abbiamo già esaminato gli ammaestramenti della guerra di secessione americana 1861-1865, tratti dai principali scrittori militari Italiani ed europei, anche per la parte navale. Quel lontano conflitto ha diverse peculiarità, ma - checché ne dicano taluni autori di oggi che non hanno studiato abbastanza la letteratura militare coeva - è tutt'altro che ignorato in Europa come in Italia, anzi ad esso si fa frequente riferimento. A tale studio pertanto rimandiamo, limitandoci in questa sede a ricordare che dagli eventi americani si possono trarre le seguenti deduzioni fondamentali: ·

8 ~

F. Botti, La guerra civile 1861-1865 e la guerra ùpano-americana: valutazioni e ammaestramenti nel pensiero militare coevo (in Commissione Internazionale di Storia Militare, Atti del XVIII Congresso Italiano di storia militare, Roma, Uf. Storico Marina Mil. 1993, pp. 473-501). Sul conflitto americano si veda anche il fondamentale R. Luraghi, Storia della guerra civile americana, Torino, Einaudi 1866; Id., L'ideologia della guerra industriale 1861-1865, in "Memorie Storiche Militari" 1980, Roma, SME - Uf. Storico 1981 , pp. 169-190; Id., Cinque lezioni sulla guerra civile americana 1861- 1865, Napoli, Ed. Città Del Sole 1997.


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a) l'importanza della logistica e della produzione industriale, le elevatissime perdite, la frequente comparsa della guerra di trincea, la lunga durata della guerra sono attentamente considerate. Peraltro non sono ritenute archetipi della guerra futura, sia perché anche la guerra americana è stata spesso di movimento, con frequenti spostamenti - per ferrovia o per via acquea - di grandi masse di combattenti su ampi spazi, sia soprattutto perché l'Europa del tempo ha davanti agli occhi le vittorie rapide e decisive, ottenute contemporaneamente (nel 1864, 1866 e 1870-1871) dall'Esercito prussiano, contro eserciti che - come quello austriaco e francese - erano di caratura ben più elevata di quelli americani; b) le predette campagne europee dimostrano che un esercito di cittadini a breve ferma numeroso ma ben addestrato, ben inquadrato e ben comandato e con tutte le risorse della tecnica (compreso telegrafo, ferrovie, fucili a tiro rapido ecc.) può ottenere in tempi brevi, quindi economicamente, quelle vittorie rapide, decisive e napoleoniche (quindi economiche) che i politici non hanno mai cessato di chiedere ai militari fino ai nostri giorni; c) la formazione strategica degli ufficiali americani di carriera delle due parti ha carattere jominiano, quindi non è per nulla superiore, anzi è inferiore, a quella - clausewitziana - degli ufficiali prussiani, che costituisce un modello da seguire anche in Italia; d) le soluzioni americane in materia logistica, di organizzazione del Comando (mancano veri e propri Stati Maggiori sul modello tedesco o francese), ordinamento dell'Esercito, ecc. non sono particolarmente innovative e sono anzi inferiori a quelle europee; e) l'addestramento dei Quadri e delle truppe è assai lontano dagli standard europei e del tutto approssimativo e improvvisato; a questo fatto sono attribuiti (non del tutto a torto) il carattere di guerra di logoramento e il volume delle perdite, molto superiore a quello delle guerre europee; f) ciononostante, dimostrando di non avere preclusioni e prevenzioni il Ministero della guerra italiano invia in America un ufficiale di Stato Maggiore (il colonello Bassecourt) con l'incarico di riferire nella guerra e sulle forze che la combattono; g) per contro, nella guerra americana sono state introdotte in gran numero armi, materiali perfezionati e soluzioni tecnico-scientifiche d'avanguardia, delle quali si apprezza tutto il valore. Su quest'ultimo aspetto basti ricordare quanto scrive il generale Gerolamo Ulloa (è solo uno dei tanti), il quale ricorda che la scienza della guerra è tenuta in grande onore anche negli Stati Uniti, e che il generale Mac Clellan, già dotto capitano d'artiglieria, ha appreso l'arte della guerra viaggiando per l'Europa e assistendo alla guerra di Crimea: ma dirò anche di più: non v'ha esercito che meglio di quello degli Stati Uniti abbia fatto sì felice applicazione delle scienze fisico-chi-


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miche alla guerra. Dove si sono inventati tanti ingegnosi strumenti di guerra, dove si sono, meglio che in America, perfezionate le armi da fuoco? Vediamo ancora nell'ultima guerra degli Stati Uniti esser posti in uso i globi aerostatici, dei quali si erano già serviti gli europei nel secolo 17° e i francesi nella guerra del 1859. Vediamo il corpo degl'ingegneri fotografi che, lavorando di concerto cogli ingegneri topografi, han resi grandi servigi all'esercito; ed il corpo telegrafico mobile destinato a mettere in relazione i corpi distaccati con le successive basi d'operazioni, e le diversi parti della linea di battaglia, dritta, centro e sinistra fra loro-83

Come si è visto alla precedente Sezione II, nel 1866 l' Ulloa propone di introdurre anche nel nostro esercito le soluzioni americane; ma qualche anno dopo la guerra 1870-1871 fornirà ancor più validi modelli organizzativi, ordinativi e logistici(come l' organizzazione militare delle ferrovie, la formazione degli alti gradi dell'Esercito, e soprattutto, l'organizzazione ottimale della mobilitazione di numerose riserve assai meglio addestrate degli improvvisati e pur valorosi ufficiali e soldati americani, che hanno combattuto la guerra di secessione). Per quanto riguarda la Marina, lo scontro del marzo 1862 tra le corazzate fluviali Monitor e Merrimac - che nella communis opinio segna l'inizio dell' era delle grandi navi corazzate - non viene certo sottovalutato, ma se mai sopravvalutato in Italia. La Rivista Militare Italiana dello stesso anno lo definisce "omerico" e lo indica come l'inizio di una vera rivoluzione, nella quale "il dominio dei mari apparterrà allo Stato che per primo avrà saputo provvedersi di alcune di coteste macchine infernali che sono inabbordabili e insommergibili, e da cui tutta un'armata in legno può essere in breve distrutta". La stampa militare e navale del tempo non manca di cogliere, inoltre, l'importanza di taluni aspetti del conflitto poi sottovalutati dalla letteratura "navalista" europea e dello stesso Mahan (come l'efficacia dimostrata dalle mine, l'introduzione dei primi sommergibili e il vasto sviluppo di operazioni costiere o di operazioni combinate Esercito-Marina). A ciò si aggiunga che un grande studioso e grande artigliere italiano coevo, il generale Giovanni Cavalli, si ispira ai monitors americani della guerra di secessione e ai grandi cannoni costruiti in questa guerra per caldeggiare una sua originale soluzione di capitai ship che precorre la dreadnought dei primi anni del secolo e le soluzioni costruttive della Jeune Ecole navale francese. 84 Infine il più grande scrittore navale italiano del secolo XIX, Domenico Bonamico, nei suoi scritti intorno al 1880 a favore della guerra di corsa si richiama all'azione dei blokage runners sudisti (velieri veloci violatori del blocco navale nordista) della guerra di secessione (ritorneremo meglio sull'argomento nel successivo Volume ill). 83 04

· •

G. Ulloa, L'Esercito Italiano e la battaglia di Custoza (Cit.), p. 9. F. Botti, La "nave invulnerabile" e le teorie del generale Cavalli, "Rivista Marittima" luglio 1988, pp. 107-118.


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Sarebbe, quindi, troppo facile e ingiusto accusare gli strateghi e i generali europei di sottovalutazione degli ammaestramenti della guerra di secessione; posto che nessun uomo è mai stato profeta, anche la tesi di fondo dei principali autori, che cioè le fortissime perdite e la lunga durata del conflitto erano dovute soprattutto all'impiego di masse di combattenti improvvisati mal dirette e mal addestrate, non appare del tutto priva di validità. Esaurite in pochi mesi le spinte dinamiche iniziali tendenti a risolverle rapidamente, le due lunghe guerre mondiali del XX secolo hanno in effetti dimostrato che gli eserciti di massa e di padri di famiglia messi in campo dalle due parti, nonostante tutti i ritrovati della tecnica (carri armati, aerei, radio, automezzi, ecc.) posseggono inevitabilmente ridotto e decrescente spirito combattivo, ridotta mobilità operativa e ridotta capacità offensiva: non per nulla la seconda guerra mondiale ha avuto una durata maggiore della prima e si è risolta anch'essa in una guerra industriale e di logoramento, con tendenza a sostituire gli uomini con i mezzi e materiali. Ciò che invece va addebitato ai politici e militari fino alla prima guerra mondiale, è la mancata o inesatta percezione del peso crescente della produzione industriale, che consente alle principali nazioni eurnpee e agli stessi Stati Uniti - già nella guerra di secessione - di armare grandi masse di combattenti con capacità combattiva non troppo differente, masse che tendono sempre più a equiHbrarsi e quindi rendono sempre meno frequenti quelle situazioni di differente potenziale bellico che sole creano le condizioni per vittorie rapide e decisive, per contro preparando la prevalenza non della Nazione militarmente più valida e preparata, ma di queUa finanziariamente e industrialmente più forte. Le guerre industriali costringono ad accantonare Napoleone e Clausewitz: una verità che comincia a emergere nel 1861-1865 negli Stati Uniti, e che viene purtroppo offuscata fino al 1914-1918-dalla guerra franco-prussiana del 1870-1871.

SEZIONE IV - La campagna per la liberazione di Roma del 1870: cenni sulle polemiche tra Cadorna e Ricotti e tra Guerzoni e la ''Rivista Militare>t Nella nostra Storia della logistica dell'Esercito Jtaliano85 abbiamo già accennato alle lacune logistiche e agli inconvenienti amministrativi che mette in luce questa pur breve campagna. Nello stesso anno 1870 il generale Raffaele Cadoma, comandante delle truppe Italiane, pubblica una relazione86 che non appare particolarmente significativa né contiene giudizi o apprezzamenti degni di particolare attenzione, ad eccezione della sua pre-

as. F. Botti, La Logistica dell'Esercito Italiano - Voi. II (1861-1918), Roma, SME - Uf. Storico 1991, pp. 242-254 . ... Cfr. Gen. R. Cadoma, Le operazioni militari del 4° Corpo d'Esercito nelle provincie già pontificie dal 10 al 20 settembre 1870 - Relazione a S.E. il Ministro della Guerra, Firenze, Voghera 1870.


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ferenza per un itinerario diverso da quello impostogli dal Ministro della guerra (fino al 7 settembre il generale Govone; dopo tale data, il generale Ricotti). Nel 1889 compare però un libro del generale Cadorna che riesamina completamente gli eventi e fornisce numerosi documenti inediti;87 con il dichiarato intento di colmare le lacune dell' affrettata relazione precedente, limitata agli aspetti puramente operativi perché "ragioni personaU e politiche del momento consigliarono di lasciare molte cose nell ' ombra", esigenza ormai venuta meno vent'anni dopo. Il Cadorna è fortemente polemico nei riguardi dell' operato del Ministro generale Govone (poi dimessosi, sembra per malattia nervosa, il 7 settembre e deceduto nel 1872) e del suo successore generale Ricotti, che replica alle accuse con un opuscolo pubblicato nello stesso anno 1889.88 La polemica è interessante, perché legata al particolare aspetto strategico e militare che assumono le "operazioni di pace" oggi di moda, nelle quali non si tende alla debellatio del nemico o comunque a impegnarlo in scontri campali aventi lo scopo di diminuire la sua capacità operativa, ma piuttosto a compiere operazioni militari incruente o il meno possibile cruente, quindi dominate dallo scopo politico di facilitare la trattativa esercitando pressioni sull'avversario e tenendo anche conto dell'atteggiamento e delle proposte della diplomazia internazionale. Va da sé che - cosa che il Cadoma non accetta - questo tipo di operazioni limita l'autonomia decisionale del comandante militare, perché anche un episodio tatticamente insignificante può avere grande risonanza politica; inoltre richiede spesso mutamenti anche sensibili e improvvisi nella condotta operativa, perché quest' ultima è legata agli sviluppi della situazione internazionale e della parallela azione diplomatica. A maggior ragione ciò avviene nel caso di una campagna contro il potere temporale della Chiesa e contro la città sede millenaria della sua attività spirituale, campagna che quindi richiede a chi agisce militarmente di tener conto di infiniti vincoli umanitari, di rispetto dei monumenti, di tutela delle numerose comunità religiose e loro sedi, di salvaguardia e rispetto dei palazzi apostolici, ecc., anche per non suscitare reazioni e proteste da parte delle principali potenze. Né si può trascurare la necessità di una politica di moderazione e comprensione nei riguardi dei Quadri e soldati italiani appartenenti all'esercito pontificio, il cui ' 'nocciolo duro" - e più propenso alla resistenza - è rappresentato dai mercenari stranieri. Senza entrare in minuti particolari, il generale Cadoma accusa il Ministero: a) di avergli imposto, allegando ragioni "politiche" peraltro da lui non condivise, una linea d'operazione per l'investimento di Roma (Ponte Felice - Civita Castellana - Roma) che prescindeva dalle ragioni puramente

"· Cfr. Gen. R. Cadoma, La liberazione di Roma nell'anno 1870 ed il Plebiscito, Torino, L. Roux. e C. 1889. " Cfr. Gen. C. Ricotti, Osservazioni al libro di Raffaele Cadorna " La liberaziÒne di Roma nell'anno 1870", Novara, Tip. Miglio 1889.


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militari e strategiche, le quali invece consigliavano di investire la zona meno difesa della città (settore Porta Salaria - Porta Pia) per la via più breve e servita anche da ferrovia, concentrando le truppe a Passo Corese e procedendo rapidamente di fi per la riva sinistra del Tevere verso Monterotondo Roma; b) di aver dimostrato incertezza, inviandogli continui ordini e contrordini, tali da causare ritardi e confusione, con negativi riflessi anche sul morale delle truppe e dei Quadri; c) di essersi ingerito in minuti particolari dell'attività operativa, di competenza del generale in capo; d) di aver impiegato come comandante di divisione il generale Bixio, a lui non gradito per il suo carattere impetuoso e per il suo acceso anticlericalismo; e) di aver dato allo stesso Bixio il comando di una divisione autonoma e di nuova formazione alle dirette dipendenze del Ministro, destinata a investire e occupare Civitavecchia onde impedire l'eventuale afflusso di truppe e armi da Paesi stranieri in soccorso dello Stato Vaticano. A sostegno delle sue tesi sull'autonomia e unità del Comando militare, il Cadorna cita nomi illustri come il Marselli e il Sironi; dal canto suo il Ricotti non nega la validità delle ragioni militari addotte dal Cadoma, ma obietta che "le condizioni politiche in cui trovavasi l'Europa nel settembre del 1870, consigliavano bensì di portare sollecitamente le nostre truppe sotto Roma, ma anche di non procedere all'attacco, se non nel caso di assoluta necessità, e dopo esauriti tutti i mezzi conciliati vi, per ottenere l'occupazione militare della città senza combattimento". Le ragioni politiche che consigliavano la scelta di una diversa linea d'operazione non sono però da lui ben precisate; accenna solo al fatto che procedendo lungo l' itinerario che aveva indicato sarebbe stato possibile occupare parecchie città del Lazio, inducendo così più facilmente il governo del Papa ad arrendersi quando l'Esercito italiano fosse giunto sotto Roma. Inoltre afferma che la linea ferroviaria avrebbe potuto essere interrotta, senza però considerare che, in questo caso, sarebbe stato pur sempre possibile ripararla. Il Cadoma obietta che non è mai saggio basare un piano d'operazione sulla supposta scarsa resistenza del nemico, e che comunque, una volta caduta Roma tutte le rimanenti città del Lazio avrebbero cessato la resistenza; e in quanto alla necessità di prendere tempo per far maturare 1a resa, miglior partito sarebbe stato quello di schierare subito l'Esercito sotto Roma. Inconsistente anche, per il Cadoma, la necessità - sostenuta in un opuscolo anonimo forse ispirato dallo stesso Ricotti89 - di evitare la zona di Passo Corese, perché malarica: proprio per questo, egli osserva, a Passo Corese non intendeva fermarsi, come invece ha dovuto fare seguendo le istruzioni del Ricotti... Quest'ultimo fa notare che ha prescritto una linea d'operazione, non uniti-

89·

Anonimo, Le operazioni militari nell'agro romano nel 1870. Si veda anche la confutazione delle critiche del Ricotti da parte del Cadorna sulla Gazzetta Piemontese dell'8-9 dicembre 1889 (successivamente inserita nell'edizione postuma 1898 della Liberazione di Roma nell'anno 1870 - appendice XIII).


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nerario: e il Cadoma ha causato notevoli ritardi alle operazioni, scegliendo l'itinerario Civita Castellana - Monterosi - Posta della Storta anziché quello Ci vita Castellana - Rignano - Roma (ma. se seguire quest'ultimo itinerario era così importante, perché il Ricotti non l'ha prescritto? si trattava di far passare del tempo, oppure di accelerare l'investimento di Roma?). Le argomentazioni addotte dal Ricotti a difesa delle sue continue ingerenze nella condotta operativa (ingerenze che fanno maledire al Cadoma un'invenzione, come il telegrafo, nata per facilitare l'azione di comando) non ci sembrano, oggi, condivisibili. Prescrive al Cadoma prima di attraversare la frontiera "senza precipitazione", poi di "agire rapidamente", poi di evitare il "benché minimo scacco" anche a prezzo di qualche ritardo nelle operazioni: ma la necessità di evitare piccoli scacchi significa muovere con estrema prudenza, quindi perdere tempo ... Per il Ricotti, però, non si tratta di disposizioni contraddittorie e tali da creare difficoltà: é se mai il Cadoma che ha interpretato male i suoi ordini. E se - egli aggiunge - è intervenuto spesso nella condotta delle operazioni, è perché il Cadoma stava commettendo grossi errori... Si può oggi osservare che, se commetteva tanti errori, allora il comandante doveva essere sostituito, e comunque le valutazioni di un comandante delle truppe sono - per ovvie ragioni - sempre ben di verse da quelle di chi segue gli avvenimenti da lontano. Certamente il Cadorna era troppo ostile al Bixio, e Ricotti ha fatto bene a difendere quest'ultimo: ma la mancata unità di comando non è affatto giustificata dall'affermazione del Ministro che l'occupazione di Civitavecchia e l'investimento di Roma erano obiettivi ben distinti. Erano distinti sì, ma tra loro connessi e inseriti in un ridotto spazio operativo, quindi tali da richiedere un unico comandante di tutte le divisioni. Tant'è vero che, dopo l'occupazione (incruenta) di Civitavecchia, la divisione di Bix.io cessa di dipendere direttamente dal Ministro, passa agli ordini di Cadorna e concorre all'occupazione di Roma... Come già abbiamo osservato trattando la parte logistica, questa guerra pur essendo limitata e condotta contro un nemico che oppone scarsa resistenza, dimostra che poco si è imparato, in fatto di efficienza dell'organizzazione militare, dalle vicende del 1866. È quanto risulta - specie per l'addestramento, la mobilitazione, l'impiego del telegrafo e delle ferrovie - anche dall'articolo di un "laico", l'ex-garibaldino e deputato Giuseppe Guerzoni, al seguito del generale Bixio come giornalista. 90 Il Guerzoni descrive anch'egli la breve campagna, non senza critiche più o meno giustificate agli ordini del Ministro e alle decisioni del Cadoma, alle quali - naturalmente corrispondono lodi persino eccessive al Bix.io. Ma la parte più importante del suo scritto è una serie di giudizi sull'efficienza dimostrata - a prescindere dal riconosciuto valore dei singoli - dall'organizzazione militare,

90 ·

G. Guerzoni, L'ultima spedizione di Roma. Ricordi di un volontario, ''Nuova Antologia" Vol. 15° - fase. Xl novembre 1870, pp. 581-631.


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che si riassumono in una constatazione: "l'esercito nostro era stato posto in tali condizioni che se avesse dovuto combattere contro un serio nemico, sarebbe stato inevitabilmente battuto". Il Guerzoni mette sotto accusa, anzitutto, il sistema di mobilitazione:

1a divisione Bixio fu, può dirsi, improvvisata. Al sei di settembre era decretata, ma non ancora nata; in tre giorni o quattro essa doveva essere pronta a marciare e combattere. E bisognava andare a prendere i reggimenti e il materiale in tutte le zone militari del Regno, e di tanti disparati elementi, ignoti, per non dire eterogenei fra loro, formare quel tutto omogeneo vitale e organico che si chiama una divisione attiva [... ]. A tale fpunto] ci avevano ridotti [...] le sapienti economie degli arbitri della guerra, che, non avendo più ormai che una larva d'esercito, il corpo, il corpo che si muove e combatte, avremmo pur sempre dovuto improvvisarlo di pianta, tanto contro i Prussiani o i Francesi o qualsiasi altro più agguerrito nemico, come contro gli Zampitti [milizie pontificie composte in prevalenza da ex-banditi del contado - N.d.a.J e gli Zuavi [papalini] di La Charrette. Egli lamenta, poi, l'estremo disordine alJa stazione ferroviaria di Orvieto, dove si stava formando la divisione Bixio. E indica come esempi da imitare l'organizzazione del sistema ferroviario prussiano e la militarizzazione delle ferrovie da parte degli Stati unionisti nella guerra di secessione americana, che diedero loro "capi, organizzazione, materiali, facoltà militari" facendone "il principale strumento delle loro vittorie". Da parte nostra, invece, i responsabili della preparazione militare non dovrebbero dimenticare che, anche volendo prescindere dal numero e direzione delle linee ferroviarie,

abbiamo delle linee ferroviarie senza materiali di trasporto sufficiente, senza strumenti e arnesi di caricamento e scaricamento, senza uomini addestrati a maneggiarle, e infine un esercito che non sa montare né discendere un vagone, e che in luogo di servirsi della ferrovia come macchina da guerra, crede poterla adoperare ancora come un veicolo di comodità e di piacere. Per di più, sempre secondo il Guerzoni uomini e cavalli hanno dimostrato di non essere allenati alle lunghe marce e, in genere, alla vita di campagna: questo perché il nostro esercito, infiacchito dalla troppa vita di caserma, "non è che una cattiva copia del francese, e non ha avuto durante il miglior tempo della sua ferma, altra scuola che la coreografia spettacolosa dei campi di Marte e delle parate". Per eliminare questi inconvenienti, a suo avviso bisognerebbe adottare un nuovo sistema che assomiglia in parte a quello prussiano, dividendo le truppe in due parti, l'esercito mobile e l'esercito sedentario o presidiario. L'esercito mobile, riunito in grandi masse, sarebbe il nucleo combattente della nazione e passerebbe la maggior parte


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del suo tempo in campi e manovre; quello sedentario, composto da elementi che hanno già fatto parte dell'esercito mobile, sarebbe organizzato in divisioni provinciali e territoriali, con il compito in pace di provvedere alla sicurezza e in guerra di fungere da riserva. Sulla Rivista Militare dello stesso anno 1870 compare un'aspra replica anonima all'articolo del Guerzoni91 , nella quale significativamente e non senza ragione si contestano le sue critiche ali' operato del Ministero e del generale Cadoma, i suoi errori di terminologia ecc., ma non si accenna nemmeno a quei giudizi di carattere generale, che costituiscono la parte più importante dell'articolo.

Conclusione Gli eventi militari dal 1848 al 1870 - periodo storicamente assai breve - sono generalmente considerati prendendo come elemento centrale l' operato della leadership politico-militare piemontese, al quale si accompagna l'incontro e il frequente scontro con tutto ciò che rappresentano - e ancor più avrebbero potuto o dovuto rappresentare, anche in campo militareMazzini e Garibaldi. Approccio in certa misura inevitabile, che però rischia di essere troppo angusto. L'esame condotto ha infatti dimostrato che alle innumerevoli "histoires evenementielles", avrebbe giovato assai una più attenta valutazione - attraverso lo studio della letteratura militare coeva - di ciò che sta a monte e a valle delle azioni, delle decisioni, degli avvenimenti stessi, che è come dire: l'analisi dei sentimenti, delle passioni, della mentalità, delle idee, dei giudizi e pregiudizi degli uomini, del loro modo di concepire la guerra del tempo e la sua strategia e di imparare dall 'esperienza dei combattimenti. Tutti aspetti, questi, che nessun freddo telegramma o documento d'archivio potrà mai rendere appieno e nessuna ricostruzione critica col senno di poi potrà mai apprezzare nella giusta misura. Le teorie, le strategie politico - militari, le idee sul modo di conseguire l'unità e indipendenza nazionale che emergono nel periodo della Restaurazione - e che abbiamo preso in esame nel precedente Voi. I trovano infatti nelle guerre d'indipendenza il loro primo collaudo e quindi il loro assetto definitivo: solo il combattimento, solo il campo di battaglia, solo l'insuccesso o il successo possono dare la misura esatta de11a validità di una concezione teorica, o di un piano o di una semplice previsione; e solo partendo dall'esperienza della guerra si può costruire o ricostruire un'architettura teorica o un piano non fondato su semplici speranze.

•1. Appunti intorno alla spedizione di Roma, "Rivista Militare Italiana" 1870, Voi. IV Fase.

Xll pp. 387-406.


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Sotto questo profilo, appare chiaro che il fallimento del progetto di guerra nazionale nel 1848-1849 e la sconfitta del 1866 sono dovuti essenzialmente alla défaillance dell'Esercito regolare, e in esso, prima di tutto del Comando. Gli errori tattici e strategici compiuti, le deficienze della preparazione appaiono infatti - in tutta evidenza - come le cause primarie che generano le sconfitte, senza bisogno di ricercarne altre come il preteso "tradimento" di Carlo Alberto nel 1848/1849, come il preteso, deliberato intento italiano di non spingere la guerra a fondo nel 1866, o come - in tutte le guerre - il mancato ricorso a non meglio circoscritte e precisate forze popolari, tralasciando il fatto che le insurrezioni sono troppo spesso mancate, che le stesse forze regolari avevano molteplici lacune e che le formazioni garibaldine erano sostanzialmente un'élite sociale trascinata al combattimento da una personalità eccezionale e unica di Capo. Erano cioè una componente importante, ma non certo la ricetta vincente, la vera alternativa all'esercito regolare (cosa diversa da esercito permanente) e alla sua disciplina, superflua per i volontari solo nella misura in cui, appunto, esisteva un esercito regolare. Ciononostante, va riconosciuto che la guerra piemontese, fino alla campagna per la liberazione di Roma nel 1870, non si è svolta in vacuo ma è stata negativamente influenzata dall'atteggiamento delle grandi potenze. La Confederazione Germanica fa sentire la sua voce per "proteggere" il Trentino e Trieste, giungendo persino a dichiarare che il confine del Mincio è indispensabile per tutelare la sicurezza delle sue frontiere meridionali. La Francia dopo la guerra del 1859 intende esercitare una sorta di tutela nei riguardi del nuovo Regno, intervenendo pesantemente quando lo ritiene necessario per i suoi interessi, mantenendo una guarnigione a Roma e sbarcando nel 1867 un corpo di spedizione per eliminare direttamente la minaccia garibaldina su Roma, con evidente danno per il prestigio interno e internazionale del governo italiano; anche l'Inghilterra e la Russia fanno la loro parte. Considerando la palese inferiorità militare del Piemonte - e poi dell'Italia - rispetto alle grandi potenze e in particolare alla Francia, è difficile stabilire fino a che punto i nostri governi siano stati costretti a fare di necessità virtù, cioé a prendere atto della realtà internazionale al di là dei loro progetti o desideri, e fino a che punto, invece, essi siano stati semplicemente timidi, incerti e eccessivamente riverenti nei riguardi dello straniero, conducendo guerre "regie" e "limitate" con costi morali altissimi, e per questo esecrate da Mazzini, Garibaldi e dai democratici. Una cosa è certa: che quando quest'ultimi condannano - non senza buone ragioni - l'operato dei governi piemontese o italiano, considerano poco o nulla il quadro internazionale, la necessità che l'azione italiana per l'unità nazionale sia compresa e accettata all'estero, la necessità che il nuovo Regno sia presto riconosciuto dalle principali potenze, i cui governi conservatori dopo il 1848-1849 (cioè proprio nel periodo più "caldo" del Risorgimento) vedevano con assai scarsa simpatia insurrezioni, moti popolari, azioni di forza dei volontari.


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Se collegate alle vittoriose campagne prussiane del 1864 e 1866 e alla guerra americana del 1861-1865, le guerre d'indipendenza italiana forniscono anche l'occasione, ai nostri scrittori, di cominciare a fare i conti con una complessa serie di problemi e nuovi ritrovati tecnici, che poi domineranno lo scenario della pubblicistica militare fino alla guerra mondiale e oltre, senza aspettare la guerra 1870-1871 che - possiamo dirlo fin d'ora assume l'aspetto di collaudo, di definitiva messa a punto di spunti, esigenze, nuovi modelli, progetti ordinativi che cominciano ad emergere proprio nel periodo considerato, e in particolar modo dal 1860 al 1870, cioè nel primo decennio di vita del nuovo Regno d'Italia. Le innovazioni non riguardano tanto la teoria strategica (sempre ancorata in vario modo all'irripetibile esempio napoleonico, spesso citato, e alla sua interpretazione jominiana) ma piuttosto il modo di sfruttare i nuovi ritrovati - telegrafo e ferrovie in particolar modo - al servizio della strategia stessa. 92 1n questo senso prevale l'esempio prussiano della guerra del 1866, mentre nel caso italiano si assiste a una prassi strategica non tanto antinapoleonica ma semplicemente cattiva, anche perché - specie dopo Cavour - è cattiva la politica a monte. Ciò che acquista maggiore risonanza è il modello ordinativo e di reclutamento prussiano, al quale - non del tutto a ragione - taluni attribuiscono la vittoria del 1866, mentre ne è solo una delle componenti. Questo modello anche in Francia dà luogo a discussioni; significativo, in proposito, un articolo sull'autorevole Revue des Deux Mondes del generale Changarnier93 , che ne mette in rilievo gli inconvenienti - a cominciare dalla breve ferma e dai richiami annuali - e non crede alla preparazione delle riserve in pace: "con uomini che interrompono ogni anno le loro occupazioni abituali per esercitarsi al maneggio delle armi cioè alla parte meno importante dell'educazione del soldato - si può avere delle truppe di bell'aspetto, ma poco adatte a sopportare fatiche e privazioni, poco affezionate ai loro capi, agitate, inquiete davanti al nemico, truppe che discutono tutte le prospettive della lotta, esagerano volentieri le avversità, sono capaci di uno sforzo generoso ma sono altrettanto soggette al panico...". In Italia invece, come si è visto, già si delineano due schieramenti: uno favorevole al modello prussiano vincente e l'altro a quello francese. Per la verità, lo scarso addestramento e lo scarso spirito combattivo dimostrato dalle riserve piemontesi nel 1848/1849 e taluni cedimenti nella guerra del 1866 spingono più verso il modello francese (seguito dal La Marmora nel preparare lo strumento per la vittoriosa guerra del 1859) che verso il 92 ·

93

Argomento all' ordine del giorno anche in Francia, assai prima della guerra 1870-187 1: si veda, ad esempio, L. Gregari, La guerre, la télégraphie électrique et les Chemins de fer, "Revue des Deux Mondes", Tome LXV - 1 settembre 1866, pp. 212-230. Changamier, Un mot sur le projet de réorganisation militaire,"Revue des deux Mondes," Tome LXVIII - 15 aprile 1867, pp. 87~ - 890.


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modello prussiano. Non giova, per il momento, all'applicazione di quest'ultimo la realistica constatazione - frequente anche dopo la guerra del 1866 - che il modello prussiano va bene solo per la Prussia, cioè per un popolo con alto spirito nazionale e militare e naturalmente disciplinato per un Esercito guidato da una nobiltà che sa dare l'esempio e soprattutto comandato da uno Stato Maggiore senza uguali in Europa, che sa tradurre in realtà il mito clausewitziano della guerra breve e decisiva. Le stesse ragioni che portano a rifiutare il modello prussiano - o almeno a temperarne l'applicazione, - portano a sostenere l'esercito permanente. Esercito permanente e nazione armata, comunque, appaiono tutt'altro che inconciliabili; ciò che invece sulla base degli eventi militari specie dopo il 1859 perde smalto definitivamente, è la prospettiva della guerriglia o guerra di popolo quale alternativa strategica alla guerra classica di eserciti. Diventa sempre più difficile non riconoscere - dopo la nascita del regno d'Italia - che occorre anche in pace un forte esercito regolare almeno in parte già pronto a scendere in campo - e inoltre una forte flotta - per difendere i confini terrestri e gli stessi confini marittimi del nuovo Regno. Come deve essere il nuovo esercito regolare, quali devono essere i suoi regolamenti, il suo addestramento e le sue armi anche sulla base dell'esperienza delle ultime guerre, è dunque il tema centrale del dibattito militare. Un tema tecnico, un problema di cose da fare, il quale ci fa sperare che la nostra rivisitazione di questioni allinenti alle guerre d'indipendenza, argomento già ampiamente trattato, possa tuttavia fornire ancora utili elementi ad integrazione delle storie ufficiali, ufficiose, di parte o "a tesi", nelle quali verità scomode su avvenimenti e personaggi, magari non ignote, non sempre hanno trovato quell'equilibrato risalto che dovrebbero avere in una storia serena, che tenda a inquadrare gli avvenimenti e più che a ricostruirli minutamente, a interpretarli, a individuare ciò che li prepara e in certo senso li rende inevitabili, a definire i loro riflessi. A questo ci è servita anche quella vasta memorialistica coeva, che dovrebbe essere sempre considerata - al di là dei suoi evidenti Urniti - nella storia in generale e nell' histoire bataille, la quale non si fa solo spulciando gli archivi. Tre sono i fattori che attraverso l'esame delle guerre nel periodo considerato si riesce a cogliere più agevolmente: la persistenza di lacune di leadership e di organizzazione del Comando e logistica, perché non bisogna dimenticare che la capacità di impiego coordinato delle forze per raggiungere obiettivi strategicamente ben scelti, carente nel 1848/1849; si è ripetuta in vario modo nel 1859 (anche l'azione su S. Martino, benché alla fine vittoriosa, è risultata caotica e slegata) e nel 1866, senza parlare della campagna del 1870 anch'essa tale da suscitare molteplici interrogativi; la necessità di impostare una nuova disciplina per il soldato - cittadino, per l'Esercito espressione della Nazione intera e non sem-


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plice strumento dinastico, della quale sono in particolar modo testimonianza gli scritti del D' Ayala;94 la mancata percezione dei risvolti strategici della guerra totale e industriale, della quale è esempio ammonitore la guerra americana. Tutte questioni di fondo, queste, che non emergono senza prendere in esame i tentativi di cogliere subito la lezione degli avvenimenti, prima da noi esaminati sia pur in modo sommario .

..... Cfr. M. D 'Ayala, Garibaldi e l'Esercito napoletano, Firenze, Le Monnier 1860.



PARTE QUARTA

ESERCITO PERMANENTE, VOLONTARI O NAZIONE ARMATA? LA RICERCA DEL "MODELLO DI DIFESA" E IL RUOLO DELLA FORTIFICAZIONE NELLA DIFESA DELLO STATO



CAPITOLO X

ESERCITO PERMANENTE, VOLONTARI O NAZIONE ARMATA? Premessa: Radici storiche e significato teorie(! dei termini "nazione armata", "volontari" e "esercito permanente o stanziale". Prima di affrontare l'argomento di questo capitolo giova riepilogare le precedenti considerazioni sparse sulle modalità generali di reclutamento. L'illuminismo aveva stabilito il principio che la difesa e sicurezza dello Stato, quìndi anche la composizione e l'impiego dello strumento militare sono affare di tutti i cittadini: perciò non andavano più lasciati alle cure esclusive del Sovrano, né era ammissibile che il sangue del popolo fosse versato solo per interessi dinastici. Come si è visto nel Voi. I (cap. I), con la condanna degli orrori della guerra gli enciclopedisti francesi avevano tenuto a battesimo il pacifismo, ritenendo ammissibile l'uso dello strumento militare solo a scopi difensivi. La Convenzione aveva addirittura sperato che, con la caduta delle monarchie, sarebbero sparite anche le loro proterve guerre di conquista e si sarebbe aperta per l'umanità un'era di pace e di prosperità, nella quale avrebbero perso la loro ragion d'essere quei costosi eserciti professionali che dissanguavano il contribuente, con l'unico risultato di causare periodiche e rovmose guerre. Gli eventi della Rivoluzione Francese e le guerre napoleoniche fanno ben presto giustizia di questo fardello di utopie. Nella misura in cui diventa democratica e popolare, la guerra diventa ideologica, rompe gli argini, spregia ogni regola comprese quelle umanitarie, tende verso l'assoluto, come ha detto Clausewitz. Essa fa giustizia della scorza di pacifismo della quale gli enciclopedisti avrebbero voluto rivestirla, e da guerra di ridotti eserciti professionali a lunga ferma diventa guerra di masse e guerra nella quale è coinvolto tutto il popolo, al quale si indica un "nemico" da odiare e distruggere, mentre prima un Sovrano intendeva solo imporre a un altro Sovrano la sua volontà su una determinata questione, tenendo al più possibile ai margini della contesa i rispettivi popoli, del cui consenso non c'era bisogno. La Rivoluzione Francese è stata madre del concetto eminentemente democratico di Nazione, che troviamo ben espresso in Mazzini (cap. VI); la guerra prima ancor che rivoluzionaria diventa perciò "nazionale", genera la levée en masse e si contrappone alla guerra "regia". Nelle guerre napoleoniche gli avversari di Napoleone (e in particolare la Germania, la Russia, la Spagna) riescono alla fin fine ad aver ragione delle sue armate solo ricorrendo a misure che in vario modo coinvolgono il consenso popolare e comunque ampliano


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notevolmente la base organica dei àspettivi eserciti. Di più: gli ammaestramenti delle guerre d'indipendenza spagnola (1808-1813) e prima ancora di quella americana (1775-1783) richiamano l'attenzione non solo sulle risorse e sui vantaggi della guerriglia e delle insurrezioni popolari, ma anche sulle grandi possibilità che contro eserciti reclutati e addestrati a lungo nelle forme tradizionali (il cui punto forte è la disciplina), dimostrano formazioni improvvisate di cittadini entusiasti, i minutemen insomma (cioè cittadini americani che in un minuto, all'emergenza, prendevano il fucile e si trasformavano in combattenti, senza bisogno della lunga educazione e istruzione militare ritenuta indispensabile dall' establishment militare di tutti i Paesi, Stati Uniti compresi). In definitiva gli eventi dal 1775 (inizio della guerra d'indipendenza americana) al 1815 (termine delle guerre napoleoniche) dal punto di vista militare segnano la nascita del concetto di nazione armata, emanazione diretta e inevitabile del concetto rivoluzionario di nazione. La nazione armata nasce in contrapposizione a quello di esercito permanente, regolare o dinastico, sia perché nella sua sostanza implica l'accorrere alle armi (tendenzialmente spontaneo) di tutti i cittadini e non solo di quelli assoldati dal sovrano e solo a lui fedeli, sia perché non perde mai un'impronta pacifista e antimilitarista. Pacifista, in quanto lo scopo principale e originario di uno strumento composto da cittadini non può essere che la difesa del territorio nazionale, dei beni di ciascuno, della Patria in pericolo, pro aris et focis, con conseguente rifiuto di guerre coloniali o di aggressione, peraltro rese difficili dallo stesso sistema di reclutamento e addestramento. Antimilitarista, in quanto si presenta come soluzione alternativa alle lunghe ferme e alla pretesa dei sovrani di disporre uno strumento cieco e senz'anima, che si limita ad obbedire ed è pronto:- in quanto nato esclusivamente per la difesa del Trono - a volgere le sue baionette anche contro i concittadini: in tal modo, verrebbero scongiurare sia prevaricazioni militari interne, sia guerre di aggressione e di conquista. Come si è visto nel Vol. I, anche se gli eserciti della Restaurazione dopo il 1815 tendono a tornare il più possibile (con la sola eccezione della Prussia) al modello pre-rivoluzionario, sul fondo della pentola continua a bollire - in attesa di trovare uno sfogo - questa summa di motivi contraddittori, di utopie dagli effetti perversi, di esperienze e ammaestramenti che more solito danno sovente luogo - in un senso o nell'altro - a interpretazioni non sufficientemente equilibrate e di parte, con gli aspetti tecnico-militari troppo sacrificati a esigenze politico-sociali contingenti e/o a semplici ragioni di opportunità, per non dire di opportunismo politico. Nel periodo 1815-1848 si richiamano ai concetti alternativi tipici della "nazione armata" soprattutto pensatori "laici" come il Cattaneo, il Pepe, l' Angeloni ecc., veri pionieri di un modo di organizzare e condurre la guerra, che trova le sue matrici teoriche pur sempre nell'esperienza del periodo 1775-1815 1• Ma gli avvenimenti dal 1848 in poi e la poco edificante prova data

1.

Cfr. Vol. I, cap. VI, X, Xlll.


X - ESERCITO PER.\1ANENTE, VOLONTARI O NAZIONE ARMATA?

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da uno strumento militare tradizionale come quello piemontese (di fronte a un esercito che peraltro è anch'esso tradizionale, come quello austriaco), impongono a tutti - politici moderati e non, agitatori, intellettuali - di fare i conti non solo con l'eredità delle guerre napoleoniche, ma soprattutto con l'esperienza delle recenti guerre. Questo non a fini teoretici o teorici, ma per trovare la soluzione del problema di sempre: come far fronte all'Esercito austriaco? come evitare di subire minacce e ricatti nùlitari da parte delle grandi potenze "continentaliste" europee che vedono il completamento dell'unità nazionale italiana solo in funzione dei loro interessi? Anche i conservatori, i moderati riconoscono che le antiche forme di reclutamento ristretto e selettivo non sono più sufficienti; al di là dell'alternativa teorica guerra classica/guerriglia, il dibattito militare dei periodo 1848-1870 trova perciò uno dei momenti più significativi nel proporre o rifiutare (almeno in parte) il modello della "nazione armata", delle milizie e/o dei volontari. A questo punto, occorre precisare meglio che cosa si intendeva allora per tali termini, e che cosa si intende oggi: infatti con il passare degli anni i loro significati hanno assunto contenuti diversi e tali da poter creare confusione2 • Gli eserciti stanziali (o permanenti, dinastici, "da caserma") sono stati la forma istituzionale militare più diffusa in Europa dal 1815 al 1870. Erano compagini d'élite non dissimili da quelle pre-Rivoluzione Francese, composte quasi esclusivamente da Quadri in servizio permanente provenienti in buona parte dalla nobiltà, e da soldati a lunga ferma volontari o reclutati con leve selettive (per esempio, mediante estrazione a sorte o ancora con forme miste di reclutamento). Mantenevano più o meno lo stesso organico sia in tempo di pace che in tempo di guerra; erano quindi prontamente impiegabili specie all'interno. Per entrare in guerra si completavano con una ridotta aliquota di personale di leva in congedo (come erano le cosiddette "milizie provinciali" piemontesi) e soprattutto, con Comandi operativi di Grande Unità (cioè di unità superiori al reggimento, non costituite in tempo di pace) e organi logistici di campagna (anch'essi non costituiti in tempo di pace). Tra i predetti organi logistici assumevano particolare rilievo il carreggio, le salmerie e i quadrupedi per il traino delle artiglierie; per questo il termine più frequentemente usato al tempo non era l'attuale "mobilitazione" ma la "mobilizzazione", cioè il complesso dei provvedimenti necessari per rendere mobili, quindi capaci di manovrare in guerra, le unità. La forma di reclutamento antitetica all'esercito stanziale era la nazione armata, "consistente, nel caso generale, nel disporre di un semplice ed esiguo numero di Quadri permanenti, incaricato dell'istruzione della classe

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Cfr. Enciclopedia Militare, Voi. III pp. 605-608, Voi. V pp. 148- 155 e 473, pp. 1464-1466; V. Ilari, Storia del servizio militare in Italia (1506-1570) - Vol. I, Roma, CE.MI.SS. 1989, pp. 241-430; P. Pieri, Gue"a e politica (Cit), pp. 184-196.


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annualmente levata, con ferma brevissima (pochissime settimane) e nel curare in sommo grado, con provvedimenti vari, la preparazione pre-militare e quella post-militare, ricorrendo per quest'ultima a frequenti, brevissimi richiami per istruzione". Con questi caratteri, la "nazione armata" è da sempre la forma più impegnativa di reclutamento, perché richiede una diffusione capillare delI'obbligo militare sia in pace che in guerra, e un serio e periodico addestramento, sia pure per brevi periodi, in pace: cose possibili solo con un forte spirito nazionale e un raro civismo e senso di disciplina da parte di tutti (a cominciare dalla classe dirigente che fornisce in guerra la massa dei Quadri, i quali devono mantenersi in pace perfettamente addestrati e moralmente e tecnicamente idonei a svolgere le mansioni richieste dal grado rivestito). I doveri civili e quelli militari coincidono, le esenzioni dal servizio militare sono ridotte al minimo, e le scuole civili oltre a educare il cittadino, formano e preparano il soldato. Una soluzione mista, che in realtà si avvicina o si può avvicinare di più a quella dell'esercito tipo nazione armata, è quella "lancia e scudo": in essa a una ridotta aliquota di forze a lunga ferma o volontarie sempre combat ready fin dal tempo di pace (che rappresentano, appunto, la lancia) si accompagna una più larga base di forze di riserva da mobilitare solo all' emergenza, in tempo di pace addestrate con ferma molto breve e solo istruttiva e con periodici, brevi richiami che per raggiungere lo scopo devono essere molto frequenti. In sintesi, il concetto di esercito permanente presuppone una ferma tendenzialmente lunga e non solo istruttiva, e tende a mantenere una forza consistente anche in tempo di pace; quello di nazione armata è il contrario; anche quello "lancia e scudo" ali' emergenza fa affidamentQ, come la nazione armata, soprattutto sulle riserve, quindi si avvicina di più alla nazione armata, rispetto alla quale l'aliquota a lunga ferma è l'intelaiatura e fornisce gli istruttori. Oggi (come nell'antichità) per volontari si intende coloro che si arruolano spontaneamente nell'esercito regolare oppure coloro che, ultimato il periodo di ferma, rimangono volontariamente nell'esercito regolare per un periodo prefissato. Nel periodo considerato, però, questo termine ha assunto un significato ben diverso e peculiare: indica coloro che, in occasione delle guerre d'indipendenza, per accorrere in aiuto di un altro popolo, per compiere autonomamente imprese aventi lo scopo di abbattere i tiranni italiani o liberare Roma, si sono arruolati volontariamente in unità di costituzione improvvisata, separate dall'esercito regolare, con Quadri anch'essi improvvisati e ordinamenti e disciplina assai laschi, molto diversi da quelli degli eserciti dinastici (come erano quelle agli ordini di Garibaldi e/o che si ispiravano al mazzinianesimo). Al termine della impresa, i volontari erano smobilitati; va da sé che obbedivano solo - e fino a quando lo ritenevano opportuno - a capi carismatici come Garibaldi, che non amavano la vita di caserma e la disciplina in genere, che spesso disertavano per varie ragioni o lasciavano le bandiere per una qualche esigenza per-


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sonale,- e che erano poco idonei a sostenere battaglie campali contro un esercito dinastico saldo come quello austriaco (la battaglia del Volturno contro l'esercito borbonico è stata l'eccezione che conferma la regola). Come già detto, 'il loro inquadramento e addestramento era carente, con Quadri spesso valorosi ma altrettanto spesso poco esperti, e poco preparati; scarsa o nessuna artiglieria; logistica inesistente o carente, sl che l' accantonamento e il ricorso a risorse locali, con relative e sbrigative requisizioni, erano non una scelta ma una necessità, ciò che non conciliava loro ]a simpatia della popolazione delle campagne. Supplivano con il coraggio, l' entusiasmo, la fede nella causa nazionale a tutte le carenze. Ta1uni autori di oggi distinguono tra volontari e guerriglieri che conducono la guerra per bande. Distinzione inutile o poco significativa e a volte tale da ingenerare confusione: il guerrigliero è sempre anch'egli di fatto un volontario, che si limita ad adottare un procedimento di lotta particolare; per contro, il volontario appartenente a corpi speciali (come ha fatto o tentato di fare Garibaldi con le sue formazioni) può passare quando necessario alla guerriglia. Per questo, come meglio si vedrà in seguito, taluni autori del periodo ora considerato chiamano "volontari" anche i guerriglieri. Per milizie si intende unità di fanteria istruite sommariamente e per breve tempo in pace (o sommariamente istruite solo quando, in guerra, erano chiamate -alle armi) spesso composte dalle classi di leva più anziane, che in tempo di guerra venivano chiamate alle armi dal governo per svolgere in prevalenza compiti sussidiari rispetto a quelli dell'esercito permanente, come il presidio delle fortezze, il mantenimento dell'ordine pubblico ecc., consentendo quindi la piena utilizzazione dello stesso esercito permanente - che peraltro non era accresciuto - in compiti operativi. Avevano reclutamento in genere locale; in proposito, fin dai secoli XVII (in Lombardia) e XVill (in Piemonte: Vittorio Amedeo Il) esisteva una tradizione di reclutamento di milizie locali alpine, per difendere con poca spesa e poco dispendio di forze regolari le valli contro invasioni da Nord e da Ovest Un tipo particolare di milizia, infine, era la Guardia Nazionale, che come si è accennato, era una milizia cittadina nata durante la Rivoluzione Francese per difendere le conquiste politiche della rivoluzione contro la monarchia e le truppe mercenarie che le erano rimaste fedeli, e poi diventata nelle successive guerre della Repubblica una sorta di riserva dell'esercito regolare, destinata ad alimentarlo. Costituita in Piemonte ne] 1848, aveva gradi elettivi e il compito di difendere la monarchia e lo Statuto, conservare o ristabilire l'ordine pubblico, "secondare all'uopo l'Esercito nella difesa delle nostre frontiere e coste marittime, assicurare l'integrità e l'indipendenza dei nostri Stati". Ne facevano parte solo coloro che avevano un censo o pagavano un tributo allo Stato: il suo reclutamento era quindi ristretto alla borghesia benestante delle città. Non ha mai dato, in Italia, buona prova. All'atto pratico il modello più puro - e unico nel suo genere - di nazione armata fino ai nostri giorni è rimasto quello svizzero, favorito dalle condizioni geografiche del Paese, dall'assenza di obiettivi territoriali e dallo


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spirito civico e al tempo stesso guerriero degli abitanti; quello più puro di esercito stanziale è rimasto l'Esercito inglese, interamente composto da volontari a lunga ferma. Specie nel periodo 1848-1870, l'Esercito francese ha applicato un modello cosiddetto "da caserma", con tale termine intendendo un esercito di leva tendenzialmente numeroso anche se con parecchie esenzioni, a lunga ferma e con richiami limitati in caso di guerra. L'Esercito prussiano, vittorioso nelle guerre del 1864, 1866 e 1870, grazie all'elevato spirito militare e guerriero di tutto il popolo, alla ferma guida della dinastia regnante, allo spirito di sacrificio e senso del dovere della nobiltà, alla naturale disciplina di tutti, ha dimostrato di saper conciliare nel modo migliore i vantaggi e princip1 della nazione armata con quelli dell'esercito stanziale a lunga ferma. Con una ferma breve, con pochissime esenzioni e solamente addestrativa in tempo di pace alla quale corrispondeva un'estesa mobilitazione in tempo di guerra, grazie a un perfetto meccanismo la Prussia riusciva a mettere in campo in poco tempo uno strumento militare ben inquadrato e addestrato, obbediente a un unico impulso. Non è comunque vero che, come asserito da taluni autori di oggi, il modello prussiano traduce in atto il principio della nazione annata: semplicemente dei "modelli" effettivamente realizzati e collaudati è quello che più vi si avvicina, salvaguardando peraltro i vantaggi dell'esercito permanente o stanziale, riconosciuti - non dimentichiamolo - anche da Pisacane. In estrema sintesi, nelle guerre condotte dalla Prussia non esistevano volontari sul tipo garibaldino, perché non ce n'era bisogno; e gli antagonismi, i divergenti obiettivi politici e compiti, tra esercito regolare di prima linea e milizie erano ridotti al minimo. Nello strumento militare che ha condotto le guerre d'indipendenza italiane contro l'Austria, invece, le differenze e divaricazioni anche politiche e localistiche raggiungevano il livello massimo; per questo da nessuna parte come in Italia il modello di esercito stanziale è stato messo in discussione, anche dallo stesso establishment. Di questo quadro generale occorre tenere ben conto, per comprendere appieno il dibattito che ora esamineremo. Come riferimenti generali di tale dibattito e significativa dimostrazione della reale problematica da affrontare ci basti qui citare due diverse voci della stampa, una all'inizio delle guerre d'indipendenza e l'altra al loro termine. Il 21 aprile 1848 il giornale torinese (liberale moderato). La Concordia scrive che, in Piemonte tutto ciò che appartiene all'organizzazione della milizia comunale, alla provvista delle armi, all'educarsi all' esercizio di una saggia libertà, allo allargare la mente e il cuore all'idea di patria, e di nazionalità, giace nella più miseranda indolenza - Pochissimi sono i villaggi ove siasi già attuata la milizia comunale, ed in molti si confonde con il servizio militare attivo, e si adduce come pretesto a non sopportarne l'obbligo, la già sofferta partenza dei soldati per la guerra[ ...] vanno acquistanto terreno le subdole insinuazioni [... ] che la smania di portare la libertà in casa altrui abbia tratto la miseria in casa propria, che il sangue dei poveri contadini e degli operai sia il


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solo esposto nella guerra, e le loro fatiche le sole domandate nel servizio della milizia comunale [...] per acquistare una libertà e nuove province, di cui altri godranno il frutto ... Se nella guerra 1848-1849 lo spirito pubblico della nazione (indiscutibilmente e per antica tradizione) più militare d'Italia era questo, come si sarebbe potuto ricorrere a un ordinamento tipo nazione armata, o comunque contare sullo spontaneo accorrere della massa dei cittadini alle armi? Ecco una tipica situazione, atta a portare acqua al mulino dell'esercito dinastico con la relativa disciplina... Quasi vent'anni dopo sulla "Rassegna politica" della Nuova Antologia si legge che stanno di fronte i principi dell'esercito professionale (cioè di quello stanziale o dinastico) e di quello nazionale, cioè a ferma più breve "ma data da uffiziali e sotto-uffiziali di professione, e avvalorata dal sentimento degli interessi più nobili del cittadino". Però la storia ricorda come a Federico-Guglielmo m non fosse quasi simpatica quella landwehr che aveva salvato il paese; a tal che, dopo la stessa vittoria di Waterloo, quando [il generale] York gli presentava a Parigi "il bravo esercito di Slesia" in una rivista a cui assisteva in compagnia dell'Imperatore [di Russia] Alessandro, il Re volse le redini del suo cavallo, sussurrando tra i denti: "Che straccioni!". Leggiero e imperdonabile giudizio di un principe, che richiedeva dalle schiere salvatrici, dopo tanti giorni di marce e di battaglie, interrotte da un sol giorno di sosta, l'eleganza di una rivista da parata, quale i tempi di pace potrebbero solo consentire. L'influenza dell'esempio dell'esercito nazionale (che tale è il significato della voce germanica landwehr) si sente oggi dappertutto.3 Nel 1867 (ma anche molto prima) i tempi spingono non solo in Italia verso un esercito nazionale: ma tale esercito trova i suoi più forti nemici - a maggior ragione in Italia - da una parte nello scarso spirito nazionale e nell'intreccio di interessi particolari e di personali esigenze de] grosso popolo, dall'altra nel diffidente conservatorismo e nel formalismo della monarchia e del suo entourage militare. Sono questi gli ostacoli maggiori, con i quali deve misurarsi - per non rimanere solo tale - ogni teoria, anche la più ardita e innovatrice, anche la più inattaccabile· in termini puramente teorici. Per ultimo, occorre tener presente che la nazione armata diventa almeno fuio al 1940 la formula organica preferita da coloro che per ragioni diverse non vogliono eserciti a lunga ferma; al tempo stesso, ricorrono a

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"Nuova Antologia" Anno IV - Fase. l gennaio 1867, p. 202. Nell'Esercito prussiano la landwehr era la riserva periodicamente istruita in pace, costituita dalle classi congedate più giovani e a reclutamento regionale, che in caso di guerra accorreva immediatamente a rafforzare l'esercito; la Larulsturm era invece l'ultima riserva, costituita dalle classi più anziane e dagli esentati dalla leva, che veniva chiamata solo in contingenze eccezionali, quale ultima risorsa della nazione in guerra.


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questo termine coloro che, per ragioni opposte, vogliono una preparazione militare il più possibile estesa e un esercito numeroso anche in pace, sia pure a ferma tendenzialmente breve. Esattamente da un secolo gli scrittori militari rimarcano instancabilmente le controverse e opposte interpretazioni di queste due parole, interpretazioni le quali comunque portano tutte a concludere che, dopo la Rivoluzione Francese e la rivoluzione industriale, la difesa nazionale da una parte diventa inevitabilmente e in misura crescente affare di tutti i cittadini, e dall'altra aumenta i suoi costi sociali e economici. Nel suo libro Le Istituzioni militari odierne e il loro avvenire ( 1895) il tenente colonnello (poi generale) Felice de Chaurand de Saint Eustache già ne indica i molti interfaccia: la nazione armata soddisfa agli ideali dei conservatori, i quali vedono in essa la soluzione del problema di avere un grande esercito con limitata spesa; dei progressisti, i quali vi scorgono un mezzo per aumentare maggiormente la fusione dell'esercito con la nazione; dei radicali, che mirano a realizzare il motto di Carlo Cattaneo tutti militi, nessun soldato, e contrappongono la nazione armata all'attuale nazione accasermata. Nel nuovo sistema che si fa strada, gli oppositori del militarismo intravedono il primo sintomo della tendenza alla soppressione degli eserciti permanenti; i fautori della pace universale e perpetua ed i filantropi ne traggono la speranza della graduale abolizione della guerra tra gli uomini; gli economisti vi fondano la fiducia di poter addivenire presto ad una considerevole riduzione delle spese improduttive per gli Stati; tutti coloro infine che per qualsiasi motivo desiderano la trasformazione del presente stato sociale, credono di trovarvi un minore intoppo alla realizza-zione delle loro teorie e dei loro propositi.'

Oggi la questione della nazione armata viene di solito trattata da un punto vista politico-sociale, sul quale grava una pregiudiziale tipica degli studiosi e storici di matrice marxista: "a un esercito della nazione armata [cioè di massa, arruolato solo al bisogno e composto da cittadini non professionisti, ma anch~ poco addestrati e disciplinati - N.d.a.] la classe dominante preferisce uno strumento militare più piccolo, ma più selezionato e docile"S. In tal modo, la razionalizzazione e professionalizzazione in senso qualitativo delle strutture militari diventa - sic et simpliciter - solo un provvedimento "il cui obiettivo reale è l' a1Jontanamento del proletariato cosciente dall'uso delle armi e dalle forze armate"". Ciononostante Frederich Engels, la cui attenzione per le cose militari è •-

F. De Chaurand De Saint Eustache, Le istituzioni militari odierne e il loro avvenire, ,_ Roma, Voghera 1895, pp. 257-258. F. Engels, La questione militare e la classe operaia, Ed. Maquis 1977, p. 47 (Nota di F. Gaja). 6. ivi (Nota di F. Gaja a p. 50).


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stata rimarcata da parecchi studiosi di oggi, per ragioni politiche rimane favorevole alla coscrizione obbligatoria per tutti, che pure causa inevitabilmente un aumento complessivo della forza armata di uno Stato: tale forma di reclutamento, infatti, "mette gli elettori nelle condizioni di imporre le loro decisioni, armi alla mano, contro tutti i tentativi di colpo di Stato" [cosa niente affatto certa, anzi smentita dalla storia, dove proprio eserciti di leva sono stati sovente protagonisti di colpi di Stato - N.d.a.]. Engels coglie invece nel segno quando afferma che, in linea generale, "non esiste un modo proletario di combattere, ma l'arte militare proletaria è una trasformazione, uno sviluppo su nuove basi dell'arte militare che l'ha preceduta, quella borghese"7• Quest'ultima, pertanto, non viene affatto rinnegata; ed Engels si guarda bene dal non riconoscere i difetti e limiti d'inquadramento della milizia (cioè di uno dei miti della letteratura risorgimentale italiana "laica") in Prussia, cioè in una Nazione dove lo spirito guerriero e nazionale per antica tradizione era ben più sviluppato nel popolo che in Italia. Nella mobilitazione della milizia territoriale prussiana in occasione della guerra italiana del 1859, egli afferma, ci si accorse che ·vi erano ancora numerose deficienze nel materiale [...] la maggior parte dei suoi battaglioni mancavano di Quadri, che dovettero essere formati. Molti ufficiali erano inadatti al servizio campale, ma anche quando la situazione fosse stata differente, restava sempre il fatto che gli ufficiali sarebbero stati necessariamente estranei ai loro uomini; ignoti ai loro uomini soprattutto quanto alla capacità di comando, troppo scarsa, nella maggior parte dei casi, perché i battaglioni potessero marciare con fiducia sotto gli ordini di simili ufficiali contro truppe agguerrite [...] la milizia territoriale si batte bene quando si tratta di difendere il paese, ma essa non può in nessun caso fare guerra offensiva[...]. Una leva costituita da uomini da 26 a 32 anni, per la maggior parte sposati, non può restare inoperosa per mesi al confine, mentre ogni giorno arrivano notizie di miseria delle loro mogli e dei loro figli, quando i sussidi concessi alle famiglie dei richiamati si dimostrano insufficienti sotto tutti i punti di vista ...8. In queste parole di Engels si trova anche la ragione principale dell 'opposizione alla formula della nazione armata da parte dei militari conservatori, imperniata sulla tesi che essa, oltre a non prestarsi ad operazioni al di fuori dei confini nazionali o di ordine pubblico, non consente né un efficace e pronto inquadramento e addestramento né una pronta mobilitazione, quindi espone il Paese a gravi pericoli specie all'inizio dell'ostilità. Naturalmente, l' opposizione alla nazione armata comprende anche quella al volontarismo e ai corpi franchi, che tendono a supplire con l'entusiasmo ali' adde-

'· '·

ivi, p. 96. ivi, pp. 43-46.


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stramento e alla disciplina, devono rinunciare a formare grossi reparti di cavalleria, artiglieria e genio e pretendono di fare solo quelle guerre che condividono pienamente o - addirittura - di abbandonare i ranghi quando per una qualche ragione personale - pratica o morale - lo ritengono giusto e conveniente. Questi dati di fatto, riconosciuti da Engels, valgono quindi a dimostrare che quelli di molti ufficiali di carriera nei riguardi del volon. tarismo e della nazione armata non sono - o non sono in gran parte "pregiudizi", come invece afferma, a torto, qualche scrittore di oggi. Il volontarismo è un rimedio straordinario e momentaneo; gli ordinamenti militari sono tali, in tanto in quanto mirano anzitutto alla stabilità e abbracci;mo il medio o (meglio ancora) il lungo periodo, ricercando inoltre una base certa. Per una miglior comprensione delle tesi dei vari autori, vanno subito chiarite alcune questioni: a) generalmente la nazione armata - anche nel secolo XIX - adotta le strategie e gli ordinamenti della guerra tra eserciti, il che fornisce l'occasione per sottolineare ancora che nemmeno nel secolo XIX la "guerra di popolo" coincide con la guerra partigiana; b) dalla fine del secolo XTX in poi un esercito, anche se basato sul reclutamento tipo nazione armata, richiede crescenti spese per armi e materiali sempre più sofisticati. Se ne deduce che l'argomentazione - chiave dell'economicità della nazione armata perde proporzionalmente valore con lo sviluppo industriale, che rende sempre più alto - in proporzione a quello del personale il costo del materiale, invece ridotto a pochi cannoni, ai fucili e a cavalli e carri mobilitabili nella prima metà del secolo XIX; c) i numerosi riferimenti e elogi al modello svizzero sono scontati, perché in esso manca anche una sia pur ridotta intelaiatura di forze permanenti; ma là ove si ritiene indispensabile tale intelaiatura, ci si avvicina più o meno alla formula "lancia e scudo", cioè a un sia pur ridotto esercito permanente - quindi, di élite - che in pace funge da scuola e al]' atto dell'emergenza fornisce i Quadri e l' ossatura per il grande esercito di milizia sognato dai sostenitori dell'affascinante formula "tutti militi, nessun soldato". Modello classico: la Reichswehr degli anni Venti, madre della Wehrmacht. Non si tratta di un particolare tecnico di poco conto: ad esempio Carlo Pisacane, di recente erroneamente presentato da Giuseppe Conti come "il teorico più conseguente della 'Nazione armata' che potremmo definire di tipo svizzero" ,9 in realtà non lo è affatto. Abbiamo già dimostrato (Cfr. cap. V) che egli piuttosto può essere presentato come un sostenitore della formula "lancia e scudo", visto che ritiene il modello svizzero adatto solo "per una nazione educata libera" quale non è l'Italia del momento, e che fino a quando l'amore per le armi e lo spirito nazionale non saranno ben radicati in un popolo, non si potrà rinunciare a un sia pur ridotto esercito permanente. 0 ·

G. Conli, Art.cii..


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Di quest'ultimi-ricordiamo ancora- il Pisacane è nemico acerrimo: ma soprattutto per il loro costo elevato, per le modalità di reclutamento e addestramento e soprattutto per l'uso interno e antipopolare che ne fanno le monarchie. Per il resto egli - come il Forbes - non ne contesta affatto l'efficienza e la superiorità tecnica e addestrativa, il che segna un altro punto di differenza rispetto a molti altri sostenitori della nazione armata e ne fa sostenitore della nazione armata temperata da esigenze tecniche irrinunciabili, a cominciare dalla disciplina: una disciplina diversa, ma almeno di fronte al nemico assoluta, e sempre basata sulle sanzioni. Egli infine è - insieme con il Pepe - tra i pochi a tentare di tradurre il principio in un progetto tecnico compiuto. Per altro verso, coloro che in Italia dopo il 1848 ricercano la miglior formula di reclutamento e ordinamento dell'esercito. non possono non rifarsi a tre elementi di base: l'esperienza delle guerre 1848/1849 e 1859/ 1861 e la specifica situazione italiana; i modelli stranieri, con particolare riguardo a quello svizzero e - fin da allora - a quello prussiano; la carenza di risorse finanziarie a fronte della necessità di mobilitare pronLamente un esercito in grado di far fronte a quello austriaco, quindi numericamente forte. Sotto quest'ultimo aspetto il modello svizzero è quello ideale, anzi fin troppo ideale e fin troppo semplice, perché consentirebbe, appunto, di mobilitare il massimo numero di soldati con il minimo dispendio di risorse finanziarie; il tutto senza infliggere al cittadino il gravame e la dura disciplina di una lunga ferma. Tuttavia, man mano che dai principi e criteri generali si scende alla pratica applicazione in Italia, tutti, più o meno, tra le righe, ammettono la necessità di una struttura permanente sia pur ridotta al minimo, intorno alla quale si formerebbe, all'emergenza, l'esercito di massa di cittadini. In tal modo il modello svizzero puro - che come tale, non ammette assolutamente strutture permanenti si avvicina a quello prussiano, opposto al sistema francese e basato su una ferma di leva generalizzata che ammette pochissime dispense, però tendenzialmente breve. Tutti e tre questi modelli, comunque, sostanzialmente respingono o relegano a ruoli marginali il "volontarismo" sul modello garibaldino, fenomeno tipicamente italiano che non casualmente abbiamo visto avversato sia dal Pisacane che dal De Cristoforis. Naturalmente, nelle varie soluzioni pratiche - come tali, di compromesso - che vengono delineate. le differenze tra i tre modelli teorici quasi mai sono nette e univoche. Esse hanno tutte, peraltro, un unico movente: come ottenere uno strumento militare nazionale più numeroso e più saldo di quello piemontese, dopo le campagne del 1848/1849 e del 1859-1860. Con l'intervento determinante dell'Esercito francese e con la vittoria del1' esercito volontario di Garibaldi su quello "professionale" borbonico, infatti, la seconda campagna ancor più della prima viene ritenuta indice della crisi del modello ordinativo e di reclutamento tradizionale.


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IL PENSIERO MILlTARE E NAVALE ITALIANO - VOL. li (1848-1870)

SEZIONE I - Tra nazione armata e esercito "lancia e scudo": i nemici della formula classica dell'esercito permanente.

Il modello svizzero "puro" di nazione armata: Allemandi, Macchi, Piermartini, Royer.

Il modello svizzero di nazione armata - o, meglio, un nuovo sistema itaJiano che ad esso molto si avvicina - viene ripreso, sostenuto e diffuso in Italia soprattutto per merito di Carlo Cattaneo, che nel 1860-1861 (cioè dopo la vittoria franco-piemontese sull'Austria e mentre è ancora in corso il processo di unificazione nazionale) apre le pagine del Politecnico a un gruppo di esperti mi1itari e uomini politici, sui quali poi si basa quello che potrebbe essere definito il risvolto militare delJa sua opera politica, economica e filosofica. Il maggior sostenitore del modello svizzero e della possibilità di applicarlo in Italia è stato l'esule mazziniano piemontese Michele Napoleone Allemandi, che, in proposito, era tra i non moJti a poter vantare un' esperienza diretta. Arruolatosi nell'esercito svizzero aveva partecipato alJa guerra del Sunderbund agli ordini del colonnello Dufour, nel 1847 era stato nominato a sua volta colonnello neJl'Esercito federale (equivalente a generale) e nella primavera 1848, con il grado di generaJe, aveva comandato (con scarso successo) i volontari lombardi operanti sulle montagne verso il Tirolo (come si è visto, ai suoi ordini erano stati il De Cristoforis e per brevissimo tempo anche il Pisacane, assai critici nei confronti deUa sua condotta delle operazioni e delle sue doti di comandante). Nell'opuscolo Il soldato-cittadino. Ossia il sistema militare svizzero applicabile al popolo italiano, 10 l' Allemandi riunisce tutti i temi salienti dei sostenitori della nazione armata, anche se dice ben poco di nuovo rispetto al Filangieri (Vol. I, cap. VI) e come quest'ultimo idealizza sia il modello svizzero sia la figura militare dell'italiano, cercando di dimostrare ciò che invece il Pisacane (e molti avversari della nazione armata) escludono, che cioè il modello svizzero può essere adottato anche in Italia. L' Allemandi non si preoccupa, come il Pisacane, di individuare i presupposti sociali necessari affinché gli italiani dimenticando secoli di avversione per le armi si sottopongano volentieri agli esercizi militari, accettino la disciplina militare e accorrano con entusiasmo sotto le bandiere in caso di guerra, ma si limita a considerarne le loro qualità di base, affermando senz'altro che l'italiano "per la tempra vivace, per lo squisito buon senso, per la fisica resistenza e per la particolar sua sobrietà, se non avanza, pareggia certo il

,o.

Genova, Dagnino 1850.


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soldato di qualsiasi nazione guerriera" 11 • Per il resto, si trovano nei suoi scritti i consueti attacchi all'esercito permanente a lunga ferma (pericoloso per la libertà, "divoratore assurdo" di risorse) e l'esaltazione del modello svizzero, nel quale l'obbligo militare è esteso a tutti i cittadini che provvedono a loro spese anche all'armamento individuale e al vestiario, l'educazione militare e patriottica della gioventù comincia fin dalla più tenera età nelle scuole e si estende alle università, l'istruzione militare è breve e continua (tre settimane all'anno, che salgono a quattro-sei per le Armi speciali a cavallo), perché tutto ruota intorno al principio "nessuna armata permanente, e ogni cittadino soldato". La descrizione delle virtù militari dei volontari lombardi, del loro spirito ed entusiasmo, è idilliaca. Attribuisce i suoi insuccessi solo "alla dabbenaggine dei governanti lombardi e alle tristi.zie di alcuni"; ciò non gli impedisce però di ammettere - come sottolinea anche il La Masa - che l'insufficiente armamento e addestramento e la scarsa disciplina non avrebbero consentito alle truppe volontarie di sostenere operazioni belliche prolungate contro un esercito regolare. Né si chiede fino a che punto alla massa degli italiani di quel tempo si addice quanto scrive dello svizzero, il quale "sin da bambino incomincia col trastullo la .militare carriera [... ] non è quindi periodo della sua vita che non sia vita militare; gli mancherà il necessario alla casa, ma non gli mancherà il fucile o l'amata carnbina 12'' . Eppure, come ricorda il Rota, aveva lamentato l'assenza nelle file dei volontari ai suoi ordini di campagnoli che non si erano voluti arruolare, e, deluso daJl' esperienza al comando di volontari, aveva espresso il desiderio di non comandare più taii truppen. Nel succe ssivo Progetto di legge per l'organizzazione militare - cittadina della Repubblica Romana 14 (libro finora ignorato ma importante perché applica il modello teorico svizzero alla concreta situazione italiana) l' Allemandi si dimostra comunque assai più realista, fino a accantonare di fatto il principio "tutti militi nessun soldato" e a contraddire taluni basilari presupposti - se non della nazione armata - del modello svizzero. Se ne rendono conto anche gli editori, premettendo che il progetto "è tratto in parte dalla organizzazione militare repubblicana della Svizzera, perfezionata in quelle disposizioni, che parvero difettose al nostro autore, e principalmente in ciò che riguarda l'istruzione delle truppe e le nomine degl'uf:fiziali di ogni grado e d' ogni Arma". In effetti egli prevede una buona intelaiatura di Quadri, di impiegati amministrativi e di istruttori in servizio permanente, mentre il servizio

"· ivi, p. 16. L' Allemandi ha ragione: ma dimentica che l'italiano per combattere, deve assolutamente credere alle ragioni della guerra.... 12

·

13 ·

ivi, p. 9. E. Rota, Del contributo dei Lombardi alla guerra del 1848: il problema del volontarismo, "Nuova Rivista Storica" Anno XII, gen.-feb. 1928, pp. 9-1O.

1 •

Losanna, Ed. Unione 1851.


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militare vero e proprio non è affatto generalizzato: !"'armata attiva" (cioè la parte più giovane e operativa dell'esercito da richiamare periodicamente per istruzione) è essenzialmente una formazione d'élite, perché composta dalla quota fissa di tre uomini ogni cento abitanti (Art. 17). All'obbligo del servizio militare si soddisfa, oltre che facendo il soldato, con un impiego nel1' amministrazione militare, oppure, se esentati, pagando una tassa (Art. 11). Le esenzioni sono fissate per legge, così come i requisiti per l'ammissione al servizio militare (Art. 12 e 13). Nessuna indicazione precisa sulla durata delle ferme e richiami; però il Ministero può prolungare la ferma degli ufficiali, mentre l'istruzione dei soldati delle Armi speciali (cavalleria, genio e carabinieri) viene fissata con apposito regolamento. Sia pure senza approfondimenti tecnici, la necessità di richiamarsi al sistema militare svizzero viene sostenuta a fine 1859 - in sede diversa e più "allineata" e "governativa" di quella del Politecnico - anche da Giovanni Piermartini, per il quale bisogna risvegliare lo spirito militare infiacchito degli italiani con l'educazione militare: neHa previsione d'una lotta più o meno prossima con una potenza formidabile, tutti i pensieri devono essere rivolti alla milizia. Né Dante, né Macchiavelli, né Michelangelo, né Galileo, né Volta colle opere mirabili dell'ingegno fecero rispettare l'Italia. La faranno rispettare gli eserciti[ ...]. L'educazione di tutte le classi degli Italiani dovrebbe essere essenzialmente militare. Né si creda che per questo n' avrebbero pregiudizio le belle arti, le scienze [... ]. Poiché la guerra che richiede nel semplice soldato il valore, la disciplina e l'obbedienza, richiede altresl negli officiali e nei gradi superiori della milizia le più varie cognizioni e specialmente queHa della storia; e una completa educazione degli ufficiali sarebbe certo il miglior modo per apprendere a conciliare le necessità della disciplina colla dignità dell'uomo [...]. La guerra richiede come ausiliaria tutte le scienze [ ... ]. Generalizzando l'educazione militare, quelli che volessero seguire le professioni civili potrebbero separarsi da essa per entrare nelle università, e cosi gl'istituti militari sostituirebbero i ginnasii. Del resto, questa educazione diretta ad agguerrirci non è solo destinata f1. trovar posto nei pubblici istituti, ma può aver luogo praticamente anche nella Guardia Nazionale [... ]. La Svizzera e il Tirolo potrebbero in ciò essere utilmente imitati 15 • Non basta che gli italiani acquistino l'abitudine alle armi: fino a quando l'Italia non sarà completamente libera e non avrà raggiunto i suoi confini naturali, il governo nazionale "deve ampliare o creare tutte 1e industrie che si riferiscono alla guerra, arsenali, fabbriche d'armi e di munizioni, costruzioni navali; e se per porre il paese in stato imponente di difesa è necessario imporre dei sacrifici a tutte le classi, gli è d'uopo aver fiducia nel patriot15 -

G. Piermartini, Del nuovo Regno d'Italia, «Nuova Antologia» Vol. 19° - ottJdic. 1859, pp. 46-42.


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Lismo degli italiani" (è uno dei pochi accenni del periodo a questo argomento, pur così strettamente legato, anche allora, alla formula di un esercito di massa). Indirettamente il Pierrnartini tocca due dei risvolti pratici più gravosi e, al tempo stesso, più ignorati e meno facili da accettare specie per gli italiani - del modello svizzero; non cosl fa Mauro Macchi, collaboratore del Cattaneo e del Politecnico, che è attento soprattutto ai risvolti politici e interni della nazione armata e del modello svizzero, da lui collegati a una visione utopistica e antimilitarista del problema della guerra e della pace e alla necessità politica di privare i monarchi del loro puntello più valido. In tal modo, le sue idee su parecchi punti divergono notevolmente da quelle dell' Allemandi, del Pisacane e di altri sostenitori della nazione armata, e accentuano il carattere vago e incerto delle modalità tecniche per tradurla in atto. Prima ancor che un nuovo e più efficiente modello militare, al Macchi sembra interessare la distruzione di quello che esiste; più che la guerra d'indipendenza vuole la pace, in tal modo confondendo volere con potere e sostituendo la speranza a un progetto preciso. Ciononostante, commentando la nuova legge sul pubblico insegnamento indica come "dovere supremo" dello Stato proprio quell'educazione militare della gioventù che le sue utopiche speranze per il futuro renderebbero superflua: perché una nazione riesca a conquistare l'indipendenza e conservare la libertà, l'opera delli eserciti assoldati [che dunque sono necessari ! - N.d.a.] non è sufficiente, non è propizia: bisogna che vi contribuiscano le armi popolari, come in America, in Francia, in lspagna, in Grecia, in Olanda. E se il governo piemontese avesse profittato della lunga tregua che s'interpose fra il 1849 e il 1859 per educare militarmente tutta la novella generazione, non ci sarebbe toccato di vedere nel giorno della pugna [cioè nella guerra del 1859 - N.d.a] un esercito ausiliario più numeroso del nostro [quello francese - N.d.a.] mentre si combatteva in casa nostra, e per la vita o la morte della nostra patria. 16 Nella sua opera più importante, Studi politici 11 , pur sostenendo la nazione armata da una parte riprende senza originalità argomentazioni già note e ~all' altra si allontana notevolmente da Cattaneo su parecchi argomenti. E per uno Stato tendenzialmente unitario e non federale; non ritiene la guerra nazionale inevitabile e necessaria ma è un "gradualista", e pensa che il tempo lavora per la causa dei popoli, mentre la guerra giova soprattutto ai prìncipi e agli Imperatori, che con la necessità di unire tutti i sudditi per la difesa Patria comune, riescono a rimandare i problemi e <:1- gabbare i

•• "Il Politecnico" 1860, Vol. IX, pp. 365-368. "- Genova, Delle Piane 1854, pp. 72-119.


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popoli. Ritiene - diversamente da Mazzini - che le insurrezioni non possono essere organizzate da un'élite e possono riuscire solo se spontanee; non collega lo spirito militare e nazionale con la libertà della quale sarebbe premessa e garanzia, ma pensa che gli eserciti e la guerra "debbono cadere tanto più in discredito, quanto più l'uomo, perfezionandosi, va differendo dalle fiere". I rapporti più frequenti tra gli uomini, gli scambi, il commercio, le ferrovie, il progresso insomma, hanno ormai reso la pace "un'evidente necessità per tutti". Per scongiurare le guerre semplicisticamente propone di negare ai governi i crediti che servono loro solo per mantenere grossi eserciti ... Questa visione pacifista e moderata presuppone un concetto di nazione armata.collegato alla libertà ma non alla rivoluzione sociale; in tal modo nel concetto del Macchi la formula della nazione armata accentua il suo carattere difensivo e al massimo può servire a uno Stato già consolidato per reagire alle altrui aggressioni, come se al momento non ci fosse ancora bisogno di completare l'unità nazionale. Al tempo stesso, gli eserciti permanenti sono per lui (come per Pisacane) da abolire, anche perché l'esperienza storica dimostra che è dannoso e vano blandire i generali, con la speranza di averli come alleati per la causa della libertà. E dimostra anche che sarebbe stolto per un popolo mettersi nelle mani dei generali: "basta vedere come essi stessi si sono dipinti nei loro scritti sulla guerra del 1848-1849, i quali, redatti allo scopo di fare ciascuno la propria apologia, non riescono che ad una perpetua accusa, gettarsi addosso a vicenda, dalli uni alli altri, ...". Cosa rara, la disistima del Macchi - tipica dell' antimilitarismo classico - non si ferma nemmeno davanti a condottieri amati dal popolo e da tutti i patrioti come Garibaldi e l'ungherese Bem, per i quali prende senz'altro per buono ciò che hanno affermato i loro avversari e rivali: "bisogna leggere quanto fu scritto del primo dal colonnello Pisacane e dal generale Roselli, e del secondo dal generale Dembinsky, officiali essi pure di molta, e democratica, riputazione, per vedere a quali pigmee proporzioni venne ridotta la gigantesca loro fama". Quale competenza abbia il Macchi per giudicare delle imprese militari di Garibaldi, è un mistero... La formula "tutti militi, soldati nessuno" accentua nella sua visione il sapore miracolistico; mette impropriamente insieme, come modello pratico da seguire, l'fughilterra, gli Stati Uniti e la Svizzera; gli va bene anche il modello dell'esercito lombardo del 1848, del quale dimentica le notorie lacune per dire che quel governo applicando i principì di nazione armata "meritossi i più universali encomi", non si sa da chi. Dei caratteri degli eserciti permanenti il Macchi richiamandosi al Pisacane attacca soprattutto il principio dell'obbedienza passiva, dimenticando di indicare come dovrebbe essere la disciplina per così dire alternativa (che non può sempre essere affidata al consenso, come ha dimostrato la stessa guerra 1848/1849) e dimenticando anche che lo stesso Pisacane e l' Allemandi avevano insistito sulla necessità che essa in guerra fosse assai severa. Da quanto egli afferma, quel problema disciplinare dei volontari e delle truppe improvvisate che


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aveva occupato così larga parte nelle riflessioni del Pisacane, del De Cristoforis o del Forbes e di tutti coloro che lo avevano vissuto, non ha alcuna rilevanza. Si dichiara contrario, come Pisacane, all'istituzione della guardia nazionale, pur ammettendo che, in mancanza di meglio, è un primo passo verso la libertà. Anche in questo caso la sua ottica è più politica che tecnicornilitare; non considera che essa potrebbe essere almeno un utile sussidio locale per l'esercito operativo, ma ne valuta solo il ruolo politico. In sostanza - egli afferma - questa istituzione dovrebbe servire per la difesa dei diritti costituzionali del popolo contro le possibili prevaricazioni del potere esecutivo, mentre l'esercito permanente avrebbe il compito opposto. Un dualismo che non ha ragione di esistere: se vi è accordo tra il popolo e la corte, allora è inutile sottoporre i cittadini ai gravami della milizia; in caso diverso, contro forze stanziali provviste di artiglierie a poco servirebbero milizie cittadine. Infine traccia un quadro idilliaco del ruolo geopolitico della Francia e dei suoi meriti, a torto presentando questa nazione come vessillifera della libertà: missione della Francia è di interporsi quale mediatrice fra l'Europa settentrionale e quella del mezzodl, per conciliarle insieme in una più vasta famiglia, a nome della fratellanza e della libertà. A tanto officio le soccorre, non solo l'agevolezza della lingua, ma eziandio la posizione geografica[...). Meglio di chicchessia essa può comprendere le aspirazioni dei popoli che la circondano[ ... ). Ecco perché, mentre, in altri paesi, si compiono talvolta le più radicali riforme senza che abbiano alcuna influenza sugli Stati vicini, lo sparo del cannone alle barricate di Parigi, ha violento rimbombo in ambedue gli emisferi... 18 •

Dopo la guerra del 1866, sia pure con l'ormai consueta mancanza di seri approfondimenti tecnici, anche tale Clemenza Royer indica come modelli senz'altro applicabili alla realtà sociopolitica italiana due istituzioni militari di base svizzere: le società dei tiratori e le associazioni degli ufficiali.19 Le prime sono anche un'occasione· di socializzazione e di coesione sociale: "ogni domenica i bei tiratori di ciascun Comune si raccolgono sulla piazza della borgata e ogni anno ciascuna borgata ha il suo tiro particolare. del Comune; ciascun Cantone invita via via nel capoluogo, una volta l'anno almeno, i tiratori di tutto il Cantone, e tutti i Cantoni si danno la posta alla gran festa militare annua... ". La Svizzera ha inoltre le sue associazioni tra ufficiali divise in gruppi gerarchici, tutti collegati nell'unione federale. In tal modo "il suo esercito prende in giusta misura quello spirito di corpo, che gli eserciti stanziali

18 · 19

ivi, pp. 298-299. "Nuova Antologia" 1868 - Voi. VII Fase. III, pp. 576-582.


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respirano più o meno viziato nelle guarnigioni e nelle caserme, e i soldati, non cessando di essere cittadini, non separando gl'interessi loro da quelli delle altre caste sociali, scansano il disgregamento che spesso si è creduto inerente alla natura delle milizie". Insomma, i riferimenti alla Svizzera oscillano sempre tra l'idilliaco e il frammentario; ciò vale anche per quella guerra del Sonderbund, che viene citata e idealizzata da molti - compreso il Pisacane - 20 come esempio del1' alta efficienza militare che può raggiungere la nazione armata. Eppure come ammette anche una fonte non sospetta come Piero Pieri - questa guerra così idealizzata era stata "breve, quasi senza sangue, risolta dal gen. Dufour soprattutto attraverso manovre e azioni intimidatrici: non poteva servire di norma". Quindi essa non dimostrava affatto la superiorità del modello svizzero, superiorità peraltro rimasta - fino a tutto il secolo XX da dimostrare nell'unico modo possibile: cioè con un superiore rendimento m guerra.

Am1i, ferrovie e nazione armata "all'italiana" nel pensiero di Carlo çattaneo Non abbiamo inserito, di proposito, Carlo Cattaneo tra i fautori del modello svizzero prima esaminati: dopo un'approfondita analisi dei suoi scritti, siamo infatti giunti alla conclusione che ciò sarebbe stato riduttivo e non ci avrebbe consentito di mettere in giusta luce taluni interfaccia del suo pensiero tµttora ignorati. Non concordiamo, pertanto, con la recente interpretazione del Conti, che lo presenta sic et simpliciter come fautore della nazione armata ricalcata sulle soluzioni svizzere, cosa vera solo in parte. Se ci si limita solo al problema della nazione armata e alla consueta esaltazione del modello svizzero, si deve constatare che nel suo studio più completo su questo argomento (Questioni del Riorno - l'Italia armata del 1861) 21 egli non fa che riassumere, nellé linee essenziali, quanto negli anni precedenti avevano già scritto gli autori prima citati, peraltro senza approfondire - cosa singolare in un economista - i costi anche sociali, il problema dei materiali, delle artiglierie e della produzione militare, ecc ... e senza chiedersi che cosa in Svizzera si è fatto - o non si è fatto - in questo campo. Occorre invece allargare l'indagine ai caratteri peculiari e unificanti del suo pensiero, quali si rivelano soprattutto sul Politecnico dal 1860 al 1866 da lui diretto, e nell'Archivio Tri ennale delle cose d'Italia

"'· Il problema della Nazione Armata in Carlo Pisacane, "Archivio Storico per le province Napoletane" (Napoli), anno 1955, pp. 375-377. 21 · "Il Politecnico·· 1861, Voi. X pp. 706-719.


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(1850-1854). In questo senso, la p.azione armata non è che l'aspetto più appariscente e meno originale di una vasta opera, nella quale acquistano rilievo - anche ai fini militari - l'impronta positivista del suo pensiero storico, filosofico e politico, il suo interesse per la geografia, la geopolitica e le cose militari, il suo ragionato patriottismo che alcune recenti, superficiali interpretazioni (Montanelli, Bracalini) vorrebbero negare. 22 Liberista convinto in economia, federalista e rispettoso di tutte le libertà e diversità di razze, di lingua, di religione, C. C. si mantiene profondamente lontano dai toni nazionalistici del Gioberti o semplicemente dai toni lirici e appassionati e dal messianesimo del Mazzini e del Pisacane, anche se nel 1860 commemora con commosse e calde parole il valore degli antichi eserciti italiani fino al 1815. 23 È vero, comunque, che prima del 1848 il suo orizzonte politico non va al di là della campagna per un ordinamento federale dell'Impero austriaco, tale da assicurare al Lombardo-Veneto l'autonomia e il pieno sviluppo delle sue potenzialità economiche. Ma - come scrive egli stesso nella citata Insurrezione di Milano nel 1848 (Cfr. cap. VIII) - questo atteggiamento politico era dovuto alla realistica - e diremmo quasi positivista - constatazione che dopo il 1815 un'insurrezione popolare in Lombardia non avrebbe avuto successo e avrebbe avuto come unico risultato quello di esporre la popolazione a inutili rappresaglie austriache; perciò, si doveva puntare soprattutto sui germi di dissoluzione che l'lmpero già portava in sè. Di qui l'impegno del Cattaneo per il federalismo, prima del 1848 visto anzitutto come grimaldello "gradualista" per far saltare in modo indolore il dominio militare austriaco24 : (Cfr. cap. Vlll). Evidentemente all'inizio del 1848 le condizioni cambiano, c'è la guerra contro l'Austria e il popolo di Milano insorge: perciò il C.C. si volge, se non al Piemonte, all'Italia. Come scrive il Brunello, prima del 1848 il Cattaneo sperava dall'Austria una riforma federale; perciò non aveva mai caldeggiato le insurrezioni, anzi le aveva sconsigliate. Ma dopo il '48, quando vide che le sue speranze erano andate irrimediabilmente deluse, caldeggiava qualunque guerra da qualunque parte venisse, purché fosse rivolta contro l'Austria. Egli si era finalmente convinto che l'Austria centralista, burocratica, sospettosa di tutte le nazionalità, non avrebbe mai accondisceso a che si formasse una federazione di Stati liberi e uguali.25

Cfr., in merito, l'efficace sintesi di B. Brunello, Il pensiero di Carie Cattaneo, Torino, Gobetti 1925. C. Cattaneo, L'antico Esercito Italiano, "Il Politecnico" 1860, Voi. vm, pp. 72-105. Dopo aver letto questo scritto, come si può accusare Carlo Cattaneo di localismo antinazionale e filo-austriaco? ,.._ C. Cattaneo, Scritti su Milano e la Lombardia, Milano, Bur 1990, pp. 521-522. " D. Brunello, Op. cit., p. 169. 22· 23


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Dal 1848 in poi si batte perciò per l'unità d'Italia, sia pur rispettando come già aveva sostenuto il Durando - le autonomie e le peculiarità regionali, con uno Stato federale sul modello svizzero e/o degli Stati Uniti. È per l'unità, non per la fusione degli Stati italiani in un solo Stato rigidamente unitario, modellato su quegli ordinamenti politico-sociali e militari piemontesi, che giudica antiquati, autoritari e conservatori. Di qui la sua costante avversione al "piemontesismo" e quindi anche alla sua espressione militare; essa viene ancor prima dell'avversione agli eserciti permanenti e stanziali ed è speculare all'avversione per l'Austria. In ambedue i casi vede "il capestro della centralità"; in particolare, l'Austria è diventata "una federazione di satrapi militari, che tengono la mano sui tributi delle province, e lasciano agli arciduchi una banca vuota, un titolo svanito, e la responsabilità di quanto d'atroce si commette in loro nome". La guerra italiana del 1848 ha dimostrato, a sua volta, la inefficienza politica, quindi anche militare del sistema piemontese: se la guerra del 1848 fosse stata veramente federale avrebbe sortito ben diverso effetto: le forze combattenti sarebbero state in gran numero superiori, e non si avrebbe avuta la preminenza del Piemonte, il quale non contribuì che a suscitare invidie e ril?ellioni tra coloro che volevano rimanersi indipendenti dalla sua supremazia. C' è poco da dire, ma è così! La sconfitta fu l'effetto della manìa della fusione, della confusione, che voleva unire ciò che non voleva essere unito. E immaginate voi, se il Piemonte avesse vinto? Non si sarebbe fondata egualmente la libertà! la Francia e la Spagna lo dimostrano, per la forza immane accumulata in mano dei governi [data dagli eserciti permanenti, che dunque sono efficienti - N .d.a.]; al contrario della Svizzera e del!' America, dove ogni singolo popolo tiene ferma in pugno la sua padronanza e la sua libertà. 26 Su questi aspetti, la sua posizione è affine per molti versi a quella del Mazzini: ma dal Mazzini lo dividono, oltre che la questione fondamentale della forma dello Stato (che il cospiratore genovese vuole rigidamente unitario) i mal riusciti tentativi di compromesso di quest' ultimo con la monarchia sabauda, la sua fiducia - sempre smentita dai fatti - in insurrezioni promosse da pochi, i toni assunti dalla sua predicazione, che "parlavano una lingua ardua alle plebi e a molti eziandio che non si stimano plebe", e che "non era popolare", quindi "non penetrava addentro nella carne del popolo, come la coscrizione, e il bastone tedesco, e la legge del bollo, e l'esattore, e il circondario confinante, e le sciabole di settembre e gennaio".27

'6. 27 ·

Cit. in B. Brunello, Op. cit., pp. 170-171. ivi, p. 161.


X - ESERCI10 PERMANENTE, VOLONTARI O NAZIONE ARMXfA?

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Anche il problema militare - del quale quello della nazione armata è una parte, è effetto e non causa - viene da lui affrontato in chiave ita1iana ma anti-piemontese, partendo cioè dalla constatazione che in vista del completamento dell'unità nazionale e con un grande esercito come quello austriaco ancora forte ai suoi confini, l'Italia non può esimersi dal creare a sua volta un grande e potente esercito. Ma quest'ultimo - qui sta il punto non deve essere di troppo peso per le sue malferme finanze; d'altro canto per soddisfare questa esigenza vitale, il modello piemontese non solo nella guerra 1848/1849, ma anche in quella del 1859 ha dimostrato la sua inadeguatezza. L'approccio di C.C. è dui:ique ben diverso da quello del Pisacane e del Forbes, i quali riconoscevano che nel 1848/1849 gli eserciti permanenti avevano finito col prevalere sui volontari e sulle forze popolari, semplicemente perché quest'ultime non avevano saputo raggiungere i livelli di preparazione militare dei Quadri e Comandi, di organizzazione, addestramento, logistica e disciplina tipici degli eserciti permanenti. Quest'ultimi rappresentavano perciò una formula da rivedere sotto certi profili e specie sotto l'aspetto disciplinare e morale, e per la fisionomia del tempo di pace, ma da imitare in molti altri settori tecnico-nùlitari. Dall'esperienza del 1848/1849, invece, C.C. trae (Cfr. anche cap. Vill) una profonda e quasi ingenua fiducia - per la verità non dimostrata dagli eventi successivi - nella capacità di spontanea riscossa popolare contro lo straniero, nel patriottismo italiano e nelle naturali doti militari senz'altro dimostrate dalle popolazioni insorte, doti mal sfruttate solo per colpa del governo piemontese. Membro del consiglio di guerra durante l'insurrezione della Lombardia, fa ogni sforzo per appoggiare concretamente la guerriglia là ove si manifesta e l'azione dei corpi volontari sulle montagne, ma non può dirsi un seguace delle teorie mazziniane e non fa questione di guerra regolare o irregolare. Né egli, in nome dello sfruttamento deJlo spontaneo impeto delle mal armate formazioni popolari, si dimostra fautore dell'efficacia rivoluzionaria del fucile contro il cannone dei reazionari, di un tipo di guerra che prescinda dalle nuove e crescenti possibilità offerte dalla tecnologia militare e dal progresso della metallurgia e dell'industria. Al contrario, da buon positivista, economista politico, cultore della geografia e della geopolitica quale egli è, sul Politecnico dal J 860 in poi dà largo spazio alla rubrica Armi e ferrovie , che con la nazione armata costituisce e riassume il trinomio indissolubile del suo credo militare, strettamente connesso con il credo politico ed economico. Di più: è quanto dice delle armi e soprattutto delle ferrovie ad assumere caratteri di vera originalità e a essere più in armonia con il suo sapere geografico e scientifico. Per tutte queste ragioni noi riteniamo che il pensiero militare di C.C., in tutti i suoi aspetti, risalti soprattutto dall'introduzione al Vol. IX del Politecnico 1860, finora ignorata dagli scrittori militari (e ancor più da quelli politici, assai disattenti agli aspetti militari e geostrategici delle sue opere). Armi e ferrovie, perché? anche se vi è un "immenso dissidio" sul modo e

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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

sulla misura degli armamenti, "non vi è chi non riconosca che fra il nuovo agitarsi delle nazioni, fra la scettica incertezza delle paci e delle alleanze, solo colle armi l'Italia può incutere rispetto e timore".28 Ciò premesso, per C.C. la questione delle ferrovie è seconda per importanza solo a quella dell'armamento, e ha rilievo sia commerciale, che industriale, politico e finanziario. Essa serve anzitutto a congiungere e rivitalizzare "le membra finora disgiunte, e viventi perciò una vita troppo torbida e lenta" dell'Italia, non dell'Italia del momento (1861) senza Roma e il Veneto, ma "dell'Italia vera dalle Alpi al Mar Jonio, dall'Adriatico all'Isonzo, quale in un'avvenire più o meno remoto verrà costituita dai suoi gloriosi destini".29 Dal punto di vista militare esse sono l'altra faccia della preparazione, perché l' Italia, per la sua forma oltremodo allungata, per la sua posizione marittima e la scarsa marina militare, per le grandi isole, per le frontiere protette solo dall'angusta Svizzera e aperte a due possenti imperii, può venire improvvisamente invasa in ogni sua parte. Solo un giudizioso ordinamento di ferrovie può dar modo di radunare sopra un punto qualsiasi le masse armate e atteggiare a difesa le

stesse isole.30 Gli assi ferroviari di maggiore importanza nella penisola sono due. Uno, quasi ultimato, è "la gran linea trasversale, la linea lombardo-veneta, prolungata poi d'ambo i lati fino a Susa e a Trieste"; l'altro "dall'asse della penisola e da' suoi due mari tende direttamente alla gran valle del Reno, e rappresenta il più breve tragitto dall'Istmo di Suez al centro dell'Italia, della Svizzera, della Germania, al Belgio, alla Inghilterra". Siamo costretti a trascurare, per il momento, i molti studi su1le ferrovie e sulla loro triplice importanza, economica, geopolitica e militare di C.C. e dei suoi seguaci, che Il Politecnico ospita dal 1860 in poi; lo facciamo, però, non senza ricordare il suo commento al ruolo delle ferrovie nella guerra del 1859, non sempre ben considerato dagli storici: la breve campagna d'Italia del 1859 mostrò a prova, come già si era da molti predetto, l'influenza decisiva delle strade ferrate in guerra. Un'enorme massa di nemici, dalle rive non solo dell'Adige ma del lontano Danubio, poté in pochi giorni avventarsi nelle più fertili province del Piemonte [... ]. Viceversa, quando l'invasore, giunto fin dove le sue strade ·ferrate potevano slanciarlo, si rallentò, e le forze alleate si furono alla fine raccolte, e tuttavia mal riescivano a sferrar le masse nemiche dal terreno ove s'erano conflitte, si poté solamente per mezzo d'una linea ferrata [... ] operar

"" 29 •

30

C. Cattaneo, L'Italia armata (Cit.), p. 706. "Il Politecnico" 1861, Vol. X pp. 513-514. "Il Politecnico" 1860, Voi. IX pp. 11-12.


X - ESERCITO PERMANENTE, VOLONTARI O NAZIONE ARM>JA?

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quel veloce moto laterale che in un istante trasportò il campo di battaglia sull'opposta riva del Ticino, e sconcertò tutti i disegni e i calcoli d'un nemico tardo d'ingegno e viepiù tardato dalla sua stessa mole. 11

La ferrovia alla quale accenna C.C., da lui caldeggiata fin dal 1842, è la Casale-Vercelli-Novara, che nel 1859 ha consentito alla massa dei franco-piemontesi radunatisi nella zona Alessandria-Casale di spostarsi rapidamente a Nord nella zona di Vercelli, per poi agire sulla direttrice Torino-Novara-Milano. 32 C.C. coglie l'occasione di ribadire ancora una volta l'importanza del binomio Armi - ferrovie, perché nel caso di una nuova guerra, "il nemico non ci rinvenga tanto improvvidamente scarsi di numero, né dispersi per i nostri focolari [... ]. E le armi potranno forse tornare solamente opportune una volta in molti anni. Ma le ferrovie giovano ogni dì dell'anno in guerra e in pace". L'importanza da lui data alle ferrovie e agli armamenti non è certo nuova, ma caratterizza anche i suoi scritti in materia militare nella prima metà del secolo XIX (Vol. I - cap. X), che dunque trovano una conferma sul campo. Così come la sua già manifestata preferenza per l'inscindibile binomio nazione armata-ordinamento federale dello Stato trova una conferma nella politica estera e militare piemontese dal 1848 al 1860, da lui vista come riflesso negativo del centralismo autoritario. Giudica la cessione di Nizza e Savoia alla Francia, approvata dal Parlamento ma da lui fortemente deprecata, come un segno della incapacità di tutelare gli interessi nazionali da parte del regime parlamentare unitario, nel quale il governo può facilmente acquistare con manovre di corridoio una maggioranza. Nel campo strettamente militare, C.C. come già in passato non si addentra molto in particolari tecnici e organici, non fa calcoli di costi e materiali, di vettovagliamento ecc. per la formula del grande esercito scaturito dalla nazione armata, e, pur essendo abituato a guardare al concreto, mostra di fare affidamento oltre il dovuto e il necessario sull'entusiasmo e sul vigore bellico di tutte le popolazioni Italiane, per il solo fatto che dopo la guerra nazionale sarebbero libere e avrebbero un ordinamento federale. Dietro l'ordinamento militare piemontese e le sue defaillances sia nella guerra 1848/1849 che in quella del 1859, C.C. intravede anzitutto le conseguenze della degenerazioné del sistema militare della Rivoluzione Francese nel modello militarista napoleonico. I tribuni della Rivoluzione, che reclutando masse di coscritti speravano d'aver armato la libertà, si accorsero alla fine di aver rafforzato ancor di più il dispositismo. E per quanto riguarda l'Italia ,.. "Il Politecnico" 1860, Vol. VIII pp. 125-126. "- Cfr. anche, in merito, F. Botti, LA logistica dell'Esercito ltaliarw - Vol. I, (Cit.), cap. XII, Xllle XVII.


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non mancarono nei primi anni del secolo cento e più mila soldati d'egregia scola. E su tutti i campi di battaglia, avevano fatto prodigi di valore e di fedeltà. Ma tutto ciò non tolse che in breve si vedesse l'Italia giacer come cadavere sotto i piedi del nemico e di chi venne col nemico. Al nome italiano fu tolta iniquamente ogni gloria, fu tratto in perfido dubbio anche l'onore [... ]. Ebbene, a quel numero incirca di soldati, che le tre sezioni della penisola tributavano all'unità napoleonica, a quegli stessi principj d'armamento, di disciplina e di morale, che ridussero tutto quel teatrale edificio in sì miserabile ruina, sta raccomandato oggidì ogni nostro avvenire [nostra sottolineatura - N.d.a.]. li mode1lo napoleonico consisteva pure in due corpi privilegiati: un esercito stanziale, raccolto per coscrizione forzosa e impopolare, e una ristretta e incomp1eta guardia nazionale. Un'improvida politica istillava il pregiudizio, che a fare il soldato fosse d'uopo disfare il cittadino, e che il troupier dovesse più o meno decentemente disprezzare il bourgeois e il péquin. E alla volta sua que1 borghese, che fosse pervenuto a farsi ascrivere alla guardia nazionale, si lasciava facilmente indurre dal1o spirito di corpo e di privi1egio ad avversare e disprezzare la maggioranza della nazione, dacché la legge le aveva negato quella fiducia nelle armi civiche. I risultati di questo ordinamento si sono visti già nell'ultimo periodo delle guerre napoleoniche, quando Napoleone, pur potendo disporre a suo piacimento di tutte le fume della Francia e dell'Italia, non fu in grado di difendere Parigi, che fu presa e ripresa dallo straniero: per contro, nel 1849 non fu così facile entrare in Brescia, in Genova, Livorno, Roma, Venezia. "Forsechè non v'erano milioni d'uomini nel vasto seno de11a Francia?[... ]. Nulla importa. Un falso sistema di governo e d'armamento li aveva predestinati a soffrir due volte in quindici mesi quell'indelebile affronto. La difesa della Francia era divenuta mestiere del soldato; in meccanica militare era quella una guerra affatto come un'altra [... ]. Quando tutte le genti d ' Europa entrarono armate trionfanti in Parigi, egli è perché la nazione aveva imparato a dire: Lasciamo fare a chi tocca". 33 In Italia, nel 1848, in pochissimo tempo l'insurrezione delle città è riuscita a cacciare gli austriaci, mentre l'Esercito regolare piemontese non era ancora pronto, dando così tempo a Radetzky di concentrare le sue forze. E i popoli si lasciarono convincere che la loro forza che aveva cacciato un nemico superbo, non valeva più nulla contro un nemico ormai rotto e isolato: gli uomini di buon senso furono fin d'allora esorcizzati nel nome della santa concordia a tollerare che si retrocedesse dal colossale armamento della nazione al metodo dei soldati pochi ma buoni;

"

L'Italia armata (Cit.), pp. 7<Y7-709.


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dall'onda spontanea de' volontari, alla coscrizione forzosa [ma non è questo che implica anche la nazione annata? - N.d.a.]; dagli uomini sorti dal pericolo, alle irresolute gerarchie che fanno della difesa della Patria un secreto, e odiano le anni di popolo più che le armi straniere. E così dalle gloriose tattiche e dalle esitanze strategiche si arrivò in poche settimane ai disastri, agli armistizi, ai trattati. 34

Nella campagna del 1849, l'Esercito piemontese diede "un'altr,a più sconsigliata prova del medesimo fallo": ma molte città continuarono a combattere, perché nessuno ebbe l'autorità di ordinare loro di deporre le armi. Non era una novità: la stessa cosa - ricorda e.e. - era già avvenuta in Spagna, dove, "caduto il potere centrale nelle mani dei molli afrancesados, eh' erano i cavouriani di quella penisola, l'idea popolare durò viepiù invelenita e indomita". E anche la Prussia, "la gran maestra d'armi", contro Napoleone era caduta in un giorno, "ma quando anche colà il fatalismo militare e la fedeltà d'anticamera ebbero geometricamente e aritmeticamente disperato d'ogni cosa, la patria fu salvata da vecchi borgomastri, da giovani poeti, dalla lega di virtù". La guerra del 1859, combattuta da un ridotto esercito piemontese che voleva essere di qualità, è un altro esempio di applicazione del falso principio che intende riporre la salvezza della Nazione non nella volontà della Nazione stessa, ma altrove. Infatti, nel 1859 dopo dieci anni d'indugi e un miliardo di spese, quando arrivò l'ora desiderata e invocata, l'esercito stanziale, a fronte dell'immane mole nemica, si trovò così sproporzionato nel numero e così malsicuro nelle posizioni, che nonostante il soccorso di ventimila volontari che si fusero ne' suoi Quadri, ebbe a cominciar la guerra lasciando in preda al nemico tutta la pianura [ ...] e fu condannato ad aspettare immobile che arrivassero per mari e per monti le forze alleate. I cui servigi, grandi certamente, anzi resi necessari, s'ebbero a pagare colla perdita di ottomila miglia di superficie [cioè con Nizza e Savoia - N.d.a.] e ciò che è peggio, con un pegno dato per l'intera Italia.

Siamo nel 1861, l'Italia è appena stata costituita e il nuovo Esercito nazionale è appena nato: eppure C.C. vede nel nuovo organismo ancora una volta ripetuti su scala più vasta i vecchi criteri elitari di reclutamento, insieme con l'espressione dell'egemonia militare piemontese: ciò si poté fare molto agevolmente, fintanto ché si trattò d'infiltrare in una massa compatta qualche centinajo d' officiali, scelti a tutto

34·

ivi.


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agio e a titolo di favore in una folla immensa di rifugiati: i quali poterono educarsi a essere non solo relatori dell'egemonia ma esageratori. Ma dopo l'abbandono di Savoja e Nizza, dopo la repentina aggregazione dell'Italia Meridionale, decretata da Mazzini e eseguita da Garibaldi (specie di Governo di fatto che riparò all'insufficienza del Governo di diritto) l'elemento modello si trova di recente ridotto alla numerica proporzione di uno a sette! Il principio dell'egemonia militare piemontese, "oltre a impedire o respingere l'armamento spontaneo e rallentare lo sviluppo dell'esercito stanziale", ha finito con il ridurre grandemente una parte delle sue stesse forze, trasformando una guerra di liberazione in guerra di conquista, e una guerra di popoli in guerra di soldati. Non basta: ma con una malaccorta politica interna, basata "sulle pretese d'una primogenitura legislativa e amministrativa", ha provocato la ribellione dei meridionali. Infatti si delinea d'infliggere alla nuova Italia leggi e osservanze che non erano nemmeno le migliori dell'Italia vecchia [... ]. In sette mesi. la vanità cavouriana ha fatto tutto il fattibile per condurre un Regno all'anarchia, o a tutto ciò che i popoli possono preferire all'anarchia. Il nuovo potere ha già logorato i più eletti suoi strumenti; ai luogotenenti civili già succedono i viceré militari, i grossi presidi, le colonne mobili, le deportazioni, il falso stato d'assedio, i militari fatti giudici e arbitri della vita e dell'onore dei cittadini, l'abuso della pena di morte che provoca la vendetta e giustifica nella coscienza del popolo il delitto, e infine il quotidiano pericolo d'un conflitto tra i cittadini custodi deJI' ordine e il potere che lo compromette. Queste cose a tutti notissime qui si rammentano solo perché condussero il Governo a impegnare l'esercito in quella parte d'Italia ch'è la più lontana dalla frontiera ch'esso dovrebbe difendere. Garibaldi tenne per due mesi l' immensa Napoli in profonda quiete colla sola guardia nazionale. Con questi effetti e altri dell'ambita supremazia militare e civile, le nuove province, in parte non ancora usate alla coscrizione, torranno per lungo tempo all'esercito combattente assai di più che non potranno dargli. C.C. dirige poi i suoi strali contro "i prosatori della guerra meccanica", e in particolare contro il loro modo di concepire la guardia mobile (cioè l'aliquota mobilitabile della guardia nazionale e la stessa guardia nazionale), istituzioni che sono diventate solo un frammento del sistema militare svizzero. Infatti "la nostra guardia mobile è solo una parte della guardia nazionale, come questa è solo una parte del popolo armabile; eccezione d'eccezione; privilegio di privilegio". Ma anche se quest'ultima inquadrasse tutti coloro che possono essere armati, rimarrebbe sempre un frammento del sistema svizzero, perché diversamente da quest'ultimo il nostro sistema comprende solo la fanteria, mentre in


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Svizzera in caso di pericolo ogni cantone può mobilitare tutti gli elementi di un piccolo esercito, e anche in Inghilterra i volontari chiamati a completare la milizia civica sono tutti o bersaglieri o cannonieri per le difese costiere. Inoltre, la guardia mobile dovrebbe essere addestrata a tutte le operazioni di campagna e non solo al presidio di città e fortezza. In Italia la costituzione immediata, in caso di emergenza, di reparti territoriali pluriarma con reclutamento -regionale è ancor più necessaria che in Svizzera, perché noi abbiamo due grandi isole e una penisola lunga e angusta; non abbiamo città che sia più di sessanta miglia lontana dal nemico o dalla frontiera o dal mare; il mare non è nostro; le ferrovie verrebbero facilmente interrotte. Nessuna nazione ha tanti nemici come la nostra; nessuna, contro la quale si possa, in nome di Dio, invocar l'odio di centocinquanta milioni di viventi [come è stato fatto in Russia contro Napoleone - N.d.a.]. Il nostro esercito, in forza di pertinaci pregiudizi, è limitato. Può qualunque delle vostre province trovarsi da un giorno all'altro vuota di soldati; e perciò additata agli insulti dello straniero e alle insidie della reazione e della servilità. Quando al repentino apparir del nernicu accurrunu d ' ogni parte le guardie nazionali, intendono i nostri moderatori di mettere, per massima, in faccia al cannone più battaglioni di questa fanteria senza cavalli e cannoni? Quindi, sarebbe "cosa sensata e anche molto facile" che in ogni circondario gli uomini atti a portare le armi "che non fanno parte dell' esercito [ciò significa che l'esercito esiste e non è composto da tutti i cittadini! - N.d.a.J cioè quasi il decimo della popolazione", formino una legione o brigata che, unita alle altre, formerebbe "un sistema universale di difesa" capace di conciliare le ragioni dell'economia con quelle della strategia e della tattica. Si tratta di un ideale che per e.e. oltrepassa il modello svizzero e inglese, perché in Italia, nelle cinque giornate di Milano, si è visto tutto un popolo e non solo l ' aliquota di armati - dare il suo contributo per cacciare gli austriaci. Ma anche nel "riprovevole supposto" che una non piccola parte dell' esercito permanente sia "disseminata in ozio" per la penisola allo scopo di fungere da elemento di protezione e da intelaiatura per i battaglioni della guardia nazionale, per e.e. i casi sono due: o queste unità permanenti avrebbero un eccesso di Armi speciali (artiglieria, genio, cavalleria), o la guardia nazionale avrebbe un eccesso di fanteria. L'ultimo argomento sul quale e.e. si sofferma è l'insegnamento delle scienze militari nei licei, nelle scuole e nelle accademie di be11e arti, "idea già più volte da noi proposta, e dagli altri periodici fin qui unanimamente negletta". Egli parte dalla constatazione che, fino a quel momento, si è esagerata la specificità dell'arte della guerra, da insegnare quindi solo in appositi istituti militari. Si tratta invece di "rimuovere il misterioso velo che fece di questi circoscritti studii un secreto"; una volta che in una qualunque


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delle nostre città si può imparare l'aritmetica, l'algebra, la geometria, la fisica, la geografia e il disegno così come l'equitazione, il nuoto, la ginnastica, gli esercizi militari e l'uso delle anni, "ben poco resta a compiere il cerchio degli studi che positivamente ed effettivamente si danno nei più celebri collegi militari". Perciò si dovrebbero creare in ogni città delle società di scienze militari e una o più società di esercizi speciali, aggiungendo all'insegnamento di ciascuna materia civile quello delle sue applicazioni militari. La conclusione di e.e. è che la situazione internazionale del momento è così gravida di pericoli e minacce, da far ritenere che "da essa non si può uscire senza una gran guerra". L'Italia ha ancora nel suo seno duecentomila nemici austriaci, e una presenza francese che vuol equilibrare que11a austriaca; perciò "sarebbe imbecille quel popolo in Italia che non si accingesse a incontrare con tutte le sue forze ogni più luttuoso evento". La nuova generazione in Italia deve crescere "tutta iniziata alle libere anni come al libero pensiero". E ogni volta che si profila all'orizzonte un pericolo, da tutti i popoli italiani deve "accorrere a gara un'eletta di volontari e scriversi in Legioni mobili fcioè Grandi Unità pluriarma - N.d.a.l, fino a che il pericolo sia dissipato. Quanto maggiore sia il pericolo, maggiore sarà il numero. Questa è la vera coscrizione romana" L... ]. Redimendo l'Italia dalla necessità di un ingente esercito stanziale, le avremo aperto anche una vena di gloriosa ricchezza". e.e. cita l'esempio della guardia nazionale inglese, traiscuran<lo che essa è composta da cittadini non atti al servizio campale e serve a completare un esercito permanente volontario. Imputa al nuovo esercito permanente italiano non di essere tale, ma di aver conservato la sua fisionomia elitaria e piemontese; parla di ampliamento e potenziamento della guardia nazionale, ma per evitare che, con la dislocazione dell'esercito permanente alle frontiere, molte regioni della penisola rimangano sguarnite; accenna a Legioni mobili formate non da tutti coloro che possono essere armati, ma da ''un'eletta di volontari" che dovrebbe sostituire (pare) la coscrizione forzata di marca napoleonica. Infine, con questo sistema vuol rendere inutile un ingente esercito permanente (quindi non un esercito permanente in sè, del quale ammette peraltro la presenza se non all'interno, alle frontiere). Se ne può dedurre che e.e., pur rimanendo contrario in linea di principio all'esercito permanente, nella concreta situazione italiana non ne esclude la necessità, purché esso sia ridotto al minimo, favorisca anziché ostacolare - la spontanea mobilitazione popolare in caso di bisogno, e non sia espressione dell'egemonia piemontese. Fatto da sottolineare e sostanzialmente contradditorio, è contrario alla levée en masse (necessariamente forzata) sul modello francese e napoleonico, e confida che essa possa essere sostituita dallo spontaneo accorrere alle armi di volontari, che in quanto tale non si sa come possa essere predeterminato e pianificato. In tal modo, a11' atto pratico il suo modello di nazione armata, basato sul consenso e sul volontarismo, è elitario assai di più di quello che


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7Cf.J

vorrebbe sostituire e lascia in non cale il suo pilastro, cioè l'armamento obbligatorio di tutti i cittadini. Positivista e nemico di ogni metafisica, C.C. secondo il Gentile ha dedicato la maggior parte dei suoi studi filosofici alla psicologia delle menti associate. Se è cosi, l'indirizzo dei suoi studi e le sue esperienze di vita avrebbero dovuto portarlo, anche in campo militare, a guardare con diffidenza a ciò che non è certo, né misurabile. Questo avviene solo quando tratta di armamenti o ferrovie: ma sulla problematica della nazione annata, paradossalmente il suo positivismo lo porta a sostituire le strutture militari aJ momento esistenti - i cui limiti erano peraltro reali - con una formula ideale che rinnega sé stessa, basata com'è su un fattore che specie in Italia data l'indole del popolo non è mai stato quantificabile a priori: la spontanea volontà di combattere e di dare la vita per la Patria, la quale deriva da uno spirito civico e quindi anche militare che non nasce certo in breve volger di tempo. Indebita appare anche la pretesa di estendere l ' esempio delle cinque giornate di Milano del marzo 1848, smentite peraltro nell'agosto (cioè a distanza di alcuni mesi) per un diverso orientamento dei fattori morali. In lutto questo, continua a mancare una valutazione approfondita dei costi delle armi, equipaggiamenti e materiali necessari per armare tanta gente: eppure le considerazioni relative ai costi erano ormai da secoli alla base della fisionomia reale assunta - anche in guerra e non solo in pace - dalle strutture militari, a cominciare dalle dimensioni. C.C. ben riassume nei suoi scritti i motivi salienti, le contraddizioni e i limiti dei sostenitori della nazione armata e dell'approccio al problema militare dei democratici del suo tempo: ciò vale anche e soprattutto per la confusione o sovrapposizione tra volontarismo e nazione armata, dimenticando che nel modello svizzero tanto osannato non c'è bisogno di volontari o eroi o, insomma, di garibaldini, per la semplice ragione che la massa dei cittadini è rispettosa delle leggi e fa fronte a tutti i doveri e obblighi militari in pace e in guerra, e su questo riposa l'edificio. Tutto questo dà maggior risalto alle ragioni che spingono Carlo Pisacane ad avversare corpi speciali e volontari. C.C. non critica apertamente le tesi dei collaboratori del Politecnico prima esaminati: ma è lungi dall'accettare tutto a scatola chiusa. Ad esempio le sue idee divergono da quelle del Macchi sul problema della guerra e della pace, sull'utilità della guardia nazionale e sulla forma dello Stato, e da altri per il carattere di milizia solo locale che vorrebbe dare alla guardia nazionale. Tutto sommato, crediamo necessario modificare i giudizi finora espressi dalla totalità degli scrittori, fino al Conti: a costo di destare scandalo, a ben leggere le sue opere ci sembra innegabile che C.C. è assai più vicino ai sostenitori dell'esercito "lancia e scudo", che a quelli del modello svizzero più o meno puro. Anzi: più che l'indicazione di un nuovo modello, la sua è una ricerca non priva di contraddizioni di un modello italiano, che del modello svizzero recepisca quanto basta per rimediare all'in-


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sufficienza prima di tutto quantitativa dimostrata dall'Esercito piemontese nel 1859-1860. Non vorrebbe l'esercito permanente, ma non può fare a meno di ammetterne l'esistenza e la necessità: né spiega (cosa che va detta per tutti i sostenitori degli ordinamenti militari comunque non conformi a quelli, per cosl dire, tradizionali) come mai, nonostante i loro veri o supposti limiti, l'esercito francese e quello austriaco del momento - cioè i prototipi degli eserciti stanziali - rappresentano (per tutta l'Europa) la minaccia da fronteggiare e/o il termine di confronto da considerare, dunque non un fattore negativo che può essere cancellato senza pericolo, perché risponde a una formula sbagliata. Perché allora, tale formula dovrebbe essere sbagliata solo per l'Italia? i difetti dell'Esercito piemontese sono solo tali, o dipendono dalla formula dell'esercito permanente? I precoci sostenitori del modello prussiano: "un italiano", Caimi, Canestrini Non è vero che, come lasciano capire parecchi autori di oggi, il modello prussiano prende piede in Italia solo dopo la sfolgorante vittoria del 1870/1871, che fa seguito alle altre del 1864 e 1866: già dal 1860 in poi esso viene studiato e proposto in Italia. Ha diverse analogie con quello svizzero, fino a poter essere con quest' ultimo confuso; è quanto fa nel 1860 ''un italiano"35 , che dopo aver esaltato il modello svizzero e averne messo in ri 1i evo - come al solito - l'estrema e persino sospetta economicità (3.700.000 franchi di spese militari svizzere contro i 113.728.000 della Prussia e i 339.861.000 della Francia), precisa che grazie ad esso la Prussia facendo di ogni cittadino un soldato è risorta dai disastri del 1807 contro Napoleone, e che (evidente la confusione e l'indebita approssimazione) "non solo in Svizzera e in Prussia, ma più o meno noi ritroviamo questi ordini per milizia in Inghilterra, negli Stati Uniti, nel Canada, nella Nuova Scozia, e quasi presso tutti i popoli liberi del mondo" (quindi: non è questione di ordinamento politico, visto che la Prussia è uno Stato autoritario e l'Inghilterra una monarchia dominata dall'aristocrazia). L'ignoto autore, però, intende stabilire una netta differenza tra le milizie di queste nazioni e le guardie nazionali: solo delle prime c'è bisogno, "e non di cittadini [come le guardie nazionali - N .d.a.] che poco o nulla si esercitino all'uso delle armi e che non sieno persuasi esser cittadini quando sono a casa, e soldati come gli altri quando sono sotto le armi, ché più son liberi gli ordini militari più rigorosa esser debbe la disciplina, e la guerra si fa con la disciplina e non col furore". E mentre le milizie - come gli eserciti permanenti sono costituite essenzialmente per ]a difesa esterna, i reparti di guardie nazionali hanno come scopo la difesa delle libertà interne, che nel caso dell'I-

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"Un italiano", Degli ordinamenti militari più. convenienti a' popoli liberi e all'indipendenza italiana, "Rivista Contemporanea" Vol. 21 ° - aprile/maggio 1M60, pp. 108 e segg..


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talia nessuno minaccia. Senza contare che gli ordinamenti di quest'ultime non si conciliano con la disciplina militare: ciò vale in particolar modo per la elezione degli ufficiali, la quale "non solo rallenta quella natural soggezione, che dev'essere in ogni ordine militare, ma, che è più, rende impossibile d'avere abili uffiziali, senza de' quali non vi avrà mai eserciti". Da queste premesse generali "l'italiano" deduce che "l'ordinamento per milizie della società" oltre ad essere economico e tutelare la libertà, renderà più rare· le guerre, perché facilita la difesa e ostacola l'offesa. Premesso che per noi Italiani essa è la via più sicura per l'indipendenza nazionale (come può essere raggiunta solo difendendosi?), l'ignoto autore si dichiara favorevole al sistema prussiano (o meglio a quello che ritiene sia il sistema prussiano): noi crediamo che nello stesso tempo che si dovrebbe fare ogni opera per ordinare il novello Stato per milizie, l'esercito stanziale non solo non dovrebbe essere sminuito, ma dovrebbe essere con ogni sforzo accresciuto, e grandemente ci rallegriamo al vedere ciò che a quest'uopo sta facendo l'egregio uomo che sopraintende alle cose della guerra. Questo valorosissimo esercito, debb'essere come il centro, in cui al bisogno possino andare a rannodarsi tutte le milizie, e come la scuola a cui servire a istruirsi tutti coloro, i quali intenderanno di servire da uffiziali in questi nuovi ordini. L' Italia, come la Prussia, ha bisogno di esercito stanziale e di milizia; ma come in Prussia cosl in Italia, l' esercito stanziale e la milizia non debbono costituire che un solo ordinamento sotto il Ministero della guerra [al momento, in Piemonte la guardia nazionale dipendeva dal Ministero dell'Interno - N.d.a.j.

Per "l'italiano" l'Italia non può es&ere difesa solo con un esercito permanente. Se essa applicasse il sistema svizzero, da 11 milioni di abitanti trarrebbe 1.865.000 uomini in armi, dei quali 50.000, soldati di prima leva, 200.000 di riserva, 660.000 soldati di seconda leva (landwehr) e 615.000 di leva in massa (landsturm). Con il sistema prussiano si avrebbero 113.000 soldati in pace e 423.000 in guerra, più la leva in massa o landsturm. Nel caso nostro, converrebbe avvicinarsi di più al sistema svizzero, reclutando in guerra almeno 600.000 soldati e aumentando la spesa militare di pace da 34 milioni a 75 milioni, e quella di guerra a 105 milioni, equivalente al · bilancio prussiano in tempi normali. La relativamente facile e breve vittoria del 1866 contro l'Austria da una parte aumenta dt molto, in Italia, il prestigio già considerevole del modello prussiano, e dall'altra fa venire ancora una volta allo scoperto i difetti del sistema ordinativo italiano, a cominciare da quella mancanza di riserve con buoni ufficiali, che già era emersa nel 1859. Sulla base di questa recentissima esperienza, a fine 1866 Aristide Caimi36 ripropone gli argo,._ A. Caimi, Cenni sui nuovo ordinamento militare del Paese. ''Il Politecnico" Voi. Il. Fase.

VI dicembre 1866, pp. 701-715.


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menti già toccati dai sostenitori della nazione annata e dall"'Italiano". Dopo aver ben descritto nei particolari il sistema prussiano, egli osserva che l'indole degli italianì delle province settentrionali ha delle analogie con quella dei prussiani, ma si chiede del tutto a ragione: "possediamo noi una eguale coltura; siamo noi sufficientemente abituati al rispetto tradizionale del principio di autorità derivante dalla legge? i nostri entusiasmi sono certo più vivaci, ma sono poi seguiti da quella fredda costanza che fu e sarà sempre il più valido elemento della forza di un popolo?". Il Caimi non dà a questi interrogativi di base una 'risposta precisa, ma osserva che, dopo vent'anni di guerre di indipendenza, le abitudini militari sono abbastanza diffuse nella popolazione italiana. In ogni caso (anche qui, egli va alla sostanza del problema) l'esperienza ha dimostrato che l' esercito stanziale nel limite attuale, già dichiarato insopportabile alle nostre forze economiche, è insufficiente alla difesa del paese. Se fosse altrimenti, perché i 40.000 volontari di Garibaldi? perché la mobilizzazione di tante Guardie Nazionali? perché [nella guerra del I 866 J ci siamo noi arrestati, quando la Prussia compiva il ciclo delJe sue vittorie? Un esercito senza riserva, può esso manovrare liberamente? E dove erano le riserve del nostro esercito? forse le leve ordinate di fretta, le quali non potevano avere che un valore numerico illusorio? Sono più o meno le critiche al nostro ordinamento per la precedente guerra del 1859, che abbiamo già esaminato. Il rimedio proposto dal Caimi è un sistema prussiano con correttivi: l'esercito di linea [cioè permanente - N.d.a.] prelevi per cinque anni quel numero di reclute che occorrono a mantenere il suo effettivo ridotto ai limiti consentiti dalle pubbliche finanze; tutto il resto istruito per un dato tempo nei reggimenti di stanza più vicini al luogo di reclutamento, passi ai battaglioni della riserva insieme ai soldati, che hanno terminata la loro capitolazione. Questi battaglioni comprenderebbero cosl tutti gli uomini dai 20 ai 35 anni che non servono più nell'esercito stanziale. Con questo sistema i soldati dell'esercito permanente sarebbero reclutati in tutto il Regno, mentre i battaglioni di riserva avrebbero un reclutamento regionale, con i loro Comandi aventi sede nei capoluoghi di circondario. Inoltre - come avviene nel sistema prussiano - i loro uomini "si considererebbero come continuamente legati all' esercito, perché tenuti a convenire alle annuali esercitazioni, a sottoporsi alle formalità del servizio militare e alla dipendenza di ufficiali e sottufficiali già designati". Il nuovo sistema richiede però una particolare cura nel reclutamento e nella selezione e istruzione degli ufficiali, perché


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i perfezionamenti che ogni giorno si fanno nelle armi, renderanno impossibili i complicati e difficili movimenti delle masse, i quaJi di fronte al nemico condurrebbero alla distruzione della truppa che li eseguisce. Il soldato diverrà d'ora innanzi un cacciatore [cioè un combattente capace di agire isolato o in ordine sparso, con fuoco libero - N .d.a.] la cui utilità sarà in ragione diretta della sua intelligenza, agilità e disciplina; soprattutto dovrà essere esperto nel tiro. Il grande problema delle guerre future sarà di ottenere il massimo grado di mobilità combinata coll'ordine [ .. .]. Le ferrovie, i telegrafi hanno grandemente contribuito alla rivoluzione dell'arte della guerra, fatta più grossa ma in pari tempo più pronta e decisiva. Se Napoleone disse che la vittoria appartiene ai più grossi battaglioni, ora invece deve ritenersi che essa dipende dal numero dei battaglioni; epperciò il compito degli ufficiali superiori è reso assai più difficile... Lasciando capire di non essere troppo soddisfatto della situazione del momento, il Caimi anche in questo caso propone il modello prussiano, accompagnato dall'istruzione militare obbligatoria nei ginnasi e nelle università. Innanzitutto, per avere buoni ufficiali occorre abolire )e surrogazioni ( cioè le sostituzioni, a pagamento, dei giovani abbienti e quindi istruiti con altri, poveri e senza particolari qualità morali): se i padri di famiglia finora si preoccuparono di provvedere al rimpiazzo dei figli che stavano per essere coscritti, d' ora innanzi si preoccuperebbero invece di dar loro quella conveniente istruzione per la quale, subìto il breve tirocinio nell' esercito, possano presentarsi agli esami ed essere nominati ufficiali nei battaglioni di riserva. Il capitale di intelligenza e di educazione che tale misura recherà all'armata è incaJcolabile. Il Caimi elogia poi grandemente gli aspetti della formazione dell'ufficiale in Prussia, alla quale "senza sconfessare la grande efficacia dei fucili a spillo" si devono principalmente le vittorie del 1866: in Prussia la scelta degli ufficiali e lo sviluppo della loro istruzione è oggetto di continua, speciale sollecitudine. Nulla è pretermesso [cioè trascurato - N .d.a.] per ottenere una ufficialità distinta, moltiplicandosi ovunque i modi per acquistare le cognizioni belligere. Per giungere al grado di ufficiale occorre aver subìto con buon esito un esame speciale e avere precedentemente dato caparra di reale attitudine. Anche rientrati nelle loro case, gli ufficiali della Landwehr sono tenuti ad esercitare abitualmente un' attenta sorveglianza sui militi del battaglione e, comunque soggetti alla giurisdizione dei tribunali ordinari, questi infliggono le pene stabilite dal codice militare. lEssi] rimangono poi, al pari di quelli dell' esercito stanziale, sottoposti alle censure dei tribunali d'onore (che trovano un riscontro nei nostri consigli di disciplina) per tutti quei fatti che sfuggendo alla competenza dei tribunali, recano sfregio alla dignità o all'onore del


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corpo degli ufficiali, e questi tribunali d'onore possono sentenziare la sospensione temporanea d' ogni promozione, il rinvio dal corpo e anche la destituzione.

Esaltando la validità del modello prussiano anche dal punto di vista morale, il Caimi indica come deve essere un esercito efficiente, perciò mette indirettamente l'accento sulle numerose lacune che rendono l'organismo nazionale italiano, benché nuovo, già abbisognevole di profonde riforme tali da avvicinarlo al sistema prussiano, allontanandolo da quello francese. Nella sua proposta manca però la dimostrazione dell'applicabilità delle soluzioni prussiane alla specifica situazione interna italiana e all ' indole latina del nostro popolo, tutt'altro che naturalmente disciplinato e tutt'altro che permeato di quello spirito nazionale e di quell' alto grado di scolarità che fin da allora contraddistinguono il soldato-cittadino prussiano. Tuttavia, ammette che vi potrebbero anche essere delle difficoltà osservando "se tutto il paese non è ritenuto ancora adatto a piegarsi a tali istituzioni, perché non si potrebbe applicarle gradatamente per le varie province, cominciando da quelle che confinano con la cerchia delle Alpi, in quelle appunto ove si riscontrano i migliori elementi e antiche e recenti tradizioni militari?". In un saggio sulla Nuova Antologia del 1867, Giovanni Canestrini pur indicando anch' egli la validità del sistema prussiano lo ricollega direttamente agli ordinamenti delle milizie italiane del medioevo e alle teorie di Nicolò Machiavelli, dimostrando che l'accantonamento di questi ordinamenti militari ha coinciso con la perdita della libertà ad opera dei prìncipi.37 · Richiamandosi all'esperienza della guerra del 1866, il Canestrini sostiene inoltre che è erroneo giudicare "non atto alla offesa" un esercito "nazionale". In tal modo, egli trascura la differenza fondamentale tra l'esercito svizzero - che non ha Quadri o uomini permanentemente alle armi, quindi per ragioni tecniche nel primo periodo della guerra non è in grado di iniziare rapide offensive - e quello prussiano, che dispone pur sempre un consistente nucleo di Quadri in servizio permanente e di Comandi e unità già addestrate con il solo svantaggio, rispetto a un esercito "stanziale", di avere numerose riserve. Differenze che al tempo non sembrano notate né dal Caimi né da altri, visto che egli afferma che, nella guerra del 1866, l'esercito prussiano appunto perché nazionale, era dall'universale opinione di tutta Europa stimato affatto inabile a misurarsi col più formidabile esercito stanziale de' nostri tempi [quello austriaco - N.d.a.], che compassionando alla follia dei prussiani di volersi affrontare con loro, celebravano già in immaginazione le loro trionfali vittorie nella soggiogata Berlino.

37

G. Canestrini, L'antico ordinamento militare in Italia e il moderno in Prussia, ''Nuova Antologia" 1867 - Vol. IV fase. II, pp. 239-275.


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Grazie a questo equivoco cade uno dei capisaldi dei sostenitori della nazione armata, che giudicavano l'inattitudine all'offensiva (e quindi all'aggressione) proprio come uno dei grandi vantaggi degli eserciti di cittadini. Forse per questo, dopo qualche pagina il Canestrini, anziché ricordare semplicemente che gli eserciti di cittadini rendono difficile al prlncipe di intraprendere avventure militari non approvate dal popolo, cerca di dimostrare che quella intrapresa dalla Prussia contro l'Austria nel 1866 è stata una guerra sostanzialmente difensiva, la quale comunque non ha superato i confini della nazione tedesca. E lo fa non senza forzature e contraddizioni: pretendere mediante la recente guerra combattuta in tra l'Austria e la Prussia, che gli eserciti nazionali tanto valgano per la offensiva quanto per la difensiva, è non voler conoscere la natura di quella guerra; perché non era contesa tra due nazioni diverse, ma in parte fra una medesima nazione e per lo stesso scopo nazionale, essendo la Germania fra molti prìncipi divisa, in tra i quali Russia e Austria disputavansi il primato [... ]. Se poi la Prussia portò la guerra fuori dai propri confini. rimase nondimeno in quelli della propria nazione; né movendosi a stranieri conquisti, e profittando soltanto dei militari vantaggi che voglionsi avere dal non attendere il nimico in casa propria, non si poteva dire che si partisse dalla difensiva [cioè la abbandonasse - N.d.a.], ma che la facesse in quel modo che stimava più al suo proposito, il quale fu poi dal successo comprovata.

Ciò equivale a dire, che l'Esercito prussiano nel 1866 si è limitato ad attuare una difesa strategica, rimanendo nei confini della propria nazione: gli eserciti della Rivoluzione Francese, permeati di un forte spirito offensivo anche se provenienti dalla levée en masse, sembrano proprio dimenticati. Si tratta dunque di una tesi senza alcun reale fondamento tecnico-militare, smentita dagli stessi avvenimenti della guerra del 1866, dove l'Esercito prussiano ha vinto semplicemente perché più idoneo di quello austriaco al rapido movimento e a operazioni offensive. Senza contare che l'ormai vicina guerra del 1870 contro la Francia confermerà proprio che l'Esercito nazionale prussiano - almeno quello - era idoneo sia all'offensiva che alla difensiva, era, insomma, superiore a quello nemico secondo i metri tradizionali di giudizio. Più fondata, invece, l'altra affermazione del Canestrini che Si può stabilire come assioma, che con eserciti nazionali non si debba e non si possa attendere a imprese e a conquiste in luoghi stranieri e massimamente lontani, perché un esercito nazionale constando di tutta la nazione armata, manifesto è che non possa tener la campagna tanto tempo quanto per lo più le lontane spedizioni richiedono; il che se far volesse, conoscerebbe alla fine di non poter mai acquistar fuori tanto che compensi i danni che avrebbe cagionati a sè medesimo in casa.


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Sul piano generale, il Canestrini fa dunque una constatazione pienamente attuale: che cioè gli eserciti veramente di massa non possono condurre guerre lunghe senza gravissimi danni all'economia nazionale, e che per operazioni belliche lontane dai confini nazionali occorrono contingenti ridotti reclutati con altre modalità. Nel caso dell'Esercito italiano del momento, comunque, la sua conclusione è che si deve guardare prima di tutto ai modelli nazionali antichi: secondo Gregorio Leti (Italia Regnante, Tomo Il) l'Italia nel XVII secolo poteva armare 1.972.000 uomini; riducendo questi anche a soli 600.000, secondo le proporzioni da noi poste sopra, manifesto è che niuna potenza le potrebbe impuneamente e con suo vantaggio portar la guerra in casa, premesso però che ogni ita1iano si recasse ad onore esser soldato per la patria [e sembra poco! Questo poteva avvenire tanto facilmente? - N.d.a.]. All'uopo dei presìdi e della tutela de11'ordine interno l'esercito stanzia1e potrebbe essere ridotto a molto minori proporzioni, se non esattamente a quelle stabilite dallo ordinamento del Machiavelli. Dell ' esercito nazionale non si avrebbero a pagare che i soli connestabili [termine usato dal Machiavelli - N.d.a.] ovvero capitani istruttori, i quali potrebbero risiedere nei capoluoghi ove dimorano gli uomini 1oro assegnati, e tenerne continua cura. L'alta gerarchia militare tanto gravosa al pubblico erario, dovrebbe essere diminuita, non solo per rispetto economico, ma anco politico; perché dove simili gerarchie mettono troppo profonde radici, 1a via è aperta alla corruzione, e la libertà potrebbe . correre seri pericoli.

Anche il Canestrini dunque, oscilla tra il sistema svizzero e quello prussiano: unico dato certo è l'ostilità ai grossi eserciti stanziali e la tendenza a ridurre al minimo l'esercito di pace e le relative gerarchie, cosa però ben diversa dal giungere a pagare "i soli connestabili".

!fautori dell'Esercito "lancia e scudo": d 'Ayala (1850) Fogliardi, Sacchi Mariano d' Ayala (Cfr. Vol. I, cap. IV e V) è noto soprattutto come prolifico scrittore militare con interessi prevalentemente linguistici e storici, autore di un'apprezzata e ancor oggi insostituibile bibliografia. Ma nel libro - finora ignorato - Degli Eserciti Nazionali (1850)38 in parte anticipa e in parte contrasta i topoi dei sostenitori della nazione armata e dello stesso Pisacane, con una originale e articolata proposta di riforma dello status militare, che non è ristretta agli aspetti tecnici del reclutamento e ordinamento ma si estende alla ricerca di nuovi principi disciplinari, più consoni alla natura degli "eserciti nazionali".

38

Firenze, Tzp. Italiana 1850.


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Ciò che interessa di più al D' Ayala è il rapporto tra l'esercito, le altre Istituzioni e la società, e il rapporto gerarchico all'interno dello stesso esercito. Non pone al centro della sua riflessione, come Pisacane, la rivoluzione nazionale e nello stesso tempo sociale, onde conquistare alla causa de ll'indipendenza nazionale schiere di ardenti combattenti; ma intende introdurre, per quanto consentito dalle esigenze militari, i principi di libertà e democrazia all'interno dell'esercito stesso. Non vuole rivoluzioni, ma riforme; crede "impossibile il bene vero e duraturo dell'Europa, se prima gli eserciti non saranno eminentemente nazionali", dando a "nazionali" un significato politico ancor prima che lecnico-militare, cioè riferito, più che alla forma di reclutamento, al ruolo interno dell'esercito e al suo rapporto con la società. Si dichiara "nemico sl dell' arbitrio, il quale si travesta in pace pubblica, sì dell'anarchia che si nasconde sotto il manto della libertà", combattendo in particolar modo il principio della separatezza tra esercito e società: il soldato, dicesi, non dee avere niun contatto con il popolo; ma egli non è il carnefice, cui vietasi uscir di prigione perché non insanguini con la sua vista il popolo: egli al contrario deve apparire come angelo tutelare della Patria, chiamato a proteggere i popoli L...). IJ soldato, s'aggiunge, non dee saper di diritti e di doveri politici, non può apparire nelle radunate, morigerate e anche sapienti; ma il soldato non appartiene oramai a un ordine in disparte; più non vi sono nelle civili nazioni ordini privilegiati e ordini tenuti come bestie da soma, né la razza de' governanti è oramai diversa da quella di govemati39•••• Le leggi militari devono rendere i soldati "anziché di peso o di servaggio, di utile e di libertà alla nazione". In quanto leggi secondarie non possono essere in contrasto con quelle primarie dello Stato, e con le altre intorno al diritto pubblico e al diritto delle genti. Esse devono essere "in armonia con le leggi umanitarie e civili e accomodate all'indole e à costumi della nazione". La legislazione militare non può sottrarre il soldato all'autorità del magistrato, né tanto meno anteporlo al magistrato stesso. Come sancisce la Costituzione prussiana, la forza armata non può essere impiegata per la repressione dei torbidi interni e per l'esecuzione della legge, se non su richiesta delle autorità civili e nei casi e con le modalità previste dalla legge. "Il soldato non dee nel proprio paese avere mai autorità sul sangue", e non deve intervenire nelle contese civili, alle quali si può porre fine solo con la riconciliazione. Sulle orme del conterraneo Gaetano Fi1angieri (Vol. I, cap. VI) da lui espressamente citato, il D' Ayala è convinto avversario della coscrizione obbligatoria, che diversamente da tanti altri vede come anacronistica tirannide anche quando è stata introdotta dalla Convenzione francese:

».

ivi, p. 3.


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la coscrizione nacque e si mantiene per le molte soldatesche e per le tante fortezze, quando le comunicazioni più rapide mercè le navi a vapore e le rotaie in ferro avrebbero a farla scemare ogni giorno, secondando anche la verità dinamica, il momento d'una forza essendo il risultamento della forza e della velocità.

Essa è solo un mezzo per mantenere quei grossi eserciti permanenti, che sono la vera minaccia per la pace; andrebbe dunque sostituita, come negli Stati Uniti e in Inghilterra, con il reclutamento volontario. È questa la grande novità, che segna la principale differenza tra le idee del D' Ayala e · quelle del Filangieri e di molti sostenitori de11a nazione armata, oltre che del Pisacane. Quest'ultimi vedevano in una modalità tecnica di reclutamento quello di volontari o di soldati a lunga ferma - un pericolo per la libertà, sostituendovi la leva in massa e l'accorrere entusiasta di volontari quando la Patria è in pericolo. Al contrario, D' Ayala mette in evidenza tutti gli inconvenienti della coscrizione, contestando apertamente l' affermazione che al di sopra dei suoi innegabili danni bisogna collocare le esigenze de11a difesa della libertà e indipendenza nazionale: al contrario la libertà e sicurezza degli Stati cangiasi in pericolo, [solo] quando non è l'esercito quale dovrebbe essere, quando la coscrizione fa della milizia l'imposta del tempo durante la pace, l'imposta del sangue durante la guerra; invece per altre vie o con altri temperamenti la milizia avrebbe a essere un dovere ch'ogni cittadino dee aver sacro a compiere, un diritto ond'egli dee andar glorioso esercitare, essendo il diritto di difendere la patria. Conciossiaché allora sarebbe la milizia una professione come tutte le altre, e più onoranda di certo perché più circondata di pericoli e disagi [...]. Non a torto domandavasi nel Congresso della pace l'abolizione della leva [ ...]. La schiavitù del paese comincia dalla schiavitù del cittadino [... ]. Pur tuttavolta non credesi possibile nell'Europa continentale quello che è fatto altrove da lungo e con successo di onorevol soldatesca, cioè le volontarie descrizioni [= arruolamenti - N.d.a.] soltanto. I volontari, dicesi, sono volontari insino a che non hanno assaggiato la pena e i disagi della vita militare, insino a che non hanno à loro orecchi sentito rombare il cannone; e richiedono perciò una disciplina da rievocare i tempi più barbari della disciplina. Ma i volontari non deggion

sorgere ne' momenti di guerra, come le antiche leve in massa, che pure sono cose passate alla tradizione [nostra sottolineatura N.d.a.]; deggion bensì fare il loro tirocinio ed essere non per esaltazione soldati volontari, ma per vocazione e anche per calcolo. Ragioni di Stato alcuni pubblicisti dicono dimandare il tributo della coscrizione; ma spesso non è ragion di Stato, è diffidenza e sorpruso. Imperrocché se all'aggravio dell'esercito perpetuo non si fosse congiunta la pace armata, cioè la diffidenza universale fra le nazioni e la parziale diffidenza del potere, basterebbero senza dubbio le braccia volontarie; tanto più che vediamo in tutti gli eserciti assai facili le surrogazioni e i cambi. Laonde è falso il bisogno delle soldatesche


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numerose, cioè è irragionevole la coscrizione universale; ed è falso il danno delle volontarie armi [... ]. Armare la moltitudine non è costituire eserciti, né gli eserciti valutansi secondo il numero; ma con le ferme volontarie avrebbonsi uomini scelti e istruiti, bene disciplinati, nutriti, armati e meglio pagati, i quali non temono né fatica né pericoli, e non empiono gli ospedali.40 Non solo esercito volontario dunque, ma esercito "lancia e scudo", che però non abbia il culto del numero. Subito dopo, però, in palese contraddizione con questi principi il O' Ayala esalta qualcosa di molto diverso, il modello prussiano basato proprio sulla massima estensione della leva obbligatoria, sul numero e sulle brevi ferme, nel quale è stato eliminato quel sistema delle surrogazioni a pagamento, che introduce nella coscrizione un nocivo fattore di disuguaglianza. ln conclusione non vi sono che due vie: o coloro chiamati all'esercito abbiano tanto da rispondere della loro condotta agli altri cittadini per breve tempo, ovvero sieno affatto volontari. Che se l'esercito oltre all'esser permanente, debba comporsi in numero assai sproporzionato, sempre il volontario appello sia primo modo di recJutamento e la coscrizione come sussidio, ma coscrizione vera, per tutti, salvo solo per le incapacità fisiche e i rifiuti morali.41 L'habitus disciplinare e morale di questo esercito, del quale i volontari costituiscono il nerbo, va profondamente rinnovato, perché "se in generale andò facendosi più mite e umana la guerra, non divenne simigliantemente civile ogni esercito". Il D' Ayala critica perciò fortemente il principio del1'obbedienza cieca e passiva, l'errata educazione dei Quadri e della truppa, le punizioni corporali, il sistema degli avanzamenti militari, il modo di comandare gli uomini: la teorica della subordinazione passiva deve solo rendere formidabili gli eserciti in faccia al nemico; debb' essere lasciata poi alle frontiere d'ogni Stato libero t... ] le leggi dovranno appunto indicare i casi, in cui l'uomo d'anne aver debba facoltà d' una deliberazione che non offenda la libertà, d'una obbedienza che non uccida la sua intelligenza [...]. Sicché l'idea del soldato risvegli bene l'idea d'un utile e vantaggioso cittadino, d'un uomo che sia un'intelligenza, un cuore, una anima, non una macchina grossolana destinata a consumare. lmperrocché le leggi operano solo quando persuadono, e il loro vigore è inseparabile da quel convincimento degli spiriti, che cagiona appunto un'obbedienza libera, piacevole e generale.•2

40 ·

" "

ivi, pp. 24-27. ivi, p. 30. ivi, pp. 61 e 64.


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Se la disciplina è la forza di un esercito, essa non deve essere solo formale ma va basata sul consenso e deve consistere non tanto nell' obbedienza a un uomo, ma alle leggi dello Stato. Le sue regole non possono essere durature, ed essa deve mutare "co' costumi, i quali sono la prima disciplina, con la costituzione politica e sociale degli Stati, e sempre col metodo di reclutamento". In generale dev'essere liberale oggidì, non severa nelle forme; essa molto deve richiedere al cuore e all'intelletto; e men facilmente ricorrere a pene, e alle più aspre pene, per riscuotere obbedienza. Difatti la disciplina è sottomissione alle leggi militari; e una soldatesca adempie ai doveri di buona disciplina allorquando adempie a puntino agli ordini che le sono dati, ordini militari non politici.43 Chi comanda deve comandare solo in nome delle leggi; perciò l'ufficiale non deve mai ordinare ciò che disonora il soldato, insanguina la Patria, spegne la libertà: "non applicate al mantenimento di un ordine interno un principio che non può che convenire all'esterna difesa". La severità della disciplina non consiste solo "nell'atteggiarsi a sdegno, e mostrar viso e mano di ferro" . Anche con il sorriso - anzi, più adevolmente con il sorriso - si possono dare ordini, "né l'austerità delle regole esclude certo tal quale affetto; anzi la fraterna dolcezza vede confondersi i malvagi, nobilitarsi i buoni, quando che con l'asprezza vediamo irritarsi i primi, confondersi i secondi!". Gli ufficiali devono essere "sacerdoti e non carnefici", e ricercare la fratellanza militare che unisce a loro strettamente il soldato. Questi principi sono applicati dal D' Ayala nelle "Norme di costituzione militare" riportate in calce al libro, le quali prevedono che ambedue le Forze Armate siano composte da volontari a lunga ferma. Ciò premesso, 4. la milizia gratuita, cui si dà nome di guardia nazionale, sarà divisa in guardia nazionale attiva e guardia nazionale di riserva, suddividendo la prima in mobile e stanziale. 5. 11 numero de' soldati sotto le armi non può oltrepassare la dugentesima parte della nazione, essendovi sempre la riserva, che fa parte della guardia nazionale attiva. 6. La guardia nazionale stanziale formerà i corpi degli artiglieri littorali [cioè da costa - N.d.a.], degli artiglieri di presidio e de' cannonieri marinai [cioè imbarcati sulle navi - N.d.a.]. 7. Se i militi, o per guerra, o per difetto di volontari, saranno chiamati dalla Guardia nazionale mobile all'esercito, deggion soddisfarvi con la persona, salvo le esenzioni legali.

43

ivi, pp. 97 e 98.


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Il dovere di servire la Patria si adempie prestando servizio da soldato, da marinaio o· da milite, oppure versando contributi a favore di coloro che avranno militato senza interruzione per 24 anni; le esenzioni sono ammesse solo per coloro che non sono in grado di pagare tali contributi. Il servizio militare volontario dura quattro anni, dai J7 ai 30 anni. I cittadini non possono essere arruolati per punizione, ma in compenso anche "gli scapoli oziosi e sani" saranno soldati, poiché ogni cittadino deve avere una professione o un mestiere. Riguardo ai compiti, 21. Il servizio militare è nobile perché pubblico e nazionale. 22. L'esercito s'ha a considerare come un ordine di cittadini, non già come corpo morale. 23. L'esercito nazionale è chiamato a proteggere la famiglia e la patria, cioè a mantenere l'indipendenza de' cittadini. 24. La guardia nazionale è chiamata a custodire la libertà e la quiete della patria. I Quadri de11'esercito devono essere fissati per legge; il potere esecutivo non può aumentare l'esercito, né creare cariche nuove e superflue o sciogliere la guardia nazionale. I comandi più importanti devono essere assegnati solo previo parere favorevole del Parlamento, che vota anche ogni anno i bilanci militari. Ogni privilegio è abolito; vi saranno " Armi speciali" (artiglieria, genio) ma non "Armi privilegiate"; sono perciò aboliti "le guardie del corpo", i cadetti, i volontari nobili, le guardie nobili, i soldati distinti, le guardie di palazzo, gli alabardieri, e tutti i corpi privilegiati della guardia". La polizia deve essere solo civile; è vietato impiegare soldati o marinai per la custodia delle prigioni e dei bagni penali, che deve essere affidata a un corpo civile. Nessun cittadino militare può essere impiegato in compiti estranei al suo dovere militare, ed è vietato ai soldati "fare i servitori degli ufficiali". Sono aboliti anche gli ospedali militari; infine, i cittadini non sono obbligati ad alloggiare ufficiali e soldati ed "è vietato nel cammino militare andare ne' poderi o beni de' cittadini". Fuori servizio l'esercito e la guardia nazionale non possono portare armi; è abolita la dote per le mogli degli ufficiali. In tempo di pace i corpi sono di guarnigione nella propria provincia o in quella vicina; ogni cittadino militare ha diritto a due notti consecutive di riposo, mentre l'orario di servizio non può superare le 10 ore al giorno, salvo la guardia di 24 ore. Qualunque cittadino militare può e deve fraternizzare con i cittadini; a quest'ultimi non può essere impedito di entrare nei luoghi militari per vedere parenti e amici; qualunque giornale può entrare ed essere letto nelle caserme. La disciplina militare "non potrà mai essere fonte di doveri politici"; peraltro, senz'armi il soldato ha anche diritti politici. Il soldato non deve mai violare il domicilio del cittadino, e ha "diritto di protesta contro i comandi di sangue sul popolo". Ha anche il diritto di petizione, "ma le sole autorità e i corpi soltanto possono presentare domande di corpo". Il soldato


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non può subire nessun castigo, se non dopo essere stato ascoltato e essersi discolpato. Anche se sono previste squadre di disciplina per ogni reggimento e compagnie di disciplina per l'esercito, la disciplina militare deve avere come base la giustizia, e deve-essere regolata sia dal principio d'autorità che da quello di libertà. Chi comanda deve svolgere le sue funzioni "a titolo di obbedienza, epperò senza fasto, senz'orgoglio, senza padronanza, e dee guadagnarsi la pubblica opinione dei sottoposti". Il D' Ayala tenta poi di stabilire una distinzione - invero ardua - tra subordinazione del militare in servizio e in ambito puramente militare, e subordinazione rientrante piuttosto nel campo moraie e politico: 78. l'obbedienza materiale e di servigio puramente militare debb'es-

sere cieca e passiva; ma nel voler cotesta passi va obbedienza, deggion i comandi essere conformi alla legge[... ]. 79. L'obbedienza morale e politica può e debb'essere ragionevole; non si può comandare all'intelletto e aJla coscienza; le opinioni scientifiche e le politiche sono libere, ma niuno può tradurle in atto che per via di proteste. 80. Non v'è subordinazione fuori servizio per fatti estranei al servizio; v'è, e vi debb' essere venerazione e rispetto; e la venerazione è al di sopra della subordinazione, poi che non si può imporre. Per quanto riguarda la giustizia militare, il D' Ayala stabilisce il principio - molto avanzalo e moderno - che tutti i militari qualunque sia il loro grado sono uguali davanti alla legge, quindi agli stessi delitti corrispondono le stesse pene, a prescindere dal grado del reo. "È abolita la brutta e feroce denominazione di Consigli di guerra, salvo che in guerra vera o negli assedi; e anche l'altra di Corti marziali, che si usa in alcune marinerie". Questi organismi sono sostituiti da un Consiglio di disciplina per ogni reggimento, competente "pei delitti di disciplina materiale e di servizio", mentre "per la disciplina politica e morale vi sarà un Consiglio di disciplina politica, in cui entreranno gli uomini più eminenti in politica e milizia, cui sempre si aggiungerà il comandante della guardia nazionale". L'operato del Consiglio di disciplina è regolato da una legge, la quale stabilisce anche il codice di disciplina e tutti i relativi regolamenti. I tribunali militari sono competenti soltanto per i reati militari, vale a dire "quelli contro alla subordinazione e disciplina, e compiuti ne' recinti militari". Oltre alle pene corporali, è abolita la "pena ignominiosa" della degradazione e quella dell'aumento del servizio, oltre che l'imposizione di servizi di guardia o sentinella supplementari come castigo; sono invece mantenuti come punizione i servizi di fatica (corveés). Nel caso "rarissimo" che un soldato sia condannato a morte, non deve essere fucilato dagli stessi compagni, ma dopo essere stato spogliato della divisa militare viene consegnato alla giustizia. Come egli stesso teme, specie se si tiene conto dei tempi in cui propone queste sue norme il D' Ayala si avvicina spesso all'utopia: ciò non toglie che


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ha il raro merito di anticipare una tematica estremamente controversa e delicata, ma comunque ancora attuale nella seconda metà del secolo XX. Sotto questo profilo è tra i pochi a introdurre un discorso organico, che ha il difetto principale di essere molto in anticipo sui tempi e di dimostrare, implicitamente, quanto lontani siano gli eserciti del tempo da solide, sane e moderne fondamenta disciplinari e morali. Sintomatico, a tal proposito, il paragrafo 45 del capitolo ill: "gli aiutanti di campo non potranno essere né figlioli né parenti dei rispettivi generali, ed essi come gli ufficiali d'ordinanza del principe, del Ministro e de' generali non conserveranno quell'ufficio oltre ai due anni". Principio morale sacrosanto, però non sempre applicato anche nel XX secolo.... Sono questi i contenuti principali del libro Degli Eserciti nazionali, che specie in materia di reclutamento, legislazione e disviplina è fin troppo in anticipo rispetto alla realtà dei tempi nei quali vede la luce, tale da privilegiare la coscrizione obbligatoria e la rigida disciplina in tutti i principali Stati europei. Forse per questo (come meglio vedremo in seguito), a distanza di dieci anni, quando ormai si profila la nascita del nuovo Stato unilario e del suo nuovo, grande Esercito di leva, il D' Ayala annacqua alquanto le sue idee più ardite.44 Rimane, comunque, il fatto che con queste riflessioni del 1850, cioè a distanza di soli 25 anni dalla concessione dello Statuto da parte di re Carlo Alberto, il D' Ayala anticipa sorprendentemente e largamente la complessa, controversa tematica del rapporto tra Esercito e Istituzioni democratiche tipiche del periodo dopo il 1945 e sancita dall'Art. 52 della Costituzione, secondo il quale l'Esercito deve uniformarsi allo spirito democratico de11a Repubblica. Ci riferiamo in particolar modo alla necessità che la legislazione militare, in quanto secondaria e derivata, sia in piena armonia con i principì della legislazione primaria dello Stato, al godimento dei diritti politici da parte del militare, alla differenza tra status del militare in servizio e fuori servizio, all'uguaglianza di tutti i militari, senza distinzione di grado, davanti alla legge, alla definizione dei diritti del militare accanto a quella dei doveri, al divieto di impiegare il soldato in mansioni non attinenti al suo stato e in compiti di polizia e custodia carceri, al divieto di irrogare punizioni non previste dai regolamenti, al rispetto della personalità degli inferiori e al divieto di indirizzare loro rimproveri offensivi, all'abolizione della dote per le mogli degli ufficiali, alla necessità di ascoltare le giustificazioni di chi ha mancato prima di infliggere una punizione, ecc.: tutta una tematica tipica anche del XX secolo, e specialmente della seconda metà di tale secolo.

44

M. D' Ayala, La milizia e la civiltà - Introduzione agli studi di storia e ane militare nel[' Istituto Superiore di perfezionamento in Firenze detta il 16 febbraio 1860,, "Rivista Militare" 1860, Anno IV Vol. lll, pp. 193-210.


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Queste aperture danno diritto a Mariano D' Ayala di essere tra i precursori della sociologia militare italiana, anche se la nozione teorica cli tale disciplina non fa ancora parte dei suoi tempi. Hanno perciò torto quei sociologi militari italiani del secondo dopoguerra, che fissano al periodo 1939-1945 la comparsa (negli Stati Uniti) dei primi studi di sociologia militare, mentre in Italia - sempre sulle orme di tali studi - le prime indagini sociologiche militari sarebbero state pubblicate, a loro avviso, solo parecchi anni dopo il 1945. Ancor più moderna, precorritrice e originale la tesi del D' Ayala che un esercito a reclutamento volontario non è affatto - come dimostra il modello inglese cli ieri e cli oggi - un'Istituzione antidemocratica, inefficiente e pericolosa per la libertà e la pace, e che - per contro - un esercito basato sulla coscrizione obbligatoria può essere pericoloso per la pace, senza contare che non è esente da forme tiranniche, perché costringe a prestare servizio militare anche quei cittadini che non hanno la vocazione o ne sarebbero danneggiati. Il servizio di leva solo come completamento di quello volontario caldeggiato dal D' Ayala, è la soluzione tipica dell'inizio del secolo XXI ... E che dire dell'avversione al servizio militare volontario, che ha dominato in Italia anche per quasi tutto il secolo XX? per tutte queste ragioni, il libro Degli Eserciti nazionali andrebbe ristampato e riproposto all'attenzione anche del grosso pubblico, come esempio di vivacità e preveggenza - anche in tema di condizione militare - del pensiero militare italiano del XIX secolo. Assai meno originale del D' Ayala è i1 ticinese Augusto Fogliardi, colonnello dell'esercito federale svizzero che nel 1848 aveva combattuto in Lombardia. Su invito del Cattaneo, pubblica nel Politecnico del 1860 tre articoli45, nei quali propone per l'Italia non il modello militare svizzero tout court (come erroneamente afferma il Conti), ma piuttosto soluzioni che adattino alla peculiarità geografiche e alla situazione italiana i principi di quello svizzero. 1n questo senso, accentua quella necessità di una struttura permanente già presente almeno in nuce nell' Allemandi, che viene ripresa anche dal Cattaneo. La proposta del Fogliardi si riassume nella classica formula "lancia e scudo" della Reichswehr degli anni Venti: noi non intendiamo proporre il sistema svizzero in tutta la sua estensione. La forma topografica del paese, lo sviluppo delJ'educazione popolare, l'esistenza anteriore di un esercito stanziale buono ma limitato, e soprattutto l'urgenza dei tempi sono tutte circostanze che devono essere consultate nell'ordinare un sistema che deve servire di

"

A. Fogliarcli, Pensieri sull'ordinamento del nuovo esercito italiano, "Il Politecnico" 1860 - Vol. vm, pp. 54-59, 153-159, 264-270.


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difesa e di fondamento o tutte le altre istituzioni [...]. Le truppe stanziali, anziché esser d'inciampo all'attuazione del nuovo sistema, serviranno di nucleo per la formazione delle nuove unità tattiche, non più distribuite secondo i bisogni delle tattiche di Federico, ma rese più facili e maneggevoli. L'ordinamento dev'esser basato sulle suddivisioni territoriali onde corrispondere ai bisogni tattici senza grave incomodo per le popolazioni. Ma i vari corpi non devono perciò considerarsi come guardie civiche, che non si possono traslocare per un tempo più o meno lungo.

Anche il Foglianti - come l' Allemandi e il Cattaneo - ha la massima fiducia nello spirito militare del popolo italiano, perché a suo avviso, nell'Italia del tempo "dovunque arde quel sentimento nazionale che rende capaci i popoli deI1e più alte imprese". Naturalmente anch'egli riprende tutti i temi salienti delle teorie della nazione armata, introducendovi un elemento nuovo, legato alla conformazione geografica dell'Italia, la quale "confina a levante con 1' Adriatico e a ponente col Mediterraneo, posizione che costringe a misure speciali di vigilanza e difesa, avuto riguardo ai bisogni della marineria sì mercantile che militare, i quali cagionano nelle popolazioni del litorale e quindi nei contingenti una larga lacuna". Pur appartenendo a uno Stato alpino, il Fogliardi è dunque tra i pochi scrittori del periodo - e l'unico dei teorici della nazione armata - a trarre le dovute conseguenze dal fatto che l'Italia ha anche estesi confini marittimi e coste soggette a sbarchi, anticipando così un dibattito che si protrae per tutto il secolo XIX. In proposito, constata che "gli sbarchi sono difficilmente efficaci se non sopra colonie sfornite d'eserciti. Per operarli in grandi proporzioni, si richiede un materiale formidabile e un terreno opportuno all'approdo", il quale consenta alle grosse navi di portarsi a breve distanza della costa, per appoggiare lo sbarco distruggendo le batterie che lo ostacolano. I punti delle coste che consentono questo sono pochi, perciò lo sbarco si svolge normalmente tra molte difficoltà; rimane comunque a chi vuole sbarcare la possibilità di eludere le difese con finti tentativi di sbarco, che richiamino altrove le forze del difensore. Per evitare questo, il paese assalito può formare "un buon corpo di guardacoste, costituito dagli abitanti medesimi del litorale e sostenuto dall'esercito regolare, il quale deve adunarsi in luoghi opportuni, donde accorrere al primo cenno ai punti minacciati". L'introduzione di un siffatto sistema di difesa delle coste è, per il Fogliardi, la principale modifica da introdurre nel sistema generale di difesa, sia sotto l'aspetto militare che politico-sociale e finanziario. A tal fine, propone di rimediare alla scarsa e militarmente insufficiente densità di popolazione della maggior parte delle coste italiane da difendere, introducendo addirittura un sistema di colonie militari sul modello austriaco e russo, che ha il duplice scopo di popolare e sfruttare regioni prima deserte, e


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assicurare con la massima economia la difesa delle frontiere. Tale formula consiste nell'attrarre sul posto famiglie contadine, concedendo loro la terra da coltivare in condizioni di favore e con regime fiscale particolare, in cambio di prestazioni militari continuate legate appunto alla difesa dei confini marittimi (qualcosa del genere è stata fatto dalla Francia anche in Algeria). Dopo aver descritto nei particolari il sistema, il Fogliardi così conclude: ma perché mai, svegliate ora ad un principio di vita libera, le popolazioni italiane nella difesa della terra nativa e delle patrie leggi, saranno da meno di quelle che sono quasi serve della gleba in semibarbare regioni? Con saggi provvedimenti e con forte volere, si possono ben rimuovere dalle italiane coste molte cause d'insalubrità. Si può stabilirvi un maggior numero di coltivatori, coi quali si potrà parimenti istituire lungo il litorale una catena di posti...

Come già hanno fatto Guglielmo Pepe (Voi. I, cap. XIII) e Carlo Pisacane (cap. V), in relazione all'aumento dell'efficacia delle armi da fuoco e ai caratteri del lerreno naz.ionale, anche il Fogliardi propone - sia per la difesa costiera che per l'esercito operante - la brigata pluriarma come unità fondamentale tattica e amministrativa dell'esercito, con abolizione del livello di reggimento. Il battaglione dovrà avere larga autonomia tattica e amministrativa, con il sostegno fisso dell'artiglieria della brigata e un plotone pionieri del genio che corrisponde al "bisogno ognor crescente di profittare del terreno". Da notare, infine, l'analisi comparativa dei vari sistemi di reclutamento in ambito europeo e, una volta tanto, la citazione di statistiche, dalla quale risulta che il sistema austriaco (seguito da quello francese) è il più costoso (2% della popolazione di soldati, al costo di 600 franchi ciascuno), mentre la Svizzera in proporzione alla popolazione ha quattro volte più soldati de]]' Austria, con un costo unitario (60 franchi) dieci volte inferiore. Al secondo posto per economicità del sistema viene la Prussia (3,5% di soldati con un costo unitario di 230 franchi, inferiore sia a quello austriaco - 600 franchi, che a quello francese - 450 franchi). L'esperienza della guerra del 1859 come esempio di mancata utilizzazione di tutte le forze nazionali affiora in tutti gli scritti dei sostenitori di soluzioni analoghe alla nazione armata, non escluso lo stesso Fogliardi che de]]a necessità per l'Italia di un potente esercito fa il movente delle sue tesi. In proposito, lo studio più approfondito è quello di un altro collaboratore del Politecnico, Achille Sacchi, che in una lettera al Macchi46 cita molto fuggevolmente - una riga e mezzo - il mode]]o svizzero come quello che fornisce i1 massimo numero di soldati, ma si preoccupa piuttosto di esa46 ·

A. Sacchi, Sul modo di completare l 'Eesercito italiano, "Il Politecnico" 1860, pp. 336-343.


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minare nel dettaglio ciò che è avvenuto nel 1859, "quando il Piemonte non ha dimostrato né dignità, né coscenza, né prudenza, condannandosi a ricevere dalla Francia quasi a patto di vassallaggio, e derisoriamente indifesa e monca, la Lombardia, a lasciare in servitù più che metà dell'Italia, a respingere il sùbito fraterno amplesso di Emilia e Toscana, a rifiutar loro perfino la reggenza ...". Il Sacchi non contraddice apertamente il Macchi, il Fogliardi e gli altri sostenitori della nazione armata: ma non può affatto essere compreso tra i sostenitori di questa formula, visto che - come dice il titolo stesso del suo scritto - si preoccupa piuttosto di ricercare il modo più efficace per completare e ampliare, in caso di guerra, l'Esercito permanente basato sulla coscrizione obbligatoria, criticandolo proprio perché non è stato a sufficienza tale. I suoi modelli di riferimento non si fermano certo a quelli classici dei teorici della nazione armata, ma si spingono fino a comprendere la Prussia e l'Austria: alla prima minaccia di ostilità [ ... ] la Prussia raccoglie soldati a

Landwehr; l'Inghllterra, a cui la saggia previdenza di libertà toglie di avere una num1::rusa armata stanziale, purt:, pcn;hé la Francia alleata dà sospetto che possa un dì diventare nemica, non contenta dell'insuperabile flotta e della fitta siepe di cannoni di cui s' è recinta i fianchl, distribuisce fra i suoi operai duecentomila carabine, ed addestratili in migliaia di bersagli nazionali si prepara fin d' ora l'estremo scampo. Che più? L' Austria slt:ssa, esosa alle schiave sue genti e costretta a tenerle tutte in perpetuo stato d'assedio, raccolse tutti i soldati, che le forti coscrizioni annuali avevano trascinato sotto le sue bandiere; condusse in Italia le stesse milizie confinarie croate, che, instituite per guardarla dai Turchl, possono solo per abuso essere adoperate altrove in guerra difensiva; e le avrebbe cacciate ben oltre il Ticino, se non fossero diventate esse pure insuperabilmente restie.

Il Sacchi contesta duramente i tentativi del D' Ayala sulla "Rivista Contemporanea" del luglio-settembre 1859 di giustificare la scarsa forza messa in campo dal Piemonte nel 1859 (60.000 uomini circa, dei quali 20.000 volontari) con la mancanza di scarpe e di rifornimenti ceduti all'Esercito francese che stava per sopraggiungere, e soprattutto con la mancanza di ufficiali. A suo giudizio, vi erano pur sempre in Piemonte calzolai e cuoio sufficienti per fornire in una settimana all'Esercito le scarpe necessarie , mentre alla mancanza di Quadri si sarebbe potuto ovviare con tutte le promozioni possibili, soddisfacendo le rimanenti esigenze con gli scelti volontari accorsi nelle file piemontesi. In tal modo sarebbe stato possibile per il Piemonte mobilitare anche i 49.000 uomini di riserva lasciati alle loro case; e poiché tra le 340.000 guardie nazionali erano molti i giovani che, solamente perché benestanti, avevano evitato il servizio nell'esercito attivo, sarebbe stato possibile sceglierne per l'esercito almeno 60.000, mettendo al comando dei battaglioni uffidali tratti <lall'esen:ito attivo, oppure scelti tra i molti che avevano già


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ricevuto un'istruzione militare e avevano dato buona prova nel 1848-1849. I reparti così istruiti avrebbero potuto ricevere in poco tempo un addestramento elementare come cacciatori e "in parte aggiungersi ai venti reggimenti di linea, in parte essere inviati ad operare nell'importantissima impresa di occupare sul fianco e alle spalle del nemico le Alpi". Poco o nulla si è fatto - prosegue il Sacchi - anche per trarre dalla Lombardia stessa le risorse umane, i materiali e i rifornimenti che avrebbe potuto dare. Con soli 3500 uomini e non un fucile in più, Garibaldi non è stato in grado di armare ed equipaggiare subito i numerosi giovani che si sono presentati a lui nelle città liberate, ma sia pure in ritardo ha potuto formare 11 battaglioni e altri reparti minori, procurandosi armi e equipaggiamenti sul posto o nella vicina Svizzera: ciò dimostra l'aiuto che avrebbe potuto dare il governo della Lombardia, almeno dopo la occupazione. Sempre secondo il Sacchi, nonostante i suoi limiti e le troppo larghe esenzioni, la legge di reclutamento piemontese del momento consentirebbe pur sempre di arruolare 240.000 uomini circa. Ciò non viene fatto, per due ragioni essenziali: a) un regolamento sanitario che fissa criteri ormai troppo restrittivi per l'idoneità al servizio militare; h) l'esenzione dal servizio militare per denaro, che ha il grave inconveniente di "privare la patria di un grandissimo numero di soldati civilmente educati e istruiti". Dai 12 milioni di abitanti del Regno del momento, secondo il Sacchi sarebbe possibile trarre circa 400.000 uomini tra esercito e milizie, pur non raggiungendo ancora 1e percentuali della Prussia e della Svizzera. Oltre all'abolizione di questo privilegio non giustificato nemmeno da ragioni di studio e alla modifica del regolamento sanitario per la leva, egli propone pertanto di "ricoscrivere in tutto lo Stato i giovani dai 20 ai 30 anni; completare l'attuale esercito coi più scelti coscritti, e organizzare gli altri in nazionale milizia, destinata a prender parte diretta alla guerra; mobilitare la guardia nazionale dai 30 ai 40 anni per presidiare 1e piazze forti".

SEZIONE II - Perché l'esercito permanente? La critica ai volontari, alla nazione armata e alla Guardia Nazionale.

È una communis opinio ormai ben consolidata (e sostanzialmente accreditata dall' Isastia in un recente libro)47, che le prevenzioni dell 'establishment politico-militare piemontese (dovute anche a mentalità ristretta, scarso zelo per la causa nazionale, spirito di casta) abbiano impedito all'armata sarda di utilizzare al meglio lo spontaneo apporto popolare nelle guerre d'indipendenza (volontari e forze insurrezionali in genere). In questo starebbe la ragione principale delle defaillances piemontesi nel 1848/1849, e della

"· Cfr. A.M. Isastia, Il volontariato militare nel Risorgimento, Roma, SME - Ufficio Storico 1990.


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necessità di ricorrere al determinante aiuto francese - poi pagato a caro prezzo - nella guerra del 1859, che non ha potuto essere spinta a fondo. Con la manichea contrapposizione - essenzialmente politica - tra "guerra di popolo" e "guerra regia" (quest'ultima presentata come sentina di tutti i difetti, vizi e errori; l'altra come quintessenza di virtù e di potenzialità peraltro inespresse, quindi non provate) si corre però il rischio di perdere di vista la vera essenza del problema - sempre lo stesso - che rimane sullo sfondo degli avvenimenti dal 1848 al 1870. Nella fattispecie, ricordando che secondo Clausewitz la guerra è un camaleonte, non ci sembra azzardato affermare che tale problema prima ancor che essere politico, appare dominato da una fondamentale esigenza tecnico-militare: si può ben apprestare strumenti politici, morali, sociali per combattere il dominio austriaco in Italia, ma la conditio sine qua non è che tali strumenti siano tutti finalizzati alla preparazione morale e materiale di uno strumento militare soprattutto terrestre - efficiente, capace di affrontare con successo in campo aperto un esercito che - come quello austriaco - al pari e anzi ancor più di quello francese, era per antica tradizione proprio il prototipo degli eserciti permanenti, in questo trovando la sua forza e non la sua debolezza. Se si vuol definire un valido ordinamento militare, il probabile nemico è il primo fattore da considerare: va dunque ancora sottolineato che lo strumento militare dinastico austriaco non aveva mai accusato i difetti tecnici che i nemici dell'esercito permanente da sempre attribuiscono a tale formula. Questo saldo strumento militare non aveva mancato di adeguarsi alle esigenze dei nuovi tempi. Nel 1858 erano state abrogate le vecchie nonne del 1820, che prevedevano un arruolamento ristretto e su base praticamente volontaria. La nuova legge, ispirata al modello prussiano, introduceva per la prima volta il principio dell'obbligo generale e personale al servizio militare, pur continuando a ammettere numerose esenzioni e la possibilità - per chi ne aveva i mezzi - di essere esentato dalla leva e sostituito da altri, mediante pagamento di una tassa allo Stato (e non più al privato che lo sostituiva). D'altra parte l'Esercito inglese era su base esclusivamente volontaria e reclutato nei più infimi strati sociali, quindi avrebbe dovuto racchiudere tutti gli aspetti negativi di questa formula, tanto più che in esso vigeva una durissima disciplina e il massimo distacco tra ufficiali e sottufficiali e tra ufficiali, sottufficiali e truppa; eppure aveva dimostrato una saldezza addirittura proverbiale di fronte alle schiere napoleoniche e non aveva mai costituito una minaccia alla libertà. E che dire dell'efficienza dimostrata anche dopo il 1815 in numerose campagne dall'Esercito francese, portatore di un "modello" permanente citato e criticato ancor più dell'austriaco? Tutto questo dimostra, in prima istanza, che nel periodo considerato c'era esercito permanente e esercito permanente; comunque sia, tale modello aveva fuor d'ogni dubbio assicurato all'Inghilterra, all'Austria, alla Francia, alla Russia il massimo rendimento, fino a non essere mai messo in discussione in quei Paesi. Date le travagliate circostanze della formazione della unità nazionale, ciò avviene solo in Italia: ma v' è da essere certi che


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le discussioni, recriminazioni, accuse sarebbero state assai meno numerose, se solo l'Esercito piemontese nel 1848/1849 e nel 1866 avesse dato più convincenti prove di efficienza, o almeno avesse avuto la possibilità (questo vale soprattutto per le campagne del 1859 e 1866) di spingere la guerra a fondo. In queste guerre, ciò che rivela i suoi limiti è quell'esercito permanente; non l'esercito permanente come formula generale. La Repubblica francese nata nel 1848 e spenta da Napoleone ill, dopo la caduta di quest'ultimo nel 1870 mantiene e anzi rafforza la formula dell'esercito permanente. Non ha quindi fondamento alcuno la tendenza apresentarla come formula militare di per sé antidemocratica, politicamente conservatrice e tipica dei regimi assoluti, per contro presentando in primis il volontarismo come espressione militare delle forze democratiche. Ancora una volta, il problema di fondo rimane tecnico-militare; il cattivo uso che viene fatto da uno strumento o - nel caso italiano - i difetti che esso mostra, non significano di per sé che la formula di base sia sbagliata. Così come, il cattivo trattamento fatto ai volontari e gli innegabili tentativi di limitarne il peso e l'impiego non significano affatto che tali volontari avrebbero potuto essere la formula "alternativa" vincente, né significa condanna della formula del]' esercito permanente. D'altro canto, sussiste una fondamentale differenza tra "volontari" e "nazione armata", fino a far apparire i primi l'antitesi deJJa seconda. Se ne deduce che le "forze popolari" - che come tali comprendevano anzitutto gli strati allora di gran lunga più numerosi e meno istruiti della società, cioè i contadini - non sono mai state esclusivamente rappresentate dagli stessi volontari (come par di capire da talune interpretazioni odierne), né sono mai affluite in massa e spontaneamente alle armi. Allora come oggi, non solo in Italia ma anche in Svizzera si poteva chiedere alla massa dei cittadini di osservare lealmente le leggi dello Stato, presentandosi per compiere i loro obblighi militari nei tempi e nei modi previsti dalle norme vigenti, e di combattere con valore e spirito di sacrificio per la Patria; né più (è già molto), né meno. Ciò non toglie che nel periodo considerato l'esercito permanente non solo in Italia ha subìto una crisi dovuta a fattori che, prima ancor che politico-sociali, sono economici e tecnico - militari. Una crisi dovuta non tanto alla formula, ma alla sua concreta applicazione nelJ'ambito di altrettanto concrete - e diverse - realtà nazionali. "La questione militare del giorno" sta dunque nella ricerca di modalità applicative, che possono e debbono variare notevolmente da Paese a Paese. Lo riconosce in un articolo redazionale del settembre 1866 che porta proprio questo titolo la Rivista Militare Italiana, per la quale sono le vittorie prussiane del 1864 e 1866 (senza aspettare quella ancor più grande del 1870) a segnare un punto di svolta, mettendo in evidenza i difetti del tradizionale esercito permanente sul modello francese e per contro esaltando i pregi del modello prussiano48•

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"Rivista Militare Italiana" Anno XII - Voi. ll1 settembre 1866, pp. 240-245.


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La rivista riprende e commenta uno studio di Napoleone ill del 1843, nel quale il futuro Imperatore critica l'organizzazione dell'Esercito francese del momento, giudicandola antieconomica e al tempo stesso pregiudizievole per la sicurezza nazionale. La questione militare del giorno - afferma Luigi Napoleone - riguarda due aspetti: il sistema di reclutamento e quello di armamento. Essa è nata "dai prodigiosi trionfi" dell'esercito prussiano, "il cui ordinamento è affatto diverso da quello degli altri Stati, e che per primo in Europa ha combattuto con armi caricantesi per la culatta". Richiede gli studi più approfonditi, perché si tratta "di mutar da capo a fondo" la legge di reclutamento, cioè "una delle più rilevanti leggi dello Stato", e di spendere parecchi milioni per cambiare centinaia di migliaia di fucili. Nello scritto cosl introdotto il difetto capitale dell'organizzazione militare francese viene comunque indicato nello scarso grado di prontezza operativa, nonostante la sua cospicua forza numerica. Sotto questo profilo, uno dei più gravi rimproveri che si possono indirizzare al governo [ ...] è di non aver approfittato degli scorsi 12 anni di pace per organizzare militarmente il paese in modo che la Francia non abbia a temere un' invasione. Dal 1830 i bilanci della guerra si sono alzati ad una cifra immensa (più di tre miliardi e mezzo), e quando nel 1840 dei rumori di guerra vennero a spaventare gli uomini al potere, essi confessarono altamente alla tribuna che la Francia non era preparata, e che per prepararsi ci voleva un anno, giacché mancavano i Quadri alla fanteria, alla cavalleria i cavalli, all'artiglieria e alle piazzeforti il materiale, a tutto l'esercito infine una riserva. Il che vuol dire che dopo 12 anni, noi abbiamo spesi più di tre miliardi, per non avere né approvvigionamenti sufficienti, né buona organizzazione militare. Oggidì non basta a una nazione avere qualche centinaio di cavalieri ricoperti di ferro [ ...] le abbisognano dei milioni di uomini armati, giacché quando scoppia la guerra, i popoli si urtano in massa, e una volta la lotta incominciata, gli è il genio del capo e la bravura delle truppe che decidono la vittoria, ma per contro, l'organizzazione sola resiste nei rovesci e salva la patria [ ...]. Ora, come nessun Stato del mondo non può, senza rovinarsi, tenere costantemente in attività delle centinaia di mille uomini, bisogna adottare un sistema che offra i più gran vantaggi possibili in tempo di guerra, senza dar occasione di troppo pesanti carichi in tempo di pace[ ...]. Se il governo è geloso di soddisfare ai grandi interessi della Patria [...] organizzerà l'armata in modo che essa possa passare in poco tempo e senza impiccio dalla pace alla guerra [... ] infine terrà sempre la sua annata alle frontiere organizzata in brigate e corpi d'armata [ ... ]. Invece di questo, noi oggi abbiamo un'armata bella e valente senza dubbio, ma che non conta che 344.000 uomini esercitati, numero insufficiente in tempo di guerra e onere rovinoso in tempo di pace. L'annata non ha riserva; essa è intricata di ordigni inutili e dispendiosi. Essa ha alla sua testa cento generali di più che le armate dell'Impero. Essa è amministrata da uffici che impiegano 300 commessi in più che sotto l'Impero, e il cui sistema consiste a spendere 1.000 per risparmiare cento [... ].


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Infine, l'armata sparsa su tutti i territori e lontana dalla frontiera, non solo non è riunita in corpi d'armata, ma essa non è formata in brigate che al centro del Regno, a Parigi, come se quivi fosse il nemico.

Un veemente attacco,.fin dal 1843, al modello militare francese, per di più proveniente dalla Francia stessa e dovuto proprio a un uomo che, non avendo saputo o potuto modificarlo secondo le direttrici tanto chiaramente indicate, ne sarebbe stato la prima vittima nel 1870. Il fatto che la Rivista Militare pubblichi lo studio di Napoleone m a distanza di più di vent'anni dalla sua compilazione e a due mesi di distanza dalla sconfitta di Custoza, ha un preciso significato: se ne può legittimamente dedurre che dopo l 'esperienza di tre guerre, dopo i numerosi dibattiti in Parlamento e sulla stampa militare, dopo le trasformazioni organiche che ne sono state conseguenza, l'Esercito piemontese ha conservato i difetti tipici del modello francese, senza peraltro averne tutti i pregi: That is the question. Va anche notato che, fin dal 1843, Napoleone III mostra una decisa simpatia per il mode1lo prussiano (con ogni probabilità condivisa dal direttore della Rivista Militare, che altrimenti non avrebbe dato spazio alle sue idee). Il futuro Imperatore dei francesi fa un'osservazione chiarificatrice che merita di essere sottolineata, e va pienamente condivisa: che cioè, il modello prussiano non è affatto militarista e tirannico, ma al contrario, è nella sua essenza democratico. In polemica con il generale Préval, relatore di una commissione governati va francese e contrario a qualsiasi organizzazione della riserva, egli scrive che l'organizzazione prussiana non è affatto "un giogo di ferro imposto alle popolazioni e contrario ai nostri costumi, alle nostre istituzioni francesi" perché è fondata sull'uguaglianza, quindi profondamente democratica: "essa è tirannica senza dubbio, come tutte le leggi che, adottando dei grandi principi sottomettono tutti gli uomini agli stessi carichi e obbligano il ricco come il povero a pagare il suo debito alla patria; ma questa tirannia della legge deve essere l'appannaggio di una società democratica, giacché è là che esiste la vera eguaglianza". Questo sguardo oltralpe dimostra dunque la necessità di sgombrare in via preliminare il terreno dai troppi equivoci e idola, che potrebbero indurre a interpretazioni non serene e distorte, trascurando i fattori tecnico-militari - e anche le diverse realtà sociali - in gioco. Il vero problema - europeo, non solo italiano o piemontese - era di adeguare l'esercito permanente alle nuove esigenze, recependo fin che consentito dalle specifiche condizioni nazionali i princìpi della nazione armata. Ciò era richiesto prima di tutto da esigenze militari riconducibili in sostanza alla rivoluzione industriale e al progresso della tecnica e della economia, che consentivano eserciti più "tecnici" e di mole maggiore. Sotto questo profilo, fin dal 1864-1866 la Prussia appare grandemente favorita rispetto al resto dell'Europa, perché il suo modello militare può


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basarsi su condizioni pressoché ideali, antitetiche a quelle italiane, a cominciare dall'elevato spirito nazionale fin negli strati più bassi (quindi, esteso ai contadini) e dalla devozione a una monarchia e a una nobiltà che peraltro lo meritano. Condizioni che cerchiamo invano nella Italia agricola e poco alfabetizzata non solo del secolo XIX, ma anche nella prima metà del secolo XX: i riflessi militari di questa situazione non possono essere positivi e rendono talvolta oziosa persino la ricerca di responsabilità, ché dal punto di vista militare, un popolo dà solo ciò che può dare. I volontari e gli "irregolari" secondo i volontari e gli "irregolari": Dandolo, Anfossi, Cadolini, Orsini Gli studi più recenti hanno messo in luce ad abundantiam la cattiva utilizzazione dei volontari da parte dell'Esercito piemontese, insieme con le innegabili e frequenti prevenzioni esistenti nei loro riguardi tra i Quadri regolari: ma hanno trascurato - come è doveroso in qualsivoglia indagine storica - di approfondire non tanto e non solo l'altra faccia della medaglia (cioè le ragioni concrete, tecnico-militari dell'asserita scarsa considerazione per i volontari) ma quel che pensano sia dei volontari che dell'esercito regolare ... gli stessi volontari. Un volontario del 1848 in Lombardia è stato anche Carlo Pisacane (cap. V), rivoluzionario ma nemico giurato di Garibaldi e delle formazioni speciali; un volontario è stato anche Carlo De Cristoforis (cap. IV), che proprio dall'amara esperienza di volontario del 1848/1849 trae le sue teorie sulla necessità di un esercito permanente e di una rigida disciplina; un volontario è stato anche il generale Enrico Cialdini, il più rappresentativo di una schiera di generali dell'Esercito Italiano provenienti dalle file garibaldine o comunque autodidatti, formatisi sul campo di battaglia anziché nelle aule delle Accademie. Questa constatazione suscita altri interrogativi: fino a che punto Garibaldi avrebbe pervertito la gioventù e combattuto i principi sui quali si fondava l'esercito permanente italiano, visto che tanti giovani Capi formatisi alla sua scuola dopo il 1861 passano a farne parte con onore, e una buona aliquota dei suoi ufficiali volontari del 1860 non chiede altro, anzi si dichiara profondamente delusa se non vi viene ammessa? Ciò premesso, ci rifaremo anzitutto a Emilio Dandolo, come De Cristoforis giovane valoroso, di nobile famiglia e di buoni ·studi, aiutante di campo di Luciano Manara, che perde il fratello Enrico nella difesa di Roma del 1849, tenta invano di partecipare alla campagna di Crimea con l'Esercito piemontese e muore prematuramente nel 1859, a 29 anni, ricordando i compagni del battaglione Manara. Fin dalle prime pagine del suo libro postumo I volontari e i bersaglieri lombardi - annotazioni storiche (non citato dall'Isastia) il Dandolo polemizza aspramente con il Cattaneo e il Mazzini, e difende l'esercito pie-


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montese49 • Il Jibro dei Cattaneo sull'Insurrezione di Milano nel 1848 viene da lui definito "il primo dei libelli orgogliosamente bugiardi" sull'argomento. In esso - osserva Dandolo - l'autore non ricorda e non loda Luciano Manara, forse perché è poi passato agli ordini del Piemonte; inoltre "versa il suo fiele sul capo cli tanti uomini onesti, e celebra sé medesimo siccome capo di quella memorabile sommossa, la quale riuscì perché concorde, non perché preventivamente ordinata". E proprio perché dovute al coraggio dei milanesi che riuscirono a cacciare l'Esercito austriaco, le cinque giornate di Milano, secondo i1 Dandolo, "non mancarono di produrre miserandi effetti che fatalmente contribuirono alle future sorti di Lombardia". La precipitosa ritirata di Radetzky verso le sue "naturali basi d'operazione" del quadrilatero aveva tanto esaltato gli animi lombardi, che avendo a vile quell'esercito austriaco che essi credevano fuggisse dinanzi a pochi armati, s'immaginavano ormai finita la bisogna, scomparsa fra pochi giorni oltr' Alpe l'impaurita orda nemica, e consideravano per dir cosl i piemontesi quale una gente a cui si usa la cortesia di lasciare l'onore degli ultimi colpi quando il più difficile dell ' impresa è compiuto.50

La responsabilità di queste illusioni, rivelatesi in un secondo tempo funeste, viene dal Dandolo attribuita a coloro che subito dopo la ritirata austriaca gridavano "abbiamo scacciato i Croati, eccone gli altri!" e soprattutto al Mazzini, il quale da quella memorabile sommossa, che senza le sue mene avrebbe forse sortito un esito migliore, trasse argomento d' infinite declamazioni sulla Guerra del popolo, il quale non aveva più bisogno, secondo il detto di un famigerato corifeo della setta, che di dar di piglio alle scope, per iscacciar del tutto l'Austriaco. E furono per tal modo fomentati quel disprezzo per ogni disciplina militare, e quella presunzione, che facendo credere sconfitto interamente il nemico, perché 2 mila morti giacevano in Milano, partorl poi tremendi germi di discordia e di debolezza.

