IL PENSIERO MILITARE E NAVALE (1789-1915) VOL III TOMO 1

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STATO MAGGIORE DELL'ESERCITO UFFICIO STORICO

FERRUCCIO BOTII

IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE (1789-1915)

VOLUME III DALLA GUERRA FRANCO-PRUSSIANA ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE (1870-1915)

TOMO PRIMO LA GUERRA TERRESTRE E I PROBLEMI DELL'ESERCITO

ROMA2006


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PRESENTAZIONE 11 presente tomo primo (1870-1915) del volume terzo conclude, per la parte terrestre, l'esame del pensiero militare e navale del periodo 17891915. 11 successivo tomo sarà dedicato al rapporto tra guerra terrestre e marittima, e quindi tra esercito e marina. La ricerca dell 'autore fornisce un quadro esaustivo del pensiero degli scrittori militari italiani emergenti e degli orientamenti strategici e tattici maggiormente seguiti in Italia e in Europa, tra la guerra franco-prussiana 1870-1871 e l' inizio della prima guerra mondiale. Nella vasta panoramica del libro acquistano cosl rilievo numerosi spunti e problenù che rimangono di attualità, tra i qual i basti citare l'impostazione degli studi militari, la necessità di un raccordo interforze, le doti del Comandante militare e la parallela importanza degli Stati Maggiori, il modo ili studiare la storia militare, il ruolo della geografia nùlitare, il linguaggio militare, il dibattito sulle vere origini degli alpini, le proposte dei Quadri per fronteggiare l'antimilitarismo e il correlato nuovo concetto di disciplina, i reali contenuti del "Libretto rosso" del generale Cadorna. Grazie a questi contenuti, mai scontati, la non lieve fatica dell'autore fa luce su diversi argomenti finora poco noti e si rivela di particolare utilità per chiunque voglia approfondire la conoscenza dei problemi dell'Esercito di ieri e di oggi.

IL CAPO UFFICIO STORICO Colonnello Giovanni SARGERl



DETTI MEMORABILI "Qualunque scritto sulla strategia e sulla tattica non deve assolutamente trascurare, nel suo approccio teorico, il particolare punto di vista del suo popolo. E' necessario che indichi una strategia, una tattica nazionali. Solo così facendo renderà un autentico servigio al suo Paese". GENERALE VON DER GOLZ, Condotta della guerra ( 1895) "La disciplina [dell'esercito francese] è felicemente ristabilita, dicono taluni. Occorre avanti ogni altra cosa, dicono altri meno convinti del fatto, ristabilire la disciplina nell'esercito. E quando si domanda a questi ultimi quali sarebbero i mezzi da impiegarsi, rispondono: raddoppiare di severità per i falli commessi contro la disciplina forzando gli ufficiali a darne l'esempio, tener le truppe riunite in campi d'istruzione. Poveri spiriti, che non veggono che la disciplina dell'esercito è solo la conseguenza della disciplina nella famiglia e nella società! Perché nell'esercito prussiano la disciplina è tanto forte e tanto sicura? Per la semplice ragione che i giovani entrano aJ servizio disciplinati, vale a dire abituati fin dall'infanzia all'obbedienza in generale, al rispetto dell'autorità, alla fedeltà, al dovere. Nerisulta che ufficiali e capi non hanno quasi niente da fare per mantenere la disciplina, e ciò spiega per quale ragione si contino sì poche punizioni nel!'esercito prussiano. Ma il credere che oggi possa darsi all'esercito francese una disciplina forte e durevole, non è comprendere ciò che costituisce la vera disciplina. Come si giungerebbe a ristabilirla nel nostro esercito, quando non esiste nelle nostre famiglie? [... J. Così, secondo me la disciplina dell'esercito fu sempre da noi una disciplina fittizia, imperrocché non posso chiamare altrimenti quella che si ottiene coll'aiuto di punizioni e mezzi repressivi [ ... ].La nostra disciplina artificiale ottenuta una buona volta potrà durare un qualche tempo sotto l'imperio delle circostanze dominanti, ma si dileguerà alla prima volta". (dal rapporto dell'addetto militare francese a Berlino colonnello Stoffe/ - 1868) "Assai più intimo che in passato deve oggi risultare il nesso tra l' azione della fanteria e quel1a dell'artiglieria[ ... ]. Tranne casi eccezionalissimi la fanteria non può arrivare a sferrare l'assalto se prima l'artiglieria non le abbia spianata la via spezzando, coll'impeto e la massa del suo fuoco, ogni resistenza avversaria nella zona d'irruzione r...1. Diventa indispensabile per l'attacco assicurarsi l'assoluta superiorità di fuoco nella zo-


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na prescelta per l'irruzione r...]. L'assalto non dev'essere eseguito da masse d'uomini; queste sarebbero votate alla certa distruzione, data l'efficacia delle moderne artiglierie e la possibilità di concentrare sulle zone d ' irruzione masse enormi di fuoco. L'a<;salto va dato, invece, da linee successive non dense d'uomini .....". GENERALE CADORNA, Circ. n. 191 del 25 febbraio 1915 "At1acco frontale e ammaestramento tatlico". "Noi troviamo in effetti , in tutto ciò che si ricollega alla guerra, lutti i diversi caratteri che costituiscono una scienza positiva. Inoltre si dà il nome di scienze esatte a certe branche delle conoscenze umane. Questa denominazione è erronea, perché ogni scienza ha bisogno, per essere veramente tale, di esattezza e di precisione; è dunque questa la condizione sine qua non della scienza in generale e sicuramente di quella militare. Come e più delle altre, essa ha bisogno di certezze assolute, perché è nelle sue applicazioni che gli errori hanno le conseguenze più funeste. La scienza militare va dunque collocata tra le scienze esatte, alle quali si ispira in misura notevole. Come quest' ultime, essa riposa su assiomi poco numerosi, che sono le fondamenta e l'orig ine delle più svariate combinazioni l-.. 1. lo ho detto più sopra che la gue rra ormai possiede tutti i caratteri di una scienza, e che non si può rifiutarle questa denominazione che le appartiene con pieno diritto. Se essa è una scienza, cessa di essere un' arte. Essa esclude l'improvvisazione che in altri tempi era tutto, e oggi invece non è più niente o è poca cosa". GENERALE LEWAL (1875) "Dietro ai ripari bastano uomini, in campagna ci vogliono soldati". GIOVANNI DE TULLIO, Manuale per l 'ufficiale ( 1911 ) "Le vittorie di Pirro sono pericolose. Bisogna perciò commisurare sempre lo scopo da raggiungere e i sacrifici che s'incontrerebbero, per decidere se convengono per quello scopo". GIOVANNI DE TULLIO, Manuale per l'ufficiale (1911 ) "La vittoria si ottiene con la disciplina delle intelligenze e l' azione coordinata di tutti gli sforzi verso lo scopo ultimo, persistendo sino ali ' estremo." GIOVANNI DE TULLIO, Manuale per l'ufficiale (191 l) "Lo spirito offensivo costituisce l'essenza stessa della guerra; e il più


DETfl McMOKAIIJU

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grande pregio dell'azione offensiva sta nell'iniziativa delle operazioni, vale a dire nel vantaggio di imporre la propria volontà all'avversario". GIOVANNI DE TULLIO, Manuale per l'ufficiale (1911) "Virtù essenziale del moderno combattente dovrà essere l'altruismo. Nella battaglia occorre fare ogni sforzo per combattere la naturale tendenza a preoccuparsi esclusivamente delle proprie truppe [ ... ]. L'ambizione personale deve essere ridotta nei limiti imposti dall'utilità comune". GIOVANNI DE TULLIO, Manuale per l'ufficiale (1911) "Fare attenzione alle tante omoninùe del terreno. Adua informi". GIOVANNI DE TULLIO, Manuale per l'ufficiale (1911) "In tattica chi perde il momento favorevole per agire corre pericolo di trovarsi nell'impossibilità di afferrarlo più tardi". GIOVANNI DE TULLIO, Manuale per l'ufficiale (1911) "L'inazione è il peggiore e più condannevole fra gli errori che si possono commettere". GIOVANNI DE TULLIO, Manuale per L'ufficiale (1911) "Ai comandanti in sottordine dovrà essere lasciata sempre quella giusta libertà d'azione che loro permetta di esercitare con piena fiducia il rispettivo comando di guerra, e di imprimere alla propia azione quel carattere personale che, mentre è sicuro di sapere e di volontà, è altresì condizione essenziale per ottenere buoni successi. Ciascun comandante in sottordine dovrà, d'altra parte, ispirare costantemente la propria condotta al supremo fine del conseguimento dello scopo comune, fissalo dal comandante superiore". GIOVANNI DE TULLIO, Manuale per l'ufficiale ( 1911) "Il primo combattimento che ogni condottiero dovrà saper affrontare e vincere sul campo di battaglia, sarà contro sé stesso, per contrastare con vigore la naturale impressionabilità del proprio animo, di fronte al violento e spesso inaspettato succedersi delle varie vicende della lotta e per riuscire così a dominare con la propria volontà, il corso degli avvenimenti" . GIOVANNI DE TULLIO, Manuale per l'ufficiale (1911)

"Le soluzioni più semplici sono sempre quelle che hanno le maggiori probabilità di riuscita". GIOVANNI DE TULLIO, Manuale per l'ufficiale (1911)


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"In Francia ci si è attaccati a questa formula assolutamente priva di senso: Agire secondo il luogo, il tempo e le circostanze; questo equivale a dire: fare come volete. C'è poco da discutere: questa formula conduce direttamente alla sconfitta; l'esperienza lo ha dimostrato". GENERALE LEWAL (1875) "Solo nel momento in cui tutte le forze intellettualj dell'Esercito lavoreranno insieme a edificare la scienza della guerra e si sforzeranno dj approfondirla fino a farne un patrimonio comune, allora solamente si potrà risolvere il problema dell ' avvenire. Giammai si dovrà fermarsi ai risultati ottenuti; al contrario ci dovremo impegnare, con un lavoro comune, a scrutare sempre di nuovo la scienza della guerra, e a intenderla a seconda delle nuove condizioni che nasceranno, senza mai s 'encarter dalla via delimitata da leggi inimitabili". GENERALE VON BERNHARDI ( 1911) "Il fatto che le ricerche teoriche hanno spesso indotto a percorrere false strade portando a risultati incompleti, non ha affatto diminuito la loro importanza per lo sviluppo dell'arte militare. Anzi, esse sono la condizione necessaria per il progresso dell'arte della guerra, quando procedono con metodo e quando non partono da premesse ingiustificate e ingiustificabili per giungere a delle conclusioni che formano, è vero, un sistema logico, ma sono costruite sulla sabbia". GENERALE VON BERNHARDI (1911) "In guerra, bisogna considerare meno i rischi che i successi possibili. Questa è una regola assoluta". GENERALE VON BERNHARDl (1911)

"L'Impero russo non è un paese che si possa conquistare materialmente e cioè che possa essere del tutto occupato. Ciò non è possibile alle forze di nessuno degli Stati attuali dell'Europa L... ]. Un paese di tal natura non può essere domato che per effetto della propria debolezza e della scissione interna". CLAUSEWITZ (Della guerra, libro Vlll - IX). "La grandezza e il genio di tutti i sommi uomini di guerra risulta dal1'accoppiamento di robustissimo raziocinio ad una gagliarda immaginazione". CAP. TANCREDI FOGLI ANI ( 1874)


DETII MEMORABILI

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"Le grandi milizie antiche e moderne furono tutte informate ad un

unico sentimento, che è quello che costituisce l'essenza della professione militare; e consiste nella devozione illimitata dell'individuo al pubblico bene". CAP. TANCREDI FOGLIANI (1874) "In tutti gli altri impieghi è effettivamente retribuito e pagato il lavoro che si presta; ma non è così nella professione mmtare. Ciascuno vede che non sono cose che si paghino il coraggio, il valore, la pazienza, l' abnegazione, la sottomissione costante dell'animo all'impero della disciplina, le ferite, la morte l- .. i. Chi vuole avere il miglior medico, i1 miglior ingegnere, un contabile, un intendente ottimo, spenda, e li avrà; ma dei militari, come dei letterati e dei preti, avviene precisamente il contrario: più li pagherete e peggiori saranno". CAP. TANCREDI FOGLIANI (1874) "Si avrà un bello scervellarsi ad inventare armi e ordinamenti l'uno più perfetto dell' altro: tutto ciò a nulla servirà se i soldati non sono ben risoluti a farsi ammazzare; e per infondere e radicare nei cuori un sentimento così contrario a tutti i sentimenti propri della natura umana ci vuole ben altro che dei freddi calcoli". CAP. TANCREDI FOGLIANI (1874)

"Toujours en vedette è la divisa di chi vuol conservarsi forte e rispettato. Imperiosa necessità esige che si studino e si ristudino profondamente e seriamente le ultime guerre per togliere di mezzo ogni superficiale apparenza, per riconoscere le casualità, per far sgusciare da esse limpido e puro il vero, per guardarsi dagli errori e dalle false deduzioni''. (da un libro sulle escursioni critiche ai campi di battaglia dell'esercito prussiano nel 1866, recensito dalla Rivista Militare 1872). "La professione delle armi è speciale e consiste nel fare un po' a fidanza colla fortuna e nel rendersi degno non pure della ragione, che qualche volta consiglia a disperare, ma anche dell'onore che più spesso comanda di combattere. Guai quando una subdola politica si mesce a sì chiari doveri: tutto ella intorbida e difficilmente viene a quakosa di buono". Gen. NICOLA MARSELLI



INTRODUZIONE Le guerre non hanno el maggior inimico che el parere a chi le comincia che le siano vinte; perché, ancora che le si mostrino facillime e sicurissime, sono sottoposte a mille accidenti, i quali si di,\·ordinano di più se a chi le apartengono non si trova preparato con L'animo e con le forze, come sarebbe da principio se vi si fussi ordinato drento come se le _fussino difficile.

GUICClARDINI, Ricordi

In una più vasta prospettiva storica, la guerra franco - prussiana J870 - 1871 può dirsi l'ultima di sapore napoleonico dell'età contemporanea. L' ultima guerra, cioè, nella quale i] vincitore è stato veramente tale, perché capace di battere nettamente, in un periodo relativamente breve e con poche battaglie decisive - quindi economicamente - l'esercito nemico, per poi occupare la capitale e imporre una pace onerosa per il perdente, che ha dovuto rinunciare a una parte dei tcrritod di frontiera e pagare ingenti riparazioni di guerra. L'ultima guerra, infine, nella quale l'accresciuta potenza deJle armi da fuoco, il telegrafo, le ferrovie, le prime mitragliatrici non hanno affatto ostacolato, ma anzi favorito l'offensiva, e neHa quale la già chiara tendenza verso la " nazione armata" - intesa come mobilitazione totale dei cittadini atti aHe armi - ha fornito eserciti ancora relativamente maneggevoli dell'ordine del centinaio di migliaia di uomini, nei quali la qualità prevaleva, segnando un'indubbia differenza rispetto aHa sanguinosa "guerra di masse" poco addestrate e spesso mal comandate che già era comparsa nel Nord - America con la guerra di secessione 1861 - 1865. Una guerra, dunque, che è stata anche il trionfo degli Stati Maggiori e dell'organizzazione mrntare in senso lato. Lo Stato Maggiore germanico, l'accurata preparazione e organizzazione che ha potuto far pesare sui campi di battaglia, la professionalità e capacità de i Quadri, l'elevato livello addestrativo, il valore e la disciplina (naturale e non imposta) dimostrati sul campo dalle truppe della nuova Germania, ne hanno fatto fino alla


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prima guerra mondiale un costante modello per tutti gli eserciti del continente, a cominciare dalla stessa Francia. Fino alla prima guerra mondiale, abbiamo detto; questo accredita la validità del motto del Guicciardini, che ben riassume l'orientamento del pensiero militare italiano ed europeo dell'intero periodo in esame. Nel quale non mancano certo spunti validi, ma molto raramente si sfugge al mito della guerra breve e decisiva, della debellatio dell'avversario, in una parola: della guerra napoleonica, che si spera di poter rinnovare anche se è ben viva, anzi diffusa, la percezione del peso anche logistico delle masse armate, dell'aumento della potenza di fuoco e persino dell'importanza crescente della trincea. Lo stesso generale tedesco Von Schlieffen, celebre autore dell'omonimo piano offensivo contro la Francia naufragalo nel 1914 anche per demerito del successore, nel 1909 prevede che l'esercito combattente nella guerra futura non potrà superare di mollo il milione di uomini, e ritiene che le lunghe guerre "non sono possibili in un'epoca come la nostra, in cui l'esistenza della nazione si basa sull'andamento costante del commercio e dell'industria: la ruota che è stata fermata ha bisogno di riprendere al più presto il suo corso, dopo un.a rapida azione decisiva ..... ". 1 Previsione senza dubbio errata: ma che contiene anche più di un briciolo di verità, visto che la mobilitazione totale o quasi degli uomini alti alle armi (e quindi la stessa formula della nazione armata) se si prolunga provoca nella vita economica e sociale del Paese squilibri tali, da riflettersi sulle stesse possibilità di alimentazione della guerra e da soffocare gradualmente l'intera Nazione: cosa in certa misura avvenuta nella prima guerra mondiale per gli Imperi Centrali, e non avvenuta per le potenze dell'Intesa e per l'Italia solo grazie ai rifornimenti americani. Nelle parole del Von Schlieffen affiora anche la tendenza a confondere volere con potere, che è tipica del periodo e coinvolge i politici prima ancor che i militari: nonostante la rivoluzione industriale e l'aumento della mole degli eserciti si deve privilegiare la guerra breve e offensiva, perché si dubita fortemente che i popoli, le economie nazionali possano reggere a una guerra lunga; così come si deve imitare Napoleone e quindi l'esercito germanico, il quale nel 1870- 1871 ha dimostrato, appunto, che è possibile seguirne l' insegnamento anche con i nuovi mezzi di guerra e senza disporre di condottieri a lui pari_ In tal modo tutta la nuova realtà della guerra viene vista fino al 19 14 sotto l'ottica, sotto il filtro condizionante delle vittorie prussiane

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Generale Von Schlicffcn, La guerra di oggi, in "Nuova Antologia" 16 gennaio 1909.


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del 1866 e 1870-1871. Scrive Benedetto Croce trattando dei riflessi di tali vittorie: se il risorgimento italiano era stato il capolavoro dello spirito liberale, questo risorf?imento della Germania era il capolavoro dell'arte politica e della unita virtù militare I ... ]. L'impressione per questa rapida, sfolgorante ascesa della Germania fu grandissima, pari allo strepito di quelle vittorie; né si risolse tutta in ammirazione [ ... (. Ma nei più, l'ammirazione plaudente, che segue la buona fortuna, prevalse, e, con L'ammirazione, la spinta imitatrice; e, sejì,n dalla f?Uerra del '66 si era preso a studiare come modello l'ordinamento militare prussiano, e altresì l'ordinamento scolastico (al quale si soleva attribuire gran parte della villoria degli eserciti, onde si disse che a Sadowa aveva vinto il maestro di scuola prussiano), ora l'ammirazione si estendeva alle altre parti della vita tedesca e alle disposizioni stesse della mente e dell 'animo[ ... (. Ed era naturale, e anche giovevole, come tutto ciò che porta a meglio conoscere la realtà, lo svanire delle illusioni democratiche sulla magica efficacia di talune parole, sui miracoli dei volontari e della nazione sollevantisi in armi; e già daxli ultimi casi della Polonia e dell'Italia si erano venute raccogliendo Lezioni in questo senso, e nella "dircsa nazionale" del Gambetta, che fece prorompere dal suolo francese eserciti sopra eserciti e pur non valse a ricacciare l'invasore ben disciplinato e tecnicamente preparato, si esaurì ,La leggenda dell'invincibilità dell'impeto patriottico popolare, nato da un'alquanta fantastica storia militare della grande Rivoluzione. 2

Con il modello di esercito regolare germanico trionfa anche la guerra tra Slali e tra eserciti regolari, regolarmente dichiarata e con esclusione delle popolazioni civili, che è nella prospettiva di Clausewitz e ancor di più di Jomini. All'inizio degli anni 2000, e con il largo spazio occupato già nella seconda guerra mondiale dalla guerra alle popolazioni civili, siamo perciò costretti a rimpiangere quanto si legge in un'istruzione del 1888 per i nostri ufficiali di Stato Maggiore: Lo stato di guerra comincia di diritto con la dichiarazione di guerra. Lo

Stato invaso senza dichiarazione di guerra, ha diritto di traltare i soldati nemici come individui che commettono un'aggressione a mano armata. Si ammette generalmente che La guerra è diretta contro le forze organiz2

Benedetto Croce, Storia d 'Europa nel secolo X IX, Bari, Laterza 1953 (8' Ed.), pp. 248-249.


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zate dello Stato nemico e non contro i cittadini disamzati; appunto per ciò ogni Stato ha diritto di garantirsi che i soggetti del nemico non facciano atti di guerra. Quindi la distinzione fra belligeranti e non belJigeranti: i belligeranti che cessano di resistere, si fanno prigionieri, i non belligeranti presi con le armi alla mano sono trattati secondo quanto impongono la necessità di guerra e l'interesse della propria difesa. Sono belligeranti gl'individui costituenti i corpi militari degli eserciti regolari e quelli delle milizie che fanno parte integrante dell'organizzazione militare degli Stati (milizie territoriali, landwehr, guardie nazionali, ecc.), quando siano ordinate militarmente, abbiano un capo di cui si possa constatare l'autorità, e siano muniti di un segno unifonne esteriore, riconoscibile a distanza. Sono pure considerati come belligeranti gl'individui dei corpi volontari, o corpi franchi, alle stesse condizioni delle milizie, e quando, inoltre, siano ordinati dal potere centrale dello Stato ed agiscano come forze regolari; quando invece si organizzano spontaneamente, od anche col consenso dello Stato, ma su molti punti del paese e si moltiplicano per far guerra spicciolata e da partigiani, per sorprese ed imboscate, la necessità di guerra può costringere l'avversario a non riconoscerli come belligeranli. Lo Stalo che proclama la leva in massa ed ordina la guerra individuale, rinuncia con ciò all'uso di guerra, il quale protegge i soggetti inoffensivi, e mette l'avven;ario nella necessità di non riconoscere in alcune armate la qualità di belligerante. Gli abitanti di un paese invaso che facessero atti di guerra contro l'invasore, non possono essere considerati come belligeranti. Tuttavia, quando la popolazione d'un abitato aperto e non difeso da truppe regolari, prende le armi per difendere il sito natio, suol essere trattata coi riguardi dovuti ai belli,:eranti, purchè, cessata questa legittima e naturale difesa, si sottometta senza restrizione alla legge del più forte. T prigionieri di guerra sono prigionieri dello Stato e non dei corpi o individui che li costrinsero alla resa. Sono trattati con umanità e rispetto; possono essere internati e messi sotto la vigilanza dell'autorità militare, ma non imprigionati, salvo per misura di sicurezza sotto l'impero della necessità; sono mantenuti dallo Staio che li fa prigionieri, il quale, in generale, accorda loro lo stesso trattamento delle proprie truppe; sono sottomessi alle le,:,:i e regolamenti militari in. vigore nello Stato, in cui sono detenuti, e devono sottomettersi a tutte le disposizioni d'indole disciplinare che l'autorità militare locale crederà loro imporre. Non si può usare violenza verso i prigionieri.... 3 3 Comando del Corpo di Stato Maggiore, Memoriale per /'ufficiale di Stato Maggiore in guerra, Torino, Tip. Camilla e Bertolero I 888. para. 412-41 S.


INTRODUZIONE

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Il busto di Napoleone, che tuttora guarda verso l'ingresso della nostra antica Biblioteca Militare Centrale di Roma, ben simboleggia il modello di guerra in auge non solo fino alla prima guerra mondiale, ma anche fino alla seconda e - in parte - fino alla guerra fredda, dove si è sempre ricercata, in definitiva, la rapida debellatio dell'esercito nemico. Esso ben simboleggia l'accentuato storicismo, che domina nel periodo in esame e nella prima metà del secolo XX, per il quale basti citare quanto scriveva il generale Maravigna nel 1940: IL pensiero militare - come del resto in tutti gli eserciti e come è logico - ha trovato in Italia più ampia palestra e più alteu.a di sviluppo nel campo storico. La storia dell'arte della guerra non è L... I un orpello o un obietto di erudizione - come purtroppo da molti si crede erroneamente - o una branca di cultura generale, come potrebbe essere per tutti gli altri professionisti, letterati, scienziati; ma è la base essenziale della preparazione teorica professionale al comarulo. I.a dimostrazione di tale asserto è verità intuitiva e confermata da tutti i grandi maestri della scienza militare e sovrattutto da tutti i grandi condottieri di eserciti. Basti ricordare, del resto, come nella evoluzione del pensiero italiano, la storia abbia costituito la fonte prima dei principi e la· base unica del metodo della scienza militare. 4

Lo storicismo e l'ancoraggio preconcetto al modello napoleonico provocano, inevitabilmente, un approccio prevalentemente dogmatico e jominiano all'arte della guerra. Come tutti i grandi scrittori militari, Clausewitz scrive prima di tutto per il suo esercito e il suo Paese, e in Germania anche nel secolo XX è tenuto in grande onore: ma, nelle altre nazioni, pur essendo citato è spesso male interpretato o seguìto solo in parte, come avviene anche in Italia.5Ad esempio tutti gli eserciti e la massima parte degli autori ammettono anticlausewitzianamente - la validità di principì costanti e immutabili, a cominciare da quello della massa; e gli stessi tedeschi - come del resto gli altri - hanno fatto un dogma della frequente predilezione del generale prussiano per la guerra offensiva mirante ad abbattere l' avversario, tralasciando altre parti della sua opera, e in particolare l'affermazione che la guerra è come un camaleonte e che i principi sono utile esercizio teorico ma non possono ac-

4 Pietro Manivigna, Il pensiero militare italiano dalle guerre napoleoniche ai nostri giorni, in " Rassegna di Cullum Militare" I / 1940, p. 30. ' Sull' effeuiva influenza di Clauscwitz in Italia si veda Ferruccio Botti, À la recherche de Clausewitz en Italie: so11ve11/ cité, peu appliqué, in "Stralègi4ue" (Institut de Stratégie Comparéc, Paris) n. 78-79 - 2/3 2000, pp. 141- 167.


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compagnare il Capo sul campo di battaglia. Clausewitz non ammette dogmi; ma il dogmatismo vive e sopravvive sia pur in misura diversa in tutti gli eserciti, non escluso quello tedesco. Per quanto riguarda più propriamente il pensiero italiano, l'attenzione della stampa militare per le soluzioni straniere - e non solo germaniche - è costantemente viva. L' interrogativo al quale si cerca di rispondere è - in ogni settore - uno solo: fino a che punto tali soluzioni (con particolare riguardo al modello ordinativo e di reclutamento germanico) sono applicabili alla realtà italiana? Le risposte sono diverse, ma tutte condizionate da due fattori e/o convitati dì pietra: la difficile realtà politico - sociale nazionale e i limiti di bilancio. In tal modo le soluzioni generalmente riconosciute come le più razionai i da un punto di vista strettamente tecnico - militare (come ad esempio il reclutamento regionale) perdono spesso terreno, e passano in seconda linea, a fronte di esigenze extramilitari e/o istanze politiche. Ciò avviene a cominciare dall'impiego dell'esercito - e in particolare della fanteria e cavalleria - in un esteso ventaglio di compiti extra - militari , che non si compendiano solo nel poco gradito intervento in ordine pubblico per ovviare alla scarsità di Carabinieri, mantenuti ad organici insufficienti per ragioni di economia. Compiti che hanno pesanti e riconosciuti riflessi sull'efficienza dell'insieme, in tanto in quanto non rispondono a esigenze temporanee ed eccezionali, ma ad orientamenti costanti che nessun governo mette in discussione. Dopo il 1945 l'impiego dell'esercito in ordine pubblico è stato spessoricordato, quando non demonizzato come se si trattasse di una scelta autonoma dei vertici militari; ma nessuno oggi ricorda le benemerenze sempre acquisite dall'esercito nell'intervento in caso di calamità naturali, che non e ra istituzionalizzato e previsto per legge (come oggi), ma che è sempre avve nuto in modo massiccio, efficace, insostituibile. Ad esempio con online dei giorno in data 19 novembre 1872 il Ministro Ricotti attesta che anche questa volta, in occasione delle inondazioni che ha11110 ;;m vemente minacciato alcune città della Toscana e devastato la co11trada del medio Po, il soldato italiano ha dimostrato clu, 11011 rist,ì mai dallo affrontare e sostenere fatiche, sacrifì,zi e pericoli d 'o"11i specie per impedire o almeno alleviare Le sventure ai pmpri ,·itt,uli ni. Le truppe delle divisioni di Firenze, Bologna, Vem na, Hulow, ,·ti Alessandria, chiamate a soccorrere, hanno dato a111111imhili 1'.l'l'11111i di abnegazione e fraterna carità." 6

" Giornale Mili1are Ufficiale" 1872. p. 574.


INTRODUZIONE

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Con altro ordine del giorno in data 29 giugno 1879 il Ministro Mazé de La Roche loda le truppe, perché i disastrosi eventi che funestarono testè alcune province del Regno hanno dato speciale occasione all'esercito di acquistare nuovi titoli di benemerenza verso il paese [ ... ]. L'opera intelligente, volonterosa e sempre ispirata dalla più devota abnegazione prestata dalle autorità militari e dalle truppe, ha contribuito efficacemente, mercé opportuni provvedimenti di difesa, di soccorso e di salvataggio, a limitare l'estensione dei disastri e a mitigarne le conseguenze. 1

E si potrebbe continuare, fino al terremoto di Messina all'inizio del secolo XX e alla prima guerra mondiale. Per altro verso l'esercito italiano - non potrebbe essere altrimenti - vive e opera in una realtà nazionale assai difficile, nella quale a fine secolo acquistano vigore anche nella borghesia forti correnti non tanto antimilitariste ma antimilitari, mentre a tutto ciò che riguarda gli aspetti tecnici del problema militare viene dedicata dalla pubblica opinione ben scarsa attenzione. Scrive il colonnello Minonzi nel 1874: se gli studi seri non abbondano troppo in Italia, quelli poi di cose militari, fuori dell'esercito, possono dirsi piante esotiche di cui i più ignorano l'esistenza. Fatto doloroso, quando si consideri che se gli studi militari, i quali toccano tanto da vicino l'onore e l'esistenza :,;tessa della nazione, ebbero sempre, anche per lo passato, grande importanza per ogni classe di persone, ne dovrebbero avere una molto maggiore ai nostri giorni in cui (prevalendo il principio del servizio obbligatorio per tutti), ogni cinadino dovrà considerarsi soldato. Fano quanto doloroso altreuanto vero, giacché io credo che non vi sia paese che eguagli il nostro nella generale e diciam pure crassa ignoranza di tutto ciò che si riferisce ali ' Esercito. K

La situazione non muta di molto nel prosieguo del secolo XJX, e - per la verità - nel XX secolo, fino ai nostri giorni. Viene pertanto da chiedersi: qual è la qualità - e la quantità - della letteratura militare che corrisponde a questo poco favorevole contesto "esterno"? In proposito sono

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"Giornale Militare Ufficiale" 1879, Parte I p. 409.

• C. Minonzi, La difesa dello Stato, in "Nuova Antologia., Voi. XXVI Fase. VII luglio .1874, p. 705.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL 111 (1870-1915)-TOMO I

state espresse due opinioni coeve contrastanti: quella - oltremodo ottimistica - del capitano Sticca, e quella - assai critica, almeno sulla qualità che si trova in una sinossi del 1910 della Scuola Militare di Modena. Lo Sticca (1912) scrive che l'attività magnifica che in questi ultimi tempi esercito e marina spiegarono nel campo degli studi, ha superbamente fruttificato. Osiamo affermare che La letteratura militare compete oggi per venustà di forma e per vigoria di pensiero, con quella civile. Ha scosso L'indifferentismo del pubblico, spazzato dalle radici il vieto pregiudizio che milizia significhi ignoranza e immobilismo. IL mito di Minerva si è fatto realtà, il connubio tra azione e pensiero, s'è compiuto. E si è incarnato il voto che il beneamato maestro Tancredi Fogliani un dì formulava: che le lettere,fecondatrici del carattere, fossero largamente coltivate dà soldati, "gente operativa per istituto di vita", onde attingerci virili energie, sensi italici, arginatori dello straripante scetticismo e della belante mollezza contemporanea 1-. -1- Educati a rigoroso metodo, i nostri autori portarono per entro a' loro scritti tale uno spirito di osservazione e di indagine, tale serietà di intendimenti, da imporsi anche a ' più avversi e più testerecci. Parecchi gareggiano, in tutti i rami dello scibile, coi letterati e gli scienziati di professione; possediamo storici, sociologi, geografi, topografi, in,?e,?neri, medici, marinai di fama europea, la cui parola è ascoltatissima, il cui parere è accetto e cercato accolti ne' cenacoli letterari, nelle accademie, membri de' più augusti e celebrati consessi. E tanti sono, che il solo menzionarli tutti sarebbe disperata impresa. Ne' meno arduo torna il procedere a una scelta tra essi.... 9

Ben diverso il parere espresso dalrignoto compilatore delle Sùwssi Ji Letteratura italiana della Scuola Militare di Modena, che si richiama anche a Carlo Corsi: La stampa militare dopo il 1850 è divenuta oltremodo feconda 1-.. ]. Dal dominio della storia e della strategia, nel quale s'era ge11eral111e11te ristretta in passato, la critica s'estese a tutto il campo vastissimo dello scibile militare. Ma quanti (dice il Corsi), sono i prodotti degni de>:l'i11gegni italiani? quanti i veri autori che furono orig inali e acc1"l'hbe ru il patrimonio del sapere? Pochi, pochissimi. Né il dife tto, salvo le onore-

9

Giuseppe Sticca, Gli scrillori militari italia11i, Torino, Cassone 191 2. pp. 22K-229.


INTRODUZIONE

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voli eccezioni, è solamente di ,\·ostanza, di originalità, ma eziandio di forma, cioè di purezza di lingua e di pulitezza di stile. 10

Merita di essere ricordato, infine, quanto afferma subito dopo la prima guerra mondiale il generale Guido Liuzzi, comandante della Scuola di Guerra: la cultura militare, che brillò quale aspetto concreto di sapere univer-

sale in tanti nostri meravigliosi Uomini della Rinascenza; che nella prima metà del secolo XIX.fu accolta nelle Università italiane - specie in quella di Torino - e coltivata con tanto fervore, ai fini pratici del Risor,?imento, da tanti Spiriti eletti, nella seconda metà dello stesso secolo XIX sembrò perdere il carattere di universalità, e divenne l'esclusiva proprietà e cura delle scuole militari. Molte ragioni concorsero a ciò, che or non è il momento di ricordare. Importa però sommamente di rilevare come quella notevole impreparazione di uomini e mezzi, che lamentammo allo scoppiare della f?Uerra europea del 1914 [ ... ], dipendesse almeno in parte da quel ritrarsi della cultura militare dalla scuola civile, e dall'abbandono in cui veniva lasciata dagli uomini di scienza, di lettere, di politica, di arti ecc... 11

Solo alla fine della nostra indagine sarà possibile stabilire in che misura e perché ciascuno di questi giudizi si avvicina alla realtà. Intanto dobbiamo prendere atto di due caralleri indiscussi, indiscutibili della letteratura militare del periodo: il gran numero di opere e articoli e la sorprendente libertà di dibattito e di critica (non manca nemmeno qualche polemica .... tra le riviste stesse dell'esercito), grazie alla quale le pagine dei principali periodici, militari e non (ci riferiamo specialmente - e non solo - all'autorevole Nuova Antologia) diventano veramente la classica palestra per un confronto di idee che coinvolge sia ufficiali subalterni, sia ufficiali di grado elevato anche in servizio. Sintomatica, in proposito, è una circolare ministeriale del 1879: Avviene non di rado che ufficiali trattino pubblicamente per le stampe argomenti gravissimi intorno al nostro stato militare, con critica poco

10

Scuola Mililarc, Sinossi di letteratura italiana della seconda metà del secolo XIX e di lelleratura militare contemporanea, Modena, Soc. Tip. Modenese 19IO, p. 124. 11 Gen. Guido Liuzzi, Prefazione al volume del Gabinetto di Cultura della Scuola di Guerra «Saggi di scil!nza militare per uso degli studenti universitari», Torino, Schioppo 1925, p. 5.


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- - - " I'L " -'PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. lii 1870-191S)- TUMO I

seria e talvolta ispirata a pessimismo. Il risultato che possono avere siffatte pubblicazioni essendo di scemare il sentimento di fiducia che esercito e paese debbono avere negli ordinamenti e nei mezzi di difesa dello Stato, è chiaro che gli autori delle medesime offendono direttamente non solo la disciplina colle critiche indirette che talvolta fanno delle disposizioni superiori, ma ben anche quel sentimento di onore che obbliga solidamente tutti i militari a conservare ed accrescere, in ogni modo possibile, il prestigio e la forza morale delle armi nazionali. 12

Nel ricordare agli ufficiali quanto prevede l'Art. 143 del Regolamento di disciplina, il Ministro li invita a riflettere sulle responsabilità che si assumono pubblicando i loro scritti, quindi a "contenersi in quel prudente riserbo che la trattazione di questioni tanto delicate e di tanto interesse richiede". E per l'occasione stigmatizza anche il comportamento di taluni ufficiali (evidentemente di grado elevato) i quali "si rivolgono, senza autorizzazione, direttamente con circolari ai capi di corpo o di servizio invitandoli a divulgare fra i loro dipendenti pubblicazioni o schede di associazioni ad opere da pubblicarsi''. Queste parole non incoraggiano certo gli ufficiali a far conoscere liberamente il loro pensiero, tanto più che vi si parla (genericamente e non su aspetti specifici) di "riserbo"; tuttavia non sembra che i Quadri ne tengano gran conto, visto che fino alla guerra mondiale parecchi ufficiali continuano a scrivere, ad esprimere abbastanza liberamente il loro parere, a confrontarsi e talvolta anche a polemizzare, se mai aumentando il numero di contributi, che raggiunge un punto di massima proprio a cavallo del 1900. In un siffatto contesto, come già accenna lo Sticca fa d'uopo rinunciare in partenza a fornire un'immagine completa e esaustiva del troppo vasto materiale. Daremo pertanto conto specialmente del confronto di idee su argomenti che abbiamo motivo di ritenere di maggiore interesse attuale o tali da richiedere qualche doverosa puntualizzazione. Per altro verso, ci sembra di efficacia assai dubbia l'imperatoria brevitas; se l'evento storico - e ancor più il travaglio d 'idee che lo prepara, lo accompagna e lo segue - è complesso e variegato, far corrispondere a tale complessità una sintesi sempre soggettiva significa correre il rischio di perdere pezzi importanti e alimentare il solito inconveniente dell 'autore citato a pezzi e a bocconi o, peggio ancora, per sostenere quelle tesi preconcette dalle quali vogliamo rifuggire, pur senza rinunciare a nostri giudizi e a ragionate valutazioni. Per questo suddivideremo la materia in due diversi Tomi, dei qua12

"Giornale Militare Ufficiale" 1879, Pane I p. I.


INTRODUZION!l

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li il primo - quello qui introdotto - è dedicato alla guerra terrestre e agli strumenti per combatterla, mentre il secondo è dedicato al rapporto esercito - marina nell'ambito della difesa nazionale, e al ruolo e ai problemi della marina riel quadro della predetta difesa. In tal modo intendiamo far emergere, in una prospettiva comparativa interforze, interfacce e problemi di elevato interesse per ambedue le Forze Armate, che sono studiati assai raramente in una pubblicistica militare ove di solito operano separatamente scrittori "terrestri", "navali" e "aeronautici''. Naturalmente la metodica è la stessa dei precedenti volumi, che abbiamo trovato in buona misura riassunta da un autore del periodo, il colonnelJo Fabris: i punti cui, a quanto sembra, ci lega una storia letteraria militare concepita secondo i desideri e le idee moderne, son questi: esporre sommariamente l'opera dei principali scrittori in ciascun periodo storico, rimellendoli nell'epoca in cui vissero come nella loro nicchia naturale e aggiungendo intorno a loro i seguaci e gl'imitatori il cui ricordo valga la spesa; misurare l' influenza esercitata da tutti costoro sui contemporanei e sui posteri, quella esercitata dlii tempi su di loro, e finalmente ricavare da tutto questo Lavoro analitico il pensiero predominante di ciascuna epoca, considerandolo come una fase di un lungo processo evolutivo, di cui è utile ricercare l'andamento. Senza di ciò le indagini perdono ogni interesse, lo l'tudio rimane un puro sforzo d'erudizione, e l 'e!>posizione divaga senza misura precisa, mancandole uno scopo pratico che ne proporzioni le parti e dia coerenza al tutto. 13

Per evitare - cosa tutt'altro che facile - gli inconvenienti ai quali accenna il Fabris è indispensabile condurre un'analisi critica e comparativa dei vari contributi, senza dimenticare il paragone con gli orientamenti e le realizzazioni d'oltralpe, ai quali peraltro i nostri autori e le nostre riviste dedicano un 'encomiabile e costante attenzione, superiore di molto a quella di oggi. Naturalmente in un siffatto approccio non c'è alcun spazio per quella che secondo Benedetto Croce non è " vera storia" ma solo "storia oratoria", volta cioè a esaltare o commuovere gli animi e "indirizzata al bene beateque vivendum, con l'ufficio di censurare. elogiando e biasimando. le umane azioni, e di fornire paradigmi di bene e di male alla mo-

13 Cecilio Fabris, A proposito di storia della leueratum militare, in " Rivista Militare Italiana" Anno XL Voi. lii Disp. VII 16 luglio 1905, pp. 1537- 1538.


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_,, IL""P_,, E~NS,e,lF.RO MILITARE E NAVALE ffALIANO- VOL lii ( 1870- 1915) - TOMO I

raie, alla politica e alla vita tutta ". 14 Né, a maggior ragione, e' è spazio per storie troppo parziali o settoriali, di Arma o di Forza Armata, che sono spesso la risultante di dissezioni arbitrarie e approssimative_e quindi di vere e proprie deformazioni. Nell'intesa che ogni medaglia ha il suo rovescio, che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria e che la pe,t'ezione non accompagna l'opera del1'uomo, intendiamo piuttosto volgerci alla storia non per esaltare, condannare, difendere o attaccare, ma per capire e far capire; non per ricercare - come è avvenuto fino al 1940 almeno - dogmi, principi, postulali scientifici, concetti - guida per l'azione, ma per studiare un' insostituibile, preziosa e multiforme esperienza, che ci aiuti a capire meglio anche il presente . In tal modo ci sforziamo di rendere onore a questo ammonimento del generale Perrucchetti: non andiamo a cercare scuse, ricordiamoci che nessuno è infallibile, e che uno dei meriti maggiori di Federico il Grande fu quello di aver Lealmente confessato, nelle sue memorie, gli errori militari che egli aveva commessi; rammentiamo che i suoi ammiratori tedeschi non hanno nwi mancato di seguire quel nobile esempio di modestia; imitiamoli, mostriamoci più devoti alla ricerca del vero che ostinati nelle idee preconcette; sgombriano il cammino della verità, lasciamo che essa risplenda di tutta la sua Luce, e ad essa affidiamoci". 15

In fondo l'approccio del Perrucchetti si avvicina notevolmente al concetto di "vera storia" del Croce, che non è pura e asettica analisi erudita del passato, indagine filologica o culto di un materiale d'archivio spesso ad arte incompleto e sempre insufficiente per valutare appieno le umane decisioni e azioni, né vuol essere "magistra vitae" o "tribunale di alta giustizia", ma piuttosto storia nella quale il presente rischiara il passato e il passalo il presente, reciprocamente convertendosi e identificandosi, e i rnnlrasti e bisogni della vita attuale s'innalzano a pensiero. Conos('enza, dunque, non di un passato morto ( che in quanto tale sarebbe inconoscibile) ma di un passato - presente, donde la definizione che la vera s/oria è sempre storia "contemporanea", anzi è la sola alla quale si addica questo nome

14 Benedetto Croce, Gli studi storici nella varietà del/i' lom forme e i loro doveri preu111i (in "Ultimi Saggi", Bari, LaterLa 1935, pp. 3 13-3 15). 15 Giuseppe Perruccheui, La difi,sa dello Stato. Torino, Roux e Favale 1884, p. 2 12.


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INTRODUZIONE

[ ... ). Si parte, nel processo storiografico, dal problema pratico ancora oscuro e vago, e a questo si ritorna, ma, per così dire, rischiarati e perciò messi in grado di far trapasso alla concretezza dell'operare. Il che mostra quanto siano superficiali le accuse, mosse alla storia, di "inutilità", laddo ve la riflessione storica, nel suo piccolo o nel suo grande, interviene sempre in ogni deliberazione e forma il transito a ogni nostro operare; e le aitre accuse che essa culli lo !ipirito nell'inerzia della contemplazione, laddove proprio lo spirito non inerte, ma inquieto e bramoso di azione, è quello che la muove e se ne giova.••

Auspichiamo che il lavoro fin qui compiuto, e quello che ci accingiamo a compiere, confortino e non smentiscano questo concetto di storia del Croce. L'obiettivo è fin troppo ambizioso, i trabocchetti e pericoli si trovano a ogni pa<;so; ciononostante contiamo, più che sull'approvazione, sull'attenzione dei lettori per uno sforzo che riteniamo utile e necessario, quindi doveroso. Ferruccio BOTII Roma, dicembre 2005

16

Benedetto Croce, Op. cii., pp. 318-319.



PARTE PRIMA

I GRANDI MAESTRI DI PENSIERO: RICCI, MARSELLI, PERRUCCHETTI, BARONE



CAPITOLO l

IL PREVALENTE INFLUSSO DI JOMINI E LE POLEMICHE SUL RAPPORTO ESERCITO-MARINA PER UNA DIFESA UNITARIA DELLO STATO NEGLI SCRITTI DEL GENERALE AGOSTINO RICCI

Premessa Soldalo valoroso e colto, comandante esperto, autodidatta e tuttavia insegnante per lunghi anni nelle più elette scuole militari , Agostino Ricci (d'ora in poi A.R.) è sotto diversi aspetti una figura anomala del pensiero militare italiano nella seconda metà del secolo XIX. Poche volle come nel suo caso, vita, opera e indole dell'uomo si intrecciano insieme e anzi si fondono. I suoi scritti non possono essere ben compresi se non collegali al!' attività di insegnamento da lui svolta fin da giovanissimo sollotenente; e lutto vorrebbero essere, meno che l'espressione di uno scolasticismo, di un pretenzioso dottrinarismo estranei alla formazione e alla mentalità dell'uomo, ben convinto che J'arte militare è volta all'azione. Non ha mai frequentato scuole militari regolari; ciononostante, da semplice volontario a sedici anni nel 1848 raggiunge il grado di tenente generale comandante in 2• del Corpo di Stato Maggiore (1884) ed è successivamente nominalo comandanle del II corpo d'armata di Alessandria (1891). Deputalo al Parlamento per due legislature ( 1882 - 1890), viene nominato senatore nel 1894 e nello stesso anno lascia il servizio. Gli ultimi anni della sua vita sono amareggiati da contrasti con l' establishment dell'esercito del tempo, per il suo atteggiamento fin troppo favorevole alla marina anche e soprattutto in Parlamento (intrattiene cordiali rapporti e dialoga con Domenico Bonamico, da lui conosciuto nel 1870 alla Scuola di Guerra di Torino). Come tanti della sua generazione, rimane segnato dal l'esperienza del 1848/1849 e da essa trae ammaestramenti opposti a quelli di molti commilitoni garibaldini, in questo avvicinandosi a Carlo De Cristoforis. DaJle vicende di quella guerra per lui deriva infatti un ammaestramento fondamentale: solo con un forte esercito regolare, solo con la disciplina, l'organizzazione, lo studio severo, il diuturno e appassionato lavoro si potranno eliminare i gra-


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11. PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. 111 (1870-1915) • TOMO I

vi inconvenienti emersi in quella campagna sfortunata, nella quale - come giustamente osserva nel libro di memorie Un volontario del 1848-1849 - non sono mancati i mezzi materiali, ma quelli morali; sono mancati un 'educazione politica, un chiaro concetto direttivo politico e quindi anche militare. Divisioni; principotti che mandano le truppe contro l'Austria, ma con riserva; azione dissolvente dei partiti politici; la Lombardia che agisce come Stato a sé stante, quando invece dovrebbe subito unirsi al Piemonte per formare quel fascio di tutte le forze vive del paese, senza il quale è un'illusione sperare in un successo definitivo. 1 Lo stesso concetto di Garibaldi e Balbo... Ha modo di constatare, per esperienza diretta, come sono stati trattati e male utilizzati nel 1848/1849 i volontari, "lasciati in balìa di sé stessi, senza organizzazione, quasi senza comando e senza Quadri, facile preda per i partiti politici" . Ciò è avvenuto perché il grande patriota che riposa a Caprera [cioè Garibaldi - N.d.a.] non avea ancora, a quell'epoca, animato dal suo spirito potentissimo il volontariato italiano. Disordini, fughe, panici, accuse, recriminazioni, ecco la storia dolorosa dei primi volontari italiani. Che se non mancò a quella storia qualche bella pagina di valore, ciò non torna ad altro che a dimostrare quale fosse il partito che si sarebbe potuto trarre da questo elemento quando fosse stato curato, disciplinato e ben diretto. 2

Nella notte che segue la tragica giornata di Novara (23 marzo 1849) viene messo a guardia di un ponte sulla Sesia con un plotone raccogliticcio, che poi si sbanda. E si chiede: a che cosa deve la sua forza una vecchia monarchia come quella austro-ungarica, che sta lottando con s uccesso contro due giovani nazionalità, come l'italiana e l'ungherese? Non certo al diritto, né alle simpatie dell 'Europa: il fatto è che " queste veffiiit• istituzioni militari, delle quali è cosa tanto facile fare buon IIIN<'"'"· so110 sempre qualche cosa con cui bisogna contare. E che cosa e) " ' "' ti1•11t' 11s sieme questi vecchi reggimenti, composti di soldati, i cui ,·01111111trioti. i cui parenti sono in rivolta e forse in questo momento si ba1to110" flt,.,·tl,, "f>u•sburgo, a Vienna stessa? È La tradizione militare, è lo spirito di n111>0, 1) il vincolo della fraternità d'armi, è quel sentimento infìn,• rl,•/1 '1111011 • 111ilit11 re, il quale, si voglia o no, fu e sarà sempre una gran for:11".'

1 A.

Ricci, Un volontario del 1848-1849, Torino, Roux e 46-47 e 48-49. 2 ivi. p. 58. 3 ivi, pp. 61-62.

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I - IL PENSIERO UI AOOSTINO RICCI

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La conclusione che ne trae è che per l'indipendenza nazionale non occorrono chiacchiere e dispute, bensì braccia robuste e disciplina. La sua scelta di arruolarsi nell'esercito piemontese (in modo - egli precisa - che si abbia "un volontario in meno e un soldato in più") è perciò in piena armonia con gli ammaestramenti che ha tratto dalla guerra 1848/1849 e implica di per sé sfiducia nelle ''forze irregolari" e fiducia nelle "forze regolari". Collocato in aspettativa dal 1849 al 1851, sempre come De Cristoforis utilizza il tempo disponibile per farsi una vasta cultura militare, la quale - per un giovane ligure (di Savona) a contatto con ambienti militari piemontesi - non può che essere di prevalente impronta francese. Scrittore fecondo e dallo stile piano e semplice, "che si fa leggere", trasfonde nei suoi scritti la lunga esperienza di reparto, che gli deriva dai molti anni trascorsi in fanteria particolarmente in un reggimento (il 3°) di stanza a Chambéry in Savoia, ciò che gli dà modo di conoscere a fondo le Alpi Occidentali. Il suo apporto di pensiero va diviso in tre fasi, ben distinte anche cronologicamente: - scritti teorici e sull'insegnamento dell' arte militare e della storia (fino al 1863); - scritti polemici sull'ordinamento e la tattica dell'esercito e della fanteria ( 1863);4 - scritti sulla difesa d' Italia con particolare riguardo aJ confine alpino, alla Valle del Po e alla marina (1872-1874); - studi secondari di carattere addestrativo o geografico, interventi in Parlamento sul problema della difesa marittima (finora non pubblicati, né studiati) e memorie. Ne fanno parte l'opuscolo Campi in Val di Piave. Orientamenti geografico - militari in relazione alla difesa dello scacchiere Veneto (1879), il libretto La Brigata di Fanteria nel c:omballimento - Note di un generale di Brigata (1880), 5 e due volumi di ricordi: In Crimea (1885)6 e il già citato Un volontario del 1848/1849 ( 1896).

4

A. Ricci, lafa11teria italiana nell'ordinamen.lo del 1861 e in quello del 1862 - studio comparativo di un ex-fantaccino, Torino, Cassone 1863 e ID., Riformeremo la noslrafanleria? Appendice all'opuscolo " La fanteria italiana" ecc., Torino, Cassone 1863. Ambedue gli scritti sono anonimi, ma sicuramente da attribuire al Ricci ( vds., tra l'altro, a pag. 8 di Rifonnere,rw la nostra fanteria? L'accenno a un brano che fa parte dell ' Introduzione - p. 37 ristampa). 5 A. Ricc i, Campi in Val di Piave. Orientamellfi geografico-militari in relazione alla difesa dello scacchiere Veneto, Padova, Prosperini 1879 e ID., la Brigata di fallferia nel combattimento - Note di un generale di Brigata, Boscomarengo, Tip .. Riformatorio 1880. 6 A. Ricci, /11 Crimea. Ricordi, Roma, Voghera 1885.


11. PENSIERO MILITARE E NAVAU; ITALIANO - VOI.. lii ( 1870 1915_) - TOMO I

Fatto insolito che forse anch'esso dimostra le sue difficoltà d' integrazione con l' establishmenl, non si conoscono suoi articoli di rilievo sulla Rivista Militare, che invece riporta i contributi di tutti gli altri più qualificati esponenti del pensiero militare (e navale) coevo. Farebbe sperare in una lunga e qualificata collaborazione il primo suo scritto in assoluto pubblicato dalla stessa rivista nel 1857, nel quale commemora con calde e commosse parole il colonnello Gastinelli , già comandante del 3° reggimento fanteria ove aveva militato per lunghi anni. 7 Poi più nulla fino al 1885, anno nel quale la Rivista pubblica i suoi ricordi di Crimea, successivamente raccolti in volume. Manca tuttora (2005) un'analisi organica dei suoi scritti, volta a individuarne i caratteri e la collocazione nel pens iero militare nazionale e europeo. Dare finalmente alla figura di Agostino Ricci una dimensione completa sarà perciò il nostro obiettivo e la nostra fatica.

SEZIONE I - Gli studi del 1863 sull'arte militare e sul suo insegnamento «L'introduzione allo studio dell ' Arte Militare» ( 1863) L'opera è stata ristampata nel 1926 con ampio commento introduttivo e note biografiche a cura del Col. Epimede Boccaccia. 8 Ha carattere ufficioso e finalità eminentemente didattiche, che risultano sia dal formato tascabile deJla prima edizione, sia dalla sua inclusione nella "Piccola biblioteca dell 'Esercito approvata dal Ministero della guerra". Come afferma lo stesso autore nella prefazione all'edizione 1863, questo lavoro che, confortato dal sujfra?,io di qualche amico, mi decido a fare di pubblica ragione, fu compilato sino dall'inverno de[?li a1111i 1853-1854, e non vi ho apportato dappoi che qualche leggera modijìcazione di forma e qualche aggiunta suggeritami dai falli miliwri i q11u li ebbero luo?,o dopo quell 'epoca. Incaricato nell'inverno ora dello di e!.porre un breve corso di storia militare nella scuola divisionale di Chambéry, facevo precedere, come introduzione ad esso. le nozioni mi

7 In " Rivista Militare llaliana" 1857, Anno Il Voi. Il . pp. 23 1-232. • A. Ricci. Introd11zione allo studio detrane militare. Torino. Cas~onc 1K/1I. R1, 111111pa 11121! u cura del col. E. Boccaccia. Torino, Schioppo (ci riferiremo a tale ri~tan1p11 nd p1 m 11·111111 tkll"op,·111). ( ' fr. anche la recensione della Rivista Militare ltaliarw 1863. Voi. 111 pp. :l I Il 12(, l ' Voi 1V pp I 02 1 12


1• IL PENSIERO DI AGOSTINO RICCI

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litari che ora mi decido a pubblicare, conservando a esse il titolo che portavano a quell'epoca.

A ventidue anni, col modesto grado di sottotenente e senza aver compiuto studi militari regolari, A.R. viene dunque incaricato di tenere un corso di storia militare agli ufficiali della divisione di Chambéry. Non si tratta di un'attività di insegnamento in una vera e propria scuola (come lascia capire il generale Baldini sull'Enciclopedia Italiana),9 ma di un ciclo di conferenze per gli ufficiali nel periodo invernale, nel quale l'attività dei reparti del presidio di Chambéry era necessariamente ridotta; tuttavia, questo fatto già dimostra in quanta considerazione fossero tenute la preparazione e la dottrina del giovanissimo ufficiale. Si deve ritenere che le modifiche da lui apportate al "canovaccio" delle conferenze del 1853-1854 prima della pubblicazione siano tutt'altro che trascurabili e siano anzi fondamentali, per almeno due ragioni. La prima è che "ifatti militari" dal 1854 in poi, a i quali spesso accenna lo stessoA.R., sono di grande portata (campagne di Crimea del 1855-1856 e guerra del 1859 alle quali ha partecipato; campagna nell'Italia Meridionale del 1860). La seconda è che egli non può non tener conto, in questo lavoro, delle successive e assai più importanti esperienze didattiche. Come risulta dalla particolareggiata recensione che gli dedica la Rivista Militare Italiana, nel 1863 - quando viene pubblicato il libro - A.R. è capitano di Stato Maggiore e già da alcuni anni insegna arte militare alla "Scuola di Applicazione del Real Corpo di Stato Maggiore". 10 È evidentemente per questo motivo che il recensore giudica il libro "appropriatissimo per le scuole militari" e afferma che egli ha completato i contenuti teorici del libro nelle lezioni tenute nei due anni di corso della predetta scuola. Le biografie disponibili ignorano questo particolare, citando solo la sua nomina a insegnante di arte mmtare per i Principi Reali nell'aprile 1861; eppure esso spiega ciò che la breve esperienza di Chambéry non potrebbe appieno giustificare. Si è già accennato all'inevitabile matrice francese della formazione teorica di A.R.: il libro perciò non può che essere fondamentalmente jominiano, anche se l'intento pratico, il buon senso e la costante attenzione dell'autore per l'uomo, per i fattori morali (che ha imparato dalla vita e dalla vita militare a ben considerare) lo portano a discostarsi talvolta - non

• rn "Enciclopedia Italiana", Voi. XXIX p. 243. 10 In " Rivista Militare Italiana·· 1863, Voi. llJ - pp. 3 19-326 e Voi. IV pp. 102-112.


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IL PENSIERO MILITAR E E NAVALE ITALIANO- VOL. lii (1870- 1915) -TOMO l

senza contraddizioni - dalla scuola dei dottrinari. Cita con espressioni assai lusinghiere - ma non meritate - l'Arciduca Carlo; come De Cristoforis loda molto l'opera del Maresciallo Marmont L'esprit des instutions militaires, anch'essa di osservanza teoricajominiana ma vivificata dalla grande esperienza militare e pratica del suo compilatore' 1• Cita una sola volta (nella traduzione francese) Clausewitz, definendolo "distinto scrittore di cose militari". Stranamente non parla mai di autori italiani coevi o del passato (ad esempio nel 1860 era già uscito Che cosa sia la guerra di De Cristoforis, libro con il quale la visione teorica di A.R. ha parecchie affinità). Più che un trattato organico di arte militare, il libro è una sintesi delle principali questioni di carattere teorico e pratico che rientrano nella problematica militare, delineata solo nei tratti essenziali. Si sente in ogni riga l'insegnante, il vecchio e esperto ufficiale che cerca di trasfondere nei giovani il bagaglio delle sue conoscenze non solo teoriche ma anche pratiche. Esso è rivolto "ai giovani ufjìziali delle Armi diverse, i quali, fatta astrazione da quel ramo d'arte militare, al quale devono .!)pecialmente applicarsi per dovere d'uffizio, desiderano di.formarsi un concetto generale di tutto il complesso di essa, e vedere le relazioni che legano il ramo .!)peciale da essi studiato agli altri rami coi quali forma, in certo modo, una sola famiglia scientifica". 12 L' autore intende perciò "fornire alla gioventù studiosa di cose militari un quadro sintetico della scienza militare, quale base dei suoi studifuturi".ll panorama che vuole ristretto in poche pagine è dunque assai vasto; come dice lo stesso titolo, si tratta solo di un primo approccio, che come tale "è destinato ad essere il prologo d'una serie di alcuni altri, pei quali ho Rià raccolto in gran parte i materiali. Con tali lavori, ove dovessero venire alla luce, mi proporrei di trattare con qualche sviluppo, sia dal punto di l'isw statistico - comparativo che dal punto di vista storico-critico, quak1111t1 delle principali questioni d'arte militare che ho e.!)posto in questo lihm /Jt'r sommi capi, ovvero che non ho che imperfettamente accennate".'' Il progetto non si realizza: sulla Rivista Militare di quattro : 111111 dopo compare il programma di una serie di sei volumi della Pif'f'o/n llih/int1·,·o dell'Esercito, nei quali sono trattate le materie inseg nate alla nuov:i SrnoJa di Guerra e nelle altre scuole militari. 14 Di tale serie l'anno p111 l t' pii /:'ft,

11 Cfr. La traduzione italiana (Maresciallo Marmonl , Dl•llo .,,11111" ,id/, 1111111 , ..,,, ( 1846), Firenze, Le Monnier 1939, a cura del gen. Giacomo Curho 111 ) 12 A. Ricci, l11troduzio11e... (Cit), p. 267 .. 11 ivi, p. 270. 14 In "Rivista Militare Italiana" 1867 - Anno Xli. Voi. li pp. 1 l•I I IO

1111/111111


I • IL PENSIERO DI AGOSTINO RICCI

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menti di arte militare dell'ormai tenente colonnello di Stato Maggiore A.R., divisi in due parti: una generale che tratta dell'arte militare, degli elementi che la compongono ecc .. , e una speciale che "comprende sufficientemente sviluppate le materie di cui constano ordinariamente i programmi di arte militare insegnati nelle scuole". Questi ultimi comprendono le questioni attinenti alla preparazione della guerra (reclutamento, organico delle truppe, educazione, istruzione e economia militare) e quelle relative alla sua esecuzione (geografia militare, mobilitazione degli eserciti, strategia, gran tattica, operazioni secondarie e "questioni che riguardano la parte morale della guerra"). 1n ogni caso (e questa sembra un'osservazione di pugno dello stesso A.R.). il titolo di Elementi posto in fronte a questo programma indica abbastanza che non si ha punto in idea di pubblicare un Trattalo di arte militare, ché già di diversi ne esistono, altrettanto ricchi di Luoghi comuni, che poveri di insegnamenti pratici e utili; ma bensì di somministrare alla gioventù militare, sulle tracce dei programmi ordinari, quel tanto che valga a guidarla nello studio dell'arte militare in quel gran Libro che solo può insegnarla: la filosofia degli ordinamenti e dei fatti militari, libro che ognuno deve scrivere per sé stesso osservando, meditando e operando.

Oltre ad essere eminentemente didattico e didascalico, l' approccio del libro è dunque più pratico che teorico, intendendo fornire specie ai giovani nozioni utili per guidarli nella loro esperienza professionale (si noti l'accenno alla scarsa utilità dei trattati di arte militare esistenti). Di queste esigenze risente fin troppo l' impostazione dell'Introduzione allo studio dell'arte militare, nella quale lo scibile militare è suddiviso come risulta dallo specchio di pagina 34. In particolare "la scienza, o arte militare, che dir si voglia, consta di due grandi rami principali, di cui l'uno studia i principf della organizz.azione delle armate, e l'altro quelli della condotta delle armate in campagna" 15 • Criterio di per sé ineccepibile: ma occupandosi sia della organizzazione che della condotta, e ancor più includendo la logistica nella parte che riguarda la condotta degli eserciti in guerra e la loro azione, A.R. marca la sua distanza da Clausewitz (Voi. I, Cap. III). Al tempo stesso, includendo come fa Jornini (Voi. I, Cap. Il) 1a politica della guerra nel-

15

A. Ricc i. Jn1rod11zione... (Cii). p. 36.


_!hl'ENSIEROMlLJTARE E NAVALE ITALIANO- VOL. lll ( 1870-1915)- '!OMO I

ARTE O SCIENZA Mll.lTARE ORGANIZZAZIONE DEGLI ESERCITI MATERIALE

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l'arte o scienza militare, si avvicina a tale autore svizzero (ma francese in tutto e per tutto). Jomini - come del resto Clausewitz - inizia sia il Tableau che il Précis con l'esame dei vari tipi di guerra e dell'arte militare e sua riparlizione; A.R. comincia con l'organizzazione, trattando poi di seguito la parle di più diretto interesse teorico. Criterio non condivisibile, forse dovu to al fatto che il libro rispecchia i programmi scolastici e l'ordine cronologico delle lezioni tenute dall'autore. Appare infatti indiscutibile che la leoria (cioè il pensiero e la concezione) deve precedere l' azione, cioè l'organizzazione e la condotta operativa. Queste ultime devono essere ispirate, guidate dal pensiero, non viceversa; nella fattispecie, la politica della gue rra


_ _ __ _ __,l. _ - =IL'-"-PEN = S!ER = O DI AGOSTINO RICCI

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e la strategia condizionano l'organizzazione e le scelte operative, indicando loro gli obiettivi da raggiungere per corrispondere alle esigenze politiche e strategiche. Prenderemo quindi in esame per prima - dedicandole lo spazio maggiore - la parte più propriamente teorica, concernente essenzialmente il concetto di guerra, l'arte della guerra (o militare) e la sua ripartizione. Prima di ùùziare tale esame, va subito osservato fin d'ora che la ripartizione delle varie branche tra organizzazione e condotta degli eserciti proposta da A.R. nel precedente specchio è assai discutibile. Desta in particolare molta perplessità: - l'inclusione del terreno solo nelle attività che interessano l'organizzazione e non la condotta. Il terreno è invece un primario fattore operativo; - l'inclusione delle piazzeforti solo tra il "materiale stabile" del quale si occupa l'organizzazione, quando invece esse - al di là dei risvolti organizzativi - erano specie al tempo anche una pedina primaria nella condotta delle operazioni. Lo stesso può essere detto per l'inclusione della fortificazione nel terreno; - il fatto che A.R., assai allento a tutto ciò che riguarda l' uomo e la sua psicologia, dedica solo alcune righe alla sanità militare. Eppure era stato in Crimea! Invece Marmont, da vecchio soldato, se ne occupa diffusamente; - l'inclusione dell'organizzazione e difesa del territorio nelle branche esaminate sotto la voce "terreno", quando invece esse non sono un elemento costante di base come tutto ciò che riguarda l'ambiente naturale, ma un fattore organizzativo e operativo di peso variabile che coinvolge direttamente anche gli eserciti; - per contro, l'inclusione della mobilitazione tra le attività concernenti la condotta degli eserciti, quando invece essa da sempre è un elemento centrale della loro preparazione; - l'inclusione della topografia e statistica (strettamente connesse con la geografia militare e con la strategia) nel terreno, a sua volta facente parte solo dell'organizzazione, e l'inclusione della geografia militare solo nei preliminari dell'azione degli eserciti; - la trattazione della psicologia militare (problemi del comando in guerra e doti del comandante) solo nell'ambito dell'azione degli eserciti, quando invece tali problemi riguardano anche l'organizzazione e la preparazione; - la distinzione.quanto meno superflua, tra politica della guerra, diplomazia militare e politica finale della guerra;


Il . PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VQ!.. lii ( 1870-1915)- TOMO I

- l' inclusione della politica della guerra solo tra i preliminari dell'azione, quando invece essa - come afferma Clausewitz - fa sentire il suo influsso anche azione durante, oltre che alla fine. Ciò premesso, per guerra A.R. intende "un grande fatto sociale, nel quale le forze morali e materiali di due nazioni tentano di distru!{f?ersi a vicenda"16. In essa prev,ùgono le forze morali, in quanto "le forze materiali non sono altro che gli strumenti e i mezzi dell'azione, menlre la causa efficiente di essa e il motore che la dirige sono le forze morali delle due naziont'. L'azione dei due tipi di forze risulta continuamente modificata dalle circostanze, sicchè nei calcoli concernenti le operazioni militari " i dati ipotetici hanno quasi un valore maggiore dei dati di fatto, ed è perciò che ben a ragione essa si chiama arte come quella in cui l'ispirazione, ed il genio individuale hanno una parte principalissima". Questo vale soprattutto nella "parte superiore dell'arte della guerra" lespressione usata dall' Arciduca Carlo - N.d.a.]; scendendo più in hasso, infatti, le regole e norme si fanno man mano più precise e più aderenti alla realtà, mentre l'arte diventa mestiere. Infine, le lotte fra due nazioni non possono durare troppo lun,:amente. Ciò è tanto più vero ai nostri giorni per il moltiplicarsi delle relazioni vicendevoli, per l'estensione che prendono ogni dì più i commerci, e per lo sviluppo straordinario delle industrie. Le guerre VORliono essere fatte, come suol dirsi, corte e grosse [espressione già usata da Montecuccoli e citata dal Grassi - N.d.a.] senza di che La rovina economica dei due paesi belligeranti ne sarehhe La conseguenza.

Concezione assai vicina a quella di Clausewitz, quindi assai lontana da Jomini e ancor di più dall ' Arciduca Carlo. Da Jomini A.R. diverge esplicitamente anche a proposito del campo d"azione dell"arte militare, che ha il compito di "studiare e organizzare le due specie di forze ora dette [quelle morali e quelle materiali - N.d.a.l prima dell'azione, e dirigere e farle agire quando è giunto il momento di essa" 11 • Per Jomini invece [ma l'addebito di A.R. andrebbe rivolto ancor di più a Clausewitz - N.d.a.] tutto quanto si riferisce all'organizzazione non riguarda l'arte militare. Sarebbe come escludere dal1' arte della pittura - osserva A.R. - tutto ciò che riguarda la preparazione dei colori; non a caso i più grandi condottieri hanno brillato sia nella parte organizzativa che nella direzione delle operazioni.

'

6

17

ivi, pp. 29, 40-41 , 125, 261. ivi, p. 29.


I - IL PENSIERO DI AGOSTINO RICCI

37

Di qui la necessità di dividere l'arte militare in due parti (organizzazione e condotta degli eserciti) tra di loro connesse e corrispondenti, di massima, all'attività di due distinti organismi (Ministero della guerra per la organizzazione e Comando operativo delle truppe per la condotta). Questi contenuti dell'arte militare - prosegue A.R. - si riferiscono all'attività pratica: la teoria dell'arte militare dovrebbe più propriamente essere denominata scienza militare, la quale "è adunque la esposizione dei principi che regolano l'organizzazione delle armate o ne dirigono l'azione secondo il moderno modo di guerreggiare" , tenendo presente che, come dice il generale Pelét, " La guerra è una scienza che utilizza la totalità delle conoscenze dell'uomo". È abbastanza chiara, per A.R., la dipendenza della condotta deJla guerra dalla politica, la quale: a) giudica quando è il momento di ricorrere alle armi ; b) definisce se la guerra deve essere offensiva o difensiva, tenendo presente che vi può essere una politica offensiva e una condotta della guerra difensiva, o viceversa; c) individua i limiti e lo scopo dell ' azione mi li tare, tenendo conto dello scopo finale della guerra (cioè dello scopo politico) e dei mezzi d' azione disponibili. Il compito della politica non è facile, perché "non è una scienza positiva [ma] si basa su dati ipotetici che cambiano colle circostanze", i quali possono indurre a modificare anche gli obiettivi guerra durante Iragione di più per non escludere la politica dall'azione degli eserciti - N .d.a. I. Tra le operazioni preliminari A.R. esamina la politica della guerra, la geografia militare e la mobilitazione: ne deriva un improprio accostamento del ruolo de1la geografia militare a que11o della politica. Alla geografia militare (questo va sottolineato, perché è una costante del suo pensiero che lo allontana da Clausewitz e lo avvicina a Jomini) A.R. attribuisce grande importanza 18 • Essa consiste nello studio dell ' influenza che il terreno può avere sulle operazioni militari e deve "fornire i criteri che si possono formulare per il razionale apprezzamento del terreno sotto il rapporto militare, e per conseguenza delle carte e dei piani che lo rappresentano". Fin qui nulla di nuovo: ma più avanti egli afferma che la geografia militare svolge un ruolo analogo a quello d ella politica della guerra, perché mentre quest'ultima individua i criteri sui quali fondarsi per iniziare e condurre la guerra, a sua volta la geografia militare "ali'aprirsi di una campagna studia le condizioni di terreno sul quale essa sta per essere impegnata, e ne deduce altri criteri i quali, uniti a quelli della

'" ivi, p. 136.


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IL PENSIERO MILITAR.E E NAVALE ITALIANO - VOI.. lii ( 1870-1915) TOMO I

politica militare, completano la base sulla quale si stabiliscono i progetti per le operazioni future". Se ne deduce - con ovvi riflessi anche sul concetto di strategia - che le operazioni della guerra sono definite in base a due soli eleme nti, le indicazioni della politica e le caratteristiche geografiche del teatro della guerra. Lo precisa A.R. stesso: "Lo studio del terreno [... ]ed i criteri somministrati dalla politica della guerra, sono il f ondamento su cui è basato un piano di campagna" 19• In tal modo quei fattori spirituali e sociali che clausewitzianamente egli indica come dominanti rimangono al margine del piano di campagna; inoltre la fondamentale dipendenza di tale piano da elementi da carattere geografico ig nora i rapporti di fori:e e re nde fin d' ora questo approccio, più che strategico, geostrategico con chiara ascendenza jominiana. Sempre secondo A.R. il terreno va considerato "sotto tre punti di vista speciali, ossia: 1°) sotto il rapporto strategico; 2°) sotto il rapporto statistico; 3 °) sotto il rapporto tattico" . A queste valutazioni egli aggiunge che: - per una potenza che non abbia il dominio del mare, i mari sono un ostacolo come i deserti . Una potenza che li domina invece li può utilizzare come base d'operazione e di approvvigionamento; - le catene montane sono un elemento topografico del più alto valore strategico. Esse hanno grande valore impeditivo intrinseco, e la loro difesa è assai più agevole di quella di una linea fluviale. In particolare "la catena degli Appennini nell'Italia settentrionale, può essere considerata come una seconda linea di difesa dopo quella del Po, ovvero nella media e bassa Italia, quale linea di separazione fra due zane di difesa costituite dai due versanti degli Appennini s1essi. e dalle valli alle quali danno orig ine" 20 ; - i grandi centri hanno elevata importanza politica e economica c quindi anche strategica. Possono diventare (specie se capitali ) lo scopo materiale di una serie di operazioni; tuttavia non hanno scmpr' un ' influenza strategica positiva, "perché talora l 'averne ad essi t1,·,wr_/af0 più che non meritavano.fu l 'origine di gravi disas fri" (csc111pio: laritirata piemontese su Milano anziché su Piacenza ne l I !MH): - le piazzeforti sono "punti strategici per eccellen:u", quindi ''/u111110 la più grande influenza sulle operazioni .,·1ra1e~id;"":

19

20

ivi, p. 150. ivi, p. 14 1.


I - IL PENSIERO nJ ~ AG =;o=s·~n ~NO "-'K = 1= c c·~·1 - -- - - - - -- - ~ 39

- l'importanza strategica dei grandi stabilimenti militari (arsenali, magazzini ecc.) dipende dal supporto che possono fornire alle truppe arrùche, e dal danno che quest'ultime soffrono nel caso di una loro perdita; - per "studio statistico del terreno" A.R. intende l'acquisizione di due specie di dati, quelli militari e quelli economici; "i primi comprendono le nozioni necessarie ad aversi per la condotla tecnica delle operazioni, i secondi servono per la condotta amministrativa [cioè logistica - N .d.a. I delle operazioni". I predetti datj sono riferiti al nemico; quelli militari comprendono quantità, qualità, organizzazione ecc. delle forze nemiche, quelli economici si riferiscono a popolazione, industria, commerci ecc. del territorio nemico. L'ultima delle operazioni preliminari presa in esame è la mobilitazione, che riguarda il personale, il materiale e il terreno (attività per mettere in stato di difesa le piazzeforti; studio del terreno sui documenti e sulle carte forniti dallo Stato Maggiore e loro complctamenlo con ricognizioni). A.R. è tra i pochi a dare grande importanza anche alla mobilitazione del materiale, che è La parte più ardua della mobilitazione di un 'annata moderna, poiché

non permettendo l 'economia pubblica di tenere l'immenso materiale a quella necessario sempre mobilitato, conviene all'atto d'intraprendere una guerra mobilitarne la maggior parte di ,:etto, destinando ad esso e personale e meu.i di trasporto, ciò che dà luogo a delle complicazioni d 'ogni natura. 21

Altri due aspetti sono da notare: la grande importanza giustamente attribuita alla mobilitazione dell' "immensa" quantità di quadrupedi e veicoli necessari agli eserciti del momento, e l'inclusione tra i "servizi speciali e d'importanza meno sentita" della telegrafia e dell'aerostatica, allora ( 1863) ai primi passi. L'esame delle "operazioni preliminari'' non è privo di efficacia e chiarezza; esso risente tuttavia di un'indebita contaminatio tra un'attività pratica che si riferisce alla preparazione dell'azione (che per il Ricci dovrebbe comprendere, insieme con la mobilitazione, discipline teoriche di studio come la geografia militare) e attività concettuali e/o di pianificazione (compilazione del piano di campagna, raccolta di dati ecc.), che si collo-

21 ivi,

p. I53.


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IL PENSIERO MILITA llF. F. NAVALE ITALIANO - VOL. lfl (1870- 1915) - TOMO I

cano a monte delle operazioni di mobilitazione e preparazione in genere_ Si nota, inoltre, l'esclusione dallo "studio statistico del terreno" dell'acquisizione di dati sulle forze amiche e sul Paese amico: di conseguenza, non si trova da nessuna parte la valutazione (anche dal punto dj vista del morale) delle forze contrapposte e il caJcoJo del conseguente rapporto di forze, che sono componente essenziale di un ben congegnato piano di campagna. Ali' azione propriamente detta appartengono, secondo A.R., la strategia, la logistica, la gran tattica, le operazioni secondarie e speciali e la psicologia militare (Cfr. anche schema di pag. 34). La definizione di strategia è quella che più chiaramente rispecchia i parametri di riferimenti del suo pensiero: è il ramo principale dell'arte militare considerata sullo il rapporto dell'azione delle armate in campagna; esso è la scienza delle grandi operazioni di guerra. L'Arciduca Carlo nel suo hel lavoro sulla strategia la definisce quel ramo d'arte militare il quale insegna quali siano i punti più utili ad essere occupati in un teatro di guerra e quali le linee più utili a percorrersi per passare da ll' uno all'altro di tali punti. Questa definizione, a mio avviso, è la più esatta che si sia data finora della strategia.u

Anzichè la definizione di Jomini, che è un dottrinario moderato, A.R. sceglie dunque quella deJI' Arciduca Carlo, massimo esponente dell'approccio geometrico, detenninistico, geografico e dogmatico alla guerra e alla strategia (Cfr. Vol. I, Cap. Il): questa volta nessuna traccia di quei valori spiritual i, che per Clausewitz sono la quintessenza della strategia stessa. La citazione dell'Arciduca Carlo appare inoltre im..:umplela: nei suoi Prindpt di strategia applicati alla campagna del 1796 in Germania, infatti l'Arciduca così inizia il capitolo I dedicato appunto alla strategia: "dicesi strategia la scienza della guerra: essa traccia il piano, abbraccia l'insieme, e determina l'andamento delle operazioni militari. È particolarmente la scienza / nostra sottolineatura - N.d.a. / del Generali in capo..." 23• A.R invece parla di arte, cosa che - almeno nel libro citalo - non fa l' Arciduca Carlo: solita confusione tra scienza e arte, che non sono certo la stessa cosa.

22

ivi, p. 157. Arciduca Carlo, Principf di stralef/ia applicati alla campagna del 1796 in Germania - Tomo I, Napoli, Tip. della Guerra 1819, p. 1. 23


I - IL PliNSlliKO DI AGOSTINO RJCCI

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Per altro verso dell'arte militare A.R. ha un concetto abbastanza corretto, sia pure espresso in altra parte del testo e non originale, perchè napoleonico: Le combinazioni musicali sono soggette a regole di tempo e di vibrazioni, delle quali soltanto un uomo versato nelle matematiche può trovare e dare la ragione scientifica, eppure un tale uomo sarebbe forse inetto a produrre qualche cosa di buono dal punto di vista dell'arte; e perchè? Perchè non ha il genio della musica. Così l'arte militare ha dei principf inconcussi che il raziocinio sa scoprire e che l'esperienza dimostra veri, ma quando si passa poi all'applicazione di essi è allora che l'ispirazione aiuta più del raziocinio e forse più dell'esperienza; e perchè? Perchè vi è un ienio della iuerra, come vi è un genio della musica e della pittura; onde come tutte le teorie della misura del tempo e delle vibrazioni, e tutte le regole del chiaroscuro non potrebbero creare uno dei capolavori di Rossini e del Sanzio, così lutti i principi della stratexia sarebbero inetti a creare le sublimi concezioni di Montenotte, di Arcole, di Austerlitz, se una mente come quella di Napoleone non fosse là per applicarli.24

Ciò non significa che lo studio sia inutile: un uomo di genio ha poco da imparare da uno studio siffatto, ma chi non è un genio e possiede solo una buona intelligenza, potrà in certo senso acquisire un genio artificiale, che lo metterà in grado di rendere ugualmente grandi servigi al suo Paese (lo stesso, più o meno, aveva detta Jomini). Da una definizione a sfondo geografico, nella quale non compare né lo scopo dell'atto slrategico, né il ruolo delle forze nemiche, A.R. sa comunque trarre il meglio. Data la grande importanza assunta dai rifornimenti e in particolare dalle munizioni, quando uno Stato dichiara la guerra a un altro, La sua azione militare ha due punti di appoggio distinti, cioè: - l'armata che fa la guerra. - Il paese che alimenta l'armata. Se si riesce a troncare le relazioni che passano tra l'annata operante e il paese che la sostiene, un grande risultato è già ottenuto.e se si sa abilmente valersene puà essere decisivo .mll'esito finale della guerra.

'

4

A. Ricci. Introduzione... (Cit), pp. 174-175.


42

IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL.111 I M70-1915 -TOMO I

Da questa proposizione douhetiana ante litteram conseguono due principi fondamentali della strategia: I O Bisogna operare in modo da troncare le relazioni che passano fra l'armata avversaria ed il Paese che la alimenla. Questo si potrebbe chiamare il principio fondamentale offensivo della strategia. 2° Operando nel senso del primo principio ora stabilito bisogna impedire che il nemico possa fare altrettanto a nostro danno. Questo si potrebbe chiamare il principio fondamentale difensivo della strategia. 25

In tutti i casi si tratta dunque di dare aJle nostre forze una dislocazione e una direzione di movimento tali, da impedire all'esercito nemico di mantenere un contatto continuo con il Paese che lo rifornisce, e, al tempo stesso, da evitare che esso possa fare altrettanto con noi. Il secondo elemento da considerare è l'obiettivo strategico, che in genere per un esercito che prende l'offensiva è costituito da "uno o più punti i quali rappresentano in certo modo il paese [nemico] stesso, o almeno rappresentano una parte assai importante di esso" (cioè la capitale, i grandi centri demografici e industriali, una ricca e popolata provincia, un grande stabilimento militare ... ). 26 Dal conto suo, per impedire alle forze nemiche di raggiungere l'obiettivo, l'esercito che assume la difensiva può agire in due modi: o interponendosi tra l'obiettivo e l'esercito nemico in modo da obbligarlo a venire a battaglia, o assumendo una dislocazione tale da essere in grado di tagliare le comunicazioni dell'esercito nemico con il suo Paese, i1 che equivale anche a costringere quest'ultimo a violare il secondo dei principi prima indicati. A.R. indica anche i due requisiti che deve possedere l'obiettivo strategico: 1°) essere tale da consentire il raggiungimento dello scopo finale della guerra, e da fornire un vantaggio proporzionale agli sforzi fatti per raggiungerlo; 2°) essere proporzionato ai mezzi d'azione dei quali si dispone, tenendo presente che l'esercito nemico [dunque non la geografia N.d.a.l è il primo dato del quale si deve tener conto nelle combinazioni strategiche. Ne consegue che il successo di una combinazione strategica non dipende solo dalla direzione impressa alle nostre forze, ma anche dalla quantità delle forze impiegate lungo la direzione stessa. Ciò induce A.R.

25

ivi, p. 158. "' ivi, p. I 62.


l - IL PENSIERO DI AGOSTINO RIC<=.: ·1 _

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43

a formulare un principio, che assomiglia molto a quello fondamentale della guerra di Jomini (Voi. I, cap. Il): data alle operazioni strategiche di un'annata la direzione migliore rispettivamente a quella del nemico, conviene che sul punto oggettivo di tale direzione sia cumulato il maggiore sform possibile, onde avere in esso la superiorità sul nemico. 27

Ciò avviene in particolar modo a proposito dei punti strategici in generale (per il quale A.R. riprende sostanzialmente le classificazioni di Jomini) e del punto strategico decisivo in particolare, il quale in una campagna "è generalmente rappresentato dall 'armata che copre o direttamente o indirettamente l'obiettivo verso il quale si tende". In sostanza, se si tiene presente quanto hanno scritto Jomini e I' Arciduca Carlo, pochi sono gli elementi di originalità che si ritrovano nel1e cons iderazioni teoriche sulla strategia di A.R .. Al termine dell'esame di questo argomento, comunque, egli fornjsce un'analisi dei contenuti del piano di campagna, che è un pò più completa di quella precedente. Esso è "quel concetto complessivo sulle operazioni a farsi, che la mente può formare, considerando i punti e le linee strategiche di un teatro di guerra, sotto il rapporto della loro utilizzazione a un dato scopo, il quale non è altro che l'oggetto della campagna". Alla formazione di tale concetto concorrono prima di tutto il terreno, che bisogna saper giudicare sotto il rapporto strategico, e i principi della strategia, che bisogna saper applicare. A questi elementi "se ne aggiungono altri di un 'indole ipotetica e morale, nei quali a tutti non è dato saper leggere, formando l 'attitudine a ciò uno dei meriti più salienti del genio della guerra". 28 Si può osservare, a proposito di questa definizione, che il piano <li campagna non espone solo un concetto, ma anche le modalità principali per attuarlo. ln questo caso compare però lo scopo trascurato in precedenza, e si fa cenno ai fattori morali e spirituali e al genio, definito come " l 'intuito, la divinazione delle cose, il vedere dove gli altri non vedono, il sapere dove gli altri non sanno, L'operare quando gli altri non operano, il vincere quando gli altri si fanno battere" . Alla logistica - che colloca al secondo posto dopo la strategia - A.R. dedica uno spazio assai minore di quello della strategia e della gran tattica. Non ne dà una definizione precisa, né delimita con esattezza il suo

Z1 28

ivi, p. 170. ivi, pp. 188- 189.


IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL, lii (1870-1915)- TOMO I

campo d'azione: ma quanto ne dice basta a dimostrare che il suo concetto di logistica è analogo a quello di Jomini, anzi è quello di Jomini: a che varrebbe la scelta di un buon obiettivo strategico e della Linea migliore per giungere ad esso quando, per difetto delle necessarie diJ.posizioni, le truppe mancando di viveri o di munizioni si vedessero paralizzate nei loro movimenti? o per mancanza di un equipaggio da ponte L'armata dovesse perdere un tempo prezioso? o per d(fetto di sorveglianza una colonna si lasciasse sorprendere e battere parzialmente dal nemico? o finalmente per vizi di oscurità e trascuranza, P,li ordini das,fero Luogo ad interpretazioni erronee, o non fossero trasmessi a tempo opportuno?'Z'J

Come per Jomini, dunque, anche per A.R. la logistica è essenzialmente organizzazione dei vari aspetti del movimento e stazionamento delle truppe, e come tale coincide con l'attività degli Stati Maggiori in genere. Essa rende possibile l'esecuzione delle concezioni strategiche e si compenetra strettamente con la strategia stessa: studiando la cosa mtrallamente, si può bene stabilire e sino a un certo punto precisare quali siano i doveri della logistica e quali quelli della strategia; ma all'atto pratico poi il generale non sarà solamente la personalità strategica, come il suo Capo di Stato MagP,iore non rappresenterà solo la personalità logistica. Queste due fun zioni si compenetreranno a vicenda, talora anche si invertiranno, ma nell'opinione però e nel fatto anche, il peso delle disposizioni esecutive ricadrà sul Capo di Stato Maggiore, come quello delle concezioni strategiche sarà devoluto a chi esercita il comando Inostra sottolineatura - N.d.a.].

Come abbiamo di mostrato nel Vol. l, A.R. non è certo il pri 1110, in Italia, a includere la logistica nell 'arte della guerra: ma secondo il ten. col. Rosmini ha il merito di avere introdotto questa disciplina nel pensiero militare ufficiale italiano. In un saggio del dicembre l 925, nel quale sosl iene la necessità di delimitare i] ruolo della logistica nel senso attuale restringendolo in pratica ai Servizi, il Rosmini scrive: La logistica del generale ]omini ebbe scarsi proseliti tra gli scrillnri militari di Europa e non fu maj adottata nelle scuole militari di Fru11cia l'

"' ivi, p. 190.


I - IL l'llNS l~KO Ili ACòOSTINO RICCI

Germania fnostra sottolineatura - N.d.a.]. Solo in Italia, per opera del ,:enera/e Ricci, nella sua duplice qualità di scrittore militare e di inse,:nante di arte militare, dapprima alla Scuola di applicazione di Stato Ma,:,:iore di Torino e poi alla Scuola di guerra, la logistica venne, si può dire, ufficialmente riconosciuta e lanciata come ramo dell'arte militare. In sintesi, i suoi compiti erano le a/Jribuzioni degli Stati Ma,:iiori per l'esecuzione del piano concepito dal Comandante e perciò: compilazione e diramazione degli ordini e istruzioni, formazione delle colonne di marcia e loro collegamento, misure di sicurez.z,a, ricognizioni, servizio delle sussitenze e foraggi I il rifornimento munizioni anche per la fanteria era compito dell'artiglieria; il genio provvedeva in proprio N.d.a.], scorte e distaccamenti, ecc ... 30

Anche trattando della gran tattica A.R. non si discosta dall'interpretazione jominiana: la iran tattica [... ] stabilisce precisamente i criteri razionali possibili, coi quali devono essere condotte Le armate sul campo di battaglia sotto la vista e sotto il ra,:,:io dell 'azione tattica del nemico. A tale uopo formula certi princip'ì ,:enerali, frutto del raziocinio e dell 'esperienza, col lume dei quali si può far la scelta dei punti più wili ad occuparsi sul campo di battailia, valendosi a tale scopo delle manovre tattiche più convenienti alle circostanze. In certo modo la gran tattica è la strategia di uno spazio di terreno limitato che si chiama campo di battaglia, come la slrategia è la tattica di un immenso spazio di terreno che si chiama il teatro della guerra ... 31

Naturalmente, nel caso della battaglia anche per A.R. valgono i due principi fondamentali di Jomini, riguardanti il punto decisivo e la concentrazione delle forze: in questo campo di bauaglia vi ha un punto strategico la di cui occupazione e.\prime il nuissimo risultato che si possa ottenere dalla battaglia che si dà su di esso. Questo punto diventa perciò l'oggettivo di tutte le manovre e di tutte le combinazioni falliche delle due armate [... ]. Biso-

30 A. Rosmini , Alcuni fondamenti e aspetti della nostra do/Irina logistica, in "Alere Flammam" n. 2- feb. 1926, p. 144. Cfr. anche F. Hotti, La /01.:istica dell'Eserc:ilu ltalia110 - Introduzione al Voi. I, Roma, SME - Uf. Storico 199 1. 31 A. Ricci, /111mduzio11e (Cit), p. 193.


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11. PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO

VOL.111 ( 1870-19.~15~) ·~TO = M~ O ~I _ _ __

gna portare [... ] sul punto decisivo del campo di battaglia la massa delle proprie forze, e bisogna farvele agire decisamente traendo da esse tutto l'utile possibile. 32

Nell'ambito dell'organizzazione A.R. accenna anche alla tattica elementare, branca che concepisce in senso jominiano ma che diversan1ente da Jomini non include nell'arte o scienza della guerra. Per tattica elementare intende l'istruzione individuale (scuola del soldato, del cavaliere, dell'artigliere ecc.) e di reparto, avente lo scopo di addestrare il soldato a compiere le evoluzioni e manovre dal livello di minori unilà fino al livello di divisione compreso. Tali evoluzioni e manovre sono codificale in regolamenti d'esercizio e in trattati di tattica delle varie Armi, tenendo comunque presente che ciò che potrebbero insegnare tutti i regolamenti e tutte le teorie possibili, ma che è soltanto il frutto di una lunga esperienza o di un ' attitudine personale più o meno sviluppata, è l'abilità a saper applicare alle circostanze le diverse manovre, ciò che distingue l'abile manovriere di piazza d'armi dal manovriere intelligente del campo di battaglia. qualità che talora, ma non sempre, si trovano riunite nello stesso individuo. 33

Per operazioni secondarie o di piccola guerra (vds. Schema di pag. 34) A.R. intende quelle operazioni di dettaglio, che non rientrano nella "parte superiore dell'arte militare" di competenza dei Comandi di annata, e che completano le grandi operazioni. Esse sono: gli avamposti, le pattuglie, l'occupazione di località, le marce, gli accampamenti e le scorte. Altra cosa sono per lui le operazioni speciali, che hanno carattere intermedio: oltre le operazioni delle quali abbiamo sinora parlato, e che su nwggiore o minore scala si riproducono giornalmente in ogni guerra, co,\·tituendone in certo modo la fisionomia ordinaria, se ne eseguiscono altresì talune le quali partecipando un poco delle une e delle altre di quelle già vedute, hanno però un carattere proprio dipendente dallo scopo del tutto speciale che si ha di mira con esse. 34

32

ivi, pp. 195-202. ivi, p. 83. 34 ivi, p. 215. 33


I - IL PENSIERO DI AGOSTINO RICCI

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Tali operazioni sono di cinque tipi: assedi, passaggi dei fiumi, grandi distaccamenti [cioè consistenti aliquote di forze distaccate dalla massa principale dell'esercito per compiti strategici o tattici - N.d.a.j, spedizioni marittime e guerra di partigiani. Alle spedizioni marittime A.R. dedica poco più di una pagina, quindi molto meno di Jomini. Senza soffermarsi, come fa quest'ultimo, sui riflessi del dominio del mare e sul ruolo delle forze navali, le distingue in spedizioni rientranti nelle operazioni principali di una guerra (come quelle richieste dalla guerra di Crimea) e spedizioni che invece rappresentano un'operazione secondaria, una manovra diversiva rispetto alle operazioni principali e quindi rientrano nei grandi distaccamenti. In tutti i casi, il problema principale per le forze sbarcate è di assicurarsi una base di operazione e di approvvigionamento e di mantenere sempre le comunicazioni con essa. Assai più interessanti e originali le sue considerazioni sulla guerra partigiana, nelle quali - da vecchio volontario - una volta tanto si distacca dall'ottica dogmatica e riduttiva di Jomini avvicinandosi, invece, notevolmente a Clausewitz. La fisionomia della guerra partigiana è da lui delineata senza le frequenti pretese di "asservimento " alle operazioni dell'esercito regolare e senza le altrettanto frequenti visioni riduttive: essa "abbraccia Le operazioni affatto anormali fatte da distaccamenti reclutati in gran parte all'infuori dell 'armata regolare, la quale non riceve da essi che un appoggio indiretto come solo indirettamente serve di appoggio ad essi". 35 Sull'opportunità di ricorrere alla guerra partigiana (esclusa da Jomini) A.R. la pensa come Clausewitz (o se si preferisce, come Garibaldi):

la soluzione di tale questione dipende dalle circostanze locali, e dal caraccere della guerra che si sta facendo o che s"intraprende. Nelle guerre nazionali [Jomini così definisce le guerre estese a tutta la popolazione contro un esercito nemico invasore, come è stata quella di Spagna 18081813 contro le truppe napoleoniche - N.d.a.], per esempio, l' opportunità esiste sempre, perchè con tal mezzo si utilizzano tanti elementi di azione, i quali per la loro natura o andrebbero perduti o inquadrati nelle truppe regolari di un'armata le sarebbero più di danno che di utilità, per la difficoltà che si avrebbe a far loro subire quelle forme di disciplina senza le quali una armata regolare è impossibile.36

35 36

ivi, p. 227. ivi, p. 228.


4~8~ _ _ _ _ __,I~L l='ENSIERO MILIT~RE E NAVALE ITALIANO - VOL. 111 ( 1870-1915) - TOMO I

Riguardo alle direttive e ai limiti di azione che devono ricevere le unità partigiane, per A.R. non si può stabilire a priori alcuna regola: l'unica cosa che si può dire è che "i distaccamenti partigiani devono ricevere una direzione generale, un punto lontano dell'orizzonte per modo di dire, verso il quale devono tendere, ma nulla di più; in quanto alla scelta dei mezzi per arrivarvi, alle marce a farsi, alle strade a tenersi ecc.. sono tutte cose che bisogna lasciarle interamente al tatto e all'istinto di chi ha la direzione di tali distaccamenti". Dunque le modalità di condotta di questo tipo di operazioni non possono essere soggette a teorie, prescrizioni e regole: "solo il genio naturale. o meglio ancora l'islinto, possono servire da guida". Come dimoslra la storia dei condottieri italiani narrata dal Ricolti 37 - prosegue A.R. - J'ItaJia è sempre stata ricca di uomini con le doti speciali tipiche del capo partigiano. E viene qui la prima forte, convinta e incondizionata esaltazione da parte di un autorevole generale dell'esercito regolare (che tuttavia è stato anche volontario nel 1848/1849) delle doli di Capo guerriero e di generale di Garibaldi (al momento ancora vivente e, per così dire, in piena attività): è facile il vedere come qui l'individualità del capo dei partigiani sia il tutto, e niunio certamente riunì in più alto Rrado le qualità che gli sono necessarie come il generale Garibaldi [... ]. Sorprendentemente, come già dissi indietro, è tale genio nel generale Garibaldi, al quale pare che Provvidenza abbia assegnato l'uffizio di continuare le gloriose tradizioni dell'antica arte militare italiana per quanto sono applicabili ai giorni nostri. Portando questo giudizio del generale Garibaldi non vorrei che s'interpretasse nel senso ch 'io voglio rimpicciolirne la personalità facendone semplicemente un capo guerriilas fcome ha fatto Pisacane N.d.a.]. La.fama militare di Garibaldi non può essere menomata da uno scritto come questo, ove ne avessi l'intenzione, cià che non è assolutamente. Garibaldi, che io considero qui come uomo militare e non come uomo politico, ciò che non è mio uffizio, è indubbiamente una delle individualità più rimarchevoli della nostra epoca militare. Cià che La costituisce .specialmente è quel potente spirito d'iniziativa, al quale rese sì bella testimonianza un illustre generale, giudice ben competente in tale materia. A tale qualità veramente grande in lui, io aggiungerei quella della fede che egli ha, sino all'entusiasmo, nei mezzi morali d'a zione

17

Cfr. E. Ricolli, Storia delle compa,:11ie di ve11tura in Italia, ' lilrino, Pomha 1844.


I - Il . PF.NSIEIW DI AUUSTINU RICCI

49

sopra i materiali, fede che essendo riuscito a trasfondere negli altri lo rese capace di fare grandi cose anche con pochi mezzi apparenti [cioè con poche anni e pochi materiali, che si vedono - N.d.a] d'azione. 38

Nel 1863, quando sono stati pubblicati questi giudizi di A.R., si era appena concluso con la sparatoria dell'Aspromonte tra volontari di Garibaldi ed esercito regolare il tentativo di marciare su Roma partendo dalla Sicilia: occorreva dunque un certo coraggio, specie in un ufficiale con delicati incarichi istituzionali, per lodare le doti di generale dell'eroe nizzardo. Si deve anche aggiungere che, in poche parole, A.R. dice tutto e bene, anticipando largamente gli articoli del generale Gandolfi e altri, che abbiamo citato nel Voi. II - capitolo VII: non è quindi del lutto vero che, per riconoscere a Garibaldi le qualità di un vero generale, l' establishment militare ha atteso che le bocce fossero ferme. Nella parte della condotta degli eserciti che riguarda più propriamente l'azione, dopo le operazioni speciali A.R. include anche la psicologia militare, da lui definita "uno dei rami più importanti dell'arte militare ". Questa inclusione ci sembra inutile e impropria, visto che l'autore a tale termine vuol attribuire il significato di "ragionamento sull'anima militare", argomento - egli dice - di grande importanza, perchè appartiene alla sfera delle forze mii itari predominanti in guerra e ha riflessi immediati sulle operazioni belliche. Cosa innegabile: ma si può subito osservare che operazioni del genere sono la risultante di una svariata serie di fattori morali e materiali, tali da assumere spesso importanza almeno pari o comunque assai vicina a quella della c.d. psicologia militare, fattori che di conseguenza dovrebbero essere anch'essi considerati accanto a strategia, tattica ecc .. E perchè mescolare, anche in questo caso, branche riguardanti l'azione (la strategia, la tauica, la logistica ___ ) con discipline che invece rientrano nel sapere militare, perciò non riguardano l'habitus da far assumere al militare e quindi hanno sull'azione un influsso importante, ma indiretto? A parte questo, A.R. dedica alla psicologia militare molte pagine di grande interesse anche attuale, che ruotano attorno a due argomenti: le doti del Capo e l'animo, il cuore del soldato. 39 Non dice nulla di nuovo, ma nelle sue riflessioni non si trova nulla che oggi sia da archiviare come semplice memoria del passato. Le riepiloghiamo brevemente:

"' I\. Ricci, /111roduzione ... (Cil), pp. 228-229. 39 ivi, pp. 225-230.


so

IL PENSlllROMILITARE ENAVALE ITAUANO-VOl _ lii (1870- 1915) -~TO = M =O ~ l' -- - -

- " la lealtà, la franchezza, l'onestà del carattere sono le prime qualità necessarie per chi esercita un comando, perchè essere originano La stima, e la stima è il vero fondamento dell'affetto"; - "un capo deve dividere sempre colle proprie truppe le fatiche e i pericoli della guerra, e chiamare pur esse a parte dei frutti della vittoria"; - "il pericolo non vi sconcerti mai, ed il vostro volto sia sempre calmo e sereno, la vostra figura sempre buona e facile, specialmente in un giorno di azione [ ...]. Nelle situazioni un pò critiche i soldati guardano L'aria dei loro superiori; se la trovano timida, inquieta, imbarazzata, ne conchiudono che le cose vanno male, e pensano più a porsi in salvo che a fare il loro dovere"; - "chiunque è sotto i vostri ordini deve aver accesso alla vostra bontà e alla vostra generosità quando ne ha bisogno; un capo deve mostrarsi ogni giorno sul.fronte delle proprie truppe, informarsi dei bisogni di esse, e non su certe futilità di tenuta che sono quanto meno ridicole"; - "ecco per sommi capi le qualità di cuore che deve possedere colui il quale è destinato a comandare degli altri uomini; esse soltanto possono dare quella dignità di carattere, quell'autorità personale, quel! ' ascendente irresistibile sugli animi, che lutti i brevetti possibili sarebbero incapaci di dare a chi ne è sfornito"; - "le doti d'intelligenza e quelle di carattere sono le due condizioni indispensabili per il comando di un esercito. La riunione di tutti i poteri politici e militari in una sola persona assicura, a parità di condizioni, un notevole vantaggio contro uno Stato che mantiene invece divisi il potere politico e quello militare"; - non è sufficiente che chi ha la responsabilità del comando di un esercito sia in possesso di tutti i requisiti richiesti. È altresì necessario "che l'opinione dell'armata ne sia ben convinta, e che la riputazione di quello sia bene stabilita sotto ogni rapporto in faccia di questa"; - "non è la molteplicità delle cognizioni che fa il merito di un uomo di guerra nelle condizioni delle quali discorriamo, ma è soprallutto La convinzione che ha di esse, La fede nei pochi principf ,,ratici o razionali che l'arte militare insegna, e soprattutto quindi la conoscenza degli uomini e dei mezzi per farli agire "; - "la volontà è la potenza operativa dell'uomo eminente; la debolezza di essa in chi comanda, od il difetto di essa in chi deve esexuire, forse ancor più dell 'ignoranza, generarono dei luttuosi disastri nelle armate";


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-~ • ·_IL ~P _EN ~ SIER ~ O DI AGOSTINO RICCI

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- occorre studiare tutte le volontà subordinate, e saper impiegare gli uomini nelle mansioni che meglio si confanno alle lori attitudini: ma soprattutto "ciò che si richiede è che le volontà subordinate siano fortemente padroneggiate e sottoposte a quel dominio morale irresistibile che costituisce il cardine della vera ed efficace autorità. Ecco lo scoglio contro il quale generalmente si rompe l'esercizio del comando, ecco l'origine di tanti disastri che sembrano misteri, mentre lo spiegarli sarebbe sì facile"; - "che varrebbe ad un generale l'aver formato il piano d'operazione più razionale, e l'avere tutte le doti d'intelligenza e di carattere per eseguirlo, se al momento di tradurlo in atto, La volontà dei suoi soldati gli fa difetto, ed il mal volere dei suoi Luogotenenti lo fanno abortire?"; - "non è più coi ricordi della città e del patrio campanile che bisoina fermare l'amore della patria ma con un sentimento più ampio che abbraccia interessi diversi, estendendosi sino ai limiti etnografici assegnati dalla Provvidenza alle nazioni. L'amore della patria così inteso deve essere generalizzato in un'armata e nella nostra in particolare, che per causa delle divisioni municipali dell'Italia sino al 1860, più di tutti ne ha bisogno; esso sarà il frutto delle instituzioni che reggono attualmente il nostro paese, delle ferrovie che agevolano le comunicazioni fra Le varie parti d'Italia, e del sistema di reclutamento in vigore nell'armata, il quale ci darà tra poco delle legioni veramente nazionali". ln tema di organizzazione militare A.R. cita come esempio pienamente operante - oltre alla Grecia, a Roma e alla Rivoluzione Francese - la monarchia asbburgica, che proprio all'organizzazione militare deve la sua sopravvivenza nonostante "la viziosa organizzazione politica". 40 La defi njzione che ne dà non appare affatto sorpassata nel XX secolo: per organiu.azione militare di uno Stato si intende l'insieme di quei/i elementi di forza, i quali sono preparati nei periodi di pace, collo scopo di tutelare la sua esistenza sia all'interno che all'esterno. L'organizzazione mili tare di uno Stato è regolata da una quantità di istituzioni e di leggi le quali risolvono praticamente i diversi problemi che come scienza essa studia in astratto, e nella soluzione più razionale di tali problemi consiste tutto il merito di una buona organiu.azione militare.

40

ivi, p. 45.


~~ IL_ PENSIERO Mn.lTARE E NAVALE ITALIANO- VOL. 111 (1870- 1915) TOl>!Q.L

L'orf?anizzazione militare prendendo dalla nazione alla quale viene applicata !?li elementi greggi i quali devono servire un giorno alla difesa di essa, li lavora, li prepara, li conduce sino al punto in cui - atti a servire allo scopo al quale sono destinati - entrano in azione, e passano in certo modo nelle attribuzioni dell'altro rampo d'arte militare, ossia di quello che ha riguardo ali' azione, ramo che, come dicemmo nel proemio, per taluni autori riassume in sè tutta l'arte militare. È a questo punto che cessa l'ufficio del Ministero della guerra, ed entra in funzione il ,?enerale comandante l'armata in campagna; quello [cioè il Ministero - N.d.a.] ha preparalo, questi [cioè il generale comandante N_d_a_] impie,?a, l'azione dell'uno fa sentire la propria influenza su quella dell'altro, ma ne è affatto distinta e non sempre il genio di ambedue si trova riunito nello stesso soggetto.

Gli "elementi greggi" che riguardano l'organizzazione sono tre: il personale, il materiale e il terreno. 1n proposito A.R. indica una precisa gerarchia di valori, che questa volta smentisce il carattere "geograJì.co" e materialista o positivista della sua precedente ottica strategica: il personale è evidentemente il principale elemento dell'organizzazione militare di una nazione_ Gli allri due elementi, il materiale cioè ed il terreno, sono elementi ausiliari, i quali è ben vero che hanno acquistato ai giorni nostri specialmente, una importanza pressochè eguale a quella dell'elemento primario, ma non potranno mai supplire non dirò alla deficienza, ciò che sarebbe un assurdo, ma alle scadenti qualità di esso I ... I. Fra due armate le quali si fanno la guerra, il vantaggio alla lun,?a resterà sempre a quella la quale avrà la superiorità nel personale considerato sollo il suo duplice aspetto d1 forza morale e di fàrza fisica .~:

A.R. suddivide le attività sull'uomo in reclutamento, ordi110111ento, istruzione morale, istruzione tecnica e amministrazione (vds. specchio di pag. 34)_ Come già detto per amministrazione, secondo l'uso jominiano del tempo, egli intende grosso modo l'attuale logistica; ma salta subilo ali ' occhio che essa nella ripartizione citata riguarderebbe solo I 'uomo, mentre invece rientrano nel suo campo d ' interesse anche il materiale e l'ambiente naturale (quest'ultimo, specie dal punto di vista delle ri sorse, del clima, delle vie di comunicazione ecc.).

41

ivi, p. 47.


I - Il. PENSIERO DI AGOSTTNO RICCI

53

A proposito di reclutamento e ordinamento le idee di A.R. - convinto sostenitore dell'esercito permanente - non possono che essere quelle per così dire classiche, sostenute anche prima del 1848 dall' establishment politico-militare. Tutti gli eserciti europei - egli osserva - applicano il principio che ogni cittadino è tenuto a concorrere alla difesa del Paese e quindi è soggetto alla leva obbligatoria. Il principio suddetto subisce in ciascun Paese varie modifiche a seconda dell'indole nazionale, delle tradizioni, della situazione politico-sociale ecc .. In ogni caso (osservazione quanto mai pertinente), il sistema degli ingaggiamenti volontari quale è in vigore nel/' Inghilterra è solo possibile quando viene applicato ad una nazione insulare la cui difesa è affidata principalmente alle sue.forze marittime[ ... ]. Ma ove un tale sistema si volesse applicare ad una nazione continentale, essa si troverebbe ridotta ad uno stato di inferiorità relativamente alle altre che potrebbe essere origine di se rii pericoli per essa.42 Inoltre il reclutamento volontario è più agevole in Inghilterra che altrove proprio per il grande sviluppo industriale del paese, il quale è però soggetto a crisi periodiche che gettano sul lastrico migliaia di operai, "o_f frendo così ai reclutatori inglesi delle risorse che non potrebbero trovare certamente in un paese agricolo, o in cui l'agricoltura e l'industria.fossero in proporzioni più equilibrate". La difesa della società, che richiederebbe la chiamata alle anni del maggior numero di cittadini, e il suo benessere - che al contrario richiederebbe l'esenzione dal servizio militare del maggior numero di cittadini o brevi ferme di leva - sono due esigenze contrapposte, che le leggi di reclutamento mirano a conciliare, costituendo eserciti permanenti e riserve da chiamare alle armi solo all'emergenza. Ma in merito A.R. non si pronuncia, così come non si pronuncia sull'età ottimale per la chiamata di leva (la più giovane possibile per le esigenze civili; la più matura possibile per le esigenze militari, che richiedono uomini con lo sviluppo fisico già compiuto). Osserva, tuttavia, che per riempire i vuoti di un esercito in guerra sono preferibili a uomini anziani le classi giovani, anche se poco istruite. Su un'altra vexata quaestio dibattuta fino ai nostri giorni, cioè sulla scelta tra reclutamento regionale (come in Prussia) e reclutamento nazio-

42

ivi, p. 48.


54

IL PENSIBRO MILffAl<F. E NAVALE ITALIANO - VOL.111 ( 1870- 1915) • TOMO I

nale (come in Francia e in Italia), A.R. osserva che la soluzione dipende da circostanze locali e anche temporanee, ma che per l'Italia al momento è preferibile il modello francese. In proposito, "già il Ministro La Marmora [nell'esercito piemontese - N.d.a. I preludeva ad esso coll'abolizione dei reggimenti provinciali dei quali non conservava che i nomi, e dando ali' armata una costituzione che doveva fame, come ne fece di fatto, un'armata nazionale". 43 Sull'istruzione ed educazione morale del soldato A.G. si dilunga assai, avvalendosi manifestamente della sua lunga esperienza di reparto in fanteria. Meritano un breve cenno le pagine che dedica al trattamento e all'istruzione delle reclute, criticando aspramente i metodi in uso: vedremo ciò che si pratica riguardo ad un coscritto quando esso giunge al deposito al quale appat1iene. Appena giunto si spoglia dei suoi abiti borghesi, si tosa come una pecora, si Lava, e quindi così tosato, impalato in una cravatta d'ordinanza, imbrogliato in abiti dei quali non ha L'abitudine, coi piedi in un paio di scarpe che talora lo tot1urano perchè non.fatte per essi, comincia il suo tirocinio coll'uno e due della scuola del soldato e del maneggio delle armi, due cose nelle quali si.fa consistere tutto o almeno gran parte dell'istruzione del soldato. Intanto nei giorni di pioggia e nei ritagli di tempo si procede alla sua istruzione morale ed a quella sulle armi e i regolamenti. Ciò fatto, un pò di servizio di piazza, un pò di tiro a segno, un pò di scherma di baionetta, un pò di scuola di cacciatore e l'individuo è hello e fatto, passa al battaglione, riceve il suo brevetto di soldato e non ci pensa più, salvo a ricominciare da capo l'anno venturo alla ripresa dell'istruzione generale del reggimento. 44

Così facendo, a suo giudizio si impedisce con tutti i mezzi possibili che penetri nel giovane soldato l'amore per il mestiere delle armi, mentre "l'idea dei suoi doveri è la più falsa che possa avere, essendo esso obbligato a formarsela dal maneggio delle anni su cui fu torturato per tanto tempo, ma il fondo del/ 'istruzione, ciò che costituisce veramente il soldalo manca a:ffatto in lui, la conoscenza che ha della propria arma è superficiale, superficiali le nozioni della disciplina, alle marce non è affatto esercitato, la conoscenza degli altri suoi servizi è in lui ajj'atto mediocre".

43 44

ivi, p. 62. ivi, pp. 95-96.


____l:__1!,YENSIERO DI AGOSTINO RICCI

55

Quali rimedi? quale la giusta via da seguire? Per A.R. bisogna anzitutto prendere atto che il vecchio esercito piemontese si è trasformato in italiano: l'antica armata piemontese, formata da lungo tempo, aveva in sé stessa, nelle sue tradizioni cioè, e negli errori stessi delle sue abitudini tradizionali, quella forza di costituzione la quale fa marciare un corpo quando anche potrebbe marciare molto meglio, ma oggidì le cose sono affatto mutate, la vecchia armata si è fusa in una armata quattro volte più vasta, una gran parte dei Quadri è affatto giovane e da farsi, giova dunque stabilirla su nuove basi le quali devono essere stabilite per quanto possibile perfette; pur troppo il tempo, l'uso e L'abuso la faranno tralignare da esse, ma questo tralignamento sarà tanto maggiore quanto più partirete da un punto vicino; proponetevi dieci e otterrete cinque, ma .\·e vi proponete di ottenere cinque soltanto otterrete due ed anche meno. 45

Nel caso specifico dell'istruzione e educazione delle reclute, si deve partire dalla constatazione che esse posseggono "un morale più o meno abbattuto e unfisico più o meno potenziale". Gli istruttori devono perciò elevare anzitutto il loro morale e abituarle allo sfruttamento completo e razionale delle loro forze fisiche, con marce gradualmente prolungate e con esercizi ginnici progressivi. E qui A.R. ricorda lo scetticismo e la scarsa attenzione con la quale nella realtà quotidiana dei reparti in passato è stata accolta la saggia prescrizione del Ministro generale La Marmora, il quale voleva "che l'accoglienza fatta alle reclute fosse solenne quanto era possibile, che gli uffiziali e il corpo di musica del reggimento fossero a riceverle, che fossero scortate al quartiere con una certa pompa ed accomunate coi vecchi soldati del reggimento". 46 Tn effetti la prima parte dell'educazione del coscritto - prosegue A.R. - dovrebbe appunto far scomparire dal suo ani_m o le diffuse prevenzioni sulla disciplina e sulla durezza del servizio, per fargli comprendere la nobiltà della missione alla quale è chiamato. A queste idee assai moderne egli fa seguire un'impostazione altrettanto moderna dell ' iter addestrativo. In materia di ordinamento delle unità, ricordiamo due sue idee assai sagge e moderne:

45

46

ivi, p. 97. ivi, p. 94.


IL PENSlllROMILITARE E NAVA LE ITALIANO- VOL lii (1870- 1915) -TOMO I

- la composizione dei reparti deve tener conto della loro comandabilità. Sono perciò da condannare "certe esagerate formazioni di unità

tattiche, come ad esempio quella dei battaglioni inglesi a otto compagnie più due di deposito, e quella di certi battaglioni tedeschi i quali oltrepassano i 1000 uomini"; - al momento "i due perni amministrativi [e logistici - N.d.a.l essendo la compagnia e il reggimento, il ballaf!,lione scomparisce affatto nello stadio di formazione di un'armata, e tutta l'azione di chi lo comanda si riduce a prenderne il comando in piazza d'armi ...". Eppure esso è l'unità tattica principale: occorre quindi ''.far scomparire l'anomalia delle unità operative e non amministrative e viceversa", rendendo il battaglione di fanteria amministrativamente autonomo, come già lo è quello di bersaglieri. Molto discutibile, invece, il suo punto di vista a proposito della o pportunità di tenere anche in tempo di pace le unità sul piede mobile (cioè con personale. organi e mezzi logistici che le rendano idonee a entrare immediatamente in campagna) o sul piede di f?Uarnigione (cioè abbisognevoli di rinforzi sia di personale che di quadrupedi e materiali prima di poter entrare in campagna). Egli preferisce il piede di f?uarnigione (quello al momento prevalente), per diversi motivi: - all'atto pratico gli eserciti costituiti sul piede mobile non forniscono sempre il vantaggio di entrare rapidamente in campagna; - gli eserciti costituiti sul piede di guarnigione hanno invece dimostrato di poter entrare in guerra con la massima celerità (e qui A_R_ cita come malaccorto esempio la mobilitazione dell'esercito piemontese nel 1848/1849, che invece è stata un fallimento, e que lla dell'esercito francese nel 1859, che "stupì l'Europa colla .facilità

colla quale si portò sul Po, organizzata e pronta a comballere " (anche in questo caso, vi furono numerosi inconve nie nti logistici e ritardi);47 - il piede di guarnigione ha il vantaggio di consentire la costituzione dell'esercito a seconda delle specifiche esigenze delle guerre c he si intraprendono, tenendo celati i dati al nemico il più tardi possibile; - il piede mobile ha il vantaggio di cementare bene tra di lo ro i corpi che poi dovranno agire insieme in guerra I ma questo obiettivo può essere raggiunto anche col piede di guarnigione, con il sistema dei grandi campi d'istruzione - N.d_a.J.

47

Cfr. F. Botti, La logistica del 'Esercito Italiano - Voi. I (Cit.). Parte I e 111.


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Ricordiamo, infine, alcuni sani concetti ai quali secondo A.R. dovrebbero ispirarsi l'educazione e l'istruzione del soldato, tenendo presente che ciascun popolo ha le sue caratteristiche e quindi richiede un particolare tipo di educazione, istruzione e disciplina. li soldato - egli osserva - è fatto per la guerra e non per la piazza d'armi, e il meccanismo della tattica elementare deve avere come base la semplicità: "tutto ciò che in essa non è necessario, è dannoso". Chi ha fatto la guerra "ha potuto persuadersi di quale utilità riescano in campagna quelle quintessenze teoriche che formano l'idolatria di certi manovrieri di piazza d 'armi". 48 I regolamenti di esercizio della fanteria sono stati di re-

cente semplificati, ma a costo anche di scostarmi da autorità, per le quali professo il nwssimo rispetto, dirò francamente che a mio modo di vedere non si affrontò la questione dal suo vero aspetto, e che mollo resta ancora da fa re a questo riguardo. Le abitudini e lo spirito conservatore proprio delle armate ci hanno resi schiavi di certe opinioni dalle quali esitiamo ad allontanarci, ammettendole come dogmi di fede. Per questa ragione, i perfezionamenti e le mod{ficazioni introdotte nei regolamenti non versarono che su certi dettagli di poco conto, e non valeva certo la spesa di mettere a soqquadro per parecchi anni L'istruzione di un 'armata per vederli adottati. In massima io tengo che nelle cose militari quando non si tratta di riforme radicali il meglio è nemico del buono, poichè non è certo nel modo di portare un fucile o nei tempi e movimenti nei quali si divide la carica che consiste il merito di una teoria di esercizio. 49

La critica di A.R. è sempre costruttiva, e dopo aver constatato gli inconvenienti s uggerisce anche un metodo per ottenere una formazione razionale del soldato, basalo sull'asserto - non originale, perchè napoleonico - che "la prima condizione alla quale deve soddisfare un soldato è quella di essere forte, robusto e rotto alle fatiche" e che le fatiche - in particolare le lunghe marce e i lunghi accampamenti - fanno il soldato. A.R. in sede di organizzazione tratta anche le fortificazioni, sia sotto la voce materiale che sotto la voce terreno, il che porta a notevole dispersione di concetti. Si tratta di un argomento di importanza fondamentale negli scritti successivi, sul quale per il momento abbozza alcune idee, che possono essere così riassunte: •• A. Ricci, l11tmduzio11e... (Cit), p. 84. •• ivi, pp. 84-85.


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- l'efficienza del sistema delle grandi piazze d'anni o campi trincerati al momento in auge, «dà adito a dubbi per il suo eccessivo sviluppo»,- una catena di montagne offre una delle migliori linee di difesa per una nazione. Si può difendere una siffatta frontiera sui colli, all'interno delle valli o al loro sbocco; in tutti i casi "non bisogna formarsi l'illusione che con mezzi siffatti si possa riuscire a chiudere ermeticamente una frontiera tanto da renderla insormontabile, poichè l' esperienza ha sempre invece dimostrato il contrario"; 50 - una siffatta difesa serve soprattutto a ritardare e logorare l'invasore, per dare tempo alle forze principali della difesa di concentrarsi allo sbocco delle valli e dare battaglia all'avversario prima che abbia potuto stabilirsi nella pianura e riorganizzarsi; - "si possono perdere le porte del paese, ma non si deve perciò disperare di riacquistarle ancora, rigettando il nemico al di là di esse. A tal uopo conviene preparare, oltre la difesa delle frontiere, le difese del paese internamente utilizzando le diverse linee successive di ostacoli territoriali che esso può presentare"; 5 1 - dopo l'annessione della Lombardia al Piemonte (1859) il La Marmora aveva progettato di coprire la Lombardia verso Est fortificando le alture di Lonato e Castiglione. Dopo la caduta del La Marmara e l'annessione dell' Halia Centrale, iI Fanti aveva basato la nostra difesa sulla linea del Po, lasciando la Lombardia allo scoperto "ma creando una base di difesa imponente, la quale riunisce alle migliori qualità difensive, tutte quelle offensive che si possono richiedere per ripigliare a tempo opportuno l'iniziativa delle operazioni". Alla fine di questa analisi è doveroso chiedersi quale sia la valenza teorica e pratica del lavoro. La risposta è chiara: per quanto attiene agli aspetti teorici dell'arte della guerra l'impianto rimane jominiano e sostanzialmente poco originale, con importanza a volte eccessiva attribuita ai fattori geografici e materiali e una ripartizione della materia discutibile sotto vari aspetti. Ciononostante, le finalità pratiche, didattiche e educative che l'autore si ripromette sono da ritenersi pienamente raggiunte. Su parecchi argomenti le sue considerazioni pratiche direttamente o indirettamente indicano i mali dai quali il nuovo esercito italiano deve rifuggire, delineando con efficacia la figura del comandante e le esigenze dell'homo militaris nella specifica situazione italiana del momento.

50 ivi. p. l 16. "ivi, p. 118.


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Anche per queste angolature, come avviene in altri autori italiani del periodo A.R_, in contraddizione con l'ancoraggio teorico di fondo e con le lodi ali' Arciduca Carlo, spesso finisce con l'attribuire importanza preminente a.i fattori morali e spirituali, avvicinandosi a Clausewitz. L'opera rimane perciò una pregevole summa di quello che è l'esercito italiano al momento e di quello che dovrebbero essere: né vi mancano accenni critici alla campagna del 1848/1849 e a quella del 1859. Della futura guerra del 1866 (che viene combattuta a tre anni di distanza dall'uscita del! 'Introduzione allo studio dell'arte militare) si può solo dire che nella organizzazione e condotta dell'esercito da parte italiana non si tiene certo conto di quanto A.R. si sforza di raccomandare, anzi: si fa esatlamente il contrario. Se si considera la larga influenza che egli ha avuto modo di esercitare come educatore per diversi anni degli ufficiali di Stato Maggiore nell'apposita scuola che ha preceduto la Scuola di Guerra, si deve ammettere che questa è un'altra dimostrazione che la sconfitta del 1866 non è certo dovuta a carenze nella formazione teorica dei Quadri intermedi, come invece di frequente si legge. Due, in conclusione, i limiti del libro: non aver cercato riferimenti nella letteratura militare italiana coeva e precedente, completamente ignorata a vantaggio dei soliti Jomini e Arciduca Carlo e degli autori francesi; non aver risolto la contraddizione tra i predetti riferimenti teorici e le considerazioni di vario ordine a sfondo pratico, che portano l' autore a privilegiare contraddilloriamente - a lume di stretta e spontanea logica e quasi automaticamente - i fattori morali e spirituali. A sua discolpa si può solo dire che anche quando fornisce dei principi e dei dogmi, non perde ma.i l' occasione per indicare la necessità di superarli se la situazione lo richiede.

«Dell' insegnamento dell' arte militare» (1863)52 Si tratta di una breve e qualche volta polemica puntualizzazione (solo 86 pagine) degli argomenti trattati nell"'lntroduzione ", specie sotto il profilo della metodica da seguire nell'insegnamento dell'arte militare. Come scrive lo stesso autore nell'Avvertenza che precede il testo, qualche amico ebbe a farmi benevolmente osservare che non era forse abbastanza chiarita l'utilità pratica del mio libro nell'economia gene-

" Torino, De Giorgis 1863.


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raie dei nostri studi militari. Altri meno esattamente, a mio avviso, emise questa verità altrettanto dura quanto necessaria a dirsi, che nel nostro Paese, dell'insegnamento sull 'arte militare non se ne capisce affatto. A riempire la lacuna che mi si fece osservare, ed a rettificare la necessaria e dura verità, è destinato questo breve scritto, il quale può così essere consideralo come un'appendice alla mia Introduzione.

A.R. cita il giudizio assai lusinghiero deJlo Spectateur Militaire francese sull'Introduzione, ma al tempo stesso ammette che esistono "delle lacune che rendono altamente imperfetto tale lavoro", fino a fargli dire che ''.fra non molto mi sentirò condotto a rifonderlo da capo a fondo". 53 Ciò che, invece, non ammette (e si sforza di rintuzzare in tutti i modi) è la critica - peraltro espressa in forma generica e senza riferimenti personali - ai metodi di insegnamento dell'arte militare e della geografia, spesso considerate come materie staccate quando invece sono tra di loro connesse. Detto questo, egli inizia la sua nuova analisi prendendo atto che l' arte militare è al momento in decadenza e che non c'è accordo tra gli studiosi sul suo significato. Di tale decadenza e della scarsa considerazione di cui essa gode dà la colpa "a quella specie di scribaccianti, più che scrittori di cose militari, i quali fanno ordinariamente le loro armi nelle colonne del giornalismo periodico e rare volte nel militare, trinciando sulle questioni più gravi della scienza della guerra con una Leggerezza e un sussiego, che muoverebbero al riso quando non si sentisse quanto danno da un vezzo possa venire ali 'avvenire della vera scienza". 54 11 giornalismo per A.R. è nemico acerrimo del vero sapere, perchè sostituisce allo studio approfondito e completo delle varie questioni, l'esame superficiale e affrettato di qualche loro aspetto. Esso non dovrebbe usurpare le attribuzioni della vera scienza, ma limitarsi a "tener vivo lo spirito militare nel paese e nell'esercito, trattare quelle questioni di dettaglio, le quali non hanno bisogno di grandi sviluppi e possono stare isolate, propagare infine Le notizie utili per l'istruzione e la moralità militare ". Riguardo ai contenuti dell'arte militare, questa volta A.R. lascia da parte Jomini e l'Arciduca Carlo e si richiama unicamente al Maresciallo Marmont, la cui citata opera fondamentalmente jominiana L'esprit des i11stitutions militaires (1845) è da lui definita "aureo libro del quale non si

" ivi. p. 44. ivi, P- 16_

4 -'


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potrebbe mai raccomandare abbastanza la lettura agli studiosi di cose militari". 55 Dal Marmont riprende, in particolare, la definizione di arte militare abbozzala ma non delineata nell'Introduzione: "l'insieme delle conoscenze necessarie per organizzare e condurre una massa d'uomini armati". 56 Condurre come, dove e perchè? Ci troviamo davanti a una citazione incompleta che rimarca ancor più l'errore elementare nel quale cade lo stesso Marmont (il quale, per inciso, parla di arte della guerra e non di arte militare). Va qui ancora sottolineato, infatti, che l'arte è sempre azione e non può essere solo un insieme di conoscenze: tale è se mai la scienza. Inoltre il testo completo del Marmont configura con assai maggiore chiarezza il pensiero del Maresciallo francese: l'arte della guerra è l'insieme delle conoscenze necessarie per con.durre una massa d'uomini armati, Ot~anizzarla, muoverla, farla combattere e dare agli elementi che la compongono la massima efficienza, vigilando tulfavia sulla loro conservazione_ Il genio della guerra consiste nella capacità di applicarle a proposito, di individuare le migliori combinazioni con sicurezza e prontezza. in mezw ai pericoli e alle crisi[ ... ]. L'ane della guerra si compone di due pani: il mestiere propriamente detto e la pane morale che è propria del genio I... J- le arti militari consistono nella conoscenza dei procedimenti scientijici o meccanici che regolano i panicolari dell'azione e l'impiego dei mezzi. Così la strategia, la tattica, l'artiglieria, le fort!ficazioni, i 'amministrazione degli eserciti sono arti militari che debbono essere jàmiliari a un generale. Ogni arte ha la sua teoria; ma la capacità di servirsene con profitto richiede assiduo studio e spirito d'osservazione.51 A.R. subito dopo si riscatta, indicando in modo corretto la distinzione tra arte e scienza militare: /'arte militare, come tutte le arti sue sorelle, prima di essere un'arle deve essere necessariamente una scienza, poichè in fin dei conti l'arte altro non è che la attuazione dei portati scienti_fici nel campo dei fatti, ed è perciò che l'arte di cui discorriamo deve essere considera/a sollo le

55 56

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ivi, P- 13- 14. ivi, p. 21. Maresciallo Mannont, Op. cii. (traduzione italiana). pp. 2 e 132.


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due sue fonne diverse, vale a dire la speculativa e la pratica, chiamandola molto più esattamente scienza quando la si studia sotto la prima, ed arte quando la si pratica sotto la seconda delle due forme ora dette. 58

Segue una dimostrazione della necessitò teorica di stabilire dei principi dell'arte rrùlitare, e della loro utilità pratica. Dalle argomentazioni di A_R. emerge una non tanto nascosta polerrùca con i seguaci del positivismo (come il Marselli) anche nel campo delle teorie militari: gli uomini anche i più positivi e i più pratici della terra devono però sempre convenire che le cose prima di esse cose sono idee, e che Le idee sono un frutto della mente, la quale è fecondata dal raziocinio applicato alla osservazione sia ideale che materiale, e che nella maggiore o minore attitudine personale a questa doppia 5pecie di osservazione consiste il merito della creazione dei grandi concetti, i quali devono essere concetti prima di essere dei fatti[ ___ ]_ Non sono gli uomini mediocri ed a corte vedute che voglirm restar sempre avviticchiati all'ordine reale dei fatti, trepidando di sollevarsi da essi nel campo fecondo dei principi, per tema di perdere terra e di essere balestrali in uno spazio indefinito, ove Le Lom penne non varrebbero a sorreggerli... 59

Gli uomini di genio - egli prosegue - si distinguono dai mediocri, proprio perchè hanno più fede nelle idee che nei fatti, senza escludere la possibilità di realizzare un'idea, solo perchè essa non è mai stata applicata. Lo stesso Napoleone - il quale pur detestava gli ideologi - in fondo è stato uno dei più grandi ideologi che siano mai esistiti, perchè "riuniva mirabilmente alla feracità prodigiosa della mente un senso pratico squisitissimo per l'applicazione, era al tempo stesso la scintilla che crea e Lu strumento che eseguisce ...". 60 Se si applicano queste considerazioni alla scienza della guerra si vedrà come possano esistere a priori dei principi razionali ed accettabili sia sull'organizzazione che sull'impiego delle armate, prima ancora che l'esperienza abbia apposto ad essi il suggello della propria sanzione materiale, poichè alla fin fine poi l 'esperienza non potrà mai sanzionare di fatto ciò che non fu prima ideato e pensalo nella mente.

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A. Ricci, Dell'ir1segnamento... (Cit). p. 23.

'° ivi, p. 25. 60

ivi, p. 27.


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1n definitiva l'arte militare è strettamente legata alla " verità razionale" e non deve essere da esse separata (come vorrebbero alcuni), perchè "ogni scienza - arte, e quella della guerra è della specie, tiene colla testa alla sfera delle idee e coi piedi a quella deifatti"_ 61 Per A.R_ lo studio razionale de11e questioni connesse con la scienza o arte militare si fa appunto ricorrendo ai principi, i quali si stabiliscono - come afferma il Marmont - "considerando in tutti i suoi aspetti lo scopo ericercando poi il miglior modo di attuarlo"_ Esso è basato principalmente nell'analisi de11'esperienza, cioè sull'osservazione dei fatti militari dei quali si è autori , attori o spettatori soltanto. Solo in mancanza di tale esperienza si può ricorrere "a studi statistici e storici i quali sono destinati a tener luogo, fino a un certo punto soltanto, di quella esperienza personale che a tulli non è dato di acquistare o quanto meno di completare in ogni sua parte". 62 Sull'effettiva valenza di questi principi, comunque, A.R. si dimostra fin troppo flessibile: "ben Lungi dal dover essere stabiliti come dogmi, [essi] si devono sempre accompagnare colla riserva generale che nei principi di arie il valore assoluto sonostà di molto al relativo, dipendente dalla condizioni di tempo, di luogo e di persone, nelle quali tali principi sono applicati". 63 In tal modo più che di principi, si tratta di semplici orientamenti: siamo molto lontani dal!' Arciduca Carlo, da Jomini e dallo stesso Marmont, ma al tempo stesso molto vicini (senza che A.R. se ne renda conto ) a Clausewitz.... A.R. nega infine che la scienza del terreno debba avere sempre la preminenza sugli altri due elementi (il personale e il materiale): ciò equivarrebbe a dire che "un prodotto aritmetico è più il portato di uno che di un altro fattore fra i vari che lo hanno generato". I tre fattori vanno considerati insieme; ma se proprio si volesse dare la preminenza a uno dei tre, allora occorrerebbe darla al personale, "come quello che unico fra i tre essendo dotato di iniziativa propria, può fare a meno, assolutamente parlando, degli altri due, e tanto più ancora perchè le trasformazioni sino ad un punto più o meno possibili in questi, non lo sono affatto in quello lcioè l'uomo rimane sempre lo stesso, mentre gli altri due elementi possono mutare - N.d.a.]". 64 In questo modo egli intende confutare "una sentenza che è una vera esagerazione, e che dimostra sempre meglio come la scienza trasportata

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ivi, p. ivi, p. 61 ivi, p. 64 ivi, p. 62

29. 30.

60. 31.


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sulle colonne dei {?iornali ci perda e della propria dignità e della propria verità". Probabilmente intende riferirsi polemicamente a un articolo sulla Rivista Militare del 1859, nel quale si afferma che "la strategia, la tattica [... ] tutte le parti dell'arte militare hanno per hase indispensabile la cognizione del terreno, la quale sola può assicurare il compimento appropriato à loro teorici consigli". 65 Ma al tempo stesso, non sembra rendersi conto che nell'Introduzione pur ammettendo la preminenza dei valori spirituali, basa il suo concetto di strategia e tattica esclusivamente su elementi geografici: ciò che ora afferma è quindi in contraddizione con tale concetto, che peraltro non sente il bisogno di rettificare. A proposito del programma di insegnamento dell'arte militare A.R. non fa che difendere l'impostazione da lui data ali' Introduzione. L'insegnamento in questione deve raggiungere la massima estensione alla Scuola di Applicazione di Stato Maggiore di Torino dove egli al momento (I 863) insegna (non è ancora stata fondata la Scuola di Guerra). Gli ufficiali che frequentano questo alto Istituto, infatti, diversamente dagli altri hanno bisogno di conoscere i principi ed il meccanismo generale di tutte le branche. E qui si trova un accenno al modello tedesco, che porterà a creare nel 1867 una Scuola di Guerra anche in Italia: e che questa non sia soltanto una mia opinione basti a dimostrarlo l 'accennare alla SC(IOia di applicazione di Stato Maggiore in Prussia, ove s'intitola col nome generico ed espressivo ad un tempo di Scuola di Guerra; istituzione che gode di un 'immensa reputazione in tutta la Germania non solo, ma all'estero eziandio. 66

A.R. sostiene (in anticipo) anche la necessità di un tirocinio pratico dei futuri ufficiali di Stato Maggiore, ancor prima che raggiungano le unità. Infatti il salto della teoria nuda alla pratica nuda è un salto troppo brusco perchè non si senta l 'utilità e dirò anzi il bisogno di porre fra l'una e l'altra, in tutto ciò che è possibile, un tirocinio intermedio nel quale le difficoltà della pratica si possano già sormontare in parte prima di mettere gli allievi alle prese colla somma di esse, quale si incontra solamente nelle operazioni di fatto. Si tratterebbe, a mio avviso, di rompere, in

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In "Rivista Militare ltaliana" 1859. Voi. I pp. 107- 117. A. Ricci, D e/l 'insewu1me11to ... (Cit). p. 49.


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tutto ciò che è possibile il farlo, gli allievi al disimpegno pratico dei loro uffizi prima che la responsabilità morale e materiale del proprio operato e tante altre cause imprevedibili vengano a complicare la questione, rendendone più difficile la soluzione, e quel che più monta, più probabili gli errori, e perciò il danno del servizio_

A_R_ riporta anche il programma di arte militare scguìto alla Scuola di Applicazione di Stato Maggiore e da lui al momento insegnato, Ja cui base teorica è, naturalmente, l'Introduzione allo studio dell'arte militare. Il corso s i articola in due anni, ciascuno con una parte teorica e una parte pratica; nella parte pratica del secondo anno figura - ancora allo stato di progetto - la campagna logistica, da lui proposta "ad esempio di ciò che si pratica in Prussia". Gli scopi da raggiungere con questa campagna sono da lui così descritti, chiarendo per l'occasione che cosa intende per logistica: ho detto, parlando dei programmi di arte militare, che in essi la parte pratic.:a vorrebbe esser spinta sino al punto in cui si urta coll'impossibilità di andare più oltre [... i. Ora io troverei che la logistica, ossia l'attuazione dei concetti strategici per mezzo delle marce, dislocazioni, passaggio di ostacoli territoriali ecc., e che forma l 'incombenza speciale degli ufficiali di Stato Maigiore, vorrebbe essere, secondo l'esempio prussiano [nostra sottolineatura - N.d.a.], tradotta nell'insegnamento in una esercitazione pratica d'insieme, nella quale tutte le varie operazioni che ne dipendono fossero eseguite su di un tema ipotetico, calcolato però su qualche campagna storica delle tante che ebbero luogo in questo nostro Paese...61

Dai riferimenti al modello della gi à esistente Scuola di Guerra tedesca e dagli indirizzi che A.R. intende dare aH'inscgnamento si può legittimamente dedurre che: - egli è stato il principale fautore della costituzione della Scuola di Guerra anche in Italia, anticipandone al corso di arte militare da lui tenuto alla precedente Scuola di Applicazione di Stato Maggiore piemontese l ' impostazione didattica; - la Scuola di Guerra nel 1867 non nasce in vacuo, ma si innesta sul tronco della già esistente Scuola di Applicazione di Stato Maggiore, dove insegnano uomini illustri come il A.R. e altri.

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ivi, p. 75.


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Un altro argomento importante da lui affrontato in modo senza dubbio originale, anche se non condivisibile, è il rapporto tra arte militare e storia militare, che al momento (come avverrà anche nella futura Scuola di Guerra) sono due materie d'insegnamento separate. A suo giudizio l'insegnamento della storia militare dovrebbe abbracciare l'evoluzione di tutti i rami dello scibile militare, dai più elevati ai più modesti. Una materia immensa che non è possibile affrontare e che finisce col ridurne l'insegnamento a "una filza di luoghi comuni che si tramandano sulle panche delle scuole da lungo tempo, sugli opliti, i peltasti, i veliti [... ], tutte cose che non danno se non un 'idea la più superficiale della materia, e mettono nella testa degli allievi una massa di cose che devono essere confuse se non giuste, e soltanto più o meno ordinate quando si transiga o si tagli in parte sulla verità storica". 68 In tal modo gli allievi sapranno più o meno bene come combattevano romani e greci, ma ignoreranno il servizio degli avamposti. Nasce da questi inconvenienti la (strana) proposta di A.R. di abolire non tanto la storia militare in sé, ma il suo insegnamento come materia a parte. Tale insegnamento andrebbe invece scisso "in tante frazioni quanti sono i rami di arte militare (sic), ponendo in testa di ciascuno di essi un sunto retrospettivo dei suoi progressi, ciò che si potrebbe fare assai bene, riassumendo, in alcuni tratti, ben marcati e caratteristici, la vita di quel ramo speciale, ciò che formerebbe una naturale e logica introduzione allo studio particolareggiato di esso". 69 Jomini concepisce gli eventi storici come una sorta di miniera, dalla quale estrarre i principi permanenti e immutabili dell'arte della guerra; invece A.R., pur seguendone le teorie condanna il frequente uso e abuso di citazione storiche e statistiche isolate in appoggio alla parte teorica del1' arte militare, che "spesso fa dire alla statistica e alla storia certe cose che esse non si sarebbero mai sognate di dire ". Il metodo da lui caldeggiato è perciò opposto: nella parte teorica si dovrebbe essere affatto parchi di citazioni sia su1tistiche che storiche, che quanto meno non dovrebbero essere fotte che come schiarimento materiale della teoria, non come una dimostrazione pratica di essa. I dati statistici e i/atti storici dovrebbero poi essere ra~gruppati in una serie abbastanza voluminosa da poter.formare autorità. autorità che non possono avere quando non sieno abbracciati in 1111 ""ivi, p. 52. •• ivi, p. 53.


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complesso abbastanza ampio e nettamente detenninato da poter cogliere il valore relativo di ciascuno di essi, che è il solo valore di cui scientificamente si possa tener conto. 70

Che cosa intende A.R. per "autorità"? e come essa influisce, allora, sulla teoria dell ' arte della guerra? in che cosa o in quale settore tale "autorità " farebbe comunque sentire la sua influenza? Non è molto chiaro. Sembra in contraddizione con la teoria del ''frazionamento" e con la visione riduttiva delJ' exemplum historicum anche l'affermazione che "gli studi statistici e storici sono chiamati a completare l 'istruzione didattica in quelle parti nelle quali le esercitazioni pratiche riuscirebbero impossibili, come per esempio le grandi questioni di organizzazione, per la politica della guerra, per la strategia ecc.": in tal modo il ruolo dell' exemplum historicum, cacciato dalla finestra, sembra rientrare dalla porta principale (e con tutti gli onori, visto che per le "grandi questioni", cioè per lo scheletro della materia, si deve comunque ricorrere alla storia). Certo, la storia - come dice A.R. - non serve per imparare come si dispongono gli avamposti, o per altre istruzioni pratiche di dettaglio: ma la formazione, l'educazione dei Quadri si riduce forse a questo? Ecco dove naufraga il suo sforzo - di per sé apprezzabile - di privilegiare la pratica rispetto alla teoria. Se i principi non si traggono dalla storia, da dove si dovrebbero trarre? Anche a questo interrogativo A.R. non dà una risposta sufficientemente chiara. Afferma che ogni principio che si stabilisce deve corrispondere a una data operazione pratica (quindi i principi sono molti, non pochi come afferma Marmont), e che una volta messo in evidenza lo scopo "si tratta di studiare i mezzi per ottenerlo, e siccome i mezzi non possono crearsi dal nulla, bisogna cercarli nelle cose esistenti, studiando le qualità utilizzabili e che la esperienza dimostra utilizzate per quello dato scopo". 11 insomma: può definire dei principì solo chi ha un'esperienza pratica? la storia bene intesa e studiata, non è di per sé stessa esperienza? ciò che è non è ciò che è stato? Rimane, comunque, valida l'affermazione che l'applicazione pratica dei principi teorici è la parte principale dell ' insegnamento dell'arte militare e comprende "le osservazioni e le esercitazioni pratiche completate dagli studi statistici e storici in appoggio della teoria". Ciò richiede all'in-

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ivi, p. 62. ivi, p. 60.


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segnante e agli allievi "soprattutto della esperienza, e delle osservazioni dirette fatte coi propri occhi", 72 perchè "per quanto si può insegnare di arte militare non si tratta ormai più di creare, ma di ordinare e sviluppare logicamente ciò che già esiste nella grande quantità di libri che trattano della materia". 73 Da queste esigenze discendono le caratteristiche ideali della figura dell'insegnante, che A.R., avvalendosi appunto della sua lunga esperienza sia presso le scuole che presso j repa11i, tratteggia con indubbia maestria. Per estrarre dall'immenso materiale disponibile le idee alle quali si ispirano i contenuti teorici dell'insegnamento, secondo A.R. occorrono anzituuo "ordine, chiarezza e logica somma nella mente". Ma quando si tratta di applicare i principi, a queste qualità si deve aggiungere "il buon senso pratico, il quale per molti tiene anche luogo di ogni altra qualità. Il buon senso pratico, che è una dote innata dell'individuo, è però perfezionabile e deve essere petfezionato con l'esperienza. Ed ecco la terza condizione alla quale deve soddisfare un insegnante d'arte militare, l'espericnza".14 Non servono, quindi, concorsi per esami o scuole speciali per insegnanti; l'unica conditio sine qua non per colui che aspira ali' insegnamento dell'arte militare, è che "abbia praticato, se non lungamente, per qualche tempo almeno, le cose più essenziali del cui insegnamento è incaricato ". ·,~ A.R. aggiunge che una certa dose di esperienza e una certa capacità di osservazione sono necessarie anche per condurre "gli studi statistici e storici" destinati a sostituire l'esperienza pratica in quelle parti della materia nelle quali essa non è sufficiente. E qui sembra ancora una volta contraddire quanto detto in precedenza, visto che accenna - jominiamente - a principi derivati daJl' esperienza storica: la statistica e la storia militare non sono già libri aperti per lulli, bi.1·0gna saper trovare delle idee in quel labirinto talvolta intricatissimo delle cifre e dei fatti; ma per questo bisogna possedere una chiave, e questa chiave non è altro che la propria esperienza, la quale s11ilup11a e· perfeziona quel buon senso pratico delle cose, il quale è come il crot1itwlo attraverso il quale bisogna far passare i dati statistici e i.falli storici 011 de purgarli delle parti inutili, e farne risaltare in ultima analisi lici prin-

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ivi, p. 63. ivi, p. 64. 74 ivi, p. 67. " ivi, p. 66. 73


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cipi !nostra sottolineatura - N.d.a.l, ottenendo lcosìl a posteriori coli' osservazione delle cose ciò che si ottenuto a priori colle osservazioni

delle idee.

Subito dopo una caduta, nella quale A.R. ancora una volta mostra di chiedere alla teoria ciò che essa non può dare, confondendo l'istruzione militare pratjca e minuta con l'educazione o formazione militare: io per mia parte, lo dico senza esitazione, imparai molto di più in un anno di bivacco in Crimea che in quanto ho trovato nei Libri scritti anche dagli uomini i quali a miglior titolo si possono chiamare i grandi maestri dell'arte, e quante delle idee svolte da essi che non aveano colpito la mia mente, ma soltanto la mia memoria, La colpirono poi quando dei fatti - specie vennero a metterle in risalto praticamente sotto i miei occhi.

Tcontenuti teorici e pratici dell 'arte militare/della guerra, della strategia o della gran tattica che insegnano a condurre e vincere le guerre e le battagUe, non possono certo essere quotidianamente verificati sul campo di battaglia dal singolo combattente, data la sua ristretta visuale. Non è quindi credibile che il giovane sottotenente di fanteria Ricci in Crimea abbia potuto vedere con i suoi occhi quanto valevano le teorie sull'arte della guerra da lui autonomamente apprese sui libri, come se esse fossero fatte per servire alle minute operazioni di plotone o compagnia. La confusione tra l'istruzione pratica del soldato e dell'ufficiale ai minori livelli, l'addestramento a svolgere le funzioni di Stato Maggiore e la formazione e educazione dei Quadri si fa negativamente sentire per tutta quest 'opera e impedisce all' autore di dare una risposta convincente e chiara all' interrogativo fondamentale che dovrebbe porsi chi tratta della formazione dei Quadri: fino a che punto la formazione iniziale deve privilegiare il subalterno, e fino a che punto occorre dare spazio al futuro comandante ad alto livello? Questa confusione lo porta a sostenere una tesi decisamente non condivisibile, come l'opportunità di "sbocconcellare" la storia mi Iitare in tante partj quante sono le materie d'insegnamento, dando origine in tal modo a delle piccole storie separate e, per così dire, specialistiche. In questo caso, chi tratterebbe nel loro complesso, nei rapporti di causa/effetto e nelle relazioni che intercorrono tra i vari fattori (militari e non) Je guerre, le singole campagne e le battaglie? e chi esaminerebbe quelle parti di storia, che non sono connesse ad alcuna materia d' insegnamento, ma le riguardano


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tutte? A.R. mostra di confondere la cattiva storia (così come è quella dell'insegnante che tormenta gli allievi sugli opliti e sui peltasti) con la storia vera, che è altra cosa. Se invece si tratta di un tentativo di collegare l'insegnamento di storia e di arte militare (come si usava spesso al tempo), allora bisogna esaltare - anzichè sminuire - l'importanza degli exempla historica e il carattere formativo della storia, mettendo in maggiore evidenza l'importanza dell'exemplum historicum e il carattere formativo della storia, anzichè sminuirli. Con questi caratteri il libro rimane un tentativo solo in parte riuscito di correggere la rotta decisamente dogmatica dell'Introduzione, e di rintuzzare - per quanto direttamente lo riguarda - le critiche alla qualità del1'insegnamento nelle scuole militari. Va comunque apprezzata l'insistenza quasi ossessiva di A.R. sulla necessità di dare all'insegnamento dei contenuti pratici, di formare dei comandanti. Questo orientamento rimane costante per tutta la sua vita, e di esso si trova un'eco finora ignorata in un intervento alla Camera di oltre venti anni dopo. Nella seduta del 18 dicembre 1886, nella quale si discute la proposta del Ministro Ricotti di istituire una scuola di applicazione anche per gli ufficiali di fanteria allo scopo di perfezionarne le conoscenze pratiche, A.R. (che proviene dai volontari garibaldini) si oppone e propone invece che gli allievi ufficiali di fanteria in servizio permanente prima di ricevere le spalline prestino servizio per un anno come soldati semplici. Questo perchè i ,?iovani ufficiali non vedono nell'esercito che una vita brillante, e quando trovano che la vita è molto diversa da quella che si immaginavano, allora ven,?ono i pentimenti e anche qualcosa di peggio[ ... ]. Ignorano le asprezze della vita militare, e quando se ne accorgono sono colti dal disin,?anno. Un altro guaio è eh'essi non conoscono il soldato. E questo è il più ,?rave. S'insegna loro benissimo che cosa è il fucile. le leggi della traiettoria ecc., ma che cosa è questo individuo che devono condurre al fuoco? Non lo conoscono. È questa una lacuna che bisogna colmare. Ma in che modo si può colmare? Non facendo ad essi un corso di psicologia certamente.

Se, invece, questi giovani faranno un anno di servizio come soldati semplici, "allora scompariranno le due grandi df!fìcoltà rhe si lamentano: la prima, la nessuna conoscenza delle difficoltà della vita militare, la seconda quella di non conoscere il soldato. Ho finito". Idee mai accolte e applicate: ma sono forse superate oggi?


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Gli scritJi polemici contro il generale Fanti sull'ordinamento della fanteria Con i due citati opuscoli del 1863 sull'ordinamento della fanteria ("La fanteria nell'ordinamento 1861 e in quello 1862 " e "Riformeremo la nostra fanteria?") A.R. intende difendere l'ordinamento della fanteria del momento (dovuto al generale piemontese Agostino Petitti di Roreto, Ministro della guerra dal 22 gennaio 1860 al 12 giugno 1861), contro le dure critiche deJ generale emiliano Manfredo Fanti, già Ministro della guerra dal 6 marzo a11'8 dicembre 1862 e autore dell'ordinamento del gennaio 1861 - poi abrogato da quello del Petitti - che a sua volta mutava radicalmente il vecchio ordinamento piemontese 1849-1850, con il quale quell'esercito aveva combattuto la guerra di Crimea e le campagne per l'indipendenza nazionale fino al 1861.76 Ridotta ai termini essenziali, la questione sul tappeto riguarda l'effettiva convenienza della riforma del generale Fanti, il quale aveva diminuito il numero delle divisioni, reggimenti e battaglioni aumentando però da 4 a 6 il numero delle compagnie nei battaglioni. In tal modo, ad ordinamento completamente attuato il Fanti prevedeva 17 divisioni attive formate ciascuna da 4 reggimenti con 12 battaglioni di 6 compagnie ciascuno, per un totale di 336 battaglioni e 1344 compagnie attive. Non appena assunta la carica di Ministro il generale Petitti, non condividendo per nulla gli orientamenti del Fanti, cancellava ex-abrupto la riforma di quest'ultimo con un nuovo ordinamento che in gran parte ritornava all'antico. In particolare toglieva 4 compagnie a ciascun reggimento di fanteria, formando così con le 272 compagnie disponibili 16 nuovi reggimenti e aumentando le divisioni da 17 a 21 e i battaglioni da 204 a 336 (con 4 compagnie ciascuno anzichè 6). Non entriamo nel merito tecnico della questione, che in senso lato attiene alla convenienza o meno di un maggior frazionamento della stessa forza disponibile, di mantenere in servizio Quadri eccedenti rispetto alle esigenze di pace ma utili per la mobilitazione, e di individuare il miglior livello di forza prevedibile per le compagnie e i battaglioni, avuto riguardo alla comandabilità e alle perdite presumibili in guerra. Ci limitiamo a sottolineare che A.R. parteggia accesamente per il Petitti e si sforza di rin-

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Cfr. M. Fanti, Osservaziolli dirette al Senato del Regno sul bilancio passivo della guerra per il 1963, Firenze, Barbera, 1862, e ID., Come riordinare lafallleria: ossia appendice alle osservazioni sull'Esercitn ltalia110 dirette al Se110to del Regno (febbraio 1863), Firenze, Barbera, 1963.


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tuzzare gli appunti mossigli dal Fanti, citando Jomini e più spesso il Marmont e rivelandosi acceso sostenitore dell'importanza e del peso della tradizione militare piemontese, che l'emiliano Fanti a suo giudizio non avrebbe rispettato. Nessun accenno quindi , da parte sua, ai pur notevoli inconvenienti organizzativi emersi nelle campagne del 1848-1849 e 1859-1860,77 anzi: dichiara di condividere pienamente l'idea che per formare l'esercito italiano l'unica strada valida era quella di "estendere man mano al rimanente d'Italia le istituzioni dell'esercito sardo senza punto discuterne il merito", perchè solo così facendo si poteva creare un organismo solido. Perciò "la felice espressione PIEMONTIZZJAMO L'TTALIA, che poteva creare qualche difficoltà dal punto di vista politico e amministrativo", in campo militare era condivisa da tutti gli uomini di mestiere. 78 Ci si aspettava - prosegue A.R. - che il Fanti, Ministro della guerra nel 1860 quando era avvenuta l'annessione del Sud, pur aumentando le dimensioni dell'esercito mantenesse la vecchia organizzazione, "non perchè fosse creduta buona, nè tanto meno perfetta", ma perchè in uno Stato che nasceva con l'Austria alle porte e tra discordie interne "si sentiva la necessità di avere anzitutto un esercito costituito, rimettendo a tempi più opportuni l 'introdurvi quei miglioramenti di ordinamento che erano o che si potevano credere necessari". ?'J Per A.R. si tratta dunque prima di tutto di una questione di opportunità politica, della quale il Fanti non ha tenuto conto. Inoltre ha "distrutto" 8 reggimenti di fanteria, la legione "Cacciatori del Tevere" e 72 battaglioni, provocando "un rimescolamento generale" in tutti i reparti rimasti in vita e mettendo in aspettativa 100 ufficiali, dei quali 57 superiori e generali.80 In tal modo non ha rispettato que!Je tradizioni che sono il cardine dell'esercito, e che quando sono infrante "prima che il nuovo ordine di cose sia stabilito, e sia penetrato non nelle forme esterne, ma nelle convinzioni e nelle abitudini, l'armata presenta uno stato di crisi. nel quale quando fosse sorpresa dagli avvenimenti non potrebbe certamente corrispondere all'aspettazione che si ha di essa" (citazione letterale di un brano dell'Introduzione). Le considerazioni di A.R. sul valore delle tradizioni e sug li effetti negativi di riforme affrettate sono senz'altro la parte più importante dei due

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Cfr. F. B otti, Op. cit., Voi. I Parte I e lii. A. Ricci, La fanteria italiana... (Cit), p. 11. 79 ivi, p. 12. 80 A. Ricci, Riformeremo la nnstrafanteria? (Cit), pp. 7-9. 78


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opuscoli: nelle riforme - egli afferma - "perfezionando e trasformando bisogna esplicare, ampliare, creare, ma non distruggere, togliere ed annullare; l'opera del riformatore di un'armata deve procedere per vivificazione e non per isterilimento, perchè anche negli ordinamenti i più viziosi vi è pur sempre quell'elemento morale il quale è frutto del tempo e del lavoro lunganime delle istituzioni che sarebbe un errore il disperdere, e non innestare nel 'ordinamento nuovo".

SEZIONE II - Le opere e gli interventi in Parlamento sulla difesa terrestre e marittima d'Italia

Gli «Appunti sulla difesa dell'Italia in generale e della sua frontiera Nord-Ovest in particolare» ( 1872)81 Ultimati nel gennaio 1872, gli Appunti sulla difesa d'Italia sono l'opera più importante di A.R. su questo argomento specifico. Essa applica le nozioni teoriche enunciate nell' Introduzione al caso italiano, con particolare riguardo alla difesa della frontiera di Nord-Ovest ma senza dimenticare la frontiera Nord-Est, e dando rilievo alla difesa marittima contro la superiore flotta francese. ln tal modo il libro acquista un respiro interforze, derivante s icuramente da scambi di idee proficui per ambedue, che l'autore ha avuto da insegnante alla Scuola di Guerra con Domenico Bonamico (Cfr. il prossimo Tomo Il, cap. 1). In questa occasione A.R. espone le proprie personali vedute su un argomento che al momento viene aspramente dibattuto sulla pubblicistica militare e dalla Commissione per la difesa dello Stato nominata con R.D. 23 gennaio 1862. A tale contesto l'autore si riferisce significativamente nella premessa del libro: nella grave discussione che sta per intraprendersi sul sistemamento della nostra Difesa territoriale [nel senso di difesa dell'intero territorio nazionale, e non solo di quella parte che non interessa la zona delle operazioni - N.d.a.], è utile che tutte le opinioni si manifestino; soprattutto

"' Torino. Loescber, 1872. Cfr. anche l'ampia recensione su " Rivista Militare ltaliana"Aono 1872, pp. 318-332

xvrr - Voi. I, febbraio


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le discordanti da quelle che sono maggiormente in corso - Ecco perchè pubblico la mia_ Chi credesse di vedere un'allusione o un'intenzione politica nel titolo del mio lavoro, si ingannerebbe - Esso accentua in modo .\peciale la difesa della nostra Frontiera Nord-Ovest, perchè circostanze di diversa natura mi permisero di percorrerla ed esaminarla in tutte le sue partL ..

Detto questo, fin dalle prime pagine egli enuncia alcuni fondamentali concetti interforze ai quali si ispira l'intera opera: - "il mezw migliore per difendere gli Stati consiste nel prendere l'iniziativa e attaccare chi sta o si prepara per aggredirli". Ciò vale in particolar modo per gli Stati che - come l'Italia e la Prussia- non sono favoriti dalla configurazione geografica del territorio [paragone discutibile - N.d.a.]; - per eliminare quest'ultimo inconveniente, bisogna lasciarsi alle spalle le posizioni deboli e spostare il teatro della lotta altrove (quindi non si tratta di attaccare, ma di contrattaccare sul nostro territorio N.d.a.]. E il modo migliore per supplire all'inferiorità di forze, "gli è quello di sceglie re il momento più vantaggioso per adoperarle"; - la difesa generale di uno Stato "consiste nell'impiego utile delle sue forze di terra e di mare, delle sue ferrovie e delle sue fortfficazioni in funzione della sua configurazione geografica e struttura topografica, della sua costituzione politica e economica, delle frontiere che lo dividono dagli Stati limitrofi e della potenza di questi"; 82 - di conseguenza, astrazion fatta da ogni coefficiente morale i fattori che concorrono alla soluzione di un problema così complesso sono: 1°) l'esercito; 2°) la flotta; 3 °) le ferrovie; 4 °) le fortificazioni; 5°) l'attitudine al pronto impiego delle predette pedine; 6°) la configurazione geografica generale e la struttura topografica del Paese; 7°) la sua costituzione politica ed economica; 8°) la natura delle frontiere che lo dividono dagli Stati limitrofi; 9°) la potenza di quest'ullimi. Preso atto delle le precise priorità così assegnate, tre cose si notano subito in questa elencazione: l'assenza dei fattori morali (che coerentemente con quanto A.R. aveva affermato nell'Introduzione del 1863 dovrebbero essere al primo posto), la mancata valutazione delle risorse presumibilmente disponibili e la mancanza di uno specifico riferimento aJle frontiere marittime, che in senso stretto non "dividono " il territorio nazionale da in

ivi, p. 5.


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quello degli Stati vicini, ma dallo spazio marittimo che può essere o meno controllato, cioè può essere amico o nemico. A quest' ultima imprecisione, più che carenza, A.R. rimedia nel corso dell'opera. Alla prima accenna solo alla fine del libro, ribadendo quanto aveva già detto nell'Introduzione e ponendosi questi interrogativi: "che cosa è moralmente l'Italia? Cosa è moralmente l 'Esercito che la rappresenta? Quale contingente di forze morali recherebbero l'una e l'altro nella difesa?". 83 Interrogativi ai quali Domenico Bonamico risponde manifestando per l'Italia militare e civile forti perplessità e muovendo ad ambedue dure e precise critiche; A.R. invece sfuma maggiormente il discorso, facendo però anch 'egli capire che guarda all'avvenire della Nazione più con apprensione che con fiducia. Alla giovane generazione nata italiana chiede retoricamente: " ti senti capace di fare e perciò il vero sapere va di pari in te colla tenacità dei propositi? non sarebbero forse le cose facili che ti tentano e la tua volontà come il tuo sapere non ti lascerebbero corta nelle d(f ficili ? Ecco il vero pmhlema dell'avvenire d 'Italia; ecco quello della sua d(fesa moralmente posto! " 84 Vi è una eco dei gravi problemi politico-sociali e anche morali dell' ltalia del tempo in queste parole, nelle quali A.R. manifesta le sue preoccupazioni maggiori per la formazione di una nuova classe dirigente, cosa della quale evidentemente al momento c'è gran bisogno: quando sento ripetere quell'eterna cifra dei diciassette milioni di analfabeti, ed indicarla sempre come l'origine di tutti i nostri mali, pormi un 'esagerazione [... ]. Facciamo dunque scomparire gli analfabeti, ma eleviamo ad un tempo la media morale e intellettuale della classe colta che è, per me, la grande caratteristica della civiltà. E ricordiamoci che la cultura, civile u militure che sia, si i:ompone di due parti, l'educazione e l'istruzione; che questa senza quella può produrre talora gli effetti del male anzichè quelli del hene I...] e che in Italia, ove l'intelligenza è pronta e facile, l'educazione è forse la parte che lascia maggiormente a desiderare.

La situazione italiana del momento risente, in particolare, di due fattori negativi. Il primo è che "l'Italia è un paese dalla vita politica ed economica oltremodo diffusa, i cui elementi si accentrano intorno a parecchi punti,

"-' ivi, p. 107. "' ivi, p. 110.


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e la cui intensità decresce in generale dalla periferia al centro ". A questo fatto, derivante dalla storia e dalla "bizzarra configurazione geografica" del

Paese, se ne aggiunge un secondo: una Monarchia che è tale non per diritto divino (per cui Luigi XIV poteva dire lo Stato sono io) ma in virtù del principio plebiscitario, il quale fa sì che sia non la monarchia ma il Paese a poter dire «lo Stato sono io», e a esserlo di fatto. Ne consegue che anzitutto ogni atto aggressivo di un nemico che penetrasse alquanto profondamente nel paese, taglierebbe, per cosi dire, sulla carne viva del paese stesso. Potrebbe essere che la ferita non si sentisse cosi viva nel resto del corpo, ma sarebbe di tanto maggior dolore per la parte lesa [... ]. In secondo luogo gli effetti ora detti, che derivano dal primo fatto, combinandosi con quelli che derivano dal secondo, potrebbero dar luogo, non dirò neanche a defezioni, ma a disordini, ma a movimenti inconsulti, di cui il nemico profitterebbe probabilmente, la difesa no di sicuro...

Più o meno la stessa diagnosi sulla deficiente capacità di resistenza morale del popolo italiano, sull a quale fondano le loro teorie sia Domenico Bonamico che la Jeune École (vds. il prossimo Tomo TI, cap. I). A.R. ne trac la concreta deduzione che l'Italia per ragioni anzitutto morali è un paese meno atto di altri a sostenere una guerra clifensiva; pertanto "dovrebbe fare il possibile per tenerla virilmente alle porle", rinunciando decisamente "all'idea di quei ridotti interni, che sarebbero incapaci di salvare l'Italia, e invece potrebbero concorrere a perderla, togliendole dei mezzi di difesa ove, novanta volte su cento, potrebbero essere utili, pe r porli ove, nella massima parte dei casi, non renderanno alcun servizio ". 85

Secondo il concetto di A.R. i fattori morali hanno un peso dcLcrminante nella difesa nazionale; ma indicando gli svantaggi morali della difensiva, egli sembra dimenticare che solo con una salda preparazione anche e soprattutto morale sarebbe possibile realizzare ciò che pretende senz'altro fin dalle prime righe. In tal modo - al di là dell ' intento dell'autore - il fattore morale, relegato nelle ultime pagine del libro, non ha alcuna reale influenza sulle strategie che egli propone; anche per questo la trama del libro assomiglia di più a un elenco di cose che bisoR11erehhe fare, che a una proposta organica su ciò che è possibile .fàrP, hasandosi su precisi dati di fatto morali e materiali riferiti al caso italiano.