Così - prosegue il Dandolo - nessuno a Milano si è reso conto che senza l'avanzata dell'Esercito piemontese i 10.000 austriaci rimasti a Milano, che ancora controllavano buone posizioni e stavano ricevendo rinforzi dall'esterno, non avrebbero certo lasciato la città e che l'Esercito piemontese fu tacciato ingiustamente di tradimento, "perché arrestatosi davanti alle più ragguardevoli fortezze d'Europa, non seppe in tre mesi impadronirsene, mentre veniva lasciato solo da tutta Italia e, cosa più vergognosa ancora, da una parte

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'°·

Milano, Brigola 1860. ivi, p. 11.


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dei Lombardi". Chi aveva veramente combattuto nelle cinque giornate, si era arruolato nell'Esercito piemontese o nelle legioni dei volontari: ma gli altri, "che non avevano messo il naso fuori dell'uscio - che il sesto dì", assistevano da casa loro alle operazioni dell'annata sarda "abbigliati di teatrali divise [della guardia nazionale], criticando, sogghignando e declamando, mentre il loro posto avrebbe dovuto essere altrove". Le cinque giornate "rimarranno documento non imperituro del valore italiano; ed esempio più unico che raro ai nostri nipoti"; ma a causa dell'opera nefasta di coloro che "aspettavano al caffè la vittoria e la libertà, e facevano la guerra di bons mots e di vituperi" esse sono diventate, nel 1848/49, "antipatica e stucchevole manifestazione di boria municipale, invariabile risposta a chi attentava di ragionare di cose di guerra secondo i dettami della scienza, e motivo di sprezzo e di discordia fra due genti generose del pari [cioè i lombardi e i piemontesi - N.d.a.] e chiamate da forlunata combinazione di casi a ristorar i destini della patria comune"51 • In questo contesto ha inizio la vicenda umana del Dandolo, che dopo aver combattuto sulle barricate esce il 24 marzo da Milano con il cosiddetto Esercito delle Alpi di Luciano Manara, che - come egli precisa - si compone all'inizio di soli 129 armati: eppure "un affisso del Governo provvisorio invitava i giovani milanesi ad unirsi a lui, mentre gli ammogliati e i meno idonei alle armi formerebbero la Guardia Nazionale a tutela della città". Quel "pugno di arrischiati" si illude di poter essere di ritorno al massimo entro due settimane; perciò non prende con sè né una camicia né un paio di scarpe, e "lieti e spensierati s'avventavano, senza pur sapere cosa fosse arte militare, ad inseguire Radetzky sostenuto dai suoi reggimenti, e dalla sua possente artiglieria"52• La colonna sosta a Treviglio, dove viene rinforzata da una legione di 1.200 ticinesi e comaschi, "bellissima gente, ardita e parata ad ogni fatica di guerra": purtroppo era condotta "da un certo uffiziale che avea servito in Spagna, uomo turbolento e avventato, il quale assai male fece in seguito col suo modo di procedere". E, specie nei primi tempi, i volontari "altro non erano che accozzaglia di persone, riunite da un comun sentimento, piene di entusiasmo e di fervore, ma ben lontane dall'offerire nemmanco l'idea di una truppa ordinata in qualsiasi maniera". I comandanti delle colonne "eransi bensì affrettati, a scimmiottare con ridicolo sfarzo tutta la gerarchia degli Stati Maggiori d'un esercito regolare, ma oltre che la diversità delle proporzioni rimpiccioliva stranamente la cosa, mancavano gli elementi per procacciarle consistenza, e tutto finiva in una mera vanità di parole"53• Manara ha il grado di generale di divisione, anche se la forza di suoi ordini non raggiunge quella di un reggimento regolare; sotto di lui due

ivi, p. 12. ivi, pp. ]4-15. "· ivi, p. 16. SI

S2.


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generali di brigata e un numeroso Stato Maggiore; vi sono battaglioni di 100 uomini e compagnie di 20, però con un tenente e un capitano. Queste vanità, questa smania per i gradi - aggiunge il Dandolo - vanno tuttavia perdonate: gli improvvisati ufficiali sono i primi ad affrontare il pericolo, e tutti si accontentano di essere pagati come semplici soldati, anzi in gran parte rinunciano anche alla paga. In quanto alla truppa, è composta da "gente di ogni maniera": giovanetti di buona famiglia scappati dal liceo; disertori dell'Esercito austriaco "anelanti di concorrere alle pubbliche e forse private vendette"; contadini che non conoscono nemmeno il maneggio del fucile; uomini di ogni età e provincia, che nei primi tempi sono mossi "da un solo e santo desiderio di libertà". Però man mano che passano i mesi e si prospetta una guerra lunga e faticosa l'entusiasmo diminuisce, e i corpi volontari perdono molte loro buone qualità. Per di più l'immoderata brama dei Capi di accrescere più che si potesse il numero delle legioni fece sì che troppo leggermente si desse ricetto nelle file ad uomini di dubbia condotta e sprovveduta di ogni dote che valesse a raccomandarli. Moltissimi di quei turbolenti, che cercano nella guerra bottino ed impunità, accorsero, non per combattere il nemico, ma per vivere a spese della patria [...]. Costoro ed altri loro somiglianti attirarono da ogni parte lamenti e disonore sulle intiere Legioni volontarie, indisposero le popolazioni contro una redenzione che aveva per apostoli questa razza di guerrieri, e favorirono colla loro tumultuosa insubordinazione l'indisciplina e il disordine; creando per giunta gravi difficoltà a' governanti di Milano con le loro pretese crescenti, e con l'infinito sperpero di quanto era necessario al sostentamento dei Corpi armati. Essendo composti "del fiore e della feccia della società", i corpi volontari avrebbero richiesto Quadri esperti e risoluti: ma questi mancavano, perché per quanto pieni di buona volontà e di coraggio, i Quadri volontari erano tutti "nuovi alla vita militare" . Di qui la forte critica ,del Dandolo a coloro che, "posti alla somma delle cose ed esperti in affari di guerra", hanno preferito "aumentare e esagerare l'imperizia e i disordini di quei soldati improvvisati", anziché prendere i provvedimenti necessari per eliminare le loro lacune. E poiché la guerra ormai "opponeva i cannoni ai cannoni, i baluardi alle baionette", sarebbe stato meglio "abbandonare lo stolido pensiero di creare in pochi mesi un esercito [lombardo] compiuto, e invece incorporare i giovani lombardi nei reggimenti piemontesi", lavorando così per laju,sione coi fatti e non solo con le parole: ma fosse debolezza del governo lombardo, o prepotente influenza del partito mazziniano che cercava ogni mezzo per ingelosire la popolazione contro la pretesa usurpazione del Piemonte, egli è indubitato che se la Lombardia avesse contato minor numero di volontari, ed il Piemonte più soldati, le cose sarebbero riescite ad esito migliore.


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Nel luglio 1848 - prosegue il Dandolo - lo Stato Maggiore lombardo poteva contare su una forza di 30.000 uomini, che però ben poco hanno pesato sulle sorti della guerra. È vero che i volontari sullo Stelvio, sul Tonale, sul Caffaro difesero con valore le posizioni, sopportando pericoli e disagi: ma un reggimento regolare avrebbe largamente adempiuto a quello scopo, e dippiù col prestigio dell'uniforme e coi vantaggi della disciplina avrebbe giovato alla propagazione di sentimenti liberali nelle genti titubanti e incerte del Tirolo italiano; ed invece di battaglioni di coscritti che non avevano altro di regolare tranne il nome ed il numero, e che mal seppero resistere sotto Mantova e nella difficile ritirata al fuoco, e che erano per la maggior parte ~novelli, i reggimenti piemontesi si sarebbero rinforzati d'una leva giovane e animosa; le reclute al contatto di soldati provetti, e sotto il comando di sperimentati ufficiali avrebbero grandemente contribuito al continuamento della guerra.54

Segue la descrizione della campagna del Tirolo, maJ condotta e maJ comandata dal generale Allemandi (del Durando invece il Dandolo ha stima), mal compresa e maJ sostenuta dallo Stato Maggiore piemontese, costellata di discordie tra i Capi, di ammutinamenti, gravi atti di d'indisciplina, angherie e vandaJismi nei riguardi della popolazione civile. Tutti fatti che oscurano gli atti di valore pur compiuti e il comportamento corretto della maggioranza di buoni volontari e in particolare della Legione Manara, la quale oltre che di valore, dà prova di disciplina e spirito di sacrificio. Secondo il Dandolo, particolarmente funesto è stato l'ordine di concentrarsi nelle città d'origine per "organizzarsi" dato ai corpi volontari dopo la fallita spedizione nel Trrolo. Egli osserva giustamente che quelle schiere di giovani poco amanti della vita di caserma e per la maggior parte ansiosi solo di battersi, avrebbe accettato molto malvolentieri di sottoporsi ai noiosi esercizi <lel soldato, anche perché !'"organizzazione" avrebbe dovuto compiersi nelle città più popolose, fra le mille distrazioni e i rumori di cui particolarmente allora esse erano il teatro. I più fra i soldati aveano colà le famiglie, gli amici; le fazioni politiche impiegavano ogni lor possa per accaparrarsi il favore della truppa; quella perniciosissima manìa invalsa delle dimostrazioni, delle gare cittadine, ed infine quel deplorevole caos d'opinioni, di sospetti, agitavano le menti anco più ferme, travolgendo ogni ordine e disciplina" .

Situazione aggravata dal governo lombardo, il cui Ministro della guerra concede con prodigalità brevetti di ufficiali a uomini che non conosce, e

54

"

ivi, pp. 19-20. ivi, p. 46.


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magari a ufficiali radiati... A tutto questo si aggiungono i] disordine, gli sprechi e ]e ruberie nella branca logistico-amministrativa, affidata dal governo lombardo a un avvocato senza aJcuna esperienza militare anziché a un provetto e esperto ufficiale; ne approfittavano naturaJmente i fornitori, e il risultato erano "poche scarpe, misere giubbe di tela, non sacchi, non cappotti, non giberne, nessuna regolarità nell'amministrazione, nel reclutamento e nella conservazione dei Quadri". Con siffatte, gravi lacune organizzative, l'addestramento non può che essere carente; esso avviene senza precise direttive, e viene lasciato alla discrezione asso]uta dei vari comandanti, i qua]i pera1tro ne ignorano le norme e non hanno nessuna esperienza in merito. Sono richiesti degli ufficia]i e sottufficiali istruttori all'esercito piemontese, che però non vengono inviati; mancano persino i regolamenti addestrativi. "Fortunatamente che noi trovammo convalescente in Salò certo signor Cavigliotti sergente nel 14° reggimento, il quale si prestò di buon grado all'istruzione degli ufficiali e bass'uffiziali ..".56 Dunque, anche un sergente "regolare" tra i volontari è merce preziosa, introvabi1e. Cionondimeno, il Dandolo ritiene esagerate ]e critiche, e loda il comportamento delle colonne della divisione lombarda, specie dopo un'accurata epurazione che toglie ai reparti gli elementi peggiori; di grande interesse anche la sua descrizione de11e gesta della Legione Manara alla difesa di Roma. Dalle sue ino1teplici e spesso traumatiche esperienze egli trae due ammaestramenti fondamentali: primo, i Corpi volontari hanno come unico motore l'entusiasmo, che non è eterno e che la guerra mette ogni giorno alla prova; secondo, colle legioni di volontari, si può bensì iniziare e rafforzare una insurrezione, ma con quelle schiere di ragionatori, di avvocati, di tribuni popolari, con quei mille colori politici, con quelle inconsiderate speranze e quella leggerezza d'opinioni e prontezza di sospetti, non si sarebbe mai potuto far fronte ai battaglioni croati che pensano e parlano peggio di noi, ma purtroppo obbediscono meglio57• Queste amare constatazioni lo spingono a una scelta personale assai drastica, tipica dell'innamorato deluso, di chl vede distrutti i suoi sogni giovanili di fronte a una rea1tà che non può accettare: dopo aver conosciuto a fondo le doti e i difetti d' una truppa di volontari, io sono entrato nel fermissimo proponimento di non impacciarmi mai più con simil genere di armati , come quello che assai di rado può efficacemente aiutare il suo Paese, recar onore a chi vi appartiene, e troppo male risponde a1 desiderio di chi voglia seriamente apprendere l'arte militare.58

S6. 57

ss

ivi, p. 51. ivi, p. 91. ivi, p. 20.


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A fronte delle amare conclusioni del Dandolo, un libro in certo senso speculare ai suoi ricordi è quello del colonnello Francesco Anfossi Merrwrie sulla campagna di Lombardia5'i. Allo scoppio dell'insurrezione di Milano nel 1848 I' Anfossi è ufficiale subalterno dell'esercito piemontese; una volta avuta notizia che il fratello era caduto per mano austriaca, chiede insistentemente di passare nell'esercito lombardo, ancor prima che abbia inizio la guerra. Non c'è da stupirsi se riceve, all'inizio, dei recisi rifiuti: c'è invece da stupirsi che egli, pur essendo un semplice subalterno, indirizzi senza conseguenze disciplinari continue petizioni alle più alte autorità militari piemontesi e riesca a conferire senza troppe difficoltà con loro, fino a essere accontentato. Stando a quanto riferisce, gli si fa notare che va a mettersi alla testa di rivoluzionari come suo fratello; e lamenta anch'egli il cattivo trattamento dei volontari da parte degli ufficiali piemontesi, tra i quali prevalgono nobili poco favorevoli alla guerra, per timore di perdere privilegi e di aprire la strada agli odiati repubblicani. Nel corso della guerra 1848/1849 è comandante del cosiddetto "reggimento volontario della morte", dove milita per qualche tempo - senza esserne entusiasta - anche Carlo Pisacane. Il comportamento dell'unità da lui comandata - che come la Legione Manara combatte agli ordini del generale Giacomo Durando - è naturalmente elogiato dall'Anfossi, che però è l'unico a farlo, pur lamentando di essere stato mandato volutamente allo sbaraglio, con ordini sproporzionati alle possibilità del suo reparto. Ben diverso è il giudizio "esterno" del Dandolo: quest'ultimo reggimento, stante la pessima sua formazione e la condotta del comandante, seppe nonostante gli sforzi di parecchi distinti ufficiali, compiutamente disonorarsi, rendendosi oggetto di disprezzo presso le altre Legioni, e di spavento per i pacifici abitatori de' luoghi nei quali stanziava. In particolare, sempre secondo il Dandolo il 22 maggio le truppe austriache attaccano le posizioni difese dal reggimento volgendolo in fuga; il generale Durando, accorso sul posto, "costringe" i fuggitivi a occupare le retrostanti posizioni di Monte Suello e del Caffaro; ma durante la fuga "i soldati della morte si copersero d'infamia per la loro viltà e per il saccheggio dato fuggendo ai villaggi di Caffaro e di Ladrone. In quest'ultimo il magnifico palazzo dei conti Lodrone tirolesi, sotto pretesto che apparteneva a un nemico, venne abbruciato e derubato"60• Il reggimento si distingue in negativo anche nei disordini e ammutinamenti scoppiati in seguito all'ordine dato dal generale Durando di lasciar passare attraverso gli avamposti dei carri di grano destinati agli operai di talune fabbriche della zona, il cui proprietario era un liberale assai noto. In questa occasione, secondo il Dandolo

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..

Torino, Stab. Tip. Fontana 1851. E. Dandolo, Op. cit., pp. 52-53.


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i Cacciatori della Morte, soldati che non sapevano per nulla far rispondere al ciarlatanismo del nome le opere, e che vennero additati in generale come i più indisciplinati e inonesti di quanti trovavansi in quelle contrade, in veder passare quelle provvigioni sospette si ammutinarono, gridando eh' era grano destinato dai traditori ad alimentare i nemici, e che non si dovesse lasciarlo transitare.6 ' Chi ha ragione? Il giudizio non interessato del Dandolo sembra più credibile. Nel 1848/1849 il "reggimento della morte" dà evidentemente cattiva prova, visto che nel 1859 si rifiuta ali' Anfossi, suo comandante, l'arruolamento nei Cacciatori delle Alpi e poi in quelli degli Appennini. Inoltre nel I 860 lo stesso Anfossi, comandante della 5' compagnia dei Mille (e non più di reggimento) allo sbarco in Sicilia, viene successivamente congedato, e nel 1866 non risulta nemmeno essersi presentato... 62 Se il Dandolo trae da fatti come questo l'orientamento a limitare il numero delle unità volontarie e organizzarle meglio comunque privilegiando le forze regolari, l' Anfossi è di parere opposto: a suo avviso il governo lombardo avrebbe dovuto fare proprio quello che non aveva fatto l'Esercito piemontese, cioè spingere la guerra a fondo creando un esercito rivoluzionario ... Viene ora da chiedersi: i volontari che si arruolano direttamente nell'Esercito piemontese sono malvisti? incontrano difficoltà? Interessante, in merito, la testimonianza dell' ufficiale piemontese Cesare Rovighi, il quale loda l'entusiasmo, il rendimento e la disciplina dei volontari che nella guerra del 1859 si sono arruolati nella 3' divisione dell'armata sarda'·3; per contro - egli osserva - i soldati piemontesi di 2' categoria (cioè esentati dalla normale ferma di leva in pace, e istruiti solo per 40 giorni) giunti alla divisione dai depositi, sono insufficientemente addestrati, né hanno avuto tempo di assimilare i concetti di disciplina, spirito di corpo ecc. ; viene perciò previsto per loro un periodo di addestramento supplementare. Congedati al termine delle operazioni, i volontari fanno una spontanea dimostrazione di simpatia e affetto al generale Mollard, comandante della divisione. Comunque - aggiunge il Rovighi - rispetto ai soldati soggetti agli obblighi di leva essi sono un'altra cosa, non costituiscono un valido termine di confronto, perché "passa grande differenza tra persone quasi tutte intelligenti e infiammate da entusiasmo, e altre che in massima parte lasciano i lavori campestri per indossare l' uniforme". Il Rovighi, comunque, accenna al fatto che, anche nella guerra del 1859, elementi contrari alla guerra diffondono tra le file dell'esercito il malcontento e l'odio per la riscossa, dividendo gli animi.

ti i. 62

63

ivi, p. 69.

, "Dizionario del Risorgimento Nazionale" (a cura di M. Rosi}, Milano, Vallardi 1930, Voi. Il p. 71. Cfr. C. Rovighi, Storia della JA divisione dell'esercito sardo nella guerra del 1859, Torino, Tip. Ed. 1860.


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Di parere assai diverso dall' Anfossi, e talvolta - ma solo talvolta anche dal Dandolo è un tipico volontario, l'ingegner Giovanni Cadolini di Cremona, garibaldino e deputato che non partecipa solo alla guerra del 1848/1849, ma anche a quella del 1859 (dove è subalterno del De Cristoforis e poi comandante delJa sua stessa compagnia dopo la sua morte), aJla campagna del 1860 (dove è comandante di reggimento sul Volturno) e infine a quella del 1866 (dove svolge lo stesso incarico). L'Isastia ne cita solo il diario del 1859, custodito dall'Ufficio Storico SME e pubblicato "con alcune omissioni" sulla Nuova Antologia del 1° luglio 190764 ; occorre però fare riferimento soprattutto ai suoi ricordi sulla campagna del 1866 (Il quarto reggimento dei volontari ed il Corpo d'operazione in Va/camonica nella campagna del 1866)65 e alle sue Memorie del Risorgimento dal 1848 al 1862.6(, Anche in questi volumi si trovano le critiche, del resto generali, al cattivo trattamento dei volontari da parte dell'Esercito piemontese, alle loro lacune logistiche e d'inquadramento alle quali non si pone rimedio, al loro cattivo impiego, alJ'eccesso di burocrazia e alla farraginosità dell'amministrazione ecc: ma sulla condotta di parte dei volontari, su pregi e limiti delle loro caratteristiche, sull'effettiva possibilità di estendere, e, per così dire, istituzionalizzare tale formula, il suo punto di vista è assai affine a quello dell'inesperto e giovanissimo Dandolo, le cui osservazioni - data la sua breve esperienza ristretta a quell'infelice guerra 1848/1849 - potrebbero essere ritenute non sufficientemente meditate, o compilate "a botta fresca" (per questo, forse, la lsastia non ritiene opportuno citarlo). Anzitutto il pensiero del Candolini sulla nazione armata vagheggiata da Carlo Cattaneo e dalJo stesso Garibaldi dopo il 1860, è assai chiaro, ed è basato sulla sua concreta esperienza di comandante specie dopo la battaglia del Volturno, quando deve fare i conti con la comprensibile stanchezza di uomini valorosi che da quattro mesi affrontavano senza respiro, oltre che i combattimenti, i disagi, le fatiche, l'inclemenza del tempo, con equipaggiamento sommario e cattivi rifornimenti. Numerosi sono gli atti di indisciplina e i rifiuti di compiere i normali servizi di caserma e/o di compiere esercitazioni: e a fronte di 9050 prigionieri borbonici scambiati dopo la battaglia, i garibaldini prigionieri restituiti dai borbonici furono 1010, cifra non indifferente per truppe volontarie, la quale indica che, sul Volturno, l'Esercito meridionale di Garibaldi compie lo sforzo finale ed estremo. Il Cadolini perciò, riferisce che dopo la battaglia del Volturno i volontari, "anche perché erano stremati, cominciarono a manifestare stanchezza e malcontento". Numerosi gli inviati in ospedale; ma "nessuno poi ignorava che molti volontari usciti dagli ospedali, anziché tornare ai corpi,

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., "'

A.M. Isastia, Op. cit. , pp. 11-13 e 164. Firenze, Tip. Diritto 1867. Milano, Cogliati 1911.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848- 1870)

rimanevano a Napoli che era popolata di camicie rosse, né il Governo sapeva riparare a tanto disordine"67 • È cosa assodata e da tutti riconosciuta che il volontario, una volta finita la guerra, desidera solo tornare a casa; è quello che vuole, naturalmente, la massa dei garibaldini e anche buona parte deglj ufficiali, compreso il Cadolini che è tra i primi a presentare le dimissioni. Quando Capua non è ancora caduta il Cadolini riceve la visita di Carlo Cattaneo, che recatosi a Napoli, con il Bertani e il Mazzini avrebbe voluto ritardare il plebiscito e convocare un'assemblea "per imporre alla dinastia [piemontese] i patti dell'annessione". Il Cadolini invece è fautore - prima di tutto per ragioni militari - dell'annessione immediata e incondizionata al Regno d'Italia e deJI'intervento al Sud dell'esercito regolare, e cosl descrive la visita: gli mostrai l'accampamento che non poteva produrre buona impressione, e procurai spiegargli come cadessero in grave errore coloro i quali, come lui, meditavano di iniziare coi nostri volontari nuove imprese, persino la liberazione di Roma; che i volontari erano ormai stanchi e volevano tornare alle loro famiglie, e che se i borbonici avessero tentata una nuova battaglia con forze riunite, saremmo stati impotenti a sostenerne l'urto. Dai volontari non si deve pretendere più di quanto possono dare. Quanto ad espugnare Capua e poi Gaeta, egli stesso vedeva che [data anche la scarsità estrema delle artiglierie necessarie - N.d.a.] non ne avremmo avuto i mezzi. Da ciò appariva la necessità di affrettare la venuta dell'esercito regolare, necessità pure confermata da Garibaldi che, con lettera del 4 [ottobre], aveva chiesto al Re il sollecito invio di 4.000 uomini a Napoli. 68 In materia di nazione armata dissente apertamente da Garibaldi, del quale pure ammira il genio strategico e tattico, respingendo l'idea che non applichi i principì classici dell'arte della guerra a cominciare dalla massa, e che non sia quindi, un vero e proprio condottiero nel senso classico del terrnine. 69 ln una lettera al Bellazzi in data 29 dicembre 1860 Garibaldi parla di organizzare un milione di itaµani armati per completare l'unità nazionale, ma il Cadolini replica realisticamente: che ciò si potesse fare in tre o quattro mesi era certamente un sogno. Per obbedire alla fretta, si correva il pericolo di essere sconfitti. Era innanzi tutto necessario ordinare lo Stato ingrandito, preparare le popolazioni al servizio militare. Non bastava chiamare mezzo milione di uomini sotto le armi, occorreva istruirli, avvezzarli alla

67 ·

G. Cadolini, Memorie (Cit.), pp. 45~55.

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ivi, p. 456. ivi, pp. 465-467.

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disciplina, farne dei buoni soldati: perché da una massa d'uomini rozzi raccolti col reclutamento ordinario, non si poteva attendere quanto avevano operato i 22 mila volontari che vinsero al Volturno, per la maggior parte borghesi istruiti e animati dal più fervido patriottismo. Né era possibile provvedere in breve tempo tutti i materiali da guerra, i cannoni, i cavalli, e gli oggetti di corredo per tanti uomini.10

Il Cadolini fa parte fin dal luglio 1848, a diciassette anni, della colonna di volontari cremonesi al comando del maggiore Tibaldi. A Brescia la colonna pernotta in una caserma con pagliericci sudici che era prima stata occupata dai croati; perciò con alcuni compagni, evidentemente come lui di famiglia facoltosa, prende alloggio in un albergo, "atto d'indisciplina che in quei momenti si poteva perdonare". Più in generale, osserva che nel 1848 "la disciplina era molto democratica (sic), caratteristica di quel tempo di assoluta inesperienza, della quale vedemmo in quell'anno le gravissime conseguenze, che servirono di ammaestramento per le successive campagne".1 1 Oltre alla scarsa disciplina, lamenta anche che alla colonna venivano fomiti viveri in contanti anziché in natura, e che ai vulunlari si inst:guava il maneggio dell'arma ma non a combattere in ordine sparso, cosa che ad essi sarebbe stata a<;sai utile, e che allora era prerogativa dei soli bersaglieri. Gli ammaestramenti che trae da queste prime esperienze sono affini a quelli del Forbes e del Dandolo: per costituire un forte esercito non bastano migliaia di cittadini disposti a combattere, ma occorrono "uomini domati alla disciplina e addestrati alle armi, condotti da ufficiali molto istruiti, e avvezzi da tempo alla vita militare". In quanto all'errore di fornire in contanti il contro-valore dei viveri anziché inviarli in natura, "esso fu ripetuto anche nel 1849 e valse a dimostrare che i Governi provvisori d'allora, ed anche i comandanti, non sapevano attenersi alle più elementari regole della guerra". È nettamente avverso al Mazzini, prima di tutto per la sua politica, per così dire, "interventista", tendente a organizz.are ovunque insurrezioni che poi falliscono, e a spregiare i calcoli professionali di fattibilità, tipici dei militari; in merito cita le memorie dell'Orsini, secondo il quale i mazziniani chiamavano gli ufficiali del presidio di Genova "il partito militare, cioè quel partito che sino a che non abbia centomila soldati organizzati e disciplinati non vede speranza di riuscita nella rivoluzione". E, ancora una volta citando !'Orsini, diversamente dal Mazzini (che le insurrezioni intende organizzarle, dirigerle dall'alto, quasi imporle) pensa che "debbono essere promosse, non dal di fuori, ma da cagioni interne di amor patrio, di Qdio ali' oppressione tanto straniera che indigena; hanno, insomma, ad essere reali, sentite e non artificiali". Per esse, rivendica il ruolo trainante delle élites borghesi e di circostanze favorevoli, che non sempre si verificano:

70 · ivi, pp . 481 -482. "· ivi, pp. 30-31.


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lL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. 11 (1848-1870)

Le insurrezioni non si fanno a ora fissa, ma scoppiano da sé quando

spira il vento propizio de11a fede nel successo, che scuote le anime frementi. Le schiere non si reclutano tra i lavoratori pagati a giornata e senza il concorso della borghesia intelligente, che sola può condurre tutti gli elementi, tanto più allorquando i comitati dispongono di piccole somme. Con otto o dieci mila lire si pretendeva muovere un popolo. Riuscì il moto siciliano del 1860, perché incoraggiato dai successi del I 859, dagli eccitamenti di Garibaldi, e ancora sarebbe rimasto impotente, senza gli aiuti del Nord e infine anche dell'esercito regolare.72 Come del resto il Forbes e lo stesso Garibaldi, il Cadolini ritiene insomma, che per le formazioni volontarie siano necessari - e niente affatto dannosi per il loro spirito combattivo - disciplina, addestramento, rifornimenti regolari, ufficiali esperti e ben istruiti nell'arte della guerra, e che quindi nei reparti volontari almeno i posti-chiave (addetti a11'amministrazione, aiutanti dei comandanti, istruttori) dovrebbero essere affidati a ufficiali dell'esercito regolare. Il libro sul Quarto reggimento dei volontari ecc. rispecchia ad ogni pagina questo orientamento, anche se per la guerra del 1866 il Cadolini vi afferma a chiare note che la ragione ·dei numerosi ostacoli che (molto di più di quanto era avvenuto nel 1859) incontra l'organizzazione dei volontari, "la si troverà sempre nell'avversione ai volontari del Ministero [della guerra], il quale, premeditando e credendo possibile di non organizzarne mai la chiamata, nulla preparò, né quanto al modo di ordinarli, né quanto al loro corredo"; senza contare che "non meno gravi difficoltà ci furono create dal Paese", cioè dai Comuni, dalle varie organizzazioni e amministrazioni comunque interessate, ecc ..73 Gli episodi da lui riferiti sono, si passi il termine, tipicamente italiani, a cominciare dalle profluvie di raccomandazioni che riceve come comandante di reggimento nei primi giorni di mobilitazione, quando ha ben altro da fare, perché al deposito di Varese, dove si dovrebbero formare due reggimenti, arrivano i soldati prima degli ufficiali (sic): fui continuamente torturato dalle questioni individuali. Il numero dei reclami era infinito. Di tremila volontari, che io aveva, almeno settecento mi furono raccomandati. Poi vi era il padre che reclamava il rinvio del figlio, o perché unico, o perché gracile, o troppo giovane, o sostegno di famiglia; la moglie che reclamava il marito. Talvolta era il tutore, il docente che voleva accompagnare il pupillo od il discepolo con una raccomandazione veramente speciale. Poi molti volevano entrare nell'amministrazione, sebbene non conoscessero il servizio e la contabilità militare. Altri, appena giunti, chiedevano il permesso per rientrare temporaneamente a casa. Altri infine, a centinaia, volevano cangiar compagnia.74

n ivi, pp. 278-279. 73 · 1 •·

G. Cadolini, IL quarto reggimento... (Cit.), p. 13.

ivi, p. 15.


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Ministero a parte, funzionano male prima di tutto le commissioni di reclutamento locali. Esse inviano ai corpi anche "molti individui inabili e molti di notoria pessima condotta": di conseguenza il Cadolini, dal quale si pretende che da solo costituisca due reggimenti, si trova "in Varese al comando di una turba di gente indisciplinata e indisciplinabile, senza ufficiali che mi aiutassero nel difficile compito". Caratteristico l'episodio di una commissione, che gli invia un drappello di ben trecento volontari, dichiarando di farlo per ragioni di ordine pubblico (sic): "ora è agevole il persuadersi che se riusciva difficile il tener ordinata quella gente in una grande città dove non mancava la forza, dovea esserlo assai più nella piccola Varese, dove sei carabinieri erano il solo presidio di cui si potea disporre oltre la guardia nazionale, che pure non mancavano di assumere in quei momenti il servizio di vigilanza dei quartieri".75 Il Cadolini è perciò costretto a procedere egli stesso a una rigorosa epurazione, esaminandoli uno per uno. Fortunatamente individuare i cattivi elementi non è difficile, visto che fin dai primi momenti del loro arrivo capeggiano "chiassi e disordini". Può così rendersi conto che insieme con i palrioti vi sono "individui facinorosi, inviati apposta dai partiti avversi all ' Italia per creare disordini valevoli a disonorarci e indebolirci"; per giunta "pareva che alcuni Comuni avessero colta l'occasione della formazione di volontari per purgarsi della feccia". 76 Di fronte a queste difficoltà organizzative, non c'è bisogno di avere molta pratica della vita militare per rendersi conto di quanto sia pesante e ingrato il compito di chi - come il colonnello Cadolini - dovrebbe farne in tempi ristretti di una massa di gente tutta indisciplinata - e non tutta pervasa da un ideale un'unità combattente, a cominciare dalla scelta degli ufficiali. Tali difficoltà proseguono anche per tutto il resto delJa campagna del 1866, per la quale i ricordi del Cadolini sono un documento eloquente e veritiero dei pregi e difetti di queste truppe particolari. Ci limitiamo a ricordare, a mo' di esempio, l'accenno alle difficoltà che presenta il trasporto in ferrovia per i volontari a causa della loro indisciplina, e alla loro pretesa di conoscere in anticipo - in spregio alle esigenze del segreto militare - le località che dovrebbero raggiungere i reparti: "una delle cause per le quali questi volontari avevano tanto desìo di conoscere anticipatamente la meta deJJe nostre marce sta in ciò che molti di essi voleano precedere il corpo; sicché infatti mi avvenne che arrivato a Val di Saviore ebbi un telegramma annunziante che parecchi volontari, credendo che la nostra marcia fosse diretta a Breno, eransi colà recati e chiedevano come avrebbero potuto raggiungerci". Episodio indicativo di un certo clima disciplinare, inammissibile ieri come oggi in un vero esercito. A palesi atti di indisciplina, inconcepibili in ogni esercito regolare, si aggiungono le cadute di morale e le diffidenze verso la Leadership pro-

1 '· 76 ·

iVi, pp. 13-14. ivi, p. 14.


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vocate nel 1866 dalle illusioni di molti volontari, che credono di poter rinnovare i fasti della campagna del 1860 nell'Italia Meridionale, "perché non pensavano alla differenza dei luoghi, che non permettendo le cariche aHa baionetta, rendevano oltremodo difficile il vincere rapidamente, facendo uso di armi cotanto inferiori a que11e del nemico".77 Dopo aver sperimentato de visu questa situazione e affrontato pagando di persona i suoi inconvenienti, il Cadolini combatte due pregiudizi abbastanza diffusi all'epoca: il primo che vede la tradizionale disciplina come un freno all'entusiasmo e allo slancio che sono prerogativa tipica dei volontari, per i quali l'ascendente e il prestigio dei Capi dovrebbero supplire ad ogni regola disciplinare; il secondo che presenta il tipo di guerra condotto dalle truppe volontarie come qualcosa di diverso daH' arte militare per così dire classica, e dall'esperienza delle guerre precedenti. Sul primo punto, il Cadolini (come il Forbes e lo stesso Garibaldi) si dimostra fautore di una disciplina sostanziale, certamente aliena dall'eccesso di formalismo tipico de1la disciplina dell'esercito regolare, ma, in guerra almeno, tale da perseguire gli stessi obiettivi pratici: "che dai volontari non si debba pretendere quella disciplina che si richiede dalle milizie stanziai i è giusto, ma che nei volontari debba regnare il disordine è funestissimo errore. La difficoltà sta forse nel determinarne il limite; ma senza disciplina i volontari non po$sono degnamente compiere la loro nobilissima missione [... ]. Non importa che il volontario si attenga a tutti gli articoli del regolamento di disciplina, che non ha nemmeno tempo d' imparare; ma il dovere di star sempre al suo posto non solo quando si combatte, ma eziandio quando si riposa, lo deve conoscere e osservare ..."78• L'esempio della Legione Manara del 1849 - piccolo corpo disciplinato e anche politicamente omogeneo, dove tutto si reggeva sull'affetto reciproco - non vale: "si potrebbe sperare di ottenere altrettanto in un corpo di tre mila uomini per la maggior parte nuovi aHe armi e di fresco riuniti, che non si conoscono tra loro e non conoscono i loro ufficiali, e che son chiamati a eseguire marce strategiche, senza conoscerne il motivo, ed a non trovarsi di continuo a tiro di moschetto del nemico?"1 '1• Il secondo argomento è iUustrato dal Cadolini in due articoli sulla Nuova Antologia (Cfr. cap. VII). Ancora una volta, nulla da aggiungere al suo giudizio: "le tante vittorie che si altamente illustrarono il nome di Garibaldi non furono, come pensano gl'ignari dei princip1 dell'arte della guerra, il frutto soltanto del suo prestigio, della sua audacia e della velocità delle sue marce; bensì della squisita conoscenza dell'arte, della pronta intuitiva percezione di ogni concetto strategico, del genio d'immaginare ad ogni istante espedienti tattici altrettanto semplici quanto decisivi, della singolare

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·

ivi, pp. 94-95. ivi, p. 16.

""· ivi, p. 18.


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rapidità colla quale egli vede, giudica, pensa e opera. Che se talvolta in fatti parziali, lui assente, i volontari ebbero la peggio, si fu non perché taceva la sua voce che trasfonde fiducia e audacia, ma perché mancava la sua mente"80• Persino uno dei "palJini" dell' esercito regolare, l'uniformità della tenuta del soldato, viene riconosciuta dal Cadolini come una delle basi della disciplina anche per i volontari, pur senza inutili pignolerie. Per i volontari, comunque, il combattimento è "il più efficace fattore di disciplina": se sono validi i Quadri vi acquistano seduta stante autorità e prestigio, i cattivi elementi se ne vanno subito, i buoni che rimangono di fronte al pericolo del combattimento riconoscono la necessità dell'obbedienza e dell'unità d' azione. In questo quadro variegato e contraddittorio, il giudizio complessivo del Cadolini è positivo: cresciuto fra i volontari, vidi sempre ripetersi, dopo chiusa la campagna, le stesse impazienze, le stesse rimostranze[...] talché una parte degli ufficiali finisce la campagna col far sacramento di non voler più entrare nelle stesse file. Pure quanti seppero riconoscere che i volontari dovevano rendere eminenti servigi alla nazione ed opernre imprese che, come quella del 1860, senza di loro si rendevano impossibili, hanno persistito ad apprezzarne i pregi ed a ritenere che, se essi procurano ai loro ufficiali qualche amarezza, è doveroso il subire anche questa, pur di contribuire ad averli sul campo di battaglia, dove seppero onorare altamente il nome italiano."' In sostanza il Cadolini - né si vede come possa farlo - non intende certo denigrare quei volontari, che ha comandato per tanti anni; semplicemente, accanto al riconoscimento del loro valore di fronte al nemico mette in giusto rilievo le molteplici difficoltà che comporta l'esigenza di organizzare e condurre questi speciali reparti secondo principi di base, i quali questo va sottolineato - non possono che essere, nella sostanza, quelli degli eserciti regolari. Sul ruolo dell'esercito permanente e dei volontari, in fondo non la pensa in modo diverso dal Dandolo e dal Cadolini un uomo in questo campo almeno al di sopra di ogni sospetto di partigianeria: il repubblicano "puro" Felice Orsini, agitatore roma&nolo, ghigliottinato a Parigi dopo un fallito attentato a Napoleone III. 82 E contro tutti, compreso Mazzini; e all'opposto del Cattaneo, che la amplifica, nel 1858 ridimensiona nettamente la parte avuta dalle forze popolari nel 1848, quando la nazione non rispose come doveva all'appello dei milanesi: Sicilia diede un cinquecento volontari, Toscana un quattromila, lo Stato

"' ivi, p. 60. " · ivi, p. 97. " · Cfr. F. Orsini, Memorie poliriche, Milano, Sonzugnu 1858.


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Romano quattordicimila, Lombardia e Venezia quattrordicimila. Questo dal lato dei popoli. Da quello dei Governi un sessantamila piemontesi, un reggimento napoletano, un tre o quattromila toscani, da ottomila popoli compresi gli Svizzeri. Orbene, non è ella una meschinità la cifra risultante da queste frazioni, per una nazione di venticinque milioni?83 L'Orsini si dichiara, tuttavia. pronto a seguire quel governo - o quell'uomo - che "con efficacia e potenza di mezzi intraprenda la guerra della libertà", e riconosce che Vittorio Emanuele II "non è macchiato dei delitti del padre, e inaugurante una nuova era"; confida, perciò, che egli possa con miglior esito ritentare l'impresa già fallita al padre. Lo strumento non gli mancherebbe: nonostante le cattive prove del 1848/1849, afferma che l'Esercito piemontese è "uno dei meglio organizzati d'Europa", e indica persino come "militari di vaglia" il La Marmora e il Cialdini, lodando anche il valore di Cavour come politico "fra i primi non solo dell'Italia, ma dell'Europa stessa". Non basta: ostenta fiducia ne11'Esercito piemontese fino al punto da prevedere che "al cospetto degli Austriaci li metterebbe certo in fuga". 84 Giudizio alquanto azzardato e senz'altro propagandistico, che non tiene conto dei rapporti di forze. Paradossalmente, a ciò !'Orsini è indotto da una valutazione peraltro realistica, nella quale sta la radice di quella totale avversione a Napoleone ili, che condivide con Mazzini e Garibaldi, e che lo porterà al patibolo: se Vittorio Emanuele II volesse ritentare la prova gli Italiani, dopo le lezioni del 1848, anziché starsene a discutere sul principio governativo, e sulla città capitale d'Italia, si aggruppe-

rebbero tutti intorno all'esercito combattente. Può nulla meno sorgere all'improvviso un fatto che ci dia facoltà d'incominciare di concerto con un Governo italiano la guerra d' indipendenza; e questo verrebbe appunto a sciogliere la questione diplomatica [internazionale]. Ora una domanda: possiamo noi, senza il concorso di un esercito organizzato e compatto, cacciare gli austriaci? No, a meno che i soldati italiani, gettando a terra gli attuali governi, non facessero causa comune coi cittadini, e che gli italiani tutti fossero pronti di fare quanto operarono gli Spagnuoli contro Napoleone il Grande. La nazione italiana è essa pronta a ciò? Io ne dubito, dico anzi che il crederlo sarebbe un disconoscere le condizioni reali della penisola. Ma può darsi che tutti i popoli d' Europa si levino per la causa della repubblica e della solidarietà delle nazioni. Questo appunto avverrà, ed allora soltanto potremo sperare davvero di essere fatti indipendenti e liberi. 85

"

ivi, p. 47. ivi, p. 198. ,,. ivi, p. 198.

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Come il Cadolini, non crede alle insurrezioni organizzate dall'esterno e condotte a un unico scopo. Infatti nei movimenti insurrezionali "egli è ben difficile il poter esigere l'obbedienza, che si ha nei regolari. I soldati non si occupano del da farsi; seguono la voce del comandante: qui sta tutto. Ma, nelle cospirazioni, tutte ]e passioni umane sono messe in moto", tutti vogliono ragionare, fare piani ecc.. Per questo, dove vedonsi grandi fatti operati da masse disorganizzate, egli è l'effetto di rivoluzioni impensate, o maturate da lungo tempo e scoppiate ad una opportunità qualunque. Compiuta la rivoluzione, questa tocca subito ad una nuova forma, una nuova fase, un nuovo carattere. Egli è d'uopo allora sostenerla, e a questo intendimento si dà norma alle masse e organizzano militarmente, e s'introduce l'ordine e la regolarità, mentre da un altro canto si promuovono gli interessi popolari e si mettono in gioco le. passioni, onde l'entusiasmo, anziché spegnersi, sia riudito perennemente.""

Sostenitore del principio che al popolo italiano si può chiedere solo ciò che realisticamente può fare, in questo caso !'Orsini lo dimentica, e parla di

rivoluzioni e di masse organizzate militarmente; né si comprende perché mai l'esercito di Vittorio Emanuele II dovrebbe essere, in Italia, il perno di una rivoluzione che egli vorrebbe repubblicana in tutta Europa. Questo spiega la sua ostilità a Napoleone III, che ritiene non un indispensabile alleato delle forL.e vogliono l'unità d'Italia, ma il principale ostacolo a tale unità, perché puntello del dispotismo in Europa. Tolto tale puntello, diventerebbe possibile quella rivoluzione europea, nella quale dovrebbe inserirsi, per avere successo, quella italiana. "La camicia rossa al [Museo del] Bargello": l'espressione più avanzata dell 'antivolontarismo in "Volontari e regolari" ( 1868-1870) di Paulo Fambri

I giudizi sui volontari finora esaminati alla fin fine non ne disconoscono affatto l'utilità, i meriti, il valore, la missione storica. In un intervento in Parlamento nel dicembre 1867, cioè subito dopo la sconfitta garibaldina a Mentana per opera delle truppe francesi, e in successivi articoli sulla Nuova Antologia del 1868 (poi ampliati e raccolti in volume nel 1870l7, il deputato e scrittore militare veneziano Paulo Fambri ne attacca invece a fondo i princìpi, la formula, le motivazioni morali e patriottiche. Un'opera in certo senso provocatoria e dai toni accesi, che rifiuta in partenza ogni

"" 87 ·

ivi, p. 77. P. Fambri, Volontari e regolari, Firenze, Succ. Le Monnier 1870. La lsastia dedica 12 righe a questo volume (A.M. lsastia, Op. cii. , pp. 7-11).


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. n (1848-1870)

approccio sereno, anche se risulta interessante e ricca di stimoli. Il Fambri non è certo un esponente dell' establishment militare: in fondo anch'egli è stato volontario e può definirsi ''un irregolare". Nel 1848 abbandona l'esercito austriaco e partecipa alla difesa di Venezia; nel 1858 fugge in Piemonte. Partecipa alla campagna del 1859 prima come soldato semplice e poi come ufficiale di fanteria; passato ne] genio vi raggiunge il grado di capitano, ma nel 1864, a causa di certi suoi scritti che il Ministro della guerra generale Della Rovere non aveva gradito, è costretto a dimettersi e da allora in poi si dedica a tempo pieno, con successo, all'attività pubblicistica. Discutibi1e, anzitutto, i] significato che il Fambri attribuisce alla parola volontario: per lui sono volontari (e non è sempre vero) non solo coloro che si arruolano spontaneamente nell'esercito regolare e/o ne11e formazioni garibaldine, ma anche i guerriglieri spagnoli, i cittadini che accorrono alle armi solo in caso di pericolo in un ordinamento tipo nazione armata, i coloni americani che hanno avuto la meglio sull'esercito professionale inglese, i soldati francesi di Valmy e Jemappes nel 1792. Distingue tra soldati per amore (volontari) e soldati per forza (cioè di leva), come se la nazione armata non fosse anch'essa basata sul servizio obbligatorio; e distingue tra volontari in un corpo tutto di volontari e volontari in un corpo regolare, senza mettere in evidenza il contrasto assoluto tra volontari all'inglese (cioè soldati di mestiere che formano la quintessenza dell'esercito permanente e che non si arruolano né per amore né per forza, ma per bisogno) e volontari garibaldini, e tra questi ultimi e i cittadini-soldati costituenti la vera nazione armata, i quali in gran parte non sono affatto volontari. Di queste categorie di giudizio piuttosto grossolane egli si avvale per demolire anzitutto gJi exempla historica che dalle guerre napoleoniche fino alla recentissima guerra di secessione americana (1861-1865) sono serviti da perni non solo per le teorie dei nemici degli eserciti permanenti ma anche per gli scrittori politici e militari italiani di varie tendenze, come esempio di unità contro lo straniero. In quest'opera di deligittimazione storica (si direbbe oggi: di revisionismo) il suo ragionamento non è originale, né "nazionale". Le fonti che predilige sono straniere: gli studi sull'ordinamento degli eserdti del generale belga Brialmont (molto citato in Italia per le sue opere di fortificazione) e gli scritti degli storici conservatori francesi de Broglie e Bourgoing. Con un termine moderno quest'ultimi potrebbero essere definiti "revisionisti", perché (è un'espressione del Fambri) in vario modo "rivedono le bucce" dei "volontari" spagnoli, francesi e americani. Più in generale, non trova posto nell'approccio del Fambri lo spiritualismo clausewitziano, quando in polemica con certi storici scrive che a sentirli loro, nelle battaglie i cannoni erano per di più, ma quelli che vinsero sono stati i principì. I battaglioni, sta bene, hanno anch'essi contribuito, ma chi veramente ha spazzato il suolo na.z.iunak dai soldati ili Federico sono state le idee [... ] ma nessuno


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più di noi italiani, stati volontari 20 anni fa [cioé nel 1848/1849 -N.d.a.], e battuti sebbene ricchi di non minore entusiasmo, e di quattro tanti più di ragioni che i volontari del 1792, devono avere imparato a proprie spese che i principi vinceranno benone a lungo gioco le campagne della coscienza e quelle della storia, ma che in pratica si possono perdere e si perdono intanto, se mal dirette, le battaglie di un giorno [... ] I dottrinari invece, dando la mano ai leggendarii, hanno largamente seguitato a proclamare di comune accordo r...l la onnipotenza del popolo armato. 88

Non è stato "battendo il suolo con un piede" che la Francia ha trovato le forze per opporsi all'invasione: fino alle giornate decisive di Valmy e Jemappes i volontari furono pel generale in capo un imbarazzo assai più che una forza, sia compromettendo delle operazioni delicate in corso di esecuzione, sia paralizzando colla lusinga dei loro privilegi il reclutamento dell'esercito regolare. E' nel nucleo dell'armata regolare già formata dalla monarchia, nei quadri degli eccellenti sottufficiali di cui abbondava, genle che dalle passioni e ùalk paure aristocratiche non era tirata a emigrare, che la Francia trovò i suoi elementi di difesa.

La vittoria francese, inoltre, è stata facilitata da un avversario "non solo appena mediocremente numeroso, ma altresì molle, sconnesso, incoerente". E indagando nel campo nemico con l'aiuto dei ricordi di un nome illustre, Wolfgag Goethe, il Fambri proprio così facendo fornisce i migliori argomenti ai suoi avversari, a coloro i quali sostengono che a Valmy c'erano in campo dei principi, che il contrasto reale era tra il nuovo e il vecchio mondo, che sé ordinamenli, strategie e disciplina del nuovo esercito non erano privi di mende, essi erano nondimeno la vita, erano l'avvenire, portavano in sé elementi di soverchiante vitalità, mentre i loro nemici aristocratici rappresentavano ciò che in nessun modo avrebbe potuto sopravvivere, perché perdenti prima di tutto sul piano morale. Secondo l'amara descrizione di Goethe, i nobili ufficiali francesi emigrati avevano al seguito anche sul campo di battaglia carrozze e cavalli con mogli, figli e amanti, erano scarsamente disciplinati, sopportavano male i disagi, non obbedivano facilmente agli ordini, perché la gerarchia militare non corrispondeva sempre à quella sociale; in quanto alla truppa, era composta da "straccioni, ladri e peggio". Non esisteva alcuna organizzazione logistica; e i prussiani, "le poche volte che non rubavano, pagavano con una certa carta che si chiamava i buoni di Luigi XVI, i quali sarebbero divenuti esigibili solo a ritorno della monarchia". Questa situazione fa sì che gli emigrati francesi e i prussiani, mai veramente sconfitti sul campo, lo furono sul piano morale e logistico; al contrario, per le truppe della Rivoluzione "sino "· ivi, p. 509.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848- 1870)

allora infelici ovunque, lo aver tenuto testa al duca di Brunwick fu una rivelazione che elevò l'animo", tanto da far scrivere allo stesso Goethe (il quaJe pur faceva parte dei controrivoluzionari) che "su questo terreno e in questo giorno si è iniziata una nuova era storica, e noi si potrà dire d'essere stati testimoni". Conforta questa tesi anche l'opinione di Napoleone I: "è un errore il credere che in pochi mesi si possa educare un buon fantaccino. Coltivandolo, ci troveremmo condotti a non avere più esercito. Durante i primi anni della Repubblica hanno vinto non i volontari, ma quei 180.000 uomini del vecchio esercito, in parte già usciti dalla file, ma che la rivoluzione raggranellò e risospinse alle frontiere". 89 Stesso discorso per quanto riguarda la guerra d'indipendenza spagnola 1808-1813: nonostante il favorevole ambiente geografico e le buone qualità_ di fondo del popolo spagnolo, i corpi volontari locali (tra di essi, includendo anche i guerriglieri) "sono ben lungi dall'avere compiuta la parte militare loro attribuita dal burbanzoso patriottismo locale, e dalla più o meno restante Europa'"~1• Il ruolo determinante contro i francesi l'hanno avuto le truppe inglesi di Wellington; mal guidati da generali garruli, incompetenti e presuntuosi, nelle battaglie in campo ape1to i volontari spagnoli sono quasi sempre fuggiti o hanno subìto dure sconfitte. Non sempre i capi politici e militari spagnoli e i capi guerriglieri sono stati favorevoli agli inglesi: in determinate fasi della guerra hanno anche cercato di trattare con i francesi. In quanto al popolo, il suo morale ha subìto alti e bassi; comunque i francesi, fino a quando hanno potuto pagare, hanno trovato sempre buone e fedeli truppe ausiliarie. La conclusione del Fambri è che è inutile andare fino in Spagna per ricercare exempla del valore dimostrato dai corpi irregolari contro i regolari. Essi possono benissimo essere trovati in Italia: né il Manin, né il Mazzini, né il Garibaldi, né il Pepe trovano per forza, costanza e interezza di propositi chi sia loro paragonabile nella storia politica o militare dell'insurrezione spagnola. Quale dei capi delle nostre crociate si è sognato mai di entrare in trattative per passare sotto le bandiere del nemico, come il Mina, l'Infantado [ ...]? Nessuna delle nostre assemblee fu mai, come le Cortes, sul punto di transigere in fatto di indipendenza o dignità nazionale [ ...]. Se l'Italia del 1848 avesse avuto un nocciolo di forze regolari proprie e straniere metà forse della Spagna, un uomo come il Wellington per dirigerle, e un tesoro come l'inglese per pagarle, le cose sarebbero andate davvero altrimenti [ ...]. E volendo proprio dei volontari alla spagnola c'è egli bisogno d' andare in Spagna a cercarli? Il cardinale Ruffo e Frà Diavolo ve ne danno finché vi pare; per Saragozza vi presento Crotone e Amaltea [focolai della rivolta calabrese contro le

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ivi, pp. 83-84. ivi, p. 45.


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truppe francesi - N.d.a.l- Li volete poi in campo aperto? L... J Ebbene, lo Championnet potrà dirvi dei volontari italiani ciò che né il Soult, né il Suchet, né il Mam10nt potranno degli spagnoli.9 '

I combattenti della guerra di secessione americana non erano certo tutti volontari ma - da una parte e dall'altra - soprattutto coscritti che obbedivano alle leggi; eppure il Fambri li accomuna ai soldati per amore, e ne mette in risalto la qualità di irregolari, riferendo tale aggettivo non tanto a ordinamenti o paghe speciali diversi da quelli "regolari" e europei, ma al lallo che, tranne un piccolo nucleo, ufficiali e truppa erano soldati improvvisati, cioè degli uomini che vestivano una divisa e andavano a combattere senza alcun preventivo addestramento. In ogni caso, richiamandosi al Brialmont il Fambri osserva che una ~uerra di truppe irregolari contro altre irregolari non prova niente, e che, comunque, l'America è il paese al mondo dove gli eserciti permanenti sembrano essere meno necessari che altrove, per tre diverse ragioni. La prima è poljtica: negli Stati Uniti un organismo disciplinato agli ordini del potere l·secutivo non sarebbe giustificato da ragioni di politica estera e insospettirebbe i cittadini, perché colà la democrazia "è estremamente gelosa e ombrosa". La seconda è economica: gli eserciti permanenti assorbono lmppa forza-lavoro in un Paese, dove non difetta mai il lavoro e l'iniziativa non trova ostacoli. La terza è morale, e va ricercata nella sconfinata fiducia in sé stessi degli americani, "i quali partono dall'assioma che un uomo possa Il per lì ciò che vuole, e che non vi abbia americano che ben vestito e armato non valga un perfetto soldato regolare d'un altro paese". D'altro canto, il movimento di opinione a favore delle "truppe improvvisate" che la guerra americana 1861-1865 ha suscitato, non è dovuto né a superiorità di capi, né a quello delle truppe: il Lee, lo Stonewall, il Grant non superano Garibaldi; anche i volontari italiani valgono più di quelli americani. Quest'ultimi hanno però potuto fruire di quattro grandi vantaggi che hanno accresciuto oltre il dovuto la loro fama: a) i grandi progressi tecnici ottenuti <la una fiorente industria rivolta ai fini militari; b) la mancanza nelle autorità militari di qualsiasi pregiudizio nei riguardi di nuovi mezzi; e) la risolutezza del partito unionista del Nord; d) infine l'America "aveva un mezzo strapotente per celare i molti capitali difetti dei suoi volontari: né più né meno che l'Oceano".92 Questi vantaggi, dunque, per il Fambri non sono stati dei volontari americani rispetto a quelli italiani, ma piuttosto dell'America rispetto all'Italia. Egli passa poi a demolire il mito dell'"economicità" del ricorso alle lruppe improvvisate, o meglio della nazione armata. Demolizione più apparente che reale, perché basata sul gran numero di uomini e sulle ingenti spese che ha richiesto la guerra di secessione (2.540.000 uomini e 22

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ivi, pp. 53-54. ivi, pp. 56-58.


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miliardi spesi dagli Stati del Nord per il solo periodo dal 1861 al 1865, il che equivale al quadruplo di uomini e al sestuplo di spese della Repubblica francese e di Napoleone dal 1789 al 1815). Il lettore, a questo punto, si chiede: quante di queste ingenti spese erano causate dall'inesistenza di un forte esercito permanente in pace? In qualsiasi Paese siffatte, grandi dimensioni dello strumento militare sarebbero costate molto care. Con più efficacia il Fambri mette in luce l'indisciplina, l'anarchia e la disorganizzazione anche logistica che hanno caratterizzato le truppe americane sia nella guerra d'indipendenza 1775-17 83, sia nella più recente guerra di secessione.•n Nel 1775-1783 il generale Washington assai più che a combattere gl'Inglesi dovette spendere le forze del suo genio e dell'inesauribile sua pazienza a combattere l'anarchia, lo sfacelo che anno per anno minacciavano di lasciarlo anche senza quell'esercito il quale meritava, al dire del Botta (il Martin lo cita volentieri) il nome di accozzaglia d'uomini che, appena scaduta la ferma, non ci era argomento al mondo che valesse a trattenere sotto le bandiere. Gli stessi fatti si sono ripetuti nella guerra di secessione, quando a qualunque cittadino del Nord, anche completamente sprovvisto di titoli e precedenti militari, era concesso di formare un reggimento; la formazione di un reggimento era infatti più che altro un affare per speculatori e appaltatori, mentre i gradi venivano assegnati dal colonnello ai suoi amici, dopo trattative nelle quali ognuno poneva le sue condizioni. Un esercito arruolato e ordinato in questo modo, quindi, aveva "tutti quei difetti, i quali hanno fatto ordinare in Europa le leve in massa e le milizie medievali"94 • Porta acqua a1 molino dell'esercito permanente basato sulla coscrizione anche l'esempio dell'Inghilterra, Paese nel quale, secondo il Fambri, "i volontari comperati [cioè i soldati di professione - N.d.a.] non bastano numericamente e i regalati [cioè i cittadini componenti volontari delle milizie territoriali, da chiamare al bisogno, che si esercitano gratuitamente per brevi periodi in pace - N.d.a.] sono tecnicamente insufficienti, non solo in caso di guerra e per la difesa del paese, ma anche per esigenze interne, per domare la rivolta irlandese ecc .. In quanto alle milizie volontarie cittadine (rijlemens) che dovrebbero coadiuvare in guerra l'esercito permanente, le loro effettive capacità non sono mai state messe alla prova. Nel 1803, quando Napoleone minacciava d'invadere ]'Inghilterra, il governo inglese si vantava di disporre di una riserva di 600.000 uomini (dei quali 474.000 volontari), che però non ha mai avuto occasione di essere impiegata. Lo stesso è avvenuto nel 1860, quando in Inghilterra si è inteso dare un assetto definitivo all'istruzione dei volontari: nonostante la grande 93 ivi, pp. 55-73 e 85-89. .... ivi, p. 67.


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propaganda, invece dei 500.000 sperati non se ne sono trovati, sulla carta, che 120.000, ridotti a 30-36.000 nelle istruzioni annuali ... Per queste ragioni le milizie volontarie cittadine inglesi sorio servite, al più, come mezzo per incentivare l'arruolamento nell'esercito regolare, o per combattere i fermenti rivoluzionari interni. Tant'è vero che in questo Paese i militari sono "i primi fautori non già dell'odierno sistema di ingaggio, ma bensì della coscrizione, che sola può colmarne le molte lacune e alleviarne i troppi inconvenienti".95 Se i precedenti storici non depongono a favore del volontarismo e della nazione armata, anche la situazione italiana del momento, e in particolare l' indole del popolo italiano, secondo il Fambri sconsigliano di adottare soluzioni che magari vanno bene per altri popoli: è questo un vero e proprio clou intorno al quale ruotano le sue argomentazioni, sostanzialmente basate sulle scarse doti militari di base degli italiani. Per il Fambri le doti che fanno il buon soldato sono tre: fierezza, forza e lena, occhio e destrezza. Con queste tre qualità, in poche settimane il soldato acquista anche la capacità di manovra (istruzione individuale e di reparto) e la disciplina; ebbene, almeno in 8/10 del territorio italiano il soldato medio "è ben lontano dal possedere le qualità corporali e morali che bisognerebbero a voler diventare n per lì, in settimane, anzi in giorni, come il francese e lo svizzero, non solo un bravo, ma un buon soldato". Ha forza pari a quella degli altri, ma poca lena, perché mangia poca carne; non è per niente addestrato alla ginnastica o al maneggio di qualsiasi arma, perché la caccia è poco diffusa. Ha poca voglia di lavorare, perché sono sempre gli abitanti di due o tre province quelli che percorrono le ferrovie coi loro picconi e badili; rara la fierezza, da non confondere con la ferocia, della quale ve n'è fin troppa, appunto perché manca la fierezza. In generale in Italia si ama soprattutto il proprio comodo. Vi possono essere eccezioni più meravigliose che altrove, ma il livello medio è tale, che coloro che si presentano alle armi portano "più o meno recise" le negazioni delle doti fondamentali di un buon soldato. Di qui la necessità di ferme lunghe: certo la buona disciplina e i bravi superiori finiscono col raddrizzarla bene la pianta, ma ci vogliono per l'appunto e questi e quella e poi ancora un tempo ragionevole, per esempio suppergiù un paio d'anni, quando anche nulla valga d'inopinato o d'insolito ad inasprire le resistente, e quando l'abilità e l'autorità dei capi sia sempre molta e incontrastata. Ora è ella tale e tanta questa abilità e autorità di capi nei corpi volontari? e quando fosse, si avrebbero i mesi e anche anni che occorrono per farla convenientemente valere e fruttare?96

9 S ivi, p. 82. ""· ivi, p. 9.


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L'attacco alle attitudini militari dell'italiano medio è però contraddittoriamente accompagnato da lodi persino eccessive alle virtù militari dei contadini, che pure costituiscono la grande maggioranza del popolo italiano di allora, e proprio per questo sono la base dell'esercito permanente basato sulla coscrizione, ancorché praticamente assenti dai ranghi dei volontari_ Essi hanno "tutte le solide qualità del soldato", hanno forza e abbondano di lena [dunque mangiano molta carne? - N.d.a.l, possono sostenere sforzi prolungati, sono atti al maneggio delle armi più che la media degli abitanti della città. All'inizio non sono fieri ma remissivi, però acquistano gradualmente fierezza e fiducia in sé stessi constatando che sono quasi sempre fisicamente superiori agli abitanti delle città, sopportano meglio i disagi, sono "più camminatori e meno ragionatori". In piazza d'armi sembrano fornire minor rendimento che in campagna, ma in un .anno possono essere perfettamente addestrati: ciò ottenuto, sono di già una buona spada, resta a trovare un buon superiore che la brandisca brevemente e saldamente. E il contadino soldato come si lascia blandire! Subordinazione, disciplina egli ne porta con sé dal suo campo; il lavoro non consiste nell'insegnargliela, ma nell'impedire che la disi.mpari.97

A questo punto il Fambri si preoccupa di far emergere le differenze tra la mentalità del coscritto e quella del volontario e tra l'esercito permanente e le formazioni volontarie, naturalmente a tutto vantaggio dei primi. Nei reparti volontari pochi sono i ragionevoli e molti i ragionatori (cioè coloro che usano la ragione unicamente per contestare il sistema disciplinare): ma anche quei pochi, di fronte all'impunita disobbedienza degli altri diventano cattivi. Il contrario avviene nei reparti regolari, nei quali l'insubordinazione è rara anche in coloro che provengono dalla città, perché "in questo frangente anche il ragionatore ragiona e diventa ragionevole, dicendo a sé medesimo: eccomi di già carne venduta; volere o non volere, quelli là sono i miei superiori. Tant'é! bisogna vedere oramai di averli benevoli, affinché ne restino mitigati i rigori della sorte". Il coscritto è come un debitore che per amore o per forza onora il suo debito, e tutto finisce lì; "da volontario invece gli è un signore che ha donato, e la pretende alla sua gran parte di gratitudine, e ciò lo fa ragionatore". Questa differente mentalità si riflette nel modo di considerare la gerarchia, che il coscritto accetta e che invece il volontario spesso contesta, considerando i gradi nei reparti volontari delle semplici auto-promozioni, le quali dunque non meritano rispetto. Il risultato è che, in generale, i volontari si chiamano cosl "perché fanno quello che vogliono loro", e nei loro reparti "il superiore secondario è paragonabile al proverbiale Podestà di quel paese

"· ivi, p. 14.


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che ordinava le cose e poi se le faceva da sé; e quello primario, il comandante, è simile a un vetturale portato su a cassetta senza redini in mano, e nonostante ciò chiamato a rispondere d'ogni disastro che colla voce, della quale sola dispone, non riesca a impedire [Garibaldi era un siffatto capo? N.d.a.J"98• La qualità dei Quadri volontari risulta perciò scadente: mentre i comandanti di grado più elevato "hanno prima di tutto un significato politico e qualche prestigio personale", un quarto dei gregari dimostra forse slancio e abnegazione, ma negli altri tre quarti e nella grande maggioranza dei graduati "preponderano elementi così militarmente deleteri da dar pensiero al paese troppo più che al nemico. Baiardi forse senza paura, ma raramente senza macchia". In quanto alla truppa, il Fambri ricama sul fatto che le circostanze facilitano l'arruolamento nei corpi volontari di un'elevata percentuale di cattivi elementi, cosa che non è possibile nei corpi regolari. Infatti nell'individuo che fa parte di un corpo regolare, una moralità eguale a dieci basta a farlo camminare dritto dritto per la via dell'onore, mentre da volontario gli ci vuole una onestà uguale a venti e forse a quaranta per restare in carreggiata, essendo che la spinta all'uscirne diventa peggio che doppia, così per la copia dei tristi esempi, come per la pressione dei sempre nuovi bisogni a causa della inevitabile irregolarità di tutti i servizi d' approvisionamento, mala suada fames; e finalmente per quella certezza quasi d' impunità che fra tutte le spinte a misfare può aversi in conto di massima99•

Anche se si trattasse di reparti volontari nelle migliori condizioni, cioè con i migliori Quadri possibili, regolarmente armati, nutriti e vestiti ed epurati del 50% come nel 1866, "io credo ancora sbagliare di poco dicendo che essi costeranno al paese almeno due tanti di un corpo regolare di egual forza, mentre daranno difficilmente la metà dei risultati militari". Inoltre accanto ai volontari che, finita la guerra, non chiedono altro che di tornare alle loro occupazioni, sono più numerosi i volontari di mestiere o permanenti, "che precisamente dopo la campagna principiano le campagne". Mentre i primi si contano sulla punta delle dita, "i secondi si moltiplicano più che le stelle del cielo e le arene del mare. Fate la sottrazione di quelli da questi, e avrete la cifra, di cui l'Italia si affligge anche peggio che nel suo disavanzo" 100 • Gli aspri attacchi ai volontari sono seguiti da altrettanto veementi attacchi ai principi del1a nazione armata e alla guardia nazionale, nei quali il Fambri polemizza con Carlo Cattaneo, facendo specifico riferimento alle tesi da lui sostenute nell'articolo Italia armata (sz. I). Il suo esordio non

••·

.. 100

ivi, p.1 2. ivi, p. 25. ivi, p. 18.


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concede scappatoie: "il concetto di affidare la difesa della Patria allo eventuale e più o meno impreparato sollevarsi delle moltitudini, è tale assurda cosa da non potersi fermare sopra il pensiero se non da settari, che abbiano in tutto postergato il sentimento del pubblico bene, o da dottrinari che ne abbiano smarrito il discernimento...". Dopo questa affermazione che non lascia spazio, il Fambri riconosce peraltro che la nazione armata è un concetto derivante da amore autentico della libertà, e che rappresenta la formula intermedia tra il sistema dei volontari "accozzati in fretta e furia" e quello degli eserciti stanziali. Ammette anche, inaspettatamente, che può avere uno scopo positivo, ma solo in un paese dove: "1 ° - l'indipendenza e unità nazionale siano incrollabili e sancite da un patto fondamentale che nessun partito interno contrasti; 2° - la nazione abbia tradizioni, istinti, costumi militari; 3° - la forza e il valore individuale siano portati a un grado soddisfacente; 4 ° - il lavoro sia già fatto abitudine materiale e bisogno morale" 101• Ma in un Paese ove, come in Italia, non si può contare su questi presupposti, nazione armata non vuol dire se non che tutti a casa propria, cioè un fatto negativo [ ... ] La Svi zzera armata è un armamento, l'Italia armata, sarebbe un disarmo. Fra un dieci o quindici anni (sic) bene impiegati, vale a dire mai se si continua di questo passo, anche il concetto dell'Italia armata potrà non essere negativo. Oggi è così; ed ecco infatti le due negazioni nelle quali si divide: non più esercito, la prima. Non ancora nazione, la seconda.

Il Fambri, perciò, in linea generale concorda col Cattaneo sulla possibilità di applicare anche in Italia il sistema svizzero, prussiano o inglese, ma chiarisce subito di voler farne "una questione di tempo e di mezzi graduali". Da noi la nazione armata sarà possibile, quando non solo l'Italia, ma si saranno fatti anche gli italiani, e attraverso quella famosa scuola che è un esercito liberamente ordinato, saranno passate dieci mute di giovani, e in ogni villaggio, come ora si fa alla palla e al pallone, si tirerà al bersaglio; quando un giovane disdegnerà l'omaggio di un codardo come quello di un ladro; quando si avranno delle grosse maggioranze con anime forti in forti corpi, come per appunto l'Inghilterra. la Prussia e la Svizzera ... 102

TI Cattaneo - prosegue il Fambri - parla di un"'eletta di volontari" che in caso di pericolo per la patria dovrebbe "dal seno di tutti i popoli italiani concorrere a gara e iscriversi in Legioni mobili, tino a che il pericolo sia dis-

10 1

io2.

ivi, pp. 116-117.

ivi, p. 155.


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sipato". Ma come dimostrano numerosi esempi storici (Palermo 1820; Pavia 1848; Firenze e Milano 1849 ... ), è vero esattamente il contrario: nell'ora del pericolo, quando si tratta di combattere, pochi italiani si sono presentati e pochi si presenteranno. Dissente dal Cattaneo anche quando attribuisce ai cattivi e viziosi ordinamenti (basati sul principio pochi ma buoni) le cattive prove date dagli Eserciti piemontese e napoletano nelle guerre recenti. Nel caso di quest'ultimo, le "anguste e esclusive massime fondamentali" alle quali il Cattaneo attribuisce i rovesci erano conseguenza della decadenza degli spiriti, dei gravi mali che affliggevano l'ambiente sociale e politico del Regno di Napoli. E se tutta l'Italia avesse adottato le ordinanze piemontesi, sarebbe stato possibile mettere in campo ben 600.000 uomini, che "se ardesse davvero quel sacro fuoco che il Cattaneo presta di suo agli spiriti e alle membra", sarebbero stati più che sufficienti. Perciò la colpa non è mica di anguste massime fondamentali o di ordinanze esclusive, le quali serbino come un privilegio il servizio delle armi (quanto è pratico un uomo [il Cattaneo - N.d.a.J che si ostina a chiamare privilegio ciò che tutto il popolo di tutti i paesi d'Italia chiama onere!!), ma sì di regolamenti ambigui, di pratiche arruffate, di amministrazioni inette, che avrebbero sciupato qualsiasi ordinanza ... '"'

TI Fambri mette in campo anche un'argomentazione tipicamente jominiana, quindi anticlausewitziana: estendendo, come vuole il Cattaneo, la guerra al di là degli eserciti regolari, cioè anche a chi non tocca, "con questo principio si retrocede di decine di secoli e si rende la lotta infinitamente più generale, più rovinosa, più atroce che essa non sia finalmente più dopo i lunghi progressi della civiltà". La guerra deve essere invece fatta "tra gli uomini, da que1li soltanto, ai quali lo Stato affida le armi, e tra i paesi, da quelli soli che abbiano una importanza strategica". Né si deve contare sulla resistenza a oltranza delle popolazioni delle città: in questo caso ben pochi generali si sottrarrebbero al dovere di soccorrere le città assediate, così le forze del difensore si troverebbero deboli ovunque e gli mancherebbero le truppe di campagna necessarie per sconfiggere l'avversario in campo aperto. Né vale l'affermazione del Cattaneo che gli eserciti permanenti servono solo per la guerra offensiva: della difensiva qual concetto ha egli dunque? La difensiva non è essa offensiva alla sua volta, colla quasi sola differenza del vantaggio che ha l'esercito patrio di manovrare sulle proprie basi, e trovare risoluti

0 ' '·

ivi, p. l 22.


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da sé tutti i problemi logistici? L'obiettivo deJla difesa, non meno che quello dell'offesa, rimane sempre l'esercito nemico, il quale non basta tenere in iscacco, ma bisogna pur battere. Tolto l'esercito stanziale, cotesta massa che si chiama l'esercito nemico, con quale altra massa la vuole egli battuta il Cattaneo? 104

Nemmeno la guardia nazionale e la guardia nazionale mobile, esaltate dal Cattaneo e dai suoi seguaci come anticamera della nazione annata, sfuggono agli strali del Fambri, che mette in evidenza lo scarso impegno dimostrato da coloro che in teoria avrebbero dovuto aderirvi con entusiasmo, guardandole come un privilegio. Nel 1866 la guardia nazionale mobile (cioè impiegabile anche al di fuori della circoscrizione) ha avuto 49 ufficiali assenti arbitrari, 4165 soldati renitenti, 589 disertori, una cifra quintupla di mancanti ai servizi; inoltre "gli ufficiali, 8 su 10, mancavano di inte11igenza, di autorità, di energia e perfino di buona volontà. Non c'erano uomini per le guardie più necessarie. Il Ministro fu costretto per disperazione a formare i quinti battaglioni nei reggimenti di fanteria" 105 • E vi sono stati ben pochi iscritti che non abbiano tentato in ogni modo, anche con falsi certificati m~<lici, di essere cancellati dai ruoli, per sempre o almeno per qualche tempo ... Eppure la nazione armata auspicata dal Cattaneo prevede un reclutamento ancor più largo della guardia nazionale! Segue una buona raccolta delle ragioni che, invece, giustificano l'esercito permanente. T sommovimenti popolari - anche se nati da amore per la libertà e bisogno supremo di riscossa - possono durare alcuni giorni, alcune settimane, alcuni mesi, dopo di che "il fiume sociale deve e vuole ben tosto rientrare nel suo alveo f... I e il problema della sicurezza dentro e fuori non può venire più risoluto se non da coloro, i quali immedesimano in sé gl'interessi pubblici e i personali, vale a dire col bene inteso ordinamento delle armi" 106• Nei momenti di pericolo per la Patria, in mancanza di un esercito permanente i cosiddetti poteri costituiti sarebbero autorizzati solo a formare dei ruoli e chiamare dei volontari [ma la nazione armata non prevede forse la chiamata obbligatoria alle armi? - N.d.a.]: di conseguenza proprio nei momenti in cui l'autorità dovrebbe essere forte e indiscutibile "essa si troverebbe debolissima e discutibilissima perché verrebbe, di fatto se non di diritto, a chiamare a parte della sua deliberazione il paese e per esso la piazza, che potrebbe, mandando o non mandando i suoi volontari, deliberare la guerra e la pace ..." 107 • Non è nemmeno vero, per il Fambri, che "per fare il soldato bisogna disfare il cittadino". Buon cittadino è colui che rispetta lo spirito e la lettera

'°'

ivi, pp. 139 e 141.

106

ivi, p.152.

ios. ivi, p. 149.

,o.,. ivi, p. 153.


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delle leggi, così come buon soldato è colui che rispetta e fa rispettare, all'inLemo e all'esterno, le leggi e i diritti dello Stato. Il gagliardo soldato deve possedere le stesse doti del gagliardo cittadino, al quale anzi non sono richieste qualità specificamente militari come la capacità di manovra e la djsciplina; perciò il buon soldato non è altro che un cittadino perfezionato, il quale si addossa una maggior copia di doveri. Non è vero che un esercito permanente ben ordinato costituisce di per sé un pericolo per la libertà: un esercito non esce mica bello e formato da tale officina, dove l'occhio della nazione non penetri. Ciascuno può a suo grand'agio vedere di che spirito lo animi, se viva della vita nazionale e s'informi alle sue idee e a' suoi interessi, ovvero faccia pericolosamente parte da sé e obbedisca ad interessi divisi, divergenti e opposti. Le storie ci danno troppi più esempi di libertà uccise più dalla piazza che dalla caserma. 1c.

Anche la piazza è un pericolo per lo Stato: perché allora tutelarsi solo nei riguardi del pericolo militare? Se nei momenti gravi una massa ordinata e sotto umco comando può essere un pericolo per i I Paese, a maggior ragione lo è una massa di gente non ordinata, delle cui mutevoli intenzioni non si sa nulla. Dal punto di vista tecnico è facile vestire e armare tanta gente, quanto si hanno i grandi mezzi degli Stati Uniti; ma se l'abito non fa il monaco, come il proverbio suona, davvero non fa neanche il soldato. Se ci sia già la nicchia per lui, cioè il posto in un corpo preordinato, e le sue disposizioni militari sieno notabili c'è da sperarne bene; ma se invece bisogna improvvisare non solo il soldato, ma il caporale, il capitano e il colonnello, la compagnia e il reggimento, proprio la non è più una cosa in mano degli uomini, ma tutta della fortuna, la quale potrà forse anco combinare il meno male; non certo il bene. Dati soldati nuovi in corpi nuovi, trovare l' ordinamento e la disciplina!!! Sarà fra qualche secolo un problema solubile forse; al presente non lo è. 109

Gli eserciti permanenti sarebbero pericolosi per la società civile, se per loro natura tendessero a realizzare programmi politici restrittivi: ma "il programma politico del militare è nove volte su dieci, anzi novantanove su cento, quello di non avere programmi. Qualche volta è un difetto, più spesso gli è un gran pregio". E' vero che tutti i poteri illegittimi e oppressori si sono retti sull'esercito: "ma se l'iniquità ha bisogno della forza per sostenersi, forse che il diritto ne può far senza? Di eserciti hanno bisogno i popoli non meno che gli oppressori di popoli 11 ll'': tuttavia essi sono più stru-

108 · IIH.

110

ivi, p. 59. ivi, p. 61. ivi, p. 167.


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menti di libertà che di tirannide. Non vi sono esempi di eserciti di liberi cittadini i quaJi abbiano tradito il proprio governo; ve ne sono invece moltissimi di eserciti che hanno soppresso o abbandonato il tiranno: "sulle baionette si può tutt'al più appoggiarsi, ma non sedersi"; il potere dei tiranni più che sulle baionette, si appoggia sulla corruzione e apatia delle classi alte e medie e soprattutto sull'ignoranza di quelle basse. E' un fatto che gli eserciti regolari hanno sempre proporzionalmente dato alla libertà un numero di combattenti più alto di quello dei normali cittadini: questo perché anche quando sono a1 servizio del dispotismo, conservano nel loro seno un sentimento di fierezza e di onore, che non si trova in pari misura nella società civile. Le repressioni più crudeli sono state opera non degli eserciti ma del popolo stesso, che sovente i tiranni sono stati costretti a frenare, anche se combatteva per loro: "popolo erano le bande del Ruffo, i contadini del Benedeck, i lazzaroni di Ferdinando II". I maggiori pericoli per la libertà sono venuti dagli eccessi delle plebi reazionarie e da] loro odio contro le classi agiate: se i soldati non andarono talora immuni da orribili tracce. non é certo perché entrati in caserma, ma perché usciti dal trivio. Gli istinti ladri e feroci sono avanzi non potuti eliminare dalla condizione plebea, non già procurati acquisti dalla militare. Un popolo senza stranieri [come ormai è quello italiano - N.d.a.] non ha ormai altri soldati che quelli che produce, vale a dire quelli che merita' ".

Esisterebbe un pericolo per la libertà, se il soldato per forza di cose entrasse in un ordine d'idee taJe da dividerlo daJla popolazione. Ebbene, il soldato italiano dimostra che cos'è un esercito cresciuto nella libertà, ormai diventato un modello di virtù civili: il nostro soldato è pronto sempre contro ogni specie di nemici della sicurezza e della civiltà. Scoppia un incendio? gli è pompiere; c'è un bambino da salvare... padre e madre si arresteranno dinnanzi alle fiamme, egli no ... ; ci cade dentro? n' è asfissiato? Se ne fa innanzi un altro, altri due, altri dieci, e se il pericolo è umanamente superabile, si può contarvi. Un fiume ha rotto? gli è barcaiuolo; non ha mai preso in vita sua un remo in mano! che importa? li suo ufficio è la somma di tutti gli uffici, il suo dovere è la somma di tutti i doveri. C'è là una famiglia, alla quale bisogna portare del pane! Rovescia? affoga? pazienza! in un' a1tra barca monta un altro; avanti alla seconda, alla terza, alla quinta prova. - C'è il colera? il farmacista del paese è fuggito, il medico non può essere dappertutto, la famiglia medesima ha disertato il letto del morente; ebbene, c'è un carabiniere che s'improvvisa fannacista, un bersagliere che suda fregando le gambe del malato, mentre un lanciere gli porge da bere!1 12 ",. ivi, p. 171. 111

ivit p. 173.


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E' dunque in atto una tendenza dell'esercito ad andare verso il popolo, e una tendenza del popolo a immedesimarsi nell'esercito. In questo evoluzione graduale sta la vera soluzione del problema che il Cattaneo nell'Italia armata pone "con quella leggerezza e mancanza di spirito pratico, della quale sarebbero incapaci i bambini, e a cui ci vogliono proprio i dottrinari demagoghi per arrivare". Va perciò respinto il concetto "di un'Italia armata e comandata da avvocati, da notai e da gazzettieri", le cui capacità militari non sono mai state messe alla prova e accertate: alle corte. I servigi di un esercito regolare sono la rendita ordinaria di un capitale sicuramente consolidato; quelli invece di un generoso moto nazionale rappresentano un sùbito e inaspettato guadagno. Ben venuto, ci s' intende! purché non produca le illusioni d' un suo pronto e necessario rinnovellarsi ad ogni bisogno, ché allora finirebbe per mettere il paese a duri partiti ... m Fatto salvo il principio, vi sono diversi modi di ordinare l'esercito permanente. In proposito, il Fambri si dichiara contrario alla formula dell'esercito a larga intdaiatura e basato sulle riserve, che preveda per il tempo di pace la permanenza in servizio dei Quadri, con una minima percentuale di bassa forza. Coloro che sostengono questa soluzione "tengono, come ho detto, l'avvenire per sé; bisogna però dire loro, che non sarà mai troppo ripetuta la frase, avere tanto di pazienza da aspettare che come l'Italia sieno fatti altresì gli italiani. Né questo è il tempo meglio opportuno alle esperienze". Infatti la situazione internazionale, nella quale né l'Austria né la Francia sono amiche sicure dell'Italia, non consente riduzioni di forze. A considerazioni che comportano l'essere o non essere, non si può contrapporre l'avere o non avere, e "ripugna al buon senso che l'Italia, dopo avere oramai compiuto, senza contarli né pesarli, tanti sacrifizii per formarsi un esercito poderoso, voglia farsi ora peggio che a decimarlo, affinché le cartelle del suo debito vengano spacciate a qualche lira in più". Esercito e Marina devono essere più o meno forti, non tanto in rapporto al territorio e alla finanza (gli Stati Uniti, grande e ricco paese, non ne avevano), ma "in ragione composta della cifra delle popolazioni, e de11 ' obiettivo probabile delle proprie operazioni militari" 114. Al momento molte sono le lacune e le debolezze dell'organismo militare italiano, e per giunta "abbiamo confini aperti, linee debolissime, piazze da guerra abbozzate appena"; si potrebbe perciò dire che· "tra le buonissime ragioni per non disarmare vi è pure que1Ia che armati non siamo". Se gli Stati da lungo tempo costituiti e di provata e indistruttibile unità, "quelli che non hanno briganti né materiali né morali, né gesuiti neri né gesuiti rossi, né avventurieri né settari a migliaia (è privilegio del nostro paese avere nel proprio 179. '" ivi, pp. 185-186. ,n. ivi, p.


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seno partigiani della dominazione straniera o del dispotismo)", continuano a fare affidamento su eserciti permanenti, perché dovrebbe essere proprio l'Italia, la cui unità è rappresentata appenh dal solo Esercito, la prima ad adottare ordinamenti, della cui rispondenza non è possibile citare una sola prova? Purché le guerre siano conformi alla volontà e alle tendenze della nazione, ali' emergenza sarà sempre possibile contare sui volontari, che quindi è inutile tenere sotto le armi anche per breve tempo in pace. L'esercito stanziale invece con quella disciplina che essi non apprezzano, perché la giudicano solo dalle sue forme esterne e transitorie, prepara le centinaia di migliaia raccolte in gran parte tra quella gente appunto che nessuna forza umana strapperebbe dai propri focolari nell'ora del pericolo nazionale, e le conduce suJ campo... 115 Il Fambri non nega affatto la possibilità e la necessità di fare economie: ma più che neUa riduzione delle già insufficienti unità operative, esse a suo parere vanno ricercate in una "grande riforma in una amministrazione sì vasta e costosa come quella militare", che al momento ha troppi organismi e controlli inutili, troppa burocrazia, troppi impiegati. "A risolvere la questione economica militare ci vuole un Ministro ardito come un giacobino, e duro come un autocrata". Il Fambri, comunque, sbaglia ed è smentito daUa storia quando scrive che per avere buone sussistenze in guerra non è necessario mantenerle in vita anche in pace, e che si può "improvvisare" l'impiegato o l'operaio dei Servizi logistici, ma non 1 'ufficiale o il soldato: in realtà non si può improvvisare proprio nessun organo logistico, 116 anche se è vero che, come egli dice, occorre "purgare l'amministrazione militare dalle ortiche e dalle edere che le sono cresciute e avviticchiate intorno". Segue una serie di domande retoriche, la quale dimostra quanto siano annosi i problemi dell'amministrazione militare e la difficoltà di risolverli: Avete voi mai, a cagion d'esempio, esaminato se il dicastero della guerra non potesse spedire le sue faccende con qualche cosa meno dei suoi tre battaglioni circa d'impiegati? Se i consigli che escono dai vari comitati pesino tant'oro quanto ne costano le decine di generali che li compongono? Se l'incremento dato alle Intendenze militari non sia anch'esso, anzi principalmente esso, un portato di quel!' assurdo sistema, che misura il valore di una carta o di un atto dal numero delle firme che porta e dei protocolli nei quali viene registrato, mentre infatti è il rovescio, e la partecipazione di molti crea

115 • 116

ivi, p. 189. Cfr. le conseguenze della ritardata e improvvisata mobilitazione dei Servizi logistici specie (ma non solo) nelle guerre d'indipendenza in F. Botti, La logistica dell'Esercito Italiano (Cit.),Vol. I (1848-1870) e Voi. Il ( I 870-1918).


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l'irresponsabilità effettiva di tutti? Se sia necessario e utile che lo stato si faccia, sostituendosi a tutti in tutto, fonditore di cannoni, fabbricatore di polveri, forn~jo, beccajo, mercante di panni, sartore, sellaio ecc., con tutti i vizi dei relativi mestieri? Se gli istituti militari, nei quali si insegnano le matematiche pure e applicate, la chimica, la fisica e persino la letteratura, non sieno un soprappiù dopo quel tanto che si spende dallo Stato per l'insegnamento pubblico? Se l'artiglieria abbia veramente necessità di tanti gradi di comandi territoriali? Se al genio riesca di grande utile la sovrapposizione dei suoi Comandi di dipartimento alle sue direzioni ? 117

La riforma militare delineata dal Farnbri non si ferma ai servizi logistici, ai Comandi e organismi inutili ecc. Sul piano generale, egli afferma che bisogna prendere atto dei mutamenti sopravvenuti negli ultimi anni, quindi l'antico esercito di linea deve trasformarsi in nazionale. Bisogna rinunciare all' antico formalismo di piazza d'armi, dove la istruzione formale era tutto e l'addestramento tattico nulla, mentre i generali si occupavano di minuzie da caporali118; si può ridurre la bassa forza dell'artiglieria e del genio, perché taluni incarichi (falegnami, fabbri, vetturali ecc.) trovano riscontro in mestieri civili; e riducendo di 3/4 i servizi di piazza e caserma sarà possibile anche abbreviare di molto la leva... Tutto questo, anche se l'educazione, cioè la formazione disciplinare e morale del soldato, specie per l'italiano richiede tempo e fatica, mentre l'istruzione, cioè l'addestramento individuale e di reparto, ne richiede molto di meno. In conclusione il Fambri non lascia alcun spazio ai corpi volontari costituiti a parte, nei quali non intravede alcun vantaggio: possono servire solo per piccole fazioni sproporzionate allo sforzo in uomini e denaro che richiedono, ma sono la negazione necessaria, perché naturale, e quindi esente d'ogni imputabilità e d'ogni vergogna, di tutte le condizioni morali e tecniche convenienti alla virtù ed efficacia d ' una milizia. In basso manca il mestiere, in alto l'arte; lì mancano l'abnegazione, la disciplina; qui l'autorità e il comando. A' volontari insomma o il bene c' entra in capo da sé, o nessuno glie lo fa entrare [ ...] Gli accusatori sono tutti ingiusti; gli apologisti tutti ciechi. Dire masse volontarie in campagna, è come dire masse popolari in piazza; nessuno ha vero merito del bene, nessuno vero demerito del male che possono fare. 119

In Italia non c'è bisogno di due Eserciti, di due Capi, ecc.: occorre un solo Re, un solo Parlamento, un solo Esercito, nel quale possano affluire, ben accolti, anche i volontari, senza costituire reparti speciali: "per me la

117 11 8 · 119

P. Fambri, Op. cit., pp. 192-193. ivi, p. 333. ivi, pp. 370-371.


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camicia rossa gli è il caso ormai di mandarla al Bargello [cioè al Museo N.d.a.]; del cappotto bigio del nostro soldato ce n'è abbastanza per le spalle di tutti". Le buone qualità del volontario e quelle del soldato di leva devono fondersi in un esercito solo: infatti "i volontari dei corpi irregolari non sono abbastanza soldati; i soldati dei corpi regolari non sono abbastanza volontari; nei volontari separati dall'esercito c'è pochi FRENI; nei soldati separati dall'esercito volontario c'è poco MOTORE" 120 •

I sostenitori della formula classica dell'esercito permanente: Carlo Corsi, D'Ayala (1860),Guttièrez, Marselli, Cavi, Fano/i, Cisotti, Bava Beccaris Nonostante i frequenti estremismi e funambolismi concettuali e taluni ingenerosi giudizi, il Fambri riassume con indubbia efficacia e completezza le ragioni che militano a favore del mantenimento della formula dell'esercito permanente. Specie nel periodo dal 1866 al 1870 (quando cioè si afferma il sistema prussiano e per contro la formula francese e italiana rivelano i loro limiti) sono molti gli autori che scendono in campo in difesa degli stessi principi sostenuti dal Fambri, non di rado però da lui differenziandosi nella ricerca delle modalità per aggiornare gli ordinamenti alla luce dell'esperienza delle più recenti guerre. Ne esamineremo molto brevemente gli scritti, soffermandoci soprattutto sulle differenze rispetto alle tesi del Fambri. Fin dal 1851, proprio richiamandosi all'esperienza della guerra 1848/ 1849, il maggiore Carlo Corsi sostiene la necessità dell'esercito permanente e indica i limiti delle milizie volontarie, alle quali tuttavia diversamente dal Fambri riconosce una certa utilità 121• Non esita a criticare duramente la condotta dell'esercito piemontese nel 1848/1849, che a suo giudizio si è dimostrato poco agguerrito, mal comandato, con riserve senza utilità immediata. Ancora una volta differenziandosi dal Fambri, però, attribuisce importanza fondamentale a tali riserve, diffondendosi sui modi e i tempi per inquadrarle e addestrarle meglio. Le sue argomentazioni a favore dell'esercito permanente non sono sempre originali: "l'ordine e la disciplina delle truppe permanenti trionfano in ogni caso delle masse inesperte e male ordinate. Il coraggio e l' entusiasmo possono qualche volta controbilanciare l'esperienza e l'abitudine della guerra; ma queste rare eccezioni non valgono contro la regola generale". È quindi necessario mantenere fin dal tempo di pace un esercito permanente, che valga a far fronte alle prime esigenze della guerra. Esso è

120 121

-

ivi, p.317. Cfr. C. Corsi, Dell'esercito piemontese e della sua organizzazione, Torino, Cerruti 1851 ; pp. 1-29


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costoso, ma non può essere sostituito, nemmeno in parte, "da milizie non assoldate, ossia dalla Guardia Nazionale: le milizie cittadine devono essere il complemento, non la base della forza militare della nazione" [... ] Tutti i mali che derivano dall'imperfetta organizzazione d'una armata, deriveranno con più ragione dall'istantaneo e tumultuoso assembramento delle masse della Guardia Nazionale". Possono permettersi di rinunciare ali' esercito permanente solo talune nazioni che si trovano in contingenze del tutto eccezionali: non è questo il caso della maggior parte degli Stati europei. Anche se venisse costituito un Tribunale Supremo internazionale per risolvere le contese tra Stati, avrebbe pur sempre bisogno della spada per imporre le sue decisioni. I pacifisti vogliono il disarmo e insistono sul grande dispendio di risorse per gli armamenti: ma quale Stato comincerà per primo a disarmare? con due potenti vicini e un'estesa frontiera, come potrebbe farlo il Piemonte? Non è vero, come sostengono taluni economisti, che l'esercito permanente rappresenta una spesa improduttiva: esso è elemento di forza e di sicurezza, perché una società indifesa e mal sicura non può essere prospera. Perciò, a uno scrittore il quale ha affermato che l'esercito permanente è " un polipo" estraneo alla vita della Nazione, rispondiamo che l'esercito stabile dei nostri giorni non è polipo, poiché è parte integrante della nazione e manifestamento della vita di essa; che vive della sostanza propria, poiché gl'individui che lo compongono contribuiscono al pari degli altri alle gravezze dello Stato; che la sua vita è immedesimata con quella della nazione, poiché, presso i popoli ben governati, gli ordinamenti militari sono in armonica relazione colla costituzione politica; che l'esercito stabile è una scuola alla quale buona parte della nazione si addestra successivamente alle armi ed acquista la perizia necessaria per poter difendere efficacemente la libertà e l'indipendenza della patria; che l'esercito stabile è una frazione del corpo sociale, la quale sacrifica gli agi domestici, gl'interessi privati, e quando occorre, la vita, per tutelare la vita e gl'interessi del corpo intero. 122

In pace l'esercito permanente deve essere ridotto il più possibile; ma in guerra non sarà mai sufficiente. Per questo tutte le nazioni d'Europa hanno creato altre istituzioni (landwehr, landsturm, geomanry ecc.) le quali consentono non solo di accrescerlo all'emergenza, ma anche di chiamare alle armi all'occorrenza gran parte degli uomini validi. Non si può contare su "certi corpi provvisori di soldati irregolari quasi di ventura", i quali però mancano di disciplina e di spirito militare e si abbandonano per lo più a rapine e saccheggi. Tuttavia questi reparti "valgono alle arrischiate fazioni e a recare continua molestia al nemico e riescono di molta utilità, quando

"' ivi, p. 13.


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siano, come i Micheletti di Spagna 123, composti di gente ardimentosa, ma in pari tempo frugale, paziente, instancabile e sempre pronta a nuovi e inaspettati attacchi" 124• Come già accennato, all'inizio del 1860, a Firenze, Mariano d'Ayala. (già sostenitore - Cfr. sz. II - di un esercito "lancia e scudo" nel quale la lancia è costituita da soldati di professione) modifica sensibilmente le sue posizioni di dieci anni prima e questa volta finisce con il privilegiare il modello jominiano e francese, più a torto che a ragione presentandolo come derivato dalla Rivoluzione 125• Riconosce che la diversa situazione politica delle Nazioni "apporta anco grandissimo divario nel relativo numero de' soldati da dover mantenere e sulla maniera onde costituirli"; perciò gli Stati Uniti - che non hanno nemici forti alle frontiere - non hanno bisogno di mantenere un grosso esercito, come invece accade per le grandi nazioni d'Europa e soprattutto per l'Italia, che ha "suprema necessità" di un potente esercito, "avvegnaccbè bene sappiamo il grosso numero dell'inimico contro cui si pugnò vittoriosamente, ma in colleganza coll' aquila francese; e colla gloria nostra maggiore potremo tornare noi soli a combattere sotto la non meno famosa aquila latina". Posto che gli ordinamenti militari appartengono sia a1le istituzioni civili che a quelle militari, "la legge di coscrizione, la più meritevole di essere profondamente meditata, è appunto l'anello fra l'ordine militare e il civile". Nessuna preclusione sulle forme ordinative: servono gli eserciti permanenti forse come gli eserciti temporanei o del momento, in cui i soldati non usano la guerra per arte, o meglio servono gli uni contempemti con gli aJtri. Conciossiaché le lunghe ferme e il lungo esercizio rendono in certe guerre preferibile assai l'esercito di numero più sicuro e determinato ove domina il timore delle pene contro i contumaci o renitenti, ma di molte glorie hanno anch' essi a contare i pronti militi, un po' troppo sdegnosi del tirocinio lento delle stanze, ma fieri di portare le armi per sentimento di dovere e per amore di Patria, massime allorquando veggano tenervisi accuse le generose scintille.

Al momento l'Austria "non può avere che esercito artifìziato di nazione artefatta", mentre la Prussia "vive ondeggiante fra i liberi ordini e il medio-evo anche in mezzo a11'esercito" . Nessuna traccia dei difetti del cosiddetto esercito da caserma nella soluzione francese, che secondo il d' Ayala è un esempio di spirito democratico:

I "Micheletti" erano milizie irregolari reclutale fin dal XVI secolo esclusivamente tra i montanari dei Pirenei, quindi atte ad agire in montagna con i procedimenti tipici della fanteria leggera e dei cacciatori; con questa fisionomia, possono definirsi dei precursori delle truppe alpine. Furono costituite e impiegate prima dalla Spagna e poi dalla Francia. 1 u. C. Corsi, Op. cit., p. 23. ,,s. M. D' Ayala, la milizia e la civiltà (Art. cit.). on.


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non ho bisogno di dimostrare [invece ce n'è bisogno, e come! N.d.a.] che l'esercito francese è in fondo costituito come dettano i princip'ì dell'89; e co' propri occhi vedreste cessata quella separazione, anzi quell'abisso feudale fra uffiziali e sotto uffiziali; il superiore non vede nel sottoposto il servo e l'ilota, che non può esilararsi con la bevanda di Moca nella medesima bottega da caffè, sedersi a un lontano desco della medesima taverna, come se per comandar uomini fosse ancora bisogno del mistero, delle tenebre, della separazione e del prestigio, anziché de' titoli veri, il sapere e la virtù. L'Esercito inglese, "nonostante certe istituzioni viete, ma in preciso accordo con le politiche", sin dal 1688 è stato sempre "presidio saldo e sicuro della libertà". Nessuna preclusione, infine, nei riguardi della "preziosa" guardia nazionale, il cui compito principale è la difesa contro i nemici interni. La difesa contro i nemici esterni è prerogativa dell'esercito regolare: tuttavia essa in guerra potrebbe rafforzarlo (cosa che ha dimostrato di non saper fare - N.d.a.]. · Il Guttière~, amico fraterno di Carlo de Cristoforis che cura nel 1860 la pubblicazione ·del suo libro Che cosa sia la guerra (cap. IV), si guarda bene dal seguire la strada del D' Ayala, e diversamente da quest'ultimo compie scelte precise esaminando anzitutto il rapporto tra azione dell' esercito regolare e insurrezione, e tra esercito permanente e difesa della libertà. A suo giudizio, "il principio prevalente della rivoluzione del 1848 fu l'insurrezione, e questa può ammettere preparazione ma non organizzazione nel senso militare: se si avesse voluto organizzare le cinque giornate, le forche si sarebbero elevate nelle piazze il secondo giorno, precisamente come avvenne nel 6 febbraio [1853: tentativo fallito d'insurrezione mazziniana a Milano, alla quale partecipa anche De Cristoforis - N.d.a.]". Quindi, i casi sono due: se la guerra inizia con operazioni condotte da eserciti regolari, allora occorrono solo grossi battaglioni ben disciplinati e condotti da generali di genio; se invece (come nel 1848) è l'insurrezione a dare inizio alla guerra, "quella provvede da sé; è il genio delle masse che la guida, è l'ispirazione, lo slancio; organizzarla è ucciderla, in questo caso l'esercito venga a completarla, ma senza spegnere la forza prima del movimento; altrimenti farebbe come quegli che per sbarazzarsi d ' un peso si tagliasse la testa, così fu nel 48" 126 • · Sembra paradossale - prosegue il Guttièrez - che un filosofo e un economista della scuola più avanzata, come era il De Cristoforis, si faccia paladino dell'esercito permanente, non a torto ritenuto un ostacolo fondamentale per la libertà dei popoli: "ma la bontà delle teorie non muta lo stato di fatto della società: - la questione sta nel vedere se nell'attuale ordine di

126 ·

G. Gunièrez, Il capitano De Cristoforis (Cit.}, p. 61.


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lL PENSIERO Mil..lTARE E NAVALE ITALIANO - VOL. 11 (1848- 1870)

cose quel principio economico possa avere la sua immediata applicazione"121. La coscrizione, diventata uno strumento tirannico, è nata con la Rivoluzione Francese, ed era ritenuta in origine il mezzo più efficace per organizzare in esercito la nazione, e per sostituire il principio dell'uguaglianza e della solidarietà a quello del privilegio delle armi. Il dispotismo ha utilizzato a suo favore questa innovazione, e al momento in Europa è più che mai vivo il contrasto tra Stati dispotici e Stati fondati sui principì della libertà. Il dispotismo si è circondato di baionette, e nonostante le chiacchiere sulla pace e l'equilibrio, "il fucile è pronto e la miccia accesa". In questa situazione, se la libertà disarmasse farebbe il gioco dell'avversario; né è vero che, mantenendo forti eserciti, i popoli che combattono il dispotismo si corromperebbero, proprio come vogliono i loro nemici. La giustificazione degli eserciti permanenti sta perciò in questa situazione di fatto, che impone alla libertà di prendere l'iniziativa: la libertà deve farsi assalitrice: il segreto della sua decadenza sta nel sistema difensivo, ch'essa ha ora adottato [ ... ]. Dunque la libertà, odiando la guerra, deve farla [ ... ). Dunque i mezzi migliori di guerra, gli strumenti più perfetti per superare quelli dell'avversario; dunque un esercito regolare, più forte, più disciplinato, più valoroso che mai - e per avere l'esercito regolare la necessità della permanenza sotto le armi in tempo di pace, onde preparare l' educ azione ai soldati. Le proposte che si fanno di armamenti nazionali a guisa della Svizzera e della Prussia sono fatali [nostra sottolineatura - N.d.a.l: guai se noi italiani ci lasciassimo cogliere a queste mezze misure, con quella inclinazione che si ha al lasciar fare e con quella nessuna tendenza al positivismo. In quelle proposte v'ha del buono in dettaglio, di cui si può far tesoro, ma peccano quasi tutte in massima. '28

Per il Guttièrez l'esigenza fondamentale del momento è perciò il rafforzamento dell'esercito regolare: a questo dovrebbe servire anche la Guardia Nazionale, la cui organizzazione al momento "è una farsa", perché se ne fosse decretata la mobilitazione, i suoi battaglioni non sarebbero in grado di muovere contro il nemico. Essa non deve più avere il compito di garantire la sicurezza pubblica, o di garantire le libere istituzioni politiche. Alla prima di queste esigenze devono provvedere poliziotti e carabinieri; la seconda non si pone, perché in Italia non esiste un conflitto tra nazione e potere. Perciò "la guardia nazionale dovrebbe essere fatta in modo, che dichiarata la guerra, essa possa immediatamente concentrarsi in seconda o terza linea per servir di riserva all'esercito regolare, sostituendole efficacemente per abitudini e conoscenze militari già contratte" 129 •

121

·

ivi, p. 131.

•ia.

ivi, pp. 132- 133.

129

ivi, p. 135.


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Della guardia nazionale devono far parte solo i cittadini fisicamente idonei alle fatiche di guerra; deve essere organizzata per Comuni, e deve comprendere il 5% dei cittadini non soggetti a obblighi di leva. Grado massimo il capitano; livello ordinativo massimo il battaglione. Particolarmente intenso l'addestramento: ogni mese esercitazioni a fuoco di compagnia, ogni semestre esercitazioni a fuoco di battaglione dirette a turno dai capitani, ogni anno grandi manovre a fuoco con l'esercito regolare. Questo sistema secondo il Guttièrez consentirebbe di ridurre al minimo l'esercito regolare in tempo di pace, e, per contro di rafforzarlo puntualmente in caso di guerra con 500.000 guardie nazionali ben addestrate, ordinate in reggimenti e brigate o inserite per battaglioni nell'esercito. "Così, lasciando intatto il principio dell'esercito permanente, si avrà l' armamento generale della Nazione": qualcosa di molto vicino, insomma, alle teorie del Pepe (Vol. I, cap. XIII) e alla proposta di armamento nazionale di Garibaldi (cap. VII). La Rivista Militare Italiana con brevi scritti redazionali del 1858, 1863 e l 866 130 prende spunto dall'esperienza della guerra di Crimea e della guerra di secessione americana per dare risalto ai limiti dell'Esercito volontario inglese e alle conseguenze dell'assenza di eserciti "regolari" nella guerra americana. I limiti del modello inglese sono anche qualitativi; davanti a Sebastopoli i soldati volontari inglesi, provenienti in gran parte "dalla feccia della popolazione delle grandi città", hanno dimostrato pari valore rispetto ai coscritti francesi, in maggioranza contadini, "ma dappertutto ove fece d'uopo eseguire un movimento, fare lavori d'assedio, sormontare difficoltà, sopportare privazioni, le truppe composte esclusivamente di volontari ebbero sempre una sì grande inferiorità su quelle provenienti dalla coscrizione, che nessun parallelo è possibile fra esse". Dopo il 1815 la Francia ha ben presto rinunciato all'arruolamento volontario, il cui gettito tra l'altro diminuisce man mano che aumenta il benessere delle classi più disagiate ... Riguardo alla guerra di secessione americana la rivista riprende il giudizio del maggiore belga Vanderwelde, famoso scrittore militare, secondo il quale solo la disponibilità di eserciti permanenti ben addestrati consente di risolvere le controversie intemazioni in modo economico, con scontri brevi e relativamente poco costosi e sanguinosi. Invece nel!' America, laddove gli eserciti sono formati di milizie e di volontari, la guerra perdura da parecchi anni [siamo nel 1863 N.d.a.], divora centinaia di mille uomini, getta la perturbazione nelle finanze e distrugge la ricchezza pubblica, senza condurre al menomo risultato [... ] Per finirla colle armi, il Nord e il Sud [degli Stati Uniti]

130

"Rivista Militare Italiana" Anno III - 1858, Voi. IV pp. 322-324; Anno VII- 1863, Voi. I

pp. 304-310; Anno XI - 1866, Vol. I pp. 354-366.


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nulla hanno di meglio da fare che di ritornarsene ciascuno nei propri confini, poi ricomparire in campo con eserciti ordinati all'europea. Allora la lotta avrà un risultato.

Sempre secondo il Vanderwelde, anche in campo militare occorre applicare il principio della divisione del lavoro: ciascuno fa bene ciò che fa ogni giorno. Perciò, fino a quando non si potrà fare a meno di forze armate è meglio servirsi di truppe regolari, che sono le più utili e le meno costose. Il sistema svizzero, basato sull'obbligo militare dai 19 ai 44 anni, va bene solo per un paese montuoso e in gran parte sterile, nel quale l' emigrazione è costante perché vi è sovrabbondanza di mano d'opera: ma in altri paesi più prosperi economicamente sarebbe dannoso e avrebbe un peso sociale non sopportabile, costringendo a fare il servizio militare anche avvocati, professori, capi d'industria, dirigenti di case commerciali. Per contro, la storia dimostra che gli eserciti permanenti sono sempre stati fattori di stabilità e progresso: sopprimendoli "la società ricadrà nel caos, ov'era immersa al tempo delle milizie comunali e delle bande dei volontari d'ogni specie". Se si vuol veramente giungere un giorno al disarmo generale, bisogna non solamente mantenere gli eserciti permanenti ma rendere il debole forte a casa sua, in modo da rendere impossibile o non conveniente la guerra. A tal fine, occorre rendere sempre più facili le relazioni tra i popoli, con lo sviluppo delle vie di comunicazione ecc.; soprattutto, occorre fare in modo che i governi non possano più decidere la guerra senza il consenso deJJe rispettive Nazioni. A questi significativi interventi redazionali sempre sulla Rivista Militare si aggiungono nel decennio 1860-1870 articoli di vari autori, che sia pure con ottiche diverse sostengono la formula dell'esercito permanente contro i numerosi attacchi che subisce in quel periodo soprattutto da parte dei sostenitori della nazione armata. Li riepiloghiamo brevemente. Nel 1862 Carlo Corsi 131 giudica l'apporto dei volontari in modo tutto sommato più sereno del Fambri. A suo giudizio, in linea generale "le raccogliticce milizie volontarie non possono far le veci d'un buon esercito stabile"; pretendere questo significherebbe "rinunziare ai trovati della scienza, del raziocinio, dei progresso", perché la guerra "seria" richiede ben altro. Con i suoi eserciti di volontari, l'America "presenta un miserando spettacolo": ma date le condizioni particolari dell'ltaUa in una nuova guerra contro l'Austria, qualche migliaio (sic) di volontari· condotti da un Garibaldi o da un Bixio potrà fare grandi cose manovrando alla leggera sui fianchi o alle spaJle del nemico, soJlevandogli contro il paese, rompendogli le comunicazioni, spe-

131·

C. Corsi, L'Italia e l'Austria, "Rivista Militare Italiana" Anno VI - Vol. N , aprile 1862, pp. 20-22.


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cialmente le linee ferroviarie e telegrafiche. Ma ci vogliono Capi come quelli che ho detto, e uomini della tempra di quelli che combatterono a S. Fermo [nel 1859] e sbarcarono a Marsala [nel 1860], né conviene dimenticare che degli eserciti come quello dei Borboni di Napoli non ve n'è più in Europa, e pur ci volle l' aiuto di un .esercito regolare a dargli il colpo mortale: senza di che non si sa che aspetto avrebbe potuto assumere la guerra sulle sponde del Volturno.

Nicola Marselli va molto più in là del Corsi; e le sue considerazioni nel Problema militare dell'indipendenla nazionale (1867 - ma scritte prima del l 866)u2 - meglio di tante valutazioni critiche fanno indirettamente risaltare le aprioristiche chiusure del Fambri, le sue esasperazioni concettuali, le sue sparate polemiche. Come lo stesso Fambri anche il Marselli ricorre ad exempla historica, ma questa volta per respingere qualsiasi conventio ad escludendum nei confronti della guardia nazionale, dei volontari, delle forze popolari in genere. Ben diversa da quella del Fambri (e del Corsi) anche l'interpretazione degli avvenimenti della guerra d ' indipendenza spagnola 1808-1813; per il Marselli non è vero che ha vinto il generale Wellington, hanno vinto tutte e tre le componenti insieme: le forze inglesi, i volontari guerriglieri spagnoli delle campagne, il popolo delle città insorto. Ed è innegabile che la guerriglia ha causato gravissimi danni alle truppe francesi, le ha disorientale e disorganizzate.... La conclusione è del tutto aderente alla mentalità del Marselli, che adora la misura in tutte le cose: "i militari in genere non hanno molta fede nella solidità e nell'utilità in guerra delle guardia nazionale, delle milizie cittadine che si voglia, e fino a un certo punto i loro argomenti sono validi; ma è mestieri distinguere l'uso dell'abuso, l'uso intelligente da quello cieco, l'uso parziale dal generale". Ciò premesso, anche per il Marselli le guardie nazionali e i volontari sono utili soprattutto nelle operazioni secondarie di guerra, per attaccare convogli, interrompere le comunicazioni, molestare in tutti i modi il nemico ecc. Perciò un esercito, pur ordinato e forte che sia, non deve mai porre in non cale questo elemento ausiliario e non deve offenderne 1' amor proprio, sciuparne la dignità, distruggerne lo slancio col fare le viste di tenerlo in lieve conto. In una grande guerra tutti gli elementi concorrenti sono necessari, e bisogna evitare le oziose e irritanti quistioni del più e del meno necessario [nostra sottolineatura - N.d.a.]. Ricordiamoci la favola del topo che sbrogliò la rete al leone [ ... ] Nelle nostre future battaglie contro 1' Austria, queste armi irregolari e popolari potranno renderci inestimabili servigi e fare all'esercito regolare' più agevole la via. La guerra contro il quadrilatero [cioè la futura guerra del 1866 - N.d.a.] dev'essere complessa, e guai se la riduciamo a metodica. Non pure una grande diversione di forte corpo

13 ~

"Rivista Militare Italiana" Anno Xll - Vol. III, luglio 1867, pp. 26-53.


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di volontari ma anche l' appeUo alle popolazioni del Veneto gitterà la confusione tra le file dell'esercito nemico e paralizzerà una parte delle sue forze.

Idee del tutto analoghe a quelle di Cesare Balbo (Vol. I, cap. Xl), alle quali il Marselli aggiunge una marcata fede nelle possibilità del popolo italiano, che merita fiducia. Un esercito può batterne un altro, ma ''un popolo che vi fa la guerra, come gli Spagnoli a Napoleone, è pari all'onda del mare che tosto ricopre il solco lasciato dalla nave che incede"; gli italiani non dovrebbero essere da meno degli spagnoli, "se noi mostreremo di averli in pregio, e se si vedranno sorretti dalla volontà di un governo forte e coscienzioso e dalla forza di un esercito valoroso, numeroso e potente". Troppi se... In tre articoli del 1863 il capitano d'artiglieria Cesare Cavi 133 oltre a ripetere argomenti già trattati dal Fambri e da altri polemizza duramente con gli scrittori antimilitaristi i quali sostengono "essere il corpo a cui apparteniamo un vero cancro della società", e cita a conforto delle sue tesi il De Cristoforis, il Dandolo, il Corsi, il Ricci e altri. Agli antimilitaristi si rivolge in queslo modo: ebbene, non concedete voi, che così stimmatizzate gentilmente tutti noi di putridume; non avete voi concesso anche di recente nel convegno tenutosi, se non erro, a Pisa, che è bene valersi di questa fora armata per poter meglio e più presto redimere la nostra Italia? [...] Firmata la pace che ridoni la penisola nostn1, tutta intera a sé stessa, non sarà pregio dell'opera il pensar tosto a proteggerla dagli esterni assalti e dalle disastrose vicende che gli eserciti permanenti dell' altre potenze europee potessero ricondensare sul nostro orizzonte? [ ...] Ed infine, gli uomini del partito d'azione [...] non troverebbero altresl anche troppo presto per l'Italia, la necessità di rompere contro gli eserciti regolari d'altri Paesi, quelle guerre di simpatia che già si vanno fantasticando e promettendo?

Poiché l'Esercito al momento è un'istituzione utile e la leva specie nelle province meridionali incontra notevoli difficoltà, il Cavi invoca una tregua "richiesta dalle solenni circostanze della Patria". Visto che si ammette sia pure in via transitoria la necessità di un esercito stanziale, "non bisogna screditarne la istituzione chiamandola quasi decrepita eredità di principii sociali tirannici e barbari". Il piatto forte delle riforme del Cavi è comunque la polemica diretta con il Cattaneo, ancor più virulenta di quella del Farnbri. In essa fa riferimento non solo all'ormai celebre articolo Italia annata, ma anche agli altri articoli pubblicati dal Politecnico 1860-1861 (Cfr. sz. I). Osserva che il 133

C. Cavi, Studi sulla necessità degli eserciti permanenti e sulle loro note caratteristiche, "Rivista Militare Italiana" Anno VII - Voi. m gennaio 1863, pp. 24-31; Voi. llJ marzo 1863, pp. 227-244; Vo 1. IV maggio 1863, pp. 113-126.


X - ESERCITO PERMANENTE, VOLONTARI O NAZIONE ARMATA?

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Fogliardi avrebbe modificato di molto le sue idee, se avesse potuto discuterne con i generali che hanno creato l'Esercito italiano. Ad ogni modo fa giustamente notare agli articolisti del Diritto (i quali hanno dedicato al nostro Esercito "parole di mal dissimulato disprezzo") che il Fogliardi non intende affatto proporre per l'Italia l'adozione integrale del sistema svizzero, ma considera il grado di educazione popolare, la presenza di un esercito stanziale buono ma limitato, e soprattutto l'urgenza dei tempi, come fattori importanti dei quali bisogna tener conto per definire un ordinamento militare aderente alle caratteristiche specifiche della situazione italiana. In quanto a Garibaldi, a parte "certi sfoghi momentanei di un'anima bollente, addolorata", ha dimostrato simpatia per l'Esercito e si è espresso su di esso ben diversamente da taluni suoi ammiratori, che ne hanno parlato poco benevolmente; e le sue simpatie saranno provate il giorno, in cui si vedranno le schiere dei suoi volontari ancora una volta unite a quelle dell'esercito regolare. Il giudizio sull'Italia armata del Cattaneo è molto duro: questo articolo riassume quanto si può dire contro l'esercito, dimostra che è più facile distruggere che edificare, è "un parto di quelle fa11Lasit: cht: il 22 marzo 1848 già sognavano finita la guerra e incominciata la caccia contro le truppe del1' Austria; fervide fantasie davvero che studiando a tavolino le meraviglie dell'Italia, a loro modo armata, chiamano pregiudizi le conseguenze di una secolare esperienza che ha per suoi documenti le stupende opere di tanti illustri...". E sostenendo la necessità di sciogliere l'esercito stanziale, tace per intanto agli Italiani, quali sacrifici si suppongono educati a sostenere, per contare così su di un'istrutta milizia fra alcuni non pochissimi anni, quanto difficile sarebbe che l'Austria volesse quel tempo assegnarci, e come finalmente nel dì della lotta tornerebbero insufficienti al cimento siffatte milizie, e per la natura del nostro paese, e per le conseguenti necessarie abitudini delle popolazioni, e perché alla fin fine con poche eccezioni alla regola sta il detto di Thiers: "nei paesi ove tutt'uomo è soldato, tutti lo sono assai male". I riferimenti storici del Cattaneo non sono accettabili: egli indica nel-

!' esercito regolare del primo Impero la ragione della sua caduta, dimenticando così le sconfitte delle "incomposte legioni repubblicane" e le successive vittorie tanto più famose quanto più regolari erano le truppe francesi; vi si attribuisce l'entrata delle forze alleate a Parigi nel 1815 all' esistenza di un esercito regolare francese, e non al fatto che esso si era trovato solo di fronte a tutti gli eserciti europei riuniti: in una parola, secondo il Cattaneo Napoleone I non sarebbe caduto per la sua eccessiva ambizione, ma per aver dimostrato che, come ha affermato il Thiers, "la vita militare deve essere una professione speciale fra i popoli civilizzati". Se fosse stato possibile realizzare l'Italia armata che sogna il Cattaneo, essa sarebbe nata da sé dopo le cinque giornate di Milano; sarebbe nata intorno alle mura di Roma nel 1849, dove invece ha resistito solo un pugno


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d'eroi [come la Legione Manara- N.d.a.] che si era imposto una rigidissima disciplina e si era istruito nell'esercito sardo; sarebbe nata alla difesa di Venezia; sarebbe nata nel 1860 in Sicilia in seguito agli appelli di Garibaldi; sarebbe nata nel napoletano, "ove le schiere di questo eroe già invece manifestavano i segni di quella dissoluzione, che una lunga guerra inevitabilmente produce in grosse legioni di volontari...". Il Cattaneo, poi, definisce, a ragione, l'organizzazione della guardia nazionale mobile "un tentativo entro certi limiti commendevole e patriottico", ma è un fatto che nel 1860-1861 gli appelli per la costituzione dei battaglioni mobili non sono stati ben accolti dal popolo, con tale termine riferendosi anche "al povero contadino che ha pur diritto ad avere una sua opinione, e che bestemmia tuttora contro le parolone di leva in massa, mobilizzazione della guardia nazionale, ed istruzione persino della guardia nazionale permanente". Sempre per il Cavi, la coscrizione di Roma repubblicana (in cui ogni cittadino.era soldato} era adatta a un popolo, come il romano, guerriero per tradizioni secolari e per necessità politiche; ma "non v'accorgete poi che nei combattimenti d'allora, la legione romana rappresenta appunto una milizia ordinata stanziale, disciplinata <la kggi inesorabili, un vero esercito permanente?...". In conclusione, secondo il Cavi i più accreditati scrittori militari che hanno condotto la campagna contro l'esercito permanente sono ben lungi dal volerlo distrutto, anzi lo indicano come il nucleo intorno al quale organizzare le altre milizie della nazione; e coloro che hanno sostenuto le riforme più radicali non hanno fatto che riproporre progetti o già bocciati dall'esperienza o attuati in Stati che si trovano in situazioni particolari. Il Fanoli (1865)1 34 contesta le tesi del Filangieri (Vol. I, cap. VI), e in particolare, il danno demografico e economico che secondo il filosofo napoletano arrecherebbero gli eserciti permanenti. Il danno demografico non esiste, in quanto la ferma è ormai relativamente breve, anzi migliora fisicamente e moralmente l'individuo; l'esercito oltre a produrre sicurezza, è la più efficace scuola della nazione. L'Esercito permanente italiano è ben diverso da quello dinastico austriaco, nel quale ogni soldato deve dimenticare la sua nazionalità e i legami con la società ci vile sottomettendosi totalmente all'autorità militare e all'elemento tedesco: militarismo terribile quindi esiste in Austria, non esiste in Italia; colà l'esercito è il più forte ostacolo allo sviluppo e progresso della causa

"' Fanoli, Riflessioni sugli eserciti permanenti e particolarmente sull'alluale Esercito Italiano, "Rivista Militare Italiana" Anno X - Vol. II - ottobre 1865, pp. 3-27. Il Del Negro indica tra i sostenitori della nazione armata anche il veneto Michelangelo Fanoli, che dal 1859 al 1886 aveva militato nell'esercito piemontese ed è autore (nel 1866) di un opuscolo intitolato Considerazioni e proposte di una nuova costituzione militare, Padova 1866 (2" Ed. 1867). Potrebbe es._~ere la stessa persona, visto che il Fanoli non chiude la porta, per un imprecisato futuro, all'abolizione dell'esercito permanente (Cfr. P. Del Negro, Esercito, Stato, Società, Bologna, Cappelli 1879, p. 129).


X - ESERCITO PERMANENTE, VOLONTARI O NAZIONE ARMATA?

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della libertà e nazionalità, quivi l'esercito è di codesta causa il principale sostegno e garanzia. Dà ciò ne consegue dimostrato quanto sia ingiusto, per non dire offensivo, il sospetto ultimamente manifestato da certi giornali, che l'esercito italiano possa essere un serio pericolo alle patrie liberali istituzioni. Il soldato italiano giura di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato; fin dai primi giorni di ferma gli viene insegnato a onorare la religione, a essere onesto, leale, sobrio nena vita privata, a essere di esempio agli altri cittadini nel rispetto delle leggi e nei doveri del cittadino. La giurisdizione penale militare è limitata ai fatti militari, e il soldato non perde i diritti politici e il diritto di voto. Quindi, per il Fanoli non si tratta di mettere in dubbio l'utilità di un esercito permanente, ma piuttosto di tener presente che questa utilità e necessità è sempre relativa. Col progresso della civiltà, tanto l'una che l'altra andranno diminuendo. L'Italia, anzi, a preferenza d'ogni altro paese, godendo un ordinamento politico hasato sul principio dell'eguaglianza, della libertà e nazionalità, potrà in breve diminuire d'assai le spese sulle cose di guerra. A ciò la spinge il dissesto grave delle sue finanze e la sua posizione geografica. Potenza non meno marittima che continentale, non può dispensarsi dal dare sviluppo ognora più maggiore alla sua Marina per partecipare al gran comT)lercio mondiale. Perciò se non si può parlare di abolizione, giova studiare alacremente alla sua riforma dal lato economico. Nel 1868 Lodovico Cisotti pubblica due articoli che interessano l'argomento in esame soprattutto come dimostrazione delle difficoltà che comporterebbe l'introduzione di un sistema tipo nazione armata in un paese, come l'Italia, nel quale (come il Cisotti scrive a chiare note) difetta lo spirito militare e non si è ancora ben capito che la miglior garanzia per la libertà è il rispetto delle leggi 135 • La guardia nazionale - una sorta di embrione della nazione armata - ha sempre dato cattiva prova; le leggi e i regolamenti che la riguardano non sono mai stati osservati. Dopo aver provato con numerosi e inoppugnabili esempi questi duri e categorici giudizi, il Cisotti conclude che lungi dall'essere una garanzia per la libertà, essa è pericolosa all'interno, e non è assolutamente necessaria per la difesa esterna: potrebbe even. · tualmente servire solo come ultima riserva, per la difesa contro un nemico vittorioso Le Considerazioni sull'ordinamento militare del Regno del maggiore Fiorenzo Bava - Beccaris (1869) 136 sono importanti, perché ribadiscono il

135·

136·

L. Cisotti, La Guardia Nazionale, "Rivista Militare Ilaliana" Anno XIII - Vol. Ili agosto 1868, pp. 173-800; Voi. UI settembre 1868, pp. 249-285. "Rivista Militare Italiana" Anno XIV - Voi. II. aprile 1869, pp. 108-117.


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principio della necessità dell'esercito permanente coniugandolo però il più possibile con istituti tipici della nazione annata_ Di conseguenza, delinea un "modello" assai avanzato che si ispira decisamente al sistema prussiano, perciò attribuisce grande importanza alle riserve e alla loro accurata istruzione in tempo di pace. A tal fine, tutta la nazione deve essere educata militarmente, ne11e università vanno istituite cattedre militari, e poiché i buoni cittadini fanno i buoni soldati, bisogna bandire la guerra all'ignoranza, bisogna istruire le masse. Nello stesso modo con cui lo Stato costringe i giovani, fatti adulti, a venire sotto le anni, perché non li obbligherebbe, ragazzi, a frequentare la scuola? Il segreto della bontà di un esercito è in gran parte riposto nella mente e nel cuore del maestro di villaggio. Nelle scuole dovrebbe successivamente essere esercitata la gioventù nella ginnastica, nel maneggio delle armi, nel tiro al bersaglio, ed assuefatta gradatamente agli esercizi militari. Per il Bava, anche se "è aspirazione dei filosofi, è il sogno della civiltà", l'abolizione degli eserciti permanenti non è comunque possibile, almeno per il momento. Le due nazioni d'Europa "le quali vantansi di tenere il primato di ogni incivilimento" (cioè la Francia e la Prussia) stanno preparandosi a una guerra, che sarà la più feroce tra quelle che hanno finora insanguinato l'Europa. Non si può dire che siano solo i governi che eccitano un popolo contro l'altro; sono le stesse popolazioni che, con un eccessivo orgoglio nazionale, spingono i governi su una via che presto o tardi li trascinerà a11a guerra. Ciò prova che, nonostante il progresso tecnico, le molteplici passioni che agitano i popoli non mutano, e "trovano il loro sfogo naturale nel più fortunato dei casi nella guerra contro lo straniero, e nel più triste: nella guerra civile". Ne consegue la necessità che uno Stato sia sempre preparato alla guerra; ma l'educazione militare del popolo si può ottenere, solo facendo passare tutti i giovani da quella grande scuola che è l'esercito permanente. Perciò non è il caso di spendere molte parole per dimostrare la necessità assoluta che ha uno Stato di tenere un esercito permanente; nelle condizioni nostre e del mondo, solo ai pazzi, ai visionari, od a coloro cui poco importa dell'indipendenza, dell'onore e della dignità del proprio paese, può sembrarne possibile la abolizione [nostra sottolineatura - N.d.a.]: ma gli uomini sinceramente patrioti debbono procurare che esercito e paese si penetrino ben bene della necessità che ha un popolo giovane, come il nostro, il quale non ha ancora acquistato credito sufficiente né di potenza né di fermezza presso le altre nazioni, di non trascurare per un momento le armi, e del dovere che gl'incombe d'incontrare tutti i sagrifìci necessari, compatibili con le sue condizioni economiche, per stabilire una buona organizzazione militare. E questa deve essere tale da raccogliere tutte le forze vitali della nazione, e costituire la nazione sempre pronta alla guerra.


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Non si può avere un buon esercito senza una finanza ben ordinata, che nel momento del pericolo renda disponibili risorse straordinarie; perciò l'esercito in tempo di pace deve essere il più ridotto possibile, mentre in tempo di guerra deve inquadrare la massima quantità possibile di uomini. Ciò non toglie che fin dal tempo di pace si deve disporre di "una forza ben organizzata, provvista di tutto il necessario per entrare in campagna, capace di una larga e pronta dilatazione, senza scapito della sua bontà", perché data la rapidità raggiunta dai mezzi di comunicazione moderni, uno Stato correrebbe il pericolo di essere invaso senza avere il tempo di radunare forze capaci di resistere al primo urto nemico.

Conclusione Il Del Negro afferma che il progetto di nazione armata elaborato sulle orme del Cattaneo e del Macchi rappresentava "la vigorosa risposta dell'ottimista liberal-radicalismo settentrionale al dominante liberalismo della paura, quanto mai incline a cedimenti nei confronti della monarchia e delle altre forze dell 'ancien régime"137 • A parte il fatto che Carlo Cattaneo, come abbiamo dimostrato, né prima del 1848 (Voi I, cap. X) né dopo ha mai escluso del tutto la necessità di eserciti permanenti più o meno ridotti, questa interpretazione in chiave esclusivamente politica di un problema che, invee~, ~ in s ieme politico e tecnico-militare (an zi in prevalenz a tecnico-militare), ci sembra fuorviante. Se, come abbiamo affermato in premessa, tutto doveva essere ricondotto alla necessità primordiale di disporre di uno strumento militare in grado di affrontare anche in campo aperto l' Esercito austriaco, tale esigenza diventava la misura di tutte le cose, senza altre discriminanti. Sostenere l' esercito permanente non poteva significare di per sé "cedimento" politico alla monarchia e alle forze conservatrici; cosl come, sostenere la nazione armata non poteva automaticamente significare capitolazione di fronte alle istanze rivoluzionarie. Lo dimostra quanto scrive !'Orsini: ma anche nel motto Italia e Vittorio Emanuele di un convinto repubblicano e anticavouriano, di un nemico dei moderatj come Garibaldi si trova semplicemente la constatazione che - al momento e nella specifica situazione italiana - la monarchia piemontese e poi italiana, l'unica ad avere un saldo esercito, rappresentava una realtà prima di tutto militare dalla quale non si poteva fare a · meno anche volendolo; era perciò la base da cui partire per le riforme, non l'obiettivo da distruggere con le riforme stesse. Al tempo stesso, è indubbio che la riduzione della spesa militare rappresenta un obiettivo assai appetibile, particolarmente per il nuovo Regno d'Italia chiamato a far fronte a molteplici esigenze di spesa, alle quali corri-

m P. Del Negro, Op. cit., p. 129.


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spondevano modeste entrate, un bilancio in dissesto, un'economia povera. Così come, è indubbio che i principi della nazione annata meglio di tutti si attagliano a.quelli della libertà e democrazia, tenendo presente però che quest'ultimi, come sottolineato da molti autori per tradursi in atto richiedono un alto grado di spirito nazionale, di coesione e solidarietà sociale, di responsabilizzazione dei singoli e di spontaneo rispetto delle leggi e dei doveri del cittadino. L'interrogativo al quale bisogna rispondere tenendo conto delle risultanze del dibattito prima esaminato è perciò uno e uno solo: fino a che punto, nell'Italia del tempo, esistono le condizioni affinché un sistema militare basato sulla nazione armata e/o sui volontari diventi alternativo, perché alla prova dei fatti si è dimostrato preferibile alle vecchie soluzioni. L'esercito permanente diventa evidentemente necessario e anzi inevitabile, nella misura in cui i possibili strumenti "alternativi" non si rivelano aderenti alla realtà italiana del momento. Viene intanto da chiedersi perché mai la Francia , Paese nel quale non avevano mai fatto difetto lo spirito militare e la coesione nazionale, e dove anzi era nata la nazione armata, non ha mai sentito il bisogno di ahbandonare la formula dell'esercito permanente. Perché avrebbe potuto, dovuto farlo l'Italia? È questo il punto. Jean Jaurès, agitatore socialista e pacifista francese che nel 1910 avrebbe voluto applicare all'Esercito francese il modello svizzero, nel suo libro 1 'Armeé nouvelle scrive: a che cosa servirà, per esempio, proclamare la superiorità del sistema di milizia sull'esercito di caserma, se il popolo non si presterà alla libera educazione militare, agli esercizi di ginnastica e di tiro, alle manovre in campo aperto, che sostituiranno lo sterile e funesto addestramento di oggi? I regolamenti che metteranno in funzione il nuovo apparato difensivo rimarranno pressoché inoperanti se non saranno sostenuti ali' assenso morale, dalla simpatia atti va dello stesso popolo. 138 Questo consenso, questo spirito militare potevano in breve tempo essere ottenuti nell'Italia del tempo? L'esame fin qui condotto dimostra a sufficienza che ciò non era possibile. Basti ricordare le vicende della guardia nazionale sia al Nord che al Sud così come sono descritte dal Fambri, dal Cisotti e da altri, il malcontento provocato dall'estensione della leva al Centro-Sud, lo stesso fenomeno del volontarismo e delle insurrezioni: fenomeno che è rimasto d'élite, e al massimo ha riguardato alcune città. Era anche una questione di tempi: l'Italia di allora - questo è fuor di dubbio, ed è ammesso anche dal Fogliardi e dal Cattaneo - non solo non era la Svizzera, ma forniva per l'applicazione della nazione armata

'"' J. Jaurès, L'armée nouvelle (1910), Risl 1978 Paris, Editions Sociales p. XV.

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X - ESERCITO PERMANENTE, VOU)NTARI O NAZIONE ARMATA?

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condizioni geostrategiche assai meno favorevoli della Svizzera. Si trattava non di difendersi su confini naturali favorevoli come nel caso svizzero, ma di snidare un forte esercito permanente appoggiato a potenti fortezze. Nella migliore delle ipotesi, se non altro per ragioni geografiche i tempi per la mobilitazione e la radunata si sarebbero di molto allungati: fino a che punto ciò era compatibile con la presenza in Italia di un esercito assai più pronto come quello austriaco, il cui spirito aggressivo era noto? La risposta è facile, e la lasciamo al lettore. Volontarismo e insurrezioni hanno, in certo senso, dimostrato come e fino a che punto potevano trovare applicazione in Italia quei principi della nazione armata, che nella Svizzera libera da tempo, militare e disciplinata, trovavano ben altra applicazione e estensione. Hanno rappresentato la nazione armata possibile in Italia (e nemmeno in tutta Italia, ma specialmente al Nord); esattamente come il celebrato e vittorioso modello prussiano non è stato che la versione prussiana della nazione armata, adatta a uno Stato in rapida espansione, senza barriere naturali, con un popolo valoroso, metodico, naturalmente di&ciplinato (che dunque doveva essere solo istruito militarmente, perché era già educato) e strutture socio politiche ben diverse da quelle svizzere. Il volontarismo nella formula italiana - fenomeno unico nell'Europa del tempo - è anche espressione di un'altra realtà, a sua volta riprova e prodotto di una duplice e contrapposta chiusura e della scarsa coesione nazionale: le mai superate divisioni storiche e i tradizionali localismi degli italiani, la cronica incapacità della loro classe dirigente di trovare - nei momenti supremi in cui è in gioco l'avvenire e la vita della Patria - un minimo di unità e di coesione. Si crea cosl tra establishment militare piemontese e poi italiano e establishment che poi capeggia forze volontarie e insurrezioni, una reciproca conventio ad escludendum la quale non può generare che la sconfitta, o, comunque, il mancato sfruttamento delle potenzialità esistenti. Incomunicabilità e diffidenze profonde, reciproche e spesso non giustificate, che oggi iasciano perplessi. Ad esempio, i volontari lamentano lo scarso e cattivo armamento ricevuto, le forti carenze dei rifornimeµti di vestiario e vettovaglie, la burocrazia, il cattivo funzionamento dei Comandi e collegamenti, il mancato invio degli istruttori e specialisti richiesti, il disordine della mobolitazione ecc.: ma tutte queste erano anche éarenze accusate da qualsiasi reparto regolare piemontese e poi italiano, in tutte le guerre dal 1848 al 1870139 • Sul · versante opposto, non si fa nessun sforzo per capire che i reparti volontari con tutti i loro ben noti limiti - sono un aiuto del quale non ci si può proprio permettere di fare a meno, che inquadrano elementi altrimenti non utilizzabili nell' Esercito, che quindi la loro consistenza numerica va limitata solo

139

Cfr. F. Botti, La logistica dell'Esercito italiano (Cit.), Vol. I e ll.


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nella misura in cui essa ostacola il potenziamento dell'esercito regolare. La problematica politico-sociale era. avrebbe dovuto essere secondaria. Prendiamo come esempio e riferimento la Prussia 1848-1870: in caso di guerra alJo straniero, conservatori e liberaJi, nobiltà, contadini e borghesia cittadina lasciando da parte tutti i contrasti sarebbero affluiti nel grande esercito nazionale, mentre i liberali, i progressisti avrebbero rinfocolato tra i soldati-contadini - come contro Napoleone - l'entusiasmo patriottico che promanava dai discorsi di Fichte. Non c'è mai stato bisogno, in Prussia, di corpi speciali sul tipo di quelli garibaldini, né vi hanno mai avuto molto successo coloro che ricercavano speciali autonomie, speciali corpi e speciali regole disciplinari. L'esatto contrario è avvenuto in Italia: troppo pochi gli sforzi da una parte e dall'altra per cercare l'unità e il coordinamento degli sforzi. Se da una parte i monarchici, i conservatori sottovalutano l'apporto dell'elemento volontario, dall'altra il troppo vasto arcipelago dei loro avversari mostra di non capire, di non considerare abbastanza quello che risulta ben chiaro dagli scritti del Dandolo, dell'Orsini, del De Cristoforis, del Guttièrez e di tanti altri: che cioè la pedina fondamentale per battere l'Austria non era, non poteva essere che l'Esercito piemontese e poi italiano. Si trattava dunque di rafforzare al massimo questo Esercito e di renderlo veramente nazionale dall'interno e a proprie spese, arruolandosi in massa in esso e affrontando quella dura disciplina e quella rigida gerarchia, per la quale una pur legittima antipatia e diffidenza avrebbe dovuto cedere il passo a ciò che richiedeva la suprema salute della Patria. Le pregiudiziali politiche, le polemiche, le proposte di riforma andavano riservate al dopo, e questo vale per ambedue le parti. Non concordiamo perciò con il Rota, secondo il quale il problema di tutto il nostro Risorgimento [è] agitato da due forze: l'una costruisce dal basso, l'altra muove dall'alto; storia di popolo e storia di governi dinastici. Questo contrasto assorbe e sciupa molte energie; in realtà, pure lottando l'una contro l'altra, le due forze cooperano allo sviluppo comune, compiono insieme uno stesso lavoro, quasi fosse stato solidamente concepito; e ognuna di esse tenta sempre di fare passi per una migliore intesa, per sopprimere gli equivoci che le tengono apparentemente separate, per fugare le differenze reciproche, per fondersi in una sola storia. [ ... ]. Le due forze; democrazia e monarchia, solo apparentemente ostili, distanziate nel1' azione, anzi, nell'impossibilità logica di militare insieme, sono due momenti necessari del processo ricostruttivo; la milizia popolare deve arrestarsi, quasi marcare il passo, allorché entra in azione la milizia regia; ma questa percorre la via che quella che le ha rigorosamente aperta... '"°

'°·

1

E. Rota, Art. cit. , pp. 15 e 50.


X - ESERCITO PERMANENTE, VOLONTARI O NAZIONE ARMATA?

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No: non c'è stato alcun processo unificatore, l'antitesi non è stata apparente ma reale, non è stata momentanea ma costante. Si è composta temporaneamente e in qualche caso - non senza lasciare ferite e strascichi - solo per la visione rea1istica del sicuro interesse nazionale da parte di uomini come Cavour, Garibaldi e pochi altri, che peraltro non sempre tale superiore interesse hanno intravisto e hanno perseguito. I volontari di Garibaldi non costituiscono "la milizia popolare" ma il suo surrogato, cioè un'esigua avanguardia; non sempre aprono il passo alla milizia regolare o con essa cooperano, ma si limitano a perseguire semplicemente obiettivi politici paralleli e ad essi stessi non chiari, dai quali risulta solo che vogliono combattere - a modo loro - lo straniero e i tiranni domestici. Atteggiamento meritorio e encomiabile ma nonostante questo non sempre politicamente accorto e militarmente utile. La frequente mancanza di una chiara volontà di operare insieme, di perseguire obiettivi strategici comuni e condivisi ha riflessi prevedibilmente negativi dal punto di vista militare: qui ha ragione il Fambri, quando afferma - nel 1868 - che l'Italia deve ormai avere un solo re, un solo Capo, un solo esercito: ma ciò era vero anche vent'anni prima, e se non lo è stato, è in questo che va ricercata una ragione primaria delle defaillances militari. Lo ripetiamo: la presenza nelle file dell'esercito regolare di giovani entusiasti e animati da amor patrio, lungi dal soffocare il naturale entusiac;mo della gioventù, sarebbe stata un balsamo prezioso per elevare lo spirito combattivo delle masse contadine di cui esso era composto, e per curare gli stessi mali procurati dagli eserciti permanenti. A ciò si aggiunga che le forze antagoniste in gioco non si limitavano a Esercito, volontari e insorti: e quelli che si potrebbero chiamare federalisti o localisti militari, che volevano combattere con proprie formazioni autonome? e i conservatori antinazionali e la politica del Vaticano, oggettivamente contrario - in questa fase - sia a quella della monarchia piemontese che a quella delle forze democratiche? e l'influenza del clero specie nelle campagne e su quell'elemento contadino, che poi costituiva la massima parte dei soldati regolari? e coloro che, come il Cattaneo, consideravano i piemontesi dei pericolosi e pelosi "amici" da combattere, da tenere alla larga quasi quanto gli austriaci? Non si vincono le guerre - né tanto meno le guerre nazionali - "all'italiana", cioè in ordine sparso: lo dimostrano proprio le più recenti guerre e guerriglie nazionali del XX secolo, nelle quali solo un unico "fronte .nazionale" con un unico strumento militare (sempre mancati dal 1848 al 1870 in Italia) hanno consentito di sconfiggere i più potenti e moderni eserciti. L'incompleta, frammentaria e solo episodica unificazione di forze diverse ma tutte necessarie è stata dunque un gravissimo elemento di debolezza militare, causando la mancata utilizzazione di tutte le forze e potenzialità disponibili nella nazione italiana. Qui invece ha qualche ragione il Rota, il quale giudica infondate le tesi di coloro che sostengono lo scarso fervore dei contadini lombardi per la causa nazionale nel 1848/1849, e afferma:


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

vogliamo ora insistere sopra un'idea fondamentale alla presente discussione: che se i volontari uscirono, per maggior numero, dalle classi colte, ciò non va tenuto in conto di episodio singolare, ristretto o al 1848 o ai Lombardi; neppure è imputabile a scarsità di senso nazionale: trattasi piuttosto di un fenomeno costante, di legge storica vera e propria, applicabile a tutti i popoli e a tutti tempi...,.,

A questo punto il Rota ha buon gioco nel dimostrare che i contadini non hanno mai fornito volontari a nessuna guerra: piuttosto - osserva - il contadino emigra e va a fondare nuove colonie, "forme che sono più rispondenti alla psiche del campagnolo, non facile a lasciarsi prendere da novità di idee e da improvvisi entusiasmi". Se dunque il volontario rimaneva un'élite, se dal suo numero non poteva misurarsi appieno la partecipazione popolare, il posto militare del contadino era quello di sempre: nell'esercito regolare come coscritto, oppure nella fattoria come produttore di preziosi beni di sostentamento. Incarichi che, s'intende, poteva svolgere con maggiore o minore entusiasmo, e/o cercare di evadere. Anche per questa via, dunque, entra in gioco l'esercito permanente: e qui vale il detto di Napoleone I, secondo il quale "una nazione non manca mai di uomini, nemmeno dopo le guerre più disastrose, ma sovente di soldati". Ciò significa che, nella situazione italiana del momento, si trattava di organizzare l'afflusso nell'esercito permanente - un unico esercito - delle masse contadine, di addestrarle, di educarle, migliorarne le condizioni, rinfocolarne lo spirito patriottico: questa era la vera missione della classe dirigente, i cui migliori esponenti spesso hanno preferito prendere essi stessi il fucile formando reparti volontari e/o preparare, come i mazziniani, improbabili insurrezioni nelle campagne. In tal modo l'Italia, che avrebbe avuto bisogno di molti soldati, ha avuto solo dei patrioti con poco seguito o degli uomini valorosi ma inquadrati separatamente in reparti volontari, che mettevano in chiara evidenza tutti i tradizionali difetti degli italiani in generale e della borghesia italiana in particolare. Popolo, quello italiano, con molte qualità e - quando crede nella causa - anche valoroso, ma non militare, perché incostante, poco disciplinato, troppo "pensante" in senso negativo. Pregi e limiti dei volontari stanno tutti qui: metterne in riJievo i limiti non significa disconoscerne i meriti e l'utilità. Appare chiaro che i volontari, in linea generale, dal 1848 al 1870 non hanno mai potuto - né avrebbero potuto - sostituire l'esercito permanente, ma solo coàdiuvarlo agendo soprattutto in ambienti particolari come la montagna, che non richiedeva le ordinanze rigide della fanteria di linea e quindi un lungo addestramento dei singoli, visto che in montagna il terreno stesso detta le formazioni. Vanno quindi respinte le tesi, che vedrebbero nella tendenza dei generali dell'Esercito a impiegare in

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ivi, p. 10.


X - ESERCITO PERMANENTE, VOLONTARI O NAZIONE ARMATA'?

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terreno montano i volontari garibaldini una riprova delle loro ingiustificate " chiusure" nei riguardi di queste truppe, certamente non idonee ad affrontare in campo aperto un esercito ampiamente provvisto di artiglierie, tradizionalmente saldo e agguerrito come quello austriaco, o all'assedio di fortezze. Di questo era convinto lo stesso Garibaldi: basta considerare la strategia "indiretta" da lui suggerita nel 1871 alle poco addestrate forze repubblicane francesi, mirante a colpire il nemico alle spalle e a non affrontare in campo aperto le forze prussiane (cap. VII). Un altro autore che fuor di dubbio conosceva bene la guerra di montagna, l' Allemandi, riteneva a ragione infruttuoso l'impiego dei corpi ai suoi ordini nelle operazioni contro il quadrilatero, perché "se i volontari poteano giovare non poco in un paese riparato o montuoso, infruttuosa sarebbe rimasta 1' opera loro nei dintorni di quelle fortezze, spogli, come sono, d'ogni naturale difesa, ed in presenza delle regolari falangi nemiche, che poteano sempre schierarsi in ordine di battaglia". 142 Dunque anche secondo un militare di alto grado svizzero non certo appartenente ali ' establishment militare piemontese, i volontari non erano idonei all'assedio di fortezze e ad affrontare in campo aperto le "regolati falangi nemiche": come si poteva pretendere di farne l'elemento di base per la guerra d'indipendenza italiana? La rapida, vittoriosa e quasi miracolosa campagna garibaldina ne11a Italia Meridionale (ignorata dalla Rivista Militare del periodo che pur rievoca la campagna dell'esercito regolare nelle Marche e nell'Umbria, l'assedio di Gaeta e la liberazione di Roma) porta indubbiamente molta acqua al r:nolino di chi sostiene le grandi possibilità della formula dei volontari, rria è la classica eccezione che conferma la regola. Se si guarda all'intero ciclo operativo, fatte le debite eccezioni l'Esercito borbonico del 1860 aveva tutti i difetti e nessun pregio dell' esercito permanente. Esso appare come un organismo da t~mpo in stato di grave disgregazione morale, espressione militare di un sistema politico-sociale che ormai non era più in grado di reggere, con una leadership assolutamente modesta e poco convinta della nece~sità di battersi, di fronte alla quale risaltano ancor di più - fino a assumere peso decisivo - il coeup d'oeil clausewitziano e la personalità, le doti di Capo di Garibaldi e la determinazione, l'entusiasmo, lo spirito combattivo dei suoi volontari: esattamente quello che manca nel campo avversario, se non altro perché numerosi e validi ufficiali (anche di grado medio-alto) considerano la partita persa in anticipo, già aspirano ad entrare nell'Esercito piemontese e - fatto unico e significativo - durante le trattative di resa temono soprattutto la reazione dei ·1oro uomini. Fino a che punto il nuovo Regno d'Italia nato nel 1861 proprio grazie alla memorabile impresa di Garibaldi, poteva tenere conto a priori di questa esperienza e dell'apporto di un volontarismo dominato da una personalità

"'· Cit. i11 E. Liberti, Op. cit., p. 274.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

eccezionale, nella creazione di uno strumento militare "normale" e duraturo, in grado di tener testa agli agguerriti avversari? L'indisciplina e lo scarso addestramento dei volontari (o la loro preferenza per l'inquadramento in formazioni speciali dove le "boionette pensanti" trovano un certo spazio) non sono i fattori che pesano di più sulla bilancia, pur se indiscutibili e ammessi anche dal Rota; il fatto di maggior rilevanza militare è che il volontarismo del Risorgimento - Io dice la parola stessa - è esclusivamente basato sulla libera volontà del singolo di partecipare a una guerra o a un'impresa militare, solo quando essa concretamente si profila e solo fino a quando e nella misura in cui la condivide. Al di là delle previsioni, quindi, la volontà può mancare o venir meno dopo un certo tempo, ché per i volontari di fatto non è mai esistito il reato di diserzione. Ne consegue che il volontarismo è un elemento incerto, sul quale non si può fare affidamento a priori: la sua formula non può dunque costituire la base per la preparazione e mobilitazione, operazioni che possono essere compiute solo se si può fare affidamento su un numero ben definito di cittadini, soggetto a ben definiti obblighi e doveri la cui inosservanza in guerra è severamente punita, anche in Svizzera. Anche per queste ragioni le argomentazioni dei sostenitori del principio dell'esercito permanente sono in gran parte inattaccabili: specie per l'Italia del tempo questa non era la soluzione migliore in assoluto, ma era certamente l'unica possibile, e tanto basta. L'esame condotto dimostra, comunque, che molto prima del 1870 (Caimi, Marselli, Bava - Beccaris e altri) parecchi militari di professione di grande nome non sono affatto contrari a princip1 tipici della nazione armata e alle soluzioni prussiane. Questo fatto non autorizza a parlare di "pregiudizi dei militari di professione" nei riguardi di formule ritenute "concessioni ideologiche a istanze civilistiche", rispetto alle quali, la netta separazione tra esercito e nazione avrebbe garantito di per sè maggiore efficienza. La realtà è ben diversa: a parte il fatto che nessuno nega il legame tra esercito e nazione, specie in Italia e in Francia alcuni per ragioni esclusivamente tecnico-militari non vedevano di buon occhio la mobilitazione ali' emergenza di numerose riserve, temendone non tanto il peso politico ma soprattutto la scarsa efficienza militare; posizione discutibile, ma che trova indubbie giustificazioni nello scarso rendimento delle riserve dell' Esercito piemontese e poi italiano in tutte le guerre d'indipendenza. Delle riserve si riscontra il troppo breve addestramento, la scarsa idoneità dei Quadri, lo scarso spirito combattivo dovuto al fatto che si tratta in genere di contadini ORMAI MATURI, ammogliati e con preoccupazioni di famiglia, che con grave danno anche economico lasciano i loro campi. Per tante ragioni, le riserve italiane del tempo non potevano certamente essere quelle prussiane o austriache: si trattava di renderle il più possibile somiglianti a queste due, cosa niente affatto facile. I1 problema di.fondo non riguardava dunque la necessità di un esercito permanente, e nemmeno l'adozione di questo o quel modello: ma quale esercito p ermanente adottare per l 'Italia. In proposito, è ben noto che le principali e più efficaci argomen-


X - ESERCITO PERMANENTE, VOLONTARI O NAZIONE ARMATA?

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tazioni dei nemici dell'esercito permanente di ogni tempo si basano sul il suo alto costo economico e sociale. Il basso costo delle soluzioni svizzere peraltro mai collaudate - non risulta ben documentato, e questo vale soprattutto per le pur necessarie (e ovunque ingenti) spese per il rinnovo dell'armamento individuale e de11e artiglierie e materiali. Risulta però documentato a sufficienza che alla vigilia della guerra franco-prussiana la formula di esercito permanente adottata dall'Italia è più economica - e socialmente meno gravosa - di quella della Confederazione Germanica del Nord, della Russia e della Francia. Essa fa inoltre ben risaltare la dispendiosità della soluzione inglese, che agli alti costi abbina un basso numero di uomini mobilitati all'emergenza. Secondo dati riportati dalla Rivista Militare' 43, nel 1868 l'Italia spende per l'Esercito il 20,3% delle entrate dello Stato e per la Marina il 4,4%, per un totale del 25%; al confronto la Confederazione Germanica del Nord spende il 30%, la Russia il 40%, l'Inghilterra il 37%. L'Italia mantiene alle armi in pace un soldato ogni 120 abitanti, contro uno su 9 della Confederazione Germanica, uno su 70 della Russia e uno su 145 della Inghilterra. Ha un esercito di pace di 200.000 uomini contro i 300.000 della Confederazione Germanica, gli 800.000 della Russia, i 140.000 dell'Inghilterra, i 400.000 della Francia. Ha una ferma di 5 anni, contro i 3 della Confederazione Germanica, i 12 della Russia, i 10-12 dell'Inghilterra, i 7 della Francia. Appare quindi chiaro che quello italiano è un esercito di modeste dimensioni suggerite soprattutto da istanze economiche e non dal motto - nel quale peraltro non v'è nulla di spregevole, anzi - pochi ma buoni; ed è sintomatico il fatto che tutti i sostenitori dell'esercito permanente prima citati, per ragioni essenzialmente economiche convengono sul principio che l'esercito permanente in pace deve essere il più ridotto possibile (il che postula automaticamente la necessità di fare ampio ricorso, in caso di guerra, alla riserve). Anche questi dati, nei quali l'economia dei singoli Stati e le loro possibiHtà economiche sono un convitato di pietra dal peso spesso decisivo, dimostrano che - diversamente da quella della nazione armata - la formula dell'esercito permanente si presta alle più svariate applicazioni pratiche. Nel caso italiano, la soluzione del problema era più che mai condizionata dalle scarse possibiHtà economiche del Paese, rispetto alle quali andavano confrontati i vari progetti di riforma In particolare, viene da chiedersi fino a che punto sarebbe stato possibile approntare in pace i materiali necessari per un grande e moderno esercito tipo "nazione armata", il cui annamento non poteva essere composto solo di fucili, e fino a che punto sarebbero stati possibili - e accettati - i frequenti e quindi costosi richiami di Quadri e riserve per addestramento. Come del resto avviene nel caso della nazione armata, riconoscere la

143 ·

Forza militare dei diversi Stati europei, " Rivista Militare Italiana" Anno VII - Vol. III marzo 1863, pp. 245-265; l'Esercito francese, Anno XIII - Voi. Hl luglio 1868, pp. 48- 70.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1!148-1870)

validità della formula dell'esercito permanente non significa gran che: occorre chiedersi quale esercito permanente, con quali risorse, e, ne] caso italiano, con quali possibili economie. Indicare, anche in questo caso, i limiti e gli inconvenienti di vario ordine della formula e delle sue concrete applicazioni non significa disconoscerne la validità. Il dibattito esaminato, insomma, fa emergere la necessità di un approccio empirico e libero da schemi, nel quale non è possibile alcuna applicazione integrale dei due o tre archetipi teorici prima indicati. In tutti i casi, parafrasando Brecht si può affermare: "beato quell ' esercito che, in guerra, non ha bisogno di volontari". L'assenza di vo]ontari significherebbe piena, matura e diffusa volontà di battersi di tutto un popolo, e della sua unica e vera espressione militare: l'esercito. In questo senso, pur senza condividere le ingenerose e velenose filippiche de] Fambri si deve riconoscere che con la guerra franco-prussiana del 1870-1871 si chiude in Europa l'epoca - se non del volontarismo - certamente dei reparti speciali con la speciale disciplina dei volontari, secondo il glorioso ma irripetibile modello che tramonta con il suo vero e unico ispiratore, Garibaldi.


CAPITOLO XI

DALLA DIFESA DEL PIEMONTE ALLA DIFESA D'ITALIA: IL RAPPORTO TRA GEOGRAFIA MILITARE, STRATEGIA E FORTIFICAZIONE

Avessero anche i Romani edificata Roma in altro punto d'Italia sarebbero istessamenle divenuti i dominatori del mondo antico; perocché non era tanto la vantaggiosa posizione di Roma capitale che li rese grandi, ma furono il valore e la virtù loro [. ..]. E quando la virtù di Roma andava declinando, cominciarono a farsi evidenti gli svantaggi della posizione; mentre chi si faceva forte sul Po influenzava le sorti di Roma stessa.

Ten. Col Pietro Valle, La difesa dello Stato (1866)

Premessa Il problema della difesa dello Stato domina la seconda metà del secolo XIX, dando luogo a un interminabile e articolato dibattito che coinvolge anche la Marina ed è esasperato dalla scarsità di risorse a fronte della superiorità delle forze dei possibili nemici. Va subito sottolineato che, sul piano generale, la fortificazione potenzia il valore impeditivo intrinseco del terreno ed è tanto più necessaria, quanto più le forze mobili sono deboli e inferiori di numero rispetto a quelle probabili avversarie: questo era il caso dell'Italia dopo il 1861. Al tempo stesso, Ja conformazione geografica dell'Italia ha imposto, da sempre, di considerare la difesa dello Stato sia sotto l'aspetto terrestre che marittimo, e di esaminare la ripartizione deUe risorse per far fronte contemporaneamente ad ambedue le esigenze. In altre parole, fin dalla prima metà del secolo scorso dire "Italia" significa naturalmente dire anche penisola italiana, con la relativa, grande estensione del1e coste messa in rilievo da Napoleone I (Cfr.. Vol. I, p. 944); perciò studiare la sua difesa mediante fortificazioni significa anche valutare la sua posizione geostrategica nel continente e nel Mediterraneo. Ben a ragione il generale Carlo Porro, uno dei più eminenti nostri scrittori ed insegnanti di geografia militare, scriveva nel 1929 che


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f'. BOTn - IL PENSIERO MILITARE E NAVALE - VOL. Il (1848-1870)

il problema della difesa delJo Stato abbraccia multiformi aspetti, concernenti attitudini offensive e difensive del nostro Paese, i rapporti strategici con gli Stati contro i quali possiamo trovarci in lotta, l'organizzazione difensiva delle nostre frontiere, la sistemazione delle nostre comunicazioni terrestri, il dominio delle vie marittime e delle vie aeree, le questioni coloniali, e così di seguito. Un tale grandioso problema è essenzialmente un problema geografico, o per lo meno un problema a largo substrato geografico, poiché ha il suo principale fondamento nella conoscenza delle condizioni geografiche dei Paesi. E l'ignoranza della geografia., fatte le debite eccezioni, è pur troppo comune nel nostro Paese[... ] ed è l'ignoranza della geografia che, in diverse occasioni, ha sinistramente influito sulla soluzione di questioni interessanti la vita dello Stato 1•

Il generale Porro afferma, tra l'altro, che ]a difesa dello Stato riguarda anche le comunicazioni terrestri (strade e - dopo la seconda metà del secolo scorso - soprattutto ferrovie). Non si può quindi parlare di difesa dello Stato senza accennare alle ferrovie, che failP.o sistema con Je fortificazioni e sono finalizzate a tale difesa. Ciò premesso, occorre considerare che la problematica affrontata dopo il 1861 affonda le sue radici, in linea di stretta continuità, nel periodo dal 1815 al 1860, quando per i due principali Stati e per le due principali potenze militari dell'Italia - il Piemonte e il Regno di Napoli - già nasce l'esigenza di difendere i confini contro forze superiori in una situazione internazionale tutt'altro che tranquilla. In particolare, per il Piemonte (specie - ma non solo - dopo il 1815) si pone il problema di sfruttare nel miglior modo la cerchia della Alpi per fronteggiare una possibile invasione francese: tant'è vero che, all'inizio del 1848, l'esercito piemontese è ancora in gran parte schierato a presidio delle fortezze del confine alpino ... Per altro verso, le esigenze difensive dell'Italia unita e le possibili direttrici della sua geopolitica e geostrategia già compaiono, come si è visto, negli scritti 1833-1836 di Guglielmo Pepe (Cfr. Vol. I, cap. XIII), il quale pertanto va considerato come i] precursore in questo campo, dove prima del 1848 il Gioberti e il Balbo hanno fornito un prezioso contributo di idee2 • Per ultimo, non solo nel periodo 1848-1870 qui considerato, ma anche prima, durante la Restaurazione, il progresso della cartografia - particolarmente curata, et pour cause, dagli Stati Maggiori, fino a farne l'attività principale - e le esigenze difensive degli Stati, a cominciare da quelle del Piemonte, provocano un notevole sviluppo degli studi di geografia politica, e la nascita anche

C. Porro, Il problema della difesa dello Stato, "Esercito e Nazione" n. 12 - dicembre 1929. Cfr., in merito, il Voi. I e anche F. Botti, Il ruolo geopolitico e militare dell'Italia in Europa e nel Mediterraneo: spunti di attualità negli scrittori della Restaurazione, "Tuforrmuiuni ùdla Difesa" n. 6/1994.


Xl - GEOGRAAA E FORTIFICAZIONE NELLA DIFESA D'ITALIA

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in Italia della geografia militare come branca autonoma, finalizzata a ben precisi e concreti obiettivi strategici. Su tali studi si basano, fin dall'inizio, i concreti progetti e suggerimenti per la difesa del territorio, che dunque viene valutato ai fini militari non solo dal punto di vista geografico o meglio deUa "geografia umana", ma anche dal punto di vista storico, per trarre dati d'esperienza dalle precedenti campagne che hanno interessato una data regione. n quadro prima tracciato suggerisce di per sé gli argomenti da trattare e la loro successione: anzitutto uno sguardo agli studi più propriamente teorici di geografia politica e/o militare; in secondo luogo un sommario cenno a quelli sulla difesa del Piemonte e infine, l'esame di quelli sulla difesa d'Italia. A tale fine, per omogeneità, estenderemo l'esame anche al periodo che viene subito dopo il Congresso di Vienna del 1815. Non sembri superflua la parte dedicata alla geografia teorica; per quanto già detto, essa acquista significato solo se collegata alla fortificazione, che deriva da valutazi-Oni essenzialmente geografiche.

SEZIONE I - Dalla geografia politica alla geografia militare e alla geostrategia: aspetti teorici. Cenni sulle opere europee di maggiore influenza in Italia Nel Vol. I abbiamo brevemente accennato alle opere di geografia politica - con interessanti contenuti militari - del Cantù e del Bianchi3 e alla nascita della geostrategia, il cui padre - come da noi ricordato e come riconosciuto di recente da un eminente studioso della materia come il Coutau-Bégarie - è stato, in campo mondiale, un italiano finora stranamente ignorato come il generale Giacomo Durando. Inoltre in due recenti studi ai quali rimandiamo, abbiamo esaminato la nascita ed il significato della geografia politica e militare, indicando come e perché distinguerle dalla geopolitica e geostrategia4. Nel quadro dell'accennato risveglio della geografia e della ca1tografia, su_bito dopo il 1815 nascono in Europa le prime opere di geografia militare intesa come scienza autonoma e non come parte pur importante della géografia politica5• Tra di esse citiamo, in ordine cronologico: ).

,.

Cfr. M. Bianchi, Geografia politica dell'Italia, Soc. Ed. Fiorentina 1854, e C. Cantù, Geografia politica per corredo della storia universale, Torino, Pomba 1845. Voi. I, cap. XIII. Cfr. anche F. Botti, Il concetto di geostrategia e la sua applicazione alla nazionalità italiana nelle teorie del generale Giacomo Durando,: "Informazioni della Difesa" n. 3/1994, e il numero speciale dedicato dalla rivista Stratégique n. 58 (2/1995) alla geostrategia, con scritti del Coutau Bégaric e di altri studiosi francesi e la traduzione del predetto articolo. Cfr., inoltre, F. Botti, Geografia politica geopolitica e geostrategia, "Rivista Militare» n. 3/1996. Su natura, sviluppo e autori della geografia militare Cfr. "Enciclopedia Militare". Voi. N pp. 58-59 e inoltre C. Porro, Art. cit. e Le Basi scientifiche dello studio della geografia militare, ''Esercito e Nazione·· n. l - gennaio 1929.


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F. BOTII - IL PENSIERO MILITARE E NAVALE - VOL. Il (1848-1870)

Gen. Sanchez-Cisneros, Elementi di geografia applicati alla scienza della guerra (1819) - si richiama soprattutto agli ammaestramenti della guerra d'indipendenza spagnola 1808-1913 contro Napoleone, nella quale i guerriglieri e lo stesso Wellington hanno sfruttato magistralmente il terreno per neutralizzare la superiorità delle forze francesi; Hahnzog Von Magdeburg, Lehrbiich der Militar Geographie Von Europa (1820); Malchus, Handbuch der militar - Geographie, Heidelberg 1833; Albert T.E. Von Roon, Militarische Lii.nderbeschreibung Von Europa, Berlin 1837; Col. Franz Von Rudtorffer, Militar - Geographie von Europa, Praga 1833 (traduz. francese 1847 a cura di L.A. Unger), autore assai citato in Italia; Col. Franz Von Rudtorffer, Geographie militaire de l'ltalie, Paris 1848 (coautore L.A. Unger - estratto dalla precedente opera); - The6phile Lavalleé, Geographte physique, historique et militaire, Paris 1841 (con numerose edizioni successive). Traduzione italiana: Geografia fisica, sJorica e politica di Teofilo Lavalleé - opera adottata dal Ministero della pubblica istruzione - prima versione italiana con aggiunte ad uso dei collegi nazionali, Torino, Libreria Minerva Subalpina 1852; The6phile Lavalleé, Atlas de geographie militaire adopté pour l'Ecole militaire de Saint Cyr, accompagné de Tableaux de statistique militaire, Paris 1852. A queste opere - e ai numerosi studi di geografia generale francesi e tedeschi pubblicati nel periodo - fanno frequente riferimento i nostri autori militari, che per la geografia generale si avvalgono frequentemente de1la Descrizione dell'Italia di Francesco Marmocchi6, e soprattutto delle opere del veneziano Adriano Balbi (1788-1848)7, con particolare riguardo al Compendio di geografia completato su di un nuovo piano confonne agli ultimi trattati di pace e alle più recenti scoperte8• Tale opera compare dapprima in Francia (Abrégé de Geographie - 1832), dove la si loda come la nùgliore opera geografica uscita fino a quel momento, e successivamente viene tradotta in italiano. Nell'introduzione al Compendio il Balbi tratta ampiamente dei contenuti teorici della geografia, della sua suddivisione, del modo di distinguerla dalla statistica (materia che, come si é visto nel Vol. I, con la geografia è il fondamento della strategia) e ~ell'utile che possono ricavarne

7.

Firenze, Poligrafica Italiana 1846. Su vita e opere del Balbi Cfr. "Enciclopedia Italiana" V, 904. Torino, Pomba 1834. Altre opere dello stesso autore: Scritti geografici, statistici e vari (Torino, Stab. Tip. Fontana 1842); Bilancia politica del globo ossia quadro geografico statistico della terra (Padova, Zambeccari 1833 - con interessanti accenni al modo di classificare le forze militari).


Xl - GEOGRAFIA E FORTIFICAZIONE NELLA DIFESA D'ITALIA

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J' uomo di Stato e il generale. Esiste - egli afferma - un'estrema confusione sul campo d'azione della geografia, perché tale disciplina é connessa con molteplici branche (tra le quali l'etnografia, la statistica, l'economia politica, la storia, la geologia ecc.). Comunque i soli principali oggetti di alcune di queste scienze vi debbono essere indicati, e un assai minore numero di alcune aJtre, ma nessun vi debbe essere trattato e sminuzzato da parte a parte, essendone quasi sempre presupposta la cognizione. La superficie, la popolazione assoluta e relativa, le rendite e il debito, le forze di terra e di mare, essendo i principali elementi della terra e della ricchezza di uno Stato, sono ugualmente compresi nella sfera della geografia e in quella della statistica, ma con questa differenza, che il geografo non si accontenta di generali risultamenti e lo statistico discende ai particolari di ciascuno di quegli elementi9•

Applicando questi criteri il Balbi distingue tra geografia fisica e politica; quest'ultima comprende superficie, popolazione, etnografia, religione, governo, industria, comunicazioni, divisioni politiche e geografiche. Viene poi quella che chiama geografia particolare, alla quale dedica un capitolo per ciascuno Stato, esaminandone la posizione astronomica, le dimensioni, i confini, i centri abitati, le montagne, le isole, i laghi e fiumi, le vie di comunicazione (compresi canali e strade ferrate), l'idrografia, la religione, il tipo di governo, le piazzeforti militari, l'industria, la morfologia del terreno e i possedimenti. Ai fini militari, secondo il Balbi la conoscenza della geografia fa sì che "i capi degli eserciti, meglio informati del potere di ciascun Stato, faranno i loro apparecchi convenienti per assicurare la sussistenza del loro esercito, oppure non graveranno i paesi conquistati di esuberanti contribuzioni ..." 10 • In definitiva, negli studi del Balbi si trovano molte considerazioni di carattere e interesse militare, ma non vi compare ancora il concetto di geografia militare; come afferma l'Enciclopedia Italiana, egli privilegia una descrizione politica "spesso sovraccarica di elementi estranei": ma è pur vero che "ammette come fondamentali in una trattazione geografica quattro classificazioni dell'umanità: secondo la divisione politica, secondo lo stato sociale, secondo l'etnografia e secondo la professione religiosa". Questa impostazione a parer nostro ne fa un precursore di quella "geografia umana", alla quale non hanno potuto e non possono essere estranei i · migliori studi di geografia militare e geostrategia; al tempo stesso, il Balbi anticipa il Lavalleé nel definire - come già aveva fatto in Francia il Buache - la ripartizione in regioni fisiche della superficie terrestre in base ai bacini idrografici.

!>. 10 ·

A. Balbi, Compendio (cit.), p. V. ivi, p. IX.


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F. BCYITI - IL PENSIERO MILITARE E NAVALE - VOL. Il (184&-1870)

Gli scritti del Lavalleé banno grande influenza sugli autori italiani di geografia militare della seconda metà del secolo XIX e sul modo di concepire il ruolo della fortificazione: ne daremo dunque qualche cenno riferendoci alla traduzione italiana comparsa nel 1852 con la traduzione del termine "militaire" con quello "politica", significativa ma non spiegabile se non con l'intento di allargare il campo d'interesse del libro. Il Lavalleé intende superare J' antico concetto di geografia intesa come semplice descrizione della terra: la geografia é invece "quella scienza che si propone far conoscere non pure la terra quale si presenta nella sua superficie, o in tutta la esteriore essenza, agli occhi dell'osservatore, ma i rapporti ancora che essa ha con il genere umano da cui è abitata, e le influenze che i suoi abitanti esercitano sul medesimo". Tra questi "accidenti" prevalgono il mare e i corsi d'acqua; in particolare la configurazione esterna delle terre dipende dai mari che ne limitano i contorni, e quella interna dal sistema delle montagne e dei fiumi che li attraversano; dunque, acque stazionarie e correnti, alture e vallate, ecco tutti i grandi accidenti fisici del globo; i quali, con le modificazioni che arrecano alle produzioni, ai climi, alle popolazioni, dividono la sua superficie in regioni, i di cui confini, determinati dalla natura, sono indipendenti da11e divisioni immaginarie che i bisogni od i capricci dell' uomo hanno inventati. Questi paesi fisici che sono la base dello studio razionale della geografia, comprendono ora uno o più bacini di fiumi, ora uno o più bacini di mare: considerati come un tutto isolato, hanno la loro linea di divisione d'acqua che li separa in due versanti principali, i loro confini esterni formati dai mari, ed interni dai fiumi e monti, ecc. Queste divisioni sembrano essere state stabilite dalla Provvidenza per fissare certi Popoli, certe razze nei paesi che loro sono propri; hanno creato le nazionalità, gli Stati, le società."

Da queste considerazioni preliminari discende il modo di concepire la fortificazione e il suo ruolo, che non sostituisce ma integra e rafforza le forze mobili, sbarrando le comunicazionj che superano i confini naturali e creando difese artificiali, là ove le difese naturali non sono sufficienti: La distruzione dei confini naturali dei bacini per le strade ed i canali, voluta dai bisogni dello stato di pace, ha resa necessaria la creazione d'ostacoli artificiali che potessero rimpiazzarli nello stato di guerra: ecco lo scopo delle piazze forti, fortezze, cittadelle, castelli, posti militari, campi fortificati, ecc., innalzati d'ordinario sulle frontiere degli Stati. Le migliori frontiere sono i confini naturali; esse danno ad un popolo un sentimento della sua nazionalità, isolano e concentrano le razze di cui è formato, e sono la garanzia del suo stato sociale e della sua indipendenza. Noi abbiamo veduto che si ritenevano per i migliori

Tu. Lava11eé, Op. cit., p. 23.


Xl - GE(lGRAflA E FORTIFICAZ IONE NELLA DIFESA D' ITALIA

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confini dapprima i deserti, in seguito i mari, poscia le catene di monti, infine i fiumi; ma di rndo questi confini riescono talmente perfetti che possano fare senza appoggi artificiali: Poche nazioni li hanno completi, alcune ne mancano del tutto e questa deviazione delle leggi della natura è una sorgente perpetua di guerre. Perciò le piazze forti sono divenute un complemento indispensabile dei confini naturali, soprattutto presso i popoli civilizzati ove lo stato di guerra è un caso che non saprebbe però arrestare la frequenza e la facilità delle comunicazioni, e per conseguenza presso di essi il confine naturale non è mai insuperabile. Le difese artificiali, siano permanenti, siano temporarie, sono ordinariamente cosb1ltte agli sbocchi od ai confluenti delle vallate sulle coste marittime, rive dei fiumi, all'incontrarsi delle strade, infine dappertutto ove l'ostacolo è nullo od insufficiente. Onde queste grandi ed immobili macchine di guerra servano al loro fine, devono legarsi al sistema difensivo naturale che esse appoggiano o rimpiazzano, incatenarsi, sostenersi, coordinarsi tra loro, in modo da presentarsi, riguardo all'assieme d' una frontiera, come i bastoni d'un circuito fortificato. Gli ostacoli naturali ed artificiali non bastano, isolati, alla difesa di un paese; il coraggio solo degli abitanti può renderli insormontabili. Lo Stato costituisce dunque per sua difesa un' armata.. .12.

Parlando dell'Italia, il Lavalleé riconosce che i suoi confini naturali "sono determinati in modo tale, che le dà le sembianze di un'isola". Fino a quando il Mediterraneo è rimasto l'unico mare europeo, data la sua favorevole posizione al centro di questo mare l'Italia ha dominato l'Europa e una parte dell' Asia: ma dopo che la potenza politica e guerriera fece passaggio alle regioni oceaniche, fu sovente invasa e conquistata dai popoli del Nord, e principalmente dai Francesi e Tedeschi, e non poté mai costituire ai suoi abitanti una patria indipendente. La qual cosa vuolsi attribuire [come farà anche Giacomo Durando nel 1846 - Cfr. Voi. I cap. XTI - N.d.a.] a che nella sua postura fisica trovasi un difetto che neutralizza la ricchezza del suo suolo, il carattere de' suoi popoli, l'eccellenza delle sue naturali frontiere: egli sta in ciò che è troppo lunga all' avvenante della sua larghezza, e gli abitanti del continente, della penisola e delle isole, divisi da grandi distanze e da diversità d'interessi e di costumi, non hanno giammai potuto riguardarsi come compatrioti, e si sono sempre combattuti [... ]. In oggi gli Italiani si dolgono che tutte queste libertà locali in cui i loro padri si sono glorificati, non siano state fuse in una signoria monarchica, che avrebbe loro dato l'unità senza cui non havvi per i popoli né vita né grandezza; e la loro bella patria resta ancora smembrata in diversi Stati che la casa d'Austria domina in via diretta o indiretta, e per i quali l'avvenire nasconde le viste e le speranze d'una riunione che le leggi della geografia fisica sembrano riprovare.13 12 · ivi, pp. 31-32. "· ivi, p. 243.


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nom - IL PENSIERO MILITARE E NAVALE - VOL.

11 (1848-1870)

Per il Lavalleé l'Italia è tra i paesi più favoriti dalla natura anche "per la vasta muraglia di monti che la protegge al Nord, e che fu superata solo con grandi difficoltà". Sul valore strategico dell'ostacolo alpino però non si pronuncia in maniera definitiva, limitandosi a rilevare che questa porzione di circuito comprende le più maestose montagne del!' Europa, coperte d'enormi ghiacciaie, depresse da una moltitudine di colli al di soprn dei quali sonvi picchi formidabili che rassomigliano a giganti di ghiaccio posti per impedire l'entrata in questa bella contrada. La maggior parte de' colli anzidetti sono impraticabili dalle armate, eccetto le strade maestre del Simplon [Sempione - N.d.a.J, del monte Cenisio, del monte Ginevra e della Comica [strada costiera della riviera ligure di Ponente - N.d.a], magnifica sfida mandata alla natura, per le quali il baluardo delle Alpi è abbassato e appianato, e che devono cangiare per l'avvenire il sistema d'invasione e di difesa dell'Italia. Custodendo le uscite di tutti questi colli, si custodisce tutta la frontiera, soprattutto dalla parte della Francia, ove le vallate partendo da un arco di cerchio concentrico al bacino del Po, mandano i loro raggi necessariamente sopra Torino (V. Bacino del Rodano). Ma per difendere tanti passaggi, fan d' uopo forze numerose e sparpagliate, ovvero se si riuniscono al centro, si rischia, per la loro lontananza, di lasciare forzare qualche passaggio prima d'arrivare allo sbocco del nemico. Alcuni forti guardano le origini di queste vallate; ma è dimostrato che si può quasi sempre girarvi attorno, ed essi hanno perduto la loro importanza. Qualunque sia la cosa, e malgrado questo ostacoli, le Alpi presentano nulladimeno immensi vantaggi per la difesa d'un dato punto, rompendo lo sviluppo dei grandi movimenti strategici. 14

Queste valutazioni sono riferite alle Alpi Occidentali; della rimanente parte delle Alpi il Lavalleé dice assai di meno, senza mettere bene in chiaro le diverse caratteristiche delle Alpi Centrali e Orientali. In compenso dà grande importanza ad Alessandria, che rappresenta "la più importante piazza d'Italia per la posizione sommamente strategica, al centro di tutte le strade del bacino superiore del Po. Napoleone l' aveva destinata per essere un gran campo trincerato, col quale legava le fortezze di Torino, di Milano e di Mantova; nulla fu risparmiato per prepararvi una ritirata all' armata".15 Per il resto sottolinea partico]armente la "importanza strategica incalcolabile" della nuova strada aperta dagli Austriaci attraverso lo Stelvio, la più alta d'Europa, che mette in comunicazione l'Alto Adige direttamente con Milano attraverso la Valtellina, aggirando gli affluenti del Po e l'Adda. In tal modo questa via "senza toccare il ter- . ritorio elvetico, permette a un'armata tedesca di sboccare nel centro dell' Italia per prendere alle spalle, per la vallata dell'Adda, il nemico che si sarebbe avanzato nelle pianure della Lombardia"16• Considera poi ugualmente impor"

ivi, p. 253.

IS.

ÌVÌ,

1 •·

p, 261, ivi, p. 255.


Xl - GEOGRAFIA E FORTIFICAZIONE NELLA DIFESA D'ITALIA

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tante la recente strada del Tonale, che mette in comunicazione Trento con Bergamo attraverso la Val Camonica; meno importante invece la strada sbarrata dalla Rocca d' Anfo - che conduce da Trento a Brescia attraverso il bacino del Sarca e la Val Chiese. Scendendo più a Sud, si sofferma a descrivere l'importanza difensiva della linea del Po. Questo fiume è una fossa che copre la penisola al di dietro del riparo delle Alpi, e

da qualunque parte si entra, non si saprebbe schivarla. All'Ovest, poco importante per sé stesso, lo è per i suoi affluenti; all'Est è coperto dai fiumi che discendono direttamente nell'Adriatico; al Nord, si presenta tutto al contrario dietro la massa delle Alpi che impedisce ogni grande invasione; al Sud, se si entra per la mancanza delle Alpi e degli Appennini egli conserva ciò non ostante tutta la sua importanza, perché non si tenterebbe di arrischiarsi nella penisola, senza avere le spalle coperte dal fiume. Il paese della riva sinistra, essendo più largo, fertile, irrigato da grandi fiumi e coperto da alte montagne, è ben più importante di quello della riva destra; e l'invasione viene sempre da questa parte, parimenti quando entra nel mezzodì [ ... ] Tra gli affluenti del Tanaro si prolungano e si disperdono le ultime alture delle Alpi [... ] questi rami sono numerosi e lunghi, ciò che rende difficile il circondarli e dà dell'importanza a questo paese, che è la sola parte ove si può penetrare in Italia senza superare la massa delle grandi Alpi 17 • L'ottica con la quale il Lavalleé guarda all'Italia oltre ad essere marcatamente francese (di qui l'importanza da lui attribuita alle Alpi Occidentali, sulle quali assai si diffonde) è continentalista, quindi trascura assai sia l'importanza geostrategica dell'Italia peninsulare, sia i problemi difensivi derivanti dall'estensione delle coste e, in genere, dalla duplice natura, continentale e marittima, del Paese. Di Bologna dice solo che "è una città di 70.000 abitanti, la più incivilita degli Stati della Chiesa", senza alcun accenno alla sua importanza militare. Dei due versanti appenninici a Sud di Bologna si limita a dire che hanno diversi caratteri: mentre quello adriatico assomiglia alla costa al di là del mare, quello tirrenico è caldo e più fertile, ma mal coltivato e poco abitato, sicché si tratta di "una contrada piena di meraviglie, che non conta nulla nei destini d'Europa" e vive solo di ricordi. Sotto il profilo marittimo, accenna solo all'importanza militare - già . intravista da Napoleone - delle basi di Genova, La Spezia, Venezia (che tuttavia ha ceduto gran parte del traffico mercantile a Trieste), Messina. Trattando molto brevemente delle isole, include nella regione italica la Corsica e Malta. Della prima dice che "straniera alla sua patria adottiva [cioè la Francia - N.d.a.] per il carattere de' suoi abitanti e la natura del suo suolo, povera, sterile e costosa, non è importante alla Francia che per la sua posi-

"· ivi, pp. 260-262.


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F. BmTI - IL PENSIERO MIUTARE E NAVALE - VOL. Il (1848-1870)

zione marittima. La Corsica non può formare uno Stato indipendente, ed in altre mani che quelle dei Francesi, sarebbe una minaccia perpetua per Marsiglia e Tolone; bisognò dunque incorporarla alla Francia" 18 • (Visto dall'Italia - osserviamo noi - il problema è evidentemente opposto ... ). Infine Malta è "la più bella delle posizioni militari d'Europa" e il più importante dei possedimenti inglesi, perché assicura loro il dominio del Mediterraneo. Sulla collocazione teorica dell'opera del Lavalleé e sulla sua influenza va ricordato quanto ha scritto nel 1929 il generale Carlo Porro: in Francia per opera di Teofilo Lavalleé, professore alla Scuola militare di Saint-Cyr, tornò in vita la teoria di Filippo Buache (1756) che aveva per base l'idrografia quale mezzo principale per conoscere la morfologia di una zona. Ma spesso si cadeva in errori non lievi, perché in natura non esistono rapporti necessari e costanti di interdipendenza fra il rilievo di una regione e la disposizione de11a rete idrografica. Nella cartografia ad esempio, tracciata la idrografia di una regione, si disegnavano immaginarie linee di alture per dividere, in regioni poco conosciute, acque che invece di essersi adattate ali' andamento montuoso di una zona, ne avevano esse stesse modificata la fisionomia con secolare lavoro erosivo (da noi il Carso è un modello di questo genere). Se questa teoria, essendo il Lavalleé insegnante militare, ebbe fortuna in Francia, fu da noi accolta con le dovute cautele. Infatti la dura esperienza del 1870 fece avviare la Francia a studi più seriamente scientifici 19.

In quanto opera dell'uomo, ciascuna metodica ha i suoi limiti: nel caso del Lavalleé noi semplicemente riteniamo che, specie nel secolo XIX quando le conoscenze geografiche erano ancora imperfette e specie in Europa, il suo metodo sia stato il migliore, e che sotto il profilo operativo, lo studio dell'idrografia sia tuttora utile per una migliore individuazione degli altri elementi; senza contare che talune considerazioni del Lavalleé sulla difesa d'Italia, per così dire fanno tendenza. La geografia militare come branca autonoma: prime definizioni e delimitazioni teoriche

Né il Balbi né il Lavalleé accennano alla necessità di considerare la geografia militare come branca autonoma. Come si è già accennato nel Vol. I (cap. X, p. 618), una definizione di questa disciplina - salvo errore, la prima in Italia - si trova nel 1839 nel Politecnico di Carlo Cattaneo, che in quel periodo pubblica parecchi scritti di geografia politica ed economica. '"

ivi, p. 283.