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ivi, pp. 48-49.


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La priorità generale data alla controffensiva (peraltro senza indicarne gli specifici obiettivi e le relative modalità) porta A.R. a sostenere anche il principio - teoricamente corretto ma ancora una volla estremamente ambizioso nelle reali condizioni deJJ'Ttalia del tempo - che lo studio del sistema difensivo di uno Stato è necessario, solo perchè diverse ragioni politiche e militari possono consigliare un temporaneo atteggiamento difensivo; di conseguenza, tale sistema è valido solo se consente un agevole passaggio alla controffensiva.86 Nasce da queste premesse fin troppo ottimistiche l'aspra ma condivisibile critica di A.R. agli scritti fino a quel momento pubblicati in Italia, che a suo avviso avrebbero due gravi limiti : a) esaminano le modalità per la difesa dello Stato solo sotto l'aspetto delle fortificazioni, riducendo così al solo ac;petto tecnico-geografico un problema che è anche organico, politico, economico, strategico, logistico e statistico; b) spesso, in caso di invasione nemica, suggeriscono una resistenza dell'esercito su linee successive fino a un ridotto centrale. Quest'ultima è un 'idea che dopo le ultime Ruerre può essere ancora accarezzata da un ingegnere militare amante dell ·arte propria, e che scambia uno Stato con una piazzaforte della vecchia scuola; ma non l'idea di un uomo di guerra a larghe vedute e molto meno di un uomo di Stato, dappoichè né L'uno né l 'altro possono ignorare quali siano le esigenze politiche ed economiche della società moderna e come sieno tali esigenze che ormai dettano sempre la Legge. 87

Da un punto di vista strettamente militare, una difesa che a causa di ripetuti insuccessi retroceda fino a "quel ridotto interno [alla penisola N.d.a.] che è l'idolo di tanti cultori dell 'artefortificatoria" diventa di per sé stessa una situazione calamitosa, che rende inevitabile la catastrofe finale; "sicchè l 'ammetterla a priori e il proclamarla anzi come il miglior sistema difensivo di uno Stato, parmi una di quelle ipotesi viziose che la ragione eLa storia condannano concordemente". Tali premesse conducono alle concezioni strategiche fondamentali di A.R., che possono essere così riassunte: - per usare un'espressione dottrinale dei nostri giorni, la difesa del territorio nazionale deve avvenire "il più avanti possibile". Nelle guer-

86 ><1

ivi, p. 3. ivi, p. 105.


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re ormai condotte con eserciti composti da centinaia di migliaia di uomini, le Alpi costituiscono un ostacolo di elevato valore impeditivo intrinseco, che l'esperienza delle guerre passate non può far apprezzare nel suo giusto valore, "perchè [allora] con 40 o 50 mila uomini si trattava di passare e sboccare; con 250 o 300 mila uomini [oggil si tratta di passare, sboccare e riunirsi"; - perciò la difesa avvalendosi delle ferrovie e di una parte delle fortificazioni deve "impedire il passaggio e lo sbocco delle Alpi; ma soprattutto opporsi al successivo concentramento che ne è la necessaria conseiuenza "; - "l'esercito prima [nostra sottolineatura - N.d.a.], la flotta poi, quindi le ferrovie, da ultimo le Jortificazioni, sono i quattro grandi fattori della difesa. Ma non basta avere tali fattori, bisogna anche che sieno pronti ed aui ad essere impiegati nel minor tempo possibile"; 88 - occorre potenziare e completare il sistema ferroviario organizzandone accuratamente sul modello tedesco l'impiego ai fini militari sia in fase mobilitazione che in fase condotta della guerra, perchè "nel caso di una guerra difensiva, dopo l'esercito la prima risorsa, ed in Italia più che altrove, consiste nelle ferrovie". Esse valgono meglio delle fortificazioni, perchè moltiplicano come quest' ultime le forLe, muovendole e non immobilizzandole" ;89 - le nostre fortificazioni alpine e lombarde sono in massima parte ereditate dal Regno di Sardegna (che intendeva proteggersi sopraltutlo verso Est) e dall' Austria, quindi sono tulle da rifare. Ciò non è un male, perchè al momento servono solo dei forti isolati, e poche piazze molto estese. "L'applicazione di questa massima in Italia consisterebbe in alcuni forti di sbarramento nelle valli delle sue frontiere di montagna ed in alcuni f orti che chiamerei di impedimenlo, nelle principali rade che potrebbero prestarsi ad uno sbarco nemico; quindi come in tutti gli altri Stati pochissime, ma estesissime piazze terrestri o marittime...";90 - su questo punto A.R. diverge dalle conclusioni della Commissione generale per la difesa dello Stato, che nel luglio 187 l aveva presentato un piano di difesa dell'Italia con ben 97 punti fortificati , successivamente ridotti per ragioni economiche dalla stessa Commissione a 77 e dal Ministero della guerra a 65 ; 88

ivi, p. I 04. ivi, p. 32. 90 ivi, p. 49. 89


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- la difesa nazionale non si riassume solo nella difesa terrestre avanzata della Valle del Po; va però tenuto conto che "la configurazione dell'Italia esclude la possibilità di un sistema di difesa unico, anche facendo astrazione dalle sue isole"_ A.R. divide perciò l'Italia in tre teatri d'operazione con diverse caratteristiche: il settentrionale (Valle del Po), il centrale (Valli dell'Arno e del Tevere) e il meridionale (province meridionali). A suo giudizio è possibile ideare solo un sistema difensivo che li colleghi a due a due (ad esempio, quello settentrionale con il centrale e quest'u1timo con il meridionale), ma non un sistema unico; inoltre, date le condizioni geografiche e la superiorità francese anche sul mare, tutti e tre i teatri d' operazione sono soggetti al pericolo di un'aggressione francese (il settentrionale attraverso le Alpi e dal mare - costa ligure; gli altri due, dal mare). E qui entra in campo, da protagonista, la marina: si supponga infatti che l'Italia disponga di una flotta sufficiente per mettere al coperto, non dirò da ogni specie di attacco repentino, ma da una grande operazione di sbarco le sue isole e le sue coste peninsulari, e sarà facile vedere come quasi tulle le sue forze di terra di prima Linea potrebbero essere concentrate nel teatro d'operazione settentrionale, a d(fesa della sua eccellente frontiera terrestre, ed anche di quel tanto di littorale [quello ligure - N.d.a.] che fa sistema con esso. 91

Discende da questa valutazione fondamentale - nella quale non si attenua certo il pericolo che viene dal mare - una divisione di compitj tra le due Forze Armate che postula un rafforzamento della marina, e che forma oggetto anche delle riflessioni di Domenico Bonarnico dal 1878 in poi: alla Flotta le isole e le coste del teatro d 'operaz ioni meridionale, coll'appoggio fisso di quelle milizie provinciali, e l'eventuale di una parte dell'Esercito di Ja linea; a questi i teatri di guerra nordico e centrale, coll'appoggio fisso delle Loro milizie provinciali, e L'eventuale della Flolla. Stabiliamo questo concetto direttivo della nostra difesa nazionale e coordiniamo ad esso il lavoro di tutti: organici, ferrovie, fortificazioni, tutto insomma ne prepari L'attuazione, e se non ci saremo dati la certezza di vincere, ci saremo dati quella di combattere in condizione di poter vincere; né più si potrebbe pretendere, perché di più è impossibile.

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ivi, p. 50.


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Per quanto riguarda la guerra terrestre, A.R. si sforza di dimostrare che l'azione di un forte esercito francese di 250-300.000 attraverso la fascia alpina di Nord-Ovest incontrerebbe forti difficoltà, prima di tutto perchè - contrariamente a quanto sostengono alcuni scrittori italiani del tempo - la displuviale appartiene militannente ali' Italia,92 e in secondo luogo perchè le valli alpine non consentono un agevole spiegamento e una sufficiente alimentazione logistica. L'esercito invasore sarebbe pertanto costretto a dividersi in colonne di un massimo di 50.()()() uomini, senza possibilità di sostenersi reciprocamente e con le direttrici d'invasione inevitabilmente indicate dalle linee ferroviarie di approccio al confine. In tal modo il movimento delle colonne francesi avverrebbe in tre tempi : traversata delle Alpi fino allo sbocco nella pianura padana; occupazione degli sbocchi delle predette valli; concentramento delle forze sboccate in pianura per costituire una massa unica, in grado di operare armonicamente. In relazione a queste modalità d' azione nemiche, la difesa delle Alpi dovrebbe avere due obiettivi: - creare lungo le strade che le colonne nemiche devono necessariamente percorrere all'interno delle Alpi tutti gli ostacoli "permanenti ed eventuali " possibili, ricorrendo in primo luogo a forti di sba rramento, da costruire anche là ove non esistono; - impedire alle teste di colonna dell' inva,;ore di conquistare le posizioni che si trovano allo sbocco delle valli, e di cui esse si devono impadronire per dare modo alle forze retrostanti di sboccare in piano e spiegarsi. Particolare di fondamentale importanza, secondo A.R. la difesa deve comunque svolgere questi compiti "senza impegnare nell'interno delle valli corpi di prima linea di qualche entità". 93 L'esercito di prima linea lcioè quello permanente già costituito all ' atto dell' entrata in guerra, completato con aliquote di rid1iamati deUe classi più giovani - N.d .a. I ha infatti il compito fondamentale e decisivo di sferrare una controffensiva ne l!' alta Valle del Po contro l'esercito nemico, che una volta conquistato lo sbocco in pianura delle valli tenderebbe a riunirsi. Questo è "il periodo

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C icero pro domo sua: A.R., come otti mo conoscitore delle Alpi Occidenta li, eia ~tatu autorevole membro della Commissione per la delimitazione del nuovo confine tra Italia e Fnmcia. dupu il trattato del 14 marzo I 860 che sanciva la cessione di Nizza e Savoia alla Francia. Cfr. and rc. in rnc riLu, la sua polemica con la " Revue Cm1tempnraine ·· di Parigi in /.,a 11os1rajirm1iu11 d,,1/"0,·,,,.,. in " Nuo va Antologia" Voi. X Fase . IV, aprile I 869, pp. 7 14-73 1. Da notare che in questa occ11, i11nc A.R. non sostiene affatto che la displuviale appartiene militarmente all' Italia. ma ammette d 1c il c:c111l111L· e irraz ionale e ritiene che favorisca l' offensiva di ambedue i Paesi. (Tesi discutibile; app:uc d 11arn che favorisce di più la Francia). 93 A. Ricci, Appunti... (Cit), p. 61 .


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culminante per la difesa e il più critico per l'offesa", nel quale il difensore si trova in vantaggio, perchè comunque vadano le cose, "si hanno due grandi eserciti di fronte, dei quali uno separato in più colonne che tendono a raggrupparsi, e l'altro unito e compatto in mezzo a tali colonne che ha interesse di impedire tale raggruppamento ". 94 Un siffatto sistema di difesa richiede un accurato lavoro di preparazione per aggiungere alle difese naturali quelle artificiali; occorre anche un notevole decentramento di responsabilità nell'organizzazione difensiva, che deve essere basata su milizie locali (o "provinciali") 95 da mobilitare con la massima tempestività all'emergenza, e da impiegare per i lavori occorrenti sulle posizioni prescelte: è questo per me un punto capitale; ove si dovesse attendere che o il Mi-

nistero o il Cunuindu dell'Esercito disponessero al riguardo, si potrebbe essere certi che l'invasore sarehhe sboccato dalle valli prima che si fosse posto mano ai lavori. L'imitazione di ciò che fece l 'Austria [nel 1866] per la difesa locale del Tirolo, utilizz.ando per quella delle nostre Valli la parte alpigiana delle milizie provinciali, ci parrehhe utile sotto molti rapporti ed anche sullo quello, di coordinarvi la disposizione di cui ho poc 'anzi dichiarata la necessità. 96

Riepilogando, nel concetto strategico di A.R. una siffatta difesa è basata su due ordini di predisposizioni: quelle relative a un rapido completamento e concentramento dell'esercito di 1• linea nell'alta Valle del Po e quelle relative alla immediata mobilitazione delle "milizie provinciali " delle valli alpine, destinate a subire il primo urto con l'obiettivo minimo di dare tempo alle restrostanti forze di I• linea di approntarsi. Prevedendo l'impiego della massa principale delle forze contro l'invasore a piè delle Alpi, A.R. non le considera un ostacolo invalicabile, ma solo un ostacolo valicabile con notevole difficoltà; ciononostante, egli polemizza con coloro i quali sostengono che l'Italia non si può difendere sulle Alpi , che le Alpi si difendono sul Po e sull'Appennino, che sull' Appennino sta la chiave di volta della nostra sicurezza, ecc.: se non si crede alla possibilità di tenere testa all' invasore quando è diviso in masse necessariamente isolate, come si può credere che gli si

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ivi, p. 65.

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Queste milizie erano state costituite dal Ministro Ricolli con la legge 19 lug lio 187 1, Art. 20. A. Ricci, Appunri... (Cit), pp. 63-64.

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potrà tenere testa quando le sue forze formeranno una massa sola, con tutte le conseguenze morali e materiali che ne derivano? Quando si saranno perdute le più ricche, le più fertili e le più militari province dello Stato e si sarà ridotti, con truppe spossate e affrante dall'insuccesso, in un, pure potente, ridotto addossato o interrato nell'Appennino, povero di risorse, con comunicazioni che non si prestano per i grandi movimenti militari, perchè nella stagione estiva mancano sin d'acqua, si crede che sarà facile rialzare la fortuna del Paese ?91

Ciononostante, anch'egli prevede un "grande campo fortificato di ril 8 linea si potrebbe ritirare per ritemprarsi e riprendere l'offensiva, nel caso che la predetta azione controffensiva non abbia successo. Tale rifugio dovrebbe comunque consentire agevoli comunicazioni con il centro del Paese, "sicchè il nemico non pos-

i ugio" avanzato, nel quale l'esercito di

sa impedire l'arrivo del personale e materiale, occorrenti per rimpiazzare le perdite fatte e rinforzarsi". 98 A tal fine indica come piazza con i migliori requisiti il triangolo Piacen7,a-Stradella-Bobbio, di circa 100 km di perimetro, e con la base (30 km) sul Po, il Iato orientale di 40 km e il lato occidentale di 70 km . TI perimetro da fortificare si ridurrebbe pertanto a 70 km di terreno in prevalenza montano, perchè il lato del Po non richiede di massima difese artificiali; inoltre le fortificazioni di Pavia, Pizzighettone e Cremona ne sarebbero "i naturali complementi". Studiato principalmente per le provenienze dalla frontiera di Nord-Ovest (esercito francese), questo campo trincerato (completato con le fortificazioni di Mantova-Borgoforte) secondo A.R. potrebbe svolgere bene le stesse funzioni anche contro le provenienze da Nord-Est (esercito austriaco). In conc1usione costituendo un solo campo di rifugio per le due frontiere del nord-ovest e del nord-est, è forse possibile, anche nelle ristrettezze finanziarie dell'Italia, creare una di quelle g randi posizioni offensive - difensive che sono l'ultima espressione della moderna f o rtificazione. Ove se ne volessero creare due, riuscirebbero certamente ambedue insufficienti. 'l?

A.R. ritiene la soluzione Piacenza-Stradella-Bobbio preferibile a quella di un grande campo trincerato comprendente Bologna e appog-

97 ivi, pp. 67-68. •• ivi, p. 76. "' ivi, p. 106.


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giato ali' Appennino sostenuta al tempo da altri autori, tra i quali il generale Antonio Gandolfi in un opuscolo intitolato appunto Bologna e l'Appennino nella difesa d'Italia, 100 pubblicato quando erano già in corso di stampa gli Appunti. Vi fa esplicito riferimento in due note, apprezzando le "larghe vedute" del Gandolfi ma dichiarando di non condividere la sua preferenza per Bologna, per diverse ragioni: a) la forte somma necessaria per fortificare Bologna "basterebbe probabilmente a costituire a Piacenza una piazza che avrebbe molto migliori condizioni di quella di Bologna"; b) Bologna potrebbe essere subito investita contemporaneamente da tre fronti (Nord, Est e Ovest), mentre Piacenza almeno aJl ' inizio potrebbe essere investila solo da Est, dando così maggior tempo per riordinarsi alle truppe in essa raccolte; c) la piazza di Bologna, specie nella parte collinare, difetta di acqua e in genere non fornisce le risorse necessarie per alimentare un esercito; d) le comunicazioni ferroviarie di Bologna con la Toscana, il Tirreno e I' Adriatico sono tutte assai facilmente interrompibili , e in particolare l'invio di rinforzi da Sud attraverso l' Appennino incontrerebbe notevoli difficoltà logistiche; e) al contrario la piazza di Piacenza - anche se attaccata per la destra del Po, che sarebbe il caso più grave e più probabile - conserverebbe le migliori relazioni col Piemonte e la Lombardia; inoltre neJ caso che il nemico dovesse attraversare l ' Appennino verso Est senza investirla, servirebbe a coprire La Spezia, come già voleva Cavour. Rispetto a quelle sulla scelta della "piazza-r~fugio", di assai maggiore interesse attuale sono le riflessioni sulla mobilitazione e l'ordinamento dell'esercito. Come già si è accennato, secondo A.R. l'esercito in caso di guerra si articolerebbe su forze permanenti di I a linea (IO corpi d'armata per un totale di 300.000 uomini) e su forze ùi 2" linea o milizie pruvim.:iali "costituite in compagnie e battaglioni, eventualmente in unità maggiori" e mobilitate all'emergenza. Metà oppure i due terzi delle milizie provinciali sarebbero mobilitabili al seguito delle forze di 1" linea, "sia per presidiare le piazze in difensiva, sia per guardare le comunicazioni in offensiva, ed all'evenienza anche per combauere al loro fianco". 101 Va ben sottolineato, a tal proposito, che A.R. - sulla base degli ammaestramenti della recentissima guerra franco-prussiana, nella quale parecchie fortezze francesi erano cadute

100 101

Bologna, Zmichelli 187 1.. A. Ricci, Appunti... (Cit), p. 9.


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quasi senza colpo ferire, per mancanza di armi, munizioni, viveri e guarnigione - ritiene che le milizie provinciali costituite sulla base della circoscrizione amministrativa, distrettuale in linguaggio militare, dovrebbero in massima rappresentare a priori le guarnigioni eventuali dei diversi punti fortificati dello Stato Iquindi, non solo dei forti di sbarramento nelle valli alpine o delle fortificazioni della futura piazza di Piacenza - N.d.a.]; disposizione che spingerei sino al punto di dare alle diverse opere o fronti di tali punti il nome delle località che eventualmente dovrebbero somministrarne la guarnigione. Non parlo dei vantaggi di ordine murale che si potrebbero trarre da una siffatta idea; ma parmi che con essa si potrebbe andare incontro <ul uno fra i molti equivoci, dimenticanze, ed altri inconvenienti di simile natura che non par vero si producano, ma che purtroppo avvengono, specialme11/e nell'orgasmo di una rapida mobilitazione ... 102

Tali milizie sono definite da A.R. "la parte nuova del nostro riordinamento militare," anche se dovre bbero avere compiti analoghi a quelli della Landwehr prussiana, e anche se - egli ricorda - già esistevano nell 'antico esercito sardo col nome di "battaglioni di riserva". In ogni caso prima di averle vedute in atto, sarebbe temerario portar un giudizio sulle nostre.future milizie provinciali. Ma è purtroppo il notare come esse differiscono es.~enzialmente e dalla Landwehr prussiana e dall'antica Riserva piemontese. Come questa era, quella è, per modo di dire, un'appendice, un'emanazione quasi di un corpo costituito, del quale usufruisce fino un certo punto Le tradizioni o lo spirito; le milizie provinciali italiane, invece, saranno una cosa a sé, raffermata, se vogliwno. dal sentimento locale che può costituire e costituirà, è sperabile, una fòrza centripeta di valore; ma da ciò all'infuori senza precedenti tradizioni e senza altre condizioni morali di fusione [nostra sottolineatura N.d.a.]. ,03

A.R. auspica anche l'aumento di 115 delle forze di I" linea, portando da IO a 12 i corpi d 'armata esistenti senza aumentare la ferma di leva. Infatti, per supplire alla loro mancanza il nuovo ordinamento [quello 1871 102 101

ivi. pp. 35-36. ivi. p. IO.


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del Ri.cotti - N.d.a.] "ha dato uno sviluppo eccessivo a quelle di 2" linea, per il che, laddove queste salgono in Prussia allo 0,67% del totale, sono da noi 1,25%: rapporto assolutamente eccessivo. Le une possono far compenso alle altre?" 104 L'implicita risposta a questo interrogativo retorico è ovviamente negativa; ma un aumento dell'aliquota di i" linea richiederebbe "non subito, ma progressivamente" un aumento di 20 milioni circa del bilancio della guerra, "dacché col bilancio attuale di 148 milioni, ridotti effettivamente a 130, ove se ne tolga l 'aliquota per i carabinieri, dirò francamente che ho sempre dubitato e dubito ancora si possa far fronte al fabbisogno, anche per un organico quale è quello che abbiamo attualmente". Tanto più che - aggiunge A .R. - anche se aumentata, la spesa militare italiana non sarebbe certo maggiore di quella di altri Stati: in Francia essa varia da 11 a 12 lire pro capite, in Prussia è di 8 lire, in Austria di 6; al momento in Italia essa è invece di 5 lire, e solo con l'aume nto di 20 milioni arriverebbe a 6, cioè al minimo che raggiunge altrove. Comunque, non si fa illusioni: "coll'esporre queste cifre e farne intravedere le conseguenze, non è mia intenzione di rompere una lancia per un aumento del nostro bilancio militare. Ho abbastanza pratica della cosa pubblica per sapere che farei opera vana; ma è bene che le cose si dicano chiare e il Paese sappia a che attenersi; a lui il decidere, a noi il far sì che decida con perfetta conoscenza di causa"} 05 Inoltre un esercito in guerra opera bene solo se dispone di "una personalità distinta per intelligenza e carattere che dia ai suoi atti un indirizzo f ermo e razionale", cioè di un "motore rappresentato dallo Stato Maggiore Generale dell'Esercito, che sia pratico, solerte, omogeneo, sotto il maneggio delle truppe e dei Servizi che sono loro necessari", 106 e infine di un sistema che assicuri una rapida mobilitazione. A questo punto va precisato che al momento (fine 187]) non era ancora stato costituito uno Stato Maggiore permanente dell'Esercito, provvedimento adottato solo nel 1882; a buon diritto, quindi, A.R. può essere presentato come un precursore dell'istituzione di questo fondamentale organismo. Egli ritiene necessario che debba funzionare esso funzioni sia in pace che in guerra, in modo che il passaggìo dall'una all'altra sia solo la continuazione su una scala più vasta e in un campo più difficile dello stes-

°" ivi, p. I I. °' ivi, pp. 12- 13.

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'"" ivi. p. 16.


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so lavoro quotidiano. Ciò vale anzitutto ai fini di quella rapida e ordinata mobilitazione, la cui importanza ricorre continuamente nel suo pensiero: è la mancanza di una istituzione siffatta che lascia una vera lacuna nel nostro sistema militare, lacuna che esisteva egualmente nel.francese, e che si è inteso, io credo, di far scomparire, col creare al Ministero della guerra una direzione ,:enerale sotto il titolo di Stato Maggiore Generale del Ministero, incaricato di attendere in pace a quegli uffici cui attenderebbe in guerra, trasformandosi in quartier generale dell'esercito mobilitato. Per rendersi ra,:ione di tutta l 'importanza della questione si ponga l'ipotesi che per una di quelle evenienze poliliche, di cui la storia contemporanea offre più di un esempio, l'Esercito Jialiano avesse a mobilitarsi rapidamente; ebbene, date tutte Le altre condizioni per una pronta mobilitazione, non esito ad ajfennare che avremo con tutta probabilità in tempo utile dei corpi mobilitati, ma non un esercito. 107

Sul sistema cli reclutamento e mohilitazione, che al momento - come sarehbe sempre stato, fino ai nostri giorni - ha carattere nazionale, A.R. in contrasto con l'orientamento ufficiale questa volta prende netta posizione a favore del modello regionale (o territoriale), perché è quelJo che più si presta, appunto, a una rapida mobilitazione, per due ragioni principali: - prevedendo il decentramento dell'amministrazione militare e accrescendo di conseguenza le responsabilità dei livelli intermedi, risponde meglio al razionale principio della divisione del lavoro e accelera le operazioni; - rende il più possibile il sistema indipendente dalla capacità degli uomini preposti (dal centro) al suo funzionamento. Molti - osserva A.R. - pur essendo d'accordo sui vantaggi del principio, ritengono che non sia ancora giunto, per l'Italia, il momento di applicarlo; ma a forza di ripetere tutti i giorni che l'Italia non è ancora matura per sopportare la prova del sistema territoriale, è incontestabile che La sentenza perde ogni dì un po ' della sua verità, perché, non so chi ebbe a dirlo, ogni minuto che passa è un particolarista che va, ed è un unita· rio che sorge. 108

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ivi, p. 17. ÌVÌ, p. ]4.


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In sintesi, prima ancor che sulla difesa delle Alpi gli Appunti sono incentrati sulla difesa avanzata della Valle del Po da un'invasione francese, attraverso il settore Nord-Ovest delle Alpi_ li libro risente pertanto di un certo unilaterismo, che nelle opere successive l'autore si sforza di correggere_ Tratteremo a parte, dato il loro elevato interesse, due argomenti toccati negli Appunti ma finora non ben messi a fuoco: gli effettivi meriti di A_R_ nella costituzione delle truppe alpine e le sue considerazioni specifiche sulla difesa marittima e su modalità d'azione e costituzione della Marina.

«La Piazza di Piacenza - Stradella nella difesa della frontiera Nord-Est dell'Italia»")') (1872) e «La difesa interna della Valle del Po» (1873) 11 0 Due opere tutto sommato meno importanti e innovative degli Appunti sulla difesa d 'Italia, che ne completano e approfondiscono le tesi e questo vale soprattutto per La difesa interna della Valle del Po - controbattono le critiche agli Appunti_ Nella Piazza di Piacenza - Stradella (datato 1° febbraio 1872, cioè solo un mese dopo gli Appunti) A.K, basandosi soprattutto su elementi geografici e sulla valutazione delle potenzialità delle linee ferroviarie, intende dimostrare che anche per la difesa del confine di Nord - Est con l'Austria la piazza di Piacenza - Stradella è preferibile a quella di Bologna, indicata "da autorevoli convinzioni [generali Cialdini e Fanti - N.d.a.], pregevoli scritti di recente pubblicati e, conviene pur dirlo, dalla maggioranza dei suffragi'', come il miglior punto di appoggio per la difesa di tale confine. 111 In sintesi egli dimostra che: - dal punto di vista della potenzialità ferroviaria, al momento il rapporto tra Piacenza e Bologna è di sei a tre e in futuro potrebbe diventare di otto a quattro, mantenendo sempre il rapporto di due a uno a favore di Piacenza; - Piacenza - Stradella si presta più <li Bologna a operazioni difensive contro provenienze da Nord-Est, perché è "a distanza dall 'Adige fprobabile linea difensiva - N.d.a.]doppia di quella a cui se ne trova Bologna; a cavallo del Po di cui domina le due rive, mentre Bologna

109 Roma - Firen7.c - Torino Locscher 1872. C fr. anche la recensione in " Rivista Militare Italiana'" Anno XVll - Vo i. I marzo 1872, pp. 507-5 10. 110 Torino, Candeletti I 873. 111 A. Ricci, lo. piazza di Piacenza... (Cit), p. S.


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non ha che un'azione limitata sulla riva destra; sul prolungamento della linea di ritirata Vicenza - Mantova e Padova - Mantova, mentre Bologna si trova in direzione ad esse normale"; 112 - "mentre la piazza di Bologna ha geograficamente l'Italia peninsulare dietro di sé, si è quella di Piacenza - Stradella che si trova ad averla logisticamente". 11 3 Questo perché le comunicazioni stradali e ferroviarie che portano alla piazza di Bologna sarebbero facilmente interrompibili da tutti i lati, mentre Piacenza - Stradella rimarrebbe sempre in comunicazione con il Piemonte, la Lombardia e il CentroSud (in quest'ultimo caso sia via mare che con la ferrovia litoranea tirrenica). Inoltre, Piacenza - Stradella molto meglio di Bologna consente l'approvvigionamento di uomini e cavalli nelle zone circostanti; - "l'Appennino non si può listare di ferrovie", come avrebbe voluto il generale Fanti; quindi non è nemmeno possibile fare di Bologna il perno della difesa d'ltaJia, come sosteneva lo stesso generale. La conclusione è quel1a stessa degli Appunti, e si compendia in due principi: a) "sulle Alpi consiste oggidì più che mai la difesa della Frontiera Nord-Ovest dell'Italia"; b) occorre fortificare La Spezia per la flotta, e le Alpi e Piacenza - Stradella per l'esercito. 114 A.R. giustifica queste scelte strategiche non solo e non tanto con ragioni geografiche, ma anche con ragioni logistiche. Le ferrovie - egli o sserva - hanno trasformato e tendono a trasformare sempre di più il modo cli fare la guerra, e soprattutto hanno accresciuto in grande misura la possibilità di alimentare rapidamente e da grandi distanze gli eserciti in uomini e rifornimenti. Nel concreto, ciò significa che in passato per ricevere i rinforzi dal Paese l'esercito sarebbe stato costretto a retrocedere dal Nord ad esempio fino ali' Arno o al Tevere, perché senza le ferrovie la distanza che i rinforzi stessi avrebbero dovuto percorrere avrebbe reso impossibile il loro arrivo in tempo utile sulle posizioni di confine del Nord. Ora invece, dal momento in cui tali risorse [con le ferrovie] possono venire all'Esercito stesso con una rapidità che ha veramente del prodigioso, si trova, di sua natura, eliminata La convenienza di quei prolungati e metodici movimenti di ritirata, che sfibrano gli eserciti, demoralizzano Le po-

11 2

ivi, p. 60. ivi, p. 61. 114 ivi. p. 63,

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polazioni, ne lasciano in preda al nemico tanta parte e nel caso concreto lascerebbero le provincie più ricche ed ubertose dell'Italia a sua discrezione. 11 5

Le lotte ad oltranza, consistenti in una prolungata ritirata all'interno del Paese disputando al nemico il terreno palmo a palmo, non sono più possibili. AH' interno del Paese un esercito troverebbe il vuoto, perciò abbandoniamo assolutamente queste pericolose illusioni, e persuadiamoci che l 'enorme sviluppo dato agli eserciti di i° linea, e la facilità di fare affluire verso essi tutto ciò che resta di valido e di veramente utile nel paese, rende fatalmente decisivi i fatti che hanno luogo sulle frontiere o a breve distanza da esse; donde nacque quella sentenza {di Montecuccoli - N.d.a.J: che le guerre oggidì devono essere corte e grosse. 116

Come gran parte degli scrittori militari europei del tempo, anche A.R. è dunque prigioniero del mito della guerra breve, dimenticando che - co-

me sarebbe avvenuto nella prima guerra mondiale - nella guerra di secessione americana I 861-1865 (da lui totalmente ignorala) le ferrovie, le grandi masse, l'abbondanza di armamenti e rifornimenti hanno provocato non una guerra "corta e grossa", ma - al contrario - una g uerra di logoramento, che è stata proprio il prodotto delle ferrovie, delle macchine e del1'ampliamento degli eserciti. Certo, la guerra 1870-1871 in Europa è slala sostanzialmente corta e grossa: ma solo per le forti differenze qualitative tra le contrapposte strategie e le contrapposte leadership. Oltre tutto, egli dimentica che le ritirate non sono mai una scelta, ma sono imposte dalla vittoria nemica; e sembra quasi contraddire le sue tesi sulla necessità di una "piazza di rifugio" nella quale r esercito, sconfitto ai confini, preparerebbe la controffensiva, quando afferma che gli "immensi" eserciti de] momento esauriscono presto le risorse morali e materiali del Paese, perciò quando un popolo "si accascia sotto i rovesci e si mostra tanto facile a subire la legge del vincitore", è perché "l'istinto gli dice che, senza salvare il presente, potrebbe compromettere seriamente l'avvenire, col fare l 'eroica follia di prolungare una guerra impossibile". La «Difesa interna della Valle del Po» intende sostanzialmente ribattere alle critiche del colonnello bolognese del genio Antonio Araldi, il qua-

''-' ivi, p. 55. ivi, p. 57.

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le nell'articolo Bologna o Piacenza? Risposta agli scritti dei colonnelli Veroggio e Ricci' 17 intende dimostrare che, quale piazza - rifogio e perno della difesa della Valle del Po, Bologna offre migliori requisiti di Piacenza Stradella. In quest'opera - l'ultima di un certo peso teorico e strategico - A.R. non fa che ribadire e meglio dimostrare, sotto il pungolo della critica, le sue precedenti tesi a favore della piazza di Piacenza - Stradella e del potenziamento della marina. Ci limitiamo perciò a ricordare alcune sue considerazioni, che vanno al di là della problematica contingente e presentano un interesse teorico generale. Sui contenuti dell'arte militare e sui "dati positivi"'' dei quali essa deve tener conto, questa volta egli sembra allontanarsi in misura considerevole da Jomini e ancor più da un approccio "scientifico": i problemi di arte militare non sono di tal natura da prestarsi a soluzioni assolute che non ammettono eccezione, come può avvenire di quelli nei quali non concorrono che dati positivi. Nella soluzione dei problemi di arte militare, con alcuni positivi concorrono altri dati, sia di natura morale, sia di opportunità, nella cui valutazione l'apprezzamento personale ha un 'influenza preponderante. Sicché, come succede spesso nelle questioni d'arte, esistono e possono esistere dissensi profondi sulla soluzione di alcuno di tali problemi, senza che possa dirsi delle due opinioni contendenti avere l'una tutta la ragione e l'altra tutto il torto. 118

Come dire: poiché le valutazioni a priori di un problema strategico non potranno mai giungere a risultati certi e incontrovertibili, tutto è affidato all'intuito, al coeup d'oeil del singolo; un'affermazione che Clausewitz avrebbe sottoscritto. Altre considerazioni riguardano il rapporto tra politica, guerra e strategia, a cominciare dall'attacco al "difensivismo preconcetto" [tipico - anche del XX secolo e del periodo post - 1945 - N.d.a.], allora sintetizzabile nella formula che " l'ltalia non deve, o non può avere alcuna ambizione di conquista, e quindi non deve pensare che a difendersi". Egli ritiene questa massima condivisibile su un piano meramente politico, perché l'Italia al momento ha soprattutto bisogno di consolidarsi e di

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ln "Rivista Militare Italiana" Anno XVIII - Voi. 11 maggio 1873, pp. 16 1-2 15. A. Ricci, La Difesa interna... (Cit), p. 17.


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svilupparsi all'interno_ Le cose però cambiano se si passa dal campo politico a quello militare: si intenderebbe di dire che, rinunziando ad ogni aggressione politica, l'Italia debba rinunziare ad ogni offensiva militare? Che una guerra venendo a farsi necessaria e non per causa dell'Italia, la guerra non debba avere per essa che una sola modalità, quella dell'azione d(fensiva? Che mentre i nostri possibili avversarii potranno usare a nostro danno la doppia risorsa delle botte e delle parate, noi soli non potremo servirci che di queste? E che in conseguenza nelle nostre cose militari non dobbiamo avere che un concetto, il quale vorrebbe essere saggio e non sarebbe che gretto, vorrebbe essere prudente e non sarebbe che inscientemente temerario, il concetto cioè di sviluppare i mezzi di d(fesa trascurando quelli di o.fJesa ?119

A proposito del possibile concorso delle alleanze internazionali nella difesa del territorio nazionale, egli condanna "la disistima di noi, mi si permetta la parola, che ci porta sempre a guardare al di fuori, anziché contare sulle nostre braccia quando si tratta di difendere il nostro paese". Se si deve solo sperare nel soccorso straniero, non valeva la pena di riunirsi in 27 milioni di italiani; del resto, se un intervento straniero - ciò che con una compiacenza veramente vergognosa si sente spesso ripetere - fosse necessario per difenderci, non sarebbe la Valle del Po e specialmente il punto di Piacenza - Stradella, ove dovremmo stare con ogni mezzo per dare La mano ai soccorsi stranieri, che potessero arrivarci dall'Ovest, dal Nord o dall'Est_ 120

Scendendo più nel dettaglio, A.R. non senza ragione accusa l' Araldi di dare alle fortificazioni, che sono solo uno dei fattori della difesa, una importanza eccessiva, "a scapito di quella che deve essere data agli altri che hanno maggiore influenza sulla difesa stessa". In tal modo il problema complesso della nostra difesa diventa "un problema di difesa territoriale nel senso ristretto della parola, e, meglio ancora, un problema di difesa di una piazza".

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ivi, p. 144. ivi, p. 156.


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11. PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. IIJ (1 870-1915) - TOMO I

Al momento (1873) è ancora in discussione in Parlamenlo la legge suile fortificazioni dello Stato, giudicata da A.R. ]a più importanle. Egli osserva che sarebbe stato opportuno includere nei provvedimenti - stralcio già varati la costruzione dei forti di sbarramento su11e Alpi, "sulla cui convenienza non vi ha ormai più dissenso", e che, comunque, "in fatto di fortificazioni non vi può essere questione di minimo e di massimo, ma vi è un tanto, e questo è necessario. Fare di meno sarebbe un errore militare, fa-

re di più sarebbe un errore militare ed economico ad un tempo. " 121 Un ultimo argomenlo - ultimo non in ordine d ' importanza - riguarda l'effettiva possibilità di applicare il modello ordinativo prussiano (allora ovunque imperante in Europa, e fortemente sostenuto dal suo collega d'insegnamento alla Scuola di Guerra Nicola Marselli) alla realtà de11' esercito Italiano, emanazione di un popolo che ha caratteristiche, tradizioni, storia ben diversa da quello prussiano. A .R. si chiede se il modello prussiano, così adatto ali' offensiva, lo è ugualmente per la difensiva. A suo g iudizio esso ha tre caratteristiche negative: I0 ) prevede elevalissimi livelli di forza per la truppa, ai quali non si riuscirà mai a far corrispondere dei Quadri sufficienti per quantità e qualità; 2°) divide la forza mobilitabile in due parti di molto diversa efficienza, de1le quali l'esercito di 1" linea, che riunisce gli elementi migliori e più giovani, è la parte minore; 3°) tale esercito di 1• linea è composto di vecchi soldati con ferma massima di 3 anni (ma destinala a diminuire) e di un numero crescente di reclute. A questi lati negativi si conlrappone un maggiore sviluppo de1le forze morali, rappresentate dail'educazione e dall'istruzione. Ma quest' ultima ha buone prospettive di miglioramento per i Quadri, non per la truppa; mentre a un aumento de] livello di cultura e intelligenza non corrisponde affatto lo sviluppo "di quelle maschie virtù del carattere, che mentre sa-

rebbero più che mai necessarie, si vanno facendo sempre più rare" .122 In ullirna analisi, secondo A.R. un esercito siffatto, moralmente fragile, è adatto ali' offensiva ma non aila difensiva, che vedrebbe attenuarsi rapidamente le sue forze morali fino al tracollo. Occorre perciò chiedersi se al1e splendide vittorie prussiane non abbia concorso "un 'iniziativa presa arditamente e arditamente proseguita" da

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ivi, p. 165. ivi, p. 148.


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parte del Comando; e in questo caso "ci siamo chiesto, se per noi, decisi imitatori di quell'organismo, non sarebbe obbligatoria, all'occorrenza, la stessa modalità d'azione? Ed anzi, calcolando sino a qual punto la nostra imitazione della forma esterna avrebbe potuto penetrare nella sostanza, ci siamo noi chiesto se tale modalità d'azione non sarebbe ancor più una necessità per noi, la cui indole è più ardita che calma, più appassionata che riflessiva, più meridionale insomma che settentrionale"? 123 Rivelandosi buon conoscitore dell'esercito prussiano (ormai germanico), A.R. ne enumera le qualità soprattutto morali e l'ammirevole coesione, concludendo che esso unisce "alla massima stabilità organica la massima perfettibilità tecnica", in tal modo riuscendo a combinare in modo perfetto " il vecchio e buono col nuovo e buono". E si chiede - e chiede ancora: ci siamo noi chiesto, e seriamente, se /'imitazione nostra potrà spingersi fino a tutte queste solide vecchie qualità che servono di equilibrio e di compenso di alcune di quelle forme più appariscenti e brillanti, ma meno sostanziali e solide dell'epoca nostra ? E se la coscienza ci disse che la cosa non è possibile, ci chiedemmo allora quali dovrebbero esserne le conset?uenze in quel giorno in cui ci occorresse di impiegare un esercito che avrebbe di quello [prussiano] molte delle qualità, ma non quella della solidità? 124

A.R. ammette di essere stato in passato diffidente verso il modello prussiano, ma ormai ritiene che per l'Italia si tratti di "avere un esercito così ordinato o non averne". Subito dopo, però, nota che per l'Italia è una contraddizione "avere un esercito alla germanica con meno molte di quelle qualità che lo rendono solido", e allo stesso tempo parlare di una difesa metodica, su più linee ecc .. Con queste parole sembra quasi che voglia dire e non dire, e cerchi di evitare critiche dirette all'orientamento ufficiale. Si può osservare che in un esercito - come tale fatto per reggere alla prova del fuoco e far fronte senza scomporsi alle alterne vicende delle guerre o delle battaglie - la solidità è tutto; e allora a che serve il modello prussiano, visto che, a parte gli interrogativi e i dubbi, egli ammette che il nostro esercito (dopo avere adottato il modello prussiano) manca di molte di quelle qualità che lo rendono solido?

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ivi, p. 149. ivi. p. I52.


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Un cenno merita, infine, un libretto di poche pagine del 1880 dal titolo La Brigata di fanteria nel combattimento. Note di un generale di Brigata, frutto delle conferenze tenute da A.R. quando era comandante di Brigata e ultima sua opera di arte militare. Lavoro che risente delle originarie finalità didattiche e pratiche, in gran parte - ovviamente - non più attuali, nel quale va ogg i notato soprattutto il commento critico al Regolamento di esercizi e di evoluzioni della fanteria vigente. Messo allo studio dopo la campagna del 1866 e pubblicato nel 1869, tale regolamento dovrebbe prendere atto dell'accTesciuta efficacia delle armi a retrocarica e quindi della necessità di adottare formazioni di combattimento meno vulnerabili. In realtà, secondo A.R. non di rado è contraddittorio, perché è la risultante di una lotta non ancora conclusasi tra i sostenitori dell'ordine chiuso e quelli dell'ordine rado. Ciò è avvenuto perché l'esperienza del JH66 non era ancora ritenuta da molti come sufficiente per giust(fi.care una radicale trasformazione nelle forme di combattimento, o per darne i criteri direttivi. tanto più che una sola delle due parti aveva portato in campo Le armi a retrocarica e queste non erano ancora di piccolo calibro, ma soltanto una trasformazione delle antiche di calibro maggiore. Si aggiungano le resistenze di quello fipirito conservatore così spiccato negli eserciti il quale, quando non ecceda, ha pure la sua parte di buono ... 125

Secondo A.R. (che lo paragona all'analogo regolamento francese) il difetto fondamentale del regolamento in questione è di non riconoscere in modo chiaro e deciso che ormai per la fanteria esiste un solo ordine di combattimento. In particolare l'avere ideato un ordine misto per distinguerlo dagli altri due, il chiuso e lo sparso; e l'avere così stabilito tre ordini di combattimento per la fanteria, è la causa principale di Uflll certa confusione e delle contraddizioni in cui, bisogna pur dirlo, cade troppo di sovente il nostro regolamento. Non esiste un ordine misto di combattimento, come non ne esiste né uno chiuso, né uno sparso. Esiste solo un ordine di combattimento per la fanteria il quale ha per caratteristica che i suoi diversi elementi componenti sono in parte e alternativamente chiusi o sparsi, secondo le esigenze e lo sviluppo de/l 'azione. 126

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A. Ricci, ÙI Brigata... (Cit), p. 23. ivi, p. 25.


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Poiché con l'efficacia ormai raggiunta dalle armi da fuoco "la.formazione rada, anche per la compagnia, è ormai la sola possibile nel combattimento", secondo A.R. si tratta semplicemente di prendere atto di questa realtà ormai da tutti ammessa. Per prima cosa, perciò, si deve smettere di "cercare dei correttivi che ne temperino i così detti effetti dissolventi" ,dedicando piuttosto ogni cura alla formazione in ordine rado. I Quadri devono persuadersi che i temuti "effetti dissolventi'' di questo ordine sonoritenuti tali solo perché "abbiamo sempre presente quel termine di paragone dell'ordine chiuso, il quale seguita afa/sarei l'occhio e anche il giudizio, troppo memori ancora delle impressioni della nostra vita militare". 127 Il combattimento in ordine rado richiede solo delle diverse modalità d'inquadramento e una diversa mentalità dei Quadri, con il nuovo indirizzo nell'educazione della fanteria che ne consegue. Per A.R. sono questi due punti i veri correttivi da ricercare; intanto guardiamoci dal confondere la coesione morale col con/allo dei gomiti, dallo scambiare l'autorità del comando col comando di attenti, dal credere sinonimi disciplina sostanziale e disciplina fonnale, dal ritenere finalmente che delle abitudini inveterate sieno dei principii indiscutibili. E quando quel disordine apparente, che è L'essenza stessa dell'ordine rado, ci impressiona maggiormente, ricordiamo che ormai bisogna combattere in quel modo, e che fra le false posizioni la peggiore di tutte è sempre quella che non si sa prendere. 128

Anche quest'ultimo scritto dimostra la rara perspicacia di A.R., quando si tratta di affrontare con chiarezza di idee e senza remore contingenti problemi pratici ai minori livelli, discussi fino alla guerra 1915 - 1918. Sostenere senza remore l'ordine rado nel 1880 non è da tutti, non è un merito secondario, anzi è il suo merito principale, che denota una visione profetica del futuro combattimento della fanteria, impostata su presupposti chiari e realistici.

Il ruolo fondamentale delle forze navali nella difesa dell 'Italia e le polemiche alla Camera Non sono rari gli scrittori militari "terrestri" del secolo XIX che si occupano anche di cose marittime e riconoscono alla marina un ruolo di 127 128

ivi, pp. 54-55. ivi, pp. 55-56_


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grande rilievo nella difesa nazionale, dimostrando in tal modo un esemplare distacco da posizioni teoriche giustificate solo da ristrette ottiche di Forza Armata e da esigenze di bilancio. Nessuno di loro, però, come A.R. scende in profondità e come A.R. spinge all'estremo le sue tesi, fino a ritenere necessario 1' incremento delle forze navali anche a discapito delle risorse da destinare all'esercito, che a sua volta - specie a fine secolo XIX deve affrontare onerose esigenze di ammodernamento in un quadro di cronica scarsità di risorse. Il ruolo della marina è trattato da A.R. sia negli Appunti sulla Difesa d'Italia che nella successiva Difesa interna della Valle del Po, nella quale reagisce anche su questo argomento alle critiche dell' Araldi; ma le sue prese di posizione più significative avvengono nel decennio successivo alla Camera, ai cui lavori partecipa come deputato per due legislature (la XV e XVI, dal 1882 al 1890). La sua costante tesi di fondo è quella alla quale abbiamo prima accennato: l'esercito deve occuparsi esclusivamente della difesa del confine terrestre, lasciando alla marina la difesa dell' Italia peninsulare e insulare, compito che da una parte imp1ica l'incremento delle forze navali e dall'altra richiede una difesa terrestre reattiva e spinta il più avanti possibile. Negli Appunti sulla difesa d'Italia egli così giustifica, sul piano generale, il suo interesse per la difesa marittima: provo una certa esitazione a parlare della flotta e se ne comprenderà agevolmente la ragione. Ma essendo essa il secondo fattore della difesa nazionale, e per le condizioni idrografiche dell'Jtalia poco menu importante che l'Esercito stesso, non potrei passarla sotto silenzio in uno scritto come questo. D'altra parte fu sempre un mio voto ardentissimo quello dell 'affratellamento dell 'Esercito e della Fluita [anche Bonamico sostiene tesi analoghe per la Marina - N.d.a. I, parendomi che Jull'intima corrispondenza di queste due braccia del paese, dipenda in gran parte il suo avvenire. ln conseguenza, nei limiti che sono conce.\·si a un ufficiale di terra, tenni sempre dietro alle vicende della nostra Marina come ai progressi e alle trasformazioni dell'arte militare navale ... 129

Al momento - prosegue A.R. - tenendo conto delle nuove costruzion i, l'Italia potrebbe armare da IO a I 2 corazzate. Natural mente si potrebbe e dovrebbe fare di più, ma per la flotta i limiti di bilancio hanno un peso a n-

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A. Ricci, Appunti... (Cii), p. 19.


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cor maggiore di quelli dell'esercito_Con un bilancio di appena 25 milioni sarebbe impossibile mantenere un effettivo maggiore, anche perché l'armamento delle navi non fornisce margini consistenti per fare economie_ In ogni caso, se vi sono cento ragioni per cui un Esercito debba soddisfare alla condizione d'attitudine ad essere prontamente impiegato, ve ne sono cento e una, perché a tale condizione debba soddisfare una Flotta. Una Flotta che appena dichiarata la guerra non sia in grado di prendere il mare, almeno in parte, a tutela del proprio commercio, a minaccia di quello de[[ 'avversario, a protezione delle coste nazionali, a dimostrazioni ed attacchi su quelle nemiche, manca ad una delle ragioni principali della sua esistenza e lascia a un nemico, che sappia avvalersene, un vantaggio inestirnabile. 130

Nel caso che le ùisponibililà ùi bilancio non consentano ùi mantenere armate tutte le navi, meglio mantenerne pronte poche dei tipi migliori, e in tal modo si avrà una forza nominale minore, ma una forza reale maggiore. Questo vale in particolar modo nel caso concreto della difesa d'Italia, per la quale "considerando la doppia base marittima che ha la Francia nell'Oceano e nel Mediterraneo, se vi ha una probabilità che possa in dati limiti far compenso alla nostra inferiorità di forze, si è quella di prendere L'iniziativa da parte nostra prima che le squadre [francesi] dei due mari si siano riunite nel Mediterraneo". A.R., pertanto, si dichiara di parere diverso da quello di un anuniraglio in congedo, che in un giornale di Torino ha contestato l'utilità di tenere delle corazzate armate. 131 Egli esamina anche la consistenza e le possibilità operative della marina francese, che con un bilancio da 95 a 100 milioni potrebbe mettere in mare non meno di 20 corazzate (delle quali tre quarti circa di primo ordine e dei migliori tipi conosciuti). Inollre l'organico francese del 1857 prevedeva numerose navi militari da trasporto (72), atte a trasportare circa 50.000 uomini in operazioni di sbarco; e anche se le recenti economie potrebbero avere ridotto tale naviglio, sarebbe agevole il ricorso da parte francese a una flotta a vapore mercantile in continuo sviluppo. Quali sono le effettive possibilità di sbarco francese sulle coste italiane? A questo argomento assai controverso e ampiamente dibattuto an-

"' ivi, p. 22. I .l i ivi, p. 23.


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che negli anni seguenti, A.R. risponde in modo interlocutorio. Come operazione puramente nautica - egli osserva - non sussistono particolari problemi; ma quando intervenisse il fatto di una flotta nemica interessata a impedire lo sbarco per quanto inferiore in forza a quella che deve proteggerlo [è la situazione della flotta italiana - N.d_a_j, la questione [per la flotta francese] cambierebbe grandemente di aspetto, tanto più quando l'operazione richiedesse una lunga traversata e la costa ove dovesse effettuarsi lo sbarco, per condizioni di fondo, di sicurezza e altre di tal natura, lo rendesse incerto e difficile_ 132

In definitiva si tratterebbe di un'operazione militare come un'altra, i cui rischi dipenderebbero dalle circostanze e sulla quale quindi non è possibile formulare previsioni certe. In ogni caso, essa per A.R. è "possibilissima" e presenta un grado di difficoltà analogo a quello del superamento ùdle Alpi da parte di un esercito invasore. Coerentemente con questa valutazione di carattere generale A.R., come già si è accennato, ritiene possibili quelle che oggi chiameremmo "proiezioni di potenza" da parte della Dotta francese sia sulla costa ligure (Riviera di Ponente) che sulle coste dell'Italia cenlrale, meridionale e insulare, però per .il momento non considera il pericolo di un bombardamento delle città costiere, ma solo quello degli sbarchi e degli attacchi alle basi di Spezia e Genova. È perciò d'accordo con la Commissione per la difesa dello Stato sulla necessità di fortificare Spezia e Roma, nel primo caso "in modo assoluto" e nel secondo caso "con qualche restrizione", cioè con opere che non comportino grandi spese, ma siano sufficienti per proteggere la capitale da un colpo di mano di forze sbarcate sul litorale laziale (pesa evidentemente il ricordo degli sbarchi francesi del 1849 e del 1867 a Civitavecchia). Particolarmente urgente, secondo A.R., la fortificazione della Spezia, che va protetta anche dalla parte di terra fortificando - come già voleva Cavour - Piacenza. 133 A.R. considera solo i riflessi strategici degli sbarchi sulla Riviera ligure di Ponente, perché non ha avuto modo di approfondire gli studi sul1' Ttal ia centrale e meridionale. Lo sbarco in Liguria sarebbe strettamente connesso con l'offensiva dell'esercito francese attraverso le Alpi: infatti "al momento dell 'apertura delle ostilità, e coordinatamente ai movimenti

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133

ivi, p. 42. ivi, p. 31, 34 e 36.


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di invasione per via di terra, con tutta probabilità, un corpo di sbarco prenderebbe il mare diretto ad un punto delle nostre coste". Si possono fare due ipotesi: se il corpo imbarcato è diretto verso un punto della costa a Est di Genova, " il contraccolpo delle operazioni di cui sarà la causa efficiente, finirebbe alla lunga per farsi sentire nell'alta Valle del Po, [ma] non potrebbe però esercitare una diretta e immediata influenza sulle operazioni che in essa avessero luogo". Se, invece, ha come obiettivo uno dei punti della costa che si prestano allo sbarco a Ovest di Genova, "in questo caso l'influenza di tale fatto sulle operazioni dell 'alta Valle del Po sarebbe immediata, ed eventualmente anche decisiva". 134 A.R. esamina solo quest'ultimo caso, giungendo alla conclusione che "se un corpo di sbarco volesse dirigersi sulla linea di ritirata del difensore che opera sull'alto Po, sia che volesse minacciarlo di un attacco di rovescio, non si troverebbe imbarazzato a farlo per mancanza di strade".135 Se non si facesse fronte a questa eventualità, " la difesa delle Alpi potrebbe trovarsi repentinamente compromessa da chi, anziché forzarla, pensasse di girarla, secondo la nota espressione napoleonica". Se però la minaccia generica di sbarco si manifesta<;se nel tratto di costa tra Savona e Genova, un' aliquota delle forze dell'esercito di 1a linea nell'alto Po tenuta in riserva potrebbe farvi fronte, cUrigendosi rapidamente per ferrovia su Alessandria, che è il punto più conveniente: si tratta quindi di fortificare opportunamente il tratto di costa Savona - Genova e il suo retroterra, onde dar tempo alle forze di riserva di dirigersi su Alessandria e permettere alle forze concentrate nell'alto Po di ottenere qualche successo iniziale. Sotto questo profilo, A.R. giudica "infelicissime" le condizioni delle difese tra Savona e Genova; mentre Genova stessa, che ne è la chiave, "è un colosso dai piedi di argilla, che sono rappresentati dal suo fronte a mare" .136 Perciò critica sia la decisione della Commissione per la Difesa dello Stato, che ha previsto la spesa di quattro milioni per rafforzare solo il fronte a terra della piazza di Genova, sia la decisione del Parlamento di cancellare la spesa di due milioni prevista dalla Commissione per fortificare Vado Ligure. Fin qui , per far fronte alle offese dal mare A.R. sembra contare soprattutto suJle fortificazioni: ma nella Difesa interna della Valle del Po radicalizza le sue posizioni a favore del rafforzamento delle forze navali,

'" ivi, pp. 68-69. "'ivi, p. 71. ' 36 ivi, p. 73.


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dando per certi - e non più solo probabili - gli sbarchi e affidando alla marina il compilo vitale di impedire sbarchi francesi sul litorale toscano e romano, onde evitare l'aggiramento delle difese terrestri della Valle del Po e delle stesse difese dell'Appennino sostenute dall' Araldi, con il quale polemizza.137 Infatti Piacenza, Bologna, Firenze, Roma, Napoli sono come gli anelli principali di una catena, che una volta spezzata in qualche punto a Sud di Bologna (come potrebbero fare forze sbarcate sulla costa tirrenica) provocherebbe l'interruzione dei collegamenti logistici e strategici tra l'Italia peninsulare e continentale; questo vale qualunque sia il perno della difesa della Valle del Po. Segue un'ammissione importante, nella quale per la prima voltaA.R. giustifica la priorità da dare agli armamenti marittimi rispetto a quelli terrestri: il ripetere, come si fa spesso, che gli attacchi terrestri sono i principali per mole, onde autorizz,arsi a chiudere gli occhi sulle conseguenze dei marittimi, perché per mole inferiori a quelli, è un sotterfugio poco serio per non darsi la briga di pensare ai rimedi necessari per scongiurarli; la sentenza potrà servire per fare un libro o sostenere una tesi ben architellata, mn non per far avanzare di un pa.uo la soluzione del nostro pmhlemn difensivo. Per me intanto, non ho difttcoltà a dichiararlo, preferirò sempre una buona corazzala messa sull'acqua ad un forte di più, fosse pure eretto a Piacenza - Stradella, quando fosse ben dimostrato che non si può avere (ciò che preferirei) e l'una e l'altro [nostra sottolineatura - N.d.a.j. 138

Con queste tesi A.R. si schiera nettamente contro i numerosi esponenti dell 'esercito che minimizzano il pericolo di sbarchi nemici nell'Italia peninsulare, quindi negano anche la necessità di dare alle costruzioni navali l'impulso che vorrebbero sia A.R., sia gli scrittori navali. Al tempo stesso, non concorda con quei "navalisti" i quali (come farà più tardi anche il Bonamico) ritengono che il nemico sia in grado di sbarcare forze assai superiori ai 50.000 uomini da lui indicati. Questo perché - egli osserva - la capacità di trasporto militare nella quale dispone sulla carta la marina di uno Stato è "ben lungi" dal rappresentarne la capacità reale; infatti occorre tener conto delle riparazioni, dell'inattitudine ai trasporti stessi, dell'indisponibilità per vari motivi di una parte del naviglio, ecc..

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A. Ricci, La Difesa interna ... (Cit), pp. 22-23. fBJJ)EM .


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Fatte queste riserve, A.R. commenta la comparsa della nuova nave torpediniera alla quale accennano alcuni giornali: se questo nuovo mezzo fosse disponibile, "si potrebbe dire avviata la soluzione della difesa, non della nostra intiera costa, ma di quei tratti di essa che hanno un'importanza capitale nell'economia difensiva generale del Paese". 139 A.R. polemizza poi con I' Araldi su altri due argomenti: la possibilità (sostenuta da quest'ultimo) di contrattaccare con forze provenienti dalla piazza di Bologna o dai dintorni di Pistoia truppe nemiche sbarcate sul litorale toscano, e la possibilità (negata dall' Araldi) di realizzare i collegamenti tra la pianura padana e il Sud - anziché con la ferrovia porrettana facilmente interrompibile e di capacità limitata - con la ferrovia litoranea e/o i trasporti marittimi fino a Genova, utilizzando poi i raccordi ferroviari di tale porto con la pianura padana. 140 Sul primo argomento, secondo A.R. un esercito battuto e in cattive condizioni morali e materiali, come sarebbe inevitabilmente quello che si rifugia nella piazza di Bologna, non potrebbe fare questo, anche in relazione alle notevoli clistanze e al cattivo rendimento logistico - non superiore a quello di una strada ordinaria - della ferrovia porrettana tra Firenze e Bologna f non si può fare a meno di osservare, però, che dalle forze rifugiatesi nella piazza di Piacenza - Stradella egli pretende in un secondo tempo una vigorosa controffensiva - N.d.a.J. Sul secondo argomento A.R. (che con il comandante D'Amico aveva ottimamente organizzato i trasporti di mobilitazione via mare da Sud a Nord in occasione della guerra del 1866) 14 1 ribatte alle critiche dell' Araldi sostenendo che la soluzione dei trasporti marittimi sarebbe possibile solo in caso di guerra contro l' Austria, perché anche per difficoltà logistiche e mancanza di basi la flotta austriaca non potrebbe mai operare nel Tirreno. Per il resto, la nostra marina mercantile è in grado di fornire naviglio da trasporto in misura più che sufficiente, mentre la ferrovia tirrenica litoranea ha potenzialità assai superiore a quella della porrettana, oltre tutto anch'essa soggetta - come lanavigazione - a frequenti interruzioni per il maltempo. Ferrovia litoranea e trasporti marittimi si integrerebbero a vicenda, a seconda delle esigenze; i cavalli e materiali sarebbero comunque trasportati su tale ferrovia, mentre in caso di difficoltà dei trasporti marittimi per maltempo o altro, rimarreb-

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ivi, Nota a p. 24. ivi, pp. 24-29 e 92-122. 141 Cfr. F. Botti., la campagna del 1866: cooperazione Esercito - Marina e trasponi via mare·· in "Rivista Marittima" n. 2/1989, pp. 87-100. 140


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be pur sempre la possibilità di utilizzare in misura maggiore la ferrovia Utoranea. 142 Di questo dibattito in gran parte basato su dettagliate valutazioni di carattere geografico e/o sull'analisi della potenzialità delle linee ferroviarie, va ricordato soprattutto il modo con cui A.R. contrasta le tesi dell' Araldi sull' "instabilità del mare", che non consentirebbe di fare affidamento sui trasporti marittimi tra il Nord e il Sud in caso di guerra. Egli osserva che tale argomentazione "svela una grave lacuna nella nostra educazione nazionale, quella della famigliarità e quindi della fiducia in un elemento che fcome il marel rappresenta tanta parte del nostro avvenire" . È stato detto - aggi unge - che la difesa dell'Italia deve essere studiata dal punto di vista romano; "ma allora facciamo come quel 1:ran popolo che, guerrie ro, volle essere e fu popolo marittimo; ma allora non vediamo unicamente nel mare la qualità negativa della instabilità, disconoscendo la positività di quella leva immensa di .forza da esso rappresentata, tanto da far esclamare al più grande ora tore di quel popolo stesso che il possesso del mare assicurava il possesso di tutto" . 143 Un siffatto approccio "marittimo" globale di A.R. , già assai ardito e raro per un colonnello di Stato Maggiore dell'esercito tra i più in vista, si accentua fino a sfociare in aperte polemiche in Parlamento col Ministro della guerra Bertolé Viale dieci anni dopo, quando A.R. oltre che deputato, è tenente generale comandante in seconda del Corpo di Stato Maggiore, cioè ricopre la più alta carica dell'esercito dopo il Capo di Stato Maggiore istituito nel 1882. Come si legge nel suo necrologio sulla Rivista Militare del dicembre 1896, i discorsi [alla Camera] da lui pronunciati, tutti in materia militare, furono improntati a uno spirito di progresso che parve prematuro e esagerato: "quello, rimasto famoso, sull 'importanza e la missione della Marina in Italia, oggi sarebbe a proposito; anticipato di dieci o dodici anni era una profezia; a molti parve una stranezza, a pochi una rivelazione; non trovò il gusto delle sfere militari. Ciò punse il suo carattere sensibile, si eclissò e diede l'addio alla politica" . Il primo intervento significativo del Nostro avviene nena seduta della Camera del 13 giugno 1885, nella quale si discute il bilancio della marina (Ministro della guerra è il generale Ricotti). Dopo aver ricordato di essere deputato da due mesi e di aver già chiesto al Ministero della guerra maggiori stanziamenti per la

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A . Ricci, La Difesa interna ... (Cit), pp. 111-11 2 e lD., La Piazza di Piacenzu... (Cit), p. 20. A. Ricci, La Difesa Interna ... (Cit), p. 11 2.


~----'I . IL PtNSltRO Ili AGOSTINO RICC I

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fortificazione della Spezia, A.R. sfiora i toni lirici, e riprende uno dei topoi del nava]jsmo italiano di ogni tempo (Cfr. anche Voi. I, cap. XV): prima di tutto prego i distinti uomini di mare che siedono in questa Camera di usarmi indulgenza se io mi metto a navigare nelle acque di loro competenza. Ma il Vangelo dice: "si può perdonare molto a chi ha molto amato" ed io amo immensamente la marineria; l'amo perché ricordo una sentenza di Napoleone primo, secondo la quale forse l '/talia per la sua configurazione geografica non avrebbe potuto diventare una nazione unita [non è proprio così - N.d.a.]; ma, quando questo fatto si fosse verificato, essa avrebbe dovuto diventare una grande potenza marittima [ ... ]. Bisogna ora che l'Italia risponda al presagio di Napoleone primo, vale a dire che diventi una grande potenza marittima; senza di che essa non sarà mai nulla.

La seconda esigenza riguarda la costituzione di un vertice interforze: in proposito A.R. ricorda anche di aver sostenuto un Ministero della difesa nazionale, "del quale fossero due orf?ani esecutivi il Ministro della marineria e quello della guerra. Sarebbe stato al primo di coordinare il lavoro preparatorio della difesa dello Stato; agli altri di curarne i particolarì'. Subilo dopo, la prima affermazione forte: se questo Super Ministero fosse stato costituito, non si sarebbe certo proposto di accrescere dj un quinto le forze di terra (come al momento sta avvenendo), lasciando però la flotta "quasi in istato d'impotenza". Al momento, nonostante i meritori sforzi del Ministro della marina Brin, "io non esito a dire che siamo, proporzionatamente, troppo forti per terra e troppo deboli per mare". L'aumento dei corpi d' armata da 10 a 12 nel 1882 ha reso indispensabile un continuo aumenlo del bilancio dell'esercito, che dovrebbe raggiungere i 225 milioni, con un incremento di 15 mmoni. Ma, sempre secondo A.R., questo provvedimento non va a vantaggio della difesa complessiva, visto che su 6600 Km di confini solo 600 sono terrestri e 6000 marittimi, e che la frontiera terrestre "al giorno d'oggi costituisce una delle frontiere più forti che esista al mondo. Imperrochè le nostre Alpi, fortificate come sono oggi, e difese da 250.000 o da 300.000 italiani, sono una frontiera sulla quale si può contare certamente". La cosa è diversa per la difesa dei 6000 Km ili coste: non si può attuare una difesa a cordone, né è possibile difendere tutte le coste con onerose fortificazioni. Anche una difesa terrestre manovrata offrirebbe scarse garanzie, perché sarebbe poco tempestiva e richiederebbe ugualmente grandi forze, "senza contare che vi trovereste probabilmente di fronte Le


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forze contrarie in una proporzione maggiore". Per A.R. non vi è dunque che un mezzo: accrescere la flotta in misura tale, che "per il solo fatto della sua esistenza, si rendano improbabili gli attacchi alle coste italiane", la cui modalità più pericolosa è quella degli sbarchi. Egli chiede perciò al Ministro della marina e al Presidente del Consiglio di dire chiaramente in Parlamento se le risorse finanziarie disponibili sono sufficienti per la difesa delle coste, e nel caso che esse non siano da ritenersi sufficienti, come intendono provvedere. E non esita a suggerire con indubbio coraggio - una soluzione drastica e assai singolare, vista l'alta carica da lui occupata in quel momento: "verrà in campo certamente la questione di.finanza. Ma al Ministro dirò, in questo caso, e mi si 1:etti pure la croce addosso: non avete i mezzi? Prendeteli dalle somme che vorreste destinare per l'Esercito, perché così avrete la Italia sufficientemente forte e dal lato terra, e dal lato mare" . Sulle considerazioni di A.R., che pure toccano direttamente anche il suo Ministero, il Ministro del1a guerra del momento (generale Ricotti Magnani) non interviene. Nella seduta del 15 giugno interviene invece - in modo assai prudente e diplomatico - il Ministro della marina Brin, che condivide le tesi di A.R. sulla necessità di prevedere un'impostazione interforze delle esigenze della difesa nazionale e di sviluppare le forze marittime, ma al tempo stesso non si associa alla sua idea - cardine (cioè alla necessità di aumentare la marina a spese dell' esercito), in quanto (salomonicamente) crede "che sia molto discutibile se merita preferenza la difesa marillima o la terrestre", né ritiene che A.R. voglia ancora modificare l'ordinamento dell'esercito ormai attuato. E aggiunge che pochi giorni prima il collega Ministro Ricotti aveva indicato tra le ragioni che consigliavano di tenere a un livello il più possibile limitato le spese per l'esercito, la necessità di rafforzare la marina da guerra ... Sembra che questo gli basti. A.R. si dichiara perciò insoddisfatto della risposta evasiva del Brin e ribadisce la sua netta opposizione all'aumento delle spese ordinarie e straordinarie per l'esercito, così motivando il suo atteggiamento: "parrà strano che sia un ufficiale dell'Esercito il quale avversi questa spesa; ma io, lo dichiaro francamente, prima di appartenere all 'Esercito, appartengo al mio Paese; e siccome riconosco che per terra siamo abbastanza forti, mentre non lo siamo abbastanza per mare, così io domando che si rinforzi la marineria". Inoltre, dichiarando però di non farsi illusioni sulla sua approvazione, presenta un ordine del giorno che non viene accettato, nel quale la Camera, "riconoscendo che lo sviluppo delle forze marittime è ora il supremo bisogno della difesa nazionale", invita il Governo a introdurre nel bilancio le varianti necessarie.


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In una successiva replica il Ministro Brin ammette che le disponibilità di naviglio non sono pari alle esigenze, ma riconosce che il Governo sta facendo tutto il possibile e "anche se domani piovesse tanto denaro da permetterci di duplicar subito il bilancio della marineria, il farlo in un giorno solo forse sarebbe male, perché come tutti i corpi che crescono troppo rapidamente, diventerebbe in molte parti deforme. Quindi anche i mez,z,i di questo bilancio bisogna crescerli gradualmente ...". E, a una precisa domanda di A.R., nega che con otto o dieci milioni in più, sarebbe possibile mettere in stato di completo armamento le grandi corazzate Italia e Lepanto, e costruire in breve tempo 50 torpediniere (A.R., invece, lo ritiene possibile). Due le deduzioni che si possono trarre da questo scontro parlamentare. La prima è che A.R., da sempre anticonformista, questa volta raggiunge l'apice e si dimostra molto più realista del re, fino a trovarsi in rotta di collisione non solo con la politica del Ministero della guerra, ma anche con quella del Ministero della marina, pur retto da un uomo che - come il Brin - aveva fatto dell'incremento delle costruzioni navali la sua costante cura. La seconda - di carattere generale - è che, se la marina raggiunge negli anni seguenti il minimo della sua efficienza, ciò dipende anche dall' atteggiamento assai "politico" di Ministri di grande nome come il Brin, in questo caso almeno più attenti a esigenze di solidarietà della compagine del Governo che a quelle della marina, fino a presentare come salutare, per ragioni tecniche, una politica di aumenti col contagocce. Va precisato che il "navalismo" di A.R., come più tardi quello del Bonamico, non è legato al colonialismo. Nella seduta del 16 giugno 1885 interviene sulla politica africana del Governo, afferma di aver trascorso un'estate a Massaua e vede in questo porto solo un punto d'appoggio per la nostra navigazione nel Mar Rosso e un promettente emporio commerciale con ampio retroterra, sconsigliando però una penetrazione all'interno che richiederebbe molte truppe. Invita poi il Ministro della guerra a prendere severi provvedimenti disciplinari contro quei militari che hanno inviato in Patria lettere con lamentele sul clima, perché per sua esperienza diretta, su quelle coste non si sta bene, ma le condizioni di vita sono tuttavia sopportabili e il buon soldato deve andare dove lo mandano, senza protestare. L'impegno di A.R. a favore dell'incremento delle forze navali tocca il culmine nella seduta del 26 maggio 1887, nella quale si discute un disegno di legge per l'aumento delle Anni speciali (artiglieria, genio e cavalleria) dell'esercito. Poiché i corpi d'armata nel 1882 sono stati aumentati da 10 a 12 per il momento senza il corrispondente, necessario aumento delle co-


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siddette Armi speciali (artiglieria, genio, cavalleria) il nuovo Ministro della guerra (dal 4 aprile) generale Ettore Bertolé - Viale (che proviene dalla fanteria come A.R., e come lui , promosso sottotenente nel 1848, ha partecipato alla guerra di Crimea) chiede al Parlamento un'assegnazione supplementare cli 12 milioni per attuare questo aumento. A.R., anche se probabilmente conosce il Bertolé bene e da molto tempo, si oppone mettendo anzitutto a confronto i programmi della guerra e della marina, per dedurne che "mentre il Ministro della guerra si propone di dare alle nostre forze terrestri quei complementi che sono il desiderato degli uomini competenti, il Ministro della marineria si propone di raggiungere la parte sostanziale delle nostre forze navali". La differenza essenziale tra i due programmi è però nei tempi: mentre l'ordinamento proposto dal Ministro della guerra deve essere attuato in gran parte nel 1887 1888 e compiuto nell'esercizio successivo, con il programma proposto dal Ministro della marina - ammesso ma non concesso che venga attuato per intero - la flotta solo nel 1898 (cioè dopo lunghi anni) avrà raggiunto la consistenza minima necessaria per la difesa delle coste. Quindi "io vengo a questa conclusione: che non vi è uno sviluppo parallelo nei due mezzi di difesa del paese", e che per quanto il Ministro Brin abbia fatto il possibile, i foncli a sua disposizione sono sempre stati scarsi: dunque "manca un concetto unico, un concetto direttivo a cui s 'informi la difesa del Paese". Del tutto a ragione, A.R. calca poi la mano sui riflessi negativi che i provvedimenti proposti dal Bertolé Viale avranno sulla fanteria di linea, Arma già gravemente depauperata degli elementi migliori in seguilo alla costituzione di varie specialità, assai più numerose di quelle degli altri eserciti; le 75 compagnie alpine che essendo al momento rinforzate (cioè con una forza effettiva di 120 uomini per compagnia anziché 100 come la fanteria) equivalgono a 90 compagnie di fanteria; 2000 uomini di leva ogni anno ai Carabinieri; due reggimenti di granatieri; 36 battaglioni bersaglieri. Avendo forza maggiore, gli altri eserciti europei (che li chiamano cacciatori) in proporzione ne hanno di meno: 12 battaglioni in Germania, 30 in Francia, 40 in Austria. In quanto agli alpini, A.R. esclude qualsiasi possibilità di "bivalenza", e ammette il danno che questa specialità arrreca alla fanteria: in caso di f?uerra io non posso prendere gli alpini e farli correre da un punto all 'altro del campo di battaglia per prestare quel rinforw che sarebbe necessario. Ammetto che questa sia una specialità utile per Le frontiere alpine, ma non cessa di essere vero che i novantaquattro reggimenti di fanteria si trovino in condizioni inferiori per quanto fatto.


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La conclusione è che la riforma del Bertolé Viale sottrae alla fanteria almeno 4000 uomini tra i nùgliori di ciascun contingente, provocando una diminuzione totale di 24.000 fucili per tale Arma. E diversamente da quanto avviene negli altri eserciti, "i nostri ufficiali che assistono nei distretti alla leva, vi diranno che sono proprio mortificati nel vedere che i coscritti migliori vengono assegnati, non pochi agli alpini, un po' alla artiglieria, alla cavalleria, ai bersaglieri e i più scadenti si danno alla fanteria ...". Di conseguenza A.R sostiene che bisogna risparnùare la spesa di 12 milioni richiesta dal Bertolé Viale, perché indebolisce gravemente quella che rimane l'Arma base, Regina delle battaglie, quindi l'intero esercito: "e se il Parlamento e il Ministero credono proprio necessari altri 12 milioni per la difesa del paese, ebbene si riversino sul bilancio della marineria". Anzi: dei 380 milioni delle spese militari, 160 dovrebbero essere assegnati alla Marina [che al momento ha un bilancio di soli 95 milioni circa - N.d.a.]. La ragione è la solita, e questa volta A.R. dà grande importanza anche al pericolo dei bombardamenti delle città costiere: mentre le Alpi saranno agevolmente difese "dai vostri alpini, dalle vostre ballerie di montagna, mentre i vostri squadroni potranno riunirsi e sostare a lungo nella Valle del Po, perché le Alpi oggi non si passano tanto facilmente", la flotta francese verrà davanti a Napoli, Palermo, Messina, Genova applicando la teoria della Jeune École navale, il cui Capo è l'ammiraglio Aube, secondo il quale "le flotte dovranno, in mancanza di avversari che ad esse si oppongono, volgere la loro potenza di distruzione contro tutte le città litoranee, siano fortificate o no, siano pac~fiche o guerriere, ed incendiarle, rovinarle, e, se non altro, metterle a contribuzione senza misericordia". L'intervento provoca la prevedibile reazione del Ministro Bertolé Viale, che dice di non aver voluto intervenire subito, per avere il tempo di riaversi "della penosa impressione in me deslutu dalle ullime parole del Ricci, con le quali si fece profeta di sventura, qualora non fossero adottate le sue idee, i suoi concetti" . E aggiunge ironicamente: L'onorevole Ricci ha un ideale che coltiva con fede robusta e vorrebbe infonderlo in lutti; questo suo ideale, inutile che Lo dica, è la Marina. Egli concenlra tulla la poesia del suo imelletto nel mare, e questo gli fa un pochino trascurare la terra.

Il Bertolé - Viale, perciò, dichiara di non accettare il ruolo secondario che A.R. vorrebbe assegnare all'esercito. La marina deve essere forte, "ma non bisogna esagerare" perché le Dotte non si possono creare in un giorno, e se il Ministro della marina ricevesse tutti i fondi ritenuti necessari da


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A.R. si troverebbe in grande imbarazzo per spenderli, "giacché noi non abbiamo i cantieri occorrenti, e si sa il tempo che occorre per mettere in mare una grossa nave". Obiezioni, queste, analoghe a quelle de] Brin, alle quali il Ministro della guerra aggiunge una sorta di condensato delle argomentazioni dell' antinavalismo: la Francia nella guerra del 1870, malgrado avesse una potente Marina, quale risultato ottenne? Quello di dover sbarcare gli equipaggi per servirsene come truppe di terra. La storia insegna che Napoleone 1 si fece padrone dell'Europa, quantunque vinto sul mare; e cadde solo allorquando fu battuto in terraferma. Quel pronostico fatto dall'onorevole Ricci, che in una guerra che egli vede probabile Le nostre città marittime saranno bombardate dalle squadre nemiche, che cosa dimostrerà? Dimostrerà che le squadre nemiche potranno commettere atti indegni della moderna civiltà, ma non per questo conquisteranno l'Italia, perché questi atti parziali non potranno avere una sensibile influenza sui risultati di una campagna. Bisognerà che sbarchino delle forze, perché si ottengano seri risultati; e quando queste siano sbarcate, se noi non abbiamo delle forze terrestri da opporre loro, potremmo avere la più grande Marina del mondo, che non raggiungeremmo alcun risultato. Ma vi è ancora un 'altra ragione, che distrugge, io credo, l'affermazione troppo spinta dell'onorevole Ricci. Crede egli possibile che, anche dando J(XJ milioni alla nostra Marina, questa potrà mai eguagliare in potenza quelle Marine, Le quali sono state create da secoli, e da Stati che hanno maggiori potenzialità di noi, ed in fatto di finanza, ed in/atto di mezzi di creazione? D'altronde la Marina da guerra bisogna pure che sia in relazione, non solo alla difesa di un paese, perché La spesa ingente, come la vorrebbe l'onorevole Ricci, sia giustificata, ma in relazione altresì ai suoi possessi coloniali, che noi ancora non abbiamo.

Per quanto riguarda le critiche dj A.R. all'esercito, il Bertolè obietta che l'aumento delle Armi speciali non è un semplice desiderio del Ministro o un auspicio della Commissione, ma è una necessità, perché in fatto di artiglieria noi siamo "in proporzioni assolutamente inferiori a quelle di tutte Le altre potenze, proporzioni che non raggiungeremo neppure col presente disegno di Legge". E pur ammettendo che la fanteria "raccoglie quel che rimane dopo La scelta per gli altri corpi" osserva che A.R. non ha indicato alcun efficace rimedio a questo inconveniente. Sono peraltro possibili, secondo il Bertolè, rimedi e temperamenti parziali, del resto suggeriti dallo stesso A.R.: a) ridurre i requisiti per l'ar-


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ruolamento nelle Armi speciali, visto che "anche negli altri eserciti non si esigono condizioni di statura e corporatura così speciali come da noi, ove sono conservale in buona parte soltanto per tradizione"; b) ridurre, in generale, i requisiti fisici richiesti al soldato di leva; c) unificare la ferma a tre anni, eliminando la possibilità concessa a buona parte del contingente di compiere una ferma abbreviata di due anni, e agevolando in tal modo la scelta dei graduati di fanteria. li giorno dopo A.R, probabilmente amareggiato per la fonna e la sostanza del duro intervento del Ministro nei suoi confronti, presenta le dimissioni da deputato, non accettate perché non motivate; pertanto il 31 maggio le ritira. Da allora in poi non si ha notizia di altri suoi interventi nei lavori parlamentari. La querelle ha però uno strascico nel 1894, quando sul giornale romano "L'Opinione liberale" del 9 maggio compare una lettera nella quale A.R., da poco nominato senatore, polemizza con l'onorevole Pais, relatore del bilancio della guerra 1893 - 1894 (e suo avversario, perché come il Berlolé Viale aveva criticato aspramente le sue tesi nella famosa seduta del 26 maggio 1887). Al momento, a causa della scarsità di risorse si sta discutendo in Parlamento la convenienza di ridurre i 12 corpi d'armata. Il Pais è contrario, perché l'esercito non deve difendere l'Italia solo da attacchi terrestri (come vorrebbe A.R.), ma anche da attacchi provenienti dal mare. Quindi è "necessità imprescindibile" suddividere le forze tra la pianura padana, la penisola e le isole, non certo in parti eguali, ma neppure guarnendo in così debol maniera le parti peninsulari ed insulari, da esporle a divenir facile preda di un nemico audace, anche perché la parte principale dell'Esercito, che si dovrà adunare nella Valle del Pu, nun sarebbe in grado di guerreggiare, qualora, perduta La restante parte del Paese, venissero a mancargli i rifornimenti di uomini, di cavalli e materiali.

A sostegno della necessità di mantenere a 12 i corpi d'armala, il Pais cita nella relazione al bilancio anche il passo degli Appunti sulla difesa d'Italia nel quale, come si è visto, si auspica l'aumento dei predetti corpi da 10 a 12. Nella lettera all' "Opinione" A.R. ricorda che quando nel 1871 aveva sostenuto la necessità di aumentare a 12 i corpi d ' armata, il bilancio della guerra era di soli 148 milioni, e perciò in relazione all'incremento della forza ha allora ritenuto necessario un aumento progressivo di 20 milioni. Negli anni seguenti, però, in seguito alla costituzione di due altri corpi d'armala (1882) tale bilancio è stato portato a ben 260 milioni solo per


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la parte ordinaria: e allora "ne ho combattuto in Parlamento le ultime conseguenze, cioè lo sdoppiamento dei reggimenti d'artiglieria e la creazione di alcuni reggimenti di cavalleria, dolente di non aver potuto combattere la creazione dei due corpi d'armata, perché quando furono creati non avevo ancora l'onore di essere deputato". La ragione dell'opposizione di A.R. all'aumento dei corpi d'armata non è nuova: "essa precludeva così la via all'aumento della Marina, la quale, ridoua al bilancio di 92 milioni, è una Marina impotente". La direzione del giornale "l'Opinione" gli dà pienamente ragione, definendo "un'eresia" le tesi del Pais: infatti l'Esercito deve difendere principalmente la frontiera terrestre e bastare ai bisogni della difesa dell'ordine pubblico all'interno. Guai se dobbiamo fare assegnamento sull'Esercito per la difesa delle coste! Guai se a questa difesa non è ordinata e sufficiente, quanto più è possibile, la Marina militare! [ ... ] 10 corpi d' Eserciw sono più che sufficienti all 'lialia; potrebbero bastare anche 9, dando il di più, che ora si spende, in parte alla finanza, in parte alla Marina militare.

Il Ministro deJla guerra pro tempore e deputato generale Stanislao Mocenni, anch'egli proveniente dalla fanteria e già insegnante di statistica alla Scuola di Guerra nel 1867 - 1869 quando A.R. era Vice - Comandante, 144 nella seduta del 26 maggio 1887 era intervenuto associandosi alle sue dichiarazioni sulla questione delle troppe specialità e del depauperamento della fanteria, alla quale aveva aggiunto anche la richiesta al Ministro di aumentare l'istruzione delle truppe e di diminuire quei servizi che - come la guardia alle carceri - richiedevano alla fanteria numerosi distaccamenti e ostacolavano l'istruzione e l'azione di comando. Subito dopo la pubblicazione della lettera di A.R., però, gli indirizza un telegramma cifrato, nel quale "deplora altamente" che egli, pur potendo sostenere con piena libertà in Senato le sue opinioni, "abbia pubblicato sopra un giornale le sue idee circa potenza Marina e numero corpi d'armata aggravando le difficoltà create [al Ministro della guerra] dalla discussione che si dibatte alla Camera". A.R. risponde con analogo telegramma nel quale - dopo aver ricordato che "per nove anni sono rimasto in silenzio sollo il peso delle dure parole rivoltemi in Parlamento da un Ministro della Guerra [cioè il Bertolé Viale - N.d.a.] ed ero risoluto a con-

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Cfr. "Enciclopedia Militare", Voi. 5° p. 204.


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tinuare a tacere" afferma che, poiché il Senato era chiuso (giustificazione poi contestata dal Mocenni), di fronte alle citazioni "erronee e incomplete" del Pais in un documento ufficiale come la relazione sul bilancio "mi valsi del solo mezzo che avevo disponibile per rettificarle prima che fosse chiusa attuale discussione" .145 Questa polemica, dolorosa prima di tutto per A.R., chiude in modo immeritatamente traumatico la sua vita militare e, di fatto, la sua stessa vita: esonerato su sua richiesta dal comando del II corpo d'armata viene collocato a disposizione in data 1° ottobre 1894 e l'anno dopo (1895) in posizione ausiliaria: muore il 20 ottobre 1896.

Conclusione In sede di consuntivo l'opera di A.R. può essere ricondotta a una parte teorica e relativa all'insegnamento dell'arte e della storia militare, e a una parte tecnico-applicativa riguardante la difesa nazionale e le relative opzioni strategiche e ordinative. In ambedue i casi, essa si caratterizza per la rarità di riferimenti e citazioni di autori coevi o antecedenti, italiani e stranieri, che potrebbe anche essere una ricerca di originalità non giustificata appieno dai contenuti: sta di fatto che le poche citazioni molte volte servono a rimarcare delle divergenze, anziché delle concordanze. Dal punto di vista della teoria strategica, A.R. è il più autorevole nostro rappresentante della corrente di pensiero riconducibile ai dottrinari e a Jomini, quindi anche al "modello" francese. Di conseguenza la sua posizione sotto importanti aspetti diverge da quella di Nicola Marselli (Cap. II e Ili), portatore del modello prussiano e come lui insegnante alla Scuola di Guerra. Gli scritti di questi due uomini notevoli hanno una cosa in comune: riflettono le due anime, le contraddizioni, le ambiguità del pensiero militare italiano nella seconda metà del secolo, che poi si trasfondono anche nella fisionomia di un esercito, che dopo il 1871 vorrebbe essere il più possibile prussiano, ma di fatto continua psicologicamente e culturalmente a oscillare tra i due "modelli", alla ricerca di un'anima la quale non può che essere italiana e latina, quindi più vicina al modello francese che a quello prussiano.

145 Per il testo completo <lei telegrammi Cfr. P.G. Fram:osi, L'ideatore delle truppe alpine, in "Rivista Militare Ita liana" 1878, Voi. IV pp. 5-21.


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Il pensiero di A.R. non di rado rivela i limiti teorici dell'approccio jominiano: ma in parecchie occasioni il Nostro sa superare gli schemi rigidi e più di tanti altri si avvicina a quei valori morali e spirituali, che proprio nella realtà quotidiana - suo costante ancoraggio - emergono con maggior forza. Degli studi applicativi sulla difesa d' Italia la Rivista Militare 1896 dice che "oggidì sembrano arretrati e realmente lo sono; ma erano avanzati al tempo in cui furono scritti''. Sull'aggettivo avanzati noi nutriamo seri dubbi, almeno dal punto di vista delle grandi linee strategiche. Vi è una stridente contraddizione tra l'insistenza di A.R. sul valore impeditivo delle Alpi e sulla necessità di difenderle fin dall'inizio - concetto senza dubbio lungimirante - e i concreti provvedimenti da lui indicati per tale difesa (solo forti di sbarramento presidiati da milizie locali interamente composte da richiamati, mentre l'esercito permanente di l" linea è schierato più indietro), tanto più che si tralla di contrastare eserciti assai superiori al nostro, come quelli francese e austriaco; e tanto più che non sarebbe stato possibile costruire forti su tutte le possibili direttrici d'invasione ... Senza aspettare la prima guerra mondiale, già dopo alcuni anni i punti di vista di A.R. si rivelano superati e al tempo stesso, dimentichi dell' esperienza del passato. Lo dimostra indirellarnenle un articolo del lenente Zavattari sulla difesa delle Alpi (1878) 146 nel quale l'autore indica come esempio ancor valido la strategia di Carlo Emanuele lll nella guerra contro la Francia (1743 - 1747), imperniata sulla difesa a oltranza della displuviale alpina, e, se necessario, su offensive miranti a impadronirsi della displuviale stessa. A tal fine, si prevedeva la mobilitazione totale delle popolazioni alpine e l'intervento dell'esercito di 1• linea - dislocato in posizione centrale - anche all'interno della fascia montana, là ove la minaccia nemica era più pericolosa; inoltre nuclei di tale esercito erano chiamati a rafforzare fin dall 'inizio le posizioni di maggiore importanza ... Cose che A.R. esclude o non prevede, perché per lui le Alpi non rappresentano certo, come scrive lo Zavattari, "una vera Linea di battaglia nella quale l 'esercito piemontese si schierava e combatteva per coprire la capitale dello Stato". Più tardi, nel 1908, in un articolo sulla guerra futura si sostiene che la decisione dovrà essere ricercata sulle Alpi e non in pianura, e, che per questo le truppe alpine non sono sufficienti, quindi vanno rinforzate con unità di fanteria armate e addestrate per la guerra di montagna. 147

146

G. Zavattari, La.futura guerra de/l'Esercito Italiano, " Rivista Militare Italiana" 1878, Voi. IV

pp. 5-2 1. 147

561-573.

Omar, /,a futura guerra dell'Esercito Italiano, in " Rivista Militare Italiana" 1908, Voi. I pp.


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Se le opzioni strategiche non sono particolarmente originali né preveggenti, nel loro complesso gli scritti e gli interventi in Parlamento del Nostro vanno decisamente considerati le sue cose migliori_ Essi rivelano la parte autentica dell'uomo e dello scrittore, assai meno legato a stilemi teorici. Vi traspare una visione non di rado precorritrice su problemi e esigenze quotidiane che determinano la forza reale di uno Stato, a cominciare dalla necessità di inquadrare in una strategia unitaria l'apporto delle due Forze Armate, di costituire lo Stato Maggiore dell'esercito, di prevedere una rapida mobilitazione mediante il reclutamento regionale, di tenere conto dell'importanza delle componenti non strettamente militari per la difesa nazionale, di impostare su nuove basi l'addestramento della fanteria eliminando il persistente culto dell'ordine chiuso, di dare all'insegnamento nelle scuole un'impronta pratica, ecc ... Tornano a suo onore anche lo scetticismo sull'effettiva possibilità di applicare il modello prussiano alla realtà italiana e i centrati giudizi sulla guerriglia e su Garibaldi, rari per un generale dell 'esercito regolare di quei tempi. Si tratta di acquisizioni graduali, nelle quali ha gran parte quella esperienza di vita e di insegnamento, che A.R. non si stanca mai di trasfondere nella sua opera; per questo le idee espresse nelJ ' Introduzione subiscono una sensibile evoluzione nelle opere successive. Oltre a pervenire a più equilibrate riflessioni in materia strategica, in quesl'ultime egli cambia idea su parecchie questioni: - il valore impeditivo intrinseco delle Alpi, che nell'Introduzione sono ritenute un ostacolo di grande valore ma pur sempre non insormontabile, sì da rendere opportuno predisporre successive linee di difesa escluse in seguito; - il ruolo degli Appennini, da lui visti nell'Introduzione come una seconda linea di difesa della Valle del Po; - il concetto "appenninico" di difesa dello Stato del generale Fanti, lodato nell'Introduzione ma poi criticato, anzi osteggiato; - la preferenza per il reclutamento nazionale nell'Introduzione, e per il reclutamento regionale nelle opere successive; - la preferenza, sempre nell'Introduzione, per il piede di guarnigione anziché per il piede mobile, il che significa esclusione della convenienza di mantenere reparti in grado di entrare rapidamente in azione all'atto dell'emergenza, a cominciare dalla difesa delle valli alpine; - i dubbi sulla "tenuta" delle grandi piazze di guerra espressi nell 'Introduzione, mentre nelle opere successive si dà fondamentale importanza alla piazza di rifugio di Piacenza - Stradella - Bobbio.


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Ciò avviene probabilmente per diverse ragioni: le finalità didattiche dell'Introduzione, che rendono inopportuno instillare nei giovani ufficiali idee non in armonia con gli orientamenti ufficiali o comunque discutibili, gli ammaestramenti della guerra franco - prussiana e, in genere, l'approfondimento dei problemi della difesa nazionale che A.R. ha modo di compiere nel lungo periodo da lui trascorso alla Scuola di Guerra. Rimane comunque costante il suo grande interesse per la geografia e in particolare per la geografia delle Alpi Occidentali, delle quali è eccellente conoscitore. Così come rimane costante anche l'intento pratico e didattico che ispira tutte le sue opere, atte a formare dei comandanti e non degli studiosi: sotto questo profilo, può essere definito un troupier autodidatta costretto anche per esigenze didattiche a inquadrare le sue idee e esperienze di vita vissuta in un contesto teorico, non viceversa: di qui la debolezza dell'intelaiatura teorica di taluni suoi scritti, alla quale fa però da pendant un gran numero di validi insegnamenti specifici derivanti da cose vissute e non da dogmi teorici. Ben a ragione, quindi, la Rivista Militare del 1896 così commenta, dopo la sua morte, il periodo centrale della sua vita, quello della Scuola di Guerra: già conosciutissimo pe' suoi Libri, Ricci sviluppò alla Scuola di Guerra e fece sviluppare dai professori le sue dottrine in materia d'arte militare, le quali erano accolte come vangelo. Uomo d'idee larghissime, fu il primo che iniziò gli allievi a quegli studi di coltura generale, i quali, ampliati sotto i suoi successori, fonnano adesso e devono formare la base dell'istruzione dell'ufficiale di linea, educatore in tempo di pace e conduttore d'uomini in tempo di guerra. Ed anche più che all'istruzione, Ricci ne' suoi discepoli badava al carattere. Cercava di conoscerlo e formarlo.

Degli interventi in Parlamento di A.R., si può dire semplicemente che essi - sia pure in modo inopportuno data l'alta carica che occupa - sollevano e magari esasperano problemi reali, in piena coerenza con il pensiero precedente e con il carattere anticonformista e schietto dell'uomo, alieno da manovre di corridoio. Ciononostante, è lecito pensare che tale inusitato atteggiamento abbia probabilmente risentito di tensioni tra gli alti gradi e di stati d'animo estranei al merito tecnico-militare delJe singole questioni, perché a un uomo dell'esperienza e della posizione di A.R. non potevano certo sfuggire i riflessi per così dire politici e" interni" delle idee che si accingeva a manifestare nell'alto consesso politico. Studi recenti, dei quali ci occuperemo nella parte a ciò dedicata, hanno messo in rilievo i meriti di A.R. anche nella costituzione delle


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truppe alpine. Dopo aver sottolineato gli accenni non favorevoli a tale specialità che si trovano in questo capitolo, noi ci limitiamo, anche per questo, a ricordare che l'opera di A.R. va giudicata globalmente e non solo soffermandosi sull' Introduzione e sulla parte teorica dei suoi scritti, come invece hanno fatto tutti coloro che finora si sono occupati di lui, a cominciare dal suo collega alla Camera e alla Scuola di Guerra Nicola Marselli, il quale - pur avendo idee molto diverse - loda l' Introduzione definendolo un lavoro di sintesi ne l quale l'autore "si è preoccupato giustamente della necessità di comporre ad unità i principf dei vari rami speciali della scienza militare, di coordinarli insomma mediante nessi di relazione, procedenza, derivanza, ossia logici, in una parola". E gli dà atto di aver tratteggialo con mente sicura un quadro dell'organizzazione e azione delle armate, più vasto di quello del Marmont. Commentando a fine secolo XIX la nuova edizione 1894 del libro del De Cristoforis Che cosa sia la guerra, il colonnello Airaghi loda assai quest'opera di A.R. la quale indica la via per approfondire quel precetto dell'azione in ma<;sa con le forze riunite, che è la quintessenza della strategia napoleonica: uno dei migliori libri sull'arte della f:uerra anch'esso a torto quasi dimenticato e dove comincia a indicarsi la nuova via, è la Introduzione allo stuctio dell'arte della guerra del generale Ricci, dove si insegna appunto il metodo lof:ico analitico per trattare le questioni varie, scindere nelle loro componenti. Ma quel libro, come lo dice il titolo, non dava il materiale delle cose e dei fatti che bisogna sapere, ma solo il metodo, e siccome i più vogliono la pappa fatta così rimase quasi ohliato per altri più 1ecnici che seguirono [ ... l Forse anche il De Cristoforis, come il Ricci, allora volgeva l'occhio avido di luce più verso Occidente ove balenavano ancora i bagliori dell'astro napoleonico tramontato [cioè verso la Francia - N.d.a.], che non verso il Nord ove non ancora biancheggiava l'alba che tanto rifulse pochi anni dopo [cioè verso la Prussia vittoriosa nelle guerre del 1864, 1866 e 1870 - 187 1 - N.d.a.]; e nella aggiunta alla Bibliografia, come il De Cristoforis volle dimenticare il Clausewitz, così l 'annotatore Idella nuova edizione 1894 del libro di De Cristoforis - N.d.a. I dimenticò il Ricci. 148

'" Cesare Airnghi, "Che cosa sia la guerra" di Carlo De Cristoforis (in C. Airaghi, Seri lii vari, Città di Castello, Tip. Lapi pp. 277-279).


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Nel suo lungo studio sulla ripartizione dell'arte militare (1908), il colonnello Alberto Cavaciocchi è assai più critico dei precedenti autori, anche se ha il torto di indicare il De Cristoforis come uno scrittore "fedele alla dottrina di Clausewitz e dei suoi predecessori". Presenta, a ragione, A.R. come colui che ha introdollo, divulgato e insegnato la teoria di Jomini in Italia, ma non condivide il suo concetto di logistica, e più in generale afferma (sempre a ragione) che L'uso di criteri non omogenei per rispetto alla natura della cosa che si considera si riscontra anche nella partizione del Ricci, che deriva direttamente da quella di }omini. IL Ricci non tenne conto di quanto v'era di inorganico nel lavoro fatto dallo Jomini, e procedendo sulla stessa via esagerò nel fissare i criteri di partizione, nello spingerne l 'uso fi no alle estreme conseguenze: - fece così un lavoro di cristalliu azione, una partizione metafisica. Egli adottò molteplici criteri divisori[ ... ]. Ne derivò una partizione artificiosa e poco adatta agli scopi didattici ai quali mirava. Il Ricci seppe tuttavia precisare mer<lio, secondo il proprio concetto, il valore dei termini strategia e logistica e mettere in evidenza l'importanza della condotta morale della guerra (già accennata dallo ]omini), chiamandola psicologia militare. 149

Nel 1910 le Sinossi di letteratura militare della Scuola MìJitare di Modena giudicano- more solito - l'Introduzione allo studio dell 'arte militare la sua opera principale, "che sarà sempre studiata dai cultori di questa materia, che è tanta parte della cultura militare". 150 Due anni dopo, lo Sticca non fa che riferire il giudizio del Marselli e cita le opere di A.R. sulla difesa d'Italia, ricordando che "conoscitore, come pochi, delle Alpi, fu un 'autorità in materia di asseuo e di apparecchio difensivo dei confini e dell'Italia in genere". 15 1 Condivisibile nella sostanza, ma parziale e fin troppo severo il giudizio ( 1924) dell'allora colonnello Bastico, il quale soffermandosi come tutti solo sull'Introduzione allo studio dell'arte militare, ricorda che tale libro "costituiva testo in tutto l'Esercito" e che A.R. ha insegnato per lunghi anni alla Scuola di Guerra, fatto che - par di capire - secondo il Baslico è

149 A. Cavaciocchi, /)ella partizione teorica dell 'arte m ilitare, in " Rivista Militare llaliana" 1908, Voi. IV, disp. Xl pp. 2311-23 14 e disp. Xl1 pp. 241 8-2420. 150 Scuo la Militare, Sinossi di letteratura militare italiana della seco11da metà sec. XIX e co11tempo ra11ea, Moden, Soc. Tip. Modenese 1910, p. 137. 151 G. Siicca, Op. cit., pp. 287-289 e 292.


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stato tutt'altro che positivo per l'esercito: infatti indica a torto A.R. come portatore di una concezione tendenzialmente materialista della guerra, contrapponendola a quella spiritualista del Marselli, da lui entusiasticamente condivisa. Di più: egli sembra al Bastico uno dei massimi responsabili della mancata nascita in quegli anni di una dottrina militare autenticamente italiana, visto che di lui scrive: una prova di siffatto contrasto fra il sentimento che volge a concepire la guerra sotto un aspetto spiritualistico e l'influenza degli scrittori stranieri che porta a considerarla dal lato materialistico, si ha nell'opera del generale Agostino Ricci Introduzione allo studio dell'arte militare [ ... ], che può considerarsi come una delle più complete in materia di detto periodo. Il Ricci è assertore convinto dell'importanza dei fattori morali in guerra [ ... ]. Ma, in pari tempo, estimatore altrettanto convinto della strategia dell'Arciduca Carlo, oltre a dare a quella da lui stesso esposta, analoghi aspetti rigidi, geometrici, schematici; quando si tratta deRli obiettivi della guerra offensiva, scrive: "quale sarà questo obiettivo? Già lo abbiamo detto: sarà uno dei punti del territorio nemico, in cui si trova riunita una certa massa di interessi [ ... ]"; e quando parla della battaglia conferma: "in ogni battaglia si ha un punto strategico la cui occupazione esprime il massimo risultato che si possa ottenere daJla battaglia [ ... ]". Ed il nemico? che dire di questa strategia e di questa tattica che dopo gli esempi napoleonici ci riporta ad un 'età precedente a quella di Federico 11? E allora si !.piega la campagna del 1866. 152

Senza dubbio il Bastico ha ragione: ma al di là delle contraddizioni, bisogna pur tener conto dei rimanenti aspetti pos itivi del libro, da lui ig norati. Per il resto, è normale materializzare gli obiettivi con elementi topografici o geografici; il torto di A.R. è invece un altro, quello di escludere quantità, qualità e atteggiamento delle forze nemiche dagli elementi da considerare nel piano di campagna e, in genere, nella risoluzione del problema strategico. ln quanto al cattivo esito della guerra del 1866, esso non si spiega affatto con l'influenza delle teorie di A.R., che anzi su alcuni punti - a cominciare dalle doti dell a leadership, dall'applicazione del principio della massa, dalla necessità di giungere in tempi brevi a una

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Ettore Rastieo, /, "evoluzione del/"arte della guerra ( 1924) ·Voi.Il, Firenze, Casa Ed. Mii. lt.

(S.D.). pp. 174 e 183.


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formazione omogenea dei Quadri ecc. - avrebbero potuto e dovuto essere applicate. Il giudizio del colonnello Epimede Boccaccia nel commento che precede la citata ristampa dell'Introduzione (uscita anch'essa negli anni Venti, solo due anni dopo i rilievi critici del Bastico) è opposto, è tutta una lode. TI Boccaccia non trova alcunché da dire sugli influssi stranieri e indica come principale merito di A.R. quello di "avere, raccogliendo dei precedenti e sintetizzando tutto lo sviluppo pratico e teoretico dell'arte militare sino a' suoi ,?iorni, tracciata la fase di approssimazione del secolo XIX nel processo formativo scient(fico dell 'arte stessa". Sempre il Boccaccia mostra di credere - a torto - che possa esistere un'evoluzione non tanto della scienza ma dell'arte militare, quando attribuisce ad A.R. il merito di aver compreso che la storia delle teorie scientifiche sull 'arte bellica [ma ci può essere una teoria scientifica di un' arte? - N.d.a.l non dovevasi concepire come la storia di una serie di tentativi successivi falliti tutti eccetto l'ultimo, ma, al contrario, come un ordine di successi ciascuno dei quali include e supera i precedenti I . .. 1- Concetto evoluzionistico per l'arte bellica dunque, non altrimenti che per le altre, on.de l'idea di un processo di approssimazioni successive paragonabili a una serie di esplorazioni in un paese sconosciuto ... 153

Per la verità non ci sembra che A.R. si occupi a fondo dello sviluppo storico dell'arte militare, ché anzi mostra di non tenerne in gran conto la storia, ed è assai parco di citazioni di precedenti autori stranieri, e ancor meno di italiani: i suoi exempla historica in massima parte hanno data recente, e i suoi riferimenti teorici sono costantemente fermi a due autori napoleonici dell ' inizio del secolo come Jomini e l' Arciduca Carlo. Ma tant'è: si deve convenfre che l' lntroduzione ben testimonia come si concepisce e studia l'arte /scienza militare in Italia nella seconda metà del secolo XIX, nella quale non mancano buone idee, sommerse però dalle contraddizioni e soprattutto rese sterili dalla mancanza di un indirizzo teorico e formativo uniforme e costante nelle grandi linee. Che dire, alla fin fine, dopo questi giudjzi? Per riconoscimento unanime A.R. è un autore di grande influenza fino alla prima guerra mondia1e: va studiato non solo per questo, ma anche perché rispecchia un filone estremamente importante e spesso prevalente del pensiero militare italiano, nep-

'" E.Ricci, Introduzione... Rist. 1926 (Cit), pp. 22-23.


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pure oggi scomparso. L'ancoraggio jominiano e dottrinario è la parte meno pregevole, ma non va troppo sottovalutato: come avviene in molti altri autori italiani del periodo, rimane spesso una cosa a sé, un'infarinatura superficiale che non si riflette molto negli aspetti della concreta problematica affrontata; senza contare che, al di là dei suoi limili, oggi Jomini non solo in Italia è tutt'altro che morto, almeno nella realtà quotidiana ... Certo, con il sostanziale ancoraggio teorico al modello, alla cultura francese A.R. non dà un rilevante contributo alJa nascita nel secolo Xl X di una dottrina militare nazionale, la cui mancanza è giustamente lamentata dal Bastico. Ma poteva essa nascere? 1 suoi scritti, così attenti a quello che è (e non a quello che dovrebbe essere) l'esercito italiano, rimangono eloquente esempio delJa difficoltà di individuare quella via nazionale all'arte e alla dottrina militare, che allora non si trovava nemmeno nel modello prussiano e che non casualmente permane anche ai g iorni nostri. Dimostrando ancora una volta una imperfetta conoscenza delle coordinate di riferimento del nostro pensiero militare, in Guerra e politica il Pieri non lo cila, dando invece largo spazio a quel Carlo De Cristoforis, che tutto sommato pur essendo importante dimostra assai minore spessore leorico di A.R. e di lui è più rigido, senza la sua ampiezza di vedute, di problemi, di interessi, senza - diciamo pure - quell 'esperienza di vita e vita mililare vissuta che inevitabilmente si riflette nell 'opera di ciascun scrittore. Studiare Ricci significa avvicinarsi - oltre che alla cultura militare - ai problemi reali non solo e non tanto dell 'esercito, ma della difesa nazionale nella seconda metà del secolo XTX: non è cosa di poco peso.



CAPITOLO II

IL PENSIERO DI NICOLA MARSELLI: ASPETII FILOSOFICO-STORICI E PRIMI SCRITTI MILITARI FINO ALLA GUERRA FRANCO-PRUSSIANA (1863-1871)

Premessa "Quando in un 'epoca di lotte tra nazioni voi non vi accontentate di spargere principi più equi ed umanitari; ma ponete l'ingegno artistico a creare romanzi, in cui La gloria militare è coperta di ridicolo e L'eme è un pusillanime, qual meraviglia che si Lascino giungere i Tedeschi a Parigi per assistere allo spettacolo della colonna Vendome abbattuta da mani francesi'!/ ... /. Ci vogliono dunque nell'armonia istorica anche i libri che apparecchiano un periodo di maggior predominio delle idee di pace; ma quatul.o un popolo si affida ciecamente e precocemente ad una forza troppo da avvenire, smarrisce il senso del presente, perde l'equilibrio e cade. Lavorare al trionfo delle idee umanitarie, senza sfrondare gli allori di coloro che espongono la vita a difesa del proprio paese, senza svilire lo spirito militare[... ]; ecco la condotta degna di popoli seri e di scrittori nobili". N. MARSELLJ, "Gli avvenimenti del l 870- 187 1" (1871)

"Il tuo cuore abbia palpiti solo per gli oppressi, per le vittime, pei poveri, pel popolo/ ... J. Rispetta non le classi, né i gradi, ma le virtù dell'animo. Un onesto e povero cittadino val più di tutti i grandi della terra". N. MARSELLI, lettera inedita del 1859 alla futura consorte ("Rivista Militare italiana " 1902)


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Generalità sull'uomo, sulla vita e sull'opera: un caso unico di "maitre à penser" Nonostante 1a recente ristampa - senza note critiche - delle sue due opere principali da parte de1l'Ufficio Storico, 1 il nome del generale Nicola Marselli ( 1832- 1899) è oggi ignorato nelle materie d'insegnamento delle scuole militari italiane. Eppure per questa nobile figura militare dalle eccelse qualità (del quale non si sa se ammirare di più l'acume del filosofo, del filosofo della storia e dello storico, la mente e l'apertura de1lo studioso di arte militare, il cuore del comandante, le intuizioni precorritrici del sociologo e de1 sociologo militare, l'influenza del "maftre à penser" e <lei parlamentare) vale tuttora - e lo dimostreremo - il giudizio troppo retorico ma nel complesso indovinato del capitano Giuseppe Sticca nel 1912: nello accingerci a far conoscenza con altri storici militari, che batterono altre vie, dissodarono altri terreni, accesero altre luci rivelatrici nello sterminato passato guerresco, un nome ci si affaccia che ogni altro oscura: Nicola Marselli, il più linceo e sicuro indagatore delle ragioni ultime della guerra [ ... ]. Filosofo della guerra, è, senza contrasto, il maggiore scrittore nostro di tutti i tempi. Egli è che diede corpo e consistenza di scienza e raccolse in sintesi ferrea tutti i rami delle belliche discipline. Sugli abbozzi del Blanch disegnò a colori un quadro dagli sconfinati orizzonti; le regioni da quello intravvedute e divinate egli pennellò e fissò con precisione impeccabile di contomi.2

Come ha ricordato il maggiore Carlo Sosso nel 190 I, " i concetti fondamentali delle opere del Marselli (d'ora in poi M.) sono due: la creazione di una nuova cultura [anche militare! - N.d.a.J italiana, ed il miglioramento intellettuale dell'esercito. La prima egli crede si debba conseguire principalmente per mezzo dello studio della storia, la quale riassumendo l'esperienza del passato, è uno dei più potenti fattori del progresso uma-

1 Nicola Marselli, La Guerra e la sua sloria, Milano, Treves 1875 (J VOL.); 2' Etl. 188 1 Milano, Treves (con Appendice su la Guerra reale, saggio già pubblicato sulla Rivista Militare flaliarw febbr.tio 1876, pp. 377-434); 3' Ed. 1904 Roma, Voghera (con Prefaz. de l col. Temistocle Mariotti); 4• Ed. Torino, Schioppo 1930 (con lntroduz. del col. Epime<le Boccaccia); 5' Ed. 1986 a cura Ufficio Storico SME e ID., la Vila del Reggimenio, Firenze, Barbèra 1889; 2' Ed. 1903 Roma, Voghera (con Prefazione del col. C.O. Pagani); 3' Ed. 1984 a curn Ufficio Storico SME. 2 Giuseppe Sticca, Gli Sr.rillnri militari italiani (prefaz. del gen. Enrico Rocchi Ispettore del Genio), Torino, Ca~sonc 1912, pp. 257-258.


11 LL PENSIERO DI NICOLA MARSF.1.1.1: PRIMI SCR rrn t'ILOSO~lCO-M IUTARI ( 1863-1871 )

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no: il secondo egli vuol conseguire elevando a scienza tutto ciò che riguarda la guerra e il modo di prepararla e difarla ". 3 La statura deJlo studioso, del filosofo, dello storico, del generale, del parlamentare e gli ambiziosi obiettivi che il M. intendeva raggiungere con i suoi numerosi scritti, avrebbero richiesto una puntuale, accurata analisi critica e comparativa di tutti i suoi scritti , anche di quelli minori e giovanili. Questo non è stato fatto nemmeno nei migliori tra i numerosi ma troppo sintetici studi e saggi che gli sono stati finora dedicati, nei quali l'analisi attenta e organica che il M. avrebbe più di ogni altro meritato ha troppo spesso ceduto il passo all'intento elogiativo, alla rievocazione biografica, al giudizio non ben documentato, troppo sintetico e sommario. Nel periodo tra le due guerre mondiali e dopo il 1945 alcuni nomi illustri (i filosofi Benedetto Croce e Giovanni Gentile, il grande storico nùlitare Piero Pieri, i generali Ettore Bastico e Epimede Bonaccia)4 gli hanno dedicato poche pagine interessanti, che hanno il merito di sfuggire al consueto intento apologetico e di scendere in profondilà anche con critiche, peraltro ignorando a vicenda i rispettivi studi e considerando solo gli aspetti del suo pensiero più congeniali al proprio campo di studi (ad esempio: i due filosofi, la sua formazione iniziale e il poco coerente iter filosofico successivo; il Pieri e il Bastico, la sua opera principale (e nemmeno questa per intero, come meglio vedremo in seguito). Sempre nell'immediato dopoguerra, da non trascurare una pressoché sconosciuta raccolta di lettere inedite del Nostro tratte dal suo archivio personale a cura del generale Giacchi e stranamente pubblicata dall'Ufficio Storico della marina. In esse acquista rilievo soprattutto la nobile figura dell' uomo, del generale e del comandante, la cui eredità morale viene riproposta dal curatore come guida per la ricostruzione delle nuove Forze Armate. 5 Rara avis, il generale Giacchi ha inoltre cura di fornire il suo foglio matricolare, che riportiamo in fondo a questo capitolo. 3

Carlo Sosso, Nicola Marselli e le .me opere, in "Rivista Militare lta]jana" Anno XLVI - Voi. I disp. I - 16 gennaio 1901, p. 39. 4 Si veda specialmente, in merito: Benedetto Croce, Storia della storiografia italiana del secolo XIX, Bari, Laterza 1921 , Voi. II pp. 172-173; Giovanni Gentile, Le ori,:i11i della filosofia contemporanea in Italia, Messina, Principato 192 1, Voi. Il Cap. IV. pp. 85- I 2 I ; Piero Pieri, Guerra e politica ( 1955), 2 • Ed. Milano, Mondadori 1975, pp. 209-225; Enore Bastico, L 'evoluzione dell 'arte della ,:uerra - Voi. Il La Guerra nel secolo XX, Firenze, Carpigiani e Zipoli 1924, pp. 187- 194 (noi consideriamo la ristampa della Casa Editrice Militare Ita liana, Firenze s.d.); Epimede Boccaccia, Pre fazione (con profilo bio1,•ra.fico e note) all'edizione speciale 1930 della Guerra e sua storia; Emilio Canevari, Clcmsewilz e la guerra odierna (Voi. I), Roma, Tip. "La Cardina l Fcrrari" 1930, pp. 89- 103. 5 Cfr. lei/ere inedite da/l'archivio del ,:enerale Marsel/i (a cura del generale Nicolò Giacchi), Roma, Ufticio Storico Marina Militare J 947.


IL PENSIERO MILrlA KE F. NAVALE ITALIANO - VOL.111 rn7(}.1915 -TOMO l

Nella recentissima, seconda edizione della sua storia delle Forze Armate il Ceva dedica al Marselli solo 21 righe,6 per di più limitandosi a riprendere alla lettera il giudizio critico riassuntivo del Pieri. In una recente comunicazione al II Convegno Internazionale di Storia Militare (Roma, ottobre 1999) dal titolo "Profeti inascoltati e maitres à penser" 7 abbiamo voluto dimostrare che l'approccio del Pieri - essenzialmente rivolto a quella parte dell'opera del M. che tratta gli aspetti teorici dell'arte militare - è parziale e quindi di per sé stesso non probante, e che il suo giudizio critico (tra l\ùtro, corredato da una pura e semplice malignità sull'asserita incapacità del generale come direttore di manovre del tempo di pace sul terreno) non è condivisibile, concludendo che nella globalità del suo pensiero il M. può essere a buon diritto annoveralo tra i profeti inascoltati_· ma anche quel nostro tentativo se non altro per ragioni di spazio non può che avere carattere troppo sommario e fornisce un ritratto incompleto dell'autore, sia pur - si perdoni l'immodestia meno incompleto di quello del Pieri (e, se si vuole, del Bastico). Insomma: un esame organico del pensiero del Marselli è ancora a tutt'oggi da fare, almeno se per "esame organico" si intende ciò che va fatto per ciascun autore: cioè lo studio di lutti i suoi scritti per individuare le tappe evolutive del suo pensiero, la comparazione tra i suoi scritti e quelli di altri autori coevi, antecedenti e successivi, il rapporto tra di essi, gli eventi del tempo e la vita dell'autore e infine i principali giudizi. Un politico e studioso di fama, Gian Enrico Rusconi, ha di recente dedicato un libro a Clausewitz8: ci sia permesso di osservare che anche il Nostro meriterebbe un libro. Dedicargli due capitoli di questo Tomo J è dunque un obbligo, è il meno che si possa fare; auspichiamo che il nostro tentativo contribuisca a farlo conoscere un po' più a fondo e meglio, e proprio per questo - meglio dirlo subito - non intendiamo ridurre l'analisi che condurremo a semplice agiografia. Nena seconda metà del secolo XIX M. - spirito indagatore e aperto a tutte le manifestazioni dello scihile - vive fin da allora le contraddizioni, le crisi , le cadute di valori della società industriale odierna, trasportandole senza reticenze nel seno della realtà militare (sia teorica che pratica e quotidiana). Così facendo egli precorre e riassume - inserendoli in una prospettiva europea - i caratteri non lineari, controversi, complessi del proble• Lucio Ceva, Storia delle Forze Amiate in Italia. Torino, UTET 1999, p.85. 7 Botti, Profeti inascoltati e ~maìtres à penser»: loro importanza nel pensiero militare e nella sua sloria (in atti del li Convegno nazionale italiano di storia militare, Roma, a cura Commissione Italiana di Storia Militare 2001, pp. 165-229). 8 Cfr. Gian Enrico Rusconi. C/ausewitz, il prussiano - la politica della guerra ne/I' equilibrio europeo, Torino, Einaudi 1999.


11- ILl'E.NSIERO DI NICOLA MARSELLI: PRIMI SCRITII FIL0S0f'1CO MILITARI ( 1863-187 1)

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ma della guerra e della pace e quindi dell'arte militare di oggi. Così come i suoi scritti filosofici e storici mantengono sempre, per così dire, i piedi per terra, i suoi scritti militari non si riducono mai a puro tecnicismo, ma mantengono un rapporto costante e orgarùco con la realtà politico-sociale. Anche per questa ragione M. non è certamente un "militarista"; prima di essere uomo di cultura militare, è uomo di cultura; al tempo stesso, non è solo uomo di penna. Insegnante alla Scuola di Guerra di Torino fin daJla sua fondazione (dal 1867 al 1875), vi tiene un corso prima di storia generale e poi anche di storia militare, dal quale traggono alimento i suoi scritti più significativi. Deputato nel 1874, generale e segretario del Ministro Ricotti (suo amico e estimatore) nel 1884 (carica che mantiene fino al 1887), senatore nel 1892, è stato ispiratore e deus ex machina delle riforme del Ricotti e più volte relatore dei bilanci di previsione per l'esercito presentati annualmente. I lucidi e frequenti interventi nei lavori parlamentari rivelano le sue doli di uomo pratico e equilibrato, che nonostante l'intenso impegno culturale vive intensamente nel suo tempo con un ruolo attivo nella ricostruzione o costruzione di un nuovo esercito italiano. Quel che più importa, lo fa senza chiusure aprioristiche alla realtà nazionale e europea, con rara sensibilità politica e senza quei voli pindarici, quelle ambizioni eccessive, quelle fughe in avanti che spesso coincidono solo con dei desideri, degli auspici, delle aspirazioni unilaterali e maturate in vacuo. Napoletano di nascita, allievo della Scuola Militare della Nunziatella e discepolo di Francesco De Sanctis, viene da lui educato all'amore per la libertà e per l'Italia unita; dotto ufficiale del genio napoletano poi passato nel 1861 all'esercito italiano, riassume in sé le migliori tradizioni del polo di cultura militare meridionale che abbiamo illustrato nel Voi. I. È perciò, in prima istanza, un continuatore dell'opera del Filangieri, del Blanch, del Pepe e del Pisacane. Del Blanch recepisce il determinismo storico, ma non il sostanziale conservatorismo politico-militare; e pur senza mai nominare Pisacane (dal quale lo separa una diversa visione politica), è a lui vicino (lo voglia o meno) nella calda aspirazione a una rinascita nazionale e militare italiana, nella necessità di coinvolgere in taJe rinascita anche gli strati popolari, nella necessità di definire un nuovo modello militare più in armonia con i tempi e lo spirito dell 'intera nazione, quindi tale da esprimere lo stretto raccordo tra cultura civile e militare, tra virtù civiche e militari, tra storia e forme militari del passato e del presente. Ammiratore di Hegel come il suo maestro De Sanctis, nel 1855 (a soli 23 anni) chiede un congedo dall'esercito del Regno di Napoli per recarsi in Germania a studiarlo meglio; viene poi attratto dalle teorie positiviste, senza peraltro voltare del tutto le spalle a Hegel e senza mai rinunciare a un


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atteggiamento critico - su aspetti importanti - nei riguardi dei maestri del positivismo. L'influsso delle due contrapposte correnti di pensiero si fa sentire con continuità - sia pure in modo non sempre lineare e convincente - in tutta la sua opera, ed è insieme la sua forza e la sua debolezza. Nel tentativo di superare sia Hegel sia il positivismo per ricercare una propria chiave interpretativa della storia e della realtà, cade in contraddizioni che pesano anche sulla parte militare del suo pensiero, perché punta sempre troppo in alto e vorrebbe risolvere problemi filosofici che non sono stati mai risolti, per la sempre ragione che non possono essere del tutto risolti. Ha il merito di inquadrare i mutamenti dell'arte militare in una precisa - anche se discutibile - filosofia della storia, cosa che non fanno gli altri scrittori e storici militari, a cominciare da Clausewitz e Jomini; ricerca le leggi storiche di sviluppo dell'umanità e ad esse vuol riportare, stabilendo dei parallelismi e delle analogie, anche quelle di sviluppo dell' arte militare; ma in questo troppo ambizioso tentativo di allargare gli orizzonti della ricerca, di superare la ghettizzazione del pensiero militare, si addentra in mare magnum di idee, procede in acque infide e urta in scogli che non riesce a rimuovere o rimuove solo in parte, anche perché né allora né oggi potevano essere rimossi. Una siffatta, singolare vicenda umana, culturale, militare obbliga perciò a studiare il M. sotto tre aspetti fondamentali che l'un l'altro si compenetrano e sovrappongono, fino a rendere difficile l'individuazione di quale di questi sia il prevalente: il filosofo, filosofo della storia, sociologo in senso generale; lo studioso di arte militare, storico e sociologo militare; il comandante e generale di spicco, uomo di governo, influente parlamentare, l'uomo d'azione insomma. Una figura complessa e decisamente unica: non si trova, nella storia militare antecedente e successiva, un solo nome che possa anche alla lontana essergli paragonato; né è privo di significato il fatto che l'Italia unita, costruita dal J 848 al 1861 con un'impronta militare di pretta marca piemontese, abbia avuto in due eminenti figure di ufficiali meridionali, appunto il M. e Enrico Cosenz (primo Capo di Stato Maggiore dell'esercito nel 1882, che resse la carica per ben 11 anni) i due esponenti militari di maggio rilievo - in campi diversi - non solo della seconda metà del secolo XIX ma di tutto il secolo. A ciascuna delle interfacce prima indicate corrispondono - senza una rigida successione temporale - opere vere e proprie e numerosi articoli su riviste anche non militari. Sono frequenti e importanti, specie nei primi anni , i suoi articoli sulla Rivista Militare Italiana; ma è stato anche collaboratore di punta della prestigiosa Nuova Antologia, con scritti politico-militari, filosofici e storici.


Il - IL PENSIERO DI NICOLA MARSELLI: PRIMI SCRrITI FILOSOFICO-M ILITARI (1863-1871 )

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Ciò premesso, tratteremo separatamente - per quanto possibile - i tre settori di attività del M., per ciascuno soffermandoci sugli scritti che meritano maggiore attenzione. Per le ragioni prima esposte, non ci limiteremo a prendere in esame solo La guerra e la sua storia; ma anche se lo spazio è tiranno, non possiamo omettere nemmeno qualche cenno agli scritti filosofico-storici de] M.. Sono troppi, e troppo significativi, gli addentellati tra tali scritti e ]e opere più propriamente militari del Nostro: a parte questo, bisogna pur verificare per quali precise ragioni egli percorre un iter filosofico, che poi condiziona l'intero suo pensiero. Decisione, la nostra, scomoda e problematica, ma almeno tale da impedirci di commettere una profonda ingiustizia nei confronti de11' uomo e dello scrittore; ché ambedue non si misurano con le sempre opinabili lacune o contraddizioni del filosofo, e nemmeno con i valori di distanza - o di contiguità - rispetto a Clausewitz e Jomini. Tanto più che, come abbiamo a suo tempo dimostrato, anche questi due sommi autori, tuttora considerati come i contrapposti poli di riferimenti di qualsivoglia riflessione strategica, non sono a loro volta esenti da limiti e contraddizioni.9 Questo fatto dovrebbe essere sempre tenuto ben presente dai critici del M., così come di qualsivoglia altro autore; ciò che importa è far emergere bene - in un quadro comparativo - luci e ombre, per poi tracciare un bilancio complessivo che solo così facendo perde di soggettività e guadagna in obiettività.

SEZIONE I - Il Marselli filosofo, filosofo della storia e sociologo generale Uscito tenente del genio dalla Scuola Militare della Nunziatella nel 1858, il giovane ufficiale Marselli dimostra di avere, per il momento, interessi culturali più civili che militari. Dedica una delle sue prime opere alla musica (La ragione della musica moderna - 1859) e pubblica i Saggi di critica storica ( 1858), nei quali analizza il concetto di storia in Erodoto e Tucidide.'° Segue, nel 1863-1864, L'Architettura in relazione alla storia del mondo, che avrebbe dovuto essere l'introduzione a una Storia scientifica dell 'architettura mai data alle stampe, e che è il suo primo studio pubblicato dalla Rivista Militare. 11

9 Si veda Voi. I, cap. Il e III e inoltre Ferruccio Bolli, L'Arte militare del 2(XJO - uomini e strategie tra XIX e XX secolo, Roma, Ed. Rivista Militare 1998, cap. 1. 10 Napoli, Dctkcn 1858. 11 ln ' "Rivista Militare Italiana" Anno Vili-IX, ottobre 1863 - gennaio 1864.


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IL PENSIERO MILITARii li NAVA I,F. ITALIANO - VOL.111 (187(}.1915 -TOMO I

In questi primi lavori il M. manifesta una sostanziale fede hegeliana; sostanziale, perché essa non ne fa un seguace irriflessivo e impersonale delle teorie del grande filosofo tedesco, così influente presso larga parte dell'intellettualità napoletana e europea del tempo. Come ricorderà egli stesso più tardi, mi muoveva intorno al sole hegcliano, ma con un certo mio moto proprio. Balzava di gioia quando poteva trovare il debole della corona, qualcosa da raddrizzare, uno spiraglio per cui la mia personalità potesse penetrare ed affermarsi ..... Fuvvi sempre in me il seme dell'italiano ribelle e nulla valse ad intedescarmi fino alle midolla. 12

A ciò si aggiunga quanto eg1i afferma nei citati Saggi di critica storica a proposito delle tre forme di storia, così inaugurando tutta una serie dì omaggi alla trilogia hegeliana e insieme all'evoluzionismo nella natura, nel l'arte, nella civiltà: come il fisico nelle sue ricerche è soccorso dalle scienze matematiche, alcune volte dalle ipotesi, e sempre dalla ragion filosofica del suo tempo, la quale gli somministra il metodo per indagare e lo fa pensare: così lo storico [moderno] al cospetto degli avvenimenti mondiali riceve daJla scienza filosofica quella ragione che ingenera la coscienza del fatto. Onde io paragono la storia greca ad una statua di scultura, e la moderna ad un lavoro scientifico. Voglio dire che l'Arte è il fondo della Civiltà Greca, la Scienza della moderna, per modo che tutto in Grecia, Religione, Scienza, Stato, prende la forma artistica, e tutto nel mondo moderno la forma scientifica. Adunque riassumendo: le tre forme della Storia si differenziano tra loro in quanto nella prima domina una reallà fantastica, cioè sensibile esagerato; nella seconda una realtà artistica, cioè sensibile idealizzato; nella terza una realtà riflessa, cioè sensibile pensato. 13

Nella citata Storia scientifica dell'architettura il M. conferma e accentua il suo determinismo storico, secondo il quale la storia è governata da leggi razionali, perché lo sviluppo dell'umanità tende a un fine ugualmente razionale che è quello - tipicamente hegeliano - di dominare sempre più la materia con lo spirito: 12 Marsclli, I ,a Scienza della Storia - Voi. I - Le fasi del pensiero storico, Roma - Torino - Firenze, E. Locschcr 187'.l, pp. 396-397. 13 Marselli, Saggi... (Cit.), pp. 7-8.


II - IL PENSIERO DI NICOLA MARSELLI: PRIMI SCRITTI FILOSOACO-MILITARI (1863 I87 1)

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che la storia si svolga governata da leggi razionali, e che lo scopo di questo sviluppo sia la necessità che sente l' umano spirito di giungere alla piena coscienza di sé medesimo, ecco il teorema che la scienza della storia prende a dimostrare. Ora la scienza della storia deve trasformarsi al fine di divenire storia scientifica [ ... ]. La differenza tra scienza della storia e storia scientifica [...] si può enunciare in poche parole. La scienza della storia, essendo la prova storica del teorema che abbiamo or ora esposto, è esclusivamente una scienza, presceglie i soli fatti capitali della vita delle nazioni e questi rivolge a dimostrare quel teorema. La storia scientifica al contrario non pone la sua cura principale a svolgere quella tesi, ma accettandone l' enunciato, già dimoslralo dalla scienza della sloria, ed applicandolo a tutti i particolari storici dà rilievo all'elemento storico benché lo consideri puranchc in modo scientifico. Entrambe concorrono e si incontrano in un punto, ma per diversa via; l' una presuppone la storia e fa la scienza, l' altra il contrario; onde la loro identità sta nell'immanenza dei due elementi, lo storico e lo scientifico, e la loro differenza nel predominio dell ' uno sull'altro. 14

Nella successiva opera La critica e L'arte moderna (1866) 15 già comincia a manifestarsi un certo distacco dall'astratta ed elitaria metafisica hegeliana, dal concetto di Assoluto tipico del filosofo tedesco. È tutto un inno alla libertà di critica e di parola, è tutta una ricerca del giusto mezzo più che dell ' Assoluto, è una successione di ancoraggi della teoria alla contingente realtà nazionale (non solo nelle sue espressioni artistiche), che mal si concilia con i rigidi meccanismi del pensiero di Hegel, che tuttavia è sempre rimasto per M. un maestro. Significativo, in proposito, il motto (dello stesso M.) che figura sul frontespizio: " Il Pensie ro invade l'Arte, l'Arte il Pensiero, La Libertà tutto": se è così, dov'è il primato hegeliano dello Spirito? la libertà rappresenta l' Assoluto, o ne è solo una premessa? A questo punto, è opportuna una digressione che dimostra da una parte la tendenza del M. a cercare e raggiungere ovunque l'equilibrio e la misura senza pretese totalizzanti o ancoraggi rigidi, e dall'altra la sua coerenza. Potrebbe apparire strano, anche oggi, che un ufficiale del secolo XIX, quando (come sostengono - più a torto che a ragione - taluni storici

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15

Marselli, Storia scientifica ... (Cit.), pp. 14- 1S. Napoli, Ghio 1866.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. lii (1870- 1915) - TOMO I

militari di oggi) nell'esercito regnavano una disciplina repressiva e un'accentuata separatezza dalla società civile, inneggi alla libertà in tutte le sue espressioni: ma questo atteggiamento non è caduco frutto di un giovanile entusiasmo, è espressione di una convinzione profonda mantenuta dal M. per tutta la vita, anche negli alti incarichi da lui ricoperti. A fine 1876 viene affidata al Nostro "l'alta direzione" della Rivista Militare Italiana e della "parte scientifica e non ufficiosa" dell'Italia Militare, incarico che gli consente di imprimere un indirizzo unitario all' intera pubblicistica dell'Esercito. Nel "Programma" pubblicato sul primo numero della Rivista Militare Italiana del 1877 16 egli prevede che "la nostra Patria non soltanto continuerà a produrre qualche illustre scrittore militare, ma potrà infine avere una letteratura militare". Per raggiungere questo obiettivo, il promettente movimento intellettuale ormai nato nell' esercito deve trovare nella stampa militare "uno sbocco ancor più largo". È perciò necessario allargare il campo della discussione, tenendo presente che soltanto la piena libertà della discussione può stimolare gl'ingegni a scendere nell'agone; sollanlo il convincimento di codesta libertà può aumentare quella partecipazione di scrittori militari, che è indispensabile per infondere maggiore vitalità nella stampa militare di oggi 1---1- La libera discussione dei problemi militari è divenuta una necessità nelle presenti condizioni della società e degli eserciti. Se vien discacciata essa rifugiarsi in altre Riviste, in altri giornali, nei quali il velo dell'anonimo può coprire fromboli eri che dimentichino d'essere soldati. Meglio vale il chiarire tutte le opinioni ragionevoli alle luci del sole, e il permettere che esse vengano a combattere in un ben regolalo torneo ...

Sono dunque necessarie delle regole; la Hbettà non può essere assoluta e incontrollata, non è licenza: deve essere esercitata prima di tutto dagli autori stessi con senso di responsabilità, misura e nell'ambito delle leggi vigenti, curando in particolar modo la forma: "si possono avere due opinioni diverse intorno al medesimo argomento, ed entrambe, essendo fondate su gravi ragioni, hanno pieno diritto alla pubblicità; ma la direzione di un giornale o di una rassegna, che voglia non veder sciupata la sua autorità morale, non deve offrire ospitalità a scritti vacui o strani". Né la Rivista deve ospitare articoli, nei quali si trascurano le argomentazioni per mirare alle persone, e non si rispetta il principio di autorità; oltre che giudicare se gli

16

ln "Rivista Militare Italiana" Anno XXII - Tomo I gennaio 1877.


li - IL PENSIERO DI NICOLA MARSELLI: PRIMI s ç RJTII ALOSOACO-MIUTARI (1863- 187 1)

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autori si muovono nei predetti confini, alla direzione della Rivista compete stabilire "se sia opportuno il sollevare una questione o il continuare una discussione, se sia conveniente il pubblicare notizie ed osservazioni che riguardino la difesa dello Stato",· in ogni caso "nel suo tatto e in quello degli stessi autori, meglio che in molte prescrizioni detenninate, trovasi la salvaguardia non solo dell 'autorità, ma anche della libertà, non solo degli interessi dell'esercito ma anche di quelli della nazione ". Non si potrebbe dire di più e meglio, anche oggi, su questo delicato argomento, che richiede in tutti - a cominciare dagli autori - culto della libertà di pensiero come valore altamente positivo, ma anche sensibilità e senso della misura. Gli stessi, illuminati ed equilibrati sentimenti il M. dimostra molto più tardi (quando è ormai generale, deputato e Segretario generale del Ministero della guerra) di fronte a un'altra questione assai delicata. Nella seduta della Carnera del 24 novembre 1886 si sta discutendo il caso di un capitano di vascello che era stato punito dal Ministro della marina per aver pubblicato su un giornale una lettera contenente aspri giudizi critici sull' operato del generale Ricotti (Ministro della guerra e, come già detto, grande estimatore e amico del M.). Poiché un deputato cita brani di un suo libro, il M. chiede di parlare "per fatto personale", e così puntualizza (magistralmente) la delicata questione: io non credo punto che possa farsi, riguardo alla libertà del deput.ato che sia in pari tempo impiegato, una distinzione tale da far credere che egli sia, nella Camera, libero di esprimere la sua opinione e fuori no. lo penso che il deputato possa liberamente dir la sua opinione dentro e fuori della Camera, ma deve saperla dire, così dentro come fuori ... lo ho fatto uso larghissimo della mia libertà di scrittore; l'ho fatto durante 30 anni di vira pubblica, quale scrittore e quale deputato; ma parmi di averne fatto uso altresì con quella misura che vi consente persino di rasentare il regolamento, ma vi impedisce di cascarvi dentro... Io ho liberamente, e qualche volta molto liberamente esercitato il mio diritto del critico ... Ma io non ho dello mai ad alcun Ministro: "Voi siete un uomo leggero: voi siete uno sperperatore del pubblico danaro...". Ecco la differenza! 17

I due episodi citati dimostrano che nel M., accanto al grande amore per la libertà che La critica e l'arte moderna rivela, prevale fin dalla gio-

17

1927.

Cit. in Domenico Guerrini, Per Nicola Marselli, in "Le Forze Annale" n. 111 - 10 maggio


IL l'ENSltKO Mll ,ITARP. P. NAVALE ITALIANO - VOL. lii (1870.1915) - TOMO I

ventù quello squisito senso dell'armonia e della misura, che di per sé lo induce a rifuggire da schematismi, meccanicismi e astrattismi filosofici_ Quando scrive e pensa, egli non perde mai di vista il legarne che deve esistere tra teoria e pratica, tra spirito e materia, tra letteratura e realtà quotidiana_ Un senso del1'equilibrio, della misura che è a volte persino eccessivo, fino a contrastare con l'apertura aJla società, alle nuove idee che ne fa un militare innovatore, se vogliamo un precursore del "modernismo militare". Tn aderenza a questa costante impostazione, nella predetta opera La Critica e l'arte moderna il M. non intende compiere una speeuJazione teorica in vacuo, ma riferisce le sue riflessioni alle condizioni dell'Italia del tempo, per indicare addirittura quale debba essere "L'Arte della nuova Italia": per lui non sono importanti solo "le finanze e i cannoni rigati", ma tutte le manifestazioni dell'attività commerciale, industriale, manifatturiera, artistica e scientifica nazionale_ In questo quadro la lelleralura è essenzialmente critica e critica dell 'arte, mentre "il critico, come l'attore, deve creare rifacendo l'opera d'arte; ma attore più alto, non ripete le parole dell'artista, ne ricerca sebbene L'unità, la sintesi, il concetto nascosto, e poi con pochi tratti vi mette dinnanzi L'immensa creazione artistica [..-1La sua opera è insieme lavoro d 'arte e trattato scientifico". 18 L'artista non deve "essere da meno dell'età in cui vive, anzi adoperarsi a rendere i pensieri della scienza, gli affetti e le aspirazioni della società colla veste sensibile". Dal canto suo, il critico "al presente fa un'opera più ampia di quella del naturalista, perché questa non può modificare l'immutabile corso della natura, dove che quegli può indirizzare a miglior porto la tendenza di un artista". Perciò, anche l'artista deve pensare e accettare dal filosofo "i responsi della scienza e l'amorevole consiglio del fratello". Da questi principì discende la decisa condalllla del classicismo: "l'amor sviscerato e costante dell'antico mondo e conseguentemente il difetto della profonda scienza moderna, sono le ragioni che lo 5pirito italiano abbia impoverito nella noiosa ripetizione e sia rimasto estraneo alla vita degli altri popoli ". 19 A tale condanna, significativamente pronunciata in nome deJla scienza e del progresso, ne seguono diverse altre: del purismo deJla Crusca, del1' arcaica architettura di certe caserme, dell 'histoire evenementielle o histoire-bataille che si linùta a descrivere e a ricordare mnemonicamente senza

18 1 •

Marselli. Lt, crilirn... - (Cit.), p. 6. ivi, p. 7.


Il - IL l'lòNSU:.RO UI NIL'OLA MARSlòLLI: PRIMJ SCRITII FILOSO~lCO-MILrTA RI 11863 1~7 1)

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interpretare, giudicare, classificare, e persino dell'indebita influenza del clero cattolico, che a suo dire contribuisce ad asservire le coscienze del volgo italiano e a scendere a compromessi su ciò che è bene e ciò che è male_ ln materia di linguaggio il M. parte da una diagnosi amara e severa ma giusta (che poi sarà a11a base de1la sua opera culturale e militare futura, ivi compresa la questione del linguaggio militare): l'Italia non era: ora incomincia vivere, ad essere. Noi rammentiamo con orgoglio la potenza di Roma, di Genova, di Firenze, ecc.; ma nel passato non troviamo l'Italia. Il non essere mai stati un popolo, una nazione, il non aver mai avuto vita pubblica una, ci ha tolto di avere una vera lingua italiana. Noi pensiamo in un modo, parliamo in un altro, e scriviamo poi in maniern assai differente. In questo viaggio il pensiero perde la sua forma spontanea. I nostri scrittori risentono o delle imperfezioni e del municipalismo della volgare lingua parlata, o dell' artifizio e della fraseologia pedantesca della lingua scritta. Una lingua che ritragga dai moti popolari e viventi, che li purifichi senza scorciarli artificiosamente, una lingua che sia generale e faccia tesoro dei dialetti senza dare nel volgare, che proceda spontanea e scevra di belletto, non è sorta ancora in Italia.20

Queste idee rendono il M., nella sostanza, molto vicino alle tesi degli antipuristi ; ma pur lamentando che un'eccessiva fedeltà all'immobilismo del1a Crusca abbia impedito alla lingua italiana di arricchirsi e rinnovarsi, sostiene che, anche in questo caso, bisogna trovare un giusto mezzo "tra i pedanti e gl'innovatori arrabbiati". Infatti la lingua è la forma esteriore dello spirito di un popolo, di modo che a proporzione che questo va acquistando nuove idee, ossia va rendendosi miglior coscienza di sé, la lingua deve arricchirsi di nuovi vocaboli acconci ad esprimere quelle idee. E come lo spirito di un popolo rimane uno ed identico con sé non ostante il suo sviluppo, così la lingua a traverso i cangiamenti conserva sempre la sua individualilà.2 1

Coloro che sono contrari all'introduzione di vocaboli stranieri - prosegue M. - non comprendono che quando una nazione accetta delle idee da un'altra, deve accettarne in pari tempo anche la forma con cui esse sono

~J 21

ivi, p. 2 1. ivi, p. 18.


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IL PENSlcRO MILITARE P. NAVALE ITALIANO VOL. lii (1870-1915) -TOMO I

espresse. Bisogna invece prendere esempio dalla lingua tedesca, che è diventata la lingua della scienza e deve la sua ricchezza, modernità e flessibilità alla "grande facilità con cui i tedeschi si appropriano le parole di tutte le lingue antiche e viventi, adattandovi soltanto la desinenza alemanna, e all'ardire col quale sostantivizzano aggettivi e verbi, e viceversa aggettivizzano sostantivi". Anche la lingua italiana avrebbe la capacità di arricchirsi e ammodernarsi, per lo meno quanto la lingua tedesca ... Riguardo ali' architettura, il M. critica severamente - come cattivo esempio di fedeltà alle forme classiche - le chiese della Gran Madre a Torino e di S. Francesco di Paola a Napoli. Giudica un cattivo esempio di gotico anche il Duomo di Milano, preferendogli la spiritualità del vero gotico esaltato da Hegel. In linea generale "la ricerca dei tempi nostri deve essere rivolta a prescegliere un genere di bella architettura utile ed economica". Questo vale anche nel campo militare, dove invece predominano, con spreco di pubblico denaro, degli "anacronismi artistici": allo scopo di dare a una caserma "quella forma grave che deve avere ", si continua infatti a costruire "torri merlate, con l'obbligato accompagnamento di fossi e ponti levatoi". Un'architettura religiosa di stile gotico è ancora attuale, perché il sentimento religioso è rimasto stazionario rispetto al medioevo; ma "per le medesime ragioni non comprendo una caserma di ordine lombardo, dopo che son cangiate siffattamente le condizioni della vita militare, le basi dell'arte militare e Le tendenze artistiche della società". 22 Trattando, poi, degli studi moderni , M. condanna l'astrattismo e le esagerazioni della critica: noi non abbiamo né i Titani, né gli Eroi omerici, né i Cavalieri del Medio-Evo; ma abbiamo i Titani del pensiero, gli Eroi della Scienza, i Cavalieri che ordinatamente corrono un mondo più vasto, un mondo nel quale, con invariata ricchezza, si avvicendano i campi dell'azione a quelli del pensiero, le ragioni del!' Arte a quelle della Scienza, lo svolgimento dell'industria alle rovine della guerra [... 1. Dalla doppia ginnastica del pensiero, che vola come aquila negli spazi dell'idea, e che lavora da minatore nelle viscere dei fatti, è nato un ravvicinamento, un bacio del cielo colla terra, degli ordini dell'idea con quelli dei fatti ; di guisa che a poco a poco quello che si reputava separato, si è veduto uno, quello che si credeva affatto diverso si è trovato pure identico . .. 23

22

ivi, p. 32. " ivi, pp. 247-248.


U IL PENS IERO DI NICOLA MARSELLI: PRIMI SC.RITTI F11.0SOF1C0-MII.ITARI (1863-1~7 1)

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L'ultima parte dell'opera è ben lontana dalla metafisica dell'idealismo e dell'astrattismo: il giovane e dotto militare M., appartenente a un'élite sociale, non si limita ad occuparsi di questioni filosofiche o militari ma volge lo sguardo anche al di l~t della caserma, alla miseria e ali' abbandono in cui, specie a Napoli, continuano a vivere le classi popolari nonostante l'acquistata libertà e la fine del regno dei Borboni (da lui indicati come i principali responsabili del disagio sociale). Pur condannando l'estremismo socialista e lo statalismo, non accetta nemmeno il liberismo puro e l'economicismo fine a sé stesso: in ossequio al motto " a mali temporanei rimedi zoppi" propone pertanto l' intervento dello Stato per sostenere e incoraggiare i letterati e artisti poveri, fornendo loro occasioni di lavoro e di guadagno. La conclusione tende a superare l'astratta metafisica hegeliana, pur senza abbandonarne del tutto la metodica: sottrarre lo spirito <lei Popolo dall'influenza del pedantismo nell'Arte, della teologia nella scienza, del prete nella Religione, dev'essere loscopo di qualunque scrittore abbia coscienza della sua deputazione umanitaria. Pertanto non ho tremato di spiegare in questo mio lavoro la bandiera della libertà completa. È questo il mio programma non di uomo politico e diplomatico, ma di libero scrittore e di sentinella avanzata del progresso. 24

Le avvisaglie positiviste tipiche della Critica e arte moderna prendono forma definitiva nella Scienza della storia, che dal punto di vista filosofico e storico è l'opera più importante del M., con contenuti significativi anche dal punto di vista militare o storico-militare. La prima parte (intitolata Le fm,i del pensiero storico) vede la luce nel 1873 e può dirsi un primo frutto del corso di storia generale (e interinalmente di storia militare, nell 'anno scolastico 1868-1869 in sostituzione di Carlo Corsi) presso la Scuola Superiore di Guerra di Torino. TI disegno dell'opera è vastissimo ed estremamente ambizioso, fino ad abbracciare Je meditazioni di un'intera vita. Vale la pena di lasciare la parola allo stesso M., che così ]o delinea: la Scienza della Storia divido in tre grandi Parti. La prima, che è contenuta nel presente volume, porta per titolo "Le Fasi del Pensiero storico". Trattasi di mostrare in qual modo il pensiero si è a poco a poco

24

ivi, p. 291.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO- VOL. lii (1 870--1915) - "IUMO I

sollevato al concetto scientifico della Storia, di esaminare i principali sistemi storici, e di farlo in guisa che dall'esame critico di essi risultino come a dire i principii fondamentali del presente lavoro_ È adunque una vera genesi dell'attuale Scienza istorica; tanto più indispensabile, quanto più giovane è siffatta Scienza. Una conseguenza del metodo che seguo era che io, anzi che dire astrattamente e dommaticamcnte quello che la Scienza è e debb'essere, preferissi farlo scaturire dalla sua medesima evoluzione. Per tanto, questa prima parte non è un' introduzione, la quale potrebbe essere come non essere, ma è organo costituente il tutto. Ad essa segue una seconda parte che riguarda i Preliminari della Scienza istorica, cioè 1° il rapporto tra la Natura e la Storia, il quale sarà ricavato dallo studio delle leggi fondamentali che ad entrambe sono comuni, e della teoria dei determinanti fisici della Civiltà; 2° l' Umanità, ossia le questioni relative all'origine dell ' uomo, al posto dell'uomo nella natura, al monoge nismo e poligenismo, all'antichità dell'uomo, all'uomo preistorico e alle origini deHa Civiltà, alle razze, aJ linguaggio; 3° la Civiltà, la sua definizione, i suoi elementi, la legge delle sue forze essenziali, il metodo da seguire per abbracciare scientificamente l 'evoluzione storica di essa. Con questa seconda parte le ultime ricerche della Scienza moderna vengono a pigliare il loro posto nel vestibolo della Storia. La terza parte infine riguarderà lo Svolgimento storico dell'Umanità e in tre libri comprenderà l'Antichità, il Medio Evo, l'Età Moderna. E qui giovami ripetere che è mio fermo proponimento di fare uscire le idee, le ragioni, le leggi dalla stessa evoluzione dei fatti capitali; di guisa che i tre libri ora detti non saranno solo una esposizione di quelle, ma anche un coordinamento di questi , quasi direi un sunto di ragionata Istoria universale. Per questa ragione, oltrepassato l'indispensabile vestibolo delle questioni prelinùnari, ed entrati nel campo dei fatti storici, noi vedremo crescere con la vita e con la luce dei particolari l'interesse dei lettori e la popolarità del contenuto. Una sintesi generale chiuderà l'opera, se questa è destinata a chiudersi. 25

In aderenza a questo impegnativo programma, dal 1878 al 1880 (quando ha già lasciato l'insegnamento alla Scuola di Guerra) il M. pubblica su11a "Nuova Antologia" una serie di corposi saggi rispettivamente riguardanti L 'azione della natura sulla civiltà secondo i moderni studi (due

25

Marselli, La Scienza... Voi. I (cit.), pp. XX-XX II .


li - IL PliNSIERO DI NICOLA MARSELLI: PRIM! SCRITrJ Fll.OSOFICO-Mll.ITARI ( lll63- 1871)

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articoli), Le nostre origini (tre articoli) e/ Mediterranei (due articoli). 26 Tale materia è raccolta nel 1880 in un secondo volume della Scienza della storia, dal titolo Le Grandi razze dell'umanità e diviso in due parti (I Le classificazioni dell'umanità; li classificazione metodica delle razze e linguaggi).27 Nel 1885, infine, compare una seconda edizione delle Grandi razze dell'umanità, alla quale ne] 1889 e si aggiunge un ultimo articolo sulla Nuova Antologia dal titolo "La civiltà e ]a sua storia".28 Il M. muore nel J899 senza aver potuto compiere l'opera; ma nel 1906 vede la luce un"'opera inedita" dal titolo Le leggi storiche dell 'incivilimento, curata da uno dei maggiori studiosi de] M., i] già citato colonnello Carlo Osvaldo Pagani, che in un'ampia prefazione ne sintetizza con molte lodi gli studi fiJosofici. 29 Molto più voluminoso dei precedenti (500 pagine), quest'ultimo scritto è diviso in quattro libri: I La Civiltà e la sua storia, II L'Antichità, m Il Medio Evo. IV I Tempi moderni (particolarmente interessante per i giudizi sulle rivoluzioni francese e americana, su Federico 11 e su Napoleone 1). Questa sommaria bibliografia dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, la vastità e complessità dell'impegno filosofico e storico del M., che (benché egli non ami questa qualifica) ne fa un militare filosofo più che un filosofo militare: la sua opera militare non essendo che l'applicazione di una più vasta intelaiatura filosofica, alla quale ha lavorato tutta la vita. Ciò premesso, noi ci soffermeremo soprattutto sul Voi. I della citata opera del 1873 Le Fasi del pensiero storico, che ispira tutti gli scritti rimanenti. Nel]' Appendice al predetto Vol. I si trova una frase che andava meglio collocata nella Prefazione, e che ne illumina le riflessioni: "ora penso che noi, figli della nuova Italia, dobbiamo conoscere e studiare le culture forestiere, ma dobbiamo far uscire dal nostro genio una Cultura nostra e nuova. Questa è l 'alta ambizione che mi ha mosso a pubblicare il presente volume; e questo è lo scopo cui posso col dito accennare, ma che non potrò raggiungere, lo so. Sono già troppo stanco per le passate lotte interiori; e qui ci vogliono vergini sempre". 3°Ciononostante, nella Prefazione nonna-

2• Si vedano in particolare i seguenti saggi del Marselli sulla "Nuova Antolog ia": l'A zione della natura sulla civiltà secondo i moderni studi, Voi. Vlll Fase. VI 15 marzo 187R e Voi. VIII Pase. VII I aprile 1878; le origini dell'uvmo, Voi. XIV Fase. V I marzo 1879; le 110.çtre origini, Voi. XIV Fase. VI 15 mano 1879 e Voi. XIV Fase. VII I aprile 1879; I Mediterra11ei. Voi. XXT Fase. XII 15 giugno 1880 e Voi. XXII Fase. Xlll I luglio 1880. 27 Torino • Roma, E. Loeseher 1880. 28 Marselli, la Civiltà e La sua storia, in " Nuova Antologia" Voi. XXII, Fase. XIIJ, I luglio 1889. 29 Marselli, le leggi storiche dell'incivilimentn, Roma, Voghern 1906 (Prefaz. del Col. C.O. Pagani). 30 Marsclli, Le Fa.çi... , Voi. I (eit.), p. 400.


_ _ _ _ lL PENSIERO MlLITARE E NAVALE ITALIANO- VOL. lii ( 1870-1915)- TOMO I

sconde l'ambizione "di essere uno del bel numero di coloro che si adoperano al rinascimento della cultura italiana". Si noti: non della cultura militare, ma della cultura in generale; nessun scrittore militare italiano ha mai ambito a tanto ... Un secondo aspetto di grande rilievo del Voi. l è la netta virata in direzione del positivismo. Ma - come meglio vedremo inseguito - si tratta di un avvicinamento, non di un approdo vero e proprio, totale e incondizionato; quella del M. non è un'àncora che fissa con salde catene il suo pensiero al fondo di un porto positivista. Il tormentato percorso intellettuale che lo accosta al positivismo è così descritto da lui stesso: ... trasportato a Torino [alla Scuola di Guerra, nel 1867 - N.d.a.], fui obbligato a porre d'un canto gli studi speculativi e a volgere la mente a studi militari e pratici. E così pubblicai alcuni lavori militari, nei quali se v' ha novità, questa consiste nell'avere con l' aiuto degli studi generali tentato di allargare l'orizzonte di quelli militari. Ma mentre gli studi militari per me si allargavano e idealiz7.,avano, quelli generali si praticizzavano e si svincolavano insensibilmente dal prefisso telaio [dell'hegelismo - N.d.a.] .... Altro determinante che intervenne a modificare l' eccessivo idealismo metafisico, fu l'ambiente intellettuale di questa Italia Settentrionale, in cui vive un popolo pratico e analitico. Non perdetti mai l'amore alle idee e alle sintesi, ma lo contemperai con altro amore. 31

Peraltro il M. confessa che, dopo aver spezzato quello che chiama "il telaio di Hegel", e aver deciso di "pensare col suo capo, parlare col suo stile, sentire con il suo cuore" , venendo a contatto con le scienze naturali ha dovuto constatare che l'orma lasciala da Hegel sul terreno delJa scienza era incancellabile, che il suo fantasma anche scacciato ritornava sempre, e che, di tanto in tanto, gli capitava di urtare col piede in qualche pezzo di quel telaio, chinandosi a raccoglierlo. E aggiunge: "non presumo di poter sostituire altro telaio al suo, ma sento che molti di quei brandelli potranno servire a comporre opere di fattura diversa, con altri pezzi connettendoli e a tutto porgendo forma diversa ". 32 Se ne deduce che, contrariamente a quanto sostengono o lasciano capire taluni studiosi, M. più che imboccare una strada filosofica totalmente

31

32

ivi, p. 398. ivi. p. 399.


Il· IL PENSIERO DI NIL'OLA MAKSF.LI.I: PRIMI SCRITTI FILOSOFlCO MCLITARI ( IS6 ._.,,3..__, · 1=87_,__, l)_ _ __.J39

nuova, in direzione opposta alla precedente e già tracciata, tenta di tracciarne una tutta sua, proseguendo senza rotture traumatiche e complete il vecchio cammino. Insomma: non è un hegeliano pentito, non tradisce Hegel per schierarsi con i suoi contestatori, non è un traditore, un transfuga, un incoerente voltagabbana della filosofia. Ha perciò ragione solo in parte il Rocchi, quando afferma che "ad una mente così libera da pregiudizi sociali, da quelle scorie medioevali che tarpano le ali a tanti nobili intelletti, il genio della scienza positiva quale si afferma nelle odierne discipline naturali e storiche, doveva rivelarsi in tutto il suo splendore". 33 No. M. non rimane affatto abbacinato dal positivismo, non vi aderisce acriticamente, non ne apprezza unicamente gli splendori, ma accanto agli splendori subito ne intravede anche le ombre. Giudica questo filone di pensiero anzitutto un utile strumento di ricerca, per trovare una risposta a interrogativi e problemi storico-filosofici di grande respiro che non possono essere ignorali e che a suo parere bi sogna tentare di risolvere (anche se noi osserviamo - non sono stati definitivamente risolti nemmeno a fine secolo XX, e questo vale anche per le loro ricadute militari). A riprova di tale orientamento, la critica di M . all'hegelismo è accompagnata da riserve di sostanza sul positivismo; di ambedue i contrapposti sistemi egli vorrebbe prendere ciò che più gli aggrada, tentando di giungere a una sintesi originale con una sorta di ottimismo della storia e della scienza che consente all ' uomo di ridurre progressivamente l'area dell'inconoscibile. Un approccio che corrisponde, del resto, all'accentuata fiducia nelle conquiste della scienza che è tipica dei suoi tempi, dal quale deriva un determinismo storico e anzi una sorta di superiore giustizialismo della storia, che premia solo quei popoli che meritano di essere premiati. Fin dalle prime righe della citata Prefazione al Voi. I della Scienza della storia, M. è perciò dominato dalla necessità di evitare non solo le astrazioni tipiche dell ' hegclismo, ma anche il puro materialismo e empirismo tipico del positivismo. Ne deriva un concetto morale, anzi moralistico della storia e della cultura, del lutto estraneo ali' approccio positivistico e materialistico, perché qui è lo spirito che domina la materia, sono le doti morali del singolo e della Nazione a essere la misura di tutto: La Storia è libro sacro per le Nazioni civili. Ma per essere sempre più degna di così alta destinazione, eUa non deve rimanersi ad un esteriore

33 Enrico Rocchi, // pensiero del i:enerale Nicola Ma rselli nella scie11za della guerm e nella storia, in "Rivista Militare Italiana" Anno XLIV. Tomo m, Disp. VU lug lio 1899.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. lii (1870-1915)- TOMO l

racconto, ma deve penetrare nell'intimo dei fatti, conquistare ancora meglio il carattere scientifico e pratico, senza smarrire quello artistico della forma. Fare opera lontana tanto dal cieco empirismo quanto dal!' astratto speculare, è lo scopo dell'autore di queste pagine. Nel moto concitalo degli studi moderni la Storia occupa un posto certamente onorevole; ma contro di essa mormoransi obbiezioni, le quali non tanto leggiamo nei libri, quasi sempre più o meno mascherati, quanto cogliamo su le labbra di uomini spontanei e schietti. Farò cenno soltanto di due, fondate l'una sull'identità e incorreggibilità, l'altra sulla continua mutabilità dell'uomo. A che giova studiare la Storia, se l'uomo ripete sempre i medesimi errori? E a che, se egli si trasforma in guisa da non generare mai, o quasi mai, due situazioni identiche? Queste due obbiezioni si combattono ed elidono a vicenda. La prima merita appena l'onore della discussione. L'uomo del secolo XIX sarebbe adunque poco meno di un selvaggio? Noi sogliamo esser disposti a tener nota degli errori che l'uomo ripete, e a non calcolare tutti quelli che va evitando. Ci comportiamo rispetto alla vita dell'umanità così come verso la nostra vita individuale: su i mali f>iù che su i beni è richiamata la nostra attenzione. Or come trasformasi e progredisce l'uomo? Mediante lo spirito d'osservazione rivolto ai fatti: tanto che il progresso è più rapido, quanto più la coscienza è chiara e la cultura sviluppata. E la Storia, come quella che riassume l'esperienza del passato, è uno fra i più potenti fattori del progresso umano. La sua azione sfugge all'occhio inesperto; ma incomincia ad esercitarsi sin da quando sull'anima giovinetta si stampa l'orma di nobili esempi, e tocca la sua maggiore potenza, quando l'uomo maturo riflette su gli avvenimenti compiuti. La cultura, trovando un suolo acconcio e preparato, crea nuovi uomini che producono nuovi fatti, i quali svegliano nuove idee; e così formasi il circolo della vita istorica. Porre in dubbio l'importanza della Storia suona lo stesso che porre in dubbio il valore della cultura. Non diciamo adunque che la Storia è inutile, ma piuttosto che sarebbe più utile se fosse più letta e più intensa. Mi porrei anch'io sotto la bandiera di coloro che infirmano l'importanza dello studio della Storia, se questa dovesse rimanersi ad accozzare fatti, senza mai animarli col sentimento morale, con la fantasia rappresentativa del vero, e con la ragione che ne svela il significato. In cuor mio ho sempre dato ragione a quelli fra i miei uditori che dimostravansi nauseati di letture storiche, dalle quali nulla avevano imparato. Simili incomposte raccolte di fatti non sono da più di un mezzo, la cui finalità raggiungesi mediante il pensiero che le vivifica. Il pensiero è la for-


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-~ Il _- I=L~l'f ~:NSIF.RO DI NICOLA MARSELLI: PRIMI SCRITII FILOSOFICO-MILITARI 1863-1871)

za, che o latente sotto i capi lavori di Storia narrativa, o scoperto nella Storia sollevata a Scienza, trasforma il materiale greggio in opera o rappresentativa o scientifica. E se la prima è quella che meglio parla alla massa che oscuramente spinge la macchina sociale, la seconda più direttamente contribuisce ad allargare la mente e a perfezionare il senso pratico di coloro, che sono deputati a governare siffatto moto. Ma per conseguir tale effetto la Storia, scientificamente considerata, deve abbandonare le nubilose regioni e volgersi a svelare con chiarezza la costanza delle leggi nella diversità delle situazioni. La Storia, sollevata a Scienza, è praticamente utile non pure perché abitua gl'ingcgno a considerare le cause complesse, riposte, vere; ma eziandio perché lo spettacolo suo è profondamente moralizzatore. Né l'arte, né tampoco la Storia propongonsi per obbietto il dettare lezioni di morale; ciò non ostante dal senso di entrambe scaturisce la più viva moralità. [ ... ] La società moderna ha suprema necessità di curare un certo mal essere che la travaglia. Il gelido e gretto egoismo individuale, generato dal predominio di una certa riflessione, l'indifferentismo prodotto dal vuoto della mezza cultura, la febbre del moltiplicar quattrini, senza scrupolo; ecco tre piaghe che potrebbero corrodere le nazioni moderne, e distruggere ogni progresso della nostra società, se questa non avesse ancora in sé una vitalità che per molti segni manifestasi potente; e se ella non ritrovasse nella diffusione della cultura una forza, c he, al pari della libertà, prima sprigiona i mali accumulati, e poi così li guarisce. La Storia dimostra che il progresso è relativo, cioè che lo sviluppo di alcune attività è pagato con una proporzionale atrofia di quelle opposte: lo sviluppo della riflessione noi scontiamo con la diminuzione della spontaneità, e in generale a fianco alla venuta d'un bene vediamo spuntare il germe d ' un male. [... ] Per illuminare le masse fa mestieri che le cla,;si colte, insegnanti, dirigenti, a cui io miro con questo libro, povero di dottrina ma pieno di fede nel vero, pongansi risolutamente sul terreno del reale e fissino la mente loro. Ora io non saprei quale disciplina meglio della Storia possa adempiere siffatto officio ideale e pratico. Quando illumina i fatti, senza falsarli slealmente, allora ella porge agli studiosi una più chiara coscienza dell ' obbiettivo verso il quale l'umanità cammina, dei mezzi più acconci a raggiungerlo, degli effetti costantemente prodotti da certe cause determinate. Sveglia medesimamente la fede nelle potenze benefiche e progressiste, la forza ad allontanare quelle avverse, la religione del dovere individuale siccome cemento dell 'organesimo sociale, e la pace dell 'animo


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m ( I R?0-1915) -TOMO I

come conseguenza di un più giusto concetto delle armonie sociali. [ ... ) Nessuno al certo vorrà illudersi a segno da credere che con ciò spariscano i mali e non si ripetano gli errori. L--- 1Ma ciò non esclude che una continua diminuzione del male e dell'errore abbiamo veduto accadere appresso le nazioni robuste, e che siffatta diminuzione sarà tanto maggiore, quanto più sparsa sarà l'istruzione ricostruttrice e la morale educatrice che ne deriva. Per questo rispetto la Storia è la Bibbia dei tempi nuovi.34

Dopo aver così illustrato, con ricchezza di argomenti, l' altra missione della storia, il M. suddivide Le Fa~i del pensiero storico in quattro Parti: I La Preistoria, II La Storia, III La Scienza della storia, TV La Storia scientifica. La Parte III è la più importante: vi sono esaminati in distinti capitoli i " Precursori " della scienza della storia (tra i quali Platone, Aristotele, Machiavelli, Montesquieu, Voltaire), i "Teologi" (Bossuet e Federico di Schlegel), i "Metafisici" (Herder, Hegel, Cousin, Michelet, Laurent e j nostri Vico, Mario Pagano e Vera, fi losofo coevo studioso di Hegel), e infine i " Fisici della storia" (Compte, Buchez, Quelet e alcuni positivisti italiani - Romagnosi, Villaru, Gabelli). Nella Parte TV e conclusiva, il M. fornisce una definizione di "storia scientifica" e tratta ampiamente de.I filosofo e sociologo inglese Bucklc, che apprezza in modo particolare - come meglio vedremo in seguito - anche se non concorda su alcune sue considerazioni di carattere militare.35 Quel che importa ora esanùnare un po' più nel dettaglio, è ciò che nelle Fasi del pensiero storico si dice rispettivamente di Hegel e dei positivisti, per poi riassumere le conclusioni che ne sono tratte dal M., dalle quali deriva il suo concetto di storia scientifica e quindi anche di storia militare. Concede senz'altro alla filosofia hegeliana di essere "l'ultima e la più alta espressione del genio metafisico", che con la teoria dell'armonizzazione dei contrari ha attenualo "quella falsa usanza dell 'intelletto che separa affatto ciò che nel reale è uno." A suo avviso, tuttavia, Hegel non è riuscito a distruggere interamente questa tendenza antiscientifica; il suo approccio eccessivamente idealista è dunque tale da "aprire un deplorabile abisso tra Filosofia e Scienza, così naturale come storica". Più nel dettaglio, per lui il limite fondamentale della filosofia di Hegel è la tendenza a collocare l'ldea al di soprn della natura e quindi fuori della na-

34

Marsclli, La Scienza... , Voi. I (cit.), pp. lii-X IV. Il Marsclli si riferisce particolarmente a Henry T. Buc kle, History ff Civilisation in En,:land, London, ·1~W.Parker e Son, I 854 (varie Ed. successive; traduz. fran cese 1-Iistorie de la Civi/isation en Angleterre (a cura di A. Baillot), Paris - Bruxelles I 865. 35


11 - IL PllNSIF.RO OI NICOi.A MAR SELLI: PRIMI SCRITTI l'ILOSOFICO-MILITARI ( 1863-1871)

tura, in tal modo ricreando proprio quei dualismi e quelle separazioni che intendeva eliminare: se l' Idea vi si annunzia da un canto come immanente nella Natura, dall'altra si ricostruisce come un ente che sta obiettivamente di per sé sopra e fuori la natura; di guisa che voi vedete due mondi i quali, or si compenetrano, ed or si distaccano e sovrappongono [... ]. Non havvi soltanto l'idea nella Natura, ma anche l'Idea e la Natura, e l'Idea oltre la Natura. Ciò che con una mano si lega, con l'altra si scioglie. E così dicasi dell ' Idea rispetto all'Umanità, e così dello spirito rispetto alla Natura[ .. -]. Guardando adunque in fondo alla trilogia hegeliana, si vede a volta a volta rompersi in tre radicali dualismi [...] Le idee Iper Hegel I sono fuori dalla natura, o meglio si distinguono dalla natura f---1 e la legge di continuità, secondo cui la natura passa di forma mediante graduali transizioni fisiche, è considerata come indegna della mente filosofica [...J. I dualismi !in Lai modol si risolvono, per un certo rispetto, in un vero monismo idealistico. L' Idea allora ci desta l'immagine di una forza vitale, rispetto alla quale sono considerate come accidenti quelle condizioni che la rendono reale, e che pertanto sono degne del nome di sostanza. Noi adunque né siamo pervenuti alla scambievole e compiuta incorporazione di que' termini, che la nostra mente separa; né al principio dell'unità di sostanza, che la Scienza attuale informa [...J. La cagione del fatto sopra menzionato parmi doversi trovare nella esagerazione del principio d ' identità fra l'Essere e il Pensiero. La mente tragitta fuori le sue astrazioni, crede che oggettivamente esista in qualche modo separato ciò che in nessun modo sta così, ciò che essa separa per pensare e parlare. E allora si creano fantasmi ideali e si prendono per reali.¾

M., pertanlu, disapprova il disprezzo ùella scuola hegeliana del suo tempo per i m etafisici, i naturalisti e gli storici, che deriva dal disprezzo per la ricerca "del come le cose sono e si svolgono". E obietta che la Filosofia ha una sua sfera, e non ha al certo l'obbligo di occuparsi del come allo stesso modo d 'un naturalista o di uno storico; ma, s'clla vuole essere Scienza prima, deve poggiare sulla salda base delle Scienze seconde. li perché, da lei ricercato, sarà da più del come, ma questo è il mezzo per trovarlo, quando è possibile e non ozioso il trovarlo.37

36 Marselli, Le Fasi.._ , Voi. I (cit.), p. 23 1. " ivi, P- 258.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Ili ( Jg70-1915)- TOMO I

Preso atto che il disprezzo degli hegeliani viene ricambiato dai naturalisti e dagli storici (i quali trovano vuote le formule dei seguaci del filosofo tedesco e povera la loro Scienza "che non fa avanzare il mondo d'un passo"). M. non condivide nemmeno le posizioni radicalmente antihegeliane dei positivisti, auspicando che questo dualismo possa presto finire "pel bene stesso della Filosofia e delle Scienze empiriche". A suo giudizio, anche se gli stessi studiosi tedeschi al momento affermano che l 'hegelismo è ormai morto in Germania, in realtà questo sistema, che tanto onora l'ingegno umano, è ormai largamente penetrato nella Nazione tedesca; può dirsi morto nella sua forma, ma non nella sua sostanza. Esso contiene in sé "i germi di una sua propria trmformazione, se non distruzione"; la parte dell'hegelismo che ormai è decaduta non è tanto "la facoltà di astrarre, di generalizzare", ma piuttosto la tendenza "ad appagarsi delle idee generali, anzi delle parole generali, con intera e concreta ~piegazione dei fenomeni". In effetti, per quello che si è detto di sopra, scorgesi che a cagione dell'altro ramo, quello realistico, usciva dal seno stesso del sistema dell'Hegel quell'indirizzo più positivo, che a poco a poco è divenuto recisa reazione, netta opposizione contro l' Idealismo assoluto. Se da una parte si fa guizzare codesta idea fuori dalle cose, e si considera ancora come un quid che sia un certo modo di là e che si palesi di qua, dall'altra con questo medesimo soggiungere che ella vive nella Natura e nell'Umanità, s'invitano le menti a considerarla come determinata e si pongono per un sentiero che mena dritto al Naturalismo e all'Umanesimo.JR

Per questa ragione - aggiunge M. quasi a dimostrare che egli non è stato il solo discepolo di Hegel ad avvicinarsi al positivismo - "illustri uomini, che sono a capo del movimento realista, hanno incominciato per essere hegelìani". 39 Per dare alla storia solide basi M. ritiene perciò indispensabile "applicare ad essa quel metodo che ha tanto contribuito al progresso delle scienze naturali, e rimanersi a vedere nei fatti quelle leggi e quei principf che in essi sono a frugare nel suo dominio qualunque.forza misteriosa e perturbatrice". Al tempo stesso, siccome "idee, principì, leggi, forze, spirito, essenza, tutto ciò va incorporato pienamente e veramente nei fatti, nei fenomeni", non si trova d'accordo con i positivisti quando essi negano "la possibilità ed anche la ne38

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ivi, p. 273. Ibidem.


li - IL PENSIERO 111 NICOLA MARSELLI: PRIMI SCR!ITI FILOSOFlCO-MIUTARI ( 1863-~18=7~1- - - ~ (45

cessità di risolvere le questioni fondamentali della Metafisica", e vogliono stabilire per lo spirito umano "certi arbitrari limiti invalicabili". Invece queUe questioni sono indistruttibili e risolvibili e i limiti posti dal Comte furono di già oltrepassati dalle Scienze. Non le questioni bisogna distruggere, ma il metodo per risolverle trasformare. Il nostro spirito non può rimanere impassibile dinnanzi a più vitali problemi della nostra esistenza; ancia una soluzione, sia pure imperfetta e temporanea, e non si rassegna a perdere almeno quella speranza che a grandi cose è stimolo. 11 metodo è nella Scienza della Storia un istrumento sopra ogni dire importante. Dev'essere quello di Galileo, ma non quello esclusivo, rachitico e pedantesco che minaccia d'irrompere. 40

Così come della filosofia tedesca si deve respingere .l'idealismo astratto e l'uso di un gergo "barbaro e ridicolo", dalla filosofia positiva va bandito quell'indirizzo, "il quale non si accontenta di proclamare che la Scienza storica non debba formulare leggi, principii, ecc. che non scaturiscano da attento esame dei falli; ma nega addirittura principii, teoriche, leggi, in una parola /,a Scienza. il Pensiero; e vorrebbe che lo spirito umano si deliziasse ad ammassare fatti e poi fatti". A questo "bruta/ modo di concepire" corrisponde nell'atte quel preteso realismo che tende a trasformarsi "nel brutto "; nella politica quel cieco empirismo che vive alla giornata, senza comprendere lo spirito dei tempi e dei popoli che si governano; nella morale la tendenza a privilegiare non il largo interesse morale e materiale della società, ma l'egoismo e il ristretto interesse dell'individuo. Inteso in questo modo distorto, "il Positivismo ci si presenta non come un momento più alto e scientifico di quello metafisico, ma come un ritorno a quell'occupazione di raccogliere fatti, che precede l 'esercizio del potere scienti.fico". 41 Di qui la divergenza del M. anche dallo Spencer, uno dei massimi esponenti del positivismo: Herbert Spencer, il più illustre positivista vivente, definisce nei primi Principi la forza come «la causa incondi zionata e inconoscibile dei cangiamenti [... ] ». Lo Spencer vorrchbe stringere gli sponsalj fra la scienza e la religione. 11 positivismo e il teologismo s'incontrano e s'abbracciano a piè deU' Inconoscibilc, perché la scienza urta neUa muraglia della natura intima delle cose, nella forza che di tutto è condizione, ma non si 40

41

ivi, pp. 383-385. ivi, p. 386.