19 ·

C. Porro, Art. Cit., "Esercito e Nazione" n. 1/1929.


XI - GEOGRAFIA E FORTIFICAZIONE NELLA DIFESA D'ITALIA

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Essa viene considerata addirittura come specifica branca dell'arte della guerra, e definita "scienza che insegna la conformazione della terra in rapporto alle applicazioni che se ne possono fare in materia militare. È una scienza vasta che esige un trattato a parte". Ben più angusto - anzi decisamente non accettabile - il concetto di geografia militare che si trova nella Bibliografia Militare antica e moderna di Mariano d' Ayala, che la confonde con la topografia e quindi la limita al campo tattico, pur considerandola anch'egli come parte dell'arte della guerra: peroccbé nel fare la guerra, oltre alle forze e al disegno, che sono del dominio strategico, oltre al modo e al tempo noverati ne11 'elemento tattico, intendiamo al luogo che è proprio della topografia, la quale si compone della parte scientifica che deriva dalla geodesia e da)la trigonometria, e della parte del disegno20• L'opera italiana di geografia teorica e geografia applicata più notevole del periodo 1848-1870 è invece la Geografia militare della penisola italiana (1852) del già citato Felice Orsini (1819-1858)21 • L'esordio che qui riportiamo denota un concetto dell'arte militare sostanzialmente Jominiano, ma lontano dai consueti schematismi. Al tempo stesso vi è ben messo in rilievo, una volta per tutte, il legame tra l'arte della guerra e la geografia, e tra la fortificazione da una parte e la morfologia del terreno dall'altra. La fortificazione vi è anzi presentata come parte della geografia mi1itare, oggetto di studio come la fisionomia del terreno: per Geografia Militare vuolsi intendere la particolare descrizione di tutti gli accidenti naturali od artificiali del terreno considerati per rapporto all'arte della guerra. Questa distinguesi in Strategia ed in Tattica: la prima insegna la maniera di condurre su dati luoghi le masse armate; la seconda, giunte che queste vi siano, addita i mezzi di spiegarle, di farle agire, di situarle nelle posizioni che sono più acconce, e di ritrarre dalle particolari proprietà delle diverse armi tutti que' vantaggi e risorse che sono sperabili dalla loro azione opportuna. Da ciò consegue che una data regione fia mestieri considerarla sotto un doppio aspetto: e cioè debbesi iri prima riguardare in un modo generale la sua configurazione; se piana o montuosa, se irrigata da grossi fiumi e tagliata da grandi catene di montagne; se racchiude vaste ed estese pianure. Si esaminano per copseguenza la direzione delle montagne, dei fiumi, i lagb.i, i mari, le coste ed i ponti. Si rivolge l'attenzione al sistema delle vie principali di comunicazione che attraversano monti e correnti di acqua, e che conducono alle grandi città ed alle capitali d'uno stato; si pone mente alle fortezze, alla loro posiz.ione stra-

"' 21 ·

M. D' Ayala, Bibliografia Militare Italiana e moderna, Torino, Stamp. Reale 1854 p. XX. Torino, Pomha 1852.


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I'. BOTl'I - IL PENSIERO MILITARE E NAVALE - VOL. Il (1848-1870)

tegica; ai luoghi donde, passando i fiumi, o si giunge nelle grandi città, o sulle basi di operazione che ha e che può .comprendere il nemico; s'osserva la struttura de' propri confini e di quelli dell'avversario, prendendo ad esame se siano forti per natura o per arte; si stabiliscono le basi e le linee di operazione, le linee difensive ed i punti obiettivi, e si fissa, in seguito di tutto ciò il disegno di guerra. Questa parte dell'arte militare, la quale è stata ridotta a scienza, quella è che guida i generali; i principii di essa sono della massima semplicità; ma il metterli in opera con frutto spetta solo agli uomini arditi, risoluti, di pronte vedute e forniti di genio. La grettezza dei pensieri, un soverchio calcolo, la perdita di tempo, l'irresoluzione non sono per la Strategia. Una ferma e decisa volontà associata all' intelligenza ed alla cognizione della regione che forma il teatro di guerra, decide sempre della vittoria. L' attenzione del militare deve in secondo luogo, e questo è proprio della Tattica, rivolgersi all'esame del terreno intorno a tutte le più minute sue particolarità, che possano influire sull' azione speciale delle diverse Armi. Una tale cognizione s'ottiene tanto per mezzo delle ricognizioni militari e topografiche, cui sono incaricati gli uffiziali di Stato Maggiore in tempo di guerra, e per mezzo delle carte topografiche, il cui disegno si prepara altresì in tempo di pace negli uffici dello Stato Maggiore generale. La geografia militare s'avvicina molto al secondo modo di considerare e di descrivere il terreno, tuttochè non discenda a quelle particolarità che sono proprie delle ricognizioni. Sin qui essa non fece molti progressi: a volerla trattare acconciamente, dopo d'avere per succinto esaminate le proprietà generali del terreno, fia d'uopo descrivere quanto si riferisce, 1 ° alle montagne, accennandone la direzione, l'altitudine ed i varchi; 2° ai fiumi, designandone il corso, l'inclinazione, la rapidità, la profondità, la larghezza, il luogo ove sboccano, e quali paesi tagliano ed irrigano, ed infine i punti atti al passaggio; 3° ai canali, ai laghi, ai mari, ai ponti, alle coste; 4 ° alle valli, indicandone l'aspetto ; se piane del tutto, se boschive, se montane elle sono; 5° alle città ed alle fortezze, al loro sistema di fortificazione, alla loro importanza strategica; 6° al sistema delle strade; 7° al modo di coltivazione della regione che si deve descrivere ed alle risorse ch ' essa fornisce pel mantenimento di armate; 8° all'organizzazione militare d' una nazione, alla statistica propriamente detta, alla costituzione politica, all'indole della popolazione ed al suo stato morale, ed intellettuale: 9° infine nella trattazione di tutti questi oggetti s'accennano le posizioni offensive e difensive; i terreni adatti all'artiglieria, alla cavalleria ed all'infanteria, e si toccano di volo le battaglie che ne' tempi addietro ebhero luogo nelle varie regioni 22 .

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'-'-

iv·i, pp. 7-10.


Xl - GEOGRAFIA E FORTIFICAZIONE NELLA DIFESA D'ITALIA

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I riferimenti alle opere precedenti sono una volta tanto numerosi, e questo vale anche per gli studi successivi. In particolare sono indicate le opere già citate del Lavalleé, del Rudtorffer, del Balbi, del Marmocchi, alle quali si aggiungono molto opportunamente l'Italia Militare di Guglielmo Pepe (Cfr. Vol. I, cap. XIII), e il Memoriale di S. Elena del Las Casas (Napoleone l affronta con una certa ampiezza, nelle sue memorie, lo studio delle possibilità militari che offre il terreno dell'Italia). Pur dichiarando di voler seguire il suo metodo, l'Orsini non accetta certo le idee del Lavalleé a scatola chiusa, criticando anche il Rudtorffer. A suo giudizio, l'opera dell'autore francese "è troppo succinta e non serve che per coloro, che hanno già fatti profondi studi leggendo con frutto e sulla scorta di buone carte geografiche, la storia militare dell'Europa". E anche se il Rudtorffer ha compilato una delle migliori opere d'Europa, la sua trattazione non è così ordinata e razionale come quella del Lavalleé; questo perché a seconda delle divisione politica dell'odierna Europa, egli fa seguire a ogni singolo Stato la relativa orografia e idrografia: dal che viene che si distende in molte ripetizioni che inutilmente accrescono il volume della sua opera. Quanto a considerazioni militari poco si dilunga, mentre dovrebbe trattarle molto diffusamente. Invece di questo spende molte parole intorno allo stato militare dei versi potentati europei, ed intorno alla statistica: cose tutte soggette a variare da un dl all'altro.23

Nonostante queste critiche, la trattazione dell ' Orsini è a sua volta tutt'altro che ordinata. Esamina separatamente orografia e idrografia della penisola italiana facendo precedere l'orografia, il che mal si accorda con l'impostazione di base del Lavalleé. Così facendo diventano laboriosi i raccordi tra orografia e idrografia, e tra questi due elementi geografici fondamentali e il sistema stradale, gli abitanti, i diversi ambienti geografici. La confusione è accresciuta dal disseminamento di considerazioni di carattere teorico qua e là nel testo; daremo per il momento un rapido cenno di quest'ultime. Per definire l'influenza del terreno sulle operazioni militari, la terra si può considerare sotto l'aspetto I. delle montagne; 2. delle valli; 3. dei boschi; 4. delle strade; 5. delle strette; 6. delle città e villaggi; 7. delle fortezze o de' piccoli posti fortificati permanentemente. L'acqua si può considerare per rapporto 1. a quella massa che tocca i continenti, che dà loro forma e che mari si appellano; 2. sotto l'aspetto dei laghi; 3. delle paludi; 4. dei fiumi.

n

ivi, pp.10-11.


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F. BOTII - IL PENSIERO MILITARE E NAVALE - VOL. II (1848-1870)

Le montagne costituiscono il miglior confine naturale tra due nazioni. Presentano ai movimenti strategici le maggiori difficoltà; ma anche al livello tattico "l'azione, delle armi vi è inceppata, la cavalleria vi è resa inefficace, l'artiglieria, tranne quella di montagna, non vi può agire bene, e la fanteria stessa non potendo fare uso delle sue linee spiegate, costretta è di operare alla sparpagliata". I lavori di assedio delle fortezze sono difficoltosi, per cui "si è obbligati, ove s'incontrano fortezze, ad assaltarle con bersaglieri [cioè con fanteria leggera e mobile, che non agisce in formazioni chiuse e geometriche, ma in ordine sparso, con fuoco libero e possibilmente di sorpresa - N.d.a.], ad aprirsi, nel mentre che si guardano, una via per girarle e per scansarle". I paesi montuosi sono i più idonei alla difensiva: in questo caso è d' uopo portarsi dietro le catene delle montagne e sul loro declivio,

sulle posizioni che ne comprendono le chiavi, e disporre in modo le sue truppe che possano arrestare le colonne [nemiche] che sboccano. Necessita però di avere questa avvertenza, di non dividere troppo le sue forze, ma sebbene di averle in una posizione concentrica, donde poler volare su lak e lai altra uscita" .

Chi conduce l'offensiva, invece, deve studiare i punti dominanti delle montagne e dirigere le colonne attraverso le strade e gli sbocchi più facili, curando che gli intervalli tra di esse siano il più possibile ridotti. Solo le valli solcate da strade sono adatte alla manovra e al movimento di un corpo d'armata: "è necessario oltre a ciò avere riguardo agli sbocchi nel piano, poiché una colonna potrebbe trovarsi o rimpetto ad di un'altra fortezza, o ad un'altra città ed avere a fronte il nemico che l'attende". Di particolare rilievo le considerazioni dell'Orsini sulle strade e strade ferrate, sui fiumi e sulle fortezze. Le strade sono di grande importanza strategica e si possono dividere in tre classi: l • classe, percorribili da carri e artiglierie; 2· classe, percorribili solo da salmerie e/o pedoni; 3' classe, percorribili solo da pedoni. Le grandi città sono importanti anche come punto nel quale convergono le comunicazioni. Le strade ferrate hanno grande importanza per i trasporti militari sia di uomini che di materiali. Poiché possono essere facilmente interrotte, la loro importanza cessa se attravèrsano la regione nella quale si scontrano gli eserciti contrapposti. Quindi, per poter fornire tutto il loro ausilio alle operazioni esse devono essere lontane dai combattimenti e protette da colpi di mano: se questo avviene, "si avrà una grande superiorità sull'avversario, si potrà partire con la massima celerità dalle basi di operazione, e si avrà agevolezza di far giungere rapidamente al confine od al punto obiettivo delle operazioni, tutti i materiali e tutti i soccorsi necessari al proseguimento della guerra''25. "" n.

ivi, pp. 149-150. ivi, p. 146.


Xl - GEOGRAFIA E FORTIFICAZIONE NELLA DIFESA D' ITALIA

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Dopo le grandi catene di montagne, i fiumi sono gli elementi topografici di maggior interesse militare. In mancanza di montagne segnano i confini degli Stati, e a seconda dei casi e della loro importanza possono costituire le linee difensive e le basi d'operazione: "egli è appunto per una tale ragione che si è usata molta diligenza nel fortificarne i punti che strategicamente sono i migliori al passaggio, e quelli il cui possesso ne rende padroni di ambo le rive"26• Particolare cura deve essere rivolta all'individuazione dei guadi, "perché dispensano dall'affrontare traini di ponti; cosa d'impaccio sempre e che cagiona perdita di tempo nonostante la semplicità che si è oggi introdotta in tali oggetti"; i guadi però sono possibili solo nei fiumi di media larghezza, e si differenziano tra di loro a seconda della morfologia del terreno. Per le fortificazioni, occorre indicare se sono permanenti o passeggere (cioè campali), se sono bene defilate, "la natura del terreno che le circonda, la difesa di cui sono capaci; gli sbocchi per i quali vi si può pervenire, e per cui l'inimico può uscirne; se racchiudono depositi di viveri, se hanno buone acque potabili e in che quantità, e dove se ne trova la sorgente, il numero infine delle bocche da fuoco e la forza del presidio''21 • Sono generalmente disposte in posizioni che dominano parecchi sbocchi, che sbarrano una valle, controllano le due rive di un fiume, e difendono un porto. I fortini in montagna sono numerosi, però sono così alti, che il cannone dall'alto in hasso può fare poco danno. Inoltre sono generalmente sprovvisti di acqua, sl che specie d'estate molto frequentemente sono costretti ad arrendersi. Accanto a brevi riferimenti al mare e alle coste, si trova un sintetico cenno al ruolo delle forze navali: un paese marittimo deve essere munito di legni da guerra a seconda della sua importanza politica e dell'estensione delle coste. In tempo di guerra le sue vele staranno a fronte delle forze navali dell'avversario, se questo ne possiede; difenderanno le coste, faranno in modo che non s'avvicinino a terra o per sbarcare o per bombardare città; proteggeranno il commercio e porteranno soccorsi d'uomini e sussistenza ove ce ne sia il bisogno. Da ciò necessita di conoscere la profondità delle acque nei diversi porti, i seni e i golfi; la sicurezza e bontà delle coste, delle rade, e quanto indicammo là ove si venne a dire delle coste italiane23•

Riguardo alle coste in generale, dopo avere come sempre indicato il modo di valutare le possibilità che offrono alle operazioni militari, piuttosto genericamente l'Orsini osserva che, se si controllano le coste e si può disporre di navi da guerra, "oltre alla facilità di potere avere approvvigiona-

20 ·

1:1

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ivi, p. 55. ivi, p. 153. ivi, p. 154.


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F. BOTII - IL PENSIERO MILITARE E NAVALE - VOL. li (1848-1870)

menti di ogni sorta, qualora l'avversario ci forzasse a ritirarci in città poste sul litorale, si può discendere nel paese inimico dal lato di mare [cioè sbarcare; "discendere" è un francesismo - N.d.a.], fare delle diversioni, prenderlo alle spalle, tagliargli ]e sue comunicazioni e la sua linea di operazione"29. Troppo facile, troppo semplice__ _ Poiché ora vogliamo esaminare solo la parte teorica, riprenderemo in esame le specifiche opinioni dell'Orsini sulla difesa d'Italia nella parte a ciò dedicata. Fin d'ora, comunque, gli va riconosciuto il merito di aver approfondito più di tutti gli autori del periodo 1815-1870 gli aspetti teorici della geografia militare. Anche se la definizione che ne dà è piuttosto riduttiva e sembra rispettare il limite tra geografia e statistica tracciato dal Balbi, l'Orsini indica tra gli elementi che la geografia deve prendere in considerazione anche le risorse logistiche che una data regione offre agli eserciti (punto 7°), insieme con "l'organizzazione militare di una nazione, la statistica propriamente detta, la costituzione politica, l'indole della popolazione, il suo stato morale e intellettuale". Per lui insomma, il campo d' azione della geografia militare va assai più in là di ciò che riguarda le possibilità offerte del terreno all'attacco e alla difesa, spingendosi fino ad abbracciare le componenti di quella che oggi chiamiamo la geografia umana. Al tempo stesso, poche opere come la sua (che tratta sia gli aspetti teorici e generali della geografia militare sia la loro applicazione al caso italiano) dimostrano l'inopportunità di separare teoria e prassi e, nel caso in esame, valutazione del terreno e fortificazione. Sui contenuti teorici della geografia militare poco o nulla di nuovo dice, rispetto all'Orsini, il tenente Tancredi Fogliani (1829-1910) che nel suo libro Lezioni di geografia fisica e politica (1867-1868: parecchie edizioni successive)3() condensa la materia da lui insegnata presso l'Accademia di Modena. La sua definizione di geografia militare, comunque, pur essendo generica è più larga di quella dell'Orsini e ben rispecchia i molteplici elementi di interesse della branca: "è lo studio delle condizioni naturali di un paese che più importano a sapersi da chi professa l'arte militare". Per il Fogliani occorre studiare anche gli ordinamenti civili e politici di una nazione, sia perché in essi affonda le sue radici l'istituzione militare, sia perché le fonti della potenza di uno Stato sono molteplici e riguardano tanto le forze materiali, che quelle intellettuali e morali. Infine, egli osserva che non è più sufficiente, come una volta, studiare la geografia del proprio paese e delle regioni confinanti: poiché ]a civiltà e il vapore hanno ridotto a poche giornate la distanza tra le più lontane contrade, occorre studiarle tutte. Accanto al Fogliani va ricordato un altro insegnante militare, il generale Alessandro Righini di Sangiorgio (1817-1873), che opera nel più ristretto campo della topografia e cartografia e pubblica nel 1863 un Trattato 29 30·

ivi pp. 87-88. Cfr. T. Fogliani, Lezioni di georajiafisica e politicafatle nell'anno 1867-IRl>R, Modena,

Cappelli 1871


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di topografia 31 , che fa seguito a un libro di testo per le scuole militari pubblicato nel 1856 con il titolo di Corso completo di topografia. Il libro risponde a finalità eminentemente pratiche, quindi tralascia le nozioni puramente teoriche per fornire una guida "nell'arte di levare i piani, non solo agli ufficiali dell'Esercito, ma ben anche ad ogni persona che nel disimpegno delle proprie attribuzioni debba ricorrere a questa scienza". Dopo aver ben descritto l'utilità delle carte topografiche, definisce la topografia "scienza che insegna a descrivere una porzione della superficie terrestre" e aggiunge: appare chiaro come non solo sia necessario che tutti coloro che prendono parte alla direzione delle operazioni di guerra, sappiano servirsi di carte già costruite, ma che ancora debba esservi chi sappia in tempo di pace tracciarne delle nuove, le quali possano servire alla buona condotta delle guerre future, o durante una campagna, completare e correggere i dati di quelle che si po ssegg ono, in relazione alle operazioni da eseguirsi. Questi uffici sono, presso quasi tutte le nazioni europee, affidati a corpi ed istituti speciali [... ]. Ma è per altra parte essenzialissimo, per le ragioni già addotte, che un ufficiale, a qualsiasi Anua lldl'Est:n:itu apparlt:nga, si applichi allo studio della topografia che lo guida a quello dell'Arte della guerra32 •

Il Righini distingue, infine, tra carte geografiche (che riguardano estese zone delimitate da importanti confini naturali e politici. e ricorrono a segni convenzionali per rappresentare taluni particolari come città, villaggi, c ascinali, ecc.) e piani (che sono eseguiti per uno scopo speciale e descrivono uno spazio ristretto a scala più ridotta, quindi possono riprodurre i particolari - sia pur riducendone le dimensioni - nella loro forma naturale, senza usare i segni convenzionali). Poiché i particolari del terreno possono essere rappresentati graficamente o per mezzo di relazioni scritte, per il Righini la topografia si divide in due parti, la "topografia propriamente detta" che insegna a formare e disegnare carte e piani. e le "memorie descrittive", che completano le conoscenze fisiche del terreno e forniscono i dati che non si possono rappresentare graficamente, come la popolazione e le sue attività, l' amministrazione, le risorse del paese, ecc ..

SEZIONE II- La difesa del Piemonte e il ruolo delle Alpi Occidentali nelle opere di Angelo Morelli di Popolo (1840) e di Annibale di Saluzzo (1845-1860). Nel periodo della Restaurazione la politica estera e di sicurezza del Piemonte, memore delle vicende delle guerre napoleoniche, si orienta in senso antifrancese e - solo negli anni immediatamente precedenti il 1848 " 31 ·

Torino, Tip. Sscolastica di S. Franco 1863. ivi, p. 3.


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antiaustriaco. Di conseguenza continua ad essere preminente quella difesa delle Alpi Occidentali che era stata tentata senza successo contro l'Esercito rivoluzionario francese dopo il 1792 e .che anche dopo il 1861 costituisce componente primaria per la difesa dello Stato italiano. In questo caso, historia nonfacit saltus; gli studi del periodo 1815-1848 pesano fin troppo sul dibattito successivo e ne costituiscono la base di partenza. Non si tratta, peraltro, di un problema nato a fine secolo XVIII: anche nei secoli precedenti la difesa delle Alpi contro la soverchiante potenza francese era stata la principale preoccupazione dei re sabaudi31 • . Nel 1840 il tenente colonnello di cavalleria (poi generale) Angelo Morelli di Popolo pubblica il libro Dei diversi passaggi delle Alpi tra il S. ]Jernardo e gli Appennini - considerazioni34 , nel quale intende dare una documentata risposta a una querelle a sfondo storico di grande importanza per il Piemonte: "se, cioè, sieno le Alpi, che in parte lo circondano, sodo baluardo contro l'invasione straniera, o se invece considerar si debbono di facile superamento agli abitatori delle falde opposte, sempre che ai medesimi ne prenda il solletico". A tal fine il M. di P. conduce un lungo e particolareggiato esame delle invasioni straniere attraverso le Alpi, distinguendo tra: " 1° - passaggio delle Alpi in seguito ad invito, o senza opposizione, 2° - oppugnazione delle Alpi contro debole resistenza; 3° - oppugnazione delle Alpi contro forte resistenza". Prima ancor di iniziare la rassegna storica ne anticipa le conclusioni, affermando subito che le Alpi nel periodo invernale sono invalicabili tranne che in pochi punti, e che nel periodo estivo, quando si sciolgono le nevi, possono essere attraversate peì molte vie, tutte però poco o nulla percorribili per i carri e facilmente difendibili. Solo nel tratto in cui si abbassano dal Col di Tenda verso Genova per congiungersi con gli Appennini possono essere superate: ma "abbenché la posizione avversa sia di sommo favore al nemico per poter egli disporre i suoi mezzi d'assalto su una linea estesissima, con facoltà di poi riunire tutte le sue forze sul punto ad esso più favorevole, ed opportuno, non pertanto questa disposizione circolare delle Alpi rispetto al Piemonte gli è di grande vantaggio nella difesa". Quest'ultimo è un argomento centrale, che ricorre continuamente anche negli studi successivi sulla difesa d'Italia. A riprova della sua tesi che la conformazione a semicerchio delle Alpi Occidentali favorisce più il difensore che l'attaccante, il M. di P. cita un lettera del 1794 di Napoleone al direttorio: "dal S. Bernardo a Vado le Alpi occupate dall'armata francese formano una circonferenza di 95 leghe: non è quindi possibile spostare le 33·

Cfr., in merito, O. Bovio, La milizia paesana in Piemonte. in "Studi storico-militari 1985", Roma, SME - Uf. Storico 343/373; C. Fabris, I principi di Casa Savoia nella difesa delle Alpi nel sec. XVIII ,"Rivista Militare Italiana" 1896 - Voi. IV Disp. XIl pp.

"

Torino, Stamp. Reale 1840.

1933.


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lruppe dalla destra alla sinistra in meno di 20-30 giorni. Il nenµco invece controlla il diametro della circonferenza che è più corto: quindi in due o tre giorni può raggiungere qualsiasi punto della circonferenza stessa. Questo svantaggio geografico basta, da solo, a rendere qualsiasi atteggiamento difensivo delle nostre truppe più dannoso, più nefasto, più distruttivo per il nostro coraggio e più oneroso per le pubbliche finanze, della campagna più offensiva che si possa fare". Per il M. di P., dunque, le caratteristiche geografiche delle Alpi favori-· scono il Piemonte: purtroppo in passato "sempre per la divisione del Paese in piccoli Stati, sovente fra di loro discordi, gli mancarono i mezzi propri della difesa e quando furono questi somministrati da potenza straniera, vennero essi quasi sempre ritirati, allorché maggiormente riuscivano urgenti; riflesso, che basta già di per sé stesso a render ragione dei diversi passaggi de1le Alpi, come vedremo più sotto". Di conseguenza, prosegue M.d.P., "crederò avere servito utilmente alla Patria se dall'esame dei fatti che verranno esposti, il lettore potrà dedurre, che se le Alpi furono così spesso attraversate dall'invasore, ciò non è dovuto alla sua preponderanza numerica, né al terreno a lui favorevole, ma bensì a nessuna difesa, od a difetto di acconcia difesa". A dimostrazione di questo asserto il M.d.P. cita la prassi strategica già adottata per la difesa del teatro d' operazioni piemontese dagli antichi principi sardi, tale da precorrere i concetti poi sviluppati da Federico II e Napoleone I. Così Carlo Emanuele I quando minacciati i suoi Stati da invasione per più punti dal Signor d'Usselles, collocava il suo campo in modo da porgere ovunque opportuno contrasto, qualunque fosse per risultare la determinazione del nemico, comprovando poi l'evento quanto la disposizione dei luoghi favoriva la di lui perspicacia, non meno, che presentita dal grande Carlo Emanuele III per li saggi suoi possedimenti nel 1744, opponendo con esito felice, alle forze superiori del Conti [maresciallo francese - N.d.a.] le regole di una guerra di posizione consentitagli dalle località, il che ad altro non rileva se non che a pratiche di strategia.

La recente guerra sulle Alpi 1792-1796 che ha visto prevalere 1'esercito napoleonico, secondo il M. di P. conferma la tesi della forza intrinseca de11e Alpi come baluardo difensivo: "nessun dubbio, che l'infelice esito della gloriosa lotta nelle Alpi dal 1792 al 1796, sia stata effetto della troppa precipitazione in Beaulieu [generale comandante delle forze austriache schierate sulle Alpi e alleate coi piemontesi - N.d.a.]". È vero che nel 1800 Napoleone ha potuto varcare con relativa facilità il S. Bernardo per discendere in Piemonte attraverso la Val d'Aosta, ma ciò è avvenuto solo per la debole resistenza che gli è stata opposta dal forte di Bard, il cui presidio - peraltro poco numeroso - avrebbe potuto tenere miglior contegno. In conclusione, se si considera la natura dei luoghi e le circostanze nelle quali sono avvenuti i vari passaggi, "rimarrà ognuno facilmente con-


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i;_

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vinto essere stato maggiore il numero dei tentativi respinti, che non quello dei superamenti contro valida resistenza, avvegnacché più dei tre ttuarti dei citati passaggi sono stati operati, od a richiesta degli abitatori delle falde opposte, o con forze tali, contro resistenza talmente ineguale, da non somministrare verun argomento favorevole ai sostenitori del facile passo delle Alpi". Le vicende esaminate dimostrano perciò che un Paese è ben difeso, solo quando coloro che lo difendono hanno un ben preciso e reale interesse a farlo. li lavoro del M. di P. può essere definito preparatorio, a sfondo storico e con un'importanza soprattutto morale, visto che ai suoi tempi difendere le Alpi significava difendere non solo il Piemonte, ma l'Italia. Esso non intende suggerire un sistema di difesa che si avvalga dell'esperienza storica, perché "l'indicare il mezzo per difendere un punto, è lo stesso che indicare all'avversario il modo di rendere vani gli emessi principi di difesa"; quindi ogni privato dovrebbe astenersi dal trattare in pubblico un tale argomento, "dovendo siffatta materia essere considerata come segreto geloso, se non gelosissimo dello Stato". Non la pt!nsa cosl il tenente generale dell' armata sarda Annibale di Saluzzo (nominato nel 1831 quartier mastro generale dell'esercito e Capo di Stato Maggiore), il quale nel 1845 pubblica la prima parte di un'opera di vasto respiro destinata a rimanere incompiuta, dal titolo Le Alpi che cingo,w l'Italia considerata militarmente. dai tempi più remoti fino ai giorni nostri,1~ che ba come scopo principale "lo svolger in particolar modo, sotto forma di saggio storico, le cognizioni che riguardano le Alpi da un mare all'altro, per tispetto alle cose di guerra", traendone concrete indicazioni sul sistema di difesa da adottare e sui ptincipi che lo devono riguardare. L'opera avrebbe dovuto comprendere ben 5 volumi, ma nel 1845 poco prima della morte de11 'autore - erano stati pubblicati solo i primi due, che non banno diretto interesse militare. Le considerazioni sul miglior sistema di difesa da adottare sono pubblicate nel 1860 a cura di un collaboratore del Saluzzo, il colonnello Luigi de Bartolomeis, con il titolo I propugnacoli dell'Alta ltalia3r,_ Il De Bartolomeis rielabora la materia tenendo presenti alcuni saggi staccati che il Saluzzo aveva in precedenza pubblicato, e che rispecchiano gli studi da lm compiuti nella veste di Capo di Stato Maggiore (Coeup d'oeil historique, politique et militaire sur le Piemont par rapport à un projet de guerre defensive et offensive contre la France; Quelques considerations historique et militaires sur la guerre des Alpes; Projet de défense du Piemont contre la France; Considerations sur la guerre defensive contre la France dans les Alpes, ecc.). Il Saluzzo non si limita a considerare solo la difesa del Piemonte e delle Alpi Occidentali, ma estende i suoi studi all'intera Italia settentrionale,

3 '

36·

Torino, Tip. G. Muss·ano 1845. "Rivista Militare" 1860, Anno IV Voi. m.


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ivi compresi i territori di Nizza e Savoia, del Canton Ticino e dell'Istria. Notevolissimo passo avanti dunque, che segna una tappa importante nell'avvicinamento a un concetto di difesa estesa all'intera penisola. Come e ancor di più di quanto aveva fatto il Morelli di Popolo, è marcatamente ottimista sulle possibilità di difesa della vasta regione da lui considerata. Premesso che "è problema risolto dai fatti storici che la posizione geografica delle contrade determina, nella maggior parte de' casi, l'importanza di essi", anch'egli come il Morelli di Popolo è dell'avviso che le Alpi sono "potentissimi propugnacoli", e che solo 1e divisioni degli italiani, governati da uomini estranei ai veri interessi del Paese, hanno fatto sl che l'Italia sia stata in passato la sede preferita delle contese tra gli Stati europei. D'altro canto al di là delle Alpi si trovano popoli assai differenti tra di loro per indole, lingua e sistemi di governo, quindi l'Italia non ha da temere alcun aggressione simultanea da parte di una coalizione dei popoli vicini; "ed anche dal lato del Mediterraneo, poco o nulla avrebbe da desiderare ov'eJla fosse in grado di disporre d'una marineria proporzionata al suo litorale, i cui abitanti sono esperti navigatori , laonde ella potrebbesi trovare in pochi anni consignora del Mediterraneo e dell'Adriatico e figurare onorevolmente sugli altri m,ari" . Dal punto di vista militare, l'Italia Settentrionale conterebbe un esercito ragguardevole di terra ed un armata sufficiente di mare; validamente assicuralo verso la Francia, la Svizzera e l'Austria da ogni pericolo, mediante la corona delle Alpi e il sussidio d'un numero di piazze da guerra, saggiamente disposte, egli potrebbe opporre resistenza ad ognuna di queste tre potenze, così dai lati come dal mezzo della giogaia, muovendo ogni volta il caso ne fosse con forze preponderanti contro il primo, fra i potentati oltremontani, a suscitare la guerra sia sul Reno come lungo il Danubio.

Sull'importanza della fortificazione il Saluzzo non ha dubbi: "siamo convinti che nessuna guerra, quanto quella della giogaia che cinge la penisola, richiede maggiormente il preventivo sussidio di opere di fortificazione permanente, analoghe ai disegni difensivi e offensivi applicati lungo i diversi tratti del suo corso". Di conseguenza, pur prendendo atto che buon numero degli scrittori del tempo non è della sua opinione, indica un sistema di difesa delle Alpi f?asato su ben tre ordini (o classi) di fortificazioni, più alcuni campi trincerati. La massa dell'esercito, comunque, andrebbe con. centrata in idonee posizioni ai piedi delle Alpi e degli Appennini, che le consentano di "facilmente portarsi per strade diverse e con le tre Armi riunite alla volta dell'invasore là dove minacciasse, ed ivi con manifesto vantaggio contrastargli l'occupazione e lo sbocco delle valli, affinché egli non possa in qualunque ipotesi discendere da tutta prima che a stento e colla sola fanteria nelle pianure occupate da11'esercito invasore". I criteri generali ai quali il sistema fortificato dovrebbe rispondere sono, in breve, i seguenti:


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uorn -

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le fortezze vanno costruite solo nei punti importanti ai fini del sistema generale di difesa, e per proteggere le basi che favoriscono l'offensiva nemica dal mare. Ogni fortificazione non necessaria è nociva; tutte le posizioni da occupare permanentemente vanno fortificate. La fortificazione campale ha lo scopo di sostituire le opere permanenti, collegarle fra loro e completare il sistema difensivo; "siano le fortezze poche, ma buone, situate le une nei passi e nelle gole delle frontiere, le altre a tergo di quelle, poste in modo da far sì che il nemico sia obbligato d'averci rispetto, anche nel caso che venissero forzate quelle di prima linea (Turpin)"; il sistema stradale e ferroviario deve essere in armonia con il sistema generale di difesa; per contro si deve evitare di costruire strade che possano favorire i movimenti del nemico indebolendo la nostra difesa. Le strade vanno costruite per agevolare il soccorso delle piazzeforti e le nostre manovre sui fianchi del nemico, oppure per favorire il concentramento delle forze su posizioni retrostanti, una volta esauriti tutti i mezzi di difesa delle frontiere. Le Alpi - prosegue il Saluzzo - offrono 123 passaggi più o meno agevoli (dei quali solo 25 carreggiabili), più 126 sentieri. Le valli sono 36, ma la loro importanza è diseguale. Non tutte sono praticabili per l'intero anno a causa delle nevi; molte fra di esse sono piuttosto delle strette, altre oltre la Alpi portano dall'Italia in paesi poverissimi, che non offrono possibilità di sostentamento anche per eserciti poco numerosi. Ciò premesso, le valli principali che consentono all'invasore un agevole movimento (o, al contrario, favoriscono la nostra offensiva) dovrebbero essere sbarrate da "grandi piazze" con funzione difensiva e offensiva. Quelle secondarie, sterili e scarsamente percorribili, dovrebbero invece "essere semplicemente coperte da forti sufficienti al bisogno, o quanto meno da opere campali analoghe al sistema propostosi". Infine, sarebbe necessario un terzo ordine di "fortezze centrali", con il compito di appoggiare l'azione delle forze mobili schierate in piano e provvedere ai loro bisogni: per tutto l' arco alpino ne basterebbero cinque o sei. Questo modo di condurre la difesa, imperniato sulle piazzeforti, consentirebbe tra l'altro l'utile impiego di "un esercito formato col sistema poco gravoso allo Stato, dei soldati contingentati od altrimenti conosciuti sotto il nome di Landwehr, chiamati in tempo di pace solo di quando in quando sotto le bandiere; od anche colle guardie nazionali mobilizzate". Per la difesa delle Alpi Occidentali, oltre a sbarrare con forti le valli principali occorre fare di Torino una piazza di prim'ordine con un vasto campo trincerato, sul modello di Lione e Parigi. L'Esercito sarebbe riunito in un altro campo trincerato nella pianura tra Savigliano e Cannagnola, pronto ad accorrere ovunque si verifichi una penetrazione, attaccando il nemico allo sbocco delle valli. La neutralità della Svizzera potrebbe essere violata sia dall'esercito francese che da quello austriaco, onde aggirare le


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difese poste ad Est e a Ovest. Il terzo ordine di difesa dopo le fortificazioni montane sarebbe imperniato sulle piazze di Alessandria e Piacenza. L'Esercito dislocato nei dintorni di Milano potrebbe agevolmente opporsi all'invasore in un raggio massimo di 30 miglia; le strade ferrate in costruzione o già costruite consentirebbero "con sommo vantaggio" di mettere io comunicazione tra di loro le piazze per bloccare l'aggressore. Nelle Alpi Orientali la difesa della Val d'Adige sarebbe assicurata da un triplice ordine di fortezze e dalla piazza di Bolzano, atta a fungere anche da perno di manovra per l'offensiva; inoltre lo sbocco in piano dell'Adige è protetto dalla piazza di Verona e da quella di Mantova, distante solo 30 Km. A sostegno delle formidabili difese del quadrilatero Mantova - Verona Peschiera - Legnano, appoggiate al Mincio e all'Adige, potrebbero accorrere anche le guarnigioni di Ferrara e Modena, attraverso la testa di ponte di Ostiglia. Più a Est occorre fortificare la valle del Piave, attraverso la quale l'invasore potrebbe evitare le difese del Tirolo e prendere alle spalle quelle del Friuli. Nel Friuli oltre a sbarrare la Val Tagliamento e la Conca di Plezzo, occorrerebbe fare di Codroipo una piazza di primo ordine, perché in questa posizione si concentrano tutte le strade che provengono da Nord-Est e, al tempo stesso, vi possono essere concentrati gli approvvigionamenti per un'eventuale offensiva verso Est. L'Esercito, stanziato tra il Piave e il Brenta presso Treviso, potrebbe prevenire il nemico all'uscita delle valli attaccandolo con forze superiori. La difesa delle coste liguri (e in particolare della Riviera di Ponente che è la più adatta agli sbarchi) sarebbe assicurata dalla piazza della Spezia all'estrema sinistra, da quella di Ventimiglia aJl'estrema destra e da Genova al centro; quest'ultima date le sue brevi ed agevoli comunicazioni stradali e ferroviarie con Alessandria (e quindi con la valle del Po) è "il punto più importante del litorale per favorire un'aggressione nel cuore dell'Alta Italia". La Spezia ha una duplice funzione: "come porto di mare può mettere in sicuro qualunque flotta anche la più numerosa ed i relativi più importanti stabilimenti; verso terra essa protegge da vicino le strade di Reggio Emilia[attraverso la Val Secchia - N.d.a.] e Parma [attraverso la Val Parma - N.d.a.] e trovasi alla breve distanza di 25 chilometri dal passo del Bracco". Quest'ultima posizione, e soprattutto il porto fortificato di La Spezia, si prestano ottimamente per respingere un'invasione dal mare. In particolare a La Spezia lo sbarco dovrebbesi effettuare quasi sotto il cannone della piazza, mentre nel golfo si avrebbe la nostra squadra a vapore pronta ad approfittare di ogni minima circostanza favorevole per uscire celermente ed allontanare o distruggere le navi nemiche che debbono fornire le molteplici provvigioni alle truppe sbarcate. t... ] Vi si aggiunge poi [per l'invasore] una marcia di 100 Km per valicare l'Appennino tra difficili monti per giungere nelle pianure di Parma, difficoltà questa rilevantissima per le mosse di un numeroso esercito,


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a meno che si potesse portarlo celermente colla ferrovia [della quale nel 1845 non si parla nemmeno e che nel 1860 è in progetto - N.d.a.]. Le coste dell'Adriatico, dall'Istria a Rimini, presentano condizioni favorevoli per uno sbarco solo tra Rimini e Ravenna. Le coste dall'Istria fino a Ravenna dovrebbero essere difese da un sistema di piazze di secondo ordine costituito da Fiume, Pola e Venezia; quest'ultima dovrebbe essere resa inespugnabile sia dal lato di mare che da quello di terra, mentre "il vasto porto di Pola può racchiudere al sicuro una squadra numerosa raccolta su questa sponda dell'Adriatico e concorrere con quella di Venezia a padroneggiare il mare". Infine, per la difesa da possibili sbarchi su litorale tra Ravenna e Rimini e/o sulle coste toscane, occorre fortificare Ferrara, Modena, Ostiglia, Pievepelago (dove si congiungono le strade che portano da Lucca e Pistoia alla pianura padana). Il Saluzzo indica brevemente anche le modalità strategiche per respingere l'invasore con un esercito di 250.000 uomini che si avvarrebbe della fortificazioni e delle ferrovie, tenendo presente che "in parità di circostanze è sempre verso la frontiera di Ponente che sarebbero rivolti i primi nostri sforzi". Tutti i passaggi delle Alpi Occidentali sarebbero controllati da "un adeguato numero di truppe leggere", che avrebbe il compito di rallentare il movimento dell'invasore e fornire informazioni sul numero, la composizione e la direzione delle sue colonne alla massa principale dell'esercito dislocato, come si è visto, tra Savigliano e Carmagnola, per contrattaccare allo sbocco delle valli. Le stesse modalità si seguirebbero per la difesa della rimanente frontiera alpina. In caso di investimento contemporaneo dell'intera cerchia delle Alpi, occorrerebbe concentrare le forze là ove si profila la minaccia più pericolosa, per poi spostarle negli altri punti minacciati. Anche nel caso che, a seguito di eventi sfavorevoli, si renda necessario arretrare le nostre forze fino alle due sponde del Po, le chances della difesa rimarrebbero buone, perché il nemico sarebbe costretto a sottrarre molte forze alla massa principale, per controllare le numerose fortezze lasciate alle spalle. Senza contare che per mezzo delle ferrovie, si può ormai trasportare con la massima rapidità "da1l'una alJ'altra estremità del paese" le truppe neces- · sarie; inoltre "è diventata della massima importanza, in tutte le combinazioni di guerra, l'introduzione dei telegrafi elettrici, mediante i quali si possono comunicare istantaneamente ordini agli eserciti. Questi telegrafi sono ora disposti lungo tutte le strade ferrate". Da questa considerazione, probabilmente aggiunta nel 1860 dal De Bartolomeis, si deduce che anche le ferrovie e il telegrafo alla fin fine agevolano la difesa; quest'ultima naturalmente è basata nel presupposto che venga realizzato il ponderoso sistema di fortificazione suggerito, il quale comprende: - 3 piazze di ·1· classe (Torino; Codroipo, con campo trincerato; Modena, con campo trincerato), 10 piazze di 2· classe, 16 piazze di


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3' classe da costruire ex-novo (con una spesa complessiva di 193 milioni); - 2 piazze di 1' classe (Verona e Genova), 5 piazze di 2' classe, 6 piazze di 3' classe da migliorare (con una spesa complessiva di 41 'milioni, dei quali 20 per l'armamento). In totale il Saluzzo ritiene necessario costruire e migliorare 42 fortezze e 6 campi trincerati, con una spesa totale di 234 milioni. Più che il numero dei punti da fortificare, il dato eclatante è quello della spesa prevista, che supera di gran lunga non solo le effettive possibilità finanziarie degli Stati italiani nei tempi nei quali egli scrive, ma anche quelle del nuovo Regno d'Italia nato nel 1861. Eppure nel 1860 il De Bartolomeis non considera questa incongruenza fondamentale degli studi del Saluzzo, anche_se - pur professandogli devozione e stima - tiene a precisare di non essere del tutto d' accordo con lui sulla necessità di costruire tante fortezze, che renderebbero necessario distogliere dalle forze mobili una quantità eccessiva di truppe. Il Saluzzo dedica un ultimo, breve capitolo (meno di due pagine) a una possibile offensiva mirante a sboccare oltr'alpe (sia in caso di guerra contro l' Austria avendo come alleata la Francia, sia in caso di guerra con quest'ultima avendo come alleata l'Austria). Tutto sembra facile: egli prescinde dal calcolo preventivo del rapporto di forze e da vincoli e possibilità di carattere logistico. Per aiutare la Francia contro l'Austria si dovrebbe spingere un esercito verso Vienna, attraverso Klagenfurt. Per favorire più direttamente il passaggio del Reno da parte dell'Esercito francese, operando poi insieme nella valle del Danubio, "il nostro Esercito vi sboccherebbe dalle sorgenti dell'Adige, e per Landeck ed Innsbruk entrerebbe in Baviera..." e via dicendo (e esagerando). In caso di guerra alla Francia, il Salu_zzo parla di spingere un poderoso esercito verso Lione, di mettere al sicuro le comunicazioni con Torino assediando Briançon e osservando le guarnigioni di Barraux e Grenoble ecc .. Infine per facilitare all'Esercito austriaco il passaggio del Reno e operare poi congiuntamente alla volta della Senna, "il nostro esercito passerebbe il S. Gottardo e per Lucerna e Olten si dirigerebbe sopra Basilea", obbligando così i francesi ad evacuare la Svizzera e il Reno tra Costanza e Basilea. Al di là delle considerazioni a volte ottimistiche, semplicistiche e superficiali, il libro del Saluzzo rimane importante, ancorché finora ignorato dalla critica storica. Anche se esclusivamente rivolto alla difesa dell' Italia Settentrionale e costretto a tener conto del sistema di comunicazione pre.1848, va ricordato soprattutto per il metodo seguito e per i nuovi problemi che fa affiorare, a cominciare dalla gravitazione delle forze. Vi si comincia a introdurre una prospettiva italiana o quasi, in ogni caso non più solamente piemontese; vi si mette in relazione per la prima volta la difesa terrestre con quella marittima; si delinea un concetto di difesa delle Alpi nel quale trova risalto il ruolo delle milizie e truppe leggere per presidiare le fortificazioni e rallentare il passaggio delle colonne nemiche attraverso le Alpi; la geografia militare, e in particolare l'andamento delle linee di comunicazione stradali e


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ferroviarie, dettano le grandi linee de] sistema fortificato e il ruolo più o meno importante del1e singole opere permanenti; fast but not least, non si trascura affatto l'importanza della fortificazione campale. Si tratta, insomma, di una prima e concreta proposta che apre la strada ad altri studi, nei quali ritroveranno non di rado il leit-motiv della riflessione del Saluzzo. Abbiamo finora riferito i contenuti essenziali dei Propugnacoli dell'Alta Italia pubblicati dal De Bartolomeis. Per la verità nel suo articolo

Difesa delle Alpi Occidentali secondo gli studi del conte Annibale di Sa/uzzo pubblicato dalla Rivista Militare nel 1883,37 il capitano Zavattari dà un'interpretazione a volte diversa dei rimanenti e già citati scritti del Saluzzo, rivolti al più ristretto ambito di una guerra tra il solo Piemonte e la Francia nelle Alpi Occidentali. Anche in questo caso più ridotto, sempre secondo ]o Zavattari il Saluzzo intende impostare una strategia difensiva del Piemonte diversa dalla "guerra di cordone" fallita nel 1793-1796 contro Napoleone, la quale prevede l'impiego di una ridotta aliquota di forze (20.000 su 70.000) nelle difese fisse e la controffensiva dell'aliquota principale di forze dislocate nell'alta pianura piemontese. Fin qui nulla di nuovo; ]a fortificazione anche in questo caso ha un peso fondamentale, visto che consente di risparmiare forze, onde accrescere I' aJiquota di manovra; e sempre fra Carmagnola e Carignano dovrebbe essere creato un vasto campo trincerato, per dislocarvi l'aliquota principale di fone ... Dove si notano differenze di rilievo rispelto ai Propugnacoli, è soprattutto nel modo di considerare le possibilità della difesa. Le citazioni letterali tratte dagli altri studi e prodotte dallo Zavattari, infatti, appaiono discordanti rispetto al pronunciato ottimismo che in proposito contraddistingue i Propugnacoli. In questo caso il Saluzzo scrive che le elevate distanze reciproche e la grande estensione dei tre contrafforti nei quali si possono considerare divise le Alpi Occidentali "presentano per ]a guerra l'immenso svantaggio di circoscrivere il bacino del Po a un punto tale, che l'esercito che dovrebbe esservi riunito per accorrere prontamente in soccorso delle due estremità di questa lunga frontiera, non può disporre di un'idonea dislocazione iniziale, che gli consenta di arrivare là ove necessario in un tempo minore di quello che impiegherebbe il nemico per attaccare con forze preponderanti questi punti". Inoltre, sei delle nostre valli centrali "si ricollegano alla base d'operazioni francese verso l'Italia, facilitando all'esercito francese la rottura della nostra linea difensiva, senza che i principi difensivi finora adottati abbiano trovato il modo di opporvisi con successo". Comunque il Saluzzo polemizza con quei generali piemontesi che, confidando troppo nel valore dell'esercito, vorrebbero giocare il tutto per tutto in una battaglia decisiva in pianura con l'Esercito francese, "facendo astra37 ·

«Rivista Militare Italiana" 1883, Voi. Il pp. 104- 116.


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zione dalla guerra di montagna che è cosi conforme all'indole delle popolazioni montanare piemontesi e così favorevole per formare buone truppe". Questi generali dimenticano che la fanteria piemontese ha una ferma troppo breve, e che "il concentramento dell'esercito in pianura non è affatto conveniente per una potenza minore, e lo è ancor meno per uno Stato che ha una frontiera montana a forma di circonferenza con un raggio sproporzionato, e che d'altro canto può contare sulla più forte barriera che si possa opporre al nemico, le Alpi". Nel Projet de défense du Pièmont contre la France, il Saluzzo afferma che, con 1' apertura di nuove strade e la distruzione di parecchi forti nel corso delle guerre napoleoniche, le chances della difesa dei confini alpini del Piemonte sono talmente peggiorate, "che il miglior rimedio, per quanto possa essere rischioso, sarebbe di portare la guerra sul territorio francese. Sarebbero sufficienti 100.000 uomini; e con I 'aiuto di altri 50.000 fomiti da un alleato, il Re [di Sardegna] potrebbe superare le montagne e avanzare neUa piana di Lione, lasciando forze sufficienti per la difesa in Savoia, in Piemonte, a Nizza e sulla riviera ligure". Troppo facile! Viene perciò un dubbio: il Saluzzo nelle Alpi che cingono l'Italia, ecc., destinata ad essere pubblicata, dipinge le possibilità della difesa in modo più favorevole, oppure il De Bartolomeis ha per cosi dire, "annacquato" i Propugnacoli stessi o comunque trascurato gli altri studi ai quali si riferisce lo Zavattari?

SEZIONE m - Dalla difesa del Piemonte alla difesa d'Italia (1848-1861): le opere di Guglielmo de Willisen, Felice Orsini e Carlo e Luigi Mezzacapo. Anche se gli studi del Morelli di Popolo e del Saluzzo hanno il merito di sgrossare la materia, la prospettiva geopolitica alla quale fanno riferimento viene ben presto superata. Nel breve periodo dal 1848 al 1861 si combattono due guerre d'indipendenza che, sia pure al prezzo della perdita di preziose posizioni al di là della displuviale alpina come Nizza e Savoia, uniscono al Piemonte la Lombardia. Al tempo stesso 1a vittoriosa spedizione di Garibaldi contro il Regno delle due Sicilie porta l'Italia peninsulare e insulare a far parte di un nuovo, grande Stato con fisionomia geopolitica inevitabilmente ambigua, perché insieme "continentale" e "marittima". In questa fase cruciale, la Francia e l'Inghilterra fanno sentire la loro presenza soprattutto attraverso l'impiego - e, nel caso dell'Inghilterra, il benevolo non impiego - dello strumento navale. lo particolare, con lo sbarco di truppe nel 1849 e nel 1867 a Civitavecchia e con un atteggiamento non certo favorevole della sua flotta nei riguardi della spedizione garibaldina38,

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Cfr., in particolare, il Diario privato politico-militare dell' Amm. Persano (Rist. Pordenone, Ed. Studio Tesi 1990).


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F. BOTfl - IL PENSIERO MILITARE E NAVA LE - VOL. TI (1S48-1870)

la Francia mostra di voler far sentire la sua ingombrante presenza ne11e cose italiane, dando una prima, concreta dimostrazione del pericolo di "proiezioni di potenza" dal mare verso le nostre coste che poi a lungo peserà sul pensiero militare e navale italiano.

Aspetti geostrategici della difesa a Est della pianura padana nella "campagna d'ltalia del 1848" del generale Guglielmo de Willisen (1849) Nella sua Bibliografia Militare Italiana, il D' Ayala39 cita una Descrizione geografica militare dell 'Italia settentrionale, con una carta fisica stradale della Lombardia e della Venezia comprendendo il Canton Ticino, il Tirolo e la penisola d'Istria, per servire all'intelligenza delle operazioni militari sul teatro di guèrra41.), pubblicata (senza autore) nel 1848. Non siamo riusciti a rintracciarla; ad ogni modo, si tratta della dimostrazione che l'opera del Saluzzo e i suoi parametri di riferimento sono ancora ben vivi e sono studiati - prima della guerra del 1848. Il commento straniero più interessante e più partigiano a tale guerra è forse quello del generale prussiano Guglielmo de Wi11isen, la cui opera La campagna d'Italia del 1848 viene (come si è visto) tradotta in italiano, commentata e spesso aspramente contestata da Riccardo Ceroni (vds. cap. ll e VIIl)41 • Autore di una Teoria della grande guerra (1831) mai tradotta in italiano ma in Italia assai più nota nel secolo XIX del Vom Kriege di Clausewitz, già al servizio dell' Austria nel 1849 contro l'Italia e acceso reazionario antitaliano, il generale De Willisen (1790-1879) è giudicato dal Ceroni "ufficiale coltissimo, che ha fra i teorici moderni contrasta il primato di Jomini, di cui se non erriamo è più profondo": a noi sembra piuttosto un emulo di Btilow e dell'Arciduca Carlo, e non a caso parla di "regole della teoria" ecc .. Dato il suo orientamento dottrinale, dà grande importanza alla geografia e alla fortificazione, perciò la sua opera fornisce elementi preziosi sia sul rapporto tra difesa, fortificazione e geografia in generale, sia sulla valutazione del terr&o del teatro d'operazioni settentrionale da parte austriaca e sui punti da fortificare all'inizio delle guerre di indipendenza. Sul rapporto tra difesa e fortificazione il giudizio del Willisen è già tale da far cadere i frequenti, dilettanteschi crucifige sulla pretesa mancanza di uno spirito offensivo nel concetto strategico italiano dopo il 1861: una sfavorevole sproporzione di forze, lo squilibrio che ne risµlta in campo aperto, sono ragioni che decidono a stare nella difensiva. In tale situazione poi la scienza, al fine di stabilire l'equilibrio, cerca

"'

M. D' Ayala, Op. cit., p. 78.

'°· Torino, Gianino e Fure 1848. "· Op. Cit..


Xl - GEOGRAFIA E FORTIRCAZIONE NELLA DIFESA D'ITALIA

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quei rinforzi che poi si rinvengono nel terreno congiuntamente alla fortificazione [... ] La scienza spiega inoltre di qual natura esser debbano questi rinforzi, che anzitutto hanno da render possibile alla difesa il soggiorno, condizione indispensabile per corrispondere al primo suo ufficio di proteggere il paese alle spalle. Per l'armata propriamente poi equivale a dire, che essa deve aver libere le sue comunicazioni, il rapporto strategico dev'essere assicurato[ ...]. La scienza trasporta in seguito la difesa sulle grandi linee d'acqua, le sole che unitamente alla fortificazione, siano in grado di offrirci un sistema ideale di difesa, cioè centrale e concentrato, o, come noi lo chiamiamo, sistema difensivo di un gruppo di forze [...]. Che i fiumi siano quelli che formano le linee di difesa di un Paese, non v'ha ormai più quistione. La teoria vi scorse una differenza soltanto, che in generale cioè, ed in grande, gli uni scorrono i raggi di un circolo, di cui la città capitale forma il centro, gli altri [li percorrono] come corde. A ciò attaccossi pure la differenza principale nel modo di servirsene. Entrambi poi offrono vantaggi del tutto lo proprii.

Il Willisen passa poi a esaminare il teatro d' operazioni della pianura patlana, meltendo in rilievo che la regione compresa tra il Mincio e l'Adige, una volta completata dalla fortificazione della linea del Po, sarebbe per l'Austria un perfetto "sistema concentrato", con il quale mantenere il possesso della Lombardia. In particolare il Po "è designato propriamente dalla natura per la difesa dell'alta Italia f... l ci si presenta come raggio; esso è per l'alta Italia quello che è il Danubio per la Germania meridionale. Esso forma la sua linea unica e sicura di difesa per tutta l'estensione della sua vaUe, dalle Alpi agli Appennini e cioè in ogni senso, vale a dire, tanto per la difesa da ponente a levante come viceversa da levante a ponente, quindi tanto per l'Austria che per il Piemonte e la Francia"42 • Per le forze austriache in Italia il Po è una preziosa linea d'approvvigionamento, anche se può essere interrotta da popolazioni ostili; sotto questo profilo se percorso da battelli a vapore rappresenta il completamento della ferrovia che da Lubiana per Gorizia, Palmanova, Treviso e Verona, dovrebbe arrivare fino a Cremona, la cui costruzione pertanto è, per l'Austria, della massima importanza. Sempre secondo il Willisen, l'Austria dovrebbe fortificare in particolar modo Pavia, onde dominare alla loro confluenza sia il Po che il Ticino con fortificazioni sulle due sponde: lo stesso dovrebbe essere fatto per la confluenza nel Po delJ' Adda e dell'Oglio e per la testa di ponte di Borgoforte. Inoltre Piacenza, Cremona e Pizzighettone "offrirebbero un sì forte assieme in seconda linea, da corrispondere ad ogni esigenza". Nei trattati del I 815 l'Austria avrebbe dovuto assicurarsi il controllo delle confluenze prima indicate, anche a costo di cedere l'intero territorio di Varese "che non ha alcuna importanza militare". Questo non è stato fatto, e ciò dimostra "che •~

ivi, pp. 12-14.


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F. BOTn - IL PENSIERO MILITARE E NAVALE - VOL. II (1848-1870)

nel 1815 non s'ebbe chiamato a consiglio lda parte austriaca] verun occhio strategico"43 • Dopo un lungo esame delle posizioni e delle fortificazioni del quadrilatero (Verona - Mantova - Peschiera - Legnago) il Willisen studia le possibilità di difesa e di offesa che il territorio della pianura padana potrebbe offrire agli italiani. Oltre al vantaggio di avere la corrente del Po a favore e le popolazioni delle sue rive amiche, per l'Italia Legnago avrebbe un ruolo maggiore, perché servirebbe a difendere Verona (mentre non avverrebbe il contrario); Rovigo e Ferrara acquisterebbero la massima importanza; il valore offensivo di Mantova diminuirebbe, perché da tale piazzaforte non sarebbe agevole una sortita verso Est; A sua volta Verona avrebbe un'importanza solo difensiva. La linea del1' Adige sarebbe per gli italiani la più avanzata, perché ogni altra posizione più a Est potrebbe essere aggirata dalla parte del Tirolo, sempre che Trento e Rovereto non siano in mano italiana. Nel caso di perdita dell'Adige, l'Esercito italiano dovrebbe sfruttare a fondo le possibilità che gli sono offerte dal saldo possesso della linea del Po, fortificandola per quanto possibile (cosa che i piemontesi non hanno fatto nel 1848/1849) in modo da consentire alle forze italiane riparate sulla riva destra, di riprendersi dai rovesci e al tempo stesso di minacciare il fianco sinistro degli austriaci, se si spingono verso Occidente; a tal fine Piacenza e Pavia sarebbero molto più importanti come piazzeforti di seconda e terza linea. Come già si è accennato (cap. VIII - sz. IX), una possibile offensiva italiana verso l'Austria secondo il Willisen dovrebbe concentrare le forze per interrompere la linea di comunicazione principale dell'avversario, che è Verona - Vicenza per Venezia o Udine: quella del Tirolo è troppo lunga e offre scarse possibilità logistiche. Pertanto, una volta giunto al Mincio e ancor prima di giungere ali' Adige, l'Esercito Italiano dovrebbe passare il Po intorno a Guastalla e aggirare le linee austriache del Mincio e deU' Adige, scegliendo come sua nuova linea di comunicazione quella più a Est, cioè quella di Bologna-Ferrara: "Ferrara [nella guerra del 1848/1849] era a tale intento più importante conquista dell'inconcludente Peschiera"44• Le riflessioni geostrategiche del Willisen, manifestamente derivanti dall'esperienza della guerra 1848/1849, sono in buona parte criticate dal Ceroni, che espone un punto di vista italiano sul ruolo generale della fortificazione nell'ambito della guerra italiana. Alla tendenza del Willisen a riempire di fortezze la Lombardia obietta che non sempre esse sono un rimedio valido contro le rivoluzioni e che, comunque, distraggono troppe forze dalla massa di un esercito regolare. Tuttavia anch'egli osserva: "si dirà che le fortificazioni sono profuse in queste pagine. Guardate alla Francia e alla Prussia, a quanto va ora facendo l'Austria. L'Italia, terra necessaria-

o. 44 ·

ivi, pp. 16-17. ivi, p. 41.


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mente difensiva, finché segga tra due mari, su cui tre grandi potenze si disputano il dominio commerciale e militare, non potrà mai averne quanto basta. Prova ne sia che gli stranieri, discesi tra noi s'affrettarono sempre a smantellarle, quando non servivano a' loro disegni [così ha fatto Napoleone - N.d.a.]"45 • Il Ceroni nega il valore di Pavia come fortezza per gU austriaci, almeno fino a quando i nemici dell'Austria avranno Piacenza e Cremona e il Po scorrerà tra popolazioni ostili all'Austria. La puntata offensiva di un esercito proveniente da Parma e magari da Modena o Bologna, oppure sbarcato in Liguria, richiamerebbe in fretta i] presidio di Pavia tra il Mincio e il Chiese; Pavia sarebbe inutile anche in caso di sbarco francese sulle coste adriatiche. Per questo il Ceroni concorda con il Radetzky, che riteneva Piacenza e Verona le uniche due posizioni importanti per l'Austria. Inoltre a suo giudizio il territorio di Varese per l'Austria è assai importante, perché cederlo al Piemonte significherebbe cedergli il Lago Maggiore, rovinare l'economia aprendo la Lombardia a1 contrabbando, facilitare un' offensiva piemontese e rendere al tempo stesso più difficile una propria, spianare la strada a un'invasione de11a Francia alleata del Piemonte attraverso il Sempione. Concorda, invece, sull'importanza di Borgoforte, anche perché sbarra la strada che da Mantova attraverso Reggio Emilia, Castelnuovo nei Monti e Fivizzano punta a La Spezia. Diversamente dal Willisen, infine, ritiene - citando Napoleone che la linea dell'Adige sia tatticamente migliore a strategicamente più vantaggiosa di quella del Mincio; e se le popolazioni rivierasche insorgessero, a poco varrebbero le considerazioni del Willisen sull'importanza del Po come linea di comunicazione per 1'esercito austriaco... Sempre secondo il Ceroni, Verona per l'Austria è una posizione preferibile a Mantova, tomba del suo esercito. Per gU italiani, "convertite in fortezze di primo ordine Bologna e Piacenza, le escursioni austriache sul Po si fanno impossibili; il Mincio e l'Adda acquistano nuovo pregio, Mantova è quasi trasportata sul Po medesimo. Per correggere il difetto del fiume veneto, si fortificano allora le alture che guardano gli sbocchi della Val d · Adige; si costruiscono opere sull'altipiano di Rivoli; s'innalza a Vicenza una cittadella e si rafforzano le eminenze". Il Ceroni ricorda anche che il ruolo fondamentale di Bologna era già stato "sagacemente dimostrato" da Guglielmo Pepe, e concorda col Willisen sull' importanza di Ferrara sotto un triplice profilo: come base d' operazioni per gli italiani in caso di operazioni verso Nord-Est miranti ad aggirare il quadrilatero; come base di operazioni per gli austriaci per operazioni nell'Italia Centrale e Meridionale; "per mantenere a un tempo le comunicazioni tra Venezia e Milano tra i Piemontesi e i loro alleati cispadani, e vietare agli austriaci le escursioni da Mantova e Legnago, a mezzodì del Po"4<, (prospettiva, questa, da giudicare aleatoria).

" 46 ·

ivi, p. 325. ivi, p. 41.


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F. BOTTI - IL PENSIERO MILITARE E NAVALE - VOL. Il (1848-1870)

Sia il Willisen che il suo traduttore e critico Ceroni si muovono nel solco delle teorie anticlausewitziane, tendenti a fare delle guerra un affare di posizioni; la prosa involuta del Willisen è ulteriore dimostrazione di un concetto "geometrico" della guerra al momento in gran voga non solo in Austria e Germania. I loro scritti, tuttavia, pongono in particolar modo il problema delle chances della difesa e dell'offesa della pianura padana verso Est. Un approccio pionieristico ma dilettantistico alla difesa d'Italia: la "Geografia Militare della penisola italiana" (1852) di Felice Orsini

Il citato libro sulla "Geografia Militare della penisola italiana" di Felice Orsini (Cfr. sez. I) accanto alla parte più propriamente teorica della quale abbiamo già trattato, esamina per la prima volta le caratteristiche geostrategiche dell'intera penisola italiana e le conseguenti posizioni da fortificar~. L'Orsini non conduce come il Willisen e il Ceroni un'analisi critica delle operazioni della recentissima guerra 1848/1849, che pure avrebbero potuto fornire utili indicazioni; ciò avviene perché intende fornire uno strumento di lavoro utile per gli ufficiali di ogni Arma e di tutti gli Stati nei quali al momento è ancora divisa l'Italia, omettendo di proposito gli accenni ai futuri mutamenti politici (argomenti che sarebbe stato molto difficile evitare prendendo in considerazione la guerra 1848/1849). Intenti dissimulatori abbastanza ingenui: la prospettiva di una imminente guerra nazionale, la quale non può che essere rivolta contro l'Austria, è ben chiara già nell'introduzione, ove (siamo nel 1852) si accenna al fatto che "gli eventi incalzano" e la pubblicazione rdel libro] "può essere di grandissimo giovamento"; per questo si mettono a disposizione del lettore solo le basi generali del lavoro, il quale "tuttoché non si abbia deposta l'idea di mettervi mano, cessato che sia lo stato attuale delle cose politiche, sarebbe di una gran mole e non potrebbe vedersi che dopo qualche anno di assiduo studio". Tipicamente mazziniana - o se si preferisce garibaldina - anche la chiusa dell'introduzione stessa: occorre promuovere una educazione virile e non sciocca, o molle e immorale; senza di che non isperi un popolo libertà né indipendenza. La guerra è necessaria e indispensabile, e solo col cannone e per la forza delle baionette, ad onta di tutte le tiritiere delle assemblee, dei giornali, e dell'immensa caterva di storici sbocciati a questi tempi dall'ignoranza, si possono risolvere le questioni politiche che oggidì abitano profondamente la società europea. 47

A parte le buone intenzioni, il libro dell' Orsini mantiene assai meno di quello che promette e non sempre è originale. Più che una geografia militare .,

F. Orsini, Op. cit., p. 16.


Xl - GEOGRAFIA E FORTIFICAZIONE NELLA DIFESA D'ITALIA

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dell'Italia è una geografia politico-militare, nella quale sui contenuti delle precedenti e già citate opere di geografia fisica e politica dell'Italia come quelle del Cantù, del Bianchi ecc., si innestano più o meno bene delle considerazioni di carattere militare che, tutto sommato, rimangono una componente minoritaria e poco omogenea del libro e risentono alquanto della fretta con cui è stato compilato. All'eccesso di particolari topografici che appesantisce il lavoro del Willisen si contrappone, questa volta, la tendenza a larghe sciabolate e a giudizi sommari. Né aiuta a valutare gli aspetti militari del territorio la metodica seguita dall'Orsini, che - come si è visto - dopo aver suddiviso l'Italia in continentale, peninsulare e insulare, esamina prima l'orografia, poi (in parti non comunicanti) le coste, la viabilità ordinaria le ferrovie, l'idrografia, descrivendo infine ciascun Stato pre-unitario come fanno il Cantù e il Bianchi. Con una metodica di questo tipo riesce difficile abbracciare le caratteristiche complessive di una data regione e dell ' Italia nel suo complesso, anche per lo spazio residuale lasciato alle considerazioni militari, nelle quali - more solito - le fortificazioni sono la componente di gran lunga predominante. Come già il Balbo e il Pepe, l'Orsini osserva che tutto il terreno italiano non si presta al movimento e spiegamento di grossi eserciti. In particolare gli Appennini, anche se non vi mancano delle buone strade principali e numerose strade secondarie che all'occorrenza possono essere agevolmente rese idonee al passaggio delle artiglierie, "si prestano nel modo più opportuno per tenere viva con grande frutto la cosiddetta guerra di montagna" e in genere, risultano adatti alla guerra difensiva e "alle guerrillas ad uso degli spagnoli". L'Italia meridionale ha fatto "un'ostinata ed eroica resistenza" alle armi napoleoniche; "ivi pure un esercito nazionale può far pagare cara l'arditezza di un nemico invasore [... ]. Quella regione finalmente può servire di sicura base d'operazione in una guerra nazionale diretta contro le armi straniere che tengono oppressa la superiore Italia"48 • A sua volta, l'Italia del Nord offre scarse possibilità di spiegamento: "le uniche pianure che siano scoperte e proprie all'azione libera di tutte le armi si scorgono tra il Ticino e la Scrivia". Anche se vi sono molte ottime strade, l'artiglieria e la cavalleria vi incontrano ugualmente notevoli difficoltà di movimento a causa di una fitta rete di ostacoli naturali: case, fossi, canali, siepi, argini ecc .. I numerosi affluenti del Po "rendono ardua e piena di difficoltà la marcia di un corpo d'armata, che è costretto ad ogni tratto di gettar ponti e d 'impadronirsi dei passaggi esistenti per valicarli, ovvero è obbligato di rimontare le sorgenti, e passarli presso di queste ove sogliono presentare le correnti d'acqua minori ostacoli". Infine, i fiumi del Veneto e del Friuli che si gettano direttamente nell'Adriatico formano un grande ostacolo per chi vuole invadere l'Italia da Est. 41

ivi, p. 335.


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F. B0ffi - IL PENSIERO MILITARE E NAVALE - VOL. li (1848-1870)

In conclusione, secondo !'Orsini tutto il terreno italiano si presta in particolar modo per 1 'impiego della fanteria leggera in genere. E qui si avvicina notevolmente al concetto informatore della costituzione delle truppe alpine, venti anni più tardi: lo studio delle proprietà locali del suolo italiano deve persuadere chiunque sia chiamato a reggerlo, di rivolgere le sue cure maggiori all'istituzione d'un corpo considerevole di bersaglieri, una parte dei quali avrebbe ad essere organizzata a modo dei carabinieri della Svizzera. L'indole stessa dell'italiano si presta eminentemente al disimpegno dei doveri che sono propri ai bersaglieri: e 1a terra italiana cosi alpestre e tanto prodiga in uomini destri ed agili ad arrampicarsi su per difficili ed a.,;pre montagne, potrebbe dare in grandissima copia uomini atti a tale arma speciale49•

Riguardo alla diversa efficienza delle Forze Armate del Piemonte e del Regno delle Due Sicilie, il romagnolo Orsini riprende in buona parte le idee del Gioberti, del Durando e del Balbo (Vol. I, cap. XI e XII). Il suo giudizio si mantiene peraltro equilibrato, ed è confermato dagli avvenimenti del 1855-1861: l'italiano delle province soggette alla casa di Savoia è vigoroso e sobrio, docile e coraggioso, intelligente e perseverante. Egli è uno dei migliori soldati d'Italia. Se i soldati piemontesi furono rotti in queste ultime guerre, si deve attribuire all'ignoranza dei generali e alla mancanza di viveri: queste due cose spensero l'entusiasmo e demoralizzarono l'armata. Il Regno Sardo ha una buona marina; è però inferiore a quella del Reame di Napoli, perché mancante di ufficiali istruiti. Il soldato marino è nullameno bravissimo, perché si trae dalle riviere [cioè dalla Liguria - N.d.a.], che hanno sempre dato i migliori marinai d'ltalia50• •

Gli abitanti del Meridione sono intelligentissimi, agili, robusti e coraggiosi. L'organizzazione militare di quel Regno è tra le migliori d'Europa; e la Marina è eccellente, la migliore d'Italia. L'Esercito ha bravissimi ufficiali, "però in generale manca di quella forza di coesione che f01:ma un sol tutto di una massa d'uomini, che li rende compatti e invincibili; cioè devesi al governo stesso che vi ha introdotto la diffidenza e l'umiliazione e che largisce premi a quel soldato che si avvilisce, e più è perito nell'arte dello spionaggio"51 • Come dire: le eccellenti qualità di parecchi ufficiali e la bontà dell'intelaiatura oganizzativa sono vanificate da ingerenze esterne che vi hanno introdotto pratiche e costumi moralmente riprovevoli e antimilitari.

49 ivi, p. 47. "'· ivi, p. 259. " ivi, p. 313.


Xl - GEOGRAFIA E FORTIFICAZIONE NELLA DIFESA D'ITALIA

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Interessanti i giudizi sull'indole e sulle attitudini mi1itari dei toscani e dei romani. Il toscano è in genere furbo e intelligentissimo, ma v'è differenza tra il campagnolo e l'abitante delle città. Il primo "è gagliardo e di animo virile, ed ove fosse mischiato con altre truppe sottoposte a severa disciplina potrebbe comparire fra i migliori soldati d'Italia" [il che equivale a dire - ricordo del 1848/1849? - che i reparti composti interamente da toscani non brillerebbero per disciplina - N.d.a.]; invece gli abitanti delle maggiori città e in particolare di Firenze "tendono alla mollezza e non hanno forti spiriti marziali", per colpa del "mellifluo e corrompitore governo che da tre secoli addormenta ed insinua la immoralità nelle popolazioni toscane"52• L'Esercito dello Stato della Chiesa prima del 1848 si componeva "di gente raccog1iticcia e vagabonda"; al momento, poiché gli abitanti non vogliono assoggettarsi al servizio militare, è composto da francesi, austriaci, pochi svizzeri. L'italiano degli Stati della Chiesa "è robusto, agile e coraggiosissimo; ma poco docile". Se viene offeso, è incline alle barbare vendette; tuttavia "da queste contrade si trarrebbe forse il miglior soldato dell'Italia, come lo dimostrano i tempi del Medio Evo e quei di Napoleone, purché però si usasse e si mettesse in pratica una severissima disciplina"53• Questi excursus dell'Orsini non sono fuori tema. Dimostrano che il suo concetto di geografia militare non è aridamente tecnico, ma affonda le radici nella storia e nell'indole di ciascun popolo e di ciascuna regione, fatto certamente non privo di interesse militare. Non sono privi di interesse militare nemmeno i suoi accenni all'industria, nella quale l'Italia è inferiore alle altre nazioni perché quest'ultima altrove è stata incoraggiata, mentre gli italiani dopo la perdita dell'indipendenza "furono costantemente compressi e schiacciati". Così come, in Italia al momento "il commercio non è molto florido a cagione dei mille inceppamenti che sono frapposti alla azione Libera e al suo incremento". Le considerazioni sul valore delle posizioni, sull'efficienza delle fortificazioni costiere e interne ecc. si trovano sparse un po' ovunque, e in particolare quando !'Orsini parla delle coste e dei vari Stati, delle Alpi e degli Appennini. Del valore impeditivo intrinseco delle Alpi non ha una grande opinfone: anticamente - afferma - erano considerate una barriera insormontabile [constatazione da non condividere, visto che sono sempre state valicate - N.d.a.]; ma al momento la loro importanza è diminuita a causa delle grandi strade che le attraversano [nel 1852, non erano ancora attraversate da ferrovie - N.d.a.]. Esse presentano nondimeno lievi difficoltà nella stagione invernale, in cui le nevi ed il gelo fanno difficilissimo il passaggio di un'annata; e si

" ivi, p. 297. "- ivi, p. 302.


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F. BOTTI - IL PENS IERO MILITARE E NAVALE - VOL. Il (1848- 1870)

può trarre grande profitto da questo accidente in un sistema difensivo, da chi sappia bene disporre di truppe armate di carabine secondo l'usanza svizzera, e vantaggiarsi delle valanghe che semplici montanari valgono a ben disporre, e che gran successo hanno sempre avuto nelle guerre di montagna. Guardati cosl in genere i passi delle Alpi e disposti uno o due corpi di esercito nei punti più centrali per correre incontro all'esercito invasore non appena si conosca il luogo di suo passaggio, è tutto ciò che oggi si può ritrarre di vantaggio dalla catena delle Alpi. Dopo ciò apparisce chiaro che puossi rendere difficile la marcia di un' armata attraverso le Alpi, ma · non già farla impossibile".54 Siamo sempre sulla scia del Morelli di Popolo e del Saluzzo, anche se l'Orsini - forse perché non piemontese - tende a dare minore importanza alle Alpi e di conseguenza anche alle fortificazioni che ne sbarrano le principali vie di facilitazione per l'invasore. Da notare che parla di soldati armati di carabina secondo il modello svizzero, mentre in precedenza aveva accennato ai "carabinieri della Sviz3era": nulla hanno a che fare queste truppe con gli attuali Carabinieri. Con tale termine, !'Orsini indica piuttosto qualcosa che si avvicina agli alpini; secondo il dizionario militare del Grassi, infatti, il carabiniere è " un soldato armato di carabina a cavallo o a piedi. Nella moderna milizia le compagnie scelte d'ogni battaglione di fanteria leggera, prendono il nome di compagnie di carabine o di Carabinieri, delle quali si fanno pure in tempo di guerra battaglioni o corpi volanti..." 55 • . Se ne deduce che per carabinieri al tempo si intendeva semplicemente soldati scelti di fanteria leggera armati di carabina o meglio tiratori scelti particolarmente idonei all'impiego in montagna, visto che la carabina - già allora rigata - consentiva loro il fuoco a lunghe distanze. Se l'Orsini sottovaluta l'importanza delle Alpi, tende piuttosto a sopravvalutare il valore degli ostacoli e delle fortezze che l' invasore incontrerebbe dopo averle superate: le prime difficoltà s' incontrano nei grandi e numerosi laghi, negl'innumerevoli fiumi che a guisa di spine sboccano nel Po, nelle fortezze di Verona e Mantova: vi è quindi il Po che divide l'Italia Supe.riore in due parti diseguali, e che forma la seconda barriera contro chi volesse inoltrarsi nella Inferiore Italia. Se poi un nemico penetrasse dal lato occidentale, e scansando il Po entrasse nella Riviera di Ponente, incontrerebbe gli Appennini, i contrafforti di questi, alcune fortezze, Genova e la Piazza di Alessandria56 • Alessandria, in particolar modo, è "la piazza più importante d'Italia per la sua posizione eminentemente strategica"; su di essa convergono tutte le 54 ·

" 56 ·

ivi, pp. 328-329. G.Grassi, Dizionario Militare Italiano - 2' Ed. ( 1833), Napoli Tramaler 1835, p. 133. F. Orsini, Op. cit., p. 329.


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strade dell'alta valle del Po; "Bonaparte l'aveva destinata a formare un gran campo trincerato, pel quale avrebbe unite le fortezze di Torino, di Milano e di Mantova". Sotto Napoleone si è fatto ogni sforzo per farne un grande deposito e per renderla idonea a ospitare un esercito in ritirata, consentendogli di appoggiarsi agli Appennini. Importante anche la posizione di Stradella, altro leit-motiv della difesa dell'Italia Settentrionale contro provenienze dalle Alpi Occidentali tendenti ad aggirare la riva destra del Po: "le ultime alture del fianco settentrionale [degli Appennini] giungono sino a Tortona e Casteggio; da questo luogo fino a Castel S. Giovanni sul torrente Corona signoreggiano la via Emilia e fra quest' ultimo castello e Stradella la oltrepassano giungendo fino sulla sua destra del Po. Questo tratto di Paese offre eccellenti posizioni e fu teatro di parecchi combattimenti... 57 • Nell'ultima parte del libro l'Orsini traccia una sorta di consuntivo, esaminando {con espliciti richiami a Jornini e al Rudtorffer) le migliori linee d'azione strategica da seguire sia per l'esercito che conduce l'offensiva, sia per quello che difende il territorio nazionale. La sua ottica, comunque, rimane in·prevalenza "piemontese" e "continentale"; non considera la possibilità di sbarchi per chi invade l'Italia e/o per chi la difende, anche se - oltre che a Genova e Venezia - accenna sia pur brevemente alle caratteristiche e ai vantaggi dei porti di La Spezia ("un buonissimo porto militare"), Pola ("offrirebbe molti vantaggi considerato siccome punto di riunione per una spedizione marittima"), Gaeta ("chiave del Reame di Napoli"), Taranto ("situato in posizione assai propizia per signoreggiare il Mediterraneo e fare il commercio di Levante"), ecc .. Non mette in rilievo, descrivendo le Alpi, che la parte orientale tutto sommato è di minore ostacolo per un invasore: al contrario, a suo giudizio, le Alpi Giulie "presentano molte difficoltà al mantenimento e all'azione di truppe. La natura di quelle montagne è aspra sovrammodo [...] sui loro fianchi vi è penuria d'acqua, e vi si scorge sterilità di produzioni agricole. Le strade atte al carreggio sono di scarso numero ..." 58• L'area di interesse per le sue considerazioni strategiche si ferma all' Adige, il che dice già molto; gran parte dell'attenzione è da lui rivolta alla difesa dell'alta pianma del Po. Accanto ad Alessandria ritiene fondamentali le piazze di Genova e Venezia, perché per invadere l'Italia peninsulare bisogna anzitutto conquistare l'Italia del Nord, e per essere padroni di quest'ultima bisogna essere padro1ù appunto di Genova e Venezia. Dovendo combattere contro l'Austria l'Esercito piemontese dovrebbe fare perno su Alessandria e, in caso di sconfitta, ripiegare su Genova: su quest' ultima posizione "protetto da buona Marina, padrone dell'isola di Sardegna, le sue speranze non andrebbero mai fallite"~9•

"· ivi, p. 81. " ivi, p. 78. ,.

ivi, p. 33 1.


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F.

san, - IL PENSIERO MILITARE E NAVALE -

VOL. Il (1848-1870)

Un esercito che si spingesse da Ovest fino all'Adige dovrebbe occupare anche il Tirolo, rifugiandosi in caso di sconfitta su1la riva destra del Po. Al contrario, un esercito operante da Oriente a Occidente, sempre per non esporre le sue comunicazioni, prima di passare la Sesia dovrebbe impadronirsi di Alessandria e della valle della Scrivia. In caso di sconfitta, dovrebbe ritirarsi fino a Cremona: "troverà allora nell'Adige una buona posizione difensiva, dove però potrebbe essere aggirato dalle valli del Rienz e della Drava". Considerazioni poco chiare che lasciano perplessi: da Cremona all'Adige c' è una bella distanza, specie con le armi e i mezzi di trasporto di allora. Altre perplessità nascono quando parla del Po, che "costituisce la seconda barriera dell'Italia continentale e fa prima dell'Italia peninsulare". Nella parte alta del suo corso - afferma - ha un valore impeditivo modesto che però viene accresciuto dai suoi affluenti; al centro forma un eccellente baluardo per chi viene dalle Alpi; a Oriente "viene difeso da alcuni considerevoli fiumi che discendono quasi para1lelamente al suo corso nell' Adriatico" (anche questa è una forzatura; al massimo, date le distanze, questa funzione può essere svolta solo dall ' Adige). Un invasore proveniente da Nord che superasse il Po per scendere a Sud, correrebbe il pericolo di essere attaccato alle spalle; senza contare che (questa è un'altra argomentazione del Balbo e del Pepe) sarebbe costretto a trattenere comunque forze nel Nord, e per di più troverebbe un terreno assai adatto alla difesa. Roma e Foligno sono i due punti nei quali si congiungono le due strade principali che provengono dal Nord (la Bologna - Firenze Roma - Napoli e la Rimini - Ancona - Roma); quindi queste due città "hanno una grande importanza strategica, e il loro possesso decide del teatro della guerra e di una parte della campagna". E dal momento che è preferibile la direttrice Bologna - Firenze - Roma, andrebbero particolarmente fortificate sia Bologna che Ravenna. L' Orsini esamina anche il caso di un esercito che proceda da Sud a Nord, citando letteralmente il Rudtorffer. Secondo quest'ultimo autore, se Ferrara e Comacchio fossero occupate dal difensore, e se il passaggio dalla sinistra alla destra del Po fosse assicurato dalle teste di ponte di Occhiobello, Borgoforte e Brescello, un esercito procedente da Sud a Nord non potrebbe passare il Reno, perché verrebbe attaccato ai fianchi e alle spalle; "se finalmente esistesse a Rimini o Ravenna un campo trincerato, non potrebbe inoltrarsi con il grosso delle sue forze che per la via Emilia, sino a Faenza, e per la via di Firenze-Bologna, non potrebbe passare l'Appennino con forze considerevoli senza perdere il tutto". Con questa impostazione la parte finale, che dovrebbe essere la più interessante, è anche il punto di maggiore caduta dell'opera dell' Orsini, che qui rivela la sua scarsa preparazione militare con conclusioni che sanno di imparaticcio, grossolane e facilmente contestabili, in qualche caso forse sbagliate anche da un punto di vista geografico. Anche le argomentazioni del Rudtorffcr da lui citak lasciano perplessi; per il resto,


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anche l'opera di questo rivoluzionario rivela la tendenza a trascurare il valore decisivo delle forze mobili, collegando tioppo strettamente geografia e fortificazione.

lA prima analisi organica e professionale: gli "Studi topografici e strategici su l'Italia" (1856-1859) di Carlo e Luigi Mez.zacapo Nella primavera 1856 Carlo Mezzacapo comincia a pubblicare su] primo numero della Rivista Militare (non ancora Italiana), da lui fondata a Torino con il fratello Luigi, una serie di saggi a puntate dal titolo Studi Militari sull'Italia, basati su una minuta descrizione e valutazione ai fini strategici del terreno della penisola. Tali studi con il nome di ambedue i fratelli sono raccolti in volume nel 1859,60 cioè un anno prima del compimento dell'unità nazionale. Oltre a fornire le coordinate storiche dell'approccio degli autori, l'introduzione ne indica i riferimenti, l'orientamento, l'alto intento morale: L'Italia, comechè teatro delle più sanguinose lotte europee, non mai combattè, dopo l'epoca dei Romani, per unico interesse delle sue province congregate. La qual cosa era cagione che le proprietà strategiche del suo suolo usufruite or da stranieri, or nelle lotte intestine delle sue città, non fossero mai studiate sotto un aspetto unico e generale, e s'ingenerassero nel comune de' militari false massime ripetute tutti i dl, come quella che perduta la valle del Po, l'Italia è vinta; quasi che la parte peninsulare, la sola che possa farle abilità di ristorar la fortuna delle armi dopo un rovescio, non le sia di aiuto alcuno. I frdDcesi i tedeschi, gli spagnuoli, gli austriaci, che sovente si contesero il dominio della bella Penisola, avevano la loro base sulle Alpi occidentali, centrali orientali o sul mare, non mai nell'Italia stessa; e però le linee ed i punti strategici avevano per.-essi un' influenza diversa da quella che si avrebbero in una guerra esclusivamente italiana. TI francese, che combatte nella valle del Po contro l'austriaco, difende tutti gli affluenti perpendicolari al maggior fiume, insino a che non sia ridotto a contendere i passaggi delle Alpi che danno adito alla valle del Rodano. L'austriaco, ridotto sull'Adige, prosegue la sua difesa parallela sino alla Carinzia e alla Carniola, oppure risale la valle di quel fiume. Mentre che l'italiano, dopo aver difeso gli sbocchi delle Alpi orientali, occidentali o centrali, ed i fiumi perpendicolari al Po insino al Mincio od al Ticino, secondo il nemico contro cui si combatte, ripiega sulla destra del Po, contende al nemico il passaggio di quel fiume e dell' Appennino settentrionale, indi difende le numerose posizioni che riscontra lungo l'Appennino romano, finché non raggiunga l'Abruzzo.

""

C. e L. Mczzncnpo, Studi topografici e strategici sull'Italia, Milano, Vallardi 1859.


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Arrestato in quelle naturali difese, che l'arte potrebbe rendere fortissime, l'esercito italiano può restaurare le sue forze, e, col mare amico, manovrare per Genova e Venezia; le quali, se già mostrarono nel 1800 e nel 1848 la loro potenza difensiva, potrebbonsi con nuovi lavori render quasi inespugnabili, quando fossero difese, non da semplici guarnigioni, ma da interi eserciti, che per la via del mare, sarebbe agevole trasportarvi a tempo opportuno. Perdute le posizioni dell' Abruzzo, la difesa prosegue lungo l' Appennino napoletano, insino ali' estrema Calabria od a Taranto, sempreché colà vi sia un buon porto militare ed una gran piazza di deposito. Infine l'esercito si ritira sulle isole, frattanto che le grandi piazze marittime si studiino di prolungare la loro difesa, affin di agevolare i ritorni offensivi, non appena instaurati i danni e rannodate nuove alleanze. Studiare l'italiana contrada sotto questo aspetto generale, specularne le proprietà strategiche, richiamare la meditazione de' militari su11a forza onde natura fu prodiga alla bella Penisola, ci sembra opera utile e di non lieve interesse. Il pensiero non è nuovo, ma attinto alle memorie del primo Napoleone. che in quelle sorvola le proprietà difensive del nostro suolo sotto l' aspetto per noi considerato. Il seguire le norme già tracciate da] gran Capitano, con la scorta dei non pochi materiali esistenti, agevolerà d'assai l'ardua impresa, per cui altrimenti sentiremmo difettarci le forze e i mezzi. I nostri studj saranno naturalmente divisi in due paiti ben distinte. La prima comprenderà la descrizione fisica del terreno, la seconda le considerazioni strategiche. Nella parte geografica del nostro lavoro ci furono, fra le molte opere, precipuamente di guida quelle del Saluzw, del Cattaneo, del Rudto,jfer, del Lavalleé, del Marmocchi, del Balbi[ ... ]. · La parte riguardante le considerazioni strategiche è un maggiore sviluppo delle idee di Napoleone, frutto delle nostre meditazioni nella lettura delle guerre combattute in Italia dall' antichità ai nostri giorni.

Non dimentichi della loro origine meridionale, i fratelli Mezzacapo si schierano dunque subito e decisamente contro la corrente geostrategica "continentalista" che vuol restringere il problema della difesa nazionale a quello della difesa terrestre della valle del Po, quindi anche delle Alpi. AJ tempo stesso non lavorano in vacuo, ma prendono come riferimento storico primario le campagne d'Italia di Napoleone I (con frequenti e ampi stralci dei commenti del grande condottiero) e come primo riferimento geografico militare l'opera di Annibale di Saluzzo Le Alpi che cingono l'Italia militarmente prima esaminata; ignorano, invece - forse per ragioni politiche l'opera dell' Orsini. More solito, anche se Jomini non viene espressamente citato la matrice teorica del libro non è e non può essere che Jominiana. Geografia e storia (non della rivoluzione francese e del sec. XIX, ma anche dei secoli precedenti) sono la miniera, dalla quale gli autori traggono le indicazioni strategiche e tattiche di maggior peso. Continuamente essi ricorrono a termini


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come linee e punti strategici, fin dalJ'inizio annunciando che (come avviene per Jomini) "lo studio della natura de' monti, de' loro abbassamenti, o colli pe' quali si attraversano, delle valli che le acque scavano ne' loro fianchi, e che servono di comunicazione per le operazioni degli eserciti, ci condurrà alla determinazione delle linee e de' punti strategici da seguire, occupare e difendere"1•1• Non poche le affinità, anche in questo caso, con le idee di Guglielmo Pepe e Cesare Balbo (peraltro non citati), specie nella valutazione delle caratteristiche del terreno dell'Italia peninsulare e nella definizione delle forze alle quali ricorrere. Qualche assonanza anche con il Durando, specie là ove gli autori indicano la perdurante divisione politica dell'Italia come conseguenza della sua conformazione geografica, e studiano - sia pur senza riferimenti al quadro politico - le possibiJità di operazioni congiunte degli eserciti e delle flotte del Piemonte e del Regno di Napoli62• · Fondamentalmente durandiano è, in particolare, 1'esordio della parte seconda del libro, nella quale dopo J'esame delle caratteristiche geografiche si passa alle considerazioni strategiche o meglio geostrategiche: L'Italia, separata dalla rimanente Europa per mezzo della grande catena delle Alpi ed abitata da un popolo d'una stessa lingua, d'una stessa letteratura, e dei medesimi costumi, costituisce una regione separata ed una distinta nazionalità. E però gl'interessi parziali degli abitanti delle singole sue parti tendeva a congiungerle in un interesse generale, ed a sottoporre l'azione di ciascuno ad una linea di condotta comune, per dare alla nazione un posto distinto fra gli altri popoli d'Europa, ed assicurarne l'esistenza e con essa lo sviluppo in tutti i rami del progresso sociale. Ma, senza volere esaminare le molte cause che influivano a tener divisi i varj popoli della penisola, se ne rinviene una potentissima nel difetto della sua stessa configurazione; cioè in quella grande sproporzione fra la lunghezza e la larghezza, che le toglie un centro comune, e fa sì che le varie sue parti, separate da grandi distanze e da monti, hanno un centro parziale e sbocchi proprii per il commercio. Ond'è che ciascuna forma come un tutto a parte, capace di vivere e prosperare, per così dire, senza l'assoluta necessità delle province vicine. Cotesto carattere delle singole parti dell'Italia è meglio definito fra la settentrionale e la meridionale, lè quali separate fra loro per mezzo di uno Stato centrale ordinato in un modo tutto speciale [cioè lo Stato della Chiesa - N.d.a.], si sono sentite, almeno per lo passato, straniere ·e l'una indifferente alla sorte dell'altra. .Donde quello stato di secolare debolezza dell'Italia, per cui è diventata l'arena delle lotte fra gli stranieri che ognor se ne contesero le spoglie. . Il carattere di coteste guerre combattute da più secoli in Italia, nelle quali le nostre forze vi han preso parte soltanto come ausiliarie delle

61 62 ·

ivi, p. 15, Su Pepe, Balbo, Durando Cfr. Vol. I, cap. XI, XU e Xlll.


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potenze contendenti, non ha mai avuto per noi Italiani altre conseguenze che un cambiamento di dominazione. Il paese cadeva in potere del vincitore, non appena scacciato il vinto dalla valle del Po; perocché gli eserciti muovendo dall'oriente o dall'occidente de11a valle stessa, dovevano naturalmente ripiegare sulla propria base, qualunque volta la sorte de11 ' armi decidevasi contro di loro nella valle suddetta, e però abbandonavano l'Italia in potere dell'avversario. Ond'è che i destini d'Italia, dalla caduta dei romani in poi, furono sempre decisi nella valle del Po. Molti, usi ad osservare i fatti superficialmente, da ciò conchiusero che la parte peninsulare d'Italia non avesse grande influenza per salvare il paese, perduta che sia la valle del Po. Noi crediamo invece essere questo un errore gravissimo, sempreché l'Italia si difenda nel1' interesse delle sue parti congregate e con le proprie forze; la qual cosa si renderà manifesta, se si considerino attentamente, con la scorta della strategia, le condizioni difensive dell'Italia in generale, quelle della parte peninsulare, ed il rapporto di questa con la difesa dell'Italia continentale. Un esercito italiano, vinto sulla destra riva del Po, si farà scudo di questo fiume per arrestare i progressi del nemico e per coprire l'Italia peninsulare, sulla quale baserà le ulteriori sue operazioni. In questa posizione esso impedirà a11'inimico di occupare tutta la valle del Po; perocché minaccerebbe in fianco la linea di operazione di quello, se dalla frontiera del Veneto volesse spingersi verso il Piemonte, o viceversa. Ché se le sue operazioni procedessero dal Tirolo o dalla Svizzera, e volesse l' invasore spingersi verso dei lati della valle del Po, correrebbe il rischio di veder tagliate le sue comunicazioni, qualunque volta il difensore, ripassato il Po, si recasse ad occupare una delle tante linee di difesa che si protendono dalle Alpi a11a riva sinistra di quel fiume, e s'interpongono fra gli sbocchi delle Alpi dalla parte d'Italia e la posizione dell' esercito nemico. Ove poi, per proteggere le comunicazioni e compiere la conquista della valle del Po, quegli facesse dei distaccamenti, l'esercito italiano rinverrebbe una favorevole occasione per riprendere l' offensiva con evidente vantaggio. Respinti dal Po, i difensori dovrebbero ripiegare su gli Appennini, e farsi scudo delle numerose linee di difesa che offrono, per arrestare e ritardare e ritardare le operazioni offensive del nemico. E difatti, perché, perduta la valle del Po, dovrebbero i difensori darsi per vinti, mentre che la penisola italiana, che essi coprono, e le isole, comprendono più che la metà delle popolazione dell'ltalia63 ?

Per ben comprendere la citata opera dal titolo Studi topografici e strategici su l'Italia, occorre tenere conto anche dei singoli articoli pubblicati separatamente dai due fratelli sulla Rivista Militare, dei quali almeno in alcune parti non è la semplice raccolta, ma il condensato e/o la rielabora-

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C. e. L. Mezzacapo, Op. cii., pp. 289-291.


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zione, non senza modifiche. In proposito, vanno soprattutto ricordati taluni articoli - a volte polemici - di Luigi Mezzacapo, sul valore generale delle fortificazioni e di alcune posizioni64 • Ambedue i fratelli credono nelJa fortificazione, anche se - almeno in generale - ritengono che esse debbano essere poche, e molto forti. Secondo Luigi Mezzacapo, sono inutili o secondarie quelle piazze che non servono per sbarrare Je strade rotabili in terreni diffici1i e non altrimenti percorribili (come la Alpi) e/o per appoggiare Ja manovra offensiva o difensiva di un esercito (come Verona per gli austriaci). Anche se "la variazione dei Jimiti politici, i progressi della scienza militare e tante altre cose, influiscono ad accrescere o menomare l'importanza di alcuni punti strategici, e però ad affrontare variazioni ne11e posizioni difensive", tali punti rimangono sempre gli stessi. Con il progresso dell'artiglieria, le poche strade che - specie sulle Alpi - ne consentono il transito hanno acquistato un'importanza maggiore, quindi sono diventati più importanti anche i forti che le sbarrano; ma se il tipo delle armi rimane lo stesso, a prescindere dai progressi nella gittata e nella potenza di fuoco anche "l'importanza de' punti strategici rimane la stessa": si tratta solo di accrescere la resistenza delle opere mettendo la difesa in grado di far fronte all'attacco. Se dopo Napoleone le fortificazioni sono cadute in discredito, ciò è avvenuto o per la loro posizione, o perché esse non erano più in grado di far fronte al nuovo sistema di guerra e alle dimensioni degli eserciti. Fortificando i punti più importanti della frontiera "sarà impossibile al nemico, nei casi or<linarii, di oltrepassarli e spingersi nel cuore dello Stato prima di averli superati. Di maniera che, per tal forma operando, si combatte il nemico ne1le forti posizioni scelte dal difensore e preparate, ove con una gagliarda resistenza è possibile far decidere la vittoria in loro favore, o almeno di rendere la guerra penosa pel nemico". Inoltre Luigi Mezzacapo prendendo spunto dalla guerra di Spagna 1808-1813 indica per le piazze anche la funzione di punto di appoggio per le insurrezioni popolari e per la guerriglia contro up. esercito invasore che, pur avendo sconfitto le forze regolari in campo aperto, non è riuscito a espugnarle tutte; "sicché gli invasori [in Spagna] si videro nella necessità di dividere le loro forze, e darsi ad una sequela di numerosi e sanguinosi assedi, i quali rendevano sempre incerta ed incompiuta la conquista, e davano campo agli eserciti inglesi di accrescere, rafforzare e farsi nucleo ad un'ostinata difesa di quella regione ...". Certamente le fortificazioni non bastano, e "la speranza della difesa convien riporla in forte e agguerrito esercito stanziale"; ma affinché questa difesa riesca efficace "il generale deve potersi muovere liberamente, ricusare o accettare la battaglia a tempo

64•

Si veda, ad esempio, L. Mezzacapo, Alcune idee nell'uso delle fortificazioni per la difesa degli Stati, "Rivista Militare" 1856, Vol. ll pp. 155-191; ID., Alcune considerazioni militari sul Piemonte, "Rivista Militare" 1858, Vol. m pp. 113-179; ID., Sulla difesa del Piemonte, "Rivista Militare" 1858 Voi. IV pp. 283-309.


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e luogo, minacciare il nemico sul punto debole, costringerlo a falsi movimenti per profittare prontamente, e moltiplicare le sue forze con movimenti celeri, ben pensati e meglio eseguiti; cose tutte che possono farsi con un buon sistema di fortificazione"65 • A parte queste idee, la parte veramente nuova del libro rimane quella dedicata alle forze marittime, che per la prima volta diventano vere protagoniste della difesa. Probabilmente su questi orientamenti pesano sia la formazione militare degli autori (provenienti da un regno peninsulare dove la flotta ha sempre contato molto di più che in Piemonte), sia le loro esperienze di protagonisti della difesa della piazza marittima di Venezia, che Luigi Mezzacapo aveva raggiunto per mare sostenendovi poi invano la necessità di ricostituire una buona flotta. La guerra marittima viene vista esclusivamente come coadiuvante per le operazioni terrestri dei due contendenti, avvalendosi di molteplici basi, le cui caratteristiche sono minutamente valutate; la difesa della Sardegna e della Corsica (considerata isola italiana) è affidata interamente alle forze marittime, mentre per la Sicilia si ritiene possibile un'invasione dal continente, anche se chi la difende ha il dominio del mare. Alla fin fine, sia in campo marittimo che terrestre il minuzioso esame condotto porta spesso gli autori a dare eccessivo rilievo alle caratteristiche tattiche delle posizioni a discapito del loro valore strategico. Ne discende l'indicazione di un numero eccessivo di punti da fortificare, anche se sul piano generale essi riconoscono, come si è visto, che non devono essere troppi; mancano anche chiari riferimenti alle priorità in campo nazionale, né si tiene conto della compatibilità di quanto proposto con le prevedibili risorse disponibili. Certe affermazioni appaiono lapalissiane, come quando per impedire che le forze nemiche sbarcate si assicurino una sicura base di operazioni essi ritengono necessario fortificare "non pure i porti militari e gli stabilimenti marittimi, ma anche i grandi porti commerciali, le penisole che fiancheggiano sovente le grandi rade, non che gli ancoraggi importanti"66 • E, per rimanere nel campo marittimo, nel citato articolo Sulla difesa del Piemonte Luigi Mezzacapo in polemica con il capitano belga Van der Velde (secondo il quale almeno per una piccola flotta come quella piemontese La Spezia sarebbe preferibile a Genova) sostiene la necessità di fortificare e attrezzare ambedue le basi, senza chiedersi dove e come trovare le risorse. La tendenza a moltiplicare i punti da fortificare senza fare i conti della spesa necessaria è resa ancor meno accettabile dai mancati accenni alla fortificazione campale (allora detta "passeggera") come mezzo assai meno costoso (e assai più rapido e flessibile) per accrescere il valore impeditivo del terreno, in particolar modo nell'Appennino. Comunque, in una nota alla fine del libro, forse per rintuzzare o prevenire le critiche, gli autori tentano

~

ivi.

... · C. e L. Mezzacapo, Op. cit., p. 589.


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di dimostrare che il numero di punti fortificati da loro indicati non è eccessivo; ma lo fanno stabilendo paragoni alquanto impropri con la Francia, il Belgio e l'Olanda. La Francia ha 80 piazze terrestri (delle quali due "immense", Parigi e Lione, e molte altre di prim'ordine) e 19 marittime (tra le quali i grandi porti di Tolone, Brest, Rochefort e Cherbourg); al confronto si vedrà che le piazze terrestri italiane sarebbero meno che la metà di quelle di Francia, le marittime due o tre di meno, il numero de' punti fortificati e de' porti commerciali poco maggiore della metà di quelle di Francia, ma eccederebbe il numero de' forti. Di maniera che nel totale i punti fortificati sarebbero di numero presso che uguale ne' due paesi 67 • Paragone che avviene tra grandezze non omogenee. La Francia ha ben maggiori risorse, ben maggiore estensione territoriale e ben diverse caratteristiche geografiche rispetto all'Italia; Belgio e Olanda sono più piccoli, ma anch'essi Stati ricchi e con diverse caratteristiche geografiche; molto dipende anche da quantità e qualità delle forze terrestri e marittime e dal ruolo che si intende assegnare loro; insomma il ruolo della fortificazione dipende principalmente dalle peculiarità geostrategiche di ciascun paese. Troppo ambizioso anche il ruolo "terrestre" che gli autori vorrebbero assegnare alle basi marittime, e specialmente a Genova. La Spezia, Livorno e Venezia. Dovrebbero servire c ome punti di appoggio per "milizie" destinate a molestare alle spalle e sui fianchi un esercito invasore, in quanto la ristrettezza del terreno della parte peninsulare d'ltalia rende, strategicamente parlando, difficile all'assalitore girare le linee di difesa [...]. E poiché le medesime ragioni tolgono ai difensori ogni facoltà di comunicare per via terra con le provincie occupate dal nemico, riluce la necessità per gl'ltaliani d'essere padroni del mare [nostra sottolineatura - N.d.a.] e d'avere lunghesso le coste vari punti forti, siccome Venezia e Genova; i quali facciano abilità di esercitare la loro influenza sulle province occupate, tenervi alta la bandiera nazionale, offrire de' punti di appoggio e di rannodamento agli sforzi delle guardie cittadine e delle milizie; non che per servire come basi di operazioni e punti di deposito, per ordinare nuove forze, spedirvi per via di mare alquante truppe, e tentare operazioni secondarie sulle comunicazioni dell'avversario"". · Una strategia interforze della quale troviamo già traccia negli scritti di Guglielmo Pepe, il quale peraltro non accenna alla possibilità da parte del[' Italia di dominare il Mediterraneo, anzi - dimostrandosi assai più realista - dà per scontato che sia dominato da altri. Corrisponde nelle grandi linee

67 ivi, pp. 593-594. '"· ivi, pp. 291-292.


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agJi ordinamenti proposti dal Pepe anche l'importanza che i fratelli Mezzacapo danno alle milizie, con tale termine intendendo reparti a più breve ferma (quindi poco costosi) reclutati localmente e chiamati alle armi solo a11'emergenza, con compiti meno impegnativi di que11i de11'esercito stanziale: cioè "milizie ben ordinate alla maniera delle svizzere o della Landwehr prussiana, non già guardie nazionali, e molto meno riunioni tumultuarie di volontari o di guerrig1ia; ]e quali possono sino a un certo punto, riuscire utili per molestare il nemico, ma sfuggono ai calcoli strategiCÌ"('9• Esse liberano l'esercito stanziale di prima linea da compiti secondari, consentendogli anzitutto di trarre il massimo vantaggio possibile da11e fortificazioni. Il ]oro compito più redditizio è il disturbo delle comunicazioni a11e spa11e del nemico: a tal fine gli autori non escludono il ricorso da parte loro alla guerra per bande, in modo da costringere il nemico a dividere le forze. In tutti i casi, esse devono coordinare 1' azione con quella delle forze regolari: "l' esercito permanente, allora, opererà nei luoghi aperti e più importanti; le milizie nei terreni rotti e accidentati, in su i fianchi e a11e spalle del nemico". L'individuazione dei terreni difficili come campo d' azione più idoneo per le milizie vale prima di tutto per la difesa delle Alpi, nella quale gli autori assegnano loro un ruolo assai vicino a quello più tardi richiesto alle truppe alpine nate nel 1872. Essi sono ben lungi da] ritenere il rilievo alpino un ostacolo trascurabile: polemizzano anzi apertamente con "quegli accreditati autori mi1itari, che discorrendo della difesa delle Alpi occidentali dal lato dell'Italia, intendono negarle in gran parte l'importanza che meritano come linea di difesa''70. La loro formula difensiva si mantiene lontana dai due sistemi opposti, ambedue da loro definiti "assurdi": una difesa avanzata a cordone, nella quale si presidia tutto ma si è deboli dappertutto, e una difesa che mantenga ]e forze riunite nell'alta pianura padana a ridosso delle Alpi, senza sfruttare con un appropriato dispositivo il loro valore impeditivo. Per trarre vantaggio da posizioni forti, che consentano a poche forze di respingere gli attacchi di forze molto superiori, occorre una difesa delle Alpi attiva e molto mobile, e "conviene che le truppe, anzi che tenersi immobili in talune forti posizioni, stiano sempre pronte a prenderne altre, per opporsi ai divisamenti del nemico e costringerlo ad attaccare, con manifesto suo svantaggio, in posizioni forti precedentemente scelte e studiate". Occorre, in particolare, sfruttare a fondo talune favorevoli circostanze. Anzitutto la forma a semicerchio con la convessità all'esterno delle Alpi Occidentali favorisce più il difensore che 1' attaccante, per due ragioni: perché il difensore, che percorre solo una corda dell'arco, può spostarsi molto più rapidamente dell'attaccante, costretto a percorrere tutta ]a circon-

"' 10 ·

ivi, pp. 461-462. ivi, pp. 335.


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ferenza; e perché la convergenza delle valli nel caso specifico non rappresenta un gran vantaggio per l'invasore e non consente la riunione delle sue forze, costrette a percorrere valli separate e distanti tra di loro, senza possibilità di concorso reciproco e di comunicazioni. In tal modo le forze nemiche non sboccheranno tutte insieme in piano, mentre il difensore, sfruttando la sua posizione centrale, potrà ostacolare la riunione delle colonne nemiche e batterle separatamente prima che si uniscano. In secondo luogo, le valli che possono essere sfruttate dall'invasore come vere e proprie linee di operazione sono poche e facilmente sbarrabili con forti di relativamente semplice costruzione. Per la difesa delle valli secondarie, invece, sono sufficienti "corpi di milizie [reclutati localmente N.d.a.] incalzate da piccola mano di truppe permanenti". Per sbarrare le valli principali non sono comunque sufficienti le fortificazioni: occorrono anche forti distaccamenti dell'esercito permanente, i quali "appoggiati alle fortezze, si spingono ad occupare talune posizioni innanzi, per costringere l'avversario a sviluppare poderosi attacchi e quindi svelare i suoi disegni dall'inizio del movimento". Con questa linea d'azione si ottiene anche lo scopo di ritardare il movimento dell'invasore, dando tempo alla massa principale di forze dislocata più indietro in pianura sulla prima via parallela alla catena, di accorrere là ove si profila il pericolo1 1• In questo quadro si trova già in nuce l',idea delle truppe alpine, a torto attribuita dalla comunis opinio al capitano (poi generale) Giuseppe Perrucchetti, oppure (come di recente, ha sostenuto Pier Giorgio Franzosi) al tenente colonnello (poi generale) Agostino Ricci12• Ciò avviene, ad esempio, quando gli autori accennano agli antichi forti - non più riedificati ~ che sbarrano le valli Varaita e Pellice, osservando che

non pertanto la loro esistenza sarebbe utile per appoggiare i corpi secondarj che guardano quelle valli, e ancor più per servire di appoggio alle milizie alpigiane [nostra sottolineatura - N.d.a.] per operare alle spalle e sulle comunicazioni dell'invasore ...7' . Ancor più chiaro e precorritore l'accenno alla futura formula delle truppe alpine, alle loro peculiarità, alla loro azione quando gli autori dimostrano che per il nemico sarebbe assai difficoltosa l'occupazione del Tirolo italiano, a causa delle numerose e forti posizioni che vi favoriscono la difesa; però quest'ultima si renderà ancor più efficace, se un forte ordinamento di milizie ritempri l'animo e le forze delle popolazioni italiane. Quel labirinto di montagne e di pa~si conosciuti soltanto dagli abitanti dei luoghi, 7

ivi, pp. 339-342. Cfr., in merito, F. Botti, Fanteria polivalente , "Rivista Militare" n. 6/1996, e P.G. Franzosi, "Rivista Militare n. 2 e 3/1985. "- C. e L. Mezzacapo, Op. cii.. p.355. 1.

12.


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può dar campo a mille combinazioni e operazioni ardite sulle comunicazioni dell'invasore. I forti dello Stelvio, del Tonale, del Caffaro, quelli delle valli del Piave, dell' Avisio, di va] Sugana e Vali arsa, mentre che arrestano le operazioni del nemico, sono opportunissimi a favorire le operazioni delle milizie lombarde e venete sulle comunicazioni e su i fianchi dell'attaccante, tentare di rioccupare gli stretti e i forti aJle sue spalle e ridurlo in critica posizione. Per la qual cosa quegli sarà costretto a fare molti forti distaccamenti, ed a assottigliare ogni più le sue file, a misura che avanza e va incontro all'esercito principale74 • L'analisi delle possibilità offerte dall'intero arco alpino alla difesa e all'attacco da parte degli autori mette in rilievo i seguenti aspetti fondamentali: "non mai la regola di slargare la base a misura che si prolunga la Jinea di operazione, e di allontanare il nemico dai fianchi, è così importante, quanto in una guerra nazionale in cui concorrono alla difesa le milizie, rinfori;ate dalla natura montana del paese; la quale, togliendo in gran parte l'uso della cavalleria e delJ'artiglieria [si veda anche il Pepe - N.d.a. l non che quello delle grandi manovre, permette a semplici corpi di milizie di resistere alle truppe meglio agguerrite". Questo fatto svantaggia grandemente l'attaccante, costretto a occupare anche le valli laterali per proteggersi i fianchi, disperdendo in tal modo le forze; se Torino fosse fortificata "conserverebbe oggi, come sempre una grande importanza rispetto alla frontiera delle Alpi, come punto centrale, grande piazzaforte di deposito, e punto di appoggio all'esercito sulla importante linea strategica del Po"; le Alpi Orientali offrono le posizioni meno forti alla difesa. E qui l'analisi dei Mezzacapo si colora di particolare interesse, perché dedica largo spazio alle posizioni sulle quali si sarebbe combattuta la guerra 1915-1918, con parecchie intuizioni che gli avvenimenti dimostrano centrate. Basti citare gli accenni all'importanza e alla forza difensiva della linea dell'Isonzo, alla possibilità di aggirarla discendendo per Caporetto su Cividale, al Piave come prima valida linea difensiva dopo l'Isonzo, all'importanza della conca di Tarvisio e delle strette di Plezzo e Chiusaforte, alla possibilità di aggirare la stessa linea del Piave discendendo dal Tirolo, e infine, alla linea del1' Adige come ultima barriera contro penetrazioni da Est. .. ; Venezia (che Mezzacapo aveva validamente difeso nel 1848) è "una piazza fortissima, e diremo quasi imprendibile, ogni qualunque volta comunichi col mare". Nel 1849 ha ceduto solo perché soffocata dal mare e mancante di viveri e munizioni; "la sua posi-

" · ivi, pp. 383 e 392.


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zione sul mare e sul fianco destro deJla Jinea d'operazione dall'Isonzo verso l'Adige, la rende molto acconcia come base d'operazione e piazza di deposito per corpi secondari, precipuamente composti da milizie; i quali possono ivi raccogliersi per via di mare quando occorra, e ricevere tutti i soccorsi necessari per operare nel Veneto alle spalle del nemico ..." (Genova ha un ruolo analogo nei riguardi di penetrazioni dalla Riviera di Ponente alla pianura padana). In conclusione, dimostrandosi ancora una volta assai ottimisti gli autori ritengono possibile far validamente fronte anche a un'invasione attraverso l'intero arco alpino, perché l'Italia può mettere in campo "un esercito stanziale di cinquecento e più mila uomini, quando non si voglia eccedere la proporzione comune del 2 per I 00 deJla popolazione; e però può tenere nella valle del Po presso che 400.000 uomini, e fornire tre eserciti di 100.000 uomini ciascuno per le tre frontiere, ed averne un quarto di riserva per accorrere dove lo richieda il bisogno". Il tratto vitale dell'intera frontiera alpina è il settore centrale, perché "forzato il passo su questa, i due eserciti messi a difesa delle altre due frontiere potrebbero trovarsi tagliati dal Po; perocché le truppe nemiche che avessero superato le Alpi nel centro, troverebbonsi più prossime a quel fiume che non gli eserciti difensori i quali fossero verso le Alpi Occidentali o sull'Isonzo"75 • Peraltro la difesa ha ugualmente ottime chances, perché può appoggiarsi alla zona compresa tra il Ticino, l'Adige e le Alpi centrali; qui occorre concentrare centomila uomini "coadiuvati dalle milizie delle alte valli tirolesi e lombarde", con l'esercito di riserva orientato ad intervenire anch'esso prima di tutto in questo settore, il cui possesso consente di "liberamente comunicare con le milizie de' monti, non che con quelle della riviera di Genova e con le altre di Venezia"76. Alla linea del Po gli autori attribuiscono come il WilJisen grande importanza, indicandola quale seconda linea di difesa dopo le Alpi. Deve essere presidiata da forze dislocate su11a sua riva destra, appoggiata a varie fortezze "per coprire i ponti, fare libertà di difensori di manovrare liberamente, ed offrir loro posizioni centrali e perni di manovre offensive" 77 • La sua destra non può essere aggirata, perché si appoggia al mare Adriatico. Per evitare l'aggiramento sulla sinistra, anche per i Mezzacapo - come per l'Orsini - acquista fondamentale importanza la posizione di Stradella (riva destra del Pò), la quale deve essere fortificata mettendola in sistema con la piazza di Pavia (riva sinistra), tanto più che il tratto del Po fra Pavia e Stradella è breve e facilmente difendibile. In tal modo lo spazio compreso tra le due piazze e il corso intermedio del fiume "forma quasi una posizione sola,

75 · 76

n.

ivi, pp. 429-430. ivi, p.452. ivi, p 437.


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difesa da una guarnigione composta in gran parte da milizie, e sostenuta da tutto l'esercito mobile, il quale può operare liberamente per Pavia e Stradella, costruendo due ponti di barche protetti da quest'ultima piazza"78• Inoltre per rafforzare la linea del Po nel centro "vorrebbesi una piazza fra Cremona e Mantova, e forse a Casalmaggiore". Per quanto riguarda Alessandria, nel citato articolo Alcune considerazioni militari sul Piemonte Luigi Mezzacapo polemizza con l'allora maggiore Pinelli, il quale non ritiene conveniente spendere per l'ammodernamento di questa piazza 5 milioni, che potrebbero essere più proficuamente impiegati per affiancare all'esercito una milizia di 120.000 uomini. A suo giudizio Alessandria, posta a cavallo del Tanaro e della Bormida e a poca distanza dal Po, consente di operare sulla riva destra del Po e - con le posizioni di Valenza e Casale - estendere la sua azione anche sulla riva sinistra. In tal modo, la sua funzione è assimilabile a quella di Mantova (che é in sistema con Borgoforte e Piacenza) per l'esercito austriaco. L'Appennino Tosco-Emiliano costituisce la terza valida linea di difesa dopo le Alpi e il Po. Più a Sud tale catena secondo gli autori ha tre caratteristiche fondamentali, che tuttavia continuano a favorire la difesa: limita i movimenti degli eserciti che, per passare da un versante all'altro, devono percorrere strade poco numerose e facilmente sbarrabili con fortezze, consentendo così al difensore una maggiore libertà di manovra; se un esercito invasore procede verso Sud lungo uno dei due versanti, espone le sue comunicazioni agli attacchi del difensore che controlla il versante opposto e i passaggi dell'Appennino; diversamente dalle Alpi, gli Appennini sono ovunque percorribili dalla fanteria, quindi un forte appenninico non potrà mai avere l'importanza di un forte alpino: ma ciò non significa che la fortificazione non sia importante anche negli Appennini, e non vi agevoli il difensore. Per la verità le argomentazioni addotte a sostegno di queste tesi sono tutt'altro che convincenti. Scarsamente realistica, ad esempio, la tesi che il difensore, in talune circostanze, potrebbe "passare la catena, impadronirsi delle comunicazioni dell'assalitore, sbarrare quel versante, aprirsi una nuova via di comunicazione, e tagliare al nemico i mezzi di continuare la guerra, indi ripassare i monti alle spalle dell'esercito nemico, attaccarlo e probabilmente sconfiggerlo". Così come non si capisce bene perché dovrebbe agevolare solo il difensore il fatto che gli Appennini sono in massima parte percorribili dalle fanterie, e che le posizioni devono quindi essere occupate con forze numerose e non con pochi uomini (come è sufficiente fare sulle Alpi); le posizioni possono cadere, e anche il nemico può manovrare, quindi aggirare. Appare poi in almeno parziale contraddizione

711 •

ivi, pp. 437-439 e 447.


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con quanto detto prima, l' affennazione che negli Appennini occorre fortificare "con opere permanenti, a guisa di vasti campi trincerati, capaci di essere guardati con poche truppe [nostra sottolineatura - N.d.a.]" i numerosi punti strategici vitali "che si riscontrano nei punti dove le linee di difesa successive tagliano la catena"79 • Ci troviamo di fronte alla solita propensione a tutto fortificare, per di più senza tener conto che, nel caso specifico, sarebbe sommamente utile la fortificazione campale: "conviene chiudere con piccole piazze e con forti, secondo la natura dei luoghi, tutti i varchi rotabili degli Appennini, e quelli facili a rendere transitabili alle artiglierie". Da notare anche l'atteggiamento interlocutorio degli autori circa la convenienza di imperniare la difesa dell' Appennino sulla piazza di Bologna, concepita come principale sbarramento della strada Bologna-Firenze (la più importante tra quelle che valicano lo spartiacque; al momento, non vi sono ancora ferrovie): essendo Bologna una grande città, se l' esercito dovesse provvederla di guarnigione, assottiglierebbesi di molto, per la qual cosa, volendo difenderla converrebbe affidarne i] carico alle milizie incalzate da poche truppe regolari, soprattutto delle Armi speciali. Forse l'esercito italiano prendendo posizione su i monti alle spalle di Bologna, potrebbe assicurarsi una comunicazione con la piazza e sostenersi manovrando convenientemente contro i] nemico [... ]. Del resto su ciò voglionsi fare attenti studi su i luoghi, e ci basti aver comunicato l'idea[...]. La forma e la natura del terreno alle spalle di Bologna, fa credere probabile che un esercito italiano, il quale non può essere numeroso, quivi [dove? a Bologna o nei costoni alle sue spalle? - N.d.a.] trovi una buona posizione per contendere il passo dell'Appennino al nemico80•

Molto interessante anche le considerazioni sul terreno dei futuri scontri nell'Italia peninsulare fino alla guerra 1940-1943: l'importanza e la forza delle linee del Liri, del Garigliano e del Volturno, della piana di Gaeta, della rada di Salerno, della stretta di Mignano... Un capitolo intero viene dedicato alla possibilità di rispondere all'offensiva partendo dal Sud dopo che l'Esercito italiano è stato sconfitto al Nord e al centro Italia. Anche qui, una visione assai ottimistica che ricorda quella del Pepe: e però gli eserciti italiani, non molestati seriamente, usufruendo i mezzi del Regno di Napoli e delle isole, che in complesso offrono una popolazione di dieci milioni all'incirca, possono accrescere le loro forze, instaurare i danni sofferti, rimettere 1' ordine e acquistare

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ivi, p. 293. ivi, pp. 464-465.


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Ja superiorità numerica sul nemico_ La qua] cosa farà loro abilità di rialzare il mornle de11e truppe con parziali vantaggi, riportati dietro operazioni ben calcolate; non che d'intraprendere diversioni alle spalle del nemico, profittando dei mezzi marittimi per trasportare le truppe da un punto all'altro de11a costa, e congiungerle alle milizie che tengono tuttora il campo (sic), con l'appoggio delle piazze marittime di cui i difensori sono tuttora padroni8'.

Ottimistico anche il calcolo delle forze che sarebbe possibile mobilitare e della possibilità' dell'avversario. Con una popolazione di 27 milioni l'Italia potrebbe mettere in campo il 2% della popolazione di truppe regolari (esercito permanente) e 1' 1% per cento di milizie: in totale 540.000 uomini dell'esercito permanente e 300.000 delle milizie. Detratte le forze necessarie per esigenze interne, per presidiare i forti ecc., rimangono per condurre operazioni 400.000 uomini dell'esercito permanente e 180.000 delle milizie, "senza tener conto che i 510.000 giovani eccedenti i bisogni ordinari potrebbero ricevere un ordinamento, come milizie di seconda chiamata, in battaglioni molto più forti di quelli di linea e di milizie" . Questi uomini potrebbero costituire una riserva oppure fornire le guarnigioni dell'interno, lasciando così i 300.000 uomini di milizia tutti liberi per condurre operazioni campali. Una volta tanto gli autori si preoccupano dell'aspetto economico. Ammettono che chiamare alle armi tanti uomini costa molto, ma alla fin fine è la soluzione più economica: in questo modo, infatti, si rende la guerra breve e si mantengono le operazioni nella fascia di confine, risparmiando al Paese gli inevitabili danni che causerebbe una guerra lunga, nella quale il nemico riesca a penetrare fino all'interno dello Stato. Risulta evidente che un siffatto concetto di difesa esclude, in partenza, che nonostante la massiccia mobilitazione delle nostre forze, quelle dell'invasore (che a sua volta farebbe i suoi calcoli!) risultino pari o superiori, aumentando in tal modo le possibilità di successo dei nostri nemici. E gli autori escludono anche la possibilità che si formi una coalizione di vari Stati, che getterebbero le loro forze riunite contro l'Italia: "una simile coalizione non può che dipendere, o da una condizione eccezionale di cose, o da un grave errore nella politica di uno Stato". Un governo saggio saprà comunque evitare questa jattura procurandosi buoni alleati: "ma supposto pure che l'Italia, in forza di una generale coalizione, sia attaccata da sei o settecentomila uomini, l'invasore probabilmente non potrebbero spingersi più in là di Roma"82• Previsione giustificata da molteplici ragioni: a) possibilità di logorare l'avversario avvalendosi del terreno; b) necessità per l'invasore di lasciare alle sue spalJe consistenti e crescenti aliquote di forze, man mano che procede verso Sud; c) vantaggi generali - a cominciare da "· ivi. pp. 544-545. n ivi, p.551.


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quelli logistici - che offre a un esercito una guerra condotta nel proprio Paese; d) possibilità per il nostro esercito di spostare tempestivamente a Sud gran parte delle milizie e delle forze di riserva mobilitate al Nord e al Centro Italia. Gli autori - come già detto - formulano queste previsioni prima del 1860, quando l'Italia è ancora divisa in vari Stati: ciononostante essi non si preoccupano affatto del modo e delle effettive possibilità di ottenere un'unità d'azione contro lo straniero, ma come tanti altri danno senz'altro per scontato ciò che non lo è affatto, cioè che gli eserciti e le flotte dei due stati militarmente più forti - il Piemonte e il Regno delle due Sicilie operino insieme. Ciò premesso, prevedono che le due flotte riunite potranno senz'altro conquistare il dominio assoluto del mare, in tal modo assicurando il coordinamento delle operazioni dei due eserciti. Essi escludono anche che - come sarebbe logico - l'inizio della guerra trovi gli Eserciti piemontese e napoletano già riuniti al Nord: saranno ambedue schierati alle rispettive frontiere, quindi l'esercito piemontese dovrà sostenere da solo l'urto iniziale, il che non sembra uno svantaggio da poco. Non prevedono nemmeno che l'Esercito napoletano raggiunga a tappe forzate, via terra, quello piemontese: il suo spostamento a Nord dovrà avvenire soltanto per mare. Di qui la necessità che l'Armata Sarda in caso di eventi iniziali sfavorevoli eviti di perdere il controllo di Alessandria, e in caso estremo si schieri in modo da coprire la strada tra Genova e La Spezia, dove saranno riuniti tutti i suoi materiali e depositi: in questa forte posizione potrà durare per qualche tempo. Infine, potrà ripiegare con la sinistra sui monti della Spezia, col centro nella valle della Magra e con la destra a Fivizzano [...]. E però in quest'ultima posizione, la quale copre le comunicazioni con la valle del1' Arno, per Lucca, l'esercito piemontese potrà essere raggiunto dal napolitano, che all'irrompere della guerra sarà mosso a quella volta. Donde si vede l'importanza di Spezia per le operazioni degli eserciti italiani nelle attuali condizioni d'Italia, indipendentemente dall'appoggio che può fornire alle squadre, nel caso che la guerra proceda dalla frontiera occidentale81 • Affinché questo piano riesca, occorre fortificare gli sbocchi dei monti della Riviera di Levante e di quelli della Toscana ad essa più vicini ed occu. parli in tempo, in modo da impedire al nemico di rendere impossibile la riunione dei due eserciti intorno alla Spezia; per scongiurare questo pericolo, occorre anche che il nemico non sia così forte sul mare, da poter effettuare uno sbarco sulla costa. E se il nemico dovesse essere superiore sul mare "conviene che gl'Italiani siano alleati di una forte potenza marittima, la quale, togliendo al nemico l'esclusivo dominio del mare, gli vieti d'indi-

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ivi, pp. 572-573.


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rizzare la sua linea d'operazione per una via, in tal caso, difficile, incerta e pericolosa". La conclusione è che, se gli italiani avranno la superiorità sul mare e un esercito nell'Italia peninsulare, il nemico pur conquistando la valle del Po non avrà piegato l' Italia e sarà soggetto a una controffensiva. In tal modo le forze navali, 1a cui importanza ricorre in tutto il testo, diventano una sorta di force multiplier delle forze terrestri, perché suppliscono alla loro inferiorità strategica. Alla difesa marittima, comunque, gli autori dedicano una specifico capitolo nel quale - dopo aver fatto fino a quel momento della superiorità marittima una questione pregiudiziale per la difesa nazionale, dandola a torto per scontata - considerano anche (come avrebbero dovuto sempre fare) la possibilità che il nemico sia superiore tanto in terra che in mare. Si potranno avere a11ora due casi: che le nostre forze navali siano in grado di contendere al nemico il dominio assoluto del mare [quindi non lo abbiano subito e sicuramente conquistato - N.d.a.], oppure che a causa della loro inferiorità lo abbandonino senza contrasto nelle mani della flotta contrapposta. Nel primo caso le squadre nemiche potranno tentare di sbarcare truppe nelle isole per conquistarle, danneggiar di sorpresa gli stabilimenti marittimi e i porti, operare diversioni e, forse, impedire finanche agl'Italiani di avvantaggiarsi delle piazze marittime, per costringere l'invasore, nella maniera discorsa precedentemente, a distogliere molte forze per la sicurezza delle sue comunicazioni 114 •

Conseguenze, dunque, molto serie: ma subito dopo si sforzano di dimostrare il contrario, in contraddizione anche con le precedenti tesi sulla fondamentale importanza di mantenere il dominio del mare. Anche senza tale dominio - essi affermano - le piazze marittime continueranno ad esercitare la loro influenza sulle operazioni terrestri come punti di appoggio per l'azione delle milizie (eppure Venezia era caduta, come essi stessi affermano, per mancanza di rifornimenti dal mare ... ); l'unico vantaggio che avrà il nemico sarà quello di ridurre senza pericolo le forze da lasciare alle spalle della massa principale dell'esercito. Tutto il ragionamento è evidentemente ancora una volta ottimistico, perché si basa sul presupposto che le piazze marittime non cadano, che contengano valide milizie e gran copia di rifornimenti e che il nemico non effettui quegli sbarchi ai quali pur si accenna: ma ancor più ottimistica è la conclusione che, anche in questo caso, la situazione relativa dei due eserciti contrapposti non muterebbe sensibilmente e che quindi l' invasore verrebbe ugualmente arrestato alfa frontiera napoletana. Se il nemico ha una decisa superiorità navale, invece, "'

ivi, p. 579.


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potrebbe sbarcare considerevoli forze su qualche punto delle Junghe coste d'Italia, basarvisi e di quivi muoversi a conquistare il paese. Guadagnati gli sbocchi degli Appennini pe' quali si comunica dall'una all' altro versante, l'alta Italia troverebbesi divisa dalla bassa Italia; a cagione che, per la configurazione stretta e molto a11ungata della penisola, messo che sia il nemico a cavallo su quei monti, ogni comunicazione per via di terra Junghesso i due versanti, è resa impossibile85• Comunque, anche in caso di invasione da parte di un esercito numeroso quanto basta per conquistare l'Italia, e anche nel caso che l'Italia attui una difesa come proposto dagli autori, i pericoli maggiori verrebbero dal mare: questo "a cagione della sua configurazione, per cui ]a parte settentrionale può essere separata dalla meridionale"86 • Constatazione, però, annacquata in altra parte del testo, quando gli autori concordano con Jomini, secondo il quale una grande potenza terrestre non corre reale pericolo dal1a parte del mare, perché a causa del gran numero di navi da trasporto occorrente per trasportare in una sola volta un corpo di sbarco al completo di cavalli e materiali, non potranno essere trasportati più di 30-40.000 uomini per volta. Tant'è vero che nonostante l'avvento della propulsione a vapore, nel 1855-1856 le due più grandi potenze marittime, ]a Francia e l'Inghilterra, furono in grado di sbarcare in Crimea "non più di 59.000 uomini, scarsamente provveduti di artiglieria, con poco più di 2.000 uomini di cavalleria, e siffattamente difettosi di trasporti e ambulanze che dovevano ricevere giornalmente dalle navi l'occorrente per vivere"87 • Il ruolo delle forze navali viene ancor più annacquato nelle conclusioni del libro, ove su] piano generale si ribadisce la necessità di disporre della superiorità navale per la difesa della penisola e delle isole, ma nel contempo si precisa che "dal danno in fuori di perdere coteste isole, verun serio pericolo v'è da temere dalla parte del mare, per la difesa generale dell'Italia"88. Come dire: il nemico non potrebbe fare quello che invece vogliamo fare noi, cioè aggirare le nostre linee di difesa dalla parte del mare. In ogni caso (e questo è un punto cruciale delle conclusioni) secondo gli autori, per la difesa nazionale almeno a breve termine bisogna contare soprattutto sulle forze terrestri. Infatti il creare un esercito e l'ordinare militarmente un paese, è opera lunga e faticosa; ma il far sorgere una potente marina militare, è opera ancor più disagevole [...]. Ond' è che, una potente marina essendo l'opera lenta del tempo, se mai gl'Italiani, per la forza di straordinari

"'· 86· K7.

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ivi, p. 580. ivi, p. 619. ivi, pp. 595-596. ivi, p. 620.


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avvenimenti fossero d'un tratto chiamati a combattere tutti insieme per un interesse comune, non potrebbero in sulle prime altrimenti riporre le loro speranze che sulle forze terrestri; le quali aggruppate intorno alle forze regolari che al presente posseggono, potrebbero in breve tempo supplire col numero alla loro inferiorità d'istruzione, purché adoperate con intelligenza e con quella prudenza che la qualità delle truppe richiederebbe. In qualche anno di guerra e di buona direzione, possono aversi molti ufficiali e anche generali distinti non che dare alle nuove truppe la consistenza di che difettano in principio"9•

La chiusa del libro è ancora e sempre troppo ottimistica. Per la costruzione delle innumerevoli fortificazioni necessarie non c'è nessun problema, perché il materiale si trova ovunque, e bastano pochi ma buoni ingegneri militari, "alquanto abili operaj e molti contadini braccianti". Per il resto, se gli italiani saranno tutti animati da patriottismo sarà possibile affrontare il nemico con forze e mezzi considerevoli, e "con una politica accurata e con una intelleggibile e prudente direzione di guerra, non disgiunta talvolta [ma questo è il difficile - N.d.a.] dall'ardire" sarà possibile portare le cose a buon fine. Dopo queste affermazioni piuttosto lapalissiane viene l'esaltazione delle for.le navali, ma solo in un ipotetico futuro: converrà in sulle prime star contenti del lieve accrescimento che potranno ricevere le attuali, e gittar le basi di quella potenza marina che deve avere l'Italia; paese eminentemente marittimo, con coste estesissime, e che, per la sua posizione nel centro del Mediterraneo, è chiamato ad esercitare una grandissima influenza commerciale; soprattutto se, in un tempo più o meno lungo, sia col taglio del1' istmo di Suez, ridonata a quel mare la parte d'influenza sul commercio del mondo che la scoperta del Capo di Buona Speranza toglieva.

Le contraddizioni e le valutazioni quanto meno discutibili non riguardano solo il ruolo delle forze marittime: ciononostante, il libro più di tante teorie dimostra non tanto e non solo che cos'è la geografia militare, ma che cos'è la geostrategia e il suo legame costante con la fortificazione. Più di tutti gli autori precedenti i Mezzacapo pongono il problema di una difesa nazionale non angustament~ continentalista, che peraltro ancor più del Saluzzo dà importanza eccessiva ai "punti strategici" e quindi alle fortificazioni anche costiere, indicando delle soluzioni come se non si trattasse sia in campo marittimo che terrestre - di scegliere tra difesa fissa e difesa mobile, mediante divisioni e/o navi, e tra incremento delle forze terrestri e incremento delle forze marittime. A ciò si aggiunga che con troppa facilità gli autori parlano di conquista del dominio del mare da parte italiana, in un

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ivi, pp. 621-622.


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Mediterraneo da secoli dominato dalla Royal Navy prima Marina del mondo; e con troppa facilità ritengono possibile un'efficace difesa anche contro una coaJjzione dei potenti eserciti che l'Italia ha sempre avuto aJJe frontiere. Il loro non è stato il primo tentativo ru impostare una geografia e una strategia nazionale: come si è visto, sono stati maldestramente preceduti dall'Orsini e - sotto taluni aspetti, riguardanti la difesa dell'Italia SettentrionaJe - dal Saluzzo. Desta perplessità anche la tendenza - non nuova - ad estendere oltre i1 dovuto l'influenza delle posizioni, senza considerare realisticamente altri fattori, a cominciare da quelli navali. Ne consegue un' eccessiva fiducia nella possibilità ru proseguire la difesa fino alla punta dello stivale con arrute azioni sulle comunicazioni dell'invasore per dividere le forze, in tal modo smentendo ancora una volta le odierne tesi che gli ammaestramenti della guerra ru Spagna 1808-1813 sarebbero stati ignorati dall 'estabilishment militare italiano. Un altro limite severo - anche se inevitabile - del lavoro dei Mezzacapo, deriva dal fatto che il quadro delle comunicazioni stradali e ferroviarie è quello - in corso di rapido sviluppo - del periodo 1855-1860: ciò significa che non può essere considerato in tutto il suo peso il primario rapporto tra fortificazioni e ferrovie. Sempre per ragioni cronologiche - e probabilmente anche per ragioni dj opportunità politica - gli autori non si riferiscono a una concreta situazione strategica con un dato nemico da combattere, ma partono dal presupposto teorico che l'Italia (cosa che avverrà pienamente solo nel 1919) abbia raggiunto i suoi confinj naturali; ne consegue per i contemporanei la necessità di adattare i risultati della loro analisi a un quadro strategico assai diverso, nel quale perdono in tutto o in parte dj valore le posizioni da fortificare indicate nel libro. Sul!' altro piatto della bilancia, bisogna tener conto che i Mezzacapo sostengono per primi la necessità dj integrare all'emergenza l'esercito permanente a lunga ferma con numerose milizie ben rusciplinate e addestrate sul modello prussiano della landwehr e landstum: esigenza che verrà accolta (in parte) solo molto più tardi, dal 1870 in poi, con le riforme del Ministro Ricotti. Né sono cosa da poco le loro intuizioni sull'importanza e sul ruolo delle milizie alpigiane locali, che a buon diritto li rende più di Agostino Ricci precursori deJJe truppe alpine create nel 1872 dallo stesso Ministro Ricotti. Gli Studi topografici e strategici su l'Italia hanno dunque parecchie luci ma anche numerose ombre, delle quali un serio esame scientifico non può non tenere conto. Vanno apprezzati prima dj tutto come un messaggio morale agli italiani militari e non, per infondere loro fiducia e entusiasmo in vista delle prossime inevitabili guerre. Al tempo stesso, sono un serbatoio inesauribile dj spunti e riflessioni per "addetti ai lavori", come tali compilate con grande professionalità: vanno perciò viste come un'analisi "militare" e "professionale" (se vogliamo, anche ortodossa e "regia") che forse vuol contrapporsi a quella mazziniana dell'Orsini e comunque ne colma le lacune con ben altra prufumlità e visione strategica.


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Duole rilevare che i pur illustri autori che fino ai nostri giorni si sono occupati dei fratelli Mezzacapo, oltre a liquidare gli Studi topografici e strategici con poche righe (cosa che non ci sembra giusta), non vanno al di là di lodi del tutto generiche, rinunciando sistematicamente a qualsivoglia approfondimento. Così fa anche Nicola Marselli, limitandosi a riconoscere loro il merito di aver iniziato in Italia gli studi geografici91\ Affermazione inesatta per due ragioni: perché non si tratta di semplici studi di geografia militare e perché il loro iniziatore in una prospettiva nazionale è stato se mai l'Orsini, per non parlare del Pepe. Sia pure su una scala più ristretta, troviamo poi gli studi dei piemontesi Morelli di Popolo, Saluzzo, Balbo9 1, oltre che quelli del napoletano Carlo Pisacane (autore di una Memoria sulla frontiera Nord-Orientale del Regno di Napoli) e di altri collaboratori del!'Antologia Militare suoi conterranei. Nel 1885 Giuseppe Ferrarelli dedica sulla Rivista Militare un certo spazio agli Studi, indicandone con esattezza - anche se in modo troppo freddo e sommario - i contenuti, e precisando che riflettono le idee di Napoleone92 • Nel 1908 Ugo Pesci, il principale biografo di Carlo Mezzacapo, si limita a definirli "un'opera classica di istruzione militare'"'3. Poco prima il colonnello Lodovico Cisotti, direttore della Rivista Militare, ne parla come di "uno scritto magistrale e originale", perché "per la prima volta dopo l'antica Roma [i due fratelli] sciolsero il problema della difesa nazionale nella ipotesi che poi divenne realtà, di tutta Italia degli Italiani"94. Anche secondo lo Sticca si tratta di "un capolavoro" che occupa un "posto primario", anzi di "una delle più robuste concezioni del pensiero militare contemporaneo"95• Ne attribuisce però il merito a Carlo Mezzacapo, del quale sarebbe "1' opera capitale" (del ruolo del fratello Luigi e delle sue opere non parla); e ricorda - indirettamente confermando le lacune e gli aspetti precocemente "datati" del libro - che Carlo Mezzacapo più tardi avrebbe declinato l'invito del Perrucchetti a aggiornarlo, ritenendo che l'opera, quale che sia, ha l'importanza che le viene dall'epoca in cui fu pubblicata [... ]. Nella poco lieta condizione nostra [di esuli a Torino nel 1853-1856 - N.d.a.], difettiva di studi seri e di mezzi per procurarci le notizie occorrenti, le inesattezze nelle quali potemmo essere incorsi trovano la loro giustificazione. Invece, ripubblicando l'opera quando eravamo in alte posizioni, faceva mestieri riarrangiarla da capo a fondo, perché rispondesse

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N. Marselli, La guerra e la sua storia (1875), Rist. Schioppo, Torino 1930, p.185. Per Balbo Cfr. Vol. I, cap. XI. Di lui lo Sticca ricorda anche un Panorama Militare delle Alpi (G. Sticca, Gli scrittori militari italiani, Torino, Cassone 1912, p. 187). G. Ferrarelli, Tl generale Luigi Mezzacapo e i suoi tempi, "Rivista Militare Italiana", Vol. ill - settembre 1885, pp. 420-421 . U. Pesci, Il generale Carlo Mez:zacapo e il suo tempo, Bologna, Zanichelli 1908, pp. 51-52. L. Cisotti, Cinquantesimo anniversario della "Rivista Militare Italiana ", Roma, Voghera 1906, p. 6 . G. Sticca, Op. cii., pp. 291 e 313-316.


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alle mutate condizioni; la qual cosa richiedeva troppo tempo e lavoro non lieve e prudenza non poca ad emettere opinioni ...

Et de hoc satis: notiamo anche che, a parte queste lodi, assai poca attenzione viene dedicata al libro dell'Orsini, pur favorevolmente citato dallo Sticca come "uno degli studi più notevoli di questo scorcio di cinquantennio"96. Per queste ragioni abbiamo ritenuto necessario rendere all'Orsini e ai Mezzacapo il posto che loro spetta, nella convinzione che si tratta anche del miglior modo di onorarli.

SEZIONE IV - Verso la prima guerra nazionale (1861-1866): Dal Mincio o dal Po? Con il R.D. del 23 gennaio 1862, a qualche mese dalla nascita del nuovo Regno d'Italia, viene nominata una Commissione Permanente per la difesa del Regno presieduta dal principe Eugenio di Savoia-Carignano e incaricata di concretare il "Piano generale della Difesa dello Stato". Ne fanno parte i generali Bariola, Brignone, Cerroti, Ricci (Giuseppe Francesco; da non confondere con Agostino Ricci, eminente scrittore militare del tempo), Cosenz, Petitti, Valfrè, Menabrea, Pettinengo, Pianelli e l' ammiraglio Carlo Longo (proveniente dalla Marina napoletana, che sarà presidente del Consiglio Superiore di Ammiragliato nel 1868). Brillano, quindi, per la loro assenza proprio i fratelli Mezzacapo, pur autori dei lunghi e pregevoli studi dei quali abbiamo riferito; non è comunque vero, come sostengono taluni, che della commissione non facciano parte ufficiali di marina. A parte l'ammiraglio Longo, il principe Eugenio di Savoia, che la presiede, è uscito guardiamarina nel 1841 dal Collegio Navale di Genova, e dal 1844 al 185 l ha comandato la Marina sarda; 97 la commissione, comunque, considera attentamente - com'è naturale - anche la problematica della difesa marittima. Nel 1866 il piano è pronto, ma la guerra del 1866, la conseguente annessione del Veneto e infine la liberazione di Roma nel 1870 impongono di aggiornarlo e, al tempo stesso, di tenere conto della critica situazione del bilancio dello Stato. Di conseguenza solo il 2 agosto 1871 la commissione può presentare le sue conclusioni definitive, accompagnate da un "Piano di . difesa ridotto", nel quale, per economia, si propone la costruzione solo delle opere di maggiore importanza98 • Esauriti i suoi compiti, la commissione è

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ivi, p.313. Cfr. "Enciclopedia Militare", Vol. III p. 626. ••· Cfr. Relazione a corredo del Piano generale di difesa dell'Italia presentata al Ministro della guerra il 12 agosto 1871 dalla Commissione Permanente per la difesa generale dello Stato istituita r.on R.D. del 23 gennaiol862, Roma, Voghera 1871. 97


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sciolta con R.D. del 10 settembre 1871 e le sue proposte sono sottoposte all'esame del Parlamento, che a tal fine nomina un'apposita giunta. In questo quadro, i1 suo lavoro è accompagnato fin dall'inizio da un serrato dibattito, del quale riferiremo sommariamente le tesi più significative; mancano comunque, in questo periodo, studi organici paragonabili a quelli dell'Orsini e dei fratelli Mezzacapo, peraltro in buona parte superati dal rapido sviluppo della rete stradale e ferroviaria e dal progresso delle armi rigate, che aumentando la potenza e la portata delle artiglierie, rende obsolete le vecchie fortificazioni e assai più costose le nuove. D'altro canto lo scenario strategico da considerare muta continuamente a causa degli eventi che si susseguono nel decennio 1860-1870: l'acquisizione della Lombardia (meno le fortezze di Mantova e Peschiera) a fine 1859; il trasferimento della capitale da Torino a Firenze nel 1864; l'acquisizione del Veneto dopo la guerra del 1866, che prolunga lo spazio strategico verso Nord-Est dando all'Italia il controllo totale delle fortezze del quadrilatero (Mantova, Peschiera, Verona, Legnago). Per quest'ultime, si pone il problema dello smantellamento o di una riutilizzazione in funzione di provenienze da Nord-Est (e non più in funzione anti italiana, cioè contro provenienze da Ovest e da Sud). Fanno infine sentire la loro influenza, richiamando l'attenzione sulla difesa delle frontiere marittime, gli sbarchi di corpi cli spedizione francesi a Civitavecchia nel 1849 e nel 1867.

Punti di vista stranieri sul teatro della futura guerra con l'Austria: gli scritti del Price e del Biffart Inizieremo l'esame con due articoli assai interessanti, che, ancorché superficiali e tendenziosi in talune loro parti danno un'idea cli quel che si pensa all'estero del problema difensivo e offensivo del nuovo Regno: Il Veneto e il quadrilatero (pubblicato in Inghilterra da un certo Bonamy Price)99 e L'importanza strategica di Firenze, il Po, il quadrilatero e i suoi punti deboli - studio geografico/strategico (pubblicato in Germania dall' ufficiale del Wtirtemberg M. Biffart) 100 • Pur dovuto a un ufficiale inglese membro del Royal United Service Institute, l'articolo Il Veneto e il quadrilatero intende dimostrare che benché il quadrilatero sia in terra italiana, l' Austria non può rinunciarvi senza compromettere irreparabilmente la sicurezza dell'Impero: quindi deve mantenere il Veneto, perché "la legge della propria difesa è legge suprema nella umana vita". Secondo il Price la frontiera delle Alpi non è affatto sicura, così come nessuna catena montuosa può esserlo: lo prova la storia. E qui il lettore si trova di fronte a una semplicistica e forse strumentale sottovaluta-

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"Italia Militare" Anno I- Vol. Il sett. 1864, pp. 169-199. Milano, Fajini e Comp. 1865.


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zione sia del valore strategico delle catene montuose in generale, sia degli ostacoli che le Alpi Orientali presentano a chi voglia invadere l'Austria: senza la Venezia l'Austria non ha frontiera al Mezzogiorno. Le Alpi non sono una frontiera[ ... ] un paese montuoso è difficile a soggiogarsi, ma è con facilità scarrozzato per ogni verso da un nemico numeroso e potente. Le cime dei monti sebbene altissime, sono tutto al più un velo che nasconde le operazioni dell'avversario. Il generale Clausewitz, la persona più esperta in strategia che possa mai citarsi, asserisce che un attacco ardito e vigoroso abbastanza per commetter battaglia decisiva, raggiunge il suo nemico fin dentro i monti e può anché quivi molestarlo con vantaggio. Il nemico è costretto a sparpagliare le sue forze sopra una vasta estensione di terreno. Egli non sa per quale passo si avanzi l'invasore, e corre pericolo di essere aggirato attraverso quello che non occupa. Il colonnello Mac Dougall ripete le stesse dottrine[ ...]. Egli cita il Duca di Rohan, che difendeva la Valtellina contro gli eserciti d'Austria e Spagna. Per contro, vi è un altrettanto forte sopravvalutazione delle possibilità strategiche e della forza del quadrilatero. TI Price non lo ritiene aggirabile con vantaggio da un esercito che parta dal medio o basso Po; un esercito proveniente dalla riva destra del medio Po, che proceda verso Nord, potrà ben bloccare Mantova, e anche conquistare Legnago: ma dopo aver logorato buona parte delle sue forze in queste azioni, si troverà pur sempre di fronte Verona, uno spazioso campo trincerato ottimamente fortificato "capace di nascondere un intero esercito e munito di vie libere di comunicazione con tutto l'Impero". Invece un esercito che intendesse attaccare il quadrilatero [ma sarebbe proprio necessario un attacco diretto da questa parte? - N.d.a.] dalla direttrice Bologna - Ferrara, oltre a essere costretto a superare un forte ostacolo come il basso Po, potrebbe aggirare Legnago e "piombare alle spalle del quadrilatero tra Legnago e Verona". Ma prima di raggiungere l'Adige ( un fiume dalle acque impetuose e profonde, che come il Po dovrebbe essere superato a viva forza) sarebbe costretto a attraversare una zona paludosa e malsana, dove sarebbe esposto alle malattie. E dopo aver passato l'Adige, "il fianco sinistro dell'esercito rimarrà esposto alle sortite da Legnago, Mantova e Verona, mentre la dritta è costantemente minacciata dagli aiuti [alle forze austriache del quadrilatero] che potrebbero scendere a torme giù dalle Alpi del Nord-Est". Il Price è buon profeta . . quando prevede che una futura invasione italiana non avverrà da Ferrara, e che l'attacco principale al quadrilatero verrà sferrato da Ovest, cioè al confine del Mincio; non confortata dall' imminente guerra del 1866, invece, la sua previsione che anche nella prossima guerra l'Italia sarebbe non alleata, ma vassalla della Francia contro l'Austria. Le tesi dell'ufficiale inglese sono contestate dal direttore dell'Italia Militare, secondo il quale anche ammesso che la Francia "avesse quella gran voglia di andare a Vienna che l' autore suppone" e che preferisse la via del Po a quella del Danubio, l'Italia una volta padrona del Veneto "non


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avrebbe più né bisogno né desiderio di andare a far bravazzate al di là delle Alpi". Un'Italia unita e forte non permetterebbe certo a francesi e tedeschi di azzuffarsi sul suo territorio come è avvenuto per secoli; se si ammettesse che le Alpi non difendono l'Austria, bisognerebbe anche domandare "all'Austria stessa se credesi disarmata verso la Prussia perché non possiede Dresda dinanzi ai monti, alla Francia se creda pericolanti i suoi confini di Sud-Est perché non tiene oltre le Alpi Torino e Alessandria, alla Spagna se le sia assolutamente necessario possedere Tolosa a Nord dei Pirenei per poter vincere". Se un esercito francese o italiano potrebbe sboccare dalle Alpi Giulie verso Nord per minacciare Lubiana e Graz, si deve anche ammettere che, a sua volta, un esercito austriaco sboccato dalle Alpi Orientali potrebbe minacciare Milano, Vienna, Firenze o Roma. Il direttore dell'Italia Militare perciò conclude consigliando il Price "a tener conto un poco meno delle montagne, dei fiumi e delle fortezze e un poco più degli eserciti, che non sono l'ultimo elemento di guerra come sarebbe degli scritti della fatta di quello che ora presentiamo ai lettori". L'articolo del Biffart risulta assai più equilibrato, anche se tutto sommato esagera nell'attribuire all'Esercito italiano contro l'Austria delle chances che a distanza di appena un anno si riveleranno purtroppo inesistenti. Prevede che Roma presto cadrà senza colpo ferire, e che nella prossima guerra tra Italia e Austria l'obiettivo dell'Esercito italiano sarà il Veneto con il quadrilatero e quello della flotta, Venezia. Anche per lui la conformazione geografica del Veneto favorisce l'offensiva contro l'Austria, perché le Alpi Orientali possono essere attraversate da una estesa rete di strade, mentre l'Esercito italiano una volta conquistata la pianura veneta avrebbe "il sommo vantaggio di dominare gli sbocchi delle Alpi, e di concentrarsi presso Schio, Bassano e Belluno; onde dall'uno o dall'altro di questi punti [troppo semplice! - N.d.a.] penetrare nel cuore dell'Austria". La valutazione delle posizioni del quadrilatero da parte del Biffart presenta luci e ombre. Il lato Nord verso le Alpi è debole a causa del pericolo di un'insurrezione del Trentino; debole anche la linea del Mincio, che protegge la strada della Val d'Adige; Mantova, piazza difensiva, è il centro di gravità del1a difesa del fronte Sud del quadrilatero ; Verona, piazza offensiva, è "la grande porta delle Alpi del Tirolo e la chiave della linea del1' Adige". Partendo da queste considerazioni, il Biffart intende dimostrare che "non è verosimile che l'Italia tenti di attaccare il quadrilatero sulla ala destra [cioè verso il Mincio - N.d.a.], nella fronte più forte; e in generale le disposizioni degl'italiani denotano che l'attacco sarà fatto dal mezzodì. Il trasporto della sede del governo a Firenze è in intimo legame con questo divisamento". Infatti Torino, non fortificata, è estremamente esposta ad attacchi sia da Ovest (cioè dalla Francia) sia da Est, cioè dalla parte del Veneto. In caso di attacco al quadrilatero dalla parte del Mincio, la base d'operazione dell'Esercito italiano sarebbe il triangolo Torino - Alessandria Novara, corrispondente alla linea del Ticino: "Torino punto centrale di tutte


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le comunicazioni del Paese, Alessandria chiave della linea del Po, dei passi degli Appennini e dello stretto di Stradella; finalmente Novara, che domina e riunisce le comunicazioni che conducono alla linea del Ticino". Alessandria, potentemente fortificata di recente, "è in comunicazione diretta con Genova per mezzo di una strada ferrata; quindi t1,1tte le forze sparse nel bacino superiore del Po, possono in breve tempo raccogliersi in questo triangolo; e con eguale prestezza potrebbesi qui trasportare materiale da guerra d'ogni specie da Torino, Genova e dal porto militare della Spezia". Insieme con le nuove opere di Casale, essa è destinata a coprire Torino da un attacco proveniente da Est: "la posizione di Alessandria - Casale non solo è assai più forte tatticamente, avendo l'ala assicurata dal Tanaro e dal Po, ma dispone altresì di due passaggi sul Po, per avanzare a suo beneplacito da Alessandria per Voghera alla stretta di Stradella, e da Casale per Mortara verso Vigevano al Ticino. La disposizione della rete di strade ferrate appoggia efficacemente tali operazioni". Per quanto riguarda Torino, il Biffart è tra coloro - non molti per la verità - i quali ritengono che la cessione di Nizza e Savoia, territori al di là della displuviale assai difficilmente difendibili in caso di guerra con la Francia, abbia peggiorato considerevolmente la difesa delle Alpi Occidentali contro la Francia, e in particolare reso malsicura la posizione di Torino. Dopo tale cessione, l'Italia controlla solo lo sbocco de11e valli alpine [non è sempre vero - N.d.a.]; la Francia invece attraverso il Col di Tenda domina la valle del Tanaro e le strade a Sud del Cantone di Ginevra, "chiudendo d'ogni intorno Ginevra medesima". La strada costiera a Sud, il passo del Moncenisio al centro, e quello del Sempione a Nord sono nelle sue mani. Attraverso la valle del Rodano l'esercito francese è in grado di portare ragguardevoli forze su una qualunque di queste tre vie di comunicazione, mentre le altre sono difese da fortificazioni; "tanto più che sul lago di Ginevra occupando esso verso la Svizzera meridionale una situazione minacciosa, potrebbe - inoltrandosi nel Vallese - sopraggiungere facilmente al Ticino e a Milano, senza passare la stretta delle Alpi". Nei riguardi dell'Austria il Biffart esamina solo le possibili linee d'azione di un esercito italiano, che partendo dal Ticino attacchi il quadrilatero. In tal caso potrebbe superare abbastanza facilmente il Mincio, con obiettivo Verona; ma una volta superato il Mincio l'esercito italiano si troverebbe in . difficoltà. Dovrebbe assediare con consistenti forze Peschiera, che di recente è stata rinforzata e che nel 1859 non è mai caduta; dovrebbe prepararsi ad affrontare una battaglia decisiva sotto Verona, la cui triplice catena di forti offre buone garanzie di tenuta; un altro corpo di truppe dovrebbe bloccare Mantova. D'altro canto le forze austriache uscite da Verona, con la protezione dei forti di Pastrengo, potrebbero prendere alle spalle l'Esercito italiano disposto sulle alture di Sommacampagna. E se i contrattacchi di tali forze continuassero "l'assedio di Peschiera diverrebbe un'impresa lenta e tale da paralizzare le forze dell'esercito principale" .


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Ben diverso è il quadro delle difficoltà - assai minori - che incontrerebbe un esercito italiano partente dal basso Po e avente come base di operazione la linea del Po, servita dalla Via Emilia che le corre parallela e dalla linea ferroviaria che congiunge Parma, Modena, Bologna, Ferrara e il porto di Ancona. Con l'ala sinistra appoggiata a Piacenza, il centro a Bologna e l'ala destra a Ferrara, questa base d'operazione sarebbe naturalmente forte; i suoi principali punti di appoggio sul retro sarebbero Firenze e il porto di Ancona. Dati questi vantaggi il Biffart non ha dubbi sui preparativi italiani: "l'Italia riconobbe tali vantaggi, perché scelse e preparò questa base di operazione, la quale soprattutto offre il vantaggio di poter dirigere l'attacco alla fronte più debole de]]'obiettivo". Piacenza e Bologna sono state di recente fortificate, Piacenza ha importanza pari a quella di Bologna. Quest'ultima piazza ha "importanza speciale", e di recente è stata trasformata in campo trincerato recingendola con una catena di forti staccati. Può contare sull' abbondanza di vettovaglie, ed è il punto d'incontro delle ferrovie di Ferrara, Modena e Pistoia, e delle strade di Ravenna e Mantova. In ogni caso il forzamento della linea del Po da parte dell'Esercito italiano non sarà difficile, perché l'Austria non si è preoccupata di rafforzare il lato meridionale del quadrilatero collegando a mezzo ferrovia Legnago sia con Verona che con Mantova e assicurandosi il controllo dei passaggi sul Po con idonee fortificazioni (ciò è avvenuto solo nella testa di ponte di Borgoforte). Per contro, sempre per il Biffart dopo il trasferimento della capitale a Firenze l'Esercito italiano attaccando nel basso Po non espone più (come sosteneva la Gazzetta Militare Austriaca nel 1861) le proprie linee di comunicazione, che sono date dall'asse Ferrara - Bologna - Firenze. E una volta passato il Po, l'assalitore non solo tiene in sua mano il passaggio del Po a Piacenza, che gli pennette di avanzare contro Mantova sulla riva settentrionale del Po; ma è pure in grado, quando abbia forzato il passaggio del Po muovendo da Ferrara a Pontelagoscuro o a Polesella, di avanzare per Rovigo, di fortificarsi nella posizione di Este e Monselice; e coli' occupazione di Padova rendersi padrone delle principali comunicazioni del Quadrilatero, e della ferrovia di Vienna e di Trieste. Un'insurrezione dei veneti ne sarebbe certo la conseguenza immediata, e il quadrilatero sarebbe ridotto alla triste condizione di vedersi intercettate le sue comunicazioni; poiché la strada lungo la valle dell'Adige potrebbe essere minacciata e presa per una contemporanea invasione del Trentino. Lo studio si chiude con l'enumerazione dei vantaggi strategici del trasferimento della capitale a Firenze, tutti dalla parte dell'Italia. Definita addirittura "centro e foco degli interessi e della potenza d'Italia", Firenze si presta agevolmente a un'offensiva sia verso Nord e in particolare verso il Veneto, sia verso Sud in direzione di Roma e Napoli; da Firenze si dipartono a raggera buone strade che la collegano con i principali centri del Regno. I collegamenti con il Mezzogiorno sono meno agevoli, anche perché


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ostacolati dalla_presenza francese a Roma; ma a questo può supplire la Marina mercantile e militare. Anche i collegamenti ferroviari sono incompleti; ad ogni modo "una strada di ferro va da Firenze per Ficulle fin quasi al confine romano, e un'altra va da Roma a Napoli. Un'altra ancora da Foggia a Eboli è in costruzione. È progettata la congiunzione ferroviaria dell'Adriatico con Roma per Temi. Quella da Genova per Spezia e Sarzana è in lavoro e progredisce rapidamente". Contro provenienze da Nord Firenze può essere protetta sbarrando il passo della Futa e le strade da Panna e Modena con un campo trincerato da costruire nel triangolo Le Piastre - Monte Petri - San Marcello; contro provenienze dalla costa occidentale tirrenica si dovrebbe fortificare la linea Lucca - Pisa - Pontedera. Attacco al quadrilatero dal Mincio o dal Basso Po? Piacenza o Bologna? I pareri di Carlo Corsi, Luigi Mezzacapo e Pietro Valle Gli studi degli autori italiani del periodo dimostrano - in modo quasi sconcertante - quanto la trama politica e strategica della pur vicina guerra del 1866 si mantenga lontana dalle previsioni della vigilia, che concordemente prevedono l'Austria più o meno appoggiata dalla Prussia in nome delle non nascoste mire adriatiche della Confederazione Germanica, e l'Italia alleata della Francia. Il lavoro maggiore e più ampio è Italia e Austria di Carlo Corsi mi; più specifici e meno approfonditi, anche se per ragioni diverse interessanti, quelli di Luigi Mezzacapo e di Pietro Vallew2; i rimanenti sono scritti minori. Inizieremo, comunque, da un articolo poco noto e non firmato (quindi attribuibile allo stesso direttore Carlo Cattaneo, o a un suo stretto collaboratore) pubblicato dal Politecnico nel 1862103, dal quale si può dedurre quali territori deve comprendere il confine orientale tra Italia e Austria. Inoltre le tesi di fondo che vi sono sviluppate ancora una volta confermano quanto abbiamo già sottolineato nel Voi. I: non è vero che il Cattaneo, pur mantenendosi sempre federalista e antipiemontese, dopo il 1848-1849 sia stato anche antitaliano, non abbia sentito la necessità di una Patria italiana unica, unita, forte e libera. L'esordio dell'articolo già ne riassume i contenuti:

1 1 •

C. Corsi, Italia e Austria, "Rivista Militare Italiana" Anno VI - Voi. IV - aprile 1862, pp. 3-41; Anno VU Voi. J luglio, pp. 3-24; Anno VII Voi. I agosto 1862, pp. 137-164, Anno VU Vol. I settembre 1862, pp. 203-225. ••~ L. Mezzacapo, La difesa d'Italia dopo il trasferimento della capitale a Firenze, "Italia Militare" Anno II - 1865, Voi. VII pp. 5-57; P. Valle, Sulla difesa d'Italia, Pavia 1866 (dato alla stampa a fine gennaio, cioè prima della guerra). Del Valle va inoltre ricordata la Geografia esposta compendiosamente e dedicata alla gioventù dell'Esercito Italiano (Modena, Tip. Cappelli 1870) che si ispira a Lavalleé, Rudtorffer, Mezzacapo ecc., descrive le cinque parti del mondo e dal punto di vista militare va ricordata soprattutto per i dati statistici sul nostro Esercito. 0 ' ' · La frontiera orientale d'Italia e la sua imporianza, «11 Politecnico» 1862, pp. 172- 18"/.


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noi oggi volgiamo uno sguardo all'Istria, a questo estremo lembo della penisola, che non solo divise con noi i lutti e le prove della Patria, ma per anni molti subl la maggiore di tutte, quella di essere da noi obliata [... ]. Ricordiamoci! Ricordiamoci che la Porta Orientale d'Italia non sarebbe sicura, senza quell'ultima frontiera dell'Adige; né l'Adriatico sarebbe nostro ove fossero d'altri quei lidi portuosi. Pensiamo quale derisoria indipendenza sarebbe la nostra, se sul canale italiano dell'Adriatico, sulla via marittima che sta per divenire la strada maestra dei commerci tra l'Europa Centrale e l'Oriente, le navi nostre dovessero passare sotto il cannone austriaco. Con ampia messe di riferimenti storici viene dimostrata l'antica italianità dell'Istria, poi alterata - anche con il contributo di Venezia - dal ripopolamento con sloveni e serbi della parte più inospitale e spopolata delle campagne, lasciando gli italiani - portatori di una cultura egemone nei centri abitati. Si accusa poi il governo austriaco di presentare le statistiche sulle varie etnie come gli fa più comodo, e si afferma che "l'Istria, nei suoi limiti naturali che comprendono Trieste, novera 290.000 abitanti, tra cui 160.000 italiani, 15_()()() slavi italianizzati, e 110.000 slavi tra puri e italianeggianti. Qualche migliaio di tedeschi vive pei commerci in Trieste_ Volendo separare Trieste dal rimanente dell'Istria, spetta alla prima più di un buon terzo dell'intera popolazione italiana della provincia e circa un quinto della slava [... ]. Nel 1848 quanti villaggi slavi furono interpellati intorno alla nazionalità che desideravano fossero riconosciuta a11 ' Istria, risposero l'italiana". Trieste, comunque, vede il commercio del suo porto decadere di anno in anno a favore dei porti tedeschi: "l'unione a un Impero che non ha certezza di pace, né sicurezza di riposo, ma è di continuo travolto in turbamenti e rivoluzioni, non può giovare a una città marittima_ Trieste, incatenata all'Austria, dovrà inevitabilmente assistere alla rovina dei propri traffici, i quali s'avvieranno negli altri porti italiani". A parte le ragioni etniche e storiche, a rendere indispensabile il possesso dell'Istria per l'Italia vi sono anche ragioni strategiche, riferite sia alla difesa terrestre che a quella marittima. "Se ali' Isonzo non si serba la frontiera dell'Alpe, all'Isonzo la si conquista". Se l'Esercito austriaco venisse sconfitto nel Friuli, sarebbe costretto ad abbandonare l'Istria, per non correre il pericolo di essere aggirato dalla parte del mare e di vedere interrotte le sue comunicazioni. Da parte italiana uno sbarco in Istria aiuterebbe molto le operazioni nel Veneto, "come mostra di temere l'arciduca Massimiliano, chiamando l'Adriatico la parte vulnerabile dell'Austria e attribuendoci il pensiero di volerla aggredire da questo lato, anziché assalire le forze trincerate nel quadrilatero". Dal punto di vista marittimo l'Istria, assai vicina all'Oriente, possiede tutto quello che non ha la costa occidentale italiana dell'Adriatico. È assai ricca di rade, di porti e di ancoraggi, mentre sulla costa occidentale essi sono pochi e malsicuri: "gli è perciò che or ora un arciduca austriaco ebbe a dire non poter mai l'Italia tenersi contenta di un litorale [adriaticoj sì ino-


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spite ai naviganti, quando, non più che a sei ore di distanza pe' suoi piroscafi, trova quanto può convenire a qualunque maggiore marina. Infatti l'Istria possiede molti forti e ancoraggi naturali; situata nell'intimo seno del1' Adriatico, si trova nello scalo di quasi tutti i suoi commerci; e per ricchezza e preziosità di selve, abbondanza di carbon fossile e insuperata bravura di marinai, può ordinarsi tutta a grandioso stabilimento marittimo [... ]. Non si ristora Venezia, senza ritornarle la provincia istriana". Nel suo citato saggio L'Italia e l'Austria Carlo Corsi non si sofferma sulla necessità di raggiungere un confine più favorevole e di completare la liberazione dell'Italia dallo straniero, né esamina - forse per ragioni di tutela del segreto - le possibilità e le opzioni strategiche di un'offensiva italiana contro il quadrilatero. Considera l'Austria il nostro aperto nemico insieme con la Roma papale, la quale cadrà "quando la Francia ritirerà la sua mano"; però nega che l 'ltalfa non possa vivere senza Roma, e non ne fa - come l'estremismo mazziniano e garibaldino - una questione di vita e di morte, ma ritiene che bisogna dar tempo al tempo, anche perché "resterebbe a dimostrare se Roma nelle sue presenti condizioni morali e sociali, col suo popolo così facile a scaldarsi e nuovo alla vita libera, potesse essere ora la capitale più adatta per uno Stato come il nostro, che ha bisogno di procedere ordinato il più possibile per assodarsi e trionfare delle resistenze e delle frenesie dei partiti estremi". Dalla situazione de11'Italia e dell'Austria non si limita a considerare solo gli aspetti geografici e/o militari, ma spazia anche nel campo politico-sociale e economico, per individuare meglio le rispettive vulnerabilità e possibilità. Traccia anche un lucido esame del quadro internazionale, dal quale risulta che la Francia è sincera amica dell'Italia; non si preoccupa quindi del confine occidentale, ma solo del confine orientale con l'Austria. È nettamente antinglese, e invece difende la Francia e l'operato di Napoleone III (bestia nera dei garibaldini e mazziniani, che sono amici dell'Inghilterra). Dell'Inghilterra dice giustamente che è benevola verso l'Italia non tanto in nome della libertà dei popoli, ma per gelosia verso la Francia: per questo essa si è mostrata senz'altro favorevole all'unità italiana quando Napoleone III parlava solo di confederazione, e caldeggia la liberazione di Roma mentre la Francia "ci raccomanda la pazienza". Ammette che l'Inghilterra ha contribuito al successo della spedizione di Garibaldi nel Sud . imponendo il principio del non intervento ed è stata anche la prima a riconoscere il nuovo Regno, ma prevede che per il futuro avrà rapporti difficili con l'Italia, dalla quale la dividono ragioni geostrategiche di fondo: anche senza contare la nostra amicizia con la Francia che la punge e la mette in sospetto, vi sono quattro punti che il nostro destino ci spinge a toccare, sui quali i nostri interessi discordano troppo dai suoi per non dover credere che eUa, tanto tenera di sé, debba in un'epoca forse non lontana mostrarsi avversa: e sono la questione orientale, lo sviluppo della nostra


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Marina, il canale di Suez e Malta [...]. Insomma l'Inghilterra (non dico gli Inglesi) vorrebbero vederci liberi, indipendenti, felici ma staccati affatto dalla Francia, occupati interamente delle nostre cose interne, e dimentichi dell'Oriente, di Suez, di Malta e anche del mare che ci sta attorno.

Ben altro, invece, l' atteggfamento del Corsi verso la Francia, alla quale perdona tutto. Definisce Napoleone m "un grande benefattore, un amico assennato e costante" dell'Italia; e pur ammettendo che la Francia possa avere su specifiche questioni interessi diversi dai nostri, ricorda che nella guerra del 1859 "la nostra libertà fu comprata coll'oro e col sangue di quella generosa nazione". Vede nella Russia, nemica dell'Austria e interessata a propugnare la libertà dei mari, la nostra naturale alleata; non così avviene della Germania, e questo ha dei riflessi importanti anche sulla questione dei nostri confini e della nostra sicurezza. Infatti non è facile persuadere i tedeschi che gli italiani non odiano la Germania, che il Trentino, il Veneto e l'Istria non sono necessari alla sicurezza della Germania stessa, e che le sconfitte dell'Austria non fanno torto al mondo germanico: la maggior parte delle corti tedesche e le masse popolari "ci sono avverse per sentimento di offeso orgoglio nazionale, o perché ci giudicano rivoluzionari e amici della Francia, della quale temono ancora la prepotenza conquistatrice". Il riconoscimento del Regno d'Italia da parte della Prussia ci gioverà molto; esso farà crescere anche il partito nazionale germanico, "ma non potremo sperare che la Germania trovi ragionevole e giusto il nostro proposito di ricondurre i confini d'Italia sulle Alpi Carniche e Giulie, finché non siano molto più diffusi e potenti sul Danubio, sull'Elba e sul Weser i principi della nazionalità largamente interpretati". Egli ha perciò il merito di essere l'unico a considerare il problema della fortificazione in un vasto quadro, nel quale oltre a valutazioni della situazione interna e internazionale certamente non estranee al problema tecnico della fortificazione, trova posto una sua ben definita collocazione rispetto alla strategia, che non è certamente quella del Price, del Biffart e di molti autori del periodo. Anche se non cita Clausewitz, il suo approccio si avvicina a quello clausewitziano là ove afferma: le mie osservazioni non saranno esclusivamente basate né su considerazioni di linee e punti strategici né su ragioni geografiche o topografiche, né su storici esempi né sopra considerazioni di valore, di saldezza [ ...]. Una linea di marcia ben studiata, un punto strategico ben scelto, una posizione bene afforzata non hanno di per sé sole tale miracolosa virtù da assicurare il trionfo, come non l'hanno nemmeno il valore delle truppe, le buone armi ed altri singolari argomenti di guerra, per quanto sono perfetti.

Pur ritenendo, come Jomini, che i1 segreto della guerra offensiva consista nel fare massa su un punto determinato geograficamente e pur riconosl:emlu l'irnpurlanza slralegil:a ili akuni punli sul Leatro d'operazioni, il


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Corsi assegna alla fortificazione un ruolo equilibrato; cita favorevolmente Napoleone che scansava le fortezze, e soprattutto, riconosce che "dei tre elementi del campo di battaglia, le armi, il terreno, la virtù manovriera delle truppe, il primo ha vantaggiato tanto da rompere l'accordo con gli altri due". In particolare, nella guerra campale l'introduzione delle armi rigate ha rotto l'equilibrio tra l'offesa e la difesa a vantaggio di quest'ultima, anche se l'offensiva conserva la possibilità di ottenere risultati decisivi. Nella guerra d ' assedio, invece, è avvenuto il contrario: le armi rigate hanno avvantaggiato, sia pur temporaneamente, l'attacco sulla difesa. Ciò avviene perché "le fortezze tutte oggi esistenti [siamo nel 1862 N.d.a.] si trovano in questo momento, rispetto ai mezzi di cui può disporre l'attacco, in condizioni anche peggiori di quelli dei poligoni bastionati del XV secolo rispetto al sistema di attacco del Vauban". Esse sono state progettate e costruite prendendo come riferimento la gittata e potenza delle vecchie armi da fuoco, con un'area troppo piccola di fronte a quella della zona d'attacco attuale; soprattutto "molte di esse si trovano ora soggette al comando di alture che prima erano fuori del terreno di attacco, veggono scoperti i terrapieni delle opere loro, le comunicazioni, i più interni edifici, e in mano del nemico i prolungamenti delle loro più importanti linee di difesa"; e anche se armate con le nuove artiglierie rigate, il loro fuoco sarà sempre meno efficace rispetto a quello dell' attacco. L' unico rimedio è ora quello di recingerle di opere staccate, a tiro di cannone tutto intorno;ma non in tutte le fortezze ciò è possibile, né si possono costruire - anche per non disperdere le forze - molte grandi piazze. In ogni caso, la forza delle piazze moderne è ormai data dalle opere staccate e non dal nucleo centrale: in tal modo "torniamo al proposito delle grandi posizioni fortificate, in cui vengono oggi a darsi la mano la fortificazione permanente e la campale, e a fondersi insieme l'antica piazzaforte e l'antico campo trincerato". Scendendo più nel dettaglio ad esaminare le possibilità che offre il terreno italiano ali' attacco e alla difesa, il Corsi sviluppa tesi spesso diametralmente opposte a quelle del Biffart. Se per quest'ultimo l'Austria non ha un frontiera naturale sicura verso l'Italia, per lui è l'Italia a non avere una frontiera naturale sicura verso l'Austria, fino a fargli affermare che "difficilmente può immaginarsi posizione militare più vantaggiosa di quella del1' Austria verso l'Italia". E se per il Biffart il quadrilatero poteva abbastanza facilmente essere superato o aggirato dall'Esercito italiano partente dal . basso Po, il Corsi ritiene - diversamente anche dai fratelli Mezzacapo - che quella del Po non sia per l'Esercito italiano né una buona linea di difesa né una buona base di operazioni per un'offensiva verso Nord, e che comunque, il quadrilatero - a parte le possibilità difensive che esso offre - è soprattutto un ottimo trampolino di lancio per un'offensiva austriaca sia verso Sud che verso Ovest. In particolare il Mincio e il Basso Po appartengono militarmente e strategicamente agli austriaci. Nel tratto del Mincio tra Peschiera e Mantova il più vulnerabile - l'Austria può fare perno su queste due piazze domi-


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nando i passaggi sul fiume. Il fronte meridionale si appoggia al Po, ostacolo di facile difesa. Poiché l'Austria è rimasta in possesso dell'Oltrepò mantovano, domina per 60 Km i passaggi del Po, che da questa parte sono i migliori: "Là è la testa di ponte di Borgoforte, principale sbocco offensivo contro l'Italia. Mantova, il Serraglio [cioè il triangolo compreso tra il corso del Mincio dopo Mantova e il Po - N.d.a.) e Borgoforte costituiscono una formidabile posizione, la punta, dirò così, di un pugnale che l'Austria ci tiene sul cuore". Dall'Oltrepò mantovano all'Adriatico vi sono solo tre passaggi sul Po che conducono nel Polesine, regione paludosa e tagliata da numerosi canali paralleli al Po; inoltre il passaggio di Occhiobello è "ancora più vantaggioso per gli austriaci che per noi". Poco più a Est c'è l'Adige, che naturalmente il Corsi considera una linea molto forte; dietro l'Adige le linee del Brenta, del Piave e del Tagliamento. Per giunta l'Austria "s'è data ad accatastare fortificazioni su fortificazioni, sul Mincio, sul Po, nella stretta dell'Adige, attorno a Venezia, a Rovigo ..."; né Verona può essere investita da Nord, perché l'opposizione della Confederazione Germanica ci impedisce di invadere il Trentino. Da parte italiana, né gli affluenti di sinistra del Po, né quelli di destra costituiscono un ostacolo paragonabile al Mincio e all'Adige. Non vi è alcuna linea di difesa parallela al confine, ma l'inconveniente strategico principale deriva dalla poca distanza tra la riva destra del Po e l'Appennino. Ne consegue che la principale linea d'operazione e di comunicazione per noi - la via Emilia da Piacenza a Bologna con a fianco la ferrovia - dista dal confine con l'Austria non più di 30 Km, cioè una giornata di marcia. Perciò l'Emilia settentrionale è "vulnerabile in sommo grado, e precisamente là ove è dirella la punta del cuneo strategico dell'Austria". In questa situazione l'Italia - prosegue il Corsi - ha dovuto supplire alla mancanza di difese naturali con difese artificiali. Si è pensato di costruire anzitutto un grande campo trincerato a Lonato, cioé alJ ' estremità sud-occidentale del Lago di Garda: ma il progetto è stato abbandonato perché si è riscontrata la necessità di appoggiarsi alle due rive del Po. Si sono allora prese in esame le posizioni di Casalmaggiore, Cremona e Piacenza. Vicino a Parma e a Modena e al Mincio, Casalmaggiore rispondeva bene alle esigenze, ma la sua stessa vicinanza al confine, con la mancanza di difese naturali da quel lato, lo rendevano inadatto come piazza di concentramento per le truppe della Lombardia. Cremona, più lontana dal confine, si prestava meglio allo scopo, ma oltre ad essere ancor meno di Casalmaggiore favorita dal terreno circostante e dal Po, è troppo lontana da Modena e per essere messa in stato di difesa avrebbe richiesto grandi opere. È stata quindi prescelta Piacenza, perché ha un'antica riputazione di grande importanza strategica, copre perfettamente la stretta di Stradella e tutta la destra dell'alto Po, è assai ben situata rispetto a Milano, coperta dall'Adda e dalla fortezza di Pizzighettone, e per-


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fetta.mente guardata dal Po rispetto alla Lombardia, stando essa sulla sponda destra di quel fiume. La grande linea postale e ferroviaria Alessandria Bologna la tocca. Altre ferrovie dovevano presto congiungerla con Milano, con Brescia. Oltre a ciò ella era già fortificata. Infine, quello è il principale passo del Po. In sistema con Pizzighettone, Piacenza è la nostra base d'operazione in Lombardia e Emilia, alla confluenza del Po e dell'Adda. Essa è collegata con il sistema Alessandria - Valenza - Casale, "ultimo nostro ridotto nell'Italia superiore", tramite la doppia testa di ponte di Pavia che, già fortificata dagli austriaci, è stata conservata come piazza e anzi rafforzata. Poiché Piacenza dista da Modena circa 110 Km e lascia scoperta tutta l'Italia peninsulare, è stata costruita un'altra grande piazza strategica a Bologna; però il Corsi nega che essa possa essere considerata in sistema con Piacenza (e quindi sia veramente utile come piazza strategica), preferendogli Piacenza opportunamente integrata con altre posizioni. Piacenza e Bologna sono, infatti, due grandi fortezze, benissimo situate ciascuna per sé, ma separale ùa grande distanza, da uno sbocco offensivo del nemico [quello da Borgoforte - N.d.a.], da un campo troppo largo e troppo poco profondo; quindi più favorevole all'offesa nemica che alla nostra difesa.L'Appennino, invece di collegarle, si frappone come un grande ostacolo fra loro [... ). Mentre Piacenza copre il Piemonte e guarda innanzi lungo le due sponde del Po mediano, Bologna copre la Romagna e la Toscana, e fronteggia il basso Po. La loro azione offensiva (come centri strategici s'intende) sarebbe convergente; ma l' accordo e l'efficacia ne sono fortemente contrastate dalla troppa prossimità delle posizioni nemiche, specialmente dal lato di Bologna. Affatto divergente è la loro azione difensiva. Per queste ragioni, queste due piazze secondo il Corsi hanno un ruolo strategico divergente, perché in caso di avanzata austriaca dal Po verso Modena, ambedue richiederebbero rinforzi; quindi costruenc:lo questi due grandi campi trincerati è stata ulteriormente peggiorata la nostra situazione strategica complessiva tra l'Appennino e il Po. La soluzione alternativa da lui indicata è la costruzione di un campo trincerato delimitato dal triangolo Piacenza - Parma - Pizzighettone. All' inconveniente delle scarse comunicazioni tra Parma e l'Italia centrale si potrebbe rimediare costruendo una rotabile da Langhirano ( sulla Val Parma, a Sud di Parma) e Castelnuovo Monti (sulla strada che da Reggio conduce a Pistoia); inoltre converrebbe accelerare la costruzione della ferrovia tra Parma e Sarzana e tra Sarzana e Lucca. A questo punto, il Corsi contesta la tesi di coloro i quali assegnano a Bologna il compito di impedire agli austriaci di penetrare nell'Italia Centrale, mentre il nostro Esercito si raccoglierebbe intorno a Piacenza per attendervi l'aiuto francese. Se nel frattempo gli austriaci prendessero anche Bologna - obietta il Corsi - si perderebbero 30.000 uomini, che sarebbero più utili per costituire una massa


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unica sul fianco dell'invasore, il quale non potrebbe scendere verso Sud mentre noi ci rafforziamo sul Po alle sue spalle_ Né sarebbe conveniente appoggiarsi con la massa principale a Bologna, lasciando che l'ala sinistra del nostro schieramento si appoggi a Piacenza per collegarsi coi francesi_ Non è possibile fondare i nostri piani su possibili concorsi stranieri, e "bisogna prima di tutto supporre che gli austriaci ci lascino eseguire il gran movimento di fianco occorrente per trasportare le truppe dalla Lombardia, dal Piemonte e dall'Emilia Occidentale verso Bologna, sfilando rasente all'Oltrepò mantovano [ ... ]. E le comunicazioni ulteriori con Piacenza, la Lombardia e il Piemonte? E chi impedirebbe agli austriaci di correre i Paesi sulla sinistra del Po fino all'arrivo dei francesi?". Il Corsi diverge dalle condusioni dei precedenti Studi sulla difesa d'Italia dei fratelli Mezzacapo su questioni fondamentali come l'importanza e la forza della linea de] Po e il valore difensivo dell'Appennino, ma con loro concorda ne] dare importanza alle forze marittime, sostenendo di conseguenza la necessità di un rafforzamento della flotta: quanto poi alla nostra costiera adriatica, il miglior modo di difenderla consiste nell'assicurarsi la padronanza su quel mare. A tal uopo non solo è necessario un naviglio superiore a quello dell'Austria, ma anche far tutto ciò che è umanamente possibile per migliorare il porto di Ancona, il solo che sia adatto ad uso militare su quella costiera, e pel quale troppo poco ha fatto la natura. L'Austria, aumentando continuamente la sua marina da guerra. ci costringe a fare di Ancona una grande stazione navale. La superiorità marittima sull'Adriatico è necessaria anche perché - a tutto danno nostro - la propulsione a vapore facilita gli sbarchi (su questo punto, il Corsi diverge sia da Jomini che dai fratelli Mezzacapo). Di conseguenza una Potenza che abbia buon numero di battaglioni e di navi, contro Stati bagnati dal mare ma meno potenti di navigli, può oggi tentare con speranza di buon successo offese nuove per vie inusitate, cioè per mezzo di grandi sbarchi e basandosi sul mare. Ne dettero già un celebre esempio gli inglesi a Torres Vedras nel 1810 [ma allora c'era solo la Marina a vela! - N.d.a.]; altro più stupendo ce ne ha somministrato la guerra di Crimea [la cui esperienza dunque viene interpretata in senso opposto rispetto ai Mezzacapo N.d.a.]. I vantaggi de11a propulsione a vapore valgono, evidentemente, sia per l'Italia che per l'Austria: eppure il Corsi - ancora una volta divergendo dai Mezzacapo - non crede alla possibilità di "proiezioni di potenza" della nostra flotta nell'Italia peninsulare e insulare o sulle coste del Veneto e dell'Istria, né vede nei trasporti via mare un mezzo per fare delle piazze marittime altrettanti cunei da infiggere nei fianchi del territorio occupato dal nemico; per lui l'incremento delJe nostre forze marittime serve fondamentalmente a compensare lo svantaggio geostrategico nel quale si trova l'Italia


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in Adriatico. A suo avviso, infatti, il litorale adriatico dall'Isonzo a Cattaro facilita sia le azioni offensive che que11e difensive dell'Austria, perché le sue coste aJte e rocciose, coperte da numerose isole, offrono ottimi e numerosi ancoraggi, al tempo stesso fornendo ai nemici dell'Austria "sbocchi strategici verso terra scarsi, malagevoli e coperti da fortificazionj''. Su di esse si trova Pola, la principale base navale dell'Impero: di là se l'Austria riuscisse a signoreggiare sull'Adriatico minaccerebbe tutta

la nostra costiera orientale, e potrebbe dare non poca molestia a noi, e valido appoggio alle operazioni del suo esercito nell'Italia centrale. Nell'opposta ipotesi, e cioè quando noi fossimo padroni di quel mare, l'Austria opporrebbe ai nostri sbarchi oltre al solito grande spettro della Confederazione Germanica che si stende fin là, un ammasso di ostacoli naturali, un terreno rotto per ogni verso, povero di strade e abitato da gente che finora non possiamo credere molto favorevole a noi. Grandissime difficoltà dovremmo superare prima di giungere sulla Sava, né potremo arrischiare fin là se almeno non avessimo già conquistato il Veneto e aperto i passi sulle Alpi. Valutazione certamente più realistica di quella del Biffart, anche se un po' "calcata" in senso opposto. Da queste valutazioni geostrategiche deriva una constatazione importante: evidentemente già nel 1862 vi era chi caldeggiava sbarchi su11e coste dell'Istria per prendere alle spalle lo schieramento austriaco nella pianura friulana e nell'Isonzo, che (vds. cap VII e cap. IX - sz. Il) sono fortemente sostenuti, in occasione della guerra del 1866, soprattutto da Garibaldi e dai suoi seguaci. Inutile dire che il Corsi è decisamente contrario: io non so comprendere come qualcuno abbia potuto pensare che quella sia la strada più sicura per andare a Vienna, mentre lascia a sinistra tanta e così forte porzione dell'Impero. Siffatta invasione sarebbe rischiosa molto anche quando avessimo con noi l'Ungheria, stante l'obliquità della base Trieste-Fiume rispetto alla linea d'operazione che dovremmo prendere da Adelsberg per Laybach, ecc.. Non potrebbe essere utile, a mio avviso, che per minacciare da rovescio l'Isonzo e schiudere i passi di Gorizia e Gradisca ad un maggiore esercito nostro già padrone del Friuli; poi collegare le operazioni di quell' esercito attraverso le Alpi della Carinzia e della Stiria con quelle di un esercito ungherese che guerreggiasse con quelle sul Danubio: atti ambedue d'importanza sècondaria. Dal confronto fra le due flotte risulta che secondo il Corsi la Marina austriaca si sta rafforzando con la costruzione di nuove corazzate ed è superiore alla nostra per numero di navi, ma - data la sua fisionomia prevalentemente costiera e lacustre - è inferiore per tonnellaggio complessivo. La nostra non è superiore dal punto di vista qualitativo: se la Marina austriaca ha parecchie navi antiquate, noi dovremmo radiare gran parte del naviglio proveniente dalla Marina napoletana. Ad ogni modo (e qui si sbaglia) "noi crediamo di soverchiarla molto in abilità nautica, pratica di mare e attitudine alla guerra navale".


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In Italia e Austria il Corsi, maggiore di Stato Maggiore e direttore dal 1861 degli studi alla Scuola di Cavalleria di Pinerolo, esprime un punto di vista con ogni probabilità assai vicino a quello dell ' establishment politico-militare piemontese dal momento, riscontrabile particolarmente nel mancato esame delle possibilità offensive dell'Esercito italiano sul basso Po, nell'atteggiamento recisamente contrario a sbarchi in Istria, nella tendenza a valutare in modo pessimistico la situazione strategica dell'Emilia e a privilegiare Piacenza, con ciò stesso escludendo - di fatto - la possibilità di gravitare sul basso Po anziché sul Mincio, e accreditando quella condotta troppo prudenziale e non coordinata della guerra che poi si ritrova nel 1866. Le tesi di Luigi Mezzacapo, che nel citato articolo del 1865 aggiorna e adatta alla concreta situazione del momento i precedenti Studi sulla difesa d'Italia, sono analoghe a quelle del Corsi solo nella pessimistica valutazione delle possibilità strategiche dell'Esercito italiano contro il quadrilatero, e nel negare - questa volta - che con il Veneto ancora austriaco il Po possa essere una valida barriera difensiva per l' Emilia. Per il resto, esse ne sono agli antipodi, particolarmente per quanto riguarda l'importanza e il ruolo della piazza di Bologna e il valore difensivo dell'Appennino. Sul piano generale, Luigi Mezzacapo non si dimostra affatto pentito di aver dato nei precedenti studi uno spazio persino eccessivo alla fortificazione. A coloro i quali ricordano che Napoleone attaccava gli eserciti e trascurava le fortificazioni [come il Corsi - N.d.a.] obietta che è meglio affrontare gli eserciti senza incappare nelle fortificazioni, ma "se queste condizioni mancano, è gran capitano colui che sa modificare opportunamente il suo modo di condurre la guerra, e non già quello che si ostina a seguire, per imitazione servile, una via divenuta disastrosa per le mutate condizioni del problema". A suo giudizio, non potendo il Po essere una valida linea di difesa per l'Italia, la più vicina ad essa è l'Appennino; occorre però integrare quest'ultima linea con posizioni il più possibile avanzate, in modo da proteggere la retrostante capitale e agevolare il passaggio del nostro Esercito dalla difensiva all'offensiva. Di qui l'importanza fondamentale della piazza di Bologna, che soddisfa pienamente ai primi due requisiti e - per quanto possibile - anche al terzo. Come si è visto, il Biffart dà per certo il suo rafforzamento con forti staccati, ecc.: per Luigi Mezzacapo, mvece, una vasta corona di forti, innanzi una grande posizione atta a servire per tutto un esercito, e le opere estese fino a assicurarsi dello sbocco delle due valli laterali che ne distano alcuni chilometri soltanto, ne farebbero una di quelle posizioni che non si possono investire senza che si abbiano forze più che doppie, né attaccare di viva forza senza la quasi certezza di fallire nell'impresa con perdite sterminate. L'assedio riuscirebbe pressoché impossibile [...] e molto più oggi che la lunga portata delle novelle artiglierie e l'aggiustatezza del tiro, obbligano il nemico a porre il campo a grande distanza tlalk upere da attaccare.


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Con l'Esercito italiano raccolto in Bologna un esercito invasore non potrebbe varcare l'Appennino senza attaccare questa grande piazza, perché esporrebbe le sue comunicazioni senza ostacolare le nostre; né potrebbe aggirare Bologna sulla destra per il basso Po, perché anche in questo caso esporrebbe il fianco e le spalle. D'altra parte i passi dell'Appennino possono essere economicamente sbarrati fortificando il triangolo S. Marcello - Pineta - Ospedaletto, che racchiude un altopiano e domina "la strada di Modena, la valle del Reno, la strada da Spedaletto a Bologna, e la valle sinistra ove sono i bagni di Lucca". Ma anche dopo aver superato l' Appennino il nemico "non potrebbe tentare nulla di serio" contro Firenze, perché la città è circondata da una serie di buone posizioni forti che basterebbe fortificare, munendola di una cintura di sicurezza. Anche per la difesa della Lombardia, "ed in generale per qualunque movimento di guerra offensiva", Bologna pur avendo lo svantaggio di non essere sul Po, "è il perno che riunisce le maggiori qualità", purché sul tratto di Po tra Guastalla, Brescello e Casalmaggiore venga costruita una testa di ponte fortificando le due rive. Infatti l'Esercito austriaco manovrando per linee interne dal quadrilatero può attaccare sia dalla parte del Mincio, sia a

Sud dalla parte del Po. All'Esercito italiano non conviene dividere le forze [è quello che invece farà di Il a un anno - N.d.a.], quindi dovrebbe ritirarsi molto indietro, in modo da poter agire a massa su ambedue i fronti: ma anche in questo caso, la dislocazione più idonea sarebbe quella compresa tra Modena e Bologna. Da qui non si può essere tagliati dalla capitale Firenze, mentre il nostro Esercito potrebbe prendere sul fianco ~ alle spalle il nemico che avanza verso Milano; se invece passa la riva destra del Po, gli si può dare battaglia da posizioni favorevoli, appoggiandosi a Bologna. Divergenza radicale dal Corsi: tanto più che per Luigi Mezzacapo non conviene in nessun caso utilizzare come punto di riunione e di appoggio più avanzato Piacenza, anche se questa città venisse fortificata al pari di Bologna. Ritirandosi a Piacenza, l'Esercito italiano lascerebbe libero il nemico di agire a suo piacimento lungo le due rive del Po più a valle e di passare sulla riva destra tagliando senza pericolo le comunicazioni tra Piacenza e la Toscana, sicché "l'esercito di Piacenza non potrebbe impedire all'inimico di progredire, che o rischiando una battaglia in cattive condizioni, o correndo sopra Firenze per la strada di Bobbio"; in quest' ultimo caso, però, si esporrebbe a essere attaccato sul fianco e sul tergo da un esercito nemico che utilizzasse la strada Panna-Pontremoli. Per queste ragioni secondo Luigi Mezzacapo non conviene fortificare Piacenza, anche se si tratta di far fronte a un'invasione proveniente dalle Alpi Occidentali o Centrali: in questo caso Bologna non servirebbe più ed occorrerebbe fortificare un'altra posizione molto più a Occidente sul Po, c~e però dovrebbe essere Stradella e non Piacenza. Questo perché il nemico per girare la linea del Po, sceglierebbe la linea per la riva destra, che passa per lo stretto di Stradella, e collocandosi in prossimità di Piacenza


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con J 'ala destra innanzi, coprirebbe benissimo le sue comunicazioni, mentre minaccia la strada che mena a Parma; di maniera che può sostenere efficamente le operazioni dirette ad impedire le comunicazioni dell'esercito di Piacenza con la Toscana; mentre qualunque operazione di questo diretta a proteggerle sarebbe impedita, per essere presa in fianco dall'assalitore, e la ritirata in Toscana quasi impossibile. Invece da Stradella si può agevolmente sbarrare il passaggio dell'invasore sulla riva destra del Po, tra il fiume e l'Appennino, garantendo con una testa di ponte il passaggio del nostro Esercito sulla sinistra. Tale testa di ponte potrebbe essere aggirata dal nemico sulla sinistra, utilizzando la strada Voghera - Varzi - Bobbio e scendendo per la Val Trebbia fino alla via Emilia; ma in tal modo un grosso contingente di truppe nemiche esporrebbe la sua linea di comunicazione ad attacchi del presidio di Stradella., mentre un piccolo contingente nemico si avvicinerebbe troppo a Stradella e si allontanerebbe troppo dalla massa principale. Ne consegue la necessità di costruire un grande campo trincerato tra Piacenza, Stradella "e lo spazio tra questa, Zavattarello e Bobbio", nel quale su qualunque punto il nemico voglia indirizzare il suo attacco, dovrà combattere di fronte contro tutto l'esercito difensore in posizioni forti da quest'ultimo scelte e preparate. Per evitare tali posizioni sulla sinistra del Po, a un esercito invasore proveniente dalle Alpi Occidentali o Centrali conviene seguire la via da Nizza alla Riviera ligure ed entrare successivamente nelle fortissime posizioni di Genova e Spezia, la quale ultima sarà anch'essa una piazza imponente. Se Piacenza è uno dei vertici di questo campo trincerato, dovrebbe essere adeguatamente fortificata: eppure il Mezzacapo si ostina a prevedervi solo una testa di ponte. Né accenna a una possibile offensiva italiana contro il quadrilatero, anche se la sua insistenza sulla necessità di concentrare l'esercito italiano tra Modena e Bologna e in una sola massa, fa ritenere che propenda per il concentramento delle forze verso il basso Po. Pietro Valle è filofrancese, ma meno del Corsi; poiché l'amicizia tra Italia e Francia potrebbe finire, ritiene che almeno a medio e lungo termine occorra fortificare anche il confine francese, sul quale specie dopo la cessione di Nizza e Savoia la Francia si trova in vantaggio. Anche per lui il solo nemico della prossima guerra sarà 1'Austria: ma si differenzia dagli scrittori precedenti, perché - senza sposare le tesi "continentaliste" e anzi più di tutti esaltando il ruolo della Marina - indica categoricamente nella linea del Po, e comunque nell'Italia Settentrionale, il centro di gravità della difesa nazionale. A suo giudizio "ogni altra linea che incontrasi nella penisola ha un'importanza di second'ordine; gli Appennini sono facilmente superabili; i fiumi corti e di frequente da guadarsi; la penisola non presenta nessuna grande risorsa strategica ad eccezione del mare che la circonda". In questo quadro geostrategico, per il Valle la flotta è l'unico mezzo per reagire contro un'invasione nemica da Nord, che superi la barriera dell' Appennino: di qui la sua polemica con coloro i quali [come i fratelli Mezzacapo] sostengono che anche dopo aver


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perduta la valle del Po si potrà continuare la resistenza sull'Appennino e più a Sud ancora. Questo si potrà fare, precisa, solo se "avremo a disposizione una Marina rispettabile e un materiale da trasporto non indifferente; in tal caso potremo anche riprendere l'offensiva con speranza di successo". E poiché nessuna controffensiva è in grado di assicurare la difesa delle coste e/o di sbarcare truppe là dove è necessario, essa deve essere "di molto superiore a quella austriaca" e almeno pari a quella francese (il che non è poco, visto che quest'ultima era la seconda del mondo). Q' altro canto la Marina del momento non potrà raggiungere in breve tempo questi traguardi: fino a quando essa sarà debole bisogna limitarsi in una guerra di carattere difensivo a conservare fino agli estremi tutto o almeno in parte il bacino del Po; imperoché perduto questo in una guerra disastrosa che abbia a teatro la penisola, perdute le province meridionali, perdute anche Roma e la linea del Tevere, e la Toscana stessa che può considerarsi come un ridotto estremo della difesa peninsulare, avremo sempre la possibilità, se padroni del bacino del Po, di rifarci a poco a poco delle perdite sofferte senza mai mettere a repentaglio la nostra indipendenza.

In pratica il Valle propone una sorta di spartizione di compiti tra Esercito e Marina, assegnando principalmente al primo la difesa dell'Italia Settentrionale e alla seconda quella dell'Italia peninsulare e insulare; tuttavia per ragioni economiche e politiche, a suo giudizio la priorità va data alle forze marittime: · chiaro appare a chiunque osservi la carta d'Europa che l'Italia è destinata, se unita, a diventare una potenza eminentemente marittima. Il ragguardevole sviluppo delle sue coste, le sue grandi isole accennano ad evidenza che il commercio italiano deve avere per veicolo principale il mare. Né può essere altrimenti: ché tale è la posizione geografica delJa penisola. Diversamente bisognerebbe rinunciare all'influenza politica cui per diritto dobbiamo aspirare; la quale circostanza verificandosi un giorno, trarrebbe seco indubitamente la perdita materiale di intere province. Per la difesa dell'Italia continentale, il Valle ritiene necessarie - come il Corsi - poche e grandi piazzeforti. Sulle relative modalità, e sulle posizioni sulle quali imperniare la difesa, il suo punto di vista si differenzia però sia dagli studi dei fratelli Mezzacapo, sia dalle più recenti rettifiche di Luigi · Mezzacapo, sia da quelli del Corsi. Giudica anch' egli il quadrilatero una posizione forte che avvantaggia l'Austria, ma non sostiene (come il Corsi) che il Po è una linea difensiva debole, né (come il Mezzacapo) che non conviene fortificare Piacenza concentrando le forze e gli apprestamenti difensivi su Bologna. Tutto sommato per lui le Alpi non rappresentano un ostacolo forte: per difendere tutti i loro numerosi passaggi occorrerebbero forze considerevoli, e d'altro canto "una linea estesa per quante difficoltà presenti può essere superata in qualche punto, precisamente per la troppa


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lunghezza". Nonostante le Alpi, Torino è esposta a invasioni dall'Ovest e dovrebbe essere fortificata; il sistema più efficace per difendere il confine con la Svizzera nelle Alpi Centrali non è di fortificare i passi a cominciare dal Sempione, ma di fortificare Milano. Le uniche due linee di difesa possibili per l'Italia Settentrionale rimangono perciò il Po e - in minore misura - l'Appennino. Servito daJla linea ferroviaria Casale - Alessandria - Piacenza - Bologna - Ancona, "il Po è la base principale di operazione rafforzata da Casale, Alessandria, Pavia, Piacenza, Pizzighettone, Bologna e Ancona[... ]. Presenta tutti i vantaggi di una grande ostacolo naturale, di una linea ben situata; e sebbene l'Austria sia forte per una imprevidenza politica imperdonabile da nostra parte [lasciandogli dopo la guerra del 1859 la testa di ponte di Borgoforte sulla riva destra - N.d.a.], non cesserà per questo di formare la base delle nostre operazioni". L'Appennino è solo un ostacolo di limitata forza intrinseca, che serve a proteggere una vasta ''base di riserva" data dall'allineamento Genova - Spezia - Livorno - Firenze - Arezzo - Perugia - Foligno. Il Valle esclude perciò la convenienza di ritirarsi sul crinale tosco - emiliano, con l'ala destra a Cattolica: in questo caso "la nostra indipendenza sarebbe in gran pericolo, perché la potenza che si fosse resa padrona della Valle del Po, graviterebbe sul collo della penisola, e presto o tardi la soggiogherebbe". Piacenza, Bologna, Casalmaggiore e Forll sono i punti-chiave di questa linea da fortificare. Casalmaggiore, dove dovrebbe essere costruita una testa di ponte, impedisce ali' Esercito austriaco di varcare il Po tendendo a superare l'Appennino attraverso le strade di Parma, Reggio e Modena; Forlì, dove dovrebbe essere costruita una "piazza occasionale", impedisce l'aggiramento di Bologna sulla destra, magari da parte di forze austriache sbarcate. Erigendo fortificazioni su questi quattro punti, si eviterebbe di costruirne altre sull'Appennino e nel Valdarno per difendere Firenze. Al limite, "Piacenza e Bologna erette a grandi piazze [offensive e difensive N.d.a.] escluderebbero forse il bisogno di creare nuove fortificazioni entro terra. E lo sviluppo crescente della Marina farà cessare a poco a poco anche la necessità di mantenere molte piazze marittime fortificate". Il Valle non si sofferma solo sulla difesa, ma esamina sia pur brevemente anche un'offensiva contro l'Austria, così come è richiesto "dal nostro carattere, dalle nostre aspirazioni, dalla nostra stessa politica". In questo caso si dovrà evitare di attaccare il lato Ovest e il lato Sud del quadrilatero; e dopo aver concentrato l'esercito tra il Mincio e il Chiese e tra Parma e Bologna con una parte di forze in Ancona, si dovrà iniziare l'offensiva dal basso Po con la principale linea d'operazione lungo la strada Ferrara Rovigo - Monselice - Padova. Anche se il terreno a Nord del Po, paludoso e con numerosi corsi d'acqua, è difficile, sarà sempre meglio che attaccare frontalmente il quadrilatero. La conquista di Padova consente di intercettare le comunicazioni del nemico con Venezia e con l'Impero, tranne quella del Trentino. Con punto d'appoggio in Padova, è possibile attaccare Venezia di concerto con la flotta, tenendo presente però che l'attacco da terra è pit1 dif-


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ficile che dalla parte del mare. Con le forze di base in Ancona si potrà inoltre sbarcare a Venezia e nel Friuli. Per il resto, come il Corsi il Valle ritiene non prioritario il possesso di Roma, necessario per ragioni politiche, storiche e sociali più che militari: la sua posizione è strategicamente poco felice ed esposta ad attacchi dal mare, quindi sarebbe necessario fortificarla. Scritti minori: le tesi "meridionaliste" e pedanti di Francesco Sponzilli e il superficiale ottimismo sulla futura guerra di "Tabachi"

Meritano solo un rapido cenno tra altri studi, che si mantengono nella scia dei precedenti recependone in varia misura i motivi ispiratori. Nei suoi Elementi di geografia dell'Italia sotto l'aspetto fisico, intellettivo economico topografico-militare e storico (1861) 104 il Prof. Amato Amati si richiama esplicitamente al Saluzzo e ai fratelli Mezzacapo con un approccio eclettico e ottimistico che risente dell'incerta competenza militare dell'autore. A suo parere "l'ItaJia può dirsi un campo fortificato" perché la pianura padana è ben difesa anche a Est dai numerosi fiumi che sfociano nell' Adriatico. Venezia e le lagune sono quasi imprendibili, mentre a Sud l' Appennino offre numerose posizioni idonee alla difesa ed è adatto alla piccola guerra; perciò questa catena consente di far fronte con poche forze a un poderoso esercito, c se si ha il mare axnico e si mantiene il possesso delle piazze marittime, si può continuare vantaggiosamente la resistenza fino alla Calabria. Nel saggio del 1861 Gaeta considerata strategicamentews Francesco Sponzilli, già ufficiale dell'esercito borbonico (Cfr. Vol. I, cap. IV, V, IX), dà ulteriore prova della sua grande dottrina, ma conferma l' eccessivo ancoraggio alle tendenze più estreme delle correnti dei dottrinari, rappresentate dalle teorie "geometriche" e a sfondo geografico dell' Arciduca Carlo; queste ultime sono tali da comportare una forte sopravvalutazione del valore delle posizioni e quindi anche delle fortificazioni. li suo scritto è in certo senso esemplare, perché lascia trasparire il tipo di approccio teorico che, anche se non e splicitamente dichiarato, è a monte della massima parte degli studi di fortificazione del periodo (non solo in Italia, ma in Europa) . Approccio riassumibile in queste poche righe che si trovano all inizio del lavoro, di impronta totalmente anticlausewitziana: gli elementi che informano i raziocini miei sono: la topografia del paese; la storia degli avvenimenti guerreschi, i quali per tale configurazione di suolo già nella posizione di Gaeta ebbero luogo: le leggi della scienza della 104 ·

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Milano, G . Gnocchi 1861. Napoli, C apodimonte 1861.


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guerra, da Lloyd, da Jomini, dall'Arciduca Carlo scritte, e dal grande Federico Il, dal massimo Napoleone I e da tutti i capitani del mondo, fino ai nostri giorni costantemente praticate.

In questa occasione lo Sponzilli sostiene con dotti argomenti una tesi di parte perché scopertamente "meridionalista", che in certo senso è anche un segno eloquente dei malumori degli ufficiali già appartenenti all'Esercito napoletano, i quali vedono cancellare in un solo colpo - magari anche quando non ne è il caso - l'organizzazione militare de] Regno delJe Due Sicilie nena quale erano vissuti e che avevano contribuito a creare, a cominciare naturalmente dal segno più appariscente e permanente: le fortezze. Cerca perciò di dimostrare, dando eccessivo rilievo all'influsso esercitato da una fortezza sulJa regione circostante, che Gaeta, già "chiave de] Regno di Napoli", non può essere radiata come fortezza ma continua a rappresentare anche per il nuovo Regno d'Italia un caposaldo difensivo di grande valore. Una sua significativa argomentazione, più volte ripetuta, è che si abbattono le fortezze solo nei paesi conquistati, con ciò sottintendendo che si vorrebbe considerare l'ex Regno di Napoli come tale; e per suffragare le sue tesi arriva a citare la resistenza di Gaeta contro l'assedio piemontese nella campagna del 1860-1861 e il suo ruolo positivo nella difesa del Regno borbonico. Citazione impropria, perché trascura che: a) quando Gaeta viene assediata il Regno del Sud in pratica è già caduto senza che essa abbia fatto minimamente sentire ]a sua influenza; b) la sua resa nel 1861 è solo questione di tempo; c) la resistenza del presidio della fortezza al di là dell'onor militare non ha nessun obiettivo strategico concreto; d) le numerose fortezze borboniche non hanno mai seriamente ostacolato un esercito quasi privo di artiglierie come quello di Garibaldi. Collocata all'incontro di tre grandi vallate, per lo Sponzilli Gaeta è un "punto strategico di 1° ordine", sull'antica frontiera del Regno di Napoli, la quale è diventata con ]'unità d'Italia "la secondaria zona difensiva della italiana penisola, e, più precisamente, uno degli interni trinceramenti, ai quali deve essere affidata la difesa della nostra indipendenza" contro provenienze da Nord. Essa domina "la doppia valle delle Paludi pontine e del ridosso occidentale del Fucino"; domina Ja stessa valle del Fucino o valle di Roveto con relative linee d'operazione; vigila sulle valli del Garigliano e del Volturno; "insomma, all'uscir di Gaeta, il paese, a diritta, di fronte e a manca si spiega nelle sue diverse vallate come a ventaglio, e presenta van, distinti e fin dalla più lontana età preparati campi alle manovre e agJ'incontri delJe masse ostili"; infine serve anche come piazza di rifugio. Essa si trova sull'estremità sinistra della linea difensiva Gaeta - L'Aquila, che prenderebbe sul fianco penetrazioni da Firenze verso Roma; in questo senso integra sul versante tirrenico e più a Sud l'influenza delJa piazza di Ancona su un esercito nemico che proceda da Firenze verso Roma. Ancona e Gaeta esercitano una grande influenza sulla difesa di Roma e Napoli, quindi costituiranno l'obiettivo delle operazioni nemiche. Con Genova e Reggio Calabria, Gaeta è


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anche un punto-chiave della linea di difesa della costa tirrenica, da collegare con gli altri due mediante ferrovie e telegrafo onde poter reggere con rapidità a uno sbarco; il suo porto potrebbe essere migliorato e fungere da piazza di rifugio per la flotta. Per lo Sponzilli, l'Italia ha molto bisogno di piazze marittime: la valle del Po "è uno dei luoghi deboli dell'estesissimo usbergo italiano", ma la sua maggiore vulnerabilità deriva dalle sue coste indifese. Perciò se l'Italia si illude e vuole vedere solo nel tedesco il suo nemico, se l'Italia non provvede a un sapiente organamento difensivo del litorale suo. e nel tempo stesso istruendo le popolazioni delle coste non arma una possente Marina e un esercito formidabile, il quale possa farne rispettare la indipendenza e il rnngo fra le prime nazioni, possa respingere ogni nemico il quale l'attaccasse per terra, ed anche schiacciare e affogare nel mare ogni avversario che dal mar venisse, l'Italia sarà sempre mai la timida ancella di una delle due Potenze marittime del mondo [la Francia e l'Inghilterra - N.d.a.] e non avrà ritratto dalla sua generazione il massimo vantaggio, quello cioè di mettere lo Scettro suo come impavida Regina fra quelli di tutti gli altri potentati, vantaggio massimo e forse unico, quale a noi arrecare potrebbe la sospirata italica unita. La grande dottrina dell'autore non riesce a risparmiare al lettore le frequenti forzature e le considerazioni capziose dello scritto, i cui obiettivi finali - grande Marina che domini il mare, grande Esercito ecc. - sono semplicistici e irrealizzabili; né si comprende perché, se la pianura del Po è naturalmente debole, non si debba provvedere a fortificarla a preferenza del Sud. Più scusabili di quelli del dotto Sponzilli gli ottimismi - ben presto rivelatisi fuori luogo - e le forzature di un volontario digiuno di studi militari, "Tabacchf' (forse Giovanni Tabacchi, ingegnere garibaldino e combattente della guerra del 1866), il quale (in un articolo pubblicato nel giugno 1866106, quindi scritto prima della guerra) individua al centro del confine tra Italia e Austria un'inesistente "sporgenza" di grande valore strategico, che a suo parere dovrebbe dare al nostro Esercito un vantaggio decisivo. In modo non sempre chiaro, e more solito esagerando sull'influenza delle posizioni, il Tabacchi sostiene che la predetta sporgenza giace sulla sinistra del Po, in quella inquadratura di suolo appoggiata al Po, all' Adda e al Ticino, che movendo in linea retta da Pizzighettone a Cremona, e da Pavia, presenta evidentemente due facce col sagliente di Pizzighettone, che è in linea perpendicolare, ed a brevissimo cammino da Piacenza. Piacenza stessa, posizione eminentemente centrale di questa sporgenza, la si vede dominare tutta la distesa di terreno che esiste tra Cremona e Pavia tramutando queste ultime in due nuovi salienti [... ]. In effetti la

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Tabachi, Sulle nostre contingenze di guerra con l'Austria, "Il Politecnico" 1866, Vol. I Fase. VI, pp. 825-863.


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nostra posizione centrale ci offre un grande vantaggio: quello di poter far massa sopra una sola riva del Po, la destra o la sinistra, e con massa imponente paralizzare ogni tentativo dell'Austriaco [... ]. Se ci è lecito l'uso di una figura retorica, Pavia sembra un martello, Casale e Alessandria una vera incudine, è da Piacenza che una mente attiva deve cercar di gettare sotto quelle battiture quanto le si para innanzi, e cacciarlo entro la voragine, sul cui fondo sta Genova [... ]. 1 nostri due fronti è da Piacenza che possono essere abbracciati nel loro sviluppo, percorsi offensivamente e difensivamente coperti, essendo che tutti i nostri punti di resistenza sono da Piacenza dominati. Tenendo conto che più a Est di Piacenza c'è Bologna, e che a Sud di Bologna si trovano le ottime posizioni di Pistoia e Lucca che sbarrano l'accesso alla capitale Firenze, secondo il Tabachi il nostro teatro d' operazioni con l'Austria assume la forma di una grande tenaglia pronta a stringersi ai fianchi dell'Esercito austriaco avanzante. E all'inizio delle ostilità egli prevede per l'Esercito italiano l'occupazione di una linea estremamente estesa, con la destra a Bologna "appoggiata al mare Adriatico e alla flotta, e co11egata a Sud con Ancona, a Ovest con Piacenza; il centro a Piacenza rafforzata dalle posizioni di Pavia, Pizzighettone e Cremona; la sinistra a Alessandria. Genova sarebbe piazza di rifugio e luogo di concentramento per riserve da spostare per ferrovia là ove sia necessario. Bologna avrebbe 2/10 delle forze, Piacenza 5/10, Alessandria 1/10, Ancona 1/20 e il Napoletano 3/20" . La gravitazione delle forze è quindi su Piacenza, dalla quale spingendo il nemico ad accettare battaglia sotto i cannoni della piazza potrebbe essere sferrato un colpo decisivo. Il Tabachi prevede che la direttrice più probabile dell'offensiva austriaca sarà quella Bologna - Firenze; ma in questo caso, se da Borgoforte l'Esercito nemico procedesse verso Modena, sarebbe attaccato dai due presldi di Piacenza e Modena sui fianchi; se poi da Bologna l'Esercito italiano invadesse rapidamente il Veneto e sollevasse le popolazioni, un Esercito austriaco che proceda verso Sud si troverebbe le comunicazioni tagliate ... In ogni caso, a suo giudizio all'Esercito Italiano non conviene prendere subito l'offensiva, ma adottare una tattica difensiva - controffensiva, logorando e ritardando le forze del nemico, attaccando i suoi convogli e obbligandolo a dividersi "con truppe leggere e mobilissime le quali, menate le mani, potrebbero sottrarsi destramente e riservarsi ad altre apparizioni", insomma con una guerra partigiana che indebolisca le forze austriache fino a quando si presenterà l'occasione di sferrare loro il colpo decisivo. Sulla guerra marittima il Tabachi è ancor più ottimista e semplicista; di ll a qualche giorno, la battaglia di Lissa smentirà totalmente le sue previsioni. Non crede che la flotta austriaca possa "azzardarsi a prendere il largo, avendo di fronte la nostra flotta colla quale non saprebbe misurarsi"; né tanto meno, pur disponendo degli 80 piroscafi mercantili del Lloyd Triestino, potrà attaccare Firenze dal mar Tirreno con "una di quelle spedizioni


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transmarittime, che sono cotanto difficili e costose alle Potenze di primissimo ordine prevalenti in mare da molti anni per numeroso naviglio servito da eccellenti marinai, ai quali almeno non viene ... il mal di mare". La flotta austriaca, perciò, rimarrà a guardia delle coste e dei porti dell'Istria, abitate da popolazioni malfide; se dovesse prendere il largo, la nostra flotta potrebbe approfittarne per attaccare la mal difesa Trieste, anche a costo di evitare la battaglia: "basterà che la nostra flotta faccia mostra di sé in quelle acque, scarichi poche bordate perché Trieste sia resa al vessillo italiano", con gran danno dell'Austria. Lo stesso si può dire degli altri punti strategici sul litorale veneto e istriano ... In sintesi dal dibattito prima descritto è difficile ricavare una convergenza di idee almeno sui punti essenziali; ad esempio il quadrilatero, secondo taluni è un potente trampolino di lancio per il più probabile nemico e secondo altri può essere facilmente aggirato. Naturalmente, da parte italiana si tende a esagerare la portata della minaccia austriaca e il valore delle posizioni in mano all'Esercito Imperiale, mentre da parte austriaca si intravede una minaccia italiana e si attribuiscono alle nostre Forze Armate possibilità che sono ben lungi dal possedere. Tutto sommato, si può affermare che l'acquisizione della Lombardia nel 1859 non migliora, ma peggiora la situazione strategica italiana nei riguardi dell'Austria, costringendo il nostro Esercito a dislocarsi lungo un arco di fronte assai ampio con la convessità rivolta verso Ovest, che facilita il concentramento delle forze austriache imponendo al Comando Italiano di scegliere tra gravitazione sul Mincio o sul Basso Po e di adottare ardui provvedimenti per raccordare l' azione su questi due lontani fronti. Sotto questo profilo non ha tutti i torti il generale Pinelli, il quale il 18 novembre 1864, cioè dopo il trasferimento della capitale a Firenze, dichiara alla Camera che grazie al possesso della testa di ponte di Borgoforte Sermide sulla destra del Po, l'Austria ha la possibilità di tagliare in due le nostre forze, puntando a sua discrezione su Bologna o Piacenza. Per questa ragione, a suo avviso è stato un errore trasportare la capitale da Torino a Firenze, costringendo il Comando Italiano a dividere in due masse l' Esercito per coprire sia la nuova capitale che il Piemonte, regione che "si voglia o no, per molti anni sarà sempre il gran deposito militare". In tal modo il nemico potrà agevolmente manovrare per linee interne, mentre l'Esercito italiano sarà costretto a operare per linee esterne, separate per il lungo tratto che divide la Toscana dal Piemonte.

SEZIONE V - Dal 1867 al 1870: utilità o meno del quadrilatero e di Roma per la difesa nazionale. Come si è visto (Cfr. cap. IX - sz. II), la prassi strategica seguita da ambedue i contendenti nella guerra del 1866 non conforta le previsioni degli autori prima citati. Nessuna offensiva austriaca; l'Esercito italiano diviso in


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due aliquote slegate tra di loro e con generali in disaccordo,come sempre muove frontalmente verso il quadrilatero dalla parte del Mincio, ma è battuto a Custoza; la sua azione offensiva dopo Custoza è ritardata da gravi diffocoltà logistiche. io7• Le fortificazioni non esercitano alcuna influenza suJla guerra; nessuna "proiezione di potenza" di rilievo delle due flotte. Lissa, ·un'isoletta della quale nessuno degli autori prima esaminati aveva mai parlato, viene improvvisamente eretta a chiave dell'Adriatico e la nostra flotta è sorpresa e battuta mentre ne bombarda i forti da quella austriaca. L'acquisto del Veneto, però, cambia in modo radicale le carte; la frontiera del Po, da taluni autori ritenuta debole e pericolosa per la difensiva e da altri un ottimo trampolino di lancio per l'offensiva, scompare. Il quadrilatero è in nostro completo possesso; Venezia, con il suo arsenale e porto militare, diventa italiana. Per contro, come lamentano Mazzini e Garibaldi (cap. VI e VII) si aprono due nuove, gravi e reali vulnerabilità per la sicurezza nazionale che dureranno fino al 1915: il confine dell'Est nella pianura friulana è completamente aperto, e a Nord il saliente del Trentino in mano all'Austria costituisce una costante minaccia sul fianco sinistro del nostro schieramento verso l'Isonzo. Pochissime fortezze al Nord, solo fortificazioni campali sugli Appennini: le idee innovatrici di Nicola Marselli.

Nel periodo in esame Nicola Marselli ha pubblicato importanti scritti che prenderemo in più accurato esame nel VoJ. III della presente opera, per non scindere in due parti il suo pensiero che raggiunge l'apice dopo il 1870. Non possiamo però passare ora sotto silenzio i riferimenti alla fortificazione contenuti nei sette articoli da lui dedicati nel 1867 al Problema militare della indipendenza nazionale 108 , che meglio di tutti ne inquadrano l'effettivo ruolo in rapporto agli ultimi progressi della tecnologia, pienamente confermando questo giudizio del Cisotti: "lavoro in quel tempo importante e coraggioso, ispirato a idee nuove che poi fecero molto cammino" 109 • È un vero peccato che, in questa occasione, per ragioni legate al suo incarico del momento il Marselli non prenda una posizione organica, precisa e dettagliata su11e scelte che si stanno dibattendo: ma quanto dice è più che sufficiente per differenziare la sua posizione da quella di tutti gli altri, con un approccio molto flessibile nel quale acquista un peso predominante la sua costante convinzione che in medio stai virtus. Dopo aver constatato che al momento la fortificazione sta attraversando "un periodo di

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Cfr. F. Bolli, La logistica del 'Esercito Italiano (Cit.), Vol. II pp. 123-214. "Rivista Militare Italiana" Anno XIl - 1867, Vol.I, II, III, N e anno )UII- 1868, Vol. I e II. L. Cisotti, Op. cit, p.50.


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gestazione o per dir meglio di confusione", egli applica questi concetti generali anche al problema ora in esame, per la cui corretta risoluzione bisogna "essere guidati non da altro sistema che da que1lo di non averne alcuno esclusivo". In tal modo "noi avremo gittate le basi di una fortificazione insieme nuova e tradizionale, moderna e antica, della sola fortificazione degna dei nostri tempi, ossia della fortificazione non eclettica, ma armonica". Non è vero - egli ricorda - che Napoleone è stato nemico delle fortificazioni: ha invece riconosciuto la loro utilità sia nella guerra offensiva che difensiva, e ha affermato che anche se non possono sostituire le forze mobili "sono il solo mezzo disponibile per ritardare, ostacolare, indebolire, disturbare un nemico vittorioso". Ciò vale anche dopo l'introduzione delle armi rigate, che impone alla fortificazione "non di suicidarsi, ma di trasformarsi e aggiungerò, trasformarsi assai meno di quel che fece per l'invenzione della polvere". Queste considerazioni del Marselli sono pubblicate nel 1867, ma sono state scritte almeno in parte prima da11a guerra del 1866; infatti le applica alla situazione it.aliana pre-1866 e a una guerra offensiva con il quadrilatero ancora in mano austriaca: ma non vedi, mi si dirà, che le fortificazioni cadono col girarsi, e che non arrestano punto i trionfi d'un generale di genio? Sì, nessuno più di me è convinto che quando suonerà l'ora suprema d'Italia[ ... ] sorgerà il capitano che, invece di smorzare I 'ardore del nostro giovane esercito con i lavori di trincea, lo menerà a dare uno di quei colpi terribili che fanno cader le piazze e decidono d'una campagna, come Marengo, Ulma, Austerlitz, Jena, e come il piano di Grant; nessuno più di me è persuaso che non bisogna afferrare il toro per le corna, e che la chiave di Richmond era sulle rive dell'Oceano Atlantico; ma non vedete voi che per fare tutto ciò avete mestieri d'un esercito superiore per numero e per morale a quello dell'avversario, che le piazze vi obbligheranno a dividervi ed indebolirvi per distaccare corpi d ' osservazione, che vi costringeranno ad eseguire manovre arditissime e marce lunghissime, che elle vi porranno nella terribile alternativa o di produrre un Napoleone o di rassegnarvi alla guerra metodica di Moreau? E appunto questo e non altro, il guadagnar tempo e non il repdere invincibile, è lo scopo della fortificazione, ed è almeno l'impaccio che il quadrilatero ci creerà. Ed il guadagnar tempo e l'obbligare il nemico a dividersi non è stato sovente cagione del cambiare le sorti delle armi? E non furono appunto le piazze i perni che tanto giovarono a salvare l'indipendenza della Spagna? Più nel dettaglio, anch'egli indica come rimedio all'aumento di potenza delle artiglierie i vasti campi trincerati con forti staccati indipendenti, ma diversamente dai frate1li Mezzacapo non ha molta fiducia nell'impiego di milizie o guardie nazionali (poco salde e disciplinate) nella difesa della piazze, in particolar modo di quelle di prima linea. Meglio i veterani, che almeno sono più disciplinati; si tratt.a anche di evit.are, in questi compiti, il


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disordine provocato dalla mescolanza di truppe e guardie nazionali. Ciò non toglie che (qui anche il Marselli concorda con i fratelli Mezzacapo) guardie nazionali, milizie e volontari "siano soprattutto giovevoli nelle operazioni secondarie di guerra", non esclusa la guerriglia; per tali azioni, le proprie piazze possono servire loro come base e rifugio momentaneo. Fin qui nelle riflessioni del Marselli va rimarcata l'insistenza su una flessibilità di sapore clausewitziano, che già contrasta notevolmente con l'impostazione molto più metodica e rigida, più "dottrinaria", dei Saluzzo, dei Mezzacapo e ancor più dello Sponzilli. Ma dove egli si distacca notevolmente da tutti gli autori prima esaminati, è nell'indicazione dei vantaggi della fortificazione "mista", e ancor più di quella "passeggera". A tal proposito, definisce "miste" non le fortificazioni permanenti integrate da quelle campali, ma quelle opere sul campo di battaglia che sono meno solide di quelle permanenti, e più solide dei lavori campali o "passeggeri". E come esempio indica (non è il solo nel periodo) le difese su tre linee di Torres Vedras, costruite da Wellington nella guerra di Spagna 1808-1813 come rifugio e base per il suo esercito. In esse "gli inglesi applicarono un sistema di fortificazione eccellente perché non sistematico. Ove la natura era inaccessibile l'abbandonarono alle sue forze; ove era forte, ma accessibile, la perfezionarono; ove debole, la renderono potentissima". Esempio non astratto e non solo teorico, visto che lo studio delle linee di Torres Vedras è argomento importantissimo per noi Italiani che abbiamo a difendere una penisola attraversata da una perenne catena, la quale gitta contrafforti di qua e di là, e lancia promontori nel mare. Nutriamo fiducia che i primi eventi della guerra saranno per noi lieti e definitivi, ma se avessimo a perdere la nostre prime linee di difesa, rincuoriamoci col pensiero che abbiamo nel nostro paese posizioni naturali da poter diventare nuove Torres Vedras, e formare così lo scoglio della fortuna nemica, l'asilo, anzi l'astro della nostra. Di interesse ancor maggiore le considerazioni sull'importanza della fortificazione campale, che oltre a "passeggera" significativamente chiama "occasionale", "mobile" o "temporanea". Con l'aumento della gittata e del1' efficacia del cannone e del fucile rigato, egli prevede che "uno degli elementi che crescerà per importanza nella guerra sarà per fermo la fortificazione passeggera". La prima linea della fanteria dopo alcune scariche si lancerà sul nemico alla baionetta: ma la seconda e terza linea non potranno né stare ferme col fucile imbracciato offrendo così un buon bersaglio ai tiri da lontano del nemico, né portarsi fuori tiro allontanandosi troppo. pi conseguenza non rimane che il coprirsi mediante trinceramenti passeggeri, quando non s'incontrano pieghe di terreno che sieno come a trinceramenti naturali [... ] Da ciò segue che il fantaccino dovrà imparare a coprirsi, come l'artiglieria impara a costmirsi le hatterie occa<;ionali, sehhene non sia nel suo ufficio. T


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trinceramenti del fantaccino saranno costruiti malamente e fuori regola, ma che importa? L'essenziale gli è che le linee si coprano come per incantesimo. Il Genio non potrebbe bastare a tutto lo sviluppo della linea, senza prendere enormi proporzioni; e rimanendo tal quale è o poco ingrandito riuscirebbe al certo ad innalzare migliori trinceramenti, ma li compirebbe dopo che i corpi di 2' e 3' linea sarebbero stati distrutti dal fuoco nemico, o almeno dopo la loro entrata in azione. Smentendo le tesi di taluni scrittori dei nostri giorni, secondo i quali l' establishment militare italiano del tempo avrebbe ignorato o mal compreso la guerra di secessione americana 1861-1865, il Marselli a questo punto indica come esempio proprio questa guerra, ricordando che nella campagna del Potomac la fortificazione campale ha dimostrato tutta la sua efficacia, e che dopo tale campagna "il trinceramento divenne appresso gli americani il compagno indivisibile delle loro operazioni militari. Appena si prende posizione su di un terreno albereggiato, i soldati brandiscono la scure, rovesciano gli alberi in guisa che cadono rivolgendo le punte all'inimico, e dietro questa prima corazza naturale scavano trinceramenti e forano nel terreno buche da lupo a più non potere". Per quanto più direttamente interessa l'Italia, "nella difesa di valli e monti la fortificazione momentanea [cioè campale - N.d.a.] si trova proprio a casa sua". Anche in questo caso il Marselli registra che esistono due opinioni opposte per la difesa in montagna: una che vuole forti isolati permanenti, l'altra che "non va in sollucchero che per i trinceramenti passeggeri". Su questo problema si schiera piuttosto con questi ultimi: soprattutto in Italia le montagne sono di per sé qualche cosa di così acconcio a difesa che a me pare che gli agili bersaglieri, gli svelti volontari, adusati a fare una guerra di alberi e di balze, dovrebbero avere agevolmente ragione dell'avversario e potrebbero contentarsi di coprirsi all'occasione con terra e gabbioni. Dove l'ostacolo naturale giganteggia, rì la fortificazione è mestiere naneggi f ...]. Il trinceramento nano ha un grande ed intrinseco vantaggio su quello rilevante dei forti isolati a varii piani, imperrochè esso non presenta un cosi evidente, vasto e sicuro bersaglio alle lontane batterie degli assalitori. Nella difesa montana il forte isolato non è da proscrivere ma va usato "nei limiti razionali e ristretti", anche perché grazie alla libertà di stampa, al telegrafo ecc. la so(presa ai confini non è più possibile, e le migliorate · comunicazioni favoriscono il rapido concentramento deJle forze, consentendo al difensore sia di battere separatamente movendo da posizione interna 1e forze nemiche che avanzano seguendo diverse linee d'operazione, sia le penetrazioni lungo una sola valle. I pochi forti permanenti devono essere collocati solo sui punti strategici "di primissimo ordine" e devono sbarrare solo i passaggi percorribili da artiglierie e carreggio, "i quali sogliono essere pochi, saputi e facilmente difendibili da vigile generale". In ogni caso "applicando ali' Appennino le idee esposle sopra, segue d1e, anzi


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che profonder denaro e accrescere le forze morte col seminar forti e gittarvi dentro guarnigioni è miglior partito l'esser avaro di muratura e prodigar terra all'occasione". A tal fine, sarebbe assai utile che nel periodo dei campi d'Arma i reggimenti percorrano in lungo e in largo l'Appennino, in modo da acquistare una buona conoscenza del terreno. Con questi criteri, la visione del Marselli è fondamentalmente antitetica a quella degli autori fin qui esaminati ad eccezione del Corsi, da lui esplicitamente indicato come sostenitore della difesa dell'Appennino mediante la fortificazione campale, citando il suo articolo "Firenze", pubblicato sull 'Annuario dell'Italia militare 1865. La perdurante importanza del quadrilatero ex-austriaco negli scritti del maggiore Antonio Gandolfi. Le idee del Marselli avrebbero richiesto un serio dibattito e un approfondimento con opere organiche sul tipo degli Studi topografici e strategici su l'Italia, opere che invece continuano a mancare; akuui studi minori non fanno che applicare i vecchi criteri all'esame della validità delle fortezze ex austriache del quadrilatero per la difesa nazionale. La nuova situazione strategica e i suoi riflessi sulla fortificazione sono esaminati soprattutto dal maggiore (poi generale) Antonio Gandolfì, che con l'articolo del 1868 Sulla difesa delle province venete e sull'importanza del quadrilatero nel sistema generale di difesa d'Italia dà inizio alla serie di studi che dal 1870 in poi ne farà uno dei principali esponenti del dibattito sulla difesa dello Stato 110 • Pur senza citarli, il Gandolfi riprende in buona parte le tesi degli Studi sulla difesa d'Italia dei fratelli Mezzacapo, con particolare riguardo a: valore impeditivo delle Alpi Occidentali e Centrali; minor valore impeditivo delle Alpi Orientali e possibilità d'aggiramento partendo dal Tirolo dello schieramento sull'Isonzo; importanza e elevato valore impeditivo della linea del Po, ma possibilità di reiterare la difesa anche sulla linea dell'Appennino Tosco-Emiliano e nel ridotto centrale; importanza della Marina. Diversamente dal Corsi e dal Valle, il Gandolfi giudica possibile un'efficace difesa già a cavallo delle Alpi, e pur ritenendo anch'egli quella del Po la principale linea difensiva, non esclude la validità di una difesa anche sul1' Appennino Tosco-Emiliano e in un ridotto al centro della Penisola. A suo parere, se si vuole assicurare la tenuta del sistema difensivo contro una potenza forte sia per mare che per terra [come al momento è la Francia, ancor prima che l'Austria - N.d.a.J è necessario creare una Marina forte la quale sia in grado di impedire colpi di mano contro le nostre coste, e

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"Rivista Militare Italfana" Anno Xlii - Vol. I mar.w 1868, pp. 316-333 e Vol. II aprile 1868, pp. 31-58.


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"aggiungendo alle difficoltà di uno sbarco, l'efficacia dell'opera sua, renda impossibile qualsiasi operazione di rovescio [cioè cli aggiramento con sbarchi deJle difese terrestri - N.d.a.)". La forma concava della frontiera occidentale con la Francia favorisce di più l'attaccante o il difensore? Su questa vexata quaestio da molti anni sul tappeto, l'opinione del Gandolfi è originale. A suo giudizio, in linea generale è vero che ne viene favorito più il difensore che l'attaccante, ma dopo la cessione di Nizza e Savoia da parte del Piemonte, la Francia si trova in vantaggio per tre ragioni: - sferrando un'offensiva attraverso il S. Gottardo, renderebbe inutili tutte le fortificazioni italiane più a Ovest; - controlla le posizioni che difendono il colle cli Tenda e la linea del Varo, quindi da esse può iniziare un'offensiva mirante ad aggirare la riva sinistra del Po; - dalla Savoia controlla Ginevra e le strade del Nord (evidente l' analogia con le affermazioni del Biffart). D 'altro canto, per il Gandolfi non conviene fortificare le Alpi marittime, percM banno scarso valore impeditivo e quindi le fortificazioni potrebbero essere facilmente aggirate: di qui la sua proposta di arretrare la difesa dalle Alpi Marittime fino alla linea Alessandria - Novi Ligure Genova, impedendo al nemico di procedere sulla riva destra dell' alto Po che è la direttrice più pericolosa - mediante due doppie teste di ponte fortificate a Piacenza e Mantova, che "costrutte a perno strategico" oltre ad assicurare sulla destra la tenuta della linea di difesa impedirebbero operazioni nemiche sia sulla destra che sulla sinistra del Po. In tal modo finché il difensore sarà padrone di questo triangolo, il nemico non potrà iniziare alcuna seria operazione né sulla destra né sulla sinistra del Po, ed i successi che esso riuscisse anche ad ottenere su di questa non potrebbero avere risultati decisivi sull'esito della campagna. Riguardo alla nuova situazione strategica dopo l'annessione delle province venete, il Gandolfi osserva che il confine orientale è ancor meno favorevole per l'Italia del confine occidentale, perché le Alpi Orientali sono più percorribili cli quelle Occidentali, e le condizioni della frontiera sono tali da compromettere gravemente la difesa del Veneto. Infatti tog)jendo all'Itilia la Valle dell'Isonzo, a cui geograficamente apparterrebbe, non permette l'eseguimento né di questo, né di altro modo di difesa, poiché l'attaccante padrone dei passi di quella Valle e approfittando della concavità che la frontiera ha verso il proprio obiettivo, può sboccare, senza trovar seria resistenza, nel basso Friuli e girare la valle del Tagliamento e quella del Ferro. Come se ciò non bastasse, più a Ovest il saliente del Trentino, servito da]]a nuova linea ferroviaria del Brennero in costruzione fino a Trento, permette all'Austria di aggirare tutte le difese del Veneto. Perciò il Gandolfi


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propone un sistema difensivo arretrato, basato sulla difesa deHa linea del Piave e avente in Treviso il suo perno principale. Treviso, collocata a metà strada tra i monti e il mare, controlla le comunicazioni dal Brenta a Trieste, copre gli sbocchi delle vaJli ed è "la piazza di deposito della difesa della frontiera montuosa, ed il punto sul quale si appoggia la difesa del basso Piave nel Piano". Consente una difesa economica, riducendo al minimo i punti da fortificare; e appoggiata com'è a Venezia, può essere considerata una piazza di 2° ordine. Il suo aggiramento da Nord può essere evitato, sbarrando le strette di Primolano in Val Sugana e di Castellavazzo in Val Piave, lungo la quale dovrebbe essere costruita una ferrovia. Treviso è importante anche come piazza di deposito offensiva per manovre da posizione centrale contro l'esercito austriaco; va anche rafforzata Venezia, base d'operazione immediata per la difesa della frontiera orientale. Questa piazza non perderebbe la sua importanza anche una volta caduta Treviso, perché - protetta verso terra dalla laguna e verso il mare dalla flotta - sarebbe un'ottima base per operazioni di truppe regolari e di volontari, miranti a prendere sui fianchi e al1e spalle l'esercito nemico in movimento verso l'Adige. Più a Ovest il quadrilatero rimane "posizione importante della nostra difesa nazionale", con i1 compito fondamentale di "assicurare l'obiettivo principale della difesa, che deve essere di tenere divisi gli attacchi provenienti dalle Alpi Orientali e Occidentali e di fornire un sicuro rifugio all'esercito nazionale che potrà tenersi ivi concentrato, per sboccare unito ed a tempo opportuno sull'uno o sull'altro, onde batterli separatamente". Le due posizioni-chiave del quadrilatero sono Mantova e Verona, con Mantova che sostituisce Verona nel ruolo di perno della difesa de11a Valle del Po. Il quadrilatero serve anche a opporsi a invasioni provenienti dalle Alpi Occidentali, minacciando le comunicazioni di un attaccante che intendesse penetrare nell'Italia peninsulare e mantenendo sempre coperte le proprie. In questo caso, una volta cadute le difese del Po l'Esercito italiano ripiegherebbe sul quadrilatero fronte a Ovest, con un corpo d'armata distaccato a Bologna, ma in collegamento sia con il quadrilatero, sia con la difesa del1' Appennino e di Firenze. Questa nuova linea di difesa sarebbe forte, perché avrebbe la destra appoggiata al quadri1atero, la sinistra ali' Appennino e il centro al1e fortificazioni di Bologna: di qui l'elevata importanza della piazza di Bologna che è ancor più rilevante, sia dal punto di vista tattico che da quello strategico, nel caso che l'Esercito italiano dopo aver perduto tutte le posizioni nella valle del Po si ritiri in Toscana. Protegge la via Bologna Pistoia, servita anche da ferrovia, che è la più breve per mettere in comunicazione l'Emilia con i1 Sud: quindi consente all'Esercito italiano dislocato a Nord degli Appennini di prevenire qualunque movimento del nemico da Piacenza alla Toscana e di opporsi a sbarchi nemici sulle coste di questa regione. Diversamente dal Corsi e da Luigi Mezzacapo, il Gandolfi non ritiene che la nuova capitale, Firenze, si trovi in posizione naturalmente forte:


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perciò ritiene necessario "un ridotto centrale fortificato, che dovrà trovarsi pressoché sulla linea mediana della penisola, al nodo delle comunicazioni principali che lungh'essa si sviluppano [...] nei pressi di Foligno ad esempio o lungo la valle del Tevere". Questo ridotto, e le principali piazze di difesa del1o Stato, dovrebbero essere collegate con ferrovie; come dimostra anche la recente guerra di secessione americana, "l'importanza strategica delle ferrovie è indiscutibile. La loro influenza è così grande in guerra, che nei paesi non fortificati le battaglie hanno quasi sempre avuto luogo nel punto di riunione di più ferrovie, il cui possesso era sempre l'obiettivo dell'attacco".

La perdita d'importanza del quadrilatero e le nuove condizioni della difesa

d'Italia secondo Fiorenzo Bava - Beccaris. Domenico Asti e Nino Bixio Gerolamo Busètto Nel 1869, cioè a un anno di distanza dalla pubblicazione dello studio del Gandolfi, la Rivista Militare pubblica tre altri articoli che, more solito, giungono a conclusi01ù ben diverse da quelle del Gandolfì, a cominciare dall'importanza del quadrilatero; di tali studi, dovuti al maggiore d'artiglieria Fiorenzo Bava, al capitano del genio Domenico Asti e al generale Nino Bixio con coautore Girolamo Busetto, riferiremo solo gli aspetti più originali. Pur dichiarandosi contrario a moltiplicare le fortezze, il Bava si richiama al ruolo (assai impegnativo) ad esse assegnato dal Brialmont e sostiene la necessità di rafforzarle e dotarle di artiglierie più moderne, perché sono ormai le artiglierie - e non le opere in sé - ad assicurare l' assolvimento del loro compito 111 • Pertanto, al di là delle dichiarazioni di principio, anche il Bava segue la solita tendenza a erigere troppe fortificazioni, resa ancor più onerosa dal fatto che contro un nemico proveniente dalle Alpi Occidentali il nostro Esercito, una volta costretto ad abbandonare la linea "relativamente debole" Alessandria - Piacenza non potrebbe certo rifugiarsi nel quadrilatero, perché ciò significherebbe abbandonare la base d ' operazione del Po e scoprire i passaggi sull'Appennino. Contro un nemico proveniente da Oriente, invece, la difesa si appoggerebbe a Mantova e Bologna, mentre le altre fortezze avrebbero secondaria importanza. Più in generale anche per il Bava la chiave della difesa d'Italia è la valle del Po, quindi occorre dotarla di un buon sistema di fortificazioni in grado di: - sbarrare gli sbocchi delle valli alpine e tutti i valichi per i quali possono passare le artiglierie e il carreggio; - rafforzare i perni strategici per la manovra offensiva e difensiva, costituendo inoltre "una gran piazza di deposito per le operazioni di guerra, e per rifugio in caso di disfatta dell'esercito".

11 1

F. Bava, Cons iderazioni sull 'ordinamento militare del ReRno, "Rivista Militare Italiana" Anno XIV - Voi. Il giugno 1869, pp. 484-494.


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Allo scopo di rendere forte soprattutto la linea del Po, quest'ultima piazza "potrebbe essere Piacenza, o meglio ancora una piazza a cavallo del Po, e sulla strada che mette in comunicazione l'Italia superiore colla Spezia per il passo della Cisa, con due gran perni strategici sulla destra, Mantova e Bologna, e un altro a sinistra, Alessandria". Le piazze marittime di Genova, La Spezia, Venezia, Ancona devono diventare inespugnabili, perché hanno il compito di assicurare i fianchi e le comunicazioni dell'Esercito belligerante schierato nella Valle del Po con il resto della penisola; è particolarmente urgente dotare di buone fortificazioni La Spezia, "unico porto ne] quale potrebbe ricoverarsi la flotta nel Mediterraneo", e fare di Taranto ''una grande e forte stazione navale". Diversamente dal Bava, l' Astim estende il suo esame alla difesa di tutta Italia con un concetto della difesa delle Alpi non nuovo, perché basato su un'azione di osservazione e ritardo nelle Alpi e sul contrattacco della massa principale dell'Esercito allo sbocco de11e va11i. Indica come centro della difesa del Piemonte e della Liguria, la piazza di Alessandria integrata da Casale Monferrato e Valenza. Dopo Alessandria occorre fortificare Piacenza, alla quale anche l'Asti dà grande rilievo, prevedendo due teste di ponte a Cremona e Stradella. Sul fronte orientale Palmanova non ha più alcuna utilità, perché può essere aggirata. Non conviene fortificare i fiumi del Friuli, perché possono essere aggirati da Nord. L'Adige è la prima valida linea di difesa e Verona è importante perché vi convergono le linee d'operazione del Veneto e del Tirolo. Perduta la linea dell'Adige, la nostra difesa si dovrebbe appoggiare a Mantova, sostegno naturale de11a linea del1'Adige. Bologna - pur essendo meno importante di Piacenza - serve per proteggere la ritirata dell'Esercito oltre l'Appennino, facilitare lo sbocco delle valli dell'Appennino a un esercito di soccorso che venga dalla Toscana, ecc.; non conviene però farne un grande campo trincerato, per non sottrarre troppe forze al grosso dell'esercito. Oltre che della linea del Po, è necessario mantenere il controllo de11' Appennino Tosco-Emiliano. Non è però utile fortificare Firenze e la Toscana, perché 1'Italia peninsulare si difende soprattutto contendendo al nemico il possesso dell'Appennino, e data la prevedibile scarsità di forze dopo la difesa a oltranza della Val Padana, anche attestandosi in Toscana non si potrebbe impedire al nemico l' avanzata verso Sud lungo il versante adriatico. Infine, dovrebbero essere costruite due piazze di deposito a Foligno e Isernia. Per la difesa delle coste, secondo l'Asti vanno fortificate le grandi città marittime e i grandi porti militari anche da] lato di terra, e fortificati i porti secondari solo dalla parte del mare; occorre inoltre dislocare opportunamente aliquote di forze terrestri che, avvalendosi delle ferrovie costiere, siano in grado di intervenire tempestivamente. Comunque, la "prima e la 11

2.

D. Asti, Considerazioni sulla difesa Renerale dell'Italia, "Rivista Militare Italiana". Anno XJV - Voi. IU settembre 1869, pp. 5-27.


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più valida di tutte le difese sta indubbiamente nell'avere una buona Marina". Se noi avessimo il dominio del mare, il nemico non potrebbe tentare alcuna impresa con possibilità di riuscita, perché anche se riuscisse a eludere la vigilanza della nostra flotta e a raggiungere le nostre coste, il concentramento delle nostre forze navali gli impedirebbe di ritirarsi. In ogni caso il pericolo di sbarchi non va sopravvalutato: ''una potenza la quale sia in grado di invadere l'Italia dal lato di terra, potrà far concorrere all' impresa una spedizione marittima, ma non farà mai di questa il principale mezzo di attacco, e una potenza la quale fosse per attaccarci dal mare soltanto, intenderà forse rapirci un porto, distruggere un arsenale, rovinare il nostro commercio, ma mai intraprendere una vera conquista". Fin qui nonostante le diverse valutazioni rispetto ad altri autori del periodo, il capitano Asti non si discosta dal comune alveo: dove manifesta idee nuove o assai interessanti, è in talune moda1ità per la difesa delle Alpi e degJi Appennini. Ciò che afferma a proposito della difesa delle valli alpine gli assegna anzitutto un posto ragguardevole tra i precursori delle truppe alpine. Trattando della difesa delle Alpi Occidentali afferma: alla guardia delle Alpi dal Colle di Tenda al Monte Bianco si provvederebbe molto utilmente con piccole fortificazioni le quali chiudessero i passi accessibili alle artiglierie, ed inoltre organizzando in compagnie di carabinieri territoriali gli abitanti delle vallate, uomini arditi, robusti, conoscitori di ogni sentiero, ed ai quali non mancano che buoni ordinamenti per essere i più sicuri avamposti della nazione [nostra sottolineatura - N.d.a.).1 13

Anche in questo caso, "carabinieri" sta per milizie territoriali armate di carabina. Si tratta di un concetto che già troviamo nei fratelli Mezzacapo, che però qui viene espresso in modo ancor più chiaro e ben definito, tanto più che l'Asti non intende limitare l'impiego di tali milizie a un solo settore, ma lo prevede nell'intero arco alpino e persino nell'Appennino, per logorare le forze nemiche che avanzano verso Sud. In quest'ultimo caso, anzi, "il terreno per la sua natura montuosa molto bene si presta ad una guerra basata su tali princlpi", perciò "in verun caso meglio che in questo l'azione degli eserciti sarebbe efficacemente coadiuvata dagli abitanti della città, delle terre e delle campagne qualora fossero organizzati in compagnie · di carabinieri territoriali". Segue un aperto elogio della guerriglia e un'ennesima citazione dell'esempio spagncJlo della guerra 1808-1813, nella quale i veterani francesi "caddero vittime dei partigiani spagnoli, né valsero loro le vittorie che pur talvolta riportarono, perocché un paese infestato da bande si occupa ma non si conquista". Più in generale l'Asti ammette (non è cosa di poco conto) che

"' D. Asti, Art. cit., seuembre 1869, pp. 384-385.


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la guerra partigiana quando è ben preparata, diretta ad un unico scopo, ed alimentata dal buon volere di una nazione decisa a difendere fino all'estremo la propria indipendenza, è il più terribile nemico degli eserciti stranieri. Dinnanzi a quei soldati paesani i quali investono da ogni parte e che pure è impossibile raggiungere, che cacciati di fronte riappaiono alle spalle, che intercettano 1e strade e depredano i convogli, le superbe legioni vittoriose in tante giornate campali cadono affrante dalla fame e dalla stanchezza, e si distruggono senza poter combattere un nemico di cui avrebbero facilmente ragione in campo aperto 11 • .

Per utilizzare siffatte risorse nella difesa d'Italia, occorrerebbe "svegliare lo spirito militare in tutte le classi della nazione, renderle famigliari all'uso del1'armi e coll'organizzazione delle compagnie dei carabinieri territoriali e di circondari di difesa, porsi in grado di dirigere 1' attività"_ Ecco quindi le radici degli alpini, compresa l'organizzazione di circondari locali di difesa; si deve anzi dire che la loro formula è estesa anche e soprattutto all'Italia peninsulare, e che si dà particolare risalto alla possibilità che essi ricorrano alla guerriglia_ Se si pensa agli eventi dell'ormai vicina guerra franco-prussiana e alla capitolazione dell'esercito di Mac Mahon dentro il grande campo trincerato di Metz (classica "piazza di rifugio" nella quale un esercito battuto avrebbe dovuto ritemprarsi per poi passare all'offensiva), anche talune originali intuizioni dell'Asti sul1a funzione delle predette piazze di rifugio meritano considerazione: "quando un esercito batte in ritirata ripiegandosi su di una piazza, non è nella piazza che si deve raccogliere per ritentare la fortuna [come viene sostenuto dalla generalità degli autori del periodo, non escluso il Marselli - N.d.a.], ma bensì in un posizione difensiva, della quale la piazza altro non deve essere che l'appoggio". Di conseguenza il sistema di circondare la cinta di forti staccati, in modo da avere una piazza e al tempo stesso un campo trincerato, "non ci pare applicabile in modo assoluto, · a meno che non trattisi dell'ultimo ridotto di difesa dello Stato"; questo perché la posizione difensiva - che è in sé forte - non si identifica del tutto con la piazza, la quale serve solo a completarla. . Anche il lavoro del Bixio e del Busetto è apprezzabile non tanto per le soluzioni indicate, ma per taluni spunti originali su argomenti destinati a assumere crescente importanza 115 • Il loro concetto - base per la difesa nazionale è piuttosto scontato e generico, se non tautologico: approfittare delJe condizioni geografiche ed idrografiche de11'Italia, per collegare la difesa marittima alla continentale, in modo che quest'ultima, prendendo per base centrale la regione umbro-aretina, sia estesa alla linea del 11 •

D. Asti, Art. cit., ottobre 1869, p. 23.

11

N. Bixio - G. Busetto, Riflessioni sul sistema di difesa dello Stato e particolarmente sul perno strategico di Alessandria, "Rivista Militare Italiana" Anno XIV - Vol. II maggio

'

1869, pp. 213-242 e Voi. II giugno 1869, pp. 369-391.


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Po, ad Alessandria e Cattolica, e così assicurata I 'azione militare su entrambi i versanti del bacino del Po, il ridotto della difesa sia garantito dal mare, dalle fortezze destinate a11a difesa delle coste e ad accogliere gli arsenali e le stazioni della marina militare. Come i fratelli Mezzacapo, Bixio e Busetto tendono a tutto fortificare e come i frate11i Mezzacapo attribuiscono eccessiva importanza alle basi marittime, attribuendo loro un'influenza ancQr più marcata e irrealistica; peraltro, benché il ligure Bixio sia stato anche capitano marittimo non si trova ]'accenno ormai consueto alla necessità di avere una buona flotta. L'aspetto più interessante del lavoro è l'accenno all'importanza delle "mine ele~triche" e delle torpedini per la difesa delle coste, come fa l' Austria, che oltre le torpedini e le mine elettriche fisse e subacquee, ha comperato dai sigg. Luppy e Wilkend [Whitehead - N.d.a.] il segreto di una torpedine semovente [cioè di un siluro - N.d.a.], da servire come arma di difesa e di offesa. Se ne conoscono le esperienze eseguite a Fiume, e sarebbero di una tale potenza di offesa da screditare i più forti cannoni conosciuti sinora. Possono acquistare una velocità di 15 Km all'ora, si lanciano da un tubo laterale al bastimento, si caricano con 25 kg di polvere; a 800 metri undici su dodici colpirono il segno. Questo apparecchio distruttore è considerato costituire il miglior mezzo di questo genere di offesa e difesa. Gli autori accennano poi al primo impiego costiero di mine nella guerra di secessione americana "con immenso successo" (e anche da parte dei danesi contro i contingenti da sbarco prussiani nella guerra del 1864), ricordando che si tratta di un'invenzione italiana del XVI secolo, dovuta al fiorentino Bernardo Buontalenti. Al momento - essi riferiscono - sono in corso studi coperti dal segreto su questo nuovo ritrovato bellico in Francia, Inghilterra e Belgio. Si sta studiandolo anche in Italia; ma ciò che importa è avere effettivamente disponibile al più presto ''un materiale ancorabile e un personale che sappia collocarlo rimuovendolo con prontezza, di notte, di giorno e con tutti i tempi", perciò è necessario che il Ministro della guerra e quello della Marina "mostrino di pensare alla cosa più che al segreto", e di comune accordo stabiliscano la costituzione di un corpo speciale per l'impiego di queste nuove armi, che forse sarebbe meglio assegnare alla Marina. Inoltre a sussidio di questo tipo di difesa bisognerebbe utilizzare il servizio semaforico, e occorrerebbe disporre di uno strumento per rilevare la posizione esatta dei bastimenti nemici [cioè di un telemetro - N.d.a.]; sarebbe anche necessario predisporre l'illuminazione delle acque costiere mediante proiettori ... Un altro aspetto da sottolineare è l'insistenza degli autori non solo sulla necessità di prevedere ottimi collegamenti ferroviari tra le principali fortezze e/o di sbarrare le ferrovie di confine, ma anche sulla necessità di organizzarle militarmente all'emergenza, utilizzando specie per le isole e il Sud anche la Marina mercantile, che dovrebbe assicurare i trasporti di mobilita-


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zione [come è avvenuto nella guerra del 1866 - N.d.a.] là ove il sistema ferroviario non è ancora sufficientemente sviluppato. In particolare devono essere organizzati reparti del genio per riparare le linee e per utilizzare al meglio le ferrovie, onde impedire che le compagnie private sottraggano magari il materiale rotabile alla guerra, ricoverandolo negli Stati vicini (a cominciare da quello della Chiesa). Perciò importa anzitutto che il governo si metta in grado, allo scoppiare della guerra, di sostituirsi alle società su tutte le linee ferroviarie, e possa dirigere con personale a lui esc1usivamente subordinato l'esercizio, non altrimenti di ciò che farebbe in consimili evenienze col materiale dei trasporti marittimi. Occorre per questo che durante la pace le cose siano predisposte in modo non solo da conoscere esattamente tutti i dati che riguardano le ferrovie, ma che si veda in modo positivo come meglio può essere impiegato il materiale [... ] e si tengano presenti le agevolezze che permettono le varie linee e le stazioni che si trovano lungo di esse, avuto sempre riguardo ai punti strategici fissi ad eventuali che esistono nello Stato ..

Il Bixio e il Busetto mettono inoltre in rilievo - cosa che i precedenti autori non hanno fatto - la vulnerabilità delle ferrovie costiere rispetto ad attacchi dal mare, il che imporrebbe la costruzione di una ferrovia centrale dal Nord al Sud, al momento ancora impedita dalla presenza dello Stato pontificio: occorre dunque aggirare l'ostacolo con una ferrovia che "continuando da Terni per Rieti, s'insinui direttamente per gli Abruzzi, intersechi a Sora e si riallacci alla linea di Napoli e Roma". Per il resto, essi ripercorrono delle linee di tendenza per la difesa d'Italia in gran parte già note, poco aggiungendovi di originale e interessante. Ricordiamo, tra l'altro, l'importanza della linea del Po e, in essa, della linea Alessandria - Piacenza - Bologna; l'importanza delle basi marittime di Genova, La Spezia, Venezia, Ancona, Taranto, ma anche di Savona, Orbetello, Brindisi e dell'ancoraggio a La Maddalena; delle fortezze del quadrilatero ritengono ancora utile solo Mantova. Per la difesa dell'Italia centrale sostengono la necessità di costruire una piazzaforte a Cattolica, con il compito di impedire l'aggiramento di Bologna e l'accesso da Nord-Est alle testate delle valli del Tevere e delI'Arno, sbarrando anche la strada di Ancona. Roma (opinione diversa da quella degli autori coevi) è "il solo punto tra la valle del Po e le Calabrie che sarebbe in caso di formare il cuore strategico per accogliere e muovere opportunamente le nostre risorse militari per tutto il resto dell'Italia". E, con notevole esagerazione, aggiungono che "Orbetello, Civitavecchia e Gaeta le rendono tributario il Mediterraneo; Ancona, Popoli, Benevento e Capua ne assicurerebbero l'influenza sul litorale adriatico e sulle province del Sud". Ma anche indipendentemente dal possesso o meno di Roma, occorrerebbe costruire ad Arezzo una grande piazza di deposito e ridotto centrale, che "garantirebbe solidamente il Paese". Tale località è preferibile a Perugia, Foligno e Terni per una serie di ragioni: a) potrebbe fornire un valido con-


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corso alla base d' operazione principale del Po, consentendo il riordino delle unità affluite dal Sud; b) sarebbe al sicuro "dai colpi di mano di un rapido sbarco nemico", con Ancona e Orbetello che la proteggerebbero sia verso l'Adriatico che verso, il Tirreno; c) controllerebbe le testate delle valli dell'Arno e del Tevere e relative comunicazioni; d) insieme con La Spezia, proteggerebbe la Toscana e Firenze e "osserverebbe offensivamente e difensivamente le province romane" (cioè lo Stato delle Chiesa). A fronte di queste esigenze (estremamente onerose), anche il Bixio e il Busetto lamentano l'eccessiva debolezza del sistema fortificatorio italiano del momento: "finché l'Austria sta nel Veneto, [nel Veneto non c'è più: forse nel Friuli e nel Trentino? - N.d.a.], la garanzia attuale di un incompleto campo trincerato a Bologna, e di un debolissimo perno a Piacenza, quella appena cominciata delle due piazze marittime di Ancona e Spezia, presenta un complesso slegato, senza nessun ridotto centrale, che ci lascia quasi interamente scoperti". Il nemico potrebbe facilmente interrompere le comunicazioni tra Piacenza e Bologna, e avvalendosi degli ottimi porti dell'Istria e degli 80 piroscafi da trasporto che in caso di guerra gli garantisce il Lloyd Triestino, potrebbe sbarcàre nei dintorni di Ancona, conquistare tale base e interrompere la ferrovia Ancona - Bologna, avanzando sen,za incontrare resistenza fino alle testate delle valli dell'Arno e del Tevere. Per . contro, benché la nostra Marina sia superiore, la base di Ancona non le assicura una capacità "di proiezione di potenza" pari a quella della Marina austriaca, né sulle coste adriatiche esistono altri approdi adatti: "Manfredonia è in uno stato primitivo, i porti interni di Brindisi e Taranto non sono ancora capaci di ancoraggio, né Messina e Siracusa hanno alcun impianto capace di fornire alla flotta materiale di approvvigionamento". Sul Tirreno la situazione non è migliore; a La Spezia è stato costruito un arsenale ma la città non è ancora stata fortificata, mentre Genova deve essere rafforzata specie sul fronte a terra. Per giunta, in tutte le piazze i pezzi da 12 tonnellate - peraltro pochi - devono essere sostituiti da quelli da 40 ...

Napoli punto-chiave della difesa d'Italia secondo Gerolamo Ulloa

Di ben altro spessore teorico rispetto a quello del Bixio un altro scritto partigiano e meridionalista come quello dello Sponzilli su Gaeta, ma ciò · nonostante assai più profondo, meno scontato e sotto taluni aspetti anche precorritore: si tratta di Napoli e il suo porto militare di Gerolamo Ulloa. 116 Come già lascia intendere il titolo, l'Ulloa intende dimostrare la necessità che Napoli rimanga un'importante base navale, polemizzando duramente con il Ministro Sella. In una recente seduta della Camera, quest' ultimo

11 ._

Firenze, Stabilimento Tip. Civelli 1870.


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aveva infatti sostenuto che il porto militare di Napoli andrebbe abolito per accrescere lo spazio occupato dal porto mercantile, tanto più che non essendo fortificato, esso costituisce "nient'altro che un'attrattiva al nemico per recare danno alla città". Per l'Ulloa, al contrario, Napoli è "un punto strategico primario" e va potentemente fortificata, senza che questo significhi nuocere allo sviluppo del porto commerciale e all'espansione della città, per una serie di ragioni: se Napoli non fosse fortificata e difesa da navi da guerra, la Royal Navy potrebbe occupare Capri, Procida e Ischia, bloccarla e stroncarne il florido commercio, distruggere il cabotaggio costiero, distaccarla dall'Italia e farne la base della conquista dell'Italia Meridionale e soprattutto della Sicilia; in caso di guerra con la Francia, Napoli diventerebbe per i francesi una base d'operazione per la conquista di Roma o Firenze, che non potrebbero certamente resistere a lungo perché non protette da ostacoli naturali e nemmeno fortificate; l'importanza militare di Napoli è ulteriormente aumentata dopo l'apertura del Canale di Suez, perché con Brindisi e Taranto forma un "triangolo strategico" del quale tutti dovranno tenere conto nei problemi che riguardano la navigazione nel canale e la questione d'Oriente. L'Ulloa dedica speciale attenzione allo scenario strategico di una futura guerra con la Francia, inaugurando così - fin dal 1870 - il cospicuo filone di pensiero navale incentrato sul pericolo di "proiezioni di potenza" della Marine Nationale sulle nostre coste. In proposito, esamina tre ipotesi operative: le truppe francesi mobilitate nel Mezzogiorno della Francia potrebbero riunirsi con rapidi movimenti ferroviari a quelle già schierate in Savoia e nel Nizzardo, per piombare in meno di 15 giorni su Torino; in seconda istanza, le truppe radunate in Algeria e nel Mezzogiorno della Francia potrebbero "sbarcare a Livorno dove stabilirebbero la loro base d'operazione, per marciare di concerto con l'esercito delle Alpi su Firenze, e là dettare legge all'Italia"; terzo caso: sfruttando la sua notevole superiorità marittima, la Francia potrebbe simulare un attacco solo terrestre sulle Alpi, "ed invece far sùbito diversione alle nostre forze colà raccolte, e sbarcare in Napoli, dove troverebbe un'ottima base di operazioni per girare tutte le nostre forti posizioni, le fortezze del Nord, gli Appennini, la Toscana e il Po". Secondo l'Ulloa la città va difesa dal solo lato del mare, perché non corre pericolo dal lato di terra_ Per attaccare una città così popolosa, con forte presidio militare e 30.000 guardie nazionali ben addestrate, a suo giudizio occorre un forte e numeroso esercito, che solo con molto rischio potrebbe sbarcare su una spiaggia a poche leghe dalla città, contando unica-


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mente sull'appoggio di una flotta che il vento potrebbe allontanare dal litorale e una burrasca disperdere. Per di più le nostre forze navali senza l'aggravio della difesa di Napoli, e con la ritirata sicura sia nel suo porto militare eh~ in quello di La Spezia, potrebbero agevolmente attaccare la flotta francese che, frazionata a causa delle esigenze di scorta dei convogli, perderebbe molta della sua superiorità. D'altra parte, nonostante l'importanza da lui data a1la difesa marittima l'Ulloa non è affatto nemico delle fortificazioni terrestri e non nega la necessità di fortificare le principali posizioni dell'Italia Settentrionale per opporsi alle manovre dell'Esercito francese, che avrebbe la possibilità di attaccare a forze riunite scegliendo il punto decisivo, mentre l'Esercito italiano sarebbe costretto a dividere le sue forze per difèndere sia il confine alpino che la capitale, le principali piazze marittime e l'Italia Meridionale. Sul vantaggio francese dopo la cessione di Nizza e Savoia, l'Ulloa ha idee analoghe a quelle del Gandolfi e di altri: "occupando oggi i francesi Nizza, padroni essendo dell'importante posizione di Saorgio, ad essi riesce facile occupare il Col di Tenda, e di impadronirsi così della chiave della gran catena delle Alpi". Napoli comunque deve avere priorità.su tutte le altre posizioni da fortificare; con un esercito valoroso e ben ordinato l'Italia Settentrionale e la Toscana potrebbero essere difese anche senza fortificare Torino, Milano e Bologna, ma per Napoli la cosa è ben diversa: per essa urge il fortificarla bene dal lato del mare, poiché, trovandosi molto lontana da Firenze e lontanissima dallo scacchiere di guerra, non può essere sostenuta dal grande esercito raccolto fra le Alpi e il Po.

Il saggio termina con l'esaltazione della fortificazione e un pressante invito al governo a rafforzare non solo Napoli, ma la Marina. Pur disponendo di una potente flotta, gli Stati Uniti e l'Inghilterra hanno fortificato le loro principali città costiere; la Francia ha fortificato Parigi, e benché la sua popolazione marittima sia inferiore alla nostra, oltre a fortificare le principali città costiere ha creato cinque grandi arsenali marittimi e altri sei secondari; anche la Spagna oltre a quelli delle colonie possiede quattro arsenali marittimi. Per contro l'Italia, "creata dalla natura per essere una potenza marittima di prim'ordine", pensa di porre rimedio al dissesto del . suo bilancio arrestando Io sviluppo della Marina e quindi del suo commercio, e ha al momento un solo arsenale ancora incompleto, quello di La Spezia; Taranto è solo in progetto, Venezia non si presta a dare asilo alle grandi navi corazzate. Nonostante queste gravi carenze - conclude l'Ulloa - si pensa ad eliminare anche il porto militare di Napoli, che è la terza grande città di Europa: "Eh via, onorevole Sella, è sul mare, e pel mare che l'Italia deve rivivere e riacquistare l'antico suo splendore, creare una Marina da guerra proporzionata ai suoi ricchi elementi marittimi, al suo commercio che va a


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ricevere grandissimo incremento pel taglio dell'Istmo di Suez, alla ragionevole influenza che deve esercitare nel Mediterraneo, e alla parte attivissima che deve prendere nell'intricata questione d'Oriente che va di giorno in giorno sempre più complicandosi".

Conclusione Sul rapporto tra geografia e fortificazione ci siamo diffusi abbastanza: ma un conto è l'uso, un conto è l'abuso di una data disciplina, chiedendole ciò che essa non può dare. Non sarà mai abbastanza sottolineato che lo spiritualista Clausewitz (Cfr. anche Voi I, cap. III) ammette - com'è naturale l'influenza del terreno sulle operazioni tattiche e strategiche, ma rimane molto lontano da approcci sul tipo di quello del generale Durando (Vol I, cap. XII) che, dando peso eccessivo alla geografia, creano le premesse per il successo specie nel secolo XX della geopolitica e geostrategia, discipline alle quali Clausewitz si mantiene totalmente estraneo, attaccando a fondo le teorie a sfondo geologico, che pm prenderanno piede nella seconda metà del secolo XIX. Il generale prussiano se la prende in particolar modo con il troppo facile uso di espressioni come punto dominante o chiave del territorio, attribuendone la paternità al Lloyd. Per lui il termine posizione dominante ha un senso solo se indica ' 'una zona senza il cui possesso non si può arrischiarsi a penetrare in un territorio" ; se invece con tale espressione si vuol definire "ogni comodo accesso a un territorio" oppure "ogni comodo punto centrale del medesimo", essa diventa null'altro che ''un'arbitraria figura retorica". All'atto pratico, "per lo più la miglior chiave per l'accesso al territorio risiede nell'esercito nemico"117 • L'altitudine non sempre rende di per sé forte una posizione, e poco significato ha anche l'influenza di una posizione sul resto del Paese: nessuna armata può mantenersi nelle vallate ove scorre un gran fiume, se non possiede le alture sulla valle [che peraltro, specie sulle Alpi sono sovente inaccessibili - N.d.a.]. In tal modo l'occupazione di alture puà [non deve - nostra sottolineatura - N.d.a.] divenire realmente un mezzo di dominio, ed è impossibile negare quanto di vero contiene tale idea. Ma ciò non impedisce che le espressioni contrada dominante, posizione coprente, chiave del paese, ecc., in quanto si riferiscono alla proprietà delle alture, non siano per lo più che formule vuote alle quali manca un sano fondamento. E per condire le banalità troppo apparenti delle combinazioni militari, che si ricorre volentieri a questi elementi pretenziosi della storia: essi servono da

111.

K. Von Clausewitz, Della guerra, Milano, Mondadori, 1970, Voi. Il pp. 597-601.


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tema favorito ai soldati saccenti, da bacchetta magica agli adepti della strategia, e tutta la vanità di questi giuochi del pensiero, tutte le prove contrarie fomite dall'esperienza non sono bastate a convincere gli scrittori ed i lettori, che essi, in sostanza, attingevano dalla botte vuota delle Danaidi. Costantemente la condizione è stata confusa con lo scopo, e lo strumento è stato scambiato per l'azione stessa. Si è considerata l ' occupazione di un terreno o di una posizione dominante, come una manifestazione di forza, come un colpo inferto, e la contrada e la posizione in sé stessa, come entità reali: mentre l'occupazione in questione non è che una vana manifestazione analoga a quella dell'alzare un braccio, e la contrada o la posizione altro non sono che uno strumento inanimato, una semplice proprietà la quale non può manifestarsi che in presenza di un oggetto: un semplice segno algebrico, positivo o negativo, non ancora seguìto da una grandezza determinata. li colpo portato, l'oggetto, il risultato è il combattimento vittorioso: solo esso ha un valore, solo esso conta nei calcoli. È questo che non si deve mai perdere di vista, sia nei giudizi espressi sui libri che nell'azione sul terreno. Se dunque soltanto il numero e l'importanza dei combattimenti vittoriosi hanno importanza decisiva, è evidente che il rapporto fra gli eserciti e fra i rispettivi loro comandanti è la cosa essenziale: mentre la parte dovuta all' influenza del terreno non è che secondaria"".

Alla fine dell'opera Della guerra Clausewitz precisa ancor meglio il suo pensiero: "se qualche lettore si meraviglia perché non abbiamo parlato affatto dell'aggiramento delle linee fluviali, del dominio sulle montagne mediante l'occupazione dei loro punti dominanti, dell'evitare le piazzeforti, della ricerca delie chlavi di un paese, ciò significa che egli non ci ha compreso, e, crediamo, non ha neppure compreso la guerra nei suoi rapporti generali. Nei libri precedenti abbiamo caratterizzato questi elementi in generale, ed abbiamo trovato che essi hanno per la maggior parte una influenza assai minore di quanto non sia loro attribuito dalla fama. Tanto meno, perciò, essi possono e debbono avere importanza in una guerra mirante all'atterramento dell'avversario, e, cioè, un'importanza tale da influire sull'intero piano di guerra" 119 • Nonostante queste severe critiche, non si può dire che Clausewitz trascuri l'importanza delle piazzeforti; ammette anzi che possano esercitare in proporzione al presidio che ospitano - una certa influenza sulla regione circostante. 1n sostanza ha un concetto realistico ed equilibrato della loro effettiva utilità e non esita a riconoscere che sono "grandi ed ottimi appoggi · per la difesa", assegnando loro tutti i compiti che abbiamo visto elencare dagli autori citati, ivi compreso quelli di "luogo di rifugio di corpi deboli e . battuti" e di "punto centrale di una popolazione in armi", cioè di rifugi base d'appoggio e di rifornimento per milizie e reparti di partigiani 120 • 118 • 119

ivi, Voi. I p. 441. ivi, Vol. II p. 855. '"" ivi, Voi. il pp. 446 e 498-516.


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Se con il filtro fornito dal generale prussiano si guarda all'impostazione strategica seguìta dalla massima parte degli autori primastudiati, si arriva alla conclusione che essi cadono chi più chi meno nelle storture concettuali giustamente da lui condannate; ancor più che all'abuso della geografia, cioè è dovuto alla pretesa di attribuire alle fortificazioni in sé un potere salvifico, un' influenza, dei compiti che vanno non di rado al di là del senso comune. Si tratta, insomma, di una metodica tipicamente jominiana, anzi tendente verso le manifestazioni più esasperate della corrente dei dottrinari, come le teorie "geometriche" dell'Arciduca Carlo. Il Willisen e lo Sponzilli raggiungono le punte massime di tale tendenza generale, alla quale significativamente si sottraggono solo il Corsi e il Marselli. Al di là dello specifico argomento, le tesi degli autori prima esaminati sono quindi dimostrazione inequivocabile della larga prevalenza fino al 1870 tra i Quadri italiani - e non solo tra di essi, in verità - della mentalità scolastica e schematica tipica della corrente dei dottrinari, che non favorisce certo azioni audaci, dominata com'è dal culto delle posizioni e da un eccessivo timore dell'aggiramento e della perdita delle linee di comunicazione. Cosl le posizioni stesse diventano, per i più, l'unico rimedio, l'unica sicurezza contro tali timori e il mezzo per rimediare alle sconfitte, trascurando i fattori moràli invece fin troppo esaltati da C1ausewitz. Troviamo tracce di tale mentalità persino neI1a guerra 1915-1918, quando presidiando una certa posizione dominante si riteneva per ciò stesso di assicurare la saldezza di un settore: il risultato è stato Caporetto, cioè un'avanzata nel fondovalle aggirando facilmente le "forti" posizioni su11a dorsale del Monte Matajur che lo "dominavano". Un siffatto approccio al problema deUa fortificazione discende direttamente da un analogo approccio ai contenuti della strategia, presentata dai dottrinari come scienza esatta basata su principi costanti che sono una guida immutabile, e possono essere ricavati anche da dati statistici e geografici. Studiando alla luce di tali principi la geografia del teatro d'operazioni, se ne vorrebbero ricavare i punti strategici principali da conquistare o difendere concentrandovi le forze (Voi I, cap. II e ID); in tal modo, come affermato dal comandante Mordacq, i dottrinari fanno della strategia una questione matematica o geometrica, tendendo a ridurla in equazioni. Il dibattito del quale abbiamo dato conto, più che confermare smentisce queste teorie. Se la strategia è qualcosa di molto vicino a una scienza esatta, anche lo studio dei suoi problemi dovrebbe percorrere vie obbligate e ammettere soluzioni largamente univoche, perché dettate da elementi fissi e ben determinabili i cui effetti possono essere valutati con buona approssimazione e in bande di oscillazione ristrette, come sono appunto quelli geografici. Non è affatto così: tra gli autori prima esaminati chi giudica ]e Alpi un forte ostacolo che avvantaggia la difesa, e chi le ritiene superabili agevolmente da un attaccante; chi ritiene il Centro - Sud la chiave, la base della difesa del Paese, e chi pensa, invece, che tale chiave è la Val Padana; chi vede nella linea del Po la principale linea di difesa, e chi ritiene invece che, specie da Piacenza in poi, essa è w1a frontiera aperta a facili attacchi austriaci che potrebbero age-


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volmente raggiungere l'Appennino Tosco-Emiliano, unica linea forte dopo le Alpi; chi giudica Piacenza una posizione - chiave, e chi invece ritiene che debba avere la prevalenza Bologna; e si potrebbe continuare. Persino su Napoleone I non c'é accordo; chi dice che non si curava delle fortificazioni, e chi che dava ad esse il giusto valore... Si deve solo dire che le opposte valutazioni sono favorite dall'insopprimibile ambiguità geostrategica dell'Italia, Stato terrestre e marittimo allo stesso tempo, senza elementi sicuri, costanti e decisivi per farlo ritenere eminentemente terrestre o eminentemente marittimo. La geografia sfugge al suo ruolo - che dovrebbe essere quello di restringere i limiti delle scelte - anche per un'altra ragione: la frequente abitudine di costruire delle ipotesi più o meno fondate sulle possibili linee d'azione del nenùco, ignorando altri dati della situazione del momento, a cominciare dall' animus del nemico, dalle sue forze, dalla mentalità del suo generale, così come i dati variabili della nostra situazione. In tal modo, le certezze o almeno gli ancoraggi saldi che in sé dovrebbe fornire la geografia sono per così dire annacquati, resi precari dalle personali previsioni di ognuno sulla "guerra futura", e dalla pretesa di fondare su queste - e non sulla geografia - le fortificazioni stesse, che se sono permanenti, devono esser tali da resistere il più possibile al mutare delle condizioni tattiche e strategiche. Un'altra linea di tendenza da sottolineare - peraltro anch'essa tipica della corrente dei dottrinari - è la sovrabbondanza dei riferimenti storici per avvalorare le tesi più diverse. Nonostante lo sviluppo delle ferrovie e del sistema stradale, e nonostante i progressi delle artiglierie e delle corazze (che si traducono evidentemente in costi molto maggiori), continuano a tenere il campo le sentenze di Napoleone I, del Rudtorffer, ecc. e i ricordi non sempre appropriati delle campagne precedenti. Per contro, i frequenti riferimenti al ruolo delle fortezze e in genere del terreno nella guerra d'indipendenza spagnola 1808-1813 consentono al lettore di pervenire a una visione più equilibrata degli ammaestramenti di tale guerra, sfatando talune odierne tesi che tale guerra sia stata vinta solo o prevalentemente dalle forze partigiane e popolari e che, comunque, sia stata trascurata dall' establishment culturale italiano. Si tratta invece di un raro esempio di guerra in cui ciascuna componente - la Royal Navy e le forze terrestri di Wellington, la guerriglia nelle campagne, le fortezze, le città insorte, gli ausiliari spagnoli - lavora al meglio delle sue possibilità. Colpisce l'importanza attribuita dalla massima parte degli autori - benché "terrestri" - alla difesa marittima. Essi stabiliscono fin da prima del 1848 · (Saluzzo) il principio - al di là delle apparenze, tutt'altro che scontato - che la difesa dello Stato è terrestre e marittima insieme, e che comunque esistono reciproci e forti influssi tra strategie (e fortificazioni) marittime e terrestri; compare anche il pericolo di sbarchi nenùci sulle coste adriatiche e soprattutto su quelle tirreniche e nelle isole, tendenti ad aggirare da Sud le difese alpine e della Valle del Po. Si parla sovente di conquista dominio del mare da parte della flotta italiana, non solo per difendere meglio le coste ma anche per esigenzt: politiche t: wnrmt:rciali, che la prospettiva aperta del taglio del-


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l'istmo di Suez rende di particolare importanza. Risultano, quindi, infondate le critiche di taluni scrittori navali alla letteratura militare "terrestre" del periodo, accusata di un angusto approccio continentalista e di Forza Armata alla problematica strategica. Della tendenza a tutto fortificare, limite quasi congenito da Saluzzo e dai Mezzacapo in poi, già si è detto: ma ciò che si deve deprecare di più è l'assenza pressoché totale - anche in tutto ciò che riguarda la Marina - di seri calcoli delle risorse occorrenti per i molteplici lavori suggeriti e della loro compatibilità con le spese relative alle forze mobili e con il bilancio dello Stato. In tal modo si trascura - con la sola eccezione del Marselli - i] possibile apporto sostitutivo e 1a maggior flessibilità della fortificazione campale, da vedere come affare di tutte le Armi e non solo del genio: cosa ancor più grave, nemmeno compare la difficile ricerca della proporzione ottimale tra forze mobili e difese fisse e permanenti, con quest'ultime che al di là di frequenti enunciazioni di principio favorevoli alle forze mobili acquistano un'indebita prevalenza. Per obiettività occorre considerare che difetti e lacune del genere non sono tipici dei militari piemontesi o italiani del tempo, ma si estendono a tutti i principali Stati europei. Nello stesso periodo la Francia, patria di Vauban che nel secolo XVII ha coperto di forti le sue frontiere, non è stata certo con le mani in mano, ma (basti ricordare le costosissime difese di Parigi) ha profuso buona parte delle sue considerevoli ricchezze in fortificazioni terrestri e marittime; anche l'Austria non le ha certo trascurate. Per quanto riguarda l'Inghilterra, nonostante la conformazione geopolitica insulare e la tradizionale tendenza ad affidare soprattutto alla Royal Navy cioè alle forze mobili - la difesa del territorio nazionale, nel 1847 quando il Governo inglese temette di essere attaccato dalla Francia, si levò la voce di Wellington. Questo generale che aveva saputo sfruttare così bene le fortificazioni in Spagna, non esitò a denunciare la loro insufficienza, affermando che "noi siamo attaccabili, o per lo meno esposti ad essere insultati e posti a contribuzione su tutti i punti delle nostre coste ...". Venne ascoltato dal governo, che stanziò 296 milioni in quattro anni per potenziare le difese costiere121• Per altro verso, il dibattito fornisce fin da prima del 1848 preziosi spunti su questioni destinate a maturare solo dopo il 1870, a cominciare dal!' impostazione della difesa delle Alpi, daJl'importanza delle milizie locali e in particolare di quelle alpine, del loro esatto ruolo, delle ragioni per le quali le truppe alpine nascono, assai diverse da quelle accreditate fino ai nostri giorni dall'iconografia ufficiale. Ritorneremo in forma organica sul1' argomento nel Voi. ID: basti qui ricordare che il concetto di difesa delle Alpi concordemente sostenuto da coloro che le ritengono un forte ostacolo, · mira a evitare di disperdere le scarse forze permanenti in una difesa a cordone, concentrando di conseguenza l'Esercito neJla alta pianura padana e 121

F. Bava, Art. cit., p. 493.


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impiegando forti di sbarramento, milizie locali e - al massimo - distaccamenti del] 'Esercito permanente per logorare e ritardare 1'avanzata nemica lungo le valli e fornire informazioni, in modo da dare tempo al grosso retrostante di intervenire contrattaccando le forze nemiche allo sbocco in piano. In questo quadro strategico, prima i Mezzacapo nel 1856-1859 e poi con precisione e estensione ancor maggiore - il capitano Asti dieci anni dopo, sottolineano ripetutamente la necessità di ricorrere solo a milizie reclutate localmente per la difesa delle valli alpine, senza escludere la guerriglia e anzi - nel caso del]' Asti - presentandola come il miglior modo di difendere anche gli Appennini. Come già detto, il generale Franzosi in tempi recenti ha a torto indicato nel tenente colonnello Agostino Ricci l'ideatore degli alpini prima del celebre capitano Giuseppe Perrucchetti, comunemente presentato, a tutt'oggi, come colui che ne ha proposto per primo la costituzione 122 ; noi riteniamo invece di aver dimostrato in questa sede che coloro che per primi hanno intravisto il ruolo delle milizie alpine sono stati i fratelli Mezzacapo nel 1859, e dieci anni dopo di loro e in forma ancor più nitida, il capitano Asti. L'impiego di milizie, volontari, irregolari ecc. in terreno montano non è improprio e non significa emarginazione di queste truppe, ma ha radici seco1ari ed è esplicitamente teorizzato dall'ex-partigiano Clausewitz, il quale afferma che in terreni aperti è consigliabile impiegare "reparti permanenti, buone truppe, una numerosa cavalleria", ma in montagna occorrono "milizie, forze insurrezionali, corpi franchi, Capi giovani e indipendenti" 123 • In aderenza a questo principio, alla vigilia della guerra del 1866 il Ministero della guerra accetta la proposta di costituire speciali reparti volontari a reclutamento locale (distinti dai garibaldini), con il nome di bersaglieri delle Alpi (così chiama i nuovi alpini anche il Perrucchetti) e con il compito di difendere le natìe valli lombarde, a comunicare dai passi dello Stelvio e del Tonale. Come ricorda il Corsi nella storia della guerra del 1866, "apprezzando il Governo il valido concorso dei gagliardi montanari della Val Camonica e Valtellina" venne formata una "Legione di guardia nazionale mobile" su due battaglioni (n. 44 Breno e n. 45 Sondrio) ai quali se ne aggiunse poi un terzo (il 27° Bobbio), più un'aliquota d'artiglieria da montagna, carabinieri ecc. .'24. Nasce allora qualcosa di molto simile alla Brigata alpina attuale; la Legione è comandata dal colonnello Guicciardi, già ufficiale dei bersaglieri. Fatto non privo di significato, perché anche questo va ricordato - i bersaglieri nel 1836 sono stati creati prima di tutto come truppe idonee all'impiego in montagna 125•

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P.G. Franzosi,Art. cit. K. Von Clausewitz, Op. cit., Vol. I.I p. 855. Cdo Corpo SM - Sz. Storica, La campagna del I 866 in Italia - Tomo I (a cura di Carlo Corsi), Roma, Voghera 1875, pp. 69-70. Cfr. "Rivista Militare Italiana" Anno XXV lii - 1883, Vol. m pp. 96-105 e «Enciclopedia Militare» Milano 1933, Voi. lll pp. 210-219.


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Il problema della difesa delle Alpi con truppe ad hoc ha dunque, radici assai lontane; né può essere trascurato che i contributi di pensiero prima esaminati si riflettono in misura considerevole nei lavori della commissione per la difesa dello Stato dal 1862 al 1870, e spiegano e preparano i suoi orientamenti così come i contrasti sorti al suo interno. Come riferisce il Corsi, 126 la commissione nel 1862 ispira i suoi lavori al seguenti principi, da giudicare anche oggi ineccepibili: "evitare, per quanto possibile, di intraprendere la costruzione di nuove fortificazioni la cui importanza avesse a cessare allorché l'Italia fosse giunta ai suoi naturali confini; accrescere le difese permanenti nei soli punti giudicati più essenziali in vista di una prossima guerra con l'Austria; farlo in modo che i lavori siano condotti a termine in breve tempo e con non troppo rilevante dispendio". In precedenza il governo provvisorio dell'Emilia aveva cominciato a fortificare con lavori in terra Bologna e Piacenza, lasciando in sospeso il problema della fortificazione della linea del Po più a valle di quest'ultima piazza. Dopo il suo insediamento la commissione dapprima pensa di sostituire al campo trincerato Piacenza - Pizzighettone una doppia testa di ponte a Casalmaggiore, di fortificare Brescia e di rafforzare le fortificazioni di Bologna. Ma la soluzione Casalmaggiore viene poi scartata, perché troppo dispendiosa; sorgono anche contrasti sull'importanza strategica di Bologna, sul suo collegamento con Piacenza, sulla necessità o meno di fortificare Cremona. Nel gennaio 1864 la commissione preserlta al Ministero un primo progetto nel quale si propone: di fare accurati studi per la difesa attiva delle valli lombarde [con milizie locali? - N.d.a.]; di fortificare Cremona con opere in terra, per farne con Piacenza e Pizzighettone il nucleo della difesa contro l'Austria; di sostituire con fortificazioni permanenti le opere in terra di Piacenza e Bologna. Nel corso dello stesso anno 1864, con il trasferimento della capitale a Firenze la situazione cambia notevolmente, e l'asse strategico tende a spostarsi verso Sud. Con dispaccio del 13 febbraio 1865 il Ministero prescrive un notevolissimo allargamento del campo di studi della commissione, che questa volta deve definire "un sistema generale difensivo di tutta l'Italia", esaminando tutte le ipotesi (guerra dell'Italia senza alleati o con alleati; attacco principale da terra o dal mare). Non senza contrasti sul ruolo di Bologna e sulla scelta di una posizione intermedia tra di essa e Piacenza, la commissione presenta allora un nuovo progetto nel quale propone di: 1°) rafforzare sia Piacenza che Bologna, assegnando alla prima il compito fondamentale di appoggiare le operazioni dell'Esercito per la difesa della Lombardia e dell'Emilia, e alla seconda (con un doppio campo trincerato, uno intorno alla città e l'altro in collina) quello di coprire le comunicazioni tra il basso Po e la Toscana e di fungere da punto d'appoggio alle truppe operanti sul basso Po; 2°) costruire a Cremona una testa di ponte sulla sponda ,,._ Cdo Corpo Sm-Sz. Storica, Op. dt., pp. 11- 16.


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sinistra del Po, mettendola in sistema con Pizzighettone e Piacenza; 3°) potenziare Pizzighettone per estendere l'azione di Piacenza sull'Adda; 4 °) costruire una nuova piazza di collegamento tra Piacenza e Bologna (a Reggio Emilia o Guastalla); 5°) sbarrare le strade che attraversano l' Appennino; 6°) accelerare la costruzione delle ferrovie Spezia - Genova e Panna - Spezia. Lo scoppio della guerra del 1866 impedisce di compiere questi lavori, che pure sono allora definiti urgenti; come già accennato, il piano successivo viene presentato nel 1871. Ad ogni modo, appare chiaro che la commissione fin dal primo momento considera il Po come linea principale di difesa, che non sceglie se rendere più forte Bologna o Piacenza, e che prima del 1866 non risolve il problema del raccordo intermedio tra le due piazze, dando ragione a coloro che parlano della loro funzione strategica divergente e perciò facilitando dal punto di vista fortificatorio quella strategia basata su due pedine indipendenti, che sarà causa della sconfitta nella guerra del 1866. Se si segue l'evolversi dei concetti difensivi della commissione, acquistano nuovo risalto le varie voci del dibattito, che riproducono i travagli interni alla stessa commissione (a cominciare dall'opinione del Corsi, che in Italia e Austria si avvicina notevolmente al suo punto di vista). Stupisce anche oggi la libertà d'opinioni su un problema così delicato e immanente, per il quale ci sarebbero state ottime ragioni per evitare di rendere pubblico tutto ciò che poteva essere utile al nemico, a cominciare dai profondi dissensi. L'insegnamento più importante da trarre dall'esame condotto è però un altro: in linea generale un sistema di fortificazione va giudicato in relazione, oltre che alla geografia militare, alla geografia umana di un dato Paese e alle risorse delle quali esso dispone, tenendo comunque presente che tanto più le forze morali e militari sono deboli, tanto più esse necessitano di strumenti artificiali per accrescere la forza di un dispositivo militare nel suo complesso. Si tratta dunque di un problema la cui soluzione appropriata va ricercata, prima ancor che nelle peculiarità geostrategiche, nelle peculiarità geopolitiche e nelle risorse umane e materiali di ciascun Paese. Queste angolature risaltano poco o nulla dagli studi finora disponibili, e in particolare da quelli più recenti dovuti all'inglese John Gooch, a Fortunato Minniti e a Massimo Mazzetti 127• Oltre a dedicare a un argomento assai complesso come quello in esame solo qualche paginetta, i predetti autori ne trascurano completamente le radici profonde, non considerano i rapporti di forze con Francia e Austria e lasciano capire che la questione del rafforzamento delle frontiere e delle piazze necessarie si sarebbe posta solo dopo la nascita del nuovo Regno d'Italia nel 1861, riferendola esclusivamente alla difesa 127 ·

J. Gooch, Esercito. Stato, società in Italia 1879-1915, Milano, Franco Angeli 1994, pp. 42-63; M . Mazzetti, I piani di guerra contro l'Austria dal 1861 alla prima guerra mondiale (in AA.VV., L'Esercito Italiano dall 'unità alla grande guerra 1861-1918, Roma, SME - Uf. Storico 1980, pp. 159-182); F. Minniti, Esercito e politica da. Porta Pia alla Triplice AliP.fl.112fl. (ivi, pp. 108-113, 125-132, 154).


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delle frontiere terrestri. Non si può invece valutare bene le proposte che nascono dopo il 1961 e il travaglio dei lavori della commissione, senza prendere in esame - dal Pepe, dal Balbo, dal Morelli di Popolo e dal Saluzzo in poi - non solo il problema strategico della difesa delle Alpi, ma anche quello della difesa delle coste e del rapporto tra difesa marittima e terrestre dal 1848 al 1861. Ci si trova così di fronte a giudizi troppo sommari, che denotano quanto meno il mancato approfondimento de11a letteratura militare del periodo. Ad esempio fohn Gooch parla (senza motivare il giudizio) di "professionalità scadente" dei Quadri italiani: in verità leggendo quanto si scrive sulle nostre riviste militari non solo in tema di fortificazione, ci si convince del contrario. Forse era scadente anche la professionalità di Wellington, che come si è visto ha proposto di stanziare ingenti somme per rafforzare le coste inglesi? qual'era la professionalità degli ufficiali inglesi? era forse superiore a quella dei nostri, e perché? forse che in Inghilterra e ne11e basi inglesi non si è fatto ricorso alla fortificazione? Ecco le cose che, prima di giudicare con supponenza la politica militare di altri paesi, il Gooch dovrebbe dirci. Saltando a piè pari quanto avviene prima. lo stesso Gooch incomincia dal Ministro Ricotti e dalle proposte della commissione nel 1871, senza mettere in rilievo, però, quanto Ricotti deve alle tesi dei fratelli Mezzacapo sull'utilità de11e milizie per il presidio delle fortezze e per la difesa alpina. Sembra condannare l'eccessivo "difensivismo" dei piani per la difesa dello Stato, ma dimentica di ricercarne le cause vicine e lontane, trascurando comunque che le modalità per la difesa erano il mandato della commissione, che Francia e Austria avevano ciascuna un esercito assai superiore al nostro, che la flotta francese era preponderante, che per attaccare occorreva (ovviamente) disporre di forze superiori all'avversario e varcare un ostacolo come le Alpi verso Nord-Est e Nord-Ovest (cosa men che mai agevole) e che, comunque, l'attacco è possibile in un dato settore solo organizzando a difesa gli altri, mentre nessuno ha mai negato a una parte almeno delle fortezze il ruolo peraltro tipico e istituzionale - di agevolare l'offensiva o la controffensiva. Volere non è potere, e una buona strategia non persegue l'ideale, ma il possibile: questo il Gooch, che pur mette in rilievo fin troppo le deficienze anche morali delle nostre forze, non lo considera; egli evita di spiegare anche con quali forze, con quali risorse, con quali obiettivi e modalità strategiche sarebbe stata possibile l'offensiva per l'Italia. Il Minniti fornisce giudizi incompleti, quindi inesatti sui contenuti degli Studi topografici e strategici dei fratelli Mezzacapo, che avrebbero previsto la difesa attiva delle Alpi (ma sono stati i soli? come la prevedono? e l'importanza da loro attribuita alle linee del Po e degli Appennini?) e, per il resto del Paese, "una difesa sistematica"(ma non lo era anche quella delle Alpi? quale difesa militare non è sistematica?). Sul loro concetto di difesa marittima, il Minniti ricorda solo che essi banno sostenuto "la scarsa temibilità degli sbarchi a Sud", il che è vero: ma riferendo quesla affermazione senza aggiungere le altre in parte contraddit-


Xl - GEOGRAFIA E FORTIFICAZIONE NELLA DIFESA D'ITALIA

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torie - sugli aspetti marittimi della difesa d'Italia, si accredita l'idea (errata) che i Mezzacapo non abbiano attribuito il dovuto peso alle forze mobili marittime e al rafforzamento delle loro basi. Non esatta anche l'affermazione del Minniti che la commissione solo nel 1871 esamina per la prima volta la difesa dell'Italia unita (cosa che invece prima hanno già fatto l'Orsini e soprattutto i Mezzacapo, il Corsi, il Valle, il Bava ecc., e la stessa commissione con i citati studi del 1865). Anche il Minniti critica lo "spirito esclusivamente difensivo" al quale si informerebbero i lavori della commissione, senza però dimostrare come e perché sarebbe stata possibile, dato il terreno o le forze disponibili, un'offensiva o controffensiva contro eserciti di molto superiori. Non è nemmeno condivisibile l'affermazione del Minniti che la minore importanza attribuita a Piacenza rispetto a Bologna sarebbe "segno della prevalente preoccupazione di mettere prima di tutto al sicuro il paese da possibili invasioni". Secondo alcuni la piazza di Piacenza dovrebbe proprio opporsi a un nemico che, superate le Alpi Occidentali, proceda sulla destra del Po verso Sud, e/o appoggiare i contrattacchi sul fianco di penetrazioni austriache tra Piacenza e Bologna; per questo tale piazza, come si è visto, nel 1865 riceve dalla commissione il compito di "appoggiare le operazioni dell'esercito per la difesa della Lombardia e dell'Emilia". Né è vero che il concetto di difesa attiva delle Alpi è stato introdotto dai Mezzacapo e poi lasciato cadere: ne parlano già il Morelli di Popolo e il Saluzzo, è un concetto secolare che appartiene alla storia del Piemonte e viene largamente condiviso. La costituzione e il rafforzamento degli alpini, comunque, non dipendono affatto -come afferma il Minniti - dall'intento di assegnare quel ruolo "controffensivo" ai forti sulle Alpi.che fino al 1915 - e anche dopo - per ovvie ragioni rimane l'ultima eventualità. Come si poteva attaccare, con forze inferiori, posizioni e fortificazioni più forti delle nostre? Poco da dire sulle due paginette scarse che il Mazzetti dedica al problema della difesa dello Stato fino al 1871, se non che trascura ancor più dei due autori prima citati i precedenti del problema, i suoi ancoraggi teorici, le ragioni delle scelte della commissione nel 1871, il travaglio di idee che le accompagna, la situazione morale e materiale del Paese - quindi anche del1'Esercito - della quale tali scelte risentono e che costituisce l'unico metro valido per giudicare l'opera della commissione stessa. II Mazzetti apre il suo studio facendo riferimento a uno scritto del 1898 del generale Saletta, secondo il quale "raggiunto l'attuale confine nel 1866, l'Italia si trovò di fronte ad un problema affatto nuovo, per il quale nulla era preparato, neppure quegli studi e quella conoscenza del terreno" ecc .. Quanto sostiene il Saletta va inquadrato nel contesto delle rimanenti sue considerazioni; sta di fatto che anche prima della guerra del 1866 gli autori fin qui citati hanno studiato il terreno del confine Nord-Est suggerendo delle soluzioni, mentre fin dal 1865 la commissione riceve, appunto il mandato di studiare tale problema: se ne deduce che non si tratta affatto di un problema nuovo e che, quindi, il giudizio del Mazzetti è totalmente fuori luogo.


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F.

eom - IL. PENSCERO MILITARE E NAVALE - VOL. li (1848- 1870)

In conclusione, riteniamo di aver fornito le basi indispensabili per inquadrare senza storture il problema deUa difesa d'Itali<!_ dopo il 1871, dissipando gli equivoci sulle sue vere e lontane origini, facendo emergere le sue luci e ombre, accennando anche alle matrici teoriche "europee" a1le quali si richiama; va da sé che per altri Stati. più ricchi e solidi e con fisionomia geopolitica più univoca, tale problema è assai meno complesso e controverso. Nelle condizioni morali e materiali dell'Italia di aHora e neUa difficile situazione internazionale che doveva affrontare, non si può comunque accusare un piano difensivo di essere solo tale. Parafrasando un detto di Garibaldi; si potrebbe dire che, dal 1815 al 1870, il problema di fondo poco è rimasto lo stesso: sia il Piemonte, che ]'Italia avrebbero dovuto disporre di un si.sterna di fortificazioni in ogni caso troppo debole per i loro potenti e prepotenti nemici, e troppo impegnativo per le loro esangui finanze.


PARTE QUINTA

LA MARINA NEL RISORGIMENTO: NASCITA DELLA STRATEGIA NAVALE E NUOVA «TATTICA A VAPORE»



CAl'ITOLO XII

ASPETIJ NAVALI DELLE GUERRE D'INDIPENDENZA E LORO AMMAESTRAMENTI: PERCHÈ E COME SI ÈARRIVATIALISSA?

Premessa Uno dei maggiori scrittori navali italiani della seconda metà del secolo XIX, l'ammiraglio Luigi Fincati, afferma che negli ultimi due secoli e fino al 1847, a fronte di una copiosa letteratura navale inglese e francese "i suoi uomini di mare non diedero all'Italia un gramo scritto, non una grama memoria sulle marittime cose, bensì ne venne trattato dai suoi economisti ignoti ai navigatori". Egli giudica però positivamente il periodo dal 1847 al 1857, nel quale questo ramo tanto importante dello scibile umano è trattato con amore e con talento dall'ammiraglio d' J\rcollières in una sua pregiata Memoria - dal deputato G. Rezasco coi suoi preziosi Ricordi sull'Arsenale marittimo - dall'ingegnere Casoni colle sue Memorie sulla Marina e sull'Arsenale dei Veneti - dal colonnello d'artiglieria marina Marchese nel suo trattato sull'artiglieria marina - dal capitano T. Bucchia colla sua opera sulla nautica - dal barone Parri11i col vocabolario di marineria - dalla stampa periodica, nonché dall'Associazione Ligure Marittima Mercantile con indirizzi e con deliberazioni che mostrano essere i suoi membri degni discendenti di quegli avveduti uomini di mare che fecero Genova degna emula di Venezia e maestra con questa, di marittimi ordinamenti a tutta Europa. 1

Negli anni Trenta lo Zimolo, compilatore della voce "Letteratura marinaresca" per il Dizionario del Risorgimento nazionale, si dimostra di parere opposto a quello del Fincati e non dimentica gli autori della Restaurazione. All'inizio del secolo XIX - egli afferma - sotto l'impulso napoleonico, "la penisola parve volersi ridestare alla vita marinaresca", con le importantissime opere di diritto marittimo dell' Azuni, le Riflessioni sul potere marittimo di Giulio Rocco "precursore del Mahan", il vocabolario dello Stratico (Cfr. anche Vol. I, cap. IV, V e XVI). Ma il risveglio è poi tramontato con Napoleone, sì che

L. Fincati, Sulle cose marittime· memorie due, Savona, Sambolino 1857, pp. 75-76.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVAl, E ITALIANO -VOL. Il (1848-1870)

la letteratura marinaresca del nostro Risorgimento non è molto copiosa né molto pregevole, cosl per la diffidenza e talora l'odio con cui le popolazioni italiane hanno abitualmente guardato al mare, come per la parte secondaria, che la marineria ha avuto nell'opera del nostro riscatto [...]. Gli scrittori, soprattutto i poeti, intenti ad incitare i connazionali contro la tirannide straniera e domestica, non poterono rivolgere la mente alle fonti della prosperità economica, e il grido "all'anni" soffocò il grido "al mare". Qualche eccezione non mancò ma fu poca cosa.2

Lo Zimolo riconosce, peraltro, che dopo la sconfitta di Lissa nel 1866 il contributo degli ufficiali di marina alla letteratura navale diventa sempre più importante e copioso, ricordando anche che nel 1868 nasce la Rivista Marittima, "tuttora fiorente e apprezzatissima anche all'estero". Nel Vol. I (cap. XVI) abbiamo già dimostrato che, per il periodo 1800/1848, giudizi come quelli del Fincati sono troppo severi: basterebbe un nome come quello di Giulio Rocco, da lui ignorato, per dare luce a un intero periodo. Ma per quanto riguarda il pensiero navale italiano dal 1848 al 1870, ubi veritas? fino a che punto ha ragione lo Zimolo e torto il Fincati? A questo interrogativo finora non è stata data una risposta organica. Sarà nostra cura colmare questo vuoto, privilegiando come sempre le questioni tattiche e strategiche e ·quelle relative alle costruzioni navali, rese estremamente interessanti dall'introduzione della propulsione a vapore e dal progresso rapidissimo delle artiglierie e corazze. SEZIONE I - L'incerta condotta delle operazioni navali nel 1848-1849 e i fatti del 1859-1860

Il primo protagonista delle guerre d'indipendenza è stato indiscutibilmente l'Esercito: così, a un periodo di profonde trasformazioni negli ordinamenti e nelle costruzioni navali corrisponde una serie di eventi, che non incoraggia l'interesse per le cose navali nel mondo esterno, nuoce al prestigio della Marina e non giova al morale dei Quadri e degli equipaggi. Come scrive Camilla Manfroni nel 1901, negli avvenimenti dal 1848 in poi che trasformano l'Italia e l'Europa per un complesso di circostanze, che difficilmente si possono spiegare e comprendere in poche pagine, la parte che la Marina ebbe negli avvenimenti politici fu, o parve almeno, a.'>sai piccola, tanto che si ingenerò in molti animi il dubbio che le squadre navali rendessero meno di quel che costassero, e si manifestò fra gli uomini politici una certa avver-

Dizionario del Rimrgimento Nazionale (a cura di M. Rosi), Milano, Vallardi 1931, Vol. I pp. 561 -562.


XII - AMMAESTRAMENTI NAVALI DELLE GUERRE

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sione per la marina militare, di tanto maggiore, quanto più dispendiosi riuscivano gli armamenti navali per la trasformazione quasi completa che essi subirono, in conseguenza dell'applicazione del motore a vapore, del perfezionamento e della complicazione delle armi di offesa e difesa.3

Nella guerra del 1848/1849- prosegue il Manfroni - mentre l'Esercito piemontese sosteneva insieme con i volontari una serie di combattimenti gloriosi anche se poco fortunati, l'impiego delle unità navali a vapore napoletane nella repressione dell'insurrezione siciliana ba contribuito ad aumentare assai la diffidenza dei liberali nei riguardi della Marina; per di più "le squadre sarda e napoletana, inviate nell'Adriatico contro la piccola armata austriaca, si mostrarono inette a conseguire quegli scopi che tutti gli italiani si aspettavano e si promettevano, e non cooperarono in alcun modo alla liberazione della patria dall'oppressione straniera". Il disaccordo tra l'ammiraglio sardo Albini e quello napoletano De Cosa, il richiamo della flotta napoletana nel maggio 1848, gli eccessivi riguardi di Carlo Alberto verso la Confederazione germanica alla quale al tempo apparteneva Trieste, spiegano in parte, ma in parte soltanto, l'inazione delle forze dello Albini, e non spiegano affatto l'inerzia della squadriglia veneziana comandata dal Bua. Ond'è che presso i nostri uomini politici, e poi a poco a poco anche nel popolo italiano, si venne diffondendo l'opinione che la Marina da guerra fosse un lusso costoso e inutile; mentre ben altra sarebbe stata l'opinione universale se i non pochi legni del1' Albini avessero snidato (e lo potevano) la squadra nemica e l'avessero distrutta!

Sempre secondo il Manfroni, il nuovo Regno d'Italia, riunendo in un solo fascio le popolazioni marinare di diversi Stati italiani ricchi di gloriose tradizioni militari e di abilità commerciale, avrebbe potuto efficacemente contendere ad altre nazioni - favorito com'era dalla posizione geografica - il dominio d'una gran parte del bacino mediterraneo, esercitando con vantaggio le funzioni di bilanciere tra la Francia e l'Inghilterra: "purtroppo i lunghi secoli di servitù avevano indebolito la nostra fibra, e i torbidi interni, lo sforzo per compiere l'indipendenza nazionale, le tristi condizioni delle finanze ci distrassero da quello, che avrebbe dovuto essere lo scopo primo della nostra politica e ritardarono la nostra affermazione come potenza mediterranea e lo sviluppo della vita marinaresca nazionale". La sconfitta di Lissa nel 1866 ba purtroppo dato un ultimo, grave colpo sia all 'equilibrio dell'Adriatico che alla prosperità marittima del nostro giovane Stato, lasciando i migliori porti di quel mare in mano austriaca e spegnendo in gran parte degli Italiani quel sentimento marinaresco che si era venuto appena ridestando. 3

C. Manfroni, La Marina nel secolo XIX, "Rivista Marittima" 1901. Voi. l, Fase. I, pp. 47- 80.


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lL PENSIERO MILITARE E NAVAI.F. ITALIANO - VOL. Il ( 1848-1870)

Il Manfroni coglie nel segno, ben sintetizzando l'insoddisfacente eredità navale delle guerre d'indipendenza, frutto soprattutto di una scarsa preparazione e di una cattiva leadership politico-militare_ Rimandiamo, per il resto, all'eccellente Storia della Marina Italiana nell'età del Risorgimento di Sergio Martinelli ( 1943)4, il cui esame dettagliato, preciso, sereno, ricco di spunti pregevoli non esita a far emergere - là ove ci sono - difetti, errori e colpe, a cominciare dalla guerra del 1848-1849_ Un altro testo prezioso per inquadrare uomini e avvenimenti (a cominciare, appunto, daJJa guerra 1848-1849) è quello del Gonni sull 'opera del Cavour Ministro deJJa Marina dal 1850 in poi\ che mette in giusta luce l'attività del grande Ministro piemontese (il primo civile ad occupare una tale carica) per eliminare - cosa che peraltro riesce a fare solo in parte - le non poche mende (prima di tutto morali, di costume e disciplinari) deJJa vecchia Marina sarda, che hanno radici molto profonde e risalgono al periodo de11a Monarchia assoluta e della Restaurazione, continuando a farsi sentire fino alla battaglia di Lissa. Ricorda il Gonni che prima dell'avvento di Cavour erano frequenti tra i Quadri l'indisciplina e l'arbitrio: i comandanti lontano da Genova si considi;ravano padroni assoluti delle loro navi e si credevano autorizzati a disobbedire, se credevano, agli ordini del Ministero, anche perché !"'azienda nayale" era incorporata nel Ministero della guerra (cioè dell'Esercito), e tra Esercito e Marina non correva buon sangue. Confondevano spesso la disciplina con il potere assoluto e insindacabile; amavano organizzare le loro navi non secondo i regolamenti e le disposizioni ministeriali, ma a loro capriccio; avevano l'abitudine di ricorrere, per fini propri e di carriera, a protezioni interne ed esterne; indulgevano spesso alJa maldicenza e al pettegolezzo nei riguardi di colleghi e superiori_ Più in generale, il corpo ufficiali della Marina sarda dal 1815 era cresciuto nel suo tecnicismo nautico. chiuso, isolato da ogni influenza che al corpo medesimo non appartenesse; esso non aveva mai agito se non a proprio talento, come se fosse fine a sé stesso, senza aver mai tollerato che giudici estranei alla propria cerchia ne potessero sindacare l'operato. In questa linea di condotta fu tenuto principalmente, oltreché per proprio istinto, dall'ammiraglio Giorgio des Geneys, che ne fu il fondatore, fino al 1839. Quest'uomo di rette intenzioni, fu però prepotente al sommo grado, e agl sempre indipendentemente dal Ministero della guerra, al quale era sottoposto. Per dare un ' idea del suo carattere basterà ricordare ch'egli soleva ripetere essere le leggi e i regolamenti fatti per gli imbecilli.6

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Milano, Vallardi 1943 . Cfr. G. Gonni, Cavour Ministro della Marina (prefaz. di Jack La Bolina), Bologna, Zanichelli 1926. ivi, p. 15.


XTI - AMMAESTRAMENTI NAVALI DELLE GUERRE

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Cavour vorrebbe cambiare, rendere più moderna la mentalità dell'ufficiale di Marina, che dovrebbe rendersi conto dei suoi doveri verso la nazione e aprirsi al contatto con la società, entrando in armonia con le nuove esigenze tipiche di uno Stato costituzionale. Ma i suoi ripetuti ed energici interventi per restaurare 1a disciplina, renderla uguale per tutti, eliminare arbitri, protezioni e intrighi a beneficio della carriera dei singoli non sono molto graditi. Anche i suoi tentativi di perfezionare la cultura degli ufficiali e far loro conoscere con conferenze nella scuola di marina i rapporti che devono sentire con la società, i doveri dei cittadini in un governo costituzionale ecc., rimangono lettera morta. Soddisfatti gli obblighi di fedeltà al re, altri doveri gli ufficiali non li sentivano; "erano persuasi nel loro orgoglio di casta di non dover nulla apprendere all'infuori del loro tecnicismo nautico (si noti, nautico e non marittimo-militare) [...] dissapori, dissidi, od'ì potevano sussistere tra loro; ma quando si fosse trattato di porsi al livello delle altre classi sociali, erano tutti concordi per opporvisi. E non solo questo era il loro atteggiamento di fronte alla società civile; identici atteggiamenti assumevano quando trattavasi di rapporti con ufficiali che non fossero dei propri". L'istruzione degli equipaggi, la loro elevazione morale e materiale era poco curata; la disciplina era mantenuta con metodi brutali e antiquati; dalle punizioni corporali si arrivava facilmente alle percosse. Non c'era alcun affiatamento tra Quadri ed equipaggi, e tra i Quadri stessi; tra quest' ultimi dominava quel "malsano individualismo", che sempre secondo il Gonni "era la piaga che corrose la Marina Sarda, che infettò la Marina Italiana, che causò i primi tristi effetti disciplinari, che impedì alle anime di fondersi in quella armonia di intenti, la sola che conduca alla formazione di vigorosi istituti militari". Il Gonni ricorda l'entusiasmo con cui ufficiali ed equipaggi hanno iniziato la guerra in Adriatico del 1848/1849, ansiosi di battersi: grande è stata perciò la loro delusione e la loro rabbia di fronte alla troppo prudente condotta delle operazioni da parte dell'amrniragJio Albini, disistimato dai suoi uomini perché non attacca il traffico mercantile, non cattura nemmeno le navi che fanno contrabbando di guerra, e dopo aver perso l'occasione di distruggere la squadra nemica, dispone un inefficace blocco a Trieste. Sempre secondo il Gonni, il sottotenente di vascello Vittorio Ferrero della Marmora scrive alla madre che il blocco di Trieste ''fa ridere i nostri nemici, le altre nazioni e mette rabbia a chi di noi ha interesse che le cose vadano bene". Il Ferrero ha anche l'ardire - oggi inconcepibile - di presentarsi all'ammiraglio per fargli presente l'inefficacia e inutilità del blocco così come veniva eseguito per suo ordine, ma (scrive alla madre) "mi animai di più, e ripetei le stesse parole, ed egli allora tutto tranquillamente disse che tutti i bastimenti che passavano erano per il piccolo commercio e che non importava". Ne consegue-uno stato d'animo pregiudizievole per la disciplina, così descritto dal Ferrero alla madre: "lgli equipaggi] non desiderano altro che il


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[L PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

momento di un combattimento, di uno sbarco, di qualche cosa ... non so come potrà durare questa squadra; punto primo, havvi una grande disunione fra comandanti coll'ammiraglio, poi disunione fra ufficiali e negli equipaggi; questi poco subordinati e contro gli ufficiali". L'inazione della flotta sarda nell'Adriatico, che si prolunga per oltre un anno fino all'esilio di Carlo Alberto nel 1849, peggiora la situazione; e così nell'agosto 1849, scrive lo stesso Gonni, "gli equipaggi sardi, per un offuscamento sentimentale del loro intelletto, si rivoltarono. O combattere il nemico, o tornare a Genova. E a Genova ritornarono distruggendo moralmente la forza navale di cui erano parte. [...] A Genova la squadra sarda è disarmata. Non pochi ufficiali, sottufficiali e marinai sono giubilati o posti sotto processo, con relative condanne alla galera e alla catena militare dei bagni''7. La guerra del 1848/1849 lascia, dunque, una pessima eredità soprattutto sotto l'aspetto morale e disciplinare. I vecchi mali della Marina sarda, le divisioni, invidie e beghe di carriera tra i Quadri, i frequenti atti d'indisciplina, la sfiducia degli equipaggi nel1'ammiraglio in capo riaffiorano periodicamente in tutto il periodo in esame, e già se ne trova ampia traccia ne11e opere degli scrittori coevi, che ruotano appunto intorno a questa tematica. TI mancato sfruttamento della superiorità navale da parte della flotta riunita sardo-piemontese e veneta e la condotta troppo prudenziale delle operazioni navali sono confermati dal generale austriaco Schonhals, che nelle sue citate Memorie di un Veterano austriaco (Cfr. cap. Vill) afferma: la nostra flotta era indebolita e disorganizzata mercè la diserzione e l'allontanamento di gran parte de' suoi equipaggi, nei quali non si poteva avere fede, perché composti per lo più di Veneziani. E di più, inferiore in numero e in forza alle navi della flotta riunita piemontese, napolitana e veneta, non poteva in verun modo impegnarsi in una lotta tanto disuguale. Ella trovavasi sotto vela sulla costa friulana, quando le venne presso l'armata nemica. Col favore della notte e del vento, il comandante della flotta austriaca poté evitare uno scontro; mise le navi a vela al rimorchio dei piroscafi, e si ridusse sotto la protezione delle batterie del porto di Trieste. Anche Albini venne dinnanzi a Trieste, ma non osò fare ostilità né contro la flotta, né contro la città. Vi fu chi sostenne che la Sardegna fosse intimorita dalle minacce dell'Assemblea nazionale di Francoforte e dalle rimostranze de' Consoli stranieri. È ben possibile che la politica dell'Inghilterra a Trieste, dove probabilmente aveva ragguardevoli capitali impiegati nel commercio, fosse un' altra da quella che seguiva a Milano; ed è pur possibile, quantunque non probabile, che le declamazioni di San Paolo avessero prodotto qualche effetto sul Ministero piemontese; sappiamo bensì che noi, in egual caso, ove non avessimo avuto altro a temere, non ci saremmo per esse astenuti dal ridur Trieste in un mucchio di pietre [nostra sottolineatura - N.d.a.]. I

,. ivi, pp. 2-6.


XII-AMMAESTRAMENTI NAVALI DELLE GUERRE

1848-1870

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motivi che ritennero Albini dal procedere ostilmente contro Trieste e la nostra flotta sono da cercarsi piuttosto nelle energiche misure che il comandante militare di Trieste, tenente-maresciallo Conte Gyulai, aveva ordinate a difesa di quella città. Quanto possano contare contro una flotta le ben dirette batterie delle coste, abbiam potuto vederlo ad Eckemforde.8

Lo Schonhals riconosce, tuttavia, che il dominio del1e acque dell' Adriatico da parte della flotta dell' Albini ha almeno consentito di rifornire liberamente Venezia, sicché "sino a tanto che il nemico rimaneva padrone del mare, tornava infruttuoso qualunque tentativo contro la città. Era impossibile perderla...". Non può sorprendere se, da parte piemontese, il Promis nelle citate Memorie e osservazioni (Cfr. cap. VID) non accredita questa interpretazione dello Schonhals, attribuendo l'inazione della flotta sarda davanti a Trieste esclusivamente alle proteste dei Consoli stranieri e della Confederazione germanica. Ma anche in questo fatto vede qualcosa di positivo: "gli è forza il dire che non fu poca gloria per noi quella di aver astretta la potentissima Austria ad invocare l'aiuto della dieta germanica per difendersi da un sì piccolo paese qual è il nostro". Secondo il Promis la colpa della stasi delle operazioni navali è anche del re di Napoli, che con il richiamo della sua flotta a metà maggio 1848, "ci lasciò soli in mare a sostener la guerra d'indipendenza d'Italia, come già ci aveva lasciati soli in terra".9 Molto più ampie e interessanti le riflessioni critiche sulla guerra marittima del compilatore del1a seconda parte delle citate Memorie e osservazioni (riferita al 1849 e attribuita, come si è visto, al capitano di cavalleria Ferrero): 0 Vi si trova il germe dei futuri piani per far agire Esercito e flotta in modo coordinato, impedendo all'Austria di concentrare le forze ne] quadrilatero (come sempre ha potuto fare): "Napoleone soccombette appunto per aver trascurato i nautici concepimenti, per rivolgere Je sue cure al terrestre esercito f... i. Se nel 1796, nel 1800 e nel 1805 avesse avuto il soccorso della squadra, l'Austria non se la sarebbe cavata così a buon prezzo colle paci di Campoformio, di Luneville e di Presburgo [...]. È vero che il Piemonte [nel 1849] non aveva tante truppe da formare due armate, durando fatic~ a comporne una~ ma se si fosse fatta agire la flotta con sbarchi nel Veneto, in Dalmazia e minacciando Trieste, si sarebbe obbligata l'Austria a dividere le sue forze ...". Sempre nella campagna de] 1849, secondo l'autore anziché concentrare l'Esercito a Novara (posizione strategicamente sfavorevole), sarebbe stato possibile, ad esempio, far manovrare congiuntamente in modo offensivo i corpi del La Marmara da Parma e del Solaroli dal Ticino, i quali avrebbero potuto riunirsi a Brescia evitando la rovina di questa città e tagliando l'E8

·

• ,o.

Gen. K. Schonhals, Op. cit., Vol. II pp. 5-6. Memorie e osservazioni ... (Cit.), pp. 98-99. ivi, pp. 378-380; 382-383; 392 393.


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[L PENSIBRO MD.JTARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

sercito nemico dalle fortezze, dal Veneto e dalla capitale. Con l'appoggio della flotta, le nostre forze terrestri avrebbero potuto spingersi ancora in profondità fino a riunirsi agli ungheresi in rivolta, oppure da Brescia attaccare da terra e dal mare le forze austriache che assediavans:> Venezia, costringendole facilmente ad arrendersi; ma secondo una voce corrente prosegue l'autore - si è temuto che facendo intervenire la flotta in appoggio all'insurrezione di Venezia gli equipaggi, composti per la maggior parte di liguri, avrebbero potuto fraternizzare troppo con i Veneti, repubblicani perché in essi era ancor vivo il ricordo degli splendori dell'antica repubblica. In futuro, per conquistare e difendere l'unità e l'indipendenza nazionale si dovrà fare affidamento soprattutto sulla flotta, anche perché la barriera naturale delle Alpi non sarà sufficiente per preservarci dalle invasioni nemiche. Questo già valeva per la guerra del 1848-1849, nella quale uno dei grandi errori del Regno di Carlo Alberto fu quello di aver trascurata la flotta per consacrare tutte le sue affezioni all'esercito di terra, che, dopo aver assorbiti per quasi 4 lustri oltre la metà dei redditi dello Stato, non corrispose, forse per colpa estranea alla sua volontà. alla universale aspettativa, molto meno a quella del Re, che pure divideva con le sue truppe i pericoli e le privazioni della guerra. Tanto è vero ciò che asserisco, che questo ci costò nel corso della Campagna 55 milioni, oltre i 31 del solito preventivo, in tutto 86 milioni; e non trovo che la flotta, attenendomi alle cifre del bilancio approvato dalle Camere, ci costasse più di 6 milioni, e con sì tenue dispendio la squadra salvò l'onore della bandiera, e diede saggio di poterlo promuovere sul mare quando infiacchito era altrove; bandiera che avrebbe sventolato ben lungi dalle coste d'Italia se il governo, se il sovrano avessero costituita altrimenti l'arma della Marina, e [l'avessero] diretta in modo da cooperare alla salvezza d'Italia.

Dunque per l'autore se la Marina ha fatto poco la colpa non è della timidità dell' Albini ma della politica e del re, che non l'hanno preparata a dovere e l'hanno male impiegata. Ed egli sconfina nel lirismo, nel sogno o in un eccesso d'ottimismo, quando afferma che la salvezza, la libertà, l'indipendenza, la gloria d'Italia "stan racchiuse nei pelaghi che la circondano dalla Sardegna alla Sicilia". La prima di queste isole potrebbe addirittura diventare "una nuova America dell'Italia Settentrionale", così come la seconda potrebbe essere l'America dell'Italia Meridionale; ma il destino d'Italia sta anche "nelle coste che scorrono da Genova a Nizza, da Genova alla Spezia, che potrebbe diventare il Plymounth lgrande base navale inglese - N.d.a.] dell'Italia, ove ne stan racchiusi i futuri destini". Una "lega di governi", poi, potrebbe unificare il controllo delle rimanenti coste, dalle quali "si dominerebbe dal Mediterraneo anche l'Adriatico, da dove si potrebbe ferire nel cuore la patema che tanto ci avversa fcioè l'Austria N.d.a. I, purché la sicurezza interna rendesse inconcussi i troni senza il suo fatale intervento". Quest'Ttalia confederata "nel mare, in mezzo ai suoi flutti deve cercare l'indipendenza sua, la sua libertà; in quel mare che videsi per


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tanti secoli solcato dalle prore liguri e pisane, e dalle antenne di quella Venezia che da un punto quasi impercettibfle delle sue lagune fu per dettar legge al tramortito Oriente... ". Anche Ferdinando Pinelli, del quale (vds cap. Vlll) abbiamo già notato i numerosi spunti critici sulla condotta della guerra terrestre, lo è altrettanto a proposito della guerra marittima. Molto lontano dai toni profetici e lirici tipici dell'autore della seconda parte delle Memorie e osservazioni, ne condivide taluni giudizi ma in altri si avvicina a quello dello Schonhals, coinvolgendo anche le responsabilità dei comandanti delle forze navali, la cui condotta - anche ma non solo a causa de11e intromissioni politiche nelle operazioni - a suo avviso è risultata sovente troppo timida e incerta, né è riuscita a cogliere le occasioni favorevoli che pur si sono presentate per attaccare e distruggere la flotta austriaca. Egli ricorda che la flotta napoletana - la quale disponeva di ottime fregate a vapore e anche da sola era superiore a quella austriaca - è giunta nelle acque di Venezia il 16 maggio 1848, assai prima di quella sarda; ma anche per ordini ricevuti non ha osato attaccare la squadra austriaca, la quale "pareva così certa di non venir aggredita" che fino all'arrivo della flotta sarda dell' Albini era rimasta a bordeggiare tra la foce del Tagliamento e quella del Piave. La flotta sarda è giunta a Venezia in ritardo; solo il 22 ha potuto raggiungere la flotta napoletana ancorata nella rada davanti al porto di Piave Vecchia. Il ritardo è dovuto ai "fiacchi ordini" del Ministero per allestire la flotta, ai quali ha fatto seguito "un'esecuzione più fiacca ancora". In particolare, il governo sardo non ha aggregato subito alla flotta tutti i battelli a vapore di cui disponeva, e non ha inviato insieme con la squadra una nave da trasporto carboniera, costringendo così i piroscafi a rifornirsi in porti amici. Una volta congiuntosi finalmente con la squadra napoletana, l' Albini ha assunto il comando e avrebbe voluto andar incontro alla flotta austriaca, impedendole di rifugiarsi nel porto di Trieste: ma oltre a lasciare nel porto di Ancona i due piroscafi Ma/fatano e Tripoli (che avrebbero potuto servire per il rimorchio delle navi a vela nel caso che - come poi è avvenuto cadesse il vento), "pare che in tanta fretta negligesse la prescrizione dei segnali e di quelle altre misure che, opportune sempre ad una squadra che abbia a navigar di conserva, riescono indispensabili poi quand'essa compone di legni di diversi Stati, e perciò non usi ad agir uniti". 11 TI risultato è che la flotta austriaca è riuscita a raggiungere Trieste; se invece l' Albini avesse diretto subito verso la costa dalmata, sarebbe riuscito a intercettarla. Anche per il Pinelli, come per lo Schonhals, l' Albini ha rinunciato all'idea di bombardare Trieste soprattutto perché era difesa da tre batterie costiere di grande portata, che peraltro il governatore austriaco stava ancora facendo installare. Ma esse sarebbero state temibili solo ad installazione ultimata: "nello stato in cui erano poco danno recato

11

F. Pinelli, Storia militare del Piemonte (C1t.), Voi. m p. 366.


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avrebbero, tanto più che ove Albini inseguito avesse prontamente la squadra austriaca, esse non potevano coi loro proietti infestare i legni Italiani senza danneggiare al tempo stesso il proprio naviglio" . 12 È così avvenuto che "tanto sui campi lombardi come nelle acque adriatiche, la poca attività dei supremi duci defraudò le armi Italiane di quella vittoria che loro parve offrir fortuna". Vi sono state però anche responsabilità politiche: Carlo Alberto non ha dato ordini chiari all' Albini, non ha reagito alle assurde pretese della Confederazione germanica, ha ordinato di fare guerra solo al naviglio militare; e per non scontentare le grandi potenze, dopo le altrettanto assurde proteste austriache ha ordinato di risparmiare persino le navi mercantili del Lloyd triestino adibite al rifornimento della squadra nemka... eppure l'Austria non ha accettato il principio di reciprocità per il naviglio mercantile e ha attaccato come e quando poteva le navi mercantili veneziane, perché considerava i veneziani come sudditi ribelli. Dagli eventi della guerra marittima e dalla mancanza di coordinamento il Pinelli deduce perciò che, sul piano generale, l'unità di comando anche sul mare è un requisito essenziale per ottenere la vittoria; raramente le coalizioni militari riescono a prevalere sul nemico, a meno che siano molto superiori_ Come per lo Schonhals, anche per lui la guerra ha dimostrato che Venezia può cadere solo per fame, e con il mare libero, la fame sarebbe stata evitata; perciò 'il governo veneto avrebbe resistito molto più a lungo se avesse allestito una pòderosa flotta, e avesse saputo approfittare dei lunghi mesi di blocco poco rigoroso da parte austriaca per rifornirsi. Invece la Marina veneta "non dimostrossi degna del nome antico" e non ebbe Capi validi, tant'è vero che, quando nell'agosto 1849 l'ammiraglio Bua esce dal porto con la flotta per affrontare la flotta austriaca e poi rientra senza avere impegnato battaglia, il popolo veneziano esulta alla notizia (infondata) che Garibaldi sta per arrivare per assumere il comando della flotta, e spera che finalmente con lui si sarebbe tentata "qualche impresa degna di un veneto naviglio". Possibilità nella quale - cosa rimarchevole - crede anche lo stesso Pinelli: definisce, come si è visto, Garibaldi "un esperto e intrepido navigatore, dotato di non comuni talenti marinareschi che abilitato lo avrebbero a far bella di gloria la Marina Italiana"; è perciò un peccato che egli abbia sempre preferito la guerra terrestre, in cui "eccezion fatta del suo persona! valore, la sua perizia era più che mediocre". 13 A questo giudizio troppo severo - e senz' altro ingiustificato - su Garibaldi, il Pinelli aggiunge più ponderate considerazioni sulla necessità di potenziare la Marina che assumono un deciso sapore "navalista". Al decadimentq delle forze terrestri piemontesi - egli scrive - si aggiunge quello delle forze navali, tanto che [siamo nel 1855 - N.d.a.]

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13·

ivi, p. 368. ivi, p . 1047.


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se al tiranno di Napoli talentasse di venir insultare le liguri spiagge, l'antica Genova non sarebbe in caso di ribattere le offese; né mi trattiene dal portar questa sentenza il riflesso che le navi ci sono, imperrocché, a cosa valgon le navi se difettan poi i marinai per maneggiarle ed esperti ufficiali per dirigerle? Od io m'inganno a gran partito, ovvero una possente marineria potrebbe un giorno giovar all'Italia più di un poderoso esercito terrestre, poiché natura non la recinse col Mediterraneo mare perché essa ne lasci il dominio ad altre nazioni. E forse mai più propizio corse il tempo per un ragguardevole aumento della nostra marineria, poiché anche quelle potenze che potrebbero per avventura non amare l'incremento marittimo delle minori [la Francia e l'Inghilterra - N.d.a.] sono ora, come nostre alleate, interessate a simile impresa; ma per ciò fare, là pure convien togliere ogni influenza ed autorità ad uomini od incapaci o nolenti il progresso della causa Italiana, e francar poi la marina dalla direzione della guerra [cioè: sottrarre la Marina alla direzione del Ministero della guerra - N.d.a.], la quale sarà sempre per essa una matrigna poco benevola. 14

Ma al momento - egli constata - ad un aumento della spesa militare ha paradossalmente corrisposto una diminuzione dell'efficienza sia dell'E-

sercito che della Marina. Segue una statistica riferita all'anno 1852, dalla quale risulta che la Marina è composta da: 95 ufficiali naviganti e 10 ingegneri navali; 762 uomini del battaglione real navi (che diventano 1345 in tempo di guerra); 1561 uomini del corpo equipaggi (3600 in tempo di guerra); 4 fregate a vapore, di cui 2 a ruote (Governolo e Costituzione) e 2 a elica (Carlo Alberto e Carlo Emanuele - quest'ultima in costruzione); 4 fregate a vela (San Michele, 62 cannoni; Des Geneys, 44; Beroldo, 44; Euridice, 32); 2 corvette a vela (San Giovanni, 28 cannoni, e Aquila, 18 cannoni); 5 brigantini a vela (Colombo, 14 cannoni; Eridano, 14; Danio, 12; Aurora, 12; Staffetta, 8); 6 piroscafi a ruote (Mozambano, Tripoli, Malfatano, Authion, Ichnusa, Gulnara). Il bilancio della Marina è di 8 volte inferiore a quello dell'Esercito: 4,183 milioni contro 33,054. Diversamente dal compilatore della seconda parte delle Memorie e osservazioni, il Pinelli non accenna all'importanza del coordinamento tra operazioni terrestri e navali e sembra piuttosto pensare a una guerra marittima indipendente; tuttavia le pagine dedicate alla Marina da ambedue dimostrano che fin dalla guerra 1848-1849, nonostante l'apporto invero

"

ivi, 1069 - 1070.


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modesto delle forze navali, si comincia a sentire la necessità di rafforzare la Marina, il cui futuro dovrebbe consentirle il dominio non solo dell' Adriatico, ma dell'intero Mediterraneo; e almeno nelle Memorie e osservazioni, si comincia ad affrontare anche il problema del coordinamento tra operazioni terrestri e navali. Non si trascurano nemmeno i problemi etnici, economici e commerciali che creebbe l'espansione verso Est e nell'Adriatico del futuro Regno d'Italia. Trieste, città Italiana ma porto austriaco con un'importanza commerciale ben maggiore di quella di Venezia, diversamente da quest'ultima non è insorta. Le ragioni di questo di verso comportamento della popolazione sono chiarite da un interessante articolo anonimo - ma dovuto a un autore che, a suo dire, abita da 14 anni nella città - comparso sulla Concordia di Torino il 7 giugno 1848. L'autore enumera i numerosi privilegi dei quali gode Trieste sotto l'Austria (porto franco; esenzione dalla leva), le sue proficue attività commerciali, i suoi fiorenti commerci con l'hinterland del1' Austria, della Germania e dell'Ungheria. È solo il timore di perdere questi privilegi e questi commerci, alimentato con arte machiavellica dal governo locale e dai commercianti tedeschi qui stabiliti, che rende la popolazione perplessa e indecisa sull'opportunità di aderire aJla causa nazionale; per giunta teme che, se così facesse, il governo austriaco per punire la città dirotterebbe i traffici più proficui su Fiume e sui porti germanici. Ciò non toglie - assicura l'autore - che la popolazione, "checché ne dicano i giornali del Lloyd austriaco venduti al governo", sia di sentimenti del tutto italiani. Sono sicuramente itaUane anche l'Istria, la Dalmazia e Ragusa, che sono state per secoU unite all'Italia - cioè alla repubblica Veneta - e che danno ottimi marinai e ottimo legname per le costruzioni navali: ridicolo è pertanto per parte dei tedeschi di stampare e far stampare nella Gazzetta Universale d'Augusta essere Trieste città tedesca! più ridicolo ancora che Trieste sia stata obbligata a mandare dei deputati al parlamento gennanico in Francoforte! quasi che Trieste facesse parte della Germania: e chi mandano? un prussiano, e un carinziano !

Se dunque all'Italia preme che Trieste con tutta l'Istria e la Dalmazia sia riunita alla madrepatria e si pronunci a suo favore, è indispensabile e urgente l'emanazione di un proclama, con il quale si assicuri alla città il mantenimento dei privilegi che già gode sotto l'Austria e lo sviluppo dei traffici con il suo retroterra, mediante trattati di commercio e il completamento - di comune accordo con l'Austria - della ferrovia tra Trieste e Vienna. L'autore conclude asserendo di aver testè ricevuto notizie che, con la mediazione dell'Inghilterra, si starebbe trattando con l'Austria per stabilire all'Isonzo il confine del futuro Regno d'Italia, lasciando così in mani austriache (come già avveniva ai tempi di Napoleone) buona parte del Friuli, il contado di Gorizia, Monfalcone, Trieste, l'Istria, la Dalmazia e Ragusa: "se l'Italia acconsente a questo sacrifizio, allora bisogna dire che i .


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suoi rappresentanti la tradiscono; Carlo Alberto e il suo Ministro degli affari esteri hanno proclamato solennemente che non un palmo dell'Italia sarà lasciato in mano straniera [... ] io non posso pertanto prestare fede a questa notizia, sebbene datami come quasi certa". Se la guerra del 1848-1849 non accresce la considerazione per la Marina, neppure il biennio 1859-1960 le fa acquistare allori tali da esaltarne la capacità di combattimento contro flotte similari, da farne insomma un vero strumento di guerra competitivo e temibile. La vittoria contro l'Austria viene ottenuta solo dall'Esercito, perché la Marina austriaca rimane in porto e quando la nostra flotta si accinge con que1la francese ad agire contro Venezia, viene firmato l'armistizio di Vi1lafranca: ciò dipende anche dai tempi più lenti di mobilitazione della Marina rispetto all'Esercito, argomento importante sul quale al momento nessuno si sofferma. Nella campagna del 1860 nell'Italia Meridionale si verifica la dissoluzione della forte Marina borbonica, i cui ufficiali passano in gran parte al Piemonte e i cui equipaggi peraltro disertano, rendendola uno strumento inutilizzabile per le future operazioni. In questa occasione il Persano, comandante della flotta sarda, dimostra buone doti diplomatiche e la flotta dà un utile apporto nell'assedio delle fortezze; ma gli strascichi morali di questa campagna non sono molto positivi e non contribuiscono a elevare il clima morale e la coesione del corpo degli ufficiali di marina. Lo dimostra a prescindere da11a veridicità o meno dei fatti riferiti - una lettera dello stesso amm. Persano in data 15 marzo 1870: veramente credo che la flotta napoletana siasi avuta a meno di centomila lire; ma io non ho cercato di internarmi mai nelle spese che s'operavano per ottenere il suo "pronunciamento" alla causa nazionale. Volli tenenni affatto estraneo a quelle mene di denaro, che mi ripugnavano altamente. Di un solo ufficiale superiore ho saputo e a mia meraviglia ancora. Non è più ufficiale per fortuna. Il positivo è che le spese totali, di mio consentimento, non ascesero a più di 263 mila lire, un nulla proprio, se si pensa alle armi sbarcate, alla stampa clandestina che occorreva pagare a peso d'oro, ai mezzi impiegati per mandare le istruzioni in tutto il Regno e via via. n danaro per la flotta napoletana fu il meno che siasi speso in quel momento, gli Stati Maggiori essendo con noi di buona voglia [dunque, dove si è speso di più? - N.d.a.]15.

Per di più, come documenta il Guerrini, l'impiego della flotta sarda · contro Ancona e contro il Regno delle Due Sicilie fa sorgere seri dubbi sulle doti morali e di capo del Persano, ufficialmente glorificato: e incominciano già allora dissensi e incomprensioni tra lui e l' Albini 16•

" ••

A. Lumbroso, Carteggio di un vinto - lettere inedite del/'ammiraglio conte Persano, Roma, Ed. "Rivista di Roma" 1917, p. 4 71. D. Guerrini, Lissa (1866)- Vol. I Come ci avviammo a Lissa, Torino, Casanova 1907, pp. 165-245.


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SEZIONE II - La campagna navale del 1866 e le controverse responsabilità della battaglia di Lissa La guerra di Crimea 1855-1856 e le campagne del 1859-1860 non attraggono in modo ri]evante 1' attenzione degli scrittori navali coevi. Non così avviene per la guerra del 1866 e per Ja sconfitta di Lissa, battaglia di importanza fondamentale per tre ragioni: è la prima dell'età de] vapore, è la prima - e l'u]tima fino al 1940 - della Marina Italiana, è l'ultima tra Marine europee fino alla guerra mondiale. Nel 1866 non esiste ancora la Rivista Marittima, fondata nel 1868; tuttavia gli unici due periodici militari ufficiosi, la Rivista Militare Italiana e il Giornale di artiglieria e genio, dedicano una parte ragguardevole del loro spazio ai problemi marittimi, con particolare riguardo a artiglierie, corazze, naviglio corazzato, statistiche relative alle Marine di altri Stati; e come avviene anche per la guerra terrestre (Cfr. cap. IX, sz.ill), diversamente da quanto sostengono taluni autori sono accuratamente studiati - anzi, sopravvalutati - gli ammaestramenti della guerra di secessione arnercana. 17 Naturalmente non ci si può aspettare che un evento così traumatico e così carico d'implicazioni come la battaglia di Lissa - con il relativo processo al]'arnmiraglio Persano - sia ampiamente analizzato e dibattuto sul]a stampa militare ufficiale coeva, e ciò vale anche per la Rivista Marittima, quando - non casualmente - nasce due anni dopo i traumatici eventi del luglio 1866. Tuttavia, sulle nostre riviste militari del periodo a ben guardare si trovano accenni interessanti, ancorché non esaustivi; e anche sulla stampa francese compaiono interessanti studi, dei quali daremo conto. Senza contare che - rara avis - il processo Persano aiuta molto una indagine sull'interpretazione coeva degli eventi. Come scrive il Guerrini, poche campagne di guerra poterono essere subito studiate con dovizia di documenti sicuri come questa nostra navale del 1866: il processo del Persano dinnanzi all'alta corte di giustizia fu occasione che molti documenti uscissero dagli archivi dove sarebbero rimasti gelosamente custoditi per molti e molti anni: la produzione di quei documenti alla pubblica discussione, in una causa penale, che quindi faceva trascurare molti riserbi, diede sicurezza ai documenti prodotti. Perciò, se la campagna di Lissa non fu studiata bene, non fu perché non si potesse per mancanza di documenti: fu perché le ire ancora accese e le tesi premeditate impedirono che si potesse, o si volesse. 18

Già all'epoca, i documenti in questione sono stati pubblicati - e diversamente interpretati - dal Persano e dai suoi accusatori. Poiché gli autori

Cfr. F. Botti, La guerra civile 1861-1865... (in Atti del XVI/I Congresso lnternazionale di Storia Militare - Cit.). " · D. Guerrini, Op. cii. , Voi. U Come arrivammo a Lissa, p. 56. ' 7·


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successivi fino ai nostri giorni - anch'essi schierati, al di là delle apparenze, pro o contro Persano - hanno trascurato un confronto diretto e non episodico tra le tesi dell'accusa e della difesa, su tale confronto sarà basata la nostra indagine, parendoci questa, almeno oggi, la via più sicura per un giudizio sereno. La battaglia di Lissa nella stampa francese

Sull'autorevole Revue des Deux Mondes nel 1866-1867 sono pubblicati due articoli su Lissa, uno (del 1866) che porta la firma del direttore L. Buloz 19 ma è attribuito dapprima, a torto, al Principe di Joinville e poi secondo il Lumbroso e il Guerrini - all'ammiraglio Pagew, e l'altro (del 1867) che trattando delle trasformazioni delle Marine da guerra, fa qualche breve riferimento agli ammaestramenti della battaglia21 • Il Page mette in particolare evidenza che: in fatto di moderno naviglio corazzato e di artiglierie, la flotta italiana, costata ben 300 milioni [cifra esagerata - N.d.a.] al nuovo Regno, era enormemente superiore a quella austriaca, composta da vecchie navi malamente corazzate e con artiglierie antiquate; le navi austriache non erano provviste di sperone ("pas d'éperon, car on ne s'avisera pas de donner le norn à leur taillmer, formé par la réunion des plaques de còté qui se rejoignaient en biseau à l'avant"). Per contro l'Affondatore aveva uno sperone di 9 metri, la Re d'Italia e Re di Portogallo avevano le corazze della parte anteriore composte da un solo pezzo, anche se prive di uno sperone vero e proprio; infine le pirobatterie corazzate Formidabile e Terribile, costruite in Francia, erano dotate di uno sperone di 2 metri al quale si aggiungevano grande velocità e notevoli capacità evolutive; durante la battaglia il fuoco della flotta austriaca è risultato inefficace, perché i suoi vecchi cannoni ad anima liscia erano impotenti contro le corazze delle navi Italiane. Ma anche il fuoco italiano è stato parimenti inefficace, a causa dello scarso addestramento dimostrato dai cannonieri, che non hanno saputo fare buon uso degli ottimi e potenti pezzi a loro disposizione; ciò che mancava alla flotta Italiana, e che ha completamente vanificato la superiorità del materiale, era "una sola cosa, ma di fondaL. Buloz, Lissa (20 Juillet); "Revue des Deux Mondes" Tome LXVI - 15 novembre 1866, pp. 295 - 328. L'articolo è ampiamente citato in Italia; non si capisce, perciò, perché l'ammiraglio Jachino non ne parla e non lo cita nella bibliografia annessa al suo libro (per inciso pro-Persano) su Lissa (Cfr. A. Jachino, La campagna navale su Lissa 1866, Milano, Il Saggiatore 1866). 20 · D. Guerrini, Op. cit., Vol. Il, p. 108. ''- A. Dc Keranstret, Les Transformations de la Marine de guerre, "Revuc dcs Deux Mondes" Tome LXXII - J dicembre 1867, pp. 690-7 19.


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mentale importanza, che non si compra, che non si improvvisa (noi l'abbiamo imparato fin troppo bene nel1e guerre della Rivoluzione e del primo Impero), una cosa che le nazioni acquistano solo al prezzo di grandi sacrifici e sforzi: un corpo sufficientemente numeroso di ufficiali temprati alla vita di mare, ben addestrati e permeati di quel sentimento intimo della disciplina, de11a solidarietà e dell'onore, che è l'anima delle armate navali". Dal confronto del Page tra le figure dei due comandanti il Persano esce molto male: pur disponendo anch'egli di equipaggi reclutati di recente, poco disciplinati e poco addestrati a11a guerra, i1 Tegetthoff non si preoccupa delle molte cose che gli mancano ma piuttosto del modo rnigliore di impiegare ciò che ha. Riunisce spesso i suoi comandanti, e infonde loro fiducia; con continue conferenze li convince dell'utilità di concentrare il fuoco d'artiglieria su un solo bersaglio, e soprattutto della necessità di impiegare lo sperone a preferenza dell'artiglieria, imitando l'ammiraglio americano Farragut che a Mobile ha fatto agire cori lo sperone due o tre sue navi contro una sola del nemico. Al contrario, l'ammiraglio Persano non fa che lamentarsi di ciò che gli manca, non addestra i suoi comandanti e non li riunisce, insomma non si preoccupa mai di fare della flotta uno strumento di guerra e non comunica mai ai comandanti i suoi intendimenti sul modo di combattere e i suoi piani, "cosa indispensabile oggi che il successo nelle battaglie dipende in gran parte dall'iniziativa dei capitani delle navi"_ li Persano, inoltre, ha commesso l'errore di preoccuparsi più dell'attacco ai forti di Lissa che della squadra nemica in arrivo: una volta sconfitta quest'ultima, Lissa sarebbe caduta automaticamente. Non si è preoccupato di dare preventive disposizioni in vista del probabile arrivo in quelle acque della squadra austriaca, e non ha fatto in modo di avere con sé durante la battaglia le due navi con lo sperone più efficiente, la Formidabile e la Terribile. Nonostante tutto, se avesse subito riunito in formazione serrata le nove corazzate a sua disposizione e si fosse lanciato a tutto vapore contro il nemico contando sulla superiore forza d'urto e velocità della sua massa d'acciaio, senza sparare un solo colpo di cannone se non quando fosse giunto a brevi distanze e quando le navi nemiche si trovassero al traverso, avrebbe rotto la divisione di corazzate nemiche e successivamente avrebbe potuto vantaggiosamente affrontare le navi in legno austriache. Il contrammiraglio Vacca ha avuto un lampo d'ispirazione, ma dopo che il Tegetthoff era passato la prima volta attraverso la linea di fila italiana, senza speronare alcuna nave, avrebbe potuto contromanovrare, facendogli fronte tempestivamente a tutta velocità. In conclusione, secondo il Page a Lissa gli austriaci hanno pienamente compreso l'importanza dell'urto, mentre gli Italiani non l'hanno affatto prevista; solo l'ammiraglio Tegetthoff ha dimostrato di saper fruttare lo sperone e di saper dirigere la flotta contromanovrando. Poiché la sconfitta italiana è stata anzitutto una questione di leadership, ciò sottolinea l'importanza di scegliere un comandante con le doti necessarie. Il Page però non dà


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nessun peso alle accuse di viltà al Persano, per essere egli passato dal Re d'Italia all'Affondatore provvisto di una torre di comando corazzata: avrebbe solo dovuto avvertire preventivamente i comandanti. Il principale ammaestramento che egli trae dalla battaglia è che con l'avvento del vapore, e soprattutto dopo che le corazze hanno reso le navi pressoché invulnerabili rispetto alle bordate d'artiglieria, la tattica delle antiche galere da guerra è destinata a diventare "la regola delle battaglie navali moderne". Quest'ultime si trasformeranno in orribiJi mischie, le quali richiederanno specie ai singoli comandanti una fibra salda, sangue freddo e colpo d'occhio; e il naviglio da guerra dovrà possedere una grande velocità, una elevata capacità evolutiva, e un forte sperone per colpire il nemico al di sotto della corazza. D'altra parte, per marinai esperti e capaci di mantenere il self-control è abbastanza facile evitare l'urto nel combattimento tra nave e nave; l'urto diventa una reale manovra di guerra, una mossa decisiva solo quando parecchie navi sono in grado di riunirsi contro una sola. Bisogna anche tener conto che lo speronamento del Re d'Italia da parte del Max è avvenuto in circostanze del tutto straordinarie, e che l'ammiraglio Tegetthoff ha avuto un ' occasione rara, della quale ha saputo abilmente approfittare: perciò "malgrado la potenza incontestabile dell' urto, il cannone rimane ancora l'arma principale e dominante delle guerre marittime": di qui la corsa alle grandi corazze e ai grandi cannoni, iniziata con la guerra di Crimea e con i monitor degli Stati Uniti. Le navi in legno, destinate a scomparire con il tempo, sono ancora utili; le navi parte in legno parte in ferro sono costruzioni viziose. Infine, l'attacco della squadra italiana ai forti di Lissa, demoliti dalle artiglierie italiane, ha dimostrato che le antiquate fortificazioni dei grandi porti dell'Inghilterra, dell'America e della Francia non costituiscono più una valida difesa contro attacchi dal mare di navi ben corazzate e provvisti di potenti e moderne artiglierie rigate. Affermazioni, dunque, non sempre lineari: se il cannone rimane l'arma principale, come può prevalere la tattica delle antiche galere? Poiché l'articolo del Page non fa che battere e ribattere sulla mancanza, nella flotta italiana, di un valido Capo e di ufficiali di Marina provati ed esperti, non si capisce bene perché il Persano, in una lettera del 26 novembre 1866, lo giudichi positivamente: letto, riletto e ben ponderato, c'è in esso del gran giusto. Se non avesse detto vergogna della Marina, vergogna d' Italia - se non avesse portato alle stelle l' arnm. Teghetof, lo sottoscriverei senz'altro. Vedi che son giusto. Non so trovar vergogna per l'Italia, se 10 navi sole hanno sostenuto l'urto di 27 [ma è vergogna per l'ammiraglio - N.d.a.J, e anzi corsero ad incontrarle, e se, rimaste 8, diedero caccia al nemico ritirantesi, e si tennero sul luogo della battaglia, sino a tanto che lo perdettero di vista. Non so comprendere la gran valentia dell' ammiraglio avversario, che se ne va dopo un successo conseguente e senza vantare la resa d' una barca, avendo avuto luogo a convincersi che in noi era


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

mancanza d'unione. Per me so che mi terrei vergognoso se fossi ne' panni del Teghetoff vincitore... 22

È abbastanza strano che il difensore del Persano al processo non sia della stessa idea: nel libro L'Ammiraglio di Persano nella campagna navale dell'anno 1866 (che riporta appunto le tesi della difesa e, pur essendo senza a utore, è attribuibile allo stesso Persano ), l'articolo dell'ammiraglio francese viene definito "malevolo e poco dotto"23• Perché, allora, prima del processo il Persano lo giudica positivamente? Il difensore al processo si rifiuta di entrare nel merito tecnico delle questioni: quindi quel giudizio di "poco dotto" non può venire che dal Persano stesso. Il De Keranstret, autore dell'altro articolo coevo sulla Revue des Deux Mondes, non fa apprezzamenti sul Persano e sulla leadership italiana, ma è attento soprattutto alla rivoluzione che il vapore ha introdotto nelle costruzioni navali, e di conseguenza, anche nella tattica. Considera sullo stesso piano sia gli ammaestramenti della battaglia di Lissa, sia quelli della guerra civile americana, con particolare riguardo alle gesta dell'ammiraglio Farragut; e più coerentemente - e più drasticamente - dell'ammiraglio Page, arriva alla conclusione che "il cannone, qualunque sia la potenza che potrà acquistare in futuro, ha già cessato di essere l'ultima ratio della battaglia sul mare". Perciò con l'avvento del vapore, che consente alle navi moderne di muovere con una rapidità e una precisione ben maggiore di quella delle antiche navi a remi, "gli speroni dovranno necessariamente ritrovare tutta la loro efficacia". La battaglia di Lissa dimostra che d'ora in avanti l'urto di una nave da parte di un'altra sarà la caratteristica del combattimento tra navi a vapore; nel colmo dell ' azione le navi austriache hanno urtato più volte quelle italiane, e lo speronamento del Re d'Italia da parte del Ferdinand Max "non permette più di mettere in dubbio che urtando una nave in quelle condizioni si è pressoché certi di colarla a picco, esponendosi solo a qualche avaria di scarsa importanza". Sempre secondo il De Keranstret, il principio fondamentale della tattica navale sarà quelli di "riunire, al momento voluto, più speroni contro uno solo", mentre la capacità combattiva di una nave andrà ricercata soprattutto nella potenza delle sue macchine e nella sua manovrabilità [quindi, non nella potenza di fuoco e/o nella corazza- N.d.a .]. Sulla Revue Maritime e Coloniale del novembre 1866 compare un altro articolo del vice-ammiraglio Touchard (A' propos du combat de Lissa); inoltre nel 1867 la predetta rivista pubblica il rapporto dell'ammiraglio Tegetthoff e le notizie sulla battaglia rese note dal Governo austriaco, alle quali il Persano, come meglio vedremo in seguito, fa riferimento per trarne

22 23 •

Cit. in A. Lumbroso, op. cii., p. 328. L'Ammiraglio di Persano nella campagna navale dell'anno 1866 - Considerazioni, schiarimenti e documenti, Torino, Tip. Monitore delle strade ferrate 1873, p. 67.


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alcuni argomenti a sua difesa24• In proposito, la tesi del1o scarso addestramento dei cannonieri (sulla quale l'ammiraglio Page insiste molto facendone derivare l'inefficacia del tiro italiano) è respinta con veemenza dal capitano di fregata Luigi Fincati (comandante della fregata semi-corazzata Varese nel corso della battaglia) 25 • Persano testimonia che durante la sosta a Taranto i cannonieri sono stati sottoposti ad addestramento intensissimo e sottolinea che, prescindendo dalle vittime dell'affondamento della Palestro e del Re d'Italia, le perdite austriache sono state maggiori delle nostre: inoltre, i cannonieri italiani hanno pur dimostrato la loro abilità contro i forti di Lissa ... Giustamente il Guerrini fa rilevare che gli esercizi di tiro a Taranto sono stati fatti solo in porto e contro bersaglio fermo, quindi possono essere definiti "non inutili, ma insufficienti". Noi aggiungiamo che risulta chiaramente dagli interrogatori la mancanza di gran parte dei cannonieri specializzati e addestrati per tale incarico, che costringe i comandanti a sostituirli lì per lì con altri marinai non destinati a quell'impiego. Di conseguenza, anche tenendo conto dei gravi danni inflitti ai forti di Lissa e considerando che parecchie navi austriache sono uscite dallo scontro malconce, viene da chiedersi se i risultati del tiro hanno corrisposto alla notevolissima superiorità delle nostre artiglierie, visto che il tiro con la nave in movimento, battaglia durante e in presenza del fuoco nemico è l'unico metro valido. E che dire dei riflessi della sostituzione delle artiglierie con altre nuove e quindi poco conosciute, all'ultimo momento? Per ultimo, nel 1873 il Dislère nel suo libro sulla Marine cuirassee'26 trae dalla battaglia ammaestramenti analoghi a quelli degli autori precedenti, che si riassumono in questi punti: a) vantaggi del combattimento con lo sperone e ruolo secondario del cannone; b) inconsistenza dei timori che la nave investitrice possa riportare a sua volta gravi avarie; c) l'affondamento del Re d'Italia è dovuto ad avaria al timone; occorre perciò proteggere questa parte vitale della nave dai colpi d'artiglieria, perché nella nuova tattica navale le capacità manovriere della nave sono il primo fattore di successo; d) le navi in legno sono ormai diventate ·un imbarazzo per le squadre; e) l'Affondatore, entrato in squadra da troppo poco tempo, con equipaggio poco esercitato e meccanismi non a punto, ha dato un apporto poco significativo alla flotta italiana. Le conclusioni del Dislère, quindi, possono essere indicate come espressione dell'orientamento prevalente della critica militare ~uropea sui riflessi dell'impiego del vapore dopo l' esperienza di Lissa.

2 •·

"Revue Maritime e Coloniale" Tome XIX - marzo 1867. Cfr. anche L'ammiraglio di Persano... ( Cit), pp. 147-157. '-'· D. Guerrini, Op. cit. , Voi. II, pp. 108-109. .,. M.P. Dislère, La Marine cuirasseé, Paris, Gauthier - Villars 1873, PP- 40-43.


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Gli accenni a Lissa della "Rivista Militare" e della "Rivista Marittima" Come avviene per la battaglia di Custoza (cap. IX), la Rivista Militare nel Vol. IV dello stesso anno 1866 (non firmato, quindi direzionale) dedica un certo spazio anche alla battaglia di Lissa, e sia pur trascurandone gli importanti antecedenti, non manca di criticare apertamente l'operato del Persano (benché - cosa significativa - il suo processo al momento sia ancora in corso).27 La rivista si limita a pubblicare - con un'introduzione critica e qualche commento - la relazione ufficiale del Ministero della Marina sulla battaglia; peraltro precisa che le sarebbe stato già possibile fornire una propria versione dei fatti, avvalendosi del citato articolo dell'ammiraglio Page sulla Revue des Deu.x Mondes (che non contesta, e anzi trova pregevole) e di altri dati che non erano noti al momento della compilazione da parte del Ministero della relazione ufficiale, subito dopo la battaglia: "ma per vari riguardi, tra cui anche quello che è ancora pendente il giudizio del senato del Regno cui fu sottoposto l'ammiraglio Persano, riteniamo di non allontanarci neppur per questo dal primo proposito". Riguardi non eccessivi, visto che, dopo aver messo in evidenza - come l'ammiraglio Page - la superiorità della flotta italiana e fin troppo esaltato la potenza dei cannoni e degli speroni delle navi di cui dispone il Persano (dimenticando le lacune nell'addestramento e approntamento del naviglio) si conclude così: "corazzature, e [cannoni] Armstrong [da 300 libbre], e rostri, e monitor [l'Affondatore - N.d.a.], ed eroismo degli equipaggi, tutto ciò fu annientato dall'incapacità dei Capi. Costoro potrà assolvere la giustizia, non mai l'opinione pubblica ... ". La relazione ufficiale citata dalla Rivista Militare minimizza le perdite, affermando che, se si esclude la Re d'Italia (affondata con il rostro dall'ammiraglia austriaca) e la Palestro (saltata in aria), il rimanente naviglio non ha riportato danni di rilievo, e ha avuto solo 8 morti e 40 feriti; per contro "il contegno stesso della squadra nemica dimostrò che gravi danni le furono recati dalla nostra armata". E anche se la nostra squadra non ha ottenuto una vittoria, "è certo però che una vittoria non la ottenne il nemico, e certo del pari che la battaglia di Lissa sarà sempre ricordata come molto onorevole per la Marina Italiana". Giudizi salomonici ben presto smentiti .... Dal canto suo la Rivista Militare osserva che, se si tiene conto degli uomini periti con il Re d'Italia e con il Palestro, le perdite della nostra flotta sono state assai superiori a quelle austriache; ma concorda con la relazione ufficiale nel ritenere che le nostre perdite e danni, in rapporto all'entità dello scontro, possono essere ritenuti insignificanti. Questo però non allevia le responsabilità del Persano, visto che 27

Della Rivista Militare. ricordiamo la recensione di un articolo che commemora Tcgetthoff pubblicato nel numero del novembre 1886 (IV Voi., pp. 295-309), nella quale si rende omaggio alla figura dcli' ammiraglio austriaco tcstè deceduto e molto si lodano le sue doti. Alla morte del Persano la rivista rimane invece in silenzio, anche se nel periodo usa pubblicare i necrologi dei più illustri generali.


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forse fra le colpe che possono farsi all'ammiraglio nostro, la maggiore si è quella di essersi dato prematuramente per vinto, o per dir meglio, di non aver riappiccata la battaglia dopo il mezzogiorno. Egli ha un bel dirci che volle mantenersi nelle acque del combattimento finché il nemico si fosse perduto di vista, non era questo certamente lo scopo per cui si era combattuto. "li lampo dell' ingegno riluce sovente nel modo come si ripari a tempo ad un errore commesso, e spesso un buon generale si rileva più nel modo come riappicchi e restauri una battaglia mezzo perduta, che come la preordini e la incominci".

Da quanto afferma a fine 1866 la Rivista Militare, già si deduce che Lissa più che una mancata vittoria (come vorrebbe la relazione ufficiale) è stata una sconfitta, e che vi hanno sbagliato "i Capi", quindi non solo Persano ma anche gli ammiragli in sottordine, e forse il Ministro Depretis. Anche la Rivista Marittima, pur non dedicando alcun studio specifico alla battaglia, già nel suo primo anno di vita ammette che si è trattato di una grave sconfitta, con riflessi estremamente pesanti sulla credibilità e 1'avvenire della Marina. Ecco il primo commento (non fumato, quindi redazionale), che - en passant e trattando del porto di La Spezia - il neonato organo della della Marina dedica a questo evento: dopo la fatale giornata di Lissa, la nazione, non giova dissimularlo, guarda con occhio diffidente a quanto riflette la Marina Militare, e l'Italia, questa terra chiamata a divenl.are, se l'intelligenza e l'operosità degli uomini fossero pari alle fortunate condizioni geografiche, una grande e ricca potenza marittima, poté udire senza raccapriccio e quasi senza sorpresa l'amara e desolante proposta di vendere la flotta. E questa proposta, eco dolorosa di una disgraziata campagna di mare, dovrebbe star sempre viva nella mente degli uomini che hanno a presiedere sulla Marina, come severo ammonimento che le cose o non si fanno o si fanno bene e complete, e per conseguenza debbono cercare ogni miglior modo di rendere favorevole la pubblica opinione verso quelle misure per le quali, la storia ce lo dimostra, gli Stati ben organizzati dopo aver fatto tesoro della dura esperienza dei tempi infelici, risorgono forti e prosperi.28

Sempre nel 1868, la Rivista Marittima pubblica un "quadro cronologico dei combattimenti in i squadra dalla metà del secolo XVII", che · termina, appunto, còn la battaglia di Lissa. Dopo aver registrato le forze contrapposte, la perdita delle due navi Italiane e i danni riportati dal Kaiser Max, "fortemente avariato per la caduta dell'albero di trinchetto", la Rivista telegraficamente riferisce, senza commenti, che pur essendo il combattimento iniziato alle 10,45 e cessato alle 12 "le due armate rimangono in pre-

"

"Rivista Marittima" 1868, Voi. p. 250.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALlANO - VOL. Il (1848-1870)

senza sino alle 5 p.m., ora in cui l'austriaca entra nel porto di Lissa e l'Italiana volge la prua verso Ancona. L'ammiraglio Persano sottoposto a giudizio è dimissionato - Il contrammiraglio Tegetthoff viene promosso alla dignità di vice-arnmiraglio".29 Un altro articolo del 1868 a firma di Carlo de Amezaga, ufficiale di Marina e scrittore navale tra i maggiori, è ancor più esplicito30• Trattando della Marina e del peso delle tradizioni descrive non casualmente le precarie condizioni morali della Marina francese nelle guerre napoleoniche, che sono state la causa principale delle sconfitte di Aboukir e Trafalgar. Solo dopo trent'anni si è visto quella Marina rinascere; e come è avvenuto per la Francia, anche l'Italia ebbe il suo Trafalgar [cioè Lissa - N.d.a.], e per cause della natura stessa di quelle poc'anzi accennate; non lo si deve nascondere, il giorno delle grandi prove non ci trovò preparati; dappoiché sino a quel momento il difetto di tradizioni avea reso incerta la via che dovea rendere efficaci gli sforzi comuni, i piccoli trionfi avevano esagerato il sentimento del proprio valore, e le capricciose influenze dello stato rivoluzionario impedito l'azione continua di un

pensiero unico in mezzo al rapido cambiamento degli uomini.

Come la Marina francese - conclude il De Amezaga - noi abbiamo bisogno di un periodo di raccoglimento per assicurare un degno avvenire alla nostra Marina: questo però sarà possibile, solo se la pubblica opinione mostrerà stima e apprezzamento per gli sforzi della Marina. Nel periodo in esame non si notano altri riferimenti della Rivista Marittima a Lissa: evidentemente i tempi non sono ancora maturi. Altra cosa è, invece, la logistica; in proposito, da ricordare due esaurienti articoli di G. Perassi31, già primo medico sulla fregata corazzata Maria Pia, che nel 1869 tratta un argomento tuttora assai poco noto: l'organizzazione e funzionamento del Servizio sanitario della flotta durante la guerra. Anche llella flotta, come nell'Esercito di campagna32, il corpo sanitario all'inizio della guerra manca di Quadri in servizio permanente, e ancor più di infermieri e di materiale sanitario; si supplisce, come nell'Esercito, imbarcando sulle navi giovani medici civili e fornendoli anche di attrezzature e materiali supplementari per la cura dei feriti, ivi compresa una macchina per fabbricare il ghiaccio a bordo, che però è disponibile solo in agosto. Per supplire alla

ivi, p. 961. C. De Amezaga, La Marina e le tradizioni, "Rivista Marittima"l868,Vol. I, pp. 615-619. " · G. Perassi (Medico Militare della Marina), Memoria letta nella conferenza scientifica tenutasi addì 4 aprile 1868 nell'ospedale principale del 3° dipartimento, "Rivista Marittima" 1869, Voi. I, pp. 75-83 e 183-190. 3 2. Sulla organizzazione logistica dell'Esercito nel 1866 Cfr. P. Botti, La logistica dell'Esercito ltailiano Voi. l,(Cil). ,. 30


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deficienza di infermieri si imbarcano su parecchie navi "dei soldati del corpo di fanteria marina nuovi affatto ad ogni pratica di assistenza di feriti e ammalati, e spesso ancora sofferenti pel mare (assai men cattivi sarebbero stati i marinari)". Poiché gli spazi ristretti delle navi, pregiudizievoli per l'igiene, non si prestano alla cura dei feriti e ammalati, viene attrezzato a nave-ospedale (la prima in Italia) il piroscafo Washington, sul quale sono ricoverati feriti e ammalati durante la navigazione; nei porti di Taranto e Ancona invece si utilizzano i locali ospedali militari. La salute degli equipaggi si mantiene buona, non si sviluppano malattie epidemiche o contagiose tranne un limitato numero di casi di "oftalmia granulosa" [dovuta a scarsa igiene e scarsa aerazione dei locali e diffusa anche nell'Esercito - N.d.a.] e il 17 luglio la flotta lascia il porto di Ancona per la spedizione di Lissa coq meno di cento ammalati negli ospedali. Avvalendosi dell'esperienza della guerra il Perassi propone di: a) creare infermieri ben istruiti, dando loro in dotazione un manuale pratico pubblicato in Francia nel 1857 e tradotto in italiano dal medico di fregata signor Lojodice. L'istruzione teorica dovrebbe essere integrata da un'istruzione pratica impartita negli ospedali a terra e proseguita a bordo; b) provvedere a una conveniente ventilazione dei corridoi delle navi, dove durante il combattimento sono organizzati gli ospedali provvisori; c) abolire i letti per i feriti fissi alle pareti e dare in dotazione alle navi un certo numero di letti mobili, facilitandone così il trasbordo e la cura. Il Perassi tratta, infine, brevemente il problema della neutralizzazione dei feriti nella guerra marittima, proposta dal Palasciano per la prima volta nel 1866, due mesi prima della battaglia di Lissa. A suo giudizio, sarà senz'altro possibile e necessario riconoscere la neutralità delle navi-ospedale: ma per il resto le marine si trovano in condizioni meno favorevoli degli eserciti, perché "per un esercito ogni cosa, ogni spazio di terreno può diventare ospedale neutro; [invece] due squadre che si battono difficilmente possono godere dei benefizi dei bastimenti-ospedale". Non è nemmeno possibile estendere - come propone il Palasciano - il beneficio della neutralità alle navi che si ritirano dal combattimento per eccessivo numero di feriti, oppure alle navi che si allontanano dal combattimento per sbarcare i feriti, operazione quest'ultima che non è solo umanitaria ma spesso è la conditio sine . qua non per riprendere il combattimento. Bene o male è sempre possibile curare i feriti; non è quindi dei feriti che bisogna preoccuparsi, ma dei numerosi naufraghi: "il doloroso fatto di Lissa ci deve ammaestrare. La neutralità vuol essere riconosciuta per tutte le piccole navi o lancie ecc. che si recassero sul luogo del conflitto per raccogliere naufraghi: a quest'uso dovrebbero essere specialmente rivolti i bastimenti ospedale, muovendo provvisti di numerose ed adatte imbarcazioni maneggiate da uomini intrepidi ed esperti".


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

I rapporti Esercito - Marina e la polemica tra La Marmara e Persano Si è già ripetutamente accennato alla possibilità di un'azione combinata Esercito-Marina contro le coste austriache, alla quale sono favorevoli Garibaldi e, in genere i democratici, mentre La Marmara è contrario; si è anche visto che una delle ragioni che portano il Cialdini a sostenere l'offensiva dal basso Po è la possibilità di agire in concorso con la flotta. Non esiste alcun Comando unico, o almeno esiste solo sulla carta. Questo dà luogo, anzitutto, a dipendenze non chiare della flotta da guerra: dal re, dal quartier generale (La Marmara) o dal Ministro della Marina? Di fatto, è la dipendenza da quest'ultimo a prevalere. Ciascuna Forza Annata conduce una sua guerra indipendente; pubblica opinione, governo e quartier generale si ricordano delle operazioni navali e dei sacrifici finanziari che è costata la Marina solo quando si tratta di riscattare la sconfitta di Custoza del 24 giugno. Tuttavia, come risulta da un recente nostro studio33: la possibilità di un impiego coordinato tra Marina e Esercito in vista di uno sbarco su11e coste austriache era stata studiata a cura del Ministero della Marina ftn dal 1865; all'inizio del 1866 si riunisce una commissione (composta dal ten. col. Agostino Ricci, eminente scrittore militare, e dal comandante D'Amico, poi Capo di Stato Maggiore di Persano a Lissa), la quale studia l'impiego della marina mercantile in tre casi: 1°) trasporto dal Sud al Nord dei richiamati e delle unità colà di stanza in caso di mobilitazione; 2°) sbarco sulle coste austriache di un contingente di 100.000 uomini; 3°) impiego "per un gran movimento sia nel Mediterraneo in senso difensivo, sia nell'Adriatico in senso offensivo"; la Marina mercantile, in mancanza di ferrovie e buone strade, ha un ruolo insostituibile e determinante nel trasporto dal Sud al Nord delle truppe destinate alla campagna contro l'Austria. A questo va aggiunto che, come si è visto in particolar modo nel precedente cap. Xl, a molti scrittori militari "terrestri" non sfugge l'importanza della Marina, né si può affermare che il nuovo Regno abbia trascurato l' approntamento della flotta. Ma anche se l'importanza della Marina è generalmente ammessa nell'Esercito e la problematica dell'impiego coordinato delle due Forze Armate nell'Adriatico è tutt'altro che sconosciuta, i rapporti tra i due comandanti in capo - La Marmara e Persano - segnano un'altra pagina poco nota di polemiche e di reciproche accuse, accompagnate da disistima e animosità personali. Se Persano mantiene sempre, anche dopo il 1866, ottimi rapporti con il Cialdini (da lui giudicato "il miglior generale dell'Esercito")34, il La Marmora nei suoi Schiarimenti e rettifiche del 1868 accusa apertamente il 33 ·

F. Botti, La campagna del 1866: cooperazione Esercito - Marina e trasporti via mare,

,..

"Rivista Marittima" febbraio 1989. A. Lumbroso, Op. cii. , p. 497.


XIl -AMMAESTRAMENTI NAVALI DELLE GUERRE

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Persano di inerzia e disobbedienza agli ordini del Ministro, e nella sua "Terza relazione" del 10 gennaio 1870 afferma: non si dimentichi che nella nostra Marina, dopo gli eventi del 1859 1861 correvano voci che meritavano una severa inchiesta. Questa non avendo avuto luogo, aJcuni ufficiali che si credevano lesi, e fra questi l'ottimo amm. Mantica, si ritirarono daJ servizio. Venuto poi il 1866, appena si trattò di armare la flotta, il Ministero di cui facevo parte [era Presidente del Consiglio! - N.d.a.] pensò tosto di affidarne al Mantica il comando; ma per quante ricerche si siano fatte, non è riuscito al Ministro Angioletti rintracciarne quell'ammiraglio (sic), che si diceva talmente disgustato da aver rotto ogni rapporto con i suoi antichi compagni. Chi non ha poi lamentato che nel 1866 la f}otta non fosse comandata dall'ammiraglio Mantica? Bastava forse ciò solo a cambiare le sorti di quella campagna. 35

Per la verità, i riferimenti del La Marmora al Persano negli Schiarimenti e rettifiche forniscono un' immagine incompleta e di parte del problema. Il generale ha comunque il merito di sostenere fin dall'inizio un principio strategico sano, che se perseguito tenacemente avrebbe portato a risultati più positivi, evitando che Lissa si trasformasse in una sorta di trappola: prima il Persano doveva eliminare dall'Adriatico la flotta austriaca, poi si sarebbe pensato a sbarchi e operazioni combinate, alle quali dunque non era pregiudizialmente contrario. Ciò non toglie che, all'inizio, il La Marmora abbia altro da pensare: e cosl il 20 giugno - ciò dimostra che, comunque, considera la flotta alle sue dipendenze - indirizza al Persano un telegramma, nel quale gli comunica la dichiarazione di guerra e lo autorizza a salpare "quando crederà meglio", evitando però atti ostili sino al mattino del 23 36 • Il Persano risponde chiedendo se, prima di partire per Ancona (cosa che vorrebbe fare l'indomani) deve aspettare alcune fregate e corvette. Risposta di La Marmora lo stesso giorno 20: "sembra non vi sia premura che arrivi in Ancona. Meglio entri nell'Adriatico, forte di maggior numero di navi da guerra e provve<lulo di tutto punto. Ad ogni modo, faccia come crede". Poi, più niente da parte del quartier generale al Persano fino al 29 giugno, quando gli raccomanda di rendersi padrone dell'Adriatico attaccando o bloccando la flotta austriaca. Ciò dà occasione al Persano di lamentare di non aver ricevuto per lungo tempo ordini "dal quartier generale, dal quale io doveva dipendere direttamente", di non essere stato messo a parte del piano di guerra [non esisteva! - N.d.a.], di non essere stato consultato sulla possibilità di sbarchi

:" 36.