IL PENSIERO MILITARI,; E NAVAI.E ITALIANO - VOL. LII I ~70. I 915) - mMO I _

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sa che cosa ella sia L... I. Tutto questo edifizio, me lo perdoni l'illustre scrittore, non appaga la religione e non arresta la scienza. Non appaga la religione, perché questa non si restringe ad affermare la esistenza del mistero, ma ammette una rivelazione [... ). Su di questo terreno la religione e la scienza sono destinate a urtarsi, e per lo meno a non intendersi, perché se anche la scienza non farà che tradurre nel suo linguaggio il mitico contenuto religioso, come fece Hegel, la religione non si rassegnerà mai appieno a questa libera versione [...]. La scienza dal canto suo non si arresta dinnanzi alla forza, proclamata inconoscibile, ma lacera il velo che la nasconde e dietro vi scopre il movimento con le sue leRRi. Ed esclama: io non so tutto quello che c'è di sotto alle cose, ma so che il mistico mondo non c'è, perché il progresso delle mie cognizioni e scoperte non fa che restringere e poi restrinRere la sua estensione [nostra sottolineatura - N.d.a.].42 1n definitiva, per M. la scienza non respinge come vorrebbe lo Spencer né le questioni né le conquiste del pensiero metafisico, ma "vuol solo saggiarle con i suoi reagenti". Non mette al bando le teorie, i principi, le idee, le sintesi, e - entro certi limiti - lo stesso ragionamento filosolìco a priori; ma piuttosto "vuol procedere con metodo cauto e sicuro ma Largo e armonico". A questo punto egli si preoccupa anche di respingere a priori possibili accuse di eclettismo:

il lettore s'ingannerebbe a partito se da queste parole argomentasse che io voglia risuscitare uno di quei sistemi che volendo conciliare tutto, finiscono per non istringere nulla. No: non veggo nel mar dell'essere due termini, due for.e;e, due sostanze che corrono parallele, si uniscono per attrazione e per insufllazione., ma non ancora si compenetrano e fondono. Una sostanza veggo fornita di proprietà diverse che agiscono e reagiscono tra di loro, e si combinano in modo sempre più complesso. Onde non voglio conciliare idealismo e reaJismo, spiritualismo e materialismo nel senso di fondere ombre semoventi con corpi d'anima puri_ Conciliare suona per me armonizzare tra di loro i modi d'essere, le varie funzioni dell'unica sostanza. Ma tra questo supremo luogo tiene lo spirito, al quale vogliamo nella storia lasciare tutti i suoi diritti, salvo quello d'un monarcato celeste e assoluto. 43

42

Marselli, L'Azione della natura sulla civiltà sec:ondo i modemi studi, in "Nuova Antologia"

15 marzo I 878 (cii.). 43

Marsellj. le Fa si... , Voi. I (cit), p. 387.


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IL PENS IERO DI NICOLA MARS!lLLI: PRIMI SCRrrn Fll.0SOFICO-MIUrARJ 11163-1 871

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Da un siffatto modo di intendere l'incontro della storia con la scienza deriva una più chiara formulazione dei concetti di scienza della storia e di storia scientifica, con quest'ultima vista come completamento e perfezionamento della prima. Gli storici - osserva il M. - attingono dall'ambiente scientifico idee, principì, leggi e teorie, e attraverso questo primo filtro interpretano i fatti. Nella scienza della storia sui fatti prevalgono appunto le idee, i principi', le leggi e le teorie; il contrario avviene nella storia scienti.fica, "in guisa che veggasi vivere e muovere ciò che nella Scienza scorgesi più in astratto e almeno più pallidamente incarnato ". Ne consegue che in cosiffatta differenza di predominio dell'elemento razionale o dell 'elemento storico sta la differenza tra le due branche. La Scienza dunque pone nel suo vestibolo alcuni principi essenziali, alcune leggi fondamentali della storia; di poi muove a lumeggiare, dimostrare e arricchire siffatte idee nello svolgimento storico, il quale segue senza tuffarsi nel mare dei particolari e con la libertà di abbandonarsi a discussioni astratte; infine in una finale abside [che sarebbe la storia scientifica - N.d.a.] condensa con sintesi cosciente quel vasto quadro di fatti e di leggi, le quali pose con sintesi indimostrata c riprovò con analisi storica. La Storia scientifica volge piuttosto la sua mente a dare polpa alle leggi e rilievo individuale aJle idee. Si distingue dalla Storia come tale, in quanto che un segreto ordine concatena più razionalmente i fatti , e si distingue daJia scienza appunto perché codesto ordine storico e ideale mostrasi pienamente incarnato nei fatti. 44

Da tali orientamenti discende una sorta di programma di lavoro, che corrisponde a una metafora: i positivisti vorrebbero che l'ingegno strisciasse come le formiche, mentre i metafisici imenderebbero relegarlo tra le nubi; invece lo scienziato, senza disdegnare, all'occorrenza, di procedere come la formica, deve piuttosto imitare l'aquila, "che sta sulla terra, impenna l'ali e alla terra ritorna". Il programma è così riassunto dal M .: entrare nel movimento attuale de1la Scienza, ma senza lasciarsi dominare da esagerate e transitorie opinioni ; partire dal punto al quale il pensiero istorico è giunto, ed avanzare con passo nùsurato, ma con la convinzione che nei principii, nelle leggi, nelle teorie, desunte dai fatti , consista la Scienza della Storia con qualunque Scienza; accettare dalle

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ivi, p. 344.


lLPENSIEKOMlLITARE E NAVALE ITALIANO - VOI.. lii ( 1870 -19 15) - TO ~= M~O~I _ __

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Scienze naturali un metodo empirico e razionale, ma tenere in onore tutte quelle conquiste della Filosofia della Storia che resistono alla riprova di questo metodo; riportare dagli studi filosofici l'abito di speculare e il bisogno di risolvere i grandi problemi, ma ciò recare ad atto con sincero ossequio verso i fatti; accettare eziandio dalle Scienze naturali le dottrine, le leggi e porle a base della Storia, come la natura inorganica sta alla base di quella organica, ma riconoscere pure le differenze costituenti il mondo morale, come il naturalista riconosce i peculiari processi di nutrizione e di decomposizione della materia organica; dare corpo ad una sintesi, la quale si tenga sul terreno storico più di quello che siasi usato sinora, ma non discenda nelle accidentalità sino al punto di smarrire la chiara vista delle leggi e del complesso; porre in rilievo i fatti principali e coordinarli sotto leggi, sotto un ordine organico, in guisa che veggasi l' azione e la reazione e vogliam dire la connessione fra tutte le facce della Civiltà di un popolo e il moto progressivo dell'Umanità; ecco quello che chiamo dare vita alla Scienza della Storia. 45

Si tratta cli un vero inno alla "terza via ", con concetti che vogliono essere equilibrati, ma in realtà sono tali da rimarcare la differenza tra il dire e il fare; perché quell'equilibrio, quella misura che a volte potrebbero coincidere con il piatto buon senso o con l' eclettismo, sono assai difficili da ottenere in una realtà quotidiana alla quale M. vuol pure rendere omaggio. Anche per questo non è del tutto giustificato l'ottimismo del quale anche in questo caso dà prova, sostenendo che un lavoro impostato con questi principì al momento è più agevole che in passato, e in futuro lo sarà ancor più del presente. Confortano questa sua previsione "l'accumulato materiale storico, le leggi già scoperte del pensiero storico, e lo sviluppo grandissimo delle Scienze naturali e morali, sviluppo che ha loro permesso di scoprire molti nessi tra il mondo fisico e il mondo morale, e di Jorni re una base più positiva alla comprensione dell'uomo e della Storia " .46 Da queste concezioni del 1873 M. non si distaccherà più; esse sono alla base anche del suo approccio alla problematica militare sia sotto l'aspetto teorico che sotto l'aspetto pratico, condizionando in particolar modo il suo giudizio su Clausewitz. Se ci fosse ancora bisogno di una riprova del tentativo del M. di superare non solo l' hegelismo, ma anche il positivismo, basta considerare in che modo nelle citate leggi storiche dell'incivilimento valuta le ricadute 45

ivi, pp. 388-389.

46

/bidem.


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sociali - quindi anche militari - delle invenzioni, delle scoperte e del progresso tecnologico, economico e industriale, fino a clissociarsi esplicitamente - ancora una volta - sia dallo Spencer sia da coloro che - come lo Zambelli e il Cattaneo - hanno fatto delle invenzioni e scoperte l'unico motore delle trasformazioni sociali e militari.47 M. si chiede anzitutto che cosa sia la civiltà, "le cui leggi di svolgimento formano il contenuto principale di una Scienza ancora nuova, qual'è quella della Storia". Essa è un fenomeno complesso, è la risultante cli vari fattori - e non di uno solo - che ne condizionano lo svolgimento, e che cli volta in volta predominano l'uno sull'altro; il suo sviluppo è pertanto un insieme di azioni e reazioni di forza variabile, che si influenzano l'un l'allro e formano sistema. Pertanto divergendo dal Buckle, dallo Spcncer, dal Renane dal Guizot il M. nega che: - la polvere avrebbe reso necessaria la costituzione degli eserciti permanenti, cioè di una classe speciale alla quale è stato esclusivamente riservato il mestiere delle armi, consentendo così alla borghesia di svilupparsi e di produrre i grandi rivolgimenti dell' età moderna; - la storia sarebbe dominata dalla questione dell' armamento. In particolare l'artiglieria avrebbe ucciso la cavalleria, mentre il feudalesimo e la perfezione degli odierni ritrovati guerreschi renderebbe impossibili le rivoluzioni. Di conseguenza l'arte militare avrebbe acquistato un fondamento scientifico talmente sviluppato, "da richiedere una educazione speciale, la quale pone il soldato assai di sopra al cittadino e il governo che possiede la forza assai di sopra al popolo disarmato", rendendo necessario il servizio militare volontario (Spencer, Buckle); - la società esisterebbe per l'individuo, non viceversa (Guizot): di qui la contrapposizione (Spern..:er) tra la società <li tipo guerresco e quella di tipo industriale. n primo tipo è quello più antico e dei popoli meno civili: esso deriva dalla necessità primordiale di difendersi dai gruppi sociali ostili, o di offenderli. In questo modello predomina un forte potere centrale che mantiene soggetti gli individui e li disciplina fortemente, come se la nazione fosse un grande esercito; pertanto l'individuo esiste solo a profitto dello Stato, che si ingerisce pesantemente in tutte le manifestazioni sociali. Il contrario avviene nella società di tipo industriale, che "predomina nei tempi in cui il lavoro industriale, con Le sue tendenze liberali e pacifiche, si sostituisce alle tenden-

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Marselli, le J.,eggi storiche dell 'incivilimenlo (Cii.), Libro I cap. I e VI.


ze assolute e depredatrici del tipo guerresco". In queslo quadro, secondo lo Spencer e il Buckle il sistema militare più civile e più favorevole al progresso sarebbe l'esercito a reclutamento volontario. A queste tesi, che possono dirsi l'applicazione dei principi del positivismo al rapporto tra società e istituzioni militari, j) M. obietta che: - l'individuo e la società non sono in realtà due termini separati e contrapposti, ma ciascuno è la condizione per l'esistenza dell 'altro. Se l'egoismo riesce a prevalere sull 'altruismo nella grande maggioranza dei cittadini, allora insieme con lo Stalo scompare anche la felicità dei singoli; occorre pertanto armonizzare le esigenze della società con quelle dell'individuo, in modo da oltenere con il progresso dell'attività individuale anche quello del corpo sociale; - se da una parte i governanti devono tener presente che lo Stato è falto per gli individui, dall'allra i cittadini devono essere ben consci che "una società non può esistere e prosperare senza l'ossequio alle leggi, il rispetto alla libertà e La devozione all'interesse pubblico, spinta, quando occorre, sino al sagrifizio della vita individuale"; - il corrispondente modello di società "mira non pure a distruggere o almeno ad attenuare grandemente la guerra tra gli Stati, ma anche La rivoluzione negli Stati, sostituendo L'evoluzione legale e civile agl'impeti insurrezionali e alle violenze selvagge di passioni egoistiche ed animalesche"; - il reclulamcnto volontario sostenuto dallo Spencer e dal Buckle e tipico dell'Inghilterra, mal si concilia col fatto che gli Stati democratici preferiscono, in genere, il modello di nazione armata. I veri democratici "possono desiderare che la guerra si faccia di rado e per risolvere essenziali antagonismi; eglino possono volere che in pace non vi sia sotto le armi che un piccolo nucleo permanenie; ma dijficilmente si ridurranno a pensare che sia favorevole alla civiltà della propria patria quell'affidare a pochi la difesa di un inestimabile tesoro, mentre il resto dei cittadini validi se ne sta in panciolle". Perciò servire la Patria in pace e in guerra "oltre che un dovere imprescindibile, è un diritto inalienabile"; - le armi da fuoco e J' esercito stanziale non hanno affatto provocato da sole la trasformazione radicale della società. La decadenza del feudalesimo e il predominio della borghesia sull'aristocrazia e della fanteria sulla cavalleria hanno avuto inizio prima dell'invenzione dclJa polvere e hanno progredito insieme con la sua (graduale) applicazione ad usi militari; sono state le Crociate a segnare la fine del Medioevo;


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- lo stesso si può dire per le artiglierie, che hanno tardato assai a diventare determinanti nelle battaglie. Nemmeno i cannoni sono riusciti a impedire alle fanterie di predominare e alle case feudali di cadere; esse "hanno potuto indebolire La cavalleria come arma, ma non f>pegnere il feudalesimo come ordinamento sociale: questo è stato minato anzitutto dalla graduale affermazione del potere regio, dalla progressiva emancipazione dello spirito democratico, e ferito a morte dall 'unione di tali.forze contro le oligarchie dominanti e divise"; - non è vero che il perfezionamento delle armi è destinato ad arrestare le rivoluzioni. Anche i cannoni lisci bastavano a smantellare le barricate e a sgominare le schiere raccogliticce del popolo; eppure "nessuna storia come quella francese è ricca di rivoluzioni popolari trionfanti dei cannoni regi", e, in Francia, spesso lo spirito rivoluzionario è penetrato anche nell'esercito. L'attuale reclutamento obbligatorio "ha aperto tutti i pori dell'esercito alle aspirazioni dello spirito nazionale" e aumentato iI numero dei naturali istruttori di coloro che sono chiamati alle armi: perciò "il Renan ha guardato soltanto al pe,fezionamento delle armi, e non ha dato un giusto valore a tutte le rimanenti condizioni scientifiche, industriali, sociali in genere, che a quel perfezionamento si accompagnano e lo rendono possibile"; - come la guerra la rivoluzione è indistruttibile, perché affonda le sue radici nelle imperfezioni permanenti della natura umana. L'unico modo di "diminuire le scosse nello ::.pazio e nel tempo" consiste nel realizzare quelle parti del suo programma che corrispondono ai reali bisogni del Paese, nel diffondere l'educazione pubblica e nel chiamare al governo dello Stato coloro che sono in grado di perseguire gli interessi generali della nazione. li M. conclude che "la polvere, come qualsiasi altra invenzione o scoperta, può essere considerata come un mezzo di acceleramento del progresso sociale, ma non come motore o causa prima di esso". Proposizione nettamente antipositivista, perché presuppone che si sia qualcosa di diverso dalla materia, dalla tecnologia, dai fattori economici e industriali a provocare i mutamenti delle società e degli Stati. Come meglio si vedrà in seguito, naturalmente questo vale anche nel campo militare e in particolare per l'arte militare. Intanto si deve prendere atto che per il M. non sono le tecnologie a provocare le rivoluzioni dell'arte militare: quindi, fin d'ora non può essere definito uno stratega positivista o uno scrittore miJjtare positivista.


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SEZIONE II -Le prime opere militari (1863-1869) Gli scritti militari (o prevalentemente militari) del M. hanno a fattor comune diversi motivi ispiratori, che possono essere così riassunti: - come gli autori italiani e europei coevi, scrive le opere principali sotto l'impressione delle folgoranti vittorie prussiane del 1864, 1866 e 1870-71, alle quali dedica pagine significative e in certo senso propedeutiche alla Guerra e sua storia. Da tali vittorie riceve ancor maggiore alimento la sua giovanile ammirazione per la cultura e vitalità della società germanica e non solo prussiana, delle quali la cultura militare e l'esercito sono diretta espressione; - al tempo stesso avverte in modo pressante l'esigenza di 'fare gli italiani" anche dal punto di vista militare, di cancellare le amare pagine del 1866 creando le necessarie premesse culturali e formative per quella futura, piena vittoria militare, che sola potrà ridare prestigio e autorità nei consessi internazionali sia all'esercito che alla nazione; - il suo approccio all'intera problematica militare non è che un tentativo di conciliare o superare, anche in questo campo, tanto la metafisica hegeliana che il pos itivismo. Vi ricorre in particolar modo il concetto hegeliano di superamento (togliere qualcosa da una sfera inferiore in cui sussisteva in opposizione a qualche altra per conservarlo in una sfera superiore dove i due termini prima antitetici sono fusi in un nuovo prodotto), abbinato a quello di evoluzionismo secondo leggi precise come quelle del mondo fisico, teorizzate da Darwin; - la tendenza alle analisi fin troppo ambiziose, comunque sempre ad ampio spettro e la sensibilità per il contesto politico-sociale sono due altre caratteristiche costanti dell' opera militare del M. , che comunque non lo spingono a trascurare gli aspetti tecnici ma, al contrario, concorrono a fame emergere tutte le interfacce. Il primo scritto militare del M. (1863) ha un titolo che potrebbe ingannare, inducendo a confinarlo subito tra gli studi angustamente tecnici, quindi caduchi e senza alcun respiro: L'Arma del genio negli Esercito Studi. 48 Il capitano Marselli, proveniente dal genio napoletano e da poco entrato a far parte dell 'esercito italiano, fin dalle prime pagine vi si rivela un ardito innovatore in materia di ordinamenti, un dotto storico militare,

.. In "Rivista Militare Italiana"' Anno m - Voi. Ili febbraio 1863.


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un profondo conoscitore degli istituti militari delle principali nazioni europee, da lui citati nel quadro di un'apprezzabile metodica comparativa. Pienamente giustificato è perciò il giudizio del Cisotti, secondo il quale "fin da questo primo scritto si rivela la larghezza d 'idee dell'uomo che poi divenne illustre per molti rispetti e scrittore di primo ordine". 49 Vi trovano anzitutto una prima applicazione pratica lo storicismo e il concetto hegeliano di superamento, accompagnati dal principio dell' "armonia dei contrari". M. non si limita ad occuparsi del genio, ma ne inquadra i problemi nel passato, nel presente e nell'avvenire delle tre Armi speciali del tempo (artiglieria, genio, Stato Maggiore, quest'ultimo nel concetto e con il ruolo di allora). E così inizia il lavoro: " INTRODUZIONE Svolgimento storico delle armi speciali. Tre periodi storici [ecco la trilogia hegeliana - N.d.a.]. li passato: unione spontanea delle tre Armi :,peciali. Il presenle: separazione; origine del genio militare nell'Austria, nella Francia, ecc.; origine del corpo di stato maggiore in Francia. i/futuro: riunione sintetica delle tre Armi; ordinamento di pace e di guerra proposto dal generale Paixhans; nostro concetto". L' articolata e non breve analisi del M. trova uno sbocco quanto mai concreto in una serie di ardite proposte, parecchie delle quali anticipano soluzioni ordinative adottate solo nel corso del secolo XX_ Ne riassmniamo gli aspetti salienti: - in aderenza al principio - ormai affermato in campo civile - della divisione del lavoro, in futuro artiglieria e genio dovranno occuparsi solo della parte più propriamente militare e operativa, mentre "la fusione dei cannoni, la costruzione delle macchine, la grande carta topografica del Regno, le fabbriche per uso dei soldati [cioè le caserme - N.d.a.J, in una parola la parte civile che ora è mista alla militare nelle armi speciali, sarà un giorno assorbila dagli ingegneri civili, dall 'industria privata"; - non può essere condivisa la recente proposta del generale francese Paixbans di costituire un unico corpo del genio (civile e militare) dello Stato, che in pace si occuperebbe anche dei grandi lavori pubblici. L' arte della guerra ormai richiede un impegno esclusivo; perciò fino a quando ci sarà la guerra, occorre utilizzare la pace per preparare la guerra e separare il genio militare da quello civile; - per la stessa esigenza di divisione del lavoro, anziché un'unica direzione generale delle Armi speciali presso il Ministero della guerra 49 Lodovico Cisolli, 50° Anniversario della "Rivista Miliwre Italiana" - Sguardo storico retmspellivo e ricordi, Roma, Voghera 1906, p. 35.


IL PENSIERO MIUTAKE E NAVALE ITALIANO - VOL.111 ( 1870-1915) • 'IUMO I

(come al momento avviene), dovrebbe essere istituita una direzione generale per il genio e una per l'artiglieria; i pontieri dovrebbero essere separati dall'artiglieria e passare al genio [ciò sarebbe avvenuto solo nel 1873 - N.d.a.J; lo Stato Maggiore, che ha il compito di trasmettere ai reparti le decisioni del comandante e regolare e controllare il meccanismo dell'esercito, non deve occuparsi di lavori topografici; il genio deve avere una sua brigata topografica, lasciando però a ingegneri civili la compilazione delle carte; - occorre pubblicare a cura del Comitato del genio un Giornale del genio militare e un manuale aggiornalo con la raccolta di tutte le disposizioni ad uso pratico degli ufficiali; organizzare, per ragioni di comodità di consultazione, una biblioteca deJ genio a parte; dotare il Comitato di uno stabilimento tipografico [così è stato fatto in quegli anni - N.d.a.]; - meritano la dovuta attenzione anche nuovi ritrovati come l' aerostatica, la fotografia applicata alla topografia, il telegrafo; - solo in un lontano futuro si potrà pensare a un'unica "Arma politecnica", divisa in una sezione di artiglieria, una di fortificazione e un'altra di Stato Maggiore. Invece le proposte del ge nerale Paixhans potranno essere accolte solo quando trionferà la pace e il disarmo, o almeno quando i periodi pace saranno prolungati. La conclusione del lavoro è un ennesimo inno alla conciliazione hegeliana dei contrari; per il genio occorre un ordinamento "che sposi la unità dell'accentramento con la vitalità del decentramento"; per I' i ntero esercito si tratta di trovare "un ordinamento che sia insieme forte ed economico"; per la fortificazione occorre " rivolgersi alla scoperta di un metodo che sintetizzi la passeggera e la permanente". Indicazioni di principio che sfiorano il semplicismo e la banalità, perché tutto sta nel "come" e nel "quando "; in proposito bisogna registrare due oggettivi punti di caduta. li primo è la proposta del M. di rinunciare a formare dei reggimenti e di considerare come massimo livello organico il battaglione, non solo per il genio ma per tutte le Armi: questa soluzione consentirebbe di risparmiare Quadri superiori ... 11 secondo è l'opportunità di addestrare solo quakhe sottufficiale all'uso del telegrafo, lasciandone l'impiego a personale civile: se gli operatori fossero militari, a suo discutibile parere diventerebbero cattivi soldati. Dunque, l'alta qualificazione tecnica sarebbe incompatibile con lo status militare? sarebbe "un soldato ", solo il portatore di fucile? Questo non si poteva più dire, ne mmeno quando il M. scriveva l' articolo in esame ... Strano che lo dica proprio un colto ufficiale del genio.


li - IL PENSIERO DI N ICOi.A MARSP.1.1.1: PRIMI SCKITl'I t'IL0S01'1C0-MILITARI (1863-1~7 1)

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In un altro articolo dello stesso anno 1863, Grandi Comandi per Armi speciali, 50 il M. propone che il Comitato del genio (organismo che al momento raccoglie gli ufficiali di grado più elevato dell'Arma, i qual i deliberano sulle principali questioni) si fonda con la direzione generale del genio da lui proposta nel precedente studio, costituendo un "Gran Comando " dell' Anna retto da un generale d'armata. In tal modo a suo giudizio sarebbero tradotti in pratica i tre requisiti che deve avere una direzione generale (conservare intatta l' autorità e la responsabilità de.I Ministro; garantire al Capo di ciascuna Arma l'indispensabile libertà d'azione; non creare quel dualismo, che esisterebbe se si conservasse un Comitato separato dalla direzione generale e da essa dipendente). Il "Gran Comando " dipenderebbe da una "divisione amministrativa" del Ministero retta da un civile: con questa organizzazione, "un semplice capo divisione non essendo rivestito di autorità alcuna, attenderebbe al corso degli affari senza ledere la suscettività del Gran Comando e, vi ha fondata ragione di crederlo, senza esercitare inJluenza alcuna sull'animo del Ministro". L'argomento è delicato e il giovane capitano già vola piuttosto alto: per questo, aJia fine dell'articolo, respinge sdegnosamente l'accusa cLi essere stato portavoce di un ufficiale di grado elevato, rivendicando la sua indipendenza di pensiero. Altro particolare interessante, questo articolo e quello precedente sono inviati dal M. al generale Cialdùl.i, al momento comandante del IV dipartimento militare (Bologna). Con una lettera dell'aprile 186551 il Cialdini ringrazia e loda il talento e la dottrina del giovane ufficiale; ma al tempo stesso, "onde evitare dispiaceri e scoraggiamenti" gli consiglia di non occuparsi più di argomenti come quello del vertice delle Armi speciali: "e non già che Ella manchi di ingegno e di dottrina p er trattarne convenevolmente, ma, come dissi, vi sono questioni che solo possono essere autorevolmente dibattute da chi, all'ingegno e alla dottrina, aJ?giunga un grado elevato e lunga e::.perienza [ ... ]. Sarebbe doloroso che qualche urto, qualche di:,piacere, che potrà facilmente incontrare (se non procede con cautela e prudenza nella scelta della materia da trattare nei suoi scritti) la disgustino prematuramente dallo scrivere". Dal 1864 in poi il M. si occupa di una tematica più vasta, pur senza dimenticare le questioni delle Aml.i speciali. Il primo lavoro in questo senso è l'opuscolo L'istruzione militare e l'economia,52 che raccoglie cinque lettere da lui indirizzale all'allora maggiore di Stato Maggiore Agostino 50

ln "Rivista Militare llaliana" Anno VTTVol. TV aprile 1863, pp. 94- 101. lei/ere inedile (Cii.), pp. 14- 15. 52 Torino, Tip. Scolastica di S. Franco e figli, 1864. 51


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Ricci, il quale gli ha chiesto il suo pensiero sulla situazione degli istituti di formazione militare in Italia e sui possibili miglioramenti da introdurre in questo settore, anche per realizzare economie. li M. parte da due presupposti che caratterizzano l'intera sua opera: vuol esporre le sue idee "con quella intera franchezza, la quale nella libera e impersonale discussione di questioni scientifiche, artistiche, d'insegnamento, di ordinamento, è cosa tanto militare, quanto militare è nel servizio quotidiano l'obbedienza passiva al comando"; in secondo luogo non nasconde l'ambizione di indurre in questo settore del le economie "che semplificano, e pertanto perfezionano e non indeboliscono l'esercito". Dà ancora per scontato che le "Armi speciali", le Armi dotte, debbano avere istituti di formazione diversi da quelli della fanteria e cavalleria (come hanno avuto, del resto, fino al 1943) e che l'iter di studi della fanteria e cavalleria sia più breve e più semplificato rispetto a quello dell ' artiglieria e del genio; ma, per il resto, le sue idee sono sorprendentemente moderne e attuali. Anzitutto giudica l'istruzione secondaria militare (allora impartita presso i collegi militari come quello - tuttora in attività - della Nunziatella) "un non senso, una specie di protezionismo militare, che urta non solo con la ragione, ma pure con l 'economia". Per le autentiche esigenze militari basta l'istruzione secondaria pubblica; prova ne sia che nessuno dei principali eserciti d 'Europa (ad eccezione dell'Austria) possiede qualcosa di analogo a questi collegi italiani. Si dice - osserva il M. - che servono a formare nei giovani l'attitudine e lo spirito militare: che servano è vero, che siano indispensabili, no. l principali eserciti stranieri, i quali non dispongono di collegi, non mancano certo di spirito militare; tanto più che, data la carenza di risorse, l'Italia non si può permettere di pagare ..oggetti di lusso". Né vale giustificare l'esistenza di collegi militari con le carenze dell'istruzione pubblica: a parte il fatto che le condizioni di tale istruzione non sono in Italia così deplorevoli come vorrebbero alcuni, non si capisce "come quei Licei, quelle Università, quelle Scuole in generale che forniscono il paese di bravi medici, di abili inf?egneri, di sottili e esperti avvocati, siano poi disadatte a generare giovani capaci a diventare buoni ufficiali, dopo di che abbiano completato la loro istruzione negl'istituti militari e nelle Scuole di applicazione"; dopo tutto a nche il genio "al massimo fa opera pari a quella dell'ingegnere". La decisa avversione ai collegi militari è giustificata dal M. con un'altra sua convinzione, che risente di giovanili e negative esperienze: non è necessario, per il mestiere delle armi comprese quelle speciali, pre-


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vedere - come al momento avviene - "quella sbardellata congerie di vasti studi, di profonde dottrine, di altissime teoriche"; né è necessario "l'imbottire la memoria di tutte quelle formule lunghe più che una ~panna, il sopraccaricare le giovani menti d'un peso che sono ancor troppo tenere a sopportare, lo spaziare per su e per giù attraverso i campi ampissimi di astratte discipline". Chi ha trascorso lunghi anni nell'esercito - prosegue il M. - ha potuto constatare che, nell'atlività quotidiana, "queiformoloni, quelle teorie, quella scienza per la scienza" appresi con tanta fatica a poco o nulla gli servivano, mentre sapeva assai poco di ciò che gli sarebbe stato veramente necessario; quindi, anziché "imparare molto imperfettamente per poi dimenticare tutto perfettamente", l'ufficiale deve sapere poco, ma sapere bene e solo ciò che gli serve effettivamente. Jn futuro l'esercito dovrà avere solo scuole di applicazione, nelle quali "prendendo i giovani dalle mani della pubblica istruzione al punto che gli è acconcio, non farà che porgere loro quella istruzione speciale, tecnica, che a ciascun 'Anna è necessaria e che non è se non un'applicazione ad un determinato ramo dell'istruzione generale". Occorre, di conseguenza, cambiare anche i progra mmi d'ammissione alle scuole militari, "in guisa da insistere fortemente sulle basi d'una disciplina, da attaccarsi soltanto alle teoriche che sono strettamente necessarie allo svolgimento successivo della scienza, che sono indi~pensahili alla futura pratica delle armi, sorvolando come aquila velocissima sulle tesi di mero lusso ". Al momento vi è molta differenza tra l'ite r di studi degli ufficiali di artiglieria e del genio e quelli di fanteria e cavalleria. I primi frequentano per tre anni l' Accademia Militare di Torino, con promozione a sottotenente dopo il primo anno; al termine dei corsi d' Accademia ne frequentano altri due di Scuola <l ' Applicazione, con un ciclo formativo di cinque anni dei quali tre come ufficiali allievi. Tnvece gli allievi ufficiali di fanteria e cavalleria compiono solo due anni di studi presso la Scuola di Modena, al tennine dei quali sono promossi ufficiali e inviati ai reggimenti . Il M . critica questa soluzione, sia perché troppo onerosa per lo Stato (che paga per tre anni un ufficiale di artiglieria e genio prima di poterlo utilizzare presso i reparti), sia perché tale da creare dannose differenze di età e di grado tra gli stessi allievi dell'Accademia, a discapito del cameratismo. Occorre peraltro tener conto, a suo giudizio, della principale giustificazione del sistema in vigore: evitare che gli allievi dell' Accademia di Torino, i quali desiderano diventare ufficiali al più presto, si dimettano per passare alla Scuola di fanteria e cavalleria di Modena, dove con un


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corso di studi molto meno oneroso diventano ufficiali in due anni. La soluzione individuata dal M. per evitare questo inconveniente non è così ardita e preveggente come le precedenti diagnosi: avremo[ ...] tre Scuole di applicazione, una per le Armi dotte - tra le quali I... I vorrei veder primeggiare il corpo di stato maggiore, i cui uffiziali dovrebbero essere pochi e ottimi, dovrebbero studiare qualcosa di meno e anche qualcosa di più di quel che studiano gli uffiziali del genio e dell'artiglieria, e all'uscire dalla Scuola di applicazione prestare servizio, senza scapito di promozioni, da uflìziali e per un dato tempo presso tutte le Armi - una per la fanteria e una per la cavalleria; e siccome a compiere gli studi di applicazione per le prime fa mestieri di maggior tempo che per le seconde, così io reputo conveniente che quella consti di 3 anni e queste di 2, ma a un patto solo cd è: che gli allievi della prima Scuola, promossi uffiziali, ricevano il brevetto antidatato di un anno. Gli allievi sarebbero accasermati, ma con uscita libera dalle 5 alle LO o alle 11 di sera, come si fa a Mctz, e obbligati allo studio nelle sale della Scuola sotto la sorveglianza degli uflìciali.53

Con le riforme da lui suggerite, più l'abolizione dei battaglioni composti da orfani figli di militari - per i quali potrebbero essere previsti posti gratuiti negli stessi collegi c ivili - il M. ritiene possibile un risparmio di circa 2 milioni. Ma non è questo il punto: ciò che oggi importa considerare è che le sue proposte, relative all'abolizione dei collegi militari e a più razionali criteri e metodi per i programmi degli Istituti di formazione militare, non sono mai state accolte, neppure nel XX secolo. Eppure gli inconvenienti da lui lamentati - a cominciare dall'irrazionale affastellamento di nozioni teoriche e scientifiche di dubbia utilità per l'ufficiale - hanno avuto lunga vita, anche nel XX secolo. La formazione degli ufficiali, anche se importante, è pur sempre un problema settoriale: nel lavoro successivo, Il problema militare dell 'indipendenza nazionale, 54 il M. allarga ancor più i suoi orizzonti e anche se, da buon ufficiale del genio, incentra le sue riflessioni sulla fortificazione, qua e là tocca le principali questioni che riguardano la difesa nazionale e

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ivi, p. 37. Marselli, Il Problema militare dell"indipendenza nazionale, in "Rivista Militare Italiana" Anno Xli , Voi. I febbraio 1867, pp. 173-20 1 e mano 1867. pp. 265-3 19; Voi. Il aprile 1867, pp. 54-92; Voi. TTT luglio 1867, pp. 26-53; Voi. IV ottobre 1867. pp. 29-72; Anno Xlii Voi. I marzo 1868. pp. 334352; Voi. II aprile 1868, pp. 73-88. 54


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la fisionomia essenziale dello strumento militare, con digressioni teoriche e storiche che rendono il lavoro, nel complesso, una sorta di summa della problematica nùlitare del momento, e al tempo stesso ne fanno un'anticipazione cli opere di maggior peso teorico. A ragione, perciò, il colonnello Cisotti lo definisce "lavoro in quel tempo importante e coraf?f?ioso, ispirato a idee nuove che poi fecero molto cammino". La vasta materia viene trattata in sette lunghi articoli pubblicati sulla Rivista Militare dal febbraio 1867 all'aprile 1868, cioè subito dopo la guerra del 1866; ma il M. inizia a scriverne alcuni anche prima di tale guerra, pubblicandone una parte sull'Italia Militare dal giugno 1865 all' aprile 1866. Per altro verso si tratta di un lavoro rimac;to incompiuto, non si sa se per mancanza di tempo o per ragioni cli opportunità connesse con gli incarichi ricoperti dal M. nel periodo. Farebbe propendere per la seconda ipotesi la pubblicazione a parte, sulla Rivista Militare del 1869, dell 'articolo Un dialogo sulla strategia - libera versione dall 'inglese55 , nel quale in nola si precisa che "questo dialogo era tradotto sin dal cominciare dell'anno 1866, e destinato a servire come Prefazione a quella parte del mio lavoro sul Problerna militare ecc. ecc. che avrebbe dovuto vertere sulla .fortificazione in relazione alla strategia. I doveri del mio incarico non permettendomi di continuare a scrivere siffatto lavoro, io pubblico isolato uno scritto che può stare da sé". La "partizione generale" indicata dal M. nel primo articolo è la seguente: Prefazione, Proemfo, Introduzione - le fortezze, Libro Primo (la fortificazione in relazione alla tattica, alla strategia e all'artiglieria), Libro Secondo (applicazione alla difesa d' Italia), Libro Terzo (trasformazione negli ordinamenti militari). Un piano di lavoro come sempre assai ambizioso, del quale, però, nei citati selle ,uticoli sulla Rivista Militare il M. arriva a trattare solo la prima parte del Libro Primo (la fortificazione in relazione alla tattica), anche se nonostante il forte ridimensionamento riesce a dire ugualmente parecchie cose su vari argomenti, anche non connessi con la fortificazione. 11 M. esordisce con frecciate polemiche contro coloro che disprezzano la teoria avvalorandone una sua pretesa separazione dalla pratica, e lamenta che in Italia - diversamente da quanto avviene all'estero - gli ufficiali studiosi sono tacciati di visionari; per questo è molto scarso il numero di ufficiali "che non credano di compromettere la loro dif?nità col

55 Marsclli, U11 Dialogo sulla strete,:ia-/ihera versione dall'inglese, in "Rivista Militare Italiana" Anno X IV, Voi. Il aprile 1869, pp. 44-81.


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sottoporre un lavoro al giudizio del pubblico". Una vera teoria, invece, non può essere separata da una vera pratica: "Signori, la teoria che dispregiate è la riflessione della pratica, e però non è la profezia del fatto, come il volgo crede, ma la sua regola; signori, lo studio che vilipendete fa vincere le battaglie; signori, i non pratici e i visionari sono coloro che ricevono continue smentite dei fatti". Ciò che si onora con il nome di pratica è solamente quel che i francesi chiamano routine, cioè un meccanismo cieco, pedantesco, artificiale; " la scuola delle manovre di pace è una scuola d'acqua dolce", perché in guerra sono solo i fatti straordinari che contano; per affrontarli con successo, occorre appunto grande forza intellettuale. Coloro che "con i loro rancidi pregiudizi " intendono separare il soldato dal cittadino, dallo scienziato, dall' artista, "e credono che all 'uniforme, mal si ad.dica ciò che ben si addice alla civiltà", insultano l'uniforme; tuttavia lo studio non sempre basta, così come l'esperienza personale non è sempre proficua. Nelle cose militari , come in tutte 1e cose umane, esistono perciò due scuole, l'una conservatrice e l'altra innovatrice, che interpretano in modo opposto le più alte questioni strategiche, tattiche e istituzionali. Nonostante la sua tendenza al giusto mezzo, il M. si colloca senz'altro tra gli innovatori, tra i giovani la cui scuola è " nuova sì relativamente a quella eh 'ella ha difronte e le contende il cammino, ma vecchia in quanto il suo vero merito è di riattaccarsi alle sane tradizioni ed ai sempre costanti principi dell'arte militare; epperò giovane sol perché queste tradizioni e questi principi ringiovanisce". In aderenza a queste sue convinzioni il M. intende trarre dall' esperienza delle guerre passate - e in particolare di quelle napoleoniche - orientamenti per il presente e per il futuro, sia nel campo strategico che in quello organico. L'esperienza delle nostre guerre d'indipendenza è quasi del tutto assente, forse perché si tratta di guerre recenti, sulle quali le polemiche non sono ancora spente. Inoltre non ritiene necessario modificare quanto ha scritto prima della guerra del 1866, perché a suo parere risulta ancora valido; comunque anche senza diffondersi sugli eventi di tale guerra, non manca di lasciar trapelare un giudizio critico sulla strategia prescelta in tale occasione. In particolare nel 1865 prevede a torto che, nella guerra futura, sorgerà il capitano che, invece di smorzare l' ardore del nostro giovane esercito con i lavori di trincea, lo menerà a dare uno di quei colpi terribili che fanno cadere le piazze e decidono d'una campagna, come Marengo, Ulma, Austerlitz, Jena, e come il piano di Grant; nessuno più di mc è persuaso che non bisogna afferrare il toro per le corna, e che la chiave del qua-


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drilatero è fuori di esso, come la chiave di Richmond era suUe rive dcli' Oceano Atlantico; ma non vedete voi che per fare tutto ciò avete mestieri d'un esercito superiore per numero e per morale a quello dell'avversario, che le piazze vi obbligheranno a dividervi e indebolirvi per distaccare corpi d' osservazione, che vi costringeranno ad eseguire manovre arditissime e marce lunghissime [... ]? E appunto questo e non altro, il guadagnar tempo e non il rendere invincibile, è lo scopo della fortificazione, ed è almeno l'impaccio che il quadrilatero ci creerà 1... 1. Ma rincoriamoci , poiché l'Italia è la nazione che ha prodotto Cesare e Napoleonc.56

NeUa guerra del 1866 Cesare e Napoleone non sono ricomparsi, non solo tra le schiere della nuova Italia. Così M. nel 1867 attribuisce la sconfitta austriaca contro i prussiani non alla superiore istruzione del vincitore e/o ai fucili ad ago, ma a difetto di leadership; senza dimostrarsi un genio, il generale prussiano Mollke, uomo di studio, ha sfmttato l'esperienza storica e perciò ha dimostralo di sapere il fatto suo, anche se il suo piano "non è stato né nuovo, né straordinario, né così perfetto in strategia come ahile in logistica [intesa come arte e scienza del movimento dell'esercito - N.d.a.}", visto che

riproduceva la campagna di Federico II nel 1778. Benedeck non ha studiato bene jJ teatro della guerra e le campagne di Federico TI e Napoleone; perciò in soli sette giorni ha portato il suo potente esercito alla sconfitta. Non troppo tra le righe, comunque, emerge anche il giudizio ugualmente negativo del M. sulla leadership italiana nella stessa guerra del 1866. Osserva che la scelta da parte dei prussiani di due linee d'operazione per entrare in Boemia, anche se Moltke prevedeva un 'agevole riunione in una sola massa dell'esercito allo sbocco dai monti, avrebbe potuto provocare la loro sconfitta, se avessero avuto di fronte (ciò che non è stato) un nemico abile, capace di gettarsi con la massa delle sue forze prima contro una metà dell 'esercito prussiano e poi contro l'altra. Così facendo, i prussiani sono stati nostri alleati persino nei due eserciti e nelle due linee di operazione; ma tra le due masse non correva un fiume come il Po e non sorgeva un quadrilatero Iquindi, la riunione dei due eserciti italiani era meno agevole - N.d.a.l. In qualunque modo, rimane ben fermo che la strategia delle due lince convergenti ed esterne, adottate così dai prussiani come dagli italiani [ma l'azione dei due eserciti italiani non era per nulla convergente! - N.d.a.], segna un regresso dell' arte della

56

ivi, mari.o 1867. p. 304.


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guerra, è un ritorno ai tempi della rivoluzione francese che precedettero la venuta di Napoleone, è un nuovo indizio che nell' interregno dei grandi capitani le tradizionj della strategia si impallidiscono e si oscurano. Anche il Grant ha adoperato cosiffatto sistema, ma la natura della guerra, consistente in una ribellione, l'ampiezza del teatro, la superiorità del numero giustificano il suo piano.57

L'accenno alla strategia del generale nordista Grant non è casuale. Sono estremamente frequenti - e pregnanti - i riferimenti del M. a11a guerra di secessione americana appena finita, tali da smentire, da soli, le affermazioni di taluni studiosi di oggi, secondo i quali l'esperienza di questa guerra - che spesso, anche se non sempre, è stata fin da allora industriale e di trincea, con enormi perdite - sarebbe stata poco studiata e considerata da parte degli Stati Maggiori europei e italiani in particolare. Basti citare per il momento questa sua affermazione, che tocca toni profetici: io so che spesso si parla della guerra d' America con un certo sorriso di compianto, come se si avesse a fare con le schermaglie dei fanciulli ; io so che da certi militaroni si dice, la sapiente Europa, gli eserciti permanenti, la dotta guerra metodica non poter trarre nessun esempio, non potersi giovare di nessun esperimento fatto in quelle campagne condotte a rompicollo ed eseguite disorrunatamente. Questo sorriso è risibile e degno di vero compianto, perché figlio della pedanteria e della iattanza che suole accompagnare la vecchiaia. Faccia il cielo che non venga giorno in cui anche la vecchia Europa abbia ragione di rimanere stupefatta dinnanzi alla potenza giovane e vergine della razza di là dell' Oceano! Per mc la guerra d'America ~ runica guerra <li grande importanza dopo l'uso generale delle artiglierie rigate ... 58

Con queste premesse generali, il pensiero del M. nel Problema militare dell'Indipendenza nazionale si qualifica grazie a una successione di argomenti di grande interesse come il linguaggio militare, gli aspetti teorici dell'arte militare e della strategia e la natura dei loro mutamenti in rapporto ai nuovi ritrovati (armi rigate, ferrovie, telegrafo ... ), il conseguente rapporto tra difesa e offesa, il nuovo ruolo della fortificazione permanente

51 58

ivi, febbraio 1867, p. 184. ivi, marzo 1867, p. 302.


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e "passeggera" (o campale)_ Non mancano, infine, succosi accenni alle conseguenti, concrete soluzioni per la difesa nazionale e al ruolo da assegnare a milizie e volontari in tale difesa.

Jl linguaggio militare

Per il M. il problema della lingua va esaminato in via preliminare, visto che "in Italia si vedono usate tante lingue, predominare tanti sistemi quanti sono autori. Se ogni autore è autore di certa sua favella, il risultato non può essere che la ripetizione del mito di Babele... ". Dopo aver riconosciuto che "una nazione afferma anche nella sua lingua la sua indipendenza, un esercito il suo carattere nazionale", M. constata amaramente che "noi non abbiamo una lingua italiana e tanto meno una lingua militare italiana ". Dopo questa constatazione M. non fa che riprendere ]e affermazioni della Critica e arte moderna (Cfr. sz. I) contro il nocivo influsso della Crusca e del classicismo e su1Ia necessità di studiare e prendere come esempio la lingua tedesca, che ha assimilato i termini stranieri senza perdere la sua idenlità. Anche nel campo militare, dunque, egli si fa portatore di un antipurismo moderato, che consenta di non tradire le peculiarità italiane e di recuperare il nostro patrimonio linguistico, visto che a1 momento i termini stranieri e i dialetti degli eserciti pre-unitari si sono insinuati nel nostro linguaggio militare a un punto tale, da renderlo addiritlura "meno italiano della stessa non italiana lingua del paese"_ Nel campo mi1itare sono mancati anche i grandi scrittori classici civili, che hanno almeno fatto progredire la lingua in generale. Esso è rimasto "deserto e in preda alla confusione e all'arbitrio "; vi sono stati, è vero, i tentativi di alcuni scrittori puristi, "ma quasi nessuno è riuscito, non dico a conseguire lo scopo, sebbene a destare almeno la voglia di parlare e scrivere italianamente_ Il ridicolo ha coperto i loro .~forzi, e guai quando il ridicolo giunge a trovare una breccia per la quale ficcarsi". Ciò è avvenuto perché i puristi hanno voluto correggere un eccesso e un vizio con un eccesso e un vizio maggiori; "si sono trasportati anima e corpo nel medioevo della nostra lingua militare ed hanno avuta la strana pretensione di voler costringere i moderni a camuffarsi colle fogge del trecento e del cinquecento". Essi sono così andati contro la scienza, la ragione, l'avvenire, il progresso, che trionferanno sempre; inoltre hanno ritenuto, a torto, che la forma militare stia solo nelle parole e non anche nello stile, "che è la melodia la quale esce fuori dall 'armonia delle parole, che è


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l'euritmia che nasce dalla regolarità, dalla simmetria, dalla conformità ad uno scopo, che è la curva snella che viene formata dalle pietre da taglio". In tal modo hanno creato de1le opere con uno stile così pesante, così goffo, così slegato e antiquato, da esporsi a facezie e beffe. Se, però, i puristi fanno ridere, gli scrittori barbari, i modernisti per partito preso fanno piangere: dalla barbarie adunque bisogna uscire, ma senza grandi rivoluzioni, senza spettacoli di catastrofi, senza pretendere che si scordi tutta la lingua parlata e vivente e se ne impari un 'altra impostavi da un uomo che non è poi Dante Alighieri, il quale, teniamolo bene a mente, è grandissimo perché ha saputo separare ed imporre al popolo quella stessa lingua greggia che il popolo aveva imposto a lui. È questo il segreto della questione.

Bisogna cominciare col distinguere tra i vocaboli stranieri accettati per necessità e ormai imposti dall' uso (che sarebbe inutile e impossibile sforzarsi di bandire) e quelli che sono invece "inutilmente e irragionevolmente forestieri "; ad esempio "per quanti .~forzi facciate non perverrete mai a decidere nessun militare ad abbandonare plotone per manipolo ...". I termini non italiani ma ormai entrati nell'uso vanno piuttosto conquistati interamente, fatti sempre più nostri, dandogli l'impronta del nostro carattere; "se ci contenteremo di perfezionare, correggere, dirozzare e smetteremo La smania di sconvolgere, se adotteremo il metodo del cuci e scuci anziché quello delle demolizioni, io credo che non sarà malagevole il risolvere la questione della lingua militare d'Italia"_ È necessario formare una lingua militare "un(forme e vivente "; a tal fine il Ministro della guerra, seguendo l'esempio del Ministro della giustizia che ha affidato al prof. Coppino l'incarico di "sbarbarizzare e italianizzare Le leggi nostre", dovrebbe costituire una commissione di pochi studiosi che abbiano il "fiuto della realtà", con il compito di fare delle proposte in merito. Infatti un governo fa con un colpo quel che uno scrittore fa lentamente, e nel campo dell'esercito e della burocrazia v'ha tutto un seminato, a migliorare il quale ci può soltanto il volere deU'autorità. E questa sarebbe cosa non che utile, necessaria, essendo carattere dei nostri tempi lo scrivere molto, ed essendo gli scritti che noi distendiamo non pure illeggibili, ma poco meno che affatto incapibili. Rammentiamo che le parole sono espressione dei pensieri, e che quando si parla e scrive male è segno che si pensa del pari male. Parole che non banno perduto molto d'attualità.


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L'arte militare_· definizione e influsso delle nuove armi Nelle ultime pagine dello studio prima esaminato M. attacca "quei gretti e tronfi scriltori militari, adepti della scuola burbanzosa e pedantesca di ]omini, i quali fanno consistere la loro facile scienza nel dimostrare a cose.finite quel che Napoleone doveva fare e non seppe". 59 Se ne potrebbe dedurre che tiene a marcare le distanze da Jomini e dalla sua scuola: ma almeno nella sostanza rimane jorniniano_ Le sue affermazioni di carattere strategico e tattico sono suffragate da un continuo ricorso agli exempla historica; crede nei "principf immutabili" e in particolare nel principio jominiano della massa, anche se lo giudica "un principio immanente non solo, ma così ovvio ai nostri di, che a ripeterlo si può essere scambialo pel signor La Palisse...". Soprattutto, dichiara esplicitamente di accettare (diversamente da Clausewitz) "il nome di scienza per la strategia, usalo dall 'arciduca Carlo, perché, come dicevo sopra, ella consiste tuJJa di principf immutabili, nonostante che il suo contenuto sia così chiaro e ristretto da poterlo comprendere in un foglio solo"_ La conseguente definizione teorica, pur non coincidendo con quelle di Jomini e dell ' Arciduca Carlo (Cfr. Vol. I, cap. Il) è con esse compatibile, il che non è un pregio: La strategia è la scienza dei principf che abbracciano l'insieme del teatro della guerra, che regolano la direzione suprema secondo la quale muovere gli eserciti, che guardano ai predominanti fini della guerra; La tattica e la logistica sono l'arte dei mezzi per raggiungere quei.fini. Le due branche non sono poi che diverse facce di un medesimo contenuto, la guerra, il cui principio è stato sì profondamente e brevemente definito da Napoleone: Separarsi per vivere, unirsi per vincere_ l grandi fini che occupano la strategia si riducono a tre: una base, una linea d 'operazione e un obiettivo I... I- La strategia pertanto comprende il piano generale della campagna, l'insieme del gran teatro delle operazioni, dove che la tattica è relativa all'esecuzione e guarda l'immedialo teatro delle marce, delle manovre e delle battaglie [... ]. Strategia e tallica adunque sono parole diverse, che rappresentano pure cose diverse ma non separate_60

·"' Marselli, Il Problema militare... (Cit.), aprile 1868. p. 86. 60 ivi, ouobre 1867, p. 54-55.


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In aderenza a quanto prima affermato suJl'influsso delle invenzioni e scoperte nell'arte militare (Cfr. sz. 1), M. ritiene - citando anche Napoleone - che "la strategia è sempre una", e che le campagne dei grandi capitani sono sempre state condotte con "i medesimi principi, pochi e semplici". Nella storia dell'arte militare, ciò che cambia in relazione alle nuove scoperte "non è mica la sostanza, né la forma generalissima, ma le forme determinate, secondarie, accidentali". Questo vale anche per la tattica, che secondo il colonnello svizzero Dufour cambierebbe sempre: ei s'inganna, mel perdoni. Anche nella taltica vi ha un fondo immanente, ed io potrei ben dimostrarglielo, facendo un parallelo tra alcuni suoi capitoli ed alcuni libri dell'Arte della ,:uerra del Machiavelli, il quale è tutto ordine romano. Da siffatto parallelo si vedrebbe luminosamente come la grande tattica, il concetto direttivo delle marce, manovre e battaglie è sempre lo stesso, e quel che è cangiato e solo può cangiare è certa peculiare disposizione riguardo all'ordine col quale marciare, manovrare, alloggiare e simili.

Secondo M. la strategia e la gran tattica (quest'ultima per lui, come per Jomini, serve a vincere le battaglie) rimarranno inalterate: solo "la tattica ordinaria d 'applicazione, di dettaglio dovrà mutare, e mutare seriamente". Peraltro, dopo aver sottolineato gl i aspetti immutabili, immanenti della strategia e deJJa gran tattica, dopo aver ammesso senza alcuna riserva che sono delle scienze, contraddittoriamente (e clausewitzianamente) M. nega che la guerra possa essere ridotta ad una equazione di secondo grado, perché la scena è pur sempre occupata dall'uomo con le sue passioni. Ne consegue che non v'ha algebra che basti a risolvere il problema anche quando i dati vi son noli, ché questi dati non sono espressioni e cifre, ma uomini con sangue e nervi. E sino a quando i nervi oscillano, l'impreveduto e l'incerto passeggiano nei vostri calcoli e sovente ve li sconcertano. Regneranno meno, ma broglieranno sempre un pochino [e allora, come possono la strategia e la gran lattica, che hanno sullo sfondo l'impiego dell'uomo, essere considerate scienze compiute? - N.d.a.]. La recente guerra d' America non è una riprova che i nuovi trovati non distrnggono l'importanza de' grandi concepimenli strategici? e non è stata l' inesperienza dei capi che l' ha fatta andare cotanto per le lunghe? Non è ella terminata, appena Grant e Sherman hanno subordinate le operazioni ad un concetto strategico, ad una combinazione? Quegli ha prima vinto a cui l'inspirazione


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geniale dell' insieme si è prima presentata e che vi ha saputo subordinar tutto. L'essenza della guerra è una, i principi' sono sempre gli stessi; ma questa essenza è violata dai cattivi capitani [... ], è ritornata in luce e fatta rifulgere dai grandi, i quali attraverso i secoli si danno la mano e vorrei dire si ristorano. E si ristorano tanto più potenti e veloci hanno i mezzi con cui operare t... J. Il gran segreto di Federico fu la rapidità delle marce; il gran segreto di Napoleone fu il concentramento. Ora dovremo essere più veloci di Federico e più concentrati di Napoleonc.61

Secondo M. l'aumento della forza degli eserciti e della gittata e potenza delle armi provocherà una notevole dilatazione degli spazi del campo di battaglia, quindi "la maggiore difficoltà delle combinazioni tattiche e la più grande potenza di urto, che renderà più decisiva la battaglia, meno lunga la campagna e meno micidiale l'insieme della guerra''. Le ferrovie agevoleranno il concentramento delle forze, ma al tempo stesso lo renderanno più prevedibile, perché avverrà generalmente in corrispondenza dei nodi ferroviari. La guerra d'America - che è stata guerra di ferrovie - dimostra che esse agevolano più il difensore che l'attaccante, perchè quest'ultimo le trova interrotte da chi si ritira, mentre il difensore le conserva intatte alle sue spalle. Anche il telegrafo, largamente usato nella guerra americana, agevola il difensore più che l'attaccante: esso renderà meno facili le sorprese, agevolando il rapido concentramento delle truppe e accrescendo, insieme con le ferrovie, la mobilità operativa. Infine gli aerostati fissi a terra sempre nella guerra americana si sono dimostrati preziosi mezzi di ricognizione, risultando talvolta più efficaci dei normali mezzi terrestri. Gli eserciti più mobili e più forniti di mezzi di comunicazione conserveranno pur sempre un margine di superiorità che agevolerà la sorpresa, rendendo necessario neutralizzarla con l'aumento delle riserve. E se da un lato i nuovi mezzi fornendo notizie in numero maggiore e più sicure agevoleranno le decisioni e diminuiranno le divinazioni della strategia, dall'altro "richiederanno nel generale colpo d'occhio migliore, prontezza di concepire e manovrare più veloce, in una parola, intelligenza rapidissima, energia vigorosissima. Colui che tentenna, perde irreparabilmente". Per le stesse ragioni (e anche qui, M. si avvicina volente o nolente a Jomini) aumenterà l'importanza de] Corpo di Stato Maggiore, "il quale abbia uffiziali pochi, ma d'intelligenza superiore, di seri studi nell'arte militare,

1

ivi. mar.w 1868, pp. 337-338.


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di grande esperienza negli usi delle varie Armi, di carattere vivo, pronto, energico, risoluto e insieme calmo e prudente". La maggiore efficacia delle armi rigate impone l'abbandono di schieramenti o colonne profondi e un ricorso meno frequente ai quadrati, che tuttavia potranno ancora essere usati da una fanteria scarsa e poco agguerrita per neutralizzare le cariche di cavalleria: "l'essenza della nuova tattica sarà nelle piccole e maneggevoli colonne - manovre, le quali saranno formate da ballaglioni spiegati in colonna non di una compagnia, ma di due per.fronte", in modo da ridurre il tempo di spiegamento. In questo quadro "il bersagliere, creazione della guerra d'indipendenza americana, elemento integrante di quella della rivoluzione francese, gloria del Piemonte, il bersagliere, col suo genere di guerra ad ordini aperti, colla sua mobilità, col suo individualismo, sarà il tipo delle nostre fante rie". Il nuovo fucile rigato ormai richiede fuoco individuale e non a comando, così come fanno i bersaglieri; perciò sul campo dì battaglia devono manovrare piccoli gruppi capaci di spostarsi rapidamente, per prendere migliori posizioni di fuoco e al tempo stesso sottrarsi al tiro nemico. Come ha già fatto la fanteria prussiana nella guerra del 1866, la fanteria di linea anche senza adottare il passo celere dei bersaglieri dovrebbe essere addestrata a manovrare in ordine aperto e acquistare mobilità maggiore, alleggerendo la sua tenuta; in tal modo, essa "si trasformerà in bersaglieri ordinari, ed i bersaglieri attuali, renduti anche più leggeri, saranno gli scelti" [sono idee analoghe a quelle di Garibaldi - Cfr. Voi. Il, cap. VII - N.d.a.l, L'accresciuta mobilità e potenza dell'artiglieria rende ancor più micidiale il suo impiego a massa e consente di meglio fronteggiare i movimenti aggiranti nemici; per contro, la capacità di occupare rapidamente lontane posizioni le impone di farsi scortare dalla cavalleria e anche da drappelli di fanteria. Ma anche se si è perfezionata ed è diventata più mobile e indipendente, non conviene accrescerla oltre un certo limite. Come afferma il generale Ambert, "l'accrescimento dell'artiglieria è in ragione inversa delle qualità tattiche della truppa". Un'artiglieria troppo numerosa diminuirebbe la mobilità, requisito essenziale degli eserciti moderni: perciò "sarebbe molte volte d'impaccio nell'offensiva, dividerebbe le forze e ne turberebbe l'insieme". Riguardo alla cavalleria il M. dissente da quegli autori militari che dopo l'introduzione delle armi rigate hanno scritto che ormai quest' Arma è diventata inutile, perché troppo vulnerabile al fuoco. Concorda invece con il generale Rochcfort, secondo il quale


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la cavalleria veloce, poca, intelligente deve sostituirsi alla pesante, molta e che opera in massa; le cariche per plotoni con doppi intervalli devono adoperarsi invece di quelle per squadroni; [deve essere adottata] la disposizione per scaloni [cioè a scalare - N.d.a.] anziché quella in colonna a distanza intera o doppia; fa mestieri accrescerne la mobilità col rendere leggera la tenuta del soldato, leggero il carico dei cavalli e col curare assai la nutrizione e l' esercizio di essi. In breve dobbiamo porre in pratica quel che diceva Seydliz, il Mural di Federico Il: Due righe, piccoli squadroni, grandi intervalli. 62

Oltre a diradare anch'essa le sue formazioni e a diventare più mobile, la cavalleria deve agire in stretta cooperazione con le altre Armi e in particolare con l'artiglieria, e non caricare mai il nemico se questo non è stato prima scosso dal fuoco di artiglieria e dall 'attacco della fanteria. Occorre dare importanza maggiore alla cavalleria leggera; ma in un paese come l'Italia, il cui terreno non si presta ali' impiego di grandi masse di cavalleria, questo non basta: occorre "una cavalleria leggerissima, una cavalleria bersagliera". Con tale termine il M. non intende una cavalleria che combatta sia a piedi che a cavallo, ma "una cavalleria che per leggerezza e mobilità stesse a quella leggera come i bersaglieri scelti alla fanteria".

Fortificazione permanente e campale: applicazioni alla difesa d'Italia

L'ampia analisi degli aspetti teorici e pratici della fortificazione, che il M. compie con la solita messe di exempla historica e di riferimenti alla guerra americana, è interessante soprattutto per due aspetti: l'importanza da lui attribuita - sulla scorta dell'esperienza americana - alla fortificazione campale (che chiama "passeggera") e l'applicazione dei concetti teorici espressi alla vexata quaestio della difesa dell'Italia. Preso atto che la fortificazione, anche in relazione all'avvento delle nuove armi e dei nuovi mezzi, sta attraversando un periodo di crisi di transizione, il M. critica il generale belga Brialmont, la cui opera Etudes sur la défense des Etats et sur lafortification (1863) è da lui giudicata "un ampio magazzino ripieno di oggetti bellissimi, ma gittati lì alla rinfusa e a casaccio": a suo giudizio bisogna cercare i principi generali della fortificazione, senza sostenere alcun sistema esclusivo. Come sempre M. vuol percorrere la via di mezzo, polemizzando con Machiavelli (che ritiene inutili le fortez62

ivi, ottobre 1867, pp. 66-67.


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ze) e con coloro i quali sostengono, a torto, che Napoleone I non ha dato la dovuta importanza alla fortificazione. Al tempo stesso, non concorda con coloro che al momento, come il Brialmont, giudicano un campo trincerato ben difeso inespugnabile o comunque chiedono alle fortificazioni, sempre presidiate da uomini, ciò che esse di per sé non possono assicurare, sostenendo "l'onnipotenza del cannone e L'onnipotenza della fortificazione ". Le fortificazioni per il M. si costruiscono perché i pochi possano difendersi dai molti, per guadagnare tempo, per consentire a un buon esercito di lottare contro forze superiori, o di ripararsi e riprendersi se viene sconfitto. I cannoni rigati non rendono inutili le fortezze: solamente impongono loro (ma anche a chi le attacca) delle trasformazioni che, in fondo, sono minori di quelle rese necessarie dalla scoperta della polvere. In talune occasioni le artiglierie lisce valgono più delle rigate; e "le navi corazzate non ci facciano uscir di senno, perché nella guerra non accadono quelle cose che si suppongono dover accadere in seguito di calcoli astratti e di ragionamenti fantastici ". Queste affermazioni (del 1865) sono dimostrate dalla guerra americana, l'unica importante dopo l'introduzione delle artiglierie rigate; invece la rapida caduta delle fortezze borboniche nel 1860-1861 non dimostra nulla, se si considerano "Kli scarsi mezzi di difesa delle piazze e il morale delle truppe che le difendevano"; sono state invece le piazze a salvare l'indipendenza della Spagna contro le truppe napoleoniche. In realtà, le nuove armi e le nuove fortificazioni rendono più importanti i lavori del genio, che non casualmente, come riferisce il Bassecourl, all' Accademia americana di West Point (fin da allora, unica per tulle le Armi) è l'Arma alla quale sono assegnati gli allievi ufficiali che banno conseguito il punteggio migliore (seguono nell'ordine l'Ordnance, cioè l'Intendenza, la cavalleria, l'artiglieria e per ultima la fanteria). Secondo il M. (solita trilogia hegeliana) l'attacco e la difesa hanno storicamente attraversalo tre periodi. Nel primo l'attacco e la difesa avevano grande identità tra loro, perché tutto si riduceva all'attacco di una torre mobile contro una torre fissa; tuttavia sotto l'equilibrio vi era un germe di predominio della difesa, perché era l'offesa a prendere i suoi mezzi (la torre soprattutto) dalla difesa: questo spiega i lunghi assedi. Il primo periodo termina con il tiro a rimbalzo del Vauban, che apre la strada al predominio dell'attacco sulla difesa tipico del secondo periodo, rendendo lo stesso tiro a rimbalzo il conquistatore e il fronte ba,;tionato la vittima, con il tiro nel secondo arco che rafforza la conquista e le opere defilate e insieme scoperte che non riescono a riequilibrare le possibilità della difesa. Al momento si è entrati nel terzo periodo, che consiste nel ristabilire l'equilibrio tra attacco e difesa, tenendo però presente che esso "non consiste nel porre in equazione l'attacco e la d(fesa, di sorta che Le due


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parti combattenti abbiano a stare eternamente di fronte, l'una ad attaccare sempre e l'altra a reggere sempre; ma a trovar modo che la fortijìcazione consegua il suo scopo, che non è mica l'immortalità, ma il guadagnar il tempo necessario alla buona riuscita di una campagna". 63

Per trovare le soluzioni più idonee bisogna tener presente che le piazze, abbandonate a sé stesse, han sempre finito per cadere, atteso che nell' attacco vi sono sempre state certe proprietà intrinseche che lo rendono essenzialmente superiore alla difesa, come il poter circondare e l' avere libere le comunicazioni e presso che inesauribili i mezzi di ofrcsa. Se di ciò non ci persuaderemo, noi ridurremo davvero il problema della di fesa a quello della ricerca della pietra filosofale, e volendo trovare l'impossibile, non ci cureremo di profittare del reale [... ]. Ora, in qual modo ristabiliremo l'equilibrio possibile? Imitando l'esempio fornito dal primo periodo. Allora i mezzi di difesa erano i più potenti, e però l'attacco si acconciava con le vesti della diresa; ora i mezzi di offesa sono i più potenti, e però è mestieri che la difesa si sforzi a divenire offesa e la fortificazione a trasformarsi da passiva in attiva. Ecco l'idea generatrice del campo trincerato e di tutta la fortificazione moderna, della quale il campo trincerato è l' anima.

Omettiamo le considerazioni del M. sul campo trincerato, la cui prima ideazione è da lui attribuita al Rogniat e al Montalembert. Non si dimostra certo originale quando sottolinea che una piazza diventata nocciolo di un sistema di forti staccati (che vuole capaci anche di una difesa indipendente e pochi ma robusti) "permette all'esercito di manovrare tra di essi, protello dal cannone della piazza e da quello dei forti, e di poter ristorarsi, riordinarsi dopo una sconfitta e riprende re l'offensiva, in una parola dando agio alla truppa di non rimanere accovacciata dietro una fortezza". Più originali e interessanti le sue considerazioni sulla fortificazione campale (o "passeggera"); in merito cita anzitutto Napoleone, il quale

- senza per questo trascurare il ruolo de11a fortificazione permanente - le ha attribuito grande importanza e credeva molto al suo perfezionamento e al suo "immenso avvenire". Per M. aveva ragione, perché "lafort(ficazione passeggera è il primo, il più spontaneo modo di trincerarsi che trovi in campo una truppa assalita da forze maggiori, e p e rché si avvale della te rra che è l'elemento materiale più rinnovabile ".

63

ivi, aprile 1867, p. 56.


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È però la guerra americana che ancora una volta fornisce al M_ gli spunti maggiori e migliori per dimostrare che, con il progresso delle armi da fuoco, la fortificazione passeggera da utile e opportuna che era è diventata ormai indispensabile. Non basla colpire l'avversario; occorre evitare di "essere lentamente mietuti, di ridurre il campo di battaglia ad un mero ammazzatoio". Data la maggior gittata del fucile rigato, occorre sottrarre al fuoco nemico in battaglia soprattutto le seconde e terze linee e le riserve, che non possono rimanere in piedi e con le armi imbracciate: "da ciò segue che il fantaccino dovrà imparare a coprirsi, come l'artiglieria impara a costruirsi le batterie occasionali, sebbene non sia suo ufficio. J trinceramenti del fantaccino saranno costruiti malamente e fuori regola, ma che importa ? L ' essenziale gli è che le linee si coprano come per incantesimo. li Genio non potrebbe bastare a tutto lo sviluppo della Linea, senza prendere enormi proporzioni. ...". Il M., sempre impegnato a ricercare exempla historica, questa volta ricorda i trinceramenti austriaci al ponte di Buffa1ora e a Magenta nel 1859, che tuttavia servivano a rafforzare delle posizioni e non avevano lo scopo da lui prima indicato: ma "quando vogliamo trovare qualche tentativo di questa nuova e grande importanza della fortificazione passeggera, dobbiamo rivolgerci alla guerra d'America, la quale è l'unica sorgente che sinora abbiamo per conoscere qualche cosa di certo intorno agli effetti dei nuovi trovati sulla fortificazione, sulla tattica e sulla strategia. Ciò non sarà nel gusto di certuni, ma nelle scienze bisogna chinare il capo ai fatti...". Segue una dettagliata descrizione delle numerose fasi di quella guerra nelle quali la fortificazione passeggera ha fatto sentire la sua efficacia, dimostrando che "pari allo svolgimento de' mezzi di offesa si è elevato potente l'ostacolo della difesa". In particolare dopo la campagna del Potomac, il trinceramcnlo divenne appresso gli americani il compagno indivisibile delle loro operazioni mililari. Appena si prende posizione su di un terreno albereggiato, i soldali brandiscono la scure, rovesciano gli alberi in guisa che cadano rivolgendo le punte aJl 'inimico, e dietro a questa prima corazza naturale elevano trinceramenti e forano nel terreno buche da lupo a più non potere. I bersaglieri formicolano tra gli alberi ritti che sono nei fianchi e quelli tagliati che giacciono dinanzi; la linea di trinceramento è ad intervalli per rendere agevoli i ritorni offensivi, e dietro agli intervalli sono posti a scacchiera ridotti armati di cannone; in ultÌIJlO un'altra linea di trinceramenlo è volta ad assicurare una buona ritirata al difensore che fosse stato sloggialo dalle prime I ... J. L' opera del fortificatore, dello zappatore, del


Il - IL PENSIERO DI NICOLA MARSELLI: PRIMI SCIUITI t'IJ.OSO FICO-M ILITARI ( IR63-IR7 1)

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pontoniere, diviene colossale, e non potrebbe realizzarsi se in America ogni soldato non si piegasse a far di tutto.64

Meritano di essere riferite, per i loro riflessi sulla difesa dell'llaJia, anche Je considerazioni del M. sulla fisionomia che devono assumere le fortificazioni sul campo di battaglia, sulla fortificazione mista, sulla fortificazione nelle valli e nelle montagne e infine sulle truppe più idonee a presidiarle. A suo parere le fortificazioni e i trinceramenti sul campo di battaglia, che hanno avuto fin dall'antichità grandissima importanza, non devono essere costituite da lince continue che costano molto, richiedono molto lavoro e molle truppe per presidiarle, non consentono la difesa attiva, possono essere facilmente forzate dal nemico perchè i difensori devono presidiare tutta la linea e quindi sono deboli ovunque. Occorre invece sfruttare posizioni naturalmente forti, rafforzandole quando è necessario con opere chiuse, indipendenti e capaci di sostenersi da sé, con reattività a 360° gradi. Le lince continue non vanno però bandite del tutto, ma usate solo in casi particolari, come alture accessibili e terreni inondabili. La fortificazione mista "è l 'anello di passaggio tra La permanente e la passeggera[... ] daremo il nome di misti a quei campi i quali, astrazione fatta dalla posizione, sono per loro costruzione meno solidi dei pemianenti e più [solidi] dei passeggeri". In proposito M. indica come esempio migliore le linee di Torres Vedras, fatte costruire dal generale Wellington nella guerra d' indipendenza spagnola contro Napoleone per proteggere l'eventuale ritirata e l'imbarco delle truppe inglesi. Esse secondo il M. dimostrano che nella fortificazione ciò che detta legge è iJ terreno; pertanto la stessa quantità di forze può essere eccessiva per difendere determinate posizioni, oppure insufficiente per difendere posizioni meno estese. Gli inglesi hanno magistralmente adattato l'andamento dei lavori aJ terreno: dove era inaccessibile non hanno costruito nulla; dove era forte, ma accessibile, l' hanno potenziato; dove era debole hanno dato il massimo impulso ai lavori. A seconda del terreno, le opere erano armate con numero variabile di artiglierie e più o meno solide, aperte o chiuse sul fronte di gola, con fossi , spalti di terra, scarpe di pietra secca e magazzini di legno per viveri e munizioni; erano state previste tre linee indipendenti, ciascuna con ridotti indipendenti. Lo studio di queste soluzioni, conclude M ., "è argomento importantissimo per noi italiani che abbiamo a difendere una penisola attra ver-

64

ivi, marzo 1868, pp. 350-35 1.