Complemento alla storia della campagna del 1866 (Cit.), p. 78. D'ora in avanti, per l'esame della corrispondenza e dei rapporti tra il Persano e gli altri protagonisti (ivi compresi gli ammiragli in sottordine) ci avvarremo principalmente della documentazione riportala nel Voi. ll della citata opera del Guerrini, la più completa in merito; utile anche il citalO lavoro <lei Luml>ruso Curteggiu di ur, vir1to.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. li (1848-1870)

sulle coste austriache, ai quali era favorevole 37 _ Su questo aspetto-cardine di carattere strategico esiste una divergenza di fondo tra il La Marmora e il Persano, il quale si dichiara convinto del successo di uno sbarco di Garibaldi in Istria e Dalmazia anche senza la preventiva conquista del dominio del mare, "dappoicché bastava alla flotta Italiana venire a combattimento coll'avversaria, dato il caso che [questa] si muovesse a contrastare l'impresa, perché rimanesse libero campo alla spedizione di traversare il mare e por piedé a terra; vincere, in tale circostanza, divenendo oggetto secondario". E azzarda persino un paragone tra l'azione di sbarco nell'Adriatico e ciò che chiedeva Napoleone I alla sua flotta per rendere possibile lo sbarco da Boulogne alle coste inglesi: cioè non di vincere, ma solo di tenere impegnata la flotta inglese per qualche ora, "tanto quanto bastasse per effettuare la traversata di quello stretto".38 Ad ogni modo, lo stesso 29 giugno (cioè dopo Custoza), il Persano risponde al La Marmora di non essere ancora pronto, perché aspetta ancora le nuove artiglierie: "bisogna vincere e non andare in cerca di gloria [... ] non posso compromettermi con imprudenze...". Poco soddisfatto della risposta, il La Mannora - che data la situazione del momento è assai più interessato di prima alla guerra navale - si rivolge allora al Ministro della Marina Depretis, perché solleciti l'azione della flotta. In data 30 giugno il Depretis gli risponde sostanzialmente confermando che la flotta non è ancora pronta e accennando alla necessità di concordare un piano che preveda l'impiego coordinato dell'Esercito e della flotta, in modo da avere il tempo necessario per preparare il materiale e le forze e per orientare preventivamente il Persano. Nella sua risposta del 4 luglio (o del 2 luglio?) il La Mannora prende atto che la flotta non è ancora pronta, ma "quando essa sia in stato di combattere1 e spero lo sia presto, conviene che essa non perda tempo ad agire per conto proprio; ed uno degli scopi che mi sembra poter essa prefiggersi, è anzitutto di assicurarsi la padronanza dell'Adriatico col distruggere o bloccare la flotta nemica": questa è la premessa per qualsiasi altra operazione. Sulle modalità della guerra navale dichiara la propria incompetenza; ad ogni modo osserva che una volta conquista~a la padronanza del mare l'obiettivo più redditizio potrebbe essere il litorale veneto, sia· pur risparmiando l'abitato di Venezia; l'attacco di Trieste provocherebbe invece complicazioni politiche, a causa dell' atteggiamento della Confederazione germanica. Non concorda, però, sulla convenienza di definire subito le modalità di un'azione combinata: visto anche che la flotta non è ancora pronta, gli accordi potranno essere presi in un secondo tempo, quando sarà stato conquistato il dominio del mare; al momento, tale azione combinata " è piena di impossibilità per le attuali condizioni rispettive, e sarebbe paralizzare l'una e l'altra".

37 · L'ammiraglio di Persano ... (Cit.). PP- 160-170. "'· A. Lumbroso, Op. cit., pp. 647-647.


Xll -AMMAESTRAMENTI NAVALI DELLE GUERRE

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Come osserva il Guerrini39, questo scambio di lettere dimostra indubbiamente che, a distanza di 15 giorni dall'inizio della guerra e parecchi giorni dopo la sconfitta di Custoza, non c'è ancora nel governo un'1dea chiara del1' impiego della flotta. Qui però vi è una discordanza di date: il La Marmora data la sua risposta al 2 luglio, ma secondo il Guerrini la lettera è de] 4 luglio, cioè viene scritta dopo la sconfitta austriaca di Sadowa (3 luglio), della quale, a suo giudizio, La Mannora avrebbe dovuto già avere notizia. Perciò - osserva sempre il Guerrini - dopo tale sconfitta, non si spiega "come il La Marmora potesse prevede ancora lunga la durata della guerra". Si può obiettare che, oltre a datare Ja lettera 2 luglio, il La Mannora anche in questa occasione ha espresso l'opinione che la Marina avrebbe dovuto agire appena pronta: che altro doveva dire? E anche ammesso che abbia scritto Ja lettera il 4 mattina, non è affatto da escludere che in quel momento non avesse ancora ricevuto la notizia della battaglia di Sadowa. I successivi rapporti tra La Marmora e Persano non possono essere interpretati senza considerare che nella notte dal 4 al 5 luglio il re riceve da Napoleone ID un telegramma, con il quale gli comunica di aver ricevuto dal1' Austria il Veneto per cederlo all'Tta1ia, e lo invita a sospendere le ostilità. Cosa che Vittorio Emanuele II rifiuta, dopo essersi consigliato col governo: dal 6 luglio in poi, quindi, diventa urgente - diversamente dall' ultima decade di giugno - accelerare le operazioni e ottenere per terra e per mare risultati decisivi, i quali dimostrino che J'Italia è in grado di raggiungere i suoi confini naturali a Nord-Est con le proprie forze. Di qui il breve telegramma del 6 luglio (ore 07 ,30) del La Marmora al Persano; "Sua Maestà vuol sapere cosa ha fatto, cosa fa e cosa intende fare la Marina", una frustata che ha il chiaro intento di un invito ad entrare in azione e rappresenta un poco velato rimprovero per gli indugi fino a quel momento. 11 Persano gli risponde lo stesso giorno 6 in modo evasivo: finora si è lavorato, in ottemperanza agli ordini del Ministro, " a porre armata in stato di sostenere onor bandiera"; sulle operazioni future da compiere, aspetta (dal ~stro della Marina) istruzioni che dovrebbero giungere l'indomani. Ennesima dimostrazione che ancora non si sa bene chi comanda la Marina (ma anche l'Esercito!); il La Marmora si rivolge a] Persano, ben sapendo che questi sta ricevendo ordini e istruzioni solo dal Ministro e che è, in pratica, alle dipendenze del Ministro stesso; avrebbe dovuto quindi rivolgersi al Ministro. Dal canto suo, come sempre avviene in questi casi il Persano, pur proclamc\fldo (anche al processo) di voler obbedire solo al re e non ai Ministri, si adatta quando gli fa comodo a dipendere dal Ministro Depretis, e all'inizio - sempre quando gli fa comodo - mostra di accettare anche la dipendenza dal La Marmara, né risulta aver mai protestato per queste dipendenze e per questa confusione di poteri pressoché offensive per un alto comandante. " · D. Guerrini, Op. cii., Voi. II, pp. 240-241.


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Ad ogni modo il La Marmora, non soddisfatto della risposta del Persano, la trasmette con il suo telegramma del 6 luglio al Depretis, "lasciando giudice il Ministro se quella risposta al Comando Supremo delle forze di terra e di mare era conveniente e soddisfacente". In data 9 luglio (in quel momento il Persano dal giorno 8 sta compiendo un'inconcludente crociera al centro dell'Adriatico senza venire a contatto con il nemico, che suscita poi roventi polemiche), il Ministro Depretis risponde che l'indugio della flotta fino a11'8 luglio era giustificato da oggettive esigenze di approntamento ne11e quali il Persano "ha spiegato molta attività"; aveva anzi bisogno ancora di un paio di giorni, ma "cedendo alle mie sollecitazioni di agire, abbandonò Ancona per recarsi nelle acque del nemico". Assicura, però, al La Marmora che le istruzioni iniziali di " sbarazzare l'Adriatico della flotta nemica e bloccarla" sono state confermate anche in successivi ordini più dettagliati, "ferma restando l'istruzione di mantenere Ancona come base d'operazione, e di dar conto, se possibile giornalmente, al Comando in capo dell'esercito [cosa che Persano non fa - N.d.a.] ed al Ministro, delle operazioni". Riguardo alle operazioni future, una volta ballula u bloccata la flotta austriaca il Persano si impadronirà di qualche punto della costa austriaca [come aveva fatto la flotta francese nel 1859 Rd.a.J, "anche per proteggere uno sbarco se mai si possa fare". Perciò il Ministro Depretis chiede ancora al La Marmora se ritiene giunto il momento di condurre quell 'operazione combinata, che prima aveva escluso; in tal caso "la prego di volerne scrivere all'ammiraglio indirizzando le comunicazioni ad Ancona, e la prego pure di darmene avviso pei provvedimenti che possono dipendere dal Ministro". Secondo il La Marmora, le sue sollecitazioni alla flotta e questa corrispondenza dimostrano che non risponde a verità quanto si è osato asserire durante il processo Persano, che cioè "io aveva dato segrete istruzioni a quell'ammiraglio perché non ci compromettesse con la Francia, con la quale mi ero impegnato non si sarebbe attaccata l'Austria". Da esse, inoltre, si deduce che era nel torto il Depretis, il quale (dopo Lissa) con grande ingenuità finiva un lungo suo discorso [alla Camera] dichiarando che la cagione dei nostri mali era da attribuirsi alla cattiva direzione data alla guerra del 1866, quasi che egli fosse estraneo a quella direzione [ma non vi era estraneo nemmeno il generale La Marmora! - N.d.a.], in quanto riguarda almeno la direzione della flotta_ Egli non doveva permettere che il comandante la flotta divagasse o alterasse le chiare e precise istruzioni che egli riceveva: "rendersi quanto prima padrone dell' Adriatico". A che parlare di sbarchi, di spedizioni, di azioni combinate coll' esercito e di stazione invernale? A nulla di tutto questo si doveva pensare, finché il mare non fosse libero.40

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A. La Marmora, Schiarimenti e rettifiche... (Cit.), pp. 40-41.


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Come si vede, anche nella mutata situazione della prima decade di luglio il La Marmora è sempre della sua vecchia idea. L'8 Juglio il Cialdini aveva varcato il Po, e un qualche concorso della flotta sul suo fianco destro era tutt'altro che inutile; eppure si continua ad assistere paradossalmente (caso unico nella storia), al contrasto tra una visione "navalista" del comandante in capo dell' Esercito e una visione più "continentalista" ed elastica del Depretis e del Persano, ansiosi di cooperare con l'Esercito. E rispondendo al Depretis in data 12 luglio, il La Marmora prende atto con soddisfazione (è questo che gli interessa da molto tempo!) del "fatto importantissimo che la flotta ha ormai preso il largo, ed è in misura di agire". L' Esercito - aggiunge - sta passando il Po, "e nasce ora la probabilità di distaccarne una parte, la quale potrà, in un modo da combinarsi, agire di concerto con la flotta". Finalmente un'apertura alle proposte del Depretis? Neanche per idea. Il La Marmora, subito dopo, chiede allo stesso Depretis di conoscere quali sono state le operazioni della flotta fino a quel momento (12 luglio) [operazioni che il Persano evidentemente non gli ha comunicato N.d.a.] e quelle previste a breve scadenza; comunque, solo quando la flotta avrà conquistato la padronanza dell'Adriatico "potrò prendere concerti per le ulteriori operazioni sia con la S.V. sia direttamente con l'ammiraglio". Risposta che ancora una volta denota la confusione di competenze sull'impiego della flotta, e la mancanza di comunicazioni sulle rispettive azioni. Con questa risposta il La Marmora conclude la parte da lui dedicata alle operazioni navali negli Schiarimenti e retti.fiche, omettendo così - per una qualche ragione difficile oggi da stabilire - di parlare del documento più importante dei rapporti Marina-Esercito, e senza dubbio dell'intera campagna: la sua lettera datata 14 luglio al Persano, nella quale quest'ultimo viene sollecitato ad agire e minacciato di destituzione se non lo fa presto. Il La Marmora dice di scrivere a nome di un Consiglio di guerra riunitosi il giorno stesso, al quale oltre allo stesso La Marmora erano presenti il Cialdini, il Presidente del Consiglio Ricasoli, il Ministro degli esteri Emilio Visconti-Venosta, il Ministro della guerra Pettinengo e naturalmente il Ministro della Marina Depretis. Sta di fatto che in questa occasione, diversamente da quanto ha sempre fatto con il Cialdini, rimprovera e ordina "perentoriamente" con tono che può essere giudicato offensivo. E lo fa al posto del Depretis (che non ha mai usato con l'ammiraglio, né prima né dopo, modi siffatti). Nella lettera il La Marmora comunica al Persano che "questo consiglio è·stato unanime nel deplorare che la flotta non abbia ancora trovato l' occasione d'agire energicamente contro il nemico" e gli comunica "l'ordine perentorio" di iniziare, non appena l'Affondatore avrà raggiunto la squadra "sia contro le fortezze, sia contro la flotta nemica, quelle operazioni che crederà più convenienti onde ottenere un successo importante", così come è richiesto dalla situazione politico-militare del momento. E il La Marmora aggiunge che "il Ministro m'incarica di comunicare all'E.V. che, ove la flotta perdurasse ndl' attuale inazione, esso si vedrà nella dura necessità di


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surrogarla nel comando supremo della flotta e di affidarlo ad altri che sappia meglio giovarsi di un elemento offensivo, la cui preparazione ha costato tanti sacrifici e fatto nascere così giuste esigenze". II Guerrini inquadra con molta cura il contesto nel quale viene spedita la lettera41 , la quale fa seguito all'arrivo del Depretis ad Ancona per stabilire le cause dell'inazione della flotta anche con significativi colloqui separati con i principali comandanti navali, e per sollecitare il Persano ad agire. La guerra stava per finire, il Cialdini procedeva a Nord-Est del Po a rilento, occorreva risollevare in qualche modo le sorti delle armi italiane: ma la discutibile minaccia di sostituire il Persano denota l'esistenza nel Paese, nel governo e nell'Esercito, ancor prima di Lissa, di forti perplessità sull'azione di comando del Persano e di forti critiche alla sua inerzia. Perplessità e critiche senz'altro condivise dal La Marmara, ma - sembra - non dal Presidente del Consiglio Ricasoli, che indirizza al Persano due cordiali lettere in data 13 e 14 luglio nelle quali lo sollecita ad agire in modo estremamente rispettoso, prendendo atto, senza nulla obiettare, della sua intenzione di agire non appena giunto all'Affondatore, ma non prima. Il Guerrini perciò a ragione osserva che, molto probabilmente, la lettera è un compromesso tra chi, nel Consiglio, voleva senz'altro la destituzione del Persano e chi invece era contrario; senza contare che appare contraddittoria e non giustificata la deplorazione della passata inerzia, visto che "il Persano aveva sempre detto che aspettava l'Affondatore prima di agire ed ora gli si intimava d' agire, ma appunto dopo che fosse arrivato l' Affondatore". Noi aggiungiamo che nessuno - né il re, né il Depretis, né il La Marmara - fino a quel momento aveva mai perentoriamente ordinato al Persano di agire, almeno con obiettivi chiari e ben definiti, in relazione agli scopi generali della guerra. La guerra ~~ava per finire, e si andava ancora ricercando l'azione per l'azione, il risultato "importante" non importa quale. Al tempo stesso, a scanso di responsabilità si tendeva ad evitare di dare ordini tassativi all'ammiraglio ... Va però considerato che non si tratta solo della mancanza di un piano, di operazioni navali non coordinate con quelle terrestri, di malanimo e incomprensioni tra il La Marmara e il Persano ecc.: cose persino ovvie. Qui si tratta, anzitutto, di un vistoso scollamento tra la durata della mobilitazione dell'Esercito e quella della Marina. Bene o male all' inizio della guerra l'Esercito è pronto, e il 24 giugno affronta una battaglia, sul cui esito sfortunato i pur rilevanti difetti della mobilitazione delle Grandi Unità non hanno un peso determinante; ma i tempi della Marina sono diversi, anche se il mito della guerra breve e decisiva è all'epoca dominante. Esamineremo nel prosieguo del capitolo se e come gli indugi del Persano sono giustificati: ma intanto si può osservare che questo scollamento, generalmente trascurato dagli storici, ha un peso determinante. "

D. Guerrini, Op. cit. , Vol. JT pp. 352-371.


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La seconda questione da esaminare - con considerevoli sottofondi teorici - è se e in che misura fosse possibile condurre azioni di cooperazione e/o di "proiezione di potenza", senza aver prima canceHato dall' Adriatico la flotta austriaca: in merito, oltre alla disponibilità del Depretis e alla contrarietà del La Marmora va registrato che anche il Persano si dichiara molto favorevole a "proiezioni di potenza", senza in questo caso (cosa strana) porre pregiudiziali in merito alla preparazione della flotta e alla debellatio di quella austriaca. Per ultimo, bisogna dire che dall'esame compiuto non escono bene né il re né il La Marmora. Il re - anche se è documentato, specie dal Lumbroso, che il Persano era ben visto e ben conosciuto a Corte, dove era stato aiutante di campo - non si fa mai sentire, pur avendo a norma dello Statuto il comando della Marina come dell' Esercito: eppure il suo intervento avrebbe avuto gran peso sia nella scelta dei più alti gradi, sia nelle direttive da dare alla flotta prima e durante la guerra, sia nei momenti decisivi. Al tempo stesso, al La Marmora va rimproverato un sostanziale disinteresse per le cose della Marina; pur essendo stato Presidente del Consiglio nei due anni precedenti la guerra e Ministro della Marina dal settembre al dicembre 1864, non si è mai interessato in modo incisivo dei problemi navali. E anche nella scelta del comandante in capo - visto che disistimava molto il Persano e avrebbe preferito il Della Mantica - si è lasciato guidare da esigenze di bassa politica o comunque estranee alla ragione militare, che avrebbe dovuto prevalere su tutto in un incarico di così alta importanza42: eppure la flotta aveva richiesto ingenti sacrifici finanziari... Come Capo di Stato Maggiore il La Marmora rivendica solo a sprazzi - e dopo Custoza - la sua qualità di "comandante delle forze di terra e di mare", che proprio per quanto riguarda l'Esercito lui, generale, non aveva mai esercitato, senza però la,;ciarla ad altri. In tale ruolo, oltre a non dare direttive per un impiego coordinato delle due Forze Armate, per la relativa pianificazione ecc., tollera la perniciosa sovrapposizione di poteri con il Depretis, non esamina mai seriamente l'apporto che le operazioni navali possono dare a quelle terrestri o viceversa, chiedendo in sostanza alla Marina solo ciò che le può chiedere un qualsiasi cittadino elettore, cioè di fare qualcosa d'importante, per conto suo, sul mare: il tutto, senza creare in alcun modo da parte sua i presupposti strategici perché ciò avvenga. Il Persano risponde agli addebiti che gli fa il La Marmora negli Schiarimenti e rettifiche con una lettera del 22 settembre 1868 per il momento non pubblicata, ma facente parte degli allegati al citato libro L'Ammiraglio di Persano nella Campagna navale del 1866.43 ln essa non dice nulla di sostanzialmente nuovo rispetto agli argomenti-cardine della sua difesa, che esamineremo in seguito. 42

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Si veda anche, in merito, quanto afferma il Guerrini (Voi. II, pp. 14- 17): "Il Penano era protetto dal suo intimo e influente amico D 'Azeglio, che aveva definito il Lo Marmara "suo perseguitaJore"". L'ammiraglio di Persarw ... (Cit.), pp. 160-170.


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Le accuse al Persano

Per le accuse al Persano ci avvarremo della sintesi della requisitoria del

P.M_ Marvasi al processo44 e dei due citati volumi su Lissa del Guerrini, che oltre al Persano non risparmiano critiche agli altri protagonisti, quindi sono utilizzabili oltre che per l'accusa, anche per la difesa. I capi d'accusa della requisitoria iniziata il 10 gennaio 1867 contro l'ammiraglio sono i seguenti: I - il ritardo nella partenza della flotta da Genova e nella navigazione da Taranto a Ancona, quando la guerra era già scoppiata; II - non aver dato battaglia alla flotta austriaca e non averla inseguita quando - il 27 giugno - si è presentata davanti ad Ancona, dove stazionava la flotta italiana; III - nella crociera dall'8 al 13 luglio, non essersi attenuto alle istruzioni ricevute dal Ministro il 7 luglio; IV - aver mal condotto l'azione contro Lissa del 18 e 19 luglio, e non avere convenientemente preparato la battaglia del 20 luglio; V - durante la battaglia di Lissa, essersi trasferito dal Re d'Italia sull'Affondatore; non avere ben diretto i movimenti delle squadre a sua disposizione; non avere causato alcuna perdita al nemico e avere anzi impedito all'Affondatore, su cui era imbarcato, di speronare il Kaiser; VI - dopo il primo scontro a Lissa, non aver ripreso la battaglia e non aver inseguito la flotta austriaca. Di conseguenza il Persano viene accusato, davanti al senato costituitosi in Alta Corte di Giustizia, di imperizia, negligenza, disobbedienza e viltà davanti al nemico; viene invece abbandonata l'accusa di alto tradimento, formulata inizialmente dall'Uditorato militare.

I. Il ritardo della partenza del Persano dà Genova non è ben documentato e dimostrato dall'accusa; noi comunque ricordiamo che il Ministro Angioletti comunica al Persano - che al momento si trova a Torino - la sua nomina a comandante in capo il 3 maggio, e il 7 maggio lo invita a prendere possesso della carica partendo da Genova non oltre il 12 maggio_ N0n si ha notizia sicura della data di partenza: secondo il Lumbroso essa avviene il 10; secondo il Guerrini dopo il 12, e probabilmente il 13 perché arriva a Taranto il 16 maggio e quindi, se fosse partito il 10, avrebbe dovuto navigare oltre cinque giorni. Ad ogni modo il 7 maggio il Persano era certamente ancora a Torino e non aveva ancora preso possesso della carica, cosa

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Cfr. Processo del conte Carlo Pellion di Persano ammiraglio della flotta italiana dal Senato eretto in Alta Corte di Giustizia, Milano, Costantini, 1867.


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strana perché - dato anche il carente stato di approntamento della flotta qualunque altro comandante non appena a conoscenza dell'alto incarico ricevuto si sarebbe immediatamente precipitato a Genova, per conoscere e affrontare subito i problemi sul posto. Nascono perciò critiche e voci, documentate da una lettera citata dal Guerrini, per ]'eccessivo indugio del Persano, impenitente donnaiolo, a Torino "ballerinando sotto i portici a correr dietro alle crestaie"45 • Dal 16 maggio a] 21 giugno il Persano rimane a Taranto con la flotta. In questo non breve periodo, come dimostra il copioso carteggio con il Ministro (generale Angioletti fino al 20 giugno; dopo avvocato Depretis) chiede al Ministero molteplici provvedimenti d'urgenza per colmare I.e lacune logistiche (che il Ministero accoglie nei limiti del possibile) e prescrive un intenso addestramento per i cannonieri, dimostrando di ritenere come il La Marmora - che il combattimento navale non sia tanto una questione di evoluzioni, ma di artiglieria. Non fa compiere, infatti, alla flotta che non ne aveva mai fatti - alcun addestramento di evoluzioni d'insieme e di tiro in movimento; come già detto, i tiri si svolgono con la nave ferma e contro bersaglio fermo. In particolare, giunto a Taranto il Persano pensa di dare le dimissioni (ma non le presenta ufficialmente) per la situazione nella quale trova la flotta,46 e il 21 maggio scrive al nuovo ministro Depretis che la flotta non è pronta per la guerra, perché mancano sottufficiali e cannonieri, e occorre almeno un mese [non tre come dice il Lumbroso - N.d.a.] "per portarla a un punto tollerabile", elencando le varie deficienze e chiedendo di porvi urgente rimedio. Il 10 giugno il Ministro gli invia le prime istruzioni, che sono di: "cominciare senza indugio le ostilità"; "sbarazzare l'Adriatico delle navi da guerra nemiche, attaccandole e bloccandole dove si troveranno"; risparmiare Venezia fino a nuovo ordine; risparmiare Trieste a meno che non vi si trovino navi da guerra nemiche (nel qual caso "anche Trieste potrà essere trattata come gli altri punti della costa"); stabilire la base d'operazione in Ancona. Il Ministro chiede, inoltre, al Persano di fargli pervenire a stretto giro di posta eventuali sue osservazioni sugli ordini ricevuti. Inaspettatamente viste le sue precedenti forti lamentele - il Persano risponde lo stesso giorno

" "'-

D. Guerrini, Op. cit., Voi. Il, pp. 5-6. Durante la sosta a Taranto il Persano scrive una lettera al Principe Eugenio di Savoia Catignano (comandante della tlotta sarda dal 1844 al 1851) , manifestandogli la sua intenzione di dare le dimissioni visto lo stato della flotta, e chiedendogli consiglio. Con lettera in data 3 giugno il Principe gli suggerisce di rivolgersi direttamente al re per esporgli la necessità di urgenti provvedimenti, ma gli sconsiglia k dimissioni perché "sarebbe un errore il rinunciare in questi momenti gravissimi al Comando, perché non solo nuocerebbe a sé stesso, ma metterebbe il Governo in un grande imbroglio e comprometterebbe le future sorti d'Italia!" (A. Lumbroso, La battaglia di Lissa nella storia e nella leggenda, Roma, Libr. Ed. "Rivista di Roma" 1910, pp. 285-287). Questa lettera conforta la tesi del Guerrini che il Persano avrebbe voluto dare le dimissioni, ma non le ha mai ufficialmente presentate.


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di non avere nulla da dire, di essere ..pronto a muovere al primo cenno" e di "aver fede" che l'armata al suo comando saprà corrispondere alle aspettati ve; ma subito dopo sembra pentirsi dell'ottimismo precedentemente manifestato, e con lettere del 13 e 16 giugno torna a rinnovare richieste di vario ordine (peraltro giustificate, come ad esempio la richiesta di due navi per il trasporto di carbone al seguito della flotta) e precisa che "parte dell'armata è riunita e pronta, ma mancante di cannonieri, primi luogotenenti, guardiamarina, medici, munizioni da guerra, materiale d'ospedale e altro di meno interesse la cui spedizione è stata più volte annunciata dal Ministero". Oltre a non fare, come si è visto, esercizi di tattica e di evoluzioni, il Persano in data 15 giugno emana ordini sulla "tattica e navigazione" assai ambigui e insufficienti, sui quali ritorneremo trattando della strategia e tattica navale del periodo. La confusione inizia fin dalle prime frasi: "l'armata che ho l'onore di comandare si può dire la prima che contiene tutti gli elementi di forza navale coi quali è sorta, a lato di una nuova tattica, la strategia marina, [nostra sottolineatura - N.d.a.]". E più avanti, prescrive che "la flotta corazzata, oltre alla tattica regolamentare, userà quella supplementare del vice-ammiraglio Bouet - Willaumez [allora la massima autorità in materia di tattica navale; la sua tattica era riferita solo alle navi a vapore - N.d.a.]; la flotta non corazzata userà la sola tattica regolamentare". Se ne deduce che il Persano confonde la strategia navale con la tattica, e che la flotta ai suoi ordini applica contemporaneamente tra diverse istruzioni tattiche, cosa che non può non creare confusione e disorientamento durante i combattimenti, anche se la flotta era composta da navi corazzate, navi parzialmente corazzate e navi in legno. 11 Persano accenna anche alla probabilità che la flotta sia chiamata ad agire prima di avere tempo di fare esperimenti, e alla mancanza di "precedenti da consultare". Si diffonde in minute prescrizioni sui segnali, collegamenti, distanze ecc., senza dare qualche orientamento sulla questione cruciale allora sul tappeto: si doveva considerare come mezzo principale di combattimento lo sperone o il cannone? quali erano le formazioni da adottare orientativamente in combattimento? si doveva convergere con il fuoco, o con lo sperone, sul nemico? Eppure un articolo di quei giorni sul giornale torinese Provincia, che il Guerrini assicura da lui ispirato, afferma che "con le squadre a vela una volta disposta la flotta in ordine di battaglia il compito dell'ammiraglio poteva dirsi finito", mentre "colle navi a vapore, e in specie colle corazzate, çhiamate a operare collo sperone... più ancora forze che non col fuoco dei pezzi, il sistema di combattere è radicalmente mutato. Esse vogliono essere manovrate come i reggimenti sopra un campo di battaglia a terra ...". Persano non orienta su questo punto cruciale i suoi comandanti né all' inizio del suo comando, come sarebbe stato opportuno, né il 15 giugno, né i giorni successivi, né alla partenza da Taranto il 21 giugno, quando l'incontro con il nemico dal 23 (giorno della dichiarazione di guerra) in poi non va escluso, anche se é poco probabile. Soprattutto, non prescrive di com-


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piere quelle evoluzioni tattiche che non aveva fatto fare a Taranto, nemmeno durante il trasferimento da Taranto ad Ancona. Il carteggio con i Ministri, inoltre, dimostra che non ha molta fretta di partire da Taranto, e che di tale partenza non intende comunque assumersi la responsabilità, sollecitando ordini espliciti e precisi tutto sommato non indispensabili, perché gli potevano e dovevano essere date solo delle direttive non ambigue. Va però tenuto conto che mentre i Ministri gli ordinano di partire, il La Marmora, come si è visto, è di diverso avviso: ritiene più opportuno aspettare le navi che ancora devono giungere a Taranto, e lo lascia libero di decidere il momento della partenza. Persano parte senza aspettare tali navi, ma anche senza disporre - come sarebbe stato opportuno - che muovessero riunite in una piccola squadra, onde evitare il pericolo che fossero sorprese, isolate, dal nemico; preannuncia però al Ministro che la velocità durante il trasferimento non potrà superare le 5 miglia ali' ora, come poi in effetti è avvenuto. Nena sua requisitoria, comunque, il Pubblico Ministero - un civile digiuno di cose militari - non dà peso al modo con cui il Persano a Taranto impartisce gli ordini e prepara la flotta, t:he a parer nostro è un elemento di importanza fondamentale. Accenna solo al fatto che dimostra di aver dimenticato il senso convenuto delle parole Sta bene - Viva il Re, il cui significato (concordato col Ministro) equivaleva a immediata partenza da Taranto; accanto a questa dimenticanza, "inconcepibile in quel momento e in cosa di sl alto rilievo", gli imputa di aver tenuto nel trasferimento la velocità di cinque miglia ali' ora, "mentre nelle istruzioni di massima ne aveva stabilito una più celere, anche tenuto conto della media del cammino di tutte le navi". Per il resto, il Pubblico Ministero ammette che quando il Persano ha preso il comando le condizioni della flotta e in particolare degli equipaggi lasciavano assai a desiderare. Ma - aggiunge - si tratta di inconvenienti normali, che si verificano sempre, in ogni guerra e in ogni Paese; "lo stato delle navi era ottimo", e il 21 maggio il Persano assicurava il Ministro che in un mese gli equipaggi sarebbero stati formati, tanto che il 1° giugno inviava al Ministero una relazione, nella quale concludeva che alcune navi non avevano ancora raggiunto un buon livello di preparazione, ma che la buona volontà e lo zelo dei comandanti ed equipaggi "gli davano il diritto di predire che, ove occorresse, l'armata avrebbe fatto gran prova di se". II. Il Pubblico Ministero dedica particolare attenzione ai fatti del 26 giugno, quando il Persano - con la flotta intenta a operazioni logistiche e, a suo avviso, in cattive condizioni - non raccoglie la sfida della flotta austriaca giunta senza essere scoperta in tempo sotto Ancona, che spara anche alcune cannonate contro le navi italiane mentre escono dal porto e si schierano a battaglia in linea di fila; questo perché "una delle maggiori


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negligenze o imperizie di un capitano è di non saper trarre profitto dell'occasione favorevole che gli offre lo stesso nemico" Jn proposito, il Pubblico Ministero intende dimostrare che: il 25 giugno, quando è giunta a Ancona, la flotta "era già in buono assetto e atta a vincere quella austriaca"; è vero che il Persano il 25 giugno indirizza al Ministro una lettera nella quale chiede "dei cannocchiali; altri avvisi dei più veloci; più cannoni Armstrong che fosse possibile, ed altre corazzate"_ Ma è anche provato che il Ministero, prima e dopo il 25 giugno, si sforza di venire incontro nei limiti del possibile alle richieste del Persano; perciò, considerando anche il rapporto di forze con la flotta austriaca, "buona parte delle richieste dell'ammiraglio miravano ad ottenere altri miglioramenti e altri rinforzi nella via dei quali non s'incontrerebbe mai limite" ed esse non provano affatto che in quel momento giugno la flotta non era pronta ad affrontare quella austriaca; come ricorda lo stesso Persano nelle sue lettere al Ministro, il morale e la disciplina degli equipaggi a parere unanime dei comandanti erano eccellenti; benché la flotta nemica si trovi a Pola, cioé a sole sette ore di distanza da Ancona, il Persano non dispone, come misura prudenziale, che le navi si riforniscano di carbone e viveri a turno, e/o che cambino un cannone alla volta; se Persano (come era possibile e come gli era stato ordinato) fosse partito da Taranto almeno un giorno prima, il 27 giugno - quando è sopraggiunta la flotta austriaca - la flotta italiana avrebbe ·già ultimato le operazioni di rifornimento, quindi sarebbe stata in grado di muovere più prontamente; benché il 27 giugno talune nostre navi stessero imbarcando carbone, altre avessero il fuoco nelle tramogge, altre le batterie incomplete o guasti alle macchine, in due ore la nostra flotta era pronta al combattimento; ma l'ammiraglio ha ordinato di disporsi in linea di battaglia sotto la protezione delle batterie di Monte Conero, e in tal modo ha allontanato la nostra flotta da quella austriaca, " dando a questa agio di ritirarsi incolume e superba della sfida"; benché alcune nostre navi non potessero entrare in azione, quasi tutti i comandanti (ad eccezione del D'Amico, Capo di Stato Maggiore di Persano) erano del parere che data la sua superiorità la nostra flotta avrebbe potuto vantaggiosamente affrontare quella austriaca; il Persano convoca a consiglio sul da farsi il Vacca, il D'Amico, il Jauch e il Bucchia. Ma lo fa troppo tardi, quando la flotta nemica si sta già allontanando, ed esagera il cattivo stato delle nostre navi, accennando anche - secondo il Jauch - ad operazioni più importanti che la flotta, secondo le istruzioni ricevute, era destinata a compiere (istruzioni delle quali i comandanti non sanno nulla). In tal modo, riesce a convincere gli intervenuti che era meglio non inseguire il nemico;


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- in conclusione, non 1' incompleto stato di approntamento di alcune unità, ma "l'improvvido ordine de1l'ammiraglio e le sue incertezze" hanno impedito di cogliere un'occasione propizia: "tutta l'armata lo comprese; ne risentì una triste impressione; il solo spirito di disciplina poté vietare che il biasimo e lo sdegno di tutti si svelassero apertamente. Parecchi estratti dei giom~i di bordo e quasi tutti i testimoni confermano le nostre parole". Le accuse del Pubblico Ministero richiedono da parte nostra alcune puntualizzazioni. Alla data del 27 giugno, dopo quelle già citate dell'8 giugno (che gli prescrivono di battersi al più presto) il Persano non aveva più ricevuto istruzioni; quindi (secondo il Guerrini) ]e uniche istruzioni che poteva citare erano que1le del La Marmora del 20 giugno, le quali, come si è visto, gli prescrivevano solo di entrare nell'Adriatico col maggior numero di navi possibile e provviste di tutto punto. Questa direttiva (e non istruzione) va però riferita alla situazione del momento, da11a quale si può dedurre solo con notevole forzatura, che in genere non conviene affrontare il nemico se la flotta ha delle navi non ancora a punto; si tratta, peraltro, di cosa riferita solo dal Jauch. Ad ogni modo, un conto era affrontare il nemico in vicinanza di Ancona - azione nella quale potevano essere utili anche navi non a punto - e un conto inseguirlo. La questione primaria non era l'inseguimento, ma se dare o no subito battaglia ... Per il momento si deve constatare che il 27 giugno (tre giorni dopo Custoza) la flotta Italiana si trova di fronte di sorpresa a quella austriaca, senza aver mai fatto esercizi di evoluzione, senza aver mai provato le tattiche (nuova e vecchia) alla quale pur fa riferimento il Persano, senza essersi mai esercitata al tiro in movimento e contro bersagli in movimento. Degno di nota anche il fatto che i più alti gradi della flotta non conoscono quali istruzioni il Persano abbia ricevuto dal Ministro, istruzioni che - se esistevano - avrebbero dovuto essere immediatamente comunicate dal Persano almeno ai suoi più diretti collaboratori, per preparare la flotta ad eseguirle. Dopo i rapporti del Persano, comunque, il Ministro pare convinto dalle sue invero ottimistiche argomentazioni, e prende atto che "il nemico non osò aspettarvi". Ricordiamo anche che dal 27 giugno al 4 luglio, inaspettatamente, il Persano si dimostra smanioso di agire. Con una lettera del 28 giugno assicura il Ministro che nel termine massimo di quattro giorni tutte le navi saranno pronte a muovere, e che se il nemico ritornerà nelle nostre acque, difficilmente potrà e,vitare la battaglia come il 27: "prevenuto gli andrò incontro, e dopo agirò nel migliore intento per adescare la flotta nemica a cercarmi battaglia, ed annientarla se verrà al cimento". Chiede però se deve attaccare o meno le fortificazioni costiere austriache, e so11ecita ordini perché "finora non ho altra istruzione se non quella di distruggere la flotta nemica, e spero di farlo". E in un altro telegramma del 2 luglio al Depretis, esclama che "so non doversi commettere imprudenze, ma tutto ha il suo termine. Posso attendere sino fine mese, ma di più sarebbe farmi morire". Dal canto suo, il Depretis con lettera del 4 luglio si congratula con il


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Persano per la sua infaticabile operosità, lo informa di quanto s'ta facendo il Ministero per completare la preparazione della Marina, ma gli raccomanda di "mantenersi circondato da cautele, e in una vigile e minacciosa difensiva". Occorre [evidentemente, Custoza docet - N.d.a.] aspettare il momento giusto per dare battaglia, tanto più che il Presidente del Consiglio Ricasoli "nel partire per il campo mi disse di raccomandarvi di non impegnar la flotta che colla sicurezza di vittoria"; quindi "prima di dar la caccia al nemico, bisogna che la flotta sia completamente allestita". Lo scenario politico-militare - così come l'atteggiamento del Depretis e del Persano - mutano radicalmente dopo la sconfitta austriaca a Sadowa (3 luglio) e il conseguente pericolo che si arrivi alla pace, senza che l'Italia abbia conseguito qualche risultato militare significativo. In data 5 luglio il Depretis scrive al Persano che ''urge compiere l'allestimento della flotta" e ad ogni modo deve "uscire dal porto e rada stando sulle macchine". Lo stesso giorno 5 e il 6-7 luglio, gli invia le istruzioni da lui sollecitate; esse prescrivono ancora di battere e bloccare la flotta nemica senza per il momento attaccare le fortezze, "portando il combattimento fino alle ultime conseguenze". Dopo averla bloccata in porto. il Persano dovrà impadronirsi di una posizione a sua scelta sulJe isole o sulJe coste nemiche. Tale posizione secondo il Ministro potrebbe essere Duino, ove convergono tre ferrovie nemiche; più difficile penetrare nell'estuario del Po senza attaccare Venezia, come proposto dal La Marmora (in altra parte del testo, parla di Cherso, di Meleda... ). Se la squadra nemica dovesse ripetere l'azione del 27 giugno, il Persano dovrà attaccarla, combatterla e, se necessario, inseguirla per costringerla ad attaccare battaglia. Se rimane nel porto di Pola o riesce a rifugiarvisi, tale porto dovrà essere bloccato con forze sufficienti mantenendosi però fuori dal tiro delle artiglierie costiere. Le stesse disposizioni valgono se il nemico si ripara a Venezia o in qualche altro porto militare; se poi si sparge per i vari punti del suo litorale il Persano dovrà dividere la flotta in gruppi di forza opportuni ben collegati. Se la squadra austriaca non si trova a Pola o vi si trova solo in parte, occorre organizzare con la massima cura il servizio di esplorazione, per conoscere dove si trova il nemico. Sempre dopo aver distrutto o bloccato la flotta nemica, occorre catturare le navi nemiche che fossero ancorate nelJa rada di Trieste, "con avvertenza che bisogna guardarsi dall'accostarsi troppo al litorale che può essere seminato da mine e dallo esporsi al fuoco dei forti che difendono la rada". Dovranno inoltre essere distrutti i posti semaforici, i cavi telegrafici ecc.. Il Ministro informa anche il Persano che non è esclusa l'idea di un'operazione combinata, o quelle di uno sbarco sulle coste dell' Istria o del Canale di Trieste; a tal fine, il governo riunirà ad Ancona tutti i mezzi del quale potrà disporre [cosa che il governo effettivamente sta facendo sia pure in ritardo - N.d.a.]. Seguono altre minute disposizioni sulle isole da occupare, sul modo di sorvegliare la flotta nemica, ecc .. In ogni caso - torna a ripetere il Ministro - "lo scopo essenziale della nostra campagna in Adriatico dev'essere


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innanzi tutto di rendersi padrone dell'Adriatico stesso, di liberare quel mare dalla squadra austriaca", e informa il Persano che i1 12 luglio I 'Affondatore sarà in grado di prendere subito il mare. Il 7 lugHo il Persano scrive al Ministro due lettere nelle quali gli comunica "ricevo le istruzioni che mi soddisfano e sta bene quanto mi scrivete", precisando solo che vorrebbe partire, "giusta le istruzioni ricevute", non appena installati i nuovi cannoni Armstrong. Ma in una successiva lettera al Ministro dell'8 luglio (che esamineremo nel dettaglio in seguito perché è uno dei capisaldi della difesa) inaspettatamente giudica le istruzioni del Ministro "inseguibili" specie per quanto riguarda il blocco, e ne elenca in dettaglio i motivi. A distanza di poche ore, quindi, cambia del tutto parere: perché? oppure prima ha nascosto al Ministro il suo vero pensiero? Questa lettera non viene citata dall'accusa; gli stessi difensori del Persano dopo averla integralmente stampata nella replica alla requisitoria del Pubblico Ministero non la citano più durante tutto il processo. Il Guerrini affaccia perciò l'ipotesi - che solo tale rimane - che il Persano l'abbia scritta dopo uno scambio d'idee col D'Amico (contrario al blocco), ma non l'abbia spedita per il suo evidente contrasto con le assicurazioni del giorno precedente. Oggi viene da chiedersi: una volta appreso che le sue istruzioni erano ineseguibili, perché il Ministro non ha inviato contrordini o precisazioni, né vi ha fatto più riferimento? e perché il Persano, dal canto suo, non ha suggerito o comunicato una linea d'azione alternativa, visto che usualmente chiedeva ordini e istruzioni su tutto? Sono invece certe, e ben documentate, le continue obiezioni del Persano alle ripetute sollecitazioni del Depretis a uscire al più presto dal porto. Insiste sulla sua necessità di attendere l'installazione dei cannoni Armstrong anche sulla sua stessa nave, il Re d'Italia, e si decide a prendere il mare solo l '8 luglio (eppure, come si è visto, il 28 aveva annunciato, non richiesto, al Ministro che per il 3 luglio sarebbe stato tutto pronto). Per inciso va notato che l'installazione dei nuovi cannoni per la quale il Persano ritarda l'uscita della flotta, dovrebbe aumentarne la potenza: ma all'atto pratico, come osserva il Guerrini, essa è più dannosa che utile, data l'inevitabile impreparazione dei Quadri e del personale all'impiego dei nuovi materiali installati in fretta e furia, e dato anche che il munizionamento era scarso, o di ripiego. D'altro canto bisogna considerare che - come ricorda sempre il Guerrini - il Depretis, che fin dalla sera del 5 luglio sollecita il Persano a uscire subito dal porto, il 6 gli scrive che il Consiglio dei Ministri deve decidere se la flotta deve "continuare a agire", e solo il 7 luglio il Persano riceve le istruzioni da lui compilate: quindi, indipendentemente dagli indugi dell'ammiraglio, la flotta non avrebbe potuto uscire prima del 7 luglio. Conclusione, questa del Guerrini, sulla quale c'è da dubitare proprio perché, per ragioni politiche, al Ministro il 5 interessava soprattutto che la flotta lasciasse il porto, anche per fermarsi al largo; in ogni caso, di fronte a questo chiaro intento del Ministro, il Persano ha fatto a modo suo.


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Dall'8 al 13 luglio il Persano compie una crociera al centro dell' Adriatico, senza mai incontrare il nemico. Le sue comunicazioni al Ministro mentre si trova in mare possono essere riassunte in pochi punti: - la flotta italiana ha mantenuto costantemente la padronanza del mare. Infatti, benché si sia fatto di tutto per far uscire da Pola Tegethoff, egli non si è mosso; il blocco di Pola non è conveniente, perché richiede grande dispendio di carbone e logora le macchine. Del resto lo scopo del blocco è ugualmente raggiunto, visto che la flotta italiana può impunemente percorrere l'Adriatico in lungo e in largo; - non è conveniente occupare Duina, Cherso, Meleda o Lagosta, come suggerito dal Ministro; per fare questo, le forze non sono sufficienti; una volta battuto il nemico [nostra sottolineatura - N.d.a.], anziché di queste isole è più conveniente impadronirsi di Lissa, chiave del]' Adriatico; la flotta nemica non è inferiore alla nostra, come comunemente si afferma; diversamente da noi ha la possibilità di riparare facilmente le avarie, ha buoni bacini a sua disposizione, dovizia di munizioni e "artiglierie migliori che non le nostre" [cosa non vera - N.d.a.]. L'andirivieni della flotta al centro dell'Adriatico senza mai incontrare il nemico e senza mai dirigere verso le sue coste e le sue basi è comprensibilmente assai poco apprezzato dagli equipaggi. Il Pubblico Ministero accusa Persano di non aver obbedito agli ordini del Ministro prendendo immediatamente il largo, e di essere partito finalmente il giorno 8 luglio "col proposito deliberato di non far nulla; di tenersi in alto mare con immenso spreco di carbone, lontano dalle coste d'Italia e della Istria, lontano dagli amici e dai nemici; da quelli per non incontrare la riprovazione del Governo e lo sdegno della Nazione, e da questi per non venire a battaglia". Il Pubblico Ministero dà particolare rilievo alla testimonianza del comandante D'Amico Capo di Stato Maggiore del Persano, il quale - fatto rilevante - afferma di non essere stato da lui informato dei suoi intendimenti, ma di aver inizialmente supposto che si andava a cercare e combattere la squadra nemica; di qui la sua meraviglia quando il Persano gli ordina di mantenere la rotta al centro dell'Adriatico, e quando lo rimprovera aspramente per essersi avvicinato troppo alla costa austriaca.

m. L'arrivo del Depretis a Ancona il 13 luglio e i suoi colloqui separati con gli altri due ammiragli e con i tre Capi di Stato Maggiore assumono l' aspetto di una inchiesta sull'operato del Persano, e non di colloqui informali sulle operazioni future; ne deriva un altro grave colpo al prestigio dell'ammiraglio presso i sottoposti. Nella giornata del 15, e nella mattinata del 16,


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viene deciso l'attacco all'isola fortificata di Lissa, sul quale il Ministro e il Persano sono concordi, dimenticando i precedenti orientamenti sulla necessità di battere prima di tutto la flotta austriaca e di non attaccare le fortezze. Il disaccordo riguarda solo la quantità di truppe da sbarco necessarie per procedere all'occupazione dell'isola: Persano vorrebbe 5.000-6.000 uomini, per il Ministro ne bastano meno di mille. L'impresa, decisa affrettatamente, non può essere che mal preparata, e quindi anche mal condotta (il Persano non ha nemmeno una carta topografica dell'isola, mentre il Ministero non riesce a fornirgliela). Anche se (inaspettatamente) si dichiara fiducioso di poter demolire i forti, l'ammiraglio non conosce affatto - come sarebbe indispensabile - la loro dislocazione e il loro armamento, le forze che li presidiano, la loro efficienza. In queste condizioni, non ritiene opportuno nemmeno utiUzzare le conoscenze dirette che dell'isola hanno gli ufficiali veneti già appartenenti (fino al 1848) alla Marina austriaca (Sandri, Fincati, Bucchia... ) che fanno parte della flotta, qualcuno dei quali vi è stato per lungo tempo di stanza. Fatto ancor più grave, tra il Persano e il Ministro Depretis non viene preventivamente chiarita una questione fondamentale, se cioè lo scopo della azione sia l'occupazione del!' isola (dai cui porti si pensa - con culto jominiano delle posizioni - di poter dominare l'Adriatico), oppure se l'isola sia semplicemente un'esca per poter attirarvi la flotta austriaca e finalmente affrontarla. In questo secondo caso, l'impegno nella "proiezione di potenza" contro l'isola avrebbe dovuto essere limitato, e subordinato alla necessità di tenersi in ogni momento pronti per affrontare la flotta austriaca nelle migliori condizioni possibili. Necessità, comunque, che andava tenuta presente anche nella prima ipotesi... Invece, il Ministro dice solo di aver bisogno di "un fatto compiuto", mentre il Persano pensa che l'attacco e la conquista di Lissa sia la prima cosa da fare, e anzi rappresenti lo scopo da raggiungere. Il Pubblico Ministero imputa al Persano due errori fondamentali, che si ripercuotono anche sull'esito della battaglia e non solo sulla riuscita dell'attacco a Lissa: a) aver inviato troppo tardi il comandante Sandri a tagliare il cavo del telegrafo tra Lissa, Lesina la costa, consentendo cos) al Comando delle difese dell'isola di far giungere alla flotta austriaca la notizia dell'arrivo della flotta italiana; b) non aver creduto - giudicandola solo un'astuzia per distoglierlo dall'attacco - a quanto il Sandri gli riferisce di aver saputo dal delegato austriaco di Lesina, che cioè il Tegettho:ff ha inviato al presidio di Lissa un messaggio, invitandolo a resistere in attesa del suo arrivo. Anziché avvalersi degli ufficiali veneti, il Persano invia a riconoscere sommariamente le fortificazioni dell' isola il suo Capo di Stato Maggiore D'Amico, le cui informazioni sulle fortificazioni non possono essere che molto approssimate e insufficienti. E così il Persano (osserva il Pubblico Ministero) muove per impossessarsi di un'isola, di sorpresa, senza notizie precise; non fa alcun disegno per coordinare lo sbarco all'azione delle arti-


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glierie delle navi; sul piano informe non segna i punti di sbarco; domanda ad Albini dove intendesse effettuarlo; poi l'ordina a Porto Manego; poi a Porto Canrobert; poi nuovi contrordini. In realtà, non bisogna aver studiato cose militari, per rilevare l'imperizia e la negligenza del Comando Supremo in una impresa di tanto rilievo.

In tal modo - prosegue il Pubblico Ministero - anche se le fortificazioni subiscono gravi danni, non si riesce a sbarcare e a costringere il nemico alla resa. La stessa, ostinata resistenza del presidio dell'isola dimostra che sta aspettando l'arrivo della flotta austriaca, ma il Persano non prende nessun provvedimento per fronteggiare questa eventualità. Nella notte dal 19 al 20 luglio sarebbe stato possibile convocare il consiglio di guerra previsto dal regolamento per casi gravi, ma non lo fa e non ascolta nessuno, e per il 20 luglio ordina un nuovo tentativo per espugnare l'isola. Così, quando alle 7,30 di quel giorno l ' Esploratore segnala la flotta nemica in arrivo l'armata [italiana] era sparpagliata attorno all'isola; Albini a Porto Canrobert con la squadra in legno già tutto intento allo sbarco; il Castelfidardo e il Re di Portogallo con avarie nelle macchine; l' Anc:unu incendiata il giorno innanzi nella poppa dalla esplosione di una granata; la Formidabile malconcia e coll'equipaggio dimezzato chiedeva d'andare a Ancona; la Terribile e la Varese lontane rinviate per un'azione diversiva a Porto Comisa - N.d.a]; di undici corazzate, solo nove presenti; i marinai stanchi da due giorni çli lotta.•1

Sempre secondo il Pubblico Ministero, l'ammiraglio avrebbe dovuto comunicare anzitutto ai suoi comandanti il piano d'attacco, come previsto dal regolamento di bordo (Art. 79 e 84), ma non lo fa. Scopo generale di un piano di guerra navale è la distruzione dei bastimenti nemici e la vittoria; il suo piano per la mattina del 20 luglio avrebbe dovuto avere lo scopo particolare di impedire al nemico di soccorrere Lissa; inoltre "per la natura dei bastimenti che aveva sotto i suoi ordini, [il Persano] doveva raccomandare alle corazzate principalmente gli urti [cioè l'impiego dello sperone - N.d.a.], e coordinare l'azione delle fregate in legno con quelle in ferro, in modo che tutte le sue forze prendessero parte alla battaglia" . A questo punto, il Pubblico Ministero risponde anche sommariamente ad a1cune prevedibili obiezioni: è vero che nella mattina del 20 non c'era più il tempo per comunicare un piano d'attacco, ma questo doveva essere fatto prima; l'obiezione che, col vapore, non era più possibile, come per il passato, prevedere direzione e formazione dell'armata nemica non è valida, perché "i buoni ammiragli hanno saputo prevederlo, e provvedere a tempo";

.-,_ Processo del Conte Carlo Pellion di Persano ... (Cit.), p. 24.


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non è vero che le istruzioni date bastavano: esse "imponevano alla flotta in legno di non accettare il combattimento con corazzate nemiche, ed impedivano che la sua azione nel momento del maggior bisogno si armonizzasse con quelle delle corazzate in ferro"; non è vero che le regole della tattica navale regolamentare erano sufficienti: "quelle regole insegnano come si debba condurre una battaglia nei suoi particolari e nei suoi accessori; ma il modo come operare con forze superiori sopra un punto decisivo della linea nemica, il modo tenuto da Tegethoff e da tutti i grandi ammiragli, è trovato dall'ingegno e dalla preveggenza del capitano e scolpito nel suo piano». Da parte nostra va precisato che non è del tutto vero che il Persano non si aspettasse l'arrivo della flotta austriaca: il 19 luglio scrive al Depretis che Lissa è ormai "espugnata", e che non avendo avuto a sufficienza le truppe da sbarco richieste, non è possibile effettuare lo sbarco per prenderne possesso, perché sarebbe imprudente sguarnire di equipaggi le navi. E aggiunge: "Attendo nemico ardito e forte. Aspettando flotta nemica ripariamo le avarie ricevute". Va inoltre ricordato che - cosa che peraltro non fa proprio neHa notte dal 19 al 20 luglio - nella notte dal 18 al 19 luglio dispone la flotta su due linee di fila, formazione che assicura una tempesti va entrata in azione in caso di arrivo della flotta nemica; senza contare che gli ordini del 17 luglio per l'azione su Lissa prescrivono di "non esporre troppo le navi che ci servono per più importanti fazioni" e vietano l'impiego di proietti d'artiglieria d ' acciaio, evidentemente per risparmiarli e impiegarli in caso di scontro navale. Se ne potrebbe dedurre che il Persano fino al 19 si è aspettato l'arrivo deHa flotta austriaca, ma la sera dello stesso giorno non se l'aspettava più, tanto da predisporre uno sbarco per il giorno dopo.

IV. Il giudizio del Pubblico Ministero sulla condotta della battaglia da parte del Persano si avvicina assai a quello, già citato, dell'ammiraglio Page nella Revue des Deux Mondes: ordinato l'assetto di combattimento, egli in luogo di lanciarsi contro il nemico: di fronte, a colonne serrate, a tutto vapore e schiacciarlo, comanda prima la linea di fronte e poi la linea di fila, presentando cosÌ' all'armata austriaca che si avanzava compatta il suo lato più debole, il fianco. Movimento funesto, che ha deciso della battaglia, perché rese facile al nemico di traversare la nostra linea; [movimento] già biasimato dagli ufficiali più esperti e che le astruse e meditate risposte dell'imputato non varranno mai a giustificare. Movimento che paralizzava la forza offensiva delle corazzate, l'urto; e che sarebbe staio solo anunissibile qualora il comandante supremo


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non avesse avuto sotto i suoi ordini e contro di sé che delle navi di legno_•s

Le azioni dell'ammiraglio, poi, riescono pih funeste dei suoi stessi ordini: a breve distanza ormai dalla flotta austriaca passa dal Re d'Italia sull'Affondatore senza avvisare l'armata e senza essere visto da tutti, anche perché vi si alza una bandiera da vice-ammiraglio e non da ammiraglio; in tal modo "il comando non passa da una ad altra nave; il comando sparisce. Tutti i segnali dell'ammiraglio, in quel frattempo, per colpa sua, sono inutiJi, non sono visti o non sono curati". Inoltre il suo passaggio sull'Affondatore provoca un grosso vuoto neHa linea di fila che non è possibile colmare subito, togliendo forza e velocità alle macchine del Re d'Italia proprio quando ce n' é più bisogno: tale passaggio è quindi la principale causa della rottura della linea di fila da parte del nemico, e dell'affondamento del Re d'Italia. Il Pubblico Ministero aggiunge che l'Affondatore a causa delJe sue caratteristiche costrutti ve non era adatto a fungere da nave ammiraglia, perciò il Persano trasferendosi su questa nuova nave non ha raggiunto il suo dichiarato intento di manovrare l'unità più potente e protetta della flotta e al tempo stesso dirigere la battaglia. Duplice scopo che era impossibile da raggiungere; lo dimostra il fatto che ben quattro ore dopo l'affondamento del Re d'Italia non se ne era ancora accorto, e che l'Affondatore non è riuscito a speronare nessuna nave, a causa dell'imperizia delJ'ammiraglio. La vera ragione per la quale si è trasferito sull'Affondatore è perciò, secondo il Pubblico Ministero, "per paura; per porre al riparo del fuoco nemico la sua persona". Dimostra di avere paura già il 18 lugJio ne]l'attacco a Lissa, quando non rimane mai sul casseretto di poppa, posto d'onore dell'ammiraglio, e mantiene il Re d'Italia lontano dalle batterie nemiche, fino a quando il Riboty (comandante del re di Portogallo) non le ebbe fatte tacere, come dichiara lo stesso Riboty. Fin dall'inizio delJa campagna, non casualmente dimostra di avere come idea fissa l'imbarco sull'Affondatore: lo fa solo "per cacciarvisi dentro in presenza del nemico". Mentre l'ammiraglio nemico rimane impavido sul casseretto di poppa della sua nave, in piedi e circondato dal suo Stato Maggiore, il Persano "se ne sta chiuso entro una torre, corazzata da tutti i lati, spiando per le feritoie". Si sporge con il capo dalla torre solo due volte, proprio quando la nave si allontana dal vivo dell'azione; senza contare che la torre corazzata consentiva una limitata visibilità ed era fatta per il comandante della nave, non per l'ammiraglio. Dimostra la sua viltà anche l'ordine da lui dato all'Affondatore (che sta per speronare il Kaiser) di piegare a dritta anziché a sinistra, in modo da evitare l'urto. Tra coloro che sostanzialmente confermano la condotta vile dell'ammiraglio il Pubblico Ministero cita Vacca, Albini, Milon, Conti, Sandri,

"

ivi, p. 26.


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Fincati, Saint Bon, Paolucci, Cerutti, Piola, Gogola, Foscolo e Grillo, mentre i giovani ufficiali Casanova, Razzetti e Isola hanno dichiarato che la prima impressione del passaggio dell'ammiraglio sull'Affondatore è stata sfavorevole, ma che poi, vedendo la nave correre incontro ali' armata nemica, si è creduto per un momento che vi si fosse trasferito per compiere qualche splendida azione. Di qui la disillusione subito dopo ... In conclusione, secondo il Pubblico Ministero il Persano comanda e opera male prima dello scontro, ma durante la battaglia non comanda affatto e opera peggio dimostrando, oltre che mancanza di iniziativa, viltà di fronte al"nemico: "ordinava segnali che accennavano a nuove offese; e li seguiva da movimenti che a quelli contraddicevano. Ordinava che si andasse innanzi ed ei retrocedeva". A torto l'ammiraglio attribuisce la sconfitta all'inazione dell' Albini (comandante della squadra navi in legno), che invece aggrava ancor più le sue responsabilità. Albini, sempre a parere del Pubblico Ministero, avrebbe potuto essere più risoluto e dimostrare maggiore iniziativa, ma è fuor di dubbio che egli non ha fatto che attenersi strettamente alle istruzioni ricevute, le quali gli prescrivevano di evitare l'urto delle corazzate nemiche, e di cominciare il fuoco solo se esse erano disposte in colonne separate, oppure se lo ordinava l'ammiraglio. Se non ha eseguito gli ordini durante la battaglia, è stato perché non li ha visti; comunque ha tentato per ben due volte di attaccare le navi nemiche in legno, cosa che gli è stata "impedita" dalle corazzate nemiche. A fronte di questi benevoli giudizi del Pubblico Ministero, noi oggi precisiamo che l' Albini - come tutta la flotta - non ha ricevuto istruzioni specifiche dal Persano per la battaglia, ma fa improprio riferimento a vecchie istruzioni ricevute durante il viaggio da Taranto a Ancona, le quali come è avvenuto anche il 27 giugno ad Ancona - prescrivevano che la squadra in legno fosse protetta da due corazzate. Inoltre secondo quanto affermano i testimoni, le corazzate austriache " minacciano" solamente con i loro movimenti la squadra in legno, la quale si mantiene sempre fuori tiro e non riceve un solo colpo a bordo. Per questo il giudizio da parte austriaca sul comportamento dell' Albini, citato dal Guerrini, è assai severo: è un fatto che l'intera flotta italiana di legno colle sue ragguardevoli

navi e coi suoi 400 cannoni era rimasta, durante l'intera battaglia, spettatrice inerte, e poi si era accontentata di tirare cannonate inefficaci, a grande distanza. Quest'azione passiva dell' Albini dovea necessariamente avere gran peso sulle sorti della flotta italiana in questa giornata; e tanto meno è scusabile, in quanto l'imperiale flotta di legno, della quale perfino i quasi inermi piroscafi a ruote furono energicamente a combattere, avrebbe dovuto togliergli ogni esitazione ed eccitarlo senz'altro a partecipare alla battaglia.49

"·

Cit. in U. Guerrini, Op. cii., Voi. Il, p. 642.


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A proposito di ordini e prescrizioni di massima, va comunque ricordato che la Tattica navale, alla quale fa frequente riferimento il Persano, precisa (p. 24) che "in nessun caso gli ordini precedentemente ricevuti dall'ammiraglio potranno valere a scusare, durante la mischia, l'inazione di una parte delle sue forze". E questo vale anche per il viceammiraglio Vacca, comandante della riserva, al quaJe il Pubblico Ministero non muove stranamente nessun addebito.

VI. Secondo il Pubblico Ministero, dopo il breve combattimento in cui aveva perduto due sole navi la flotta italiana sarebbe stata ancora in grado di vincere, "gettandosi sull'armata austriaca, nel momento che si riordinava". Un buon militare si rivela tale più nel modo in cui sa riparare a un rovescio, che nel modo con cui organizza la battaglia: ma il Persano non ha saputo farlo, non accoglie la proposta del D'Amico di lanciarsi anche con il solo Affondatore sulla flotta nemica che sta dirigendo su Lissa per vemlit:are l'affondamento delle due navi e salvare l'onore, e con ordini "confusi, precipitosi, ineseguibili" finisce con il far tornare la flotta ad Ancona. Nulla da dire, oggi, sulla prima parte di queste critiche, oltre che sul fatto che gli ordini del Persano nell'ultima e concitata fase della battaglia erano "confusi e precipitosi", e molto probabilmente, non sono stati visti dai più. Rimane però da stabilire - ed è un punto essenziale - se essi erano o meno eseguibili, almeno per comandanti in sottordine dotati d'iniziativa e di spirito combattivo, e desiderosi di vendicare subito l'affondamento di due navi, dimostrando con i fatti che era solo un episodio sfortunato. La mancanza di ordini lamentata da coloro che affermano di non aver visto i segnali del Persano, non giustifica forse, di per sé, quella maggiore iniziativa dei comandanti che invece è mancata?

La difesa del Persano Il commento, prima riferito, all'articolo della Revue des Deux Mondes dà già un'idea della linea difensiva del Persano, la quale viene da lui sintetizzata in una lettera del 18 giugno 1867, dove lamenta che si continua ad accusarlo anche dopo il processo: non si è perduto pure a Custoza? Perché vedere solo la incapacità in me? e poi dove sta questa incapacità? Perché voler dare causa di quel1' insuccesso alla mia insufficienza marinaresca, e non vedere che si fu perché 420 cannoni non corazzati [cioè quelli della squadra in legno dell' Albini - N.d.a.l se ne stettero a guardare, perché una corazzata se ne andò senza permesso [la fregata corazzata Formidabile comandata


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dal Saint Bon - N.d.a.] e un' altra (60 cannoni) non prese parte alla mischia [la Terribile al comando del De Cosa - N.d.a?]; perché la riserva [aJ comando del Vacca - N.d.a.] non adempl ai doveri impostile dalla Tattica navale, art. 69, 74 e 78 se ben rammento; perché non si obbedì agli ordini d'inseguire il nemico, ordini spiccati, ma che avrebbero dovuto esser stati eseguiti di moto proprio, ché sempre si corre al nemico che fugge. 50

Per inciso, poiché si tratta di un personaggio di gnmde rilievo nella storia della Marina, va ricordato che il Saint Bon si era distinto nei giorni precedenti la battaglia nel bombardamento dei forti di S. Giorgio, meritandosi la Medaglia d'Oro per il tiro ravvicinato da lui condotto imbozzando la nave a 300 metri dagli obiettivi. Avendo riportato serie avarie e avendo a bordo dei morti e molti feriti, nella mattina del giorno 20 chiede al Re d'Italia (dove ancora trovasi imbercato il Persano) il permesso di dirigere su Ancona, e riceve in risposta - non si sa perché - 1' ambiguo segnale ho visto, da lui interpretato un po' arbitrariamente - come affermativo. Il Saint Bon rimane ancora per un po', comunque, nelle acque della battaglia, senza parteciparvi e senza essere chiamato a intervenire dal Persano. Il Guerrini giudica i danni non tali da impedire alla Fonnidabile di partecipare alla battaglia, e accenna anche a "un mezzo ammutinamento" avvenuto a bordo della nave il 19 luglio a causa delle molte perdite, che probabilmente incide sulla sua efficienza combattiva. Il Saint Bon, comunque, nell'interrogatorio davanti al Senato critica il Persano; quest'ultimo lo disapprova per essersi sottratto al combattimento senza il suo permesso, attribuisce la sua testimonianza sfavorevole all' intento di "salvare sé da un operato che gli faceva gran torto", e pur ritenendolo persona capace,.si dichiara contrario alla sua nomina a Ministro nel 1873.51 Ritornando alla difesa del Persano, le sue argomentazioni sono riportate in modo organico nell'opuscolo /fatti di Lissa52 (che esamina solo gli avvenimenti a partire dal 15 luglio 1866 ed è pubblicato nello stesso anno 1866, destando malumori nell 'establishment) e nell'altro, più ampio volume del 1873 L'Ammiraglio C. di Persano nella campagna navale del 1866 - schiarimenti e documenti (che riporta - per ciascun capo d'accusa - la difesa del1' avvocato Sammiatelli davanti al Senato, con integrazioni e aggiunte di documenti da parte del Persano). Utili anche, oltre al più volte citato lavoro del Guerrini, i documenti e le lettere raccolti e commentati all 'inizio di questo secolo da Alberto Lumbroso, con le due citate opere La battaglia di Lissa (1910) e Carteggio dì. un vinto (1917), e con il Processo di Persano (1905)53• Questi scritti lo qualificano come il più strenuo difensore del Persano: La battaglia di Lissa, anzi, è stata scritta dal Lumbroso in opposizione ai due volumi del Guerrini, peraltro critici non solo nei riguardi del Persano. ,o.

A. Lumbroso, Caneggio di un vinto (Cit.), p. 355.

"

ivi, pp. 559-561. C. Pellion Di Persano, !fatti di Ussa, Torino, Unione Tip. &litr. Torinese 1866. A. Lumbroso, //processo di Persano, Torino, Bocca 1905.

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Ciò premesso, esamineremo in relazione ai capi d'accusa già indicati in precedenza per l'accusa le controdeduzioni del Persano, integrandole quando e se necessario con quelle del Lumbroso.

I. Circa il ritardo nella partenza con la flotta e nella navigazione da Taranto a Ancona dopo lo scoppio della guerra (20 giugno), il Persano precisa di non aver dimenticato affatto il significato della parola d'ordine "Sta bene, viva il Re ecc.": nel secondo suo telegramma di risposta al Ministro (20 giugno), con il quale l' ammiraglio annuncia la sua partenza da Taranto, tale parola è esattamente ripetuta. La flotta è partita il 21 giugno, lasciando indietro due navi che non avevano ancora raggiunto Taranto, senza aver ricevuto un espresso ordine di partenza e benché il La Marmora avesse telegrafato dal campo, il 20 sera, che non vi era premura di giungere a Ancona, che era meglio entrare in Adriatico con la flotta al completo e che, comunque, l'ammiraglio si regolasse come credeva. L' ammiraglio ba segnalato al Ministro - e comunicato alla flotta - un "cammino medio" di 5 miglia a1J 'ora, sia perché si doveva tener conto di eventuali ritardi parziali per cause varie, sia perché non voleva che eventuali disposizioni emanate dal governo per un'azione combinata con le forze di terra "andassero fallite per colpa sua". Comunque, se al Ministero la velocità sembrava troppo bassa, avrebbe potuto affrettare l'ordine di partenza ... Cosl afferma il Persano. Qui a parer nostro ci sono due osservazioni da fare, la prima a suo favore, l'altra contro. 1n una lettera del 18 dicembre 186654 , nella quale ben riao;sume tutti i capisaldi della sua difesa, il Persano ricorda che il Ministro della Marina nel giugno 1866 aveva ammesso che la flotta non sarebbe stata in grado di operare all'apertura delle ostilità, cioè il 23 giugno: ciononostante, nel luglio susseguente il Governo la considera adattissima aJle più ardite imprese, e le dà l'ordine perentorio di agire Ora delle due l'una: o l'armata non era in grado di sostenere vantaggiosamente Ja guerra in giugno, ed allora non avrehbe potuto esserlo nel luglio successivo, perché le flotte non escono dall'onde formate dall' armi come i funghi nascono dal terreno; o ne era in grado, ed in tal caso non potevasi dal Ministro apporre qual contrasto alla spedizione in Istria o in Dalmazia [cioè: se la flotta era in grado di combattere, allora la sua situazione non poteva costituire un ostacolo alla spedizione in Istria e Dalmazia. Sembra quindi che, con quest'ultime parole, il Persano si riferisca soprattutto al La Marmora - N.d.a.].

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L'Ammiraglio di Persano ... (Cit.), pp. 7-27.


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Per aJtro verso, si deve osservare che non è vero che il Persano non ha ricevuto dal Ministro un espresso ordine di partenza da Taranto: lo riceve fin dal 20, quando il Depretis gJi telegrafa "Sta bene, Viva il Re", che secondo il codice convenuto significa appunto partenza immediata. E l'ordine di partire viene confermato dal Ministro il 21 giugno, quando gli fa notare anche che - come da istruzioni dell'8 giugno - quella frase significa appunto che deve partire subito. Precisazione resa necessaria dallo stesso Persano, che lo stesso 21 gli indirizza un telegramma, nel quale avverte che "giusto ultimo allinea mie istruzioni non devo partire senza ordine preciso": affermazione non rispondente a verità, la quale dimostra che il Persano in quel momento ignora (o vuol ignorare, o non ha presente) che "Sta bene ecc." significa partenza immediata. Inoltre, nello stesso telegramma del 21 giugno il Persano comunica che "non bisogna calcolare un cammino maggiore di 5 miglia all'ora". Frase ambigua, perché questo dato potrebbe indicare anche una velocità massima, non una media. Comunque, il Persano comunica tale data dopo aver ricevuto l'ordine di partenza, quindi il Ministro non può più accelerare nulla, perché non esiste la radio ... Il.

A giustificazione dell' addebito di non aver inseguito il nemico dopo la sua comparsa davanti ad Ancona il 27 giugno, il Persano osserva che il Tegetthof voleva probabilmente tentare un colpo di mano contro la base ritenendo ancora in mare la nostra flotta, che vi era arrivata solo il 25 giugno: "non saprebbe altrimenti conciliarsi l'ardimento di venire da Pola a Ancona colla veloce ritirata a cui si diede, quando la nostra flotta si dispose in battaglia". I due o tre colpi di cannone tirati dalle navi austriache senza ottenere risposta sono stati diretti contro l'Esploratore e non contro la Maria Pia; altrimenti il comandante di quest'ultima nave (che stava muovendo contro il nemico) avrebbe risposto anche senza ordine al fuoco, come previsto dalla "Tattica navaJe". E, con evidente riferimento al richiamo della nave e alla proibizione di fare fuoco da parte sua, il Persano fa notare che, in quel momento, era necessario riunire e ordinare tutte le forze, evitando di combattere alla spicciolata. In breve tempo, la flotta è ordinata in linea di fila sotto i forti di Ancona e pronta ad attaccare il nemico, cosa della quale egli rivendica anche per sé una parte del merito. E mette in rilievo di essere passato dalla nave ammiraglia sull'Esploratore per dare di persona gli ordini alle singole navi: decisione della quale "in altra occasione gli se ne fa torto" [evidente riferimento a1 trasbordo sull'Affondatore a Lissa, peraJtro avvenuto in ben diverse circostanze - N.d.a.]. Eppure la flotta - prosegue il Persano - il 27 giugno era in condizioni assai critiche, "realtà che non vuol essere dissimulata né diminuita, prestando troppo facile orecchio a1 desiderio di battersi che ardeva negli equipaggi delle singole navi e degli equipaggi in sott'ordine". Il Re d'Italia e il


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Re di Portogallo avevano il fuoco nelle tramogge del carbone e lavoravano a gettarlo in mare; il Re di Portogallo non poteva utilizzare le macchine per imperizia del primo macchinista; sulla Varese e sulla Palestro i macchinisti fstranieri] rifiutavano di svolgere il loro servizio, cosa della quale era stato avvertito il Ministero; l'Ancona aveva le macchine in riparazione; il Carignano e la Terribile stavano procedendo al cambio dei cannoni tra di loro_ Inoltre, tutta la flotta stava rifornendosi di carbone, quindi era circondata da imbarcazioni e mille altri imbarazzi.._ In conclusione, "se il nemico preferì quel giorno di non combattere, la colpa non fu dunque dei nostri, che erano impazienti, né improvidità o peggio del loro condottiero, il quale non declinò, ma aveva accettato la sfida [nostra sottolineatura - N.d.a.]; la colpa, se mai, fu del nemico". Non era conveniente inseguire il nemico, come sostiene il Pubblico Ministero. Oltre che la situazione della flotta, bisogna considerare che il nemico stava correndo verso le sue basi a elevata velocità, e aveva già un tal vantaggio, che non sarebbe stato possibile raggiungerlo con la flotta riunita: doveva forse il nostro Ammiraglio muovere incontro al nemico, quando a principio si presentò in apparenza di sfida; e ciò, malgrado tutto il dissesto del suo naviglio in quel momento? [... ]. Era pur debito suo non abbandonare la giovane flotta statagli affidata ad imprese temerarie o inutili, con pericolo di nuocere, anziché giovare, al morale dei soldati e alla causa comune. Queste le istruzioni oralmente e per lettera ricevute dai Ministri, e confermate dalle immediatamente successive, delle quali è prova negli atti...

Il Persano fa poi notare che gli ufficiali che hanno partecipato al Consiglio di guerra da lui convocato sul Principe di Carignano (nave ammiraglia della riserva e avanguardia), si sono dichiarati concordi sull'opportunità di non inseguire il nemico, rimandando lo scontro ad altra occasione, nella quale le forze fossero disponibili al completo. A tale Consiglio, comunque, non hanno partecipato - diversamente da quanto asserisce il Pubblico Ministero - l' Albini, il suo Capo di Stato Maggiore e il Riboty; erano invece presenti - e si sono tutti dichiarati contrari a inseguire il nemico - il Vacca, il suo Capo di Stato Maggiore Bucchia e il Jauch: "se colpa adunque vi fosse stata, nel caso sarebbe stata comune; ma non vi fu colpa di sorta, per le riflessioni anzi esposte". Per inquadrare bene queste dichiarazioni del Persano, occorre ancora ricordare che: il porto di Pola, dove si trovava la flotta austriaca, era a sole sette ore di navigazione da Ancona; la "Tattica navale" prescrive che "sempre che sia possibile, un'armata, squadra o divisione deve ancorare in ordine strategico" lcioè in formazione che consenta di combattere - N.d.a.], cosa che in verità nel porto di Ancona non era possibile, o era possibile solo


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in parte. Il Persano, comunque, nell'ancoraggio della flotta non tiene presente in alcun modo la possibilità che la flotta sia costretta a muovere rapidamente; - non mantiene nemmeno un'aliquota di naviglio sempre pronta in caso di sorprese, né dispone (come gli ha contestato il Pubblico Ministero) che le navi si alternino nel rifornimento di carbone e in altre esigenze logistiche, o che i cannoni vengano sostituiti uno alla volta; - per tutta la notte sul 26 giugno e per tutta la giornata del 26 non manda alcuna nave al largo, né emana ordini per fronteggiare l' eventuale arrivo del nemico; - per la sera del 26, pur disponendo anche dell'avviso Messaggero, manda al largo solo l'Esploratore, però con l'ordine di rimanere sole sette miglia dal porto (il che significa a 45 minuti circa di navigazione); - di conseguenza, l'Esploratore è in grado avvertire dell'arrivo del nemico solo a troppo breve distanza di tempo; - secondo le testimonianze, la flotta austriaca compare davanti ad Ancona alle 4 circa del mattino. Per ragioni oggi difficili da stabilire (il Tegetthoff crede che a Ancona non ci sia ancora la flotta italiana, come afferma lo storico austriaco Altrnayr suo Capo di Stato Maggiore? vuol tentare un colpo di mano? vuol solo saggiare la capacità di reazione della nostra flotta e individuare la sua più probabile formazione di combattimento? vuol mantenersi fuori tiro dai forti?) non attacca la base e le nostre navi alla ancora, ma rimane ferma al largo (a quattro miglia dalla nostra flotta) fmo alle 6,40 sparando qualche cannonata, poi si allontana; nel frattempo, la nostra flotta impiega circa due ore per riordinarsi e schierarsi (lo fa in vista del nemico e portandosi sotto le batterie di Monte Conero, ciò che richiede alle nostre navi di allontanarsi dalla flotta nemica); - in questa occasione il Persano assegna alla squadra in legno il compito di attaccare i legni non corazzati nemici, dandole come sostegno la corazzata Varese "e anche un'altra corazzata se potrò disporne"; nel consiglio sulla Principe di Carignano il Vacca e il Jaoch, pur concordando con il Persano, ritengono necessario "restituire la visita" a Pola, non appena possibile. Delle decisioni prese circa l'esplorazione fuori rada e le predisposizioni all'arrivo della flotta austriaca il Persano non dà alcuna spiegazione; così come, quando afferma che le istruzioni ricevute non gli consentono di impegnare la flotta "in imprese temerarie o inutili", non si sa bene a quali istruzioni si riferisca: quelle prima citate del1'8 giugno, riferite ad altre circostanze? il telegramma del La Marmora del 20 giugno, come opina il Guerrini? Anche quesl'ullimu lt:kgramma non dice nulla che possa essere


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riferito al 27 giugno. Senza contare che un vero comandante non ha certo bisogno di siffatte istruzioni ...

III.

All'accusa di non essersi attenuto alle istruzioni del Ministro nella crociera in Adriatico dall'8 al 13 luglio, la difesa replica lamentando che "mentre erasi dichiarata la guerra ali' Austria il 20 giugno, il Capo della nostra flotta, a tutto il 7 luglio, non aveva i cannoni e non aveva ricevuto istruzioni". Nei telegrammi ricevuti dal Ministro "non v'era che l'ordine di allestire la flotta, non l'ordine di partire, e molto meno l'ordine di un'impresa determinata". Le risposte del Persano dimostrano che i ritardi dovuti alla necessità di preparare meglio la flotta, completare il numero di ufficiali, addestrare la flotta incominciando dai macchinisti ecc., non dipendevano da lui, che era ben disposto ad assecondare le aspettative del governo e della Nazione. In quanto alle Istruzioni del Ministro, quelle dell' 8 giugno " non meritano il nome di vere e proprie istruzioni" e dicono poco; quelle ricevute il 7 luglio, invece, dicono troppo e pretendono di definire persino le modalità per l'esplorazione: ossia [con essa] troppi limiti e troppe cautele si imposero all'azione libera dell'Ammiraglio. Da una parte non si era potuto stabilire un piano di campagna combinato con quello dell'Esercito, e il Ministro non sapea che dolersene. Dall' altro si voleva bloccare e vincere, ovvero bloccare efficacemente la flotta austriaca. Ma dovevansi rispettare Venezia e Trieste, e bisognava guardarsi dalle torpedini e dalle mine, non esporsi al fuoco dei forti, e particolarmente di quelli che difendono Pola e la sua rada di Fasana, per non compromettere alcun bastimento.

L'8 luglio, perciò, l'ammiraglio scrive al Ministro che queste istruzioni sono ineseguibili, per diversi motivi: a) non è possibile bloccare una forte flotta nemica a vapore in un posto fortificato, perché potrebbe compiere facilmente sortite notturne, "nell' intento di porre i bloccanti nel disordine, e metterli nella probabilità di battersi tra di loro"; b) anche supposto che il blocco sia attuabile, potrebbe durare solo pochi giorni, e sarebbe giocoforza interromperlo per la necessità di rifornirsi di carbone; c) non potrebbe trattarsi di un blocco vero e proprio, perché le principali basi austriache "sono munite di posizioni innumerevoli potentemente fortificate che battono in pieno le navi che si accostano al Lido, senza tema di riceverne offesa per la loro elevatezza. Non è quindi possibile avvicinarsi a quei porti in misura tale da impedire l'uscita della flotta"; d) per impadronirsi della ferrovia a Duino e delle isole, occorrono delle truppe da sbarco che la flotta non ha, "altrimenti sarebbe un impadronirsi momentaneo e vago"; e) per eseguire


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nel modo dovuto quanto prescrive il Mirustro, occorrerebbe una flotta non doppia, ma tripla. Nonostante queste obiezioni, l'ammiraglio non ha ricevuto contrordini. Si poteva solo provocare il nemico a battaglia, però senza accostarsi a Pola o ad altri punti fortificati della costa: e che cos'altro rimaneva allora, se non navigare, come egli fece, nel bel mezzo, o press'a poco, del non vasto mare Adriatico? Tenere in questo modo la signoria del mare non era una frase. Era una verità Lnostra sottolineatura - N.d.a.l; imperrocché il nemico non aveva balìa di uscire da' suoi porti; ed è ciò tanto vero, che allo sbocco di quel mare incrociava frattanto un legno da guerra italiano, e liberamente andavano e venivano i nostri legni, non affatto i nemici [...l Era una signoria la quale, piuttosto che provocare, aspettava di essere provocata; insufficiente perciò a soddisfare le generali impazienze dei soldati, ignari delle difficoltà imposte a11' ammiraglio, ma non meno conforme agli ordini ricevuti.55 Perciò, non vi è stata da parte del Persano né disobbedienza né viltà, imperizia o negligenza. Il Pubblico Ministero gli contesta che il comandante D'Amico, suo Capo di Stato Maggiore, ha dichiarato al processo di essere rimasto sorpreso dall'ordine di far tenere alla flotta una rotta tale da non essere vista né dalle coste austriache né da quelle italiane, e di essere stato rimproverato per essersi avvicinato troppo ad Ancona; e anche il comandante Riboty ha dichiarato che non riusciva a capire quali fossero gli intendimenti dell'ammiraglio. La difesa obietta che il bravo Riboty non conosceva i limiti posti ai piani dell'ammiraglio daJle istruzioni ministeriali, le quali altre possibilità non gli lasciavano che quella di combattere il nemico fuori de11a prossimità dei suoi lidi; ed ancora, che l'ammiraglio non era nell'obbligo di ammettere al segreto dei suoi piani neppure l'ufficiale distintissimo che il Ministero aveva nominato a Capo del suo Stato Maggiore [nostra sottolineatura -

N.d.a.]. Dirigendo a principio verso la Venezia, lasciando che questa notizia si diffondesse prima che partisse, e poi a1 Capo di Stato Maggiore ordinando di retrocedere, egli si era proposto di portarsi inosservato in posizione di dove potesse correre a tagliare il nemico fuori dalla sua base d'operazione e dargli battaglia nelle condizioni più favorevoli, quando, illuso sulle vere mosse della nostra flotta, fosse stato attirato verso Ancona.56 Questa è la ragione per cui nella notte dall'8 al 9 ha ordinato a] Capo di Stato Maggiore di ripiegare; e questa è anche la ragione per cui non avrebbe voluto che la flotta fosse avvistata, e ha rimproverato il D'Amico. ss. ivi, p. 49. ,. ivi, pp. 50-5 l.


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A queste argomentazioni della difesa occorre obiettare, anzitutto, che non è vero che il Ministro non ha mai dato al Persano l'ordine di partire: nei numerosi telegrammi del 5 e del 6, il Ministro lo ha più volte sollecitato a uscire dal porto e dalla rada, "stando sulle macchine": cosa che il Persano non fa. Vero è, invece, che il 6 luglio il Ministro precisa che prima di aver battuto e bloccato la flotta nemica (che è l'obiettivo più importante), non dovrebbe attaccare le fortezze; "dopo dipenderà da11e circostanze e dalla sicurezza di ottenere risultati". Dal canto suo, il Persano il 9 luglio alle 12,00 scrive al Depretis che, nella notte dall'8 al 9, si era diretto verso Venezia (non verso "la Venezia", cioè il Veneto) con l'intenzione di fare poi una conversione "che ci avrebbe portati in vista del litorale istriano", ma il mare grosso e le fitte tenebre "sconsigliarono il mio Capo di Stato Maggiore" [ è stata sua, dunque, la colpa - N.d.a.J di far fare un cambiamento di rotta che era pericoloso per una flotta numerosa, con navi di diversa velocità e "che non hanno tutte uf:fìziali sperimentati sulla nuova tattica". La giustificazione dell'inversione di rotta prodotta dal Persano al processo, quindi, è del tutto diversa; ad ogni modo, si deve constatare che egli non pensa mai a andarsi a schierare davanti a Pola (sia pure rimanendo fuori dalla portata dei cannoni dei forti, come aveva fatto lo stesso Tegetthoff) per "restituire la visita" a Tegetthoff e sfidarlo a sua volta a battaglia, come avevano proposto il Vacca e altri. Il 10 luglio Persano scrive al Depretis di "aver costeggiato a breve distanza, che talora fu appena di 9 a 10 miglia, il litorale nemico", allo scopo di "affrettare l'occasione di qualche fatto importante e decisivo": cosa non vera, che contrasta anche con il più delle volte dichiarato intento, al processo, di mantenersi al centro dell'Adriatico. L' 11 luglio, come si è visto, comunica al Ministro che, avendo studiato più attentamente, in un momento di calma, le sue istruzioni del 7 luglio, è giunto alla conclusione che conviene "adescare la flotta nemica a uscire" anziché bloccarla, e sul blocco, l'occupazione delle isole ecc. esprime le stesse idee della sua citata lettera dell'8 luglio. Questo fatto avvalora la citata ipotesi del Guerrini che quest'ultima lettera non sia mai stata spedita, e che in essa, comunque, non si faccia riferimento alle istruzioni del Ministro de11'8 giugno. Non si comprende, infatti, che bisogno ci sia che l'ammiraglio ripeta queste considerazioni sull'impossibilità di eseguire gli ordini, se le ha già comunicate al Ministro l '8 luglio; ed è anche significativo che accenni di averle compiute "in un momento di calma", cioè durante la navigazione, mentre 1'8 luglio le ha già formulate prima di partire. E, come si è visto, 1' 11 luglio lo stesso Persano afferma che le istruzioni dell'8 giugno non sono da ritenersi veramente tali, quindi non è possibile che vi abbia fatto riferimento nella lettera dell' 8 luglio sulla crociera. Nella lettera del 18 dicembre 1866 prima citata, alle imprese che a suo avviso non era possibile tentare il Persano aggiunge i1 forzamento dei passaggi di Chioggia a Malamocco per entrare nell'estuario del Po (possibilità indicata dal La Marmara, ma non in forma tassativa), perché non sono


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disponibili navi a pescaggio ridotto, e inoltre una siffatta impresa non coordinata con le operazioni terrestri non servirebbe a nulla. E afferma che le istruzioni del 7 luglio in fondo non sono molto differenti da quelle dell' 8 giugno, perché "meno l'ingiunzione di tenere l'Adriatico sgombro dalle forze nemiche, e sgombro ne è rimasto sino allo scontro di Lissa, nel resto esse non erano effettuabili". Giudizio - osserviamo noi - che dimostra il suo errato concetto di padronanza del mare, e trascura che il Ministro non si è limitato a parlare solo di questo scopo, ma ha anche precisato che - naturalmente - esso deve essere ottenuto con la distruzione e il blocco della flotta nemica. Del resto le vicende della battaglia di Lissa che ora esamineremo, non dimostrano forse che la padronanza del mare è tale, solo se si distrugge o neutralizza la flotta nemica o la si costringe a rimanere in porto, nonostante la sua volontà di uscire? Se l'impresa di Lissa fosse stata condotta dopo aver battuto la flotta nemica, sarebbe certamente riuscita...

IV. All' accusa di aver male organizzato e condotto l'attacco a Lissa del 18 e 19 luglio, e di non aver previsto e aver mal preparato la battaglia del 20, la difesa del Persano obietta che all'azione su Lissa, senza perdere ulteriore tempo ad aspettare la flotta nemica, "il Persano fu far.lato; forzato <lall'impazienza del Paese, dal corso degli avvenimenti nei quali versavano allora le sorti italiane, e dalle superiori ingiunzioni". Tutte queste ragioni lo hanno indotto a persistere nel proposito di distruggere i forti, nonostante le difficoltà incontrate; il Ministro Depretis subito dopo la crociera dall'8 al 13 luglio aveva biasimato la sua inazione, e chiedeva un fatto compiuto; lo stesso aveva fatto il Ricasoli con due lettere del 13 e 14 luglio; lo stesso il La Marmara il 14 luglio a nome del Governo e del Re, minacciando di sostituirlo se non agiva . Riguardo allo svolgimento delle operazioni nei giorni 18 e 19 luglio, la difesa sostiene che: - il Persano si è dichiarato d'accordo col Ministro sull'idea di attaccare Lissa (da lui anzi suggerita per primo), ma ha posto come condizione la necessità di avere un'aliquota di truppe da sbarco di almel\O 5.00<) uomini, accettando il contingente di 1.200-1.500 uomini offerto dal Ministro, solo dopo lunga discussione; - all'attacco a Lissa sono favorevoli sia il vice-ammiraglio Vacca che il b' Amico, che ne parlano con il Ministro prima che questo ne discuta col Persano; contrari sono solo l' Albini e il suo Capo di Stato Maggiore. In particolare, il D'Amico dichiara al Ministro che "non potendo attaccare né Venezia né Trieste, e non avendo dispo-

nibili quindici o venti mila uomini per operare alcun che nell'Istria, e considerato che la pace stava per concludersi, senza che con la


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Venezia avessimo acquistato un sicuro porto nell'Istria, io giudicavo opportuno il tentativo di un colpo di mano su Lissa, che quando non ·

foss'altro, poteva far decidere la flotta nemica a uscire da Fasano [nostra sottolineatura - N.d.a.]"; se il comandante Sand.ri, incaricato la sera del 17 luglio di andare a tagliare il cavo telegrafico di Lissa, lo ha fatto in ritardo, ciò è avvenuto "per cause accidentali", e non perché è stato inviato in ritardo: "né inviarlo prima sarebbe stato quasi possibile, in quella precipitazione che accompagnò la spedizione di Ancona"; - la notizia da lui portata che il Tegetthoff prima dell'interruzione del cavo aveva comunicato a Lissa l' arrivo de11a flotta è stata ritenuta uno stratagemma di guerra non solo dal Persano, ma da tutti i presenti; alcuni hanno sostenuto che, dopo la notizia del probabile arrivo della flotta austriaca comunicata dal Sandri, il Persano è stato imprudente continuando l'impresa di Lissa. Da questa critica " si è difeso egregiamente in una lettera confidenziale che, fuori affatto da ogni sua volontà, per soverchio zelo di un corrispondente fu pubblicata". E bisogna tener conto, in proposito, delle numerose sollecitazioni con cui si chiedeva a lui e alla flotta un Jatto compiuto; - dagli atti risulta che non è vero che l'ammiraglio nei giorni 18 e 19 luglio abbia trascurato "le cautele necessarie, pel caso di arrivo del nemico" . In merito, "altra cosa è l'imperizia, altra cosa è un errore; la prudenza ha i suoi gradi; altro è il difetto di una superlativa prudenza, altro la negligenza". Dopo tutto, la mattina del 20 è stato possibile schierare rapidamente in ordine di battaglia la flotta senza difficoltà di rilievo, "né i vantaggi del nemico dipesero dai fatti dei giorni antecedenti"; se fosse stato subito disponibile un buon nucleo di truppe da sbarco con relative artiglierie, se l' Albini avesse effettuato lo sbarco il 18 o almeno il 19 luglio come gli era stato ordinato; se il Vacca a Porto Comisa, e l' Albini a Porto Manego e Porto Canrobert avessero ottenuto almeno la metà dei risultati ottenuti a Porto San Giorgio dalle navi alle dirette dipendenze del Persano, "l'isola sarebbe già stata nostra, e ciò avrebbe mutato l'indirizzo e l'esito della battaglia il dl 20 luglio" [questa affermazione contraddice la precedente che le operazioni del 18 e 19 non hanno avuto alcuna influenza su quelle del 20 - N.d.a.]; - il Pubblico Ministero pretenderebbe che per tutte le otto ore dei bombardamenti contro i forti di Porto San Giorgio, l'ammiraglio fosse rimasto sul casseretto di poppa del Re d'Italia. Se è salito sulla coffa dell'albero di maestra (corazzata contro i colpi di fucile ma non contro le cannonate) per vedere meglio, se è sceso in batteria per incoraggiare gli artiglieri, ha fatto solo il suo dovere; la tesi dell ' Albini che prima della battaglia il Persano avrebbe dovuto prevedere da che parte veniva il nemico, come hanno fatto in


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passato i grandi àmmiragli, non tiene conto che con la propulsione a vapore ciò non è più possibile; essa ha mutato tutte le leggi della tattica navale, perché il vapore pennette al nemico di presentarsi dalla parte e con la formazione che più gli aggrada. Di conseguenza "succede delle Armate navali come degli Eserciti, cioè [...l si possono bensì ideare e stabilire piani d'attacco anticipati, intesi a serrare o a dividere o a cogliere e a sorprendere il nemico, che è l'arte della strategia (sic); ma per fissare il piano di una battaglia occorre, anzitutto, conoscere, come è evidente, la disposizione del nemico"; - questa è la ragione per cui il Persano non ha convocato il Consiglio straordinario previsto dalla "Tattica navale" quando ancora era in corso il bombardamento di Lissa; dopo, non ba più fatto a tempo; - non è comunque vero che per pianificare l'attacco a Lissa non abbia voluto avvalersi delle conoscenze degli ufficiali veneti, né li abbia interrogati; quest'ultimi (Fincati, Bucchia, Sandri, Paulucci) hanno avuto tutti ruoli di primo piano fquesto è vero: ma altra cosa era - in assenza di informazioni precise e di carte topografiche - avvalersi delle loro conoscenze dirette dell'isola, o magari affidare a uno di loro la ricognizione invece compiuta dal D'Amico - N.d.a.]. L' ultimo argomento trattato dalla difesa è la preferenza da dare, a seconda delle circostanze, alla formazione in linea di battaglia o a quella in linea di fronte. Per poter discutere di questo - afferma il difensore - bisognerebbe essere ammiragli o professori di tattica navale; e su questo punto, "la questione criminale di colpa è assorbita qui dalla questione tecnica di abilità. Né mai di imperizia si potrebbe qui trattare, ma semplicemente di possibile errore". E per risolvere questa questione, "gioverà essere più dotti e meno malevoli del grave autore di un noto articolo [da noi già esaminato N.d.a.] comparso sulla Revue des deux Mondes". Si può osservare che da queste argomentazioni non ricevono giusta luce alcuni fatti, che invece hanno grande peso sugli eventi del giorno 20. Anzitutto i rimproveri indirizzati durante il bombardamento di Lissa dal Persano, per lettera, all' Albini e - in tono più morbido - al Vacca, e le risposte scritte di questi che tali rimproveri non accettano. Segno eloquente dei cattivi rapporti che intercorrono tra i Capi della flotta, i quali per giunta, pur trovandosi a breve distanza, non si parlano mai ma si scrivono. In secondo luogo, il Persano affida all'Esploratore e alla Stella d'Italia (senza impiegare l'altro veloce avviso Il Messaggero) l'incarico di provvedere alla sicurezza diretta della flotta durante l'attacco a Lissa, ma percorrendo una linea troppo estesa (90 miglia) e troppo vicina all'isola (25 miglia), senza quindi inviare nelle vicinanze della base di Pola l'Esploratore e il Messaggero, che data la loro elevata velocità avrebbero potuto fargli giungere molto prima la notizia dell'uscita della flotta austriaca. Ne consegue che il giorno 20 luglio la flotta viene avvisata in ritardo dell'arrivo del nemico e si trova obiettivamente nelle condizioni peggiori


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per fronteggiarlo, cioè sparsa intorno all'isola e intenta a espugnare i forti. E poiché occorrono ben 20 ore di navigazione per raggiungere Ancona e la flotta davanti a Lissa aveva i fuochi accesi da 90 ore, si deve anche aggiungere che il 20 mattina comincia a mancare il carbone, fatto riconosciuto dallo stesso Persano57 che pesa sulle operazioni successive. Tant'è vero che tra il 19 e il 20 sia il Vacca che il D'Amico preoccupandosi di questo fatto propongono l'uno di ritornare ad Ancona, e l'altro di andare ad ancorarsi nel porto di Civitanova Marche, appunto per rifornirsi di carbone. Si deve, infine, considerare che con l'attacco a Lissa sia il Ministro Depretis che il Persano rinunciano ad antiche pregiudiziali (evitare l'attacco ai forti, non attaccare le coste e le isole se prima non si è distrutta o bloccata la flotta nemica, non lasciarsi staccare dalla base di Ancona). In particolare, il Persano in precedenza aveva dichiarato Lissa un obiettivo ideale, ma solo dopo aver conquistato la padronanza del mare; e, visto che l'attacco ha logorato 1e navi e provocato inevitabilmente un consumo rilevante di carbone, esso appare in contraddizione con le sue precedenti idee sull'impraticabilità del blocco. Se, come osserva il Guerrini, il Tegetthoff approfittando dell'assenza della nostra flotta impegnata a Lissa avesse condotto un prolungato attacco ad Ancona (e/o si fosse disposto tra di essa e Lissa), probabilmente il Persano anche dopo aver espugnato Lissa il 20 luglio si sarebbe trovato in difficoltà, dovendo scegliere tra affrontare la battaglia con poco carbone o andarsi a rifornire di combustibile in lontani porti, magari anche fuori dall' Adriatico.58

V. Sulla condotta della battaglia, e in particolare sul passaggio dell'ammiraglio sull'Affondatore e sul cattivo impiego di questa nave da lui stesso ritenuta prima dello scontro determinante, la difesa non fa nessuna obiezione a un argomento-chiave dell' accusa, che cioè la torretta corazzata dell'Affondatore, dove il Persano era rimasto chiuso durante la battaglia, non era fatta per l'ammiraglio ma per il comandante della nave, e comunque attraverso le sue feritorie non consentiva quella buona visibilità a largo raggio, della quale il Persano aveva evidentemente bisogno per condurre secondo i suoi intendimenti la battaglia. Davanti al senato il Persano così giustifica i successivi ordini da lui dati il 20 luglio per le formazioni da assumere, dopo aver avvistato il nemico: ho chiamato la flotta a correre di fronte contro il nemico che si avanzava in ordine uguale su due linee, le corazzate in testa. E ciò feci sia per incontrare il nemico il più lontano che mi fosse possibile dalle

" C.Pellion di Persano, / fatti di Lissa (CiL), p. 18. "'· D. Guerrini, Op. cit., Vol.11, pp. 509-510.


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sue terre, sia per dar tempo alla squadra di formarsi dietro le corazzate. Ad un certo punto, quando cioè fummo alla distanza di tre o quattro miglia dal nemico, ordinai la formazione della linea di battaglia... perché la credetti la vera tattica della circostanza, siccome speciale e propria a impedire il nemico di correre verso le sue terre [cioè verso Lissa - N.d.a.J, e a colpirlo d'infilata con le mie artiglierie. Dicono che il fianco è il lato più debole: se si tratta di battaglioni di fanteria sì; non così di bastimenti, che avendo i cannoni in sul fianco, di necessità devono presentarlo al nemico se lo vogliono offendere [... ] Se mi fossi contentato di stare in fronte, è naturale che non avrei presentato la massa di cannoni come ho fatto. Né ciò induce la conseguenza che i singoli legni debbano aspettare, presentando impavidi il fianco, l' urto da cui possono essere minacciati, giacché se la tattica navale regolamentare ingiunge ai bastimenti formanti linea di battaglia di non piegare se il nemico si attenta di tagliarla, subito aggiunge di serrar le distanze e soprattutto di abbordar essi stessi il nemico che traversa o volesse traversare profittando delle lacune. V' ha di più: la stessa tattica dice: tosto che il combattimento ha luogo a piccola distanza ed è impegnata la mischia, ogni comandante che crede poter abbordare il nemico con vantaggio, non deve affatto esitare ad eseguire questa manovra. 59 Nei Fatti di Lissa, poi, il Persano addebita all' Albini, che peraltro non aveva ancora incominciato lo sbarco, di non aver prontamente eseguito i1 suo ordine iniziale di assumere la formazione in linea di fronte, attardandosi a recuperare le imbarcazioni anziché lasciare tale incombenza alla flottiglia; " la qual cosa osservando io, spiegai tosto il segnale - IL NEMICO TN VISTA - e subito dopo quello di - ASSETIO rn COMBATIIMENTO - per fargli conoscere l'urgenza di accorrere immediatamente a formarsi in seconda linea delle corazzate, giusta gli ordini di massima della tattica navale"00• E a proposito del contestato passaggio sull'Affondatore, si giustifica asserendo che i vigenti regolamenti della Marina italiana lo consentivano, e che comunque "a ciò mi deliberavo nell'intento di trovarmi su un legno che tenevo per forte e veloce a un tempo. Sia per potermi condurre a piacimento nel fitto della mischia o per determinare la vittoria se vincenti, o per rinfrancare il combattimento se perdenti; sia perché meglio potevo muovermi e spiccar ordini con certezza di essere veduto"r,i [ma perché non ha avvisato in precedenza nessuno? questo passaggio ha aumentato l'incertezza e la confusione, altro che «certezza di essere veduto» ! - N.d.a.] Il difensore del Persano non entra nel merito tecnico della miglior formazione da adottare, anche in questo caso osservando che un conto è un eventuale errore; un conto è l'accusa di imperizia all' ammiraglio. E dichiara di non volersi occupare di questa questione, perché "ciò mi porrebbe nella spiacevole 59 · ivi, pp. 538-539. ..... C.D. Persano, /fatti di Lissa (Cit.), p. 20. ... ivi, p. 22.


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necessità di esaminare come mai, alla battaglia di Lissa, la riserva comandata dal contrammiraglio Vacca prendesse così poca e quasi nessuna parte, e nessuna parte affatto vi prendesse la flotta in legno comandata dal Vice-ammiraglio Albini". Eppure le navi in legno austriache si sono battute ancor di più delle corazzate, "contro l'opinione scienti.fica dell'ammiraglio Albini, il quale disse di reputare inutili e imharaz,zanti ]e fregate in legno, quando si battono con le corazzate". È così avvenuto che solo nove corazzate italiane, al comando diretto del Persano, si sono battute contro ventisette navi austriache, delle quali sette corazzate e venticinque comunque combattenti. Ciò premesso, i] difensore si sofferma soprattutto sul passaggio del Persano sull'Affondatore e sulle sue conseguenze, osservando che: il passaggio dell'ammiraglio su altra nave è previsto dall'Art. 80 della tattica navale; non è provato che la sosta (brevissima) del Re d'Italia in seguito al trasbordo dell'ammiraglio abbia causato un varco neUa Jinea di fila, o addirittura l'uscita della nave dalla linea di fila e il suo affondamento, dovuto invece a] danneggiamento del timone e al fatto che il suo comandante Faà di Bruno invece di allontanarsi dal combatti.mento, "volle intrepidamente aspettare fermo tre corazzate"; l'insegna di vice-ammiraglio (e non di ammirag1ìo) alzata sull'Affondatore Ida taluni attribuita all'intento del Persano di non far conoscere al nemico, "che ]o voleva catturare vivo o morto", la nave ,dove si trovava - N_d.a.] è dovuta, come confermano le testimonianze, a un puro caso (mancanza a bordo dell'insegna di ammiraglio) e non a volontà del Persano; comunque essa indicava ugualmente che il Persano era a bordo, non potendosi pensare che vi si era trasferito il Vacca. È invece strano che i comandanti abbiano potuto notare bene questo particolare [due palle bianche invece di tre sul verde della bandiera - N.d.a.], e non abbiano invece visto i segnali successivi; sembra impossibile che alcuni comandanti non si siano accorti che l'amnùraglio era passato sull'Affondatore, non vedendo più su] Re d'Italia la bandiera ammiraglia, e vedendo l'Affondatore allontanarsi da] Re d'Italia del quale era a guardia, mentre i primi segnali da lui trasmessi erano stati ricevuti da tutti; se la brevità del combattimento, se "gli equivoci (non diremo mai il mal volere)" di alcuni comandanti e la sorte avversa hanno impedito al Persano di ottenere con 1' Affondatore i risultati che si riprometteva, non si può farg1iene una colpa. In quanto all'accusa di codardia, il difensore osserva che, anche se il mancato investimento del Kaiser da parte dell'Affondatore fosse dovuto all'ordine da lui dato a1J'ultimo momento di piegare a dritta evitando così l'investimento, si tratterebbe di un errore spiegabile con la confusione del combattimento e l'ansia dell'amnùraglio. Va anche considerato che, come ha affermato il comandante della nave [e anche l'autore dell'articolo sulla


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Revue des Deux Mondes - N.d.a.], l'urto diventa assai difficile se si tratta di un combattimento tra due sole navi a vapore ben guidate. Né risponde a verità che il Persano sia passato sull'Affondatore per ripararsi meglio nella torre corazzata: diverse altre navi del1a flotta avevano la torre corazzata, mentre non l'aveva il Re d'Italia da lui scelto come ammiraglia, anche se il Ministro Depretis gli ha scritto, una volta, di cambiare - se credeva - nave. Ed è partito per Lissa senza che l'Affondatore fosse arrivato, rimanendo sul Re d'Italia anche durante l'attacco ai forti... L' inconsistenza dell'accusa di viltà è dimostrata, per la difesa, anche da tutta una serie di altre circostanze: a) a Lissa avrebbe potuto anche ritirarsi come ba fatto Tegetthoff ad Ancona, perché le perdite e le avarie riportate durante l'attacco avrebbero giustificato una tale decisione; b) non appena il nemico si è presentato, ha dato gli ordini per la battaglia e con il Re d'Italia si è spinto verso il nemico; c) il 19 luglio aveva già comunicato al comandante dell'Affondatore, senza fame mistero, la sua intenzione di trasferirsi sulla nave; d) con l'Affondatore si è avventato immediatamente contro al nemico; e) è stato lo stesso Persano a notare il Kaiser e a ordinare all' Affondatore di andargli incontro; f) avrebbe anche potuto tra.sferirsi - come prevedono le norme - su una nave non combattente, su un avviso, per poter comandare meglio. Invece si è trasferito sulla nave più potente - quindi anche la più pericolosa - della flotta. Con queste tesi il difensore lascia senza risposta due interrogativi essenziali: se, cioè, il momento scelto per il passaggio sull' Affondatore (quando le due flotte stavano venendo a contatto) fosse il più opportuno, e quali conseguenze esso ha avuto sulla (scarsa) reattività dimostrata dalla nostra flotta. Comunque, il difensore non dà peso ai difetti dell'Affondatore (timone, raggio di evoluzione troppo ampio) che invece il Persano indica nei Fatti di Lissa come causa unica del mancato urto.62 Per contro, il difensore ammette che passando sull'Affondatore il Persano non ha raggiunto i suoi dichiarati scopi, e che il mancato investimento del Kaiser può essere dovuto a un suo errore. L'affermazione del difensore e del Persano che la ''Tattica navale" (Art. 80) consentirebbe all'ammiraglio di cambiare nave è però inesatta e non ne rende bene i contenuti. Come ricorda i1 Guerrini63, l'Art. 79 prevede che l'ammiraglio passi da una nave da battaglia all'altra, ma solo nel caso che la prima sia "inabilitata", mentre l'Art. 80 prevede effettivamente che l' ammiraglio cambi nave anche se quella su cui è imbarcato non è inabilitata, ma solo nel caso che il trasbordo avvenga su ''un bastimento leggero". Eviden. temente l'Affondatore non era tale, era se mai la nave più potente e moderna; senza contare che a mente dell'Art. 93 il comandante supremo,

,,. ivi, pp. 26-27. 03

D. Guerrini, Op. cii., Voi. IJ, pp. 577-579.


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cambiando nave, deve portare con sé tutte le carte relative al servizio (cosa che non risulta aver fatto il Persano, e - per mancanza di tempo e perché non preavvisato - ancor di meno ha fatto il suo capo di Stato Maggiore, che ha portato al seguito solo il libro dei segnali). Nemmeno è stato rispettato l'Art. 93 del Regolamento, il quale prescrive che, se il cambio avviene in presenza del nemico, la bandiera del comando resta alzata sulla nave dalla quale l'ammiraglio scende. Alla difesa interessa, evidentemente, smontare l'accusa al Persano di aver causato, con l'arresto delle macchine reso necessario dal trasbordo sul!'Affondatore, lo speronamento del Re d'Italia. Perciò la difesa cita la versione austriaca, secondo la quale lo speronamento della nave da parte del1' ammiraglia austriaca sarebbe avvenuto fortuitamente, e solo perché il Re d'Italia, anziché portare la barra del timone tutta a sinistra evitando di presentare il fianco, ha arrestato la macchina e ha cercato di retrocedere, allo scopo di sfuggire allo speronamento. Rimane comunque non sufficientemente chiarita la vera causa dello speronamento: manovra errata, guasto al timone, o guasto alla macchina? E perché da parte austriaca si giudicafortuito (quindi non dovuto aJI 'audacia e abilità dell'ammiraglio austriaco) lo speronamento? VI. Al1'accusa di non aver continuato a combattere dopo il primo sfortunato scontro, e di non aver inseguito il nemico che si rifugiava a Lissa, il difensore replica che l'Affondatore ha dato a tutta la flotta il segnale di inseguire il nemico "senza distinzione di posto e di grado", e che questa nave ha dato per prima l'esempio spingendosi verso il nemico che si a11ontanava e tirandogli un colpo di cannone. Purtroppo l'esempio non è servito: solo due navi (il Re di Portogallo corazzato, e il Principe Umberto non corazzato) hanno ubbidito e lo hanno seguìto. A questo punto, se l'Affondatore - come suggerito dal D'Amico al Persano - si fosse gettato da solo in mezzo alla flotta nemica, questo gesto "sarebbe stato, come capitano, un inutile atto di coraggio, e come ammiraglio, una sciocca temerarietà, che non vale propriamente la pena di confutarlo". Nei Fatti di Lissa il Persano lascia capire abbastanza chiaramente che nella fase cruciale e più delicata della battaglia il Vacca non si è attenuto ai suoi ordini, e ancor più chiaramente che l 'Albini nonostante le sue ripetute sollecitazioni non ha voluto combattere. Dopo il mancato speronamento del Kaiser - egli riferisce - "con mio gran stupore scorsi in distanza inoperosa" la squadra dell' Albini, che senza aver preso parte al combattimento stava eseguendo una manovra di contromarcia: gli manda perciò segnali - rimasti senza esito - di attaccare il nemico e di avvolgerne la retroguardia. Successivamente, intravista la possibilità di dividere le forze del nemico ormai in ritirata con una manovra celere, segnala a tutta la flotta di "dare caccia con


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libertà di cammino e di manovra". Ma ad eccezione del Re di Portogallo, "non distinguendo forse il segnale fatto" le corazzate non eseguono l'ordine e continuano a manovrare per disporsi in linea di fronte [formazione non da lui ordinata - N.d.a.]. Intanto la squadra dell' Albini "continua a mantenersi inattiva": solo il Principe Umberto al comando dell' Acton, che ne fa parte, dà l'esempio portandosi avanti e aprendo il fuoco. E vista la lentezza con cui si sta eseguendo l'ordine, l'Affondatore percorre con il segnale inalberato per fugare ogni dubbio, la fronte intera della nostra flotta: ma intanto il momento più favorevole era passato ... Riguardo alla convenienza di inseguire il nemico anche quando non poteva più essere raggiunto con le forze riunite, il difensore osserva che "pur supponendo che la riflessione nei subordinati, avesse loro ispirato il senso dell'obbedienza, che non ebbero prima, sarebbe stata sempre una manovra insensata". E si richiama in proposito alle affermazioni dello stesso Persano, il quale definisce infruttuoso e improvvido un siffatto tentativo: - infruttuoso, perché tutto portava allora a ritenere che il nemico si sarebbe diretto alla base ben fortificata di Cattaro, senza poter essere raggiunto. In caso diverso, non si sarebbe ritirato dal combattimento proprio nel momento a lui più favorevole e avrebbe riacceso la battaglia; - improvvido, perché il nemico si dirigeva a Sud di Lissa, e se noi l'avessimo inseguito avrebbe potuto agevolmente tagliarci fuori dalla base di Ancona, che per noi in quel momento era importante raggiungere sia per rifornirci di munizioni e combustibile (che cominciava a scarseggiare) e poter poi riprendere il mare, sia per dare battaglia se il nemico l'accettava, sia per impedirgli di ritornare a Pola, sia infine per impossessarsi di Lissa con le truppe da sbarco ultimamente giunte ad Ancona. Il Persano conclude i Fatti di Lissa ricordando che solo 10 navi italiane hanno affrontato l'intera flotta austriaca, e benché ridotte a 8 hanno continuato il combattimento fino a "avere il vanto" di inseguirlo nella sua ritirata. Perciò, "senza con questo decantar vittoria" [ma nei primi messaggi dopo la battaglia lo aveva fatto - N.d.a.], i combattenti nella battaglia "hanno mantenuto alto l' onore della bandiera italiana". E non manca di indicare degli ammaestramenti sia per la tattica navale che per le costruzioni future, finora ignorati dalla critica storica: le nol1l).e tatti<.he più adatte al combattimento con lo sperone sono quelle compilate dell'ammiraglio Bouet - Willaumez della Marina francese, e dell'ammiraglio Boutak:of della Marina russa; poiché i combattimenti ormai si decidono assai più con lo sperone che con il cannone, occorre aumentare le capacità manovriere delle corazzate, dotandole di due eliche; poiché le navi corazzate possono essere affondate con lo sperone come quelle non corazzate, occorre che nella costruzione del loro scafo siano previsti compartimenti stagni nella maggior misura possibile;


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gli attacchi delle corazzate a fortificazioni costiere espongono a un fuoco micidiale i serventi delle artiglierie: occorre quindi costruire gli sportelli di chiusura delle cannoniere sui fianchi dello scafo in modo che si aprano solo quando il pezzo fa fuoco, e si chiudano quando il pezzo rientra in batteria; - poiché gli incendi sono diventati più frequenti a causa delle palle incendiarie [riferimento alla perdita della Palestro - N.d.a.], non si deve più usare legname né per le opere morte, né per le paratìe, né per il mobilio. Non si sa fino a che punto quest'ultime affermazioni giovino al Persano. La mancata applicazione del principio nelsoniano della massa nel caso specifico esalta il valore degli equipaggi, ma non è un merito per l' ammiraglio; e il Persano, dopo aver confidato fin dalla prima fase della battaglia - come egli stesso dichiara - nelle potenti artiglierie, dopo la battaglia riconosce anch'egli che lo sperone ormai prevale sul cannone. Cosa, quest'ultima, anche prima di Lissa sostenuta dai maggiori scrittori navali a cominciare dal Bouet - Willaumez e riconosciuta da lui stesso, quando nel giugno 1862, da Ministro della Marina, dichiara in Senato (sulla scorta del1'esperienza della guerra americana) che una sola nave corazzata, munita di sperone, basta a colare a picco un'intera flotta in legno.

Le giustificazioni del Vacca e dell'Albini

Come si è accennato, il Persano viene ai ferri corti con il Vacca e l' Albini già durante l'attacco a Lissa, quando li accusa di non aver compiutamente eseguito i suoi ordini. Per quanto riguarda la giornata del 20 luglio, chiara e aperta è la sua accusa ali' Albini di essersi mantenuto lontano dal combattimento, mentre al Vacca addebita, in estrema sintesi, di aver tratto poco profitto dalla riserva alle sue dipendenze e di non aver, comunque, eseguito nella fase finale - l'ordine di inseguire immediatamente il nemico senza badare alla formazione e senza prima riordinarsi, perché non c'era più tempo. Già riguardo alla crociera dall'8 al 13 luglio, il Vacca e l' Albini depongono davanti al Senato in maniera non certo favorevole al Persano. Ambedue affermano che l'ammiraglio, riunitili prima della crociera, ha comunicato loro di aver intenzione di dirigersi inizialmente su Venezia, per poi puntare su Pola: ma successivamente ha mantenuto una rotta al centro dell' Adriatico certamente non tale - a loro concorde avviso - da indurre il nemico ad 1,cire da Pola e attaccarci. Questa crociera senza scopo chiaro ha provocato quindi malumori negli equipaggi, che anelavano a battersi; né sono stati molto utili gli esercizi di tiro (solo in bianco) e le evoluzioni ordinate dall'ammiraglio nel corso della crociera stessa. Nel suo rapporto64 l' Albini afferma che alle ore 19 del 19 luglio le

...

L'Ammiraglio di Persano... (Cit.), pp. 138- 146.


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imbarcazioni che trasportavano l'avanguardia del contingente di sbarco dopo aver incontrato notevoli difficoltà nell'avvicinarsi alla costa a causa del vento e del mare mosso, "dovettero retrocedere, avendo incontrato resistenza di truppe appostate; intanto venne l'ordine del comandante supremo di sospendere l'operazione, e doversi però differirla al mattino successivo". Nel primo mattino del 20 luglio l'Albini inizia di nuovo le operazioni di sbarco, ma al segnale dell'ammiraglio che il nemico è in vista reimbarca rapidamente le vaporiere e le zattere, lasciando al San Giovanni il compito di raccogliere quelle che non ha fatto a tempo a riportare a bordo. Alle 9 la squadra in legno prende posizione dietro la colonna delle corazzate, "secondo l'ordine di massima emanato dall'ammiraglio in Ancona il 15 andante". Alle 10 la nostra flotta passa alla linea di fila in ordine addentellato. Alle 10,40 il nemico apre il fuoco, e gli rispondono le nostre corazzate di testa: "da questo momento in poi, con la seconda squadra [in legno] tentai d'impegnarmi contro i legni misti [del nemico: "legni misti" sono le navi parzialmente corazzate - N.d.a.], cercando però l'opportunità di un intervallo libero da corazzate nemiche, senza imbarazzare mai la manovra delle nostre corazzate, e avvicinatele molto, trovai l'attacco sviluppato su tutta la linea". Però questi tentativi di attaccare le navi nemiche meno protette - riferisce l' Albini - falliscono ed è costretto a retrocedere, perché per ben due volte si trova la strada sbarrata da corazzate nemiche, che tentano di speronare le sue navi. Cerca anche di tagliare la ritirata ai "legni misti" nemici quando - con il Kaiser danneggiato in testa - cominciano a ripiegare; ma alle 11,30, mentre la squadra in legno sta manovrando "per la contromarcia", viene affondato il Re d'Italia, e "a questo infausto avvenimento, pensai non doversi disturbar per nulla il corso del combattimento" (sic). Alle 11,35, mentre la sua squadra non ha ancora ultimato la suddetta manovra, le corazzate nemiche incominciano a ripiegare, e alle 11,40 cessa il fuoco da ambedue le parti. Egli elenca, poi, tutti i successivi segnali provenienti dall'Affondatore (che dunque ha visto bene), limitandosi a riferire che "la seconda squadra stava pronta a seguire, nella formazione prescritta dalle istruzioni, la linea deUe corazzate". La relazione dell' Albini termina con "considerazioni generali" che tali in senso stretto non sono, perché mirano tutte a giustificare indirettamente la condotta dello stesso Albini, che si presenta come obiettivo privilegiato del nemico. Infatti - la tattica costante del nemico è sempre stata quella di tagliare la linea delle nostre corazzate per attaccare la squadra in legno; - di conseguenza le nostre corazzate sono state continuamente impegnate a impedire questa manovra, e questa esigenza ha ostacolato il ricorso allo sperone; - "i legni misti" nemici sono riusciti a far fuoco con efficacia contro le nostre corazzate solo perché "furono sorpresi vicinissimi [alla nostra flotta] in principio dell'attacco", cioè per un caso fortuito; ma


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ben presto questo momento favorevole è cessato, perché l'ammiraglio nemico ha avuto "gran fretta di allontanarsi", e i successivi tiri da lontano dei predetti legni misti sono stati inefficaci; sarebbe stato insensato attaccare con la squadra in legno le corazzate nemiche_ Il suo compito doveva essere quello di battersi solo con i "legni misti" nemici, "locché non ha riuscito né a noi né alla squadra austriaca"; in definitiva, nei combattimenti ai quali partecipano squadre corazzate "le squadre in legno non risultano di alcuna efficacia ed anzi imbarazzano, poiché distraggono le corazzate dall'essenziale loro compito, che è quello di prendere l'offensiva, riducendole a continue evoluzioni difensive per proteggere i legni misti". Esse potrebbero comunque essere utilmente impiegate insieme con la squadra corazzata di riserva, per concorrere allo sforzo decisivo. 11 Persano postilla polemicamente molte considerazioni dell' Albini, notando che in tutto ciò che concerne l'impresa di Lissa "sarà facile scorgere una mala voglia, inesplicabile, ma certo fatale, nella maggior parte dei dipendenti", cosa che serve a chiarire gli avvenimenti. Di tale "malavoglia" è esempio il mancato sbarco del 19 sera, nel quale l' Albini anziché neutralizzare senz'altro con le sue numerose artiglierie le "resistenze di truppe nemiche appostate", comunica al Persano di aver sospeso lo sbarco a causa della "maretta che frangeva la costa", senza accennare alla resistenza nemica. E per questo il Persano ha inviato l'ordine di rimandare lo sbarco all'indomani ... Circa le formazioni assunte all'inizio della battaglia dalla squadra in legno, il Persano osserva che essa "non ha preso il suo posto né prima, né durante l'azione": quindi l'affermazione dell' Albini che essa si è disposta in linea di fila in ordine addentellato non risponde a verità; né risponde a verità la sua affermazione che si è "avvicinato molto", all'inizio, alle nostre corazzate, visto che si è sempre mantenuto fuori tiro. Non contesta le "considerazioni generali" dell' Albini: osserva solo che le navi in legno nemiche si sono comportate ben diversamente dalle sue, volgendo con decisione la prua contro le nostre corazzate. E nella fase decisiva, in cui è stato affondato il Re d'Italia, "nulla e nessuno può scusare il retrocedere del1' Albini in un momento di tanta importanza, quello in cui la pugna era più fervida e decisiva". Riprovevole anche il suo intento di "non disturbare per nulla il combattimento" dopo la perdita della nave: in quel momento egli credeva che il Persano fosse ancora sul Re d'Italia ormai affondato; e dopo il Persano era lui il più anziano, al quale toccava prendere il comando della flotta ... Del Vacca merita particolare attenzione una lettera - altamente indicativa del clima morale della flotta e delle carenti doti di carattere di uno dei suoi più alti esponenti - da lui indirizzata il 20 giugno 1868, in francese, all'ammiraglio Bouet-Willaumez (la più alta autorità del tempo in materia di tattica navale), pubblicata dal giornale Débats insieme con la risposta del


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destinatario, e anch'essa duramente contestata dal Persano6·~. In tale occa~ sione questo ammiraglio italiano lamenta con un ammiraglio straniero l' ingiusto provvedimento adottato nei suoi riguardi dal Ministro generale Pescetto (che lo ha collocato a riposo nonostante che, subito dopo Lissa, il Depretis gli avesse affidato il comando della flotta in sostituzione del Persano, assegnandogli anche il compito di andare a Pola per vendicare Lissà) e, dopo una serie di accuse al Persano, chiede al Bouet-Willaumez un giudizio sulla battagHa e sugli errori che vi sono stati commessi. Gli errori elencati dal Vacca non sono certo nuovi: Persano non ha mai voluto discutere coi comandanti un piano di battaglia, non ha mai parlato con nessuno dell'eventualità di uno scontro con la flotta nemica, non ha mai manifestato le sue idee sul da farsi, non ha mai prescritto un ordine di battaglia o delle evoluzioni delle squadre, ha ritenuto erroneamente che il Tegetthoff non ci avrebbe attaccato il 20 (e così la nostra flotta quel giorno è stata sorpresa dal nemico nel più completo disordine), ha adottato per la battaglia una formazione (la linea di fila) che offriva il nostro fianco agli speroni nemici, con una decisione improvvisa e inesplicabile e senza avvisare nessuno si è trasferito sull'Affondatore provocando un vuoto nella linea, ha impedito alla fine di inseguire il nemico ... Della sua azione di comando il Vacca dice di aver oltrepassato, all'inizio, la linea nemica, e di aver cercato di avvolgerne la retroguardia. Questa azione era ancora in corso quando sono affondati il Re d'Italia e il Palestro; ma subito dopo le due flotte si sono allontanate l'una dall'altra, e allora per non trovarsi solo in mezzo alla squadra nemica è stato costretto a ripiegare. In seguito si sono notati sul l'Affondatore (che si era di molto allontanato) dei segnali che sembravano ordinare la prosecuzione del combattimento: ma la flotta rimaneva nell'inerzia e nell'incertezza, né c'era l'unità d'azione indispensabile, sia perché l'ammiraglio si trovava a grande distanza, sia perché alcuni comandanti non avevano notato i segnali del]' Affondatore, sia perché altri non sapevano nemmeno che il Persano si trovava su questa nave. A questo punto - prosegue il Vacca - "benché inferiore di grado ai due altri ammiragli, ho pensato che qualcuno doveva pur assumere il comando della flotta. Avendo intanto ricevuto il segnale che ordinava di continuare il combattimento, e volendo eseguire al più presto l'ordine, mi sono deciso a segnalare a tutta la squadra corazzata l'ordine di disporsi immediatamente in linea di fila, con rotta a Sud-Est. Questa evoluzione è stata rapidamente eseguita, e il vice-ammiraglio Albini, imitando la mia manovra, si è schierato con la sua squadra vicino a me, sembrando ben disposto a battersi"; intanto la flotta austriaca, disposta anch'essa in linea di fila e lontana ormai 4 miglia, si teneva sulla difensiva e non osava ritornare a combattere. •• ivi, pp. 183-194.


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Se in questo momento - afferma sempre il Vacca - l'ammiraglio Persano non fosse ricomparso, avremmo preso l'offensiva: ma l'Affondatore ha rallentato il nostro movimento, riprendendo il comando e ordinando "seguite per contromarcia il movimento del comandante". Noi tutti abbiamo creduto, allora, che ci riconducesse al combattimento: "ma, tra la sorpresa generale, dopo aver tergiv(?rsato per qualche ora con movimenti in differenti direzioni che ci allontanavano sempre più dal nemico, l'ammiraglio ha ordinato la ritirata su Ancona". Con dubbio gusto e senso dell'opportunità, visto anche che si rivolge a un ammiraglio straniero, il Vacca esclude motivazioni personali e protesta di aver criticato la condotta del Persano "mio malgrado e per uno stretto debito d'onore": sta di fatto che lo indica come l'unico responsabile della sconfitta. E conclude il suo atto d'accusa dando particolare rilievo allo scarso addestramento della flotta: la nostra flotta, armata in fretta e furia, certamente non aveva degli equipaggi ben addestrati e pronti a entrare in azione; essa mancava soprattutto di buoni artiglieri; e delle povere reclute avevano dovuto rimpiazzare i cannonieri mancanti. Se l'ammiraglio Persano avesse ben riflettuto sull'inesperienza di questi cannonieri improvvisati, e se avesse interrogato i comandanti, io sono certo che egli non avrebbe fatto molto affidamento sulle artiglierie, e si sarebbe deciso a ricorrere a mezzi potentissimi come lo sperone e l'urto f ... J l'ammiraglio Persano I... I ha invece creduto di poter battere il nemico con un nutrito fuoco d'artiglieria, e le sue previsioni si sono rivelate fallaci. I nostri cannonieri, che già si erano rivelati poco pratici nel tiro al bersaglio nella baia di Taranto, sono diventati ancor meno abili sotto il fuoco nemico; i nostri proietti, deviando dall'obiettivo, si sono persi nel vuoto, sicché le navi austriache hanno riportato ben pochi danni. La squadra in legno dell' Albini, che avrebbe potuto compensare vantaggiosamente lo scarso effetto delle nostre artiglierie, non era entrata affatto in azione; tutto insomma concorreva a rendere inefficace un siffatto modo di combattere.

Dunque per il Vacca il primo errore del Persano è stato di non tener conto dello scarso addestramento dei cannonieri, tale da vanificare la nostra notevole superiorità in fatto di artiglierie. Tesi analoga a quella della "Revue des Deux Mondes" ma - come meglio si vedrà in seguito - non condivisa da parecchi comandanti._ A ta] proposito, secondo il Guerrini le perdite della nostra flotta, se si eccettuano coloro che sono periti nel1' affondamento delle due navi, sono state esigue (7 morti e 35 feriti), e quelle austriache molto superiori (38 morti e 138 feriti, in prevalenza sul Kaiser). I 534 cannoni delle navi austriache partecipanti all'azione hanno sparato 4552 colpi (8-9 colpi ciascuno in media); i 212 cannoni italiani (solo delle 10 corazzate che hanno realmente combattuto) ne hanno sparato 1452 (meno di 7 ciascuno), dei quali 412 hanno raggiunto le navi austriache. Il Guerrini ne deduce che i cannonieri italiani non sono stati cosl maldestri


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come ha asserito il Vacca, e che il fuoco austriaco è stato "fortunato" fl' efficacia è fortuna? - N.d.a.], ma i suoi "risultati numerici" sono stati meno buoni dei nostri. Sull'esattezza di siffatte statistiche v'è sinceramente da dubitare; ad ogni modo è un fatto incontestabile che i nostri cannonieri erano improvvisati, poco addestrati e soprattutto poco abituati al combattimento, quindi con cannoni così potenti sarebbe stato sicuramente possibile ottenere molto migliori risultati. Nella fattispecie, nonostante i nostri nuovi cannoni e la possibilità di colpire di ottimi bersagli come le navi non corazzate austriache, nessuna nave austriaca è stata affondata: i nostri 412 proietti hanno colpito, ma dove? e come stati contati? Certamente non hanno toccato - come avrebbero dovuto - le parti vitali delle navi nemiche. Per contro, anche se Tegetthoff ha fatto affidamento prima di tutto sul rostro, anche se i suoi cannonieri (come scrive lo stesso Vacca) erano inesperti come i nostri e i suoi cannoni erano meno moderni, il fuoco austriaco ha causato sicuramente la perdita. de11a Palestro, e probabilmente anche que1la del Re d 'Italia, speronato a causa del danneggiamento del timone. Doppia fortuna? La lettera del Vacca riceve dal Bouet -Willaumez una hrcve risposta pubblicata anch'essa dal Débats del 28 luglio 1866. Dandogli indirettamente una lezione di dignità, di stile e di solidarietà tra uomini di mare, l'ammiraglio francese - e ne avrebbe tutti gli elementi - rifiuta di pronunciarsi sulla condotta del Persano e di esprimere giudizi tattici, pur ammettendo - genericamente - che possano essere stati commessi degli errori. Egli osserva piuttosto che l'Italia è stata troppo severa con i capi della sua flotta; l'errore più grande - errore non solo militare o navale, ma contro il buon senso - è stato infatti quello di aver inviato la flotta italiana a combattere, d'altronde assai bravamente, contro le batterie fortificate in roccia a difesa di un'isola di assai difficile accesso, e di importanza strategica più che dubbia; di avere fatto sprecare contro questa roccia pressoché inattaccabile le sue munizioni, i suoi uomini, le sue energie per due o tre giorni, salvo poi a veder piombare su di essa all'improvviso, una flotta nemica tutta fresca, tutta compatta, che la sorprende sparsa intorno all'isola e nel più grande disordine.

Questa "enormità" - aggiunge il Bouet - non sono gli ammirag1i italiani ad averla ·commessa: è l'opinione pubblica italiana, che li ha spinti loro maigrado a questa impresa. È dunque essa la vera colpevole: "in seguito, per giustificarsi ai suoi stessi occhi, le si sono offerti gli ammiragli in olocausto [poco velata accusa al governo - N.d.a .. )". Il Bouet conclude la lettera con il motto Vae victis, e invita il Vacca a rassegnarsi, a lasciar perdere: dal momento che ritiene di non aver niente da rimproverarsi, che cosa gli importa del resto? Prevedibilmente il Persano bolla con forti parole il gesto del Vacca e le sue considerazioni. In una lettera (per il momento non pubblicata) del 12


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ottobre 1868 a un runico parigino66, riferisce un giudizio sfavorevole del Cavour (ottobre 1861) sul Vacca, che ha pretese assurde e sollecita promozioni non meritate. Prende poi atto, con soddisfazione, che la lettera del suo sottoposto ha ricevuto dal Bouet "la più giusta e dignitosa risposta che far le si potesse", ed è stata disapprovata non solo in Italia ma anche all'estero (Tzmes del 10 settembre 1868). Il Persano si dichiara meravigliato soprattutto dell'accusa del Vacca di non aver inseguito il nemico quando si stava ritirando: è veramente cosa incredibile che un tal rimprovero mi sia mosso da colui, che il giorno innanzi mi consigliava di ritornare in Ancona[...] da colui che, appena entrato nel porto di San Giorgio [a Lissa] per condursi con la sua squadra, giusto gli ordini avuti in iscritto, a sostenere la Formidabile, se ne tornò via [ ... ]. Da colui, che dopo aver volto con la riserva, di cui era a capo, a sinistra., stando le due flotte sul punto di venire a combattimento, si mostrò poi affatto privo di scienza militare trala~ciando di chiamare, per via di un movimento simultaneo, le sue navi in linea di fronte, e di urtare con esse il fianco del nemico (la qual manovra del resto gli era prescritta dalla tattica regolamentare [...]); da colui, infine, che con la massima disinvoltura asseriva nella suddetta lettera di non aver cessato d'inseguire da presso la retroguardia degli avversari, e dimenticava intanto che nel rispondere alla interrogazione del conte Arese in Senato, aveva dichiarato di non aver eseguito l'ordine da me spiccato di correre al nemico senz.a distinzione di posto e grado, perché aveva prima voluto attendere ad ordinarsi!

E qui torna a ripetere che la disobbedienza del Vacca è stata "fatale", perché ha dato modo al nemico di allontanarsi tanto, da non poter più essere raggiunto con forze riunite, e di tagliarci fuori della nostra base di operazione se inseguito. L'obiezione che tocca appunto al Capo dell'armata disciplinarla in modo da essere obbedito, in questo caso sarebbe "ingiusta", perché eran soli due mesi che io aveva il comando dell'armata; ed ognuno converrà che in due mesi non si disciplina una flotta, massime se essa si componga, come la mia, di navigli che già appartennero a Stati diversi, e che perciò militarono sotto diverse insegne, regole e discipline. Oltre di che è da notare che una parte soltanto della flotta era sotto di me da due mesi; giacché un'altra parte venne alla spicciolata più tardi...

L'adozione della linea di fila all' inizio della battaglia (che il Vacca non è il solo a criticare) è giustificata dal Persano con nuovi argomenti. Oltre al miglior sfruttamento delle artiglierie, questa formazione a suo giudizio avrebbe consentito alla flotta - e proprio alla riserva comandata dal Vacca di compiere successivamente le evoluzioni più opportune per fronteggiare ... ivi, pp. 170- 182.


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le mosse del nemico. E qui egli cita numerosi articoli della ''Tattica navale" (65, 71, 74, 75, 78, 114, 115) i quali, in sintesi, prescrivono che durante il combattimento: - i comandanti di squadra devono ordinare i movimenti resi necessari dalle mosse del nemico, e il comandante della riserva è libero di scegliere la formazione e il genere d'attacco che giudica più efficaci, portandosi sul punto della linea che il nemico minaccia di tagliare; nel combattimento a piccola distanza ogni comandante è autorizzato a abbordare il nemico, e alla fine di un'azione i bastimenti che sono in grado di farlo "devono essi stessi", senza attendere segnali, attaccare i bastimenti nemici che potrebbero riunirsi e ritirarsi. Comunque, nulla può scusare durante la mischia l'inazione di una parte delle forze; alla fine del combattimento, qualunque ne sia il risultato i bastimenti che si trovano nelle migliori condizioni, senza attendere segnali, devono manovrare "sia per completare la disfatta del nemico e tagliargli la ritirata, sia per affrontare il nemico stesso se volesse continuare o ricominciare il combattimento". Quindi, secondo il Persano il Vacca avrebbe potuto adottare - di sua iniziativa e anche senza specifico ordine - la formazione più opportuna per svolgere i compiti normalmente previsti per la riserva, che invece non ha affatto svolto. Se la flotta, come sostiene il Vacca, si fosse disposta in linea di fronte, "senza ricordare che tali scontri sono sempre di dubbio conseguimento, per quanto cercati dalle due parti, e che, succedendo di riscontro, non farebbero che produrre ]'affondamento reciproco", va tenuto conto che, data la posizione reciproca delle due flotte, le nostre navi che non fossero riuscite a urtare il nemico si sarebbero trovate alle sua spalle, senza più potergli impedire di portarsi su Lissa, come era suo scopo. Se non si è riusciti a impedirglielo, è stato solo per colpa dello stesso Vacca e del1' Albini... Il Persano si giustifica ancora per non aver convocato, prima della azione, un consiglio: non ce n'era bisogno, egli ripete, perché "i particolari incombenti di ciascun comandante di squadra e nave, durante il combattimento, prima e dopo, sono talmente precisati e ingiunti dalla tattica navale regolamentare, che nel caso preveduto non abbisognavano ulteriori disposizioni". Nega anche di aver commesso l'errore di intestardirsi nell'attacco a Lissa, senza -curarsi del possibile arrivo di Tegetthoff: non poteva interroinpere l'azione, "perché a quella ero mandato, perché m'era esplicitamente ordinata, e, in fine, perché quello era lo scopo della missione - E se il

Tegetthoff non si fosse mosso, come avrei mai potuto allora scusarmi col governo del re e colla nazione che mi chiedevano un fatto compiuto? [nostra sottolineatura - N.d.a.]. Affermazioni importanti, perché da esse si trae la conferma che per il Persano lo scopo dell'azione su Lissa era appunto la conquista dell'isola, non la predisposizione di un'esca per far uscire da Pola la flotta nemica e


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poi batterla; al tempo stesso il Persano - specie il 19 e il 20 luglio - è praticamente costretto a proseguire l'attacco, dal timore che l'opinione pubblica non avrebbe più tollerato azioni mal riuscite o inconcludenti... Insomma: si sentiva tutti i ponti tagliati alle spalle, e non poteva più permettersi il lusso di sbagliare ancora una volta. Di quanto sostiene il Vacca, si può dire solo che egli si contraddice parecchie volte sulle vere ragioni che, al termine del primo scontro, lo hanno indotto a tentare di assumere il comando della flotta e di riordinarla, prima di muovere incontro al nemico. Rimane perciò da sciogliere solo un interrogativo: il riordinamento sostenuto dal Vacca era effettivamente necessario come egli dice, oppure ha provocato una fatale perdita di tempo, come dice il Persano? Forse, aveva ragione quest'ultimo. "Ancona e Lissa": la polemica del Fincati contro il Persano

La difesa del Persano nei Fatti di Lissa viene duramente contestata dal capitano di fregata Luigi Fincati67, a Lissa comandante della pirocannoniera (parzialmente corazzata) Varese appartenente alla squadra del Vacca. Nell'opuscolo - anzi nel libe11o anonimo - Ancona e Lissa - cuique suum (che porta la data del 4 ottobre 1866)68, il Fincati definisce i Fatti di Lissa un tentativo apologetico del Capitano Supremo, basato sull'accusa d'altrui, sulla mutilata narrazione di fatti isolati e conseguenti e sul silenzio delle cause che li hanno prodotti; un elenco di nomi delle nostre navi e degli ufficiali che le comandavano, senza un cenno sulla intrinseca forza che rappresentavano, senza un confronto tra questa e quella che ci opponeva il nemico. Il tutto preceduto da una brevissima e accorta introduzione, nella quale il signor di Persano si atteggia a vittima dinanzi ad accaniti nemici che dilaniano perfidiosamente il suo cuore.

Ma Persano - prosegue il Fincati - non è una vittima: è l'ammiraglio che, pur disponendo della flotta più potente che abbia mai solcato l' Adriatico, "non seppe o non volle vincere". Segue un attacco veemente alla sua azione di comando: che cosa fece il signor di Persano durante i tre mesi che separano"la sua ascesa dalla sua caduta? Quali istruzioni diede ai suoi capitani? Quali esercitazioni videro le acque dell'ampio Golfo di Taranto? Quali dispo-

"· In una lettera del dicembre 1869 il Persano definisce i1 Fincati "maligno e cattivo" e giudica sfavorevolmente il suo dizionario (vds. prossimo cap. XIlI). Il Lumbroso riporta anche una lettera del colonnello commissario della Marina G.B. Casa - che era stato alle dipendenze dello stesso Fincati - piena di critiche al Fincati come uomo, ufficiale e scrittore navale (Cfr. A. Lumbroso, Carteggio di un vinto Cit., pp. 462-465) . 68 Ancona e Lissa - cuique suum, Ancona, Successori Tip. Da1uffi 1866.


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sizioni diede l'ammiraglio per non essere sorpreso dall'inimico? Quali per assicurarsi della cooperazione di tutti? Quali pel caso d'una mischia? Quali pel caso che non si scorgessero o non si potessero fare segnali? Quali furono i concerti presi pei casi impreveduti? Quale, in una parola, è il memorandum [riferimento a quello di Nelson a Trafalgar - N.d.a.] che rila,;ciò ai suoi Capitani? Tutto ciò dovea dirci il Signor di Persano prima di narrarci i fatti di Lissa.

Il Fincati definisce il rifiuto del Persano di accettare battagJia ad Ancona il 27 giugno ''una vergogna", per la quale già allora "si sarebbe dovuto procedere contro il signor ammiraglio e contro coloro che approvavano tanta nequizia lriferimento al consiglio da lui convocato? -N.d.a.]". Riguardo all'azione su Lissa, 1o stesso Persano afferma che l'ordine perentorio giuntagli dal quartier generale era di "agire in qualunque maniera si fosse per trarre l'armata dell'inazione", e che il Ministro ha espresso il desiderio che l'obiettivo fosse Lissa. Quindi l'ammiraglio era libero di scegliere, e ha egli stesso trovato "di somma convenienza" prendere possesso di "un obiettivo secondario, posto a centoventi miglia alle spalle della propria base fcioè a Sud-Est di Ancona - N.d.a.], lasciando questa fra sé e il nemico [che era nella base di Pola - N.d. a.]". Questo di mostra che "il Comando dell'armata non erasi fatto né un concetto generale della guerra che andavasi a combattere, né il menomo progetto d'attacco né di qualsiasi altra operazione di guerra, che per trarlo dall'inazione non ci volle meno di un ordine perentorio del quartier generale!". Né si capisce perché, lasciata Ancona per dirigersi su Lissa, fino a notte avanzata il Persano fa rotta verso l'isola di Lussino per nascondere - egli dice - il suo obiettivo: "per mascherarlo a chi?". Il Fincati poi contesta al Persano e al suo Capo di Stato Maggiore D'Amico - che come si è visto è stato fautore dell'impresa di Lissa prima con il Ministro Depretis, suo amico, e poi con il Persano - di aver iniziato la campagna, e di aver deciso l'azione su Lissa senza possedere alcuna informazione su11e difese dell'isola. Con il D'Amico, non è certo tenero: dalla "vergognosa giornata" del 27 giugno fino all'attacco a Lissa - egli afferma - passano quindici giorni, nei quali non si fa e non si prepara nulla, impiegando il tempo disponibile"nell'esercizio di pratiche balorde, inutili e pedantesche, frutto della quinquenne onnipotenza ministeriale del signor D'Amico [per lungo tempo deus ex machina del Ministero de11a Marina - N.d.a.l". Non basta: il D'Amico, inviato dal Persano a fare una necessariamente sommaria e affrettata ricognizione delle difese dell'isola su una nave battente bandiera inglese (azione lodata dal Persano per il suo "ardimento"), esplora impunearnente e senza il menomo pericolo l'isola di Lissa e ne riporta nozioni erronee e incomplete, in base a11e quali l'Ammiraglio imparte ciecamente ordini che non vengono eseguiti né dal vice-ammiraglio [Albini] né dal retro-ammiraglio [Vacca], ciò che reca non poca


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sorpresa al signor di Persano perché trova le ragioni di questi ufficiali in contraddizione colle indicazioni del suo Capo di Stato Maggiore. Noi non sappiamo chi di costoro abbia ragione, sebbene siamo indotti a credere che ragione non ne avesse nessuno ...

In generale le accuse del Fincati al Persano per le sue decisioni nelle giornate del 18 e 19 luglio non sono cosa nuova; qualche sua argomentazione merita però di essere ricordata. In particolare, a suo giudizio: il Persano, anche ammesso che il delegato austriaco di Lesina mirasse (con la notizia dell'arrivo di Tegetthoff data al Sandri) a fargli sospendere l'attacco su Lissa, avrebbe dovuto ugualmente ritenere certo l'intervento della flotta austriaca. Prima che il cavo venisse tagliato, il comandante austriaco dell'isola aveva senz'altro fatto in tempo a dare la notizia della comparsa della flotta italiana e a chiedere aiuto, né v'era da dubitare che il Tegetthoff - il quale il 27 giugno aveva già fatto una visita ad Ancona, non restituitagli dal Persano - avrebbe accolto la richiesta; benché alle 18 del giorno 18 le difese nemiche di Porto S. Giorgio fossero ormai neutralizzate, il Persano non ha ordinato lo sbarco perché "era tempo di far riposare la sua gente". La "stolta e riprovevole" decisione si è ripetuta il 19, quando l' Albini con pretesti inconsistenti ha sospeso lo sbarco; è stato un errore allontanare inutilmente la Formidabile e la Terribile per un'azione diversiva su Porto Comisa che non richiedeva tante forze e tenere invece a disposizione il Messaggero , avviso velocissimo: se dislocata 30 miglia più avanti dell'Esploratore (unica unità impiegata nel dispositivo di sicurezza), questa nave avrebbe anticipato di circa due ore la notizia dell'arrivo del nemico; di conseguenza il 20 mattina la flotta è stata sorpresa, perché nella migliore delle ipotesi l 'Esploratore poteva informare il Persano dell'arrivo del nemico con una sola ora d' anticipo, tempo insufficiente per dare gli ultimi ordini, raccogliere le navi sparse intorno all'isola e ordinarle a battaglia; Persano avrebbe dovuto invece "scaglionare tante vedette quante eran necessarie affinché la prima vedesse il nemico e l'ultima fosse veduta dalla nostra armata, mentre le intermedie potessero mantenere segnali di comunicazione tra le due. In questo modo Nelson dalla Sardegna poté sorvegliare Latouche-Treville a Tolone...". Anche sulla battaglia del giorno 20 molte critiche del Fincati non sono certo nuove. Da notare, comunque, che accenna alla mancata partecipazione della Formidabile alla battaglia e al rientro della nave ad Ancona in modo non molto favorevole al suo comandante Saint Bon; comunque per fugare ogni equivoco - egli osserva - sarebbe bastato che il Persano, anziché limitarsi a segnalare di "aver inteso" la richiesta della nave di rientrare ad Ancona, le desse esplicito ordine di riprendere il suo posto nell'ordine di battaglia. Sta di


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fatto che "noi vedemmo giungere quella nave in Ancona, e sibbene presentasse nella sua corazza segni evidenti di essere stata bersaglio ad un gran numero di palle nemiche, ci parve però che fosse in buonissimo stato, ed avendo fatto buon viaggio da Lissa in Ancona, avrebbe anche potuto combattere". A proposito dell'adozione della linea di fila da parte del Persano all'inizio della battaglia, oltre a scegliere una formazione che esponeva ai "rostri formidabi1i" e all'urto della massa nemica i fianchi delle nostre navi, a parere del Fincati l'ammiraglio ha commesso anche l'errore di impartire l'ordine - fortunatamente non eseguito - di serrare le distanze. E cita l'opinione de] Colomb, secondo il quale i vuoti nella linea di fila e la sua conseguente rottura da parte nemica erano letali nell'età della vela: ma nell'età del vapore, e con le navi provviste di sperone, una linea ben serrata offre solo un ottimo bersaglio a un nemico che l'attacca in linea di fronte. A tal proposito, i1 Fincati cita anche queste paro]e del Colomb: "d'altro canto, qual sarebbe il nemico tanto stolto da prestarsi a tal gioco? 11 solo avvicinarsi d'una nave rostrata basterebbe a rompere la linea, mentre niun capitano vorrà esporsi ad essere affondato se può evitare di esserlo. Eg1i è perciò che io credo impossibile che si arrivi mai più a rivedere la linea di battaglia formata sulla linea di fila" ... Sullo svolgimento della battaglia il Fincati sfuma assai le responsabilità del Vacca, accennando peraltro al fatto che avrebbe dovuto manovrare in modo da assalire con le sue navi "la testa dove combatteva il Re d'Italia, e forse l'avrebbe salvato". Contesta comunque l'affermazione del Pcrsano che la nostra flotta ha inseguito il nemico quando si dirigeva verso Lissa, e non avendolo potuto raggiungere, è "rimasta padrona delle acque della battaglia". Il nemico, venuto per portare soccorso a Lissa, ha compiuto brillantemente la sua missione, trovandosi di fronte solo una parte delle nostre forze e distruggendo due navi: "credete voi, signor ammirag1io, di provvedere con queste iattanze alle dignità della nostra nascente Marina? di raddolcire così l'amarezza dell'offesa che per voi venne al suo legittimo orgoglio? Chi credete trarre in inganno?". Naturalmente il Fincati disapprova il passaggio de] Persano sull'Affondatore: le regole - ammette - sono controverse, e magari anche lo consentono; ad ogni modo durante la battaglia un ammiraglio non si deve mai muovere dalla sua nave. E il suo giudizio sulle successive, poco felici manovre del Persano con l'Affondatore è causticamente riassunto con queste parole: "scusare un assa1to mancato, accusando di difetti il timone, mentre poi questo timone fa eccellentemente l'effetto suo nella ritirata, è un genere di difesa che ha del burlesco". Sempre secondo il Fincati, il Persano avrebbe dovuto riordinare la flotta non appena cessata la mischia; g1i ordini che ha dato nell'ultima fase dello scontro erano perciò tardivi, ineseguibi1i o sbagliati. Ineseguibile anche l'ordine dato all' Albini - che senza aver preso parte al combattimento stava eseguendo un movimento di contromàrcia ed era ormai distante - di "attaccare il nemico appena a portata" e di "doppiare la retroguardia": le


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corazzate nemiche stavano ormai dirigendosi su Lissa e non potevano più essere raggiunte dall' Albini. Sbagliato anche il segnale di "dar caccia con libertà di cammino e di manovra", quando la flotta nemica - con le corazzate ordinate su due gruppi - stava dirigendosi su Lissa: "non si dà né si può saviamente dare caccia se non a navi che fuggono o almeno siano disordinate: invece in quel momento il nemico non fuggiva ed era ordinato, quindi date le differenze di distanza e di velocità, le nostre navi sarebbero andate in disordine e alla spicciolata contro un nemico ordinato e compatto". Il Fincati è inoltre l'unico a sostenere che anche nelle circostanze che hanno portato all'affondamento della Palestro l'ammiraglio ha le sue responsabilità. Anzitutto "dice che corse a forza di macchina per frapporsi tra essa e il nemico", dimenticando che poco prima aveva affermato che il nemico, ormai distante, si stava ritirando su Lissa; e riferisce di essere passato con l'Affondatore ("il cui timone ora sembra agir bene") rasente alla sua poppa, per poi tornare a "prendere la direzione (!!!) dell'armata", vedendo la Palestro ormai al sicuro (perché rimorchiata dal Governolo e vicina alla Indipendenza) e ritenendo che il comandante avesse allagato la santabarbara. Sarebbe stato invece dovere dell'ammiraglio ordinare subito lo sgombero totale o parziale della nave, perché avrebbe dovuto sapere che è sufficiente allagare la santabarbara solo in caso di incendio parziale e poco esteso che si spera di estinguere presto: ma se i1 fuoco - come è avvenuto giunge ormai ad attaccare le pareti della santabarbara, "l'acqua ne esce, le casse di rame [dove le polveri rimangono all'asciutto - N.d.a.] s'infocano in un attimo, le polveri s'accendono e la nave scoppia... ". L'ultima accusa all'ammiraglio riguarda il ritorno ad Ancona, che avviene senza retroguardia, senza disposizioni in caso di attacco nemico, e lasciando indietro la Varese "che si trascinava a stento, scortata dal Governolo". Senza contare che manda quattro piccoJe navi rimaste senza carbone e incapaci di difendersi, a rifornirsi a Manfredonia (più distante di Ancona), senza scorta e a rimorchio del Guiscardo, dell'Indipendenza e del Washington, che poi avrebbe dovuto tornare ad Ancona... Il Fincati conclude affermando che, se l'Adriatico non è diventato un lago italiano, ormai si sa di chi è la colpa; ma se non è rimasto, almeno temporaneamente, un lago austriaco, bisogna ringraziare il Tegetthoff, perché se l'ammiraglio austriaco fosse stato un ammiraglio davvero, non avrebbe commesso l'imperdonabile errore di non far sorvegliare ed esplorare la nostra armata durnnte la notte. Ciò facendo sarebbe stato istrutto della divisione offertagli in olocausto a Manfredonia, e della processione che s'avviava ad Ancona. Una sola fregata mista al Gargano e le sue navi rostrate alla coda e al centro della processione, e l'armata, italiana, colta all'improvviso, di notte e nelle condizioni che dissimo, sarebbe stata ridotta a ben poca cosa.

Tra tante ombre, tra tanti errori, finalmente un po' di luce e speranza: "la Marina dell'Austria non canti vittoria", perché l'affondamento dd Re d'Italia e


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della Palestro non è dovuto al valore e alla forza dei marinai di Tegetthof, "bensì alla immobilità in cui trovarono la nostra nave ammiraglia per la dapp<r caggine e per l'ignavia di un uomo, ed allo scoppio fortunato di una granata lanciata nello spazio". Dopo di che, il Fincati si dichiara fiducioso che si farà giustizia (in quel momento non si è ancora svolto il processo) e che ''mostreremo . all'Austria che il mare Adriatico è pur sempre IL GOLFO DI VENEZIA". Le vicende del 1866 segnano il Fincati per tutta la vita. Egli torna spesso sullo scottante tema (citando anche Ancona e Lissa, ma senza attribuirsene la paternità) nella sua opera del 1882 Aforismi militari69 , incentrata sulle doti prima di tutto morali che deve possedere il Capo militare di terra e di mare e ricca di exempla: naturalmente, I' exemplum in negativo, fino a diventare una sorta di convitato di pietra (o meglio, di più o meno nascosto bersaglio) è sempre il Persano ... Ciò fa pensare che il motto "Io parlo per ver dire, non per odio altrui" con il quale ha inizio Ancona e Lissa sia tutt'altro che aderente alla realtà, anche se non sarebbe giusto nemmeno capovolgerlo, attribuendo i duri giudizi del Fincati solo a malanimo personale nei confronti del comandante della flotta.

I risultati dell'inchiesta sul materiale, sull'organizz.azione e sui Servizi logistici della Marina nel 1867 Polarizzata sulle operazioni della flotta e sulle responsabilità (o meno) del Persano, la pur ricca letteratura sulla battaglia di Lissa ha sempre trascurato i risultati di un'inchiesta sul materiale e la logistica, condotta da apposita commissione nominata dal governo con R. decreto del 25 settembre 186670 • Ne fanno parte nomi i11ustri come Francesco Crispi e l'allora capitano di fregata Galeazzo Maldini (poi deputato assai attento alle cose della Marina e scrittore navale). Poiché la sconfitta può essere dovuta sia alla condotta strategica e tattica della guerra che alle condizioni del materiale e degli approvvigionamenti, la commissione riceve il compito di sciogliere questo nodo, procedendo "ad una inchiesta amministrativa, dal risultato della quale, ottenuto un esatto criterio delle condizioni in cui trovavansi le RR. Navi, il materiale, e gli approvvigionamenti tutti, sì alla denunzia delle ostilità, che quando cominciarono le operazioni di guerra, si potesse giudicare se ciò che si fece era quello che poteva e doveva farsi per mettere le nostre forze navali in istato di intraprendere la campagna". 11

69

Cfr. L. Fincati (Contramm.) , Aforismi militari, Roma, Forzani E C. 1882. Cfr. Relazione prima e seconda della Commissione d'inchiesta sullo stato del materiale e sull'amministrazione della Regia Marina, Firenze e Genova, Ed. Giuseppe Pellas1867. "· ivi (Relazione prima sullo stato dellafiotta), p. 11. 0 ' ·


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Costituiscono oggetto d'indagine della commissione: il naviglio, le artiglierie e le munizioni al 20 giugno e al 20 luglio, i generi e materiali esistenti nei magazzini, depositi e arsenali, le condizioni degli arsenali e mezzi di raddobbo all'apertura delle ostilità, il meccanismo degli approvvigionamenti, degli arsenali e degli acquisti, 1e modalità per il collaudo, l'accettazione e la ripartizione del materiale, il sistema di contabilità, il funzionamento dell'amministrazione in genere. E il Ministro Depretis raccomanda di indagare persino sulla tenuta degli archivi e protocolli, "essendo frequentissimi gl'inconvenienti che ÌQ pratica mi si presentano colle sistemazioni attuali". Si può quindi rilevare che l'inchiesta è importante non soltanto per stabilire fino a che punto sono fondate le tesi difensive del Persano sulle gravi lacune logistiche che ritardano l'approntamento della flotta e ne pregiudicano l'efficienza combattiva, ma ancor di più - per fornire allo storico un'idea dell'organizzazione generale della Marina, del suo costume quotidiano, de11a qualità del lavoro degli organi logistici, dei rapporti che regolano i vari organismi e i vari anelli della gerarchia, dei pregi e difetti delle nuove costruzioni e dei conseguenti orientamenti per il futuro. Soprattutto, la commissione acquisisce le testimonianze dei comandanti di tutte le navi che hanno partecipato a11a battaglia di Lissa: questo dà modo di conoscere il loro punto di vista non solo sulle qualità del naviglio, m3c anche sulla leadership del Persano. Dopo una serie di indagini, visite e interrogatori, la commissione perviene a conclusioni, che per la parle operativa mettono in evidenza la positiva e sollecita opera del Ministro Depretis per l'approntamento della flotta, nel contempo facendo apparire infondate le tesi del Persano sulle difficoltà logistiche, che avrebbero provocato ritardi e vincolato l'impiego della flotta. In particolare, secondo la commissione: quando il 27 giugno la flotta austriaca si è presentata davanti ad Ancona, le artiglierie erano già state cambiate su tutte le navi meno una. Tutte le navi, compresa l'unica che stava cambiando i cannoni, sono immediatamente uscite dal porto e si sono schierate a battaglia "con sufficienza di carbone, con macchine accese, macchinisti e fuochisti al completo". Non è stato, dunque, a causa delle condizioni del naviglio "che la nostra flotta avente il vantaggio di sì prossima base in Ancona, non sia corsa all'affronto del nemico, che era lontano dalla propria base, e si mantenne schierato in battaglia"; dopo la battaglia di Lissa, anche sulle navi che più avevano combattuto le munizioni abbondavano e le artiglierie erano ancora in perfetto stato. Inoltre "l'armata conservava carbone abbastanza a correre il mare per qualche giorno ancora, ed anzi ne riportò ad Ancona una quantità la quale a molti legni sarebbe stata sufficiente per uno o due giorni, e ad alcuno per più" lma uno o due giorni di autonomia dopo Lissa erano pochi! - N.d.a.]; i macchinisti stranieri che si sono rifiutati di partecipare alla battaglia sono stati in tutto solo cinque, mentre due altri sono rimasti.


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Quelli partiti, comunque, sono stati prontamente sostituiti, e il servizio delle macchine è stato - salvo qualche eccezione - perfetto, grazie all'opera del personale italiano specializzato uscito dalle scuole di Genova e di Pietrarsa; - le branche viveri e vestiario hanno funzionato in maniera tutto sommato soddisfacente, anche se una certa quantità di pane, imbarcata in coperta su una nave da trasporto, è rimasta per venti giorni esposta alle intemperie (sic) e si è deteriorata, peraltro senza inconvenienti per la regolarità dei rifornimenti. Ogni bastimento aveva viveri per due mesi; comunque "la bontà del pane sarebbe meglio assicurata se venisse preparato dall' Amministrazione, che non acquistato dai fornitori"; tutti i comandanti hanno dichiarato che il materiale nel suo insieme nulla lasciava a desiderare, le artiglierie erano buone e potenti, le armi portatili delle migliori. Quindi, a unanime giudizio degli ufficiali l'insuccesso di Lissa non può essere attribuito né a difetti di costruzione delle navi né a mancanza di materiale bellico; - i danni riportati nelle tre giornate di Lissa, a11'infuori de11e due navi affondate, non sono stati né gravi, né tali da impedire alle navi di continuare a tenere il mare [questo, dunque, riguarda anche la Formidabile del Saint Bon - N.d.a.j. Essi sono stati riparati in soli 8 giorni nel piccolo arsenale di Ancona, ad eccezione del Re di Portogallo che però era pronto anch'esso il 2 agosto, giorno della scadenza del primo armistizio; - la base di Ancona è stata ben fornita di carbone e viveri di riserva e vi è stato organizzato anche un buon ospedale, dove sono stati ricoverati e ben curati i feriti di Lissa. Anche il suo arsenale era beri fornito di materiali e sarebbe stato in grado di riparare un numero maggiore di navi, purché non fosse necessaria la loro entrata in bacino. A tal proposito, molti ufficiali hanno lamentato la mancanza di bacini nell'Adriatico, "asserendo che ciò poteva essere causa di gravi danni, e anche di perdita di navi ove taluna avesse sofferto sl tali avarie da non poter raggiungere i più prossimi bacini di Napoli, e di Genova, nei quali nemmeno si possono immettere tutti i nostri bastimenti, ed avrebbero in allora dovuto continuare fino a Tolone o a Malta" La comrnissiol\e si occupa ampiamente anche delle caratteristiche costruttive sia del naviglio impiegato a Lissa, sia di quello futuro. Sul primo argomento osserva che i difetti lamentati dai comandanti ("che taluna nave non teneva bene il mare; che i cannoni erano troppo accostati l'uno all'altro; che il timone non era abbastanza difeso dai proiettili; che lo sperone era troppo lungo e sottile ecc." sono dovuti al fatto che quando sono state studiate le nostre corazzate, non erano ancora stati introdotti dei perfezionamenti che peraltro sono ancora allo studio. Sulle navi del futuro, invece, i comandanti, interpellati, hanno concordemente riferito


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che l' intiera armata da guerra deve essere corazzata da poppa a prora, che minimo vuol essere l'impiego del legno, e quasi esclusivo quello del ferro, che poca e potente sia l'artiglieria, e raccolla sulla prora piuttosto che distribuita sui fianchi; che lo sperone sia corto, forte, e ben stabilito alla nave, che anche la nave non abbia tale lunghezza da renderla lenta al giro, ed abbia timone non esposto ai colpi e doppia elica; che l'alberatura sia nulla o quasi nulla, e moltissima la forza delle macchine, ed ogni spazio così ottenuto per l'abbandonato servizio delle vele, e la diminuzione deJJ'equipaggio si destini ad accrescere la provvisione di carbone. Le quali idee realmente acquistano ogni giorno di credito nell'opinione degli esperti in Europa e in America, ma sono tuttora indefinite e discusse, né certamente potevano adottarsi con effetti d'esecuzione immediata quando l'Armata italiana corazzata o non corazzata fu allestita per la guerra.n

Ma benché tutti ritengano necessaria, per il futuro, una profonda trasformazione del naviglio da guerra e siano convinti che ormai il navig1io in legno è troppo inferiore a quello in ferro, i comandanti sono stati, in genera1e, "d'avviso concorde che utili servigi in battaglia potessero tuttora ottenersi dalle squadre in legno, segnatamente nel caso che si provveda a coprirle con mezzi di provvisoria difesa, il che non vi fu eseguito da11a squadra ita1iana, ed invece lo fu nell'austriaca con metodi che si conoscono da pubblicate relazioni e si scorgono nel disegno che la commissione ha potuto da huona origine privatamente ottenere"_ Sul problema delle costruzioni nava1i il capitano di fregata Tommaso Bucchia, Capo di Stato Maggiore dell'ammiraglio Vacca a Lissa, presenta alla commissione una "Memoria sulle nuove costruzioni" che esamineremo nel capitolo a ciò dedicato, così come esamineremo in ta1e capitolo un altro opuscolo presentato dal capitano di vascello Isola; va però sottolineato che tutti gli ufficiali interpellati sulla convenienza o meno di far costruire naviglio all'estero ritengono che sia più vantaggioso ricorrere a cantieri nazionali, soprattutto perché in ta1 modo si ottengono maggiori garanzie di qualità. Il quadro riassuntivo delle condizioni della flotta così tracciato da11a commissione dà l'impressione di essere in parti importanti troppo ottimistico. Si sorvola su carenze non secondarie come la scarsità di cannonieri con tale specializzazione e lungamente addestrati, asserendo che i nostri marinai, anche se non specializzati cannonieri, erano diventati rapidamente tali, cosa che se non altro per ragioni di tempo e per la nota mancanza o insufficienza di idonee esercitazioni non ci sembra possibile. Si sorvola su non trascurabili difetti di costruzione delle navi; e anche a proposito del carbone, oltre a non dare peso alla sua cattiva qualità si accredita troppo facilmente la tesi che ]a quantità di combustibile rimasta al temùne della battaglia avrebbe consentito alla flotta ancora una notevole autonomia, con ciò implicitamente volendo dimostrare che - contrariamente alle tesi del Persano "

ivi, p. 21.


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- dopo il combattimento sarebbe stato possibile inseguire la flotta austriaca. Come si è visto in precedenza, invece, la mancanza di carbone non è stata solo un pretesto del Persano per ritirarsi su Ancona ed è stata ammessa anche dai suoi avversari, sia pure indicandola come aggravante: in ogni caso, essa non giustifica 1' interruzione del combattimento dopo la perdita di due navi, in un momento decisivo nel quale occorreva giocare il tutto per tutto. · A proposito dell'efficacia del tiro di artiglieria, taluni comandanti, tra i quali lo stesso Vacca, asseriscono a mò di giustificazione che "nella mischia fra il fumo e un po' di commozione non si può mirare con quella giustezza e sangue freddo come quando si tira al bersagUo". Cosa ovvia; ma ricordando i cannonieri di Nelson e la superiore abilità da loro dimostrata a Trafalgar, si può ragionevolmente obiettare che il lungo addestramento e il possesso di tutti i segreti del tiro rapido e preciso con nave in movimento servono appunto a ridurre al minimo gli effetti del clima del combattimento. Non casualmente lo stesso Vacca osserva che "se si fosse fatto un secondo o terzo attacco sono convinto che i nostri artiglieri avrebbero dimostrato maggiore capacità e precisione": ciò dimostra che, a parte il fumo ecc., i nostri cannonieri non erano addestrati a suffìcicn7.a. Riguardo ai difetti di costruzione, sempre l ' amm. Vacca parla di "avarie considerevoli" alle ·parti non corazzate delle navi, che diffondono facilmente il fuoco a tutto il resto del bastimento; è stata probabilmente questa la causa della perdita della Palestro. Inoltre a suo parere gli speroni delle nostre navi - con particolare riguardo a quelle costruite in Francia come la Formidabile e la Terribile - sono troppo lunghi (diversamente da quelli de11e navi austriache che sono più corti e più forti); ne consegue che i nostri speroni "in un urto obliquo potrebbero torcersi e saltar via con grave danno del bastimento". Questo è dimostrato dalla collisione della Maria Pia con il S. Martino, nel quale "alcune piastre di quest'ultimo furono spostate producendo un infiltramento d'acqua, che tuttora esiste". Il Vacca nota ancora i difetti del Re d'Italia e del Re di Portogallo, ambedue costruiti negli Stati Uniti (timone sporgente dall'acqua ed esposto al tiro nemico, che è stata la prima causa della perdita del Re d'Italia; legname da costruzione scadente) e rileva l'eccessivo pescaggio dell'Affondatore (due piedi più del previsto), tanto che "se fosse stato col1audato in tempi ordinari probabilmente non sarebbe stato accettato". Gli interrogatori dei comandanti delle varie unità confermano le osservazioni del Vacca a cominciare dagli speroni, unanimamente giudicati troppo deboli, troppo lunghi, di cattiva forma e mal fissati allo scafo. Il Del Carretto (comandante della piro-fregata Maria Pia) ritiene necessario anche fissare più solidamente le caldaie per metterle in grado di resistere meglio all'urto, mentre il Roberti (comandante de11a piro-fregata San Martino) parla di paratie difettose. Si tratta però di osservazioni - meno quest'ultima - non suffragate dall'esperienza del combattimento, perché tutti i comandanti affermano di non aver dato, né ricevuto urti nello scontro: cosa che probabilmente è conferma di una generalizzata e aprioristica sfiducia dei


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nostri comandanti nel combattimento con lo sperone, alla quale peraltro non ha corrisposto 1'efficacia del tiro de11e pur potenti artiglierie delle nostre navi. Oltre a non essere suffragati da dati d'esperienza - un conto è dire che potrebbero essere deboli, un conto è averne constatata la debolezza dopo l'urto - i giudizi negativi del Vacca e dei nostri comandanti sull'efficienza degli speroni contrastano radicalmente con le citate affermazioni dell'ammiraglio Page sulla Revue des Deux Mondes. Difficile dire, oggi, chi abbia ragione: ma da questo contrasto e dalle caratteristiche costruttive non certo d'avanguardia del naviglio austriaco, non ci sembra azzardato dedurre che, anche in fatto di speroni, quanto meno la flotta austriaca non era superiore alla nostra. Per le corazzate Re d'Italia e Re di Portogallo si nota anche la difettosa costruzione delle carboniere, che provoca combustioni spontanee del carbone; e il contrammiraglio Anguissola, aiutante generale del primo dipartimento marittimo, fornisce un'altra versione delle cause dell'affondamento del Re d'Italia, affermando che "se la nave fosse stata costruita all'interno [cioè in Italia - N.d.a] nen se ne sarebbe deplorata la perdita, perché avrebbe avuto maggiore solidità nella ossatura, ed una macchina che avrebbe dato guarentigie maggiori; ed appoggio questo mio avviso colle deposizioni fatte davanti a me dall'allievo pilota Cama messinese, che era al passaggio della voce dal comandante alla macchina, il quale asserl che quando esso comandante ordinò di andare avanti, il meccanico rispose che non poteva perché la macchina era guasta [quindi a questo sarebbe dovuto l'affondamento - N.d.a.]". Si lamentano anche le carenti qualità nautiche di taluni tipi di navi, come le cannoniere; ma la perdita de11a Palestro e del Re d'Italia rafforza in tutti al convinzione che conviene rivolgersi a cantieri nazionali per le nuove costruzioni, e che le nuove corazzate dovranno essere costruite interamente in ferro. Per quanto attiene alla quantità di carbone ancora disponibile dopo lo scontro, un certo numero di comandanti (come ad esempio Jauch, Principe di Carignano; Fincati, Varese; Morin, Terribile; Clavesana - poi difensore del Persano - Duca di Genova), afferma che al rientro ad Ancona il carbone a bordo era pressoché esaurito; molti altri ne avevano consumato la metà, qualcuno ne aveva per due giorni. Le difformi autonomie derivano, evidentemente, dalle troppo disparate caratteristiche costruttive delle navi, oltre che dai diversi tipi di nave. Ad ogni modo, se si tiene conto della distanza di Lissa da Ancona (circa 20 ore, cioè un giorno di navigazione), anche per questa via si deve constatare che, dopo lo scontro, la flotta - per assicurarsi una sufficiente libertà d'azione- aveva effettivamente bisogno di rifornirsi di carbone; cosa che, data la mancanza di navi carboniere al seguito, poteva fare solo ad Ancona. Evidentemente, se la flotta non avesse condotto un'azione prolungata contro Lissa il consumo di carbone sarebbe stato assai minore. Se ben analizzati, dunque, gli interrogatori dei comandanti non confermano del tutto le valutazioni della commissione, anche se unanimamente accreditano la tesi che - come afferma esplicitamente il tenente di vascello (poi Ministro della Marina) Enrico Morin - "se vi è da accusare qualcuno


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sono gli uomini e non il materiale". Gli stessi comandanti non lamentano grossi inconvenienti nella regolamentazione del servizio di bordo e nel funzionamento dei Servizi logistici. Alcune carenze marginali riguardano il vestiario; per i viveri, taluni affermano solo che, quando sono stati rifiutati, sono stati prontamente sostituiti. Da questi dati tutto sommato positivi si dovrebbe dedurre che, nel 1866, il sistema amministrativo generale e l'organizzazione logistica del la Marina non abbisognano di grossi ritocchi, ma non è così. Nella seconda relazione (riguardante appunto l'amministrazione, l'organizzazione del Ministero, dei dipartimenti, degli arsenali e opifici, ecc.) la commissione è insolitamente severa, facendo in tal modo ancor più risaltare i positivi giudizi della prima. Ciò induce il lettore di oggi a chiedersi: come può una Marina così male organizzata e amministrata produrre quelle buone navi e quei buoni cannoni ed equipaggi, delle quali si parla nella prima relazione? Gli strali della commissione sono diretti anzitutto alla tenuta del carteggio presso il Ministero e i dipartimenti: "l'archivio generale è un caos". Non si tratta affatto di una questione di dettaglio, visto che la commi ssione ha bisogno dei documenti necessari, che richiede al Ministero: ma quest'ultimo dopo un certo tempo, finalmente le presenta "una farragine di carte disordinate" . Non è così possibile indagare a fondo sulla costruzione delle corazzate, per le quali è stata stanziata la consistente somma di 47 milioni sui bilanci 1862-1863 e 1864: la costruzione di codeste navi corazzate fu commessa all'industria straniera con appositi contratti; ma dalle carte ufficiali esaminate per ciascuna nave non risulta alcuna notizia dei progetti di costruzione, dei preventivi della spesa, degli avvisi necessari dello Ammiragliato e del Consiglio di Stato, dei verbali di collaudo e di ricezione, e di tutti quei quadri metodici e razionali di servizi, ai quali un naviglio è destinato. Da talune carte risultano mutamenti ingiustificati di costruttori, di riforme alle ordinate costruzioni, ma non formali avvisi del Consiglio di Ammiragliato sul tipo e disegno delle navi, sulla spesa, sulle clausole de' contratti, e sui mutamenti dei costruttori e costruzioni. Per taluni progetti di bastimenti vi sono accurate relazioni del signor De Luca [direttore generale delle costruzioni navali del Ministero - N.d.a.J col preventivo della spesa; ma non ci sono poi i relativi processi verbali rivelatori delle ragioni che indussero l'Ammiragliato ad approvarli. Paragonati i ~ontratti ai verbali di ricezione, apparvero molte e gravi infrazioni ai patti tanto sulle qualità nautiche delle navi, che sulla bontà del legno e delle macchine ausiliarie; sul tempo della consegna, e sulle multe, alle quali si assoggettavano i costruttori per ogni violazione di patto stabilito.71

"

ivi (Relazione seconda sull'amministrazione della R. Marina), p. 8.


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Per rimediare alle lacune del carteggio la commissione chiede la documentazione matricolare di ciascuna nave, che riporta la storia dell'unità dal momento del varo fino alla radiazione; ma per le corazzate e le altre navi di nuova costruzione essa non esiste né presso il Ministero né presso i dipartimenti: "si disse da un membro della commissione che questo disordine dipendeva in gran parte dai frequenti mutamenti dei Ministri e degli organici; ma l'ordinamento dell'archivio è cosa affatto estranea a cotesti mutamenti, per la ragione che quando le carte sono ben tenute e metodicamente ordinate, i cambiamenti dei Ministri e degli organici non possono influire a disordinarli". Il disordine organizzativo del Ministero si riproduce anche nei dipartimenti; nel primo dipartimento, quello di Genova, "le richieste [di documenti] furono fatte invano. Ivi non vi sono archivi, non tenuta regolare e ordinata di carte, non contabilità sollecita ed esatta, non giustificazioni di operazioni arnministrative"74. Le visite ai magazzini dei materiali e del vestiario consentono alla commissione di constatare l'esistenza di tutte Je manifestazioni da sempre tipiche del disordine amministrativo e della cattiva gestione del materiale: locali non idonei. cattiva conservazione del materiale che ne provoca il precoce deterioramento, grande quantità di costosi materiali esuberanti a1 bisogno che ingombrano da molto tempo i magazzini, esistenza non corrispondente al carico, cattivo funzionamento delle "giunte di ricezione" [cioé delle commissioni di collaudo - N.d.a.], ecc .. In particolare, nel nuovo cantiere di S. Bartolomeo nel Golfo di La Spezia, per mancanza di tettoie tutto il legname ivi esistente (circa 17.500 m 3) pel valore di lllllioni giace sparso per terra ed esposto alle intemperie dell'inverno e ai soli ardenti d'estate, senza neanche essere accatastato. Una parte di esso è già deperito, e deperirà tutto se l'amministrazione non Io preserverà in qualche modo. Ma perché fu comprato tanto legname quando doveva rimanere sì lungamente giacente, e quando le nuove costruzioni per la maggior parte si eseguivano dall' industria straniera? A questa domanda nessuno seppe dare risposta conveniente. 75

Nel magazzino vestiario, anche a causa della ristrettezza del locale "regnano confusione e disordine completo", con oggetti nuovi e vecchi, utili e inutili mescolati insieme; e in una stanza contigua "vedevansi confusi cesti di piatti e bicchieri usati, piatti e bicchieri nuovi, materassi e coperte, camicie di lana e di cotone, e sempre il nuovo mescolato al vecchio, i vestiarj dei congedati confusi a quelli dei morti, e i vestiarj dei morti e congedati sovrapposti e confusi coi vestiarj nuovi". Infine, i molteplici inconvenienti e le irregolarità che la commissione constata nel funzionamento delle giunte per la ricezione dei nuovi materiali (che devono constatarne la loro

1 •· 75

ivi, p. IO. IBIDEM.


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rispondenza ai contratti e a campioni nella fattispecie non disponibili) sono tali, da causare - oltre che un ingente danno per lo Stato - il discredito degli amministratori: e qui la commissione accenna a episodi di corruzione, a "voci sinistre", a calunnie ecc.. Gli inconvenienti riscontrati si estendono anche alla gestione degli emolumenti del personale, e non sono tipici solo del primo dipartimento: "cotesto sciupìo di materiali, questa cattiva conservazione di materie che pur costano tesori dello Stato è comune in tutti i nostri stabilimenti marittimi". Ciò che la commissione afferma sull'amministrazione del secondo dipartimento (di Napoli) è francamente sconcertante, ed è forse un caso unico in un documento ufficiale. Anzitutto, a Napoli si conserva ancora in parte il sistema di contabilità a partita doppia già in uso nella Marina dell'ex-Regno delle Due Sicilie: ovvi gli inconvenienti, anche se la commissione giudica tale sistema "di gran lunga più esatto e regolare" di quello in uso, ereditato dalla Marina sarda. Le irregolarità e lacune riscontrate sono analoghe a quelle del primo dipartimento, anche se i locali del magazzino generale sono più spaziosi e almeno all'apparenza il materiale è piì1 ordinato. Anche a Napoli corrono voci di corruzione e frodi, tanto che un senatore e alto magistrato (Vincenzo De Monte, consigliere della Corte Suprema di Napoli) ha pubblicato una lettera al Presidente del Consiglio pro tempore, generale La Marmora, invitandolo a intervenire per "raggiungere e severamente punire il furto incredibile, se non fosse vero, che si commette nell'Amministrazione della Marina". Interrogato dalla commissione e invitato a fare fino in fondo il suo dovere precisando nomi e circostanze, il senatore dichiara però che "pei furti che accadono nella Marina non occorrono specificazioni di fatti, poiché essi sono affermati dalla coscienza universale. lo potrò citare fatti in genere, ma non scenderò a nominare persone. Non già che io tema le conseguenze, ma perché mi ripugna di mettere in pericolo degli impiegati e di correre il rischio di recar danni gravi a delle povere famiglie". 76 Il senatore afferma, tra l'altro, che un ufficiale inviato in missione all'estero ha presentato un conto spese rifiutato per ben due volte dall' Amministrazione, la quale lo ha giudicato troppo modesto e lo ha in vitato a aumentarlo del quadruplo e più, "onde pareggiarlo alla spesa fatta da un altro ufficiale delegato all'estero con missione analoga". Altrettanto emblematico è l'episodio - riferito daJla commissione - di una grossa partita di legname teak acquistato dall'Ispettore generale del genio navale F. Mattei sulla piazza di Londra ma rifiutato, al suo arrivo, dalla giunta di ricezione di Castellamare, che lo trova in parte inservibile e in parte fradicio. Interviene allora l'Ispettore Generale, che si duole con il Ministro che la giunta di Castellamare "avesse osato rifiutare una partita di legname acquistato da un

'"

ivi, p. l7.


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suo Collega e Superiore" e rinfaccia al Ministero di aver acquistato una partita dello stesso legname a prezzo superiore, invocando esami supplementari da parte di persona più competente. Risultato finale: il legname giudicato fradicio dalla giunta di ricezione di Castellamare viene trovato alla fine eccellente - e accettato - dal Ministero, con ovvi riflessi morali e largo spazio per perniciose dicerie. I gravi inconvenienti e abusi prima riscontrati sono favoriti dal1a éattiva e troppo complessa regolamentazione amministrativa e contabile e da una mancata, chiara ripartizione delle attribuzioni dei vari livelli,n la quale fa sì che, secondo la commissione, "la responsabilità è una parola che non ha senso nella R. Marina italiana"78 • In particolare, al livello di dipartimento il comandante, al quale dovrebbero far capo tutti i poteri, in realtà ha poca ingerenza in tutte le branche ed è solo un passacarte: per contro sono eccessivamente ampi i poteri del commissario generale del dipartimento, che alle funzioni di controllore generale dell'amministrazione e contabilità del dipartimento sovrappone quelle di amministratore e vigilatore per delega del Ministro, di contabile generale del materiale, ecc. e pur essendo alle dipendenze del comandante in capo del dipartimento, corrisponde direttamente con il Ministero stesso per quanto riguarda il servizio amministrativo e contabile. Più in generale, la confusione delle attribuzioni puramente amministrative con quelle di controllo, delle compelenze conlabili con quelle dei regolamenti, dell'autorità disciplinare con quelle di sindacato, senza garanzia di responsabilità personale ed effettiva da parte degli Ufficiali che ne sono investiti, rende difficile l'esatta applicazione dei regolamenti e la osservanza dei precetti regolamentari. Questo difetto che deriva dalla complicanza delle attribuzioni non ben delineate, dalla infinita serie dei controlli non ben determinati, dalla miscela della parte amministrativa con la contabile e della contabile con la militare, dai lunghi ed intralciati lavori di scritturazione, mentre frustra l'esatta osservanza dei regolamenti, dà facile appiglio ai comandanti in capo, agli aiutanti generali, ai commissari e sotto-commissari, ai direttori e sotto-direttori, ai contabili generali e particolari, di scusare le loro negligenze o trascuraggini, l'abbandono e la rilasciatezza del servizio pubblico, ed anche la mancanza dei loro doveri, con le inutili complicanze delle formalità e delle scritturazioni, e con altri pretesti che trovano pure il loro appoggio nella confusione dei regolamenti amministrativi e disciplinari. Per dare un solo esempio della quantità di scritturazioni, convien notare che la Segreteria del

n.

.,.

La regolamentazione amministrativa troppo complessa e di difficile applicazione pratica specie ai minori livelli, la pletora degli organi amministrativi ecc. è stata una caratteristica costante - per tutto il secolo XIX - anche dell'organizzazione del Ministero della guerra e dell'Esercito (Cfr. F. Botti, La logistica dell'Esercito Italiano Vol. I e II, cit.) . Relazione seconda ... (Cit.), p. 25.


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Genio navale in ciascun dipartimento ha non meno di 48 registri, parecchi dei quali danno luogo a un lungo, difficile e ingratissimo lavoro ...79 •

Per ovviare a tutti gli inconvenienti riscontrati, la commissione propone una nuova organizzazione del Ministero e dei dipartimenti, nei quali il comandante in capo del dipartimento dovrebbe aumentare i suoi poteri diventando unico rappresentante del Ministr~ e unico responsabile nei riguardi del Ministro di tutte le branche del dipartimento: ne verrebbe pertanto sminuita la figura del commissario generale. Gli archivi dovrebbero essere riorganizzati secondo criteri che la stessa commissione indica nel dettaglio, la contabilità dovrebbe essere resa più semplice ed efficace, ed occorrerebbe mettere fine ai continui rimaneggiamenti organici del Ministero, organizzandolo su sole quattro divisioni (personale e servizio militare; materiale; contabilità; marina mercantile). L'organico suggerito dalla commissione ha pertanto il grave difetto di non prevedere uno specifico organismo che si occupi delle questioni attinenti alla preparazione militare in genere e alla dottrina strategica e tattica da adottare; comunque essa propone la compilazione di un "piano organico", che tenendo conto della posizione geografica dello Stato e della capacità espansiva della sua economia dovrebbe definire quantità e qualità delle navi che compongono la Marina nazionale e costituire la base dei bilanci preventivi, evitando così "il grave inconveniente delle spese suppletive che rovesciano ad un tempo i calcoli del finanziere e le previsioni del politico". Molti - nota la commissione - sono contrari a questa pianificazione, che non tiene conto delle continue e rapide trasformazioni del materiale navale: ma da una innovazione notevole a un'altra passano circa vent'anni (periodo non breve per la vita di una nave), e comunque il piano organico è la base di una buona amministrazione. Sempre in materia di costruzioni, la commissione si occupa delle modalità per incoraggiare l'industria nazionale, eliminando talune norme amministrative che al momento favoriscono di fatto l'industria straniera e ritiene anche necessario costruire un nuovo bacino a Venezia. infine, la commissione estende il suo interesse alle scuole (settore che in senso stretto non dovrebbe riguardare la sua indagine), partendo dalla constatazione che "conviene trasformare il presente insegnamento che val poco o nulla, rispetto alla necessità di avere buoni marinai e dotti ufficiali". Le riforme devono riguardare sia i programmi che le infrastrutture; per quanto riguarda i primi, l'istruzione degli allievi non deve essere solamente teorica come avviene al momento, ma conviene con ordinati sistemi di applicazione pratica insegnare agli allievi quello che dovranno fare un giorno. Conviene dunque "· ivi, p. 23.


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addestrare l'alunno nel difficile maneggio degli strumenti nautici, nelle osservazioni astronomiche a bordo di una nave, dalle quali dipendono gli esatti calcoli giornalieri della navigazione; conviene esercitarli nelle operazioni idrografiche sul terreno, nel disegno delle carte marine, nella meccanica applicata ai movimenti della nave, alle manovre e alle macchine a vapore marine 1•••]. Non basta insegnare al futuro ufficiale tecnico della Marina, al futuro comandante di un vascello corazzato, al futuro Ammiraglio [... ] i primi rudimenti delle lettere, le sue tematiche, i regolamenti, la tattica navale; ma conviene ch' ei sappia la geografia fisica e la meteorologia del mare, e le nozioni principali di diritto pubblico e internazionale ...80 •

Riguardo alle infrastrutture, occorre eliminare i due Collegi di Marina di Genova e Napoli al momento esistenti (antieconomici, .con capienza insufficiente e infrastrutture inadeguate), istituendo a Livorno un unico Istituto per la formazione di tutti gli ufficiali di Marina italiani. Progetto già ventilato più volte in Parlamento, ma accantonato a causa di resistenze municipali che è ora di superare. La conclusione della commissione, oltre a ben riassumere le cause lontane di Lissa, mette l'accento su esigenze che non hanno età, e da sempre rendono una Marina (o una compagine militare) forte: la Commissione è intimamente persuasa dietro i fatti osservati esposti nella prima relazione e in questa, d1t: non basta possedere numerose navi corazzate cd armi potenti per affermare che si ha una vera Marina da guerra; vi occorrono innanzi tutto organizzazioni amministrative solide, dirette da principii scientifici e pratici abilmente combinati; vi occorrono studi comparativi continui sull'organizzazione e progresso delle altre Marine del mondo civile; vi occorrono ordinamenti semplici, spediti ed economici per non impedire lo sviluppo delle naturali risorse di una Marina ; vi occorrono infine Regolamenti facili, chiari e brevi, e forze sapientemente distribuite secondo le attitudini, l'intelligenza e le specialità dei mezzi che sono in possesso dei singoli funzionari ed amministratori . Ove ciò non accada, i numero si e potenti bastimenti costruiti diventano facile preda del nemico o delle procelle, ovvero tiranneggiano i bilanci della spesa, e terminano col consumare ad un tempo sé stessi nelle acque ingloriose e roditrici dei porti e le risorse economiche di uno Stato.8 1

Questo è, molto brevemente, anche quello che insegna l'esperienza del periodo 1861-1870: come e in che misura essa verrà tenuta presente negli anni seguenti, è argomento del prossimo Volume ili.