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IL PENSlt:RO MILITA!Ui E NAVALE ITALI ANO - VOI.. lii ( 1870-1915) -TOMO I

sata da una perenne catena, la quale gitta contrafforti a piene mani di qua e di là, e lancia promontori nel mare"; in Italia abbondano posizioni naturali analoghe a quelle di Torres Vedras, che quindi si prestano a "formare lo scoglio della fortuna nemica e l'asilo, anzi l'astro della nostra". L'esaltazione delle fortificazioni di Torres Vedras in relazione alle nostre esigenze è dovuta anche al concetto che il M. ha delle fortificazioni nelle valli e nelle montagne (che sono, ovviamente, le più importanti e urgenti per le nostre esigenze del momento). Le sue idee in proposito sono originali e ardite. Polemizza con coloro che (come i fratelli Mezzacapo e diversi altri - Cfr. Voi. II, cap. XI) "vogliono a ogni costo piantar.forti come cavoli, e chiudere le valli con turaccioli come sifa con i fiaschi"; ma non si schiera nemmeno con coloro che giudicano le fortificazioni inutili. E così precisa la sua preveggente posizione: nonostante la mia predilezione per le opinioni armoniche, pure io non so negare che in questa questione sento un certo debole, una certa simpatia per la fortificazione passeggera a dispetto dei forti pcnnancnli. E forse non mi ho il grnn torto. Le montagne sono di per sé qualcosa di c.:osì ac.:concia a difesa che a me pare che gli agili bersaglieri [non sono ancora stati creati gli alpini - N.d.a.], gli svelti volontari, adusati a fare una guerra di alberi e di balze, dovrebbero avere agevolmente ragione dell 'avversario e potrebbero accontentarsi di coprirsi all' occasione con terra e gabbioni. Dove l'ostacolo naturale giganteggia, lì la fortificazione è mestieri naneggi [... ]. Il trinceramento nano ha un grande e intrinseco vantaggio su quello rilevante dei forti isolati a vari piani, inperrocché, esso non presenta un così evidente, vasto e sicuro bersaglio alle lontane batterie degli assalitori.65

In montagna i forti isolati devono perciò essere pochi, facilmente difendibili e costruiti solo per sbarrare le poche strade che consentono il passaggio di carreggio e artiglieria. I mezzi moderni, a cominciare dal telegrafo, rendono molto difficili attacchi di sorpresa lungo una valle, lasciando tempo al difensore, concentrato ai piedi delle montagne, di accorrere là ove è più forte la minaccia. Nel nostro caso, e tenendo conto che la capitale (al momento Firenze) è disposta a Sud dell'Appennino, per difendere questa catena "anziché pro.fondere denaro e accrescere le forze morte col seminar

forti e gittarvi dentro guarnigioni, è miglior partito l'esser avaro di muratura e prodigar terra all'occasione", in tal modo risparmiando un capitale

65

ivi. aprile 1868, p. 75.


li - IL PENS IERO DI NICOLA MARSELLJ: PRIMI SCRITTI FILOSOFICO-MILITARI ( 1863-1871 )

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improduttivo in tempi di tasse pesanti, e evitando di far oziare la truppa dentro quei forti in tempo di pace. Dovrebbero invece essere previste manovre dei vari corpi sugli Appennini, per facilitare la conoscenza del terreno .... Riguardo al tipo di forze più idoneo per presidiare le fortificazioni, M. non concorda né con "i militari in generale, che non hanno molta fiducia nella solidità e nell'utilità della guardia nazionale [nel senso generale di milizie - N.d.a.]" né con coloro (Mezzacapo, Ricci) che vorrebbero impiegarla come si fa con l'esercito regolare, in particolar modo assegnandole il compito di presidiare le fortificazioni anche di primo ordine; in questo caso, come sempre, "la cosa migliore al mondo è la misura". Le guardie nazionali o milizie hanno i loro limiti e non é opportuno impiegarle per presidiare le fortificazioni di prima linea, che richiedono truppe disciplinate e esperte quali potrebbero essere i veterani; ma esse, così come i volontari, "sono soprattutto giovevoli nelle operazioni secondarie di guerra: attaccare convogli, interrompere comunicazioni, molestare in tutti i modi e in tutti i sensi il nemico, costringerlo a dividersi e indebolirsi p er osservarli, o a riunirsi e a perdere Le comunicazioni. Le piazze in simile guerra possono servire ai volontari come asilo, come momentaneo rifugio". Di conseguenza l'esercito permanente non deve mai trascurare questo prezioso elemento ausiliario e non deve offenderne l'amor proprio e la dignità dimostrando di tenerlo in poco conto. Per il M. (come per il Balbo) in una grande guerra tutti gli apporti sono necessari: lo dimostra anche la guerra d'indipendenza spagnola, vinta grazie all'azione concorde di due componenti (l'esercito inglese e la guerriglia popolare locale) che se avessero agito isolate, non sarebbero riuscite a prevalere. In particolare nelle future guerre contro l'Austria !evidentemente queste considerazioni sono state scritte nel 1865 - N.d.a.J noi italiani possiamo e dobbiamo dimostrare di non essere da meno degli spagnoli: "queste armi irregolari e popolari potranno renderci inestimabili servigi e fare ali'esercito regolare più agevole la via. La guerra contro il quadrilatero dev 'essere complessa, e guai se la riduciamo a metodica. Non pure una grande diversione di forte corpo di volontari, ma anche l'appello alle popolazioni del Veneto getterà la confusione tra le file dell'esercito nemico e paralizzerà una parte delle sue forze ". A parte queste indicazioni - non confermate dalla realtà - per la futura guerra italiana del 1866, il M. sul piano generale prevede che "con una mano dovremo 5pingerci nella via degli eserciti a venire, e coll'altra rivolgerci al medio evo e ripigliare l'arma bianca, corazza, urto, macchina". Indica inoltre la necessità di provvedimenti di carattere organico adottati solo nel corso del secolo XX: separare (come già detto nel 1863 - Cfr. sz. I) la parte operativa dell' artiglieria da quella logistica, sottoporre le tre Armi combattenti (fan-


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teria, artiglieria, cavalleria) a un unico Comitato o Comando intensificandone la cooperazione, e soprattutto dare al livello di battaglione la fisionomia amministrativa tipica del reggimento [come è stato fatto solo nel 1975 - N.d.a.], perché si tratta dell'unità tattica di base che in guerra ha acquistato un ruolo operativo più autonomo ed è soggetta a maggiori spostamenti.

L'approfondimento del concetto di strategia e il giudizio su ./omini Con le numerose interfacce teoriche e applicative nelle quali il problema della fortificazione diventa quasi un pretesto, Il problema militare dell 'indipendenza nazionale non è e non può essere che un'opera prettamente militare, forse la più "militare" - nel senso tecnico, settoriale, ristretto del termine - tra quelle del M .. In questa sede, tuttavia, lo stesso M. tocca ma non approfondisce il concetto di strategia, né chiarisce bene quale sia il suo pensiero sulle teorie <li Jomini (e, di riflesso, su quelle di Clausewitz). Questi elementi di primaria importanza si trovano in due articoli del 1869, <la considerare strettamente collegati al Problema militare del1'indipendenza nazionale. Si tratta di Un dialogo sulla strategia - libera versione dall'inglese (che come si é detto avrebbe dovuto esserne la prefazione) e Il generale }omini (commemorazione alla Scuola Superiore <li guerra di Jomini, morto in tarda età pochi giorni prima).66 Quest'ultimo lavoro è principalmente un'analisi critica - non un panegirico - della vita di Jomini, non senza alcuni accenni significativi alle sue opere e al suo pensiero; le questioni teoriche di fondo sono affrontate dal M. nel Dialogo sulla strategia, che dunque è il più importante dei due. M. vi indica, anzitutto, quali sono a suo avviso i principi della strategia: I Operar concentrato in guisa da offrire la massa del proprio esercito alle frazioni dell' inimico; 2° Operare sulle comunicazioni dell'inimico senza esporre le proprie. O

66

Marsclli, U11 /)ialngn sulla strategia (Cii.) e ID., Il Generale Jom ini, in "Rivista Militare Italiana" Anno XIV Voi. li maggio 1869, pp. 393-437. Le numerose notizie sulla vita e sulle opere di Jomini fomite dal M. in 4uest'ullimo articolo sono state da no i utilizzate sia nel Vo i. I - cap. li del la presente opera che nd profilo dei principali scrittori militari della prima metà del secolo XIX in ··studi Storico-Militari 1995" , Roma, SME - Uf. Sto rico 1998. Da ricordare inoltre che le criliche del M. a Jomini (il quale nelle guerre napoleoniche e in particolare ne l I R13 ha cambialo bandiera) sono state contestate sulla Rcv11c Militaire Suisse dal colonnello svizzero Lecomle, al quale hanno replicato sia lo stesso M . (Italia Militare del 17 novembre I869) sia la direzione della Rivistu Militan· (I Pretesi detrai/ori di )omini, Anno XIV Voi IV novembre 1869, pp. 562-569).


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Questo principio contiene tre gradazioni, che sono: formarsi una base - tenervisi in comunicazione - tenervisi in comunicazione minacciando quelle dell'inimico; 3° Operare per linee interne. N.B. ll primo è il principio supremo e assoluto per conseguire la vittoria; il secondo è un complemento acconcio a cogliere il maggior frutto di essa; il terzo è la forma, la direzione che deve avere il movimento d' un esercito perché si rechino ad atto i primi due. Come già è avvenuto nel Problema militare dell'indipendenza nazionale, non si tratta che di una formulazione più dettagliata e articolata del principio fondamentale delle operazioni militari di Jomini (Voi. I, cap. TI). Al pari di Jomini M. crede nell' immutabilità e immanenza di questi principi e non condivide il concetto di strategia geometrica del Biilow, però senza avvicinarsi a Clausewitz, visto che lo cila - per la prima volta ed en passant - solo per precisare di "non avere acido corrosivo nelle vene" (l'acido corrosivo sarebbe, evidentemente, il pensiero di Clausewitz) e per dichiarare - sempre come Jomini e diversamente da Clausewitz - la propria fiducia nella scienza (quindi anche nella scienza della guerra), sia pur senza esagerazioni e senza iattanza. A Jomini riconosce inoltre "la gloria di aver per primo formulato in organico sistema i supremi principi dell'arte della guerra" e il merito di aver pubblicato il Traité des grandes operations militarires (nel quale già si dimostra il principio fondamentaJe delle operazioni militari) prima delle memorie di Napoleone e dell'opera sulla strategia dell' Arciduca Carlo. Insomma: M. condivide i capisaldi del pensiero di ]omini, ivi compreso naturalmente il suo metodo di estrarre dalla storia i principi e le leggi che governano rarte militare. Ciò che imputa maggiormente al teorico svizzero - riferendosi in particolar modo al voluminoso e prolisso Traité des f?randes operations militaires - è l'eccesso di analisi e l'amore per i particolari, che lo hanno portato a "uccidere con la scoria il diamante", cioè ad annegare i principi fondamentali dell'arte della guerra in un mare maf?num di elementi, di principi e riflessioni di importanza secondaria, di modo che il lettore - specialmente ma non solo se si tratta di un giovane ufficiale - "in questo labirinto di fili perde quel d 'Arianna e si disgusta da uno studio che è pure sì semplice e bello". Ne consegue che "]omini è stato per le operazioni militari ciò che i f?rammatici, gli estetici e dirò anche i pedanti [sono stati/ per la lingua e anche per le arti: egli ha dovuto adottare questo termine, scartar quel/ 'altro, definire, separare, distinguere, class(ficare, esempl(ficare, applica-


IL PENSIEKO MILITARE C NAVALE 11ALIANO - VOL III ( 1870-1915) - TOMO I

re, dichiarare, spiegare, polemizzare": ma il succo dei suoi scritti consiste nei tre principi prima indicati. E benché abbia lasciato un'eredità che gli assicura un nome glorioso nella storia, i suoi lavori risentono, sebbene non nelle proporzioni del Trattato [cioè del citato Traité ecc. - N.d.a.], delle conseguenze di un primo tentativo. Ho detto che è stato il primo grammatico di quel grande scrittore, Napoleone. Ebbene, egli porta la pena di essere stato il primo; egli eccede nel distinguere ed eccelle nell'analisi; egli ha aperto una beJJa via, ma che se non si sgombera potrebbe offrir lo sdrucciolo allo scolasticismo della guerra. Ah sì, la nostra arte è semplice nei principi, difficile, complessa nelle applicazioni concrete e pratiche: semplicità di teorie ci vuole e ricchezza di pratica. Pertanto a me pare che Jomini ci abbia Lasciato l'addentellato per un lavoro di sintesi e di semplificazione cosl nella storia come nell'arte militare, per un lavoro che non è qui il posto di cielincare.

Da Jomini M. dissente anche a proposito dell'influsso delle ferrovie sulJc operazioni strategiche, che a parere di Jomini danneggeranno chi i difende e aumenteranno l'incertezza e il rischio della manovra sul campo di battaglia. In proposito M. allega al Dialogo sulla strategia una delle ultime lettere di Jornini, trascurando però la chiusa di tale lettera, che avrebbe dovuto far pensare di più sia M., sia gli innumerevoli ammiratori (di ieri e di oggi) del genio di Napoleone (o meglio del modello di guerra offensiva, rapida e risolutiva napoleonica, fallito in ambedue le guerre mondiali del secolo). Scrive Jomini: «oggi Napoleone non sarebbe più in grado di fare ciò che ha fatto nella campagna del 1800; questo è un ben grave e impegnativo argomento da meditare per tutti i generali e gli studiosi di cose militari, che dovrebbero rivaleggiare in fatto di zelo per colmare questa forte lacuna che ormai esiste nella teoria dell'arte della guerra. Se la mia mente non si fosse così indebolita a causa dell'età e delle malattie, io avrei ritenuto mio stretto dovere riempire questo vuoto come meglio avrei potuto».

Invece per M. - così come per la rnac;sima parte degli scrittori militari fino a tutto il XX secolo - nonostante le continue disillusioni, la "grande guerra", tra eserciti regolari delle nazioni europee, con il suo modello napoleonico evocato anche da Clausewitz, rimangono costantemente sullo sfondo della riflessione strategica, rendendo ancor più necessario il rifcri-


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mento all'esperienza storica. Lo dimostra anche il traccialo di una nuova opera sull'arte militare che M. delinea con sufficiente cfùarezza, dopo aver dicfùarato che le opere migliori sull'argomento sono quelle dell'Arciduca Carlo (con "poche teoriche e due belle applicazioni a due campagne piene di utili insegnamenti") e del poco conosciuto colonnello inglese Mac Dougall,67 il quale "col positivismo anglosassone ha semplificato la teoria della guerra", fornendo "un grazioso e chiaro quadro di quegli immensi e sperticati quadroni storici revidente il riferimento a Jomini - N.d.a.] ", che sono stati tracciati in modo tale, da non poter in nessun modo essere abbracciati dal lettore. Una scelta quindi, di colore positivista, che pone ancora una volta in non cale il pensiero di Clausewitz, anche se è probabilmente ispirata dal desiderio del M. di operare indipendentemente dalle grandi correnti di pensiero dell'Europa continentale. Secondo M. bisogna studiare la strategia in relazione alla storia, alla geografia e alle campagne dei grandi capitani (ma lo fa anche Jomini, e in parte lo stesso Clausewitz): e da questa istoria scaturirà la parte suprema dell'arte militare, la quale nel fatto è incominciata dopo la storia, è nata dalla storia, sebbene sia necessario che in ordine al metodo fornisca almeno le definizioni e alcuni principì che è mestieri premettere alla storia: le definizioni, per intendersi sul significato delle parole che si usano nel narrare ed esaminare gli avvenimenti; alcuni principi che siano come la stella polare del nostro viaggio a traverso il tempo, ma che siano come una premessa posta, indimostrata e da ricevere la dimostrazione nello svolgimento dei fatti. Con questo procedimento le massime militari, i concetti scaturiscono dai fatti in ordine cronologico, ma non in ordine logico; coordinarle, raggrupparle per categoria in un sintetico quadro generale sarebbe compito dell'arte militare: ma volete che ve la dica schietta? per me nell'arte militare non vorrei che ci entrasse la strategia che o elementarmente, cioè per definire i termini, o superiormente, cioè a guisa di perno intorno al quale connetlere le peculiari branche dell'arte militare, come a dire organica, tatlica, lo-

1 • Cfr. Patric k L. Macdougall, The Theory of War illustrate</ by 11umerous examples from militury history, London 1856 (traduz. francese Co11sideratio11s 11ouvelles· sur l'Art de la guerre chez /es anglais - a cura di J. A. Mackintosh, Poitiers 1862; nessuna traduzione italiana).


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gistica, caslramentazione. Ma del rimanenle mi pare acconcio che per la strategia e anche per la grande tattica quel quadro sintetico del quale parlavo dinanzi sia fatto ex-professo al termine della storia da una mente unica, e state certo che sarebbe il più concreto trattato non pure di strategia, ma anche di grande lattica, che sono l'essenza di una storia militare e delle quali questa è l'essenza.

Il predetto ragionamento è il clou del Dialogo sulla strategia, nel quale, verso la fine, il M. inserisce un'ultima frecciata polemica diretta contro lo sti le classico, contro "la dignità storica, i periodoni sui trampoli, il far ciceroniano, il giro di circumnavigazione, l 'altisonanza, il coturno", e accenna alla possibilità che questo articolo sia "un preliminare" per un futuro lavoro. È la conferma che, al momento, già il M. sta pensando a un'opera sul1'arte militare molto più impegnativa delle precedenti, che sia la sintesi delle precedenti acquisi:lioni storico-filosofiche e strategiche e dunque tale da superare il carattere angustamente militare e strategico degli scritti di Jomini, dell'Arciduca Carlo e dello stesso Clausewitz (visto che quest'ultimo pur evidenziando l'i nflusso della politica sulla guerra finisce con il dedicare le sue riflessioni in gran parte alla sola guerra).

Il rapporto storia-cultura generale e storia-cultura militare Può essere definita un altro lavoro preliminare anche la prolusione del M. al corso di storia generale da lui tenuto per la prima volta nel 1868 alla Scuola di Guerra di Torino, istituita l'anno precedente. 68 In tale occasione dà la preferenza a elementi storico-filosofici; ma proprio per questo ne emerge con una chiarezza e un' originalità ancor maggiore che nelle opere prima esaminate, un nuovo modo di fare storia militare e insieme la persistente mancanza di un 'opera che faccia ben emergere il legame di tale storia con la storia generale della civiltà. Sono subito da notare due fatti nuovi che non hanno avuto seguito, forse dovuti solo alla forte personalità e al prestigio dello stesso M.: l'introduzione di un corso di storia generale nei programmi del massimo istituto italiano di formazione militare e la dotta prolusione al corso tenuta non da un cattedratico ma da un insegnante militare (definito "professore " ) e poi pubblicata (non

"' Marselli, fllwmo al corso di storia ,:enerale irrauguratn alla Scuola Superiore di Guerra il 11emwiu l8f\X - prelezione), Torino. Cassone 1868.

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IL PENSIERO OI NICOLA MARSELLI: PRIMI SCRITII RLOSOACO-MILITARI ( 1863~1871)

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se ne conoscono altre). Per altro verso, anche qui il M . non fa che ti.rare le fila dalle idee storico-filosofiche espresse nelle opere prima esaminate (Cfr. sz. I), sottolineandone le ricadute storico-militari con argomentazioni che ancora una volta anestano il mai avvenuto distacco da Hegel e Vico. Perché un corso di storia generale della civiltà in un istituto militare? Tn breve, per ricondurre a un unico comun denominatore le tante materie specialistiche che si studiano alla Scuola di Guerra, visto che tra la civiltà e la guerra (e quindi anche la milizia) esiste un legame indissolubile che rende l'esercito "un istrumento militante della civiltà". Infatti le lotte sono la vita e il progresso dell'umanità, mentre "le idee della civiltà scintil-

lano sulla punta delle spade e delle baionette". Hegel - ricorda M. - ha paragonato la guerra "ai venti, alle tempeste che impediscono alle acque del mare di putrefarsi". Così come il naturalista sa che, se cessassero le burrasche, cesserebbero i benefici effetti della vitalità delle acque e sarebbe turbata l'economia generale del Cosmo,

"parimenti lo storico deve intendere come la sparizione della guerra sarebbe cagione e insieme effetto dell'esaurimento della vitalità, del rilassamento della fibra umana e simili[... }. La cessazione della guerra esprime la stagnazione della civiltà". Questa non è la teoria della spada o una soldatesca giustificazione della forza, ma è "un 'applicazione del principio di Vico, che il vero converte nel fatto, e del principio di tutta la scienza moderna, che il razionale si converte nel reale". Perciò si deve proclamare non solo la ragione della forza, ma anche la forza del diritto; non solo il diritto che si nasconde sotto la forza, ma anche la forza che deriva dal diritto: "felice quel popolo che rappresenta la ragio-

ne, quell'esercito che incarna la civiltà: o tosto o tardi la vittoria coronerà la sua costanza, i suoi ;)forzi, e li coronerà tanto più presto quanto più sapranno all'ardire sposare la moderazione". In futuro la guerra "cangerà di forme, si farà più rada, più breve, più razionale, più umana", ma non sparirà e l' esercito rimarrà strumento della civiltà; questa è un'altra ragione che rende necessaria anche per i militari la conoscenza della storia della civiltà. Le suddette affermazioni sono, come sempre, corredate da numerosi exempla historica; inoltre il M. coglie l'occasione per chiarire bene il concetto di storia militare e il suo rapporto con la storia generale, che naturalmente deriva dallo stretto legame tra civiltà e guerra. Non si potrebbe ben comprendere la storia militare - egli afferma - se non la si inserisce nella storia generale, "la quale è il fondo del quadro su cui si disegnano, si spiccano, si muovono gli eserciti, è il terreno civile sul quale operano le grandi individualità militari". Jomini ha detto che la guerra è un dramma pieno di passione; "a spiegarselo dunque non basta La strategia geometrica,


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IL PENSIERO MILl'l'ARF. E NAVALE ITALIANO - VOI - lii (1870 1915)- TOMO I

ma ci vuole quella morale, anche quella politica, che non si apprendono certo nella pura storia militare"; ne deriva che le cause della vittoria e della sconfitta sono complesse, e non sono mai puramente militari. Dalla lettura delle memorie di Federico II si apprende, ad esempio, che le cause dell'incerta condotta della guerra da parte dei suoi nemici e dello scarso coordinamento delle operazioni dei loro eserciti vanno ricercate "nel segreto dei Gabinetti e nelle ragioni della politica", che dunque in questo caso hanno facilitato le vittorie del Re di Prussia anche quando sembrava che slesse per essere schiacciato. Nelle campagne del 1912 e 1913 Napoleone ha commesso gravi errori, che però vanno ricondotti nella sfera della politica e non in quella della strategia; ed è ben noto che a vittorie militari possono corrispondere sconfitte politiche, e viceversa. Solo nella storia "extra-militare", quindi, si possono trovare le cause lontane di molti eventi militari; purtroppo, manca una storia dell'arte militare messa in relazione con quella della civiltà. La ragione di questa lacuna - che per il momento il M . non vuol e non può colmare, non essendo questo il compito a lui assegnato - sta in quel certo ristretto escl usivismo che ha predominalo negli studi militari, i quali sino a un'epoca non remota sono stati volli a formare l'educazione del soldato senza che punto all'uomo si pensasse, quasi che nei tempi che volgono si possa essere buon generale senza essere in pari tempo uomo politico, e in lutti i tempi il soldato abbia dovuto scordarsi di essere uomo. La cultura militare ha risentito di questa imperfezione, mentre d'altra parte la cultura letteraria e storica peccava per difetto di particolari cognizioni militari. Pertanto l'uomo di guerra non ha saputo e non ha neanche provato il desiderio di scoprire i nessi tra la Storia militare e quella generale, e gli storici generalizzatori non hanno potuto colmare questo vuoto.

Per neutralizzare in anticipo prevedibili obiezioni, il M. precisa che chiedersi quale sia l'utilità pratica della storia della civiltà equivale a chiedersi quale sia l'utilità pratica della storia militare, dell'arte mililare, della geografia militare e così via. Per pratica - egli chiarisce - non si intende solo la capacità di scrivere una lettera militare in forma chiara e precisa, la conoscenza dei regolamenti, l'esperienza maturata attraverso le esercitazioni: all'ufficiale di Stato Maggiore è richiesto molto di più. Deve studiare e maturare insieme con il Capo il pensiero direttivo per poi trasmetterlo alle unità dipendenti, è colui insomma che prepara la vittoria e aiuta a conseguirla; per elevarsi a tanta altezza deve studiare la storia, come hanno fatto Cesare, Federico Il e Napoleone.


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Ma quale storia bisogna studiare? con quale metodica bisogna meditare sugli eventi passati? Conoscere i fatti non basta; bisogna saperne ricavare dei principi', delle idee; se si studiano i soli fatti senza una severa analisi del contesto nel quale si verificano, la storia diventa maestra di errori. li M. prende anzitutto atto che al momento esistono due tendenze contrapposte e ugualmente da respingere, "o quella della storia muta o quella della storia utopistica, o quella dei fallisti o quella dei così detti ideologi". Mentre quest'ultimi traggono dalla storia idee astratte e utopiche, i primi in omaggio a un positivismo cieco vorrebbero "mummificare i fatti". Premesso che le vere idee sono quelle concrete, mentre le astratte delle quali Napoleone aveva orrore - non sono che il vuoto, M. afferma che la scienza della storia (nel suo significato già indicato - vds. sz. I - di ricerca di leggi, principi e idee che la storia dimostrerebbe) è la fonte alla quale attinge anche la storia della civiltà, così indicando il legame di tale storia - per così dire di base - con la storia e l'arte militare: per ora mi rimarrò a dire che la civiltà è per me non questo o quello, ma l' armonia di tutti i raggi che emanano dall'attività umana, e che le accennate forme istoriche si collegano così: la scienza filosofica corrisponde ai principi generali dell'arte militare; la scienza della storia corrisponde a quella parte di applicazione storica che quei principi lumeggia e dimostra, ma senza uscire ancora dal campo dell'arte militare; la storia scientifica [corrisponde] alla storia militare tutta, [che èl da quei principi ordinata e spiegata ossia scientificamente fatta, e la storia narrativa [corrisponde) alla congerie di quei particolari fatti militari che fornirono materia a quelle branche [cioè è l'attuale histoire-bataille o evenementielle, compilata basandosi soprattutto sugli archivi - N.d.a.]".

A questo punto il M. indirizza le sue frecciate polemiche sia ai "fattisti", sia agli storici "narrativi", condannando anzitutto le tre diverse metodiche dei "fattisti ": - la "storia a larghi tratti, ad aggruppamenti", che si traduce in un mero riassunto, il quale trascura elementi essenziali per comprendere appieno il significato degli avvenimenti, distorcendo così la realtà. Meglio, perciò, l'esposizione particolareggiata dei fatti; - la scuola storica che oltre ad aggruppare i fatti, intende individuarne i legami e le origini, traducendosi così in giudizi troppo soggettivi che finiscono con l'uscire dal campo della storia empirica, cioè basata sull'esperienza;


IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO. VOI.. lii ( 1870-191 5). TOMO I

- la narrazione dei fatti in modo che di per sé ne scaturiscano i pri nei pi, tipica di chi "vuol far passare la mercanzia del suo pensiero sotto la bandiera dei fatti maliziosamente cuciti e coloriti". Metodo che può essere un atto di furbizia oppure "una forma speciale di sto-

ria anch 'essa ideale, ossia di fatti che sono passati attraverso il filtro delle idee e che secondo queste sono stati accozzati". Anche la storia narrativa va respinta, perché - come e ancor più la storia che aggruppa i fatti - tende a scambiare i fatti interni, le cause profonde di certi avvenimenti con eventi contingenti e occasionali dovuti a fattori esterni: ad esempio, una storia narrativa descrivendo le cause della guerra del I 866 metterà in evidenza la questione dei ducati ma lascerà in ombra "il dualismo annoso delle parti avverse e l'apparizione del principio del 'unità

germanica ".

La corretta metodica storica per il M. consiste nel contemperare falli e idee; ma non si tratta di "aspergere di volgari r(fiessioni e spruzzar di vuote dedamazioni il materiale storico", bensì di pervenire "a una.fusio-

ne completa, la quale si opera mediante il metodo razionale, ossia mediante il metodo che di sotto alla successione dei fatti lascia scorgere la loro ragione, la loro necessità, mediante il metodo che nel flusso degli avvenimenti fa brillare contemporaneamente la luce dei principi, quasi a guisa di polverìo che si sollevi da una cascata d'acqua ". Poiché l' approccio ottimale da lui suggerito a sua volta si presta a interpretazioni e teorizzazioni soggettive, i] M. cerca di respingere subilo le possibili obiezioni garantendo piuttosto banalmente di "spogliarsi

delle sue passioni quando varca la soglia del tempio sacro al Destino impassibile ". E chiarisce che g li riesce facile evitare interpretazioni soggettive grazie alla dottrina filosofico-storica della quale (ma sempre con scelta soggettiva!) si dichiara seguace, da lui riassunta in una proposizione che caratterizza il suo corso di storia: "Ciò che è razionale divien

tosto o tardi reale, e quel che esiste ha sempre la sua profonda ragion d'esse re ". Pertanto guidato da tanta stella io mi sento tetragono alle seduzioni del sentimento e forte della coscienza di non poter smarrire il vero. E di fatti, se i grandi avvenimenti storici hanno in fondo la loro ragion d'essere, se lo svolgimento storico obbedisce nelle sue fonne rilevanti ad una legge e pertanto ad una necessità, il compito dello storico pensatore non sarà quello di condannar questa forma, questa individualità all'inferno, e quella fonna, quella individualità levare al ciclo, ma per contrario a rispettar tullo, a classificar tullo, a spiegar cli tullo l' intima razionalità.


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Affermazioni hegeliane e tuttavia opinabili: si può legittimamente chiedere allo storico di non deformare i fatti in relazione alle sue idee, ma non di tutto giustificare in base alla superiore razionalità hegeliana; né può essere accettato il determinismo storico del M., nel quale - per di più - vincono sempre i migliori, coloro che lo meritano, prima di tutto dal punto di vista di un opinabile concetto di «progresso», e perdono sempre i peggiori: la storia è tutt'altro che un percorso rettilineo, un'evoluzione governala da leggi costanti, né si può sempre dire che chi vince, per ciò stesso si batte per una causa giusta. Rimane, tuttavia, condivisibile il rifiuto di una storia militare unicamente dominata dal tecnicismo, che non guarda al contesto politico-sociale generale e dunque trascura di trarre tutte le conseguenze dall'indiscutibile dipendenza delJa guerra e strategia dalla politica. Ugualmente apprezzabile è la polemica di M. contro i "fallisti", cioè contro I' histoire bataille o evenementielle, contro la storia pseudopositivista che si esaurisce nel culto del fatto e deU'archivio, e dunque - come l'archivio - finisce con il trascurare determinati fatti a vantaggio di altri, fornendo una versione più o meno deformata degli avvenimenti. L'archivio non è mai la verità assoluta, il riferimento perfetto ...

SEZIONE m

- Le fondamentali riflessioni sulla guerra franco-prussiana (1870-1871)

Il periodo dal 1870 al 1875, nel quale il M. continua ad insegnare alla Scuola di Guerra, è il più fecondo e di gran lunga il più importante. Vi vedono la luce le tre sue opere militari maggiori: - Gli avvenimenti del 1870- Studio politico e militare69 (commento alla prima fase della guerra franco-prussiana iniziata il 15 luglio 1870, che esamina gli avvenimenti fino alla caduta della fortezza di Sedan il 2 settembre, con qualche accenno anche a quelli successivi, visto che è ultimato il I O dicembre 1870); - Gli avvenimenti del 1870/1871 - Studio politico e militare70 (commento finale alla guerra in due volumi, dei quali il primo non è che l'opera precedente); "' Marselli. Gli avvenimenti del Jl/70 · Studio politico e militare, Roma - Torino - E. Loescher 1871. 70 Marselli, Gli avvenimenti del /870-1871 - Studio politico e militare, Roma, Torino -Firenze, E. l.ocscher (Libro I e Libro Il). Stranamente questi due notevoli scritti sulla guerra 1870-1871 non sono recensiti dalla Rivista Militare de l tempo, che pure dedica largo spazio a opere e studi stranieri e italiani sulla guerra franco-pmssiana. Solo il "Bollettino Bibliografico" del numero di agosto 1871 c ita, lra le altre opere, Gli avvenimenti del 1870-1871.


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- La guerra e La sua storia (in tre volumi). 7 1

Gli scritti sulla guerra franco-prussiana, che ora esamineremo, hanno tre caratteristiche fondamentali. Non sono una semplice analisi degli eventi con considerazioni e ammaestramenti puramente tecnico-militari, ma, come lascia capire il titolo stesso, diventano quasi un pretesto per una serie di riflessioni storico-filosofiche e politiche di ampio respiro, con precisi riferimenti anche alla situazione italiana. In secondo luogo sono una delle tante dimostrazioni della tendenza di ciascun autore a trarre dagli eventi storici la conferma delle proprie idee antecedenti, più che a cogliere l'occasione per formarsene di nuove e diverse. Last not least, con queste caratteristiche le riflessioni e acquisizioni del M. gli fanno dire, nella Scienza della storia, che "il mio lavoro sugli Avvenimenti del 1870-1871 è il primo in cui io sia io", frase che non ha bisogno di commenti.

Gli avvenimenti del 1870 - Studio politico e militare ( 1l57U)

Si tratta di una riflessione a caldo sugli ammaestramenti della guerra (e sui loro riflessi anche per l'Italia) mentre essa è ancora in corso, dando già per scontata la vittoria prussiana. Sono 149 pagine di piccolo formato, scritte in gran parte nell'ottobre 1870 (cioè dopo la caduta di Sedan - 2 settembre - e la proclamazione della Repubblica francese che continua la guerra), completate nel dicembre 1870 e pubblicate nel gennaio 1871. La chiave di questo breve scritto si trova in un articolo pubblicato dal M. all'inizio del 1870 sulla Rivista Militare con il titolo emblematico La guerra e la sua storia 72, che può dirsi anche una succosa introduzione, un'anticipazione dell' opera organica pubblicala con lo stesso titolo cinque anni più tardi. Di tale articolo lo stesso M. cita nelle prime pagine degli Avvenimenti queste parole: quando una nuova civiltà sorge, ella sorge gravida di lotta, imperrocché il popolo che le dà vita è rigoglioso, e l'idea prodotta è piena d'avvenire. Affermarsi prima ed espandersi poi, ecco i naturali stimolanti di questa giovane potenza ricca di generoso sangue rosso. E chi le fornisce il modo? Una civiltà più vecchia, determinata, in una nazione che ha te-

71

Cfr. Marselli, La ituerra e la sua storia (cit.). Marselli, LL, ituerra e la sua storia, in " Rivista Militare Italiana" Anno XV - Voi. rT giugno 1870, pp. 335-381. 72


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nuto lo scettro, materiale e morale del mondo ad essa cognito, che fiuta in questa nuova potenza un avversario, che la g uarda da prima in cagnesco, che diventa poi il quartier generale dei fuorusciti di quella, che infine si chiede come fa l' altra: a chi spetterà il dominio del mondo? E ne nasce guerra, la quale per la giovane civiltà sarà dapprima difensiva e d' indipendenza; poi, trascinata da11a difensiva a11' offensiva, diverrà di conquista e di dilatazione; e sempre di sopra alle contingenti vicissitudini della g uerra, definitivo sarà il trionfo della giovane e robusta civiltà sulla vecchia e già cadente_

Nella fattispecie, la "giovane e robusta civiltà" è quella gennanica, mentre la civiltà "vecchia e già cadente " è quella francese; l'intero lavoro si riassume nella dimostrazione di questo asserto, il quale a sua volta non è che un riflesso particolare della vecchia idea del M_ che - lungi dal contrapporsi - guerra e civiltà camminano di pari passo e obbediscono alle stesse leggi, di modo che nei conflitti vince sempre il popolo migliore, vince chi lo merita, perché possiede la forza necessaria per far avanzare la civiltà verso nuovi traguardi. In questo senso, per il M. lo scontro tra le due civiltà era inevitabile e necessario, quindi non può essere atlribuito a responsabilità dei singoli e sarebbe ozioso dare la colpa alla Francia o alla Germania. Egli ammette senz'altro che le istituzioni prussiane sono ancora semifeudali, mentre quelle francesi sono più democratiche e figlie della rivoluzione del 1789; riconosce anche che nell'esercito francese "non v'ha soldato che non possa diventar Maresciallo", mentre in quello prussiano "è ben raro che poggi ai sommi gradi colui che non ha il cognome preceduto da un Von "; inoltre "la Francia rappresenta nella storia moderna il gran conduttore delle nuove idee, le quali per diventar universali hanno avuto mestieri di diventar prima francesi". Al momento, però, nonostante i suoi meriti storici "la civiltà francese è divenuta una vernice di civiltà, e i princip'ì dell'89 sono rimasti allo stato teorico". La letteratura e le produzioni intellettuali in genere sono espressione della vita di un popolo e manifestazione del rigoglio della sua civiltà; ebbene, sotto questo aspetto la letteratura francese "da sovrana è divenuta ancella", la cultura francese si è impoverita e "in questo generale impoverimento La letteratura militare è quella che più si è dimostrata coperta di cenci" lgiudizio non condivisibile N_d.a_)_ 73 In difetto di libri

73

Marselli, Gli avvenimenti del 1870 (Cit.), p. 12.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALI; ITALIANO- VOL. 111 ( 1870- 1915 • TOMO I

seri, la Francia "ha inondato L'Europa con una projluvie di romanzi corruttori", specchio di una nazione che "è divenuta un cadavere imbalsamato", nella quale prevalgono, anche per colpa di Napoleone IIJ, "corruzione nelle amministrazioni, venalità nelle relazioni sociali, negligenza negli affari, cecità nel trarre partito dalle lezioni dell'esperienza e per soprassello confidenza illimitata nelle proprie forze". Perciò la Francia "è la sola nazione al mondo che ci dia lo spettacolo di repubblicani papisti, di democratici protezionisti e accentratori, di atei cattolici e di liberali avversi alla costituzione delle nazionalità". Per contro la Prussia, pur essendo stato un ermafrodito territoriale e pur essendo ancora "un ermafrodito politico e sociale", da cittadella del protestantismo tedesco di fatto è diventata campione dei principì di libertà morale e di indipendenza nazionale, mettendo la caserma al servizio della civiltà e convincendo tutti i tedeschi che il solo modo di togliere dal tronco prussiano le fronde feudali era di far sì che la Prussia diventasse Germania: la Prussia, è vero, è ancora obesa per istituzioni feudali e per eccesso di militarismo. Ma guardatela da un altro punto e voi scorgerete che un nuovo soffio muove dallo spirito democratico che si elabora nelle scuole primarie, sboccia nelle università e s'insinua nell'esercito mediante l'obbligo generale al servizio militare e l'attiva cooperazione, nell'ora del pericolo, di tutti i cittadini validi. È un soffi.o che deve inesorabilmente produrre il suo effetto e decidere l'ermafrodito politico e sociale. Tutti i Tedeschi intelligenti sanno che il Giano prussiano ha in sè gli elementi per trasformarsi in Giove germanico. Ora parliamoci schietto e confessiamo pure che la sostanza dei principii dell'89 vive più in pace con una Nazione che alimenta le Università, ove regna da sovrana la libertà della scienza, anzi che con una che ha fatto la sentinella al Papa; che l'essenza della Civiltà trovasi più in armonia con un popolo sobrio che vede l' istruzione diffusa in tutte le sue classi, anzi che con uno che ha permesso la schiavitù del pensiero e la distruzione della libertà d'insegnamento; che il progresso dei tempi moderni è penetrato meglio in un esercito che crea per il nobile l'obbligo della istruzione, anzi che in quello che statuisce pel contadino il diritto a diventar generale. Datemi Moltke, Roon etc. ed io perdono loro i von, datemi Bismark ed io gli fo grazia di esser conte. E che vorreste che io chiamassi più civile un democratico asino, che un aristocratico studioso, laborioso e che si fa ammazzare pel suo paese? La Civiltà si trova ove regnano la libertà del pensiero, la diffusione dell'istruzione, la sobrietà nei costumi, la


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moralità nelle amministrazioni, la fede in un principio ideale, la disciplina nell' esercito, e in lutti il sentimento del dovere, in tutti quel medesimo rispetto ai diritti dell'autorità che questa deve avere per i diritti del popolo. 74

Gli clementi feudali e il predominio militare in Germania sono destinati con il tempo a venir meno, dando sempre più posto agli elementi della civiltà moderna: ma intanto hanno consentito alla Prussia di adempiere alla sua missione storica, dimostrando che la potenza militare è un indispensabile strumento per la grandezza degli Stati, e che "ci vogliono Stati organizzati per avere eserciti compatti". E qui il M. coglie l'occasione della caduta di Napoleone III per rimarcare gli aspetti positivi e negativi dei governi assoluti e liberi e delle forme militari corrispondenti. I governi assoluti si basano su una suprema unità non soggella ad oscillazioni e controlli, quindi sono più adatti alle fasi storiche transitorie, nelle quali "o debbasi costituire una nazione con la.forza o debbasi conquistare altra nazione o in generale guerreggiare". Così la Repubblica francese per aver ragione della coalizione che la voleva soffocare, ha dovuto affidarsi a Napoleone, mentre la Prussia ha avuto bisogno di Bismark: ma passando da uno stato transitorio a uno permanente, l'assolutismo "uccide la nazione che aveva contribuito a creare, alla Legge sostituendo l'arbitrio, allo sviluppo particolarista l'idrocefalite dell'accentramento, alla dignità umana il servilismo plebeo". Al contrario, le repubbliche democratiche sono basate sul principio - che è anche il più duraturo - del potere soggetto al controllo dei cittadini e della legge affidata al sentimento del dovere, che è anche il vero interesse individuale; ma l'alta coscienza della dignità umana e il sentimento della libertà individuale possono degenerare in un eccessivo individualismo, che genera debolezza, egoismo, disordine e apre la porta alla demagogia. In particolare, nell'età moderna le democrazie tendono più al predominio della scienza che a quello del!' arte spontanea; più all'industria che al militarismo[... ] più a difendersi che a offendere. li sapere si è diffuso a scapito dell'aristocratica con-

centrazione di esso; l' uguaglianza livellatrice abbassa la signoria delle grandi individualità; l'amore alla vita particolare, cantonale, federale è più forte di quello alla vita generale dei grandi corpi nazionali [...]. È la forma delle nazioni mature, costituite e che intendono solo a conserva-

74

ivi, pp. 17-18.


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re e difendersi sul proprio suolo, ma non più che tanto_ E per difendersi strenuamente e ordinatamente è pure mestieri che le abitudini democratiche si rassegnino a tacere quando si tratta di operare.75

La forma militare tipica del governo assoluto è l'esercito a lunga ferma, mantenuto separato dal resto del paese e impiegato anche contro i concittadini. Quella della democrazia è la nazione armata; ma la costituzione militare deve tener conto anche della situazione geografica. Una democrazia insulare e marinara [come gli Stati Uniti e l'Inghilterra - N.d.a.l o una democrazia disarmata circondata da altre disarmate, "può dare sfogo alle sue antipatie belligere"; invece una democrazia appartenente al continente europeo è costretta ad adottare forti ordinamenti militari, a meno che non voglia essere esposta alle intolleranze altrui. Se la democrazia americana fosse collocata al centro dell' Europa, adotterebbe ordinamenti militari che tengano conto di quelli delle altre grandi potenze. Più in generale, "quando le nazionalità saranno costituite, e uscendo dal loru ri.<,tretto egoismo avranno aperta la via all'idea della solidarietà umana, quando lo spirito industriale e scientifico avrà compiuta la conquista del/' Europa intera, allora il predominio dei sentimenti antimilitari non sarà pericoloso, anzi sarà la salvaguardia della civiltà; ma è innegabile che nell 'attuale condizione dell'Europa il trionfo di quei sentimenti in uno Stato singolo potrebbe essere la rovina di questo Stato, massime se ha una nazionalità da costituire o una da difendere contro le pretensioni e usurpazioni altrui ". 76 Così stando le cose, la monarchia costituzionale è la forma mista che più concilia i due opposti sistemi di governo ed è in certo senso ermafrodita, perché quando in essa predomina il sesso democratico è più acconcia a stati costituiti e difensivi, e quando [predomina] il sesso monarchico [è] più acconcia a organizzare quelle offese che sono necessarie per costituirsi. È il caso della Prussia. E la forma militare rispondente a quella politica è la mista prussiana, è l'esercito nazionale e difensivo, ma che può anche per tempo non lungo lanciarsi in guerre offensive, a patto che il paese voglia sorreggere codesta guerra.

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1 •

ivi, p. 26. ivi, p. 27.


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A questo punto il M. ammonisce (a ragione) che le forme prima da lui indicate "di per sé sono un zero", perché le caratteristiche di una forma politica o militare acquistano valore solo "mediante lo spirito che vi cola dentro"_ In un determinato Stato o in un determinato momento ogni forma politica ha fatto valere le sue chances e ha raggiunto i suoi fini, mentre la medesima forma in un altro Stato e in un altro momento non è riuscita: "un popolo è forte quando ha fede profonda in una Idea; e quando questa idea è quella che risponde a un dato momento storico, questo popolo, guidato

dalle grandi individualità che la sua attività crea, giunge all'apogeo della potenza e reca nelle sue mani o il dominio materiale del mondo o l'egemonia morale", anche a prescindere dalla forma di governo. Se la monarchia prussiana al momento si è dimostrata più forte della repubblica francese, ciò avviene semplicemente perché l'attuale civiltà prussiana è più forte della civiltà francese. Il panegirico della civiltà prussiana è prevedibilmente accompagnato dal panegirico dell'esercito prussiano vittorioso sul campo e da forti critiche a quello francese (tra le righe, si capisce che l'esercito italiano ha parecchi difetti in comune con quest'ultimo). In particolare la Prussia, nonostante alcune viete tradizioni che [peraltro] spazzerà il soffio liberale e germanico, ha risolto meglio di ogni altra potenza il problema di metter su un esercito numeroso, istruito, disciplinato, nazionale ed economico, relativamente al numero di uomini che può levare in armi nell'ora dell'azione. È la vera nazione armata e organizzata_ Quest'esercito, avendo il paese dietro di sé, non poteva non portare nelle sue file la vittoria! 77

La superiori Là mili Lare prussiana è dovuta a una serie di fattori ben descritti dal M ., mettendo tuttavia bene in chiaro che l'organizzazione militare prussiana - come tutte quelle che fanno leva sulla nazione armata - ha due caratteristiche di fondo, che al momento sono pregi ma possono anche diventare difetti letali: a) il consenso popolare e l' attiva cooperazione di tutta la nazione, senza i quali l' intero edificio crollerebbe; b) l'attitudine a combattere solo guerre brevi, nazionali e poco frequenti. In caso di guerre lunghe e frequenti si ritornerebbe al Medio Evo (quando tutti erano armati e non esisteva il principio della

TI

ivi. p. 55.


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divisione del lavoro) e la nazione non sopporterebbe a lungo I' abbandono delle occupazioni che l'alimentano; d'altro canto, se le guerre non fossero nazionali "l'immensa macchina si sfascerebbe nelle mani di colui che l'adopera"_ Considerazioni - noi osserviamo - che valgono anche per il XX secolo (basti pensare alle vere ragioni del crollo degli Imperi Centrali nel 1914-1918), e che mettono bene in luce, in poche parole, pregi e limiti della nazione armata, a torto presentata dall 'antimilitarismo (fino ai nostri giorni) come una sorta di ricetta universale_ Nel confronto tra l'esercito prussiano e quello francese emerge che sia la direzione che l'organizzazione prussiana sono superiori: ma per il M_ ciò che vale è la leadership, perché il meccanismo senza l'ingegno capace di unificarlo e vivificarlo è cosa morta. D'altro canto, mentre l'incapacità dimostrata dai generali francesi è un segno delle condizioni generali del loro esercito, l'abilità di quelli prussiani è un fenomeno prodotto dall 'eccellenza del sistema prussiano nel suo complesso: non mi si vorrà negare che la causa precipua di questo renomeno è l'istruzione: il pensiero è la più solida forza delle nazioni cd è la forza della Germania. Il quartiere e la routine elevati a potenza, ecco la debolezza dell'esercito francese. Quella conoscenza del proprio mcsliere, così sparsa in tutti i gradi della gerarchia prussiana, fa sì che basli il dare ordini razionali perché tutto segua con precisione. Un esercito siffatlo non ha bisogno di essere comandato da un Napoleone per produrre opere egregie: esso stesso mediante l'indefesso studio crea il suo Mollke e lorse riparerà facilmente alla perdita di un uomo cotanto stimabile; mentre un Esercito tal quale era il francese non poteva lottare vantaggiosamente contro un nemico tale quale era quello che gli stava di fronte, se non a condizione di essere guidato da Napoleone I. L'abile direzione esce dalle file tedesche per un fatto ordinario, mentre da quelle francesi poteva uscire o in seguito alla inattesa comparsa di un ingegno straordinario (cosa dinicile in tempi officiali) o per la inferiorità relativa all'inimico, più inabile di Napoleone III, nel 1959.78

Da un punto di vista strettamente tecnico-militare il M. si sofferma particolarmente sui due aspetti, che sono anche i più importanti: la formazione e l'istruzione dei Quadri e le modalità per il reclutamento, per l'istruzione in

78

ivi, pp. 56-57.


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tempo di pace e la mobilitazione. TI sistema francese, all'apparenza più democratico e quindi in teoria tale da aprire le porte solo al merito, in realtà consente a coloro che, per così dire, vengono dalla gavetta (cioè dai sottufficiali) di raggiungere al massimo i1 grado di capitano. In tal modo i Quadri risultano rigidamente suddivisi in due categorie, che tra di loro non si vedono di buon occhio: gli ufficiali provenienti dalle scuole, destinati a raggiungere gli alti gradi e quindi con una carriera più rapida, e i troupiers con carriera limitata; per di più il privilegio del rimpiazzo (pagamento di una cospicua somma per essere sostituiti da altri nel servizio militare, solo in teoria obbligatorio per tutti) fa sì che le classi più colte siano assenti dall'esercito. In definitiva "da cosiffatte istituzioni seguiva che le truppe perdevano i buoni sottufficiali [che diventavano ufficiali - N.d.a.] e la classe degli ufficiali non acquistava buoni ujjìciali, perdeva ogni omogeneità di cultura e di educazione, scapitava nel suo valore e nel rispetto cui aveva diritto". Nulla di simile avviene in Prussia, dove non esiste l'istituto del rimpiazzo e lutti sentono come un orgoglio e un alto dovere il servizio militare. Anche se il grado di ufficiale è riservato ai nobili e alla "classe colta e civile ", si diventa ufficiali solo dopo aver dimostrato di averne la capacità, cioè "dopo essere stato o cadetto o soldato, e attraversando la via della cultura e del servizio militare". In particolare "gli ufficiali sono fomiti in parte dal corpo dei cadetti (il quale dà il 42%) e in parte dai giovani di cosiddetta civile condizione, i quali entrati nell'esercito come soldati, nel corso di circa un anno e mezzo possono essere dal re nominati ufficiali, dopo aver dato un esame ed essere stati eletti dalla classe degli ufficiali". Da notare anche che gli ufficiali di Stato Maggiore non provengono da una particolare scuola di Stato Maggiore, perché la Prussia non l'ha, né soltanto dall'Accademia di Guerra (corrispondente alla nostra Scuola Superiore di Guerra), perché questa è, come va diventando la nostra, non una scuola per lo Stato Maggiore, ma un' alta scuola che provvede all'elevata cultura dell'Esercito. La scelta degli ufficiali di Stato Maggiore dipende dal Capo del corpo di Stato Maggiore, e non presenta difficoltà dato l'elevato grado di cultura della massa degli ufficiali. 79

La cultura, la preparazione professionale dei Quadri sono un altro fattore di superiorità dell'esercito prussiano: mentre (come affermano gli stessi scrittori militari francesi) nell'esercito francese prima del 1870 si

79

ivi, p. 48.


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perveniva agli alti gradi "malgrado lo studio e il sapere, e non a causa di essi", erano trascurati gli studi geografici e dominavano il conservatorismo e la vanità nazionale, gli ufficiali prussiani ponevano ogni cura nel migliorare le loro conoscenze professionali e nel conoscere a fondo i teatri della futura guerra e il futuro nemico. Senza contare che "mentre la Prussia, dopo le vittorie del 1866, riparava ai difetti della sua artiglieria e dava il maggior segno di forza e serietà che una nazione possa dare, di non ubriacarsi cioè delle vittorie, che cosa facevasi di grande dall'artiglieria francese? Les mietrailleuses, profondo segno di decadenza (sic)".

In tal modo la Prussia può contare su una istruita classe di ufficiali e su una solida classe di sottufficiali, perni degli eserciti. Quest'ultimi, avendo la carriera di ufficiali preclusa, si accontentano della posizione che hanno acquistato grazie alla loro cultura e "frenano le loro ambiziose manìe", anche perché dopo 12 anni di servizio (dei quali 9 nel grado di sottufficiale) hanno diritto a un impiego civile. TI M ., pur dando atto ai nobili prussiani di giustificare il loro orgoglio lasciando molto spesso le loro ossa sui campi di battaglia, non sempre condivide le soluzioni prima descritte, che giudica a volte antidemocratiche, tali da aprire la strada all'arbitrio e destinate ad essere superate. Trova ad esempio giusto che il sottufficiale come avviene nell'esercito austriaco - possa diventare ufficiale, sia pure dopo un difficilissimo esame che ne accerti il grado di cultura: è giusto che questa porta sia aperta, e che abbia la più larga applicazio-

ne il solo privilegio degno dei tempi moderni: il privilegio dell ' istruzione che è il più aJto diritto dell'uomo e come tale non è un privilegio. Eleviamo pure il livello della classe degli ufficiali, ma conserviamo intatto il principio francese che ogni soldato può divcnlare maresciallo. Certo non vorremmo muover guerra al nobile solo perché è nobile, ma non vorremmo neanche escludere il borghese e l'operaio solo perché tali. 80

Dal punto di vista ordinativo, secondo il M. l'esercito francese "conservò assai più del prussiano quel carattere di permanente, che è conseguenza di tempi da governo dispotici, personali, accentratori". ln pratica nell'esercito francese l'obbligo generale al servizio militare, "valido mezzo per rendere civile l'esercito e militare il paese", è sempre rimasto solo sulla carta; in Prussia invece è stato tradotto in pratica nel modo migliore, cioè conciliando le esigenze militari con quelle sociali e di bilan-

80

ivi, p. 49.


li - IL PF.NSIEHO Ul NIC'OLA MARSELLI: PRIMI SCRllTI FILOSOi;JCO-MILITARI (1863- 187 1)

cio. La legge francese sul reclutamento del febbraio 1868 stabiliva una ferma di 5 anni, dopo i quali il soldato entrava nella riserva dell'esercito stanziale e vi rimaneva per 4 anni. La legge prussiana del 1814 fissava una ferma di 3 anni più 2 nella riserva, ma raramente i soldati rimanevano sotto le armi per 3 anni interi; sicchè nel 1850, già prevedendo le future guerre, la permanenza nella riserva fu portata a 4 anni, si stabilì che i 3 anni di ferma diventassero effettivi, e soprattutto si creò la landwehr, dove il soldato passava al termine dei 4 anni nella riserva dell'esercito stanziale e dove rimaneva per altri 5 anni, con due periodi di richiamo alle armi che non superavano le 8 settimane. La landwehr era una vera riserva dell'esercito stanziale composta da vecchi ed esperti soldati, e tale si è dimostrata nelle campagne del 1866 e 1870. Nulla di tutto questo nel campo francese; già con la legge di reclutamento del 1832, poi abrogata da quella - citata - del 1868, nell 'esercito francese era prevista una riserva, ma era praticamente inutile, perché composta in gran parte di giovani non addestrati e non abituati alla disciplina. L'esperienza della guerra del 1859 ha indotto la Francia a rimediare a questo inconveniente prevedendo un esercito permanente di 400.000 uomini, più una riserva di 200.000; inoltre dopo la guerra del 1866, con la legge I 0 febbraio 1868 è stata aggiunta ali' esercito stanziale e alla riserva una guardia nazionale mobile con il compito di presidiare le fortezze, difendere i confini e le coste, mantenere l'ordine interno. Tutti questi provvedimenti non hanno però raggiunto lo scopo di sfruttare bene le potenzialità del Paese, per avere alle spalle dell'esercito di prima linea una riserva prontamente impiegabile e sufficientemente addestrata. La guardia nazionale mobile rimaneva un elemento senza solidità e non addestrato, mentre solo una parte della riserva dell'esercito stanziale (diversamente da quella prussiana, interamente addestrata) era istruita e quindi impiegabile. Considerando pienamente applicata la legge del 1868 (ciò che non era ancora avvenuto nel 1870), la Francia sulla carta avrebbe dovuto disporre di 776.000 uomini mobilitati, più 400-500.000 guardie nazionali: ma con le varie detrazioni (enti territoriali, depositi, Algeria) la predetta cifra scendeva a 580.000 uomini al più per una guerra difensiva, che in una guerra offensiva si sarebbero ben presto ridotti con le prime perdite a circa 300.000, per di più senza disporre di una riserva addestrata come la landwehr: di conseguenza, le forze prussiane e germaniche all'inizio della guerra erano numericamente superiori. Lo squilibrio è stato aggravato dal sistema di mobilitazione francese, che essendo lcome queJlo italiano anche nel XX secolo - N.d.a.] a livello nazionale prevedeva l'afflusso ai depositi dei reggimenti di richiamati provenienti da tutto il territorio del Paese, sì che anche quando le operazioni


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erano già iniziate, i richiamati dei reggimenti normalmente di stanza in Algeria, che però già combattevano al confine, affluivano ... in Algeria. Per contro il sistema di reclutamento e mobilitazione prussiano era regionale e più economico: ciascun corpo d'armata si completava solo con richiamati della rispettiva circoscrizione, in tal modo facilitando il passaggio daJ piede di pace al piede di guerra e la solidità delle formazioni, dovuta anche alla maggiore coesione. Le operazioni, alle quali il M. dedica solo 18 pagine su 149, non sono che il risultato di questi squilibri, a cominciare dalla cattiva e disordinata mobilitazione francese. Della condolta della guerra da parte francese critica soprattutto il disseminamento iniziale delle forze e l'eccessiva quanto nociva pubblicità data ai movimenti dell'esercito, mentre da parte prussiana il segreto viene tutelato molto meglio; ad ogni modo, secondo il M. la prima fase delle operazioni dimostra la validità del principio fondamentale (e diremmo noi, jominiano) del concentramento delle forze nel punto decisivo, che l'esercito prussiano ha applicato non sempre ma nei limiti del possibile, meglio di quello francese e senza "porre tra le parti e negli ostacoli e quelle distanze che vi.frappose nel 1866". Di conseguenza la condotta di questa campagna da parte prussiana è stata strategicamente più corretta di quella del 1866: "allora /i prussiani] furono salvati dai gravissimi errori dell'inimico, questa volta solo un ingegno straordinario poteva far loro pagare il vizio della separazione, quasi sempre pericolosa ma in alcuni casi inevitabile". Le grandi masse moderne impediscono i concentramenti di una volta; perciò i principi astratti vanno applicati in base alla concreta situazione, e tenendo presente che le operazioni di un esercito devono essere giudicate in relazione a quelle dell'avversario. Per il resto, la strategia e la tattica prussiana secondo il M. non hanno avuto niente di nuovo, di particolarmente geniale, di imprevisto: "ftvnteg giare ed avvolgere, ecco il pensierv dominante. E per non andare a tentoni ma sicuri, non perdere mai il contatto con una numerosa e vigile cavalleria". L'arte della guerra dei prussiani ha raggiunto invece l'eccellenza "nell'esecuzione, nei movimenti logistici, nella tattica, nei servizi amministrativi e simili". Sotto questo aspetto, le due ultime campagne forniscono una serie di insegnamenti pratici da imitare. Nel campo tattico esse hanno smentito parecchie false idee sulle trasformazioni dell'arte militare in relazione al progresso delle armi da fuoco. Non è vero che la tattica dell'urto è superata, e che basta il fuoco a distanza: per conquistare una posizione occorre sempre che l'attaccante vi posi sopra il suo piede in sostituzione di quello del difensore: "le nuove armi vogliono soltanto maggiore uso del combattere aperto, maggiore studio nel trarre partito dagli accidenti del terreno, maggiore po-


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lenza di artiglieria, maggiore spirito di risorsa nella manovra". Anche la fortificazione ha dimostrato la sua utilità: senza le fortificazioni di Parigi la campagna sarebbe finita il giorno stesso della capitolazione di Metz e senza "l'inqualificabile difesa " e la capitolazione di quest'ultimo campo trinceralo, la campagna avrebbe potuto ancora volgere al peggio per i prussiani. L'esame della guerra, e in particolar modo delle cause vicine e soprattutto lontane della sconfitta francese, è solo la prima parte dello scritto: la seconda parte è dedicala dal M. alle "conseguenze della guerra attuale soprattutto riguardo ali'Italia ", con ampie e franche finestre anche sulla situazione politica, non usuali in un'opera militare. Ci si aspetterebbe un più minuto e particolareggiato esame degli ammaestramenti tecnico-militari che il nostro esercito dovrebbe trarre dalla guerra, ma non è proprio così: anche se questi ammaestramenti ci sono e sono spesso importanti, occupano uno spazio limitato. La parte maggiore è dedicata dal M. alla ricerca di elementi di risposta a un semplice ma pregnante interrogativo di carattere geopolitico: dopo la guerra del 1870-71 che ha reso possibile fare di Roma la capitale del nuovo Stato italiano, all'Italia conviene un 'alleanza con la Prussia oppure con la Francia? e quale deve essere la politica da seguire nei riguardi del Vaticano? Fino alla guerra il M. si è dimostrato piuttosto antifrancese e filo-tedesco, cercando i suoi riferimenti culturali privilegiati non in Francia (come usavano molti intellettuali e militari italiani del tempo) ma in Germania, e in via subordinata in Inghilterra; e si è già visto che nonostante l'avvicinamento al positivismo, non ha cessato del tutto di essere hegeUano. La sua ammirazione per lo spirito e la cultura tedeschi, per gli ideali che animano l'intera società tedesca e non solo l'esercito prussiano, ben poco ha, del resto, di positivista, di materialista, se vogliamo di "inglese"; è fatta di sentimenti, ancor prima che di calcoI i. Siccome anche nel caso del M. lo spirito prevale sulla materia, non può sorprendere più di tanto se già con questo scritto e ben dodici anni prima della firma della Triplice Alleanza (1882) sostiene in modo non ambiguo la necessità di un'alleanza con la Prussia e di un riavvicinamento al secolare nemico austriaco, pienamente meritando di essere definito nel 1901 da uno dei suoi maggiori biografi, il colonnello commissario Carlo Osvaldo Pagani, "il primo apostolo della Triplice Alleanza" ...111

81 Carlo Osvaldo Pagani, Il primo Apostolo della Triplice Alleanza (Nicola Marselli), Roma, Stab. Tip. della "Tribuna" 1901 (Eslratto da "Rivista Politica e Letteraria" dicembre 1900 - marzo 190 1).


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IL PENSIERO MILITA RE E NAVALE ITALIANO · VOLc..!!!..1!!!70-191 5) . TOMO! _ __

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Grazie alla guerra ormai per M. vittoriosa, l'egemonia germanica ha sostituito quella francese in Europa: "è un pericolo? è un vantaggio? Non manca il pericolo e vi è il vantaggio". A suo parere si stanno scontrando in Germania due forze, il conservatorismo e il militarismo prussiani - che peraltro sono diventati forti solo grazie al Paese e alla sua cultura - e le correnti più democratiche e liberali. Sono due forze che non possono coesistere ma dovranno lottare; ad ogni modo il M. si dichiara convinto che da questa lotta uscirà sconfitto il feudalesimo e si affermerà "una Germania che ha lo scettro della civiltà moderna, non una Germania che rinne,?a le sue forze vitali e che vorrebbe ricondurre l 'Europa un secolo indietro [. ..]. Una Nazione, che darà all'Europa Lo esempio della contemperanzafra la libertà dell'individuo e l'autorità della legge.fra lo sviluppo della libertà della scienza e la dignità della vita, fra l'unità del centro e la vitalità delle membra, fra la forza militare e i diritti dell 'ag ricottura, dell 'industria, del benessere". Con l'affermazione di questi principi, la Gennania toglierà l'egemonia morale dell 'Europa "ad un centro mai sempre mobile ed abbastanza infetto, sebbene a volta a volta vivo ed eroico, per essere tenuto da gente seria" (evide nte l'al1usione alla Francia). Benchè la guerra sia ancora in corso, M. si preoccupa anche del futuro assetto europeo, che dovrà garantire stabilità e pace senza suscitare nei francesi un nocivo spirito di revanche. Ammette che una Gennania polente, bene armata e ben guidata rappresenta un pericolo per l'Europa: ma non bisogna esagerare i pericoli, né provocare odi con la gelosia. Dal canto suo la Germania farebbe un grave errore se avanzasse eccessive pretese nei riguardi della Francia sconfitta, presentandosi all'Europa come una minaccia, come l'incarnazione della forza prepotente. Ci si può aspettare che chieda il pagamento de11a spese di guerra; è giusto che si annetta 1' Alsazia, ma non la Lorena con Metz, perché "panni esorbitante la pretesa di spingersi sino alla Mosella, occupando Metz. Il Reno è fiume tedesco, e i monti, non i fiumi costituiscono i migliori confini tra gli Stati, onde i Vosgi sono da considerare come la vera e razionalefrontierafra la Francia e la Germania ". Anche se al momento (fine 1870) è assai dubbio che i vantaggi dell'acquisto dell'Alsazia superino i danni, essa è una protezione per la Germania del Sud e le assicura il possesso de11'a1to Reno, che nel1a mani della Francia sarebbe un possibile sbocco offensivo. Diverso - sempre secondo i] M. - è il caso de11a Lorena, che è " una nazionalità sostanzialmente trasformata ", ma anche una garanzia non necessaria per la Germania. I grandi campo trincerati collocati nei pressi del1a frontiera - come è quello di Metz - sono una debolezza, perché rappresentano un invito per l'esercito a ritirarsi in una posizione, dalla quale fin dall'inizio esso può essere se-


li LL PENSIERO rn NICOLA MARSELLJ: PRIMI SCRITII l'ILOSOFJCO-MI UTAJU (1863-1871)

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parato (come è avvenuto per l'esercito francese) dal resto del Paese: perciò Metz "sarebbe un dono così fatale alla Germania come è stato alla Francia e come potrebbe diventare per noi Verona". La questione dell'Alsazia e Lorena, regioni da sempre contese tra Germania e Francia, fornisce a M. l'occasione di manifestare il suo punto di vista anche sul problema delle nazionalità, con riferimenti espliciti alla situazione italiana e ai rapporti tra Italia e Austria. A suo avviso è difficile delìnire la nazionalità e determinare ove finisce il diritto e comincia la for7.,a neUa costituzione di essa, ove finisce il principio di nazionalità e subentra quello di conquista. Vi ha chi pone la lingua a base della nazionalità, chi la geografia, chi la storia, c hi la libera e spontanea volontà e chi la forza e la ragione della maggioranza sulla minoranza. Il fallo in sé è complesso, ed è la sintesi di tutti in un determinato momento storico e appresso una determinata nazione. L' Italia ha risolto folicemente i] problema della sua costituzione; ma ciò non pertanto i plebisciti seguirono sempre alle cannonate; il che è indizio che un tantin vi si mescola eziandio la forza. Io penso che se Roma non avesse voluto venire a noi, noi avevano il diritto di prendercela, come avremmo il diritto di prenderci anche suo malgrado il Tirolo italiano, se l'Austria ci attaccasse prepotentemente e fosse da noi sconfina [... ] Una particella avulsa dal corpo nazionale non ha il diritto di conservarsi separata, quando codesto membro è necessario alla vita totale. Una nazione liberamente può e non può costituirsi in unjco Stato, ma una volta che a ciò si è risoluta, ha il diritto di compiersi togliendo allo straniero quelle parti che ad essa hanno comune la lingua, la geografia, gran parte della storia, che le furono tolte con la forza e che sono una porta aperta a nuove invasioni.82

In definitiva per il M. la costituzione di una nuova, grande Germania al centro dell 'Europa dovrebbe svolgere una duplice funzione geopolitica: arrestare le velleità d'espansione della Francia ad Ovest e della Russia ad Est. Bismarck è uno strumento passeggero: la sua audacia piò destare timori, ma la sua saggezza induce a ben sperare. La sconfitta della Francia deve essere una lezione per tutti: se la Germania volesse imitare i metodi di Napoleone, finirebbe col cadere come è caduto Napoleone, e (si noti la profezia, avveratasi nel 1945) "nell'Europa sorgendo ove me-

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Marselli, Gli Avve11ime11ti del 1870 (Cit.), pp. 90-91.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE rrAUANO -VOI.. m ( 1870- 1915) ~-T=O M~ O ~l- -- -

no si aspetta un nuovo centro vitale, noi dopo aver visto nel secolo XIX per tre volte aperta la via di Parigi, potremmo veder di nuovo dischiusa quella di Berlino". Il giudizio del M. sugli specifici riflessi del nuovo quadro internazionale nei riguardi della politica estera e di sicurezza italiana è influenzato da vicende personali. Dal febbraio al settembre 1870 (la moglie, Guglielmina Walter, è austriaca) egli si trova a Vienna (sembra) per ragioni familiari e di là assiste all'evolversi della situazione internazionale a causa della crescente tensione tra Francia e Prussia e alle prime, decisive fasi della guerra, fino alla resa di Sedan. Si dichiara recisamente contrario a una possibile alleanza dell'Italia con Francia e Austria in funzione antiprussiana e preme fin da allora per l'occupazione di Roma, dichiarandosi certo della vittoria prussiana. È in relazione con Marco Minghetti, capo della destra storica, che ha legato il suo nome alla "Convenzione di settembre " con la Francia sulla questione romana, e che sarà Presidente del Consiglio dal 1873 al 1876. Quel che più importa, durante la permanenza a Vienna allaccia cordiali relazioni con ufficiali e politici austriaci, cercando (peraltro senza alcun successo) di convincerli a decidere unilateralmente una rettifica del confine con l' Italia, in modo da rimuovere almeno in parte i problemi che ostacolano le buone relazioni tra i due Paesi; non cessa comunque di ritenere possibile l'acquisto del Trentino in seguito all' "inorientamento " dell'Austria (come già Guglielmo Pepe - Cfr. Voi. I, cap. XIII). Ne consegue un atteggiamento benevolo e fin troppo fiducioso anche verso l'Austria. Nessuna indulgenza o comprensione, invece, nei riguardi della Francia, della quale M. ricorda essenzialmente tre fatti: il costante tentativo, iniziato da Napoleone ill, di sostituire semplicemente l'influenza austriaca con quella francese in Italia, pretendendo di stabilire sul nuovo Stato una sorta di protettorato; l'altrettanto costante tentativo di impedire l' occupazione di Roma da parte italiana, con iI celebre jamais; gli insulti e le minacce (anche di influenti esponenti della nuova Repubblica francese nata dopo Sedan) all'Italia, perché essa non avrebbe aiutato la Francia ricambiando l'appoggio ricevuto nel 1859 e avrebbe ardito occupare Roma approfittando della sconfitta francese. In particolare il M. dimostra un'accentuata sfiducia nei riguardi del futuro atteggiamento della Francia, con il sospetto che la nuova Repubblica, irritata con l'Italia, "accarezzi il pensiero di gettarsi su di noi, per rea-

lizzarsi innanzi al mondo (certo non al mondo civile) con un successo eh'ella reputa facilissimo. E non mi rassicura la forma di governo: la Francia repubblicana deliberò la spedizione di Roma al 1849, e non fu La Francia repubblicana [ma Napoleone Ili] che scese in campo nel 1959 a


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fianco del Piemonte. Il socialista Proudhon, il repubblicano LLlmartine, l'orlealista Thiers, il bonapartista Rouher si accordavano in un medesimo sentimento: avversione all'ltalia". 83 Per quanto riguarda le future relazioni con l'Austria invece il M., accontentandosi di qualche buona parola di esponenti dell 'establishment politico-militare austriaco, traccia un quadro idil1iaco, ingiustificato, infondato e smentito - a medio e lungo termine - dagli avvenimenti. Un quadro che induce a definirlo non apostolo, ma partigiano della Triplice Alleanza: nell'Austria per contrario sono affatto sopiti, sinceramente distrutti i vecchi rancori contro di noi. Ho avuto occasione di assicurarmene personalmente [nella permanenza a Vienna (sic) alla quale si è accennato N.d.a.]. E dirò di più: spira di là un sottio simpatico verso l'Italia [ma da parte di chi? - N.d.a.] . Nota è la cortesia austriaca, ma per noi è più che cortesia, è l'affetto che succede ai lunghi odii. Pel governo austriaco, pel paese l'Italia è un fatto compiuto che bisogna rispettare; per l'esercito austriaco il soldato italiano è argomento di stima. Premuta l'Austria tra due giganti Ila Prussia e la Russia - N.d.a.], ella guarda con compiacenza alla possibilità di un'alleanza con l'Italia, nel caso che nuovi pericoli la minacciassero. E forse il prezzo è apparecchiato [non lo era affatto! - N.d.a. I. Noi contraccambiamo gli austriaci con sentimenti di simpatia e stima [a che cosa sarebbero dovuti? per l'Austria, il M. non lo dice - N.d.a.], e non vediamo ragione alcuna per non vivere in pace con l'Austria. L'indispensabile rettificazione dei nostri confini è una questione la cui soluzione, le buone relazioni apparecchiano, il tempo matura e basta un modo pacifico a risolvere! 84

Viene subito da chiedersi perché M. vuol presentare - nel caso del]' Austria - un possibiJe matrimonio d'interesse come matrimonio d'amore e che cosa - e eh.i - lo autorizza a ritenere che gli annosi sentimenti ostili degli austriaci e dei loro governi nei riguardi dell' unità italiana (e spesso anche degli italiani verso l'Austria) siano improvvisamente scomparsi, per trasformarsi altrettanto improvvisamente nei sentimenti opposti. Ad ogni modo egli è lungi dal provare per lo Stato e l'esercito austriaci gli stessi sentimenti che nutre per lo Stato e l'esercito prussiani: giudica anzi I' Au-

83 84

ivi, pp. 99-100. ivi, pp. 100- 101.


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stria "un bastone che si spezza nelle mani di colui che vi si appoggia", perché è sempre più minata, all'interno, dal contrasto tra nazionalità, che esercita (e qui ha torto) "un'influenza dissolvente" anche sull'esercito. Per questo ritiene che un'alleanza dell'Italia con l'Austria e la Francia nel 1870 contro la Prussia, sarebbe stata un grande errore, quale che fosse l'esito del conflitto: "vinta la Francia, noi vinti e umiliati da rimorsi; vincitrice, noi vittima di un arrogante dispotismo". Nel 1870 sia gli interessi sia i sentimenti dell'Italia la spingevano verso la Germania, che anch'essa seguendo il suo esempio si andava costituendo come nazione. Anche prima della guerra del 1870, neanche a prezzo di aver Roma dalla Francia e il Trentino dall' Austria, io avrei dato il mio voto ad una tale politica [di alleanza con la Francia e l'Austria - N.d.a.]. E i miei amici possono far testimonio se io ragioni così dopo i fatti compiuti. Ho sempre detto che l'azione dell ' Austria sarebbe stata neutralizzata da quella della Russia, e che il nostro intervento non avrebbe mutato l'esito della lotta tra la Francia e la Germania. Allo scoppiar della guerra noi non eravamo preparati, anzi eravamo disarmatissimi, e nel seguito ci saremmo trovati avvolti nelle vicende di una guerra senza uscita, mentre il fatto ci ha dimostrato che noi potevamo avere Roma, che era l'essenziale, senza gittarci in così intricate peripezic. 85

La conclusione è che con la sua antica lotta al potere spirituale e temporale del Vaticano e alla Francia, la Germania ha già dato un aiuto diretto e indiretto all'Italia, mentre invece all'Ovest noi abbiamo "un'ombra mobile/ la Francia - N.d.a.J a cui non si può stringersi in alleanza, e la vedo errare piuttosto minacciosa sulle cime delle Alpi". L'Italia ha ai suoi contini la Francia e l'Austria, ma non le conviene legare i suoi destini a nessuna delle due. La fratellanza latina, le affinità culturali e storiche non contano: quel che vale sono gli interessi che separano le due nazioni. L'Italia deve guardare la nascita della Germania come una garanzia contro l'invadenza francese, come "una indeclinabile necessità dei tempi e un progresso della civiltà". Per noi una politica di avvicinamento alla Germania è "un dovere "; perciò il M. ammette di aver gioito alla notizia delle vittorie prussiane. La Francia non ha ancora dato prova che si possa fare affidamento su di essa; per contro la Germania non ha ancora dimostrato che non si pos-

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ivi, p.

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sa prestarle fiducia. I nuovi rapporti tra Germania e Italia si fondano su una base duratura, e torneranno vantaggiosi ad entrambe le nazioni. La Germania ha ai suoi confini una Francia "irreconciliabile" che aspira a unarivincita, un' Austria "tremante e celante rancori profondi", una Russia sospettosa; mentre eventuali patti con questi Stati non potranno che riposare sull'equivoco, perché con essi ha dei conti aperti da regolare, essa "non può disprezzare l'amicizia di una nazione [come l'Italia - N.d.a.J che non ha alcuna causa presente d'inimicizia verso la nuova potenza". L'obiezione dei filo-francesi, secondo i quali l' Italia confinerebbe con un Impero che occupa Trento e Trieste e quindi correrebbe pericolo, per il M. non vale: quel che importa, per il momento, è che la Germania ha indebolito una nazione da sempre ostile all'Italia. In quanto al Tirolo, "potremmo averlo avuto di già, quando questo mostro si accosterà a noi. E se non l'avessimo ancora, sarebbe più probabile ottenerlo da una Germania amica, anzi che da una alla quale facessimo sempre il viso dell 'armi"; comunque se, per avere il Tirolo, ci alleassimo con l'Austria contro la Germania, ottenemmo solo il risultato di farci schiacciare. Trieste in mano alla Germania secondo il M. non sarebbe una gran calamità, anzi sarebbe un altro vantaggio per l' Italia. Dal punto di vista commerciale va respinto il principio francese del protezionismo, quindi la concorrenza che Trieste tedesca farebbe ai porti italiani sarebbe un beneficio generale, tanto più che con l'acquisto di Trieste "noi avremo solo un porto di più ove poche navi languiscono inoperose". Anche dal punto di vista militare e navale "la concorrenza di una nazione poco marittima dovrà [forse] ~paventare una Italia tutta coste, nazione marittima per eccellenza, una Italia che abbia la forza di essere quel che dice di voler diventare, cioè grande potenza, Inghilterra del mezzo dì'! Se sì, è segno che siamo un tal popolo degenere che non l 'altrui potenza, ma la nostra debolezza uccide ". Infine, tenendo conto che l'Inghilterra è lontana e tende sempre più a rinchiudersi in sé stessa, solo un' alleanza con la Germania può impedire che il Mediterraneo diventi un lago francese, e che la flotta francese possa fare scempio delle nostre coste: appunto perché penso che la Francia, sbarrata aJla sua frontiera dell'Est, proverà il bisogno di padroneggiare al Sud-Esl e sul mare, io non vedo come un pericolo, ma [vedoJ come una fora il poter conlare su una flotta appartenente alla nazione che ha per missione di frenare la possanza francese (come dice il Principe Federico Carlo), alla nazione che nel Mediterraneo avrà tanto bisogno del nostro concorso, come e forse più che noi del suo. Questa mi pare una condizione di equilibrio maril-


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timo, che a noi importa più del continentale. Infine, io invece di raccomandarmi a Santa Barbara mi porrò sotto il patronato di Santa Batteria corazzata [cioè, mi affiderò alle fortificazioni costiere - N.d.a.]. 86

Come dinnanzi accennato, il M. dedica un capitolo persino alla questione - rimasta aperta dopo 1' occupazione di Roma - dei rapporti tra Stato e Chiesa. Basti qui dire che da pensatore profondamente laico, egli si dimostra altrettanto profondamente anticlericale, citando anche MachiaveJli per ricordare che il Vaticano ha sempre ostacolato l'unità italiana e non ha certo contribuito a eliminare i tradizionali mali dell'Italia e i difetti degli italiani. Perciò respinge recisamente qualunque privilegio ecclesiastico che leda i principi di un libero Stato, accetta i temperamenti che valgano ad assicurare decoro, dignità e indipendenza spirituale al Papato, e auspica una netta e radicale separazione tra Chiesa e Stato: "abolite ogni maniera di placet, lasciate pure a tutti la libertà d 'insegnare, non temete la libera concorrenza che l'errore e le tenebre fanno al vero e alla luce, ma in pari tempo cancellate l'articolo I dello Statuto e sottoponete tutti alla legge. Non restrizioni ma neanche privilegi, non eccezioni ma legge e libertà". Last not least, pur dedicando gran parte della sua attenzione ai grandi problemi geopolitici c gcostrategici sollevati dalla guerra 1870-1871, il M. riesce a sintetizzare molto bene, in poche pagine, gli ammaestramenti che l'esercito italiano dovrebbe trame. Dopo aver tanto criticato la condotta francese delle operazioni, riconosce che il valore dimostrato dagli ufficiali francesi è encomiabile, e che anche dopo Sedan e Metz l 'esercito e il popolo francesi hanno dato prova di perseveranza, energia, patriottismo. E augurando all' Italia di rimanere lontana dall'assolutismo che ha gettato la Francia ai piedi dello straniero, auspica che il nostro popolo e il nostro esercito in futuro dimostrino, nell'ora del pericolo, ]e stesse virtù dei francesi. Il suo è solo un auspicio, non una speranza o una certezza. Ritiene infatti che l'Jtalia non sia affatto matura per una seria vita politica ma sia ancora arretrata, non abbia ancora preso coscienza deJla gravità della nostra situazione, ed esclama: dopo aver detto alla sventurata Francia sì dure verità, abbiamo pure la forza di dire a noi stessi: quanti e quanti difetti che rimproveriamo alla

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ivi, p. I06.


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Francia sono difetti nostri, e come potremmo un tristo giorno sentirci incapaci della vigoria della sua eroica resistenza? Noi siamo risorti come Nazione di prim'ordine: ma lo siamo per numero o per potenza? Sovente chiediamo a noi stessi se siamo una giovane Nazione che riprende il moto o una vecchia a cui furono gettate due stampeIJe. E veggendo tanta confusione amministrativa, tanta assenza di dignità in faccia allo straniero, tanta sterile passione politica, tanto predomini di questioni personaJi, così poco amore a severi studi, così grande fiacchezza nel trasformarsi, noi non sogliamo fare altro che stemperarci in vani lamenti contro un governo che noi stessi produciamo e alimentiamo. 1n noi, in noi stessi è il vizio e su di noi deve applicarsi il rimedio. in mezzo a tante cause di scoramento balena ancora un certo fuoco italiano vergine e vigoroso. Soffiamovi dentro e dilatiamolo da noi stessi, senza aspettare l'aiuto dei governi che sogliono piuttosto seguire che precedere la coscienza pubblica. 87

Nel campo più propriamente tecnico-militare, non bisogna esagerare il valore dei modelli militari come di quelli politici: non è il sistema militare germanico che ha vinto quello francese, è la civiltà germanica che ha vinto quella francese, mentre anche il sistema militare germanico era armonia con la condizioni generali del paese; perciò "non crediate che si sarà fatto tutto col votare buone leggi. Non avremo fatto nulla. È mestieri fare la più grande delle nostre riforme: è mestieri educare ed illuminare la pianta uomo: è mestieri rialzare il morale dell'esercito, temprare la disciplina, e depurare il suo personale. l'Esercito italiano è così ricco di belli elementi che ha in sé la facoltà di ringiovanirsi". 88 A questo punto il M. accenna ai troppi progetti di riordinamento dell'esercito che circolano, e a un nuovo progetto dello stesso Ministero della guerra che la Carnera dovrà approvare (si tratta evidentemente del progetto del generale Ricotti, diventato Ministro appunto nel 1870). A suo avviso bisogna trarre profitto dagli ammaestramenti della guerra appli cando il sistema prussiano, però cum grano salis e tenendo conto delle nostre esigenze e dell'indole degli italiani: "e soprattutto guardiamo alla sostanza e non alle forme secondarie, guardiamo all'istruzione, al sentimento del dovere, e non a certe rigide costumanze prussiane contro le quali si ribella il nostro carattere e che altro non riescono che a spegne-

" ivi. p. I 4R. "" ivi, p. 145.


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IL PENSIERO MTI.TTARE E NAVALE ITALIANO - VOL. lii (1870- 19 15) TOMO I

re la nostra ingenua vivacità e la nostra rigogliosa libertà di fare. Non tutti i popoli danno i medesimi effetti con gli stessi mezzi... ". 89 Che cosa si debba fare, che cosa si debba curare maggiormente già lo si desume dagli Avvenimenti del 1870, e molto probabilmente le osservazioni del M. hanno ispirato il generale Ricotti nel suo programma di riforme. 11 M. nota anzitutto che, sul piano generale, "né noi né i francesi intendiamo il valore della divisione del lavoro. Un ufficiale deve far di tutto, e basta un qualunque generale intelligente a darci un Capo di Stato Maggiore generale o un intendente generale". Le sue critiche si appuntano in particolar modo sul sistema di mobilitazione francese, analogo a quello italiano. Accennando alla mancanza di riserve istruite da parte francese, ricorda senza perifrasi che nelle stesse condizioni si trova "la nostra vana 2a categoria", cioè quella parte di una classe di leva che per ragioni di economia di bilancio al momento non compie i] servizio militare, e non viene quindi istruita. E afferma che all'inizio della campagna del 1870 i francesi "andarono accrescendo le loro forze con quella confusione che è tipica del loro sistema (e del nostro)". Eppure la nostra mobilitazione del 1866 era stata organizzata dal generale Agostino Ricci , comandante in 2" della Sc uola di Guerra ove M. era professore ... TI M. propone pertanto l'abolizione pura e semplice della nostra 2a categoria e l'adozione del sistema prussiano, facendo compiere a tutti i componenti di una classe il servizio di leva della durata di 3 anni, dopo di che il soldato passerebbe nella riserva per 4 anni e poi per 5 anni nella Landwehr. In tal modo tutte le parti dell'esercito, compresa la riserva, sarebbero istruite. Tenuto però conto che mancano i fondi per far compiere il servizio di leva a tutti i componenti di una classe, bisogna scendere a compromessi: sarà migliore quel sistema che, accettando per amara necessità la divisione di ciascuna classe in due categorie, tenuto conto che la seconda [la quale in tal modo, per necessità di cose, non sarebbe di fatto abolita - N.d.a.] sia quanto si può maggiormente ristretta, e che riducendo di alcuni mesi i 3 anni di permanenza sotto le armi a favore dei più abili e meglio disciplinati, compensi il vuoto che costoro lasciano cogli uomini di 2• categoria. Vale a dire che di ciascuna classe si dovrebbero inviare anzi tempo a casa tanti individui quanti sono quelli di

,.. ivi, p. 140.


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seconda categoria della medesima classe C---1- Godo di trovarmi in ciò di accordo con un egregio colonnello del nostro esercito [il Ricci? il Perrucchetti? - N.d.a.]. 90

Il M_, comunque, si dichiara contrario al sistema prussiano di reclutamento regionale: so che questo sistema è un elemento di pronta mobilizzazione, di migliore istruzione e di razionale economia; ma so pure che l'Italia è riunita solo da dieci anni, che essa non è ancora consolidata, che le nostre plebi sono ignoranti, e che, massime dopo il decentramento amministrativo, l'esercito rimane come il gran crogiolo in cui tutti gli elementi provincia1i vanno a fondersi in unità italiana_ Ho potuto toccar con mano quale immenso vantaggio vi sia a trapiantare nell'Italia settentrionale un soldato del Mezzogiorno e viceversa; cd ho sempre detto che se l'esercito non avesse altra ragione di esistere, avrebbe sempre quella di essere una grande scuola di italianità.

A suo parere in caso di mobilitazione gli inconvenienti di queslo sistema possono essere elimfoati dividendo l'Italia in dipartimenti militari ciascuno corrispondente a un corpo d'armata; i soldati passati a far parte della riserva dopo il servizio di leva potrebbero esercitarsi annualmente non presso i reggimenti dove hanno compiuto il servizio militare, ma presso le unità di stanza nei rispettivi dipartimenti, dove affluirebbero anche in caso si mobilitazione. Come si è visto, secondo il M_ la guerra del 1870 ha dimostrato l'utilità delle fortificazioni; da questo argomento egli prende spunto per condannare la "decennale fiacchezza" con cui sono state condotte le cose italiane e per sostenere la necessità di risolvere una buona volta il problema della difesa dello Stato fortificando in particolare Roma_ Continuando a "vivacchiare" come finora abbiamo fatto, "noi rimaniamo in molte parti scoperti alle offese, e potremmo vedere ripetersi in Italia una campagna come quella del 1870, ed essere vinti dai non vincitori di Metz e Sedan [cioè dai francesi - N.d.a.]". Convinto com'è che non bastano le buoni leggi e i buoni regolamenti a formare un esercito, a questo punto il M. accenna anche alla necessità della ricostruzione morale dell'esercito. La sua costituzione, per forza di

90

ivi, pp. 141-142.


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cose, intorno al nucleo predominante dell' esercito piemontese ha avuto dei vantaggi, ma ha generato anche degli inconvenienti: nell'esercito come nella Camera vi fu un partito, un sistema, un gruppo di uomini che s' impose al rimanente, che favorì gli amici, e fu ingiusto verso i così detti estranei, e che continuò a rimanere al timone anche quando i nuovi mari volevano nuovi piloti. E così mentre avemmo difetto nella direzione, vedemmo la sfiducia e lo scoraggiamento serpeggiare nelle file e guadagnare ogni più robusta tempra. La colpa anche qui non è di alcun individuo, ma della situazione. La generazione ch'era al governo dell'Esercito non favorì caldamente sino al 1866 (parlo in generale) l' istruzione, e non avvivò questo altro elemento di forza dopo aver minato quello morale dell'omogeneità. E si vide un esercito, ricco di nubili e intelligenti individualità, costituire una cattiva macchina che fece mala prova Inostra sottolineatura; evidente il rift.:rimento alla gut.:rra del 1866 - N.d.a.J. Allora il paese wmint.:iò a far divorzio da esso, e col crescere delle ingiurie di fuori si vide scemare dentro l'orgoglio di essere soldato, la disciplina e la confidenza nelI' avvenire.91

Dopo queste critiche sorprendentemente franche e severe, il M. con non minore franchezza e severità indica anche la soluzione: "senza La riforma degli uomini quella della istituzione è vana"; solo l' intelligenza e la giustizia devono reggere l'esercito. Perciò prima di tutto occorre "la depurazione del sangue" dell'organismo, "tagliando inesorabilmente e senza riguardi provinciali" tutto ciò che vi è di "ignobile e ignorante" e premiando solo lo studio e la virtù. È ben noto che le riforme del Ministro Ricotti dal [870 al 1876 hanno adattato alla realtà italiana parecchi principi del modello prussiano, a cominciare da una maggiore attenzione per il criterio della specializzazione, per l'organizzazione della mobilitazione, per l'istruzione delle riserve e per la logistica;92 ebbene, spesso (anche se non sempre) il piemontese Ricotti mostra di avere le stesse idee manifestate dal M. in questa occasione.

91 92

ivi, pp. 144- 145.

Si veda, in merito, Fermccio Botti, La logistica dell 'Esercito Italiano, Voi. li ( 1861-19 18), Roma, S ME - Uf. Storico 1991 , pp. 268 e segg..


li - n . PP.NSlliRO DI NICOLA MARSELLI: PRIMI SCRJITI FIWSOFICO-MH.ITARI (1863-rn71)

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Gli avvenimenti del 1870-1871 - Studio politico e militare ( 1871)

Ultimato a fine 1871, questo lavoro vede la luce dopo la conclusione della guerra e la firma del trattato di pace (Francoforte, I O maggio 1871), che impone alla Francia il pagamento di 5 nùliardi insieme con la cessione dell'Alsazia (meno Belfort) e di parte della Lorena, alimentando la revanche. Gli avvenimenti dell'ultima fase della guerra non hanno alcuna influenza sulle riflessioni di carattere generale del M., che rimangono quelle dell'opera precedente; pertanto essa - senza alcuna modifica - forma il Libro I di questa versione definitiva. Il Libro II (235 pagine) tratta argomenti collaterali o di carattere politico-sociale che non smentiscono ma rafforzano le conclusioni del Voi. I, dando anche maggior spazio allo studio e descrizione degli avvenimenti. In proposito M. osserva: "nel rendiconto finale della lotta che cosa potremmo aggiungere a Sedan [dove il Maresciallo Mac Mahon si era arreso - N.d.a.J, Metz, e poi un altro e forse peggiore Sedan, e in ultimo Parigi: Francesi che uccidono Francesi [ riferimento alla Comune di Parigi del marzo-maggio I 871, soffocata nel sangue dall'ese rcito regolare francese - N.d.a. /, e Tedeschi che assistono tranquilli alla caduta della più cavalleresca nazione del mondo!". Y.1 Il fatto nuovo del Libro Il è l'esame comparativo della Rivoluzione Francese del 1789, di quella del 1870-1871 e delle campagne del 1789-1792 e del 1870-1871 , tenendo naturalmente conto degli avvenimenti politici che le precedono e le accompagnano. Questo perché "nel mondo tutto si collega ed è relativo, onde è impossibile giudicare a fondo un fatto istorico senza porlo in relazione ai suoi adiacenti, dopo di averlo considerato in sé". M. mette però in guardia dal ritenere la storia militare utile solo perché essa insegnerebbe delle ricette, delle soluzioni, visto che molti fatti e molte situazioni si ripetono: "in verità la buona scuola istorica non fa raf~ fronti per trarne argomento a ripetizioni di fatti identici in condizioni diverse. È proprio l'opposto, ed è l'arte del pensare sulla vita umana, aflne di comprendere lo spirito degli avvenimenti e di educare La propria intelligenza a cogliere i rapporti presenti e complessi delle cose reali". 94 Perciò coloro che ritengono il fatto storico non un mezzo, ma un fine, devono persuadersi che "non v 'ha lavorìo più inutile, anzi più dannoso all 'intelligenza umana, del porsi ad ammassar fatti non colla modesta credenza

93 94

Marselli, Gli Avvenimenti del 1870-1971 (Cit.), Libro LI p. 25. ivi, p. 27.


IL PENSIERO MILITARE E NAVALEITALIANO -VOL. lii (1870- 1915) - TO =M =O "-'I' - -- --

(sic.) che essi debbono servire alla ricerca di leggi, ma colla pretensione che essi siano tutto". 95 11 succo dell'esame comparativo delle due campagne non è che la conferma del concetto che informa l'intera opera mi1itare del M., già emerso nel Libro I. In breve, a conferma delle leggi della storia, dello sviluppo della civiltà e della guerra, nel 1792 la Francia rappresentava il nuovo sistema politico-sociale che doveva affermarsi, quindi nonostante le sconfitte dei primi anni della Rivoluzione doveva vincere; nel 1870 essa rappresentava, invece, il vecchio da spazzare via, quindi doveva perdere, con sconfitte definitive. Quella del 1789 è stata una rivoluzione di portata europea, quella del I 870-1871 (dopo la caduta di Napoleone TTI) è stata invece solo una ribellione. Questo perché alle nazioni di un continente accade nella loro relazione quello che [avviene] nella natura, governata dal principio della conservazione della forza: un centro di attrazione si alimenta a spese della sottrazione del circostante fluido e all'innalzamento geologico d'una regione corrisponde l'abbassamento di un'altra. Questa è la legge che risulta a posteriori e per dimostrare la quale si potrebbe recare in mezzo tutta la storia. Si scorgerebbe che ogni nazione ha il suo momento, e che in quel momento essa è non pure robusta, ma la più robusta. Ella incarna il principio della forza in quel dato momento: ella produce le migliori teste di uomini e probabilmente anche di Zolfanelli. Nell'urto con altra nazione essa deve vincere a numero presso che pari, sino a che dura in lei il colore latente e raggiante; ma se questo colore ad altra passa, allora ella deve tramontare e tramonta inesorabilmente.96

Tra le questioni militari di maggior rilievo affrontate dal M. in questa seconda parte: l'effettivo ruolo del generale Moltke e i caratteri distintivi della sua figura in rapporto a quella dei grandi condottieri della storia; il paragone tra la recente guerra di secessione americana e quella condotta dall'esercito prussiano; gli aspetti dell'organizzazione militare prussiana che meritano di essere presi come modello dell'esercito italiano. Secondo il M. Moltke ha servito ottimamente, e con esemplare modestia, il suo re e il suo Paese. La sua condotta della campagna del 1866 non è un capolavoro, ma quella del 1870-1871 dimostra che "l'artista ha

95

ivi, p. 40.

96

ivi, p. 22.


li -IL PENSIERO DI NICOLA MARSELU: PRIMI SCRrrn flWSOACO-MILITARI (1863 1871)

una intelligenza che si allarga con la situazione, che si piega a soggetti diversi e che li colorisce egregiamente". Ha sempre fatto quel che doveva, e ha fronteggiato i casi imprevisti con provvedimenti appropriati; ciononostante non può essere definito un genio vero e proprio. Dai grandi capitani lo separa "un taglio netto ", perché diversamente da quest' ultimi non ha dimostrato "originalità rinnovatrice", né la capacità di superare grandi difficoltà con piccoli mezzi. Egli "non ha dovuto come Annibale attraversare le Alpi p er combattere con gente raccogliticcia la potenza romana, né ha preso il comando d 'un esercito cencioso e sconfitto come Bonaparte. Questi grandi hanno dovuto vincere innumerevoli difficoltà, costituirsi una forza, infondervi il loro spirito, e menare colossali imprese/ ... /. Essi individuano un esercito e un Paese". 97 Nulla di tutto questo può dirsi di Moltke: ha avuto la fortuna di comandare un esercito assai ben istruito e numeroso, che ha inaugurato un nuovo periodo militare "piuttosto pel meccanismo moderno dell'esecuzione, che per novità radicale di concetto ". L'ordinamento e l'istruzione di questo esercito non sono dovuti solo a lui, e forse nemmeno a lui; né egli è stato "l'anima informatrice di questo esercito ", che ama e venera prima di tutto il suo re. TI paragone con la guerra americana dimostra ancora una volta perché - in tutta Europa e non solo in Italia - ha fatto scuola l'esperienza della guerra franco-prussiana e non quella del nuovo continente: l'esecuzione, ho detto e ripeto, è il lato nuovo della campagna del I87071. Era la prima volta che l'Europa vedeva funzionare una moderna macchina di guerra con tutte le sue parti: numero - trovati moderni - sapere, ordine e disciplina, razionale comando. La guerra d' America ci aveva offerto lo spettacolo di un lusso disordinato di uomini e di trovati moderni f... 1. Nel 1870-7 L abbiamo potuto osservare il congegno più vasto, più ricco e ordinato che il mondo abbia sinora veduto. Il numero non a scapito della qualità, il meccanismo non dell'ordine, il pensiero non della prontczza.98

Qui M. ha ragione: non c'è dubbio che, nella guerra americana, le masse di uomini - come sarebbe avvenuto nella prima guerra mondiale hanno prevalso nella qualità, e che mentre nell'esercito prussiano si vedeva combinata l'eccellenza degli Stati Maggiori e quindi dell'organizzazio-

"' ivi, p. 88. .,, ivi, pp. !!9-90.


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ne, con il fattore umano e con i più moderni ritrovati, negli eserciti americani contrapposti, e in particolare in quello unionista, vi era abbondanza di mezzi moderni ma la leadership, l'ordine e la disciplina erano indiscutibilmente - e di molto - inferiori ai livelli raggiunti dall'esercito prussiano. Anche l'organizzazione c l' istruzione dell'esercito italiano del momento non reggono il confronto con quello prussiano: M. lo ha già detto senza perifrasi nel Libro I del 1870 e qui torna sull'argomento, riferendosi in particolar modo all'istruzione e aJl'organizzazione logi stica. Nell'esercito prussiano la conoscenza dei regolamenti e delle attribuzioni connesse con il rispettivo incarico da parte degli ufficiali è mollo facilitata da un Manuale per il servizio di pace e di campagna che tratta tutti gli aspetti: nulla di simile è disponibile nell'esercito italiano. A tal proposito M. critica duramente la burocrazia e la confusione di norme esistenti nel nostro esercito, osservando che se in Prussia la massa dei Quadri è così ben istruita ciò non deve riuscire difficile, perché aJ certo non si muterà lcome da

noi - N.d.a.] la legge ogni anno, il regolamento ogni mese e non si spiccheranno ogni giorno circolari che seguono o scacciano circolari e che tutte si accumulano in una immensa congerie di carta, denominata Giornale Militare, argomento di desolazione per chi deve leggerlo, e di peso pei poveri muli che devono in campagna trascinare i carri empìti dei suoi innumeri volumi. Il risultato pratico di questo ciclopico edifizio si è che non v'ha uffiziale che conosca davvero i suoi doveri, e che non debba cucirsi al fianco un impagabile Travet fcioè il sottufficiale furiere o l'ufficiale amministratore - N.d.a.], il quale spende tutta la sua vita a sovrapporre le scucite pagine di un libro che non mai si chiude, ed a mandare alla memoria i prolifici parti d' infaticabili circolaristi. Dopo trent'anni di vita militare noi lasciamo l'esercito cosl dilettanti nel servizio regolamentare come vi entrammo, salvo che non ci fossimo decisi a uscire dilettanti nel servizio tecnieo.99

Pe rciò il M. loda il nuovo Ministro Ricotti, il quale allo scopo di arrestare " la valanga di carte " ha dato ordine "perché si formino stabili e generali principi regolamentari, insomma un 'ordinanza permanente nella quale sia contenuta la parte costante del servizio militare, e a mò di appendice quelle poche e indispensabili circolari che escono tra la stampa di una edizione e quella dell'altra".

99

ivi, p. 9 1.


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2 13

Un altro aspetto sul quale il M. richiama l'attenzione, dichiarandosi ammirato, è l'organizzazione logistica prussiana, "che è tanta parte nella vita di un esercito" (cosa - noi osserviamo - allora come oggi tutt'altro che scontata): dietro all' esercito mobile vi ha un ordinato congegno che coordina le varie ruote dei servizi ausiliari. Ogni esercito ha due generali, vorrei dire: uno che amministra e l'altro che opera, uno che fornisce il combustibile e l'altro che la fa da conduttore[ ... ]. U quartier generale amministrativo è una marcia dietro a quello militante, e di tappa in tappa è collegato col proprio paese e ivi con le sedi dei Comandi territoriali dei corpi operanti. Il carico loro consiste nell'essere i veicoli tra il paese e l'esercito, veicoli per i quali liberamente scorrono uomini e cose. 100

Qui va osservato che il problema dell 'eccessiva burocrazia e delle norme amministrative troppo complicate e farraginose, così come quello dell'aderenza dell'organizzazione logistica alle operazioni, non sono certo tipici dei tempi del M., né vengono definitivamente risolti dal Ricolti o da altri: essi periodicamente riemergono nella prob1ematica militare anche nel secolo XX, fino a far pensare che sono dovuti prima di tutto a una mentalità, a un costume assai difficile da estirpare. wi Ha perciò ancora una volta ragione il M., quando ricorda che, almeno nelle grandi linee, l' organizzazione logistica di qualsivoglia esercito moderno ha delle analogie con quella prussiana: ma "tutto sta nel modo con cui [le istituzioni] funzionano, e il modo sta nelle virtù morali degli uomini, ossia nell'istruzione e nel sentimento del dovere". È questo che deve essere soprattutto imitato, evitando inoltre di introdurre in Italia delle soluzioni che vanno bene solo per la Prussia. Se gli ufficiali italiani faranno il loro dovere e concepiranno la professione delle armi come un sacerdozio, l'esercito sarà ordinato, disciplinato, valoroso: ma il paese si persuada anch'esso che a volere esercito rispettabile è mestieri incominciare a rispettarlo. Ormai la separazione tra classi intellettuali e classe militare non ha ragione di essere, e l'apologo dell 'Ercole di Proudhon non è compiuto. Ercole oggidì non è solo il più forte, ma 100

ivi, p. 94.

'°' Cfr., in merito, Ferruccio Butti, La Logistica dell'Esen:ilo Italùmo ( 183 1-1981 ), Roma, SME - Uf. Storico 1991 - 1995 (4 Voi.).


IL PENSIERO MILITARE E NAVALE! ITALIANO · VOL. Ili ( 1870-191 5) • TOMO I

ha preso anche il suo premio in iscuola. Egli è divenuto un uomo intero, che difende non solo la indipendenza, l'ordine e la libertà della Patria: ma che porta il suo Lributo diretto alla scuola, alla scienza e alla civiltà.102

Vi è, in queste parole, parecchio materiale da costruzione per il nuovo esercito, e la nuova figura di ufficiale .... Il M. annette grande importanza anche aJJ 'occupazione di Roma, evento militarmente di portata modesta ma di grande rilievo dal punto di vista politico. Peraltro, dal punto di vista militare, come già abbiamo accennato (Vol. li, cap. IX sz. IV) la campagna fa emergere l'impreparazione dell'esercito e suscita polemiche tra il generale Raffaele Cadoma e il Ministro pro tempore Ricotti, soprattutto a causa delle continue inframmettenze politiche nelle operazioni: uno dei tanti esempio, insomma, di prevaricazione (anticlausewitziana) della logica politica sulla logica miJitarc. In proposito M. non ha dubbi: il piano che il generale Cadorna è stato costretto ad accantonare per ragioni politiche era rispondente alle esigenze militari. Quello suggerito dalla politica, invece, era militarmente irrazionale e in altre situazion i avrebbe potuto creare pericoli seri, quindi non deve in nessun caso costituire un precedente: " il precedente consiste in quella funesta usanza di togliere al generale in capo l'iniziativa dei movimenti militari e di trasportarla ai Consigli aulici [è il caso dell'Austria nelle guerre napoleoniche - N.d.a.], ai Comitati di Salute Pubblica I è il caso della Francia nei primi anni della Rivoluzione - N.d.a.J, alle Reggenze, ai ministeri" 103• La storia militare - ricorda il M. - dimostra le vittime e le sconfitte che questo sistema ha causato: occorre perciò cautela nella scelta del Capo militare, ma una volta scelto, deve essergli lasciata la dovuta libertà d 'azione e la dovuta responsabilità. In proposito M. fa un significativo e chiaro riferimento alla condotta de lle guerre d ' indipendenza, pur senza accennare - per ovvie ragioni - all'operato di Carlo Alberto e Vittorio Emanuele Il, che in tale condotta hanno responsabilità primarie, ancorché non esclusive (Cfr. Voi. TI, cap. Vlll e IX): nulla demoralizza di più il soldato che il fiutare in coloro che dirigono le cose di guerra la poca sicurezza della mano. E difatti nulla è più ro-

102 IOJ

Marselli, Gli Avvenimenti del 1870-187/ (Cit.), Libro Il p. 95. p. 5).

iVÌ,


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vinoso in guerra che quel procedere a tentoni, dipendente dall'assenza di chiari concetti direttori. Studiando le campagne fatte in Italia dal 1848, voi osservate sovente questa assenza di concetti chiari e larghi che precedono l'azione, pongono a calcolo le probabilità ed apparecchiano il modo di farvi fronte. Solo, ma solo così, si può sperare di dar vita ad operazioni coordinate e razionali, e si può vedere svolgersi tutta una campagna con movimenti conseguenti [ ...]. Anziché fare quelle opere preventive di organizzazione che impediscono al fiume di straripare, noi corriamo ad otturare or questo or quello sbocco a misura che le acque v' irrompono. 104

Il M. attribuisce questa fondamentale lacuna alla "ristretta" formazione dei Quadri del passato, nella quale "poca importanza davasi agli

studi di arte, storia e geografia militare, e nessun posto occupavano quegli studi generali [come il suo insegnamento di storia generale del momento - N.d.a. l che allargano la mente abituandola a risolvere i problemi complessi ma riguardano l'uomo e la società". Questi studi stanno riprendendo il posto loro dovuto: perciò nessun sforzo deve essere trascurato per sviluppare nelle scuole, insieme con la capacità di analisi, la capacità di sintesi, di pervenire a concelti generali: "è questo uno dei modi per

riparare a un sistema che, in condizioni sfavorevoli, ci potrebbe essere fatale. È necessario preoccuparsene per l'avvenire". Sempre dal punto di vista militare, con indiretto ma chiaro riferimento alle cose italiane M. manifesta idee sostanzialmente analoghe a quelle del Fambri (voi. TI, cap. X) a proposito dei volontari; si dichiara riconoscente "verso quei bravi che condotti dal Garibaldi hanno tanto contribuito a darmi una patria libera", ma stigmatizza i numerosi e gravi casi d ' indisciplina tra le improvvisate schiere repubblicane francesi sia nel 1792 che nel l 870-1871 e cita una lettera del L792 dell'aiutante generale Vieusseux sullo stato morale delle truppe francesi dell'armata del Reno

"che pare scritta ai nostri giorni, e contiene per tutti una lezione sempre viva, che potrebb'essere utile..."./05 Quanto scrive il Vieusseux non è che un riepilogo dei difetti delle truppe improvvisate e volontarie e delle conseguenze della mancanza di disciplina, aJla quale non possono sempre supplire il patriottismo, l'entusiasmo, il coraggio: "le nostre truppe non sono in grado di resistere ad un

104 105

ivi, pp. 51-52. ivi, pp. 8-1 2.


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nemico disciplinato ed agguerrito. Solo coloro che non hanno idea alcuna della guerra attuale possono credere un istante che il coraggio solo tenga luogo di tutto quello di cui difettiamo ...". 11 Viesseux attacca poi 1' Assemblea francese del 1792, "la quale cede vilmente a tutti i capricci di una soldatesca ammutinata e furiosa, strepita contro qualunque idea di subordinazione e disciplina, e declama continuamente contro tutti i mezzi acconci a ricondurre l'ordine e la tranquillità". Ancor più calzante è una lettera alla Convenzione del Ministro della guerra francese Beumonville (1793) sulle cause della sconfitta di Neerwinden, che secondo il Ministro sono soprattutto morali e quindi non vanno attribuite (come si è fatto) al tradimento del generale Dumouriez, ma piuttosto "alla poca confidenza del soldato nell'uffiziale, e al poco imperio di questi su quegli". Perciò sino a quando il soldato si reputerà uguale in lumi e in cognizioni ai capi che la legge gli dà o che egli si è scelti, egli porrà le proprie idee al posto dell'obbedienza passiva che gli deve. Se gli ordini che riceve contrariano il suo ragionamento o il suo modo di vedere, esso li eseguirà con lentezza e con scoramento funesti, e se non vince chiamerà tradimento qualunque operazione militare che con maggiore buona volontà avrebbe fatto riuscire. Si saprà ancora battere, ma non sa più obbedire...

A conferma della sua tesi sulle ragioni profonde della sconfitta francese M. cita i rapporti del colonnello Stoffel, già adetto militare francese a Berlino prima della guerra l 870-1871 , nei quali si dimostra la validità del famoso detto che "la vittoria di Konigsgratz [contro l'esercito austriaco nel 1866 - N.d.a.J è dovuta ai maestri di scuola prussiani": nel senso che l'esercito in generale non è che il prodotto di quello che oggi chiamiamo "sistema-Paese", rispecchiandone virtù e difetti. Ne consegue che l'esercito prussiano è altamente educato e disciplinato, perché riceve giovani già educati fin dall'infanzia - nella famiglia e nella società - alla disciplina, ali ' obbedienza, al rispetto dell'autorità, al dovere e al sacrificio. Per questa ragione agli ufficiali prussiani resta ben poco da fare per mantenere la disciplina, e nell'esercito prussiano le punizioni sono assai rare. Pertanto, secondo lo Stoffel sbagliano coloro che intendono stabilire o ristabilire la disciplina con misure puramente militari, come l'inasprimento delle punizioni, l'esortazione degli ufficiali a dare l'esempio, la riunione delle truppe in grandi campi d'istruzione, ecc .. Secondo M. la radice del male francese sta nel carattere del popolo, a torto educato fin dall'età della ragione a ritenere che tutto ciò che è francese - anche nel campo militare - sia quanto di meglio esista al mondo, e che


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la Francia abbia una sorta di diritto storico a sovrastare i vicini popoli (e in particolare l'Italia e la Spagna, presentati dal Lavallée come naturali satelliti della Francia nel suo libro Les Frontiéres de la France, che a parere del M. è "pieno di esagerato e molesto patriottismo"). Per scalzare la tesi della ''fratellanza latina" contro la prepotenza germanica, il M. nega persino che la Francia possa essere definita una nazione latina; a suo parere gli antichi Galli erano celti; con essi i Latini non hanno niente in comune, se non l'appartenenza al comune ceppo indo-europeo insieme con i Germani; "che se i Galli furono conquistati dai Latini, lo furono ugualmente dai Germani, e non saprei perché dovrebbero essere più Latini che Franchi, tanto più che questi consolidarono la loro conquista e imposero il loro nome". 11 fatto che la lingua francese sia più vicina a quella italiana non autorizza a ritenere senz'altro simili due popoli assai diversi per origine, storia e carattere. Anzi: il carattere dei francesi moderni è diversissimo da quello latino e germanico, ed è ancora quello dei Galli prima della conquista latina, descritti da Cesare come ''.facili a mutar partito e vaihi di cose nuove[... ] insofferenti di servitù, incapaci di libertà (Tacito)". 106 Sull'altro piatto della bilancia, M. osserva che i tedeschi farebbero meglio a non parlare - come fanno spesso - di una pretesa superiorità della razza germanica e dei mali che ovunque ha prodotto la civiltà latina. Nella grande famiglia indo-europea tutti i popoli hanno avuto il loro momento di splendore, poi tramontato: ma "quello dei Latini è stato tale da non temere confronto alcuno, e quello dei Germani passerà come tutto tramonta sulla terra". Le gerarchie di popoli, dunque, non reggono a un serio esame storico. A riprova delle sue osservazioni sulla persistenza del nocivo carattere francese il M. cita l'atteggiamento fortemente antitaliano dei nuovi esponenti della Repubblica francese, emerso in particolar modo nella seduta del 22 luglio 187 1 dell ' Assemblea di Versailles che ha approvato senza opposizione alcuna due gravi affermazioni di principio del Thiers: I 0 ) la Francia ha fatto male a lasciar costituire le nazionalità italiana e germanica; 2°) la missione della Francia è di difendere il Papa. TI M. obietta che, come riconosciuto dallo stesso Thiers, era destino dell'Italia diventare unita; è vero che l'unità italiana ha aperto la via a quella germanica, ma il principio di nazionalità si è ormai affermato come giusto e potente, per cui l'unificazione delle due nazioni sarebbe ugualmente avvenuta, in un modo o nell'altro. Questi fatti, "ormai comandati dalle idee moderne ", non possono certo dipendere dal beneplacito francese ...

°" ivi. p.

1

I 00.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL lii 1870-1 915 - TOMO I

Per i] futuro, a suo avviso il principio di nazionalità, giustamente affermatosi prima in Italia e poi in Germania, deve essere conciliato con il principio di conservazione e di equilibrio europeo, perché "un corpo non può vivere senza l'equilibrio delle sue funzioni, e così l ' Europa non può ricettare la civiltà senza L'armonia delle sue parti". In tal senso il principio di nazionalità si accorda con quello di conservazione, perché andando incontro alla dignità, alla personalità, ai bisogni di ciascun popolo, fa diminuire le rivoluzioni contro lo straniero e i conflitti tra nazioni. Se ne] caso germanico questo principio è stato attuato con una confederazione, mentre nel caso italiano è stato costituito uno Stato unitario e centralizzato, ciò dipende dalle diverse situazioni degli Stati dei due Paesi: le vecchie dinastie dei vari Stati tedeschi erano tedesche di sentire, onde si è potuto con esse fabbricare l'Impero confederato, ma le nostre erano austriache, russe, il diavolo, ma non italiane. Una sola ve n'era italiana, Casa Savoia, e 4uesla ne ha discacciato le altre. Era la più civile, la migliore, la sola consona à nuovi tempi, però la più forte. Or, crede il Lang che noi ci abbiamo avuto gusto a lasciarci pestar nel mortaio dell'unità accentatrice? Ma s'ingannerebbe a partito. Noi abbiamo avuto il buon senso di comprendere che non v'era altro scampo che sottoporsi a questo pistone, e solo abbiamo sperato che esso sarebbe stato meno livellatore. w7

Peraltro, è bene che in determinati casi il principio di nazionalità subisca delle restrizioni, in nome dell'equilibrio e della sicurezza comuni. Ad esempio la Francia iniziando nel I 870 la guerra con la Germania "aveva concepita la propria conservazione in un modo che era violazione della indipendenza e della integrità della Germania, ed ella violava il principio di nazionalità in un'epoca nella quale questo principio era riconosciuto come giusto ". Più in generale, una nazione irrequieta, che violi ingiustamente i] principio dell 'altrui conservazione ed esistenza, si pone per ciò stesso fuori legge e non ha più diritto di pretendere che sia rispettato il proprio corpo; al contrario, una nazione ingiustamente offesa se crede che l'occupazione di un territorio tuteli meglio la sua sicurezza, ha il diritto di farlo, perché tutela meglio anche l'interesse comune. Per il futuro M. auspica che la Francia si rialzi e dimostri al mondo "ch'ella sa governarsi e che è sempre una grande pioniera di civiltà", sen-

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ivi, p. 11 6 (Nota).


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za essere tentata da nuove avventure militari; dal canto suo ]a Germania nel suo stesso interesse dovrebbe condurre una politica moderata, perché in caso diverso l'Europa vedrebbe seriamente minacciata la conservazione generale e sarebbe costretta ad intervenire, "sia che considerasse un maggior sbranamento della Francia come un troppo grande mezzo di accrescimento della potenza germanica, sia che Lo reputasse soltanto come un eterno pomo di discordia gettato sul continente". Perciò nel caso che la Germania volesse soffocare lentamente la Francia, l'Europa avrebbe diritto ad intervenire in nome dell'interesse generale, "e il modo migliore starehheforse nel rompere l'unità nazionale [della Germania] in parecchi regni o repubbliche, massime se la volontà cittadina fosse predisposta al separatismo". Detto questo, contradditoriamente - e in nota - il M. prevede, a torto, che "la lotta tra Germania e Francia continuerà ad essere uno di quei duelli a morte, che finirà colla distruzione di una delle due nazioni. E quest'una già si vede quale sarà fla Francia - N.d.a.]". 108 A proposito del ruolo dell'Europa, il M. aggiunge (sempre in nota, come se si trattasse di cosa di poco conto) queste importanti considerazioni: questo ragionamento è fondato sulla credenza che vi sia ancora una Europa. Se questa è un'illusione, se davvero l' Inghilterra continuerà a nicchiare, i Latini a decadere, l'Austria a tremare, allora due potenze costituiranno l'Europa: Gennania e Russia. I loro predomin1, i loro cozzi fonneranno tutta la futura Storia europea, la quale sarà germanica prima, forse slava poi. Ella non avrebbe il diritto di sfuggire a queste innucnze, poi che non avrebbe la virtù di neutralizzarle. E il pericolo sarebbe un benefizio sia che si muti in conquista che tempri, sia che divenga solo spauracchio che svegli. 1()9

Tenendo presente che le cause economiche si mescolano dappertutto, ma non sempre sono i soli e i primi determinanti delle guerre e delle rivoluzioni , "sarebbe puerile errore il pensare, come da molti si fa, che il principio di nazionalità porti seco la buona novella della pace perpetua e universale. E da prima quante guerre per attuarlo! quante per combinarlo con quello dell 'equilibrio e della conservazione!". Se la stessa Confederazione degli Stati Uniti, che pure era omogenea, non è sfuggita a una

'"' ivi, p. 12 1. IO') Ibidem.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Ili ( 1870- 1915) - TOMO 1

guerra, vi potrà forse sfuggire l'eterogenea Europa? Dolori, aspirazioni, disuguaglianze esisteranno sempre, e non sempre potranno conciliarsi con la ragione: "che se pure codesto miracolone accadesse in Europa, come porrete a ragionare gli Europei co' mongoli e questi co' Cafri ?"_D ' altra parte, mancando un tribunale internazionale che sia in grado d.i tutelare l' equilibrio tra gli Stati e di stabilire quale d.i essi rispetta e rivendica il principio d.i nazionalità e quale lo viola, solo la forza potrà risolvere quelle questioni che la ragionevolezza non riesce a risolvere; "onde io dico_· il buon Diritto è l'uovo; la Civiltà lo cova e lo feconda; la Forza lo dischiude ed afferma come essere organico; la pubblica opinione[. .. ] lo mantiene in vita e lo fa prosperare". A riprova del valore positivo della forza e dei limiti del principio di nazionalità, il M. cita il movimento impetuoso delle correnti migratorie allora in corso, che partono dall'Europa, arrivano negli Stati Unili e si espandono verso ovest, distruggendo le preesistenti popolazioni in<liane: fenomeno che giova all 'America, ma anche all'Europa. In questo caso, secondo il M. il principio di nazionalità non può valere a favore degli indiani, ma deve cedere il passo "ad una forza maggiore ed ineluttabile e questa forza è quella della conservazione del popolo più civile. Né basta il desiderare che questo volga l'animo ad educare piuttosto che a discacciare il selvaggio; ché non sempre è possibile ilfarlo". 110 Questo non vale solo nei rapporti tra popoli civili e barbari, ma in generale: la necessità è suprema legge, e d.i fronte all'incessante aumento della popolazione sulla terra, potranno prodursi gravi squilibri economici, quindi urti tra i popoli. Quali barriere potrebbe opporre a fenomeni così vasti il principio di nazionalità? Ne consegue che, secondo il M., in certi casi tale principio deve cedere iJ passo a necessità storiche, né vale farne una mera questione di dirilLO ordinario: "le Nazioni si avvicineranno mai sempre, ma non possono scomparire. E La guerra fra di esse può andare diminuendo e facendosi più civile, ma difficilmente finire affatto". 111 Su questo argomento polemizza con Proudhon, secondo il quale la guerra nasce da squilibri di carattere economico, che dovrebbero essere eliminati introducendo un nuovo diritto economico osservato da tutti. A suo parere Proudhon considera solo un aspetto del diritto della forza, e contraddittoriamente riconoscendo la sua razionalità e necessità giunge alla sua condanna e a1Ia pace universale. Diversamente da quanto scrisse Proudhon, il diritto della forza vale in tutte

"" ivi, p. 130. "' ivi, p. 135.


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le sfere, anche nel campo della religione, del lavoro ecc.; esso va riconosciuto ma anche limitato, perché quando nella storia umana sorgono due interessi inconciliabili, sorge compagna la guerra. Il signor Proudhon crede che il diritto economico (il suo, s' intende: ma vi si sottometteranno tutti?) solverà la lite: io credo che la lite nasca appunto da un diverso modo di veder le cose, da interessi opposti, e che gli uomini non pongano tempo in mezzo a risolverla a posta loro. Tra un proletariato che vuole detronizzare la proprietà e i capitalisti che non vogliono rassegnarsi a ciò, io non veggo altra soluzione che le sane idee, i huoni costumi, e la eloquente forza. Fatta la pace, che si accetta rassegnati dopo la lotta, si maturano nuovi semi di nuove opinioni che aprono l'adito a future lotte. Chi ha mai trovato l'araba fenice di una soluzione universale? Tutti gli uomini giungerchhero a pensare ad un modo c tutti a sottoporsi chetamente almeno alla ragione generale? 112

Poiché la lotta è insopprimibile, le buone cause trionfano solo con la forza, cioè solo se sono affidate a buone mani: "adunque non lo vedete che

questo spaventevole inno alla Forza si risolve in questo melodioso inno al Diritto'! Né sarebbe giusto accusarmi, come s'è fatto pel Cousin, di voler giustificare il successo. Se la Francia ritentasse l'opera del 1859, e ci vincesse, io non per questo sconoscerei la bontà della causa nostra; ma vi confesso che sconoscerei la hontà delle mani nostre". JJJ In conclusione, per il futuro si tratta di "conseguire il diritto mediante una somma sempre maggiore di forza ideale e una sempre minore di forza materiale". Gli Stati non devono cullarsi troppo nel principio della nazionalilà ma devono prepararsi a respingere l'altrui arbitraria ingerenza, perché non esiste solo la solidarietà e la tolleranza, ma anche l'egoismo delle nazioni. Ci si prepara non solo fondendo cannoni, ma anche "rendendosi sobri colla Morale, vigorosi col Lavoro, illuminati colla scienza". Infatti "il solo cannone è nulla senza la civiltà, ma quello caricato da que-

sta produce effetti invincibili". 114 Per ultimo il M. dedica alla Comune di Parigi e alla questione sociale quasi sessanta pagine, il che non è poco per uno scrittore militare e per un' opera che vuol essere essenzialmente militare. Questo è uno dei tanti 11 2

ivi. p. 137. ivi, p. 139. 114 ivi, p. 141. 111


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segni della sensibilità per la problematica sociopolitica e della ricerca continua dei suoi rapporti con la realtà militare, che sono i] segno distintivo di tutti i suoi scritti. Omettiamo, perché non di stretto interesse militare, le sue considerazioni - in gran parte ancora attuali - sullo scontro tra capitale e lavoro, tra liberalismo e socialismo-comunismo, sull'utopia collettivista e protezionista, sulla pratica impossibilità di debellare la povertà ecc ... Rifugge da utopie e ricette, delle quali la successiva storia del XX secolo ha del resto fatto giustizia; e in omaggio al consueto giusto mezzo, pensa che tocchi alla classe dirigente meritare di essere tale, cioè aprirsi senza pregiudizi di sorta ai migliori, e venire incontro nei limiti del possibile, senza egoismi, alle aspirazioni dei ceti più poveri: solo così si potranno eliminare disordini, rivolte, insurrezioni, rivoluzioni. Il suo giudizio sulla portata innovatrice della Rivoluzione Francese è positivo, quindi lontano da quello dei conservatori e dei clericali; e accanto alla demagogia, agli errori, alle contraddizioni e agli eccessi di coloro che si ergono a dffensori e paladini delle istanze del proletariato, non manca di condannare severamente il conservatorismo, la difesa di ingiusti privilegi, l'egoismo padronale e, in genere, il cattivo esempio e la cattiva immagine di sé che ha dato la classe dirigente francese nel periodo dell' Impero. Riguardo all'avvenire dell'ideologia socialcomunista, prevede che il secolo XX non vedrà realizzate le utopiche aspirazioni della Comune di Parigi, "salvo che [tale secolo} invece di essere il secolo della pace, del lavoro, della scienza non vo,?lia essere il pandemonio ". D'altra parte, nemmeno in questo caso intende rinunciare alla sua ben nota teoria della tendenza della forza a coincidere con il diritto naturale: al 1848 come al 1870 non è riuscito ai socialisti e comunisti di vincere durevolmente. Ma se vincessero durevolmente ? Ebbene, se io vedessi la società piegarsi e reggere a lungo sotto l'applicazione di quei sistemi economici, io avrei il dovere di riconoscere che, poiché hanno avuto la forza di fare tanto cammino da lottare, vincere, affermarsi e durare, debbono avere in sé alcuni elementi positivi e progressivi che a noi erano sfuggiti. Immaginate un po' qual piacere ho provato, io che da giovinetto ho pensato così, leggendo pochi giorni addietro questo brano: "Se i risultati della vittoria sono durevoli e pertanto necessari, cii> prova che essi sono la conseguenza dello svolgimento naturale del Diritto ". /. .. /. Ti tengo dunque, o diritto, e ti trovo abbracciato colla Forza: oh almeno io ti possa palpare!.. .". 115 I IS

ivi, p. J38.


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Nonostante questa ammissione, per il M. continuano ad esistere differenze tra i vari tipi di forza: i valori espressi dalla forza militare di uno Stato sono legittimi e insostituibili, quindi sarebbe errato e autolesionistico minarla in nome di istanze di lotta sociale interna. Egli perciò polemizza con il comunardo Augusto Lame, il quale nel 1871 ha sostenuto che il problema essenziale del momento è di evitare che l'esercito volga contro i lavoratori in rivolta le armi destinate alla difesa della Patria, perciò - esorta il Lame - "rivolgiamoci all'esercito, ai soldati (i capi non ci ascolteranno affatto). lnsegnamo loro la virtù dell'indisciplina. Qualcuno di Loro sarà fucilato; ma quando lo Stato avrà bisogno delle sue truppe, queste non esisteranno più: saranno solo un gregge che nessuno riuscirà più a raccogliere intorno alla bandiera. L'esercito è distrutto. A noi ora la lotta e la vittoria è certa". 116 Queste teorie - obietta M. - anziché armonizzare con quella di Patria l'idea di Umanità, la prendono a pretesto per dilaniare la Patria stessa, e così "quel popolo, il quale anzitempo si lascia sedurre da dottrine stffatte e prende a schifo Lo spirito militare, trasformasi in un popolo imbelle.facile vittima dell'altrui vigore". La Patria non può essere negata, così come fanno i cattolici (che la negano nella Chiesa) e i comunisti (che la negano nell'Umanità): essa merita anche il sacrificio supremo, perché rappresenta il solo modo di assicurare l'esistenza degli individui e delle famiglie. È comprensibile - egli aggiunge - che in una rivoluzione contro un governo che [come quello di Napoleone ill - N.d.a.] ha condotto il Paese a sconfitte rovinose, si diffonda la nausea contro la gloria militare e si abbatta la colonna di Vendòme, monumento di cento vittorie: ma nessuna Nazione seria e laboriosa sfronderà i suoi aJlori militari per farne omaggio imprecando allo straniero stesso, che un dì fu vinto, poi fu vincitore e ora la guarda e sorride. Continuiamo pure ad accrescere i soldati del lavoro e a diminuire quelli di Bellona; ma conserviamo sempre il rispetto per una forza che prima ci fece ed ora ha il mandato di conservarci. E meditiamo su di questo: il lavoro è da preferirsi alla guerra, ma il Lavoratore non è più nobile del guerriero. Gli uomini si valgono, e non vi ha luogo che per due categorie: colti e incolti, gente da bene e gente da male. Neghereste il sapere e la virtù a chj difende la sua Patria con l'ingegno e col sacrifizio di sé? Che se una forza milita-

11 6

ivi, pp. 168-169.


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IL PENSIERO MILITARE E N~VALE ITALIANO - VOL lii ( 1870-1915)- TOMO I

re è ancora una necessità, la colpa, se ve n'ha una, è di chi crea la necessità e non di chi le obbedisce. Onde lavorate pure a modificare la causa, ma rispettate coloro che ne portano la maggior pena. O credete che al nostro secolo vi sia una gente che provi gusto a lasciarsi uccidere per chi la rifiuta? Auguriamoci che nell'Italia prevalga la smania per il lavoro, ma non quella corrente che dissecca un sentimento non meno da cittadino che da soldato: il saper morire al proprio posto in difesa del proprio paese. 117

Perciò si tratta di lavorare per il trionfo delle idee umanitarie e per la pace, ma senza disprezzare le tradizioni militari e senza svilire lo spirito militare, perché fino a quando dureranno le guerre esso "è la salvezza della civiltà ed è un sacro fuoco che non si può accendere a volontà nell'ora del bisogno". 118 Con questi multifonni caratteri, non ci si può stupire se gli Avvenimenti del 1870-1871, come ricorderà il Mariotti nel 1914, ebbero un successo straordinario. indescrivibile. in Italia e all'estero: d'un tratto il nome di Nicola Marselli attrasse l'attenzione degli uomini eminenti; occupò l'opinione pubblica, fece il giro di tutti i periodici nostrani e stranieri. [... ]. Egli dà fuori, a guerra finita, il secondo libro degli Avvenimenti, facendo di essi un esame critico dei più profondi, dimostrando le condizioni che ne scaturivano per l'Europa e il dovere per gl'italiani, ch'ei voleva né tronfi de' nostri vizi, né spregiatori delle nostre virtù. Oh, a quarantaquattro anni di distanza [potremmo dire lo stesso anche nel 2005 - N.d.a.], di quanta attualità, come sembrano scritte anche oggi quelle pagine immortali! Il secondo libro dell'opera, atteso con viva impazienza, fu degno coronamento del gran successo del primo, di cui già si erano tirate parecchie edizioni (qui sotto gli occhi abbiamo la quarta) e l'opera venne tradotta in lingue estere ed encomiata dal Mommsen. 119

ivi, p. I 94. ivi, p. 170. 119 Temistocle Mariotti, / Parentali del generale Marselli, Roma, Casa Editrice ilaliana I 9 I4 (Estratto da L' Esercito Italiano n. 43 - 17 apri le 1914), pp. 7-8. Sull 'opera vanno ricordale anche le due recensioni coeve di Paulo l'amhri sulla "Nuova Antologia" del 187 l (Fase. VI - giugno, pp. 486488 e Fase. X - otlobre, pp. 364-374), che tuuavia si limitano a riepilogare per sommi capi e ad approvare le idee del M.. 117 11


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Le citate Lettere inedite curate dal generale Giacchi riportano per intero il giudizio del Mornrnsen (1872). 120 TI celebre storico tedesco giudica M. "una delle migliori e più chiare intelligenze d 'Italia " e apprezza in particolar modo il secondo libro dell'opera, la quale "merita assai di essere raccomandata anche ai pensanti uomini politici della Germania". Condivide tutte le tesi del M., con particolare riguardo alle sue considerazioni sull'atteggiamento della Francia, sull'ineluttabilità della lotta, sulle ragioni della vittoria della Germania. Condivide anche ciò che M. dice dei riflessi sulla situazione italiana, ivi comprese la non convenienza di adottare il modello di reclutamento prussiano e le sue critiche alla situazione politico-sociale italiana. L'unica cosa che il Mommsen mostra di non condividere, è quanto afferma il M. sull'opportunità di lasciare Metz e la Lorena alla Francia; però spera anch'egli in un'evoluzione della Germania verso istituzioni più liberali, aggiungendo che "la Prussia non può e non deve sparire nella Germania, come il Piemonte nell'Italia è sparito". Per completare il quadro, il Giacchi riporta altre due lettere: 121 una in francese ( 1874) di l.P.Magnin, insegnate alla Scuola Superiore di Wiesbaden in Prussia, che comunica al M. il suo intento ili tradurre l'opera sia in francese che in tedesco; un'altra di Garibaldi, che l'ha ricevuta da un comune amico e promette di leggerla con molto interesse. Non si conoscono reazioni francesi o austriache all'opern; per rimanere in Italia, tra i tanti studiosi del M. che - molto, troppo brevemente - ne hanno parlato, merita ili essere ricordato iJ maggiore Carlo Sosso (1900), il quale osserva giustamente che gli Avvenimenti del 1870-1871 possono essere collocati a metà strnda tra la Scienza della storia e La Guerra e la sua storia, perché partecipano della natura dell'uno e dell'altro e perché, con le due [opere] anzidette, costituiscono la triade gloriosa, onde, a parer mio, emana completo e lucido il pensiero marselliano [ ... J. Su quest'opera splendono tulle le faccette del prisma marselliano; in essa noi vediamo il generale, il pensatore, l'uomo politico [... ]. Con gli Avvenimenti del 1870-1871 il Marselli entra nella terza e definitiva fase del suo pensiero, entra, cioè, nel campo sperimentale. È il momento in cui il nostro autore, dopo le lotte combattute interiormente coll'idealismo hegeliano, spezza, come dice lui, o crede di spezzare, come a mc pare più probabile, il lclaio dell'Hegel... 122

120

Lette re inedite ...... (Cit.), pp. 19-22. ivi, pp. 19 e 23-24. 122 C arlo Sosso, Art. cii., pp. 35 e 57-58. 121


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IL PENSI.ERO MILITARE E NAVALF. ITAI.IANO - VOL. 111 ( 1870-1 915) - TOMO I

Si deve concordare con il Sosso quando parla di "triade gloriosa " e quando afferma che sugli Avvenimenti del 1870-1871 "~plendono tutte le faccette del pensiero marselliano". Come al solito molto numerosi, e sempre di rilievo, sono gli argomenti trattati dal M. in questa occasione, con frequenti accenti critici quando viene a parlare delle cose italiane: tra di essi la situazione europea dopo le guerre del 1866 e 1870, i nuovi orizzonti del diritto internazionale, la problematica sociale emersa drammaticamente con la Comune di Parigi, il socialismo e il comunismo, le scelte di politica estera e militare e gli ordinamenti più convenienti per l'Italia, con particolare riguardo alla necessità di un profondo rinnovamento (anzitutto morale) dell' esercito; la situazione politico-sociale interna e i suoi riflessi suH'efficienza militare; i difficili rapporti col Papato; gli ammaestramenti deHa guerra, con particolare riguardo alla tattica, alla fortificazione, alla mobilitazione, alla questione dei Quadri. Se si aggiungono gli argomenti militari trattati dal M. dal 1863 in poi, si arriva fin d'ora alla conclusione che gli Avvenimenti del /Xl0-/871 sono l'opera del M. a più largo spettro, anche se riferita a una sola guerra; sono l' opera rnililan:: dove meno pesano gli avvenimenti e più pesano le ritlessioni che da essi prendono spunto (e che, dunque, non sono affatto digressioni). In secondo luogo, si deve osservare che dal 1863 al 187 l - periodo cruciale del militare e dello scrittore - il M. prende posizione su tutti i problemi filosofid, politico-sociali e militari del tempo: sotto questo profilo, è lecito anche ipotizzare che gli Avvenimenti del 1870-1871 siano, oltre tutto, una sorta di autocandidalura politica del M., che in effetti sarà eletto deputato nel 1874. Per altro verso, la variegata fisionomja degli interessi del M. induce a rivedere taluni giudizi del Sosso e anche del Pagani. 123 Il Sosso, come si è visto, distingue tra il generale, il pensatore e l'uomo politico. Si deve ammettere che taluni riferime nti assai specifici del M. alla politica interna e al Papato fanno pensare al M. con vocazioni e ambizioni politiche (non è certo il solo, tra gli esponenti militari del tempo: era cosa pressochè normale), ma per il resto una siffatta distinzione ci sembra troppo schematica, troppo marcata, come se il generale e il pensatore fossero due cose ben distinte se non contrapposte, e quindi poco comunicanti. Come ha ben sottolineato lo stesso M., il legame tra istituzioni militari e condizioni politico-sociali è assai stretto; nel caso specifico, tutto il suo ragionamento ruota intorno al concetto che sui campi di battaglia del 1870-1871 ha vinto non l'esercito prussiano, ma la nazione tedesca, i suoi maestri, la sua strut-

123 Carlo Osvaldo Pagani , Per Nicola Marselli nel primo anniversario della sua morte, in "Nuova Antologia" Voi. LXXX[X - Serie IV Fase. 691 - I ottobre 1900, pp. 452-467.


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tura famigliare e sociale, la sua cultura, la sua scienza; ha vinto cioè una forza non solo e forse non principalmente militare. Dunque, un esame pur diligente ed esteso dei soli aspetti nùlitari della campagna sarebbe deformante; e tra il generale e il pensatore non può esistere nessuna barriera, come insegna anche la figura di Moltke ben tratteggiata dal M .. Anche l'affermazione del Sasso che con gli Avvenimenti del 18701871 il M. entra nel campo sperimentale, cioè nel positivismo, non può essere del tutto condivisa: già nelle prime opere dal 1863 in poi, e in particolare con IL Problema militare dell'indipendenza nazionale, il M. basa le sue considerazioni sull'esperienza, sui fatti storici, sulla realtà: nulla di metafisico, di trascendente, ma - nonostante qualche remfaescenza hegeliana - molta concretezza sia nei punti di partenza che in quelli di arrivo teorici. Infine, non può essere condivisa nemmeno l'affermazione del Pagani che M., "se nel 1871 propugna una semplice amicizia coll'Austria, poco più tardi, comprendendo che per giungere a Berlino è necessario passare per Vienna, diventa fautore di una triplice anziché di una duplice alleanza...". No: fin dal 1870, come si è visto, riscontra un' identità di interessi tra Italia e Germania e una sicura base per una futura alleanza in pretta funzione antifrancese, fruttuosa per ambedue i nuovi Stati-nazione europei. I rapporti amichevoli con l'Austria vengono dopo, sono una necessità non solo per arrivare a Berlino ma per meglio contrastare l'ostilità francese dall'altra parte del confine, rimanendo comunque subordinati alla speranza (vana) di risolvere pacificamente la questione del Trentino. Insomma: il disegno della Triplice c'è già tutto negli Avvenimenti del 1870-1871, mentre gli scritti e l'azione parlamentare futura - specie nel 1880/ I 88 I - ai qualj accenna il Pagani, non ne sono che un 'ulteriore e più specifica manifestazione, perché applicano idee già ben configurate nel 1870-1871. Lo dimostra anche l' unica reazione di rilievo destata dagli Avvenimenti del 1870-1871, dovuta ali' orientamento ftlo-francese di una parte (non si sa fino a che punto importante) dell'opinione pubblica, della quale si fa interprete il principe Carlo Boncompagni. Sulla Nuova Antologia 124 e in dodici lettere ali' Opinione dall'agosto 1871 al febbraio 1872, il Boncompagni critica le idee del M. sostenendo che: - il M. ha ragione a stigmatizzare la pesante ingerenza di Napoleone III nelle cose italiane dal 1860 al 1870 e in particolare la sua ingiusta tutela del potere temporale della Chiesa;

124

Carlo Boncompa&'Tli, V e/le Relazioni tra la Francia e l'Italia dal 15 novembre 1864 al 21 lu-

glio 1871 (Cit.), lettere I e II.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. lii ( 1870- 1915 ) -ffiMO I

- va però considerato che dopo la caduta dell'Imperatore il nuovo Ministro degli esteri francese Favre non si è affatto opposto all'ingresso in Roma delle truppe italiane; inoltre nella Repubblica francese stanno prevalendo le correnti più liberali, più moderate, meno razionaliste e più rispettose della sovranità altrui; - diversamente da quanto sostiene il M., la vittoria della Prussia nel 1870-1871 non è affatto una garanzia per la pace e l'equilibrio in Europa, ma al momento segna solo lo strapotere della Germania. Il M. risponde sulla Nuova Antologia 125 confermando le sue vecchie idee, visto che, a suo giudizio, la Francia del momento "è ancora così arruffata, riottosa, retriva contro gli stranieri da lasciarci poco o nulla sperare e molto temere", mentre il suo futuro atteggiamento è solo "desiderio di antichi amici, ma non più che tanto". Per contro nei rapporti internazionali la nuova Germania ha già dimostrato senno e moderazione; se ciò non avverrà, l'Imperatore di Germania non tarderà molto a cadere, "salvo che la degenerazione nostra e della rimanente Europa non sia tale da far considerare la conquista [tedesca} come una cura corroborante". E così il confronto avviene non partendo da dati di fatto e precisi interessi nazionali, ma da due contrapposte speranze ... Queste non ci sembrano sfumature: sono aspetti di sostanza che non possono essere trascurate nello studio del M .. Pertanto gli Avvenimenti del 1870-1871 meritano assai più delle 11 sole righe che loro dedica il Pieri,' 25 al quale, comunque, bisogna dare atto di essere stato assai più esauriente del Bastico, che si limita a citare questo fondamentale scritto (senza commenti) in nota, soffermandosi unicamente - more solito - sulla Guerra e la sua storia. 126

m Nicola Marselli, Francia, Gemwnia e lialia: lei/era al Comm. Ca rlo 80,icompagni, in " Nuova Antologia" Voi. XX Fase. Vll luglio 1872, pp. 1-2 1. 020 Pieri, Guerra e po/irica (Cii.), p. 2 10; Bastico, L 'evoluzione dell'arte della guerra - Voi. 11 (Cit.), p. 187.


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I~! - IL PENSIERO DI NICOLA MARSELLI: PRIMI SCRIITI ALOSOFlCO-MILITAR.I (1863-1871)

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STATO DI SERVIZIO DEL GENERALE MARSELLI (dall'archivio del Ministero della Guerra - Gabinetto - Ufficio Generali)

MARSELLI Nicola, figlio di Luigi e di Macaluso Marianna, nato il 5 novembre 1832 a Napoli. Ha prestato giuramento dj fedeltà in Reggio Calabria il 5 febbraio 1861. Ammogliato con la damigella Walter Guglielmina I' 11 agosto 1859, con autorizzazione sovrana del 17 maggio 1859.

Alunno nel collegio militare di Napoli ....... . Alunno alfiere del Genio nel disciolto esercito delle Due Sicilie .............. .. ..... ... . Primo Tenente in detto ................ .... Capitano in detto ... .... . ... ..... .. ...... . Tale nello Stato Maggiore del Genio dell'esercito italiano con anzianità 1° agosto 1860 ......... Tale al Comando del Genio ................. Tale di prima classe in detto ............... . Tale nello Stato Maggiore del Genio .......... Tale comandato al Ministero della Guerra ...... Tale nello Stato Maggiore del Genio .......... Tale al Comando del Genio ................. Tale nello Stato Maggiore del Genio, comandato alla Scuola Superiore di Guerra .............. Tale nel 14° reggimento Fanteria ........ .. ... Maggiore in detto continuando come sopra . . . . . Tale effettivo alla Scuola Superiore di Guerra . . . Tale nel Corpo di Stato Maggiore . . . . . . . . . . . . Tale in detto continuando come sopra . . . . . . . . . Tale ammesso al 1° aumento sessennale di stipendio .............. . ..... Tenente Colonnello nel Corpo di Stato Maggiore continuando come sopra ............ . ... . .. Tale al Comando del Corpo di Stato Maggiore .. Tale segretario del Comitato di Stato Maggiore Generale ............................... Colonnello in detto, capo di Stato Maggiore del m Corpo di armata ............ . .......

IO novembre 1842 R.D. 7 settembre 1850 R.D. 31 maggio 1852 R.D. 1 agosto 1860

R.D. 24 gennaio 1861 D.M. 2 luglio 1861 R.D. 8 agosto 1861 D.M. 7 luglio 1864 D.M. 6 sellembre 1864 D.M. 27 maggio 1866 D.M. 28 settembre 1866 D.M. 27 gennaio 1868 R.D. 13 settembre ·1868 R.D. 17 settembre 1868 R.D. 24 dicembre 1870 R.D. 19 marzo 1871 D .M. 2 l marzo 1871 D.M. 11 ottobre 1874

R.D. 6 maggio 1875 D.M. 27 settembre 1875

R.D. 31 maggio 1877 R.D. 28 febbraio 1878


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Tale segretario del Comitato di Stato Maggiore Generale ............................... 18 aprile 1878 Ta]e comandante del 1° reggimento Fanteria .... R.D. 13 ottobre 1882 Tale comandante il 4° reggimento Fanteria ..... R.D. 25 febbraio 1883 Ammesso al primo aumento sessennale di stipendio .......... ............. ...... R.D. 7 febbraio 1884 Tale membro del Comitato delle armi di fanteria e cavalleria ............................. R.D. 29 giugno 1884 Maggior Generale Segretario generale al Ministero della Guerra ... R.D. 6 novembre 1884 Tale esonerato a domanda e nominato membro del Comitato delle armi di fanteria e cavalleria .. R.D. 20 febbraio 1887 Tale comandante la brigata Modena . . . . . . . . . . R.D. 24 giugno 1888 Tale cessa da1la carica di membro della Commissione di cui sopra ............................. D.M. 30 giugno 1888 Tale comandante della Divisione militare di Catanzaro ............................ R.D. 27 marzo 1890 Tenente Generale continuando come sopra ..... R.D. 2 novembre 1890 Tale comandante in seconda del Corpo di Stato Maggiore ............................... R.D. 9 giugno 1892 Nominato comandante del VI Corpo <li Armata Bologna ................................ R.D. 10 gennaio 1895 Tale collocato a disposizione ................ R.D. 3 novembre 1895 Collocato in posizione ausiliaria per ragioni di età dal 1° dicembre 1897 ..................... R.D. 27 ottobre 1897 Morto in Roma .......................... 26 aprile 1899 Socio corrispondente della sezione delle scienze filosofiche della Società Reale di Napoli, accademia delle scienze morali e politiche come da diploma 7 febbraio 1864. Deputato al Parlamento nazionale del Collegio di Pescina (Aquila degli Abruzzi) nelle Legislature Xll, Xlll, XVII. Senatore del Regno, R.D. 10 ottobre 1892. Campagna contro gli Austriaci per l'indipendenza d'Italia anno 1866 Cav. Ordine Corona Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . R.D. 1 maggio 1868 Cav. SS. Maurizio e Lazzaro ................ R.D. 30 dicembre 1872 Cav. Ufficiale Corona Italia . .......... .. ... . R.D. 29 maggio 1879 Comrn. Corona Italia ...................... R.D. 31 dicembre 1884 Cav. Uff. SS. Maurizio e Lazzaro ............ R.D. 15 gennaio 1885


Il - IL PENSIERO DI NICOi.A MAKS!illl: PRIMI SCRIITI FlLOSOFIC.0-MILrl"AIU 1863-1871

Grande Uff. Corona Italia .................. Cav. Ordine Civile di Savoia ................ Comm. SS. Maurizio e Lazzaro ...... .... .... Cav. Di Gran Croce Corona Italia ........... . Grand'Uff. SS. Maurizio e Lazzaro ...........

R.D. R.D. R.D. R.D. R.D.

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20 febbraio 1887 14 luglio 1889 15 gennaio 1893 29 dicembre 1895 12 giugno 1897



CAPITOLO ili

LA SECONDA FASE DEL PENSIERO MILITARE DI NICOLA MARSELLI (1872-1892): TEORIA DELLA GUERRA, ASPETII SOCIOLOGICI, POLITICA DI SICUREZZA E NAVALE DELL'ITALIA

Un più profondo studio della sociologia ha fatto intendere che la società civile è un prodotto necessario delle umane facoltà e degli umani bisogni, e che essa, pertanto, anzi che figlia di artificiali contratti è conseguenza spontanea dell'umana natura. È piuttosto uno special modo di essere dell'uomo sulla terra. Parimenti la società militare, massime nel periodo stnrico della nazione amwta, è una forma speciale della società civile, anzi che un mondo a sé, che abbia per abitanti uomini di altra specie, e però debba essere governato con leggi essenzialmente diverse. Esistono le differenze e derivano dallo stato di maggiore o minor tensione dei due organismi: ma è un errore lo esagerarle a segno da sconoscere che la natura umana riman la stessa, così nella società comune, come in quella militare. L'esercito è uno speciale organo della società civile, come è una delle principali funzioni dello Stato. Nicola MARSEW, La vita del reggimento (1889)

Nel nostro Paese ancora abbondano gli eredi di quegli italiani del 400, i quali credevano che alle grandi nazioni, non ancora costituite, potessero bastare le arti della pace e gli svaghi dei viaggi, i musei e gli alberghi. Non mai l'ltalia patì tanta miseria e tante umiliazioni, quanto nei periodi storici in cui dimenticò che la forza delle armi è uno dei più efficaci fattori del rispetlo umano e del progresso civile. Nicola MARSELLI (1891)


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Premessa Dopo la comparsa degli Avvenimenti del 1870 - 1871 il M. non cessa di pensare - e di lavorare attivamente - a un 'opera che meglio riassuma e qualifichi il suo pensiero sui principali aspetti della storia e dell'arte militare: tale è La guerra e la sua storia, pubblicata nel 1875 a chiusura dell'insegnamento di storia generale e militare presso la Scuola di Guerra. Nel frattempo (1874) è eletto deputato per il Collegio di Pescina (XTT e xm legislatura) e nel 1884, dopo aver comandato il 1° e il 4° reggime nto fanteria, viene chiamato dal Ministro Ricotti (con il quale fin dal 18701871 ha sempre avuto grande affinità di idee) a reggere l' alta carica di Segretario generale del Ministero della guerra, dove rimane fino all'inizio del 1887 . Frutto di tale impegno politico è La politica dello Stato Italiano (1884) 1; infine nel 1889 compare La vita del reggimento, 2 che riflette l'esperienza del M. sia come comandante di reggimento sia come Segretario generale e lascia capire le forti difficoltà da lui incontrate neH' applicare le sue idee alla realtà dell 'esercito del tempo. Queste tre opere, alle quali fanno degna corona numerosi scritti minori, compendiano e rappresentano la fase centrale e più importante della vita e del pensiero marselliani e fanno ben emergere tutti gli aspetti dell' uomo, del comandante, del parlamentare, dell ' uomo di governo, e infine quelli del teorico e sociologo militare, prevedibilmente influenzati dai concetti filosofico-storici precedentemente espressi.

SEZIONE I - "La guerra e la sua storia" (1875) Tanto tuonò che piovve: un 'opera, questa, come poche altre preannunciata, sentita, progettata, vagheggiata da anni (Cfr. il precedente cap. II), che rispecchia come tutte le altre la tendenza del M. alle larghe inquadrature e ulteriormente ne dimostra l' utilità ai fini militari. La necessità dell'opera, le finalità che intende conseguire, i capisaldi della materia da trattare si trovano già esposti negli scritti del decennio precedente, con particolare riguardo alla Prolusione al corso di storia generale del 1868 e al

1 Napoli, Morano 1882. z Marse lli, cii. Per le note d'ora in avanti noi ci riferiremo all' ullima ristampa 1984 a cura dell'Ufficio Storico SME.

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lii - LA SECONDA PASE DEL PENSIERO DI NICOLA MARSELLJ 1872-18~

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Dialogo sulla strategia del 1869. Due i motivi traenti di quest'opera che vuol essere - ed è sotto vari aspetti - conclusiva: la mancanza di una sloria dell 'arte militare che sia in relazione con quella della civiltà (già riscontrata nella predetta prolusione) e i limiti dell'approccio di Jomini, che risultano dai due saggi dedicati aJlo scrittore svizzero. M. vuol fare qualcosa di diverso, di migliore rispetto ai grandi maestri del pensiero militare: che ci riesca o riesca del tutto, è cosa sub iudice. Sul piano generale, La guerra e la sua storia può dirsi il seguito (militare) della precedente Scienza della storia (1873) e in particolare dal punto di vista teorico "è figlia del bisogno, generalmenle sentilo, di uscire così dallo stato di schiavitù come da quello di ribellione, e di conquistare la libertà del pensiero scient(fico e dell 'arte pratica". 3 In secondo luogo essa rispecchia i concetti-guida e l'esperienza dell'insegnamento unificato di storia gcneraJe e storia militare che "a causa di eccezionali condizioni" (cioè non per scelta didattica deliberata, ma per esigenze contingenti) il M. ha tenulo presso la Scuola di Guerra di Torino, a partire dal 1868-1869 e per altri due anni. Lo stesso M . definisce questo duplice incarico una rara fortuna, perché in tal modo "potei adoperarmi a collocare la faccetta della Storia militare sul prisma di quella generale, e a dare in qualche modo forma al lavoro che dal Guihert, dal Carrion-Nisas, dal Thiers e da altri scrittori fu vagheggiato, che il Blanch sbozzò, e la cui attuazione più compiuta risponde a una necessità dei tempi, ad una tendenza della Scienza moderna. li lavoro consiste nel porre gli avvenimenti militari in relazione allo svolgimento della Civiltà, coordinare cioè nella Scienza e nella Storia quello che nella Vita è uno". 4 Obiettivo più che prevedibile, visto che - sia pure in un quadro più ristretto - egli l' ha perseguito anche nelle opere precedenti. La guerra e la sua storia è dunque un approfondimento di tematiche già trattale, peraltro con particolare attenzione alla parte militare e storico-militare e molto minore attenzione - anzi nessuna attenzione - per gli argomenti di carattere politico (e politico inlemo) che caratterizzano i precedenti Avvenimenti del 1870-1871: nessun accenno alJ'ostilità francese, alla necessità di un' aJleanza con la Germania e di rapporti amichevoli con l' Austria, nessun riferimento alla politica interna, al socialismo, al comunismo ecc ..

3

Marselli, La Guerra reale (Cii.). Marselli, La Guerra e la sua sturia (Cit.). Pre fazione, p. I. Per le note d'ora in avanli ci rireriremo alla prima edizione 1875. 4


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IL PliNSIBRO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Ill (1 870- 1915) - TOMO I

Molto probabilmente queste omissioni sono dovute a sopravvenute ragioni d'opportunità e al fatto che l' opera deriva pur sempre dalle lezioni tenute alla Scuola di Guerra. Essa quindi risente di esigenze didattiche, non senza inconvenienti riscontrabili nella frequente mescolanza di argomenti non omogenei nei tre volumi che la compongono, nella presenza in ciascun volume di parti filosofiche, teorico-militari e applicative non sempre ben raccordate tra di loro, con uno stesso argomento trattato e ripreso in diverse parti, senza una chiara e definitiva ripartizione - secondo una successione logica - degli argomenti connessi con i tre cardini dell'opera: il problema storico-filosofico del raccordo tra guerra e civiltà, quello teorico e storico militare e infine gli accenni - pochi ma assai significativi alle scelte strategiche e ordinative più convenienti per l'Italia. Come risulta molto chiaramente dallo stesso titolo, il M. si volge alla storia sia per capire l'intima essenza della guerra e dell'arte della guerra del momento, sia per trovare una base per le soluzioni pratiche dei principali problemi militari, a cominciare da quelli del reclutamento, dell'ordinamento e della difesa dello Stato. Più in generale, l'ordito e le finalità della Guerra e sua storia si compendiano nella necessità di non scindere la guerra dal1a civiltà, l'esercito della società, gli studi generali da quelli militari, "parendomi ai di nostri più che mai necessario che il paese si militarizzi e l'esercito allarghi l'orizzonte dei suoi studi". Questo vale specialmente per le nazioni, come l'Italia, che di recente hanno conquistato la loro indipendenza, e che debbono imparare ad evitare "così la fiacchezza dell'antica servitù, come le intemperanze della nuova libertà"; sarebbe perciò utile "istituire nelle Università del Regno almeno un Corso di storia militare". 5 Superfluo rilevare che questi orientamenti non nascono all'improvviso, così come non nasce all'improvviso l'impostazione dell'opera stessa, frutto di un lungo lavoro che trova alimento nelle riflessioni del decennio precedente e comincia ancor prima della guerra franco-prussiana, per essere probabilmente interrotto dalle riflessioni teoriche che gli avvenimenti di tale guerra impongono. Ne troviamo già ampie tracce in un lungo articolo dallo stesso titolo dell'opera pubblicato dal M. sul1a Rivista Militare del giugno 1870,6 nel quale esprime il suo intendimento di dedicarsi a un'opera non solo militare e non diretta ai soli militari, facendo però in modo che l'elemento militare non prevalga in misura eccessiva su quello

' ivi, p. 5 0 Marselli, Art. cit. "Rivista Mi li tare [taliana" giugno 1870.


lU - LA SliCONDA ~ASE DEI. PENSIERO DI NICOi.A MARSELLI (1872-1892)

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storico generale, perché in tal caso "la storia generale troverebbesi posta sullo sdrucciolo di starvi piuttosto come cornice, che come complesso del quadro della civiltà_ Ed allora codesto quadro perderebbe La sua bella armonia"_ TI suo scopo è di "presentare una sintesi organica in cui le condizioni militari della società scaturiscano a mo' di corollario dalle generali", tenendo presente che l'istruzione tecnica è indispensabile per il militare, ma "lascia lo spirito dove lo trova"; perciò egli deve ampliare il campo dei suoi interessi, conoscere l'uomo, "pensare e poi pensare". Di qui l'utilità dell'insegnamento della storia generale e la necessità di una storia militare che non si perda in particolari degli avvenimenti, perché "i fatti nella storia sono importanti, ma come mezzo. Chi ne fa lo scopo snatura la storia, vizia le intelligenze e dimostra di non avere l'ingegno per comprendere che le idee, quando sono concrete, i principi, quando sono veri, sono i più concreti e veri fatti al mondo"_ Porta aperta, dunque, anche alle idee, a tutto ciò che è spirito: approccio singolare per uno studioso che continua ad apprezzare il positivismo. Appare comunque coerente con tale approccio il merito principale di M., che è quello di aver introdotto il pensiero di Clausewitz in Italia, sia pur senza risparmiargli critiche di sostanza, e al tempo stesso di essersi opposto - tra i pochi - alle interpretazioni più smaccamente dogmatiche e scolastiche di Jomini, al tempo (e non solo a quel tempo) molto in voga in Italia. Il tentativo di conciliare spirito e materia, valori spirituali e fattori materiali appare anche dal chiaro, dichiarato e ambizioso intento di M. di superare sia Clausewitz che Jomini per tracciare finalmente i lineamenti di un pensiero militare e strategico autenticamente nazionale, quindi con propri caratteri distintivi. Di Clauscwitz apprezza l'accento posto sulle forze morali, che consente di equilibrare il freddo razionalismo jominiano; ma non condivide, anzi giudica pericoloso - perché suscettibile di essere male interpretato - lo scetticismo del generale prussiano sulla possibilità di formulare principi sempre validi: avendo caldamente raccomandato agli ufficiali italiani lo studio dell' opera del Clausewitz, a fine di non vederli rimanere immobili nella via aperta da Jomini e dall'Arciduca Carlo, cui la maggior parte di essi ha seguìto in sino a poco, e di spingerli alla sorgente del grande fiume di opere tedesche che oggi c'inonda, era nostro obbligo combatterne la tendenza scettica, vagliarne alcune idee fondamentali, stabilire chiaramente il nostro punto di vista e tentare di fare, in mezzo a tante cose


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francesi, svizzere, austriache, prussiane, inglesi ecc., qualche cosa di italiano e insieme di non esclusivo. Ma c'è di più; il pirronismo [cioè la tendenza alle forme estreme di scetticismo teorizzate dal filosofo greco Pirrone di Elide - N.d.a.] di uomini come il Clausewitz e il Verdy [de Vemois: generale e scrittore militare coevo tedesco - N.d.a.] non cispaventa di per sé; perché gl' illustri scrittori si muovono mentre negano il moto, si adoperano a sostituire un modo di studiare a un altro, insomma si muovono e studiano; ma che cosa non farebbero certi praticoni, quando col dire che a nulla serve lo studio in un'arte che non ha regole, credessero di essere nientemeno che seguaci del Clausewitz? Di già cominciasi a sussurrare che nei libri non s'impari nulla dell' arte della guerra, e che due cose ci vogliono csscnziaJmente: lo studio del terreno e il regolarsi secondo le circostanze.7

Dimostreremo se e in che misura quello che il M . stesso definisce un tentativo può considerarsi riuscito. Va detto subito che, a tutt'oggi , nessun' altro autore, in Italia o all'estero, ci ha fornito un· opera con ambizioni teoriche paragonabili alle sue. Definire le grandi linee del suo pensiero nella Guerra e sua storia è dunque un pa<;saggio obbligato, che richiede il dovuto spazio. Non sarebbe utile - e sarebbe al più una semplice presa dicoscienza - dedicarle solo qualche pagina, come finora ha fatto la generalità degli scrittori e storici militare, con la (parziale) eccezione del Pieri ; e va qui ricordato che opere complesse come questa segnano un'epoca, quindi non possono essere ignorate nemmeno dai cultori dell' histoire-bataille o da chiunque voglia occuparsi degli aspetti militari (o sociologico-militari) della seconda metà del sec. XTX. Dopo averne indicato i principali motivi ispiratori rimane da dire qualcosa sulla complessa materia, suddivisa in ben sette Libri, dei quali i primi tre (che trattano in prevalenza argomenti attinenti alla "scienza storica della guerra" e al rapporto tra civiltà e guerra) sono riuniti nel I Volume, il IV e V (che trattano la politica militare, l'arte militare e le sue parti componenti) nel II Volume, mentre il VI e VII (di carattere prevalentemente storico, con lo studio dei "tipi strategici da Federico a Moltke" e delle "leggi di evoluzione dell'arte militare") fanno parte del III Volume. Una trattazione che seguisse l'ordine prescelto dal M. sarebbe dispersiva e poco chiara: abbiamo perciò preferito stabilire con nostri criteri una diversa successione logica degli argomenti, che ci consente anche di dare

7

Marselli, La Guerra e la sua storia (I• Ed, 1875), Voi. Il pp. 335-336.


IIJ - LA SECONDA FASE DEL PENSIERO DI NICOLA MARSELLI (1872-1892)

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maggior risalto ad aspetti - come il punto di vista del M. sui principali problemi militari del momento - che nell'opera sono assai sfumati e qua e là dispersi, e che per noi oggi sono di elevata importanza.

L'evoluzione parallela della civiltà e della guerra e il problema della pace Su questo argomento M. non fa che riassumere le affermazioni delle opere precedenti, tentando come sempre di conciliare la tendenza di Hegel a risolvere gli opposti in una sfera superiore, con l'evoluzionismo tipico dei positivisti anglosassoni (Spencer, Darwin, Buck1e), che anche nell'evoluzione parallela della civiltà e della guerra, nei loro reciproci rapporti vedono qualcosa di analogo a quanto accade nel mondo animale. La guerra - continua ad affermare il M. - non può essere collocata al di fuori dalla civiltà, perché ne è lo strumento necessario, è un fenomeno dell'attività umana e persino un fattore di progresso. Perciò egli condanna l'abitudine degli "intelletti volgari" di considerare, nella storia, i vari elementi di un fatto complesso non solo come diversi, ma anche come contraddittori. Così facendo la civiltà e la guerra, il diritto e la forza, il diritto e il fatto, diventano fattori in collisione frontale, tra i quali si rompe ogni legame. Invece "la guerra, nel suo concetto più alto, è la conseguenza di un disequilibrio tra opposte potenze, e della necessità che dall'urto esca fuori un equilibrio. In quel disequilibrio sta il fato istorico delle conquiste, e in questo equilibrio il fato del loro fine e del nuovo assetto sociale che esce dal cozzo violento". 8 In tal modo per M. la guerra non è che lo specchio della lotta per l'esistenza che secondo Darwin si combatte nel mondo animale, e della concorrenza vitale che secondo il Malthus si fanno i popoli. Tale lolla non è casuale, ma ha precise e positive finalità: come avviene anche nel mondo animale, essa premia il migliore, cioè colui che ha maggiori probabilità di sopravvivere [il più forte è sempre il migliore? - N.d.a.]. Perciò (come il Nostro non si era stancato di sottolineare negli Avvenimenti del 18701871) i conflitti della storia dell'umanità sono dominati dalla legge dell'evoluzione progressiva, "mediante la quale trionfano quelle nazioni che meglio rispondono alle mpirazioni dello spirito umano" (qui egli non indica più come esempio la Prussia).

8

ivi, Voi. I pp. 104- 106.


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IL PtNSlt::KO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. lii 1870-191 5 -ffiMO I

Sempre come avviene anche nel mondo animale, i conflitti dell' umanità non sono dominati solo da interessi materiali, economici: "il mondo umano ci sembra inconcepibile senza malanni, dolori, bestiali passioni e lotte cruente, come la natura senza venti, tempeste e fulmini". La guerra è dunque la risultante dello scontro di forze materiali e morali; dal punto di vista politico è un conflitto tra opposte genti o potenze, delle quali ciascuna vuole imporre all'altra la sua volontà. La sua essenza militare sta nel1' urto; e qui il Marselli apre la porta al concetto di dissuasione, aggiungendo che tale urto "o accade realmente o vorremmo dire mentalmente, in quanto che le parti belligeranti, calcolate le probabili conseguenze dell'urto reale, convengono nella risoluzione di evitarlo, e fanno la pace secondo il giudizio derivante da quel calcolo di probabilità". 9 Quasi parafrasando Clausewitz, il M. afferma anche che "la guerra non è una malattia militare, né mero sfogo alla libidine dei potenti; ma è La crisi dell'attività sociale che trovasi allo stato di congestione. Prende svariate forme, e può essere o dinastica o conquistatrice o economica o civile o religiosa o nazionale; ed avere o un movente generale ed essenziale, cioè sociale, od individuale ed arbitrario ". 10 Dal punto di vista militare, e considerata nel suo limite estremo, è distruzione dell 'esercito e delle risorse belliche del nemico; ma l'influsso della politica e l'istinto di conservazione, che non abbandona mai l'uomo, frenano la sua foga distruggitrice. Abbinando tale tendenza al determinismo evoluzionistico già tipico di Blanch, che governa la vita animale così come quella dell'uomo, M. giunge a conclusioni radicalmente anticlausewitziane: "secondo che con La Civiltà si svolge il senso dell 'umanità, si restringe il campo dell'azione distruttiva, la quale dapprima travolgeva nel suo corso tutte le umane cose". Ne consegue che, in passato, l'assenza totale di guerre si sarebbe tradotta in un ristagno della civiltà; ma le conquiste, che per tanto tempo sono state "una benefica necessità ", con l'avanzare del progresso e della civiltà "non possono più pretendere ad essere l'unico gran veicolo della civiltà nuova sulla vecchia, l'unico strumento generatore delle Larghe comunicazioni terrestri e marittime, delle relazioni sociali". Anche i nuovi principi di nazionalità e non intervento pongono un freno alla legge di selezione naturale, 11 mentre la forma monarchica tipica delle guerre di conquista "tende ad essere sostituita da una unità più tranquilla e moderatri-

" ivi, p. 103. IO ivi, p. 128. " ivi. p . 109.