80 ·

"

ivi, p. 55. ivi, p. 25.


XIJ - AMMAESTRAMENI1 NAVALI DELLE GUERRE

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Conclusione Le guerre del 1848 al 1865 (cioè prima di Lissa) non fanno che quasi istintivamente rivalutare, agli occhl degli scrittori italiani e degli stessi governanti, la capacità di "proiezione di potenza" delle forze navali, sia sotto forma di sbarchl che di azioni di fuoco dal mare verso la terra, per concorrere alle operazioni dell'Esercito. Sono numerosi, come si è visto, gli autori italiani (anche ''terrestri") che in questo periodo sostengono la necessità di potenziare la Marina: ma lo fanno, in massima parte, in funzione di questa capacità di minaccia alle coste o di difesa delle coste stesse, che trova nel periodo numerosi esempi. Basti ricordare lo sbarco francese a Civitavecchia nel 1849, la difesa di Venezia nella prima guerra d'indipendenza, l'afflusso di corpi di spedizione a Genova nel 1859 e in Crimea nel 1854-1856, l'azione di fuoco dal mare contro i forti di Sebastopoli in Crimea e nel 1860-1861 contro Ancona e Gaeta, lo stesso sbarco di Garibaldi a Marsala. L'introduzione della propulsione a vapore favorisce ancor più questo approccio parziale e troppo ''terrestre", rendendo una communis opinio quanto scrive nel 1858 il Lencisa in margine alle considerazioni di Jomini sugli sbarchl nell'età della vela (giudicati dal grande teorico svizzero soggetti a molteplici difficoltà): "i ritardi, i rischl, i danni inerenti ad un tragitto marittimo sono generalmente diminuiti dopo la navigazione a vapore".82 La prima e la seconda guerra d'indipendenza - che invece in campo terrestre forniscono una massa di indicazioni di carattere tattico e ordinativo - non danno alcun contributo d' esperienza alla risoluzione dei nuovi problemi concernenti lo scontro tra flotte dopo l'avvento del vapore e della corazza, l'introduzione di sempre più potenti artiglierie navali, la riscoperta del rostro; cosa che non manca di far sentire la sua influenza sulla stessa mentalità dei Quadri della nostra flotta, nessuno dei quali prima di Lissa aveva mai combattuto una battaglia navale. La campagna navale del 1866 dà delle indicazioni che sono doppiamente deludenti, perché - come Custoza - Lissa è stata una sconfitta anzitutto morale. Per i suoi funesti effetti, essa è senza dubbio l'evento dominante del periodo considerato. I suoi ammaestramenti e riflessi, le forti polemiche che dividono gli animi fino al secolo XX si riassumono nella risposta a un solo interrogativo: a chi vanno attribuite le responsabilità della sconfitta? In proposito, noi abbiamo fondate speranze che l'esame delle argomentazioni dell'accusa e della difesa e le precisazioni su taluni fatti che abbiamo fornito al lettore, consentano quanto meno di distinguere tra elementi storicamente accertati, altri che tali non sono, e le personali opinioni dei protagonisti e degli storici. Ciò che ora importa, comunque, non è tanto la fondatezza o meno degli addebiti di natura disciplinare o penale mossi al Persano, ma l'analisi degli

82·

C. Lencisa, Delle discese in Paese nemico, "Rivista Militare" 1858, Vol. IV Fase. X, pp. 310-318.


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IL PENSIERO MIUTARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

eventi dal punto di vista tecnico-militare, dalla quale poi discendono le responsabilità. Sotto questo profilo, appare sufficientemente dimostrato che le responsabilità della sconfitta di Lissa sono principalmente ( anche se non esclusivamente) militari, non politiche: vanno cioè ricercate nella flotta, a cominciare dal suo comandante. Giudizio, questo, meno drastico e meno sorprendente di quanto potrebbe apparire a prima vista, visto che (Cfr. cap. IX) trova rispondenza in quanto avviene, prima, in campo terrestre: tutto si può dire della battaglia di Custoza, meno che la responsabilità principale della sconfitta non sia di carattere militare, non riguardi la leadership militare. Compito fondamentale della politica e di un Ministero militare, in ogni tempo, è di dare al comandante delle forze militari uno strumento competitivo e direttive per impiegarlo compatibili con le sue possibilità. Ebbene, questo il governo e il Ministero Depretis dopo tutto l'hanno fatto. È indiscutibile che la nostra flotta, nonostante le sue lacune, era largamente superiore a quella austriaca; ed è indiscutibile anche che, se si esamina il complesso degli ordini da loro impartiti, sia il governo, che il La Marmora, che il Ministro hanno continuato a chiedere al Persano - al di là di ambiguità, oscillazioni, disposizioni improprie - una cosa sola: di battersi con la flotta nemica al più presto possibile. Questo è lo spirito che chiaramente traspare anche da ordini insufficienti o comunque criticabili. In questo contesto, tutti i documenti da noi analizzati e citati - anche quelli a discarico delle responsabilità del Persano - lasciano più o meno chiaramente trasparire un fatto: che questo ammirag1io - quali che fossero le sue doti e i suoi precedenti - dal maggio al luglio 1866 ha sicuramente dimostrato di non possedere le qualità elementari che in ogni tempo sono richieste non solo al comandante di una flotta in mare, ma anche a un comandante di qualsiasi livello, sia in campo terrestre che marittimo; più che un giudizio, questa è una constatazione. Nessuno dei sottoposti difende il Persano al processo, ad eccezione del Clavesana; anche dopo, negli scritti all'inizio del secolo XX, i reduci da Lissa - ormai alti esponenti della Marina - sono unanimi nell'attestare la sfiducia della flotta nel Persano e nel criticare le sue decisioni. Ben altrimenti sarebbe avvenuto, anche in caso di sconfitta, se il Persano fosse stata una figura di vero comandante. Senza richiamarci all'esempio di Napoleone e Nelson, uomini eccezionali anche se da imitare, è superfluo ricordare che - lo testimonia da secoli e millenni la letteratura militare - un comandante non è tale, se non sa dare l' esempio e non sa conquistarsi - con i fatti - la stima e la fiducia dei suoi sottoposti, se non sa guadagnare prestigio, all'occorrenza, anche con qualche beau geste (Napoleone soleva dire che "un generale deve essere un ciarlatano"), se non cura al massimo possibile l'addestramento, se non dà direttive ·e ordini chiari, tempestivi e precisi, se non adopera ogni mezzo per rafforzare il morale e la coesione delle forze a sua disposizione, se non sa assumersi all'occorrenza tutte le responsabilità, se non fa sentire la sua presenza nei momenti decisivi Superfluo aggiungere che - in quanto a coraggio personale - specialmente un ammiraglio non solo deve essere, ma deve sembrare coraggioso, come la moglie di Cesare deve sembrare virtuosa...


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A maggior ragione ciò vale per le forze marittime, visto che, come afferma (a ragione) Napoleone, "il generale in capo di forze marittime dipende molto più dai suoi capitani di vascello di quel che un comandante di terra dipenda dai suoi generali". E a maggior ragione ciò valeva con la propulsione a vapore e per una flotta improvvisata quale quella italiana del 1866, che aveva bisogno prima di tutto di coesione, di disciplina, di essere trascinata con l'esempio, di essere soggiogata dalla personalità e dal prestigio di un vero Capo ... Persano dimostra costantemente di non considerare affatto i pesanti riflessi morali di talune sue decisioni, a cominciare dall'episodio di Ancona del 27 giugno fino al passaggio sull'Affondatore; non si rende conto, a Taranto, che una flotta che ha navigato poco ed è poco coesa, ha estremo bisogno di compiere evoluzioni d'insieme al largo; non orienta i comandanti, e persino il suo Capo di Stato Maggiore, sui suoi intendimenti e sulle sue idee a proposito della nuova tattica da adottare, sulla quale ovunque regna incertezza; non fa alcun tentativo per ristabilire o stabilire almeno rapporti di normale collaborazione con il Vacca e I' Albini, in nome del superiore interesse della Patria. In una situazione di estrema incertezza - in tutte le Marine - sulla nuova tattica da adottare con le navi a vapore, non gli fanno certo onore affermazioni come quella che la "Tattica navale" regolamentare dice già tutto, affermazioni che possono indurre persino in sospetto. Decisamente stupefacente è poi l'altra, di non essere tenuto a comunicare i suoi intendimenti nemmeno al suo Capo di Stato Maggiore, al suo alter ego: come mai non si rende conto che proprio perché il suo comportamento nel 1860 aveva già fatto discutere, non poteva più permettersi azioni - o inazioni - che destassero sospetti? Il Pubblico Ministero gli imputa di non aver compilato un piano di guerra, di non aver riunito - come prescritto dalla "Tattica navale" - un consiglio di guerra prima delle azioni più importanti, ecc., ma non è questo il punto. Nemmeno Nelson ha mai compilato, prima della battaglia, dei veri e propri ''piani di guerra" nel senso esatto del termine, cioè contenenti le modalità dell'azione da svolgere in relazione a una data situazione amica e nemica. Prima di Trafalgar Nelson ha compilato un Memorandum, che non è affatto un piano di guerra ma una guida, un'indicazione ai comandanti dei suoi intendimenti e di criteri di massima per tradurli in atto nel corso del combattimento, partendo dalla constatazione - cosa che il Persano non tiene presente - che durante la battaglia molto diffìclltnente i segnali possono essere visti. Del resto, i suoi comandanti, la band of brothers, conoscevano a fondo le sue idee... Era questo l'importante ed è stato questo che il Persano ha mostrato in modo sconcertante di non curare: in quanto alla convocazione di consigli di guerra, persino il Fincati, suo acerrimo avversario, riconoscerà più tardi che ha fatto bene a non convocarli. La scusante del Persano che mancava il tempo non è tale, è un'aggravante: perché le lacune avrebbero dovuto spingerlo a dispiegare queUa febbrile attività per curare l'affiatamento con i comandanti, il morale e l'addestramento degli equipaggi, che invece cura poco o nulla, ~ magari trova inutili.


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Sull'inconcludente crociera dall'8 al 13 luglio e sulle giornate di Lissa dal 18 al 20 luglio pesa soprattutto questa mancanza assoluta di fiducia, di un'intesa, di rapporti personali tra il Persano e i sottoposti, insieme con l'incapacità dell'ammiraglio di rischiare, di assumersi senza esitare delle responsabilità. Le sue argomentazioni difensive acquisterebbero valore, solamente se memore del 27 giugno - dall'8 al 13 luglio si fosse finalmente presentato davanti a Pola, sfidando a battaglia il Tegetthoff come suggerito dal Vacca e da altri: in tutti i casi, questo avrebbe giovato al morale della flotta ... Né giova al morale della flotta, il giorno 20 luglio, essere sorpreso dal nemico per difetto di esplorazione, dopo due giorni di logoranti bombardamenti dei forti, senza alcun risultato definitivo, senza ordini sufficientemente precisi per la battaglia. Che cosa dovesse fare - in linea di massima - la squadra in legno o la riserva, quali formazioni si dovessero adottare, non erano cose da lasciare all'interpretazione di qualche manuale, da consultare magari azione durante: erano manifestazioni essenziali dell'attività di comando. Per la scelta dell'obiettivo di Lissa, non v'è che da concordare con l'ammiraglio Bouet-Willaumez: a metà luglio sia il Ministro sia il Persano ma principalmente a causa delle esitazioni di quest'ultimo nella crociera dall'8 al 13 luglio, che pertanto hanno un peso determinante - si trovano ormai in un cui de sac, hanno bisogno urgente di un fatto compiuto, di fronte al quale vengono meno tutte le pregiudiziali tattiche precedenti e le più elementari esigenze di preparazione, di studio delle posizioni ecc .. Va solo notato che, nemmeno questa volta, il Persano propone di sfidare la flotta avversaria comparendo davanti a Pola, cioè nel modo più semplice, che è anche il primo, ineludibile "passaggio" da prevedere per creare a poca distanza da Ancona ilfatto compiuto. Molto ci sarebbe da dire sull'andamento della battaglia, conseguenza inesorabile di uno stato di cose, nel quale la superiorità del materiale è vanificata da molteplici fattori, tutti legati alla carente preparazione prima di tutto morale, alla mancanza d' intesa e di coesione della flotta. L'adozione della linea di fila è stata inevitabile, anche perché né il Persano né - bisogna dirlo - i suoi sottoposti, credevano nello sperone e sapevano usarlo. Criticabile però la dislocazione (in avanguardia) della riserva; criticabile soprattutto (come autorevolmente giudica il Jachino) l'orientamento della linea di fila, tale da tagliare la prora al nemico favorendo il Tegetthoff anziché tendere a investirlo sul fianco con il fuoco83, mantenendo il più possibile una rotta parallela. La scarsa reattività e capacità di contromanovra poi dimostrata dalla flotta, il mancato, immediato inseguimento del nemico che si sta 83 ·

A. Jachino, Op. cit., p. 401. Anche Domenico Bonamico commentando nel 1900 gli ammaestramenti della guerra ispano-americana, osserva che nella battaglia dello Ya-Lu tra le flotte cinese e giapponese (1894), ha prevalso la flotta giapponese che adottava la linea di fila, mentre quella cinese, che pur era in formazione a cuneo, è stata sconfitta; quindi, nel 1900 non vi era ancora, in merito alle formazioni, un orientamento preciso (D. Bonamico, Insegnamenti della guerra ispano-americana, "Rivista Marittima" 1900, Vol. m Fase. vrr, pp. 52-53).


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ritirando, la mancata obbedienza a segnalazioni peraltro non sempre visibili e non di rado ineseguibili, coinvolgono tutta la flotta e non solo il Persano. Quest'ultimo però non dà l'esempio nemmeno nell'inseguire con decisione il nemico nell'ultima fase della battaglia e rimane il maggiore responsabile, perché ha fatto poco o nulla per orientare i Quadri ed evitare almeno in parte gli inconvenienti che si sono verificati. In più, con il passaggio sull'Affondatore - definito persino dal Lumbroso un errore - ha suscitato gli ennesimi dubbi nel suo personale coraggio e contravvenuto a norme elementari: perché non ha preavvisato tutta la flotta, limitandosi a preavvertire solo il comandante della nave? Non si tratta di un dettaglio trascurabile ... Le nostre navi impegnate sparano poco e non colpiscono parti vitali dello scafo delle navi nemiche: ciò significa che dai cannoni (e c ' entra anche la capacità di manovra dei comandanti) non si trae tutto il rendimento possibile, senza d'altro canto usare lo sperone. Il nemico - pur contando sullo sperone spara con i suoi vecchi cannoni di più... Non si comprende, tuttavia, perché da parte austriaca, dopo che il Tegetthoff aveva imperniato sullo sperone la sua tattica, si definisce "fortuito" lo speronamento del Re d'Italia, e non si accredita la versione che l'unità sarebbe stata circondata da due o tre navi nemiche, come voleva la nuova tattica dello sperone: come mai questa diminutio capitis del Tegetthoff da parte della storia ufficiale austriaca, che ha l'aria persino di voler stornare il sospetto che il Tegetthoff volesse veramente dare la caccia al Persano per catturarlo vivo o morto, come aveva annunciato prima della battaglia? Si può dire che le responsabilità politiche e dei sottoposti, che pure esistono, non scusano affatto il Persano, ma si può dire anche il contrario: che, cioé, le responsabilità del Persano non scusano affatto il comportamento dei sottoposti Albini e Vacca. Su questo, non c'è nemmeno da discutere; e si deve anche aggiungere che dai comandanti di nave era lecito aspettarsi maggiore iniziativa, maggiore aggressività. Anche senza ordini - qui ha ragione il Persano - avrebbe dovuto essere tallonato il nemico quando ha iniziato a ritirarsi: l' Acton, il Riboty avrebbero potuto avere numerosi altri emuli, senza attendere l'esempio dell'ammiraglio o i suoi ordini. Oppure hanno sbagliato? Il governo e i Ministri de]la Marina hanno pesanti responsabilità soprattutto riguardo alla preparazione della flotta e alla scelta del Persano: due argomenti strettamente connessi. Dopo il 1861, le numerose acquisizioni di nuove navi, le operazioni di fusione delle varie Marine ecc. rendevano in certa misura inevitabili le mende organizzative, amministrative e logistiche: proprio per questo sarebbe stata necessaria una continuità d'indirizzo totalmente mancata. Dal 1861 al 20 giugno 1866 si succedono ben dieci Ministri della Marina (in maggioranza generali dell'Esercito); e vista la situazione descritta dalla commissione d'inchiesta sul materiale, mancano del tutto, in questo periodo, anche provvedimenti amministrativi e disciplinari energici e efficaci, come la situazione richiedeva. Soprattutto, con la ritardata designazione del comandante in capo (solo ai primi di maggio) e con una mobilitazione anch'essa risultata tardiva e insufficiente (speculan:, peraltro, a quella dell'Esercito), il governo non


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tiene in alcun conto quanto già scriveva Giulio Rocco nel 1814, ancora nel periodo della vela: nella pace l'apparenza di una flotta pronta a mettere alla vela si impone in modo, che ognuno è tenuto a serie precauzioni se mai voglia provocare una guerra[ ... ] in questa poi tale apparenza si rende del pari molto imponente f---l Conviene che i legni siano perfettamente annali, e che le cose siano talmente disposte, che non manchino di verun oggetto; e possano ricevere da per ogni dove i soccorsi convenevoli alle circostanze [...]. La molteplicità, e la delicatezza delle vedute, che vanno unite al sostegno, ed alle operazioni delle forze marittime, danno loro un carattere distintivo, e fanno comprendere la grande difficoltà di bene stabilire e guidare i rami di un sistema marittimo, nella parte politica, e nell'economica; così in tempo di pace, che in quello di guerra. Le forze marittime differiscono altresì

dalle terrestri, perché non possono ricevere un accrescimento repentino per Le ragioni addotte a suo luogo; ciò servirebbe in ogni caso per dar loro soltanto un passeggero splendore [Nostra sottolineatura - N.d.a.]. Il grande nesso è la speciale influenza, che hanno a vicenda tutte le operazioni concernenti il governo delle forze marittime, le quali formano anche un carattere distintivo, che ad esse peculiarmente appartiene_ .. 84•

A maggior ragione, viste le condizioni della flotta, sarebbe stata non necessaria, ma assolutamente indispensabile alla sua testa una forte personalità, un uomo almeno stimato dagli equipaggi (Persano sicuramente non lo era). Il Guerrini e il Jachino!l~soslengono l'uno <.:be la scelta del Persano è stata inevitabile, l'altro che non è stata un errore: noi invece riteniamo che nella scelta degli alti comandanti, dai quali dipende in sì larga parte la vittoria e la sconfitta, non vi debba essere nulla di inevitabile e debba essere data la prevalenza a chi dà maggiore affidamento: Salus Patriae Suprema Lex. Scartati per ragioni diverse Garibaldi, Bixio, il Vacca, l' Albini, tale comandante, ancorché non pratico - come del resto lo stesso Persano - del combattimento con navi corazzate, non poteva essere che il Galli della Manti.ca, uomo energico e molto stimato dalla flotta, decorato di Medaglia d' Oro per l'ardita condotta della sua nave all'assedio di Ancona. Secondo lo Zimolo "si dimise per non dover dipendere 'da un Persano' e il Cavom stesso [che pure, come ricorda il Lumbroso, l'aveva raccomandato al re per la nomina a aiutante di campo - N.d.a.] gli dichiarò che sarebbe stato ugualmente comandante della flotta in caso di guerra". Questo, a prescindere dalle molte ombre nella vita privata e militare del Persano, che pure avrebbero dovuto avere il loro peso.86 "' ss.

..

G. Rocco, Riflessioni sul potere marittimo (1814), Rist. 1911, Roma, Ed. Lega Navale Italiana, pp. 89-92. D. Guerrini, Op. cit., Voi. Il, pp. 31-42; A. Jachino, Op. cit., pp. 37-38. li Jachino nota che il La Marmora non si è opposto alla nomina del Persano, pur "non avendo alcuna stima particolare" di lui. In realtà, come abbiamo dimostrato, il La Marmora aveva/orte disistima per il Persano e avrebbe voluto il Galli della Mantica. Si veda, in merito, la biografia del Persano (a cura di G. Zimolo) in Dizionario del Risorgimento nazionale (Cit.), Voi. Ul, pp. 823-831 e si vedano anche le molte notizie fornite dal Guerrini (Op. cit., Voi. I e Il). Cfr. anche A. Jaclùno, Op. cit., pp. 44-62.


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Noi concordiamo perciò con l'ammiraglio Canevaro87 e soprattutto con l'ammiraglio Emilio Prasca, autore nel 1907-1908 dei primi due scritti specificamente dedicati dalla Rivista Marittima alla campagna navale del 1866 (sia pure sotto la modesta veste di recensione dell'opera del Guerrini che, fatto significativo, viene favorevolmente giudicata)88• Dopo aver indicato il Della Mantica come l'uomo più adatto, il Prasca afferma che: a) anche ammesso che nessuno dei quattordici ammiragli allora ne] quadro attivo della Marina "godesse fama superiore alla mediocrità", si farebbe un grave torto alla loro memoria se si pensasse che nessuno fra di essi fosse in grado di condurre l'armata meglio di quanto poi ha fatto il Persano; b) dagli stessi ammiragli Albini e Vacca si sarebbe potuto legittimamente attendere di più del Persano: c) sarebbe stato pur sempre possibile promuovere al grado di ammiraglio altri ufficiali di indiscusso valore, "]asciando a terra il Persano come i suoi mediocri colleghi". Perciò il Prasca, su questo punto, indica giustamente le responsabilità del La Marmora, Presidente del Consiglio e deus ex machina della guerra, e del Ministro Angioletti, che avrebbe scelto il Persano "su interessato consiglio" del D'Amico, suo capo di Gabinetto amico del Depretis e aspirante alla carica - che poi ebbe - di Capo di Stato Maggiore della flotta. Non ci soffermiamo su11e responsabilità politiche - e quindi del La Marmora - nella condotta generale deHa guerra, sulla mancanza di un piano di campagna, sul1a cattiva organizzazione del Comando ecc.: tutti elementi che, alla fin fine, non hanno influsso determinante sulla condotta delle operazioni navali nel luglio 1866. Imperdonabile è anche il comportamento del Ministro Depretis dopo la crociera da11'8 al 13 luglio, che si reca ad Ancona e conducendo una sorta d'inchiesta nella quale ha colloqui separati con vari esponenti della Marina, con il solo risultato di togliere al Persano anche quel poco di autorità e di prestigio che gli era rimasto, di fatto esautorandolo agli occhi della flotta e quasi autorizzando le disobbedienze. Una delle chiavi per meglio giudicare l'operato del governo è comunque il cattivo esito della battaglia di Custoza del 24 giugno, che influenza anche al di là delle apparenze l'operato del Ministro. Al Depretis, come già detto, interessa soprattutto che la flotta agisca e vinca; ma dopo quello che è accaduto a Custoza teme un nuovo rovescio che provocherebbe effetti devastanti nella pubblica opinione e vorrebbe - strana pretesa - che la flotta affrontasse il nemico con speranza di sicuro successo, e comunque 87

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N. Canevaro, Mie dichiarazioni sulla guerra del 1866 in Adriatico, "Nuova Antologia" Vol. CXCVII, Fase. ll21 - 1 ottobre 1918, pp. 282-285. Del Galli della Mantica si dichiara sostenitore anche Mons. Domenico Parodi, a Lissa aiutante di bandiera del Vacca, autore di un libro fortemente polemico nei riguardi del Persano (Cfr. D. Parodi, L'attacco e la battaglia di Lissa nel 1866 - studio critico apologetico, Genova, Libr. Fas· sicomio e Scotti, 1898, pp. 31-32). E. Prasca, Recens. del Vol. I e II di Lissa di Domenico Guerrini, "Rivista Marittima" 1907, Voi. m Fase. m, pp. 447-457 e "Rivista Marittima". 1908, Voi. Il Fase. VI, pp. 577-582.


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senza la precipitazione e l'improvvisazione che già hanno causato il fallimento dell'offensiva terrestre. Per questo esita a dare ordini tassativi di agire al Persano, anche perché non conosce - né può conoscere bene - i problemi e l'efficienza reale della flotta. Queste esitazioni sono però accantonate bruscamente ai primi di luglio, per ovvie ragioni legate alla situazione internazionale. Dal canto suo il Persano, anziché indurre il Ministro a superare le sue esitazioni, si limita ad approfittarne per ritardare il più possibile l'entrata in azione, presentando l'atteggiamento del Ministro e del governo a luglio come una contraddizione: non si tratta, invece, che di un mutamento di indirizzo strategico imposto dalla situazione politica e dalla sconfitta austriaca di Sadowa. Gli ordini del Ministro per la crociera dall'8 al 13 luglio, che secondo il Persano gli avrebbero praticamente impedito di agire, sono senza dubbio troppo particolareggiati; ma non va dimenticato che le azioni particolari prescritte, e giudicate dal Persano ineseguibili, sono subordinate alla conquista del dominio del mare ottenuta battendo o bloccando la flotta nemica. Né è vero - come sostiene il Persano - che il blocco con il vapore non sia più eseguibile, e che esso debba necessariamente avvenire nel raggio d'azione delle batterie costiere... Va però considerato che, con il suo atteggiamento autocratico e troppo riservato nei riguardi dei sottoposti, con la sua preferenza per gli ordini e i rimproveri scritti, con le troppo insistenti richieste al Ministro di precisazioni e ordini (che un vero comandante non farebbe mai), con continue sollecitazioni al Ministero per l'invio di rinforzi, materiali, navi ecc. che assumono il significato di un alibi, il Persano probabilmente è a sua volta influenzato dai nefasti effetti del dualismo La Marmora - Cialdini, dagli equivoci sorti tra i due e dal cattivo esito che ha avuto la repentina offensiva di Custoza. Senza che questo automaticamente significhi viltà, egli pare attratto solo da azioni che comportino con il minimo rischio il massimo risultato, o che almeno non comportino rischi. Atteggiamento che non potrebbe essere più antinelsoniano e antinapoleonico: sono ben note le massime di Napoleone dove si afferma che senza rischio nulla si ottiene, e che "coi mezzi termini si perde tutto alla guerra". Per tutte queste ragioni, v'è da concordare con Domenico Bonarnico [anch'eg1i reduce da Lissa, dove era guardiamarina ai segnali sul Re di Portogallo - N.d.a.], che recensendo nel 1899 il libro su Lissa di Mons. Domenico Parodi ci fornisce un giudizio riassuntivo equilibrato e di rara efficacia: noi conveniamo pienamente nei giudizi espressi dall'autore riguardanti il Riboty, il Saint-Bon [del quale il Parodi è biografo e ammiratore N.d.a.], il Cappellini [comandante della Palestro affondata per incendio - N.d.a.], la condotta e capacità degli Stati Maggiori e equipaggi, gli eroismi di molti, la colpevolezza di pochi, ma non possiamo convenire, col Parodi, che ogni altra colpa sparisce affatto di fronte a quella del Persano. Colpevoli furono il Rattazzi e il Depretis come


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uomjni di Stato, e colpevoli come ammiragli furono l' Albini e il Vacca. Exoriare aliquis non implica che si debbano absolvere rei, ché se Persano fu il più grande colpevole, l' Albini e il Vacca non possono essere assolti dinnanzi alla storia dalle indulgenze del Parodi. Il Vacca potendo non ha combattuto; l' Albini non ha combattuto e nemmeno obbedito, e lo storico non deve assolvere chi è reo dinnanzi alla Patria. Una seconda avvertenza, di indole più morale che materiale, è quella che riguarda la mossa fatta dal Riboty, e vuolsi anche dall' Acton Guglielmo, quando il Persano segnalava - Battetevi a tiro corto - chi non combatte non è al suo posto - durante il periodo delle contromarcie dalle 13 alle 14 dopo la battaglia. Il Parodi ba passato sotto silenzio l'iniziativa del Riboty e dell' Acton che parrebbe assai meritevole di menzione, non per il fatto in sé stesso, ma per l'insegnamento storico che deve derivarne. L'autore dice benissimo che la serie dei segnali era ridicola, perché Persano doveva dare l'esempio, prendendo la direzione del movimento offensivo. Il Persano aveva certamente il dovere di dare per il primo esecuzione agli ordini che egli segnalava,

ma poiché questa iniziativa egli non la prendeva, non era forse lodevole che altri la prendesse? [nostra sottolineatura - N.d.a.]89• Il Riboty - prosegue il Bonamico - è stato il solo ad obbedire ai segnali e a inseguire il nemico: ma poi ha desistito, vedendosi solo e pensando ili averli male interpretati. Avrebbe invece dovuto insistere, e forse, a11ora, le altre navi italiane sarebbero state trascinate dal suo esempio alla battaglia: "e la battaglia di Lissa poteva ancora essere una vittoria italiana, come quella di S. Vmcenzo, per l'esempio del Nelson, fu una vittoria britannica". Chi vuol intendere intenda, a ognuno il suo: dopo queste osservazioni del Bonamico, occorre seriamente chiedersi anche perché non vi sono stati molti Riboty e molti Acton. In proposito, l'ammiraglio Jachino nel suo citato libro La campagna navale di Lissa 1866 nota che la flotta sarda - e poi italiana - non aveva mai sostenuto combattimenti in mare contro altre flotte, che aveva navigato assai poco, che comandanti e equipaggi di conseguenza erano poco addestrati, a maggior ragione dopo l'introduzione del vapore. E, sempre secondo il Jachino (ma questa è l'opinione di tutti gli storici), "durante la campagna del 1866, e specialmente a Lissa, mancò del tutto, nella nostra armata, quello spirito di fratellanza e di solidarietà che fu il segreto del successo di Tegetthoff'90. Noi aggiungeremmo che questa è stata anche la causa primaria della nostra sconfitta, la quale è dunque di ordine morale e disciplinare. In altre parole Lissa non è un fatto casuale, né è frutto di mera sfortuna: è forse evitabile ma non inaspettata, è la conseguenza dei molti mali morali che hanno travagliato la Marina sarda e italiana fin dai tempi di Cavour, e ai

•• ""·

D. Bonamico, Recensione. a Lil'sa di mons. Domenico Parodi (Cit.), "Rivista Marittima" 1899, Vol. I Fase. II, pp. 476-480. A. Jachino, An. cir..


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quali il grande statista ha tentato di porre rimedio con risultati evidentemente inferiori a quanto sarebbe stato necessario. Anche sulla base dei risultati dell'inchiesta sul materiale e l'amministrazione, infatti, si deve constatare che Lissa ricorda la singolare preveggenza di questa affermazione dello stesso Cavour: non è nella forza materiale che consiste la potenza d'azione energica e efficace d'una Marina da guerra, bensì nella scienza dei capi, nella bravura degli ufficiali, nella perizia degli equipaggi, e in quel fratellevole spirito di corpo, in quel comune accordo d'istruzione e di moralità tra gli individui del personale della Marina, in quella non interrotta catena di reciproche relazioni d'onore, di affezione, di stima, che formano ( o che almeno formar dovrebbero) dei corpi di marineria, direi quasi, una eletta ed avventurata famiglia. 91

Se, come già detto, la perdita prematura del Cavour è una delle cause lontane di Custoza, ancor più va vista come causa lontana di Lissa. Più che il rostro o il cannone, più che il legno o la corazza e il vapore e le sue ricadute tattiche, più che la fonnaz.ioni e gli ordini, a Lissa hanno pesato i fattori morali già tipici delle guerre napoleoniche, i fattori primari - individuati da Clausewitz - che decidono la guerra terrestre come quella marittima: virtù del Capo e spirito guerriero dell'esercito (o dell'armata navale). Il Lumbroso ha scritto libri interi per dimostrare che, con simili sottoposti, il Persano non poteva vincere: ma era forse possibile vincere con un comandante, che per una ragione o per l'altra, non ha mai cercato veramente la vittoria mediante quello scontro decisivo in mare, del quale parlava il Depretis nelle istruzioni prima della crociera dal1'8 al 13 luglio? Il Lumbroso avrebbe avuto un po' di ragione, solo se il Persano avesse dimostrato maggiore attenzione per gli uomini... Il che sicuramente non è avvenuto. Come e in che modo le preminenti ricadute spirituali di Lissa - pienamente rientranti nell'eredità nelsoniana - siano state colte, verrà da noi esaminato nel successivo Volume ID; fin d'ora, però, si può dire che troppo spesso si tende a farne una questione di formazioni, e di rostro. Lo speronamento del Re d'Italia pesa sinistramente non solo sull'esito della giornata del 20 luglio, ma anche sugli ammaestramenti distorti che ne vengono tratti - non solo in Italia - fino all'inizio del secolo XX; e del fascino de] rostr<;> è vittima lo stesso Domenico Bonamico, massimo scrittore italiano del secolo

XIX.

•,. Cit. in G. Gonni, Cavour Miniscro della Marina (Cit.), p. 67.


CAPITOLO XIII

DALLA VELAAL VAPOREEALLACORAZZA: NASCITA DELLA TEORIA STRATEGICA NAVALE E NUOVA TAITICA "A VAPORE".

Premessa Nel periodo in esame nasce la strategia navale intesa come branca teorica dell'arte militare marittima e comincia a prendere fonna una nuova tattica detta "a vapore", perché imposta dalla propulsione a vapore. La battaglia di Lissa - non è una fortuna per le nostre armi - avviene proprio nel periodo di massima confusione - più che di crisi - della tattica navale e dei criteri costruttivi; fatto siignificativo, nello stesso anno 1866 compare la seconda edizione del dizionario del Parrilli (Cfr. anche cap. I), il quale riporta per la prima volta in Italia la voce strategia marittima, anzi strategia marittima dei piroscafi. Ci si trova di fronte a un periodo tipicamente di transizione, nel quale il vecchio non vale più e il nuovo non ha ancora preso forma definitiva: di qui una notevole confusione nelle menti dei dotti e degli ufficiali di Marina, con tendenza a attribuire alla propulsione a vapore riflessi rivoluzionari sia nel campo strategico che tattico, la cui portata almeno nel medio e lungo periodo non è confermata dagli eventi e dalle teorie che ne scaturiscono. Sotto questo profilo avviene non solo per la strategia, ma anche per la tattica navale quanto il Blanch ha osservato nel 1834 per la strategia terrestre: a torto voleasi trattare come scienza esatta quella che, avendo moltissimi dati ignoti, non può essere che una scienza per così dire approssimativa. Ma questa esagerazione del valor della scienza ne dimostra appunto la sua esistenza e il suo primo periodo [... ] Sempre che lo spirito umano scopre un metodo, è nella sua natura di credersi giunto a quella superiorità ideale a cui aspira. Dà in conseguenza alla scienza più nuova un merito e degli effetti superiori alla realtà: in seguito i progredimenti stessi della scienza fanno sì che sia ridotta al suo reale valore. Ciò è avvenuto della strategia scientificamente considerata.'

È una questione di tempo: ma quanto tempo? assai di più di quello che si potrebbe pensare. In uno studio del 1894-1895 sulla strategia navale2 - il miglior lavoro pubblicato in Italia sull'argomento fino a quegli anni -

2.

L. Blanch, Della scienza militare - Discorsi nove (1834) - Ristampa 1934 a cura di L. Susani, Roma, Ed. Roma 1939, p. 171. D. Bonamico. Strategia navale - considerazioni generali e criteri di potenzialità marittima, "Rivista Marittima" maggio 1894, pp. 147-187 e marzo 1895, pp. 427-448.


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Domenico Bonamico nota (siamo ormai a fine secolo XIX) che "la strategia navale, a differenza di quella terrestre, non si è ancora costituita come scienza speciale e distinta fra le altre teoriche militari-marittime". Non è ancora comparsa, in questo campo, "nessuna opera o trattato teoretico come quelli del Jomini e del Clausewitz"; il periodo di transizione e di rinnovamento, che interessa tutta l'Europa, "ebbe carattere evolutivo in Inghilterra, saltuario in Italia, rivoluzionario in Francia, e procedette, come era logico, dalla tecnica alla tattica sfiorando appena appena il campo della strategia e della organica [nostra sottolineatura - N.d.a.]". Ne consegue - prosegue il Bonamico - che "tutta la letteratura navale, per una infinità di ragioni che è superfluo ricordare, attesta questo stato rudimentale della dottrina strategica e potrebbe anche dirsi di quella tattica, benché certamente in assai più moderata misura". In particolare, il periodo dall'avvento al vapore fino a quel momento può a suo avviso essere suddiviso in due parti: - la prima che termina in Italia intorno a1 1880 e in Francia con la nomina di Capo di Stato Maggiore dell'ammiraglio Aube [espommti;: principali;: <ldla Jeune Ecule navale - N.d.a.] "caratterizzata dalla quasi esclusiva preponderanza degli studi tecnici, evolutivi e tattici"; la seconda, nella quale acquistano la prevalenza i problemi strategici e organici. L'ammiraglio Castex, delle cui opere è comparsa nel 1997 una ristampa di grande interesse (magistralmente curata da Hervé Coutau-Bégàrie) e nel 1999 una traduzione italiana, nel primo volume delle sue Théories stratégiques (1929) concorda pienamente con il Bonarnico (da lui esplicitamente citato) e osserva che, dal punto di vista della teoria strategica, "il passato delle diverse Marine è, fino alla fine del secolo XIX, di un vuoto sconcertante . Sembra che lo studio dei principi ai quali si ispira la concezione e la direzione della guerra sul mare non abbia tentato alcun uomo del mestiere"; alla profluvie di studi strategici in campo terrestre comparsi un po' ovunque nei primi decenni del secolo XIX, in campo marittimo hanno corrisposto solo numerosi studi di tattica navale. 3 Grazie alle considerazioni del Bonamico e del Castex è possibile collocare in modo preciso il periodo 1848-1870 che ci accingiamo ad esaminare. Dal punto di vista dell'arte militare marittima, le nostre guerre d'indipendenza si svolgono nella prima fase - la più acuta - di un periodo di incertezza e confusione che tuttavia permane per tutto il secolo XIX, nel quale - poco o nulla è mutato da allora, fino ai nostri giorni - non viene alla luce nessuna opera che in campo marittimo possa fare da conAmiral R. Castex, Théories stratégiques (1929) - ristampa a cura di Hervé Coutau Begarie, Paris, Ed. Economica et Institut de Strategie Comparée 1997, Vol. I pp. 27 e 3234. Cfr. anche la recentissima traduzione italiana (Raoul Castex, Teorie Strategiche. a .cura amm. Vezio Vascotto, Roma, Forum di Relaz. lntemaz. 1999, Voi. I p. 717).


XIII - LA NASC ITA DELLA STRATEGIA NAVALE E LA NUOVA TATTICA "A VAPORE"

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traltare a quelle di Jomini e Clausewitz, e nel quale la fioritura di studi che contraddistingue l'arte militare e la strategia terrestre non trova alcuna rispondenza in campo marittimo. In questa prima fase predominano gli studi tecnici e di tattica navale, mentre la teoria strategica, neonata, ha vita estremamente stentata: perché? È questo un primo interrogativo al quale intendiamo rispondere, ma non è il solo. Occorre, anche chiedersi: quali sono esattamente le ragioni che determinano lo stato di incertezza e di confusione al quale prima si è accennato; - qual'è il peso di ciascuna e quali sono i segnali che si possono cogliere - o che non si colgono affatto - nel linguaggio marinaresco italiano; per quale motivo si crea una soluzione di continuità notevole - oltre mezzo secolo - tra la nascita della teoria strategica terrestre e la nascita di quella marittima; - quali sono i fattori ai quali si deve la nascita sia pur stentata della teoria strategica marittim<J (solo la propulsione a vapore?) e qual'è l'importanza di ciascuno; - quali caratteri assume - prima o dopo Lissa - la nuova tattica navale imposta dalla propulsione a vapore. Una risposta a questi interrogativi non ha carattere meramente teorico: da una parte essa serve a meglio inquadrare lo svolgimento della battaglia di Lissa e dall'altra, dà un'immagine veritiera del pensiero navale italiano del periodo e dei suoi caratteri in rapporto a quello europeo. Il linguaggio marinaresco e la polemica del Fincati con il Parrilli

Come si è già accennato, nel 1862 l'ammiraglio Persano, Ministro della Marina, decreta che "il tecnicismo consacrato nel Vocabolario del Parrilli [si riferisce ancora alla prima edizione 1846 - N.d.a.] divenga linguaggio ufficiale della R. Marina Italiana". Secondo l'Enciclopedia Militare "ciò produsse qualche inconveniente, perché l'autore, reputando barbari i linguaggi marinari ligure, napoletano e veneto, si era proposto di creare un linguaggio novello per i marinai dell'intera penisola". 4 Sembra, dunque, che il lavoro del Parrilli abbia avuto scarso successo e che il decreto del Persano rimanga lettera morta, perché alla comparsa della seconda edizione 1866 - che pure tratta diffusamente la nuova voce strategia marittima e dedica largo spazio anche alle voci connesse con l'introduzione del vapore, alle artiglierie, alle nuove corazzate ecc. - la pubblicistica navale italiana coeva è concorde nell'ignorare questi lati positivi e si sofferma esclusivamente su quelli negativi, in senso lato attinenti a que-

Enciciopedia Militare, Vol. 5° p. 838.


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stioni di linguaggio marinaresco dell'età della vela, che poca o nessuna incidenza hanno sull'arte militare marittima del momento, né co]gono le rapide trasformazioni in atto. Il più acerrimo critico del Parrilli - con la VIS polemica che lo contraddistingue - è il capitano di fregata Luigi Fincati. Pur avendo avuto modo di constatare de visu a Lissa i riflessi della propulsione a vapore e dell'impiego di corazzate con potenti artig1ierie e speroni, il veneto Fincati si dimostra fin troppo legato ali' età del remo e della vela e al suo patrimonio storico, con particolare riguardo all'eredità di Venezia. Di questo risentono anche i suoi lavori in campo linguistico, senz'altro apprezzabi1i ma tali da affrontare solo in misura marginale e insufficiente tutto ciò che riguarda i nuovi ritrovati tecnici. Già nel 1847 il Fincati (Cfr. Vol. I, cap. IV) pubblica a Venezia dei Cenni sulla compilazione di un Dizionario Marittimo Italiano, e viene poi invitato dal Tommaseo a occuparsi della parte marinaresca del Gran Dizionario della Lingua Italiana. Nel 1864 dà alla luce un nuovo Trattato sulla Manovra navale a vela e a vaporè corredato un vocabo]ario nautico, ne] quale già polemizza con lo Stratico (Vol. I, cap. IV e V) e con il Parrilli. Si oppone al cosmopolitismo e al1'antipurismo dello Stratico, ricordando che, specie dal 1300 al 1500, veneziani e genovesi hanno intrapreso lunghe navigazioni oceaniche e hanno insegnato a spagnoli, portoghesi e francesi l'arte della navigazione. Egli osserva che la nostra lingua marinaresca si è formata e completata molto prima di quella francese: perciò sono italianissime molte voci, che parecchi studiosi ritengono gallicismi "per ciò solo, che il suono di queste rassomiglia a quello dei loro corrispondenti francesi", mentre sono in realtà delle voci italiane "infranciosate". Nega anche che non sia possibi1e, come sostiene lo Stratico, indicare e caratterizzare un linguaggio nautico italiano, a causa delle numerose e forti differenze tra il linguaggio delle varie marinerie italiane: "se non è uguale, esso [linguaggioJ è perfettamente simile e le dissomiglianze sono dovute soltanto alla differenza di pronuncia, alle elisioni, alle metatesi, alle desinenze, alla catecresi ed agli euforismi propri dei vari dialetti". Del barone napoletano Parrilli, "mio dotto ed eccellente amico", dice che "intese espellere dal suo Vocabolario di Marina le voci di dialetto; fu gran ventura ch'egli ignorasse i] veneziano ed il genovese, senza di che saremmo rimasti senza lingua marinaresca italiana od avrebbe dovuto inventarne una nuova". All'opposto del Parrilli proclama la sua fedeltà esclusiva al linguaggio parlato e ritiene - nonostante l'avvento del vapore che non ci sia da inventare o proporre alcuna nuova voce: occorre invece "far scomparire i vocaboli doppi, gli inutili, gli ambigui con voci della lingua comune, con molto vantaggio della chiarezza, della proprietà e della eleganza del dire". Se la prende perciò con coloro che cadono in barbarismi

s.

Genova, Gravier 1864.


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LA NASCITA DELLA STRATEGIA NAVALE E LA NUOVA TATl1CA "A VAPORE"

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"de' quali presero abitudine dallo studiare, dal leggere e dal tradurre libri inglesi e francesi, e che fummo disgraziatamente costretti a consultare per non averne in italiano che valessero lo sciupìo della vista, o ben pochi". Dopo queste polemiche che rivangano soprattutto questioni del periodo velico e remico, poco spazio rimane per le voci connesse con la propulsione a vapore, e in genere, con il progresso tecnico: su questo punto il Fincati se la cava disinvoltamente affermando in nota che "non mi sono occupato punto di vocaboli propri all'artiglieria, alle macchine, all'astronomia ed alla maestranza, perché non differiscono né devono differire da quelli usati a terra". Nessun accenno alla tattica, e naturalmente, alla strategia; per le voci di interesse militare, si limita a ripetere quelle - riferite esclusivamente al periodo velico - del 1847, specialmente relative a "caccia" e "abbordi", per abbordo intendendo (cosa che non va più bene nell'età del vapore) "urto volontario o accidentale di una nave contro l'altra", senza alcun accenno allo sperone. Solo dieci pagine sono dedicate alla manovra delle navi a vapore, della quale per lo più si tacciono i sottofondi militari, trattando esclusivamente particolari tecnici relativi al corretto uso della macchina, alla rotta, aJla velocità, alle differenze dinamiche tra piroscafi a ruote e a elica, ecc .. Cosa strana, la stessa impostazione (prevalentemente riferita al periodo velico e con troppo scarso spazio per la nuova terminologia relativa al vapore, alle corazzate e allo sperone) viene conservata dal Fincati anche dopo Lissa, con il suo Dizionario di Marina italiano-francese e franceseitaliano pubblicato nel 1869 e 18706, che già nel titolo prende contraddittoriamente atto dell'influsso francese, anziché combatterlo come si prefigge nell'introduzione. Nell'introduzione a quest'ultima opera il Fincati riprende, con qualche ampliamento, le argomentazioni precedenti sul primato del linguaggio italiano e sull'affinità dei vari dialetti regionali, osservando che "il linguaggio proprio dei marinari italiani, come quello di tutti i loro connazionali di tutte le condizioni ha due forme: la parlata e la scritta; e la differenza tra l'una e l'altra non supera la differenza che esiste tra la lingua e i dialetti delle varie provincie". · Nessuna priorità per il linguaggio toscano, al quale taluni vorrebbero attingere esclusivamente anche in fatto di terminologia marinaresca: per il Fincati la lingua toscana è l'idioma dei toscani e basta, e con la genovese, la napoletana, la veneziana ecc. concorre "a formare il gran patrimonio morale della nazione ed è la materia prima della lingua patria", alla cui formazione hanno preso parte eminenti scrittori di tutte le nostre regioni. Se taluni commettono l'errore di credere che l'Italia manchi di lingua marinaresca scritta,

6 ·

Genova e Torino, Ed. Beuf 1869 (2'· ED. 1870).


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[ciò] dipende dall'essere rarissime e poco conosciute le opere originali italiane speciaJi alla professione marinaresca, e dall'essere poco noti o non avvertiti i passi d'autori che ne parlano per incidenza, dall'essere affatto ignoti ai più gli innumerevoli elenchi, inventari, contratti, regolamenti, leg!,'Ì, prove di fortuna, rapporti di viaggi, di combattimenti, di naufragi, stesi tutti da uomini dell'arte e competentissimi.

Stratico e Parrilli "uomini dell 'arte" non sono: perciò in polemica ancor più frontale con questi due studiosi il Fincati tende a presentarsi come uomo di mare che finalmente scrive "il vocabolario dei marinari e per i marinari". E confessa che, mentre stava lavorando a questo suo dizionario, vedendo comparire l'opera del Parrilli si è chiesto se era il caso di proseguire il lavoro: dubbio subito fugato, visto che il Parrilli nella prefazione vuol proporre, anzi imporre, un nuovo linguaggio per tutti i marinai italiani "da adottarsi se non immediatamente dalle genti di mare almeno dai dotti". Ma così rivolgendosi soprattutto ai dotti, lo scrittore napoletano "vive in una nuova Arcadia", e a torto parla di "torre di Babele" dei dialetti italiani, "eh via, la Babiloni a la incominciò Simone Stratico ch'era un letterato, ed altri letterati la continuano con la bizzarra idea di apprendere un nuovo frasario a duecentomila marinai sparsi sulla superficie del mare" . Al comando, nel 1861, di una nave ex-napoletana, il Fincati assicura di non essersi mai trovato in difficoltà e di aver sempre capito benissimo i termini tecnici usati dai suoi marinai: ecco perché il suo vocabolario, che rispecchia fedelmente il linguaggio dei marinai, non è affatto reso inutile da quéllo del Parrilli. Lo dedica perciò alla gente di mare "pregandola a riflettere che questo è il primo vocabolario nautico italiano fatto da un navigatore, e che spetta ad essa completarlo studiando e scrivendo intorno alla sua professione, imperrocché i vocabolari d'un arte speciale sono il frutto e la misura della sapienza degli uomini che Ja professano". Se si scorre il suo vocabolario, sembra proprio che al Fincati, immerso nel linguaggio tecnico-nautico risalente in massima parte alla vela, interessino assai poco le voci relati ve alJ' arte militare ·marittima. L'omissione del termine strategia è, dati i tempi, un peccato veniale: ma da un comandante di fregata a vapore a Lissa ci si aspetterebbe di più di questa troppo breve e generica definizione di tattica, che la confonde come al solito con le evoluzioni: "ramo della scienza [dunque non esiste un'arte? - N.d.a.j navale che insegna e stabilisce le regole [non i principì o i criteri, ma Je regole, alla francese - N.d.a.l per muovere in assieme parecchie navi da guerra". Parrilli (Cfr. cap. I) confonde strategia e tattica, come tutti più o meno fanno al tempo; ma la sua definizione di tattica e/o di tattica a vapore, a parte questa distinzione armai superflua anche se significativa, parla almeno di arte, e non di scienza; e tutto sommato è nel giusto affermando che essa riguarda la disposizione delle armate nelle varie formazioni di marcia e di battaglia (che dunque comporta una scelta precisa da parte dell'ammiraglio) e le conseguenti evoluzioni (che dunque richiedono specifici ordini in fase condotta e sono un sussidio della tattica, non il suo scopo).


XIII - LA NASCITA DELLA STRATEGIA NAVALE E LA NUOVA TAITICA "A VAPORE"

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11 Fincati, per giunta. non si peroccupa di chiarire bene la differenza tra evoluzione e manovra, contribuendo così ancor di più all'identificazione della tattica con le evoluzioni. Con quest'ultimo "termine di tattica navale" intende, in generale, "i movimenti che devono fare le navi di una annata per mettersi in un ordine tattico qualsiasi o per passare da questo a un altro". Fin qui, benissimo: ma dopo mescola le carte, aggiungendo che "i giramenti in prora o in poppa diconsi pure evoluzioni, ed è una evoluzione anche il moto rotatorio d'una nave intorno al suo asse verticale acquisito o impressole volontariamente". Che cos'è, allora, una manovra, e in che cosa differisce dalle evoluzioni? "È l'operazioni o le operazioni che si eseguiscono per dare alla nave un moto progressivo o una direzione determinata. Chiamasi ugualmente manovre quelle evoluzioni di tattica navale [nostra sottolineatura - N.d.a.] colle quali si dispongono le navi su linee determinate per formarsi in tale o tal altro ordine tattico o per cambiarlo". In questo modo, secondo il Fincati manovra e evoluzione coincidono; al confronto è assai più chiaro il Parrilli (vds. cap. I), quando afferma che l'evoluzione è "un movimento che esegue qualsivoglia ba,;timento in moto" e che essa "ha un senso meno ristretto della manovra", perché ad esempio un vascello che vira di bordo compie una evoluzione, mentre un vascello che mette tutte le vele al vento fa solo una manovra. E con quest'ultimo termine il Parrilli indica "qualsiasi mossa esegue una nave [una nave sola, non un insieme di navi - N.d.a.] per effetto del suo timone e delle sue vele; così il mettere alla vela, il virare di bordo, il mettere in panne, il far servire le vele, l'ancorare ecc., sono tutte manovre. Da ultimo chiamano anche manovra i marinai qualsivoglia lavoro eseguito a forza di braccia; quindi il salpare un'ancora, il ghindare un albero...". Anche in questo caso non è tutto chiaro, e il Parrilli chiama la virata di bordo prima evoluzione e poi manovra; ad ogni modo sempre meglio di quanto dice il Fincati, perché la manovra al contrario dell'evoluzione è essenzialmente riferita a una sol.a nave e riguarda qualsiasi operazione che vi si compie da parte dell'equipaggio anche per arrestare il moto o per iniziarlo, onde far evolvere la nave: quindi la manovra è più che altro il mezzo con cui una nave compie un'evoluzione, mentre l'evoluzione comporta generalmente un moto collettivo ed è il.fine. Si è già visto (cap. I) che il Parrilli mette in chiara evidenza - pur senza avere l'aria di approvarlo e parlando di "arrischiata tattica di Nelson" - il carattere di debellatio assunto dalle battaglie navali da Trafalgar in poi; ma ancora una volta la definizione di battaglia navale fornita dal Fincati è deludente, visto che non n~ coglie nemmeno il carattere di scontro tra intere armate navali e si limita a definirla "Pugna o combattimento navale", senza però fornire una definizione del vocabolo combattimento, e aggiungendo che "questo vocabolo serve a qualificare una linea ossia un ordine determinato di navi e chiamasi linea di battaglia (vedi Linea)". Di linea di battaglia (che dunque anche col vapore continua a essere una formazione di combattimento, nonostante le sue critiche al Persano) il Fincati non parla; parla di linea di bolina, di linea di imbozzamento, e - alla voce fila - anche di linea di fila, senza alcuna considerazione al riguardo. Non dimentica


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. 11 (1848-1870)

comunque il taglio della linea, e - probabile riflesso del vapore - la linea di fronte, che "in termine di tattica, chiamasi quella in cui le navi sono disposte secondo una linea retta di fianco una al]' altra e colle prore rivolte nella medesima direzione"_ Assente anche il termine blocco, pur così usato nella campagna del 1866; nessun cenno a dominio del mare, padronanza del mare, potere marittimo, termini pur usati da Giulio Rocco_ Nell'Elenco dei principali comandi per la manovra navale - che occupa quattordici pagine - alla manovra di una nave a vapore sono dedicate solo sette righe, corrispondenti ad altrettanti ordini da dare alla macchina. Il Fincati è stato a Lissa comandante di una fregata a vapore semicorazzata: eppure la voce fregata riguarda ancora esclusivamente il periodo velico, visto che la definisce "nave a tre alberi a coffe e tre gabbie e con due batterie di cannoni, una coperta e l'altra scoperta". Assente anche il termine piroscafo: da che cosa si deduce, dunque, che nel 1870 si è ormai nell'età del vapore? da pochi riferimenti, i1 principale dei quali si trova stranamente alla voce rango e almeno in parte giustifica le sensibili omissioni prima rilevate. In questa oc1,;asione il Fincati scrive: per lo passato coi nomi qualificativi di vascello e fregata ai quali si aggiungeva di primo, di secondo, o terzo rango, ecc., indicavasi esattamente, la qualità, la forma, la forza, l'alberatura e persino l'equipaggio e la spesa di una nave da guerra. Coi nuovi generi di costruzione e d 'alberatura, i nomi di vascello, di fregata, di corvetta, ecc. non hanno più alcun significato fisso e non ingenerano che confusione. Io credo che sarebbe cosa molto sensata abbandonarli come si sono abbandonati quelli di tanti altri belli e forti arnesi andati in disuso, e distinguere le nuove navi, come gli assennatissimi inglesi, col nome generale di Nave, specificando di primo, secondo, terzo, quarto, quinto rango, ecc.; e con que11o particolare di corazz.ata specificando pure il rango [...]. La qualifica di piro premessa alla specie di nave è diventata inutile e ridicola t...]. Ora quante sono le navi da guerra a vela? Queste sono diventate la rarissima eccezione e quelle a vapore le ordinarie ...

La voce corazzata è semplicemente "una nave rivestita più o meno completamente di lastre in ferro" (e il rostro? Come meglio vedremo in seguito trattando delle costruzioni navali, il Parri1li ne fa invece tutta la storia). La voce rostro, al tempo usata insieme con quella sperone senza particolari preferenze, è invece preferita dal Fincati, che - sia pure omettendo le considerazioni sulla sua efficacia - la definisce così: "è la parte della prora colla quale una nave va a cozzare contro una nave nemica. Il nome di rostro che si dà alla medesima è una bella ed esatta metafora ed è voce di buona lingua; anche il nome di sperone è una metafora ma per essere buona esso dovrebbe stare a poppa ma non da prora. Se come venne da taluno proposto si faranno navi con un rostro anche di poppa, esso sarà benissimo chiamato sperone". È riferito al vapore e agli ordinamenti francesi e italiani del momento anche il termine squadra, "parte, frazione di


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un'armata navale, piccola armata. Squadra d 'evoluzione, riunione di navi che devono fare esercizi di tattica. Squadra d'osservazione, riunione di navi incaricate di osservare anche in tempo di pace i movimenti delle forze navali straniere [speculare al termine esercito di osservazione, che controlla le fortezze - N.d.a.]". Et de hoc satis: i] lavoro del Fincati ha tutta l'aria di essere stato concepito e in gran parte compilato quando le navi a vapore erano ancora un'eccezione, e comunque risente fin troppo delle giovanili esperienze dell'autore nella marina a vela e del suo amore per ]a Marina veneta. In tal modo egli, ufficiale di marina cresciuto nel periodo velico, conserva la mentalità della vela e rimane troppo indietro; i1 civile Parrilli invece coglie meglio le novità e va forse troppo avanti, ma almeno affronta la realtà del momento. Tuttavia, il contributo del Fincati è assai bene accolto: Jo dimostrano due favorevoli recensioni. La prima, sulla Rivista Marittima7, che pur senza accennare al suo dissenso con il Parrilli ne approva integralmente le finalità e i giudizi; un'altra recensione su1Ja Nuova Antologia (a firma F.) 8 dopo aver citato parecchi passi dell'introduzione attacca direttamente il Parrilli, affermando che il suo linguaggio solo per i dotti non serve, "tanto quella gente li, se sta in terra, non ci pensa perché ne è fuori; e se sta in mare, ci pensa anche meno appunto perché c'è dentro e ha il capo e lo stomaco occupati di ben altro". Per di più, ravvisando l'esistenza di quattro o cinque diverse lingue marinaresche italiane, il Parrilli "si asside arbitro in mezzo a ]oro e ne crea, o press'a poco, una quarta che è la negazione de11a filologia e della tecnica, della storia e dell'uso, e che pertanto potrebbe confondere le idee e sviare assai teste le quali, ai giorni che corrono, non hanno certamente troppa zavorra di studi. Gli è un vero e serio pericolo perché senza l'unità della nomenclatura non ci può essere né quella dell'arte, né quella de] comando; la questione è scientifica quanto pratica; morale quanto materiale; disciplinare quanto tecnica. Ma questa lingua unica c'è? Il Fincati ]o dimostra". Giudizi e espressioni che fanno pensare che dietro la sigla "F." si nasconda lo stesso Fincati... Sembra proprio che ]a scarsa fortuna di ambedue le edizioni del dizionario del Parrilli sia speculare alla scarsa fortuna del suo unico estimatore, l'ammiraglio Persano. In una lettera del 20 dicembre 1869, quest'ultimo afferma di non aver ancora letto il dizionario del Fincati, ma che quello del Parrilli è un "lavoro esimio", pur non essendo i1 suo autore uomo di mare. E aggiunge: "so che il Fincati lo combatte acerbamente e crudamente per alcuni vocaboli, che pure sono italiani antichi".9 Naturalmente il Lumbroso, nella sua postilla alla predetta lettera - peraltro riferendosi solo all'edizione 1846 del Parrilli - concorda con il Persano e nota che l'opera dello scrittore

1.

"RivistaMarittima" 1869, pp. 1816-1817. "Nuova Antologia" Voi. 13 - Fase. IV aprile 1870, pp. 832-835. A. Lumbroso, Carteggio di un vinto (Cit.), pp. 462-463.


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napoletano è molto più poderosa di quella del Fincati; perciò "le sue spiegazioni sono molto più estese e istruttive, con elementi storico-etimologici". A ciò si aggiunga che la parte francese del dizionario del Fincati è ben poca cosa, mentre per il Parrilli "bisogna tener presente che, quando scrisse, sebbene il periodo velico storicamente fosse cessato, la vela imperava ancora". Particolare interessante, anche il Persano ha avuto interessi linguistici e avrebbe voluto compilare un suo dizionario. In una lettera dell' 11 settembre 1872 nella quale ancor loda l'opera del Parrilli (forse riferendosi, questa volta, all'edizione 1866) scrive di aver abbandonato l'idea di un dizionario di marina "appena venni in cognizione di quello pubblicato dal barone Parrilli di Napoli, che menziono nel mio Diario, perché oltre di essere compitissimo in ogni parte, è lavoro meritevole e improbo; di molto superiore al mio, per quanto gentilmente lodato dal Jal" 10 • Il panorama della linguistica navale del periodo considerato si ferma mestamente ai lavori del Parrilli e del Fincati e alle relative polemiche: da citare, comunque, il Trattato elementare di nautica teorico-pratico (1856) del tenente di vascello Tommaso Bucchia 11, ufficiale di Marina come il Fincati proveniente da]la Marina austriaca, poco fortunato protagonista della difesa di Venezia nel 1848-1849, a Lissa Capo di Stato Maggiore del Vacca e anch'egli acerrimo nemico del Persano. Il libro del Bucchia - già insegnante alle scuole navali di Venezia e Genova - tratta esclusivamente la scienza della navigazione, quindi non contiene ekmenti di interesse tattico o strategico; esso viene molto favorevolmente recensito sulla Rivista Militare da Antonio Sandri, altro ex- ufficiale della Marina austriaca protagonista della battaglia di Lissa, secondo il quale "è desiderabile che quest'opera divenga testo delle Accademie militari-navali e delle scuole di nautica di tutta Italia" . 12 Nonostante questo panorama assai ristretto, la Rivista Marittima nel 1870 pubblica il suo primo studio organico in materia linguistica navale, dovuto a un nome illustre della storia navale: Carlo Randaccio. 13 Lavoro prezioso, perché una volta tanto l'autore si mantiene lontano da polemiche che hanno poi la loro radice in inimicizie personali, e vuol fornire un primo, distaccato bilancio, esordendo con la constatazione che "gli Italiani, i quali furono i primi a comporre vocabolarii latini e vocabolarii del patrio loro linguaggio, e che, dopo la caduta dell'Impero d'Oriente, furono in tutta Europa maestri nell' arte di costruire le navi e del navigare, non ebbero dizionarii di marina propri che nel corrente secolo. Della qual cosa non si meraviglierà

10

11

''"

ivi, p. 528. Auguste Jal, bibliotecario e studioso francese, ha pubblicato tra l'altro un Glossaire nautique (1848) e un Dictionnaire critique et historique (1867). Genova, L. Ponthenier E C. 1856. "Rivista Militare" 1857, Voi. I Fase. I, pp. 296-308. C . Randaccio, / dizionari di Marina italiani, "Rivista Marittima" 1870, III Trim. pp. 1950-1964.


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punto chi pensi che le marinerie dei diversi Stati italiani, straniere sempre, nemiche spesso le une alle altre, usavano parlando, e taluna volta anche scrivendo, il proprio dialetto, né sentivano alcun bisogno di un linguaggio comune". Questo linguaggio comune non esisteva né poteva esistere: su questo punto il Randaccio concorda con lo Stratico (Cfr. Vol. I, cap. IV e V) e dissente dal Fincati, il quale - egli afferma - per convincersi che la sua tesi sulla rassomiglianza delle varie lingue italiane è errata, "non ha che a consultare i libri di nomenclatura del materiale delle marine sarda, napoletana e veneta" [libri che il Randaccio, come ufficiale commissario, conosce assai di più del Fincati - N.d.a.]. Al tempo stesso, egli ritiene che debba essere sempre l'uso comune e quotidiano di un vocabolo a dettar legge e che non convenga opporsi a tale uso; quindi non concorda né con il Fincati né con il Parrilli, quando ad esempio l'uno propone di sostituire il termine comunemente usato rotta con cammino, e l'altro con via: "ond'io sto coli' Alberti, collo Stratico, col Tonello e coll'Elenco delle voci di comando della Regia Marina, che tutti dissero rotta". Pur ammettendo che, nel campo del linguaggio marinaresco, gli italiani, che sono stati i più antichi navigatori tra i popoli moderni, hanno dato moltissimo agli altri e da essi preso poco, il Randaccio ritiene che mantengano in uso quelle poche voci straniere che hanno adottato, sia per ragioni di convenienza, che per ragioni di necessità; perciò come lo Stratico egli è convinto antipurista, e alla Crusca giustamente rimprovera di non aver tenuto conto di autori navali italiani dei secoli XVI e XVII da considerare classici come il Crescenzio, il Falconi, il Pantera e il Dudleo. Dà però ragione allo Stratico quando afferma che il linguaggio marinaresco tende a essere cosmopolita, e non condivide le critiche che sia il Fincati che · il Parrilli muovono allo stesso Stratico, i cui gallicismi - diversamente da quanto afferma il Parrilli - non sono poi molti, se si tiene conto che quando all'inizio del secolo XIX scrive il suo dizionario, tutta l'Italia è sotto la dominazione o l'influenza francese . Secondo il Randaccio lo Stratico si è attenuto esclusivamente all'uso; perciò "la censura che per questo gli fa il barone Parrilli è al contrario un elogio, se si guardi alla definizione della parola vocabolario": né è colpa sua se, date le straordinarie innovazioni avvenute da a1lora in poi nell 'arte nautica, l'uso delle parole risulta nel 1870 assai mutato. Piuttosto, lo Stratico ha il torto di non aver sempre indicato da quale dialetto regionale ha tratto i suoi vocaboli, "onde venne quel poco di confusione che fu notata dal comandante Fincati , senza che per ciò fosse giusto di chiamare, come · egli fece, l'opera dello Stratico "una Babele e un guazzabuglio". Si deve anche tenere conto che, come afferma lo Stratico stesso nella prefazione, la sua opera non è né completa, né priva di errori. Non è completa, perché tutti i dizionari sono presto o tardi superati dalla successiva pubblicazione di libri e trattati di argomento navale, dalla descrizione di viaggi marittimi ecc.; non può essere senza errori, perché i termini marinareschi sono poco


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conosciuti, quindi "non vi sono che gli uomini di mare ai quali si accordi il diritto di giudicarne, e questi talvolta non egualmente informati di tutti i termini dell'arte stessa, o accordando per uso o per la loro pratica la preferenza a certe voci e frasi anzi che ad altre, le reputano le sole da accettarsi, rifiutandone alcune ancorché equivalenti e da altri accettate. Egli è perciò che raccogliendo la varietà dei dialetti marini, come in parte ho procurato di fare, si verrà a ottenere un vocabolario sempre più soddisfacente". A parte questi difetti, per il Randaccio il vocabolario dello Stratico "fu ai tempi suoi cosa buona e lodevole", e ancora in quel momento oltre ad essere il solo che riporti a fianco dei vocaboli italiani gli equivalenti inglesi, "è pregevole opern e usabile, in parte utilmente". In effetti - notiamo noi - anche nel 1937 il Dizionario di Marina dell' Accadernia d'Italia vi fa a volte riferimento .._ In conclusione, la linguistica militare del periodo 1848-1870 ha due facce, una positiva e l'altra negativa. Da una parte, sia pure percorrendo diverse vie tende a ricomporre in un unico linguaggio nazionale l'eredità nautica delle varie Marine italiane del passato; dall'altra è di assai poco aiuto per chi voglia ricostruire il volto dell' arte militare marittima nella età del vapore. In proposito, il tentativo del Parrilli rimane una vox clamans in deserto non solo in fatto di strategia: ad esso faremo. perciò particolare riferimento nel prosieguo dell'opera.

Chi ha inventato la strategia navale? Controverse ragioni della sua ritardata nascita come teoria Manca tuttora, in Italia e forse non solo in Italia, qualsiasi ricerca epistemologica sulla strategia navale, né si sa chi l'ha fondata e chi ne ha indicato per primo i contenuti. Anche Bonarnico e Castex non si soffermano su questo argomento; però il Parrilli non ha dubbi e sembra essere il solo ad aver affrontato questo problema: primo fra tutti a trattare sì difficile argomento sembra essere stato il generale britannico Howard Douglas chiarissimo per la sua dotta opera sull'artiglieria navale, il quale senza punto assumere l'autorità di un trattato intorno a questo novello argomento, pubblicando un libro con la epigrafe di Strategia marittima a vapore, ne discorre egregiamente in tesi generali; né noi sapremmo far di meglio che compendiarne le idee sviluppate, accompagnandole con le osservazioni dell'ammiraglio russo Boutokov, che dopo del Douglas è stato il primo a trnttare siffatto argomento.

Qui cominciano i dubbi: perché il Douglas, autore di un trattato di artiglieria navale mai tradotto in italiano, del quale si conosce solo la traduzione francese 1853 14, nel 1858 ha effettivamente pubblicato a Londra un "

H. Douglas (gen.), Traité d'artillerie navale, Paris, Correard 1853.


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libro dal titolo On naval Warfare with Steam [cioè: Sulla guerra navale nell'età del vapore - N.d.a.], che è stato tradotto in francese dal tenente di vascello François - Xavier Franquet nel 1862 con il titolo (ben diverso) di Stratégie maritime à vapeur1~ (titolo al. quale con ogni probabilità si riferisce il Parrilli, che evidentemente ha letto l'opera nella traduzione francese). Dal canto suo l'ammiraglio russo Gregory Boutak:ov nel 1837 e nel 1855 ha pubblicato nella lingua del suo paese dei trattati di tattica navale, ma non di strategia; il secondo (quello del 1855) è stato tradotto in francese da Henry La Planche nel 1864-1865 con i] titolo Nouvelles bases de tactique navale pour les navires à vapeur16 (Nuovi fondamenti di tattica navale per le navi a vapore). Vi è, comunque, un primo dato certo da considerare: l'ammiraglio francese Louis-Emile Botiet - Willaumez (massima autorità de] tempo in materia di tattica navale) affronta per primo l'argomento della strategia navale, sia pure per negarne la necessità e mettere in dubbio la possibilità di definirne i contenuti. Egli infatti così inizia il suo libro Batailles de terre et de mer jusques et y compris la bataille de l'Alma (1855): poche persone ignorano il significato, molto diverso, dei due tennini tattica e strategia. La tattica, secondo Jomini, è l'arte di ben preparare e ben condurre le battaglie; la strategia, al contrario, è l'arte di individuare i punti decisivi del teatro di guerra e le linee di comunicazione lungo le quali gli eserciti devono muovere per arrivarvi. In campo terrestre, dall'una e dall' altra dipende inevitabilmente il successo delle operazioni di un esercito; ma in campo marittimo le cose vanno diversamente. Mentre la tattica navale è soggetta a precise regole la cui esecuzione pratica è assai delicata, si può affennare che la parola strategia non ha affatto un senso ben preciso per quanto riguarda le flotte, soprnttutto dopo l'invenzione della bussola; per quest'ultime il teatro delle operazioni è la vasta e uniforme superficie liquida del mare, che arrossano con il sangue dei loro marinai; la loro linea di comunicazione coincide con la direzione indicata dall' ago magnetico per fare rotta da un punto aJl'altro, tracciando il loro solco di schiuma sullo stesso mare, vasta rete di mille itinernri aperti per tutti gli approdi. Sulla superficie terrestre, gli eserciti incontrano in ogni momento numerosi ostacoli naturali, montagne o foreste, fiumi o pianure, che sono altrettanti elementi importanti da considerare nelle combinazioni strategiche. Per le flotte in mare non esiste, a vero dire, che una sola combinazione importante di questo genere, e questa importanza è ancora diminuita da quando la propulsione a vapore ha accresciuto il suo ruolo: è il vantaggio del vento, vantaggio che gli ammiragli si sono caparbiamente disputato specie nelle battaglie del XVIII secolo. 17 15 ·

" 17·

Paris, Sceaux 1862. G. Boutakov (Amm.), Nouvelles bases de tactique navale, Paris, Bertrand 1864; ID.; Nouvelles bases de tactique navale pour les navires à vapeur, Paris, Dupont 1865 (estratto da1la Revue Maritime et Coloniale giugno 1865). L.E. Botiet - Wtllaumez (vice - Amm.), Batailles de terre et de mer jusques et y compris la bataille de l'Alma, Paris, Dumaine 1855, pp. 1-2.


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Per il momento, dunque, occorre prendere atto che il Boliet diversamente da Jomini e dagli scrittori terrestri non considera come basi della strategia marittima anche elementi di carattere storico, politico o spirituale e non prende in esame l'influsso - importante anche in camp_o marittimo - di quegli elementi geografici che interessano anche la strategia navale (porti, basi, stretti, insenature ... ) volgendo lo sguardo solo alla piatta e uniforme superficie del mare, nella quale non è evidentemente possibile distinguere quei punti strategici e quelle linee di comunicazione che formano l'ordito della strategia terrestre. Una concezione che riduce la strategia in generale a un fatto puramente geografico, nella quale sono assenti elementi clausewitziani, o fattori relativi alla preparazione e condotta delle forze; per contro, tale concezione porta il Botiet, a torto, a negare che possano esistere vie di comunicazione marittime, date se non altro dalle rotte preferenziali che di fatto conviene seguire, per una serie di ragioni. L'esame dei lavori di coloro che, invece, credono nella strategia anche in campo navale e vogliono definirne i contenuti dovrebbe iniziare con lo studio dell'originale inglese del libro del Douglas, per stabilire se parla solo - come nel titolo - di naval warfare, oppure se usa anche la parola maritime (o naval) strategy. Occorrerebbe, del pari, verificare se il Boutakov tratta solo di tattica navale, oppure se tocca anche l'argomento dei contenuti teorici della strategia, cosa che ci appare poco probabile: purtroppo abbiamo potuto rintracciare in Italia, finora, solo la traduzione francese del Naval wa,fare in Steam del Douglas. Di essa pertanto daremo conto, rassegnandoci per il momento a non raggiungere del tutto i primi due obiettivi di ricerca, che pure sono fondamentali per stabilire chi, in Europa, tratta per primo di strategia navale. È lecito dubitare del fatto che il Douglas, come sostiene il Parrilli, sia veramente il padre della teoria strategica navale. Infatti l'ammiraglio Castex un nome che offre le massime garanzie - cita solo l'edizione originale inglese del suo libro, includendola tra le opere che "n'agitent, comme la presque totalité des oeuvres des écrivains francais, que des questions tactiques"; e sul lavoro del Boutakov si limita a osservare che si occupa solo di problemi di cinematica navale... 18 Scorrendo, poi, la traduzione francese del Naval Wa,fare, si arriva subito alla conclusione che l'autore tratta pressoché esclusivamente di problemi di tattica navale, pur usando spesso il termine stratégie maritime. Lo stesso fa il suo traduttore e commentatore francese Franquet, il quale come fa anche il Parrilli - mescola insieme tattica e strategia, senza mai deprecare o far notare l'inevitabile confusione che ne deriva (come sarebbe doveroso per chi, come lui, oltre a tradurre intende vagliare attentamente la materia). Nelle considerazioni preliminari che precedono il testo, infatti, il Franquet accenna a ''una dotta dimostrazione del generale Howard Douglas in favore della nuova strategia a vapore", ma non ne fornisce una definizione e anzi si dilunga su particolari tecnici riguardanti l'elica, le macchine ecc., pe1 poi parlare esclusivamente di tattica, ricordando tra l'altro le guerre puniche 11

Amiral Castex, Op. cit., Voi. I pp. 33-34.


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"in relazione ali' analogia tutta naturale che deve esistere tra la tattica delle flotte a vapore e queUa delle antiche galee". D'altro canto, com'è possibile che, su un argomento di tale importanza, il Franquet si sia presa la licenza di tradurre anche nel testo naval wa,fare con strategia marittima a vapore? In definitiva l'ipotesi più probabile ci sembra quella che il Franquet abbia modificato il titolo inglese facendovi comparire il termine strategia, proprio perché il Douglas lo usa frequentemente nel testo, e questo era un fatto da mettere in evidenza. Accredita questa ipotesi anche l'accenno del generale inglese, fin dalle prime pagine del libro, alle circostanze nel1e quali è nata la strategia marittima, sia pur confondendola come tanti con la tattica: noi siamo all' inizio di una nuova era della strategia marittima, in seguito all'introduzione della propulsione a vapore nei bastimenti da guerra senza alcuna eccezione, da quelli più piccoli ai grandi vascelli di linea. Questa nuova potenza motrice ha necessariamente modificato, e anzi radicalmente capovolto, l'attuale tattica della guerra sugli Oceani. Fino a oggi l'esecuzione delle evoluzioni navali dipendeva dalle condizioni atmosferiche; e spesso i piani meglio concepiti per l'allan:u u la difesa sul mare sono stati vanificati, proprio quando stavano per riuscire, da una bonaccia improvvisa o da cambiamenti imprevisti della direzione del vento; invece oggi un sistema meccanico consente a una nave di muoversi a volontà con una velocità più o meno grande, di rimanere immobile o di cambiare la direzione del movimento solo con la forza del timone. Perciò i comandanti delle navi potranno con piena sicurezza mettere in pratica le manovre da loro concepite in precedenza, sia per iniziare il combattimento, sia per impedire le manovre dei loro avversari prima e durante il combattimento [ ...l. Si è osservato che quando le complicate manovre richieste per far muovere un vascello a vela saranno sostituite dal governo assai più semplice di una macchina a vapore, la strategia marittima sarà in gran parte indipendente dall'abilità nautica e dalla pratica marinaresca; di conseguenza le evoluzioni di una flotta saranno ricondotte alla precisione delle manovre militari sul campo di battaglia. '9

Fino a che punto questi mutamenti favoriscono il tradizionale predominio della RoyaL Navy? Come si è visto (Voi. I, cap. XV), secondo gli autori francesi della Restaurazione (de Joinville, Paixhans ecc.) l'introduzione del vapore avrebbe finalmente posto fine al primato dell'Inghilterra sui mari, basato sulla superiore abilità marinaresca sempre dimostrata dai suoi equipaggi; ma il Douglas, pur ammettendo che tale superiore abilità nella manovra delle vele ormai non serve più, non è di questo parere. Questo avverrebbe - egli osserva - solo se la Marina britannica rimanesse inerte di fronte ai nuovi ritrovati, e le altre Marine concorrenti progredissero: ma così non è. Tutti riconoscono che oggi i marinai inglesi rimangono

1 •·

H. Douglas, StraJégie maritime ... (Cit.), pp. 3-5.


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all'avanguardia non solo nella manovra delle vele, ma anche nella condotta delle macchine a vapore. Perciò "si continua a imitarli il più presto possibile in tutto ciò che riguarda la tattica navale, sia con navi a vela che con navi a vapore"; e essi sono in grado di approfittare prontamente di tutti i progressi che la scienza e la pratica suggeriscono, per affinare le loro capacità professionali. Questo solo fatto consente ai comandanti inglesi di conservare la loro attuale superiorità su quelli del continente: ma i vantaggi dell'Inghilterra sono ancor più forti, se si paragonano i marinai inglesi a quelli delle altre nazioni. Quest'ultimi sono coscritti tratti in gran parte dalle città e dalle campagne deJl'intemo, quindi non banno altra pratica marinaresca all'infuori di quella che consente la routine del servizio a bordo di navi da guerra che normalmente si mantengono in acque europee; i marinai inglesi invece, appartenenti a un popolo abituato da lungo tempo alle grandi imprese marittime, sono abituati dal servizio in una grande marina mercantile a svolgere i loro compiti specifici in tutte le regioni della terra, trasportando le mercanzie dalla madrepatria alle lontane colonie . Senza contare che le macchine a vapore inglesi, come i macchinisti inglesi, sono le migliori del mondo ... I vantaggi che la superiorità marittima consente all'Inghilterra sono aumentati, non diminuiti con la nuova forza motrice; perciò si può ragionevolmente supporre che le altre nazioni continueranno piuttosto a seguire che a precedere l'Inghilterra in materia di strategia navale [nostra sottolineatura: il traduttore questa volta usa questo termine, e non strategia marittima - N.d.a.]. Le rimanenti considerazioni del Douglas riguardano pressoché esclusivamente due argomenti del tutto estranei alla strategia, quale noi oggi la intendiamo: la storia della propulsione a vapore, le caratteristiche della ruota e dell'elica, i problemi cinematici e di impiego della macchina a vapore, e la nuova tattica imposta dal mutamento del sistema di propulsione. Di quest'ultima tratteremo in seguito, soffermandoci ora solo su alcune considerazioni che possono avere qualche interesse strategico. In proposito il Douglas cita favorevolmente un trattato del 1846 del l'ammiraglio Bowles, secondo il quale "la Marina è entrata in una nuova era, e il vapore permette agli ammiragli di dirigere le loro manovre e le loro operazioni ispirandosi ai principi della scienza militare"20 • L'insistenza sui vantaggi e sulle nuove possibilità che apre la propulsione a vapore potrebbe far supporre che il generale inglese considera la navigazione a vela ormai un retaggio del passato: ma non è così. Nei primi tempi della propulsione a vapore - egli osserva- Paixhans e altri autori [Cfr. Voi. I - cap. XV - N.d.a.] hanno sostenuto che una piccola nave da guerra a vapore, con scarsa velatura o senza vele, avrebbe potuto attaccare e catturare un grande vascello a vela. Questo può avvenire solo in calma di vento e/o in mari o "'

ivi, pp. 128-lW.


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acque ristrette o interne, che non consentono ai vascelli di manovrare e di inseguire le piccole imbarcazioni: · ma per quanto riguarda la strategia a vapore sugli oceani [al momento, nessuna nave solamente a vapore ha ancora valicato l'Atlantico N.d.a.], i vascelli devono ancora essere attrezzati con una velatura completa. Hanno quindi bisogno, come in passato, di un buon numero di abili marinai; perché l'abilità marinaresca è più necessaria che mai sulle flotte a vapore, e la nazione che supera le altre sia in quantità che in qualità degli equipaggi, si troverà sempre in vantaggio. Hanno quindi torto coloro che pensano che la strategia a vapore comporti l' abolizione delle vele, anzi è proprio a bordo delle navi a vapore che è necessario disporre di buoni marinai. 21 Le navi da guerra a vapore devono conservare le vele anche per poter economizzare il combustibile: giungere allo scontro con il nemico con poco carbone potrebbe comprometterne l'esito. A battaglia finita la flotta deve sostituire la vela al vapore, perchè il carbone potrebbe essere stato consumato del tutto o quasi durante il combattimento; bisogna considerare che anche il nemico ha consumato il suo combustibile, ciò che potrebbe impedirgli di ritirarsi. Bisogna avere la più grande cura per l'efficienza della macchina, dell'elica e delle vele: giungere a un combattimento con l'elica rotta o ingarbugliata sarebbe un grave inconveniente. Sono, comunque, ]e esigenze connesse con il rifornimento del carbone ad avere il maggiore influsso sulla strategia navale de1le flotte, e ad avvicinarla alla strategia terrestre: le combinazioni strategiche non hanno finora fatto parte del sistema delle operazioni delle flotte a vela; ma con le flotte a vapore è assolutamente necessario farvi ricorso. I vascelli a vela avevano a bordo provviste e materiali che li mettevano in grado di tenere il mare e continuare il loro servizio per lungo tempo; ma la navigazione delle navi a vapore è condizionata dalla disponibilità di combustibile. Poiché hanno bisogno di fare scalo ad intervalli di tempo ravvicinati in porti che dispongono di depositi di carbone, esse esigono l'organizzazione di un sistema di trasporti a vapore analogo a quello che, in campo terrestre, serve per mantenere aperte le comunicazioni tra un esercito in campagna e la sua base di operazioni. 22 Va notato che con queste parole il Doug]as, forse perché è un generale dell'esercito, ha il merito di ammettere - diversamente dal Bouet-Willaumez - che anche in campo marittimo la ridotta autonomia delle flotte a vapore richiede l'organizzazione di linee di comunicazione:

21 22 ·

ivi, pp. 121-122. ivi, pp. 114-115.


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fatto del resto confermato dalla campagna nava]e del 1866, esaminata nel precedente cap. XII. Ciò non toglie che l'autore inglese non dia mai una definizione di strategia o di tattica, non cerchi insomma di caratterizzare meglio la strategia o la tattica dal punto di vista teorico e epistemologico. Questo limite rende un lodevole tentativo di estrapolazione, e non una semplice citazione del Douglas, le già citate definizioni di strategia e di tattica a vapore fomite dal Parrilli, che qui riprendiamo per comodità del lettore: -

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STRATEGIA MARITTIMA DET PIROSCAFI: "arte di far muovere e combattere le annate, composte di navi mosse dalla forza del vapore, regolandone le mosse giusti i diversi ordini di battaglia, di marcia e di ritirata"; TAIT/CA NAVALE: "arte di attelar le armate nei diversi ordini di marcia, di convoglio, di caccia, di ritirata e di battaglia, e di farle eseguire tutte le evoluzioni indispensabili per passare da un_ ordine all'altro. Quest'arte era basata a principii scientifici; e sottoposta a regole certe, comprese in appositi trattati f... I trattati un tempo assai stimati ma oggi addivenuti ormai inutili per l'applicazione delle macchine a vapore ad ogni ordine di navi"; TATTICA A VAPORE (dal francese Tactique à vapeur) "arte di attelare una squadra di piroscafi nei diversi ordini di marcia, di convoglio, di caccia, di battaglia e di ritirata, e di farle eseguire le evoluzioni indispensahili per passare da un ordine all'altro. Diversi scrittori si sono occupati di siffatta materia e segnatamente l'ammiraglio russo Boutakov e il celebre generale d'artiglieria Sir Howard Douglas, ma poiché nulla ancora sembra deciso sul proposito, dalle marinerie di 1° ordine [Inghilterra, Francia, Russia - N.d.a.], le cui squadre vanno facendo continui esperimenti in fatto di evoluzioni navali a macchina, cosl ci limiteremo a rinviare il lettore a11'articolo strategia a vapore, nel quale abbiamo esposto i princip1 generali sui quali quel dotto autore vorrebbe fondata la novella tattica a vapore".

In effetti alla voce Stràtegia a vapore, definizione a parte, il Parrilli non fa che riassumere le considerazioni di carattere tattico del Douglas. Superfluo sottolineare ancora che la confusione tra strategia e tattica che traspare dalle definizioni del Parrilli rispecchia quella di tutto il testo del Douglas; aggiungiamo comunque che un confronto tra le definizioni di strategia e tattica è indispensabile, perché da esso si evince che la definizione generica e insoddisfacente è que]Ja di strategia. Nulla da dire sulle definizioni di tattica, se non che la suddivisione in due tattiche è inopportuna, · ormai "datata" e oltre tutto non aderente alla realtà: tant'è vero che a Lissa il Persano distingue tra tattica delle corazzate e tattica delle navi in legno, non tra tattica a vela o vapore __ _ Se non altro, il Parrilli ha il merito di aver posto per primo il problema della definizione di strategia: per il resto, anche Persano nel 1866 più volte


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ne parla e non sempre a sproposito, anzi più a proposito del Douglas e del Parrilli. Nel suo memoriale alla commissione d'istruttoria al processo, infatti, il Persano, come si è visto, afferma che dopo l'avvento del vapore è possibile compilare dei piani strategici,"ma per fissare il piano d'una battaglia occorre anzitutto conoscere, come è naturale, la disposizione militare dell'oste nemica".21 Considerazioni teoricamente ineccepibili, anche se subito dopo distorte in modo da dimostrare che, a Lissa, il Persano non avrebbe potuto fissare in precedenza un piano d'attacco, o almeno orientare i sottoposti. Da esse si deduce che la strategia navale serve a ben preparare la battaglia di un'intera armata navale, mentre la tattica serva a impostarla e condurla: un sensibile progresso rispetto all'ordine all'armata del 15 giugno prima della partenza da Taranto, nel quale l'ammiraglio esordisce cosl: "l'armata che ho l'onore di comandare si può dire la prima che contiene tutti gli elementi di forza navale coi quali è sorta, a lato di una nuova tattica, la strategia marina". 24 Che cosa intenda in questo momento il Persano per strategica marina, non è dalu di sapere ... Ricordiamo anche che molto prima del Parrilli e del Persano, nel 1861 Luigi Borghi, già tenente di vascello, ingegnere, poi deputato e generale ispettore del genio navale, sostenendo la necessità di costruire navi che privilegino la velocità dimostra di avere un concetto abbastanza chiaro delle differenze tra strategia e tattica navale. Se il nemico ha navi più veloci delle nostre - egli afferma - non sarebbe possibile obb1igarlo ad accettare battaglia in condizioni per noi vantaggiose, potrebbe riunire le sue forze a nostro dispetto e accetterebbe battaglia solo se è sicuro di vincere: questo per la gran tattica. Rispetto alla strategia dei mari [nostra sottolineatura - N.d.a.], colui che ha maggiore rapidità di movimento potrà piombare improvvisamente sopra uno dei punti delle nostre coste ed eseguirvi uno sbarco, anche dopo che la nostra flotta ha seguìto per qualche tempo la spedizione, la quale non poté però accompagnare sempre per difetto di velocità [... ]. Finalmente se una flotta nemica superiore in forze alla nostra bloccasse o vigilasse un nostro porto militare, sarebbe impossibile di fare uscire una spedizione in qualsiasi circostanza; mentre sovente un colpo di vento che obbliga la flotta nemica ad allontanarsi solo qualche ora dalla crociera può bastare ad una flotta più debole, ma dotata di maggiore

23 ·

"·

Cit. in D. Guerrini, Op. cit., Voi. li p. 53 l. ivi, p. 129.


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rapidità, per uscire, e guadagnando pur anche un'ora soltanto di marcia, rendere impossibile alla flotta nemica di raggiungerli. 25

Anche queste poche righe dedicate dal Borghi - pur senza akun interesse epistemologico - alla strategia e alla tattica in un lavoro su tutt'altro argomento, dimostrano che, già prima di Lissa, in Italia e all'estero si comincia a prendere atto che onnai esiste una teoria strategica sulla quale, accanto a molte idee confuse, non manca qua e là qualche sprazzo di luce, qualche intuizione esatta: ma in questo campo Lissa non funge affatto da spartiacque, e non ha alcun influsso. Fino al 1870, l'unica opera che in Europa tocca argomenti di interesse strategico è la Guerre maritime avant et depuis les nouvelles inventions (1869) del capitano di vasce1lo Richild Grivel, che (come scrive l'ammiraglio Castex) ha trattato l'argomento quasi esclusivamente dal punto di vista della guerra costiera, diffondendosi oltre misura sugli aspetti tecnici e attinenti al materiale del problema. Ma si deve notare che sono state proprio le preoccupazioni degli scrittori di fine secolo XIX in materia di difesa delle coste, che hanno portato la loro attenzione sul ruolo generale delle flotte, sul rapporto tra la loro attività e la difesa delle coste, tutte questioni che sono essenzialmente legate alla soluzione delle questioni di strategia navale. Il comandante Grivel è stato trascinato su questa strada. Egli apre prospettive innovatrici quando parla di "scelta del teatro strategico", di "tipo di guerra da adottare", di "sistema strategico" ecc.. Il fondamento delle sue idee in proposito è d'altronde poco felice; le sue vedute sulla guerra di corsa sono completamente sbagliate e la sua tesi sulla necessità di costituire una Marina speciale per la difesa delle coste è francamente criticabile. Ma è stato il primo a saper.guardare, presentandosi l'occasione, più in alto della tattica, e questo non va dimenticato.26 L'apporto del Grivel, convinto fautore della guerra di corsa e al commercio vista quale alternativa alla ricerca della battaglia decisiva tra flotte tipica della tradizione inglese, consente di richiamare l'attenzione su un'interfaccia importante: la nuova tattica come la nuova strategia riguardano esclusivamente lo scontro tra flotte, anche perché la convenzione internazionale di Parigi del 1856 aveva proibito la guerra al commercio e prescritto il rispetto della proprietà privata - anche se nemica - sul mare. Le istruzioni del Ministro Depretis al Persano nel 1866 prescrivono appunto il rispetto del traffico mercantile austriaco a meno che non trasporti materiale bellico, e restringono assai i tipi di merci da considerare di contrabbando, quindi soggetti a confisca.

25 •

"'

L. Borghi, Sull'ordinamento della Marina Militare Italiana, Torino, Eredi Botta 1861, pp. 451-452. Amiral Castex, Op. cit., Voi. I p. 34.


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Merita un cenno anche un altro lavoro del 1860 del Parrilli, nel quale esamina le più celebri battaglie navali combattute dal 1797 al 1827.27 0pera diligente e ben scritta, con molta attenzione agli aspetti tattici e alla personalità dei comandanti, la quale però non dice nulla di nuovo. Nell'ultima e conclusiva pagina, comunque, il Parrilli giustamente afferma che con la battaglia di Navarino (1827), nella quale i vascelli anglo-franco-russi hanno distrutto la flotta turco-egiziana al1'ancora in quella baia, ha termine la secolare esistenza della ormai consolidata tattica navale del periodo velico e comincia a prendere forma la nuova tattica navale del periodo del vapore, che segna una nuova era nella vita della Marina. Il Parrilli, così come il Douglas e tutti gli scrittori finora esaminati, indica nella propulsione a vapore la causa della nascita di una nuova teoria della guerra marittima, e in particolare di una nuova teoria strategica; così fanno più tardi (nel 1881) Domenico Bonamico e A.T. Mahan (molto dopo di lui). Questo spiega anche la ragione del ritardo della nascita della teoria strategica marittima rispetto a non tutti sono concordi. 1n particolare, forse sulle tracce del Grivel Domenico Buonarnico nel periodo 1879-1881 è il più convinto assertore del legame tra la nuova teoria strategica e il vapore, che avvicina la guerra terrestre a quella marittima non solo con l'incremento della mobilità delle flotte e la trasformazione in certi di elementi che nel periodo velico erano incerti, ma con la nuova importanza assunta dalle basi e dagli elementi geografici in genere nella guerra marittima: colla trasformazione della mobilità delle flotte, la guerra navale tende ognor più a trasformarsi in guerra costiera, e questa diverrà col tempo la forma principale della guerra marittima [... ]. Se per il passato tale forma della guerra era quasi impossibile per le condizioni difficili della navigazione costiera e per l'insufficienza della mobilità, oggi non riconosciamo più vincoli di sorta, e la forma de1la guerra che porta le forze direttamente a contatto dei loro obiettivi è quella che offre meno possibilità di successo. Sulla costa stanno o mettono capo dritto, gli obiettivi della guerra marittima, ed è solo l'impossibilità di conseguirli che ha respinto i vascelli [a vela] ad una forma meno imperfetta e meno decisiva di operazioni navali. Il dominio del mare, che non ammetteva altra soluzione che la guerra d'alto mare, può oggi conseguirsi o contendersi da qualsiasi flotta o flottiglia, senza perdere il contatto tattico della costa o degli obiettivi. 28

Bonamico, dunque, è l'autore che all'avvento della propulsione a vapore attribuisce i riflessi maggiori: non solo la nascita di una nuova teoria strategica che prima non era possibile, ma anche la trasformazione della

" "

Cfr. G. Panfili, Le più celebri battaglie navali combattute dal 1797 al 1827 · Memorie storiche, Napoli Androsio 1860. D. Bonamico, Considerazioni sugli studi di geografia militare continentale e marittima, "Rivista Marittima" 1881, Fase. X-Xl, p. 131.


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guerra navale in guerra costiera e - di conseguenza - l'esigenza prima sconosciuta di una stretta correlazione tra strategie e operazioni terrestri e marittime. Peraltro in tempi a noi più vicini Castex non ha gli stessi entusiasmi e mantiene un atteggiamento un po' osci1lante. Pur ammettendo, come si è visto, che l'interesse degli studiosi di fine secolo XIX per la guerra costiera favorita dal vapore è coJlegato al rilancio deJla strategia navale, osserva che "Mahan indica come ragione probabile di questa situazione [cioè il ritardo degli studi di strategia marittima - N.d.a.] l'incertezza dei movimenti delle Marine a vela, dalla quale derivava l'impossibilità di determinare la durata degli spostamenti delle forze29 • Ma la spiegazione del fenomeno non è una sola; la strategia non si riduce affatto a dei grafici di marcia, e il suo campo è ben più vasto". 30 Nel secondo dopoguerra Cyril Falls riprende i topoi delle trasformazioni provocate dal vapore, con particolare riguardo all'accresciuta importanza delle basP 1; ma Herbert Rosinski commentando Mahan dissente nettamente dalle sue interpretazioni, perché "i movimenti delle squadre nelle guerre [del periodo velico] del passato non erano affatto così indeterminati e incerti come Mahan afferma. e d'altro canto, come ha dimostrato la grande guerra, gli spostamenti delle forze navali non sono affatto diventati più prevedibili, né - soprattutto - le possibilità d'incontrare il nemico sono diventate maggiori''32 • Durante il periodo velico - prosegue il Rosinsk:i - la strategia navale era basata - oltre che sull'individuazione dei lati deboli del nemico - proprio sulle caratteristiche della navigazione a vela: quindi l'avvento del vapore non ha provocato dei mutamenti così profondi come sostiene Mahan. Per di più nella prima guerra mondiale, la velocità e la precisione raggiunta dai movimenti delle navi a vapore non ha diminuito ma aumentato le possibilità di due flotte nemiche di non incontrarsi, mentre un elemento fondamentale quale l'immensità del mare non è stato enfatizzato come si era creduto, perché i teatri d'operazione non si trovano più nelle acque costiere ma in alto mare. Per Rosinski, dunque, l' attribuzione alla navigazione a vela delle difficoltà che hanno impedito fino all'avvento del vapore di razionalizzare la guerra su mare non regge, perché la vela è mezzo meramente tecnico; hanno invece contribuito a ritardare la sistemazione teorica della strategia navale i notevoli paradossi sui quali essa deve fondare la sua azione, come ad esempio quello che "una efficace tutela degli interessi nazionali può essere ottenuta solo con la conquista del dominio del mare mediante una

"' 30

Ji

n.

A.T. Mahan, Stratégie navale (1911), Traduz. francese Paris, Four nier 1924, p. 115. Amiral Castex, Op. cit., Vo1. I pp. 27-28. C. Falls, L'arte della guerra (Prefazione di P. Pieri), Bologna, Cappelli 1865, pp. 129130. H. Rosinski, Commentaire de Mahan, (Prefazione di H. Coutau - Bègarie), Paris, Ed. Economica 1996, pp. 24-25.


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battaglia decisiva". D'altro canto, paradossi come questo attengono solo alla natura particolare del mare come mezzo di comunicazione tra gli uomini, quindi sono indipendenti dai mezzi tecnici con i quali, nel corso degli anni, si è tentato di realizzare questo obiettivo. Un'altra verità a parere del Rosinski "incontrovertibile", ma stranamente dimenticata ai nostri giorni, è che nei XVill e nel XIX secolo la potenza dominante in campo terrestre è stata la Francia, e non casualmente solo nel campo della teoria strategica terrestre i francesi hanno dimostrato la loro tendenza alla razionalizzazione sistematica. Nel campo marittimo, invece, la Francia è sempre rimasta una potenza di secondo ordine: "di conseguenza, è stata costretta a sviluppare una concezione distorta della natura e dei problemi della guerra navale; dal canto loro, gli inglesi vittoriosi sono rimasti troppo profondamente ancorati alla loro indole empirica e estranea a qualsivoglia teorica, per aspirare a quella formulazione teorica della guerra marittima, verso la quale solo una imperiosa necessità li avrebbe spinti". Il Rosinsk.i, comunque, non fornisce una propria spiegazione, ma si limita a constatare che "il ritardo nello sviluppo della teoria navale sembra attendere ancora una interpretazione definitiva[ ...]. Quando essa vede finalmente la luce, ciò non è in alcun modo dovuto a forze esterne o a fattori coadiuvanti, ma a tentativi indipendenti fatti da universitari e da qualche autore particolarmente sensibile al deplorevole stato d'ignoranza che allora regnava". Alla luce dell' esame compiuto non si può concordare con il Rosinski, anche se taluni suoi rilievi critici sono assai originali e meritano la dovuta attenzione, soprattutto alla luce di quanto avviene a fine secolo XIX e specie nella prima metà del secolo XX. Senza dubbio il Douglas, il Parrilli, il Bonamico e gli altri scrittori navali del secolo XIX sono eccessivamente influenzati sia dalla precisione dei movimenti delle flotte a vapore (che ne avvicina le caratteristiche cinematiche a quelle degli eserciti), sia dalla loro necessità di frequenti rifornimenti di carbone, che le avvicina alla costa, rende assai più importanti le basi e consente - diversamente da quanto afferma il Bouel - di tracciare delle linee di comunicazione. Peraltro, con la crescente autonomia delle flotte a vapore questi caratteri si sono via via attenuati e ha ripreso proporzionalmente quota l'eredità nelsoniana della navigazione a vela, che con Mahan non si è avvicinata alle coste ma piuttosto ne è andata più lontano. Ciò premesso, il Rosinsk.i, confonde la teoria della guerra marittima con la teoria strategica che ne è solo una faccia, visto che da sempre esiste una prassi strategica marittima. In realtà fin dal periodo rernico sono numerose le opere sulla guerra marittima e sulla sua tattica, e anche in questo campo, da fine secolo XVII (Padre Hoste) in poi, numerosi scrittori stabiliscono il primato francese e anzi, sia pure rimanendo nel campo tattico, addirittura anticipano quella tendenza alla razionalizzazione sistematica che caratterizzerà anche l'opera degli scrittori terrestri francesi del XVIIl secolo e - per la strategia - gli scritti di Jomini nel XIX secolo. Né la ricerca della battaglia decisiva è "un paradosso" tipico della teoria della guerra marittima, come


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sembra far credere Rosinski: già nel Vol. I di questa opera abbiamo dimostrato che essa è il clou anche della guerra terrestre, affascinando persino l' antidogmatismo del Clausewitz. Se ci si rifà all'epoca in cui si sviluppa la propulsione a vapore, non vi è dubbio che essa costituisce, proprio in Francia, una spinta estremamente importante per affrontare con nuove prospettive non solo i problemi della guerra marittima, ma il problema strategico di fronteggiare la superiorità inglese sui mari: il vapore va però abbinato, fino a costituire un trinomio indissolubile, con la corazza e con le potenti artiglierie. Ha ragione Castex quando afferma che la strategia non si riduce a grafici di marcia; in effetti, già a qualche anno di distanza da Waterloo (Vol. I, cap. XV) gli autori francesi (e specialmente Paixhans) vedono nel trinomio prima detto - e non solo nel vapore - un mezzo strategico essenziale per dare finalmente alla Francia quel dominio del mare che invano aveva cercato nel periodo velico, rendendo improvvisamente obsoleto il gran numero di vascelli a vela che aveva fatto la gloria della Royal Navy. Questo fatto ha primari effetti strategici; cosl come non può non avere effetti strategici sia la possibilità di spostare rapidamente per mare - con navi a vapore - forti contingenti di truppe (facilitando la sorpresa ed evitando lo scontro con flotte magari superiori, come scrive lo stesso Rosinski), sia la molto maggiore importanza assunta da basi, arsenali, punti di rifornimento e raddobbo. Le nuove navi corazzate a vapore, poi, come dimostra la guerra di Crimea, si dimostrano molto più efficaci contro i forti costieri; per contro data la loro superiore velocità, consentono sia una più efficace difesa diretta delle coste, partendo da poche basi opportunamente dislocate, sia rapidi attacchi di sorpresa alle coste e sbarchi. Sono, questi, tutti fattori inesistenti o poco rilevanti nel periodo velico. I loro effetti strategici non hanno bisogno di ulteriori dimostrazioni ed esaltano in particolar modo l'importanza della geografia, sulla quale largamente si fonda, alla sua nascita, anche la strategia terrestre (Vol.l cap. I, li e III). Né si può trascurare un altro aspetto per così dire di carattere psicologico, che ci ha spinti, con una forzatura linguistica, a parlare di "pensiero militare e navale" nel titolo di quest'opera: nel periodo velico, dove in prima istanza il successo di uno scontro dipendeva dalla capacità di guadagnarsi il favore del vento, ammiragli, capitani e equipaggi si sentivano essenzialmente dei tecnici chiamati ad applicare l'arte nautica e non dei militari veri e propri, la manovra delle vele era per loro la missione principale da svolgere, gli elementi attinenti all'arte mmtare propriamente detta venivano dopo, e fino all'inizio del secolo XIX gli equipaggi si sentivano prima marinai e poi soldati. Tutto, dunque, quando si ha a che fare con le vele, spinge a trascurare ciò che è militare, e/o a limitarlo a una tattica, a sua volta influenzata oltre il dovuto dalla manovra delle vele fino a confondersi per lungo tempo - anche dopo il vapore - con le evoluzioni. Come ha scritto Giuseppe Gonni, a cavallo della prima metà del secolo XIX a bordo delle navi da guerra prestavano ancora servizio dei graduati


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del "battaglione real navi", chiamati capitan d'Armi, incaricati del servizio di polizia militare a bordo: essi infatti "dovevano invigilare sulla disciplina degli equipaggi, che allora non si sentivano, come oggi d'essere soldati nel puro senso della parola. I marinai erano e si sentivano dei professionisti per la nave che doveva navigare: del soldato ben poco avevano, anzi ostentavano d'esserne ben lungi..." 33 • È un fatto non privo di riflessi strategici che · la "militarizzazione" completa degli equipaggi potrà avvenire solo con la scomparsa della velatura da governare. Un altro fatto da considerare è che le guerre napoleoniche richiamano l'attenzione delle potenze europee sull'importanza - strategica e militare, non solo commerciale - dei territori extraeuropei per l'esito delle stesse guerre sul continente; questo spinge all'espansione in territori oltremare anche una potenza essenzialmente continentale come la Francia, favorendo l'allargamento degli spazi strategici e dando nuovo impulso alle conquiste coloniali e alle relative, inevitabili competizioni specie con l'Inghilterra. E le sempre più forti concentrazioni di potenza su poche navi inducono i governi e gli scrittori militari da una parte a riporre speranze magari eccessive nei nuovi mostri d'acciaio, dall'altra a riflettere sui loro costi crescenti, quindi a inserirle in un concetto globale di grande strategia, nel quale il loro ruolo sia ben determinato. Se, dunque, sarebbe non del tutto esatto attribuirla solo al vapore, non vi è dubbio che a metà secolo XIX con l'avvento del vapore ci sì trova di fronte a un'autentica rivoluzione negli armamenti navali, la quale impone un riesame delle condizioni della guerra marittima della stessa portata di quello che è stato provocato - per la strategia terrestre - dalle guerre napoleoniche. In questo quadro, sia pure con ritardo si incomincia a discutere di strategia navale, per il momento con idee poco chiare e senza pervenire a risultati conclusivi; ma i mutamenti riguardano l'intera arte militare marittima e ·in primis la tattica, non solo la strategia. Vi è, in tutto questo, una serie di dissimetrie rispetto alla guerra terrestre che è opportuno notare ma che sono inevitabili. Anzitutto, i mutamenti che a metà secolo XIX avvengono in campo navale sono più tardivi, ma assai più estesi e profondi di quelli che avvengono in campo terrestre all'inizio del secolo (Voi. I, cap. I). In secondo luogo, essi sono imposti dai progressi del materiale e non da eventi politico-sociali (o dal genio di un solo uomo) come in campo terrestre. In terzo luogo, per il solo fatto che pongono il problema di un respiro strategico da dare alla guerra marittima, essi da una parte provocano un avvicinamento tra teorie della guerra marittima e terrestre (facendo emergere la necessità di un coordinamento interforze) e dall'altra già intaccano, almeno nelle nazioni del continente, la tradizionale preminenza della guerra terrestre e della relativa teoria, fino ad allora indiscussa. Infine, sui ritardi della strategia navale hanno giocato elementi attinenti

33

G. Gonni, Op. cit., p. 99.


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all'indole, alla psicologia dei vari popoli: è ben noto che gli inglesi, grandi navigatori, più che teorizzare hanno sempre preferito fare, e fare con sistemi empirici che peraltro hanno sempre dato buoni risultati, senza bisogno di essere teorizzati; i popoli del continente invece hanno sempre considerato preminenti - et pour cause - i problemi della strategia terrestre, senza con questo trascurare di proposito la strategia marittima, come vuole Rosinski.

Dal cannone e dall'abbordaggio allo sperone: la tattica navale "a vapore" in Europa prima di Lissa · Secondo l'autorevole parere di Domenico Bonamico, la Francia nel periodo in esame detiene indiscutibilmente il primato degli studi di tattica navale con le navi a vapore; anche questo fatto suona indiretta smentita alle tesi del Rosinski. Le teorie e dottrine tattiche comparse in Europa dal 1855 al 1870 sono esaminate in un articolo dell'ammiraglio francese De Gueydon pubblicato dalla Rivista Marittima34, nel quale si constata con compiacenza che secondo l'ammiraglio russo Boutakov, "tra le potenze occidentali la Francia occupa il primo posto nelle questioni di evoluzione e di tattica. I suoi avversari più ostinati non possono rifiutarle questa giustizia. Il merito di questa particolarità, molto piacevole per l'amor proprio dei francesi, è dovuto al lavoro di uno dei più egregi degli ammiragli contemporanei, al conte Botiet-Willaumez". Va subito chiarito che, al tempo, per "tattiche navali" si intendono non solo le personali teorie in materia di singoli autori, ma anche i manuali ufficiali di tattica navale adottati dalle varie Marine e contenenti le dottrine del momento. In questi manuali si dimostra di avere un concetto di tattica navale assai diverso da quello di oggi e assai più esteso, che si presta a confusioni. Accanto a norme prevalentemente tecniche relative all'organizzazione e condotta del combattimento e alle formazioni, infatti, essi contengono modalità organizzative, minute prescrizioni, segnali, regolamenti per il servizio di bordo, modalità tecniche per le evoluzioni e ordini. Insomma, i manuali ufficiali contengono una mescolanza di argomenti diversi che finisce col far perdere di vista i principi essenziali che devono governare l'impiego delle flotte in combattimento per ottenere la vittoria. Ciò premesso, l'ammiraglio Botiet-Wi11aumez pubblica, in allegato alla sua citata opera Batailles de terre et de mer del 1855, un "Progetto di tattica navale per una flotta di vascelli a vapore a elica" che risulta "·

L.H. De Gueydon, Notes sur l'anayse des diverses tactiques navales publié par la

"Revue Maritime et Coloniale [aprile 1867)'', Paris, Dupont 1870 (fraduz. it. Analisi delle varie tattiche navali pubblicate in Europa dal 1855, "Rivista Marittima 1870", pp. 2167-2185) Questo articolo è seguito dall'altro - sempre del Gueydon -Note all'analisi delle diverse tattiche navali, "Rivista Marittima" marzo 1871 .


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ultimato nell'aprile 1853 e viene esaminato da un'apposita commissione · istituita dal Ministero della Marina francese nel 1855. Ad esso si ispira una ''Tattica provvisoria" pubblicata in Francia nel 1857 a cura della predetta commissione; dopo un periodo di sperimentazione, tale "Tattica provvisoria" dà origine a una "Tattica regolamentare" adottata nel 1861 e ancora in uso nella Marina francese nel 1870. Il Botiet-Willaumez, inoltre, nel 1865 pubblica a parte una Tactique supplementaire à l'usage d'une flotte cuirasseé (Tattica supplementare per una flotta di navi corazzate) ultimata nell'agosto 186435 • Particolari che hanno la loro importanza, visto che le istruzioni tattiche francesi riprendono sostanzialmente gli studi del Boiiet e quelle italiane riprendono le francesi. Va anche notato che, quando nel 1855 quest'ultimo scrive il suo primo "Progetto di tattica navale", la flotta francese non possedeva ancora delle corazzate rostrate: "la parte più debole era quindi in allora la prua, mentre che il formidabile traverso era difeso dai cannoni: da ciò la necessità di presentare il più che possibile questa linea di cannoni al nemico". Questo particolare, messo in luce dal De Gueydon ma ignorato dal Jacbino36 e da tutti gli autori italiani che si sono occupati dell' argomento, è assai importante, perché se ne deve dedurre che in questo primo studio il Boiiet non può ancora tener conto dello sperone e della corazza, e che l'unico elemento che per il momento considera è il nuovo tipo di propulsione, almeno in parte ancora a ruote. Nelle pagine conclusive del testo delle Batailles de terre e de mer31, comunque, già si accenna alle nuove forme che va assumendo il combattimento navale, in relazione non solo al vapore ma anche all'introduzione della corazza e dello sperone, al momento ancora in esperimento. Il Botiet nota, a tal proposito, che già nell'ultimà fase del periodo velico la linea di fila tendeva a diventare non una formazione definitiva di combattimento, ma piuttosto "una formazione preliminare per poi impegnare il nemico con dei gruppi di navi a lui superiori: è infatti soprattutto sotto questo aspetto che deve presentarsi la formazione di una flotta, oggi che il nuovo sistema di propulsione delle nostre flotte [a vapore a elica] consentirà loro di sferrare al nemico dei colpi tanto imprevisti quanto decisivi". Vale sempre, per il Boiiet, il principio - ereditato dalla storia della marina a vela- delJa concentrazione di forze superiori in un punto decisivo, che è la miglior chance di vittoria: ma se l'ammiraglio, ostacolato nelle sue manovre da un avversario abile, non riesce a raggiungere questo scopo, "ne seguirà una mischia nella quale l'azione individuale dei comandanti e degli equipaggi riprenderà l'antico ruolo", e si potranno avere sia combattimenti " "' 17·

L.E. Boiiet - Willaumez, Tactique supplementaire à l'usage d 'une flotte cuirassée, Toulon, E. Aurei 1865 - 2A Ed. Paris, Bcrtrand 1868. Cfr. A. Jachino, la tattica navale a Lissa, "Rivista Marittima" luglio-agosto 1966, pp. 17-34. Boiiet, Batailles ... Cit., pp. 241-246.


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di artiglieria che a corpo a corpo, mediante abbordaggi. Il cannone, "questa anna principale dei nostri vascelli", ha raggiunto un alto grado di perfezione che però non è definitivo, e potrà ancora migliorare la sua efficacia con l'adozione de11a rigatura e di proietti ogivo-cilindrici, al momento ancora in esperimento; per l'abbordaggio, "è necessario prevedere come nuova componente degli equipaggi un nucleo di marinai fucilieri e abbordatori, ben addestrati al maneggio delle pistole e delle armi bianche". A questo ritorno al passato, al periodo remico addirittura, si accompagna uno sguardo al futuro: "per mettere le flotte in grado di affrontare meglio sia il combattimento di artigJjeria che il ricorso all'abbordaggio [nel senso di urto volontario di una nave contro l'altra - N.d.a.], lo stesso scafo delle nostre navi da guerra non è forse chiamato a subire una nuova trasformazione? Gli uni non diventeranno forse dei bastimenti a sperone detti anche bastimenti-ariete? Gli altri non diventeranno delle batterie galleggianti interamente corazzate? Per queste ultime, gli esperimenti sono già cominciati e hanno fornito buoni risultati; per i primi, si attendono delle esperienze che non mancheranno di essere molto interessanti" J1 Progetto di tattica navale ha dunque due limiti inevitabili: nasce nel 1855, cioè in un periodo di profonda ma non ancora ben definita trasformazione delle costruzioni navali, e non è ancora stato sperimentato in esercitazioni (lo farà lo stesso Boi.iet a distanza di alcuni anni, come comandante della squadra francese di evoluzione). Ciononostante, nei "Principi di guerra" ,non manca di indicare delle linee d'azione assai interessanti e valide anche con le corazzate e lo sperone, sintetizzabili come segue: una battaglia navale deve avere come obiettivo la concentrazione di forze superiori contro un punto decisivo del nemico, per distruggerlo almeno in parte. A questo risultato devono mirare i movimenti e le evoluzioni, che vanno adottati a seconda <;le1le circostanze; poiché si deve supporre che il nemico adotti un principio analogo, l'ammiraglio in capo, fin che possibile, dopo aver diretto il grosso delle sue fon;e contro una parte debole deJla flotta nemica, dovrà tenere a bada, piuttosto che combattere, il nemico con le navi più veloci a sua disposizione, sforzandosi di ostacolarne le manovre; l'ammiraglio in capo deve per quanto possibile prevedere prima del combattimento le manovre da compiere [come ha fatto Nelson nel famoso Memorandum inviato ai comandanti prima di Trafalgar N.d.a.]; ma una volta iniziato il combattimento, i capitani devono avere talmente assimilato e compreso i metodi di attacco e le intenzioni del loro ammiraglio [cosl è avvenuto a Trafalgar e non è avvenuto a Lissa - N.d.a.], da far diventare superflui i segnali; poiché le estremità di un vascello a elica sono ancora le parti più deboli e più esposte al tiro d'infilata del nemico, si deve evitare fin che possibile, fuorché nei casi d'abbordaggio, di presentare al nemico la prua o la poppa, e invece cercare a nostra volta di prenderlo d'infilata, o di presenlargli il fianco. Questo però vale solo per


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le navi a elica; quelle a ruote [al momento ancora in servizio N.d.a.] non devono offrire al nemico il fianco, che è vulnerabile, ma piuttosto presentarsi di prora. CoD?,e si vede, non vi è ancora nessun accenno allo sperone; si parla solo di abbordaggio. Anzi: si indica la prua e la poppa come lato "ancora" debole della nave, e - come nella vela - si considera il fianco come lato più forte. Anche i "movimenti di guerra" che una flotta deve compiere non hanno nulla di diverso da quelli che potrebbero essere compiuti con la vela, se non la loro indipendenza dal vento, che evidentemente li rende più rapidi e agevoli. Essi sono: a) nel caso che le ali della flotta nemica siano deboli o disunite, defilare contro una di queste ali per scompigliarla; b) doppiare (cioè avvolgere da destra e da sinistra) una di queste ali per annientarla con il fuoco di artiglieria da ambedue le parti; c) separare un'intera ala dal grosso della flotta nemica, per poi avvolgerla e distruggerla; d) tagliare della formazione nemica in parecchi punti, per provocare una mischia generale; e) abbordare il nemico, una volta iniziata la mischia. Interessante la conclusione della parte dedicata ai movimenti, nella quale compare il concetto che il Bolict ha di evoluzione navale e, al tempo stesso, si parla inopinatamente di "regole strategiche", facendo cosl entrare - almeno da una finestrella - quella strategia che il Boiiet ha prima cacciato dalla porta principale: i principali movimenti di guerra prima descritti vengono compiuti per mezzo delle evoluzioni navali, che possono essere condotte con celerità e in modo ben coordinato solo con l'adozione e la pratica di certe regole strategiche Lnostra sottolineatura - N.d.a.]; tra queste regole figura, in prima linea, la definizione delle diverse formazioni con le quali una flotta a vapore può essere disposta per muovere e combattere".

Si deduce da queste osservazioni che anche il Boiiet parla di strategia; e pur trovando indeterminata e di dubbia utilità la strategia navale, ritiene necessario ammettere che essa ha delle regole, e mescolare - come tutti queste regole a quelle di carattere tattico. Che cosa intenda, in questa occasione, per "regole strategiche" non è chiaro, né oggi è possibile chiederglielo; forse con l'uso dell'aggettivo "strategiche" vuol indicare "attinenti alla disciplina del movimento, all'ordinamento delle forze per la battaglia"; ma perché usa l'aggettivo "strategiche" e non "tattiche"? si tratta di un semplice lapsus? Più probabile che il Botiet, come il Parrilli e in genere gli scrittori e uomini di mare del periodo, tenda a identificare la tattica con i particolari tecnici relativi alle evoluzioni, ai segnali, alle prescrizioni varie ecc., facendo cosl rientrare nella strategia - come lo stesso Parrilli - la scelta delle migliori formazioni per muovere e combattere, che l'intera armata navale deve adottare. Anche oggi, infatti, tutto ciò che riguarda il livello di armata rientra nel campo strategico, non in quello tattico; e non c'è dubbio che, da sempre la quintessenza della strategia è il movimento degli eserciti e/o delle flotte. Riguardo alle varie formazioni, il Botiet indica tre "ordini semplici"


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(linea di fila, linea di fronte, linea di rilevamento, che è una particolare linea di fronte nella quale le navi anziché muovere perpendicolannente rispetto alla linea mantengono un prefissato angolo di inclinazione tenendo conto del vento) e cinque "ordini composti", cioè con la flotta su due o tre linee o colonne, per singole navi o per gruppi di tre navi. Non entriamo in particolari; ciò che è importante ricordare è che l'ammiraglio francese non indica formazioni preferenziali di marcia o di combattimento, perché " sta al genio dell'ammiraglio scegliere tra tutte queste formazioni, tra tutte queste evoluzioni quella che, in relazione alle circostanze e alla posizione del nemico, g1i sembra la più idonea per applicare quei principi e quei movimenti di guerra che abbiamo prima enunciato". A titolo orientativo indica la formazione in linea di fronte come la più adatta per far navigare la flotta su uno spazio assai esteso, e per evitare, specie di notte, il rischio di abbordaggio; la linea di fila potrà invece essere scelta per passare in uno stretto, tenendo però presente che essa non va adottata come formazione abituale di navigazione, perché espone le navi al pericolo di abbordaggi. Anche questi riferimenti dimostrano che questo primo "Progetto" del Boiiet non ha nulla di veramente nuovo e si limita ad adattare alla navigazione a vapore criteri già in uso nel periodo velico. Di conseguenza con le corazzate provviste di sperone che sono varate dal 1860 al 1870 molte sue norme tattiche, e in particolare que11e relative alle formazioni, invecchiano precocemente o diventano inapplicabili e fuorvianti. Nel 1858, cioè tre anni dopo lo scritto del Botiet, viene pubblicato in Inghilterra il citato libro del generale Douglas Naval Warfare with Steam, nel quale come si è accennato si trattano in massima parte questioni tattiche. Libro importante, che però nel suo articolo del 1870 viene stranamente ignorato dal De Gueydon, che tra gli autori non francesi indica solo il Boutakov. Generale dell'esercito, il Douglas non ha alcuna esperienza di navigazione con navi a vapore e lo ammette, aggiungendo però di aver ascoltato le opinioni di ammiragli, ufficiali e persino di sottufficiali imbarcati su navi a elica: se ne può quindi dedurre che il suo libro rispecchia il punto di vista della Marina inglese sulla nuova tattica da adottare. Anche quando scrive il Douglas sono in servizio - nella Marina inglese sia navi a vapore a elica che navi a ruote, e ancora non si dispone di corazzate: perciò tratta esclusivamente di navi di vario tipo a vapore, non parla di sperone e considera l'abbordaggio come l'unico caso possibile, anche se a suo parere è poco probabile che avvenga volontariamente. Nota però che gli ufficiali di Marina francesi gli attribuiscono grande importanza, e come il Boiiet ritiene necessario che le navi predispongano una serie di misure per farvi fronte: maggior numero di fanti di marina a bordo, ridotti e ripari sulla tolda, protezione dei cannonieri dai colpi di carabina, e tutti i millenari strumenti per lanciarsi sulla nave nemica: grappini, scale, ponti mobili ... Il Douglas mette anzitutto in evidenza le forti differenze che esistono tra la tattica delle flotte a vela e quella delle flotte a vapore, attribuendo molta importanza - come ufficiale di artiglieria e autore di un'opera sulle


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artiglierie navaJi - anche al notevole grado di perfezionamento raggiunto dai cannoni di marina rispetto ai tempi di Trafalgar. Con le flotte a vapore egli sottolinea - tutte le energie dell'equipaggio possono essere concentrate sul cannone e non più sulle vele; il taglio della linea di fila diventa più facile e rapido e quindi anche meno pericoloso, ma la flotta tagliata ha a sua volta possibilità di rapide contromanovre prima sconosciute; poiché non è più importante avere il favore del vento, le due flotte contrapposte si trovano ad armi pari, e ciò che vale è più che mai il genio dell'ammiraglio e la celerità delle manovre; con le flotte a vapore diventa estremamente importante la velocità uniforme; per contro, il tiro delle artiglierie con l' aumento della velocità diventa meno preciso. Diversamente da quanto avveniva con le flotte a vela, con le flotte a vapore diventa possibile proteggere con veloci fregate i piccoli bastimenti esploratori, non sussistono più le difficoltà di doppiaggio del nemico tipiche del periodo a vela, ed è possibile sfruttare a fondo il successo in una battaglia, inseguendo il nemico: cosa che in passato spesso non è stato possibile, a causa dei danni riportati anche dall'alberatura e dalle vele della flotta vincitrice durante il combattimento. Per contro una flotta a vapore non deve mai attuare una difesa puramente passiva; il vapore richiede dell'iniziativa e agevola l'offensiva, unico mezzo per ottenere risultati decisivi. Occorre quindi evitare di combattere con una formazione parallela a quella del nemico, perché in questo modo - come dimostra la storia - non si ottengono risultati conclusivi. Con un ordine parallelo è possibile attaccare una flotta alle spalle; ma per attaccarla di fronte, occorre avvicinarsi ad essa in ordine obliquo. In ogni caso, bisogna essere superiori al nemico in fatto di velocità: solo in questo modo si riesce a sopraffarlo e attaccarlo. Da questo quadro assai complesso di differenze e di nuove chances che offre il vapore, il Douglas deduce che "la tattica delle navi a vapore costituisce una nuova arte nella navigazione. Essa può condurre a grandi risultati; ma se si pretende di combinarla con la tattica delle flotte a vela, si annulla gran parte dei vantaggi della propulsione a vela"38• Le differenze tra la vela e il vapore nelle varie fasi del combattimento ricorrono continuamente in tutto il libro, fino a farne l' esatto contrario del primo "Progetto" del Botiet, che invece tendeva ad attenuare a1 massimo tali differenze, senza rilevanti soluzioni di continuità rispetto alla vela. Le idee sviluppate nel libro, infatti, ruotano intorno a tre principi essenziali: uno dei principali vantaggi della propulsione a vapore è la possibilità di far muovere le flotte applicando gli stessi principi che governano il movimento degli eserciti; come già è avvenuto nella tattica terrestre con le formazioni su un'unica linea, la linea di fila deve essere abbandonata, perché presenta molteplici inconvenienti. Essa è stata adottata nella naviga1 '·

H. Douglas, Op. cit., p. 119.


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zione a vela soprattutto perché la dipendenza da un elemento incerto come il vento imponeva di evitare manovre complesse; occorre introdurre, come hanno fatto Federico II e Napoleone I in campo terrestre, delle formazioni che rendano più agevole "attaccare il nemico in movimento aggirando i suoi fianchi con un movimento obliquo, oppure manovrare in modo da portare forze superiori sul punto attaccato"; la formazione di movimento e di base che meglio consente, in campo navale, di ottenere questi risultati è l'articolazione della armata navale - come fa un esercito - in diverse colonne, ciascuna delle quali disposta in una formazione ad ango]o, cioè su due linee di rilevamento formanti tra di loro un angolo di 90 gradi, con la nave dell'ammiraglio capo-divisione al vertice dell'angolo e la nave ammiraglia al centro; la formazione di combattimento che meglio consente sia l'offensiva che la difensiva è il doppio ordine a scacchiera, nel quale i vascelli dislocati ai due lati più esterni proteggono i fianchi, gli spazi interni ai due angoli sono battuti dal fuoco ine,-rociato dei vascelli che procedono ai due lati, e la poppa di ciascun vascello è prut.c;Lla da quello che segue. In tal modo, applicando gli stessi principi della fortificazione terrestre, che vogliono un'opera battuta da ogni lato dal fuoco, il Douglas (Vds_ figura 1 pag. 1071) indica delle formazioni composte analoghe a quelle già previste dal Botiet, escludendo però la linea di fila. Quest'ultima è da lui scartata per una serie di motivi: all' inizio del combattimento non consente all'ammiraglio, come le formazioni da lui indicate, di tenere celati i suoi disegni di manovra; non consente la difesa reciproca dei vascelli che ne fanno parte; costringe a non impiegare buona parte delle artiglierie; non prevede una seconda linea di riserva; come una colonna terrestre troppo profonda, si presta ad essere sopraffatta e aggirata. Tutti svantaggi che con le formazioni da lui indicate risultano eliminati. Occorre disporre la flotta sempre su due linee - egli afferma - per avere aJla mano in tal modo una riserva; e se il nemico tentasse di penetrare in una formazione come quella da lui suggerita, si troverebbe assai a mal partito, "perché, in un siffatto ordine, le navi possono fare fuoco in tutte le direzioni, e un vascello che tentasse di penetrare nella linea di battaglia si esporrebbe al fuoco incrociato di almeno due navi nemiche, venendo inevitabilmente crivellato di colpi o disalberato, sia prima di penetrare nella linea nemica, sia dopo averla passata". È perciò conveniente che l'intervallo tra le navi disposte a scacchiera su un'unica linea di rilevamento sia mantenuto aperto in tutta la sua ampiezza ai vascelli nemici che intendono tagliare la linea, perché una volta che essi hanno l'attraversata "nulla sarà più facile ai vascelli della linea disposti a scacchiera che di muovere in avanti e prendere tra due fuochi i vascelli attaccanti"39 •

39

ivi, pp. 161-162.


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Cosa assai strana per uno scrittore britannico, per dimostrare la validità delle sue idee il Douglas non manca di ricorrere a un exemplum historicum nel quale - è l'unico caso - attribuisce all'ammiraglio francese Villeneuve, sconfitto da Nelson a Trafalgar, un disegno di manovra assai geniale e lungimirante. Chi intende tagliare la linea di fila di una flotta a vela espone il suo scafo e la sua velatura a un micidiale tiro d'infilata, prima di raggiungere una posizione favorevole per impegnare da vicino o tagliare la linea nemica, Per questa ragione i va,;celli di lord Duncan [vincitore nel 1797 della battaglia di Camperdown contro la flotta olandese - N.d.a.] furono molto più grave~ mente danneggiati dirigendo sulla flotta olandese che in un qualsivoglia combattimento contro i francesi, ed è certamente così che sarebbe stata trattata la colonna di Nelson nel dirigere contro la linea di fila franco-spagnola a Trafalgar, se le artiglierie della flotta di Villeneuve avessero fatto fuoco con la stessa precisione di quelle degli olandesi a Camperdown, e di quella che avrebbero oggi le artiglierie francesi. Se si esamina dal punto di vista tattico l'andamento della battaglia di Trafalgar, si può constatare che Villeneuve ha inteso rinunciare alla perniciosa regola di combattere in ordine di battaglia su una sola linea; egli voleva accorciare la sua linea e organizzare le sue forze in modo che i suoi vascelli fossero in grado di sostenersi reciprocamente, rendendo estremamente difficile penetrare da sopravvento in questa nuova formazione. Con un tale piano, Villcneuve ha sopravanzato la scienza nautica del s uo tempo, ed ha opposto al piano d'attacco di Nelson degli ostacoli molto più forti che se ciascun vascello francese o spagnolo si fosse trovato, in una formazione in linea di fila, a navigare nelle acque del vascello che lo precedeva. Non si può dubitare che la formazione prescelta da Villeneuve, benché non abbia raggiunto i suoi scopi a causa dei limiti della navigazione a vela, non sia analoga a quella a scacchiera proposta dall' autore. Non si può dubitare che la strategia a vapore (sic) finirà con l'adottarla.40

Il Douglas trae questi ammaestramenti dal rapporto ufficiale di lord Collingwood [comandante in seconda della Royal Navy a Trafalgar, che ha sostituito Nelson caduto durante la battaglia - N.d.a.], secondo il quale all'alba del 21 ottobre 1805 al largo di Trafalgar la flotta franco- spagnola era disposta su una linea di fila profonda 5 miglia; ma alle 08,30 tutti i vascelli hanno virato di bordo e hanno assunto una formazione a mezzaluna o a angolo convesso con il vertice sottovento, molto irregolare solo in apparenza, perché in tal modo la flotta ha formato una doppia linea che, vista al traverso, in realtà restringeva la formazione, lasciava poco spazio tra un vascello e l'altro e metteva i vascelli franco-spagnoli in grado di

"'· ivi, p. 163.


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concentrare le loro forze e sostenersi reciprocamente, rendendo molto difficile al nemico l'attraversamento della linea41 • Perciò - prosegue il Douglas - se Je artiglierie francesi fossero state perfezionate come quelle di oggi, le colonne attaccanti di Nelson e CoJlingwood, data la bassa velocità consentita dalle ve]e sarebbero rimaste ben quaranta minuti sotto il fuoco d'infilata della linea franco-spagnola e sarebbero state interamente disalberate prima di giungere a distanza di tiro del nemico; la riuscita della manovra di Nelson è perciò dovuta, anche per il Grivel, a circostanze eccezionali, e "può essere considerata come una prova de)]a decadenza della manovra delle artiglierie nelJa Marina francese durante ]e guerre della rivoluzione"42 • Tutto questo non avverrebbe con una flotta a vapore, che "anziché dirigere con rotta obliqua o perpendicolare direttamente sui cannoni nemici, potrebbe allargare la sua formazione, prendere alle spa)]e la formazione nemica e doppiarla, con facilità articolandosi su due divisioni con rotta parallela. Il nemico potrebbe impedire questa manovra solo con una riserva di vascelli disposti a scacchiera con il compito di proteggerJo alle spalle; in questo caso, per raggiungere il suo scopo la formazione attaccante sarebbe costretta a passare tra la riserva e la linea principale, ivi esponendosi al loro fuoco incrociato". Anche in questo caso tutto si riduce, per il Douglas, a una questione di velocità, perché so]o con una velocità superiore una flotta attaccata che si trovi in svantaggio sul nemico può evitare il combattimento. Non si deve pensare, comunque, che atti d'audacia come quelli che a Aboukir e Trafalgar hanno fatto Ja gloria di Nelson, non siano più possibili in futuro. Certamente formazioni o modalità d'attacco come queBe usate in queste due battaglie non potranno più essere ripetute, "ma i nostri bravi ufficiali di Marina, che hanno ben compreso ]e possibilità che offre la nuova tattica, e i nostri eccellenti marinai, [... ] non mancheranno di scoprire nella strategia a vapore (sic), numerose occasioni di dimostrare il vigore e l'audacia che caratterizzano il genio della nazione"43 • Come il Boilet, anche il Doug]as afferma che ha inteso solo illustrare con degli esempi pochi principi generali ai quali deve ispirarsi la guerra marittima, lasciando Ja loro applicazione pratica al genio e all'abilità deJ1'ammiraglio in capo: sta di fatto che insiste oltre il dovuto, e non senza contraddizioni, sui lirniti della linea di fila e sui pregi della formazione più profonda e articolata da lui suggerita. Come egli stesso non manca di ammettere, infatti, la superiore velocità e capacità di manovra del vapore, da una parte consentono a chi vuol tagliare la linea di fi]a (che non ha più le vulnerabili alberature cariche di ve]e) di abbreviare sempre più il tempo della

'' • 2. 43·

ivi, p. 165. ivi. p. 167. ivi, p. 168.


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sua esposizione al fuoco nemico senza poterlo controbattere, e dall'altra danno 1a possibilità a chi subisce il taglio del1a Jinea di fila di contromanovrare prendendo i1 nemico tra i due fuochi. Questo senza contare che, di lì a pochi anni, l'adozione di torrette girevoli e l'allungamento delle gittate avrebbero consentito - sia per l'attaccante che per il difensore - di annullare g1i svantaggi derivanti dalla disposizione del1e artiglierie solo sui fianchi ... Sotto questo profilo, il Douglas insiste troppo sulle ana1ogie tra tattica terrestre e navale che il vapore tende se mai a ridurre, perché la mobilità di una squadra in battaglia è assai superiore a que11a di un esercito; ha comunque i] merito di richiamare l'attenzione sulle caratteristiche di formazioni più profonde, che a distanza di quaÌche anno consentiranno un miglior impiego dello sperone (e non del cannone, come egli sostiene), e ancor più que11o di sottolineare l'importanza della velocità e della velocità uniforme, così come ]a necessità di non lasciarsi mai indurre a una difesa passiva. La raccomandazione di non usare ]a stessa tattica con navi a vapore e a vela appare ovvia: ma lascia insoluto e in sott' ordine il problema - che si presenterà a Lissa e che invero è di non facile soluzione - di un impiego coordinato, in vista di obiettivi comuni, di componenti di una flotta corazzate e non. Sfugge al Douglas insomma - e non è il solo - che ancor più del tipo di propulsione, è l'armamento prevalente e la sua collocazione (di fi a poco, il rostro tenderà a preva1ere sul cannone) che influisce sulla tattica da usare, quindi anche sulle formazioni. Secondo quanto ne riferisce l'articolo del De Gueydon al quale prima abbiamo fatto riferimento, nel periodo considerato il capitano di fregata francese Pagel (1859-1864), l'ammiraglio Boutakov, il sottotenente di vascello Cordes (1867) si occupano essenzia1mente di particolari tecnici relativi alla cinematica navale con il vapore, miranti a far compiere evoluzioni rapide e uniformi a una flotta composta di navi con diverse e divergenti caratteristiche. Linea di tendenza, questa, non priva di significato: perché conferma ancora una volta che al tempo si continua a identificare la tattica navale essenzialmente con particolari di carattere cinematico, automaticamente traslando in alto ciò che attiene ai criteri, ai principi ai quali si deve informare il combattimento, tali da non comportare peraltro la semplice scelta della formazione di combattimento. Del lavoro del Boutakov il De Gueydon dice anche che "le diverse considerazioni sull'urto, che terminano l'opera non sono né molto precise né abbastanza complete, perché c'imponessero di esaminarle". Chi invece secondo il . De Gueydon nel 1860 già fornisce orientamenti utili per l'impiego dello sperone e della corazzata è il contrammiraglio francese Penhoat44, che pùr rifacendosi ai nuovi principi della guerra-marittima introdotti dai predecessori, innova e semplifica profondamente le formazioni. Egli prevede che ..

Cfr. J.H. Penhoat (Amiral), Essai sur l'attaque et la défense des lignes de vaisseaux, Paris, Guyot et Scribe 1860 (2" Ed. Cherbourg, Bedel Fontaine et Syffert 1862) .


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le sole formazioni d'attacco o preparatorie per il combattimento sono le linee di fila o di fronte; e per dei bastimenti che debbono servirsi del1' urto, la linea di fronte, soprattutto quella a denti su due colonne dovrà essere quella su cui i bastimenti si disporranno per andare all'attacco.

il Penhoat, inoltre, introduce un tipo di evoluzione che chiama concentrazione doppia, avente lo scopo di concentrare rapidamente il massimo numero di bastimenti contro un bastimento nemico. A tal fine occorre tagliare la linea nemica su uno o più punti e concentrare le forze sulla parte posteriore della linea attaccata, per avvolgere dai due lati la formazione nemica. L'attacco deve avvenire per gruppi di due bastimenti: ogni bastimento che traversa una linea deve piuttosto abbordare il bastimento che cerca di impedirgli il passaggio, anziché rinunciare all'attacco. In ogni mischia bisogna cercare sempre di eseguire una concentrazione doppia. L'iniziativa della manovra appartiene [in un gruppo di due] al bastimento impari; il ba,;timento pari non deve far altro che osservare i suoi movimenti e imitarli. Il primo gruppo di bastimenti deve sempre combattere, a meno di gravi inconvenienti, non un bastimento prestabilito, ma bensì quello che può meglio colpire direttamente; gli altri gruppi manovreranno in conseguenza[ ...]. Si può iniziare una concentrazione doppia dirigendo direttamente ciascun gruppo di due bastimenti su quello che si vuol combattere, senz'altro ordine che quello di dare ai vascelli la distanza necessaria per facilitare la manovra. 11 disordine apparente è proprio per ingannare il nemico.

Come ben osserva il De Gueydon, questo metodo pur essendo riferito soprattutto ai bastimenti vela e vapore armati solo di artiglieria, con l'avvento dello sperone e della corazza non può che acquistare valore. Ci sembra anche evidente che le formazioni proposte dal Penhoat abbiano delle analogie con quanto in precedenza ha teorizzato il Douglas; del resto si può trovare traccia delle sue idee - e di riflesso di quelle del Douglas - anche nella citata Tactique supplementaire ( 1864) del Boiiet. Sulla genesi di quest'ultima opera - molto importante anche per la Marina italiana - il De Gueydon così si esprime: Il 1° agosto 1864, il vice-ammiraglio Boiiet Willaumez formò la nostra prima squadra corazzata, e comunicò lo stesso giorno una tattica supplementare. Lo scopo di questa tattica è chiaramente indicato dall'autore nella sua prefazione: "quel che propongo oggi, che la nostra squadra è composta da bastimenti corazzati, è di sostituire alle evoluzioni per fianco delle evoluzionj in linee oblique meglio adatte alla loro parte potente, che [ora] è la prua; alla loro parte debole che è il traverso forato dai portelli dei cannoni, e sul quale un colpo di sperone diretto perpendicolarmente potrebbe cagionare un disastro". Il combattimento di Lissa ci provò due anni più tardi che l' Ammiraglio avea bene indovinato.

Nella tattica supplementare del 1864, dunque, lo sperone diventa per la prima volta il protagonista principale. li fianco delle corazzate, pur avendo i


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cannoni, viene definito dal Boiiet debole e la parte più forte della nave diventa la prua. Concetti chiaramente espressi nei "principi generali" da lui dettati, nei quali si afferma: a) il bastimento non corazzato, la cui potenza consiste nelle artiglierie distribuite sui due fianchi e non nell'urto con la prora, è nello stesso tempo più forte e meno vulnerabile sul fianco che di prora, dato che i proietti nemici, penetrando nello scafo da prora, producono per tutta la lunghezza della nave effetti molto più gravi di quelli dei proietti che arrivano di traverso; b) il bastimento corazzato, che ha la sua maggior potenza nell'urto con la prora e la sua maggior debolezza nei portelli delle artiglierie sui fianchi, trova invece il suo miglior impiego presentando al nemico piuttosto la prora che il traverso; c) ne consegue che, mentre la linea di fronte deve essere considerata solo come una formazione preparatoria d'attacco per la flotta non corazzata, essa può invece diventare l'effettiva formazione di attacco per una flotta corazzata; d) ne consegue anche che, nelle evoluzioni di una flotta di corazzate in presenza del nemico, conviene effettuare movimenti nei quali le navi si presentino al nemico di prora o obliquamente, anziché movimenti nei quali essi si presentino al traverso. Manovrando in questa maniera, non solo le corazzate offriranno ai proietti e allo sperone del nemico le loro forme sfuggenti invece dei fianchi più vulnerabili, ma saranno anche costantemente in grado di impiegare esse stesse lo sperone, anche nel corso dell'evoluzione.

Va qui osservato che privilegiando lo sperone, il Boiiet non considera a sufficienza che pur essendo vulnerabili allo sperone, i fianchi al momento consentono anche di esprimere tutta la potenza artiglieresca della nave, perché non sono ancora state adottate le torrette girevoli; inconveniente che si verifica solo parzialmente puntando sul nemico con rotta obliqua anziché con rotta normale al suo schieramento. È evidentemente per questa ragione che, come ricorda il Jachino4S, nella Marina inglese del tempo parecchi ufficiali erano ancora convinti che il cannone fosse - come sempre - l' elemento decisivo della battaglia (come lo è, del resto, l' autore dell' articolo della Revue des Deux Mondes su Lissa da noi citato al precedente cap. XII). Va anche notato che il Botiet indica come soluzione ottimale per il combattimento la linea di fronte per le sole corazzate, non per le navi non corazzate sprovviste di sperone: e se - come avveniva al tempo non solo per · la Marina italiana - una flotta era composta da navi corazzate e navi non corazzate, come doveva regolarsi l'ammiraglio in capo? A questo interrogativo si può oggi rispondere in prima istanza che nulla impediva a una parte della flotta di adottare formazioni diverse da quella dalle corazzate,

"

A. Jachino, La tattica 11avale ... (Cit.), p. 26.


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tenendo però presente cha la componente principale erano le corazzate, e che di conseguenza l'azione delle navi non corazzate doveva non solo essere coordinata con quella delle stesse corazzate, ma essere ad essa subordinata: uhi maior. ... Un altro aspetto importante delle teorie del Boiiet è che l'urto di prora al traverso del nemico, scopo principale dell'attaccante, può essere prontamente evitato grazie a un semplice colpo di barra del suo avversario, se l'attaccante è solo; ma diviene inevitabile quando quest'ultimo manovra in compagnia di altre unità. Una certa superiorità numerica, anche solo per brevi istanti, deve quindi essere, prima dell'attacco, lo scopo perseguito dall'ammiraglio nel segnalare le proprie evoluzioni.

Il Boiiet, però, non dice che cosa deve fare l'ammiraglio che viene attaccato per evitare o almeno diminuire la probabilità degli urti: evidentemente - noi riteniamo - non gli rimane altro da fare che contrapporre a sua volta dei gruppi di navi in grado di sostenersi a vicenda ai gruppi di navi nemiche, e questo porta a dar ragione, su questo punto, al Douglas e al Penhoat. Del resto, i cinque ordini più frequenti indicati dallo stesso Botiet (di fronte, di fila, di fila per plotoni di squadra, di fronte per plotoni di squadra, in colonna per squadra) lasciano all'ammiraglio la possibilità dell'articolazione della flotta per squadre e per gruppi: e una linea di fila per gruppi, ad esempio, consente sia di sfruttare il fuoco di artiglieria, sia di manovrare successivamente per impiegare lo sperone o per evitarlo. Va infine considerato che, come precisa il De Gueydon, la Tactique supplementaire del 1864-65 termina con un "memorandum di combattimento" che per il momento non viene pubblicato ed è conosciuto solo dal suo Stato Maggiore, nel quale si indicano delle modalità (''ordine del quadrato navale") per far cambiare rotta alla squadra con perfetta sincronia di evoluzioni. Questa panoramica della tattica europea, nella quale si riscontra la totale mancanza di un apporto italiano, non è priva di ombre, con ogni probabilità dovute alla sopravvivenza sempre più parziale della vela e alla successiva introduzione nel giro di pochissimi anni di tre modelli fondamentali di navi a vapore con armamento divergente: nave a ruote, con pochissimi cannoni solo a prora; vascello a vapore a elica, con molte artiglierie solo sui fianchi e senza sperone; nave corazzata a elica, con artiglierie più potenti sui fianchi e sperone. Nelle flotte si hanno così modelli troppo difformi di navi, con diverso armamento, diversa velocità, diversa capacità combattiva; l'armamento stesso delle corazzate è divergente. Una situazione che rende estremamente difficile l'adozione di norme tattiche uniformi, aumenta l'incertezza e favorisce la disparità dei pareri; la stessa battaglia di Lissa contribuisce a confondere le idee, esaltando troppo lo sperone quando invece avrebbe dovuto esaltare - come Trafalgar - anzitutto i valori spirituali e l'importanza prevalente della leadership e della coesione dei Quadri, fatta salva la possibilità di scegliere di voJta in volta il tipo di arma e la formazione più opportuna.


XIII - LA NASCITA DELLA STRATEGIA NAVALE E LA NUOVA TAITICA "A VAPORE"

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La tattica navale in Italia prima di Lissa

Né la guerra del 1848-1849, né quella di Crimea, né quella del 1859, né quelfa del 1860-1861 inducono in qualche modo gli autori italiani a trattare problemi di tattica navale o di formazioni. Eppure, nella guerra del 1859 la squadra sarda entra in Adriatico insieme con quella francese; quest'ultima al comando dell'ammiraglio Desfosses, che non casualmente è anche comandante della squadra di evoluzione francese del periodo - applica, come si è visto, una Tattica provvisoria adottata nel 1857, che riprende le idee sviluppate dal Botiet nel Progetto di tattica navale del 1853-1855: ma non si sa bene a quali norme tattiche si attenga la flotta sarda nel 1859-1861. Presso la biblioteca dell'ex-Ministero della Marina abbiamo invece rinvenuto una traduzione italiana (manoscritta) del "Progetto di Tattica Navale" del Botiet ad uso della Marina borbonica, intitolato appunto Progetto di tattica a navale per una armata di legni a vapore ad elica o a ruote del Dietro-Ammiraglio Conte E. Boiiet-Willaumez. voltato in Italiano con giunte dal Cavaliere Trojano Jolgori capitano di fregata all'immediazione di S.A.R. il Conte di Aquila (senza data).

Nell"'Avvertimento del traduttore" che precede il libro si precisa che l'autore [cioè il Boiiet- N.d.al ha riunito l'istruzione e la spiegazione dei movimenti di tattica navale in un sol libro, mà nella traduzione si vede diviso queslo lavoro in <lue parti, nella prima riuniti i princip1 di tattica e nell'altra distinti e enumerati i movimenti di tattica [non le evoluzioni N.d.a.] ridotti in segnali, aggiungendovi a maggior chiarezza le figure. 1 numeri di questi segnali di movimenti di tattica pe' legni a vapore hanno principio dal N. 100, siccome quelli di Tattica pe' legni a vela del libro dei segnali per la Marina da guerrn di S.M. il re delle Due Sicilie.

Il traduttore, quindi, non fa che adottare integralmente per la Marina borbonica il Progetto del Botiet, adattandovi solo le vigenti norme per i segnali della Marina borbonica. Non se ne può, però, dedurre che la Marina sarda ignora le nonne del Botiet: anzi probabihnente le applica dal 1859 in poi, visto che opera insieme con la flotta francese di gran lunga superiore. Di tradurle nella Marina sarda non c'era molto bisogno, visto che gli ufficiali come le classi colte conoscevano il francese. Rimane comunque il fatto che, prima della nascita della Rivista Marittima nel 1868, non si conoscono in Italia studi di tattica navale di un . qualche rilievo. In questo deserto, Carlo De Cristoforis nel suo libro del 1860 Che cosa sia la guerra (cap. III) osserva (cosa non nuova) che la tattica navale da Nelson in poi applica lo stesso principio della massa tipico di Napoleone I, e può anzi contare su una maggiore mobilità e autonomia logistica delle forze. Ma ora che il vapore e l'elica resero anche indipendenti dai venti le manovre - che la flotta ha la sua cavalleria e fanteria leggera nelli


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avvisi, nelle mosche, e la sua artiglieria d'assedio nelle cannoniere e nelle bombarde - la guerra marittima è perfettamente simile alla terrestre. Più perfetta anzi, perché indipendente da varietà di terreno, da basi (sic) e linee necessarie -di operazione, da stanchezza di soldati da sussistenza, dalli attriti [termine clausewitziano - N.d.a.] 46•

De Cristoforis dimentica la forte dipendenza delle flotte a vapore del tempo delle basi, per il rifornimento di carbone: ma sfiora almeno quella problematica - tattica e non solo tattica - della guerra marittima che gli ufficiali di Marina del tempo poco o nulla considerano. Qualcosa di interessante, comunque, si trova sulla Rivista Militare del tempo, che dedica un certo spazio alla Marina avvalendosi della collaborazione del tenente di vascello Antonio Sandri, protagonista di Lissa. Gli scritti di interesse marittimo della Rivista riguardano in gran parte le costruzioni navali, le basi navali, lo stato delle varie flotte, con molti dati statistici. Meritano di essere ricordati solo tre scritti: un ampio studio redazionale del 1863 che_non ha interesse tattico ma strategico, perché riguarda i compiti della Marina nella difesa delle nostre coste e la conseguente fisionomia che deve assumere l'ordinamento delle forze navali italiane. Lo esamineremo, per tanto, al successivo cap. XIV dedicato all'ordinamento della Marina italiana e alle costruzioni navali; due articoli del Sandri del 1856 e del 1861, che toccano sia pure senza troppo approfondirli argomenti di interesse tattico. Nel 185647 il Sandri mette in relazione le costruzioni navali con i criteri tattici, esaminando in particolar modo le differenze tra le navi da guerra con propulsione a vapore a ruote e quelle a elica. I vascelli a ruote - egli afferma - erano costretti a concentrare a prora poche artiglierie, perché i fianchi erano occupati appunto dalle ruote. E ricorda anche che il capitano di corvetta francese Labrousse [non citato dal Castex, né da altri - N.d.a.]48 già nel 1850 aveva proposto di armarli anche con sperone; con tali caratteristiche delle navi armate la guerra marittima diventava simile a quella delle galere, quando tutto si risolveva in un abbordaggio e arrembaggio generale, perciò la vittoria andava non a chi aveva intelligenza superiore e animo eroico, ma a chi aveva braccia più forti e abitudini più crudeli. Come è avvenuto al tempo delle galere, anche con i vascelli a ruote non è mai stato possibile definire delle norme tattiche, perché per uguagliare il numero di artiglierie di un solo vascello a vela ne occorrevano troppi, fino a rendere la armata navale composta da un eccessivo numero di bastimenti e quindi ingovernabile da un solo ammiraglio. C. De Cristoforis, Op. cit., p. 43. A. Sandri, Armate navali: trasformazioni del materiale, "Rivista Militare" 1856, Voi. li Fase. VIII (agosto), pp. 241-271. '"· A. Labrousse, Mémoire sur les puits à elice, Paris, Dupont 1850. Il Labrousse ha anche pubblicato - più tardi - Des rt.uvirel· ù éperun, Pa.ris, Dubui:ssou 1864. 46

' '·


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La tattica navale è nata come scienza solo con il passaggio dal remo alla vela; analogamente solo con la propulsione a elica, che ha liberato i fianchi delle navi per le artiglierie, è stato possibile definire delle norme tattiche precise e delle formazioni. Il Sandri non si diffonde molto sulle nuove nonne, riassumendo le sue riflessioni in due proposizioni: la linea di battaglia anche con i vapori a elica rimarrà preparatoria e base della tattica navale, cosl come già la concepiva Nelson; - un'armata navale a vela non aveva che una sola linea di battaglia (linea di bolina con angolo di 67 gradi); ma per u,n'armata a vapore a elica qualunque formazione di vascelli in fila è una linea di battaglia: "tutto oggidl è riservato al talento, al genio dell'ammiraglio; niente al caso". Affermazioni sommarie e discutibili, che ignorano la problematica di fondo dibattuta in Europa e dimostrano il livello estremamente modesto degli studi tattici in Italia. Per inciso, non è affatto vero - e un veneto come il Sandri lo dovrebbe sapere - che al tempo delle galee non esistesse una teoria tattica navale: proprio Venezia specie nei secoli XVI e XVII è al centro di una ricca letteratura militare e marittima, e prima della battaglia di Lepanto diversamente da Persano, don Giovanni d'Austria ha emanato precisi ordini e orientamenti alla flotta. Nel secondo articolo del 1861 49 il Sandri quasi presentendo ciò che sarebbe avvenuto a Lissa esamina con dotti riferimenti al passato il problema della trasmissione e sicura ricezione dei segnali, tenendo presente che, sotto questo profilo, la linea di battaglia ha da sempre parecchi inconvenienti: è certo che molti inconvenienti hanno ora minore importanza per l'aiuto recato dalle scienze e arti marittime, e tale sarebbe il caso di un'armata composta da vascelli di linea misti [cioè a vapore e a vela N.d.a.l. Peraltro fra gli inconvenienti della linea di battaglia ve ne sono alcuni che conservano ancora quasi tutta la loro importanza, cioè: 1°) i vascelli sono poco riuniti intorno all'ammiraglio; 2°) la trasmissione dei segnali è difficile.

Oltre alla formazione, il fumo delle artiglierie e le condizioni atmosferiche (di notte, con la nebbia, con il sole in determinate posizioni) possono impedire la ricezione delle segnalazioni proprio quando ce n'è più bisogno, cioè combattimento durante. E qui il Sandri cita Audibert Ramatuelle (Vol. I, cap. XV), secondo il quale l'ammiraglio, isolato sul suo vasce11o, non ha affatto, come il generale di terra, la possibilità estremamente utile di conferire con i comandanti

49·

A. Sandri, Nuova applicazione all'armata. "Rivista Militare" 1861, Vol. Il Fase. VI, pp.

141- 157.


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in sottordine, di dare loro delle istruzioni che li mettano in grado di agire con vantaggio senza attendere ordini ulteriori, e di cogliere al volo quelle occasioni favorevoli che la sorte fa nascere e sparire quasi nello stesso momento. Egli, anche prima del combattimento, per far conoscere i suoi disegni non ha che il ricorso ai segnali; ma per quanta cura si metta nel comporli, è impossibile dire tutto, e dire solo ciò che si deve fare. Allorché il combattimento è iniziato, la difficoltà di trasmettere gli ordini aumenta progressivamente con grande rapidità. Se la nave ammiraglia è coperta dal fumo, le sue segnalazioni non saranno viste da nessuno e anche nel caso che gli altri vascelli riuscissero a distinguerli senza errori attraverso il fumo, difficilmente sarebbero ricevuti e ripetuti con rapidità sufficiente, prima che il cambiamento delle circostanze renda necessari nuovi ordini.

Per questo - prosegue il Sandri - gli ammiragli in capo prima di uscire in mare convocano gli ammiragli in sottordine e i capitani per "urùformarli a1le loro viste", e per emanare norme di carattere generale formulando ipotesi sulla disposizione e forza del nemico. E poiché è raro che essi possano essere sempre ben compresi, "sovente gli ammiragli scrivono prima le loro istruzioni, e quando viene il momento della battaglia, non fanno segnali che allorquando è di tutta necessità...". Così ha fatto Nelson... E dopo aver ribadito la necessità di raggiungere l'unità della flotta sia con mezzi mora1i (con istruzione dei Quadri e degli equipaggi) sia con mezzi materiali, il Sandri suggerisce - in mancanza di un telegrafo senza fili l'installazione sulle navi di un telegrafo elettromagnetico, suggerendo vari metodi per mantenere steso il filo anche durante il movimento e almeno · nelle prime fasi del combattimento, per un tempo che è sufficiente all'ammiraglio non solo per dare ordini, ma per ricevere dai subordinati preziose informazioni; alcuni gruppi di navi, poi, potrebbero conservare le comunicazioni fra di loro ... Lo scarso impulso dato agli studi tattici in Italia non può portare che a una pedissequa adozione e applicazione di quanto viene fatto dalla Marina francese. Lacuna, questa, essenzialmente dovuta al fatto che la nuova flotta italiana - come del resto le precedenti flotte napoletana e sarda - naviga assai poco e poco si preoccupa della navigazione, seguendo un indirizzo opposto a quello tradizionalmente adottato nella Marina inglese, dove la "pratica del mestiere" è tutto, e dove i giovani ufficiali imparano soprattutto navigando. Nino Bixio (che è anche capitano marittimo mercantile) il 5 luglio 1861 in un discorso alla Camera dei deputati non nasconde le sue perplessità sulla preparazione della nuova Marina: la marineria militare deve essere forte, numerosa, esercitata... I nostri equipaggi fin qui, mi permetto di dirlo, sono stati condotti in modo che non capisco. Essi sono buoni, eccellenti; ma non vorrei che si facesse come per i nostri ufficiali dei volontari, che aspettano la guerra rper addestrarsi]. I nostri equipaggi della marineria militare non hanno né


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flotta di evoluzione, né bastimenti adibiti alle ricogrùzioni idrografiche, né bersaglio per le artiglierie: niente insomma. lo non so come si possano fare dei buoni equipaggi di marineria in questo modo. Se vogliamo fare una marineria forte, bisogna che si provveda diversamente. Per fare una marineria potente, bisogna darle un insegnamento, bisogna che il Paese prenda il suo partito e presto. 50

Tre anni e mezzo dopo, il 17 dicembre 1864, nulla è cambiato, visto che il Bix.io osserva che prima condizione per avere una buona Marina si è d'avere una Marina che navighi. Senza questa condizione si potranno avere degli uomini teorici [ma non ci sono nemmeno questi! - N.d.a.] ... ma non si avrà una Marina. Non è difetto di studio che faccia inferiore la Marina russa e la Marina francese alla Marina inglese: è la navigabilità TI Ministero [italiano] precedente aveva già formato le divisioni navali quali dovevano essere; ma, dopo gli affari di Turùsi .. rimase armata la parte corazzata soltanto [squadra di evoluzione al comando dell'ammiraglio Vacca N.d.a.l. L'onorevole La Marmara, partendo sempre dal punto di vista dell ' economia, trovò utile di prescrivere che quando si duvt:sst:ro accendere le macchine, se ne giustificasse il bisogno ... L'alberatura delle navi corazzate non permette vele per la navigazione. Se ... prescrivete che non possano accendere le macchine, le avrete sempre nei porti, sarà un armamento da porti. Ora, non è questo un sistema atto a formare i marinai. Bisogna spingerli in mare... Bisogna togliere gli equipaggi dallo stato di sedentarietà; devono essere marini, non altro che marini ... marini in tutto e per tutto. Adunque, se non si vuole lasciar perdere la Marina, bisogna armare una flotta; e se volete far economia di carbone, armate la parte mista e mettete in riposo i bastimenti corazzati [nostra sottolineatura - N.d.a.]."

Con queste dichiarazioni Bixio propone un indirizzo addestrativo esattamente opposto a quello seguito dal Ministero: non navigare poco e far navigare soprattutto le corazzate (che non hanno vele), ma navigare molto e far navigare soprattutto le "navi miste", cioè le navi a vapore non corazzate o parzialmente corazzate provviste anche di vele, con le quali si potrebbe navigare senza accendere le macchine, cioè risparmiando combustibile. Certo, sempre meglio che rimanere in porto: ma non far navigare le corazzate, cioè le nuove navi che con il nuovo armamento (cannoni e sperone) avevano più bisogno di addestramento, anche se consumavano più combustibile, non sembra un buon suggerimento. Replicando alle critiche del Bixio, il Presidente del Consiglio generale La Marmara (che al momento regge anche il dicastero della Marina), assai infelicemente afferma che nei combattimenti con navi a vapore non sono

'° Cit. in D. Guerrini, Op. cit. , Vol. I pp. 336-337 e 358. "

ivi, pp. 436-437.


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più indispensabili le qualità di un buon marinaio, ma debbono ormai prevalere "le qualità militari". Questo perché "nei combattimenti navali non sarà più il caso di usar tanto le vele, ma bensì di maneggiare il cannone. Ne risulta che si può ottenere una buona istruzione militare senza essere sempre in alto mare ... ". Naturalmente il Bixio non è d'accordo, e ancora una volta le sue parole dimostrano quanto profondamente influisca, in campo navale, l'esperienza americana~2, con particolare riguardo all'efficacia dello sperone: io tengo dietro ai combattimenti che han luogo agli Stati Uniti, soli esempi che abbiamo oggi, e vedo che, la preferenza è assicurata ai bastimenti corazzati armati di sperone. E per me questione non solo di artiglieria, ma di abbordarsi risolutamente... Ora, l'abbordarsi richiede essenzialmente cot:.rnizioni marittime, esige colpo d'occhio e pratica del legno che si comanda, perché non si è sicuri del raggio che questo descriverà; qualunque sia il genio dell'uomo che comanda, se non ha pratica di maneggiare quelle moli sterminate, sarà assolutamente impossibile che si possa servire di un bastimento ..."

Valutazioni in parziale contrasto con quelle fatte in precedenza, perché da esse si deduce che sono i Quadri e equipaggi delle corazzate ad aver più bisogno di addestrarsi; ma ciò che più importa è che il Bixio - come del resto lo stesso Persano da Ministro nel 1862 - è ben consapevole delle possibilità dello sperone e della necessità di imparare ad usarlo. Dal travaglio d'id~ prima descritto risulta ben chiaro che anche in Italia tra coloro che si occupavano di Marina a qualche titolo era ormai diffusa la sensazione che la tattica navale richiedeva anzitutto di risolvere il problema del miglior impiego dell'armamento deI1e nuove corazzate dotate, oltre che di potenti artiglierie, di sperone. Problema che non risolve certamente, come si è visto, la Tattica regolamentare adottata dalla Marina francese nel 1861 e ancora in uso in quella Marina nel 1870. Ma in Francia almeno si dibattono in più sedi le nuove prospettive, e iJ Botiet pubblica i risultati dei suoi esperimenti al comando delle corazzate, cosa che non fa il Vacca. A ragione dunque i1 Guerrini scrive che, dal 1861 al 1866, "mentre in altre Marine si lavorava, si studiava, si progrediva, nell'italiana nulla si faceva: né per rinnovare la tattica in modo che fosse conveniente al rinnovato naviglio, né per acquistare esperienza della vecchia tattica".54 Per quanto riguarda quest'ultima, per la nuova Marina italiana non si fa che tradurre integralmente e adottare senza modifiche nel 1862 la Tattica regolamentare francese del 1861, compilata secondo le indicazioni del citato A proposito dell'influenza della guerra americana sulla teoria tattica navale prima di Lissa Cfr. anche Alfacanis, Dalla guerra civile americana alla campagna navale in Adriatico nel 1866, "Rivista Marittima" ottobre 1966, pp. 19-38. " D. Guerrini, Op. cit., Vol. I p. 437. ,._ ivi, p. 339. s2.


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primo Progetto di Tattica navale del Boiiets5 • Diamo conto dei suoi principali contenuti riportando l'esauriente commento del Guerrini: nelle 271 pagine la materia era distesa in 376 paragrafi, ilJustrati con 174 nitide figurine. Un quinto circa del libretto rifletteva esclusivamente le navi a vela: la maggior parte del resto era, per le navi ad elica, descrizione pura e semplice di formazioni, senza pure un cenno delle caratteristiche di ciascuna, o dei casi nei quali ciascuna· formazione poteva essere utilmente assunta. o era prescrizione dei modi di passare dall' una formazione all'altra. Erano così descritte 12 formazioni , ed erano prescritti 23 modi diversi di cambiare direzione nei diversi casi e ben 59 passaggi da un ordine all'altro. Basta questa notizietta perché si veda come il regolamento fosse minuto nelle prescrizioni: le quali però erano aridissime, non andando al di là della pura forma e della pura materiale esecuzione di un numero grandissimo di evoluzioni, senza un richiamo qualsivoglia allo scopo pel quale potevano essere utilmente fatte. Solo il terzo capitolo delle "istruzioni generali" che fanno da introduzione al libretto si occupa "del combattimento" : di esso è ora opportuno un breve esame analitico che ci servirà poi per giudicare le azioni e le responsabilità della campagna del 1866. "Non si deve mai cominciare il combattimento senza l'ordine dell' ammiraglio, a meno che, essendo nell'impossibilità di vedere i segnali, un bastimento si trovi in una posizione vantaggiosa , o molto vicino al nemico (N. 58)": ma se il nemico fa fuoco. ogni bastimento che sia "a portata di cannone, può rispondere, senza attendere, o domandare, gli ordini delJ'ammiraglio (n. 59)". Una forza navale è "formata in battaglia, quando essa presenta al nemico il fronte di tutta la sua artiglieria (n.60)"; invece è "formata in ordine di attacco" quando, senza badare a poter agire con "tutta la sua artiglieria" si accosta celeremente al nemico per "combatterlo a tiro di pistola, colarlo a fondo con un urto violento, incendiarlo, o prenderlo all' abbordaggio (n. 61)" . Nella formazione in battaglia sono necessarie "divisioni di riserva" che proteggano le ali e, occorrendo, rinforzino il centro (n. 62). "La linea di fila è la linea di battaglia dei bastimenti di cui la principale potenza è nell'artiglieria, e che hanno quest'artiglieria disposta da ciascun lato (n. 63)". La parte debole della linea di fila è la coda: la quale perciò "deve essere particolarmente sorvegliata dalle divisioni di riserva (n. 64)". "Se la linea è tagliata ... le divisioni di riserva devono portarsi in massa sul punto delJa linea che il nemico minaccia di tagliare...(n. 65)". "Una linea di battaglia è tanto più forte quanto più è serrata": in generale i bastimenti vanno a distanza di "due gomene, computata da albero di maestra ad albero di maestra", ma deve essere diminuita per quanto è possibile "se il nemico s'accosta molto vicino e mostra di voler tagliare la linea (n. 66)". "Se il nemico tenta di tagliare la linea è espressamente proibito di

"

Tattica navale (traduzione dal francese), Genova, Bcuf 1862.


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piegare ai bastimenti dell'armata. È loro ordinato di serrar le distanze per quanto è possibile, di fare un fuoco vivo e ben diretto, di lasciarsi abbordare se bisogna, e soprattutto di abbordare essi stessi il nemico che traversa o volesse traversare profittando delle lacune(n. 67)". "Se un bastimento inabilitato lascia un vuoto sulla linea, ... il suo poppiere... deve, ... come anche il suo prodiere, concorrere a riempire il vuoto lasciato ...(n. 68)". Seguono poi nel libretto della Tattica navale due prescrizioni assai curiose (n.69). La prima dice che se varii bastimenti dell ' armata possono concentrare il fuoco contro un solo "è loro ordinato di farlo". La seconda, anche più bizzarra. dice che i bastimenti dell'armata, "serrando la linea", ossia ravvicinandosi, devono aver cura che "due bastimenti nemici non possano concentrare il loro attacco contro uno solo di essi". Veramente pare che il miglior modo di non consentire al nemico la facoltà di concentrare l'attacco contro uno solo dei bastimenti nostri debba essere quello di separare i nostri bastimenti: ma la Tattica navale tradotta dal francese prescrive di evitare la concentrazione dell'attacco nemico quando i nostri bastimenti si serrano! Appena il combattimento sia a piccola distanza e quindi si trasformi in mischia, "ogni comandante, che creda potere abbordare il nemico con vantaggio non deve affatto esitare ed eseguire questa manovra (n.71)". "E' probabile ... che sull'ammirnglio in capo e sugli altri bastimenti ammiragli saranno rivolti i più grandi sforzi del nemico: è perciò da questo lato che i nostri bastimenti devono riunire i loro più potenti attacchi e la loro più vigorosa resistenza. Ugualmente contro l'ammiraglio in capo e gli altri ammirngli devono... rivolgere tutte le forze disponibili(n.72)". Durante il combattimento, nessun vascelJo deve separarsi dall'armata, senza che ne abbia l'ordine, per inseguire navi nemiche che si ritirino (n. 73); invece, alla fine dell'azione, se l'ammiraglio non ordina movimenti, le navi più forti e che hanno meno sofferto devono da sé attaccare le nemiche che si riuniscano o si ritirino (n. 74). Alla fine del combattimento, "i comandanti delle navi non devono assoggettarsi ad alcun posto nella linea": in caso di vittoria devono inseguire per far piena la sconfitta nemica: in caso di cattivo successo devono mettersi attorno ai bastimenti amici inabilitati "opponendo al nemico una forza capace di resistergli", se mai volesse rinnovare il combattimento (n. 75). Se il bastimento d'un ufficiale generale non può più combattere, l'ufficiale generale "può mettere la sua insegna di comando sopra ogni altro bastimento dell'armata" purché non sia già il bastimento d' un altro ufficiale generale (n. 79). Se l'ammiraglio "durante il combattimento" passa sopra "un bastimento leggero", inalbera su questo la propria insegna (n. 80). "Di due armate che hanno combattuto senza vantaggi considerevoli, quella che sarà più prontamente in istato di ricominciare a tirare, o solamente di eseguire una manovra, si assicurerà la superiorità (n. 81)". "I bastimenti situati fuori della linea debbono soccorrere con tutti i loro sfoni quelli che combattono... (n.82)"56 ...

D. Guerrini, Op. cit., Voi. I pp. 339-345.


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Il Guerrini fa parecchie critiche di dettaglio - non sempre condivisibili - a queste istruzioni. È certamente vero che il regolamento è superato nel 1866, perché è ancora ispirato al vecchio principio della Marina a vela prevalso e teorizzato a fine secolo XVII - di mantenere ad ogni costo, come ordine di battaglia e con distanze serrate, la linea di fila, senza consentire altre contromanovre o iniziative di singole navi contro la flotta nemica che intenda tagliarla; ma va anche sottolineato che questo vincolo·riguarda solo "bastimenti di cui la principale potenza è l'artiglieria", quindi è lecito dedurne che per navi le quali - oltre ad avere le maggiori capacità di manovra consentite dal vapore - sono dotate di sperone, questo non può valere o valere del tutto. Il Guerrini, inoltre, nota che negli stralci del regolamento distribuiti al Senato per il processo Persano mancano proprio i paragrafi più significativi, relativi ad esempio al passaggio dell'ammiraglio da una nave all'altra, o alle modalità da seguire nel caso che il nemico taglia la linea. A suo giudizio, questo "può essere segno che veramente il Processo fosse fatto più per salvare il Persano che per condannarlo". Quest'ultima ipotesi rimane tutta da provare. Assai discutibile anche l'affermazione del Guerrini che, per impedire ai vasce11i nemici di concentrare il fuoco su uno solo dei nostri, sia necessario "separare i nostri bastimenti" (forse per moltiplicare gli obiettivi): ma come si può impedire, anche in questo modo, la concentrazione del fuoco nemico? Posto che si tratta evidentemente di contrapporre concentrazione di fuoco a concentrazione di fuoco, questo scopo avrebbe potuto essere meglio raggiunto mantenendo serrata la linea di fila, e soprattutto manovrando per opporre all' a zione di gruppi di navi nemiche quella di gruppi di navi nostre. In ogni caso, nonostante i suoi limiti e le critiche del Guerrini, il regolamento rimaneva valido in parecchi punti anche per le corazzate. Basti considerare gli accenni alla concentrazione del fuoco, all'abbordaggio del nemico d' iniziativa sia durante il combattimento in linea che durante la mischia, alla difesa della nostra nave ammiraglia (la Re d'italia a Lissa è rimasta isolata), alla concentrazione delle forze contro le navi nemiche che portano l'ammiraglio in capo e quelli nemici, all'inseguimento del nemico "senza assoggettarsi ad alcun posto nella linea" in caso di rottura del contatto da parte di quest'ultimo, ecc .. Sia pur con le modifiche della Tactique supplementaire del 1864 - 1865, dopo tutto queste istruzioni sono in vigore, nel 1866, anche nella seconda Marina del mondo: e ogpi vero comandante - a maggior ragione se si tratta del capitano di una nave da guerra in un periodo di profondi mutamenti - in ogni tempo ha saputo adattare, sotto la sua responsabilità, i regolamenti alle circostanze (non viceversa, perché l'applicazione letterale dei regolamenti non è stata mai possibile). ll fatto grave è invece un altro: che per quanto la Tactique supplementaire sia nota fin dal 1864 e sia stata regolarmente pubblicata in Francia nel 1865, nessuno in Italia si dà la pena di studiare o tradurre subito il nuovo libretto, ignorato dagli ufficiali della flotta fino all'arrivo a Taranto (cioè, fino all'inizio della guerra del J866). Scrive il Guerrini cht!


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l'adozione fu così tardiva [di questo, evidentemente non ha colpa solo il Persano - N.d.a.] che perfino mancò il tempo per tradurre in italiano le poche paginette del libretto, il quale fu distribuito agli ufficiali nel testo francese. Una lettera al libraio di Tolone bastò per far arrivare a Taranto alcune centinaia di copie del libro: un ordine del Ministro bastò perché gli ufficiali leggessero il libro; ma certo ben altro occorreva perché la sostanza di quel libro diventasse sangue e muscolo della tattica navale italiana [nostra sottolineatura - N.d.a.].57

Guerrini tocca il nocciolo della questione: non vi è dubbio che l'esame del1a tattica navale fin qui condotto non fa che caricare di ulteriori ombre sia la figura di coloro che sono stati responsabili della Marina dal 1864 in poi, sia la figura del Persano. Come egli stesso afferma, il Persano ai primi di maggio 1866 diventa responsabile di una flotta che ha navigato poco e che non conosce l'impiego del1e nuove navi e dei loro armamenti; e ha ancora ragione il Guerrini quando scrive che "la più grande e funesta manchevolezza nell'addestramento tattico della nostra Marina fu quella dell' esercizio", a cominciare dallo stesso ammiraglio in capo. Ma che cosa fa quest'ultimo per rimediare in qualche modo all'inesperienza propria e altrui? nulla, se non prescrivere· - solo alla partenza da Taranto, quando ormai si sta entrando in guerra - alla squadra corazzata l'osservanza di due tattiche (quella del 1861 e quella supplementare del Botiet pubblicata nel 1865) e alla squadra non corazzata l'osservanza della tattica del 1862. Non accompagnato da opportuni chiarimenti intesi a ottenere un impiego coordinato e unitario dell' intera flotta e delle navi corazzate e di legno, quest'ordine - peraltro tardivo - di attenersi a regolamenti contrastanti e peraltro mai sperimentati e assimilati peggiorava la situazione e aggravava i riflessi già pesantemente negativi dello scarso addestramento della flotta. Dato il suo carattere enciclopedico, la prima edizione dello stesso dizionario del Parrilli - diventato nel 1862 espressione del linguaggio ufficiale della Marina italiana proprio per opera del Persano - aggrava il disorientamento dei Quadri. Non si sa se la sua seconda edizione 1866 sia uscita prima o dopo Lissa: in tutti i due casi durante la campagna del 1866 risulta all'atto pratico nociva, perché la prima edizione 1846 ( Voi. I, cap. IV e V) adottata nel 1862, non può recepire nemmeno il Progetto di tattica navale del Botiet del 1855, e nel 1866 alle voci strategia e tattica a vapore non fa che riferirsi al libro del Douglas, che contiene principi e formazioni notevolmente diversi da quelli dell'ammiraglio francese. Nella nostra flotta a Lissa sono dunque in vigore non tre, ma quattro tattiche navali. Per completare il quadro va considerato che ad ogni buon conto da una parte il Persano, dopo averla indicata come riferimento il 15 giugno, nel prosieguo della campagna ignora la Tactique supplementaire; dall'altra, l'intera flotta italiana a Lissa semplicemente non contromanovra, "'

ivi, pp. 3~7-348.


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quindi ignora qualsiasi tattica e anche le parti applicabili della Tattica navale del 1864. Ciò vale in special modo per la squadra non corazzata del1' Albini, alla quale la predetta tattica del 1862 - l'unica che avrebbe dovuto applicare secondo gli ordini del Persano - non prescriveva certo di non impegnarsi contro le corazzate ... Tutto questo accredita il giudizio conclusivo che, se a Lissa non è stata questione di materiali, non è stata nemmeno questione di tattica, di teorie e di teorie strategiche.

Gli accenni alla strategia e alla tattica navale dopo Lissa ( 1866 - 1870) Ne] periodo considerato si continua a non parlare di teoria strategica, e i caratteri fondamentali delle costruzioni navali rimangono invariati. Accanto alle corazzate sopravvivono le navi non corazzate; le artiglierie sono ancora collocate sui fianchi, anche se si comincia a parlare di torri girevoli in coperta. Per quanto attiene alla strategia, non è raro l'uso dell'aggettivo strategico anche trattando di tattica navale; sembra che si voglia considerare strategico ciò che attiene più specificamenle ali' impiego operativo dell'intera flotta, alla manovra delle forze riunite nelle mani dell' ammiraglio. In tal modo, tra ciò che è detto tattico e ciò che viene definito strategico si crea un'area di sovrapposizione dai confini indistinti e ancora assai larga. Rientrano, comunque, in senso lato nel campo strategico-.anche se ignorano questo termine - tre articoli non finnati sulla Rivista Marittima del 1869 dal titolo Delle navi mercantili e dei loro carichi in alto mare, che trattano dal punto di vista giuridico e morale il problema della guerra di corsa, abolita dalla Convenzione di Parigi del 1856. La guerra di corsa non viene affatto ritenuta insufficiente per costringere il nemico alla pace, o tale da arrecare al nemico danni trascurabili (come sostengono molti scrittori navali che non la approvano, preferendo lo scontro tra flotte). Al contrario, proprio in relazione ai danni immensi, anche morali, che essa finisce con l'arrecare non solo all'avversario, ma a tutta la comunità internazionale e alla fin fine allo stesso vincitore, si sostiene che va respinta; e con essa va respinto - perché immorale - il concetto di guerra totale, senza limiti e estesa alle popolazioni. Infatti il commercio internazionale ha ormai raggiunto un tale sviluppo, da provocare insieme con la rovina di uno dei contendenti anche la rovina di tutti gli altri che si trovano in rapporto con ambedue gli Stati belligeranti, rendendoli incapaci di soccorrersi a vicenda: "di tale modo la guerra, che soltanto allora è legittima e necessaria, quando per essa si instauri il regno della giustizia e della pace, viene tramutata in un feroce agone, da cui, come dai circhi romani, nessuno può sperare di uscire se non quando abbia consumato il totale sterminio delJ'altro. E la vittoria non è più allegra per il vincitore: sfinito, lacero, sanguinoso, lo Stato vincitore non può aspettarsi nessun aiuto, nessun giovamento da cittadini che, per causa delle violenze e del1e depredazioni da lui arrecate, furono fatti segno del suo furore, e che


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· per questo inumano sistema di reciproca rovina si videro ristagnate e disseccate tutte le fonti dei loro guadagni". 58 Riguarda gli aspetti giuridici della guerra marittima e della guerra di corsa anche un altro libro di un certo Pasquale Demurtas Zichina, con il titolo ingannevole Teoria della guerra e sua applicazione alla guerra di mare;59 che cosa sia questa guerra, e come debba essere condotta dal punto di vista strategico o tattico rimane perciò, in Italia, un argomento assai poco trattato. L'unico scritto organico del periodo è il Saggio di tattica navale ( 1867) di Gabriele Martinez60; ma nonostante il titolo, l'opuscolo - more solito - poco si occupa del combattimento navale e dedica la massima parte del breve spazio (57 pagine) a problemi di cinematica, con relative formule matematiche. La definizione di tattica navale riportata nell'introduzione fa emergere robusti segni della prevalenza di quell'angusto e antiquato concetto di tattica al quale abbiamo prima più volte accennato: quando più bastimenti navigano insieme è indispensabile che l'ordine regni tra loro, affinché ognuno sappia non solo la manovra prescritta per esso, ma quelle prescritte per altri: e solo così possono essere eliminati i dubbi e le incertezze, causa di funeste conseguenze. Le regole ai bastimenti per formarsi o mantenersi in una data formazione, e quelle per cambiare di formazione, specialmente davanti al nemico; gli ordini di attacco e di marcia; il modo di abbordare, dar di sprone e il come difendersi, costituendo la scienza puramente marina che chiamasi tattica navale, fonnano lo scopo del presente saggio.

Nel suo primo anno di vita, tuttavia, la Rivista Marittima dedica a questo argomento cruciale alcuni articoli significati vi, dai quali si può dedurre con sufficiente attendibilità il pensiero della Marina in proposito, anche se a soli due anni da Lissa non si può pretendere che vengano sviscerati gli ammaestramenti di eventi che hanno coinvolto in pubbliche polemiche e in processi non solo il Persano, ma l'intera Marina. La "linea" prevalente sembra essere assai moderata e equilibrata: minore importanza della linea di fila come formazione di combattimento, ma non sua eliminazione definitiva; maggiore importanza delle formazioni profonde e in linea di fronte in relazione all'impiego del rostro, ma senza ignorare i loro inconvenienti; da nessuna parte, però, si afferma che il rostro è sempre l'armamento prevalente, anche nello scontro tra squadre. Nelle sue Considerazioni sulla tattica dei bastimenti a vapore pubblicate sul primo numero della Rivista Marittima61 , il tenente di vascello Rossi ammette che "la necessità, nella guerra tra corazzate, di presentare il meno possibile il fianco al nemico, e in una squadra di defilarlo mediante la "· ,._ "' ••

"Rivista Marittima" 1869, pp. 744-745. Torino, Favale 1869. Napoli, Tip. Luigi Gargiulo 1867. "Rivista Marittima" 1868, pp. 17-27 e 861-879.


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minaccia del rostro dei bastimenti vicini, ha dato un'importanza maggiore alla linea di fronte, e relegate le 1inee di fila quasi al semp1ice ufficio d'ordine di marcia". Quel "quasi" è assai indicativo, anche perché subito · dopo il Rossi precisa che sono troppe le circostanze che influiscono sul1'adozione o meno di una data formazione; e dal momento che si ignora ancora quale sarà il tipo definitivo di corazzata di linea, " non si può nemmeno stabilire come si potranno muovere le squadre che dovranno averne per unità, e non è ancora il caso quindi di diminuire il numero dei mezzi che ba in mano un Capo per condurre un nucleo di bastimenti corazzati". Nella ricerca della miglior formazione bisogna affidarsi soprattutto al1'esperienza: "]a gravità di ammettere, senza provarle affatto, nuove evoluzioni non può sfuggire ad a1cuno", perché si corre il perico]o di vedere ammesse in base a semplici ragionamenti teorici e matematici de11e idee che trovano solo nella pratica la conferma del1a loro validità o meno. La miglior via da seguire per il futuro è perciò quella di adattare alle esigenze de] momento le norme già in vigore, aumentando o diminuendo la importanza <li alcw1e formazioni, "fino a quando l'esperienza non si pronunci decisamente in pro' o contro la loro ammissione nel codice di tattica". Del combattimento navale del futuro, comunque, il Rossi mostra di avere un'immagine abbastanza precisa, daJla qua1e emerge una fiducia tutto sommato limitata e condizionata nel rostro: nel combattimento tra due sole navi corazzate - egli afferma - l'urto sarà poco probabile, e difficilmente un combattimento tra squadre si trasformerà in una serie di duelli; di conseguenza è difficile che una battaglia fra pochi legni non si riduca più a lotta d'artiglieria, che a tentativi di offendersi col rostro. Quest'arma, giustamente apprezzata, non è la prima in ogni caso. Terribile in una mischia, in cui ogni ordine sia confuso, o contro bastimenti già guasti, quando giunge inaspettata, o sia possibile il maneggiarsi più facilmente dell'avversario, presenta troppa difficoltà d'esecuzione nel combattimento fra pochi legni per poter credere che sarà veramente in questo caso la prima arma da usarsi .

La tanto esa1tata formazione in ordine di fronte o in ordine obliquo ha i suoi inconvenienti: essa "non ha consistenza di sorta, e solo l'effetto deJ caso può condurre una squadra così disposta alla battaglia". Per attaccare conviene invece riunire le proprie forze contro un punto del nemico, possibilmente là ove ]'attacco giungerebbe inaspettato. Chi mantiene sparsi i suoi bastimenti si espone a vederli battuti uno per uno; quindi è più conveniente attaccare con una formazione profonda, su più linee successive e con una fronte poco estesa, perché il vero combattimento avverrà solo quando le due flotte serreranno le distanze fra di loro fino ad arrivare "a un tiro di pistola". Non dà garanzie sufficienti per indicarla come formazione di battaglia nemmeno la formazione a cuneo, che pure consente a ogni nave di battere


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con le artiglierie la strada che il nemico farebbe per arrivare a quella successiva. Nel combattimento a breve distanza, ogni deviazione che un bastimento sarebbe costretto a fare per evitare l'urto lo allontanerebbe dagli altri, aprendo al nemico uno spazio che gli consentirebbe di "menar strage col rostro senza gran pericolo", perché le navi dei due lati sarebbero costrette a presentargli la poppa e mai la prua; senza contare che le evoluzioni che una squadra ad angolo deve compiere per cambiare la rotta sono molto difficili ... Solo con formazioni più profonde e compatte, per il Rossi, questi inconvenienti possono essere eliminati. Mentre con il vecchio armamento le flotte erano obbligate a mantenere formazioni perpendicolari alla direzione di tiro o molto oblique, le nuove condizioni d' armamento, imponendo di presentare la prua, non lasciano altra alternativa che quella di traversarsi a vicenda, attaccandosi colle artiglierie quasi solo al momento del passaggio negli intervalli rispettivi. Per lo stesso motivo una riserva tenuta in disparte non è più possibile, e tutto il combattimento consistendo nel primo scontro, è interesse di Lutti di farlo durare più che si può essendo difficile il venire a un · secondo attacco, in un modo regolare e prestabilito, per poco che si voglia farlo seguire immediatamente al primo, senza perdere tempo a riordinarsi, per profittare dell'effetto prodotto nello scontro iniziale.

Rispetto a una flotta disposta sopra una sola riga, la flotta schierata in una massa profonda ha anche il vantaggio di fornire l'occasione per un utile impiego del rostro specie da parte dei bastimenti di coda, i quali potranno "profittare degli scarti che necessariamente avran dovuto fare i legni nemici al momento in cui li traversavano i bastimenti della prima linea, e valersi della confusione e del fumo per dare qualche utile colpo di rostro". Questi criteri portano il Rossi a criticare apertamente le norme tattiche del 1862 al momento ancora vigenti, a cominciare dall'eccessivo numero di formazioni; quest'ultime potrebbero essere ridotte almeno da dodici a dieci, semplificando le evoluzioni e fissando per tutta la flotta una velocità normale di squadra di poco inferiore alla velocità massima dei bastimenti più lenti, oltre che un raggio normale di evoluzione equivalente a quello del bastimento meno pronto a girare. In tal modo la flotta potrebbe compiere evoluzioni d'insieme più rapide, mentre le distanze tra i bastimenti sarebbero fissate in relazione a tale raggio di evoluzione, e non sarebbero più non totalmente indipendenti come al momento avviene. Sulla base della precedente analisi critica, il Rossi indica come formazione iniziale d'attacco più adatta per una flotta su tre squadre la linea di fila per squadre, però con ogni squadra in linea di fronte: "appena la prima squadra avrebbe attraversato il nemico, la seconda e poi la terza sottentrerebbero libere d'obliquare più a dritta o più a sinistra, secondo che il nemico sembra scompigliato su questa o su quell'ala". Diminuendo le distanze tra la prima e la st=1.:unda squadra, si consente alla terza di fungere da riserva,


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proteggendo i fianchi del dispositivo; infine questa formazione ha il vantaggio di consentire in tempi rapidi un secondo attacco, perché è sufficiente che ogni bastimento al termine dell'attacco ruoti su sé stesso, per avere la flotta pronta a una nuova azione offensiva. AJ di là dei contenuti, il lavoro del Rossi dimostra che si sta pensando ad apportare alla regolamentazione tattica in vigore a Lissa delle profonde modifiche, naturalmente unificando tattica regolamentare del 1866 e tattica supplementare per le corazzate del Boiiet. Il Rossi non parla mai di Lissa: ma le sue considerazioni sulla necessità di non adottare regole non collaudate dall' esperienza, sull'utilità dell'ordine profondo, sull'impiego della riserva, sulla necessità di uniformare velocità e modalità delle evoluzioni, sulle modalità di attacco e dell'uso dello sperone ecc., senza essere rivoluzionarie ad ogni costo sottolineano indirettamente ciò che Persano e gli ammiragli in sottordine non hanno certo fatto a Lissa. Un altro articolo del 1868 sulla Rivista Marittima, dal titolo Pensieri sulla Tattica navale moderna (senza autore, quindi redazionale)62 spezza una lancia a favore dell 'adozione ufficiale per tutta la flotta della Tattica supplementare del BoUet, pn:forendo le sue idee a quelle sostenute dal vice-ammiraglio francese De Gueydon già citato nell'articolo Tactique navale, recherche des principes primordiaux et fondamentaux de toute tactique navale (Tattica navale, ricerche dei principi primordiali e fondamentali di ogni tattica navale) pubblicato anch'esso nel 1868.63 L'autore, succeduto al Boiiet al comando della squadra di evoluzione francese, vi sostiene la necessità che le evoluzioni oblique sostenute dal Boiiet siano più strettamente coordinate dall'ammiraglio, restringendo così notevolmente i cospicui spazi lasciati da quest' ultimo all'iniziativa e all'abilità dei singoli comandanti. Base del sistema del De Gueydon "è la marcia parallela e equilibrata, la quale egli tende a ottenere colla ricerca di un rapporto costante tra la velocità, gli angoli del timone, e le indicazioni della bussola, rapporto che ogni legno deve ripetere ad imitazione di quello regolatore". Il De Gueydon esclude perciò le manovre parziali e indipendenti di singole parti della flotta durante il combattimento e accetta solo le manovre d' insieme, pretendendo che l'ammiraglio possa padroneggiare e dirigere tutta la flotta in ogni istante del combatti.mento. Per il Boiiet, al contrario, l'unità di comando deve cessare all'inizio dell'azione, perché "vi succede l'iniziativa dei singoli capi squadra, i quali scevri di ogni altra preoccupazione vanno in cerca di un avversario, l'ammiraglio in capo divenendo da quell' istante un semplice punto di raccolta". In questo modo - afferma l'ignoto autore dell'articolo sulla Rivista Militare - l'ammiraglio De Gueydon si informa a "un criterio strategico spiccato" (sic) che lo discosta grandemente dalla Tattica supplementare del Boiiet.

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ivi, pp. 498-SOQ.

Toulon, J. Laurcnt 1868.


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L'autore dell'articolo non risparmia critiche a queste nuove teorie provenienti come sempre da oltr' alpe; a suo giudizio il De Gueydon non considera a sufficienza i molteplici fattori che possono influire sulla regolarità della marcia di un vascello, né è facile raggiungere quel metodo e quel colpo d'occhio che l'ammiraglio francese ritiene necessari per ridurre le irregolarità della marcia di ciascuna nave, provocando quei maggiori consumi di combustibile che sono l'inconveniente più serio del sistema da lui proposto. L'immagine che l'autore dell'articolo ha del futuro combattimento navale si avvicina assai a quella prima esaminata del Rossi; grazie alla rapidità del vapore le due flotte contrapposte si incroceranno più volte a vicenda con successive e rapide inversioni di marcia, quindi "i piani preconcetti, le combinazioni prestabilite andranno soggette a infinite trasformazioni". Per consentire alla flotta che non ha ottenuto risultati decisivi di riprendere il combattimento con la formazione più adatta, bisognerà che la costituzione delle armate sia tale da permettere ad ogni istante il pronto e regolare aggruppamento delle navi combattenti, cioè sia suscettibile di produrre istantaneamente la crenione di convenienti unità d'attacco. Il frazionamento di una forza navale in plotoni soddisfa mirabilmente a siffatte esigenze, favorisce la simultaneità degli attacchi sopra vari punti della formazione nemica, il concentramento di buon nerbo di forze sul punto più forte di tale formazione, e tende in pari tempo ad abituare i comandanti anziani alla direzione di una frazione dell'annata, a prepararli ad assumere senza titubanza la grave responsabilità del comando supremo, quando durante il combattimento venissero a mancare le navi ammiraglie.

L'autore perciò conclude che i principi del1a Tattica supplementare del Botiet "possono servire di solida base allo sviluppo delle evoluzioni di guerra di un nuovo codice di.tattica [che risulta messo allo studio proprio in quel periodo - N.d.a.]". Tuttavia, allo scopo di evitare collisioni e disordine nelle evoluzioni che "non hanno alcun carattere strategico", conviene conservare 1e prescrizioni della citata Tattica navale regolamentare italiana del 1862 relative all'adozione dei movimenti di contromarcia per il passaggio degli ordini di fronte agli ordini di fùa. L'obiezione che un siffatto movimento in presenza del nemico esporrebbe allo speronamento molte navi non è valida, perché il nemico sarebbe a sua volta minacciato di speronamento dalle navi di testa, e non riuscirebbe a raggiungere senza danno le navi che stanno per compiere la evoluzione, soprattutto se questa viene effettuata con la flotta per plotoni. I due articoli citati dimostrano che, subito dopo Lissa, la Marina italiana si rende conto che bisogna mutare la dottrina tattica in vigore tenendo conto soprattutto dello sperone, senza però categoricamente attribuirgli il primato e lasciando la massima libertà d'azione possibile a ammiragli e comandanti in sottordine. Per sperimentare la nuova tattica con il massimo numero possibile di navi tenendo peraltro presente la necessità di contenere


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le spese, nel 1869 il Ministro presenta un decreto il quale, per il 1870, "tende ad attuare l'idea di far eseguire periodicamente ogni anno grandi evoluzioni tattiche con una squadra completa di 12 bastimenti almeno, ed all'uopo provocare una spesa relativamente minima"64• La squadra d'evoluzione è composta da sei navi corazzate, più un avviso; a ciascuna corazzata viene aggregata per quaranta giorni un'altra nave di linea in disponibilità e con equipaggio ridotto, in modo che con opportuni travasi di bassa forza sia possibile far manovrare bene ambedue le navi, ottenendo cosl una squadra di 12 navi suddivise in quattro gruppi di tre navi (suddivisione prevista dal Botiet). Lo scopo del provvedimento è, secondo il Ministro, "di tradurre in pratica la scienza delle evoluzioni navali [non la tattica! - N.d.a] e formarne l'oggetto di studii e di serie applicazioni. È là che gli ufficiali si completeranno acquistando la sicurezza e il colpo d'occhio che esigono le manovre precise di masse pesanti e rapide [... J e si avrà anche la prova evidente che tutte le navi da battaglia sono sempre pronte a prendere i1 mare, e se ne riconosceranno maggiormente le qualità e i difetti nautici-militari". Sempre in materia di tattica navale, nel 1870 la Rivista Marittima pubblica una lunga serie di conferenze tenute alla base navale russa di Cronstadt dal tenente di vascello Semehk.in, aiutante di campo dell'ammiraglio Bou- . takov (autore del già citato trattato di tattica navale e al momento comandante della squadra navale russa del Baltico)65. Naturalmente il Semehkin è un fervente seguace del Boutakov, e non fa che esporne e lodarne le nuove idee, al tempo stesso riconoscendo, come si è visto, il primato della scuola tattica francese e descrivendo le teorie del Botiet. Molte delle idee che egli espone non sono ignote, e il suo apporto va considerato come una sorta di utile riepilogo aggiornato al 1870. Ci limiteremo perciò a sintetizzare gli aspetti più originali e meno risaputi delle sue conversazioni, tenendo anche presente che fa più volte dei riferimenti critici a Lissa. 1. La tattica navale va considerata come una scienza nuova, che tutti gli ufficiali hanno il dovere di apprendere, perché le moderne flotte di corazzate richiedono cognizioni per le quali non servono più gli ammaestramenti del passato, e nemmeno si posseggono dati d'esperienza. Al tempo stesso, "non è qualcosa di nettamente formulato [... ] non potrebbe essere racchiusa in un quadro determinato, divisa in sezioni, capitoli, paragrafi ecc.. Esiste ed esisterà semprè come un oggetto di studio, come o.na raccolta di materiali per l'analisi, ma non si trasformerà mai in una guida o manuale da cui si estraggono fatti, senza il concorso del raziocinio. Ci dirà: studiate, riflettete; ma mai: fate ciò[ ... ]. Epperò la tattica ci darà una tela e i materiali per riempirla; c'insegnerà anche il modo di utilizzare e l'una o gli altri, ma " "Rivista Marittima" 1869, pp. 1272-1275. "'· Semehkin, Letture sulla tattica navale e le evoluzioni, " Rivista Marillima" 1870, pp. 161-193, pp. 368-392, pp. 526-542, pp. 742-775, pp. 1290-1308, pp. 1525-15421, pp. 1716- 173 1.


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non si permetterà mai di additarci dispoticamente il disegno da fare né le tinte da impiegare". 2. La tattica navale non è che ''una serie di idee sul modo d'impiegare, in tempo di guerra, l'artiglieria e le evoluzioni, cioè il modo di utilizzare i nostri mezzi di azione per nuocere al nemico". Essa non va confusa con le evoluzioni, come ha fatto nel periodo della vela la maggioranza dei marinai: "Nelson solo seppe uscire da questo cerchio seducente, e gettando in mare, a Trafalgar, il libro delle evoluzioni provò ai contemporanei e ai suoi discendenti che la tattica navale e le evoluzioni non sono la stessa cosa". Per evoluzioni navali si deve intendere "le regole particolareggiate per muovere una flotta o una squadra in massa, mercè le quali una flotta deve formarsi in diversi ordini e passare rapidamente da un ordine all'altro senza confusione. Si trovano sullo stesso piede dell'artiglieria e la loro importanza altro non è che quella di un elemento del combattimento che non può essere trasformato in scienza del combattimento". 3. La Tattica regolamentare francese del 1861 ha il pregio di prevedere l'attacco con forze superiori dei punti deboU del nemico, "idea perfettamente giusta, molto pericolosa per una flotta che continui a voler combattere con forze sparpagliate, qualunque sia la loro formazione, in linea di fila, come gli italiani a Lissa". Ciononostante ha parecchi difetti, il principale dei quali è che manca di buone norme per il combattimento a distanza ravvicinata. Rispetto ad essa la Tattica supplementare del Botiet ha il pregio di tener conto del rostro, di non prevedere "regole fastidiose" per conservare il posto della nave, e di privilegiare anche per il combattimento l'ordine per plotoni, che "come ordine di marcia è impareggiabile, e noi russi, con ogni probabilità, lo adotteremo per la navigazione". Peraltro il Botiet indica delle "idee strategiche" che non possono essere tradotte in pratica con l'aiuto delle evoluzioni da lui previste; quest'ultime risultano troppo ristrette, perché intende riferirle all'intera flotta. 4. La prima flotta del mondo, quella inglese, occupa uno degli ultimi posti per quanto riguarda lo studio delle nuove evoluzioni navali: "gli ufficiali inglesi, tranne poche eccezioni, trovansi in un'ignoranza assoluta di ciò che possano essere le evoluzioni navali [... l, Gli ammiragli stessi, nelle letture pubbliche trattando nella tattica navale, confessano la loro perfetta insufficienza a questo riguardo". Nella flotta inglese è molto diffuso "il gusto della routine" e un eccessivo attaccamento al passato: per questo lo studio delle nuove evoluzioni navali è trascurato, e "la flotta ripete con orgoglio che tutta la tattica di Nelson non consisteva che in una sola cosa, avvicinarsi a portata di pistola al nemico, e che seguirà questo esempio anche oggigiorno col nemico". Il risultato è "che i marini della Gran Bretagna vagano nelle tenebre, e attratti da una semplicità apparente essi si creano un dedalo inestricabile; invece di ordini serrati e compatti, preparano per la loro flotta formazioni in sei colonne; invece di manovre rapide, inventano i movimenti di fianco; invece di ordini concentrati, separano le loro colonne di un intervallo uguale alla lunghezza di queste colonne".


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5. La Marina degli Stati Uniti è anch'essa assai arretrata, perché il libro del tenente di vascello Parker La tattica "si limita ad applicare la strategia di terra alle manovre della flotta, senza considerare le regole delle evoluzioni, il tempo ecc. e con disegni poco chiari". L'Austria possiede una raccolta di evoluzioni, l'Italia ne sta studiando una; "per un caso strano, queste due flotte che [prima del 1866] si erano meno occupate delle altre di questioni di evoluzioni e di tattica, dovettero dimostrare a Lissa quanto erano importanti". [A proposito di quest'ultima affermazione del Semehkin, in una nota al testo la direzione della Rivista Marittima giudica inesatte queste critiche alla nostra regolamentazione, "giustificate dall'ignoranza dell'autore intorno al nostro nuovo Libro di evoluzioni''; secondo la Rivista tale libro, pur recependo principi e norme non solo dalla Marina francese ma anche da altre, "conserva tuttavia un'impronta sua propria" - N.d."a.]. 6. Tutto sommato né la regolamentazione francese né quella inglese, pur accettando come base del combattimento di squadra "l'idea strategica" dell'attacco con lo sperone, sono in grado di dare a un ammiraglio ciò che gli abbisogna nel momento del combattimento. "Entrambi sono insufficienti dal punto di vista del carattere e dc11e condizioni del combattimento navale moderno; non danno a una flotta la possibilità di muoversi con facilità, di lanciarsi all'attacco a tutti i rombi di vento e di essere pronta a respingere il nemico da qualsiasi punto dell'orizzonte egli venga". Rispetto ad essa, · l'opera dell'ammiraglio Boutakov Nuove basi della tattica a vapore dà alla Marina russa un forte vantaggio su tutte le altre. 7. L'ammiraglio Boutakov ha compilato un lavoro di grande mole, che prevede diecimila figure di evoluzioni; e all'inizio del 1868 è stato nominato presidente di una. commissione per preparare la nuova raccolta di evoluzioni, che sta per essere ultimata. Tale raccolta , con le chiare spiegazioni che accompagnano ogni segnale di evoluzione, indica con precisione a ciascun attore che cosa deve fare; in tal modo, qualunque marinaio che non conosce le manovre di squadra può compierle per la prima volta senza commettere errori, cosa che non avviene con la Tattica navale francese. L'innovazione principale introdotta dal Boutakov è: il principio - respinto dai francesi ma adottato dagli inglesi - che "con il timone messo alla banda, una nave in movimento descrive un circolo più o meno regolare; con il timone in mezzo essa segue una tangente a questo circolo. Così, allorché parecchie navi sono insieme, e incominciano contemporaneamente a girare, se i raggi dei circoli che esse descrivono sono uguali, i loro movimenti saranno perfettamente identici". Ne deriva che il comandante in capo di una squadra deve anzitutto fissare il raggio di evoluzione della squadra stessa, cioè quello dietro il quale tutte le navi devono percorrere gli stessi archi nello stesso tempo. 8. La nuova raccolta di evoluzioni del Boutakov indica formazioni applicabili tanto all'intera flotta che a una squadra o a una divisione di poche navi (Vds. Fig.2 pag. 1072). Ma diversamente da quanto fanno i francesi, che hanno navi quasi lulle ddlu slesso lipo, essa prevede di costi-


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tuire le squadre per tipi omogenei di navi; ciascuna squadra si divide in due divisioni, e ciascuna divisione in plotoni di tre navi. Una squadra viene divisa in due divisioni (e non in tre), perché la linea di fila su tre colonne è una formazione da scartare, e per la marcia, la linea di fila per plotoni è di gran lunga superiore. La linea di fila va scartata anche per la marcia, perché facilita gli speronamenti da parte del nemico, specie di notte; può essere adottata solo per il passaggio in stretti o canali ristretti. L'ordine in due colonne non vale molto di più, come ordine di marcia, della linea di fila, perché anch'esso facilita l'urto da parte del nemico. Se, però, esso si trasforma in due colonne a denti, consente un agevole concentramento del fuoco di artiglieria e rende difficile lo speronamento da parte del nemico; per questo è molto apprezzato dagli inglesi. L' ordine di fronte come ordine di marcia non ha il valore che molti vogliono dargli, e specie di notte rivela anch'esso i suoi limiti. Come ordine di combattimento è buono, perché facilita l'attacco con lo sperone; ma è troppo esteso, quindi non consente di concentrare l'attacco e inoltre può facilmente assumere un aspetto irregolare. Nei futuri combattimenti difficilmente esso verrà adottato; molto probabilmente gli si preferirà l'ordine doppio di fronte o l' ordine di fronte a denti, che sono i più adatti come ordini di attacco, tant'è vero che l' ammiragUo Boi.iet reclama il merito di averli introdotti per primo. L'ordine per plotoni di tre navi - preferito dai francesi - è eccellente per la marcia ma non vale gran che per il combattimento, perché con una nave in più finisce con il trasformarsi in ordine su tre colonne. Infine l'ordine di combattimento ad angolo (però di 90° o 60° gradi) equivale al doppio ordine di fronte, sul quale ha il vantaggio di essere più adatto a tagliare la linea nemica. A Lissa esso è stato adottato dagli austriaci, ma formava un angolo di ampiezza eccessiva (120°) che lo faceva assomigliare piuttòsto a una deformazione della linea di fronte. In passato "l'ordine ad angolo (cuneo) era l'ordine meno adatto alle evoluzioni; epperò gli inglesi lo scartarono e gli preferirono la doppia linea di fronte, sebbene Douglas, nella sua celebre opera Naval warfare with steam, lo difendesse come una delle forme del suo caro ordine di rilevamento". Al momento attuale, però, grazie alle nuove regole dell'ammiraglio Boutakov esso ha acquistato grande flessibilità e come facilità di movimenti risulta superiore alla linea di fronte. 9. Prima ancor che delle corazze, dei cannoni ecc. nel combattimento occorre tener conto dell'indole, del carattere nazionale del nemico e nostro. Noi russi dobbiamo dirigere immediatamente su di esso senza preoccuparci di sapere se esso è forte o debole; "l'unico scopo d'ogni manovra deve essere quello di attaccare il nemico colla maggiore sollecitudine possibile; e più presto noi raggiungeremo questo aumento desiderato, tanto meglio sarà ,per noi". Come dimostra la battaglia di Lissa nella quale il Kaiser con le sue bordate è riuscito a respingere gli attacchi dall'Affondatore, una nave in legno può affrontare con vantaggio una corazzata, concentrando su di essa il fuoco delle numerose artiglierie a distanza ravvicinata, e poi allontanandosi rapidamente per sfuggire al suo fuoco e al suo sperone: ciò richiede audacia


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e estrema rapidità della manovra. Non conviene alla nave in legno attaccare la corazzata con lo sperone: anche nel caso che l'attacco (il che è difficile) riesca, i danni da essa riportati sarebbero maggiori, forse letali. Quando i proietti esplodenti saranno perfezionati e diventeranno più efficaci contro le corazze, le navi non corazzate aumenteranno il loro valore; comunque è da escludere che la loro costruzione in futuro verrà abbandonata, perché conserveranno ancora per lungo tempo il ruolo di incrociatori, e non potranno mai essere rimpiazzate dalle corazzate ne11e lunghe navigazioni. Per ultimo, la perdita della Palestro e del Re d'Italia a Lissa insegnano che a bordo delle navi deve essere previsto il maggior numero possibile di pompe a vapore e mezzi antincendio. 10. L'artiglieria è l'arma principale nel combattimento tra due navi, e la battaglia di Lissa ha provato che 1' arrembaggio non è più possibile: ma nel!' attacco di squadra lo sperone, arma di grande effetto anche morale, è il principale mezzo di combattimento. Difficile da impiegare in un combattimento tra navi isolate, diventa di impiego assai più frequente in una mischia di parecchi bastimenti. Vi è molta differenza fra i modelli di sperone francesi e inglesi. Il modello francese ha l'aspetto di un cono leggermente ricurvo adatto a perforare sott'acqua la nave nemica anche a piccole velocità; il modello inglese (che con il Ferdinand Max ha dimostrato.la sua efficacia a Lissa) consiste in una curvatura dell'intera prua simile al taglio di un'ascia , ma richiede una velocità considerevole. L'impiego dello sperone esclude la linea di fila, anche perché Lissa ha dimostrato che non si può arrestare una formazione navale attaccante a cuneo con il solo fuoco di artiglieria: "si stenta a credere che nel tempo presente una forza navale si risolva ad aspettare un attacco con lo sperone formata in linea di fila, ma nonostante lo si può ammettere, perché le sciocchezze sono sempre possibili. Gl'italiani erano in linea di fila quando furono abbordati dagli austriaci, e presentemente parecchi comandanti inglesi sostengono che non si può combattere che in linea di battaglia". 11. Prima dell'attacco di squadra l'ammiraglio deve formulare un suo piano e far conoscere bene ai suoi comandanti i suoi disegni operativi e i criteri fondamentali dell'azione da svolgere. Durante l'azione difficilmente potrà concepire e ordinare altre combinazioni strategiche, anche per le difficoltà di ricezione dei segnali: perciò nelle ballagli navali "la parte dell'ammiraglio sarà di scegliere l'istante favorevole per l'attacco, indi capitanare l'attacco, e infine prendere una parte effettiva al combattimento facendo tutto il male possibile". Egli deve guidare l'attacco e dare costantemente l'esempio, esponendo la nave ammiraglia più delle altre all'offesa nemica; di conseguenza essa avrà grande e a volte decisiva importanza e dovrà essere progettata e costruita ad hoc, dovendo possedere doti di velocità, potenza offensiva e corazzatura difficili da riunire in una sola nave. 12. Il momento più delicato è l'inizio del combattimento, quando l'ammiraglio deve studiare il nemico per individuare il suo lato debole. Il momento più favorevole per l'attacco è quando le forze nemiche sono


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sparse e non in grado di sostenersi reciprocamente (anche in questo caso, Lissa insegna). Le navi dell'attaccante, a loro volta, devono essere in grado di sostenersi a vicenda: ciò dipende più dall'iniziativa dei singoli comandanti, che dall'ammiraglio. La superiorità dell'attaccante sul nemico sarà di breve durata, perché le sue navi ben presto saranno a loro volta avviluppate magari da forze nemiche superiori. In questa fase una riserva è di grande utilità, sia per attaccare direttamente le forze nemiche con le quali combatte la nostra forza principale, sia per dirigere sulle altre navi nemiche che cercheranno di soccorrere le navi attaccate, sia per impegnare la riserva nemica. La predetta riserva dovrà essere al comando di un Capo ardito e sperimentato, perché nella maggior parte dei casi dovrà agire d'iniziativa: comunque una corazzata non si arrenderà - anche se il suo scafo sarà crivellato di colpi e avrà subìto gravi perdite - "finché la sua macchina rimarrà intatta e finché potrà dare un colpo di sperone" [critica indiretta al Saint Bona Lissa? - N.d.a.]. 13. "La principale regola strategica (sic) per la difesa d'una squadra deve essere quella di "preparare i colpi del nemico con rapidi movimenti di fianco, oppure passando negli intervalli che separano i bastimenti". Poiché l' attaccante deve anzitutto mantenere serrata e in ordine la propria formazione, compito della difesa è di scardinarla, mantenendosi a sua volta compatta. Il contrattacco deve essere fondato sullo sperone, perché - come dimostra Lissa - l'artiglieria è poco efficace per il difensore. Tuttavia quest'Arma - sempre preminente nello scontro tra due navi isolate - riprenderà la sua tradizionale importanza per ambedue i contendenti quando, dopo l'attacco iniziale, le squadre si confonderanno: sotto questo profilo "l'importanza dello sperone, quantunque abbia cresciuto enormemente in questi ultimi tempi, non diminuisce per ciò appunto il valore dell'artiglieria". La difesa deve essere accuratamente preparata dal comandante; una squadra all'ancora, particolarmente soggetta a attacchi di sorpresa con lo sperone, deve essere sempre pronta a salpare; occorre anche tener presente l'utilità delle mine per proteggerla. 14. Il problema dell'attacco alle fortificazioni costiere da parte di forze navali deve essere studiato in comune - senza pregiudizi o chiusure corporative di Arma o Forza Armata - da ufficiali di Marina, d'artiglieria o del genio. L'antico detto francese che quattro cannoni a terra valgono più di un vascello di linea con tutti i ·suoi cannoni era giusto nel periodo della vela: ma con le moderne corazzate, con artiglierie navali più perfezionate di quelle terrestri e con i forti progressi del tiro navale e dell'addestramento dei cannonieri, tale detto è assai meno vero di una volta. Comunque, le batterie da costa ben organizzate conserveranno anche in avvenire la loro superiorità sulle corazzate, non tanto per l'efficacia delle loro artiglierie, ma per la possibilità di essere riparate facilmente e in tempi rapidi, e soprattutto di avvalersi di blindature di dimensioni tali da permettere loro di resistere più a lungo delle corazzate. Ciò non significa che le forze navali non possano avere ragione delle fortificazioni costiere: possono pur sempre sfruttare la debolezza o scarsità del loro armamento o 1a 1oro impossihi1ità di concentrare i1 fuoco. Tno1tre, mentre una nave in movimento può ormai battere con precisione elevata anche un obiettivo ter-


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restre, non così avverrà dei cannoni da costa, che avranno maggion difficoltà a colpire un bersaglio in movimento. In tutti i casi le navi devono portarsi a un tiro di pistola dalle fortificazioni, in modo da sfruttare al massimo l'efficacia dei proietti contro una blindatura. E devono per prima cosa aprire un violento fuoco a mitraglia sostenuto da scariche di fucileria, alla scopo di arrecare con tiri d'imbocco le maggiori perdite possibili ai serventi dei pezzi. Inoltre bisogna considerare che, da solo, il fuoco delle fortificazioni costiere non può arrestare una flotta corazzata che forza un passaggio a tutto vapore, la quale data la sua rapidità difficilmente può essere colpita da terra con la precisione necessaria. Il passaggio diventa, invece, assai più difficile se la difesa costiera può avvalersi di ostacoli artificiali come cavi, catene, piuoli , navi affondate e soprattutto "torpedini dormienti", cioè fisse. Ma non è detto che, solo per questo, le forze navali debbano rinunciare a formre il passaggio: si può e si deve studiare il modo di annullare o distruggere gli ostacoli. Bisogna anche tener conto che, mentre la base di Cronstadt può essere facilmente resa inaccessibile, esistono altri luoghi nei quali non è possibile avvalersi di difese sottomarine: fra queste vi sono i Dardanelli, dove la grande profondità e la forza deJla corrente non permettono di disporvi ostacoli artificiali. L' ammiraglio inglese ~kvrath ha forzato il passaggio del Dardanelli con navi in legno: "che devesi attendere dalle corazzate aventi una gran forza e una potente artiglieria? Per esse, rimontare i Dardanelli non sarà che un gioco". Se si pone mente alla fallita impresa dei Dardanelli - con gravi perdite anche di navi corazzate - nella prima guerra mondiale, si deve ammettere che il Semehkin non è stato buon profeta. Anche le sue critiche al conservatorismo inglese non sono giustificate dagli eventi successivi, né egli riesce a ben dimostrare l'asserita, forte superiorità delle teorie tattiche del Boutakov su quelle inglesi e francesi. Troppo spesso dopo aver messo bene in luce la differenza tra la tattica e evoluzioni, anch'egli finisce con l'identificarla con le evoluzioni stesse, giustificando il giudizio del Castex che quella del Boutakov è solo un'opera di cinematica navale. Per la Marina italiana, l'aspetto più importante delle conferenze del Semehkin è la loro stessa pubblicazione sulla Rivista Marittima a soli quattro anni dopo Lissa: vi si colgono infatti numerosi e severi riferimenti critici, anche indiretti, a quella battaglia, ai quali la direzione de1la rivista non fa obiezioni di sorta. Anzi: l'analisi del Semehkin per tutto ciò che riguarda azione di comando e ruolo dell'ammiraglio, formazioni, condotta della battaglia navale, indica ciò che certamente non è stato fatto a Lissa né dal Persano né dai suoi sottoposti. Con questa fisionomia, le considerazioni del Semehkin possono essere lette come il primo esame degli ammaestramenti di Lissa pubblicato in Italia dalla Rivista Marittima. Da notare anche il frequente uso dell'aggettivo "strategico" da parte del Semehkin: le evoluzioni navali servono a eseguire i "piani strategici"; neanche Botiet ha pensato di dare "un valore strategico" alle sue formazioni per plotoni; le "idee strategiche" del Botiet non possono essere eseguite con


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le sue evoluzioni; la nave è "l'unità strategica naturale"; "importanza strategica" delle evoluzioni navali; scopo dei "piani strategici" dovrà essere l'attuazione del vecchio principio della concentrazione delle forze; è difficile che durante il combattimento l ' ammiraglio possa formulare nuove "combinazioni strategiche"; oggi i "piani strategici" hanno più importanza del passato; la principale "regola strategica" per la difesa di una squadra deve essere que1Ia di parare i colpi del nemico con movimenti di fianco; le esercitazioni di squadra assicurano la prontezza dei "movimenti strategici" sul campo di battaglia... A1la confusione di fatto tra tattica e evoluzioni il Semehkin aggiunge perciò quella tra tattica e strategia, chiamando "strategico" ciò che è tattico. Anche da quanto egli afferma, però, si deduce almeno che la strategia è arte del movimento, è azione, è condotta delle operazioni: il tutto va però riferito all'intera armata, non a una sua parte. Nel complesso, nonostante i loro limiti e i troppi riferimenti di carattere cinematico, le conferenze del Semehkin rappresentano la più efficace sintesi della problematica tattica sul tappeto negli anni subito dopo Lissa e danno il dovuto risalto anche a quegli aspetti morali e spirituali che, alla fin fine, hanno deciso l'esito della battaglia. I suoi accenni ai vantaggi della corazzata a torri avrebbero potuto essere spinti più a fondo esaminandone l'influsso sul1e formazioni; vanno però apprezzati parecchi suoi giudizi equilibrati, anche in merito alle effettive possibilità delle nuove corazzate nel duello con le fortificazioni costiere. Nel complesso, egli dà una lezione di flessibilità, anche per il fondamentale rapporto tra sperone e cannone: ribadendo la preminenza di quest'ultimo, coglie nel segno.

La Marina e la difesa delle coste secondo il capitano di fregata Lovera De Maria (1868)

Chiudiamo la parte dedicata alla strategia e tattica navale dopo Lissa con un argomento che ha primarie connessioni strategiche e diverrà di grande attualità dopo il 1870, specie per opera di Domenico Bonamico: le modalità d'impiego delle forze navali nell'attacco e nella difesa delle coste, in cooperazione con l' esercito. Il primo lavoro importante sul problema della difesa delle frontiere marittime è del 1864, ed è dovuto al senatore Luigi Torelli66 • Le sue non sono certo idee originali: nota che il grande sviluppo costiero e la vicinanza al Canale di Suez (di prossima apertura) favoriscono l'Italia ma espongono le sue coste, e specialmente le sue importanti città costiere, all'offesa dal mare, imponendole di provvedere con urgenza a una difesa marittima al momento inesistente. A suo giudizio, occorrerebbe anzitutto allearsi con la Francia, che dispone di un forte esercito e una forte marina; e intanto nominare una com... Cfr. Luigi Torelli, La Difesa delle coste d 'Italia, Firenze, Barbera 1864.


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missione, che stabilisca quali città occorre difendere con priorità 1 e quali invece con priorità 2, tenendo comunque presente che (come dimostra la guerra civile americana in corso) le difesa da terra sono indispensabili e efficaci, anche per il loro morale sulle popolazioni; almeno per il momento, non è infatti possibile contare per questa esigenza sulle forze navali. Per il presidio delle fortificazioni costiere non si deve intaccare l'esercito di 1a linea; d'altro canto non è possibile impiegare la guardia nazionale, dato che il servizio delle artiglierie richiede conoscenze speciali. Occorre perciò costituire una milizia cittadina speciale (corpo di artiglieria), composta da uomini scapoli di età inferiore ai 35 anni e idonei al servizio militare; e per dare loro modo di esercitarsi, occorre organizzare un "Trro nazionale marino". I Comuni interessati devono concorrere alle spese; e alle esercitazioni di tiro a varie distanze dalle artiglieri costiere devono partecipare non solo gli artiglieri del corpo speciale, ma tutti i cittadini, nei limiti delle loro possibilità: "verrà chi vuole, si eserciterà chi vorrà, ma l'appello non deve escludere nessuno". Lo studio del Torelli, piuttosto superficiale e ·alquanto ottimistico, risente forse delle soluzioni inglesi del periodo; ad ogni modo l'interesse per il problema della difesa marittima dopo la guerra del 1866 aumenta. e fin da allora nasce l'esigenza di coordinare difese marittime e difese terrestri, con tendenza della guerra marittima a spostarsi - come oggi - nelle acque costiere. Gli studi in proposito compiono un notevole salto di qualità; nel 1867 viene istituita a Torino la Scuola Superiore di Guerra dell'Esercito, presso la quale un ufficiale di Marina insegna arte militare marittima; dal 1869 al 1874 vi si svolgono anche quattro corsi speciali di un anno per ufficiali di Marina, poi purtroppo soppressi. Nel luglio 1868 l'insegnante di arte militare marittima presso tale scuola, capitano di fregata Giuseppe Lovera De Maria (Medaglia d'Argento ad Ancona nel 1860, poi ammiraglio), tiene una serie di cinque lezioni sulle modalità per l'impiego delle forze navali nella difesa delle coste, che sono pubblicate dalla Rivista Marittima del 1869 in quattro lunghe puntate.67 Con continui e circostanziati riferimenti all'esperienza della guerra di secessione americana 1861-1865 il Lovera tratta quella che egli stesso chiama "la strategia della guerra delle coste", accentuando fin troppo i mutamenti avvenuti anche in questo campo con l'introduzione de] vapore e della corazza, che a suo dire avrebbero capovolto i termini del problema rendendo estremamente più efficaci, rispetto al passato, ]e "proiezioni di potenza" da] mare verso la terra. Basti citare, in proposito, quanto afferma all'esordio: •1-

Conferenze tenute dal capitano di fregata cav. Lovera de Maria al Corso Speciale della Scuola Superiore di Guerra nel luglio 1868, "Rivista Marittima" 1869, pp. 272-301, pp. 389-420, pp. 766-788 e pp. 1039-1066. Le tesi del Lovera vanno confrontate anche con il dibattito che è allora in corso in Inghilterra, Paese nel quale, nonostante la disponibilità della flotta di gran lunga più potente del mondo, si ritengono ugualmente necessarie costose fortificazioni costiere presidiate da contingenti di milizia cittadina con l' aiuto di forze regolari (Cfr. l'articolo sull'Army and Navy Gazette inglese del 27 giugno 1868, riassunto in "Rivista Marittima" 1868, I Trim., pp. 703-705).


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le moderne flotte a vapore [... ] possono ormai [ ... ] regolare le loro operazioni con quella stessa esattezza che regola le mosse degli eserciti. La guerra d'aggressione la più audace è adunque possibile ne11e lotte dell'avvenire, e le diversioni più ardite sono da prevedersi in caso di guerra continentale. Poche ore basteranno al trasporto da Francia ad Italia, da Prussia ad Olanda, di corpi da sbarco; per cui la guerra delle coste prenderà posto nell'avvenire fra le più frequenti combinazioni della strategia [nostra sottolineatura - N.d.a.]. La guerra della Crimea e quella della secessione in America ci offrono di ciò un recente esempio; e difatti un attacco, reputato impossibile per l'antico vascello a vela, è ormai quasi un gioco (sic) per la moderna pirofregata corazzata.

Sulle possibilità della corazzata contro le difese costiere il Lovera ha un atteggiamento molto più radicale - e meno realistico - del Semehkin: essa "ha invertito il teorema" della superiorità delle difese terrestri, e può addirittura "dirsi invulnerabile" aHa loro offesa. Apodittica anche la sua visione delle possibilità di "proiezione di potenza" che si aprono per una flotta padrona del mare, quindi in grado di scegliere a piacimento il momento e il luogo dell'attacco: arsenali marittimi, navi e porti di commercio, materiale commerciale o da guerra, valori immensi in officine o mercanzie si presentano in uno spazio ·ristretto ai colpi dell'aggressore. Se le condizioni della difesa non consigliano l'assedio e lo sbarco, una flotta, semplicemente con prede o imposte, potrà infliggere terribile danno ali' orgoglio o alla ricchezza di una nazione nemica, la quale si lasci sorprendere in un fatale accecamento circa le mutate condizioni dell'arte della guerra navale.

Solo opponendo a una potenza navale un'altra flotta è peraltro possibile impedire il suo attacco alle coste; di conseguenza [è questo il caso dell'Italia - N.d.a.l un esteso litorale per una nazione diventa un elemento di forza, solo quando essa è in grado di "farsene una insuperabile cinta per la protezione delle proprie industrie e dei propri commerci". Ciò si ottiene con il dominio del mare; ma per conquistarlo almeno localmente il più debole, non potendo essere in ogni punto superiore al nemico, deve costringerlo a dividere le forze, perché il maggior pericolo per la difesa è il concentramento delle forze dell'attaccante per compiere operazioni combinate di grande respiro strategico. Non potendo fare tutto da sola, la Marina italiana deve operare in concorso con l'Esercito e le difese costiere. Quest'ultime in tesi generale devono essere tali da offrire sicuro ricovero alle flotte, valendo senza il loro concorso a resistere alle aggressioni delle nemiche . Una flotta possente, padrona del mare e capace di bloccare il nemico nei suoi porti, è certo la miglior difesa del litorale che da una nazione possa ambirsi. Ma essa pure in molti casi formando una seconda impossibilità finanziaria, devesi ricorrere per la difesa delle


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coste a un sistema più pratico che soddisfaccia a qualsiasi evenienza. [Anche] la nazione più agguerrita e possente può soffrire un rovescio navale che ne distrugga la flotta. In fatto di sicurezza nazionale ogni eventuaJità dovendo essere preveduta, questa è tale da far deporre il pensiero di fidarsi unicamente ad una sola arma di difesa [nostra sottolineatura - N.d.a.], ed è perciò necessario il crearsi una seconda linea di difesa persistendo a fortificare i punti più importanti del litorale, ed in special modo i luoghi d'alimento e creazione delle flotte.

Con queste idee (vds. anche cap. Xl) il Lovera si colloca a mezza via tra coloro che non intravedono alcun pericolo di sbarchi e attacchi alle coste così possenti e risolutivi, e coloro che pur ammettendo questo pericolo, ritengono che la Marina da sola debba e possa bastare per farvi fronte. Come si vedrà nel Voi. m, il dibattito su questi temi prosegue per tutto il secolo XIX; per il momento ci limitiamo a ricordare che nel 1881 Domenico Bonamico, il maggior sostenitore in Italia del principio che "le flotte sono la difesa delle coste, come l'Esercito è la difesa territoriale lcioè terrestre - N.d.a.]", contesta duramente queste tesi del Lovera, accusandolo di considerare - per effetto di concezioni ormai superate del periodo velico - le flotte come elemento esclusivamente offensivo, e di sostenere tesi contraddittorie, da una parte riscontrando la necessità di una forte ·flotta e dal1' altra mettendone in rilievo l'insufficienza difensiva68• Sono questi i principali criteri strategici per l'impiego delle forze navali enunciati dal Lovera, che li definisce "semplici corollari delle corrispondenti massime generali della guerra continentale". La loro applicazione particolareggiata ali' attacco e alla difesa delle coste è infarcita di exempla historica tratti in massima parte dalla guerra americana 1861-1865, ma è anche ricca di spunti su argomenti e problemi destinati a rimanere ancora per luogo tempo sul tappeto in Italia. Ad esempio, il Lovera è forse il primo a usare il termine - tuttora di attualità - "operazioni combinate". Riguardo alle varie forme di attacco dal mare verso la terra egli sostiene che: anche se le grandi invasioni marittime sono diventate di meno difficile esecuzione, l'indole pacifica dei popoli tenderà a opporsi a guerre di aggressione che comportano immenso spreco di ricchezze, quindi rimarranno rare. Invece potranno verificarsi, come già in passato,· blocchi dal mare e ardite imprese condotte di sorpresa anche da forze esigue per impadronirsi di posizioni di speciale importanza strategica (isole, penisole, istmi, grandi rade ecc.); - negli sbarchi occorre anzitutto assicurarsi il possesso di un porto chiuso o di una lingua di terra facile da difendere e con un buon approdo, in modo che in caso di rovescio risulti agevole la ritirata e il reimbarco;

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D. Bonamico, LA difesa marittima dell'Italia, Roma, G. Barbèra 1881, pp. 22-24.


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ogni operazione di attacco alle coste deve essere accompagnata da azioni diversive di forze navali rapidissime in punti lontani, in modo da trarre in inganno il nemico e allontanare le sue forze navali dal vero obiettivo dell'attacco; occorre assicurare l'unità di comando, di concezione e esecuzione con la nomina di un solo comandante dell'intera operazione (generale o ammiraglio) e di un unico responsabile per ogni branca o settore; le forze sbarcate devono sempre mantenersi in comunicazione con la costa, per conservare aperta la via della ritirata e sicuri i rifornimenti. Per il resto il Lovera si diffonde in particolari sull'attacco alle basi navali e alle fortezze, sui bombardamenti dal mare, sugli sbarchi, sulle navi da trasporto, sulle modalità di imbarco delle truppe ecc. che non hanno, oggi, molto interesse. Tre i punti essenziali: il blocco di una base navale nemica è possibile lPersano non lo riteneva possibile - N.d.a.], ma ha durata limitata (15-20 giorni al massimo) a causa della necessità di rifornirsi di combustibile; esso va condotto rimanendo fuori tiro dalle fortificazioni e impedendo al nemico di uscire in mare; l'attacco da parte di forze navali alle fortificazioni costiere ha buone probabilità di successo conlro fortificazioni antiquate, in pietra o mattoni o in barbetta, mal collocate o mal armate e servite; ma "se trattasi di opere in terra, ovvero corazzate, ben fiancheggiate e con esteso comando sulle acque dalle quali possono essere attaccate, in questi casi gli attacchi dal mare non hanno probabilità di successo [nostra sottolineatura - N.d.a.]. Questa affermazione contraddice, dunque, le tesi precedenti del Lovera sul "capovolgimento del teorema" da parte delle corazzate; occorre battere le fortificazioni anche di notte, onde impedire al difensore di ripararle; in tutti i casi l'azione concomitante di forze terrestri che attacchino le fortificazioni costiere dalla parte di terra "risparmierà alla flotta ingenti sacrifizi". E siccome un'opera ridotta al silenzio può essere occupata solo in via eccezionale e temporanea da distaccamenti di sbarco della flotta, anche in questo caso è necessario il concorso di forze terrestri. Poiché la difesa delle coste è argomento di fondamentale interesse per l'Italia, il Lovera fa numerosi riferimenti alla problematica strategica nazionale: ma per quanto riguarda le forze navali, non tratta l'impiego della flotta d'alto mare in questo specifico ruolo, prevedendo invece navi speciali costiere con idonee caratteristiche. A suo parere, "l'aggiunta di una flottiglia di guarda-coste a11a nostra flotta di prima linea è per l'Italia, forse più che per ogni altra nazione marittima, sommamente opportuna, e forma un desiderio pratico già generaliu.ato nella armata [nostra sottolineatura - N.d.a.]. Esso dovrebbe trovare eguale favorevole appoggio ne1l'Esercito, che nelle


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operazioni lungo le coste ricaverà da questo materiale quello stesso appoggio che gli è indispensabile trovare nell'artiglieria e cavalleria leggera per le operazioni esclusivamente continentali". Anche questa tesi viene contestata dal Bonamico, che sempre nella sua Difesa marittima dell'ltalia69 omette la parte del periodo da "e forma un desiderio pratico ..." ecc. in poi, sostituendola con la frase "e varrà meglio di navi maggiori alla difesa del litorale", che non risulta usata dal Lovera. L'opposizione del Bonamico a siffatti concetti è più che prevedibile, visto che è sempre stato il maggior fautore dell'assegnazione esclusivamente alla flotta d'alto mare della difesa delle coste dell'Italia Centrale e Meridionale e delle isole, senza bisogno dell'Esercito e di difese costiere. Il Lovera esamina solo la parte concernente le difese terrestri e i compiti delle forze navaJi costiere destinate a potenziarne l'azione, dividendo la difesa delle coste in due branche: difesa dei punti prescelti come base di operazione delle flotte della difesa stessa; - difesa dei litorali adatti a sbarchi nemici. Il primo genere di difesa è di competenza della Marina; il secondo genere di difesa, "di caratteri eminentemente eventuale, può dirsi [ ... ] una gara fra le flotte e le locomotive. Esso è per intiero di competenza dei corpi dell'Esercito". I principali mezzi di difesa sono le batterie corazzate, le ostruzioni e le torpedini; in una base navale a tali mezzi si aggiungono "le difese offensive", cioè una serie di operazioni combinate tra le forze terrestri e la flotta di difesa che hanno lo scopo di impedire lo sbarco di truppe nemiche in prossimità della piazza, oppure di fermarlo o ricacciarlo se è già sbarcato. Ancora una volta contraddicendosi, il Lovera afferma, in modo più categorico del Semehkin, che "non è possibile ad una flotta il superare un'ostruzione convenientemente protetta dal fuoco di valide batterie da .costa o galleggianti". Pertanto le ostruzioni (divise in "gettate, barricate, argini, travate e palafitte") hanno grande importanza per la difesa delle "basi navali d 'operazione" e delle strette, anche se os~colano l'azione delle nostre stesse forze navali costiere. Esse possono essere trascurate solo dalle nazioni che, vantando il dominio del mare, trovano in questo stesso fatto la miglior salvaguardia delle loro coste; invece le nazioni che non dispongono di forze navali sufficienti per difendere le loro coste "hanno d'uopo di restringere a mezzi locali la difesa dei punti che, quantunque di capitale importanza strategica, pure non costituiscono basi di operazioni navali". Qui c'è un'altra contraddizione del Lovera: perché prima afferma che ostruzioni e torpedini sono "fra gli elementi principali della difesa delle basi navali d'operazioni", dall'altra le ammette solo nei porti che "non costituiscono basi d'operazioni navali": limitazione tassativa che il Semehkin e altri sono ben lungi dall'ammettere. "'·

ivi, p. 23.


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Il Lovera passa poi a descrivere gli arieti, le batterie coraz,zp,te e le cannoniere. Gli arieti sono destinati ad attaccare di sorpresa navi momentaneamente isolate dalla flotta nemica bloccante, o a difendere i passaggi liberi dalle ostruzioni; hanno doppio sperone, due pezzi potentissimi a prora e poppa, grande velocità e ridotta autonomia. Le batterie galleggianti [già usate in Crimea N.d.a.] hanno il compito di rinforzare rapidamente e a ragion veduta le difese terrestri dei punti minacciati, oppure di sbarrare uno stretto che all'occorrenza si vuol mantenere libero. Nel primo caso non hanno un motore ausiliario e dispongono di corazzature solo per artiglierie e serventi; nel secondo caso hanno forte corazzatura e mobilità in proprio per non correre il pericolo di chiudere, affondando, un passaggio che la difesa intende mantenere aperto. Le cannoniere, armate di un solo grosso pezzo e con scafo molto basso sull'acqua per rendere superflua la corazzatura, sono usate sia per la difesa dalle ostruzioni, sia per rafforzare là ove è necessario le fortificazioni terrestri. La parte più interessante delle conferenze del Lovera è l'applicazione delle teorie prima esposte all'Italia, visto che "per noi, che fummo dotati dalla natura di tale ricchezza di coste da averci in altro tempo assicurato il monopolio del commercio europeo col dominio del mare che ne è il cuore, è assoluta necessità il prontamente accingerci a ridonare alle nostre coste sicurezza tale, che valga insieme alla tutela della loro industria e commercio e al consolidamento del ricostrutto edifizio dell'unità politica". Una volta tanto egli non ricorre - come è avvenuto per la tattica - a modelli stranieri, né soffre di sudditanze psicoiogiche: scarta decisamente sia il modello francese (nel quale la difesa delle coste è di competenza della Marina, che però deve ricorrere al concorso dell'Esercito), sia il modello inglese (da lui giudicato non adatto all'Italia, perché comporta eccessivi oneri finanziari e richiede la costituzione di corpi speciali per la difesa delle coste). Infatti in Inghilterra "avvenne in piena pace nel 1857 lo stranissimo fenomeno della generale commozione degli animi in favore della creazione di un costoso e complicato sistema di difesa", inducendo il Parlamento a stanziare ben 300 milioni per fortificare le coste inglesi e a costituire corpi speciali di difesa. Quest'ultimo provvedimento, secondo il Lovera, può essere vantaggioso per nazioni che, come 1' Inghilterra, dispongono solo di un ridotto Esercito volontario: ma l'Italia può contare su un Esercito di leva in grado di assicurare anche un'economica difesa delle coste, senza bisogno di ulteriori spese per corpi speciali. I principi sui quali basare la nostra difesa sono pertanto, per il Lovera, i seguenti: concentrare la difesa delle coste su pochi punti di importanza strategica fondamentale; l'efficacia delle difese costiere dipende dal grado 'd i coordinamento che si riesce a raggiungere: tale coordinamento deve essere affidato all'Esercito. La difesa delle basi navali deve essere diretta da un unico comandante, che può essere un generale o ammiraglio a seconda che il pericolo principale venga da terra o dal mare;


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i tre cardini per l'impiego delle forze navali nella difesa delle coste devono essere le basi di Spezia, Taranto e Venezia; i cardini de11a difesa terrestre del litorale coincidono invece con i nodi ferroviari di raccordo tra le ferrovie costiere e quelle che congiungono i principali porti con i centri industriali dell'interno (porti di Vado, Genova, Spezia, Taranto, Venezia, Brindisi e Ancona, e approdi più vicini alle foci dell'Arno, del1'0mbrone, del Tevere, del Garigliano e del Volturno); al momento, però, Genova - il più importante di questi porti - non può essere difesa efficacemente e tanto varrebbe disarmarla. Potrebbe essere difesa solo con nuove fortificazioni estremamente costose come quelle inglesi; - "fuori da questi punti la nostra costa è poco accessibile e la sua difesa è certamente suscettibile di poter essere meglio condotta dal mare che dal litorale"; - i predetti porti e approdi sono anche gli obiettivi preferenziali del nemico; comunque, il tratto di costa più sensibile alle offese nemiche e più soggetto agli sbarchi è quello tirrenico, dal çonfine francese al Monte Argentario. Sulla base di questi principi, l'impiego dell'Esercito nella difesa delle coste deve tener conto che un eventuale nemico potrebbe disporre del naviglio da trasporto sufficiente per sbarcare un massimo di 4 divisioni; per farvi fronte, le nostre forze terrestri dovrebbero tenersi riunite in pochi punti strategici a portata delle coste, intervenendo celermente mediante le ferrovie ovunque si profila la minaccia. In tal modo la difesa si trasforma in una gara contro il tempo tra l'attaccante e il difensore; quest'ultimo ha buone possibilità, perché una mezza divisione ben trincerata è in grado di respingere qualsiasi tentativo di sbarco nemico. In sintesi, per il Lovera la difesa delle coste si fonda su due principi: impiego delle ferrovie e del telegrafo per il rapido concentramento delle forze e perfetta armonia nell'azione delle forze terrestri e marittime. La Marina può concorrere alla difesa terrestre in tre modi: con azione indipendente, concertando l'azione con quella dell'Esercito o mettendo alle sue dipendenze la "flottiglia guardacoste" alla quale si è accennato, imperniata su cannoniere. L'Esercito deve concentrare le forze su pochi punti del litorale di vitale importanza (raccordati tra di loro da punti trincerati intermedi) e spostarle rapidamente per ferrovia, difendendo le ferrovie stesse da possibili interruzioni mediante artiglierie ferroviarie servite da cannonieri che sono addestrati, al bisogno, anche a collocare torpedini. Come si è visto, il Lovera si rifà di massima parte agli ammaestramenti della guerra americana. A questa guerra - che ha visto la Marina impiegata soprattutto in operazioni costiere e nelle acque interne, in concorso con l'Esercito - la Rivista Marittima dedica, nello stesso anno 1870, la traduzione di importanti scritti americani e inglesi (riassunto dell'opera On Coast defence del colonnello Scheliha, ingegnere militare sudista; articolo dell' Engineer


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IL PENSIERO MILITAR E E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

sulla difesa delle coste e dei porti della Inghilterra; rapporti del generale Belknap e del generale Sheridan sulle fortificazioni degli Stati Uniti). 70 Se ne deve dedurre che il pensiero navale dopo Lissa dedica molta attenzione alla difesa delle coste e al possibile ruolo della Marina, argomento più strategico che tattico, e di interesse più pratico e immediato che teorico. In questo contesto, le "combinazioni strategiche" del Lovera toccano problemi assai controversi e hanno tre limiti principali, che rappresentano anche il clou del dibattito futuro: riscontra la necessità di una flottiglia guardacoste, però senza tener conto del suo costo e della conseguente sottrazione di risorse alla flotta d'alto mare; non esamina nemmeno per sommi capi l'impiego strategico e tattico della restante armata navale, che non può rimanere inerte di fronte agli sbarchi o ali' offesa delle coste; non si chiede se l'Esercito, oltre ad assicurare la prioritaria difesa del confine delle Alpi, potrebbe disporre di forze sufficienti anche per la difesa delle coste, con le modalità da lui indicate.

Conclusione Ciò che secondo il Blanch avviene della nascita della strategia in genere, nel periodo considerato vale sia per la strategia navale, sia per la nuova tattica "a vapore". Molto si è detto - e molto ci sarebbe ancora da dire - sulle varie definizioni e sulla frequente confusione tra strategia, tattica e evoluzioni; sta di fatto che ci sembrano ormai acquisiti, nel 1870, taluni elementi di base che serviranno da riferimento per il futuro dibattito: ciò che sia per la strategia che per la tattica navale del momento viene generalmente visto come un' autentica rivoluzione, è in realtà l' ennesima dimostrazione del vecchio motto historia non facit saltus; l'elemento che ha maggiore influsso sulla nascita di una teoria strategica navale è la crescente fascia di sovrapposizione tra strategia terrestre e marittima, dovuta non solo alla possibilità di pianificare i movimenti delle flotte come quelli degli eserciti, ma anche all'avvicinamento dell'arte militare marittima alle coste e alla geografia (possibilità di rapidi sbarchi con navi a trasporto a vapore; frequenti esigenze di rifornimento che creano un rapporto di dipendenza delle flotte in mare rispetto alle basi, molto più stretto del passato e analogo a quello degli eserciti; maggiori chances delle navi corazzate contro le difese costiere); il frequente uso dell'aggettivo strategico nonostante l'assenza di specifiche ricerche epistemologiche e comunque a sfondo teorico denota che la strategia è riferita al movimento dell'intera flotta e a tutto ciò che le assicura un vantaggio sul nemico; 10 ·

"Rivista Marittima" 1870, pp. 1965 e segg..


Xill - LA NASCITA DELLA STRATEGIA NAVALE E LA NUOVA TAlTICA "A VAPORE"

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- per quanto attiene alla tattica navale, si tende a sopravvalutare l' aumento della capacità evolutiva delle navi rispetto al parallelo progresso delle artiglierie e corazze. La tattica - o meglio il mito dello sperone ne è una conseguenza; - sempre nel campo tattico, non si considerano ancora le ricadute del1' adozione delle torri girevoli - che cominciano a comparire - sulle formazioni. Ricadute notevoli, perché rendono possibile sia il fuoco da prua e poppa che dai fianchi, indipendentemente dalle formazioni; - nella definizione di nuove formazioni si fa riferimento all'attacco con lo sperone più che alle possibilità di difesa della flotta attaccata, trascurando il fatto che, in ambedue i casi, ciò che vale più delle formazioni iniziali sono le possibilità di manovra e contromanovra unitaria delle due flotte, rese peraltro molto difficili dalla mancanza di efficienti mezzi di trasmissione; la guerra americana 1861-1865 viene valutata in termini di prevalenza dell'impiego dello sperone e della guerra costiera, trascurando gli ammaestramenti derivanti dall'efficacia dimostrata già in quella guerra dalle torpedini e dall'impiego dei primi sottomarini; - in tutte queste trasformazioni, con la sola eccezione del Parrilli gli studi sul linguaggio militare in Italia e all'estero (si veda ad esempio il Glossaire nautique dello Jal)7 1 rimangono sostanzialmente ancorati al periodo della vela e del remo.; - il primato francese negli studi di tattica navale e la connessa enfatizzazione dei mutamenti imposti dal vapore, dalla corazza e da11o sperone non sono casuali, ma corrispondono alla speranza (solo tale rimasta) di aver trovato finalmente il mezzo per vincere la superiorità inglese nel campo nautico e delle"drtiglierie. A tale speranza, et pour cause, corrisponde lo scarso entusiasmo inglese per le possibilità dello sperone, rivelatosi preveggente nel medio periodo; i fautori ad oltranza dello sperone e del conseguente ritorno all'antica tattica navale dell'età del remo dimenticano che, come afferma lo Jal, già nel secolo XVI anche per le galee lo sperone era diventato un'arma secondaria, perché sostituito come armamento principale da artiglierie navali sempre più potenti e numerose.72 In questo contesto, dopo tutto prevale il concetto non nuovo che nella tattica navale ciò che conta di più è l'intuito e la prontezza di decisione dell'ammiraglio, mentre le divergenze sui suoi contenuti non impediscono di considerarla, nella sostanza, come la considera il Fioravanzo nel 1938: "l'arte di manovrare le navi a contatto con il nemico, allo scopo di impe-

71

n

Cfr. A. Jal, Glossaire nautique (Cit.). ivi, p. 146.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

gnare il combattimento e di condurlo a termine nelle condizioni più vantaggiose per l'impiego delle armi portate dalle navi"_73 Per altro verso, l'incertezza sul significato e sulla natura della strategia, i suoi labili confini con la tattica non possono destare meraviglia, né indurre a giudizi troppo critici: tale incertezza perdura non soltanto per tutto il secolo XIX ma fino ad oggi. Ogni studioso, anche a fine secolo XX, ha un proprio concetto di arte militare e strategia diverso da quello di altri; manca tuttora, in Italia, .una definizione ufficiale di tali termini. E se la tattica non va confusa con le evoluzioni, certamente essa in ultima analisi si riassume in ogni tempo in movimenti tali, da garantire un vantaggio sull'avversario e/o il raggiungimento degli scopi che l' ammiraglio si ripromette. In questo contesto teorico Lissa gioca un ruolo assai ridotto e del tutto negativo, favorendo quel mito dello sperone che peraltro già era noto e ben diffuso nel 1866. Si deve però ammettere che la scarsa preparazione tattica e artiglieresca della flotta italiana a Lissa, la sua formazione iniziale in linea di fila ecc. hanno un peso estremamente ridotto: l'esame della teoria tattica e dei vari punti di vista, infatti, rafforza l' idea che si è trattato essenzialmente di una questione di leadership e addestramento, che riguarda l' ammiraglio come i suoi sottoposti chiamando quindi in causa la formazione e la preparazione navale dei Quadri, la loro coesione, il costume quotidiano, tutto ciò insomma che non è teoria ma piuttosto prassi, o regola non scritta.

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Cit. in C. Basile (Contramm_) L'evoluzione della tattica navale nelle grandi battaglie navali da Salamina allo Jutland. (CiL), p. 6.


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CAPITOLO XJV

L'ITALIA E IL MEDITERRANEO: POLIDCA NAVALE E ORDINAMENTO DELLA MARINA

Classem in bello esse tutelam reipublicae, et non habendum potentem qui potentiae terrestri simul etiam Navalem non haberet conjunctam. LEONE Imperatore (Cit. da Luigi FINCATI nel 1857) 1

Premessa

Nel precedente capitolo XIII abbiamo constatato che a un risveglio generale dell'interesse per l'arte militare marittima - e in particolare per la tattica - provocato dalla propulsione a vapore, non corrispondono in Italia studi teorici sufficientemente approfonditi. Date le circostanze, nemmeno dalle guerre d'indipendenza si può trarre spunto per accurate indagini sulla politica navale da seguire dopo il 1870. Ciò non toglie che dal 1848 al 1861, il Piemonte deve pur sempre organizzare una Marina e costruire delle navi; che nel 1861 le Marine dei vari Stati italiani si fondono nella nuova Marina italiana, e che dal 1861 al 1866 questa Marina con ingenti spese viene pur potenziata e acquisisce naviglio - e navi corazzate - che dovrebbero essere all'avanguardia. Come e in che misura la letteratura navale riflette questa problematica strutturale e organizzativa, come la inserisce nelle nuove prospettive aperte dall'apertura del Canale di Suez, ultimato nel 1869? Questi sono gli interrogativi ai quali vogliamo ora rispondere. La fisionomia delle forze navali di un Paese non può non tener conto del ruolo che si intende assegnare aJla Marina nel contesto delle aspirazioni nazionali e della difesa dello Stato; pertanto, là ove possibile daremo risalto anche a questi aspetti attinenti non tanto alla. teoria ma alla prassi strategica, se non a una vera e propria strategia complessiva. A tale prassi, infatti, si deve uniformare la fisionomia organica assunta dalla Marina in un dato periodo.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

SEZIONE I . Verso la Marina nazionale: i problemi e le carenze della Marina sarda nel periodo 1848-1861 L'importanza della Marina Sarda e la necessità di rafforzarla negli scritti del Rezasco (1853) e del Sandri (1856 - 1858). Che il Piemonte, dopo il 1848, non cessi di guardare all'Italia, di considerare i problemi militari in un'ottica prevalentemente nazionale lo si nota anche dalla letteratura marinaresca del periodo. Giulio Rezasco, deputato genovese al Parlamento piemontese, nel suo libro del 1853 Sull'Arsenale marittimo indirizzato al Parlamento, espone le ragioni che rendono necessario l'accrescimento del naviglio militare: Egli ricorda che a fronte di 3.500 navi mercantili, il Piemonte dispone solo di 19 navi da guerra maggiori e 9 barche cannoniere, che tendono a diminuire anziché ad aumentare; eppure i commerci aumentano ogni giorno, gli emigranti in paesi oltremare hanno bisogno di protezione, e occorre difendere le coste e specialmente la Sardegna, isola che oltre ad essere di grande importanza strategica (Nelson la preferiva per la sua posizione a Malta) è anche - con la Sicilia - la più ricca del Mediterraneo. È inoltre necessario mantenere l'equilibrio con gli armamenti navali degli altri Stati dell'Italia e in particolare con l'Austria (che ha 40 navi da guerra e 42 lance cannoniere) e con Napoli (che possiede 30 navi a vela e 25 a vapore, contro le 8 navi a vapore sarde, oltre tutto poco efficienti). La propulsione a vapore - aggiunge il Rezasco - è diventata estremamente importante, perché rende facili e rapidi gli sbarchi che con la vela erano difficili; e rimorchiando le navi a vela, le navi a vapore consentono di cogliere meglio le occasioni di combattere e vincere. In proposito, il Rezasco prospetta un'interpretazione degli eventi marittimi del 1848-1849 invero poca nota: non sia dimenticato dagli Italiani, come durante la guerra del 48, trovandosi i due navigli Auslriaco e Sardo affrontati insieme nella calma morta dell'Adriatico, il Comanda nte napoletano rifiutò al nostro Ammiraglio il soccorso dei suoi legni a vapore. Così il poco numero che noi avevamo di que' legni, scampò nel supremo momento la flotta auslriaca da inevitabile ruina, restando per quel difetto di naviglio che la causa italiana non avesse vendetta in mare dalle perdite in terra, e forse non fosse assicurata.

Né vale sostenere che, all'occorrenza, i brigantini e i piroscafi da carico potrebbero trasformarsi in unità da guerra: "sarebbe meglio addirittura fare a meno della squadra: perché, se qual ' è, non soddisfa al fine suo, metterebbe conto di licenziarla e risparmiare i milioni di lire che se ne porta" .

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Torino, Fodrntti 1853, pp. 30-36.


XIV - POLITICA NAVALE E OROINAMF.NTO DELLA MARINA

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L'Inghilterra. è vero, può fare affidamento anche sul naviglio mercantile; però quest'ultimo servirebbe solo a completare una Marina militare efficiente e numerosa, mentre le navi mercantili inglesi di un certo dislocamento non possono essere varate, se non possiedono caratteristiche costruttive che le rendano adatte anche all'impiego militare: "or qui nulla di tutto ciò [ ... ] qui un simulacro di naviglio militare che precipita al nulla e nulla più". Perciò - conclude il Rezasco - se il Piemonte, Stato tra i pochi rimasti liberi al quale gli altri popoli italiani guardano con speranza, rinunciasse a pareggiare i suoi armamenti navali con quelli degli altri Stati, si suiciderebbe politicamente, e offenderebbe il principio di nazionalità. Antonio Sandri su11a Rivista Militare del 1856 e 1858 esamina la situazione della flotta italiana e di quella austriaca2• In linea generale - egli afferma - il naviglio rappresenta la potenza marittima di una nazione, ma non ne costituisce le basi fondamentali. La forza reale di una Marina "poggia sulle istituzioni che l'hanno fondata, sui mezzi successivamente acquistati di estendere e sviluppare il suo commercio marittimo, di assicurarsi forti stazioni per le squadre, e vie sicure per smerciare i prodotti del-l'industria nazionale non solo, ma eziandfo dell'industria estera, che può trasportare in tutte le parti del globo". E una Marina mercantile è ugualmente preziosa, perché fonùsce a uno Stato sia tutto ciò che serve a mantenere in efficienza una buona Marina militare, sia i marinai addestrati che io caso di guerra ne completano gli equipaggi. Sul ruolo futuro dell'Italia nel Mediterraneo il Sandri - come tanti altri in futuro - tralascia ogni realistico esame dei rapporti di forze, e ignorando il consolidato dominio inglese e la forte presenza francese in questo mare, ricorda solo, accademicamente, che l'Italia è "una nazione marittima per eccellenza", con frontiere marittime più estese delle terrestri; perciò "con tale rilevante periferia marittima tutta guarnita di popolatissime città, a detta anche di Napoleone, l'Italia è destinata ad essere, come lo fu altra volta, la dominatrice del Mediterraneo, che già chiamavasi Lago Italiano; potendo l'Italia far dare alla vela un'armata di 100 vascelli di linea e 120.000 espertissimi marinai". Con l'abolizione delle dogane interne che ostacolano la libera circolazione delle merci3, e con lo sviluppo della rete ferroviaria e della navigazione fluviale e lacuale, il commercio e la ricchezza nazionale potrebbero crescere e le forze navali potrebbero assicurare nuovi sbocchi all'esportazione, tutelare i traffici, proteggere i mercati oltremare. Ciò premesso, il Sandri esamina - senza commenti comparativi - l'ordinamento, l'organizzazione e la situazione del naviglio delle Marine sarda, napoletana e austriaca, pervenendo alle seguenti conclusioni: '- A. Sandri, MariTUJ Militare austriaca, "Rivista Militare" 1856, Vol. li pp. 42-63; ID., Marina Militare, "Rivista Militare" 1858, Vol.11 pp. 89-123. ' Sulle barriere doganali e sui diversi regolamenti che ostacolano il commercio marittimo tra gli Stati italiani Cfr. ad esempio il polemico lavoro di B. Castiglia, Sull'attuale aggravio dei piroscafi delle Due Sicilie nel porto di Genova, Genova, Delle Piane 1854.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

le forze navali del Regno di Sardegna sono composte in totale da 26 navi, 508 cannoni e 3520 cavalli-vapore ( 2 fregate da 50 cannoni miste o a elica; 10 bastimenti a vela di cui 3 fregate e 2 corvette; 7 vapori a ruota di cui 1 fregata e 2 corvette; 2 fregate a elica da 50 cannoni in costruzione; 5 navi trasporto, di cui 3 a vapore e 2 a vela); - le forze navali del Regno delle Due Sicilie sono composte in totale da 98 navi, 826 cannoni e 6650 cavalli-vapore (16 bastimenti a vela, di cui 2 vascelli, 2 fregate e 12 corvette; 29 vapori a ruote, di cui 2 fregate e 16 corvette; 50 piccoli bastimenti, di cui 10 bombarde con mortaio, 10 cannoniere e IO paranzelli con obici Paixhans; 3 trasporti a vela). A Pietrarsa sono in costruzione macchine a vapore a elica, da collocare sui maggiori bastimenti a vela; - le forze navali austriache (1856) sono composte in totale da 40 navi, 872 cannoni e 4010 cavalli-vapore (3 fregate da 44 e 36 cannoni miste o a elica; 20 bastimenti a vela di cui 3 fregate e 5 corvette; 9 vapori a ruote di cui 4 corvette; 4 bastimenti misti o a elica in costruzione, di cui 2 vascelli da 90 cannoni e 2 fregate da 40 cannoni; 4 trasporti a vela). Inoltre la Marina austriaca, in caso di guerra, può disporre delle numerose navi da trasporto del Lloyd Triestino. Dopo questo esame dal quale risulta l'inferiorità soprattutto quantitativa della Marina piemontese e quella qualitativa della Marina napoletana rispetto alla Marina austriaca, il Sandri dal confronto tra le amministrazioni centrali dei tre Stati fa emergere la scarsa rispondenza delle soluzioni piemontesi. Nel Regno delle Due Sicilie vi è un Ministro delJa Marina; in Austria il potere effettivo viene detenuto dal Comando Superiore della Marina in Pola, al quale spetta l'esecuzione delle decisioni provenienti dal1' Amministrazione Centrale della guerra, rispetto alla quale, all'atto pratico, la sua dipendenza è solo formale, "ma volendo pur separare le attribuzioni di direzione da quelle di esecuzione non a guari [siamo nel 1858 - N.d.a.] istituivasi un Ministero di Marina, il quale non si sa se risiederà in Vienna o Trieste". In Piemonte la situazione è diversa: al momento esiste un unico Ministero della guerra e Marina (il distacco tra i due Ministeri verrà sancito con R.D. 18 marzo 1860) e in tal modo - lamenta il Sandri - chi di fatto amministra la Marina è il suo comandante con sede in Genova, che però non ha alcuna responsabilità nei riguardi del Parlamento; per contro il Ministro della guerra e Marina, che la amministra solo formalmente, ne porta tutta la responsabilità politica. L'Austria per il Sandri è una potenza essenzialmente continentale, con limitata estensione delle coste su un mare peraltro chiuso da Malta e dalle isole Ionie, e con scarsa popolazione marittima specie da quando - dopo gli avvenimenti del 1848-1849 - è stata costretta a rinunciare al reclutamento di marinai veneti. Se le forze navali riunite italiane nel 1848-1849 fossero state impiegate con maggiore energia anziché mantenersi "quasi neutrali",


XIV - POLJ'llCA NAVALE E ORDINAMENTO DELLA MARINA

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"avrebbero potuto menarle tal colpo, dal quale non avrebbe potuto per lungo tempo rilevarsi sul mare, ciò che avrebbe fatto risentire i suoi diretti vantaggi sui campi lombardi". Perciò a partire dal 1849, "più avveduta dei governi d'Italia", l'Austria ha rafforzato la sua Marina, ha istituito tre accademie navali e ha potentemente fortificato il porto di Pola, facendone anche un arsenale, che ha reso quello di Venezia secondario. La sua politica navale degli ultimi anni intende raggiungere tre obiettivi: a) concentramento delle forze navali e del relativo supporto logistico nella sicura e vasta base di Pola; b) costituzione degli equipaggi con elementi non italiani, ritenuti più fedeli; c) mantenimento di un livello di forze tale da superare quelle di Napoli e del Piemonte riunite. Anche il Sandri, dunque, pur scrivendo su un organo ufficioso dello Esercito come la Rivista Militare sostiene direttamente e indirettamente la necessità di potenziare la Marina piemontese, guardando come un possibile antagonista anche al Regno di Napoli. La Marina, il commercio e le riforme necessarie nell'opera "Sulle cose marittime -Memorie due" (1857) di Luigi Fincati

Luigi Fincati, al momento capitano di corvetta della Marina piemontese, ha il merito di essere l'autore della prima opera che vuol affrontare in modo organico i problemi della Marina, rivolgendosi a un vasto pubblico e dando spazio anche a tutto ciò che riguarda la Marina mercantile4. Intende infatti "fissare, in modo accessibile alle persone più estranee alla Marina piemontese, le basi generali sulle quali deve posarsi ogni marittima discussione", citando nella Introduzione queste parole di Melchiorre Gioia: le nostre città marittime sollevando il capo in mezzo al mare che le circonda riconosceranno come più utile e più onorevole andare a ricercar le ricchezze attraverso un oceano immenso, che riceverle dai loro rivali o dai loro nemici, sortiranno da quello stato di abiezione che ha fatto perdere all'Italia ogni considerazione, ogni peso, ogni movimento nella combinazione degli affari d' Europa, ed allestiranno una marina militare necessaria alla mercantile e sola capace a difendere la nostra costa .

Nel primo capitolo dell'opera il Fincati di mostra l'importanza della Marina in generale, riprendendo motivi in buona parte già trattati dagli autori prima esaminati e contestando, anzitutto, le tesi di coloro che affermano che il mare di per sé costituisce una difesa del territorio nazionale. Può essere tale solo con una forte flotta, e si tratta di far capire al grosso pubblico ciò

•· Savona, L. Sambolino 1857.


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(1848-1870)

che già le Repubbliche marinare sapevano benissimo, cioè che: a) in un paese marittimo come è l'Italia, le esigenze connesse con lo sviluppo della Marina devono essere valutate almeno quanto quelle industriali o agricole, né essere sacrificate ad altre; b) un paese marittimo (entro certi limiti di territorio) è "immensamente superiore per forza, ricchezza e influenza a uno mediterraneo", purché disponga di forze navali proporzionate all' estensione delle sue coste, le quali sono sempre la parte più vulnerabile; c) un paese marittimo che non curi la Marina è destinato a perire o a condurre vita assai grama, "in quel modo che langue e muore chi non si nutra di sostanze omogenee e assimilabili". E la storia dimostra che, come ha scritto il tedesco List , "uno Stato senza Marina è uno Stato senza armi di legno". A exempla historica (l'Inghilterra, l'Olanda, le Repubbliche marinare... ) invero non applicabili al caso italiano (l'Italia ha anche estesi confini terrestri), fanno seguito le considerazioni sull'utilità della Marina mercantile e da guerra per il commercio, che tanto più si sviluppa, ·quanto più facile, sicuro, pronto ed economico è il trasporto: e gli scambi tra paesi divisi dal mare non possono avvenrre che con bastimenti. Quindi "quel popolo che avrà navi in maggior numero, della maggior portata, condotte dai più attivi e sobri marinai effettuerà il cambio dei suoi prodotti alle condizioni migliori" e potrà anche trarre profitto dal trasporto di merci altrui. Tra i riflessi economici della guerra terrestre e quelli della guerra marittima vi è però notevole differenza: mentre sul territorio le proprietà private vengono rispettate dal nemico e gli scambi sia pure con difficoltà continuano, sul mare avviene tutto il contrario. Le navi mercantili vengono catturate, gli equipaggi sono fatti prigionieri e il traffico e le attività industriali marittime si arrestano, facendo sentire i loro effetti anche all'interno: ne consegue che solo valide forze navali possono assicurare le difese della flotta mercantile e delle città costiere. A questo punto, il Fincati elenca le numerose chances (con riflessioni peraltro non originali, perché si trovano fin dal secolo XVI negli scritti di Mario Savorgnano e Bernardino de Mendoza) che fornisce una buona flotta da guerra: i vascelli sono altrettanti castella formidabili per artiglierie; rapidi al corso accennano in un punto e feriscono in un altro; capaci di migliaia d' armati sbarcano eserciti e li tengono approvvigionati, bloccano e assalgono i porti, catturano i legni di commercio, tagliano le comunicazioni, impediscono i soccorsi o traggonsi all'uopo a spiare al sicuro il momento opportuno d' un nuovo assalto come aquila librata sull'ali o posata su rupe inaccessibile.

Solo con le navi si può trasportare economicamente le proprie forze terrestri sul territorio di un Paese non limitrofo; e la recente guerra di Crimea (1854-1856) dimostra con ogni evidenza quello che si può fare con la Marina. Senza le forze navali, per portare la guerra sul suolo russo le


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potenze occidentali avrebbero dovuto attraversare il cuore dell'Europa, cioè la Germania e l'Austria: probabilmente ne sarebbe derivata una conflagrazione generale, che era interesse di tutti evitare. Il Fincati dedica poi pagine assai "datate" alla propulsione a vapore e all'importanza dei boschi per la Marina, dimostrando di rimanere troppo legato al periodo della vela e di non intravedere il rapido progresso in corso nel campo delle costruzioni navali, nelle quali tendono ormai a prevalere le navi in ferro, le macchine a vapore a elica e il sistema di propulsione esclusivamente a vapore. Ciononostante, ha il merito di far emergere parecchi difetti dell'organizzazione della Marina sarda, formulando proposte di riforma non di rado condivisibili anche alla luce degli eventi futuri. In particolare, delinea con acume le caratteristiche degli arsenali e le ragioni della loro importanza. Essi devono possedere tre requisiti fondamentali: rendere economiche, rapide e di agevole controllo le attività che vi si svolgono; essere ben difesi da insidie e attacchi del nemico; essere amministrati in modo da escludere per quanto possibile furti e malversazioni. Questo perché, date le caratteristiche della sua multiforme attività, un arsenaJe "può convertirsi colla massima facilità nella ben più ordinata ·officina di furti e di depredazioni. Le leggi più ben intese, la sorveglianza la più scrupolosa furono talvolta insufficienti a porvi riparo". 5 Occorre perciò fare molta attenzione ai Quadri. Vi vengono di solito inviati ufficiali che per ragioni di età e di salute non possono più navigare, e questa è una misura saggia; ma talvolta "gli arsenali diventano il rifugio di ufficiali che per la loro ignoranza, per la mancanza di talento o talora per poco docile condotta o per causticità di carattere non possono essere tollerati a bordo di legni dello Stato, e a questi aggiungasi non rare vittime di un'ingiusta persecuzione". Quegli ammiragli che vi destinano personale di tal fatta si dimostrano deboli e non ali' altezza del loro grado; essi offendono dei rispettabili veterani della Marina, "accomunando ad essi individui, taluno dei quali non merita molti riguardi, mentre altri dovrebbero essere ben soddisfatti d'un soldo di ritiro che non sarebbero mai giunti a conseguire qualora prima di muoverli si avesse meglio valutata la loro idoneità". La disponibilità di un corpo di ingegneri navali ben istruito e capace è particolarmente importante, per due ragioni essenziali: a) se viene costruito naviglio nazionale che poi risulta non competitivo e abbisognevole di modifiche, degli ingegneri navali incompetenti ripeterebbero gli stessi errori anche nei lavori di adeguamento; b) è una pessima politica quella di ordinare naviglio ali' estero, magari perché non si dispone di materiali a sufficienza. Meglio acquistare i materiali mancanti e far costruire le navi in arsenali nazionali, ottenendo così una riduzione della spesa; ma anche se i risparmi non fossero possibili, si otterrebbe pur sempre il vantaggio di

'· ivi, p. 32.


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incrementare e far progredire le attività industriali marittime nazionali, creare occasioni di lavoro, mettere in circolazione capitali. Un altro argomento importante affrontato dal Fincati è la formazione dei Quadri. Le migliori scuole navali possono fornire agli allievi solo quanto basta per intraprendere la carriera de1la Marina: "dico per intraprendere e nulla più, perché al migliore fra essi mancherà pur sempre la più indispensabile e preziosa dote: l'abitudine e la pratica della navigazione". Per far acquisire al più presto e il meglio possibile tale pratica, non c'è altro mezzo che quello di imbarcare gli allievi fin dalla più giovane età, come si usava fare nella Marina di Venezia e come si usa ancora nella Royal Navy e nella Marina americana: meglio vale un anno di navigazione nell'età in cui le sensazioni lasciano impronte indelebi1i che non un anno di più ad una scuola dalla quale molti traggono e recano seco a bordo un carico troppo grave di scienza; io vorrei che l' istruzione scientifica più che abbondante fosse sufficiente; l'abuso di "X" può fare degli scienziati, raramente degli uomini di mare per il servizio attivo a bordo dei bastimenti dello Stato. Un'istruzione soverchiamente scientifica, dice il signor Juricn de La Gravière, nel cominciare una carriera nella quale vi ha tanto da acquistare colla pratica, tanto da apprendere dall'esperienza degli altri, potrebbe divenire più grave che utile.6

Il Fincati, perciò, disapprova assai il siskma formativo al momento in uso, nel quale i giovani rimangono fino a diciassette anni in collegi a terra: "a questa età mille lusinghe attraggono un giovane alla terra, se ne stacca con dolore e raro avviene che possa più abituarsi alla vita dura ed eccezionale del mare". Più in generale, per essere degJi efficienti strumenti di guerra, pronti a ogni evenienza, le Marine devono navigare il più possibile, anche a costo di far uscire dal porto navi con equipaggi ridotti: un'armata navale non abituata a navigare "non è atta a cimentarsi né col nemico né col mare", e tanto varrebbe, al primo segnale di guerra, chiuderla in un porto ben difeso. Un'altra piaga affrontata dal Fincati è il sistema amministrativo e contabile della Marina sarda, che, come si è visto, risulta troppo complesso, è antiquato e richiede molto personale, senza con questo prevenire abusi e irregolarità: alcuni credettero farlo migliore col moltiplicare gli impiegati e le controllerie. Nessun maggiore inganno. Non riuscirono se non a farsi gabbare da un numero maggiore di persone e con maggior dispendio. Più una contabilità è ramificata e suddivisa, più riesce intralciata e più riesce difficile il vedervi chiaro per entro_ La frode nascondesi molto

'- ivi, p. 52.


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più facilmente in un monte di ricette e scartafacci che in pochi e ben ordinati registri. E la responsabilità personale, guarentigia fortissima in una sola persona, va perdendo della sua efficacia a misura che va dividendosi su molte, e la perde affatto allorché ogni fede venga riposta nella formalità d'intralciate scritture sulle qua1i ognuno si scarica d'ogni gravame.7

Occorrerebbe seguire - prosegue il Fincati - 1' esempio della contabilità inglese, più semplice e basata principalmente sulla responsabilità personale; quella di Venezia - dalla quale quella inglese ha molto copiato - era più semplice ancora. e su di essa veniva esercitata una serie di avveduti controlli ; i migliori modelli sono comunque quelli delle grandi imprese inglesi e americane. Le riforme sono sempre difficili, perché incontrano inevitabilmente due ostacoli: a) il gran numero di impiegati che renderebbero superflui, e ai quali bisognerebbe provvedere; b) le resistenze all'adozione del nuovo sistema "specialmente da parte dei vecchi tenaci de' loro metodi per abitudine o per interesse, ed ormai incapaci di apprenderne altri, o di trovare nuovo personale istruito all'uopo". · Al problema dell'amministrazione e contabilità è collegato quello degli organi centrali, al quale il Fincati dedica un intero capitolo contrastando anche qui la tesi - assai diffusa non solo a quel tempo - che il Ministero della Marina dovrebbe essere retto da persona tecnicamente competente, cioè da un ammiraglio. Preso atto che, in merito, i pareri sono molto diversi, per il Fincati occorre distinguere tra la branca propriamente tecnico-militare e navale l'unica nella quale sono versati gli ufficiali di Marina - e quella che ha invece carattere politico-economico e di alta amministrazione; infatti la storia dimostra che gli ammiragli "per quanto valenti, non lo sono, per massima, se non alla testa delle armate navali". Se per il comando operativo di una flotta non si può ricorrere che a ufficiali di Marina, per disciplinare la leva marittima e per far fiorire il commercio e le industrie marittime occorrono degli economisti e dei legislatori; quindi a reggere la complicata macchina della Marina deve essere chiamato un Uomo di Stato, il quale sappia applicare alla Marina le sue cognizioni politiche, economiche e amministrative, sappia valersi con convenienza della cooperazione degli uomini speciali posti a dirigere parzialmente i vari rami del suo Ministero e faccia concorrere i loro sforzi al successo delle sue speculazioni, senza abdicare alla piena libertà della sua opinione e procedendo guardingo nell'ascoltare consigli o proposizioni di chi può essere interessato a trarlo in inganno. Un tale uomo non è facile a rinvenirsi di frequente, e lo si cercherebbe invano fra quelli di spada, meno il caso raro anzi che no d' un militare versato nelle civili discipline suaccennate . .. 8

'· ivi, p. 40. ' ivi, p. 75.


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E qui il Fincati cita i modelli delle Repubbliche Marinare, dell'Inghilterra e degli Stati Uniti, ove il Ministro è da sempre un civile. Il modello da lui preferito e richiamato continuamente, comunque, è quello inglese; questo vale anche per il sistema inglese di individuare e punire frodi, malversazioni e irregolarità nell'amministrazione della Marina, che si basa sulla nomina di una commissione parlamentare con ampi poteri, incaricata di riferire al Parlamento sui fatti e sulla necessità o meno di mettere in stato d'accusa i rei. In Francia. invece, gli ammiragli-Ministri hanno dato cattiva prova... Ciò non significa, però, che uno Stato che vuol crearsi una Marina debba supinamente imitare le soluzioni straniere: occorre tener conto anche di fattori specifici, come "le proporzioni cui una tale forza potesse Q dovesse raggiungere, il modo di politico reggimento dello Stato, la sua posizione geografica, il genio, gli usi e i costumi inveterati dei suoi cittadini ... ". Se invece uno Stato ha già una Marina, ma questa è in decadenza, deve fare tutti gli sforzi possibili per risollevarla. Si tratta comunque di un'operazione difficile, nella quale "è mestieri della maggior sicurezza di giudizio e della maggiore fermezza; devonsi distruggere pregiudizi, vincere l'inerzia abituale di tutte le vecchie corporazioni cadute in languore, le quali lottano sempre pel passato, adoprando tutta la forza che loro rimane per mantenersi immobili ...'"). Il modello da seguire è Colbert, che ha dato alla Francia la più potente Marina dell'epoca utilizzando, centralizzando e completando quanto già esisteva, e ha compreso che più una macchina è complicata, più la molla deve essere semplice, imponendo una ferma volontà ai vari suoi sottoposti. Il libro del Fincati è recensito sulla Rivista Militare 111 da Antoni Sandri (che come lui nel 1848 ha lasciato la Marina austriaca per quella sarda). Pur definendolo "lavoro buono per Ministri, deputati, ufficiali di mare e per tutti coloro insomma che s'occupano della pubblica cosa", il Sandri non risparmia critiche a talune tesi del Fincati, a cominciare dall'opportunità di impartire ai futuri ufficiali di Marina un'istruzione essenzialmente pratica. a borcfo dei bastimenti. Secondo il Sandri, in passato questo sistema era forse da preferirsi: ma al momento non più, perché "la marina che per il passato poteva dirsi un'arte, oggidì è scienza", le costruzioni navali, le manovre, l'artiglieria ecc. "oggidì poggiano sopra stabili teorie", il vapore ha introdotto nuovi elementi scientifici nelle cose di mare, la scienza della navigazione ha fatto sensibili progressi. Senza contare [e qui il Sandri sbaglia N.d.a.] che da quando Nelson ha applicato nella tattica navale lo stesso principio della tattica terrestre, cioè il concentramento delle forze su un solo punto della linea nemica. "il combattere sul mare divenne il risultato della mente, anziché come era addietro, questione di forza materiale".

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ivi, pp. 85-86. Bibliografia marittima, "Rivista Militare" 1857, Voi. II pp. 73-78.


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Per queste ragioni l'istruzione teorica e matematica dovrebbe anzi avere maggiore spazio; del resto nelle Armi di artiglieria e genio degli eserciti di tutta Europa gli studi scientifici non sono certo meno estesi di quelli dei collegi di marina. Perciò questi studi si fanno con maggior profitto nei collegi a terra, "che non in un ristretto camerino di un bastimento, fra i rumori che ogni manovra o esercizio producono, e spesso travagliato dal mare e dal vento". Se nella Marina inglese si istruiscono ancora gli allievi a bordo, è perché l'Ammiragliato tra circà cinquemila ufficiali può pur sempre trovare un ristretto numero di valenti ufficiali per le cariche più alte; e il sistema educativo inglese trova un correttivo anche nelle norme d'avanzamento in vigore nella Royal Navy, esclusivamente a scelta. Sistema ottimo, che non viene seguito nelle altre Marine solo perché vi è "il malvezzo" di "modellare la Marina allo stesso modo dell'Esercito" . Il Sandri non è d'accordo nemmeno con la proposta del Fincati di far navigare le navi con equipaggi ridotti. Anche in tempo di pace può rendersi necessario ricorrere alla forza per proteggere la Marina mercantile o per altre esigenze; in questo caso gli equipaggi al completo, come usa tenere la Marina inglese, sono necessari. Infine, a ragione egli critica il modo incompleto e poco preveggente con cui nel libro è trattata l'evoluzione del naviglio a vapore, trascurando di mettere in evidenza che ormai la propulsione a ruote è una soluzione di transizione e che essa - come la propulsione a vela - non risponde più alle esigenze di guerra.

"Perché non si arma la Marina Militare?" Le violente critiche del Borghi (1859-1860) all'operato del Ministro della guerra e Marina La Mannora. Le Memorie due del Fincati suonano già come esplicito invito allo Stato piemontese (che si appresta a diventare italiano) a rinnovare e potenziare una Marina che non ha fatto tesoro dell' esperienza del 1818-1849 e .che al momento non è certamente un buon strumento di guerra. Lo stesso argomento è ripreso con ben altra vis polemica da Luigi Borghi (già ufficiale di vascello proveniente dalla Marina veneto-austriaca, ingegnere navale e poi deputato al Parlamento nazionale ) con due opere pubblicate nei cruciali anni 1859 e 1860. Nella prima (un opuscolo di poche pagine scritto nel 1859, alla vigilia della guerra)1' il Borghi ergendosi a difensore dell'onore della Marina e del suo corpo ufficiali contro le pretestuose manovre per sminuirne il ruolo, attacca duramente il Ministro della guerra (generale La Marmora) che è al momento anche Ministro della Marina, perché pensa solo a preparare I' Esercito e ha di recente dichiarato che "nessuna parte poteva prendere la Regia Marina nelle operazioni già concertate".

"· Cfr. L. Borgtù, Perché rw11 si arma la Marina militare? Torino, Falletti 1859.


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Oltre ad essere ingiustificato e offensivo per i componenti della Marina, secondo il Borghi questo modo d'agire del Ministro risponde a un secondo fine: la via battuta attualmente per ciò che riguarda la Marina, posta in confronto colla simile già tenuta nel 48 e nel 54, conduce a malincuore chi è al corrente di questa disgraziata istituzione a dubitare che un'idea preconcetta, una linea di condotta ben determinata sia seguìta dal Ministero della guerra nell'amministrarla; che questa condotta sia figlia di una tradizione, e che l'antipatia sempre dimostrata alla Marina militare, miri oggi a toglierle la parte di gloria, che ha diritto d'acquistarsi, partecipando alla guerra che sembra imminente. 12

Se proprio in questo momento supremo - aggiunge il Borghi - a nulla serve, quando servirà allora? Negli ultimi dieci anni la Marina da guerra non è stata impiegata come tale nella guerra di Crimea, e assai di rado ha percorso le rotte più frequentate dal nostro commercio marittimo, nonostante le richieste di protezione dei sudditi italiani nei Paesi oltremare: per quale motivo, allora, si sono spesi ogni anno circa sei milioni? Se né in pace, né in guerra la Marina deve venire impiegata come tale, tanto varrebbe abolirla; e se i suoi compiti si devono Jfrnitare al trasporto di truppe, "quattro vaporacci mercantili noleggiati, aJl'occorrenza armati da equipaggi da commercio, sorvegliati da commissarii regi, trasporteranno le guarnigioni, i carri, i cavalli, il fieno, la biada, la farina, ed i buoi dell 'Esercito con altrettanta facilità, che la Marina da guerra attuale, e lo Stato risparmierà aJmeno cinque dei sei milioni che questa gli costa".1 3 Se finora in tempo di pace la Marina militare non è stata utile al commercio marittimo ed è anzi diventata invisa alla Marina mercantile per gli ostacoli e le difficoltà burocratiche che le crea, ciò non è avvenuto perché il commercio può farne senza, "ma bensì perché non si seppe, o non si volle impiegarla in tempo di pace". Nella guerra contro l'Austria essa potrebbe portarle un colpo mortale paralizzando il suo commercio marittimo, attaccare le sue coste e difendere le nostre, bloccare la guarnigione austriaca di Venezia impedendole di rifornirsi dal mare. Il Ministro della guerra ignora, perciò, il detto di Napoleone che contro il nemico bisogna impiegare anche la più piccola parte delle forze disponibili; e dimentica anche che, mentre per mobilitare l'Esercito bastano pochi giorni, occorre molto più tempo per arruolare e addestrare gli equipaggi e annare le navi. Se il Ministro conta soprattutto sul concorso della Marina francese, perché non fa altrettanto in campo terrestre, affidandosi al potente Esercito francese, anziché preparare e accrescere con gravi oneri finanziari il nostro Esercito? se desidera il concorso con l'Esercito di tutte le

Il.

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ivi, pp. 4-5. ivi, pp. 7-8.


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forze terrestri (volontari ecc.) che è possibile mettere in campo, per quale ragione vuol impedire che alla guerra partecipino anche le forze marittime? E se non ritiene la Marina militare sufficientemente preparata alla guerra, questa non è una buona ragione per non fare subito quanto è possibile per prepararla. Né vale, per il Borghi, il pretesto che non vi sono equipaggi sufficienti, visto che essi si trovano nella Marina mercantile costretta a rallentare le sue attività in vista della guerra - assai più facilmente che in pace: ma anche se fosse vero, questo sarebbe un atto d'accusa contro il Ministro della guerra, che pochi anni or sono ha proposto la costruzione di nuove navi, ben sapendo che poi non si sarebbero trovati gli equipaggi. Perciò, se dopo una spesa di ben sessanta milioni in dieci anni le forze navali non sono pronte a combattere, la colpa non è degli ufficiali di Marina, tra i quali gli uomini dotti e capaci sono numerosi; la responsabilità de]]e inefficienze ricade esclusivamente sui Ministri, che non solo hanno trascurato lo sviluppo della Marina, ma si sono tenacemente opposti ai miglioramenti che pur sono stati loro proposti. Il Ministro - prosegue il Borghi - non può giustificarsi asserendo di essere incompetente nelle cose di Marina; se cosl è, dovrebbe lasciare il posto ad altri. Ma l'opinione pubblica si inganna, se crede che il Ministro della guerra accetti di reggere anche l'amministrazione della Marina per pura necessità e di malavoglia, non ritenendosi all'altezza della carica. È tutto il contrario: l'Amministrazione della guerra, lungi dal desiderare di essere esonerata da quella della Marina, vuol anzi averla in mano per governarla a suo talento, e per servirsene come e quando vuole, non già perché il Paese ne ricavi l'utile maggiore, non già per l'onore e la gloria del corpo amministrato; ma, prima di tutto, perché serva sotto ogni rapporto agli interessi dell'Esercito terrestre, ed in secondo luogo, per conservarla nel miserrimo stato in cui fu già da quell'Amministrazione gettato, e questo perché non possa con qualche nuovo fatto brillante guadagnarsi nuova gloria, che secondo le idee del Ministro della guerra, si conterebbe a diminuzione di quella, della quale egli intende

coprirsi. 14 Per tale ragione, secondo il Borghi, non si trascura occasione per distruggere il prestigio della Marina agli occhi della pubblica opinione, dipingendola ora come repubblicana, per farla detestare dai moderati e dai conservatori, "ora come indisciplinata, ora come incapace, ora come retriva", per attirare su di essa il disprezzo universale. Gli ufficiali di Marina sardi, invece, non sono secondi a nessuno per sapere e coraggio, e non sono né conservatori, né repubblicani; essi amano il re, le libere istituzioni dello Stato e la causa nazionale. La Nazione non deve permettere che un siffatto

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ivi, pp. 11-12.


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corpo di ufficiali sia ma]e impiegato, anche perché "il precedente di non aver preso parte attiva a1la guerra dell'Indipendenza ita1iana sarebbe la sua morte mora1e". Il Ministro della guerra, comunque, è ancora in tempo per difendersi dalle accuse degli runici della Marina, chiamando vicino a sè persone competenti e ponendo riparo a1 disordine e all'ingiustizia. A tal fine, il Borghi suggerisce una serie di provvedimenti: comp]etare gli equipaggi sospendendo il rilascio dei libretti ai marinai della marina mercantile e organizzando subito la leva dei 1800 marinai mancanti, da integrare con arruolamenti volontari; chiamare il marchese Ricci, capitano di vascello in ritiro e uomo stimato anche per le sue ottime qua1ità di organizzatore, a coprire l'incarico di segretario generale del Ministero; assegnare all'ufficio del segretario Generale due validi ufficiali di Marina capaci di comprendere i suoi intendimenti e tradurli in ordini da diramare; in tal modo, "svincolare la Marina in questi momenti di azione, e non di carta, dall'influenza di quella burocrazia, composta di commissari amministrativi, con cui da qua1che anno si compiacque di attraversare ogni sviluppo e ogni progresso di quel corpo essenzia1mente militare"; 15 armare immediatamente tutte le navi da guerra esistenti, comporne gli Stati Maggiori e nominare "un commodoro" qua1e comandante della squadra; i capitani di vasce11o Persano, Di Negro e Tholosano sono tutti e tre idonei a tale incarico; ma è da preferirsi il Persano, perché è il più audace ~ei tre. Dato che la flotta almeno per il momento è inferiore a quella nemica, conviene infatti puntare sull'audacia: "né questa audacia in un ufficiale di marina devesi ascrivere a colpa in nessuna circostanza; colla prudenza si fa ben poco sul mare, mentre coll' audacia si può operare miracoli"; completare i Quadri inferiori con la nomina a sottotenenti di vasce1lo di complemento di almeno trenta capitani mercantili. Nel caso, poi, che il Ministro non si senta in grado di organizzare le forze marittime, o sia totalmente assorbito dalla preparazione dell'Esercito, dovrebbe rassegnare le dimissioni; e qui il Borghi fa voti perché al suo posto subentri Cavour, "uomo di genio, la cui fama percorre il mondo intero". Nel secondo e più voluminoso opuscolo pubblicato nel gennaio-febbraio 1860 (cioè alla vigilia della proclamazione del Regno d'Italia)16, il Borghi riprende e approfondisce i motivi polemici .sviluppati in precedenza,

15 · ivi, p. 17. "· Cfr. L. Borghi, Lettere sulla Marina, Torino, Tip. Sarda gen.-feb. 1861'


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ponendo la sua candidatura a deputato per dare al Parlamento - che a] momento anche per incompetenza dei suoi membri, si occupa poco e male dei problemi della Marina - la possibilità di avvalersi finalmente di un esperto. Dedica polemicamente il suo scritto "a quei giovani generosi, già nostri commilitoni [il Borghi si era già dimesso dalla Marina sarda - N.d.a.] che divisero con noi il dolore di veder rovinare nella Marina una istituzione necessaria all'indipendenza della Patria". Coloro che hanno compiuto - a suo avviso - quest'opera nefasta, sono il Ministro della guerra e Marina generale La Marmora, che ha dichiarato di "non intendersi" di cose di Marina (e quindi anche di volersene disinteressare) e il suo segretario, ..1mmiraglio marchese Ceva di Nuceto, giudicato dal Borghi uomo incompetente e deleterio. Il La Marmora - egli afferma - si è sforzato in tutti i modi di distruggere quel poco di buono che aveva fatto 1' ammiraglio Des Geneys, in omaggio al principio che-contraddistingue l'operato di tutti i generali del1' Esercito Ministri anche della Marina: "non accordare mai che si facesse cosa proposta, che tornasse utile a quel corpo; e permettere tutto quanto potesse ridondare a suo danno". Il Borghi conduce perciò tutta una serie di attacchi personali contro il generale, accompagnandoli con una spietata diagnosi dei mali che affliggono in tutti i settori la Marina sarda del momento, diagnosi che comincia così: "che la marina militare sia ridotta ad uno stato peggiore di quello della Torre di Babele è cosa della quale ciascuno, che da vicino o da lontano la conosca, è più che convinto: facendo però la debita eccezione pel Ministro della guerra e marina, generale La Marmora, e pel suo segretario marchese Ceva di Nuceto" .17 Il quadro che della Marina pre-unitaria traccia il Gonni ( vds. il precedente cap. XII) ha parecchie analogie con quello - estremamente critico del Borghi, fino a far pensare che il Gonni, pur senza citarlo, vi abbia largamente attinto. Le critiche del Borghi si appuntano anzitutto sul disinteresse della Nazione e del Parlamento per la Marina, che pure è indispensabile nelle future guerre d'indipendenza per liberare Venezia. E imputa alla Camera di non aver saputo opporsi, per incompetenza, al trasferimento della principale base della Marina da Genova a La Spezia, provvedimento da lui giudicato (è l'unico contrario, a quanto risulta), "primieramente intempestivo e in secondo luogo maligno e irrazionale", per una serie di ragioni: con la probabilità di una guerra "che tutti scorgevano, fuorché il ministro La Marmora", si trasportava il maggiore arsenale marittimo proprio nelle vicinanze della frontiera, dove non era più al sicuro da colpi di mano terrestri; - sempre in vista di una prossima guerra per liberare il Veneto, sarebbe stato più utile destinare i dieci milioni necessari per La "· ivi, p. 7.


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Spezia a nuove costruzioni navali, e alla trasformazione a vapore delle cinque fregate· a vela. in tal modo rendendo superfluo l'intervento della flotta francese nel 1859; - il provvedimento era intempestivo, perché all'epoca in cui è stato votato sarebbe stato meglio "votare una somma per aumentare la nostra artiglieria da campo, per fornirla di cavalJi, per comperare armi rigate onde armarne la nostra fanteria e la Marina stessa"; - questo, anche se bisogna aspettare che il generale La Marmora "abbia inventato lui una carabina", perché nessuna delle eccellenti carabine esistenti è di suo gusto. E mentre tutti gli Eserciti hanno introdotto in servizio i cannoni rigati, La Marmora continua a fare esperimenti... il progetto per la base di La Spezia era "informato da sentimenti maligni contro la Marina", perché anziché costruire l'arsenale nella località assai comoda dei Cappuccini, "il generale Ministro La Marmora, ad onta di tutte le osservazioni, si ostinò a voler porre l'arsenale al Varignano, in un vero deserto, perché tutti gli ufficiali della Marina, che avevano mezzo di non morir di fame, l'abbandonassero, e quelli che rimanevano potessero morir presto di noia e di rabbia" .18 Palesi esagerazioni, che però sono indicative deH'ostilità e della sfiducia della Marina nei riguardi del Ministro La Marmora, che molto probabilmente non è iJ solo Borghi a sentire. Le critiche di quest'ultimo riguardano altri punti qualificanti: il funzionamento degli organi centrali, lo stato del naviglio e degli arsenali, l' avanzamento e J' addestramento dei Quadri e degli equipaggi, i regolamenti e la disciplina. GJi organi centrali del momento (comandante generale della Marina; comitato e congresso permanente della Marina, che hanno sostituito il consiglio d'ammiragliato) non svolgono bene i loro compiti, perché sono proni alla volontà del Ministro, il quale a sua volta tende a scaricare su di loro la responsabilità delle sue malefatte. 11 Comando Generale della Marina è diventato "una macchina da firme"; congresso e comitato (di quest'ultimo il Borghi è stato per due anni segretario) sono più che altro, un'area di parcheggio per ufficiali di grado elevato non più in servizio. Quest'ultimi per non perdere il soprassoldo della pensione si guardano bene dall'opporsi ai voleri del Ministro, il quale comunque - è il caso del La Marmora - si rivolge al comandante generale della Marina con uno stile "che è incirca quello che ordinariamente impiegano i caporali con le reclute" e non accoglie le proposte del comitato. La legge d'avanzamento per gli ufficiali di Marina di recente fatta approvare dal La Marmora. a fronte de]]e pochissime navi in armamento (3-4) richiede a tutti un periodo di comando assai lungo, quindi ritarda gra"· ivi, p. 19.


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vemente l'avanzamento e provoca malcontento, aumentando la discrezionalità del Ministro. I Quadri e la bassa forza delle navi sono incompleti, con conseguente disagio e superlavoro del personale; per "economia" una nave in disarmo viene affidata - quando è disponibile - a un solo sottufficiale, in tal modo provocando il deterioramento del naviglio con un danno economico assai maggiore. Gli ufficiali di Marina sono divisi in due gruppi ben distinti: quelli più anziani, usciti dai corsi della scuola di Marina prima del riordinamento del 1841, e quelle più giovani, usciti da tale scuola dal 1841 in poi. I primi "sono in generale pressoché incapaci, poco favorevoli alle istituzioni liberali, despoti e cortigiani", e pur essendo ormai pensionati, con il meccanismo dei consigli, congressi ecc. "continuano a pesare sinistramente, colla loro influenza" sull'avvenire della Marina. Ad essi appartengono anche il Persano, il Galli della Mantica e il Provana: eccezioni che confermano la regola, perché ''uomini di cuore leale, arditi marinieri, ed abbondantemente istruiti nel loro mestiere (di marini , non già d'ingegneri navali) renderanno sempre brillanti servigi al Paese, comandandone il naviglio da guerra". Il secondo gruppo di ufficiali, composto da coloro che sono usciti dalla scuola di marina dal 1841 in poi, è di gran lunga migliore del primo, con molti uomini colti; esso costituisce la maggioranza della Marina. Il Ministro, però, si avvale soprattutto dei primi, con i quali facendo leva sull'interesse individuale gli riesce facile schiacciare le generose aspirazioni degli altri. In tal modo "si arrivò nello stesso tempo: a procurarsi un partito sostenitore delle idee tradizionali dei generali-Ministri; c a rovinare, a disorganizzare da per sé la nostra Marina militare, poiché: cosa poteva mai condurre più presto a questo risultato, che l'abbandonarla al ludibrio di una consorteria di gente ignorante, intrigante e capricciosa ?" 19 Secondo il Borghi, un'altra grave lacuna si trova nei regolamenti, che sono antiquati - e quindi inapplicabili - oppure mancano. Tutto si basa ancora sulle istruzioni provvisorie emanate quarant'anni prima dal Ministro ammiraglio Des Geneys: è vero che spesso vengono compilati e diffusi grossi volumi di regolamenti, ma riguardano particolari dell'amnùnistrazione, la contabilità ecc. e "sono fatti soltanto per complicare l'amministrazione, e rendere necessari i commissari amministrativi, onde aumentare il numero delle inutilità, e darsi l'aria di operare lavori giganteschi sporcando carta da protocollo"20• Manca un regolamento di disciplina, un regolamento per il servizio a bordo, un regolamento che indichi i compiti dei diversi corpi e le attribuzioni dei vari anelli gerarchici, ecc.; ne discende un'eccessiva discrezionalità dei comandanti <l"elle navi, ciascuno dei quali si regola a suo modo, con gravi inconvenienti; e l'inutilità dei regolamenti esistenti "serve di pretesto per giustificare le infrazioni continue, lasciando ampia libertà al capriccio di chi comanda". In tal modo l'addestramento è

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ivi, pp. 47-48. ivi, p. 50.


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gravemente trascurato e ciascun legno forma un governo a parte, dove chi comanda non riconosce alcuna autorità superiore, nemmeno quella del re; gli ufficiali e la bassa forza sono soggetti a continue angherie, "e abbandonati in balia di autorità capricciose e dispotiche, non vincolate da alcun regolamento[ ... ] Né i mali trattamenti che disgustano dal servire il proprio paese, sono i soli inconvenienti, che risultano da questo stato di cose". 21 Riguardo alle costruzioni navali, che vale costruire navi da guerra quando non vi sono né marinai militarmente esercitati, né cannonieri esperti, né meccanici fidati, né un numero sufficiente di ufficiali per armarle, né comandanti sperimentati nella tattica navale per condmle al fuoco, né un servizio pel materiale competente a conservarlo in uno stato tale da essere ad ogni istante punto all'armamento?22

A causa della mancanza di un corpo militare d'ingegneri e costruttori navali (la cui istituzione è stata rifiutata dal La Marmora) e dell'improprio impiego di ufficiali di vascello nella direzione degli arsenali, buona parte delle navi in servizio ha gravi difetti di costruzione o di manutenzione che sfuggono ai profani, abbagliati dalle apparenze e dal diffuso ricorso a inutili e costosi abbellimenti in bronzo. In sintesi, "eccettuate le tre nuove fregate, non v' ha cosa nel materiale della nostra marina, che non abbia, più o meno, dei difetti capitali; e che non si trovi in uno stato deplorabile di deperimento". 23 Per trovare rimedio a una pletora di inconvenienti dai quali non è esente nessun settore, il Borghi propone una serie di riforme: separare, anzitutto, l'amministrazione della Marina da quella dell'Esercito. Non è necessario costituire un Ministero indipendente; sarebbe sufficiente unire l'amministrazione della Marina, sotto un unico Ministro, a quella del commercio e dell'agricoltura; nell'ambito dell'amministrazione della Marina, rendere del tutto indipendenti l'una dall'altra - costituendo distinte divisioni - la Marina militare e mercantile, "odiosissima e dannosissima allo sviluppo di entrambe essendo la tutela che la prima esercita sulla seconda"; semplificare l'amministrazione "che l'elemento preponderante dei commissari rese oltre ogni credere complicata" e concentrare ogni iniziativa e responsabilità nel Ministero. In tal modo si potrà ricondurre il Comando generale della Marina alle semplici funzioni di sua competenza, che sono quelle di Comando del primo dipartimento marittimo [quello di Genova - N.d.a.] e si potrà sopprimere "quella mostruosa combinazione di Congressi, consigli e Comitati, che è un

ivi, p. 52. ivi, pp. 54-55 23 ivi, p. 76. "· ivi, p. 89. 21

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vero incubo per la nostra marineria";24 il segretario generale della divisione marina militare oltre ad essere un marinaio, deve conoscere tutti i dettagli delle cose marinaresche (cosl sono il Galli della Mantica e il marchese Ricci). Lasciando al Ministro i rapporti politici con il re e i1 Parlamento, il segretario generale deve farne le funzioni nei riguardi della Marina; il titolo di segretario generale dovrebbe essere cambiato in Ispettore generale della Marina militare, perché come tale dovrebbe fare ispezioni non preannunciate ovunque: "senza di queste ispezioni, si durerà fatica a farsi obbedire da taluno dei capi della marina, che sono abituati a non conoscere altra legge che il proprio capriccio";25 compilare nuovi regolamenti che vincolino ciascuno ai suoi doveri, traducendo con qualche modifica - per contrarre i tempi - i regolamenti francesi, che diversamente da quelli inglesi sono affini ai nostri usi e alla nostra mentalità: "quanto all'ingente massa di circolari, decreti, istruzioni [ ... ]che attualmente regolano, o meglio sregolano, la marina militare, il miglior partito sarebbe queJJo di abbruciarli tutti";26 calcolare, sul modello delle marine maggiori, gli organici degli equipaggi sul piede di pace e sul piede di guerra. Se non è possibile disporre del personale necessario, tanto vale - per evitare danni maggiori - diminuire il numero delle navi; aumentare le crociere per la protezione del commercio, che servono anche a esercitare gli Stati Maggiori e gli equipaggi delle navi; la perfetta conoscenza della navigazione in squadra e della tattica navale, soprattutto dal punto di vista pratico, è un'esigenza fondamentale. Mantenere un nucleo di navi costantemente armate è troppo costoso; è però possibile formare per tre o quattro mesi all'anno una squadra di evoluzione composta da 4 o 6 grosse navi. Così aveva fatto il Ministro Cavour nel 1851 con una soluzione poi abbandonata, e le conseguenze si sono viste: "figuriamoci come la maggior parte dei comandanti ed ufficiali poteano essere pratici nella tattica navale, al principio della campagna del 1859"; 27 le nuove e sempre più potenti artiglierie non arrecano alcun vantaggio senza abili artiglieri. Poiché al momento la flotta dispone solo di pochi cannonieri malamente addestrati, è necessario costituire non un corpo di marinai-cannonieri, ma un corpo di cannonieri-marinai, sciogliendo il battaglione real-navi; "è inutile il dire che per avere abili artiglieri l'istruzione verbale [cioè teorica - N.d.a.] non basta, e che il bilancio deve prevedere larga somma, ed i regolamenti severe disposizioni, perché si esegui-

" ivi, pp. 42-43. "' ivi, p. 51. " ivi, pp. 63-64.


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scano esercitazioni a fuoco e a proietto". Questo non è stato fatto prima della guerra del 1859, quando "nei due anni I 857 e 1858 non vedemmo mai i marinai sbarcati esercitarsi in alcun modo, ed i legni da guerra erano pressoché tutti in disarmo. Quali equipaggi avrebbero dunque potuto comporre pel1a guerra del 1859?";28 impiegare gli ufficiali di vascello sbarcati (i quali non fanno nulla e dovrebbero dedicare il loro tempo a studi peraltro non regolamentati e verificati) in vari incarichi: ad esempio negli uffici al posto del personale civile; per sostituire nelle scuole della Marina gli insegnanti civili e i preti; per istruire i cannonieri; quali consegnatari e responsabile della buona conservazione e manutenzione delle navi in disarmo; evitare, comunque, di impiegare gli ufficiali di vascello nella direzione di lavori del genio e delle costruzioni navali. Essi devono occuparsi solo del governo e istruzione del personale, dell'impiego del materiale e dell'amministrazione in genere. Per approfondire le loro conoscenze in queste branche, hanno in generale già abbastanza da studiare: "abbiamo detto in generale, perché i Saint-Bon e gli Arminjon che [oltre ad essere] eccellenti ufficiali di Marina, sono anche profondamente istrutti in varie parti tecniche[ ... ] sono soltanto felici eccezioni...". Gli scritti polemici del Borghi, finora (2000) ignorati, forniscono una cruda immagine dei problemi della Marina sarda prima del 1861 e delle sue carenze organizzative, che - cosa da rimarcare - la rendono uno strumento di guerra non in grado di ben operare già nella guerra del 1859. TI R.D. 18 marzo 1860, che prevede il distacco dell'Amministrazione della Marina da quella dell'Esercito, segue in stretta successione di tempo questo suo ultimo scritto. Va da sè che la campagna navale del 1866, oltre a dimostrare che era mal riposta la fiducia del Borghi nel Persano, dimostra anche che, nonostante tale separazione, i mali da lui denunciati - a cominciare dallo scarso addestramento tattico di squadra, dall'addestramento dei cannonieri, dalle carenze logistiche - non erano scomparsi. Per altro verso le accuse del Borghi al La Marmara e ai generali Ministri, palesamente infondate là ove esse attribuiscono il loro operato a deliberata volontà di sminuire il ruolo della Marina, danno inizio fin dal 1859 alla lunga serie di querelles tra Forze Armate, che si protrae per tutto il secolo XX. Fondate e largamente condivise, invece, le sue critiche ali' organizzazione della Marina sarda, che dopo il 1861 diventerà - con poche modifiche e quindi con tutti i suoi difetti - quella della nuova Marina italiana: in questo senso (come meglio vedremo in seguito), critiche e proposte analoghe alle sue saranno frequenti sulla pubblicistica militare specie nel periodo 1861-1866.

,. ivi, pp. 69-70.


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SEZIONE II -1861-1866: il dibattito sulla fisionomia organica della nuova Marina italiana "L'Italia deve dominare il Mediterraneo"

Il nuovo Regno nato ne] 1861, immerso nel Mediterraneo, sulla via per il Canale di Suez (ormai prossimo all'apertura) e per l'Oriente, con un estesissimo sviluppo delle coste che è insieme la sua forza e la sua debolezza, non può non essere una grande potenza marittima. Una communis opinio, questa, assai sentita nei primi anni dell'unità anche dalla classe politica, della quale tutto si può dire, meno che non si occupi con serietà e impegno dei problemi della Marina, e in particolare delle sue basi e delle nuove costruzioni navali. Lo dimostra, ad esempio, la sintesi dei dibattiti parlamentari del periodo riportata dal Guerrini nella sua più volte citata opera Lissa (1866)29. Almeno nel periodo 1861-1866 non trovano, quindi, conforto le lamentele del Borghi sul disinteresse per i problemi della Marina da parte del Parlamento e della pubblica opinione; e ancor di meno trovano conforto le sue accuse ai generali dell'Esercito-Ministri della Marina, la cui competenza tecnica è ovviamente assai limitata (ancor meno competenti sarebbero, del resto, Ministri civili), ma ai quali non si può negare l'intento di rafforzare la Marina, con cospicui stanziamenti per le nuove costruzioni approvati proprio dallo stesso generale La Marmora, "bestia nera" del Borghi. L'unica cosa che si può dire, è che in questo periodo purtroppo persiste e si rafforza la tendenza - già lamentata dal Borghi per il periodo fino al 1860 - ad occuparsi più delle nuove costruzioni navali, che del morale, della coesione, dell'addestramento dei Quadri e degli equipaggi, della logistica e dell'oculata amministrazione: come se la Marina fosse fatta anzitutto di navi, e non di uomini. Oltre che l'Austria, viene considerata un probabile nemico sul mare anche la Spagna, che riconosce solo nel 1865 il nuovo Stato italiano e continua a vantare dei diritti su alcune parti del suo territorio. Non ci si pone, generalmente, il problema di far fronte alle due principali flotte del Mediterraneo, quella francese e quella inglese; fa eccezione il Borghi, che in una lettera al Ministro della Marina pro tempo re Ricci (9 gennaio 1863 ) 30 sostiene apertamente che l'Italia deve dominare il Mediterraneo, non solo badare a difendersi e a far fronte alla flotta austriaca. La lettera del Borghi, al quale il Ministro chiede un parere sul presente e sull'avvenire della Marina, anticipa e imposta una tematica "navalista" basata sull'aprioristica esigenza di dominare il Mediterraneo - che da allora in poi sarà ricorrente nel dibattito sulla politica militare italiana e nella dia-

29 D. Guerrini, Op. cit., Appendice al Vol. I, pp. 349-361 '"' Cfr. L. Borghi, Sul presente e sull'awe11ire dell'armata navale italia11a, Torino, Botta, 9 gennaio 1863.


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lettica tra Forze Annate. Premesso che, per ragioni geografiche, l'Italia deve essere anzitutto una potenza marittima, il Borghi intende dimostrare: "l 0 che sulla marina specialmente riposerà la sua influenza avvenire nel mondo; 2° che il Mediterraneo deve essere un lago italiano"31 • Una volta raggiunta la barriera naturale delle Alpi - egli afferma - l'Italia potrà impedire che, come è avvenuto in passato, gli eserciti stranieri vengano a combattere le loro battaglie sulle rive del Po. Ma non potrà spingere la sua influenza oltre le Alpi, se non in accordo con una delle potenze vicine: quindi, se l'Italia facesse affidamento solo sµll '};:sercito, rimarrebbe una potenza secondaria, come avviene per tutti gli Stati eh~ sono costretti a cercare nelle sole alleanze le condizioni per il loro prestigio e la loro sicurezza. Se invece l'Italia aspira ad essere una nazione veramente indipendente, "il campo non le rimane libero che dal lato del mare; una forte marineria soltanto può elevarla all'altezza che le compete". Le occorre una forte marineria prima di tutto per proteggere lo sviluppo del commercio marittimo che - come dimostrano le antiche Repubbliche marinare - è l'unico mezzo al quale può ricorrere per rendere prospera la sua economia, visto che 1' industria per mancanza di materie prime non potrà mai raggiungere i livelli di quella francese o inglese. Anche da un punto di vista geopolitico "per assicurare la propria indipendenza l'Italia ha d'uopo di dominare nel Mediterraneo. A parte la presenza inglese, le coste del Mediterraneo non meno che le nostre frontiere terrestri, sono popolate da nazioni che sono o fra breve saranno forti e compatte: "ove l'Italia non domini, sarà dominata da una di queste rivali, da tutte forse; costretta ad ogni istante a chiedere il loro bene placito, a mendicare la loro amicizia, a ridursi infine allo stato di potenza di secondo ordine". A questo punto, troviamo nello scritto del filo-francese Borghi un raro accenno alla sotterranea politica antitaliana dell'Inghilterra: }'"assoluto bisogno" dell ' Italia di dominare il Mediterraneo - egli afferma - "non sfuggì a chi anticipatamente, quantunque non sembri, è più di tutti geloso di questa supremazia, voglio dire l'Inghilterra". Lo dimostra la recente cessione da parte inglese delle isole jonie alla Grecia, che non è affatto un segno di disinteressata generosità, ma "apparisce essere un tratto di alta politica, il quale intende fare della Grecia una potenza marittima che, governata dall'Inghilterra, controbilanci quella italiana nel Mediterraneo". Se l'Inghilterra intende solo restituire alle nazioni amiche quanto loro appartiene, perché allora non ci ha restituito Malta?32 D ' altro canto - prosegue il Borghi - le nostre estesissime coste non possono essere difese solo con le forze terrestri, che data la forma allungata della penisola potrebbero concentrarsi troppo lentamente sui punti di sbarco; esse riuscirebbero difficilmente a ricacciare in mare un nemico ben

)I

n.

P• 5. ivi, pp. 7-8.

ÌVÌ,


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fortificato e alimentato dalla flotta, e intervenendo nel Meridione correrebbero il pericolo di vedere tagliate le loro linee di comunicazione da forze nemiche sbarcate alle loro spalle. In conclusione, "l'Italia potrà soffrire che altri si disputino la supremazia dei mari fuori di Gibilterra e Suez, limitandosi a farvi nspettare il proprio commercio; ma al di dentro di questi stretti non può, non deve tollerare alcuno superiore od eguale, se non vuol servir sempre o vincitrice o vinta". Questo avverrà, se in ogni conflitto sarà costretta a cercare esclusivamente nelle alleanze la sua sicurezza. Come può la Marina italiana far fronte, con Je limitate risorse di cui dispone, alle due maggiori flotte mondiali, tenendo conto che il bilancio della Marina italiana è circa la metà di quello della Marina francese? Il Borghi cerca di rispondere anche a questa domanda, ma in modo assai discutibile. Trascurando la possibilità che tali grandi Marine possano concentrare rapidamente la maggior parte delle loro forze navali nel Mediterraneo, egli parte dalla constatazione che la Francia e l'Inghilterra non hanno mai mantenuto in questo mare una forza complessiva superi(?re a quella equivalente a 14 degli attuali vascelli di linea a elica e a 14 grandi fregate a elica. Tale forza, quindi, rappresenta anche l'obiettivo che l'ltalia <leve raggiungere con nuove costruzioni navali: obiettivo possibile, purché si realizzino severe economie, venga radiato o venduto iJ numeroso naviglio ormai sorpassato e di costosa manutenzione, e si riformi l'organico della Marina. Seguono considerazioni sull'ordinamento della Marina e sulle caratteristiche delle nuove costruzioni navali, che verranno brevemente da noi esaminate nelle parti dedicate a questi argomenti.

Come eliminare i difetti della Marina sarda ? Dal 1861 in poi il dibattito sulla fisionomia organica della nuova Marina italiana è assai intenso, in Parlamento come nella pubblicistica militare; gli scritti principali sono ancora quelli del Borghi, ai quali si aggiungono quelli del trinomio Maldini-Bucchia-Sandri. Indirettamente emergono degli interfaccia che segnano una differenza sostanziale tra Marina e Esercito; per la Marina non si tratta tanto - come avviene per l'Esercito - di adattare ai tempi un "modello" vecchio conservandone i tratti essenziali e l'eredità morale, ma di cercare un modello radical.mente nuovo, capace eh eliminare i molteplici inconvenienti del passato. Nella sua voluminosa opera del 1861 Sull'ordinamento della Marina Militare Italiana11 (pubblicata pochi giorni dopo la proclamazione del nuovo Regno e-di proposito- prima dell'inizio del dibattito in Parlamento sulla Marina) il Borghi ne prende in esame analiticamente tutti i settori, con una serie di proposte che in gran parte rispecchiano le idee da lui già

"· Torino, Botta 1861.


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espresse in precedenza, non senza contraddizioni e modifiche e abbandonando il tono polemico degli scritti precedenti. Il libro è stato compilato tenendo conto dei suggerimenti di autorevoli esponenti dell'amministrazione della Marina francese, che il Borghi ha avuto modo di conoscere nel periodo da lui trascorso a Parigi per laurearsi in ingegneria navale. Fino a quando l'amministrazione della Marina era unita a quella dell'Esercito il Borghi lamentava gli eccessivi poteri e gli arbitri del Ministro: in quest'opera del 1861 invece, quando già esiste un Ministero separato, sostiene che il Ministro deve accentrare in sé tutte le responsabilità e disporre nell'ambito del Ministero stesso degli organi tecnici necessari per consentirgli di essere giudice competente di qualsiasi questione, senza dipendere da troppo interessati consigli dei comandanti e direttori locali. Di conseguenza il Ministero - ove al momento i posti-chiave sono occupati da commissari e da un certo numero di impiegati civili senza alcuna competenza sulle cose di mare - deve, per così dire, "militarizzarsi". La direzione del personale deve essere retta da un ufficiale di vascello, mentre la direzione del materiale deve essere assunta da un ingegnere navale; ai commissari deve rimanere solo la ilircz.ionc ili rnnlabililà. Il pult:rc <lei commissari, insomma, va <lrasticamcnlt: ridimensionato: "siamo ben lontani dal rifiutare ai commissari la loro importanza, ma combattiamo la loro invasione in tutti i rami del servizio tecnico e militare delJa Marina; invasione di cui non troviamo esempio né negli altri Ministeri ed amrpinistrazioni dello Stato, né nei Ministeri e amministrazioni delle nazioni che dobbiamo prendere per modello"34• Queste soluzioni secondo il Borghi rispondono anche all'esigenza di eliminare le consorterie, gli intrighi, e gli eccessivi poteri dei comandanti periferici. In precedenza il Ministro, incompetente nelle cose di Marina e con sede a Torino, lasciava piena libertà d'azione al comandante generale della Marina in Genova, che così fungeva da vero Ministro della Marina: tutti inconvenienti che - tiene a precisarlo - ha avuto modo di constatare di persona. Sulla scorta del modello francese, il Borghi si spinge fino a indicare una dettagliata pianta organica del Ministero, nella quale però - nonostante le sue precedenti insistenze sull'importanza dell'addestramento e della tattica navale - non compare alcun organo specifico delegato a trattare tali fondamentali branche, probabilmente da lui ritenute di competenza - in mancanza di specifica collocazione - del segretario generale. Quest'ultimo deve essere un ufficiale di vascello e assicurare la continuità di gestione del Ministero, occupandosi direttamente di emanare leggi e regolamenti e di tutto ciò che non è di competenza delle tre direzioni generali (personale, materiale e contabilità). Meglio però che il Ministro sia civile, anche perché un militare sarebbe inevitabilmente proveniente da una delle Marine pre-unitarie, quindi tenderebbe a favorire amici e colleghi già appartenenti alJa sua stessa Marina. " ivi, p. 8.


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Pur diffidando sempre dei pareri dei comandanti locali, questa volta il Borghi attenua la sua avversione generale agli organi consultivi, purché il Ministero sia giudice competente delle varie questioni sottoposte ai consigli, e sia quindi effettivamente in grado di decidere quale è il parere migliore. A suo avviso, non può pronunciarsi con piena indipendenza su questioni di interesse generale un corpo deliberante che - come avveniva in passato - è composto da membri residenti nelle stesse località dove avranno effetto le deliberazioni prese, sono legati tra di loro da vincoli di parentela e amicizia, e non portano la responsabilità delle deliberazioni adottate. Pertanto, adattando alle esigenze nazionali le soluzioni francesi e inglesi il Borghi propone un unico "consiglio generale consultivo della Marina", con tre attribuzioni fondamentali: "consigliere del Ministro della Marina; controllore presso il Ministro della Marina di quanto viene operato da tutti gli impiegati che dipendono da questo Ministro; revisore di ogni operazione che viene fatta per ordine del Ministro della Marina"35 • La parte più interessante della sua proposta è però l'indicazione di un insieme di accorgimenti per evitare che il consiglio dia, come in passato, dei pareri che risentono di interessi particolari: 1°) per sottrarsi a influenze locali, e al tempo stesso per controllare da vicino l'operato degli impiegati del Ministero, i membri devono risiedere nella capitale e non nei porti; 2°) per evitare che il consiglio diventi "una casa d'invalidi o una consorteria" deve essere abbastanza numeroso e.non deve comprendere né pensionati né capi di servizio locale; 3°) per evitare perniciosi palleggiamenti di responsabilità, deve lasciarla interamente al Ministro; 4°) deve essere presieduto dallo stesso Ministro, perché in tal modo si evitano indebite pressioni da parte di impiegati del Ministero e/o di comandanti e capi - servizio locali. Egli propone infine la costituzione di un corpo di ispettori facenti parte del Ministero e del consiglio, suddiviso in Ispezione del personale, del materiale, della contabilità, dei lavori idraulici e sanitaria della Marina. Queste proposte sottintendono una profonda diffidenza e un forte atteggiamento critico del Borghi nei riguardi dell'operato di uomini e organismi della Marina del momento, le cui mende ha avuto modo di constatare di persona. Prevedibilmente la pubblicazione di scritti dove , per così dire, si "mettono in piazza" difetti, errori e intrighi della Forza Armata non è approvata; a taluni, che more solito lo accusano di violazione del segrelo militare ecc., il Borghi così ribatte: signori, noi non abbiamo rivelati segreti di Stato e nemmeno segreti di corpo; noi abbiamo smascherate le mene e gl' intrighi di consorterie che danneggiavano lo Stato dissolvendo la nostra Marina; per saperle dovevamo averle viste da vicino [...]. Debbonsi o non debbonsi conoscere gl'intrighi da chi si conviene per isventarli? Noi e tutti gli onesti

».

ivi, p. 42.


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diranno che si debbano conoscere. A chi si devono far conoscere? A tutti gli interessati: Ministri, senatori, deputati, alla nazione. Dirli all'orecchio a tanta gente è impossibile. Dunque, che fare? Stamparli. Sì, o signori; colui che è informato di certe storielle, che implicano la sicurezza e la gloria della patria, e non le pubblica, secondo noi è un traditore.36

Le stesse proposte sono ripetute, nelle linee essenziali, dal Borghi nella sua citata lettera del 1863 al Ministro della Marina Ricci, dove indica nell'unificazione e nel rafforzamento della direzione tecnica e amministrativa del materiale un presupposto per realizzare economie, limitando per quanto possibile personalismi e influenze locali, riducendo i troppi tipi e modelli dì materiali in dotazione ecc .. Un a]tro opuscolo fortemente critico nella sostanza (anche se meno virulento nella forma) è quello dì Salvatore Castiglia sull'Amministrazione della Marina Militare italiana (1 ° gennaio 1862)37. Premesso che "l'Amministrazione in qualsivoglia istituto sia pubblico che privato, è la base solida della sua fondazione, la guarentigia del suo regolare andamento e del sicuro conseguimento del suo scopo", il Castiglia ricorda che le Repubbliche marinare italiane, e in particolare Venezia, con un'esperienza di secoli hanno già stabilito le solide e imperiture fondamenta dì una sana amministrazione marittima, poi prese a modello daJla Francia, dal Regno d'Italia napoleonico, e dalla stessa Austria. La Marina austriaca dal 1814 al 1848 non aveva dì austriaco che la bandiera: in realtà essa era realmente Marina italiana, e per le leggi e gli ordinamenti amministrativi che la reggevano; e per la lingua usata in ogni ramo di servizio e di insegnamento; e per gli uomini che la comandavano e la servivano; e per la cultura infine che nell'accademia nautica [di Venezia] ricevevano i suoi giovani alunni, la cui religione di patria e il cui spirito liberale palesavonsi già sino dal 1844 coll' eroico tentativo dei Bandiera e Moro e si confennarono nel concorso decisivo dalla Marina [Venetaj prestato nella rivoluzione del 1848 e nella lunga ed eroica difesa delle lagune. Ciò prova evidentemente la eccellenza delle istituzioni }a5ciateci dai nostd maggiori; istituzioni, che non solamente erano fondamenta di sana amministrazione, ma valevano ben anco a radicare nell'animo dei nipoti la coscienza della loro missione e il sentimento di nazionalità e di grandezza.311

Questo patrimonio degli antichi - lamenta il Castiglia - è andato purtroppo disperso, e non è stato tenuto presente all' atto della costituzione 36

n.

31

ivi, p. 43. S. Castiglia, Sull'amministrazione della Marina Militare Italiana, Italia, 1° gennaio 1862. Lo scritto, senza indicazione dell'autore, è allegato al libro del Castiglia Stazioni navali del Regno d'Italia (forino 1861), quindi è a lui attribuibile. ·ivi, p.5.


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della nuova Marina italiana, anche se "l'Italia sa di non poter sussistere se . non come grande potenza navale". Nel 1861 si sono fuse insieme due Marine preunitarie con diverse caratteristiche e diversi sistemi amministrativi: quella sarda e quella napoletana. Quello della Marina sarda era assai difettoso, perché mancava di quell'elemento atto a determinare con cognizione di causa i veri bisogni; a curare e disporre i mezzi da provvedervi; a impiegarli con assennata economia. Mancava di giusta ripartizione delle attribuzioni e relative specialità, per assicurare l'efficace aòdamento di ogni ramo del servizio. La contabilità [...] lungi dal corrispondere al suo scopo, intervenendo tutrice in ogni azione d'interesse amministrativo a verificarne e sanzionarne, senza pedanteria, la ragione e l'equità [... ] lungi dall'ottenere quell'azione di controllo che una registrazione è destinata a esercitare sull'altra, senza che un ramo di servizio possa paralizzare e ledere le attribuzioni degli altri, la contabilità della Marina sarda era piuttosto un lusso d'inutili scritturazioni, di registri e documenti ognuno con una missione diversa, e quasi nessuno in corrispondenza e in relazione fra loro.39

La prova più sicura delle carenze di questo sistema amministrativo è data dal fatto che, a fronte di una spesa per la Marina di più di novanta milioni negli ultimi dodici anni, lo Stato sardo ha introdotto in servizio solo quattro nuove fregate a elica: "resterebbe ora a vedersi, mediante un esame sui Registri contabili di quell'Amministrazione, se possa risultare che l'impiego degli stanziati milioni sia pienamente giustificato, e come e quando i consuntivi corrispondano o si distacchino dai preventivi che dovevano farsi prima di intraprendere qualsivoglia riattazione o nuova costruzione di bastimenti"40. L'ordinamento amministrativo e il sistema contabile napoletano erano migliori, perché la nuova regolamentazione del 1818 prendeva come base quella dei cessato Regno d'Italia napoleonico, mentre anche le successi ve modifiche, raccolte in apposito prontuario, erano ispirate a principi di sapiente amministrazione. All'atto della costituzione della Marina italiana, quindi, sarebbe stato necessario tenere conto del sistema sardo, di quello napoletano e di quello della Marina veneto-austriaca, per definire un nuovo sistema di amministrazione. Ciò non è stato fatto; e il decreto del 17 novembre 1860 che riordina la Marina italiana, quello del 21 febbraio 1861 sul commissariato generale, i regolamenti sul servizio militare e amministrativo approvati nella stessa data, "non sono che una ricomparsa del sistema amministrativo e contabile della cessata Marina sarda, con delle mutazioni e ampliazioni che non si saprebbe definire se

39 ivi. p. 7. .., ivi, p. 8.


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più superflue o dannose; né vi si trova di napoletano che gli aumentati galloni nella divisa degli ufficiaH"_41 Sempre secondo il Castiglia, il decreto del 4 agosto 1861 sul riordinamento del Ministero della Marina peggiora - e non migliora - la situazione precedente, con irrazionale ripartizione delle competenze in uffici e troppe divisioni. La costituzione di un'apposita divisione per i bagni penali continua ad attribuire alla Marina il ruolo improprio di carceriera; le competenze sulla Marina mercantile sono divise tra più divisioni, e così avviene anche per quelle sulla contabilità. Il consiglio di ammiragliato, di nuova istituzione, è "una creazione sterile e illusoria", che rimane esclusa da un'ingerenza efficace nell'amministrazione e non tiene conto dell'esperienza dei consigli dell'antica Repubblica veneta. Le sue competenze sono troppo estese e vanno meglio precisate, specie per quanto riguarda le "disposizioni generali" - anche di carattere operativo - sulle quali è chiamato.a esprimere un parere. A ciò si aggiunga che le nonne sulle competenze dei Comandi generali e dei commissariati di dipartimento - analoghe a quelle già in uso nella Marina sarda - sono contraddittorie, perché stahiliscono che l'azione dei comandanti generali si estende "a tutto il materiale e il personale relativo del dipartimento, eccezion fatta di quello dei commissariati"_ In realtà il comandante non può esercitare appieno le sue competenze suJ materiale, perché esso è di competenza dei commissari ; e il personale del commissariato non dipende da lui ma direttamente dal Ministero. Date le sue finalità, la voluminosa opera dei tenenti di vascello Maldini e Bucchia e del capitano di fregata Sandri (tutti e tre significativamente provenienti dalla Marina veneto-austriaca), dal titolo Studi per la compilazione di un piano organico della Marina eseguiti per ordine del Ministero della Marina (1863)42 non riprende i toni polemici del Borghi e del Castiglia. Favorevolmente commentata anche sulla Rivista Militare43, essa "forma la base per le discussioni parlamentari sul bilancio della Marina" ed è compilata per incarico del Persano (Ministro della Marina dal 3 marzo 1862 all'8 dicembre 1862). La compilazione di un "piano organico per la Marina" era stata infatti annunciata dal nuovo Presidente del Consiglio Rattazzi nella seduta alla Camera del 7 marzo 1862, quale parte del programma del suo governo. Il piano, comunque, non viene accantonato con la rapida caduta del Ministero Rattazzi e quindi anche dal Ministro Persano (8 dicembre 1862), ma il 18 aprile 1864 è presentato al Parlamento dal Ministro della Marina pro tempore generale Cugia, il quale lo sottopone anche al vaglio di varie commissioni e autorità. 44 Dopo aver lodato il Ministro Persano, che non ha voluto vincolare in alcun modo il loro lavoro, i tre autori su parecchie questioni - pur senza mai 4

'-

42

3 ' · 44

ivi, p.9. Torino, Eredi Botta 1863. R. S., Marina Militare Italiana, "Rivista Militare Italiana" 1863, Voi. I pp. 168-204. D. Gucrrini, Op. cit., Vol. I p. 431.


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nominarlo - sostengono punti di vista analoghi a quelle del Borghi. Ad esempio, con abbondanza di dati statici anch'essi si sforzano di dimostrare l'importanza della Marina militare per proteggere il commercio, per la difesa delle coste ecc.; e come il Borghi premettono che il valore e l'efficienza di una Marina non si misurano solo dal numero di navi, ma anche dalle basi e arsenali disponibili, da una forte industria privata di supporto, ecc., settori nei quali anch'essi riconoscono l'esistenza di forti carenze, così come è carente e insufficiente per le nuove esigenze l'organizzazione scolastica; fino a quando non saranno disponibili Quadri e equipaggi, è inutile e dannoso costruire nuove navi. Dove gli autori dissentono radicalmente dal Borghi è sulla fondamentale questione del dimensionamento delJa flotta rispetto alle altre Marine. A loro giudizio, le forze navali devono reaUsticamente rispecchiare le esigenze della situazione de] momento e le possibilità economiche del Paese, quindi anche se l'Italia ha tutti i requisiti necessari per diventare una potenza marittima importante, sarebbe pazzia che pretendesse rivaleggiare in armamenti marittimi coll' Inghilterra e colla Francia. In primo luogo la condizione delle nostre finanze, di gran lunga inferiore allo stato finanziario di quelle due grandi potenze, non lo comporterebbe assolutamente. In secondo luogo non vuolsi passare inosservato, che le strepitose forze navali, di cui il mondo non vide mai le maggiori, che coprono i mari di quelle due vigorose nazioni, traggono origine in parte da un esagerato sentimento di emulazione e di orgoglio nazionale, più· che da un misurato calcolo dei loro veri interessi e bisogni [... ]. D'altronde un' amministrazione prudente non deve fondare i suoi calcoli sui sogni, spesso ingannevoli, di un dorato avvenire, né sulle splendide reminiscenze di un glorioso passato; ma contentarsi di fondarli precipuamente sulle condizioni presenti della nazione.45 Un esame della situazione internazionale e del potenziale navale dei Paesi del Mediterraneo porta gli autori a concludere che, escJudendo la Francia e la Russia (che ha mari così distanti l'uno dall'altro), le uniche due potenze da considerare per stabilire un ragionevole rapporto di forze sono l'Austria e Ja Spagna, che ambedue stanno rafforzando la loro flotta. L'Italia deve quindi possedere forze navali in grado di affrontare contemporaneamente ambedue queste flotte: obiettivo non certo di poco conto, perché richiede pur sempre il raddoppio del naviglio al momento esistente. Peraltro la Francia "sotto il punto di vista di potenza unicamente marittima" non può essere esclusa "dalla base di un calcolo spassionato degli interessi marittimi italiani". Bisogna tener conto che essa dispone in pratica di due flotte (quella dell'Atlantico e quella del Mediterraneo) e che,

• 5.

G. M. Maldini -A. Sandn -T. Bucchia, Op. cit., pp. 7-8.


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pur avendo in questo mare solo l'ottava parte dell'estensione delle coste italiane, vi mantiene forze navali più che doppie delle nostre, sì che il paragone con le forze francesi consiglierebbe di aumentare il nostro naviglio in ragione di molto superiore al doppio del livello attuale. Ma a paite le limitate disponibilità economiche dello Stato, un siffatto aumento non sarebbe conveniente sia per carenza quantitativa e qualitativa di Quadri, sia per carenza di stabilimenti marittimi e di tutto ciò che servirebbe per mantenere in efficienza una flotta così ragguardevole; sotto questo profilo, il livello effettivo indicato corrisponde alle effettive possibilità del Paese. Un altro punto qualificante del lavoro è il nuovo ruolo delle forze navali a vapore nell'attacco e difesa delle coste. Le opinioni in proposito degli autori, non certo originali, si richiamano favorevolmente agli studi della commissione per la difesa dello Stato (ai cui lavori ancora in corso, come si è visto, ha partecipato lo stesso Persano). Lasciando "agli uomini competentissimi di tena e di mare che compongono la commissione la soluzione dell'arduo problema della difesa del litorale per quanto riguarda le opere permanenti di fortificazione e i lavori sulle coste", gli autori intendono occuparsi solo del materiale marittimo destinato a cooperare con le fortificazioni costiere per la difesa del litorale. Come il Borghi e molti altri, essi ritengono che l'avvento del vapore favorisce gli sbarchi di sorpresa, contro i quali non bastano a difendere le coste né il solo Esercito, né la sola flotta d'alto mare: il nemico, infatti, può eluderne la sorveglianza sbarcando in punti della costa poco difesa. Di conseguenza, a loro avviso: le forze navali devono essere composte da una flotta d'alto mare, destinata a affrontare il nemico e a intercettare i convogli, e da naviglio costiero con idonee caratteristiche (cannoniere, batterie galleggianti), destinato a cooperare con le fortificazioni fisse per la difesa diretta del territorio contro attacchi dal mare; d'altro canto la flotta d'alto mare ha un ruolo fondamentale nella difesa dello Stato. Una nazione che non l'avesse sviluppata a sufficienza sarebbe obbligata a spargere dannosamente le sue poche navi per la difesa dei tratti più vitali delle coste; - "se nella guerra di Crimea la Russia avesse posseduto un naviglio potente, se il naviglio che possedeva invece d'esser tenuto nei porti a loro difesa, fosse stato spedito ad operare sul mare, esso sarebbe stato sacrificato dalle forze soverchianti degli alleati, ma non senza recare al nemico gravissimi danni, non senza costringerlo forse a smettere dall'Impresa o a provvedersi di nuovi mezzi [... ] e forse il paese sarebbe stato salvato dall'invasione".46 Oltre alla necessità di forze navali mobili gli autori sottolineano - come i fratelli Mezzacapo - l'esigenza di disporre di basi marittime ben forti.. ivi, pp. 29-30.


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fìcate, in grado di resistere alle invasioni terrestri e di mantenere via mare i collegamenti con il territorio. Ritengono perciò necessaria e urgente diversamente dal Borghi - la costruzione della grande base di La Spezia, ricordando che il voto favorevole de] Parlamento "si appoggiava allora su un dilemma: o un vasto arsenale, o rinunciare ad avere una Marina a vapore". Esigenza vieppiù sentita con l'aumento dell'estensione delle coste da difendere: la seconda grande base navale dovrà perciò essere Venezia, mentre una terza base dovrà essere creata "all'estrema punta d'Italia", per esempio a Siracusa. E dopo un ]ungo esame delle caratteristiche del litorale, arrivano alla conclusione che 1° tre punti richieggono principalmente dalla marina alcune navi destinate a speciale difesa del litorale, cioè: il gran golfo di Genova, il gran golfo del mar Tirreno e i1 litorale adriatico da Santa Maria di Leuca a Comacchio; 2° altre navi dovranno essere attribuite alla difesa del Golfo di Taranto e del Golfo di Cagliari io Sardegna; 3° finalmente alcune navi dovranno strenuamente difendere i passaggi pel canal di Piombino, per le Bocche di Bonifacio e per lo strelto di Messina."

Da questi concetti generali di difesa strategica discendono indicazioni sul numero e tipo di navi da costruire, che esamineremo ne11a parte a ciò dedicata. Per l' organizzazione generale de11a Marina, gli autori formulano una serie di proposte che a volte richiamano quelle del Borghi e del Castiglia. Quelle più importanti riguardano: - la soppressione del consiglio di ammiragliato istituito con decreto del 21 febbraio 1861, e la sua sostituzione con un consiglio superiore d i Marina, i cui membri, di nomina regia, non hanno diritto a alcun soprassoldo; l'attribuzione al predetto consiglio superiore del potere di deliberare su tutto ciò che riguarda costruzioni navali, aitiglierie e la,ori, progetti e nuovi ritrovati tecnici, rapporti e studi di ufficiali riguardanti questioni di arti e scienze navali e militari, ogni altra questione inerente all'organizzazione e amministrazione dell'armata di mare. li funzionamento del consiglio deve essere disciplinato con apposito regolamento; istituzione di un'Accademia Navale unica a Livorno per gli ufficiali di vascello; suddivisione del corpo reale equipaggi in marinai e marinai cannonieri, e mantenimento ali' organico di pace e di guerra prefissato dei Quadri e degli equipaggi. Passaggio dei due reggimenti "Real Navi" al Ministero della guerra o ]oro scioglimento; "· ivi, p. 40.


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- passaggio dei bagni penali con relativo personale al Ministero del]' interno. I forzati non saranno più impiegati in lavori e saranno possibilmente deportati fuori dal territorio italiano, in colonie penitenziarie da istituire per esempio "nelle isole del Navigatore nel Pacifico" o "in una delle isole centrali del gruppo di Nicobar"; istituzione di un servizio scientifico e idrografico della Marina (le carte nautiche al momento sono tutte straniere) e di scuole elementari per insegnare a leggere e scrivere alla bassa forza, affidate a sottufficiali; adozione di provvedimenti per effettuare senza dannosi ritardi le riparazioni ordinarie, e per eseguirle - insieme con i raddobbi e ogni altro tipo di riparazioni - presso gli stabilimenti nazionali. Solo in caso di guerra sono ammissibili deroghe a questo criterio di base; suddivisione del bilancio della Marina in due parti: Marina militare e Marina mercantile ("fino a che questa rimarrà sotto la dipendenza del Ministero della guerra") e del bilancio per la Marina militare nei tre 'dipartimenti'; - semplificazione delle norme per la contabilità, in modo che non possano ostacolare il buon andamento del servizio e i movimenti del personale; - emanazione di un nuovo codice penale militare marittimo in sostituzione di quelJo del 1826 e di un regolamento di disciplina per la Marina; riforma del codice penale della Marina mercantile. Alla sommaria panoramica tracciata si aggiungono due studi del 1864, Brevi considerazioni intorno alla Marina Militare del Regno d'Italia (del comandante Vittorio Arminjon)48 e Studi sull'organamento del Servizio Militare nella Marina (di Cesare Pescetto, probabilmente ufficiale dell'Esercito; da non confondere con Federico Pescetto, Ministro della Marina nel 1867)49• II lavoro dell' Arminjon, molto interessante per quanto riguarda le costruzioni navali, lo è assai di meno per quanto riguarda i problemi organizzati vi e amministrativi della Marina, costituendo solo un documento d'epoca che offre un'immagine da1 vivo dell'organismo, del suo modo di funzionare, e soprattutto dei problemi del personale. · Il Pescetto, invece, sulle tracce degli scritti poco preveggenti dello ammiraglio francese Jurien de la Gravière sostiene una tesi ormai in netto ritardo sui tempi: l'impossibilità di trasformare il marinaio in un vero soldato e quindi la necessità di avere a bordo delle navi un numeroso corpo di fanteria di marina. Di conseguenza, quest'ultima specialità non va sciolta ma se mai rafforzata, distinguendola dai marinai e attribuendole diversi compiti: servizio delle artiglierie navali; - arrembaggio, moschetteria e fanterie da sbarco;

"' Genova, Tip. Sordomuti 1864. •• Genova, Tip. Giornale il Commercio 1864.


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- servizio di guardia a terra e a bordo; - "rappresentare nella Marina il tipo della disciplina e dell'istruzione

militare..." . In tal modo si ritornerebbe al periodo remico ancor prima dell'artiglieria, quando la fanteria imbarcata era l'arma principale di una nave da guerra. Eppure già nel 1864 si parlava di corazzate e di artiglierie sempre più potenti ...

SEZIONE ID-1861-1866: vascello non corazzato a vela e con elica o nave corazzata? Il dibattito in Parlamento Prima di entrare nel merito delle singole proposte, bisogna riconoscere che i tempi non si prestano affatto all'impostazione di naviglio destinato a rimanere competitivo per lungo tempo, come sempre dovrebbe avvenire. Le costruzioni navali della nuova Marina italiana, infatti, sono pesantemente condizionate da tre variabili: i frequentissimi mutamenti di Governo, che impediscono - date anche le rivalità esistenti tra i vari Ministri - qualsiasi continuità della politica navale; il rapidissimo progresso delle artiglierie e corazze e i risultati dei relativi esperimenti; l'esperienza della guerra di secessione americana, con particolare riguardo allo scontro costiero tra il Monitor e il Merrimac nel 1862 a Hampton Roads e agli speronamenti che si verificano in quella guerra navale (senza peraltro che venga data parallela importanza alle mine - che già in quelle acque costiere rivelano la loro efficacia - e all'impiego dei primi sottomarini mossi dall'equipaggio stesso). Il problema trova un'eco anzitutto in Parlamento, ove il dibattito inizia con un'interpellanza del deputato Valerio (6 luglio 1861) al Ministro generale Menabrea, per conoscere se le trattative iniziate da Cavour per la costruzione presso cantieri americani delle due corazzate Re d'Italia e Re di Portogallo sarebbero state concluse oppure interrotte. TI Menabrea risponde che, anche se l'utilità delle corazzate è ancora dubbia, conviene costruirne . perché l'Austria ne possiede già più dell'Italia. Nell'ottobre 1861 il Menabrea, forse per difficoltà politiche, sembra tornare sui suoi passi: costituisce una commissione composta da ufficiali della Marina sarda (tra i quali il Della Mantica, notoriamente nostalgico della vela, e il Ricci) alla quale chiede di indicare un piano per le costruzioni e di esaminare la convenienza di costruire vascelli a elica o navi corazzate, indicando i seguenti compiti per la Marina: 1. Protezione del commercio marittimo in tempo di pace; 2. Custodia dei porti e delle coste italiane in tempo di pace; 3. Protezione del commercio in tempo di guerra; 4. Difesa delle coste in tempo di guerra;


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5. Offensiva in tempo di guerra; 6. Trasporto di truppe e di materiale da guerra; 7. Esercizi, scuole, lavori idrografici; 8. Servizi speciali. 50

Per "difesa delle coste" il Ministro intende la disponibilità di squadre in grado di "impedire gli sbarchi e combattere le forze nemiche"; per "offensiva in tempo di guerra" intende quelle che oggi chiamiamo le proiezioni di potenza dal mare verso la terra, non l'impiego offensivo della flotta contro quella nemica. Per quanto attiene al livello di forze, precisa che la flotta italiana non deve tentare di rivaleggiare con quella francese e inglese, ma essere in grado di fronteggiare, con una squadra nell'Adriatico e l'altra "nel Mediterraneo" (sic), sia la squadra spagnola che quella austriaca. La commissione ritiene "se non impossibile, inutile" la compilazione di un piano delle costruzioni, individua ancora nei grossi vascelli a elica (dotati ancora di vele) il "nerbo principale" delle flotte, e suggerisce di costruirli a preferenza delle fregate non corazzate. Per quanto riguarda le corazzate, preso atto dei pareri molto discordi sull'utilità del nuovo tipo di naviglio, la commissione suggerisce di limitarsi a costruirne in misura sufficiente per pareggiare le analoghe costruzioni di altre nazioni. In tal modo, più che eludere il quesito del Ministro che le aveva chiesto di pronunciarsi sull'alternativa vascelli a elica/corazzate,dimostra di fatto di ritenere ancora preferibile la costruzione di vascelli a elica; di conseguenza il Ministro propone alla Camera con il bilancio 1862 la costruzione di 4 di tali vascelli. Lo scontro tra corazzate costiere di Hampton Roads (8 marzo 1862) induce il Persano, nuovo Ministro, a nominare un' altra commissione (questa volta composta da ufficiali napoletani, con segretario il tenente di vascello Maldini, proveniente dalla Marina Veneta). Tale commissione ali' opposto della precedente si dichiara contraria ai vascelli a elica e consiglia senz'altro la costruzione di corazzate non inferiori alla francese Gioire, già entrata in servizio. Lo stesso Ministro Persano il 7 giugno dello stesso anno presenta alla Camera un disegno di legge che stanzia ben 47 milioni per la costruzione di nuove navi, tutte corazzate. I recenti avvenimenti della guerra d'America - egli afferma - hanno ormai dimostrato la superiorità incontestabile delle corazzate, "una sola delle quali, munita di sperone, basta a colare a fondo una intera flotta di bastimenti in legno". In un animato dibattito alla Camera (6 luglio 1862) il Persano conferma questa sua drastica scelta, asserendo di non aver ritenuto necessario consultare in proposito il consiglio di ammiragliato, perché si trattava di un' esigenza urgente e la superiorità delle corazzate era ormai sicura. Queste sue affermazioni sono contestate, tra l'altro, dall'ammiraglio Vacca, il quale ritiene ancora molto dubbia la convenienza di costruire le nuove e rivoluzionarie navi, pur ammettendo la loro utilità nella guerra contro l'Austria.

"' U. Uuerrini, Up. cit., Voi. 1 p. 394.


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Lo stesso Vacca, però, il 13 agosto successivo presenta una relazione che ritiene insufficiente la documentazione presentata per giustificare il predetto stanziamento per nuove corazzate, ma consiglia alla Camera di approvarlo ugualmente, perché (si noti il criticabile concetto d'impiego, non condiviso dal Maldini-Sandri-Bucchia) le 15 navi corazzate da costruire, distribuite nei porti più importanti del litorale, "ci daranno un sistema di fortificazioni (sic) da rendere inespugnabile il nostro Stato, e sicuro da qualunque aggressione non solo dell'Italia, ma di ogni altra potenza marittima". Il 9 maggio 1863 anche il Bix.io, che due anni prima era contrario alle corazzate, si dichiara entusiasta sostenitore della loro costruzione, fino a affermare che, ormai, devono essere considerate come le sole navi da guerra utili. Nel periodo successivo si discute alla Camera l ' opportunità di nominare una commissione d'inchiesta sulla Marina, e comunque, si pone fine alla abitudine delle forti spese per nuove costruzioni anche senza preventivo avallo del Parlamento, nelle qua1i si era distinto da Ministro il Persano. Si tende piuttosto a realizzare cospicue economie, rese necessarie dalle critiche condizioni del bilancio dello Stato; ciononostante nel 1865 il Ministro della Marina generale Angioletti presenta un disegno di legge che stanzia altri 17 milioni per nuove costruzioni, principalmente di corazzate. E per convincere il Parlamento ad approvarlo, dichiara che in battaglia le navi senza corazza (come la Garibaldi o la Maria Adelaide) ormai non hanno più alcun valore bellico, tanto che "prive della resistente corazza che protegge i nuovi mostri marini, dovrebbero o fuggire davanti a essi o perire senza vantaggio materiale per la patria"s1 • In sostanza la politica navale dal 1863 alla vigilia della guerra del 1866 svaluta oltre il dovuto - con nocivi effetti morali sugli equipaggi - il valore bellico delle numerose navi in legno ancora in servizio; al tempo stesso, per effetto delle eccessive spese per nuove costruzioni impedisce di destinare alla navigazione, ali' addestramento e alla manutenzione della flotta i fondi necessari. Non mancano dubbi sull'effettivo valore bellico delle nuove corazzate introdotte in servizio: nel febbraio 1866 il deputato Valerio lamenta che "noi ci siamo messi in quel gioco di corri e corri [cioè nella corsa agli armamenti navali - N.d.a.], in cui si misero Francia e Inghilterra, e abbiamo spesi dei milioni a creare dei congegni marittimi che oggi sono inferiori allo stato della scienza. Perché Francia e Inghilterra [ ... ] si correvano dietro spingendo le loro artiglierie, per modo che quelle stesse corazze che erano impenetrabili or sono pochi anni, sono penetrabilissime oggi". Nel corso del dibattito, il Bixio non concorda con il Valerio nel mettere in dubbio l 'efficienza bellicà delle nostre corazzate e la superiorità della nostra flotta su quella austriaca. Osserva però che la mancanza di un'industria privata nazionale di materiali di ricambio e di arsenali in grado di effet-

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ivi, p. 439.


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tuare le riparazioni necessarie alle navi maggiori costituisce un serio fattore cli debolezza; e intravede la minaccia dello sperone, affermando che "con arieti tipo Dictator a due elici, a macchine indipendenti [ ... l se l'Austria riuscisse ad avere un uomo solo che fosse veramente, non dico già un uomo straordinario come Garibaldi, che per me è ancora il più grande ammiraglio ch'io mi conosca in Italia, ma un ammiraglio ardito (e può averlo anche l'Austria), allora potremmo avere dei fastidi e serii ..."·' 2 • Una leadership valida, ecco quello che vale oltre le navi: Bixio ha i1 merito di capirlo assai prima di Lissa, anche se nella stessa occasione riconosce che il Persano, da Ministro, "malgrado le opposizioni ha saputo crearci una fona marittima adatta ai tempi".

Contro la corazzata e per la vela: le posizioni conservatrici del Borghi (1861-1863) Il dibattito in Parlamento costituisce l'intelaiatura e lo stimolo dei numerosi interventi ~ulla pubbl il:istica militare, i quali risentono anche del "partito" (inteso in senso lato) al quale appartengono i rispettivi autori. Se l'opera del Maldini-Sandri-Bucchia rispecchia e giustifica le posizioni a favore della corazzata assunte in Parlamento dal Persano e più tardi da altri Ministri (tra i quali il Cugia), gli scritti del Borghi riflettono i diversi orientamenti del Ministro Ricci, da lui insistentemente e non casualmente lodato per la sua competenza tecnica. Va chiarito, in proposito, che le divergenze non riguardano solo la necessità di corazzare le navi in costruzione, ma anche quelle già in servizio; e per le navi in progetto o in costruzione, la convenienza cli costruire gli scafi in legno per poi corazzarli o meno, oppure di costruirli subito interamente in ferro. Come si è visto, il capitano cli vasce1lo in ritiro Ricci, successore cli Persano come Ministro della Marina e in carica dall'8 dicembre 1862 al 22 gennaio 1863, aveva fatto parte della commissione nominata nel 1861 dal Ministro Menabrea, che aveva ancora indicato nei vascelli ad elica il "nerbo principale" delle flotte. Gli scritti del Borghi dal 1861 al 1863 non sono che la giustificazione teorica di tale posizione conservatrice. Già nel citato libro del 1861 Sull'ordinamento della Marina Militare egli non ritiene conveniente, per il momento, decidere la costruzione di corazzate, perché vi è grande incertezza sulla loro utilità e sulle loro caratteristiche, tanto che le stesse grandi potenze hanno sospeso le loro più importanti costruzioni in attesa di risultati più probanti delle esperienze e studi in corso.51 Non meno conservatore è il suo atteggiamento in merito ai vantaggi della propulsione a vapore, che giudica ancora un "sistema ausiliario" rispetto alla vela,

" ivi. pp. 445-446. " L. Borghi, Sull'ordinamento della Marina Militare (Cit.), p. 375.


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dando torto a quegli ufficiali francesi i quali sostengono che ha fatto il suo tempo e va interamente sostituita con la propulsione a vapore, in modo da utilizzare il peso così risparmiato per corazzare la nave. Con la propulsione interamente a vapore sarebbe avvantaggiata la potenza che ha più carbone e più basi sparse in tutti i mari del globo, cioè proprio l'Inghilterra rivale della Francia. Quindi, secondo il Borghi "almeno fino all'epoca in cui si avrà trovato un motore che domandi una materia prima più comune sulla terra che non sia il carbon fossile", il vapore va ritenuto solo "un possente ausiliario", perciò le nostre navi da guerra devono "essere provvedute al massimo dell'alberatura e velatura di cui abbisognano per navigare e fare le evoluzioni nel più breve tempo e nel miglior modo possibile". A conforto di questa sua tesi il Borghi cita il generale Douglas (vds cap. XIII), il quale "ha scritto recentemente in Inghilterra un trattato di tattica navale fcioè il citato libro Naval warfare with steam - N.d.a.], dove dimostra che alle vele è ancora riservata una gran parte d'azione nelle marine militari, e che il vapore debb'essere considerato soltanto come motore ausiliare, cui non deesi ricorrere che nei giorni di combattimento e nei casi urgenti". Le argomentazioni del Borghi sono rafforzate dalla constatazione che, per ragioni tecniche, di assetto dei pesi della nave ecc., la corazzatura dei vascelli in legno a elica già in servizio non è conveniente; così come non è converùente, né possibile, trasformare i cannoni lisci di ferraccio in cannorù rigati. I modelli più recenti di quest'ultimo tipo di cannone, poi, sono troppo complicati e di difficile impiego a bordo delle navi, anche per l'eccessivo peso del proietto. Conviene, comunque, impiegare per le future navi da guerra artiglierie di un solo calibro, che "quando il problema dei cannorù rigati fosse completamente sciolto" potrebbero anche essere ritirate; quest'ultimi tipi "per ora siamo costretti a non proporli che come cacciatori [cioè come armamento secondario contro naviglio leggero - N.d.a.], vista la maggior cura che domanda il maneggio di queste bocche da fuoco". Per completare il quadro, il Borghi ritiene che non si debba fare molto affidamento sulla resistenza delle corazze. Fino a quando i cannoni rigati non arriveranno a una potenza tale da perforarle, i bastimenti corazzati saranno molto utili nel difendere le basi e ne11 'attaccare le fortezze: "ma col perfezionarsi dei cannorù rigati, specialmente se si perfezionassero i proietti a percussione, sarebbe forse miglior partito di sopprimere qualsiasi riparo ai pezzi come agli uomini, poiché è assai meno micidiale di essere esposti uni- . camente all'azione diretta dei proietti, che a quella delle schegge di legno e di metallo che lancerebbero all'interno, ovvero allo scoppio che avrebbe luogo se urtassero in quaJche ostacolo prima di traversare la batteria ove agiscono i cannonieri e l'equipaggio". Quindi sono preferibili le murate ordinarie in legno e vanno banditi gli scafi in ferro, anche perché in tal caso le riparaziorù deUe avarie sarebbero molto più difficoltose in mare, e impossibili durante il combattimento. Pur essendo ancora poco affidabile, la macchina a vapore del tempo rispetto alla vela assicurava maggiore velocità e maggiore manovrabilità,


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risultando anche più idonea a far fronte alla tendenza all'aumento dei dislocamenti. Eppure, dopo aver sostenuto che il vapore era solo un mezzo di propulsione ausiliario contraddittoriamente il Borghi si dichiara favorevole alle grandi velocità, che assicurano vantaggi decisivi nel combattimento e nell'attacco alle coste, alle artiglierie di calibro unico della massima potenza possibile e alla concentrazione della potenza su poche grandi navi. Per giunta ritiene necessari anche equipaggi numerosi e ben armati (questa volta con armi individuali d'avanguardia, cioè carabine rigate e pistole a ripetizione a sei colpi); utili anche "le lancie o brandistocchi" per respingere gli uomini che volessero penetrare nella nave dalle cannoniere delle batterie più basse. Per il Borghi, infatti, lungi dall'essere superato, l'abbordaggio è ancora un mezzo efficace per ottenere la vittoria. Dà, però, la dovuta importanza agli arieti [cioè speciali navi che hanno lo sperone come armamento principale - N.d.a.] e sostiene che anch'essi devono avere grosse dimensioni e un'estesa velatura, per aumentare la loro velocità e capacità di manovra. Non serve invece corazzarli, perché la corazza aumenterebbe solo il peso e quindi la forza d'urto, rendendo preferibile utilizzare per le artiglierie il peso che comporterebbe la corazza. Sotto questo profilo, osserva che la Terribile e la Formidabile (provviste di sperone) in costruzione in Francia, per il momento assicurano alla nostra Marina una superiorità assoluta su quella austriaca, che non ha arieti; ma sono navi di ridotto dislocamento, e se l'Austria costruisse un ariete di maggiori dimensioni, sarebbero distrutte. In conclusione, nel 1861 il Borghi propone (senza indicarne il numero) i seguenti tipi di bastimenti, tutti armati con cannoni da 80 di 5000 Kg di peso: vascelli a elica da 64 cannoni; fregate da 32; corvette da 16; brigantini da 8; trasporti da 2; cannoniere da l. Ciascuno di tali tipi di nave dovrebbe avere caratteristiche non inferiori a quelle degli equivalenti tipi di altre Marine. Nel successivo anno 1863 benché siano passati due anni, nei quali dopo molti esperimenti le Marine maggiori si orientano sempre più verso i cannoni rigati e le corazze, il Borghi prende ancor più decisamente posizione contro le corazzate, alle quali dedica uno specifico opuscolo.54 Per pareggiare le forze navali inglesi e francesi nel Mediterraneo che, come si è visto, sono il suo ambizioso termine di riferimento - ritiene sempre necessaria una forza di 14 vascelli di linea e 14 grandi fregate ad elica, sufficiente per fronteggiare una sola delle due Marine. Un'alleanza fra Francia e Inghilterra è improbabile, "poiché ciascuna vedrebbe che, schiacciata l'Italia, una poi di esse dovrebbe perire per mano dell'alleata", e in questo caso altre potenze del Mediterraneo si unirebbero all'Italia per scongiurare il comune pericolo. A fronte del bilancio francese, il nostro cospicuo

" Cfr. Sulle navi corazzate - osservazioni in merito del Cav. Luigi Borghi, Torino, Botta 1863; ID., Sul presente e avvenire... (Cit.), pp. 12-3.5.


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bilancio è circa 1/3, ma ai 14 vascelli di linea e alle 12 fregate a elica che costituiscono 1/3 della flotta francese, noi possiamo contrapporre solo una forza inferiore all'equivalente di 5 fregate di linea. La nostra spesa per la Marina, quindi, è poco redditizia e la nostra amministrazione è antieconomica. Ciò dipende essenzialmente da due fattori: - mantenimento in servizio di un eccessivo numero di navi ormai di valore bellico nullo o quasi, che però gravano sul bilancio e richiedono ingenti spese di manutenzione. In particolare, su 65 navi a vapore in servizio 51 non sono più utili; ordinamento della Marina non in grado di assicurare una corretta ed economica gestione del personale e del materiale. Per il Borghi occorre dunque riformare radicalmente 1' amministrazione della Marina, radiare senza esitazione tutto il naviglio inutile, e con le economie realizzate costruire nuovi bacini di raddobbo e nuove navi, riducendo il loro numero, aumentandone il dislocamento e rendendo possibile un'economica manutenzione del naviglio. Tra le navi inutili questa volta include anche le navi a vela, in tal modo lasciando capire che la propulsione a vapore non i: più da lui ritenuta "ausiliaria". Anche le due corvette corazzate Terribile e Formidabile - l'aliquota più moderna della flotta - "sono navi che non sempre possono tenere il mare, difficilmente quindi potrebbero seguire la flotta e trovarsi in linea il dì del combattimento". Il Borghi condanna poi i "fanatismi fuorvianti" per le corazzate prevalsi nella pubblica opinione circa un anno prima (cioè dopo il combattimento di Hampton Roads), i quali hanno fatto sì che nessuna potenza navale si reputasse sicura senza di esse: "noi ci siamo lanciati sulla via a capo chino, così che ci troviamo ad avere in costruzione 13 grosse navi corazzate". È vero - afferma il Borghi - che la Francia e l'Inghilterra stanno costruendo parecchie corazzate, ma la proporzione tra queste navi e il resto della loro flotta (rispettivamente 1/4 e In) rimane assai bassa; "noi invece con una dozzina di navi da battaglia ordinarie a elica [cioè di vascelli -N.d.a.] e piuttosto piccole, avremo 15 navi corazzate". Ora l'illusione comincia a dissiparsi; e se la Francia e l'Inghilterra al momento vanno assai caute nel costruire corazzate, ne hanno tutte le ragioni. Infatti i viaggi transatlantici del Normandie e del Warrior, quantunque fatti entrambi nella più bella stagione, dimostrano che le navi corazzate, almeno quelle che sinora erano reputate più navigabili, non sono atte a sopportare faticose e lunghe traversate; sicché anche noi seriamente pensiamo a far venire le nostre due fregate [la Re d'Italia e la Re di Portogallo - N.d.a.] dall'America con mezzo corazzamento, per terminarlo nei porti italiani, ed è veramente prudente consiglio. Quanti alle navi come il Monitor [vincitore dello scontro di Hampton Roads - N.d.a.), non furono che i marini da caffè che poterono supporre che tali mostri avessero a figurare nelle battaglie veramente navali.


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In definitiva, per il Borghi (1861-1863) le corazzate oltre che come unità costiere potranno servire anche come arieti al seguito della flotta, ma date le loro carenti quaJità nautiche, "sarà ancora incerto che vi si trovino al momento di una battaglia navale". Ne consegue che il numero di queste navi al momento in costruzione per la Marina italiana è eccessivo; nei limiti del possibile esse andrebbero trasformate abolendo la corazzatura in normali vascelli, perché "io credo fermamente che l'Italia non avrà mai una flotta, sinché, come la Francia, l'Inghilterra e la Russia, non abbia un numero di vascelli di linea ad elica a grande velocità proporzionata a suoi bisogni".55 La contestazione delle tesi del Borghi da parte del Saint Bon e del Maldini e La sua improvvisa conversione alla corazzata

Il 1863 è veramente un anno cruciale per la letteratura navale italiana. In questo stesso anno, infatti, le idee del Borghi sono contestate dai più accesi fautori della corazzata, a cominciare dal Saint Bon (tanto nomini... ) e dal Maldini; sempre nello stesso anno, il Borglù pubblica la sua replica. Nel suo opuscolo Pensieri sulla marineria militare, significativamente scritto dopo una missione tecnica in Francia e in lnghilterra56, l'allora capitano di fregata Simone Pacoret di Saint Bon non ha dubbi: "il vascello di linea è morto"; lo stesso successo dell'americano Monitor, "un aborto" nettamente inferiore al Gioire e al Warrior, dimostra senza alcun dubbio la superiorità delle navi corazzate. Egli non ritiene, come il Borghi, che il progresso delle artiglierie potrà rendere inutili le corazze: al momento esse possono essere perforate solo a brevissime distanze, e con cannoni di grosso calibro, costosi, pesanti e poco numerosi. Anche se in futuro si potrà disporre di cannoni capaci di perforarle, non si tratterà già di abbandonare la corazzatura per tornare ai vascelli, ma se mai "di dichiarare che non è più possibile il combattere con bastimenti". L'idea della corazzatura è stata suggerita dall'impossibilità di combattere con navi non corazzate: "se dunque saranno rese inutili le corazze, non sarà più possibile la guerra sul mare". Il Saint Bon contesta anche la tesi del Borghi sulle scarse qualità nautiche delle corazzate. Dal fatto che le corazzate fino a quel momento costruite non hanno dato sotto questo aspetto risultati del tutto soddisfacenti, non si può dedurre che non è possibile costruire buoni bastimenti corazzati, anche se "non forse tali da eguagliare per qualità nautiche i vascelli"; in questo senso il Warrior è già un successo completo. Ma anche ammesso che non sia possibile costruire navi corazzate adatte a una lunga navigazione, non se ne può dedurre che è opportuno costruire solo navi in legno. Quest'ultime una volta varcato l'Oceano sarebbero pur sempre

"- Sul presente e avvenire... (Cit.), p. 29. ,._ Napoli, Stab. Tip. Classici Italiani 1863.


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vittima di una nave tipo Monitor: da questo fatto si dovrebbe quindi dedurre non la necessità di tornare al vecchio vascel1o, ma se mai che "bisogna abbandonare una volta il pensiero di imporre con navi armate la propria prepotenza a lontane incivilite nazioni". Diametralmente opposte a quelle del Borghi anche le idee del Saint Bon sul materiale da usare per gli scafi: meglio, per lui, costruirli subito in ferro, perché il montaggio delle piastre corazzate sul legno dà luogo a parecchi inconvenienti, rendendo il bastimento meno robusto. Occorre dunque, per il futuro, costruire solo corazzate. In questo settore la Marina italiana, rispetto alle grandi Marine, ha appunto il vantaggio di non disporre di vascelli antiquati. Dovrebbe perciò approfittarne per costruire un buon numero di nuove navi, capaci di uguagliare per numero e qualità quelle dello stesso tipo della Francia e dell'Inghilterra: "Questa risoluzione sarà forse alquanto gravosa per l'erario; ma bisogna pur cogliere l'opportunità, che non si presenterà forse mai più, d'uguagliarci, in materiale galleggiante, con poco costo comparativo al risultato, alle prime marinerie del globo. Ma credo sia necessario insistere sul fatto, che cinquanta Monitor non valgono un Warrior, e che oltre che al numero di navi bisogna badare al loro valore intrinseco". In definitiva per il Saint Bon in futuro dovranno essere costruiti solo tre tipi di navi: fregate corazzate, molto costose ma atte alla navigazione in tutti i mari; navi con cupole corazzate sistema Coles, con pochi grossi cannoni e anch'esse atte alla navigazione ovunque; batterie corazzate costiere. Ciascun modeHo di nave dovrebbe reggere il confronto con gli analoghi modelli francesi e inglesi; il numero di batterie corazzate costiere non dovrebbe però essere definito partendo dal confronto con le costruzioni di altri Paesi, "ma dalla configurazione e numero dei porti che dobbiamo difendere, dalle fortezze che dobbiamo attaccare". Pur ammettendo che con l'aumento della massa e della velocità delle navi a vapore lo sperone è diventato più efficace, il Saint Bon ritiene che non possano esistere navi la cui arma principale sia lo sperone; "il rostro è sempre ausiliario de] cannone". In proposito, rivendica il merito di aver proposto per primo un modello di ariete, perché la coesistenza di cannone e rostro su una stessa nave non è dannosa per il cannone ma nuoce al rostro; e lamenta che la costruzione di tale modello è stata iniziata e poi abbandonata, senza nemmeno consultarlo. Si dovrebbe costruire anche questo tipo di nave, perché "stimo appunto che col ]oro mezzo si possa ottenere il desiderabile risultamento di rendere impossibili i combattimenti navali. lmperrocché parecchi legni arieti ben costruiti e nelle condizioni volute offenderebbero, immancabilmente e senza scampo possibile, i legni corazzati o no di qualunque potenza che osasse mostrarsi minacciosa sulle nostre coste". Da questa non chiara e non univoca posizione par di capire che il Saint Bon considera l"'ariete" (nave armata unicamente di rostro) efficace solo per la difesa costiera, ritenendolo per le navi d'alto mare un'arma secondaria. Le sue considerazioni, comunque, non si limitano alle costruzioni navali: non si deve radiare, ma utilizzare per addestramento o come nave tra-


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sporto il naviglio antiquato; bisogna costruire grandi navi da trasporto in grado di imbarcare dei battaglioni al completo, e bacini di carenaggio più grandi degli attuali. Bisogna anche tener presente che la potenza effettiva di una Maiina "meglio si desume dalle forze produttrici dei suoi arsenali e dalla sua industria privata, che dal numero effettivo delle sue navi"; sotto questo profilo c'è molto da fare, perché i nostri arsenali sono in grado di sostenere logisticamente solo una Marina di terz'ordine. Il solo arsenale di La Spezia non basta: "ma almeno quello si costruisse, almeno vi si ponesse tutta l'attività che richiedono interessi tanto importanti. Invece, un malinteso amor proprio nazionale ha escluso la società estera che l'avrebbe fatto progredire, per commetterlo a un'impresa nazionale che si sta rivelando inoperosa". Rivelando la stoffa del futuro Ministro, il Saint Bon non manca di aggiungere considerazioni sul]' ordinamento della Marina - che anche per lui va radicalmente mutato, non solo modificato - e sul personale. Anche qui, il suo punto di vista è agli antipodi di quello del Borghi: non si deve seguire supinamente le soluzioni francesi e inglesi, né lasciare in balia di un solo uomo le decisioni più importanti. Occorre pe11anto un consiglio di ammiragliato con forti poteri deliberanti, che mantenga l'unità di indiriao della Marina nonostante le vicissitudini politiche, evitando che un Ministro distrugga ciò che ha fatto il Ministro precedente. Occorre migliorare l'inquadramento e l'addestramento degli equipaggi, istituire scuole per sottufficia1i e per piloti, emanare un regolamento che definisca le attribuzioni e i doveri dei vari livelli gerarchici e garantisca uniformità del servizio e del linguaggio tecnico. In conclusione, "sulle rovine di alcuni poveri tuguri vogliamo edificare un palazzo maestoso", ma esitiamo a renderci conto che si tratta di costruire un edificio interamente nuovo. Questo potrà essere fatto soltanto da un uomo eccezionale, da un uomo, di cui l'ingegno sbrigliato abbracci complessivamente un concetto e gl'infinili suoi sviluppi; di cui le cognizioni speciali si estendano d'ogni parte della scienza navale; di cui l'energia sappia vincere i meschini interessi privati, le violente passioni commosse, le tenaci resistenze passive, le attive lentezze burocratiche; di cui sia tanta l'autorevolezza che lo rispettino le vicende politiche; a cui benigna conceda fortuna di portare a salvamento l'opera sua.

Un'autocandidatura, fin dal 1863, di questo ancor giovane capitano di fregata? Sembra proprio che si tratti di questo. Ad ogni modo l'opuscolo del Saint Bon meglio di tutti riassume le posizioni a favore della corazzata. A lui e al comandante D'Amico 57 il Borghi replica con l'opuscolo (sempre del 1863), Sulle navi corazzate-osservazioni in merito58 , nel quale sostanzialmente ribadisce le posizioni attendiste precedenti, asserendo che,

" · C.fr. E. D'Amico, Vascelli di linea o navi corauate? Napoli 1863. sa. l'orino, Botta 1863.


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almeno per il momento, la soluzione dej numerosi problenù che comporta la costruzione di corazzate non è stata trovata, né è tanto facile e tanto prossima come mostrano di credere gli avversari dei vascelli, i quali reputano lontana l'epoca in cui si troveranno cannoni capaci di perforare le corazze. Poiché si sta andando verso i cannoru di grosso calibro, il Borghi concorda però sul fatto che le navi a torre corazzata girevole (sistema Coles) "sono le più razionali fra le navi corazzate nello stato presente delle cose". Se le navi con tali torri possono essere costruite con corazze mvulnerabili aj tiri delle artiglierie, allora è meglio usare il ferro; altrimenti tanto vale rimanere allo scafo in legno. Viti e parti in legno sono necessarie anche per gli scafi corazzati, qumdi in essi gli inconveruenti intravisti per gli scafi in legno si verificherebbero ugualmente; e data la grande quantità di materiale combustibile imbarcato dalle navi in ferro, anche per questo tipo di nave vi sarebbe un forte pericolo d'incendio. Il Borghi ammette, poi, che recenti relazioni almeno in parte smentiscono che il Normandie non ha buone qualità nautiche; perciò se e quando le corazzate dimostreranno di possedere effettivamente le qualità nautiche necessàrie, si dichiara ben felice di constatare che la nazione possa trarre vantaggio dalle ingenti spese fatte per queste navi. Nel frattempo aggiunge - è lecito avere dei dubbi; e ricorda cha la sua proposta di continuare a costruire vasceJli a elica non è stata improvvida, perché - cosa che non è possibile per i tipi di vascelli esistenti - i nuovi vascelli potrebbero essere progettati anche in modo da consentire in un secondo tempo l'installazione di piastre corazzate sullo scafo. I vascelli consentono di meglio fronteggiare anche la mfoaccia degli arieti, perché sarà sempre possibile costruire una nave non corazzata più veloce di una nave corazzata. Per aumentare la forza d' urto degli arieti - prodotto della massa per la velocità - è più conveniente aumentare la velocità che la massa; qumdi il pericolo dell'ariete lo combatte meglio una nave con velocità superiore, che oltre ad evitare l'urto può combatterlo con l'artiglieria e/o manovrando per l'abbordaggio. Contrasta le tesi del Borghi, allineandosi con il Saint Bon, anche l' opuscolo del tenente di vascello Maldini Le navi corazzate e la Marina italiana59, il quale osserva che le recenti crociere atlantiche del Gioire, del Normandie ecc. hanno smentito le tesi sulle loro scarse qualità nautiche; perciò le nostre navi costruite a Nuova York potranno tranquillamente attraversare l'Oceano, mentre i tipi Terribile e Formidabile che il Borghi cita quale exemplum in negativo non fanno testo, visto che ad essi non corrisponde alcun tipo di nave di altre Marine. Per il resto, secondo il Maldini le corazze !!ono conseguenza diretta dei progressi dell'artiglieria: se in futuro compariranno nuovi cannoni capaci di perforarle. esse non dovranno essere 59 •

Torino, Zoppis 1863.


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abbandonate ma piuttosto migliorate; nel frattempo un vascello corazzato avrà sempre la meglio su un vascello in legno. Il Maldini non condivide nemmeno le tesi del Borghi sulla convenienza di costruire navi con sperone non corazzate ma molto veloci, e sulla non convenienza di costruire navi corazzate con sperone. La nave corazzata sarà più solida del vascello, quindi subirà minor danno dall'urto; inoltre una nave da guerra potrebbe concentrare il massimo volume di fuoco su un ariete che tentasse di avvicinarsi, e se l'ariete fosse (come vuole il Borghi) privo di corazza, il fuoco avrebbe effetti letali; per questo tutti gli arieti sono fortemente corazzati, e anzi con corazzatura doppia a prua. Essi sono armati anche con cannoni della maggior portata, quindi avrebbero la meglio su vascelli non corazzati, anche se più veloci. Infine, secondo il Maldini il suggerimento del Borghi di costruire vascelli atti a essere corazzati in un secondo tempo poteva essere valido in passato, quando non era stato completamente risolto il problema delle corazzate: ma non lo è più al momento. A coronamento di questi punti di vista il Maldini propone per l'Italia una forza navale imponente: 24 fregate corazzate di 1° ordine; 10 di 2° ordine; 9 vascelli ad elica in legno; 6 batterie e 6 cannoniere corazzate per la difesa costiera; 12 corvette miste di l O ordine e 12 cannoniere ad elica di I O ordine per la sorveglianza delle coste e la protezione del commercio; 14 piroscafi-avviso di grande velocità; 14 trasporti a vapore di grande portata. Inoltre il naviglio antiquato non andrebbe eliminato, perché può svolgere ancora utili servizi. Per il Maldini non è corretto sostenere che le nostre forze navali devono misurarsi anche con quelle francesi e inglesi o, al contrario, limitarsi a far fronte alla flotta austriaca: "siccome non sorge ad alcuno l'idea di scemare numericamente la forza del nostro Esercito, perché desso non uguaglia quello della Francia o dell'Austria, cosl non credo che si possa discutere sulla convenienza di limitare la nostra Marina ad una semplice superiorità su quella austriaca, pel fatto che dessa non potrà mai competere con le Marine francese e inglese". Inutile aggiungere che queste idee del Maldini formano la base anche delle proposte contenute nei citati Studi per la compilazione di un piano organico della Marina italiand'l, compilati dal Maldini con il Sandri e il Bucchia; tali Studi riprendono anche, pur senza esplicitamente nominarlo, parecchi spunti polemici contro il Borghi che si trovano negli scritti dello stesso Maldini e del Saint-Bon. È ben noto che, anche se ciò non basta ad assicurare la vittoria a Lissa, da questa disputa escono vincitori i sostenitori della corazzata; assai meno noto, invece, è che il Borghi a distanza di nemmeno un anno da questa sua ostinata e perdente difesa del vascello non corazzato a elica, salta - come si suol dire - sul carro del vincitore, e "si pente". Il Giornale della Marina n. 85 del 26 ottobre 1844 informa che "il Sig. Cav. L. Borghi presentava 00 •

G. M. Maldini - A. Sandri- T. Bucchia, Studi... (Cit.), pp. 43-110.


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ultimamente al Ministro della Marina un elaborato piano di nave da guerra corazzata, che riceveva lusinghieri encomii dal Consiglio di Ammiragliato" e riporta due lettere del Borghi sull'argomento, dirette a un non meglio identificato "ufficiale superiore de11a nostra Marina"61 • Dal 22 aprile I 863 al 24 settembre 1864 era stato Ministro della Marina il generale Cugia, poi sostituito dal generale La Marmora; è dunque probabile che il Borghi abbia presentato il piano al consiglio d'ammiragliato - che per decidere aveva bisogno di un certo tempo - durante la gestione Cugia. Le lettere invece portano la data rispettivamente del 20 e 24 ottobre, quindi sono state sicuramente scritte e pubblicate quando era già Ministro il La Marmora, che nel 1859-1861 era stato bersaglio di violenti e offensivi attacchi personali da parte del Borghi. Cosa che non può meravigliare molto, visto che - senza escludere un tentativo di captatio benevolentiae nei riguardi del nuovo Ministro - le lettere dimostrano una forte incoerenza dell'uomo; ché in pochi mesi i gravi difetti attribuiti dal Borghi alle corazzate non potevano certo essere scomparsi. Desta meraviglia anche il fatto che si tratta di un "vascello ariete corazzato" e che, siccome le corazzate al momento in servizio nella nostra Marina consentono di installarvi un sufficiente numero di grossi cannoni da 12 a 20.000 Kg. (i soli ormai efficaci nelle battaglie navali), il Borghi diventa tutt' a un tratto più realista dei re, riscontrando la necessità di avere "navi più colossali ", con un dislocamento tale da consentire loro di superare - per numero di grosse artiglierie, per potenza della macchina a vapore, per velocità e per resistenze della corazzatura - "le più possenti corazzate in servizio presso le nazioni marittime". Ecco comparire, insomma, una "Dreadnought" ante litteram, nena quale il Borghi dichiara di assumere come termine di confronto il Northumberland, il Solferino, la Gioire e la Numantia, ottenendo prestazioni sia pur di poco superiori (peso della bordata di una fiancata 1.200 Kg anziché 1.150 Kg della media di tali navi; velocità 14 miglia anziché 13,8; corazza 13-15 cm anziché 13 cm). Dislocamento 7.800 tonnellate; cannoni rigati 300Armstrong con proietti da 130 Kg; artiglierie come sempre disposte sui fianchi e non in torri corazzate tipo Coles. Interessanti le ragioni per le quali il Borghi scarta questa soluzione, di lì a poco destinata a trionfare con riflessi decisivi sulle formazioni di combattimento: la installazione delle grosse artiglierie nelle cupole presenta certamente molti vantaggi: riduce alla metà il numero delle bacche da fuoco da imbarcarsi, conservando egual massa di fuoco al fianco combattente; diminuisce considerevolmente la superficie da corazzarsi; facilita il puntamento; aumenta il campo di tiro. Di fronte però a tali vantaggi

"· Cfr. L. Borghi, La Stella d'Italia, vascello ariete corau.ato da 20 cannoni e 1200 cavalli - progetto originale italiano - lettere due, Torino, Tip. Cotta e Cappellino Ottobre 1864.


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stanno anche alcuni inconvenienti: i bastimenti come il Royal Sovereign sono reputati poco atti a intraprendere navigazioni d'altura; le avarie, che possono paralizzare l'impiego delle artiglierie, sono molto probabili; gli effetti di concussione [cioè gli effetti provocati sullo scafo dalla scossa violenta alla partenza dei colpi - N.d.a.] micidiali assai; queste navi portano un numero di cannoni molto piccolo in confronto alla loro mole (i] Royal Sovereign ha cinque soli cannoni con 6.000 tonnellate circa di dislocamento); infine attaccate dai due lati non possono difendersi che con una potenza metà di quelJa colla quale combattono da un fianco solo. 62 Un'altra scelta che capovolge gli orientamenti precedenti è il doppio scafo in ferro, adottato dal Borghi riprendendo e migliorando la soluzione dell'inglese Brunel e lo scafo del transatlantico Great Eastern. Questa soluzione - egli precisa - gli è stata suggerita sia dall'opportunità di adottare due macchine a vapore da 600 HP con propria elica longitudinale (anziché una macchina con una sola elica), sia dalla notevole lunghezza dello scafo (100 m ), sia dalla necessità di impiegare la nave come ariete. Una poppa in legno non assicurerebbe la solidità necessaria per porta.re i due alberi longitudinali delle eliche; d'altro canto gli scafi in legno sono preferibili per la nostra Marina solo se la nave non supera certe dimensioni. Nel caso specifico il legno non assicurerebbe allo scafo la solidità necessaria per resistere "aJle diverse cause distruggitrici"; e volendo usare la nave come ariete "non sarebbe difficile di dimostrare che le combinazioni delle costruzioni di ferro presentano vantaggi tali di sicurezza e solidità, da giustificare la preferenza che si comincia a dare generalmente a questo materiale nella costruzione delle navi corazzate, destinate a combattere per urto" (in previsione di tale urto, il progetto prevede anche paratie stagne e altre predisposizioni per i condotti del vapore). Del non troppo antico conservatorismo del Borghi rimane traccia solo in quella parte del progetto, che prevede una velatura "di poco superiore alle fregate francesi". I risultati del dibattito cosl riassunto acquistano nuova luce se si tiene conto delle concezioni precorritrici del generale Cavalli e del Cav. Marchese, che molto prima del periodo 1861-1866 cominciano a impostare in Italia il problema della corazzata. 63 Fin dal 1855 il Cavalli sostiene la necessità di costruire "navi invulnerabili al fuoco delle più grandi artiglierie nemiche", con corazzatura obliqua per deviare i colpi, scafo in ferro dotato

62

63

ivi, p. 8. Per maggiori particolari sull'argomento si veda: L'Artiglieria e le navi corazzate, "Italia Militare" Vol. N - Puntate 10'" e 11•, gennaio - febbraio 1865; F. Botti, Dal vascello in legno alla nave corazzata: la "nave invulnerabile" e le teorie del generale Cavalli, "Rivista Marittima" luglio 1988; Id., La guerra civile americana /861-1865 e la guerra ispano-americana: valutazioni e ammaestramenti nel pensiero militare italiano coevo (Cit.)


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di rostro e poco sporgente dall'acqua per ridurre il bersaglio, potente motore a elica e cannoni rigati a retrocarica, in modo da sopprimere il rinculo riducendo il peso delle artiglierie e quindi il dislocamento. Sulla base di tali principi, sempre nel 1855 presenta progetti di navi corazzate a vapore a elica con 24 o 36 cannoni e ridotto dislocamento. Dal 1862 in poi il Cavalli sente l'influenza del tipo Monitor americano a torretta girevole, del quale ritiene possibile eliminare il difetto delle scarse qualità nautiche con opportuni accorgimenti nella costruzione dello scafo. Abbandona così le formule costruttive studiate in precedenza, per indicare all'inizio del 1865 la necessità di costruire navi tipo "Monitor modificato" armate di un solo grosso cannone in torretta girevole, fortemente corazzate, con la massima velocità e potenza d'urto e il minor pescaggio possibili, dotate di rostro e di due eliche per aumentarne la manovrabilità, con corazza e scafo formanti un tutto unico. E sulle sue orme, il colonnello d'artiglieria della Marina sarda Cav. Marchese fin dal 1856 propone un modello di batteria corazzata con 8 pezzi di grosso calibro dotata di sperone, da lui denominata acropiroscafo (cioè..piroscafo corazzato)64. TI Borghi, dunque, non è il solo a cambiare idea, anche se dal 1859 al 1863 la sua ottica è particolarmente miope e partigiana. L'influsso delJa guerra americana e delle soluzioni francesi e inglesi rimane comunque in tutti determinante e più importante di que11o della guerra di Crimea, anche se diversamente interpretato.

SEZIONE IV - Dopo Lissa: cenni sui problemi della Marina e sullo sviluppo delle armi insidiose (mina, sottomarino, siluro) Come si è visto, subito dopo Lissa la massa dei Quadri si è pronunciata decisamente a favore delle navi corazzate. In particolare il Saint Bon, comandante della pirocorvetta corazzata Formidabile65, ammette che la sua nave non ha dimostrato di possedere buone qualità nautiche, essendo nata come batteria corazzata per impiego costiero; tuttavia osserva che per la Formidabile come per le altre corazzate l'uso del legname nelle parti esposte al tiro nemico è da bandire, perché espone la nave al pericolo d'incendi. Non ritiene più conveniente l'installazione ancora in corso di cannoni Arrnstrong da 150, "essendo chiaro fin d'ora che fra pochi anni si useranno solamente cannoni di grossissimo calibro, quali sarebbero quelli da 600 Armstrong, parecchi dei quali sono già in servizio sulle navi inglesi". Dopo questa chiara opzione per i cannoni di grosso calibro e gli scafi interamente

"' Cfr. anche, in merito, O., Le navi corazzate, "Rivista Militare Jtaliana" 1862 - Voi. N pp.

99-100. 65

Commissione d'inchiesta sul materiale della R. Marina, Stato della flotta, (Cit.), pp. 204205.


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corazzati in ferro, il Saint Bon divide le future costruzioni in navi per la guerra d'alto mare e navi per l'attacco e la difesa di fortificazioni costiere; "per la prima specie vorrei adottato un tipo che partecipasse dei Monitor americani e del Taureau francese [quindi analogo a quello sostenuto anche dal Cavalli nel 1865 - N.d.a.], mentre per l'attacco e la difesa di fortezze mi sembra vantaggioso il tipo attuale con corazze più spesse e cannoni di maggior calibro [cioè una Formidabile potenziata - N.d.a.]". Il capitano di fregata Bucchia (già compilatore con il Maldini e il Sandri dei citati Studi per la compilazione di un piano organico e a Lissa Capo di Stato Maggiore dell'amm. Vacca) è ancor più preciso e chiaro del Saint Bon nel delineare le caratteristiche del futuro naviglio, che espone in una Memoria sulle nuove costruzioni allegata al verbale del suo interrogatorio da parte della Commissione d'Inchiesta su Lissa66• Egli ritiene necessario un mutamento radicale nei criteri per le costruzioni navali, in quantoché ciò che oggi rende difficile la soluzione del problema [agli ingegneri navali I si è la condizione inesplic~ile che si vuol mettervi, che la nave a vapore corazzata debba pur tuttavia sic et in quantum rispondere ai requisiti di una nave a vela destinata a rimanere lungamente in navigazione, e di una nave da guerra che a tenore degli antichi sistemi di tattica possa e debba battersi pur sempre coi fianchi; ed è perciò che vediamo tuttora le più recenti navi a vapore corazzate uscire dai porti col solito apparato di alberi, di pennoni, di sartiame e di vele, coi magazzini stracarichi di acqua e viveri, coi depositi di attrezzi di ricambio e coi fianchi, benché corazzati, trafornti di portelli come i vascelli dei primi anni del secolo per l'installazione di numerose artiglierie. I soli americani coi Monitors hanno fatto il primo tentativo di scioglimento diretto del problema incondizionato ai requisiti dell'antico sistema di navigazione e di guerra. Una volta si navigava per navigare (non so esprimermi meglio), perché si era costretti a tenersi lungamente in mare in balla della vicissitudine della stagione e del tempo; ora si naviga per arrivare ...

Ne consegue che, al momento, la nave più efficace in guerra è quella che "abbia raccolti nel senso naturale del suo cammino tutti i mezzi di offesa e di attacco". Di qui la formula di una nave completamente corazzata e senza vele, senza artiglierie sui fianchi e con 3-4 pezzi "di grossissimo calibro" installati in un ridotto centrale e in una o più torri, munita di due macchine a vapore indipendenti a elica per aumentarne la rapidità di manovra in ogni direzione, con velocità elevata (13-14 miglia alla ora), autonomia di 15-20 giorni ed equipaggio più ridotto di quello richiesto per le navi a vela. Tali navi fondamentali andrebbero completate da navi onerarie (navi-ospedale, trasporto viveri e carbone ecc.) e da esploratori e innociatori, nei quali tutto è sacrificato "alla condizione di poter navigare in qualunque mare e con qualunque tempo con una velocità massima". 66 ·

ivi, pp. 272-274.


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Anche il capitano di vascello Ulisse Isola, comandante della 28 divisione del corpo reale equipaggi, presenta alla commissione d'inchiesta un corposo Opuscolo sul naviglio corazzato67 che diversamente dalla memoria del Bucchia è di taglio storico e si rifà alla guerra marittima degli antichi, perché "la storia del passato predice l'avvenire, e da essa dobbiamo attingere i più utili insegnamenti". Più nel concreto, l'Isola si ripromette di cercare esclusivamente nella storia la soluzione di due quesiti di base: "1 ° quali sono le modificazioni che si debbono apportare agli attuali vascelli corazzati; 2° quale sarà il miglior modo di servirsene, o in altri termini, con quale ordinanza dovranno essi offrir battaglia all'armata nemica, o schivarsene". La risposta a questi quesiti è del tutto deludente e anacronistica, perché l'Isola spinge il suo storicismo fino a proporre semplicisticamente un revival della formula del]' antica galera (sia pure opportunamente corazzata e con macchina a vapore) e delle formazioni di battaglia in uso nel periodo remico, fino al secolo XVII; per giunta ritiene inutili le artiglierie di grande gittata e giunge persino a proporre di rivestire le navi ... di corazze amovibili in tempo di pace. Le sue proposte non meritano più di un cenno e sono più che altro dimostrazione dei riflessi negativi del mito dello sperone purtroppo rafforzato dalla battaglia di Lissa, riflessi dei quali rappresentano un caso-limite. Senza trarre corrette conseguenze dal fatto che è stato proprio il progresso delle artiglierie a rendere obsoleto già alla battaglia di Lepanto (1571 ) lo stesso sperone, e più tardi a causare il tramonto della galera68, l'Isola propone delle "galere corazzate" a vapore, attribuendo la loro scomparsa alla mancanza di corazzatura, più che all'impossibilità di portare come i vascelli a vela - sempre più numerose, potenti e pesanti artiglierie; perciò - non è il solo - indica come arma offensiva principale lo sperone, senza peraltro precisare le ragioni per cui lo ritiene più efficace delle sempre più potenti artiglierie allora in costruzione, e le ragioni per cui lo speronamento sarebbe facile in combattimento. Dalla necessità di usare come arma principale lo sperone deduce, senz'altro - a torto - che le artiglierie nonostante la loro gittata sempre maggiore saranno utili soprattutto per scariche a bruciapelo prima dello speronamento: l'armamento dei nostri vascelli dovrà essere ridotto entro castelli corazzati, costrutti a prora e poppa, e non già entro torri giranti come si usa attualmente a bordo di alcune navi. Essi saranno fissi, e conter67

ivi, pp. 337-353.

68·

Per maggiori dettagli sulla guerra marittima, sulle navi e sulla tattica del periodo remico Cfr. F. Botti, Guerra marittima e tattica navale nel secolo XVI (in Atti del Convegno Internazionale di Storia Militare "Aspetti e attualità del potere marittimo in Mediterraneo nei secoli XII - XVI" Napoli, 27-29 ottobre 1997, Roma, Ufficio Storico Marina 1999, pp. 289-304)


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ranno delle batterie disposte in traverso sulla nave[ ... ] i combattimenti fra corazzate avranno sempre luogo a brevissima distanza, per cui sarà inutile l'uso di cannoni a grandissima portata [ ... ]. Le corazzate dovendo essere dotate della massima volubilità [cioè manovrabilità N.d.a.], è inutile che i pezzi situati nelle batterie di prora abbiano un vasto campo di tiro, anzi dovranno puntarsi col timone, anziché muovendo l'affusto.

Anche l'armamento sui fianchi è inutile; perciò le corazzate al momento in servizio nena nostra flotta potranno e dovranno essere trasformate per soddisfare alla necessità di combattere con la prora anziché sui fianchi. Riguardo alle formazioni, l'Isola propone di adottare sic et simpliciter quelle - analoghe aHe terrestri - in uso nel periodo remico (corpo di battaglia centrale con l'ammiraglio; ala destra; ala sinistra; avanguardia e retroguardia), anche in questo caso dimenticando che già nella battaglia di Lepanto il ruolo principale era affidato alle galeazze, capitai ship dell'epoca guarnite di potenti artiglierie e già con buona velatura. Queste grosse navi schierate più avanti (come a Lepanto) o sui fianchi dell'armata navale composta da galee, avevano il compito di ritardare, logorare, scompigliare con la loro massa di fuoco la formazione nemica. Questo fa dire agli scrittori coevi, che già a Lepanto è stata l'artiglieria l'arma principale... Le considerazioni del Bucchia e dell'Isola dimostrano, di per sé, che se dopo Lissa nessuno mette più in dubbio la necessità di costruire corazzate, su come costruirle non ci sono idee chiare e tutti i problemi rimangono sul tappeto, a cominciare dalla preferenza da dare al cannone o allo sperone. Sull'ordinamento della Marina e sulle costruziòni navali non compaiono più studi significativi; solo il dibattito in Parlamento fornisce degli spunti interessanti, soprattutto in materia di corazze e artiglierie competitive con le soluzioni di altre Marine. Per il resto la problematica generale toccata è la stessa del periodo 1859-1866 (convenienza o meno di mantenere la fanteria di Marina; lamentele sulla Marina che naviga poco; convenienza di costituire una squadra d'evoluzione almeno per un certo periodo dell'anno; si propone anche di navigare a vela il più possibile per risparmiare carbone...). Nella tornata del 24 giugno 1868 il deputato comandante D'Amico è relatore di una proposta di legge per sostituire le artiglierie delle corazzate con altre più potenti69, escludendo la possibilità che anche tali artiglierie più moderne risultino presto inefficaci di fronte a nuove corazze, "giacché la corazzatura ha raggiunto ormai lo estremo limite sopportabile dalle condizioni di navigabilità delle navi". Respinge anche la proposta di vendere una parte delle corazzate per mantenere meglio armate le altre, per diversi motivi: il naviglio esistente è inferiore ai bisogni dell'Italia; dal 1865 in poi non si è ancora iniziata alcuna nuova costruzione, e infine con la vendita del

... Spesa straordinaria per l'annamenlo delle navi corau.ate ecc. - relazione del deputato D 'Amico, "Rivista Marittima" 1868, I trim., pp. 620-637.


XIV - POUJ1CA NAVALE E ORDINAMENTO DELLA MARINA

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naviglio si aumenterebbe la potenza di altre Marine possibili competitrici. Per il D'Amico "poche armi ma buone è un saggio consiglio, ma lo avere buone armi ed insufficienti ai bisogni, è discutibile se sia utile". Per questa ragione si dichiara contrario a dare priorità agli stanziamenti per gli arsenali marittimi: "la questione è se gli stabilimenti suddetti servono principalmente a difender la flotta, o è meglio la flotta che deve difendere i suoi stabilimenti". Una flotta che allo scoppio della guerra fosse costretta a rinchiudersi nei suoi arsenali non serve; ma una flotta potente potrebbe salvare l'indipendenza di un Paese aperto sul mare come il nostro, "senza accorgersi che gli mancà un sicuro ricovero". Noi manchiamo di arsenali e cantieri militari; per contro non manchiamo certo di porti naturali (Venezia, Taranto...) dove si può rifugiare, con poche spese, l'intera flotta. Nella discussione sul bilancio della Marina per il 187070 l'onorevole Negrotto lamenta l'eccessiva lentezza e la conseguente non competitività delle nuove costruzioni: "in Inghilterra ultimamente è stata fatta una fregata, di cui non rammento il nome, di una portata immensa e con corazza, credo, di 22 cm.. Noi ora stiamo ultimando due fregate le quali si trovano a Genova, la Roma e la Venezia, e questi bastimenti, che sono stati sul cantiere, se non erro, circa quattro anni, non sono ancora ultimati, e quando lo saranno avranno delle corazze di 12 centimetri". Riguardo agli arsenali, data la carenza di fondi anziché disperderli in tutti e tre i nuovi arsenali pur necessari (La Spezia, Taranto e Venezia) il Negrotto ritiene che sia meglio concentrarli su La Spezia. Il Negrotto rammenta anche che, se si vuol realizzare delle reali economie, non basta tagliare le spese inutili, che sono poche. Le dimensioni della Marina vanno proporzionate non a quanto servirebbe, ma alle reali possibilità finanziarie: Io vorrei che quando alcuni dicono conviene avere 18 corazzate dicessero nello stesso tempo se a loro pare che ciò convenga anche a costo di accrescere il dazio-consumo, e la tassa sulle professioni, anche a costo di seminare il malcontento tra le popolazioni e menomare il capitale necessario all'industria[ ... ] se l'ordine interno, se il commercio basa sull'esercito, basa sulla marina, soprattutto basa sul contento, sulla tranquillità dei popoli, sul capitale a buon mercato. Cosa importa che noi abbiamo sbocchi anche lontani, quando non possiamo approfittare di questi sbocchi?[ ... ] Che cosa importa che abbiamo lo sbocco della Cina, lo sbocco del Giappone, quando le nostre produzioni non reggono al paragone, non reggono alla concorrenza? E sapete perché non reggono? perché il capitale sul mercato italiano è assai più costoso[ ... ] se l'Olanda con tredici navi corazzate crede di poter difendere la sua navigazione, il suo commercio tanto esteso, perché non potrà credere altrettanto l'Italia?

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"Rivista Marittima" 1870, Il trim. pp. 1035-1215.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

Le affermazioni dell'onorevole Negrotto su11o stato delle costruzioni navali sono contestate sia dal]' onorevole De Luca, direttore delle costruzioni navali al Ministero, sia dallo stesso Ministro Acton. Il De Luca obbietta che la Roma è già entrata in servizio e che le due fregate corazzate in corso di ultimazione a Genova sono la Venezia e il Conte Verde, impostate nel 1865 quando lo spessore di 12 cm di corazza era a1l'altezza dei tempi. Da allora il Ministero ha seguìto il progresso delle artiglierie e corazze, sì che al momento tali navi potranno disporre di una corazza di 19 cm e di cannoni Armstrong da 18 tonnellate anziché da 6 tonnellate; esse avranno poi una sufficiente velatura. Con questi aggiornamenti risulteranno sufficientemente competitive rispetto alle navi di uguale velatura impostate all'estero da un paio d'anni, che non hanno corazza maggiore di 23 cm. Il Ministro Acton non concorda con coloro che danno più importanza al personale che alle navi e indica l'esempio della Marina inglese, la quale si preoccupa di avere navi più potenti del nemico "piuttosto che occuparsi molto della linea di fila e de11a linea di fronte, perché la linea di fila diventa linea di fronte quando si è passati davanti al nemico, e si ripiega su di esso". Ciò premesso, traccia un roseo panorama delle costruzioni navali in corso: i sedici milioni che furono approvati con legge del 1865, furono poi spesi a rilento perché la guerra seguì l'anno dopo. Infatti, cosa troviamo noi adesso sopra i nostri cantieri? Vi troviamo la Palestro e l'Amedeo; sono due navi che corrispondono perfettamente alle navi di primo ordine della Francia e dell'Inghilterra. Queste navi sono di nuova costruzione, tanto è vero che non è ancora deciso quale deve essere lo spessore della loro corazzatura [ ... ] oltre a queste navi abbiamo il Conte Verde e la Venezia, navi che sono, si può dire, nuove costruzioni; non sono corazzate. Il Conte Verde è stato costruito come nave corazzata e non come nave mista, come si era detto. La Venezia è una nave di prim'ordine come la Roma, a cui è simile, quantunque sarà corazzata in modo diverso.

Il Ministro aggiunge che nel 1869 sono state ultimate due altre nuove corazzate. Inoltre con i fondi residui dello stanziamento 1865 sono state varate due cannoniere e un'altra è in costruzione; l'impostazione di una quarta cannoniera è stata da lui sospesa, in attesa che si chiariscano bene i nuovi orientamenti. Questo perché "le costruzioni navali dal 1865 in poi hanno subìto delle grandi modificazioni. Non è che adesso che sono entrate in una via determinata, nella quale si potrà meglio stabilire quale sia la nave che debba essere costrutta, se a torre oppure a ridotti centrali, od a ridotti estremi". A questo punto - prosegue il Ministro - la miglior via da seguire è di adeguare le navi già da tempo in cantiere ai recenti progressi, e nello stesso tempo, studiare bene i nuovi tipi di nave da costruire inviando i nostri ingegneri aJl'estero per seguire le costruzioni francesi e inglesi. Interviene allora il Depretis (Ministro della Marina al tempo di Lissa), che contesta aspramente il Ministro pro tempore sostenendo che condizione


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essenziale per avere una Marina da guerra è il rinnovamento continuo del materiale per mantenerlo competitivo: il Signor Ministro ha parlato del Conte Verde, di alcuni altri basti.menti e li chiama nuovi; ma sono bastimenti messi sul cantiere sei, sette od otto anni fa. E in questi anni i progressi fatti nelle costruzioni e negli armamenti navali, il Ministro me lo insegna, sono grandissimi. Che sorta di bastimenti nuovi sono questi, quando non sapete nemmeno che spessore di corazza loro potete applicare, quando voi stessi ne sospendete la costruzione? Non si può adunque seguitare su questa strada; su questa strada noi facciamo pessimo uso dei fondi dello Stato, facciamo spese assolutamente inutili. Noi dobbiamo vendere il materiale antico; dobbiamo, se le condizioni dell 'erario lo impongono, limitarci a un piccolo numero di navi, scegliendo i tipi migliori, e mantenendolo in istato da poter essere adoperato ad ogni occorrenza. Questo è quello che la Commissione propone.

Su sollecitazione del Depretis la Camera ·approva un aumento di 480.000 lire alla più che esigua cifra (501.000 lire) proposta dal Ministero

sul capitolo delle costruzioni navali, mentre la commissione per il bilancio deJla Marina propone un ordine del giorno, con il quale la Camera invita il Ministero "a presentare nella sessione corrente un progetto di legge per provvedere all'ordinario rinnovamento del naviglio dello Stato". Il Ministro Acton propone di togliere la frase "nella sessione corrente", perché prima bisogna studiare bene ciò che è necessario; il Ministro delle finanze Sella si dichiara nettamente contrario, per esigenze e di bilancio, a qualsiasi aumento di spesa per la Marina anche se tecnicamente giustificato, asserendo che "se nel paese c'è una voce che sia stata ripetuta su tutti i toni, è stata questa, che fra le spese pubbliche sulle quali si dovessero fare le economie, v'era per prima la Marina [ ... ]. Certo che, né la sicurezza pubblica, né tanti altri servizi di questa natura, che sono necessari, direi, come il pane quotidiano, non sono compromessi nella questione della Marina". La punta estrema dell'avversione a qualsiasi incremento delle risorse per la Marina è toccata dal deputato Corte, il quale concorda con il Sella ritenendo che la forza della Marina di un paese non è altro che l'espressione delle sue forze produttive. Finché noi avremo l'industria e il commercio nello stato in cui si trovano attualmente, è inutile farci delle illusioni, possiamo spendere e spandere danari finché vogliamo, la nostra marina non sarà mai forte, e nessuno crederà mai alla forza della nostra marina, màlgrado i pomposi elogi che ne ha fatto il Ministro della marina. Io credo che noi dobbiamo pensare ad avere una marina per l'avvenire, ma per poterla avere per l'avvenire, credo che dobbiamo contentarci di non averla adesso [ ... ]. Il giorno in cui noi saremo ricchi, collo sviluppo di coste che abbiamo, quantunque non lo volessimo, saremo inevitabilmente forti sul mare.


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Il. PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. ll (1848--1870)

Anziché costruire nuove navi occorre se mai curare di più l'addestramento del personale, visto che "non c'è scoglio che si vada a scoprire colle carene dei bastimenti italiani". Con questa caustica frase, il Corte fa riferimento ai numerosi incidenti e arenamenti (ultimo quello dell'avviso Vedetta, del quale si sta discutendo in aula in quei giorni) che di recente hanno coinvolto navi militari italiane in navigazione; e ironicamente commenta che "per conseguenza [di tali incidenti], il voler del denaro per creare dei bastimenti nuovi, per me è un modo di voler far aumentare il numero delle nostre avarie, niente più". Questo scorcio di dibattito parlamentare dimostra che l'incertezza sugli indirizzi costruttivi permane anche nel 1870, e conferma che la battaglia di Lissa non ha alcuna influenza sulle scelte in merito al nostro materiale navale. L'aspetto più interessante e nuovo del periodo è invece lo sviluppo di armi insidiose di grande avvenire come la mina, il sottomarino e il siluro, sul quale anche in questo caso ha notevole influsso la guerra americana. Nella guerra di secessione la Marina degli Stati americani del Sud è stata costretta a ricercare nuovi mezzi d'occasione e poco costosi per neutralizzare la superiorità della Marina degli Stati del Nor<l; al Lempo stesso, la lotta tra corazza e cannone che già si manifesta, incoraggia gli inventori d'Europa a studiare nuove armi, diverse dal cannone, capace di colpire sotto il livello del mare la carena non corazzata delle navi, vanificando le protezioni di superficie. In tal modo insieme con il concetto di grande nave corazzata con poche potenti artiglierie e grande velocità, già nel decennio 1860-1870 nascono e cominciano a muovere i primi passi i suoi più temibili nemici: la mina, il sommergibile e il siluro. Queste nuove armi sono studiate e sviluppate all'estero: tuttavia la pubblicistica militare italiana coeva - e la Rivista Marittima nata nel 1868 - bene ne colgono l'importanza, anche se per il momento non la collegano alle costruzioni navali e in particolare al problema della protezione degli scafi. Tra le fonti straniere merita di essere citato un libro finora ignorato del tenente di vascello della tJ.S. Navy J.S. Barnes, dal titolo Submarine warfare offensive and defensive including a discussion of the offensive Torpedo System, its effects upon lron - Ciad Ship system, and injluence upon future naval wars (with illustrations - 1869)11• Lo studio italiano più significativo compare sul Politecnico del 1865, a firma di un non meglio identificato Cemda Mattross (molto probabilmente uno pseudonimo)12; accanto ad esso, la Rivista Marittima dà continuamente conto di parecchi studi stranieri sull'argomento. Citando anche il piano organico del Maldini-Bucchia-Sandri, il Mattross descrive lo sviluppo delle corazzate e degli arieti nei vari Paesi. Ma

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New York, D. Van Noskand 1869 ( un esemplare del libro si trova presso la Biblioteca di Artiglieria e Genio).

n. Cemda Mattross, La questione delle navi corazzate rispettivamP.nte alla Marina italiana,

"Il Politecnico" 1865, Vol.

xxvn pp. 282-306.


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oltre ad esaltare anche oltre misura la potenza delle corazzate, esalta anche l'efficacia dei primi sommergibili, a cominciare da quello che il 14 febbraio 1864 distrugge la corvetta unionista Housatonic (evento ampiamente riferito anche dalla Rivista Militare dell'anno)73. Fin dal suo primo anno di vita (1868), la Rivista Marittima riprende dall'Osservatore Triestino la notizia dell'invenzione del siluro (allora chiamato guarda-costa o racchettone sottomarino) da parte del colonnello fiumano della Marina austriaca Giovanni Luppis associato al Withehead, e descrive il favorevole esito degli esperimenti per l'impiego di questo micidiale ordigno74. Nello stesso anno la rivista sottolinea la necessità di sperimentare quest'invenzione75, perché "la questione di combattere con gli speroni trovasi ormai esaurita, essendosi molto discusso e stampato in pro e in contro", ed è possibile introdurre un sistema che agendo con lo scoppio risulti più efficace di quello basato sull'urto. Ne deriva la prima idea di torpediniera: "sopra un piccolo bastimento agile, leggermente alberato e molto basso, possonsi trasportare da 60 a 80 di quelle macchine di distruzione, che lanciate in mezzo a una flotta dovranno inevitabilmente produrre degli effetti incalcolabili". Tanto che marinai di provata esperienza pretendono che, con queste nuove armi, "tutti i bastimenti esistenti possono essere considerati d' ora in poi come del vecchio materiale fuori uso", rendendo necessario costruire le flotte con nuovi criteri, che peraltro non si sa ancora quali siano ... Nel 1869 anche la Rivista Militare dedica un certo spazio agli apparecchi per la guerra sottomarina, "i quali dopo l'adozione delle corazzate hanno acquistato grande importanza nella difesa delle coste"76• E dopo aver descritto i progressi nei vasi Paesi di tali armi (includendovi sia i sottomarini, che i siluri tipo Luppis e le mine) informa che anche in Italia (a La Spezia) si stanno conducendo degli studi intorno al miglior sistema di torpedini da adottare: "finora sembra aver dato eccellenti risultati un apparecchio a percussione detto alla prussiana. Se ne sta sperimentando un altro del Cav. Guglielmetti ufficiale della nostra Marina, il cui trovato fu già sottoposto all'esame di una Commissione nell'autunno 1869". La rivista aggiunge che negli Stati Uniti è stato costituito uno speciale Torpedo Corps, che ha adottato come libro di testo proprio la citata opera del Barnes. In esso si descrivono con molta chiarezza i progressi delle nuove armi sottomarine, e si ricorda che "la Marina americana [del Nord] ebbe più a soffrire dagli apparecchi sottomarini che da tutti gli altri mezzi di offesa insieme ricevuti", perdendo a causa delle torpedini ben sette Monitors e undici navi in legno.

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"Rivista Militare Italiana" 1864 - Vol. IV Rivista tecnologica, pp. 141-142. "Rivista Marittima" 1868, I trim. pp. 309-311. ivi, pp. 426-427. "Rivista Militare Italiana" 1869, Vol. IV pp. 489-491.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il ( 1848-1870)

Tra i vati accenni della Rivista Marittima all'argomento va segnalata la descrizione del progetto del colonnello inglese Ballard (1870) per una piccola nave corazzata costiera armata di "torpedini semoventi" (cioè siluri)77, e la pubblicazione di due lettere del famoso inventore svedese Ericcson, il quale dimostra la possibilità di distruggere delle navi con corazzatura anche superiore a quella dei Monitors americani mediante una "torpedine semovente" (cioè un siluro) con sistema di lancio più perfezfonato di quello del Luppis-Wbitehead, il quale a suo giudizio avrebbe "talune imperfezioni che gli tolgono qualsiasi importanza" 78 •

Conclusione La pubblicistica di interesse marinaresco dal 1848 al 1870 può essere suddivisa in due parti con ben distinte caratteristiche: il periodo prima di Lissa e il periodo dopo Lissa. Nel primo periodo, quando la Marina italiana è ancora una speranza o una prospettiva, il Borghi reclama un giusto ruolo per la M arina nelle guerre d ' indipendenza e con le sue accuse ai generali dell'Esercito dà inizio all'infinita serie di querelles tra Forze Armate. li periodo di gran lunga più importante e interessante è quello 18611866, che coincide con i primi cinque anni di vita della nuova Marina italiana. Smentendo ancora una volta le accuse del Borghi, in questo periodo tutti i Ministri, generali dell'Esercito e non, riconoscono la necessità di avere una potente Marina e alla Marina si destinano ingenti fondi. Diversamente da quello sulla tattica e strategia, il dibattito sull'organizzazione della nuova Marina e sulla fisionomia da dare alle nuove costruzioni navali è ricco, intenso e fin troppo articolato, risentendo degli eventi, del succedersi troppo rapido di governi e Ministri, di rivalità personali e interessi vari che impediscano una continuità di gestione e indirizzo della Marina. Il dilemma 1.:annone/sperone non viene definitivamente risolto né in Italia né all'estero; e nel loro entusiasmo per le nuove, potenti navi parecchi autori sembrano trascurare che sulle navi vi sono degli uomini, i quali devono essere anzitutto ben motivati e fiduciosi nella leadership, e in secondo luogo ben addestrati e amalgamati. Questo vale specie per il periodo 1861-1866, quando, come scrive il Guerrini, avemmo la disgrazia, vera e grande, che proprio in quegli anni fosse in America la grande guerra di secessione, ricca di risultati che furono, e più parvero meravigliosi, ottenuti con mezzi ogni giorno rinnovati; di qui un gran cozzo confuso di opinioni diversissime ed instabili su molte n 11.

"Rivista Marittima" 1870, ill trim. pp. 2044-2045. ivi, II trim. pp. 1360-1370. La rivista riporta, per obiettività, anche altri scritti di autori stranieri che contestano le affermazioni dell' Ericcson e mettono in dubbio l'efficacia del siluro del Luppis in alto mare, contro navi in movimento e a una certa distimza (Cfr. (I] trim. 1870, pp. 1817-1820 e 2259-2269).


XIV - POLmCA NAVALE E ORDINA.\1E'ITI) llELLA MARINA

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questioni dell'ane di far [e navi e di adoperarle nella guerra: prima fra tutte la questione della corazzatura. Questa, già apparsa prima della guerra americana, aveva suscitato più diffidP-nze che speranze: ma i diffidenti resistettero a lungo, onde gli altri dovettero anche lottare p~r trionfare [ ... ] come-sempre accade ai neofiti, i convertiti alla fede nelle .corazzate non si fermarono alla giusta misura; e fin) che le navi non corazzate furono screditate e perfino derise più che non meritassero...

La battaglia di Lissa conferma i danni di questa impostazione estremistica e materialistica, che prevale purtroppo solo sulle nostre navi e non dalla parte opposta. Va anche notato che mentre la Marina austriaca non è e non vuol essere che adriatica e bada a concretamente prepararsi in questa ridotta ma realistica prospettiva, quella italiana guarda fin troppo al Mediterraneo e alle future prospettive geopolitiche, tendendo a trascurare il fatto fondamentale che il teatro principale delle future operazioni sarà l'Adriatico e che, date le difficoltà di bilancio, gli sforzi in tutti i settori dovrebbero essere concentrati sulla guerra in tale mare. Sotto questo profilo, non ha tutti i torti il Borghi a mdicare l'apprestamento della base della Spezia - con le ingenti spese che nchiede - come dannoso e intempestivo. Tale base era certamente indispensabile per la guerra nel bacino del Trrreno: meno indispensabile per la guerra nell'Adriatico. Tanto più che, in quest'ultimo mare, nel 1861 c'era molto da fare e da spendere ... Ciononostante. ancor prima di Lissa prende corpo il problema della grande nave capace di superare tutte le altre per corazzatura, velocità e armamento, con pochi grossi cannoni. Insieme con tale problema già si agita il ruolo geopolitico dell'Italia nel Mediterraneo, lo stretto raccordo tra Marina militare, economia, industria e commercio, l'individuaz1one delle Marine più probabili avversarie, rispetto alle quali la nostra Marrna deve dimensionare le sue costruzioni, le quali dovrebbero rispondere a un "piano organico" peraltro difficile da compilare e rispettare e sulla cui utilità non tutti sono d ' accordo. V'è comunque concordanza sulla necessità di definire su nuove basi l'organizzazione del.la nuova Marina naz10nale, eliminando i molti e gravi difetti dell'amministrazione della Marina sarda. Anche a prescindere dall'esito infelice della oattag]ia di Lissa, dopo il 1866 prevale l'esigenza di realizzare economie, che contrasta con i continui progressi del materiale e con il ruolo che in campo mediterraneo dovrebbe assumere l'Italia. Nasce, fin da allora, il problema della lentezza delle nuove costruzioni, già superate quando le navi scendono finalmente in mare, e quello di impiegare nel modo migliore gli esigui e insufficienti fondi. Posto che non si dovrebbe mai essere costretti a scegliere tra personale e materiale, v'è da concordare con il Depretis quando indica come male minore la formula dì una Marina numericamente insufficiente ma di qualità, con personale sempre ben addestrato e naviglio gradualmente rinnovato. La soluzione proposta dal Ministro Acton (attendere, prima di riprendere le costruzioni, il definitivo chiarimento, specie all'estero, delle questioni tecniche sul


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tappeto) ha il sapore di un pretesto politico. Essa significa solo perenne attesa, perché presuppone che il progresso possa arrestarsi e che si possa quindi giudicare se un'innovazione ba o meno carattere definitivo, oppure se è suscettibile o meno di perfezionamento. In realtà - e questo vale anche per le tesi conservatrici del Borghi - solo con costruzioni rapide e continuamente aggiornate, e solo avvalendosi di pratiche esperienze d'impiego, qualsiasi materiale (navale e non) poteva e può fornire risultati corrispondenti alle risorse profuse, continuamente confrontando il progresso delle tecnologie con i risultati di tali esperienze.


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LA LETTERATURA MILITARE DELLE GUERRE D'INDIPENDENZA: BILANCIO E EREDITÀ STRATEGICO-ORDINATIVA Il colonnello Cecilio Fabris, eminente scrittore e storico militare già Capo dell'Ufficio Storico, in un articolo sulla Rivista Militare del 1895 riscontrava la mancanza di una vera e propria "Storia della letteratura militare", e dopo aver ben illustrato le molteplici difficoltà che avrebbe incontrato colui che avesse voluto intraprendere una siffatta opera, brevemente indicava la metodica da seguire: "considerare sommariamente l'opera dei principali scrittori in ciascun periodo storico, rimettendoli nella epoca in cui vissero come nella loro nicchia naturale, e raggruppando a loro i seguaci e gli imitatori, il cui ricordo valga la spesa; misurare l'influenza esercitata da tutti costoro sui contemporanei e sui posteri, quella esercitata dai tempi su di loro, e finalmente ricavare da tutto questo lavoro analitico il pensiero predominante di ciascuna epoca, considerandolo come una fase di un lungo processo evolutivo, di cui è utile ricercare l' andamento".79 È quanto abbiamo cercato di fare; se - e in che misura - ci siamo riusciti, non sta a noi giudicare. Ciascun autore - osserva molto giustamente il Fabris - non scrive in vacuo: sente l'influenza dei tempi e di altri scrittori. Noi aggiungiamo che spesso gli scritti di un autore risentono di personali amicizie e inimicizie, di passioni politiche; e spesso si propongono fini pratici e non puramente teorici. In effetti la letteratura militare (o di interesse militare) del periodo 1848-1870 si inserisce in uno scenario ben preciso, che ne delimita obiettivi e spazi ed è dominato da tre fattori: il risveglio nazionale e unitario, che la Restaurazione ha tentato invano di spegnere; l'eredità strategico-ordinativa della Rivoluzione Francese e napoleonica, peraltro variamente interpretata; le campagne di guerra e insurrezioni, intense come mai si è verificato da allora in poi. È nel periodo delle guerre d'indipendenza e nelle sue diverse espressioni teoriche - ciascuna non priva di un qualche prezioso granello di originalità - che vanno ricercate le basi autentiche del pensiero militare Razionale, e della nostra letteratura militare del secolo XX. Non c'è argomento-cardine del periodo post-1870 che non venga affrontato prima: questo vale prima di tutto per le questioni strategiche e ordinative, che come sempre sono state al centro della nostra indagine. Accanto ai grandi problemi, la pubblicistica dà rilievo a questioni tecniche e nuovi ritrovati destinati ad assumere una grande influenza nella guerra futura: la Rivista Militare, il Giornale di artiglieria, il Giornale del genio militare nel 1869 dedicano una certa attenzione ad argomenti di

'"· C. Fabris, A proposito di storia della letteratura militare, ''Rivista Militare Italiana" 1895, Voi. ID.


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IL PENSIERO MIUTARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

grande interesse futuro che ci duole non aver potuto trattare per mancanza di spazio, come l'impiego militare degli aerostati, le mitragliatrici, le trincee e le opere di fortificazione campale, viste come riflessi del progresso delle anni da fuoco e della maggiore efficacia d~lle armi rigate dimostrata anche dalla guerra americana. 80 Ad esempio, il Giornale del genio mi!itare deJlo stesso anno 1869 dà notizia che il capitano danese Linneman ha proposto una vanghetta leggera da dare in dotazione al fante, onde consentirgli di proteggersi dal fuoco ormai micidiale: infatti "ripari mobili e leggere corazze, come ne venne fatta proposta, peccano dal lato pratico e non offrono sufficiente protezione"81 • Si parla persino di un nuovo cannone "senza camera e culatta" (cioè senza rinculo), proposto nel 1859 da un certo Giovanni Franci di Roma; e in campo navale, come si è visto, si comincia a riconoscere l'efficacia delle mine e dei sommergibili (dimostrata dalJa guerra americana) riportando anche la notizia dei primi siluri e delle prime torpediniere. Se, dunque, la Restaurazione è una sorta di ginnastica preparatoria sotto l'egida deH'idea nazionale, il periodo 1848-1870 è un laboratorio tecnico , una sala di collaudo, un· epoca di duri confronti con quella realtà che nessuna teoria può appieno divinare. Questo vale per la Marina ancor più che per l'Esercito; solo dopo il 1848 gli avvenimenti costringono Parlamento e pubblica opinione a dibattere come mai era avvenuto in passato il problema marinaresco, a pronunciarsi su11a fisionomia che devono assumere le forze navali e sul legame della Marina con l'economia, il commercio e l'industria nazionale. Il dibattito sul ruolo geopolitico della Italia nel Mediterraneo, sul potere marittimo, sulla strategia navale, suJle grandi navi, sui mezzi che possono ostacolarne il predominio, sull'ordinamento e sull'amministrazione deUa Marina, sul rapporto Marina-Esercito, trova in questo periodo le sue fondamenta e le sue prime impostazioni e acquisizioni. La nascita di una strategia ma..ri.ttima come nuova branca teorica dell'arte militare è l'unico fatto di rilievo nel campo strategico; per il resto, né nel campo terrestre né in quello marittimo, nonostante i progressi della tecnica e l'esperienza delle guerre, la strategia muta i suoi connotati; mancano anche - in tutta Europa - autori in grado di reggere il confronto

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Si veda ad esempio: Gli aerostati nella gueffa (redazionale), "Rivista Militare Italiana" 1869, Voi. III pp. 409-417; Notizie sulle trincee di battaglia (redazionale), "Rivista Militare Italiana" 1869, Vol. ill pp. 242-261; G. Corvetto, Le nostre anni portatili a retrocarica e lo "Spectateur militaire", "Rivista Militare Italiana" Vol. III, pp. 418-423; Ripari da costruirsi dalle truppe prima del combattimento (redazionale), "Giornale del Genio Militare" n. 17/1869, pp. 424-439; Le mitragliatrici, "Giornale del Genio Militare" n. 9/1867; Le mitragliatrici, "Rivista Marittima" 1870, III trim. pp. 1806-1815; Nuovo cannone 'Zambeccari, "li Politecnico" 1862, Vol. XII p. 110; Servizio dei palloni aerostatici nelle ricognizioni militari, " Italia Militare" 1864, Vol. III Puntata 7", pp. 5-28 (sintesi di una conferenza del cap. E. Beaumont in Inghilterra). " "Giornale del Genio Militare" n. 17/1869, pp. 438-439.


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con i "classici", che tali rimangono con i loro riferimenti alle guerre napoleoniche: Oausewitz, Jomini, l'Arciduca Carlo. Gli ultimi due continuano ad avere successo, ad essere più o meno a proposito citati: Clausewitz in Italia lo è solo marginalmente. Sia in campo terrestre che mariUimo, sono più che mai in auge i "modelli" teorici dell'inizio del secolo: Napoleone I e Nelson. Il progresso della tecnica si fa sentire soprattutto nel campo tattico, senza sconfinare più di tanto nella strategia. Questo vale anche per le ferrovie, che alla fin fine consentono persino a generali mediocri di spostare le loro truppe con elevata velocità, ciqè di imitare meglio Napoleone: ciononostante, neBa campagna del 1866 da parte italiana non si riesce a sfruttare la ferrovia esistente per raccordare, far agire insieme le due masse del basso Po e del Mincio, con ciò dimostrando ancora una volta quanto vale la qualità della Leadership anche con i materiali moderni. Tra il campo terrestre e quello marittimo vi è però fondamentale differenza - in Italia e spesso anche in Europa - sul modo di valutare le incidenze tattiche del materiale, con particolare riguardo al progresso delle armi da fuoco portatili, delle artiglierie e delle relative protezioni (nuovi concetti di fortificazione e curaz.z.atma delle navi). In campo terrestre le innovaz.ioni vengono spesso recepite con molta, troppa prudenza. Le formazioni e i procedimenti tattici tardano assai ad adeguarsi, oppure trovano rimedi momentanei (come ad esempio il modo di combattere innovativo e al tempo stesso antiquato dei volontari, che neutralizzarono la superiorità di fuoco nemica semplicemente con l'attacco alla baionetta, senza fermarsi a sparare). In campo navale, tutto il contrario: si sopravvaluta la capacità di manovra acquisita dalle navi con il vapore, quindi ancor prima di Lissa si dà eccessivo credito allo sperone che - nonostante la corsa ai sempre più potenti cannoni - viene visto da molti come la nuova arma principale, considerando erroneamente il cannone come neutralizzato dalla corazza e viceversa. In tal modo si trascura un patrimonio secolare d 'esperienze, e della guerra marittima del passato prevalgono letture distorte che vorrebbero essere ultramoderne, trascurando tutto ciò che attiene all'uomo. La nuova Marina italiana, che ambisce ereditare il cospicuo patrimonio delle antiche Repubbliche marinare, finisce con l'interpretarlo in modo errato e/o con il liquidarlo malamente come cosa morta. Priva di validi riferimenti spirituali e pratici in un periodo ovunque dominato dall'incertezza sulJa tattica e sulle future costruzioni, di tale incertezza la flotta di Persano è la vittima più indifesa e più facile, dimostrando quanto possa contare l'esperienza storica · nel valutare correttamente le innovazioni, e al tempo stesso, il ruolo sempre preminente della leadership. Sotto il profilo della metodologia da seguire nell'indagine storica, mai come nel corso delle guerre d'indipendenza si dimostra infondata e insufficiente la tesi positivista - molto seguìta nel secolo scorso - che la missione dello storico, di chi racconta i fatti si deve limitare a stabilire con esattezza come si sono svolti, evil<lndo interpretazioni per:;onali. Tesi evidenterr:11;!nte funzionale all' histoire-batailte essenzialmente basata su documenti d'ar-


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITAUANO - VOL. II (1848-1870)

chivio, la cui conclamata oggettività risulta più apparente che reale, sia perché - spesso non casualmente - i documenti d'archivio hanno dei vuoti anche e soprattutto su aspetti decisivi, sia perché di rado è possibile studiarli contestualmente a quelli degli altri attori (il nemico e l'alleato), sia infine perché la guerra la fanno gli uomini e nessun documento di archivio potrà mai ricostruirne appieno la personalità, i sentimenti, le passioni, i timori, i diversi pareri, le informazioni di cui dispongono al.momento della decisione. Senza contare che la guerra è preceduta dalla pace, ed è figlia della politica. .. Di qui l'utilità generale della letteratura politico-militare e della memorialistica, utilità - e anzi indispensabilità - che emerge in particolar modo proprio dal periodo delle guerre d'indipendenza, nel quale si assiste a un animato confronto di opinioni non sui fatti, ma sulla loro interpretazione e utilizzazione, sugli ammaestramenti da trarre: in tal modo il panorama culturale è dominato sì dai fatti, ma solo attraverso l'interpretazione sempre soggettiva di coloro che li vivono. Il caso della guerra 1848/1849 - della quale gli scrittori coevi danno non due letture contrapposte, ma molte e diverse letture - è esemplare; ciascuno dei protagonisti ne fornisce una propria interpretazione; eventi e documenti acquistano una valenza variabile, dalla quale ciascuno trae ciò che più gli aggrada. Lo stesso accade per le polemiche che accompagnano e seguono la guerra del 1866, nelle quali le responsabilità delle sconfitte sono sistematicamente gettate sulle spalle degli avversari o predecessori, senza che mai nessuno ammetta i propri errori e senza che i fatti e i documenti acquistino di per sé, come vorrebbero i positivisti, un valore oggettivo, una luce univoca e chiara. L 'histoire-bataille di quegli anni è stata più che mai saccheggiata a suo piacimento da chi ha voluto dimostrare qualcosa; a ciò si aggiunga che, come autorevoli scrittori hanno di recente affermato, sui fatti del Risorgimento grava ancora una pesante cappa di retorica, la quale non è stata certo squarciata o eliminata, nell'ultimo dopoguerra, da storie non di rado ispirate da pregiudiziali teoriche o ideologiche, e neppure da ricerche de minimis rebus, importanti solo se ricondotte a una visione strategica unitaria. C ' è ancora molto da dire, dunque, non tanto sui fatti, ma sull' interpretazione e inquadramento dei fatti del Risorgimento. Nel concreto, un' attenta analisi della letteratura coeva e della memorialistica, finora mancata, avrebbe consentito all' histoire-bataille di acquistare maggior respiro, di toccare e muminare meglio i problemi di fondo che stanno dietro gli avvenimenti, e dunque ne forniscono iJ significato e la portata; avrebbe consentito a molti studiosi, a molti valorosi spulciatori d'archivi di non disperdere energie per spiegare ciò che già la letteratura coeva se ben studiata spiega, e di meglio inquadrare i documenti d'archivio; avrebbe, infine, impedito che nel dopoguerra si diffondessero miti e idola senza basi storiche solide, sul significato di taluni termini di riferimento e sul peso effettivo delle forze in campo. Sotto il profilo puramente teorico, la letteratura del tempo ben dimostra 1a differenza tra arte e scienza militare e la vera natura della strategia, 1a


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quale è sempre stata esattamente l'opposto di quella che emerge da questa recente definizione di Luttwak e Koehl: "scienza della guerra, che differisce da altre scienze perché la logica della guerra è diversa dalla normale logica. In contrasto con la logica lineare/formale di tutti i giorni, la logica della guerra, e in termini più estesi di un conflitto, è paradossale ('se vuoi la pace, prepara la guerra') e dialettica (le azioni provocano non solo un risultato, ma anche una reazione che modifica, e può rovesciare completamente, questo risultato)"12• Come se potesse esistere una "logica militare" separata dalla "logica civile", o una "logica di tutti i giorni" e un'altra; come se anche in campo civile ogni individuo o organismo sociale non innescasse con le sue azioni, ovviamente miranti a un risultato, dei conflitti, delle reazioni che sta a lui prevedere, e che se non previste, lo possono costringere a modificare gli obiettivi e/o votare alla sconfitta. Nel campo civile come nel campo • militare, l'arte sta appunto nello studiare e nel prevedere a priori il risultato delle proprie azioni e le reazioni dell'ambiente o di chi ha interesse a opporvisi; gli strumenti della scienza non bastano, occorre l'intuito, cioè la capacità di intravedere le possibili reazioni e i risultati. Nelle guerre del Risorgimento non basta né la sola logica " militare" , né la sola logica "civile" o politica in senso lato; posto che si tratta di cacciare l'Esercito austriaco dall'Italia, occorre conciliare le due logiche per ricomporre un disegno politico-strategico unitario. Nella misura in cui questo è stato fatto, si è ottenuto il successo; nella misura in cui non è stato fatto, si è lasciato campo libero all'imprevista reazione avversaria e quindi all'insuccesso. Nella guerra del 1848-1849, ad esempio, gli ingredienti di base per il calcolo strategico non erano solamente "militari", (posizioni, fortificazioni, vie di comunicazione, forze amiche e nemiche e loro efficienza ecc.). Già nella valutazione di questi dati puramente militari vi sono state differenti e opposte opinioni, e gli stessi dati geografici (il Po, le fortezze, gli ostacoli naturali, le vie di facilitazione ... ) si sono prestati a totalmente divergenti previsioni sulla loro portata strategica e tattica; ma è stato necessario coniugare questi fattori con altri extra-militari, come l'insurrezione popolare in diverse città, il consenso o non consenso che poteva venire alla guerra dalla popolazione, la politica delle grandi potenze e il loro possibile aiuto, il concorso o meno dei vari Stati italiani, il ruolo dei volontari ... Della guerra del 1866 è persino inutile sottolineare ancora il peso che hanno avuto l'atteggiamento delle grandi potenze, i fattori spirituali legati alla qualità della leadership in terra e mare, la sua capacità di previsione delle mosse avversarie.... Tutto questo non fa che smentire la teoria delle "due logiche" e della scienza strategica, per contro confermando l'approccio clausewitziano all'arte e strategia militare 83 : la scienza militare è un insieme di

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n

E. Luttwak - S. L. Koehl, La guerra moderna, Rizzoli, Milano 1982, p. 881. Si vedano, in merito, i capitoli I - Ili del Voi. I (1879- 1848) della presente opera.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. U (1848-1870)

espedienti(Van Moltke), cioè, di regole, norme d 'impiego, di massime, princip1 e esperienze storiche, che sta all'artista, cioè al condottiero e alla leadership, utilizzare al meglio e adattare a un caso concreto irripetibile, dando a ciascun fattore il suo giusto peso (che varia a seconda delle circostanze) e intuendo i riflessi della linea d'azione prescelta sulle forze nemiche e amiche, e, se si vuole, nelle popolazioni e sulla pubblica opinione. In questo secondo momento, quello dell' utilizzazione dei pennelli e colori per un disegno artistico compiuto, la scienza diventa arte. Da questi presupposti abbastanza elementari, ma ancor oggi non sempre tenuti ben presenti, è possibile trarre parecchi ammaestramenti e spunti di riflessione, che a volte divergono da talune interpretazioni degli storici dell'ultimo dopoguerra e si basano sulla constatazione che, per coglierne gli esatti contenuti, tutte le questioni specifiche vanno ricondotte , alla strategia da seguire per l'unità nazionale; naturalmente tale strategia come la politica di cui è figlia, come gli ordinamenti militari di cui è madre o matrice - è arte del possibile, e come tale è cosa diversa dall'ideale, dal1' optimum, dalla miglior linea d 'azione da seguire che emerge da speculazioni teoriche in vacuo o <la presupposti impossibili da realizzare. 1) Nella situazione interna e internazionale della seconda metà del secolo XIX, era possibile raggiungere l'unità nazionale senza l'faercito piemontese, quindi anche senza e contro la monarchia piemontese? La risposta è negativa. L'hanno capito i repubblicani Garibaldi e Felice Orsini, così come quelle schiere di patrioti e volontari che, dal 1848 in poi, si sono arruolati - magari soffrendo e con atteggiamento critico - nell'Esercito e Marina piemontesi; l'ha capito solo in parte Mazzini. 2) Un'insurrezione generale italiana sul modello spagnolo 1808-1813 sognata da Mazzini e tanti altri - non era possibile: era appunto solo un sogno, un generoso ideale a c ui tendere. Posto che anche l'insurrezione spagnola ha avuto bisogno - come cemento - dell'Esercito di Wellington, della Royal Navy e dell 'oro inglese, è indubbio che - lo ammette persino Radetzky - in linea di principio, un popolo che insorge compatto contro un esercito straniero è invincibile. Ma si tratta appunto di tradurre in realtà questa condizione teorica ineludibile; e nell'Italia del tempo ciò non poteva avvenire né nelle campagne, né nelle città. Lo hanno impedito la mancata partecipazione delle campagne, cioè della massa della popolazione controllata dal clero favorevole al nemico; i frazionismi locali, dei quali è stato prigioniero anche Cattaneo con il suo sogno di guerra "lombarda" e "parallela" senza il Piemonte; lo scarso spirito nazionale e militare della massa della popolazione; l'esistenza, anche nelle città e nel ceto intellettuale e benestante, di vasti strati per così dire legittimisti e sostanzialmente favorevoli alla politica del Vaticano e all'Austria. In estrema sintesi, mancano in gran parte i presupposti per l'unità di tutte le forze nazionali, che è a sua volta presupposto indispensabile per il successo di moti


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popolari. Va notato, per inciso, che l'insurrezione spagnola ha avuto successo in tanto in quanto nazionale e non di classe, e che in essa sono stati assenti quegli obiettivi di rivendicazione sociale, a torto da taluni studiosi di oggi ritenuti premessa ineludibile per il successo dei moti popolari. In realtà non si poteva certo aspettare, dal 1848 in poi, che maturasse l'idea nazionale in larghe masse della popolazione, né fare leva su un'insurrezione generale e diffusa, che non poteva avvenire, e che se mai, avrebbe trovato impulso, alimento, sostegno anche morale con quelle numerose e squillanti vittorie dell'Esercito regolare, purtroppo mancate. Circa l'effettivo consenso popolare per la guerra nazionale, basti qui ricordare (ancora una volta) una fonte non sospetta, Felice Orsini, il quale così giudica la partecipazione degli italiani alla guerra nazionale 1848-1849, innescata dalle cinque giornate di Milano: dovendo seguire la verità, è mestieri pur confessare che la nazione non rispose come doveva ali' appello dei Milanesi. Sicilia diede un cinquecento volontari, Toscana un quattromila, lo Stato Romano quattordicimila, Lombardia e Venezìa quattordicimila. Questo dal Iato dei popoli. Da quello de1 Governi un sessantamila piemontesi, un reggimento napoletano, un tre o quattromila Toscani, da ottomila Papali compresi gli Svizzeri. Or bene. non è ella una meschinil.à la cifra risultante da queste frazioni, per una nazione di venticinque milioni, che si muove alla guerra della sua redenzione? Per fom1arsi poi un giusto criterio della prontezza della nazione a insorgere, non deve tenersi conto delle armate che davano i Governi, le quali sono macchine, ma sibbene della cifra risultante dai volontari e dai patrioti. Or bene, che sono eglino da trenta o quarantamila in una guerra santa e di nazionalità? Vergogna agli italiani, che diedero solo quel meschinissimo numero. La colpa è stata dei prlncipi, dei moderati? Ma quando un popolo è veramente deciso a ir,sorgere, a combattere, non ci sono dighe interne che tengano.84

3) Di conseguenza, la questione dell'unità nazionale intorno a ben precisi obiettivi e dell'effettiva partecipazione degli italiani a una guerra che dì fatto è 1imasta non solo piemontese, ma del solo Esercito regolare piemontese e di un'esigua rappresentanza della minoranza di popolazione cittadina ha importanza fondamentale; è a tale mancanza di unità e coesione che sono dovute le sconfitte de1 1848/1849 e - in parte almeno - quella del 1866. Non si è affatto realizzata - lo sottolineiamo ancora - quella sostanziale convergenza di due forze rimaste sempre troppo distanti e antagoniste, della quale negli anni Venti ha ottimisticamente parlato il Rota, secondo il quale ciascuna di tali for.le ha finito con lo svolgere il proprio ruolo. Tale ruolo invece avrebbe potuto essere veramente efficace e compiuto solo nell'ambito di un disegno unitario e istituzionale da tutti o dalla maggioranza condiviso, che è mancato lasciando dopo il 1860 quell'Italia divisa e istituzionalmente a metà strada, ,. F. Orsini, Memorie politiche, (Cil.), p. 46.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO -VOL. Il (1848-1870)

della quale si trova traccia negli scritti di chi - a cominciare da Mazzini e Garibaldi - invoca il superamento dello Statuto piemontese e un nuovo patto nazionale finalmente capace di legare insieme tutti gli italiani. 4) La mancanza di unità nazionale finisce con l'accrescere ancor più il ruolo dell'Esercito permanente e quindi della monarchia piemontese, emarginando gradualmente le altre forze. Ciò avviene per forza di cose, nonostante i suoi limiti organici e nonostante le innegabili, forti carenze della leadership politico-militare piemontese, nella quale spicca il solo Cavour, artefice dell'unità raggiunta bene o male nel 1859-1861. Non c'è bisogno di parlare di tradimenti ecc. per giustificare la criticabile condotta strategica delle guerre del 1848/1849 e del 1866, divergente non solo e non tanto dai canoni della guerra napoleonica, ma da quei criteri elementari che in qualsivoglia guerra assicurano il successo. Si può anzi affermare che il termine limitativo - e in certa misura spregiativo - di "guerra regia", tanto usato oggi, indica semplicemente una guerra mal condotta, senza utilizzare tutte le forze disponibili e senza realizzare - come è necessario in qualsivoglia guerra - l'armonia tra gli obiettivi politici e militari e tra quest' ultimi e i mezzi disponibili. Le guerre prussiane non sono state forse, anch'esse, guerre "regie" condotte sotto l'egida monarchica? A una cattiva politica è seguìta una cattiva strategia, e i risultati si sono visti; va da sé che buona politica e buona strategia sono solo quelle che sanno creare premesse internazionali favorevoli alla guerra, e sanno accortamente utilizzare tutte le forze disponibili. Questo l'ha fatto solo Cavour nel 1859-1860; non è stato fatto né nel 1848/1849 né nel 1866. L'Esercito piemontese era tale, da aver bisogno contro l'Austria o di un appoggio esterno - l'unico appoggio possibile era quello francese - o di coordinare la sua azione con quella di forze insurrezionali ed eserciti "interni". Quando questi concorsi sono mancati o sono stati insufficienti, è stata la sconfitta. Ciò non toglie che nel 1848/1849 spiccano gli errori militari di Carlo Alberto; perché solo tali essi sono, visto anche che dopo il 1949 l'uomo va incontro all'abdicazione, all'esilio, alla morte. Se la guerra del 1866 è stata malamente perduta, anche in questo caso la responsabilità primaria - ancorché non unica - è di un solo uomo: il generale La Marmara, deus ex machina della preparazione politica e militare e della scelta dei capi nel periodo precedente.85 Il La Marmara in particolare, è responsabile di aver accettato - insieme con il re e il Cialdini - una situazione dell'Alto Comando al limite dell'assurdo e che portava alla sconfitta, senza parlare del modo con cui è stata condotta la guerra prima e dopo Custoza e Lissa. Per contro, le cosiddette "forze popolari" hanno forse dimostrato di saper far da sole, di saper prendere il timone? Certo, hanno incontrato anche degli ostacoli da parte piemontese: ma un movimento 85 ·

L' indubbia opera di rinnovamento dell'Esercito da parte del La Marni.ora non è stata da tutti apprezzata, né sembra aver eliminato antichi difetti dell' esercito piemontese: si veda, in proposito, l'opuscolo polemico del capitano in ritiro Angelo Fioruzzi Il generale La Marmara, Panna, Tip. Soc. Operai Tipografi 1873.


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·. popolare forte." inarrestabile li supera sempre e non si atteggia a vittima. Quale rivoluzione.si è mai affermatirsenza ostacoli? 5) La letteratma ooeva e gli eventi stessi dimostrano che quelle di indipendenza sono state essenzialmente guerre classiche, di eserciti regolari, nelle quali l'esercito e la flotta piemontesi e poi italiani sono stati il clou, il riferimento costante. Non fa eccezione la campagna del 1860 nell'Italia Meridionale, nella quale, da Marsala al Volturno, Garibaldi (si ricordi il libro del Forbes) non fa che organizzare e condurre i suoi volontari con modalità tattiche e strategiche e con criteri ordinativi e disciplinari il più possibile vicini a quelli di un esercito regolare, di fronte a un esercito permanente che peraltro, come quello borbonico, era "un esercito che non poteva vincere", perché portava in sé, e soprattutto nella sua leadership, troppo forti germi di dissoluzione. Novara, Custoza, Lissa, San Marino e Solferino, lo stesso Volturno sono state battaglie classiche, eventi che hanno segnato l'intero periodo. Sulle cause e responsabilità essenzialmente militari delle sconfitte di Custoza e Lissa già al tempo viene detto tutto o quasi. Di Custoza ricordiamo il libro del Pollio, che non ha bisogno di commenti; su Lissa come sconfitta morale il nostro giudizio trova conforto in quanto scrive nel 1920 sull'argomento I' ammiraglio Bemotti, che - lungi dalle tesi "giustificazioniste" dell'ammiraglio Jachino - mette in giusta luce le responsabilità del Persano e le conseguenze della sua carente condotta della guerra navale e della battaglia, osservando che - questo vale anche per il XX secolo - "le sconfitte morali sono quelle della specie più infausta, e sono le più difficili a cancellarsi"86. Se Novara, Custoza, Lissa fossero state vittorie anziché sconfitte, il termine "guerra regia" avrebbe perduto tutti i connotati negativi che specie nel secondo dopoguerra gli sono stati attribuiti. È un fatto certo che tali sconfitte sono essenzialmente dovute a ragioni tecniche e non politicosociali, a cattiva organizzazione e leadership, non a scarsità o insufficienza quantitativa o qualitativa di forze: sono cioè dovute a causa essenzialmente militari e attinenti alla condotta della guerra di eserciti. Questo induce a riflettere su taluni significati attribuiti a tale termine; se esso equivalesse a guerra condotta tenendo presenti gli interessi della sola monarchia piemontese (e/o del solo Piemonte) in contrapposizione a quelli dell'Italia intera o di altre forze avverse alla monarchia, non si può ignorare che anche con altre forme istituzionali e fino ai nostri giorni, gli organi di Governo sono stati ugualmente accusati di curare soprattutto gli interessi di quei ceti dirigenti che rappres'entavano. Dunque il termine guerra regia perde molto del suo carattere specifico, perché è difficile immaginare qualsivoglia atto politico di qualsivoglia governo, che non sia soggetto alle stesse più o meno fondate accuse; e se si parla di guerra intesa a tutelare gli interessi della sola monarchia, quali concreti risultati sono stati ottenuti - o avrebbero potuto essere ottenuti - a

86.

R. Bemotti, Il potere marittimo nella grande guerra, Livorno, Giusti 1920, p. 8.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1 848-1870)

discapito di una causa nazionale, che richiedeva sempre e comunque un esercito più forte dell'austriaco? Se, poi, si tiene presente il citato giudizio di Panfilo Gentile - essere stato il 1848 "l'eclissi completa in tutti i paesi dell'uomo politico", da riallacciare alla cultura romantica e tendenzialmente irrazionalistica dei primi decenni del secolo, il tennine guerra regia acquista anche il significato non negativo di guerra condotta tenendo presenti i vincoli e limiti della politica, della diplomazia, della realtà internazionale del momento (a cominciare dall'atteggiamento delle grandi potenze, non sempre favorevole all'Ita1ia)M1 ; tenendo presenti insomma i rapporti di forze interni e internazionali, il possibile contrapposto all'ideale, il "potere" contrapposto al "volere". Se si considerano questi oggettivi vincoli, guerra regia significa, semplicemente, forma di guerra al momento possibile; ad essa si contrappone la guerra totale, la guerra spinta a fondo tipica del Mazzini, Garibaldi e anche di Pisacane, che non intendono tener conto del quadro internazionale ma sfidarlo, forzargli la mano; che rifiutano ogni attendismo e ogni calcolo di forze in campo; che tendono a dimostrare che "volere è potere"; che intendono mobilitare, costi quel che costi, tutte le energie e risorse del1a nazione, senza chiedersi se e fino a che punto ciò è possibile e conveniente. In tal modo Mazzini, Garibaldi e molti loro seguaci diventano i precursori e i veri padri dell' interventismo , nel significato attribuito a tale termine molto più tardi, nel 1914-1915. L'interventismo non può avere quel significato ristretto alla situazione del 1914-1915, che si trova riflesso nella definizione del dizionario Garzanti: "orientamento politico che propugna l'intervento militare di uno Stato in una guerra già in atto tra altri Stati". Esso non è nato subito prima della grande guerra, ma ha radici assai più profonde; più in generaJe si tratta di un movimento che facendo eccessiva leva sulle forze spirituali e sulla piazza tende a svincolare da ogni calcolo di convenienza politico-strategica il problema della guerra e della pace, facendo del1a guerra una scorciatoia, un'opzione ideale e ideologica del momento (e non una questione di interessi) che rifiuta o tiene in poco conto le arti della diplomazia, i rapporti di forze, i calcoli degli Stati Maggiori, le questioni tecnico-militari attinenti alla preparazione ecc .. Insomma, l'interventismo per sua natura rifiuta il concetto di politica come calcolo di convenienza, come espressione di interessi e acquista quella carica tipicamente rivoluzionaria, antimilitarista, romantica che già ba dimostrato nel 1848/1849, anche perché rende all'improvviso l'Esercito interprete delle pulsioni e istanze popolari del momento, riservandosi peraltro di com-

17 ·

Il riconoscimento del nuovo Stato Italiano da parte delle maggiori potenze - dove sono al Governo i moderati e i legittimisti - è graduale e travagliato, e si completa solo nel 1865 con il riconoscimento da parte della Spagna (Cfr. E. Anchieri, Il riconoscimento del Regno d'Italia, in "Atti del XL Congresso di storia del Risorgimento Italiano". Torino, 26-30 ottobre 1961, Roma, lsL SL del Risorgimento 1863, pp. 17-55). L'atteggiamento del governo italiano di fronte ai tentativi di Garibaldi contro Roma (1862 e 1867) deriva, appunto, dalla situaz.iont: irucrmizional1,;.


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batterlo o abbandonarlo con tutto ciò che ritiene rappresenti, quando a suo esclusivo giudizio non lo sia più. L'interventismo non è mai stato monarchico e conservatore: è sempre stato rivoluzionario e anti-sistema, esprime le aspirazioni di chi ha poco da perdere, di chi punta sul rischio. Va da sé che esso vuole non la semplice sconfitta, ma la debellatio dell'avversario; non vuole indurlo a patti e a paci di compromesso, ma eliminarlo; vuole tutto e subito, sostituisce anche in questo il "volere" al "potere", il giusto al possibile. Esso non è bellicista, né nazionalista: non vuole la guerra, ma solo quella guerra contro quel nemico, e in quel momento. 7) In questo senso, si deve ammettere che gli "interventisti" del 18481849 si avvicinano assai allo spirito delle guerre ideologiche della Rivoluzione Francese e di Napoleone; un modello, peraltro, che nemmeno i fautori della cosiddetta guerra regia possono permettersi il lusso di ignorare - se non nelle finalità ultime - nelle modaJità di condotta. Anche quando si è voluto negarla, dal 1848 al 1870 la strategia napoleonica rimane ovunque e per tutti - una sorta di convitato di pietra, o se si vuole, l'eterna pietra di paragone. Le guerre italiane sono state un tentativo a volte poco felice - da1le due parti - di richiamarne in vita talune componenti, sforzandosi di adattarle a una situazione con molte peculiarità, a rapporti di forze completamente diversi o ai nuovi mezzi (armi rigate, ferrovie). A volte poco felice, abbiamo detto; perché si considera il rischio - tanto caro a Napoleone - come qualcosa da ridurre al minimo, e le posizioni e vie: di comunicazione come qualcosa che di per sé rende forte o debole un esercito. Un concetto di guerra jominiano più che clausewitziano; coloro che senza averlo mai studiato, ma agendo d'istinto più fanno ricordare Clausewitz, sono due uomini di guerra come Radetzky e Garibaldi. L'interrogativo che lasciano aperto è semplice: fino a che punto è ancora possibile seguire il modello napoleonico, senza Napoleone e con il progresso delle armi da fuoco, de11e ferrovie e della fortificazione? Già nel 1866 l'Esercito prussiano dà una sua risposta; ma è, appunto, l'Esercito prussiano, l'esercito di una Nazione che non ha bisogno di reparti speciali e di volontari, perché tutti si sentono soldati e allo stesso tempo volontari; che non mette in discussione la monarchia e dispone della leadership miJitare tecnicamente e moralmente più valida; che fa combattere senza sforzo, con uguale valore, nobili, borghesi e proletari, uniti da una naturale disciplina e da un forte spirito nazionale e militare. 8) Si è già detto che Garibaldi, specie ma non solo nella campagna del 1860, nonostante le sue simpatie per la guerriglia conduce sostanzialmente una guerra di eserciti, alla quale - data la frequente inferiorità delle sue forze - è costretto ad applicare, quando può le astuzie del vecchio guerrigliero e combattente sudamericano; sotto questo profilo, la lettura delle sue Memorie è indispensabile. Senza tante elucubrazioni teoriche, si può affermare che è stato ottimo stratega, in tanto in quanto - come del resto ha fatto lo stesso Napoleone - ha saputo adattare senza schemi teorici precostituiti alla situazione contingente e alle caratteristiche delle forze disponibili


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la sua linea d'azione, traendo sempre il massimo dalle 'tn1ppe a sua disposizione (non è questo che, nella sostanza, deve saper fare qualsiasi coman-. dante di ogni tempo?). Le sue azioni__,_ ma anche·tàlwie parti dei suòi scritti, come ad esempio quelli sulla guerra del 1870 - sono un capolavoro di logica, anche se non ba fatto studi militari regolari, èome del resto tanti ·altri generali protagonisti delle guerre del Risorgimeqto (Fanti, Durando). La sua strategia è emanazione diretta della tattica da lui appresa sui campi di battaglia e del suo intuito; ma questo è un pregio, che lo eleva al di sopra di. altri capi militari. Con le speciali truppe delle quali dispone, non può che . prediligere l'azione, l'offensiva, l'improvvisazione, l'audacia e la sorpresa, e sfuggire l'attendismo e la difensiva: non perché non siano convenienti, ma prima di tutto perché non se li può permettere. 9) Che cosa sarebbe stato il volontarismo del Risorgimento senza Gariba).di? Interrogativo che già ci siamo posti e storicamente poco ortodosso, anche se utile se si vuol chiarire bene pregi e limiti del volontarismo e, con esso, i caratteri reali e possibili c!elle guerre d'indipendenza. Si può rispondere con un altro interrogativo: chi nel 1860, al posto di Garibaldi, dopo il precedente tentativo tragicamente fallito di Pisacane sarebbe stato in grado di condurre a buon fine l' impresa dei Mille, di sfruttare al massimo l'insurrezione siciliana, di sconfiggere sul Volturno l'esercito borbonico? Proprio la gioventù dell'Italia del tempo, da secoli poco amante delle armi e della disciplina e senza alcuna educazione militare, aveva disperato bisogno dell'uomo carismatico, che con il suo solo prestigio sapeva condurla a combattere contro forze superiori; non ne aveva, invece, alcun bisogno la gioventù prussiana. Dunque non è azzardato concludere che senza Garibaldi il volontarismo sarebbe ugualmente esistito, ma non avrebbe avuto il peso e l'influenza decisiva, che ha avuto specie nei fatti del 1860. È proprio dopo la battaglia del Volturno che si può meglio apprezzare l'intuito strategico di Garibaldi: sente la stanchezza nelle sue file, le meno adatte - anche per mancanza di artiglierie - a sostenere guerre di logoramento e difensive e lunghi assedi come quello che si rende necessario a Gaeta; per tante ragioni non giudica opportuno proseguire la guerra rischiando di scontrarsi con l'Esercito piemontese, cosa che non ha mai voluto; lascia le redini e se ne va. Proprio lui - repubblicano e Capo di repubblicani - riassume la sua grande strategia in due parole: Italia e Vittorio Emanuele. 10) La concezione della guerra da parte di Garibaldi, il fenomeno del volontarismo che a lui si ispira, i suoi scritti e quelli di Mazzini sono una sorta di cartina di tornasole, che consente di fare il punto sul rapporto anche oggi controverso e variamente interpretato - che si crea allora tra guerra di eserciti, guerra di popolo, esercito regolare, esercito permanente, volontari, nazione armata e guerriglia. Notiamo, anzitutto, che la contrapposizione "guerra regolare-guerra di popolo" (tema di un Convegno del 1997) non sussiste, per la semplice ragione che una guerra "regolare" o in prevalenza regolare, se ad essa partecipa tutto il popolo in armi e/o nelle retrovie a preparare e sistemare la guerra, può benissimo essere guerra di popolo. È


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ben noto che nelle due guerre mondiali del XX secolo la guerra regolare è stata per forza di cose anche guerra di popolo, perché ha mobilitato e coinvolto larghi strati della popolazione, con le classi più giovani al fronte. Ma anche se - con una espressione peraltro inesatta - per "guerra di popolo" si volesse intendere "guerra di classe" o "guerra proletaria", lg contrapposizione ugualmente non sussisterebbe, perché (rivoluzione francese; rivoluzione sovietica; guerra di Spagna 1936-1939) una siffatta guerra può benissimo essere condotta con procedimenti tipici della guerra tra eserciti. Alle corte: la guerra di popolo va intesa come la intendeva Mazzini: "per guerra di popolo noi intendiamo una guerra santificata da un intento nazionale [nostra sottolineatura - N.d.a.], nella quale si ponga in moto la massima cifra possibile delle forze spettanti al paese, adoperandole a seconda della loro natura e delle loro attitudini, nella quale gli elementi regolari e gl'irregolari, distribuiti in terreno adatto alle fazioni degli uni e degli altri, avvicendino la loro azione..." 88· 11) La reale alternativa strategica rimane dunque quella guerra di eserciti/guerriglia e controguerriglia (intesa come guerriglia contro un esercito regolare e controguerriglia da parte di un esercito regolare). È discutibile se nel 1808-1813 in Spagna la guerriglia abbia avuto il ruolo principale o se anche colà i protagonisti principali siano stati l'esercito inglese (di volontari a lunga ferma) e/o la Royal Navy; indiscutibile però che in Italia nel 1848-1870 la guerriglia (La Masa) non ha potuto e non avrebbe potuto che avere un ruolo subordinato rispetto all'Esercito regolare piemontese, è stata cioè la guerriglia possibile in una guerra possibile. Insurrezione e guerriglia non sono sinonimi; l'insurrezione può avvenire solo nelle città, senza sfociare nella guerriglia; quando avviene nelle città essa è ben lieta di ricorrere anche a cannoni, fortificazioni, alle armi e procedimenti tattici degli eserciti regolari, specie quando si tratta di difendere la città contro il ritorno in forze dell'esercito nemico, inevitabile se non si solleva subito anche la campagna. 12) E' appena il caso di notare che la "nazione armata" (assenza di un esercito permanente in pace; al bisogno arruolamento in massa dei cittadini) presuppone la formazione improvvisa ma ordinata di un grande esercito regolare teorizzata anche da Pisacane e Pepe. Un esercito così grande, da rendere problematico il suo supporto logistico e il suo armamento e da com~ portare l'impiego di cospicue risorse (su questi problemi, i teorici delJa nazione armata non si sono mai cimentati a fondo). Soprattutto la nazione armata, dovendo mobilitare la massa degli uomini validi: a) è basata anch'essa sulla costrizione e su precise leggi con relative sanzioni, ma richiede grande coesione nazionale, spontanea disciplina, serio addestramento periodico in pace, elevato spirito militare e grande consenso popolare alla guerra; b) non è vero che non si presta a una guerra offensiva, anzi è ... Cfr. il Vul. I <ldla presente opera, p. 881.


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vero il contrario; c) date le energie e le risorse che mobilita, suscita fondati interrogativi wlla durata dell'impegno che richiede, perché una mobilitazione su base così ampia paralizza in misura troppo elevata la vita economica e commerciale del Paese, quindi rende problematica la stessa alimentazione dell'Esercito. Dubbi che già sorgono dopo la brillante vittoria prussiana del 1866, la cui fondatezza è confermata dalle due guerre mondiali, perdute dalla Germania nel momento in cui è tramontata la prospettiva della guerra breve. Quest'ultima forma di guerra è insita negli eserciti di massa inaugurati dalla Rivoluzione Francese, i quali sottopongono tutta la nazione a una tensione troppo alta per poter durare a lungo, quindi hanno bisogno di concludere in breve le operazioni. Come si afferma in una recensione (non firmata) del libro di De Cristoforis sulla Rivista Militare del 1894, "il rappresentante Gillet parlando al comitato di salute pubblica diceva: "nos armées ne ressemblent en rien aux armées mercenaires; chacun combat pour avoir la paix. Voila pourquoi avec une pareiUe armée il faut souvent attacquer" [frase di De Cristoforis - N.d.a.]: Quell'istinto di far presto per levarsi di dosso un malanno, che già si rimarcava negli eserciti della prima rivoluzione frarn.:csc, è oggicfì non solo un istinto, un desiderio vivissimo, ma un bisogno impellente"89 • La verità di questo asserto è dimostrata proprio dalle due ultime guerre mondiali, nelle quali - con danno immenso per !'Europa - si è voluto fare presto, ma non ci si è riusciti, portando anche le econorrue degli Stati europei vincitori allo stremo. 13) Va ancora rimarcato che il modello "puro" di nazione armata, applicato solo dalla Svizzera, è stato ritenuto da molti scrittori coevi (non necessariamente conservatori) non adatto all'Italia, per la quale persino negli scritti di Cattaneo e Pisacane è comparso qualcosa di assai vicino al modello "lancia e scudo". In effetti i caratteri della nazione armata, emersi dagli studi del tempo, inducono a distinguere tra esercito regolare e esercito permanente. In un ordinamento tipo nazione armata, in tempo di pace le forze permanenti mancano o sono ridotte ai mini.mi te:rmini . Pisacane vuole la formazione di un grande esercito regolare, ma è nemico dell'esercito permanente a lunga ferma, da lui inteso come esercito dinastico afflitto da favoritismi, corruzione, brutale disciplina che sostituisce il consenso e fa della truppa uno strumento senz'anima al servizio esclusivo della reazione, un esercito da caserma addestrato e ordinato più per combattere i concittadini che per combattere altri eserciti. Nella visione e nel linguaggio di parecchi scrittori "laici", quindi, il termine "esercito permanente" acquista un significato spregiativo che spesso ne evidenzia la scarsa efficienza, il negativo peso interno e il costo sociale e economico, anct:e se un siffatto moto di intenderlo non era tecrucamente giustificato. Al contrario, dato l'ancor carente spirito militare, nazionale e civico dell'Italia del tempo, è difficile sostenere che l'italiano medio ("ancora da fare" come ricorda il re al Parlamento nel 1861) e rimasto ,.. "Che cosa sia la guerra" (redazionale), "Rivista Militare Italiana" 1894, Voi. I p. 355.


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da secoli lontano dalle armi, non avesse bisogno di una lunga educazione militare e quindi di una ferma lunga, della quale poteva fare a meno ad esempio lo svizzero. Ed è difficile sostenere che, dato il clima internazionale e con due forti, grandi ed efficienti eserciti permanenti alle frontiere come l'austriaco e il francese, non era necessario per l'Italia mantenere a sua volta un forte esercito permanente. Come tale esercito dovesse essere concretamente organizzato anche per non gravare troppo sull'erario, era dunque l'argomento più soggetto a discussione; ma la sua sostituzione con la "nazione armata" non poteva che rimanere - ed è rimasta - una vaga aspirazione. 14) Alla luce di queste esigenze dettate dalla realtà, che cosa sono stati, che cosa hanno rappresentato i volontari? Si può brevemente rispondere che sono stati un' élite animata da genuini e disinteressati sentimenti di amore per la Patria e la libertà, alla quale - come sempre avviene in questi casi - si sono uniti anche individui di dubbi intenti e precedenti. Un'élite che, sul campo, ha rappresentato - a fianco dell'esercito regio - la società civile, e anche altre istanze politiche a cominciare da quelle repubblicane; questi giovani generosi non potevano però dirsi rappresentanti della nazione armata, ma il suo esallo contrario. Né si può affermare che realmente rappresentassero istanze popolari, almeno se con tale termine si intende le istanze di riscatto sociale degli strati sociali più poveri, a cominciare dai contadini che - come lamenta Garibaldi - erano tra di essi totalmente assenti (e di contadini, per di più analfabeti, era composta la grande massa della popolazione italiana del tempo) . Lo stesso Garibaldi , nelle sue memorie, afferma che i benpensanti non avevano ragione di temere i suoi volontari, perché essi appartenevano alle più distinte famiglie italiane. I volontari erano, ripetiamo, un'élite per una serie di ragioni: a) perché come ben afferma l'Orsini - anche 50-60.000 volontari su 25 milioni d'abitanti erano una cifra esigua; b) perché in essi l'elemento dominante erano gli studenti - tutti appartenenti alla borghesia benestante - i professionisti, i proprietari terrieri, gli artigiani ecc., cioè gli strati sociali più colti ed evoluti. La battuta del Fambri - che i volontari già camerieri, diventati ufficiali, non volevano più tornare a fare i camerieri - è solo tale. Pochissimi camerieri v'erano tra di essi, con tutto il rispetto per questo onesto lavoro; né si riesce a ricordare un solo cameriere, che sia diventato ufficiale; c) perché la forza veramente popolare, composta in gran parte di contadini (di leva o richiamati) era solo l'esercito regolare. Non a caso - fatto significativamente deprecato dal Cattaneo e dal Pisacane - i reparti volontari raccoglievano molti giovani istruiti che spregiavano la disciplina militare e la routine di caserma giudicandola appunto cosa da contadini; perciò anziché nell'esercito regolare preferivano distinguersi dagli altri, arruolarsi in reparti speciali dove non c' era disciplina da caserma, dove ci si trovava tra giovani di pari condizione sociale e della stessa città e dove era possibile combattere subito per i propri ideali, cosa che i volontari hanno fatto con uno spirito, che suppliva - solo temporaneamente però - all' addestramento, alla disciplina e al buon inquadramento. In tal modo la guerra allo straniero


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acquistava forze animate da entusiasmo patriottico ma refrattarie alla disciplina militare, che altrimenti sarebbero state perdute; ma si deve pur notare che questi giovani in maggioranza colti e appartenenti alle classi dirigenti e più evolute da una parte, come nota anche il Cattaneo, hanno mancato al loro dovere politico-sociale prima ancor che militare - che era quello di inquadrare, dando l'esempio, le classi subalterne in un esercito regolare - e dall'altra sono stati un'avanguardia senza esercito, perché hanno solo supplito in qualche modo a quel largo consenso popolare che rimaneva necessario, e che secondo la communis opinio nel Risorgimento non c'è stato, largamente sostituito dall'indifferenza per la causa nazionale. 15) Appare, perciò, contraddittorio classificare con sicurezza i volontari come forza popolare che ha condotto una guerra di popolo, e al tempo stesso esaltarne la capacità di supplenza dell'esercito regolare anche nella guerra di eserciti, contrapponendo però quest'ultima arbitrariamente alla guerra di popolo. Ad essi ben si attaglia questo giudizio di Gramsci, dopo la prima guerra mondiale: "l'affermazione che l'Italia moderna è stata caratterizzata dal volontariato è giusta (si può aggiungere l'arditismo di guerra), ma occorre notare che il volontariato, pur nel suo pregio storico, che non può essere diminuito, è stato un surrogato dell' intervento popolare, e in questo senso è una soluzione di compromesso con la passività delle masse nazionali" 90 • La memorialistica, la letteratura dell' epoca dimostra che le rivendicazioni dei volontari avevario carattere nazionale e istituzionale, ma non angustamente di classe, tanto più che in essi i proletari erano una minoranza; e se Gramsci anche per una guerra effettivamente di popolo come quella del 1915-1918 parla di "passività delle masse nazionali" (cosa sulla quale c'è da discutere), a maggior ragione si può parlare di passività delle masse nazionali - e quindi di supplenza di pochi volontari - per le guerre del Risorgimento. 16) Da un punto di vista strettamente tecnico-militare, i volontari avevano molti seri e oggettivi limiti, derivanti del resto dai loro stessi pregi. A parte lo scarso addestramento e la precaria disciplina, erano "baionette intelligenti", quindi non accettavano tanto facilmente ordini che non condividevano; combattevano per un ideale, quindi quando tale ideale a loro esclusivo giudizio non era più perseguito, mal perseguito o impossibile da raggiungere, si riservavano di andarsene; erano pronti a morire, non a sopportare le inevitabili fasi statiche e il logoramento di una guerra; solo capi naturali che, come Garibaldi, sapevano acquistare ai loro occhi autorità e prestigio venivano ubbiditi; a fronte di un eccessivo numero di gradi distribuiti, questi capi naturali però scarseggiavano nell loro file; non avevano organi esecutivi logistici ben funzionanti al seguito, e del resto Garibaldi - come Napoleone - li voleva estremamente mobili e leggeri, quindi vivevano sul Paese attraversato, con inevitabili abusi e con frequenti lamentele da parte delle popolazioni; erano poco idonei a combattere battaglie classiche in campo aperto contro eserciti come ,._ A. Gramsci, Quaderno 19 fl Risorgimento italiano, (Cit.), p. 79.


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quello austriaco o prussiano e avevano pochissime artiglierie, o nessuna; sopportavano malamente la routine militare quotidiana e lo stesso addestramento, per non parlare della vita di caserma Tutte queste caratteristiche nelle guerre del 1850 e 1866 non potevano che farne una forza ausiliaria (ma non alternativa) rispetto all'&ercito regolare; una forza che, come ritiene lo stesso Cattaneo, era particolarmente adatta ad operare in montagna, cosa che del resto dimostrano le operazioni di Garibaldi nel Trentino; e sulle montagne come terreno più adatto alle forre irregolari c'è tutta una letteratura. I volontari erano in genere malvisti dagli ufficiali dell'Esercito regolare, non solo perché sospetti di repubblicanesimo e di sovversivismo, ma anche (e soprattutto) perché erano forre irregolari, che ponevano in non cale i tradizionali principi di qualsiasi esercito regolare, o meglio "normale": il severo e lungo addestramento, la disciplina, l'obbedienza senza discutere, i gradi conseguiti dopo lunghi studi e dopo lunga routine di caserma, l'organizzazione metodica, la gerarchia e il rispetto di forme e consuetudini antiche. La storia dei volontari non può essere ridotta a storia vittimistica del frequente malanimo con cui essi sono stati visti dagli ufficiali dell'Esercito regolare piemontese e italiano, tra i quali spicca proprio l'ex volontario generale Fanti; i loro numerosi limiti militari - a cominciare dall'aleatorietà della loro presenza nei ranghi e quindi dall'impossibilità di includerli in qualsivoglia pianificazione delle forre - sono oggettivi, e ampiamente dimostrati dagli scritti e dalla memorialistica dei volontari stessi, che abbiamo citato. Così come, le lamentele sui vecchi fucili che hanno ricevuto, sugli scarsi equipaggiamenti e rifornimenti, sulla mancata assegnazione di istruttori e di alloggiamenti idonei ecc. non tengono sufficiente conto che, come abbiamo dimostrato in altra sede91 , anche l'organizzazione e l'organizzazione logistica dell'Esercito regolare è stata assai carente in tutte le guerre d'indipendenza; e anche nell'Esercito regolare sono sempre mancati buoni ed esperti Quadri, i buoni sottufficiali istruttori, Stati Maggiori efficienti. Insomma: quando si parla dei volontari occorre considerare il quadro globale, e soprattutto tenere conto che l'ostilità tra Esercito e volontari era reciproca. I volontari - inutile ripeterlo non amavano né l'Esercito regolare, né la sua disciplina, né i suoi Capi, e anche dal punto di vista politico, tra di essi non erano rari i repubblicani: proprio per questo, perché non amavano tutto ciò che era e rappresentava l'Esercito regolare, erano volontari. Così stando le cose, come si può ostentare meraviglia se l'arruolamento nei reparti volontari, per i quali tra l'altro sicuramente mancavano Quadri esperti, buone armi e buoni equipaggiamenti, non è stato in genere incentivato dai governi del momento, che hanno preferito incoraggiare l'arruolamento nell'Esercito regolare? 18) Per contro, oltre ad avere carattere elitario e non di massa il volontarismo italiano non è mai stato grettamente nazionalistico, così come Mazzini e Garibaldi non erano affatto dei nazionalisti. Mazzini, Garibaldi, i

•1.

Cfr. F. Botti, La logistica dell'Esen:itu (Cit.), Voi. I e Il.


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nostri volontari hanno semplicemente preteso il giusto, ciò che altre nazioni, con un'altra storia, avevano ormai da secoli in Europa: l'unità, la indipendenza, dei confini giusti e sicuri, il rispetto degli altri popoli, tutto ciò insomma che rende possibile a un popolo la vera libertà, la quale consiste anzitutto nell'essere padrone a casa propria, e nel poter liberamente decidere del suo destino. I volontari hanno dunque rappresentato delle istanze autenticamente nazionali e non di classe, corrispondenti allo spirito e alla mentalità italiana; ne hanno fatto parte anche pochi stranieri, i quali non hanno però dato al movimento patriottico italiano un'impronta internazionalista, come ha sostenuto di recente - a torto - Peter Moos. Al contrario, proprio in quanto italfani esi;;i sono spesso accorsi numerosi a difesa dei diritti conculcati di altri popoli, dimostrando così che il naturale, vero amore per la libertà e per la propria Patria non ha nullà di egoistico e risponde solo a quel principio della parità dei diritti e doveri, che è anche oggi presupposto indispensabile per una fratel1anza e solidarietà autentica tra i popoli. In sintesi, come scriveva l' Argan negli anni Trenta, questo nostro volontarismo ba ben poco in comune colla vera guerra di popolo, della quale diedero esempi grandiosi i Paesi Bassi, e nel secolo XIX, Spagna e Grecia. La Rivoluzione italiana ebbe come parola d'ordine la libertà, idea troppo aristocratica per suscitare a quei tempi fanatismo in grandi ma<;se di popolazione. Da noi, il volontario non è, nella sua tipica espressione, un feroce odiatore dello straniero, ma l'innamorato di un 'idea L- .. ]. Tanto è vero che i nostri volontari accorsero numerosi in Spagna, in Grecia, in Francia, in Polonia e in Ungheria, mentre assai meno ne vennero dall'estero a noi, e, di questi, la maggior parte dall'Ungheria e dalla Polonia, nazioni animate dal tradizionale spirito cavalleresco e infelici come, e più, dell'Italia di allora. 92

L' Argan è tra i pochi a collocare ciascuna componente nella giusta caselia. Sia Mazzini che Garibaldi hanno dato respiro europeo al programma per l'unità italiana, hanno guardato all'Europa; ma questa linea di tendenza non è altro che dimostrazione di un corretto e non egoistico modo - tutto italiano - di intendere la nazionalità; è una concezione che guarda all'avvenire, ed è pienamente attuale. In definitiva il volontarismo porta sul campo di battaglia l'ideale di nazionalità, libertà e indipendenza, sul quale tutti i patrioti concordano. Questo ideale è indiscutibilmente, al tempo, espressione di una minoranza illuminata; perciò i volontari non possono essere, a loro volta, che una minoranza, un'élite. Nul1a di male, di criticabile, di straordinario: tutti i grandi movimenti politici almeno nelle fasi iniziali sono stati espressione di una minoranza. In quel tempo non si poteva fare di più: il problema dunque si sposta a valle. Nel concreto si tratta ora di

92·

C. Argan, Un precursore: Carlo Catta11eo, " Nazione Militare" gennaio 1935.


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vedere se e in che misura, dopo il coronamento dell'unità italiana nel 1870, sia dalla forma militare regolare delle guerre del Risorgimento (l'Esercito piemontese e poi italiano) sia da quella "irregolare" e contingente (il volontarismo garibaldino) si sa prendere il meglio, per accantonare il peggio. La gestione di questa eredità, che esamineremo nel Vol. III (1870-1914) equivale a fare nel campo militare la stessa operazione che è necessario fare nel campo politico-sociale: cioè fondere le due componenti per rendere l'intero popolo, e non solo una sua parte eletta, partecipe dei problemi della raggiunta unità e indipendenza nazionale. Pur provenendo in massima parte dalle regioni del Nord, i volontari non hanno mai voluto essere espressione di interessi e consorterie locali. E il grande bisogno che c'era allora di liquidare la negativa eredità amministrativa degli Stati pre-unitari spiega perché - con la sola, rilevante eccezione del Cattaneo, acceso antipiemontese e perciò federalista - i principali esponenti del movimento democratico, a cominciare da Mazzini, sono stati per uno Stato centralista e forte, capace di organizzare su nuove e più vaste basi unitarie la vita della Nazione. ll federalismo risorgimentale è rimao;to così idea residuale, prerogativa dei moderati, dei gradualisti, di coloro che volevano conservare il più possibile i vecchi, carenti e corrotti assetti politici del passato: non viceversa come oggi sostengono taluni, evidentemente senza 2ver letto o letto bene ciò che scrivono gli uomini più rappresentativi del tempo. Le indicazioni che abbiamo così schematizzate richiederebbero, ciascuna, ben altro spazio. Esse hanno in comune due caratteri distintivi: non attengono al campo strettamente militare ma derivano anche da una parallela - anche se affrettata - valutazione di elementi di carattere politicosociale; non sarebbero nemmeno concepibili senza un ancoraggio e un riferimento costante alla letteratura politico-militare coeva. Non si comprende, ad esempio, come si possa parlare dell'azione di Mazzini o di Garibaldi trascurando le loro idee anche in campo militare, quali risultano soprattutto - e in forma non manipolata - dai loro numerosi scritti, pur editi in forma organica; come si possa studiare il volontarismo, trascurando la vasta memorialistica che gli stessi volontari banno lasciato, oppure citandone qua e là qualche brano ad usum delphini; come si possa trattare della guerra del 1848/1849, senza considerare le critiche e valutazionj dello stesso re Carlo Alberto, dei moderati, dei principali protagonisti militari e non, degli stessi storici coevi che di per sé forniscono un' immagine insostituibile di come sono variamente vissuti e interpretati, al tempo, quegli eventi e di quali riflessi hanno. Una vera storia può trascurare questi aspetti per fermarsi ai soli documenti d'archivio? Certamente no; questa constatazione elementare induce a interrogarsi sul significato generale della ricerca da noi compiuta. In altre parole: di che tipo di storia si tratta? a quale corrente storiografica può essere ricondotta, visto che non narra degli eventi ma pretende di interpretarli e valutarli, non guarda solo al palcoscenico ma fruga nel proscenio, m~i retroscena,


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tra le macchine e i suggeritori, e non cerca negli archivi? Quando questo tipo di storia, che potremmo definire "delle idee", è nato negli anni 80,93 esso corrispondeva a un'oggettiva necessità spontaneamente avvertita senza condizionamenti culturali. Si aveva nozione, allora, di correnti d'idee e autori importanti, riguardanti ad esempio il dibattito sulle grandi navi nel periodo 18701880, il dibattito aeronautico degli anni Venti tra Douhet, Mecozzi e i loro contradditori, l'opera di De Cristoforis e di pochi altri citati dal Pieri. Ebbene, perché non approfondire, perché non cercare il travaglio delle idee a monte di qualsivoglia grande evento militare, fosse esso un dato ordinamento, l'evoluzione di una nuova arma, una data dottrina o una campagna di guerra? Su questa scia anche la storia della logistica dell'Esercito - un'altra storia nuova e diversa94 - ha fornito prezioso materiale per meglio inquadrare gli eventi e per allargare il campo dell' histoire bataille, facendo emergere l'importanza di tutto ciò che è preparazione, evoluzione e cura dei bisogni quotidiani dell'uomo, cioè di quei fattori materiali che altamente ne condizionano il morale, il rendimento, il reale status militare: insomma, di ciò che si chiama organizzazione, senza la quale non vi è mai stato e non vi è esercito. Questi spunti, questi tentativi, queste storie militari "diverse", sono forse semplici "variazioni sul tema" che rimangono all'interno di uno specifico settore, di una storia specialistica, oppure assumono un'altra fisionomia e valenza? Se ci si guarda intorno, se si superano (come è necessario) i confini del "modo di fare storia militare" per dare uno sguardo al "modo di fare storia" in generale, ci si può rendere conto (non è una sorpresa) che un siffatto modo di fare storia militare alla fin fine parte da presupposti teorici, da esigenze notevolmente affini a quello inaugurato in Francia nel 1929 dai fondatori della ben nota rivista "Annales d'histoire économiques et sociale"9\ i quali intendono superare la schiavitù del documento scritto - e in particolare del documento d 'archivio - riaffermando che la storia va fatta (Febvre) "con tutto ciò che, appartenendo all'uomo, dipende dall'uomo, serve all'uomo, esprime l'uomo, dimostra la presenza, l'attività, i gusti e i modi di essere dell'uomo" .. Di conseguenza, per documento si intende (Samaran) "nel senso più ampio, documento scritto, illustrato, trasmesso mediante il suono, l'immagine, o in qualsiasi altro modo". In questo nuovo e diverso approccio il documento, il dato da considerare (Furet) "non esistono più per sé stessi, ma in rapporto alla serie che li precede e li segue; è il loro valore relativo a diventare oggettivo e non il loro rapporto con un'inafferrabile entità reale".

Cfr. F. Botti - V. Ilari, Il pensiero militare italiano dal primo al secondo dopoguerra (1919-1949), Roma; SME - Uf. Storico 1985. ... Cfr. F. Botti, LA logistica... (Cit.), 4 Vol. per il periodo 1831-1981. 95 • Cfr. J. Le Goff, voce Documento/monumento (in Enciclopedia Einaudi, Voi. 5° pp. 38-48) eAA. VV. (a cura di J. Le Goff), LA nuova storia (1979) Milano, OscarMondadori 1990. u


XIV - POLITICA NAVALE E ORDINAMENTO DELLA MARINA

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Dopo aver notato che da sempre (Blanch e altri) la storia della guerra non è un quid a sé stante e per specialisti, ma appartiene alla storia economica e sociale, si deve dedurre da questi presupposti della "nuova storia" che l'analisi e la valutazione della letteratura militare di un dato periodo non solo rientra in questo sforzo di allargamento delle fonti, ma è anche espressione composita, risultante e terreno di coltura dei vari tipi di storia delineati dai seguaci degli "Annales": della "storia della mentalità" (Ariès), della "storia delle strutture" (Pomian), della "storia immediata" (Lacouture). Ed è la miglior dimostrazione della veridicità di un altro asserto di Mare Bloch: nonostante ciò che talora sembrano credere i principianti, i documenti non saJtan fuori, qui o là, per effetto di chissà quale imperscrutabile volere degli dèi. La loro presenza e la loro assenza, in un fondo archivistico, in una biblioteca, in un terreno, dipendono da cause umane che non sfuggono affatto all'analisi, e i problemi posti dalla loro trasmissione, nonché non essere soltanto esercizi per tecnici, toccano essi stessi nell' intimo la vita del passato, perché ciò che si trova così messo in gioco è nientemeno che il passaggio del ricordo attraverso le successive generazioni"'.

Non ci illudiamo certo di aver esaurito, con il sommario esame compiuto, la vasta tematica che aprono i raccordi con la scuola degli Anna/es, la quale peraltro - a quanto ci risulta - sembra ignorare il ruolo storico centrale della guerra, dunque l'importanza dello studio delle varie espressioni militari di un'epoca al fine di ricostruire il carattere dell'epoca stessa (e non solamente dell'homo militaris e dell'istituzione in cui vive). Ci basta avere, per così dire, gettato un sasso nello stagno; e aver ancora dimostrato a chi tuttora ostenta disinteresse per la storia del pensiero e delle idee, che tale storia non è un soprammobile privo di significato, ma prepara e spiega 1'evento, il fenomeno, e soprattutto inquadra il settore particolare che si vuole studiare a fondo. Le future histoires-bataille dovrebbero tenerne conto, onde trasformarsi in histoires senza aggettivi; e dovrebbero tenerne conto anche coloro che oggi intendono rivalutare il Risorgimento, come luogo di coltura di valori permanenti, come riferimento per idee-guida delle quali oggi c'è gran bisogno se si vuol rifondare in senso unitario e con il consenso dei cittadini lo Stato e le sue Istituzioni, come già avrebbero voluto Mazzini e Garibaldi. In questa auspicabile ma delicata operazione di recupero del passato, non può essere dimenticato che il Risorgimento ha avuto come asse di riferimento, come risultante l'evento militare, l'Istituzione che ne è stata non sempre brillante ma costante protagonista, gli uomini che ne hanno fatto parte; tutte componenti che solo la letteratura militare può far emergere e inserire nella realtà nazionale di ieri e oggi, facendo della tradizione, del

96.

J. Le Goff, Documento/monumento, su «Enciclopedia Einaudi» (Cit.), p. 44.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1 848-1870)

passato militare non qualcosa di separato, asfittico, astratto e retorico, ma una delle più valide architravi sulla quale costruire il futuro di una società rinnovata e fondata su saldi principt morali, nella quale ciascuna Istituzione abbia il suo giusto ruolo. Della letteratura militare del periodo ricordiamo con nostalgia - e indichiamo come lascito - la comune, salda consapevolezza che non ci può essere pace né benessere senza giustizia, senza sicurezza e senza rispetto delle distinte identità nazionali, che solo a tale condizione possono far parte di una nuova Europa; e l' altrettanto comune, salda consapevolezza che un popolo non può delegare ad altri la conquista e la difesa dei valori, che sono alla base del suo diritto di esistere e di vedere garantito il suo futuro.


INDICE DEI NOMI DI PERSONA



INDICE DEI NOMI DI PERSONA

A ACTON, Guglielmo (amm., Ministro Marina), 963,993,997, 1124,1125, 1129. AIRAGHl, Cesare (col.), 251 e nt.125,252,258. AIX DE SOMMARIVA (gen.), 511,514 e nt. 25,515,516,517, 534,535. ALAN BROOKE (mar.), 414. ALBERTI, Francesco, 1009. ALBINI, Giovan Battista (amm.), 469, 903, 905, 906, 907, 908, 909, 910, 913, 942, 944, 945, 950, 955, 956, 957, 959, 960, 962, 963, 964, 965, 966, 967, 973, 974, 975, 976, 991, 993, 994, 995,997, 1047. ALESSANDRO MAGNO, 66, 90, 203, 215, 275. ALESSANDRO DI RUSSIA (Imperatore), 687. ALIANELLO, C., 118 (nt. 70). ALLEMANDI, Michele N. (gen.) 111, 138, 139, 140, 542, 585, 692, 693 e nt. 11, 724, 725, 737,785. AMATI, Amato, 867. ANCHERT, E., 1140 (nt. 87). ANFOSSI, Francesco (cte rgt. volontari), 557, 733, 739, 740, 741. ANGELONI, Luigi, 682. ANGIOLETTI, Diego (geo., Ministro de11a Marina), 925 932, 933, 995, 1107. ANGUISSOLA, Amilcare (contramm.), 982. ANNIBALE, 67, 203, 215,226,275,395. ANTONELLI (Card.), 184. ANVfTI (col.), 169. ANZANI, Francesco, 413,477. ARCIDUCA ALBERTO (DI LORENA), 610, 618,620,621 , 647, 648, 649, 655, 657, 664, 665. ARCIDUCA CARLO (DI LORENA), IO, 15, 20, 30, 45, 56, 62, 64, 65, 66, 67, 71 , 73, 82, 89, 90, 91, 93, 95, 140,200, 201 ,204,205,209, 225,256, 278, 279, 329, 336, 380, 580,610, 816, 867, 868, 890, 1133. AROONI, Antonio (cte colonna volontari), 234. ARDANT DU PICQ, Charles (col.), 256. ARGAN, C., (magg.), 256, 257 e nt.138, 1148 e nt. 92.

ARIAN0, 93. ARlES, Philippe, 1150. ARIOVISTO, 213. ARMI,JON, Vittorio (cap. vasc.), 1104. ARNÒ, Felice (cap.), 32. ASTI, Domenico (cap.), 880 e nt. 112, 881 e nt. 113, 882, e nt 114, 893. ATTL MAYR (VON), Ferdinand R. (cap. vasc.), 951. AUBE, The6phile (amm., Ministro Marina), 1000. AUERSPERG (geo.), 186, 187. AVFZZANA, Giuseppe (geu., dep.), 479.


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA

B BAKUNIN, Michail, 106 e nt. 11. BALBI, Adriano, 792 e nt 7, 793 e nt 9, 798, 801, 804, 828. BALBO, Cesare, 9, 73, 88, 102, 111, 112, 116, 131, 151, 225, 238, 247, 254, 266, 268,283, 296, 300, 309, 315, 329, 352,417, 549,564,565 (nt. 111), 566 e nt. 112 e 113, 567,568, 569, 570, 574 e nt. 120, 575, 576, 578, 581, 588, 774, 790, 821 , 822, 826, 829 e nt. 62, 846 e nt. 91, 896. BALLANTI, Alessandro (ten. ), 7, 81 , 82, 83, 84, 86, 88. BALLARD (col.), 1128. BALLES'IRERO, (capo guerrigliero), 135. BARDIN, Etienne (gen.), 29 e nt. 13, 31, 32, 33, 34, 36, 37, 41 (nt. 16). BARIOLA, Pompeo (gen.), 847. BARNES, John S. (ten. vasc.), 1126, 1127. BAROFFJO, Felice (medico mii.), 608 (nt. 25). BASEGGIO, G., 6. BASILE, C. (contramm.), 1070 (nt. 73). BASSECOURT (col.), 666. BASTICO, Ettore, (col. poi mar.), 54,253 e nt. 129, 254, 257, 259. BATTISTA, Camillo, 145. BAUDENS (medico mil.), 595. BAVA, Eusebio (gen.), 6, 148, 223, 314 e nt. 114, 490, 494, 495, 496, 506, 514, 515,517,534,535,537, 553,571,576, 577,582, BAVA- BECCARIS, Fiorenzo (magg., poi gen.), 766, 777, 778, 786,879 e nt. 111, 880, 892 (nt. 121). BEAU LIEU, Johann (gen.), 807. BEAUMONT (cap.), 1132 (nt. 80). BELKNAP (gen.), 1068. BELLAZZI (patriota), 742. BEM (gen.), 696. BENEDECK, Luigi (mar.), 762. BERNOITI, Romeo (amm.), 1139 e nt. 86. BERTANI, Agostino, 480,600 e nt. 16, 601,602, 603,604, 742. BIANClfl, Matteo, 791 e nt. 3, 821. BIANCO DI SAINT JORIOZ, Alessandro (cap.), 147, 148 e nt. 12, 149, 150, 151, 152, 153, 154 e nt. 21, 155, 156 e nt. 24, 157, 159, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 167, 168, 169, 173, 179, 180, 183 e nt. 68, 184, 185, 187. BIANCO DI SAINT JORIOZ, Carlo, 101, 113, 119, 121, 123, 131, 144, 147, 148, 149, 154, 155 (nt. 23), 254, 297,302,341,342, 358,366,419, 424. BIFFART, M. (uf. del Wtirtemberg), 848, 850,851,852,856, 857,861, 862,877. BIXIO, Nino (gen., dep.), 141, 455, 456, 457, 461 , 480, 619, 670, 671, 672, 879, 882 e nt. 115, 884, 885, 994, 1040, 1041, 1042, 1107.


IL PENSIERO MLLITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il ( 1848-1870)

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BLANC, Louis, 401. BLANCH, Luigi, 53, 63, 88, 95,280,291,296,300,3 17, 332,336,338,339,578, 579 e nt. 126, 580, 999 e nt. 1, 1068, 1150. BLANQUI, Louis Auguste, 5, 100, 106 e nt. 12, 107 e nt. 13, 108, 109,186,315. BLOCH, Mare, 5, 1151. BOBBIO, Emilio (col.) 254 e nt. 130, 256. BOLDONI, Camillo (gen.), 326. BONAMICO, Domenico (cte), 667,992 (nt. 83), 996,997 e nt. 89,998,999 (ot. 2), 1000, 1010, 1019 e nt; 28, 1021, 1024, 1063 e nt. 68, 1065. BONAPARTE, Giuseppe, 536. BONGHI, Ruggero (dep.), 652,658 e nt. 76, 659. BORGHI, Luigi (ing. nav., dep.), 1017, 1018, 1083 e nt. 11, 1084, 1085, 1086 e nt. 16, 1087, 1088, 1089, 1090, 1092, 1093 e nt. 30, 1094, 1095, 1096, 1097, 1098, 1100, 1101, 1102, 1103, 1108 e nt. 53, 1109, 1110 e nt. 54, 1111, 1112, 1113, 1114, 1115, 1116, 1117ent.6I, 1118, 1128, 1129, 1130. BORJÈS, Giuseppe (geo.), 147, 162, 173, 188. BOTIA, Carlo, 38, 58, 63, 70, 170, 754. BOm, Ferruccio, 57 (nt. 44), 129, (nt. 53), 220, (nt. 58), 222 (nt. 63 e 66), 224 (nt. 70), 326 (nt 136), 341 (nt. 2), 378 (nt. 61), 395 (nt. 1), 428 (nt. 71), 491 (nt. 4), 593 (nt. 1), 594 (nt. 3), 665 (nt. 82), 667 (nt. 84), 668 (nt. 85), 703 (nt. 32), 764 (nt. 116), 781 (nt. 139), 790 (nt. 2), 791 (nt. 4), 835 (nt. 72), 872 (nt. 107), 914 (nt. 17), 922 (nt.32), 924 (nt. 33), 986 (nt. 77), 1118 (nt. 63), 1121 (nt. 68), 1149 (nt. 3). BOUCHAN, Alaistair, 100. BOUCHARD (gen.), 26. BOÙET- WILLAUMEZ, Louis E. (amm.), 934,963,964,966,967,969,970,992, 1011 e nt. 17, 1012, 1015, 1021, 1024, 1025 e nt. 35 e 37, 1026, 1027, 1028, 1029, 1030, 1032, 1034, 1035, 1036, 1037, 1042, 1043, 1046, 1051, 1052, 1053, 1054, 1056, 1060. . BOUGEAUD, Thomas R. (mar.), 212,536. BOURGOlNE, John (Sir), 444. BOURGOING, 750. BOUTAKOV, Grigory (amm.), 963, 1010, 1011 e nt. 16, 1012, 1024, 1028, 1033, 1053, 1055, 1056. BOUTHOUL, Gaston, 100. BOVIO, Oreste (gen.), 143 e nt.l e 2, 175 (nt. 59), 415, 806 (nt. 33). BOWLES (arnm.), 1014. BRACALINI, Romano, 499. BRANCACCJO, Nicola (gen.), 9, 54. BRIALMONT, Henry (gen.), 750, 753, 879. BR1GNONE, Filippo (gen.) 167,636,847. BRlN, Benedetto (ing. nav.) 467. BR1SIGHELLA (condottiero) 282. BROGGI, Giovanni (ten. col.), 257 e nt. 139.


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA

BRUNEL (ing. nav.), 1118. BRUNELLO, Bruno, 699 e nt.22, 700 (nt. 26). BUA, Giorgio (amm.), 910. BUACHE, Philippe, 793, 798. BUCCHIA, Tommaso (cap. vasc.), 901, 936, 950, 957, 980, 1008, 1095, 1100, 1101 (nt. 45), 1107, 1108, 1116 e nt. (i(), 1120, 1122, 1126. BULOW (VON), Dietrich (gen.), 19, 35, 46, 64, 65, 82,200,278,279,336, 816. BULOZ, L. ( direttore «Revue des Deux Mondes»), 915 e nt. 19. BUONTALENTI, Bernardo (inventore), 883. BUSETIO, Gerolamo (dep.), 879,882 e nt. 115, 884, 885.

e CABRERA (capo guerrigliero), 53. CADOLINI, Giovanni (col., dep.), 415,453, 454, 733, 741, 742, 743, 744 e nt. 73, 745, 746, 747, 749. CADORNA, Carlo (ministro), 506. CADORNA, Luigi (gen., poi mar.), 145, 175 (nt. 59), 190, 596 e nt. 8, 597, 598 e nt. 11, 662 e nt. 79,663. CADORNA, Raffaele (gen.), 145, 175 e nt. 58, 176, 190, 506, 593 e nt 1, 596, 662,663,668 e nt. 86,669 e nt. 87 e 88, 670 e nt 89, 671, 673. CAFORIO, Giuseppe (gen.), 336 e nt 150. CAIMI, Aristide, 711 e nt. 36, 712,713,714,786. CAlROLI, Benedetto (Pres. Consiglio), 463. CALZA, Pio (gen.), 661 e nt. 77. CAMPOLIETI, Nicola M. (cap.), 198 (nl.l ), 232, 234 e nt. 95, 235, 236 e nt. 100, 237, 249 e nt. 121,250 e nt. 123. CANESTRINI, Giovanni, 714 e nt. 37, 715, 716. CANEVARI, Emilio (ten. col.), 24, 25 e nt. 8. CANEVARO, Felice N. (amm.), 995 e nt. 87. CANTÙ, Cesare, 94, 791 e nt. 3, 821. CAPPELLlNI, Alfredo (cap. di fregata), 996. CARACCIOLO (dep.) 454, 455. CARBONE, Gregorio (col.), 7, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 41 (nt. 16). CARBONI, Giacomo (gen.), 254 e nt. 131. CARLO ALBERTO, 55, 103, 130, 154, 283, 359 e nt. 31,360,398,495, 498, 500, 509, 510, 511 e nt. 19, 512,513,514, 515,517,519,520,522,526, 527, 528, 530, 531 , 534, 536, 539, 540, 541, 543, 544, 545, 546, 547, 549, 550, 551, 553, 554, 565, 566 (t. 112), 569, 570, 571, 572, 573, 574, 577, 582, 583, 584, 585, 589, 590 e nt 140, 596, 597, 674, 903, 906, 908, 910, 913, 1138, 1149.


IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. O (1848-1870)

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CARLO EMANUELE I, 807. CARLO EMANUELE III, 807. CARLOV,6. CARNOT, Lazzaro, 203,213. CARPI, Leone, 447 (nt. 94). CARRANO, Francesco, 327 CASA, G.B. (col. comm. Marina), 972 (nt. 67). CASATI, Gabrio, 549. CASATI, L.A. (cap.), 652. CASONI (ing.), 901. CASTAGNA, Gian Giacomo (ten. col.), 415 e nt. 42. CASTAGNOLA(dep.), 179 (nt. 64). CASTAGNOS (capo guerrigliero), 135. CASTEX, Raoul (amm.), 1000 e nt. 3, 1010, 1018 e nt. 26, 1020 e nt. 30, 1022, 1038. CASTIGLIA, B. 1075 (nt. 3). CASTIGLIA, Sa1vatore, 1098 e nt. 37, 1100, 1103. CASTIGLIONI, Pietro (medico mii.) 605 e nt. 21, 606, 607, 608. CASTRUCCIO CASTRACANI, 282. CATTANEO, Carlo, 83, 121, 200, 215, 234, 236, 238, 291, 317 , 338, 342, 348, 373,400, 526,527, 540,547 e nt. 78,548,549,550, 551 , 552,554,556,557,558, 559, 560, 561, 562, 564, 587, 588, 599,601 , 603, 604, 682, 688, 692,698,699 e nt. 22, 23 e 24, 701, 702 e nt. 28, 763, 703, 705, 706, 707, 708, 709, 724, 725, 734, 741, 742, 747, 757, 758, 759, 760, 763, 774, 775, 776, 779, 780, 783, 798, 828, 853, 1136, 1144, 1145, 1149. CAVACIOCCHI, Alberto (col.), 253 e nt. 128,611,622, 661 (nt. 78), 662. CAVALLERO, Ugo (mar.), 414. CAVALLI, Giovanni (gen.), 667 e nt. 84. CAVI, Cesare, 766, 774 e nt. 133, 776. CAVIGLIA, Enrico (mar.), 25. CAVIGLIOTTI (serg.), 738. CAVOUR, Camillo, 110, 117, 233, 351, 379, 399, 447,451, 480, 595, 598, 599, 602,603,611,660, 675,748,783, 904,905,994,997, 998, 1086, 1091, 1138. CERALE, Enrico (gen.), 634. CERONI, Riccardo, 112, 130 e nt. 54, 131, 132, 133,582, 816, 818, 819, 820. CERROTI, Filippo (gen.), 847. CERUTTI (cte), 945. CESARE,66,203,207,215,275,417. CESARI, Cesare (col.), 166 e nt. 45, 175 (nt. 59), 192 e nt. 74. CEVA, Lucio, 18 (nt. 2). CEVAD1NUCE1TO,Augusto (amm.), 1087. CHAMPIONNEI, Jean (gen.), 269, 753. CHANGARNIER, Nicolas (gen.), 675 e nt. 93.


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA

CHARETfE, François (capo guerrigliero), 53. CHERNU (medico mil. capo), 608. CIIlALA, Luigi (gen.), 612 e nt. 32,622, 625,635 (nt. 50), 662. CfllAVONE (bandito), 162. CHIODO (Ministro), 506. CHRZANOWSKY, Wojciech (gen.), 42, 43, 44, 45, 57, 80, 131 , 502, 503, 504, 505, 506, 507, 508, 509, 510, 520, 522, 526, 527, 534, 535, 536, 544, 545, 561, 563,585,589, 595, 597. CIALDINI, Enrico (gen.), 141, 145, 158, 166, 167, 182, 386, 400, 427, 429, 610, 61 I , 612,613, 615, 617,618, 619,620, 621,622,623, 624, 625, e nt.42, 626, 627, 628, 629, 642, 643, 646, 647, 648, 655, 658, 659, 662, 663, 664, 665, 733, 748, 924,929,930,996, 1138. CIAN, Vittorio, 477 (nt. 112). CICCONETII (gen.), 415 (nt. 43). CISOTTI, Lodovico (col.), 766, 777 e nt. 135, 780, 846 e nt. 94, 872 e nt. 109. CLARKE (storico), 132. . CLARY, Tomaso (geo.), 173. CLAUSEWI1Z, Karl (gen.), 9, 10, 15, 19, 20, 24, 25, 25 e nt. 8, 30, 34, 35, 46, 53, 61 , 63, 64, 65, 66, 67, 68, 82, 88, 90, 91, 95, 129, 142,200, 201,203, 205, 207, 209, 211, 229, 230, 250, 251, 252, 253, 256, 258, 275, 276, 278, 279, 329, 334, 335, 338, 342, 364, 367, 396, 410 e nt. 31 , 411,412,414, 423,433,434, 666,668, 729, 816,849,856, 874, 888 e nt. 117, 889, 890, 893 e nt. 123,998, 1000, 1001 , 1022, 1133, 1136, 1141. CLAVESANA(cap. vascello), 982,990. COLBERT, Jean B. (Ministro), 1082. COLLETTA, Pietro (gen.), 30, 566. COLLJER, Thomas W., 97. COLLJNGWOOD, Cuttbert (amm.), 1031, 1032. COLOMB, Philip H. (vice-amm.), 975. COLONNA (fratelli-condottieri), 282. COMlSSEm, Giuseppe Antonio (medico capo), 593 e nt. I, 608. CONTE D' AQUil..A, 1037. CONTI (DI BORBONE), Armando (gen.) 807. CONTI, Giuseppe, 338 e nt. 154, 690 e nt. 9, 709, 724. CORNWALLIS, Charles M. {Lord, gen.), 58. CORDES (s. ten. vasé.), 1033. CORREARD (scrittore di topografia), 132. CORSELLI, Rodolfo (gen.), 415 (nt. 43). CORSI, Carlo (magg. e poi gen.), 7, 20, 72, 73 (nt. 80), 74, 75, 76, 77, 78, 79 e nt.91, 80, 81, 428,485 e nt. 125,604 e nt. 20, (i()9 e nt. 26, 634,635, 636, 637, 638, 766 e nt. 121, 768 (nt. 124), 772e nt. 131, 773, 774, 853 e nt. 101, 855, 856, 857, 858, 859, 860,861,862,863,864, 865, 867,876,878,890, 893 e nt. 124, 894,895, 897. CORTE (dep.) 1125, 1126.


ll.. PENSIERO MILITARI! I, NAVA I I II AI I \NII

\! Il

Il I I NIN IK/01

1161

CORVEITO, Gian Giacomo (magg.), 17, 72, 80,638, 645,646.647, b·IK, l I I 1 ( 11t KO) COSENZ, Enrico (gen.), 326,327,652,657 e nt. 73,847. COUTAU-BÈGARlE, Hervé, 791 (nt. 4), 1000 e nt. 3, 1020 (nt. 32). CRESCENZIO, Bartolomeo, 1009. CRTSPI, Francesco, 977. CROCCO, Carmine (bandito), 173, 174, 177. CROCE, Benedetto, 252,579 (nt.126). CROMWELL, Oliver, 207. CUCCHIARI, Domenico (gen.), 141, 619,640. CUESTAS (capo guerrigliero), 135. CUGIA, Efisio (gen., Ministro della Marina), 38,657, 1100, 1108, 1117. C.Z., 177 e nt. 62.

D DABORMIDA, Giuseppe (gen., Ministro della guerra), 500, 510. DAL VERME (condottiero), 282. DAL VERME, Ludovico (gt:n.), 661 (n. 78), 662. DAMAS, Josepb(gen.), 26. D' AMICO, E. (cap. vascello, dep.), 428,924,936,939,941,953, 955, 957, 958, 962, 973, 995, 1114 e nt. 57, I I 22 e nt. 69, 1123. D' ANCILLON, 346. DANDOLO, Emilio, 733, 734, 735, 736, 737, 738, 739 e nt. 60, 740, 741, 743, 747, 774, 782. DANDOLO, Enrico, 151. DANTE,694. D'ASPRE, Costantino (gen.), 541,542. D'AYALA, Mariano (gen., dep.), 26 e nt. 9, 27, 28, 29, 30, 31 , 32, 41 (nt. 16), 54, 61, 66, 83,135,330,332 e nt. 142,372,455,457,677 e nt. 94, 716,717, 718, 719, 720, 722, 723 e nt. 44, 724, 727, 766, 768 e nt. 125, 799 e nt. 20, 816 e nt. 39. D'AZEGLIO, Massimo, 931 (nt. 42). DEAMEZAGA, Carlo (cap. vasc), 922 e nt. 30 DE BARTOLOMEIS, Luigi (col.), 510, 595 e nt. 5, 808, 812, 814. DE BIASE, L. (col.), 415 e nt. 42. DE BROGLIE (DUCA), 750. DECESARE, A. (ufficiale fanteria), 140ent. 72,141 , 142. DE CESARE, Raffaele, 140 (nt. 72). DE CHAURAND DE SAINT EUSTACHE, Felice (ten. col.), 688 e nt. 4. DECKER, Karl (col.), 52, 114, 132,136,200,365.


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA

DE COSA, Raffaele (amm.), 903. DE CRlSTOFORIS, Carlo, 25, 86, 88, 119, 121, 131, 132, 195, cap. IV (da p. 197 a p. 260), 261, 262,274,275,284,293,294,295,299, 314,320,321,327,329,331, 417,457,542,691,692,697, 733, 769, 774, 782, 1037, 1038 e nt. 46, 1144, 1150. DE FERRAR! (capo volontari), 493. DE GREGORIO, Giuseppe (ten.), 415. DE GUEYDON, Louis H. (arnm.), 1024 e nt. 34, 1025, 1028, 1033, 1034, 1036, 1051, 1052. DE JOINVILLE (principe, arnm.), 1013. DE KERANSTRET, A., 915 (nt. 21), 918. DEKWRATH (amm.), 1059. DE LANGLOIS (col.), 173. DEL BONO, Giulio, 415 (nt. 43). DEL CARRETTO, Evaristo (cap. fregata), 981. DELLA PERUTA, Franco, 335 e nt. 139, 336. DELLA ROCCA, Enrico (gen), 166 e nt. 46, 167, 168, 490 (nt. 2), n595 e nt. 4, 596 (nt. 7), 597 e nt. 10, 598, 602 e nt. 17, 611, 619, 638, 639, 640, 641 e nt. 57, 642, 643, 644, 645, 646 (nt. 60), 657, 662. DEL NEGRO, Piero, 439 (nt. 86), 440 e nt. 87, 446 (nt. 92), 474, 776 (nt. 134) 779 e nt. 137. DEL PECHE (cte francs tireurs), 425. DE LUCA, Giuseppe (gen. genio navale dir. gen. costruz. nav.), 983, 1124. DE LUIGI, F. (ten.), 652, 658 ce nt. 75. DE MARCHI, G. (storico), 511 e nt. 19. DEMBINSKI (gen.), 696. DE MENDOZA, Bernardino, 1078. DE MONTE, Vincenzo (Cons. Corte Suprema Napoli), 985. DE MURTAS ZICHINA, Pasquale, 1048. DENTICE (Ministro borbonico), 179. DE PRETIS, Agostino (Pres. Cons., Ministro Marina), 399, 430, 452, 458, 461, 468,926,927,928,929,930,931,933, 937, 938,939!940,941,943,948,949,952, 954,955, 958,961,973,978,990,993,995,996,998, 1018, 1124, 1125. DE SAXE (DI SASSONIA), Maurizio (mar.), 216,217,282. DES FOSSÈS, Romain (amm.), 1037. DES GENEYS, Giorgio (amm.), 904, 1087, 1089. DE SONNAZ, Maurizio (gen.), 501 , 513, 519. DE VIRGlLI (Intendente), 145. DE WET (gen.), 235. DI AICHELBURG, Ulrico (magg.), 650 e nt. 63,651. DIEN BIEN PHU, 100. DI FORVILLE, 21 (nt. 5). DI JOINVILLE (amm., principe), 915. DI LAURO, Francesco (gen.), 607 e nt. 22.


IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II ( 1848-1870)

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DI NEGRO (cap. vasc.), 1086. DISLÈRE, M .P., 919 e ot. 26. DOUGLAS, Howard (geo.), 1010 e ot. 14, 1012, 1013 e ot. 19, 1014, 1015, 1016, 1017, 1019, 1021, 1028, 1029 e ot. 38, 1030, 1031, 1032, 1033, 1034, 1036, 1046, 1109.. DOUGLAS SCOTII, Vittorio, 366. DOUHET, Giulio (gen.), 1150. DUCA DI BRUNSWIK, Karl Wilhelm (geo.), 752. DUCA DI FERRARA (condottiero), 282. DUCA DI PARMA (condottiero), 282. DUCA DI ROHAN, 131, 849. DUDLEO (Robert DUDLEY), 1009. DUFOUR, Guglielmo Enrico (gen.), 119,285,314,692,698. DUNCAN (amm.), 1031. DUNANT, Henry, 608, 609. DURANDO, Giacomo (gen.), 132, 141, 202, 225, 225, 235, 236, 254, 266, 279, 283, 284, 300, 309, 315, 352, 354, 511, 519, 528, 540. 542. 543, 544, 549, 700, 737, 739, 791 e nt. 4, 795, 822, 829 e nt. 62, 888, 1141. DURANDO, Giovanni (gen.), 531,534. DURING, 103 e nt. 9. D'USSELLES (mar.), 807.

E EISENHOWER, Dwight D. (gen.), 414. ELLIOT (storico), 132. EMMERJCH (ten. col., capo guerrigliero), 136. EMPECINADO (capo guerrigliero), 163. ENGELS, Friedrich, 100, 101 e ot. 7, 102, 103 e nt. 9, 104, 105 e ot. 10, 109, 688 e nt. 5,689,690. ENRICO IV, 282. EPAMINONDA, 281,429. ERICCSON, Giovanni (inventore), 1128 e nt. 78. ERNESTO DI MANSFIELD (conte, capo partigiano), 136. E1ZEL (scrittore di topografia), 132. EUGENIO DI SAVOIA- CARIGNANO (amm.), 847, 933 ( nt. 46). EWALD (autore di un trattato suJia guerriglia), 136.


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INDICE DEI NOMI DI PERSONA

F FABRIS, Cecilio (col.), 235, 806 (nt. 33), 1131 e nt. 79. FALCONI, Giulio Cesare, 1009. FALLS, Cyril, 1020 e nt. 31. FAMBRI, Paolo, 105, 178 e nt. 63, 612 (nt. 32), 749 e nt. 87, 750, 751, 752, 753, 754, 755, 756, 757, 758, 759, 760, 763, 764, 765 e nt. 117, 766, 772, 773, 774, 780, 788, 1145. FANOLI, Michelangelo, 7, 776 e nt. 134. FANTI, Manfredo (gen.), 141,167,400,456,563, 1141. PARINI, Luigi Carlo, 168. FARRAGUT, David G. (amm.), 916, 918. FAVE (scrittore mil. francese), 32. FAVRE (ten. col. svizzero), 120. FEBVRE, Lucien, 1150. FEDERICO BARBAROSSA, 130. FEDERICO II RE DI PRUSSIA, 35, 65, 66, 104, 136, 140,203, 208, 209, 230, 253,275,278,291,316,360,648,725,750,807,868, 1030. FEDERICO GUGLIELMO ID RE DI PRUSSIA, 687. FERDINANDO II DI BORBONE, 579, 762. FERDINANDO DI SAVOIA, DUCA DI GENOVA (gen.), 496, 497, 498, 499, 502, 504,505. FERRARELLI,Giuseppe, 326, 846 e nt.92. FERRAR!, Andrea (gen.), 531. FERRAR!, Giuseppe, 548. FERRERO, GabrieleM. (cap.), 510, 907. FERRERO DELLAMARMORA, Vittorio (ten. vasc.), 905. FILANGIERI,Gaetano,309,336,338,339,462,466,692, 717,718. FINCATI, Luigi (amm.) 38, 901 e nl. 1,902,919, 945,957,972 e nt. 67, 973, 974, 975, 976, 977 e nt.69,982, 991, 1002, 1003, 1004, 1005, 1006, 1007, 1008, 1009, 1073, 1077, 1078, 1079, 1080, 1081, 1082, 1083. FINOCCHI, Ermanno (cap.), 400 e nt. 6,401,415 e nt. 40,434 e nt.80. FIORAVANZO, Giuseppe (amm.), 1069. FIORUZZI, Angelo (cap.), 1138 (nt. 85). FLAVIO GIUSEPPE, 50. FOGLIANI, Tancredi (ten.), 804 e nt. 30. FOGLIARDT, Augusto (col.), 716, 724 e nt. 45, 725, 726, 727, 775, 780. FORBES, Ugo (col.),109, 117, 118, 119, 121, 122, 123, 126, 127, 128, 129, 137, 140,185,691,697,701,743,744,746, 1139. FOREY, Elie F. (mar. frane.), 16. FOSCOLO (cte), 945. FOSCOLO, Ugo (poeta), 9, 28, 83, 239, 249, 269, 274, 329.


INDICE DEI NOMI DI PERSONA

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FRA DIAVOLO (Michele PEZZA), 53, 145, 752. FRANCESCO II DI BORBONE, 146,158,161,162, 170,173, 179. FRANCI, Giovanni (inventore), 1132. FRANQUET, François (ten. vasc.), 1011, 1012, 1013. FRANZINI, Antonio (geo., Ministro della guerra), 494. FRANZOSI, Pier Giorgio (geo.), 144 (nt. 4), 190 e nt. 73, 191, 192, 835 e nt. 72, 893 e nt. 122. FUB1NI LEUZZI, M., 565 (nt. 111). FURET, François, 1150. FURLANI, Slivio, 399 (nt.5), 434 (nt. 81), 444 (nt. 91), 449, 461 (nt. 99), 470 (nt. 106),474.

G GAGE (gen.), 58. GALILEO GALILEI, 694. GALLI DELLA MANTICA, Baldassarre (amm.), 925, 931 , 994, 995 e nt. 87, 1089, 1091, 1105. GALLINARI, Vincenzo, 327 (nt. 138), 336, e nt. 151, 337. GAMBETTA, Lèon, 425. GANDOLFI, Antonio (gen.), 414 e nt. 37,867, 876,877, 878,879,887. GARELLI, Giacomo (ufficiàle piemontese), 149. GARIBALDI, Giuseppe (gen.), 16, 25, 53, 54 e nt. 38, 58, 98, 117, 118, 121, 140, 141, 146, 151, 169, 171, 174, 195, 233, 238, 244, 248, 258, 284, 285, 286, 287, 288, 302, 327, 334, 341, 350, 351, 355, 360, 370, 376, 383, 384, 385, 386, 389, 390, 391 , 392, cap. VII (da p. 395 a p. 485), 527, 528, 542, 546, 578. 588. 589, 593, 599, 600, 603, 614, 615, 625, 660, 673, 674, 684, 685, 691, 696, 706, 712, 733, 741 , 742, 744, 746, 748, 752, 753, 757, 772, 775, 779, 783, 785, 815, 855, 872, 898,910, 926,994, 1108, 1136, 1138, 1139, 1140 e nt. 87, 1142, 1145, 1146, 1147, 1148, 1149, 1151. GARIBALDI, Menotti, 401,418. GARIBALDI, Ricciotti, 425. GASSENDI, Jacques (gen.), 32. GAYA, F. 688 (nt. 5 e 6). GAZZERA, Pietro (gen., Ministro della guerra), 415 (nt. 43). GAZZURELLI, Filippo (cap.),81. GENOVA DI REVEL, 593 e nt. 1. GENTILE, Giovanni, 709. GENTILE, Panfilo, 591 e nt. 142, 1139. GENTILINI, Enrico, 576, 577.


1166

INDICE DEI NOMI DI PERSONA

GIOBERTI, Vmcenzo, 225, 266, 283, 331, 549, 578, 699, 790, 822. GIOVANNI D'AUSTRIA (amm.), 1039. GILLET (dep. frane.), 1144. GIURIA, Pietro, 609 (nt. 26). GIUSTINIANI, Enrico (magg.), 55, 56, 57,516. GNEISENAU, August W. (geo.), 9. GOETHE, Wolfgang, 751,752. GOGOLA (cte), 945. GOMEZ (capo guerrigliero), 53. GONNI, Giuseppe (col. com. Marina), 904 e nt. 5, 905, 906, 998 (nt. 91), 1022, 1023 (nt. 33), 1087, 1141. GOOCH, John, 895 e nt. 127, 896. GOVONE, Giuseppe (gen. Ministro della guerra), 148, 155, 184, 644, 657, 661 (nt. 78). GRAFFIGNA (capo garibaldino), 476. GRAMSCI, Antonio, 333 e nt. 146, 337, 586 e ot. 138, 587, 588, 1146 e nt. 90. GRANT, Ulysses (gen.), 648, 753, 873. GRASSI,Giuseppe,25,26, 27,28,29,30,31,32,34, 39,83,249,824. GRAZIOLI, Francesco Saverio (gen.), 415 (nt. 43). GREGORI, L. (scrittore mii. francese), 675 (nt.92). GREGORIO VI (Papa), 169. GRJBEAUVALD (DE}, Jcan V. (gen.), 26,104,220. GRIFFINI, Saverio (geo.), 493, 544, 570. GRILLO, Carlo (cap. vasc.), 945. GRIVEL, Louis Antonie Richild (cap. vasc.), 1018, 1019. GUALLA(medico), 605. GUARDIONE, Francesco, 657 (nt. 73). GUERIÉRE (scrittore mii. francese), 32. GUERRINI, Domenico (cap.), 415,913 e nt. 16,914 e nt. 18,915 e ot. 20,919 e nt. 25, 925 (nt. 36), 927 e nt. 39, 930 e nt. 41, 931 (nt. 42), 932, 933 e nl. 45 e 46, 934, 939, 945 (nt. 49), 947, 951 , 958 (nt. 58), 961 e nt. 63, 968, 994 e nt. 85 e 86, 995 e nt. 88, 1017 (nt; 23), 1041 (nt. 50), 1042 e nt 53, 1043, 1044 (nt. 56), 1045, 1046, 1093 e nt. 29, 1100 (nt. 44), 1106 (nt. 50), I 128. GUERZONI, Giuseppe, 472, 473 (nt. 107), 668, 671 e nt. 90, 672, 673; GUGLIELMETTI (cav. ufficiale di Marina), 1127. GUIBERT (DE), Jean (ten. col.), 35. GUICCIARDI (col. volontari), 893. GUSTAVO ADOLFO DI SVEZIA, 63,217,275,291. GUTI'IÈREZ, G., 198 e nt. 1, 199 e nt. 2,204 (nt. 17), 231 (nt. 86), 232,233,234, 236,237, 238 e nt. 104, 247 e nt. 117,248,249,250,417 e nt. 49,470 e nt. 105, 766, 769 e nt. 126, 770, 771, 782. GYULAY, Franz (mar.), 587, 907.


1167

INDICE DEI NOMI DI PERSONA

H HAUSSMAN (barone), 108. HENNINGSON, 132. HOSTE, Paul (Padre), 1021. HOUDAil.,LE (scrittore mil. francese), 32. HOWE, GugJielmo (gen.), 58. HUGO, Victor, 147.

I ILARI, Virgilio, 683 (nt. 2), 1149 (nt. 93). INFANTADO (capo guerriglia), 752. ISASTIA. Anna Maria, 728 e nt. 47, 741 e nt. 64. ISOLA,Ulisse (cap.vasc.), 980, 1121, 1122.

J JACHINO, Angelo (amm.), 915 (nt. 19), 992 e nt. 83, 994 e nt. 85 e 86, 997 e nt. 90, 1025 e nt. 36, 1035 e nt. 45, 1139. JAL, Auguste, 1008 e nt IO, 1069 e nt. 71. JÀNS, Max (cap.), 103. JAUCH (cap. vasc.), 936,937,950,951,982. JAURÈS, Jean, 780 e nt. 138. JEAN, Carlo (gen.), 100,341 e nt.l, 343,416 e nt. 48. JERVIS. John (amm.), 40. JOLGORI, Troiano, (cap. di fregata), 1037. JOMINI, Antonie-Henry (gen.), I O, 15, 19, 20 e nt. 4, 21 e nt. 5, 22, 23, 24 nt. 6 , 25,30,32,35,36,41,42,46,56, 59,62, 63,64,65,66,67, 68, 69, 71, 72, 83, 89, 90, 91, 95, 113, 135, 197, 200,201,202,203,209,211, 221, 229, 250, 251, 252, 253, 254, 258, 259, 275, 276, 278, 279, 280, 329, 332, 334, 335, 337, 339, 357, 360, 396, 424, 472, 666, 675, 768, 799, 816, 825, 828, 843, 856, 860, 868, 1000, 1001. 1012, 1021 , 11 33. JOURDAN, Jean B. (mar.), 536. JURIEN DE LA GRAVIÈRE, Jean Baptiste Edmond (amm.), 1080,1104.

e


1168

INDICE DEI NOMI DI PERSONA

K K.ESSERLING, Albert (mar.), 414. KOEIIl,, S. L., 1135 e nt. 82.

L

LABOULAYE (scrittore mil. francese), 32. LABROUSSE, A. (cap. corvetta), 1038 e nt. 48. LACOURTE, 1151. LA MARMORA, Alessandro (cap. poi geo.), 436. LAMARMORA, Alfonso (geo.), 147, 158, 164, 165, 189, 199,386, 400, 429,434, 509,536,537,593,598,610,611,612 e nt. 32,613,615,616,617,618 e nt. 34, 619, 620, 621 , 622, 623, 624 e nt. 39 e 40, 625, 626, 627, 628, 629, 630, 631, 632, 633, 634, 635 e nt. 50, 637, 638, 639, 640, 641 è nt. 58, 642, 643, 644, 645, 647, 648, 655, 658, 659,662,663,664,665,675, 748, 907, 924, 925, 926, 927, 928 e nt. 40, 929,930,93 1 e nt. 42,933, 935, 937, 948, 951 , 954, 955,985,990, 994 (nt 85), 995,996, 1041, 1083, 1084, 1085, 1086, 1087, 1088, 1089, 1090, 1092, 1117, 1138 e nt. 85. LA MASA, Giuseppe, 109, 110, 111 , 112. 113, 114, 115, 116, 117, 131,480, 693,

1143. LA MIÈRE DE CORVEY, A., 111, 357, 365. LANDOGNA, Francesco, 565 (nt. 111). LANERI, Gianbattista (ufficiale Carabinieri), 149. LANGIEWITZ (scrittore), 384. LANZA (avv.), 507,545. LAPLANCHE, Henry (scrittore nav. frane.), 1011. LATOUCHE-TRÈVILLE, Louis (amm.), 974. LAVALLÈE, The6phile, 225,279, 792, 793, 794 e nt. 11, 795, 796, 797, 798, 801, 828, 853 (nt. 102). LAVARENNE (scrittore mii. frane.), 132. LECHI, Teodoro (geo.), 542. LEE, Robert E. (geo.), 753. LE GOFF, Jacques, I I50 (nt. 95), 1151 (nt. 96). LE MASSON, A. (cap.), 570 e nt. 114, 571, 573, 574, 575, 589. LENCISA, C., 982 e nt. 82. LEONE I Imperatore, 1073. LEOPARDI, Pier Silvestro, 579, 580. LETI, Gregorio (storico), 716. LIBERTI, Egidio, 54 e nt. 40, 110 (nt. 14), 137, 337 e nt. 152, 341 e nt. 1, 343, 364 e nt. 39, 365, 366, 785 (nt. 142). LINATI, Camillo (ten. col.), 71.


INDICE DEI NOMI DI PERSONA

1169

LINNEMAN, (cap.), 1132. LIPPI, CannineA. (inventore cannone a vapore), 33. LIST, Fredrich (economista tedesco), 1078. LLOYD, Humphrey E. (gen.), 30, 35, 46, 868, 888. LOJODICE (medico Marina), 923. LONGO, Carlo (amm.), 847. LONGONI, Ambrogio (cte unità volontari, gen.), 493. LORENZIN1, Francesco (magg.), 547, 557,558,560, 561,562,563,564. LOVERA DE MARIA, Giuseppe (cap. di fregata), 1060, 1061 e nt. 67, 1062, 1063, 1064, 1065, 1066, 1067, 1068. LUIGI XIV, 316. LUIGI XVI, 751. LUIGI FILIPPO, 512. LUMBROSO, Alberto, 913 (nt. 15), 915, 924 (nt. 34), 925 (nt. 36), 926 (nt. 38), 933 (nt. 46), 947 e nt. 50 e 53, 948, 972 (nt. 67), 993, 994, 998, 1007 e nt. 9. LUPPIS, Giovanni (col., inventore siluro), 883, 1127, 1128. LURAGHI, Raimondo, 665 (nt. 82). LUTIWAK, Edward, 1135 e nt. 82. LUXEMBOURG, 63.

M - MACAULAY, Thomas B. (storico), 273. MACCHI, Mauro, 692,695,696,709,726,727,779. MAC CLELLAN, George B. (gen), 666. MACHIAVELLI, Nicolò, 230,257, 282,332, 333,337,338,35 1, 452,694, 714, 716. MAC DOUGALL, Patrich L. (col.), 849. MACK, Karl (gen.), 26. MACK SMITH, Denis, 397,402 e nt. 12,405,414. MAC MAHON (De), Edme Patrice M. (mar.), 882. MAHAN, Arthur Th. (amrn.), 667, 901, 1019, 1020 e nt. 29, 1021. MAISSNER (storico), 132. MAIZEROY (DE), Joly, (ten. col.), 35. MALCHUS (geografo mil. tedesco), 792. MALDIN1, Galeazzo (cap. fr. dep.), 977, 1095, 1100, 1101 (nt. 45), 1106, 1107, 1108, 1112, 1115, 1116, 1120, 1126. MAMELI, Goffredo, 477 (nt. 112). MANARA, Luciano, 137, 151, 198, 231, 232, 234, 235, 570, 733, 734, 735, 737, 738, 739, 746, 776. MANES, Antonio, 188 (nt. 71).


1170

INDICE DEI NOMI DI PERSONA

MANFRONI, Camillo, 902 903 e nt. 3, 904. MANHÈS, CharlesA. (gen.), 145. MANIN, Daniele, 527, 752. MANNO, Antonio, 155. MANZONI, Alessandro, 33. MARAVIGNA, Pietro (gen.), 16. MARCHESE (col. art. Marina), 901, 1118, 1119. MARESCOTII, Angelo, 58 e nt. 47, 59, 60. MARMOCCHI, Francesco, 792,801. MARMONT, Auguste F. (mar.), 20, 60, 68,200,201 , 222,254,255,256,257, 259, 753. MARSELLI, Nicola (gen.), 24 e nt. 6, 89 e nt. 112, 250 e nt. 124, 251, 254, 257, 414 e nt. 37, 648 e nt. 61, 670, 766,773, 774, 786, 846 e nt. 90, 872, 873, 874, 875, 876,882,890,892. MARTINELLI, Sergio, 904. MARTINEZ, Gabriele (scrittore nav.), 1048. MARX, Karl, 100, 101 e nt. 7, 102, 105, 107, 109. MASINA (col. garibaldino), 439. MASSARI (dep.), 178, 179 (nt. 64). MATERAZZO, Francesco (gen.), 326. MATfEI (Ispettore genio navale), 985. MATI'ROS, Cemda, 1126 e nt. 72. MATURI, Walter, 9. MAZZETII, Massimo, 895 e nt. 127, 897. MAZZINI, Giuseppe, 25, 98, 101, 106, 107, 112, 113, 119, 121, 123, 130, 144, 155 (nt. 23), 169, 195, 233, 247, 257, 263, 266, 272, 283, 288 e nt. 63, 289, 295, 297, 298,299,300,310,327,329,339, cap. VI (pp 341-394), 396 e nt. 3,400,401 , 417, 420,423,439,446,474,475,476,477 e nt. 112,478 e nt. 113, 479 e nt. 116, 480, 481, 482, 483, 484, 518, 527, 546, 578, 583, 593, 600, 673, 674, 681, 696, 700, 706, 734, 742, 743,747, 748, 752, 872, 1136, 1138, 1140, 1142, 1143, 1147, 1148, 1149, 1151. MECOZZI, Amedeo (gen.), 1150. MEDICI, Giacomo (gen.), 137, 386, 480. MENABREA, Luigi Federico (gen., Pres. Consiglio, Ministro della Marina), 453, 847, 1105, 1106, 1108. MERJNOS (capo guerrigliero), 53, 163. MESSE, Giovanni (mar.), 414. MEZZACAPO, Carlo (gen.), 41, 42, 99, 167,250, 326,327,815,834, 835 (nt. 73), da p. 827 a p. 846, 847, 848, 857, 858, 864, 865, 873, 874, 876, 878, 881, 883, 892, 893, 896, 897, 1102. MEZZACAPO, Luigi (gen., Ministro della guerra), 41, 42, 99, 250, 326,327,430, 815, da p. 827 a p. 846, 847, 848, 853 e nt. 102, 857, 858, 862, 863, 864, 8~5, 873, 874, 876,881,883,892,893,896,897, 1102.


INDICE DEI NOMI DI PERSONA

1171

MICELI (dep.), 453, 454. MICHELANGELO, 694. MILANS ( capo guerrigliero), 163. MILON (cap. vasc.), 944. MINA (capo guerrigliero), 53, 163, 752. MINNITI, Fortunato, 895 e nt. 127,896,897. MINONZI (col.), 622. MITTICA (bandito), 147. MOETCH (gen.), 26. MOLLARD, Giovanni F. (gen.), 740. MOLTKE (VON), Helmuth (gen.), 429, 484,615,623, 664. MONDINI, Luigi (gen.), 288 e nt. 63. MONNIER, Marco, 145 e nt. 9, 146, 147, 169. MONTANELLI, Giuseppe, 527. MONTANELLI, Indro, 397,699. MONTECUCCOLI, Raimondo, 30, 33, 62,208,257,282,472. MOOS, Peter, 1148. MORANDI (col. cte corpi franchi), 140. MORDACQ (cte), 890. MOREAU, Jean V. (gen.), 873. MORELLI DI POPOLO, Angelo (ten. col.), 806, 807, 808, 809, 815, 824, 846, 896,897. MORIN, Enrico (ten. vasc., poi amm.), 982. MORRETIA, Rocco, 198 (nt. 1). MURAT, Gioacchino (mar., re di Napoli), 145, 303, 368, 379, 549.

N NALDO (condottiero), 282. NAPIER, Wìllian F.P. (gen.), 237. NAPOLEONE, Gerolamo, 643. NAPOLEONE I, 15, 17, 43, 46, 52, 58, 62, 63, 64, 65, 66, 67, 70, 72, 73, 75, 85, 86,88, 104, 140, 203,205,206,207,208,209,211,213, 219,222,224,225,227, 228, 229, 230, 233, 251, 252, 254, 255, 270, 27 1, 274, 275, 279, 291, 300, 326, 334, 338, 342, 358, 359, 360, 361 , 364, 387, 395,396, 417, 434, 438, 523, 558, 569, 586, 604, 648, 668, 681, 682, 704, 710, 748, 752, 754, 774, 775, 784, 789, 792, 797, 801, 806, 807, 819, 823, 825, 828, 857, 862, 868, 873, 891, 901, 912, 926,990,991,996,998, 1030, 1037, 11 33, 1138,1141 , 1146. NAPOLEONE Ul, 20, 107, 169, 220, 267, 269, 351, 353, 378, 379, 380, 381, 382, 404,408,429,432,441,457, 462, 475,578,596, 597,598,609,610,611 , 615,


1172

INDICE DEI NOMI DI Pl::KSONA

643,730,731,732,748,749,855, 856. NASALLI, Saverio (gen.), 490 (nt. 2). NEGROITO (dep.), 1123, 1124. NELSON, Horatio (arnm.), 40, 461, 469, 495, 973, 974, 981, 990, 991, 996, 997, 998, 1005,1026, 1031, 1032, 1037, 1040, 1054. NOZZA, Marco, 397. NUGENT, Lavant (gen.), 532, 542.

o

ODDO,Giacomo, 168ent.47, 169,170, 171,172,173, 176ent.60, 179. ODIER, P.A., 32. OKOUNEFF (scrittore mil.), 35. ORERO, Baldassarre (gen.), 661 (nt.78). ORLANDO, Luigi (industriale), 468. ORSINI, Felice, 577 e nt. 124, 578, 588, 589, ;733, 743, 747 e nt. 82, 748, 749, 779, 782, 799, 801, 803, 80,4 815, 820 e nt. 47, 821, 822, 823, 824, 825, 826, 837, 845,846,847,897, 1136, 1137 e nt. 84, 1145. OUDINOT , Nicolas Ch. (gen.), 479.

p PAGANI, Carlo (col.), 603 (nt. 18). PAGE, (amm.), 915, 916, 917, 918, 919, 920, 943, 982. PAGEL (cap. fregata), 1033. PAIXHANS, Henry (gen.), 36, 1013, 1014, 1022. PALASCIANO, Ferdinando, 923. PALLAVICINI, Emilio (gen.), 184, 193. PALMIERI, Giuseppe (gen., marchese), 257. PANEBIANCO, Angelo, l 00. PANOT (scrittore mii.), 32. PANTALEONI (dep.), 455. PANTERA, Pantero, 1009. PAOLUCCI (cap. vasc.), 945,957. PARET, Peter, 98 (nt. 1). PARISE (gen.), 653. PARMENTOLA, Vittorio, 155 e nt. 23. PARRILLI, Giuseppe (barone), 37 e nt. 15, 38, 39, 40, 41,901 , 999, 1001, 1002, 1004, 1005, 1006, 1007, 1008, 1009, 1010, 1011 , 1012, 1016, 1017, 1019 e nt. 27, 1021. PARKER (ten. vasc.), 1055. PARODI, Domenico (mons.), 995 (nt. 87), 996,997 e nt. 89. PASSALACQUA, Giuseppe (gen.), 530.


INDICE DEI NOMI DI PERSONA

1173

PASSAMONTI, Eugenio, 566 e nl. 113. PATION, George (gen.), 414,433. PELOPIDA, 281. PENHOAT, Jean H. (contramm.), 1033 e nt. 44, 1034, 1036. PEPE, Guglielmo (gen.), 115, 116, 125, 202, 254, 266, 267, 270 , 282, 300, 303, 306,309,313,315,325,327,329,330,336,338, 339 ,352.442. 457,529,580, 682, 691, 726, 752, 790, 801, 819, 821, 826, 829 e nt. 62, 833, 836. 8J9, 846, 896. 1143. PERASSI, G . (medico Marina), 922 e nt. 31,923. PERKINS (inventore cannone a vapore), 33. PERRONE (DI SAN MARTINO), Ettore (gen.), 530. PERRUCCHETII, Giuseppe, (cap. poi gen.), 835,893. PERSANO (PELLION DI), Carlo (amm.), 38, 41,428,434,469, 815 (nt. 38), 9 13, e nt. 15,914,915 e nt. 19, 916, 917, 918 e nt. 23, 919, 920 e nt 27,922,924 , 925 e nt. 36, 926 e nt. 37, 927, 928, 929, 930, 931 e nt. 42, 932 e nt. 44, 933 e nt. 46, 934, 935, 936, 937, 938, 939, 940, 941, 942, 943, 944, 945, 946, 947, 948, 949, 950, 951 ,952,953, 954,955,956,957,958 e nt. 57,959 e nt. 60,960,961.962. 963. 964, 966, 967, 968, 969, 970, 971, 972 e nt. 67, 973, 974, 975, 977, 978, 981, 990, 991, 992, 993, 994 e nt. 85 e 86, 995 e nt. 87,996, 997, 998, 1001, 1008, 1016, 1017, 1018, 1039, 1042, 1045, 1046, 1047, 1048, 1064, 1086, 1089. 1092, 1100, 1102, 1106, 1108, 1139. PESCETTO, Cesare, 1104. PESCETIO, Federico, (gen., Ministro della Marina), 967. PESCI, Ugo, 846 e nt. 93. PETITIJ DI RORETO, Agostino (gen.), 617,620,639, 847. PETRUCCELLI DELLA GATilNA (dep.), 451 ,452,457. PETIJNENGO (DE GENOVA), Ignazio (gen., Ministro della guerra) 847. 929. PHILISTALL (gen.), 26. PIANELL, Giuseppe Salvatore (gcn.), 326, 634, 847. PICA, Giuseppe (dep.), 178, 189, 190, 191. PIERI, Piero, 42, 53 e nl. 37, 54, 55 e nt. 41, 61 , 257 e nt. 140, 258, 259, 334 e nt. 148, 335, 336, 338,416 e nt. 47, 490 e nt. 3, 509 e nt. 15, 510 e nt. 18, 512, 513 (nt. 22), 517 e nt. 28, 570 e nt. l l 4, 580 e nt. 131, 582 e nt. 134, 589 e nt. 139, 590, 610 (nt. 27), 683 (nt 2), 698, 11 50. PIERMARTINI, Giùvanni, 694 e ut. 15, 695. PJNELLI, Ferdinando Augusto (gen., dep.), 57, 130, 134 e nt. 59, 135, 146, 167, 182, 526, 527 e nt. 46, 528, 529, 530, 531, 532, 533, 534, 535, 536, 537, 538, 539, 540, 545, 546, 838, 87 1, 909 e nt. 11 , 910, 911. PIO IX, 398, 531 ,532,578. PIOBERT (scrittore militare), 32. PIOLA (cte), 945. PISACANE, Carlo, 5, 9, 25, 53, 101 , 115, 116, 11 9, 121 , 139, 141, 195, 197, 249, 254, cap. V (da p. 261 a p. 339), 342, 351,365,367,372,400,401,416,423,424,


1174

INDICE DEI NOMI DI PERSONA

442, 450, 478, 479, 480, 526, 539, 540, 541, 542, 543, 544, 545, 546, 547, 551, 690,691,692,696,697,698 e nt. 20,699, 701, 709, 716, 718,726,733,739,846, 1140, 1143, 1144, 1145. PISACANE, Filippo, 326. POLIBIO, 62. POLLIO, Alberto (gen., Capo di SME), 611,662, 663, 664 e nt. 81, 1139. POMIAN (storico frane. degli Annales), 1151. POMMEREUL, François R. (gen.), 26. PORRO, Carlo (gen.), 789, 790 e nt I , 791 ( nt. 5), 798 e nt. 19. PRAMINO (condottiero), 282. PRASCA, Emilio (amm.), 995 e nt. 88. PREVAL, Claude (geo.), 732. PRICE, Bonamy (ufficiale inglese), 848, 849, 856. PROMIS, Carlo, 500,511,512, 516,519, 520, 522 e nt. 35,523,524,525,526, 907. PROVANA (DEL SABBIONE), Pompeo (amm.), 1089.

R RADAELLI, Carlo Alberto (geo.), 640 e nt. 56. RADETZKY, Johann J.F.K. (mar.), 6, 56, 232, 236, 237, 330, 515, 520, 521, 528, 530,532,536,540,541,543, 551, 558, 561,564,571,576,577,583,584, 585, 704,734,819, 1136, 1141. RAMATUELLE,Audibert, 1039. RAMORINO, Gerolamo (geo.), 507,517,536,545,563,585. RANDACCIO, Carlo (ufficiale comm. Marina), 1008 e nt. 13, 1009, 1010. RA1TAZZI, Urbano (Pres. Consiglio), 173, 482,996, 1100. RAZZETTI (ufficiale di Marina), 945. REDING (capo guerrigliero), 135. REICHLIN VON MELDEGG (scrittore mil.. di topografia), 132. REINAUD (scrittore mii.), 32. REISOLI (col.), 415 (nt. 43). REZASCO, Giulio (dep.), 901, 1074, 1075. RIBOTY, Augusto (cap. vasc., poi amm.), 950, 953, 993, 996, 997. RICASOLI, Bettino (Pres. Cons.), 173, 174, 175, 176, 182, 6 I 5, 929, 930, 938, 955. RICCI (Ministro dell'interno piem.), 398. RICCI, Agostino (colonnello, poi geo.), 7, 88, 89, 428, 593 (nt. 1), 774, 835, 845, 847, 893, 924. RICCI, Donato (scrittore di logistica), 31. RICCI, Giovanni (marchese, cap. vasc., dep., Ministro della Marina), 1086, 1091, 1093, 1098, 1105, 1108.


INDICE DEI NOMI DI PERSONA

1175

RICCI, Giuseppe Francesco (gen.), 847. RICOTII, Cesare (geo., Ministro della guerra), 668, 669 e nt. 88, 670 e ot. 89, 671, 845,896. RIGHINI DI SAN GIORGIO, Alessandro (geo.), 804, 805. R.M., 91 e ot. I 13. ROBERTI (cap. fregata), 981 , ROCCA, Carlo (geo.), 415 (ot.43). ROCCA, Gianni, 489 (ot. 1). ROCCHJ, Enrico (gen.), 6, 252 e nt. 126, 254. ROCCO, Giulio, 901, 902, 993, 994 (nt. 84), 1006. RODIO, Giovanbattista (marchese, capo guerrigliero), 53. ROMAGNOSI, Gian Domenico, 273. ROMANA (capo guerrigliero), 135. ROMANO, Aldo, 262, 275. ROMMEL, Erwin (mar.), 414,433. ROMOLO, 28 1. ROSSELLI, Pietro, 287, 288, 479,696. ROSI, Michele, 740 (nt. 62), 902 (nt. 2). ROSINSKI, Herbert, 1020 e nt. 32, 1021 , 1022, 1024. ROSSAVAL (col.), 594 e nt. 2. ROSSELLI, Nello, 327 e nt. 139, 333 e nt. 145. ROSSI (ten. vasc.), 1048, 1049, 1050, 1051, 1052, 1137. ROTA, Ettore, 693 e nt. 13, 782 e nt. 140, 784,0 786. ROVIGHI, Cesare, 740 e nt. 63. ROYER, Clemenza, 692, 697. RUFFO, Fabrizio (Cardinale), 188 e nt. 71, 752. RUSSEL (Lord, Ministro), 391. RUSSI, Luciano, 337 e nt. 153, 338. RÙSTOW, Wuhelm (col.), 634.

s SACCHI, Gaetano (gen.), 141. SACCHI, Achille (patriota), 716, 726 e nt. 46, 727, 728. SAFFI, Aurelio, 390. SAINT BON (PACORET DI), Simone (cap. fregata, poi amm.), 467, 945, 947, 974, 996, 1058, 1112, 1113, 1114, 1115, 1116, 1119, 1120. SALASCO (CANERA DI), Carlo (gen.), 419, 490 (ot. 2), 492, 493, 494. SALETTA, Tancredi (gcn., Capo di SME) 897. SALUZZO (DD, Annibale (gen.), 805,808,809, 810,812, 813, 814, 815, 816, 817,


1176

INDICE DEI NOMI DI PERSONA

824,828,845,846,874,891,892,896, 897. SALUZZO (DI), Cesare (gen.), 99. SAMARAN (storico francese degli «Annales»), 1150. SAMMIATELLI (avv., difensore del Persano), 947. SANCHEZ-CISNEROS, Juan (gen.), 792. SANDRI, Antonio (cap. vascello), 941 , 944, 956, 957, 1038 e nt. 47, 1039 e nt. 49, 1040, 1074, 1075 e nt. 2, 1076, 1077, 1082, 1083, 1095, 1107, 1108, li 16 e nt. 60, 1120, 1126. SANTAROSA(DI), Santorre, 148. SAVELLI, Rodolfo, 262, 263 (nt. 4), 333 e nt. 144. SAVINI, Medoro, 430. SAVORGNANO, Mario, 1078. SCHARNHORST (Von), Gerhard J.D. (gen.), 9. SCHELIHA (col,. ing.), 1067. SCHONHALS, Karl (gen.), 580 e nt. 130, 582, 583,584, 585, 906, 907 e nt. 8, 909, 910. SC1PIONEL'AFRICANO, 203,281. SCOTI, Walter, 33. SCOVAZZI (avv.), 444 (nt. 91). SELLA, Quintino (dep., Ministro), 885, 1125. SEMEHKIN (len. vasc.), 1053 e nt. 65, 1055, 1059, 1060, 1062, 1065. SÉNARMONT (geo.). 219. SENHONBERY (geo.), 237. SENOFONTE, 62. SFORZA, Muzio Attendolo (condottiero), 282. SHERIDAN, Philip H. (geo.), 1068. SINOPOLI, Salvatore, (cap.), 415. SIRONI, Giovanni (gen.), 670. SIRTORI, Giuseppe (gen.), 137,178,619, 634,635. SKY, John, 97. SMITH DODA, (gen.), 907. SOLARGLI, Paolo (gen.), 907. SOMIS, Aristide T., (magg.), 499, 500. SOULT, Nicolas (mar.), 753. SPARTACO, 132. SPELLANZON, Cesare, 566 (nt. 112). SPINOLA, Ambrogio (condottiero), 282. SPONZILLI, Francesco (gen.) 62, 92, 93 e nt. 114, 94, 95, 279, 867, 868, 869, 890. STEFANONI, Luigi, 476. STICCA, Giuseppe (cap.), 53, 54, 61, 81 e nt. 95, 253 e nt. 127,333 e nt. 143, 846 e nt. 91 e 95. STONEWALL (gen.), 753. STRATICO, Simone, 38,901, 1002, 1004, 1009. SUCHET, Louis (mar.), 753.


INDICE DEI NOMI DI PERSONA

1177

T TABACCHI, Giovanni, 869 e nt. 106, 870. TECCHIO (ministro), 506. TEGETIHOF (VON), Wilhelm (amm.), 469, 916, 917, 918, 922, 958, 961, 969,

971, 974,992,993,997. THIERS, Louis A., 405, 775. THIROUX (scittore mil.), 32. THOLOSANO, Edoardo (cap. vasc., poi amm.) 1086. THURN UNO TAXIS (gen.), 151, 532, 544. TIBALDI (magg. garibaldino), 743. TIEDEMANN (scrittore mil.), 63. TITO LIVIO, 281. TOFANI, Vmcenzo (delegato P.S.), 183 e nt. 68, 184, 185. TOLA, Efisio (ten.), 149. TOMMASEO, Nicolò, 527, I002. TONELLO, Gaspare, 1009. TORELLI, Luigi (sen.), I 060 e nt. 66, I 061. TORRES (cte colonna volontari), 234. TOSTI, Amedeo (magg.), 415 (nt. 43). TOUCHARD, Philippe V. (amm.), 918. TRISTANY (bandito), 171. TRIVULZIO, Gian Giacomo (mar.), 282. TROTTI, Ardingo (geo.), 516. TUCCARI, Luigi, 143, 175 (nt. 59), 176, 178. TURENNE (DE LA TOUR), Henry (mar.), 63, 65,207,208,275,282. TURPIN DE CRISSÈ, Lancelot (gen.), 810. TÙRR, Stefano (gen.), 141.

u ULLOA, Gerolamo (gen.), 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54 e nt. 39, 55 e nt. 42, 57, 62, 70, 71 , 79, 130, 137, 138, 139, 140,579, 580, 652 e nt. 65, 653, 654, 655,656,657,659, 666,667 e nt. 83, 885,886, 887. UNGERN, L. A. (scrittore di geogr. mil .), 792. USEDOM (amb. prussiano), 613, 623, 646.


1178

INDICE DEI NOMI DI PERSONA

V VACCA, Giovanni (amm., dep.), 469, 936, 950, 951, 955, 956, 957, 958, 960, 962, 964, 966, 967, 968, 969, 970, 971, 972, 973, 975, 980, 981, 991, 992, 993, 994, 995,997, 1041, 1042, 1106, 1107, 1120. VAIRO, Francesco (cap.), 332. VALENTINI (VON), Georg W. (gen.), 46, 63. VALERIO (dep.), 1105, 1107. VALLE, Pietro (ten. col.), 789, 853 e nt. 102, 864, 865, 866, 867, 876, 897. VALLIÉRE (DE), Jean (gen.), 220. VALSECCHI, Franco, 348,349 e nt. 12. VANDERWELDE (magg.), 771,772, 832. VASCOITO, Vezio (amm.), 1000 (nt. 3). VAUBAN (DE), Sebastian Le Preste (mar.), 226, 227, 256, 857. VECCHJ,Augusto Vittorio (Jack La Bolina), 904(nt 5). VAUCHELLE, M., 32. VEGEZIO, 62, 93. VERGNAUD (scrittore mil.}, 32. VlAL, Jean (cap.), 24, 32. VICO, Giambattista, 276. VILLARI, Pasquale, 652, 658 e nt. 76, 659, 660. VILLENEUVE (DE), Pierre Charles J.B.S. (amm.), 1031. VISCONTI VENOSTA, Emilio (dep., Ministro degli Esteri), 599,603,616, 929. VISCONTI VENOSTA, Giovanni, 599 e nt. 12, 600. VITELLI (maestro di arte mii.), 282. VITTORIO AMEDEO II, 685. VITTORIO EMANUELE Il, 16, 146, 184,352,380,399,404,417,427,440,442, 443,447,480,481,596,597, 598,600,602,603, 659,662,663,748,749,779,927. VIVANTI, C. 333 (nt. 146). VOLTA, Alessandro, 694. VON BERNHARDI (diplomatico prussiano), 613,615. VON MAGDEBURG, Hahnzog (scrittore di geogr. rnil.), 792. VON ROON, Albert T.E. (scrittore di geogr. mii.), 792. VON RUDTORFfER, Franz (col.), 792, 801, 825, 828, 853, 891.

w WAGNER, August (scrittore mil.), 62, 82. WASHINGTON, George (gen.), 58, 59, 70, 71, 122, 135,150,298, 578, 754.


INDICE DEI NOMl DI PERSONA

1179

WELDEN (geo.), 544. WELLINGTON, Arthur Wellesley (gen. duca), 73, 88, 90, 132, 229, 237, 357, 569, 752,773,874, 891,892, 1136. WERKLEIN, Josepb (col.), 132. WHITHEHEAD, Robert (inventore del siluro), 883,1127. WILLISEN (DE), Wtlbelm (gen.), 19, 82, 130 e nt. 54, 580 e nt. 129, 815, 816, 817, 818,819,820,821,890. WIMPFFEN, Emmanuel (gen.), 422. WOINOVICH, Emil (gen.), 597.

X XY LANDER, Joseph (scrittore mii.), 35.

y YORK, Jobann (gen.), 687.

z ZAMBELLI, Andrea, 83, 94, 95, 200, 215, 283,291 , 309. ZAMBIANCIIl, Callimaco (col.), 421. ZAMPONI, Francesco, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 130, 135 e nt. 60, 136. ZAVATfARI, Giuseppe (cap.), 814, 815. ZIMOLO, G., 18 (nt. 3), 901, 902, 994 e nt. 86. ZUMALACARRE GUY, Tomas, 132.



INDICE GENERALE



I N I lii I

lii N l ·HA_I F_,_

_ __ _ _ _ ____;:lc.::..18:..:.. 3

INDICE GENERAI ,li Presentazione ... . ............ .... ....... ..... , , .... . Detti Memorabili . .... . . . ... . .... ........ .... , • , , , . , . Introduzione .. . .................... .. . ... . . ........ .

Pag. 3 « 5 « 9

PARTE PRIMA L'ARTE MILITARE TRA GUERRA DI ESERCITI, INSURREZIONE E GUERRIGLIA: CHE COSA È STATO IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE? CAPITOLO I - ARTE MILITARE E SUA RIPARTIZIONE: "REVIVAL" O TRAMONTO DELLA STRATEGIA NAPOLEONICA? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

« 15

SEZIONE I - Caratteri generali del periodo 1848-1870: Clausewitz e Jornini nel pensiero italiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

« 15

SEZIONE il - l principali scritti teorici di arte militare: tra guerre napoleoniche e progresso tecnico . . . . . . . . . . . . . . . . .

« 25

Il problema del Linguaggio militare nazionale . . . . . . . . . . . . .

« 25

Le voci concernenti l 'arte militare nei dizionari, nelle bibliografie e nel primo numero (1856) della Rivista Militare . . . . . Il "Saggio su la tattica applicata alla fanteria" (1849) del

« 28

generale Chrzanowsky . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . "Dell'arte della guerra .. (1851) di Girolamo Ulloa . . . . . . . . Le "Nozioni elementari di strategia" (1851) di Enrico Giustiniani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La "Storia delle guerre ossia memoriale militare politico della storia universale" (1851) di Angelo Marescotti e la "Guida dei militari d '·ogni g rado per la redazione de i rapporti "

« 42 « 45

(1851) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il "Manuale di strategia e storia militare moderna" ( 1858) di

« 58

Francesco 7,amponi ........... : . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

«

Le "Nozioni elementari di orte e storia militare ad uso degli ufficiali di fanteria " (1 862) di Camilla Linati . . . . . . . . . . . . . Le "Conferenze d 'arte miliwre tenute in Milano" (1866) e la "Tattica elementare della fa nteria in Austria" (1851-1852) di

Carlo Corsi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . "Della filosofia della guerra" ( I M9) di Alessandro Ballanti . . .

« 55

61

« 71

« 72 «

81


I 184

IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

Cenni sulle definizioni di arte militare e strategia di Agostino Ricci (1863) e Nicola Marselli (1867-1869) .................. Pag. 88

SEZIONE m - Scritti minori sulla "Rivista Militare": riflessi strategici e tattici delle nuove armi .... . ............. . .. .

«

91

Conclusione

...................................... .

«

95

CAPITOLO II - GUERRA RIVOLUZIONARIA, GUERRIGLIA E INSURREZIONI NEL PENSIERO EUROPEO E ITALIANO ........................................ .

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Premessa: significato dei termini e loro rapporto .. . . . ..... .

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SEZIONE I - Guerra rivoluzionaria e esercito permanente negli scritti di Marx, Engels, Bakunin e Blanqui ........... .

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SEZIONE II - Esercito regolare e guerriglia negli scriUuri italiani . . . « 1()(J La fusione tra forze regolari e guerriglia nel libro del La Masa "Della guerra insurrezionale tendente a conquistare la nazionalità" (1856) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « 110 Il "Compendio del volontario patriottico" (1854) del colonnello inglese garibaldino Ugo Forbes . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « 117 Contributi minori: Riccardo Ceroni (1849), Ferdinando A. Pinelli (1851 ), Francesco 'Zamponi (] 858), Girolamo Ulloa (1859), A. De Cesare (1863) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « 130

CAPITOLO ID - L'INTERVENTO DELL'ESERCITO NELL'ITALIA MERIDIONALE DAL 1860 AL 1870: REPRESSIONE DEL BRIGANTAGGIO O CONTROGUERRIGLIA? Le due opere di base di Marco Monnier (1862) ........... . Le "Storie della caserma" (1854) e "Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al J 863" (] 864) di Alessandro Bianco di Saint Jorioz, figlio di Carlo ....... ... . .... .... . I ricordi del generale della Rocca, primo comandante militare dell'ex-Regno delle due Sicilie ........................ . I tre volumi sul brigantaggio di Giacomo Oddo (1863-1865) .. Aspetti tecnico- militari delle operazioni contro il brigantaggio ...................... . ............ . .. ...... . La relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sul brigantaggio nelle province napoletane ( J863) •.. . . . ... . .. . Le voci del campo opposto filo-borbonico ........... . .... . Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ..

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INDICE GENERALE

PARTE SECONDA QUALE GUERRA E QUALI STRUMENTI PER L'INDIPENDENZA NAZIONALE? LE GRANDI FIGURE DEL PENSIERO MILITARE (DE CRISTOFORIS, PISACANE) E IL PENSIERO MILITARE DELLE GRANDI FIGURE (MAZZINI, GARIBALDI) CAPITOLO IV - CARLO DE CRISTOFORIS: CUORE ITALIANO E MENTE JOMINIANA ........... ...... .... . ... Pag. 197 «

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CAPITOLO V - ARTE MILITARE, INSURREZIONE E NAZIONE ARMATA NEL PROGETTO DI RIVOLUZIONE NAZIONALE DI CARLO PISACANE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Matrici e collocazione teorica del Libro "Che cosa sia la guerra" . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il principio "nuovo, unico, e sommo" della massa, fondamento della strategia: sue origini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tattica, mobilità e manovre: importanza dell'artiglieria . . . . . . . Logistica e amministrazione: l'esempio napoleonico . . . . . . . . . . Fortificazione, geografia e topografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . "Essenziali qualità dell'ufficiale" e della leadership . . . . . . . . . . Reclutamento, mobilitazione e disciplina: perché gli eserciti permanenti a Lunga f erma ? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Analisi complessiva: un'opera utile ma non nazionale, frutto di studi settoriali e incompleti e di troppo breve esperienza militare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Conclusione: Carlo De Cristoforis nel pensiero militare coevo e successivo: ragioni della scarsa aderenza di molte valutazioni critiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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SEZIONE I - Guerra, strategia e storia: il primato militare degli italiani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « I concetti-chiave di nazione e rivoluzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « Necessità della guerra nazionale: la polemica con i pacifisti . . . . « Strategia, tattica e principio della massa: Carlo Pisacane pensatore clausewitziano?. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . «

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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

Il ruolo primario della riflessione storica: saldatura tra passato e presente militare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 280 SEZIONE II - Critica ai due modelli estremi: eserciti permanenti e guerra per bande . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ragioni dell'inefficienza morale degli eserciti dinastici . . . . . . . . Il contrapposto giudizio su guerra per bande e insurrezione: insostituibilità dell'esercito regolare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . SEZIONE ID - Il modello geostrategico e ordinativo per la guerra nazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Possibilità e vincoli del terreno della penisola . . . . . . . . . . . . . . . "Guerrieri perfetti con sentimenti cittadini": criteri di base per l'organizzazione delle forze.... . ... .... . ............ . . Fisionomia del nuovo Esercito italiano: nazione armata o formazione d' "élite"?. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Conclusione: Carlo Pisacane è stato solo un utopista perdente? CAPITOLO VI - GUERRA, STRATEGIA E STRUMENTI PER L'INDIPENDENZA NAZIONALE NEL PENSIERO DI GIUSEPPE MAZZINI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nazione, giustizia sociale e pace . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L "' interventismo" mazziniano: guerra nazionale e insurrezione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Quella di Mazzini è stata una teoria strategica napoleonica? La not evo Ie dl.J;«. 1 erenza tra " vo Iere " e " pot ere " . . . . . . . . . . . . . . . Forze regolari e irregolari: nazione annata o volontari? . . . . . . . Le guerre piemontesi e italiane dal 1855 al 1866: progetti, riflessioni critiche e risvolti geostrategici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . fl banditismo, perché? modo di combatterlo . . . . . . . . . . . . . . . . . Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CAPITOLO VII - GARIBALDI SOLO UOMO D'AZIONE? ASPEITI MILITARI DEI SUOI SCRIITI: STRATEGIA E TAITICA, NAZIONE ARMATA E MARINA . . . . . . . . . . . . . . .

La guerra nazionale, il banditismo e il clero . . . . . . . . . . . . . . . . . Un Capo Militare e scrittore clausewitziano ? Concetti strategici e tattici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La nazione armata ideale e quella possibile in ltalia: ruolo dei volontari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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INDICE GENERALE

La Marina: politica della grandi navi; Lissa e la tattica navale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 466 Morale, logistica, disciplina e addestramento . . . . . . . . . . . . . . . « 470 Conclusione: Garibaldi e Mazzini due nemici da sempre, perché? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « 474

PARTE TERZA Bll,ANCIO DELLE GUERRE D'INDIPENDENZA: AMMAESTRAMENTI, CRITICHE E POLEMICHE CAPITOLO vm - ESERCITO REGOLARE E INSURREZIONE: STRUMENTI INCONCILIABILI? SPUNTI CRITICI E CONTROVERSA EREDITA' STRATEGICA DELLA PRIMA GUERRA D'INDIPENDENZA (1848-1849) . . . . . . . . . .

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Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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SEZIONE IV - Le considerazioni della parte austriaca: Willisen e Schonhals . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . «

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SEZIONE I - La voce della monarchia piemontese e dei militari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le relazioni sulla prima fase della campagna (marzo-agosto 1848) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le relazioni sulla seconda fase della campagna (marzo 1849) . . La difesa di Carlo Alberto, dei nobili e dell'ufficialità piemontese negli scritti di Carlo Promis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . SEZIONE II - Le tesi "alternative": PineJH, Pisacane, Cattaneo, Balbo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le considerazioni del maggiore Ferdinando Pinelli nella "Storia militare del Piemonte" (1855) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il commento antipiemontese e antilombardo alla guerra di Carlo Pisacane ( 1850) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L'aspra polemica autonomista, antipiemontese e "pro domo sua" di Carlo Cattaneo e il diverso parere del maggiore dell'Esercito lombardo Carlo Lorenzini. .. . ...... ......... .. . . Gli errori piemontesi e gli ammaestramenti della guerra secondo Cesare Balbo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le obiezioni di Cesare Balbo alle tesi di uno storico neutrale: il capitano svizzero Le Masson . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . SEZIONE m - Scritti minori (Gentilini, Orsini, Blanch, Ulloa) . .


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848-1870)

CAPITOLO IX - LE GUERRE DAL 1855 AL 1870: CRITICHE, AMMAESTRAMENTI E RIFLESSI TEORICI ....... Pag. 593 «

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SEZIONE II - La guerra del 1866 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « Considerazioni preliminari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « La polemica La Marmora - Cialdini....................... « La difesa dell 'operato dei comandanti del I e Ili corpo d'armata a Custoza................ . ........ . . . . . . . . . . . « I giudizi critici della "Rivista Militare" negli anni 1866 e 1867 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « Altri scritti: Ulloa, Cosenz, Casati, De Luigi, Bonghi e Vi/lari . . « Polemiche postume e giudizio conclusivo: di chi la colpa? . . . . . «

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Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . SEZIONE I - Dalla guerra cli Crimea (1855-1856) alla campagna de] 1859 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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SEZIONE Hl - Cenni sugli ammaestr amenti della guerra ci vile americana I861-1865 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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SEZIONE IV - La campagna per la liberazione cli Roma del 1870: cenni sulle polemiche tra Cadorna e Ricotti e tra Guerzoni e la "Rivista Militare" . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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CAPITOLO X - ESERCITO PERMANENTE, VOLONTARI O NAZIONE ARMATA? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Premessa: radici storiche e significato teorico dei termini "nazione armata", "volontari" e "esercito permanente o stanziale" . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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PARTE QUARTA ESERCITO PERMANENTE, VOLONTARI O NAZIONE ARMATA? LA RICERCA DEL "MODELLO DIDIFESA" E IL RUOLO DELLA FORTIFICAZIONE

SEZIONE I - Tra nazione annata e esercito "lancia e scudo": . . i nemici della formula classica dell' esercito permanente ..... Il modello svizzero "puro" di nazione armata: Allemandi, Macchi, Piermartini, Royer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Armi.ferrovie e nazione armata "all'italiana" nel pensiero di Carlo Cattaneo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


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INDICE GENERALE

I precoci sostenitori del ,nodello prussiano: "un italiano", Caimi, Canestrini .. . . . ..... . . .. .... . ... . ... ............ Pag. 710 I fautori dell'Eserci10 "lanria ,, .\'rndo ": d'Ayala, (1850) Fogliardi, Sacchj . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « 716 SEZIONE II - Perché l' esercì lo pcrmancn1e'l La c iit ica ai volontari, alla nazione armata e aJJa guardia 11u~io11ak . . . . . . . . . I volontari e gli "irregolari" secondo i volontw i l' >rii " int· golari": Dandolo, Anfossi, Cadolini, Orsini . . . . . . . . . . . . . . . . "La camicia rossa al [Museo del] Bargello ": ['.espressione ,,i,ì avanzata dell'antivolontarismo in "Volontari e regolari " (1870) di Paulo Fambri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I sostenitori della formula classica dell'esercito permanente: Carlo Corsi, d'Ayala (1860), Guttiérez, Marselli, Cavi, Fanoli, Cisotti, Bava - Beccaris............... . . . . . . . . . . . . Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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SEZIONE II - La difesa del Piemonte e il ruolo delle Alpi Occidentali nelle opere di Angelo Morelli di Popolo (1840) e di Annibale di Saluzzo ( 1845-1860) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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CAPITOLO XI - DALLA DIFESA DEL PIEMONTE ALLA DIFESA D ' ITALIA: IL RAPPORTO TRA GEOGRAFIA MILITARE, STRATEGIA E FORTIFICAZIONE . . . . . . . . . . . . Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . SEZIONE I - Dalla geografia politica alla geografi.a militare e alla geostrategia: aspetti teorici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cenni sulle opere europee di maggiore influenza in Italia . . . . . La geografia militare come branca autonoma: prime definizioni e delimitazioni teoriche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

SEZIONE ID - DaJla difesa del Piemonte alla difesa d'Italia (1848-1861): le opere di Guglielmo de Willisen, Felice Orsini e Carlo e Luigi Mezzacapo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Aspetti geostrategici della difesa a Est della pianura padana nella "campagna d 'Italia del 1848" del generale Guglielmo de Willisen (1849) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Un approccio pioneristico ma dilettantistico alla difesa d'Italia: la "Geografia militare della penisola italiana" (1852) di Felice Orsini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La prima analisi organica e professionale: Gli "Studi topografici e strategici sull ' l 'llalia "(l856-1859) di Carlo e Luigi Mezzacapo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. II (1848- 1870)

SEZIONE IV - Verso la prima guerra nazionale (1861-1866): dal Mincio o dal Po? ................................... Pag. 847 Punti di vista stranieri sul teatro della futura guerra con l'Austria: gli scritti del Price e del Biffart . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « 848 Attacco al quadrilatero dal Mincio o dal basso Po? Piacenza o Bologna? I pareri di Carlo Corsi, Luigi Meu.acapo e Pietro Valle ............... _. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « 853 Scritti minori: le tesi "meridionaliste" e pedanti di Francesco Sponzilli e il superficiale ottimismo sulla futura guerra di "Tabachi" . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « 867 SEZIONE V - Dal 1867 al 1870: utilità o meno del quadrilatero e di Roma per la difesa nazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « Pochissime fortificazioni al Nord, solo fortificazioni campali sugli Appennini: le idee innovatrici di Nicola Marselli . . . . . . . . . « La perdurante importanza del quadrilatero ex-austriaco negli scritti di Antonio Gandol.fi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « La perdita d'importanza del quadrilatero e le nuove condizioni della difesa d'Italia secondo Fiorenzo Bava, Domenico Asti e Nino Bixio - Gerolamo Busetto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « Napoli punto - chiave della difesa d'Italia secondo Gerolamo Ulloa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . «

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PARTE QUINTA LA MARINA NEL RISORGIMENTO: NASCITA DELLA STRATEGIA NAVALE E NUOVA "TATTICA A VAPORE" CAPITOLO XII - ASPETTI NAVALI DELLE GUERRE D'INDIPENDENZA E LORO AMMAESTRAMENTI: PERCHÉ' E COME SI E' ARRIVATI A LISSA? . . . . . . . . . . . . .

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Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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SEZIONE I - L'incerta condotta delle operazioni navali nel 1848-1849 e i fatti del 1859-1860 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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SEZIONE II - La campagna navale del 1866 e le controverse responsabilità della battaglia di Lissa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La battaglia di Lissa nella stampa francese . . . . . . . . . . . . . . . . . Gli accenni a Lissa della "Rivista Militare" e della "Rivista Marittima" . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


INDICE GENERALE

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I rapporti Esercito-Marina e la polemica tra La Marmora e Persano ................... . ........ ... .. ..... ....... Pag. Le accuse al Persano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « La difesa del Persano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « Le giustificazioni del Vacca e dell'Albini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « "Ancona e Lissa": la polemica del Fincati contro il Persano . . . « I risultati dell'inchiesta sul materiale, sull'organizzazione e sui Servizi logistici della Marina nel 1867 . . . . . . . . . . . . . . . . . . « Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . « CAPITOLO Xlii - DALLA VELA AL VAPORE E ALLA CORAZZA: NASCITA DELLA TEORIA STRATEGICA NAVALE E NUOVA TATTICA "A VAPORE" . . . . . . . . . . . . . . .

Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il linguaggio marinaresco e la polemica del Fincati con il Parrilli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Chi ha inventato la strategia navale ? Controverse ragioni della sua ritardata nascita come teoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Dal cannone e dall 'abbordaggio allo sperone: la tattica navale "a vapore" in Europa prima di Lissa . . . . . . . . . . . . . . . . La tattica navale in Italia prima di Lissa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gli accenni alla strategia e alla tattica navale dopo Lissa (1866-1870) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La Marina e La difesa delle coste secondo il capitano di fregata Lovera de Maria (1868) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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CAPITOLO XIV - L'ITALIA E IL MEDITERRANEO: POLITICA NAVALE E ORDINAMENTO DELLA MARINA . .

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Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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SEZIONE I - Verso la Marina nazionale: i problemi e le carenze della Marina sarda nel periodo 1848-1861 . . . . . . . . . . . . L'importanza della Marina sarda e la necessità di rafforzarla negli scritti del Rezasco (1853) e del Sandri (1856-1858) . . . . . . La Marina, il commercio e le riforme necessarie nell'opera "Sulle cose marittime-memorie due " (1857) di Luigi Fincati . . . "Perché non si am,a la Marina militare?" Le violente critiche del Borghi ( 1859-/860) all'operato del Ministro della guerra e Marina La Mannora . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . SEZIONE li - 1861 - 1866: il dibattito sulla fisionomia organica della nuova Marina italiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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IL PENSIERO MlLITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Il (1848-1870)

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"L'Italia deve dominare il Medite"aneo" . .. .. . ............ Pag. 1093 Come eliminare i difetti della Marina sarda? . . . . . . . . . . . . . . . . « 1095 SEZIONE III- 1861-1866: vascello non corazzato a vela e con elica o nave corazzata? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il dibattito in Parlamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Contro la corazzata e per la vela: le posizioni conservatrici del Borghi (1861-1863) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La contestazione delle tesi del Borghi da parte del Saint Bon e del Maldini e la sua improvvisa conversione alla corazzata. . . . .

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SEZIONE IV - Dopo Lissa: cenni sui problemi della Marina e sullo sviluppo delle armi insidiose (mina, sottomarino, siluro) nel periodo 1866-1870 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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LA LEITERATURA MILITARE DELLE GUERRE D ' INDIPENDENZA: BILANCIO E EREDITA' STRATEGICOORDINATIVA . ... . .... .".......... . . . ..... .. ........ ..

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INDICE DEI NOMI Dl PERSONA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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INDICE GENERALE .. : . .. ... .. ... ... ... .... . ....... . .

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