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ce, dai Congressi delle Nazioni". Questi nuovi organismi contribuiranno se non altro a evitare guerre causate da fattori accidentali, perché corrispondono alla minor propensione dei popoli a combattere guerre che non siano "lotta per l'esistenza o per l'affermazione di un nuovo principio che ponga in rivoluzione la società". A questo punto compare nitidamente la prospettiva delJ'unità europea, la quale peraltro non è di per sé garanzia di pace: "noi dobbiamo ammettere come possibile il costituirsi di una Confederazione europea, e dobbiamo riprometterci da essa e da tutta l'azione delle forze incivilitrici una grande diminuzione dei casi di guerra. Ma da codesto {obiettivo] alla loro compiuta disparizione corre gran divario, e coloro che non lo ammettono scambiano la meta a cui si vuol giungere con la strada che a quella conduce". Gli Stati Uniti, pur essendo nazione libera e democratica, anziché guerre esterne hanno fatto la guerra civile; e se la Francia non fosse stata contemporaneamente impegnata in Messico sarebbe intervenuta con qualche pretesto in quella guerra civile, trasformandola in internazionale. Sarebbe perciò ingenuo supporre che in futuro non si ricorrerà più alle armi: nessuna Confederazione di Stati europei riuscirà a distruggere la possibilità che parte di questi neghi di accettare il verdetto d'un aeropago, il quale violi interessi che essi stimano vitali. Oltre di ciò vi è da osservare che, a cagione della legge di azione e reazione, l'attuale movimento di formazione delle nazionalità sarà seguìto probabilmente dal ritorno alla vita locale e particolarista, dal ri sorgere della vita comunale e provinciale. Non sarà un perfetto ri torno, perché nulla ritorna a modo uguale; il fatto sarà diverso, in quanto che le forze centrifughe non intenderanno a dissolvere il sistema nazionale, sì bene ad armonizzarsi con quella centripeta; ma ciò non toglie che reazione vi sarà, nel senso che i membri vorranno riprendere una grandissima parte di quel potere del quale fecero getto sull'altare del centralismo. La Spagna n'è un esempio, e si sa che l'idea particolarista ha preso largo posto nel progranuna dell'Internazionale. [ . .. ] A proporzione che le guerre tra nazioni scemano, e che l'amore alla grande patria non è tenuto desto da' serii pericoli e dai molti e stretti legami, svolgesi così fatto sentimento di vita locale. L'uomo attende allora con ogni sua possa ad ordinare la detta vita nel modo più autonomo al mondo, e probabilmente urta nell'altro uomo il quale vorrebbe frenare il carro per una via che potrebbe menare lo Stato alla dissoluzione in molecole disorgani zzate. Essendo molteplici i modi di conciliare l'unità nazionale col separatismo locale, e potendo


IL PENSIERO MILrlARE F. NAVAW ITALIANO · VOL. IU (1 870-1915) -TOMO I

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gli uomini essere diventati stanchi della lunga pace, come oggi dicono di esserlo delle frequenti guerre, s'inferisce che gli Stati potranno trovare in sé stessi quelle cagioni di guerra che non tTovano più tanto in fra loro. 12

li M., dunque, giudica già in via di superamento il concetto di guerra tra Stati e con mirabile preveggenza intuisce, fin da allora, che la prospettiva de11'unità europea sarà bilanciata dal ritorno ai localismi, senza con questo poter garantire in via assoluta l'assenza di conflitti anche interni. Ancora una volta, previsioni che valgono solo a lungo termine. Del tutto aderente alla realtà, invece, quanto afferma sul vero volto di certi pacifismi e movimenti rivoluzionari rimasti in voga per tutto il secolo XX e fino alla caduta del muro di Berlino: è impossibile non rimanere sorpresi dal fatto che a' nostri dì il grido di

guerra esce da' medesimi congressi della pace, i quali vorrebbero sopprimere la guerra tra nazioni per elevare a potenza la rivoluzione in esse. E la rivoluzione è 1:uerra civile, come la guerra tra nazioni è rivoluzione internazionale. È vero che ci si lascia sperare essere questa che si vuol combattere l'ultima battaglia della civiltà contro la barbarie [così è stato detto, in effetti, ai popoli nelle due guerre mondiali - N.d.a.]; ma chi potrebbe credere che il mondo si riposi indefinitamente in una civiltà che vorrebbe abolire la proprietà, la famiglia e le differenze create dalla natura e dal lavoro? Gli uomini penseranno certamente che la guerra è migliore d'una simile pace, anzi la morte è migliore d'una simile vita. E correranno alle armi! Tutto c'induce a sperare che col tempo scemerà nelle questioni interne l'appello alla rivoluzione come in quelle esterne l'appello alla guerra, che i popoli civili e maturi affideranno sempre più i mutamenti negli ordini politici e sociali al lavorio calmo della ritlessione, anziché alle scosse violente della for7.a materiale; ma nulla c'induce a credere che le tempeste queteranno per sempre e che il fulmine venga incatenato per secoli dei secoli. La pace domerà la guerra nel senso che le soluzioni della forza diverranno l'eccezione, anzi che la regola; ma non è possibile ammettere l'assoluta cessazione delle morbose passioni. L' aggettivo perpetua, messo a fianco della pace, è quello che esagera la dottrina dei filantropi umanitari sino all'assurdo. 13 12

13

ivi. pp. 136- 138. ivi. pp. 138- 139.


lii - LA SECONDA FASE DEL PENSIERO DI NICOLA MARSELLI (1872- 1892)

Tra queste parole e la realtà del XX secolo vi sono due guerre mondiali: ma potrebbero essere scritte anche oggi, dunque ci aiutano a interpretare quanto è avvenuto nel nostro secolo e a prevedere quanto avverrà nel futuro, senza troppi ottimismi ma anche senza catastrofismi. Dopo tutto M. non vede il futuro così nero, anzi è fin troppo ottimista; l'affermazione del Quetelet, secondo il quale la civiltà "restringe sempre più i limiti nei quali oscillano i diversi elementi relativi all'uomo" gli fa ritenere l'uomo perfettibile; e si rallegra anche dell'accordo che regna su un punto sostanziale, cioè che "la Civiltà col suo svolgersi ha fatto, fa e farà sempre più trionfare la ragione sulla forza, il bene sul male, l'agiatezza sulla miseria, i lumi sull'ignoranza, la pace sulla guerra". 14 Corrisponde a questa rassicurante tendenza evolutiva la previsione esatta a lungo termine ma errata a breve e medio termine - che "la guerra diverrà meno !>pessa e più breve, non tanto per le armi peifezionate, quanto per il predominio del pensiero politico, per l'accresciuta tolleranza, per la diffusione della cultura, per la maggior coscienza dei reali interessi sociali, per lo sviluppo industriale". 15 Oggi - egli constata - si vuole circoscrivere la guerra agli eserciti, eliminando ogni forma di brutale violenza, che non sia assolutamente indispensabile al conseguimento del fine militare e politico. Ma anche un siffatto modo, più civile, di concepire la guerra non è privo di pericoli e inconvenienti: "una attenuazione soverchia del [suo] carallere distruttivo nef?herebbe l 'essenza della guerra e insieme aumenterebbe il disagio della società, perché impedirebbe alle crisi di essere risolutive". Di conseguenza il progresso deve rendere le guerre sempre più brevi e sempre più rare: "ma appunto per farle brevi, devonsifare distruttive. A questo modo la nozione della Guerra si armonizza con quelle della pace". 16 Ecco la grande previsione, o meglio illusione, dei politici e militari fino a tutto il XX secolo! Come avviene anche in Clausewitz, dopo aver messo in primo piano l' influsso unidirezionale e moderatore della politica il M.contraddittoriamente conclude che le guerre del futuro devono essere brevi e violente, in tal modo mettendo loro una sorta di camicia di forza e assoggettandole a schemi e leggi evoluzionistiche estranee allo stesso Clausewitz, oppure al predominio di passioni e forze morali di per sé non soggette a evoluzioni, al quale egli stesso accenna.

"ivi, p. 143. " ivi, p. 109. 16 ivi, p. I 04.


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_ _ _ ___,l,,_ L '-' PE=·NSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO- VOL.111 (1870· 1915) • TOMO I _ _ __

Nelle due guerre mondia1i - noi osserviamo - avverrà esattamente il contrario: lo sviluppo industriale, la diffusione della cultura ecc. produrranno campagne lunghe e di logoramento, combattute più o meno di malavoglia da grossi eserciti ed estese - ciò che M. sembra escludere - alla popolazione civile. Si fa sentire, in queste previsioni, il grande peso del modello delle guerre germaniche del 1864-1871, e il peso molto minore della guerra di secessione americana; anche il Marselli è dunque prigioniero del mito della guerra breve e solo di eserciti, che domina il pensiero militare europeo dal 1870 al 1914. Peraltro, par di capire che le sue previsioni sulla brevità e maggior violenza distruttiva delle guerre future si riferiscano solo al breve e medio termine: proprio perché le guerre diventeranno sempre più rare - egli afferma - "Lo sviluppo democratico, industriale, scientifico, pacifico" avrà sempre più la prevalenza sullo spirito guerriero dei popoli. Quindi I posteri vedranno avverarsi in pace l' ideale del Machiavelli, cioè il pieno ritorno dell'esercito nel seno del paese, l'abolizione di ogni eserciLo stanziale. Ma in tale stato non vi saranno eserciti che possano conservare alla guerra il suo carattere di pronta soluzione. Fatta da uomini meno esperti, essa procederà a tentoni, e sarà meno breve; ma tale maggiore lunghezza sarà compensata ad usura della grande durata degl'intervalli di pace. 17

Parole che possono essere interpretate in diverso modo: è tuttavia lecito dedurne che i grandi eserciti di massa derivanti dalla mobilitazione in una società industriale mancheranno di spirito guerriero, quindi non potranno risolvere rapidamente le guerre; o che anche i conflitti di fine secolo XX, non potendo essere risolli rapidamente con fo1ti eserciti animati da elevato spirito guerriero, si trascineranno a lungo .... Come dire: anche la mancanza di spirito guerriero ha i suoi inconvenienti.

Storia militare e critica storica: loro rapporto con l'arte militare e loro ruolo nella formazione dei Quadri 11 rapporto tra storia militare e storia generale, la critica storica, i suoi obiettivi e la sua metodologia sono un momento centrale del pensiero del

17

ivi, pp. 2 18-2 19.


UI - LA S ECONDA FASE DEL PENSIERO DI NICOLA MARSEI.LI ( 11!72-1892)

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M. e determinano anche il suo approccio all'arte militare e strategia. Il suo concetto di storia "progressiva", deterministico e evolutivo come quello del Blanch, è agli antipodi di quello del Clausewitz e può essere così riassunto: nulla accade nella Storia senza profonda ragione, e però nulla sparisce senza lasciar traccia di sé. I principi che poniamo ricevono la loro dimostrazione dai fatti storici. Se la storia è progressiva, com'è di fatti, e se ha camminato mediante la Cultura e la Forza, quella ha dovuto far poggiare la coscienza ad una nozione di diritto, sempre più alta, e questa tradurla in fatto; quella apparecchiare una situazione sempre più civile, e questa recarla ad allo. Basta gittare un rapido sguardo ai principali cambiamenti avvenuti in Europa dal trattato di Westfalia ai dì nostri, per rendersi accorti della verità di tale principio. 18

Clausewitz ha affermato che la guerra si sottrae a regole umanitarie, individuando indirettamente - sotto l'influsso di Machiavelli - anche la separazione tra politica e morale; M. indica nel diritto - non nel caso o nella forza bruta - il principio regolatore della storia delle guerre. Ma - come già aveva più volte sottolineato negli Avvenimenti del 1870-1871 - il diritto tende a conciliarsi, anzi a coincidere con la forza; poiché deve sempre vincere il migliore, le sue azioni quali che esse siano sono benedette dal diritto e ne acquistano la forza (diventando così espressione - checché ne dica il M. - non della forza del diritto, ma del diritto della forza). Largamente smentito dalle guerre del XX, M. si illude che, con l'avanzare della civiltà, trionferanno sempre più i princip:ì umanitari (e quindi - se ne deduce - la forza diventerà sempre meno distruttiva, meglio conciliandosi col diritto), e in tal modo i rapporti internazionali potranno essere impostati "su una base che va chiamata naturale, non nel senso di un ritorno allo stato dinatura - selvaggio, licenzioso e bestiale - ma nel senso dell' assetto più confacente alle condizioni geografiche, linguistiche, etnologiche, storiche, civili delle nazioni". È frutto di un abbaglio, di un'illusione senza sbocchi pratici positivi anche la pretesa del M. di sottoporre i mutamenti dell' arte militare - che tali e solo tali rimangono, senza segnare rivoluzioni o essere frutto di un'evoluzione con carattere lineare - alle stesse e ben definite leggi progressive che a suo parere governano lo sviluppo dell'umanità così come l ' evo-

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ivi, pp. 109- 110.


IL PENSI ERO MILITA RP. I! NAVALE ITA LIANO - VOI.. lii (1870- 19 15)- TOMO I

luzione del mondo animale. Intende infatti "delineare a grandi tratti la Legge di evoluzione dell'arte militare [ma se è un'arte, non si evolve! N.d.a.], e propriamente del modo con cui gli uomini vennero ordinati e di:,posti per la pugna. Questo è il fatto più concreto della guerra, e quella legge è il più alto risultato della sua Scienza storica" [nostre sottolineature - N .d.a. ]. Una pretesa che lo porta a cadere nello stesso errore, che avrebbe voluto evitare fin dall'inizio: Dobbiamo rinunziare alla pretensione di ritrovare una perfetta consonan7.a di svolgimento tra le forme della storia generale e quelle della militare. In generale è mestieri muoversi senza pedantismo, con fare largo, in così fatte classificazioni; altrimenti l'arbitrio delle costruzioni soffoca la verità del contenuto, e il reale ci sfugge in mezzo alla apparente regolarità delle categorie. È questo lo sdrucciolo di tutte le classificazioni ideali: quadri troppo architettonici di una realtà spesso rimescolata. 19 In questo contesto, la storia militare non può essere che contemporanea o del passato. Distinzione tautologica, non chiara e non necessaria, visto che la storia sia pur con l' occhio del presente guarda sempre al passato, che il M. giudica come facenti parte della storia "contemporanea " anche .... I Commentari di Cesare, e che per ambedue le storie indica tre forme: spontanea, riflessiva e con tendenza scientifica, soffermandosi peraltro solo su1la storia contemporanea. La storia spontanea (della quale sono appunto esempio i Commentari di Cesare) si limita alla semplice narrazione degli avvenimenti, è insomma pura histoire-bataille; la storia riflessiva aggiunge ai fatti delle osservazioni staccate, delle considerazioni analitiche. Esempi di quest'ultimo tipo di storia sono l' Histoire de mon temps e La guerre de sept ans di Federico Il di Prussia, del quale - diversamente da Jornini e Clausewit.z - il M. non ha grande stima: lo accusa di ricercare le cause degli eventi bellici non nella storia ma nelle alcove di Elisabetta d' Inghilterra e della Pompadour, attribuendo le sue vittorie non all'applicazione dei principi' dei grandi condottieri dell' antichità, ma "alla costanza con la quale, sfidando per sette anni l'avversa fortuna, si meritò di trarre partito dalla buona", alla quale si aggiungono l'ingegno e la tenacia, che lo hanno fatto trionfare del caso (dal canto nostro, abbiamo già dimostrato nel Yol. I - cap. 1 che i suoi scritti meritano ben altra considerazione ....). Infine, per M. le Memorie di Na-

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ivi, pp. 17- 18.


---~ 11~ 1 -~LA ~ = SECONDA PASE DP.I. PENSIERO DI N ICOLA MARSELLI ( IK 7 2 ~-

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poleone sono il prototipo deHa storia scientifica, perché vi si scorge "una mente sovrana che si eleva alla sommità delle idee generali e scientifiche nella regione dell'arte militare, che ha preso coscienza di quel che ha fatto, che formula i principi che L'hanno guidato, che li applica alle operazioni dei grandi capitani (dal quale lato egli potrebbe andar collocato fra gli storici del passato) e trovandoli immanenti li proclama assoluti". 20 Tuttavia - precisa il M. - queste Memorie esprimono il punto cli vista d'un uomo d'azione, non sono l'opera didattica di un pensatore; egli ha fornito aJla storia militare, intesa in senso scientifico, solo "elementi lavorati dal pensiero".· non è poco, ma non è tutto il necessario. Per raggiungere pienamente l'obiettivo, per trasformare la storia della guerra in scienza storica della guerra, il M . propone la stessa metodica indicata nella Scienza della storia, la quale non deve essere induttiva (cioè muovere dal particolare al generale, dal fatto al principio generale) come per Jomini, ma prevalentemente deduttiva. Essa consiste cioè nello studiare le operazioni militari già alla luce "dei principi c he le governano e che dall 'esame di esse debbonsi desume re". Più nel concreto, è il far vedere, attraverso di tutto lo svolgimento della storia militare, l' immutabile e il mutahile, la costante e la variabile[ ... ]; è l'esame cri-

tico degli esempi che insegnano a trascurare una regola per l'altra [ ... ] è l'interrogare i fatti nello spirito, il non far la storia da dilettanti e l'ap-

portarvi quel corredo di cognizioni speciali che è necessario per spiegarsi anche il meccanismo tecnico della guerra_ 2 1

Egli giudica utile questa metodica soprattutto per l'insegnamento, dove è una "stella polare" per lo studio della storia. Ma quando si tratta di "studi elementari" e cli nuove ricerche, quando sono ancora incerte le basi cli una disciplina, riconosce come più utile il metodo induttivo; peraltro, anche quest' ultimo si presta al pericolo di travisare i fatti, "per farli servire a uno scopo prefisso e segreto". 11 che - noi osserviamo - è vero; vero anche però, che la pretesa di privilegiare il metodo deduttivo non è affatto giustificata in un'opera rivolta non solo agli allievi della Scuola di Guerra, che si prefigge di dimostrare ex-professo il legame tra il modo di fare la gue rra e la storia. Senza contare che i principi - se sono tali - una volta stabiliti (e lo si può fare solo con il metodo induttivo, che dunque è il più im-

/O;,,;, p. 2 1. 11

il'i. p. 24.


248

_ _ _l=L -'--' PENSIERO MILITARE I:: NAVALE ITALIANO - VOL. Ili 1870-191 5) - TO_M_O_I _ __

portante) non hanno alcun bisogno di ulteriori verifiche e conferme, le quali comunque derivano sempre dall'applicazione incrociata dei due metodi. Stabilire i principi per il M. non basta: bisogna individuare, per quanto detto prima, i rapporti tra storia militare e generale, tra milizia e civiltà, "rintracciando nel cammino dell'Arte militare le medesime leggi che governano lo svolgimento della società". Anche qui sorgono al lettore dei dubbi. Le leggi poggiano su principi: come si può trovare tale raccordo, se l'Arte militare ha già tratto per conto suo, cioè solo dallo studio specifico e specialistico delle guerre, principi propri? Come possono sempre valere per essa le medesime leggi che governano la società? M. riconosce indistintamente a Napoleone, ali' Arciduca Carlo (come tutti, sembra temere di criticare quest'ultimo), a Jomini e persino a Clausewitz "/'onore di aver chiaramente formulati e tutti abbracciati e dedotti" i principi (il che, nel caso di Clausewitz, non è vero). A suo avviso, essi furono coloro che "più di tutti contribuirono ad assidere la storia militare sopra una base scientifica" (anche in questo caso, Clausewitz non ha tale merito); in tal modo "i principf della scienza militare (sic) risultarono dalla Storia, dall'esame delle campagne, e divennero poi la luce per ispiegarsi le campagne". Tuttavia rimane ancora da fare "una Storia militare generale, consistente nell'abbracciare tutto lo svolgimento della Storia militare e nell'apportarvi la luce delle nuove ricerche e delle conquiste fatte dal pensiero".21 Questo anche perché - come già hanno fatto Jomini e lo stesso Clausewitz - il M. giudica il lavoro di coloro che l'hanno preceduto in questo campo (Guibert, Carrion Nisas, Rocquancourt, La Barre Duparq, Via!. .. ) solo un tentativo con risultati poco soddisfacenti. Non si sottrae alle sue critiche nemmeno il Blanch, i cui Discorsi sulla scienza militare - egli osserva - sono rimasti, in Italia, meno noti di quanto avrebbero meritato, "quantunque fossero stati protetti dal miglior passaporto per entrare nelle grazie del colto pubblico italiano: la lode agli stranieri". Per M. il Blanch non deduce l'arte militare dalle condizioni sociali, ma fa il contrario, con una ricostruzione analoga a quella del Cuvier, che "da un organo, da un membro di animale antidiluviano rifaceva il tutto, l'animale". Ai tempi del Blanch l'applicazione delle leggi e del metodo della scienza storica sociale alla storia militare era ancora imperfetta, e non aveva ancora raggiunto il metodo sperimentale: perciò il concetto informatore del suo libro "non è divenuto una Storia: è solo deposto in al-

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ivi, p. 27 .


lll - LA SECON DA FASE DEL PENSIERO DI NICOLA MARSELLI ( 1872- 1892)

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cuni discorsi, che sono un 'introduzione a un 'opera anziché un'opera: linee generali, ossatura [. ..]. Il suo lavoro è adunque semplicemente un saggio preliminare di Scienza storico-militare" (giudizio poi ripreso pressochè alla lettera dal Croce). Con questi giudizi critici - sempre a imitazione di quanto fanno Jomini e Clausewitz - il M. tende a sottolineare indirettamente ma scopertamente il valore della sua opera, che diversamente dalle precedenti vuole essere un'analisi e una sintesi organica; e tiene al tempo stesso a rimarcare le differenze tra la sua impostazione filosofica e que11a del Vico, dal quale pur ammette di aver tratto "la prima ispirazione ". Infatti Secondo Vico ogni civiltà passa per tre età: divina, eroica, umana. La civiltà greca e latina descrissero curve identiche, e la parte europea del romano Impero, con l'invasione barbarica, ritornò alle origini per ripetere il canunino come civiltà europea. Adunque tanto la Grecia, quanto Roma attraversarono le tre età, o sia fecero il medesimo corso, che la civiltà europea rifece: [invece] secondo la legge da noi esposta, il corso è fatto da tre civiltà: orientale, greca, romana, che si addentellano; e il ricorso con progresso è fatto dalla civiltà europea. Havvi in ciò una differenza grandissima, che per amore dell'esattezza dovevamo porre in rilievo.23

Ciò non toglie che la legge del Vico possa essere applicata alla storia de11' arte militare , sempre che non si perda di vista il progresso col quale modificarla, e quando non ci lasciamo sedurre per i raffronti troppo sottili e torturati. Si potrebbe dire con larghezza che ogni società nella sua epoca divina combatte a modo spontaneo, sconnesso, individuale; nell' epoca umana in modo sapiente e organico; e nell ' epoca eroica con modo che tramez1.a ....24

Dopo uver preso le distanze dal Vico e aver indicato i limiti del Blanch, il Ma1sclli tiene a sottolineare il suo intento di tenersi lontano tanto dalle c:-.aiw1:11 io11i dell'idealismo che da quelle del positivismo. Negli "idealisti t lt'h11/11.\/ " fa rientrare, a quanto par di capire, la parte peggiore sia dei scgual't di ( 'l:i11,l·wi1 1. che di quelli di Jomini, mescolando un po' dell ' uno " /11 V11I lii l'I' • , 11

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IL PF.NSIP.RO MILITARE E NAVALE ITALI ANO- VOL.111 ( 1870- 1915) - mMO I

e un po' dell'altro. Essi "stimano che a diventar Napoleoni basti il mandtire a memoria pochi generalissimi principf di strategia", trascurando i fatti concreti e le situazioni particolari che ne modificano l'applicazione; sono convinti che la guerra si può fare sulla carta, che gli aspetti organizzativi e addestrativi siano cose di scarsa importanza, "che la traduzione si possa speu.are a volontà, compiere Le riforme senza rispetto alla legge di graduale trasformazione, senza riguardi al carattere dei popoli; che il genio viva d'intuizione e rifugga dalle pazienti meditazioni, dai Lunghi studi; che la vittoria sia la ragione composta di quei principi strategici e dell'entusiasmo dei combattenti, il quale basta l'amor patrio ad accendere ed un retorico proclama a fàr che operi miracoli". I "positivisti triviali", in-

vece, sono contrari a qualsiasi innovazione negli ordinamenti, nella tattica non oltrepassano il meccanismo formale e rigido, e di strategia non vogliono nemmeno sentir parlare, "considerandola come la scienza dei frequentatori dei caffè". Mentre quel genere di idealisti sacrifica lo studio ali' intuizione, i fatti alle idee astratte, la pratica alle teorie arbitrarie, questo genere di positivisti si colloca all'estremo opposto, "e per tutto ciò che non sia routine ed esercizio muscolare affetta un disprezzo da Lanzichenecco ". 15

La ricerca di un equilibrio da parte del M. avviene dunque, più che fra due opposte concezioni dell 'arte della guerra, fra le loro degenerazioni, in una parola: tra i cattivi e poco intelligenti seguaci sia di Clausewitz che di Jomini. Essa è perciò insufficiente, e di per sé non fornisce alcuna valida coordinata del suo pensiero: come si può pensare che per essere buoni generai i basta conoscere i principi, che non bisogna tener conto della tradizione e degli aspetti organizzativi, che la strategia non serve ecc.? li M. trascura piuttosto che la scuolajominiana, tendente a ridurre ogni dimensione metafisica dell'arte della guerra, è assai più vicina al positivismo e al metodo sperimentale - da lui tanto esaltati - di quella clausewitziana, esaltatrice dell' intuito del Capo e dei valori morali. Anche la sua fede nei risultati della critica storica denota un'impostazione positivista. Premesso che "la scienza storica militare è eminentemente critica, non tanto nel senso dell'appuramento dei falli (la quale cosa ella piuttosto presuppone), quanto in quello di razionale valutazione di essi", sull'oggetto della critica e sul modo di esercitarla egli dissente apertamente da Clausewitz. Secondo quest' ultimo "gli storici non raccontano, ma creano la storia"; perciò consiglia al Principe Ereditario di Prussia lo

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'

ivi, Voi. I pp. 33-34.


LII - LA sa'ONUA ~i\SE UEL PENSIEHO Ul NICOLA MARSF.LLI (1 872-1892)

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studio approfondito di un solo fatto particolare. Procedimento che M . disapprova, ritenendo che sia la scienza storica della guerra con i suoi princi pt già formati, sia la conoscenza di un fatto particolare stiano fra di loro "nel rapporto di peso e contrappeso, entrambi necessari all'equilibrio". A suo parere la verità storica non può certo emergere da uno studio parziale, perché la testimonianza oculare e la ricchezza di particolari non sono una sufficiente garanzia di esattezza; l'unico mezzo per giungere a un risultato positivo e utile è quello di sottoporre sia la storia generale che gli studi particolari - magari tra loro discordanti - a un esame comparativo. Così facendo "le inesattezze, che mai si riuscirà a evitare, si troveranno piuttosto nelle minute cose, che nelle grandi linee abbraccianti i movimenti generali ". Clausewitz - prosegue il M. - disapprova questo procedimento, perché con esso si corre pericolo di far dire alla storia ciò che più fa comodo a colui che scrive: ma non vi si polrebbe rinunziare che a condizione di non pensare; ed allora come si potrebbe ricavare dalla Storia tulto quel prolìtto che il Clausewitz sa trarne con tutta la sua mente illuminata'! A questo proposito vorremmo potergli rammentare ciò che egli dice riguardo alle linee convergenti, alle battaglie date dall'aggressore nel cuore del paese nemico, a11a soverchia cura delle proprie comunicazioni ; l'efficacia del risultato che si ottiene è in ragion diretta del pericolo che si corre!26

Si tratta piuttosto, per M., di usare il metodo critico in modo corretto: altrimenti la critica anziché base della scienza diventa la sua negazione_ Dopo la conoscenza dei fatti e dei principi che li regolano, ogni uomo intelligente sa dire quello che un capitano doveva fare, "ma ben pochi vogliono tenere conto di ciò che egli poteva". Ne deriva 1'errata tendenza "a scindere il Capitano dalle condizioni de' suoi tempi e dalla situazione a cui si ispirò prima di operare, che è causa di tanti erronei giudizi". Una sana critica deve perciò governarsi secondo i seguenti criteri (che in buona parte si ritrovano nell'analisi crociana del pensiero di Clausewitz - Voi. 1, cap. Ili): I 0 ) La critica deve ammettere che ogni capitano ha fatto ciò che la situazione e la sua personalità gli hanno imposto; Federico II di Prussia non avrebbe potuto operare come Napoleone.

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ivi, pp. 85-86.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITAUANO -VOL UI ( 1870- 1915) - TOMO I

2°) Ciononostante, la critica può e deve chiedersi se Federico abbia operato bene, e se avrebbe potuto fare meglio. Per rispondere a questo interrogativo bisogna anzitutto se, in quelle condizioni, in quel contesto e in queUo stato dell'arte della guerra, Federico avrebbe potuto operare meglio. Operazione molto ardua, perché è assai difficile ricostruire esattamente non solo i tempi, ma la situazione del giorno e dell'ora che hanno preceduto l'azione; occorre perciò molta cautela nell'attribuire a un condottiero colpe non sue. Con un siffatto esame noi sostituiamo a Federico una figura ideale di condottiero: esercizio critico di grande utilità. che però deve avere un limite: "Napoleone istesso non avrebbe potuto.fàre nel 1792, non che nel 1742, quello che fece nel 1805". Questo processo di sostituzione è comunque "una leva principalissima " nello studio scientifico della storia militare, senza la quale non si potrebbe che approvare tutto ciò che un Capitano ha fatto. 3°) La sostituzione di una personalità ideale ad una reale fa sentire la sua influenza, in generale, su tutte le forze che soUecitano la volontà del capitano e sulle operazioni che ne seguono. A seconda del suo carattere e della sua mentalità ciascun capitano reagisce in modo diverso agli avvenimenti e valuta in modo diverso anche gli ostacoli naturali: vi sono tuttavia elementi e circostanze che non possono essere modificati. La critica deve saper fare queste distinzioni: "ma ciò non esclude che, per esercizio del pensiero, essa possa, per così dire, forzare la mano al reale e lavorare sulle ipotesi, sostituendo ai mezzi militari necessari in un dato tempo, quelli adoperati quando l 'arte bellica era più avanzata". In tal modo si comprendono meglio i rapporti fra natura dei mezzi e carattere delle operazioni. Per quanto riguarda, invece, la spiegazione degli avvenimenti, secondo il M. la critica storica ha seguìto nell'esame dei fatti militari le stesse vicende di quello dei fatti sociali, ammettendo vari tipi di spiegazione: teologica; per effetto dell'azione di un solo grande generale; per effetto del caso o, al contrario, per effetto di una necessità metafisica. La spiegazione teologica attribuisce esclusivamente all'intervento di una volontà divina - alla quale è dunque inutile ribellarsi - gli eventi bellici, la vittoria e la sconfitta. Ovviamente il M. osserva che tale spiegazione rientra nel dominio della religione ma non della ragione, quindi non può essere accettata da una critica storica che voglia mantenere carattere scientifico, perciò basarsi solo su dati forniti daU' osservazione e dall'esperienza. Per allro verso i fatti storici non possono essere creati da una sola, forte individualità: Napoleone non può essere separato dalla tradizione militare, dalla Francia, dalla rivoluzione e da tutti gli altri clementi del suo tempo. La critica, dunque, non può abbandonarsi al culto degli eroi di


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guerra: "Aliena dalle grandi esagerazioni, essa riconosce La potenza delle grandi individualità; ma non può non ascoltare Le mille voci di cui esse sono l'eco. Riassumono, è vero, una situazione, un'epoca, un periodo storico; ma appunto perché riassumono, non creano dal nulla, sì bene chiariscono e dirigono il confuso e acefalo movimento, che ad esse preesisteva"_ 21 Attribuire al caso, alla fortuna [come tende a fare Clausewitz - N.d.a.l lo svolgersi degli eventi militari è antiscientifico; il caso non è da bandire dagli eventi militari ma vi ha solo una piccola parte. Non è accettabile nemmeno il contrario, cioè l'attribuzione dei fatti storici a una necessità storica, a una metafisica necessità. Secondo una tale interpretazione la Germania doveva necessariamente vincere a Sedan nel 1870-1871 contro la Francia, dacché il momento storico portava alla costituzione delle nazionalità: "in questo c'è del vero; ma in parte tradotto in un linguaggio quasi mistico, in parte sostanzialmente esagerato". Tant'è vero che gli italiani , pur rappresentando anch 'essi il momento storico delle nazionalità, nel 1848 e 1866 sono stati sconfitti. Come si è visto, M. negli Avvenimenti del 1870- 187 / è stato convinto sostenitore di una tesi che ora giudica quanto meno esagerata; va quindi sottolineato il notevole mutamento di rotta. Ripensa mento, motivi di opportunità o riflesso di richiami dei superiori ? In conclusione, per il M. la critica storica non deve essere esclusiva o ristretta, ma deve comprendere - al tempo stesso riconducendoli ai loro giusti limiti - tutti i tipi di spiegazione precedenti, da essi risalendo alle cause complesse. Più in generale, il suo concetto di storia militare e di critica storica - come egli stesso ricorda - è analogo a quello in vigore alla Kriegsakademie di Berlino e si basa sull'unità dell'insegnamento della strategia e della storia. Con tale impostazione didattica la storia, lungi dall'essere solo un'importante materia d'insegnamento, diventa il cardine della formazione profe ssionale dell 'ufficiale, anche dal punto di vista morale. Le istruzioni del generale Peucker per l'insegnamento alla Kriegsakademie, citate dal Marselli , danno la misura di come passato e presente si saldavano, allora, per forgiare il Capo militare prussiano: il corso [di storia] del quale trattasi deve prendere ad esame le grandi operazioni di guerra e la direzione degli esercili. Esso deve porre in ri-

lievo l'intima connessione tra il genio dei grandi Capitani e gli effetti ot-

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ivi, pp. 95-96.


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IL PENSIERO MILITAIUi li NAVALE ITALIANO - VOL lii (IR70-1915) TOMO I

tenuti nelle guerre degne di considerazione; aggruppare tutti questi elementi in un insieme animato, riguardando da un punto di vista elevato le particolarità del combattimento, le marce e le operazioni [ ... ]. Il corso del terzo anno comincerà all'epoca della Rivoluzione francese, ed assegnerà il carattere militare al XIX secolo. Esso[ . .. ] si può considerare con ragione come il fiore dell ' albero dell'insegnamento [ ... ].Il professore conseguirà tanto meglio il suo scopo, quanto più saprà richiamare l' attenzione sui principali moventi psicologici. Così egli preparerà gli allievi a conservare il cuore caldo e la testa chiara nel pericolo, condizione indispensabile per quelli che ambiscono alti posti tra i condottieri nelle guerre odierne. Egli, infine, si adoprerà altresì a stimolare negli allievi il sentimento militare. 28

Con questa impostazione il M. si dichiara totalmente d'accordo: se si vuol distruggere la nefasta influenza - egli afferma - non tanto del naturalismo scientifico, ma del "basso materialismo pratico", se si vuol instillare nel cuore dei giovani il culto degli ideali, "non v'ha, oltre alle lettere, studio migliore di quello della Storia, intimamente considerata". Non si può fare a meno di rilevare, a questo punto, l'enorme distanza tra questa immagine del ruolo della storia militare e quella di oggi, nella quale ad essa di fatto non viene riconosciuto alcun importante ruolo nella cultura militare e nella formazione morale e professionale dei Quadri: dire che deve essere sacrificata ad altre materie d'insegnamento (ritenute, dunque, più importanti) non significa che questo. L'arte militare del 2000 può forse prescindere dalla storia? può forse ignorare tutto il suo lungo iter fino a oggi? Abbiamo già dimostrato che ciò non è possibile e conveniente;29 ma per rendere utile e produttivo il passato, per non ridurre la storia militare a darida storia degli opliti e dei peltasti e delle innumerevoli battaglie, occorrerebbero, se non dei M., degli insegnanti che intendono seguire la strada da lui tracciata.

Arte e scienza militare: perché secondo il Marselli è possibile una teoria della guerra Il rapporto organico tra arte militare e storia trova piena applicazione nella definizione dei contenuti dell'arte militare e nella caratte28

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ivi, pp. 86-87. Cfr. l'erruccio Botti, L'Arte militare del 2000. Roma, Ed. Rivista Militare 1998.


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I.A SECONDA PASI~ DEI. PENS IERO DI NICOLA MARSEU.J o sn-1892)

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rizzaz ione delle sue parti componenti. Dopo aver esaltato anche l'importanza dei valori morali e spirituali, il M. vuol compiere questa operazione richiamandosi all'evoluzionismo positivista e a11a storia naturale; a suo parere, infatti, si tratta di trovare anche in questo campo una classificazione analoga a quella di Linneo e del Cuvier per il regno animale. Le forme della strategia, ad esempio, si aggirano anch'esse intorno a pochi tipi fondamentali; quindi "una classificazione fondata sull'ossatura interna delle campagne dei grandi Capitani è possibile e giova a riordinare le idee, come quella fondata sugli scheletri degli animali ha recato grandi vantaggi al progresso della Storia naturale". Il risultato effettivo di questo discutibile ancoraggio è assai modesto e non nuovo, perché nelle linee essenziali si identifica con l'usuale approccio jominiano e quindi anticlausewitziano all'arte militare, riassumendosi nella scontata affermazione che "la teoria della guerra consta di pochissimi principi assoluti [che dunque non si evolvono e sono indipendenti da altre fenomerwlugie "civili" - N.d.a.j e di moltissime regole valevoli in determinate condizioni. La Storia militare è il terreno sodo in cui le regole si veggono in funzione delle condizioni, ovvero si deducono dai fatti ". I predetti princip1 sono costanti, "ma il metodo strategico varia secondo le modalità con cui si fa la guerra". Una teoria "veramente positiva" della guerra deve sapersi mantenere ugualmente lontana lecco l'influsso di Hegel ! - N.d.a.] da due opinioni estremiste e eccessive, entrambe causa di pericolosi errori: "l'una consistente nella credenza che ad ogni radicale innovazione, riguardante o le armi o le vie di comunicazione o la composizione degli eserciti, debbano mutare i fondamenti dell'arte; l'altra nell'opposta e non meno esagerata credenza che nessuna innovazione al mondo possa far sentire la sua azione nella sfera suprema ove abita la strategia". A torto - prosegue il M. - Jomini ha affermato che le ferrovie rivoluzionavano la strategia; né le guerre europee dal 1859 a l 1871 , né quel la americana di secessione ci hanno <lato una nuova strategia. Ma è anche vero che i nuovi strumenti di guerra "fanno diversamente vibrare il braccio che li adopera "; i principi assoluti non sono mutati, ma "essi non sono pari a metafisiche entità, svolazzanti pel nubi/oso aere; traduconsi nella scelta sia dei punti in cui adunare le forze, sia della direzione generale delle linee secondo cui adunare le forze, sia della direzione generale delle linee secondo cui queste debbono operare. In questo campo, nel quale apparisce già la seconda persona della santissima


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trinità, la logistica, i nuovi ritrovati producono una modificazione innegabile. Le ferrovie, ad esempio, non solo hanno accresciuto la rapidità della guerra, ma anche la sua determinazione ... ". 30 Jomini aveva già affermato che non mutano i principì, ma le modalità per applicarli alle diverse situazioni: dunque su questo punto fondamentale M. non fa alcun passo avanti rispetto a Jomini. E come Jomini egli vuole estrarre i principi esclusivamente dalla storia, (delle guerre, non dalla storia in generale); quest'ultima non è una semplice raccolta di exempla, ma - come la stessa scienza generale della guerra - è "un coordinamento sintetico, poiché nei fatti che narra ed esamina affluiscono tutte le componenti di un esercito e del suo [modo di] guerreggiare". Tra la scienza generale della guerra e la storia militare vi sono però due differenze. La prima è che la scienza è un coordinamento logico, mentre la storia è un coordinamento cronologico. La seconda è che la scienza intende estrarre il generale del particolare, mentre la storia "vede il generale mai sempre in alcune determinate situazioni particolari". Di conseguenza la scienza vuol pervenire a una Leoria assulula, l:iot: imlipenùenle ùa queslo o quel mezzo, o da situazioni particolari; nella storia invece la teoria si studia sempre in relazione a una determinata situazione, a questo o quel mezzo. Non bisogna, però, essere pedanli in nulla, osserva il M.; il carattere universale della sdenza generale della guerra non esduùe che si possa ricorrere a esempi tratti dai tempi moderni, per poi discendere dai principi a regole e dati validi per l'arte del proprio tempo. Di questo storicismo e schematismo non troviamo traccia in Clausewitz. D'allronde, l'impostazione naturalistica e evoluzionistica porta il M. ad allontanarsi anche da Jomini, che vede l'arte della guerra come una faccenda esclusivamente tecnico-mililare, da sempre dominata dal principio della massa (e non da fattori di carattere socio-politico). Per Jomini da un punto di vista strettamente teorico Napoleone non ha introdotto nulla di nuovo rispetto a Federico II: ha solo dimostrato impareggiabile maestria nell 'applicare l'antico principio della massa. Ma anche se parla di "principf assoluti", il M. intende dimostrare che "una medesima legge ha impedito al metodo di guerra di Napoleone di apparire prima di quello dei suoi predecessori, e ali 'uomo di comparire sulla terra prima delle specie inferiori del regno animale". A questa discriminante del suo pensiero rispetto a quello di Jomini e Clausewitz, M. ne aggiunge un'altra: l'esclusione totale della guerra di po-

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Marselli, La Guerra e la sua storia,(Cir.) I' Ed. 1875. Voi. Il pp. 108-109.


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poJo (o della guerriglia) dagli orizzonti del suo pensiero, che come avviene specie per Jomini si riferisce esclusivamente alla grande guerra (cioè alJa guerra classica tra Stati e solo tra eserciti regolari che risolvono la contesa con le battaglie), da lui contrapposta alla piccola guerra. Quest'ultima è costituita "dalle operazioni dirette a molestare il nemico, anzi che a risolvere la lite con scontri decisivi, dai combattimenti tra le piccole frazioni, dalle imboscate, dalle sorprese dei convogli, dal guerreggiare da partigiani". 3 1 Questa distinzione - egli precisa - riguarda solo la parte direttiva delle operazioni: i livelli esecutivi fanno la guerra, e basta. Affermazione discutibile, perché tra una compagnia di fanteria che partecipa inquadrata a una battaglia e una compagnia isolata nella controguerriglia c'è una bella differenza. Non casualmente il M. parla di una "teoria positi va" della guerra; perché - con questo rimarcando una fondamentale divergenza da Clausewitz e un'accenluata contiguità con Jomini - come qucsl'ullimo ritiene possibile formularla, criticando apertamente Clausewitz. Lo porta a questa convinzione proprio la recente adesione al positivismo, che gli fa ritenere assai meno ampio di quanto sostenga Clausewitz il campo riservato al caso, all'imprevisto, a tutto ciò che non è quantificahile e calcolabile, che non è insomma una grandezza commensurabile. L'approccio positivista non ha carattere esclusivo: come sempre, anche in questo caso M. tende a conciliarlo con la teoria hegeliana del giusto mezzo, della conciliazione degli opposti, con risultati che tuttavia non lo allontano dal solco di Jomini e dei suoi principi: tra lo scetticismo che nega, ma solo a parole, la possibilità di ritrovare principì veramente assoluti, di formulare regole generali, di comporre una dottrina positiva della guerra [come fa Clausewitz - N.d.a.], e quel dommatismo rigido e cieco, che eleva ad assoluto il relativo, spaccia come panacee alcune regole parziali, e nella sua dottrinaria burbanza crede di vincer le battaglie con le ricette [questo approccio è condannato anche da Jomini ! - N.d.a. I, abbiamo creduto vi fosse posto per una teoria scientifica e modesta; la quale non nega la esistenza di quei principf e quelle regole generali, che, desunte dai fatti quando non hanno evidenza assiomatica, sono i nostri sosteRni nel flusso delle variabili cose [nostra sottolineatura; ma questo è proprio l'intento di }omini - N.d.a.]: ma si accontenta di essere parca nelle formale assolute, pieghevole nel

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ivi, p. 61.


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valutare l'influenza delle condizioni relative a situazioni diverse, puntando a riconoscere la importanza della pratica e la difficoltà di passare dalla teoria, per positiva che sia, alla pratica della guerra reale, la quale racchiude un problema in cui spesso devesi cercare l' incognita, senza avere sufficienti datP 2

M. non si differenzia da Jomini anche perché - contraddicendo alcune sue precedenti idee sulla validità del metodo dedun ivo e sul l' evoluzione dell'arte della guerra - aggiunge alle considerazioni precedenti che "studiando La storia dei fatti accaduti, noi troviamo, nel mezzo della infinita varietà delle situazioni, alcune costanti, le quali sono così fondate sulla essenza immutabile delle cose guerresche che ben si sarebbero ,,otute dedurre a priori, se /'a-posteriori non fosse un processo pi,ì 11at11rale e più prudente". Qui noi osserviamo che ciò che è costante, non si evolve .... E se I' a-posteriori è un processo più naturaJe e più pru<lcnh.:, pcn.:hé privi legiare il metodo deduttivo? A Clausewitz M. riconosce il merito di aver violentemente reagito contro l'esclusivismo della forma geometrica (Bi.i low) lma lo fa anche Jomini - N.d.a.] e contro l'abuso delle formu le assolute, richiamando l' importanza delle forze morali. In tal modo, per M. il generale prussiano al di là delle apparenze ha contribuito a dare alla teoria della guerra un indirizzo più positivo, "ha reso un eminente servizio alla scienza ed ha apparecchiato la generazione degli uomini pratici, che con tanta intelligenza hanno guidato le schiere tedesche ". A scanso di equivoci, M. chiarisce bene le ragioni di questo giudizio apparentemente contraddittorio: ciò che par strano è che debba mettersi a capo della scuola positiva appunto l'uomo che più di ogni altro si studiò di far risaltare le molte difficoltà che incontra la creazione di una positiva teoria strategica. Ma col premunire gli studiosi contro l'esclusivismo della forma geometrica e dei rapporti quantitativi, contro l'abuso delle formule assolute, col richiamare le menti alle forze morali, alle situazioni determinate e relative, ai rapporti complessi e ai perni sostanziali della guerra, col risollevare il valore della tattica e del carattere dirimpetto al formalismo strategico, egli ha avviato la teoria della grande guerra per un sentiero più positivo.33

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ivi, pp. 326-327. ivi, Voi. II p. 76.


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Tutto giusto: ma sarebbe ancor più giusto se M. parlasse, anziché di "sentiero più positivo", di "sentiero più realista", se non altro per non far confondere l'aggettivo positivo con qualcosa che ha a che fare col positivismo. Ad ogni modo, subito dopo M. aggiunge che il generale prussiano non si climostra positivo abbastanza, contestando la sua affermazione che "nella guerra tutto è indeterminato, non potendo il calcolo applicarsi se non a variabili". In realtà - egli obietta - queste variabili sono associate a costanti, che lo stesso Clausewitz riconosce e formula nella sua opera; inoltre le stesse variabili "hanno la loro ragion d'essere, contingente, ma determinata, e però calcolabile sebbene non tutta calcolabile da noi, a causa dei Limiti delle nostre cognizioni". Il M. contesta anche l'affermazione di Clausewitz che, siccome la guerra è il regno del caso e dell'imprevisto, "la teoria deve essere uno studio e non una dottrina". Uno studio che non porti a una dottrina deve considerarsi improduttivo; del resto lo stesso Clausewitz ammette la possibilità che dallo studio nascano spontaneamente princìpì e regole, tali da essere per il pensiero "le linee fondamentali delle sue abituali evoluzioni··. ma non formule algebriche e nemmeno punti di riferimento da segui re nell ' applicazione. Queste osservazioni di Clausewitz per M. dimostrano che è possibile non solo uno studio, ma anche una teoria della guerra; e se non esistono formule algebriche per vincere le battaglie, è solo perché la teoria di per sé non è sufficiente, "non è che il primo passo sulla via del fare". Qui noi osserviamo che per teoria si intende ''formulazione sistematica di principf filosofici o scientifici o artistici o culturali; insieme di ipotesi volte a spiegare un determinato fenomeno o un ordine di fenomeni" (Dizionario Garzanti): dunque non basta riconoscere - come fa Clausewitz - l'esistenza di taluni principi e regole non vincolanti; occorre una loro formulazione sistematica e organica, che spieghi il fenomeno in modo compiuto. Ne deduciamo da una parte che Clauwsewitz attribuisce ai principì dei contenuti assai circoscritti, una valenza minimale che non corrispondono al loro autentico significato letterale, lessicale e scientifico; dall'altra che M. compie una forzatura, perché il generale prussiano ha parlato in modo improprio di principi e li ha ridotti a strumenti puramente didattici e addestrativi, senza dare loro l'importanza, il ruolo di guida costante e immutabile per l'azione che loro attribuiscono sia M. che Jomini. Del resto, in certo senso tornando ad avvicinarsi a Clausewitz M. afferma in altra parte del testo che la capacità di un condottiero si misura dalla capacità di trovare in una data situazione soluzioni concrete, non dalla conoscenza o dall'ignoranza "dei pochi e semplici principf astratti". An-


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che secondo Clausewitz l'arte della guerra è tutta di applicazione; e a che servono i principi, se - come riconosce il M_ - sono astrai/i e elementari? Servono a poco, visto che egli stesso attribuisce alla mancan za di ''.facoltà del concreto" un fatto che sembra alla communis opinio un ' anomalia, cioè

"La violazione di tali principf elementari da parte di 11m11i11i pervenuti al sommo della scala gerarchica"_ 34 Nonostante queste conliguilà e diverse altre, rimane il fallo che s u questioni fondamentali (come la possibilità o meno di p1.:rvcnire a una teoria compiuta della guerra, l'importanza de i principi e della geog rafia, la pretesa di assoggettare il fenomeno bellico a be n ddinit r lq:g i evolutive ecc_), il M_ si colloca al polo opposto delle concc:,,ioni dausewitz iane, fi no a rendere contraddittorie lodi come ques te che seg uono. p ·rc hé non si può ammirare il modello prussiano e al tempo st ·sso <.: 1iti ·arnc l' is piratore su questioni di.fondo, su aspetti discriminanti : l'elemento topografico è andato acquistando scmp1 e n1:1ggio1\' importanza, massime per opera della scuola alemanna . Ma la l k 1111:inia ha un altro gran titolo di merito dinanzi alla Scienza dl'lla 1t1u·1rn i11 genere, alla Tattica in specie, ed è di aver prodott0 il piu r1:111d,· l!l11~11r11 della guerra, colui che alla sua patria svelò il w ro Sl'!'.',fl'lo d1· ll11 1•ut rra napoleonka, che l'alta importanza della tauica pose in d1 i11111 lm·l·, e il valore delle grandezze morali considerò come cminl'lltl' I .. I I II il'1ione ha fruttato: le idee del Clausewitz si sono trasfu se nl' I ~u11gm· ll'dcsco, e le recenti campagne vennero preparate con larga is11u1i1ml' l'd i.:dlll.:azione dell'uomo, e compite con l' andar dritto allo scop11, l'oll11 guc1rn sino a fondo, coll'energia. Hanno i Tedeschi innal zato 1111 11101111111l·11111 a questo scrittore degno della patria di Lutero, di Federi co. di lì1 ~111:11 ci.. .. degno del cuore di Blticher e della mente di Mollke? lisso 1·, a pa1 t·r nostro, il vero fondatore di una scuola che chiamiamo p~icnlo~k:i l ' che ha per proseliti i migliori autori militari tedeschi . In ogni rda t iom· uniciale, in ogni libro prussiano risuona il linguaggio elci Cl.1uscwi11 " Benchè Clausewitz sostenga la preminenza nella g uerra di l'or:,,.e morali e spirituali non quantificabili, il M. propone di innal,.arg li un mo numento. Questa contraddizione si spiega, paradossal111e11tc, proprio con un eccesso di fede positivista da parte sua, s me ntilo dalla s toria: ritie ne infat-

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ivi, pp. 106- 107. ivi, pp. 241 -242.


lii - LA SECONDA FASE DEL PENSIERO DI NICOLA MARSELI.I ( 1872c=-:..,., 18e,c92.,,_)_ __

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li possibile pervenire a una teoria compiuta della guerra anche perché le g randezze morali non sono più così incommensurabili come lo erano ai Iempi di C lausewitz. A suo parere, "ai nostri giorni le scienze morali han110 11111/ato indirizzo: esse vengono trattate col metodo sperimentale al pari t!i quelle naturali. Il mondo morale si estrinseca in alcuni atti, studiando i quali si vanno gradualmente comprendendo le sue leggi[. ..]. Tutto quello che possiamo esaminare, sia d'ordine materiale o morale, ci si rivt'la solloposto a leggi ". 36 Applicando agli aspetti moraJi della guerra tale metodo sperimentaJe è possibile ottenere risultati molto positivi: ad esempio tra lo stato moraJe e le passioni di una società e certi avvenimenti c ' è un preciso rapporto, quindi "ci sarà consentito di stabilire con esattezza matematica quale sarà la conseguenza militare di certe passioni umane", e sarà più agevole prevedere e provvedere. Per M. l'ingegno, lo studio, l'esame critico, l'esperienza, il carattere possono dominare e prevedere gli avvenimenti della guerra più di quanto si possa credere: molte volte si attribuisce al caso o alla sfortuna ciò che è solo carenza di comando. Rimane tuttavia sempre quaJcosa che non si vede, non si prevede e sfugge: "col dire che la teoria della grande guerra puà di11entare più positiva, non abbiamo inteso negare questo fatto; ma aff ermare soltanto che la sfera d'azione della preveggenza si può allargare, quella del caso restringere". 37 L' aspcno non quantificabile e non prevedibile dei fenomeni bellici corrisponde aJla dimensione artistica della condotta delle operazioni, che tende a restringersi. L' aspetto artistico, comunque, riguarda solo le branche che "hanno le f orze morali per obietto, e l'ignoto e l'impreveduto come elementi dell 'ambiente in cui queste.forze operano". Non riguarda invece quelle branche che - come l'artiglieria e la fortificazione - "trovano nelle matematiche e nelle scienze naturali un chiaro fondamento scientifico". Argomentazione, quest'ultima, non convincente: anche nella concezione di un nuovo pezzo, nell'organizzazione del fuoco, nello schieramento delle artiglierie vi è un quid di artistico, di personale e contingente, essendo numerose e molto diverse le soluzioni; così come la fortificazione trova la sua ragione d' essere nella capacità d'adattarla al prevedibile compito delle forze mobili, al terreno, alle più probabili direttrici d'attacco del nemico, che è manifestazione artistica. E che dire della geografia, dello studio del terreno, che può fornire le più disparate soluzioni?

"'ivi, p. 80. 1 ' ivi, p. I 06.


IL PENSlllRO MILITARE E NAVA LE ITALIANO - VOL. 111 ( 1870-19 15) -TOMO I

M. non vuole forse dimostrare che anche strategia e tattica hanno un chiaro fondamento scientifico, quindi ammettono dei principi? Non c'è dunque ragione di fare queste differenze, perché in tutti i casi si tratta di applicare delle teorie, delle nozioni scientifiche al la realtà, al caso concreto: non viceversa. Si potrebbe anche osservare che - vista l'insistenza del M. sul rapporto esistente tra le leggi della guerra e leggi del mondo naturale e sullo spazio progressivamente ridotto che il progresso delle scienze sociali consente di lasciare al caso e all'imprevisto - in linea di stretta coerenza per lui la guerra dovrebbe essere più scienza c he arte. invece egli giustifica con chiarezza la preminenza de ll 'aspett o artistico, affermando che la guerra "è scienza come teoria e arte come fare: essa comincia con l'arte e finisce con l'arte; la scienza sta ne l mezzo e vi sta come mez.zo. Ond'è che lo scopo predominante de lla scie nza de lla guerra non dev'essere lo speculare, ma l'insegnare a fare, c ioè a vincere". '~ Ne consegue che per il M. la guerra, pur essendo scienza pcn;hç ha i suoi principi' immutabili, ha uno scopo pratico che non rimane nd campo della teoria astratta. ma è diretto all'applicazione de i mezzi. Più in generale ogni prodotto dell'umana ~11 •iv it~1 :icquista il carattere scicnlifico, se il pensiero ne scopre i principi che spo ntaneamente lo costituirono, se lo sottopone a leggi, e ne espo ne il rnntc1111to secondo un ordine didattico, determinato da un metodo razionale. Con questo processo l'arte traducesi in scienza. Viceversa, ogni scienza d iventa arte se dalla teoria si passa alla pratica applicazio ne; onde scienza è il fatto pensato, o sia il sapere, arte è il pensiero attuato. o sia il .fare.

Da queste riflessioni de l M . si deduce che se anche la scienza della guerra è diretta al fare, e il fare è una questione che riguarda l'arte, l' elemento artistico è preminente e non paritario. Però il M. pur affermando, come si è visto, che quanto vale per la guerra vale per tutte le altre attività umane, precisa che (pare ovvio) vi è una grande diffcrcnzu tra le arti belle e l'arte della guerra, nella quale l'opera òeriva <lai w rH;orso di numeros issimi sforzi. Per prendere una g iusta risoluzione, non è però necessario che il generale sia un Napoleone: "quando si guida 1111 esercito istruito, disciplinato, addestrato e ben riunito, si possono eludere molti pericoli, dominare molte situazioni, riparare anche alcuni errori. Ed ecco come La importanza dello studio scientifico e della pratica razionale in tempo di pa-

1 •

ivi, Voi. l p. 38.


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NICOLA MARSl:iLLI (1 8n -1892)

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,.,, ritornano a galla[. . .]. Una felice disposizione di natura, lo studio fatto s('('ondo Lo spirito e l' e:iperienza costituiscono i mezzi per risolvere il Jll'() /,/ema pratico della guerra". Questo concetto traspare anche dal giudizio su Moltke negli avveni11w111 i del 1870-71 ed equivale a una notevole correzione del tiro, perché la :-p ·t:ifit:ilà militare riguarda evidentemente tutto il processo prima indicato e non solo la fase dell'applicazione. Per giunta, dopo aver tanto sottoli11~ato l'aspetto scientifico della guerra il M. ritiene legittimo l'uso - in Italia e in Francia - del termine arte militare anche per indicare lo studio della guerra, proprio perché esso insegna a fare, a vincere, che è atto sempre arlistico. È dunque giusto e logico, a suo avviso, che abbia prevalso il termine che dà maggior risalto a fare scopo pratico. Tanto più che, nel caso della guerra come delle altre scienze, "non si raggiunge di slancio, e forse non mai appieno " lo stadio ideale ed estremo, per mezzo di principi immutabili, leggi costanti e con una teoria che indichi definitivamente la ragione eterna delle cose. Questo perché la scienza in generale " è variahile e progressiva; tra l'assoluta perfezione e la continua mutabilità [... ] lw vvi 11110 stadio intermedio/ ... }. Noi dunque per usare senz'altro il nome di scienza. l'ogliamo vedere in prima la ricerca razionale del vero, il pos.,·,•s.w del 111etndo appropriato a scoprirlo, ed anche una certa relativa co.,·t(l11-;,a n<i .fo11dame11ti ". Si può osservare che, così stando le cose, l'aspetto artistico della scienza della gue1Ta non riguarda solo la sua applicazione pratica, ma è costrcllo ad estendersi per colmare le lacune, gli spazi vuoti lasciati dallo stadio ancora impc rfeuo raggiunto dalla scienza stessa. Viene perciò da chiedersi: in base a ciò che egli stesso dice, i principi del M. sono o no costanti e assoluti? Si possono o no modificare? Il campo riservato all'aspetto artistico della guerra si allarga o si restringe? Non contribuiscono a chiarire questi dubbi del lettore altre affermazioni del M., il quale ricorda che alla Kriegs Akademie di Berlino si parla di Corsi scientifici militari e di scienze militari , e si chiede: "non è forse giunto il momento di adottare anche noi codesta denominazione, e relegare il nome di Arte militare all'applicazione del sape re al fare?". Poiché il passaggio dalla scienza all ' arte del la guerra è difficilissimo, 1

le giuste obiezioni adunque che il Clausewitz ha sollevato contro la possibilità di fare una positiva teoria della guerra, massime per la strategia, che, movendosi in grandi spazi, vede meno della tattica ciò che succede in campo nemico, si debbono considerare come rivolte aJJ'arte, piuttosto che alla scienza delJa guerra Ia cosa serve, dunque, la scienza? -


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N.d.a.]. Come non è stato difficilissimo trarre dalla Storia alcuni pochi principi assoluti, così non è malagevole ricavare dall'esame delle diverse situazioni storiche molte regole che valgano in questi o quei casi. La teoria del Clauswewitz appunto soddisfa meglio di ogni altra a tale compito, perché sposa mirabilmente quel poco che si può dire di assoluto e generico col molto di relativo e particolare. 39

Insomma, il M. vuol seguire Clausewitz o se ne vuol discostare? Queste lodi sono in contrasto con le affermazioni prima citate a proposito della teoria della guerra; né mai Clausewitz ha voluto fi ssare qualcosa di assoluto. Non è all'arte, ma alla scienza della guerra, u meglio alla pretesa di formulare una scienza della guerra con principì costanti e assoluti , che si rivolgono le critiche fondamentali di Clausewitz. L' unico fatto certo da rilevare, è che M. gli attribuisce il merito di aver molto e ben tratlato "il relativo e il particolare "; per il resto, come si può spendere tante pagine per dimostrare che è possihile formulare una teoria positiva della guerra prima di tutto per la strategia, e poi riconoscere giusll.: le obiezioni di Clausewitz?

Politica e strategia: la scienza militare e la s11a ripartizione. Per il M. la "teoria della grande guerra" comprende quelle "della strategia in sé e della geostrategia ", dell ' '"alta logistica" e della "grande tattica", cioè quelle scienze che definiscono i principì e le regole per la scelta della base d'operazione, dell'obieuivo, ''delle linee di moto e dei punti d'urto nella guerra fra gli eserciti ". Va qui sottolinealo che è il secondo in Italia, dopo il Durando che ne è l' inventore (Voi. l, cap. XII), a usare il termine geostrategia, peraltro senza precisarne i contenuti teorici. Gli attribuisce comunque un significato analogo a q uello del Durando, visto che in altra parte del testo afferma che "la xeostrategia dell'Italia ci consente di prevedere quale dovrà essere il sistema generale e essenziale dell'invasione di un grande esercito francese in Piemonte", senza però saper dire quante forze passeranno in caso di guerra per la valle della Dora Riparia.40 Se ne deduce che anche per M. la geostrategia è studio preventjvo e generale, nel quale si considera il rapporto determinante tra terreno

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ivi, p. 45. ivi. Voi. TI p. 333.


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e impiego delle forze organizzate ma in astratto, in linea generale, cioè senza tare riferimento a una concreta situazione e alla conseguente problemaLica operativa da impostare e risolvere, aspetti questi che rientrano nel campo della strategia propriamente detta, riferita cioè a una specifica azione da condurre onde raggiungere un dato obiettivo in una data situazione. L'uso del termine geostrategia da parte del M_ rimane comunque accidentale, occa5ionale. Quando esamina nel dettaglio la ripartizione dell'arte militare dedica un ampio spazio alla geografia, ma senza usare il predetto termine_ Preferisce parlare di scienza militare, perché quest'ultima riguarda gli studi militari; per il resto, si rifà al modello tedesco e alla propria esperienza d ' insegnamento alla Scuola di Guerra. Secondo quanto egli stessa riferisce, in Germania il trattato di tattica per le scuole divide le scienze militari in due parti: I 0 ) le principali, che comprendono: la storia delle guerre, la strategia e

la tattica; 2°) le ausiliarie, che comprendono la tecnologia, la fortificazione, lo

sludio del terreno, la topografia, la geografia militare, le cognizioni dello Slato Maggiore e l'amministrazione delle truppe [cioè l'odierna logislica - N.d.a.]. Nel le nostre scuole militari del tempo, invece, il "corso di Scienza militare" è costituito da1lo studio dell'organica, della tattica, della logistica e della strategia. Nella Scuola di Guerra di Torino per esigenze d'insegnamento l'organica è unita alla tattica, quest'ultima è separata dalla logistica (branca d' insegnamento a parte, che dà particolare rilievo all' impiego militare de lle ferrovie), mentre la strategia e le grandi operazioni di guerra sono studiate nel corso di storia militare_ Inoltre il direttore degli studi "come preparazione alla campagna Logistica, esamina il problema della difesa dello Stato e coordina Le esercitazioni, che si faranno in essa, secondo un 'ipotesi strategica, che è parte d'un piano generale di difesa". ll M_ ne deduce che in Italia si dà notevole rilievo a due materie che in Germania non sono trattate a parte, cioè l'organica e la logistica; per contro in Italia non abbiamo "lo studio ~peciale del terreno, di cui trattano ex professo gli scrittori tedeschi. Il terreno lo studiamo nella geologia, rnme struttura interna della crosta solida della terra,- nella geor:ra:fìa.fisica, come forma esterna; nella geografia militare e nella tattica, come in.fl11enza dellaforrna del suolo sull 'impiego delle truppe,- nellafortificazio11e, come scienza del correggerlo artificialmente".


IL PENSIERO MILITA!llili NAVALE ITALIANO - VOL lii ( 1870- 1915) mMO I

Il M. propone perciò una soluzione analoga a quella della Scuola di Guerra, ma non senza differenze di rilievo. Premesso che "la scienza della guerra è, nel suo più largo senso, lo studio di tutte le funzioni militari", essa si divide "in una parte che riguarda l'apparecchio o l'organica, e in un'altra che riguarda l'azione, o scienza della guerra nel senso stretto". Della parte che riguarda I' "apparecchio" (cioè la preparazione delle forze) fanno parte anche "altri elementi organici, i quali formano il contenuto di particolari discipline militari". Essi sono l'amministrazione militare, la legislazione militare, l'artiglieria (intesa come tecnologia, ossia studio delle armi, del relativo materiale e del loro impiego), lafortificazione (intesa come scienza del costruire e utilizzare le fortezze), la topografia (intesa come "arte" di rilevare il terreno e di leggere le carte topografiche), la pedagogia militare.41 Quest'ultima al momento non esiste ancora come branca autonoma e riguarda l 'istruzione e l'educazione del personale; pertanto "piglia le mosse dalla psicologia e giunge sino alle norme per l'ammaestramento delle Grandi Unità, per dettare le quali norme l'ordinatore ùpirasi agli studi che riguardano l'azione". 42 La "scienza della guerra nel senso stretto ", che riguarda appunto L'azione, comprende: la politica della guerra, siccome quella che assegna lo scopo generale e i limiti delle operazioni militari; la strategia, che precisa lo scopo particolare o militare e fa il piano direttore; la Logistica, che si occupa delle disposizioni di marcia per eseguire il concetto strategico e giungere all' urto, cioè alla tattica. L'Artiglieria rientra in scena come una delle tre Armi combattenti, e la Fortificazione come trincee da battaglia e lavori campali, cioè rientrano entrambe come clementi della tattica; come guerra delle forte zze, riconquistano una posizione più autonoma, La geografia militare si aggiunge come studio della natura relativamente all'azione militare. 41

Delle scienze militari fa parte anche la storia della guerra, della quale il M. dice che "essa è nel tempo stesso un tutto, poiché comprende l'azione nello spazio e nel tempo di tutti gli elementi militari preparati nella pace". Con questa impostazione, al pari di Jomini il M. considera impropriamente come parte della scienza militare la politica della guerra (preci san41

ivi, Voi. I p. SO. i vi, p. 52. 43 ivi, p. 53. 42


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LA SECONDA FASE DEL l'ENSIEKO DI NICOLA MARSELLI (187= 2 ·~ 1 89 ~ = 2 )_ __ __

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do opportunamente che può essere sia scienza che arte); peraltro critica la di stinzione tra politica militare e politica della guerra prevista da Jomini e l'inc lusione in esse della ''.filosofia della guerra", cioè come tale applicabile a qualunque ramo dell'arte militare; le predette distinzioni sono perciò "convenzionali e soggettive; categorie che invece di raccogliere ciò che è identico, confondono ciò che è diverso". 44 Riconosce invece a Clausewitz il merito di aver molto bene approfondito il rapporto tra politica e guerra, sì che "le molte pagine che ]omini vi ha speso attorno, diventano pallida cosa al paragone ". Ammette anche - sempre come Clausewitz - che la politica "penetra.fin sotto la tenda dello stratego", e che fa sentire la sua influenza anche guerra durante costringendo l'esercito a modificare i suoi obiettivi in relazione a nuove esigenze politiche. Queste convergenze con Clausewitz non gli impediscono di ctissentire apertamente da lui - ancora una volta con un certo grado di incoerenza - su un punto fondamentale. Va ricordato che secondo il generale prussiano la guerra più che dipendere dalla politica è parte della politica, non ha quindi una logica propria. Anche se il politico deve tener conto delle esigenze militari e prendere decisioni con esse in armonia, in caso di contrasto dei disegni della politica con i mezzi militari, il Capo militare "non può andare al di là di una semplice modificazione dei medesimi [disegni della politica/, poiché il disegno politico è lo scopo, la guerra è il mezzo, e un mezzo senza scopo non può mai concepirsi". Per M., invece, la guerra ha "una sua struttura e certe leggi inviolabili", quindi deve avere "la sua individualità particolare, e però anche la sua propria logica ". Il compito della politica sta "nel porre le premesse e nello apprezzare i risultati"; nella maggior parte dei casi, la miglior politica è "quella che abbandona l'azione tattica alla sua logica distrulliva ''.45 Tesi assai poco in armonia con le precedenti, lunghe disquisizioni sui legami tra le leggi della guerra e quelle dello sviluppo della società.. . Questa convinzione, con la quale il M. rientra nel solco jominiano, si fa sentire anche quando prende in esame la vexata quaestio del rapporto tra il generale e l'uomo di Stato, distinguendo tre casi: a) l'autorità politica risiede nella capitale, lontano dall'esercito che conduce la guerra; b) il generale è egli stesso Capo dello Stato; c) l'autorità politica accompagna quella militare, seguendo il quartier generale.

44

45

ivi, Voi. TI p. 115._ ivi, pp. 8- 10.


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IL PENSIERO MlLITARE E NAVALE ITAL IANO · VOL. IJJ (I 870- 191.5) - ffiMO I' ------- -

Il primo sistema, quando si combina con la cattiva abitudine dei politici di intervenire continuamente nella condotta delle operazioni, è il peggiore. Se proprio l'autorità politica vuol ingerirsi nella condotta della guerra, tanto vale che si rechi presso il quartier generale; potrà almeno rendersi meglio conto della situazione reale. Il secondo sistema - che si è visto attuato con Napoleone I - ha anch'esso i suoi inconvenienti: viola il principio della divisione dei poteri, agevola la rottura dell'equilibrio, schiude la via all'arbitrato, dimostra che - come è avvenuto con Napoleone - la guerra può prevalere sulla politica perdendo il suo carattere moderatore, e che solo con le armi intende fondare o consolidare gli Stati, distruggere ogni tradizione storica e ogni autonomia nazionale. 11 terzo sistema può assumere forme diverse, ma in ogni caso bisogna rispettare il principio della divisione dei poteri: nominare il Ministro della guerra capo anche del1'esercito non è conveniente, perché le due cariche richiedono capacità diverse. Per il M. la soluzione migliore è quella adott.ala dalla Prussia nelle recenti guerre: il Sovrano Capo dello Stato e de ll' esercito, che svolge una funzione moderatrice e evita le disarmonie [per noi fatali nella guerra del 1866 - N.d.a.l nei rapporti tra Ministro della guerra, Ministro degli esteri e generale in capo. Bisogna però attuarla - puntualizza il M. - nel modo adottato dai tedeschi nelle guerre del 1866 e 1870-1871 (cioè con il generale Moltke Capo effettivo dell'esercito, che emanava ordini a nome del re, il quale non si intrometteva affatto nella condotta delle operazioni). In questo v'è forse una velata critica a quanto è avvenuto, con nefaste conseguenze, nella condotta politica e militare italiana della guerra del 1866, con l'esercito spezzato in due masse per nulla interdipendenti, la mancanza di un vero Capo di Stato Maggiore e la massima confusione di poteri tra il re, il governo e la leadership militare (Cfr. Voi. II, cap. IX e XII). Con equilibrate conclus ioni M. si occupa anche del rapporto tra Ministro della guerra e Capo de ll'esercito, saggiamente osservando che "l'ordinamento e l'azione degli eserciti non si possono distruggere con un taglio di coltello". Il generale in capo riterrà necessario che gli organici siano studiati in un certo modo, e che la mobilitazione risponda a determinate esigenze. Dal canto suo il Ministro, in quanto organo costituzionale, non potrà ammettere facilmente l' ingerenza di un organo extraparlamentare in branche di sua competenza: "e allora o una delle due autorità assorbirà l'altra, o vivranno una vita angosciosa, o si discacceranno. A noi pare assai difficile che un regolamento, per quanto preveggente, possa risolvere la questione; e non sappiamo trovare la soluzione altrove che nella ragionevolezza e nel buon carattere degli uomini[. .. }. Le cose nel-


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I ·e.\'l'rcito procederanno meglio, quanto più grande sarà l 'armonia tra le due autorità_ Tale armonia è reciproco interesse". 46 In linea generale la rispondenza o meno delle Istituzioni non può essere giudicata prescindendo dagli uomini che devono infondere loro la vita. Le istituzioni non sono una macchina che funziona da sola: per questo il M. disapprova coloro che "levano a cielo gli ordinamenti prussiani per certo loro pregio automatico". Le istituzioni si differenziano tra di loro a seconda che con le loro caratteristiche intrinseche favoriscano o meno il conseguimento di certi scopi, a seconda che debbano affidarsi unicamente allo straordinario valore di un solo uomo, oppure sulla base della loro rispondenza alle finalità che perseguono, accoppiata con le doti medie dcli' uomo. Dunque, la loro qualità dà dei buoni frutti, solo mediante l'attiva cooperazione dell' uomo. Se si vuole che il sistema di direzione politico - militare della guerra adottato dalla Prussia funzioni anche da noi in modo soddisfacente, ci vogliono uomini che conoscano i doveri del proprio ufficio, e comprendano quelli dell'altrui; uomini dalla mente larga e dal carattere impersonale. Nelle supre me regioni del governo degli Stati questa impersonalità è la più forte e la più nobile personalità. Il razionale e fiero orgoglio deve spingere a far rispettare i propri domini, ma non a invadere gli altrui. E poi, più che del proprio orgoglio ragionisi del Paese, dell'esercito, e siasi soprattutto cordiale, franco e conciliante in quello che è giusto. Il buon tratto è una forza cementatrice più di qualunque regolamento che precisi gli obblighi di ciascuno.47

Il M. si spinge a indicare anche i doveri de] sovrano, che deve essere in grado di rappresentare "il Centro da cui emana l'armonia delle autorità subalterne" e quindi "al prestigio della sovranità deve unire, oggi più di prima, quello della persona ", facendo stare ognuno a] suo posto e prendendo le decisioni con chiara cognizione di causa, anche a prescindere dai consigli dell 'entourage: se a ciò non è atto, e se gli fanno difetto un esperto statista e un valoroso stratego, a' quali commcltcre l'andamento delle cose guerresche, tutti gli inconvenienti dei sistemi misti si presentano a galla, e si mostrano

"'ivi. pp. 18-19. 41 ivi, pp. 20-2 1.


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tanto più funesti quanto più è necessario che la risoluzione sia unica, netta e pronta. In tal caso val meglio che il sovrano rimanga nella reggia, il Ministro degli esteri ne' suoi uffici e che il generale conduca la guerra nell'esecuzione precisa, e sia libero e responsabile nell'esecuzione di esse.

Scritte a nemmeno dieci anni di distanza daJla sconfitta nella guerra del 1866, anche queste parole probabilmente intendono condannare le rivalità, le gelosie, la confusione di poteri e la mancanza di decisioni chiare che in quella guerra hanno caratterizzato l'opera del vertice politico - militare italiano e sono stata causa primaria dei rovesci, anche perché il re certamente non ha saputo o voluto "diventare il centro da cui emana L'armonia". Si può anche dire che siffatte considerazioni non esauriscono la loro validità nel tempo del M.: se fossero state rispettale nelle guerre del XX secolo e in particolare in quella 1940-1943, avrebbero evitato parecchie sventure all'Italia. Probabilmente non è estraneo alle negative esperienze delle guerre del 1848/49 e I 866 nemmeno l'accenno del M. ali ' importanza dei mass media, che per la prima volta hanno un cerio rilievo in un trattato sull'arte della guerra. Fa rientrare la pubblica opinione nel campo della politica della guerra, definendola "la regina delle forze dirigenti la guerra", perché la partecipazione democratica dei cittadini ai pubblici affari introdotta dalla Rivoluzione Francese ha fatto sì che "nel sistema dei rapporti fra la politica e la guerra, il principio motore è passato dal Governo nella massa". L'influsso della pubblica opinione a suo avviso può avere effetti non solo negativi ma anche positivi: ammissione, anzi apertura degna di nota, perché la fobìa per la stampa e per il parlamentarismo era assai diffusa tra i militari del tempo (per la verità, non sempre a torto). Tra i vantaggi della democrazia M. indica la sparizione delle guerre personali dei re e la diminuzione delle guerre "capricciose": solo la diminuzione, visto che "non sempre La pubblica opinione ha coscienza de' suoi veri interessi", quindi essa può anche forzare la mano di un sovrano assennato, il quale in altri tempi avrebbe evitato o ritardato la guerra. Anche una volta iniziata la guerra la pubblica opinione intende esercitare la sua influenza; fino a quando le cose vanno bene, frena la sua naturale tendenza alla critica negativa e applaude; "ma tosto che la macchina militare incontra ostacoli, o vacilla, o avanza lenta, o sta, eccola farsi acre, ringhiosa, e darsi a dettare consigli e leggi, sovente ùpirati da pochi uomini di poca scienza, le idee dei quali, rivestite di forma pomposa, si propagano con immensa facilità in momenti di molto eccitamento e di poca rijles-


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sione ". Questa pressione può stimolare i fiacchi, ma può anche spingere a operazioni mal concepite e decise soltanto per darle soddisfazione [come è stata l'impresa di Lissa nel 1866 - N.d.a.]. In conclusione, per il M. la pubblica opinione è fonte di forza solo se rimane nei suoi limiti; altrimenti è un elemento perturbatore. I suoi pericoli possono essere neutralizzati solo con l'educazione, il senno, la maturità dei cittadini e la forza di carattere di coloro che conducono la guerra. Secondo il M. lo studio della storia può fornire anche per la politica dei principi assoluti come per la strategia: e in questo dissente da Jomini, secondo il quale ciò non è possibile. Anzi: "la politica della guerra è in gran parte retta dai medesimi princip'i della strategia e della tattica". Ciò premesso ne elenca tutta una serie, definendole "massime eterne" (ma una massima è cosa ben diversa da un principio!). In verità più che principi o massime il M. enuncia dei bon mots, che in gran parte attengono al comune buon senso: ma se si guarda agli eventi del XX si deve ammettere che non è affatto superfluo elencare le "massime " in questione, visto che esse parecchie volte sono state dimenticate, con gravi danni dell'Italia: non avventurarti in lontane spedizioni, se non costretto da necessità assoluta. Le guerre di conquista sono, a lungo andare, più rovinose per chi le fa, che per colui che le soffre. Una nazione non costituita deve far guerra per costituirsi; ma poi non deve offendere che per difendersi. Non disprezzare le alleanze; ma sappi che esse verranno più facilmente quanto minore bisogno ne avrai. Prima che su gli altri, riposa su la tua potenza. Trema di far la guerra contro lo spirito dei tempi, e spera se la farai a seconda di essi. Misura il colpo in guisa che né il perdere né il vincere ti squilibrino. Nei casi normali evita di rasentare l'abisso; nei disperati, rischia. Condizione del buon successo è la chiarezza dello scopo e il vigore del!' azione. Non è mai soverchio lo studio che si dedica alla scelta di un buon condottiero; ma scelto che tu l'abbia, lasciagli libertà d'azione. Proporziona sempre l'azione ai mezzi tuoi e ai vantaggi che speri; se vi trovi convenienza, opera con attività e con prontezza; se no sta cheto, o sappiti ritirare a tempo, o adoperati a trovare alleanze.48 48

ivi, pp. 26-27.


IL l'ENSW.MO MILITARE E NAVALI::_rl'AI.JANO VOL LII ( 1870-191 5) - TOMO I

In conclusione, per il M. la Leadership politico-militare deve evitare due scogli: quello di non aver vagliato a sufficienza i casi probabili, e quello di rimanere troppo schiava di preconcetti. Il M. rettamente considera la politica della guerra prima della strategia; ma come si è visto tende a comprenderla nell'azione e non nella preparazione, identificando quest'ultima principalmente con l'organica. Collocazione inesatta: come egli stesso afferma, "La politica comincia a far sentire la sua azione sulla guerra mediante gli apparecchi della pace, perché essa assegna i limiti al lavoro organico in proporzione allo scopo che intende conseguire". Inoltre insiste sull'opportunità che la politica, una volta indicato al generale in capo l'obiettivo, non si ingerisca nella condotta ... Egli dà grande rilievo, nella fase preparazione, all'organica, alla quale attribuisce dei compiti molto ampi che, almeno nella concezione attuale, rientrano piuttosto nella politica di difesa. Essa è "La scienza generale dell 'organizzazione della potenza militare di uno Stato. Abbraccia tutto il meccanismo della potenza militare, ne svela i nessi e assegna Le norme che il suo ordinatore deve seguire". Rientrano pertanto nella sua sfera di competenza tutti e tre i fattori della potenza militare (personale, materiale e terreno). Con questa concezione allargata l'organica è più propriamente scienza dell'organizzazione militare e abbraccia, in pratica, l'intera preparazione dell'esercito non solo in tempo di pace, che consiste nel "reclutare il personale, ordinarlo, amministrarlo, disciplinarlo o educarlo secondo leggi e regole della soci.e tà civile e militare, istruirlo e fornire il materiale mobile (armi - munizioni da guerra - equipaggi - carri [ ... ] e il materiale stabile (caserme - magazzini - stabilimenti - arsenali - fonderie - polverifici - fortezze)". 49 Secondo il M., alcune delle questioni connesse con la preparazione militare sono sviluppate solo dall'organica; altre sono da essa appena toccale, per ricevere pieno approfondimento in discipline particolari. Una branca basilare, trattata esclusivamente dell'organica, è il reclutamento, nella quale "essa non si rimane a dire dei principf generali che regolano la creazione delle forze militari; ma i~pirandosi alle scienze sociali, e basandosi sulla statistica comparata, discende sino a trattare diffusamente dei modi che si tengono per recare ad atto quei principf, nelle odierne condizioni della società e degli eserciti". 50 Quando dal reclutamento del personale si passa al suo ordinamento tattico, come lascia capire la parola stessa l'organica incontra la tallica, •~ ivi, Voi. I p. 49. ~• ivi. p. 51.


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perché deve tener conto delle esigenze del combattimento: tuttavia è opportuno che le questioni relative a tale branca rimangano di compelenza dell'organica, "tanto più che all'ordinamento del personale si riattaccano molte questioni relative alla costituzione dei Quadri, alla gerarchia militare, alla circoscrizione territoriale, ai sistemi detti nazionale e regionale, la cui soluzione dipende anche da ragioni pedagogiche, Logistiche, strategiche, politiche, insomma molteplici"_ Infine branche come l'amministrazione militare, la legislazione militare, l'artiglieria, la fortificazione, latopografia e la pedagogia militare, alle quali si è già accennato, nella concezione del Marselli sono accessorie dell'organica, la quale le definisce, ne indica i contenuti, le funzioni, i principì fondamentali e le coordina e indi rizza verso un unico scopo_ L'azione è dominata dalle esigenze e dai limiti della preparazione, o viceversa? Restringendo la strategia - quindi anche la tattica e la logistica - all'azione, il Marsel)j ammette l'influsso della tattica sull'organica, ma trascura di indicare esplicitamente l'influsso che la strategia ha su quest'ultima o sulla preparazione in genere: evidentemente gli ordinamenti e la preparazione prendono forma diversa a seconda dei contenuti e delle scelte della strategia (e, più a monte, della politica della guerra). Ad ogni modo "l'Esercito opera sulla strategia, come reazione della clava sul braccio che l'adopra; la politica, come azione che dall'alto guida codesto braccio". Se ne deduce che è la politica, prima ancor che la strategia, a definire le grandi linee della preparazione militare, e al tempo stesso a indicare alla stralegia stessa lo scopo politico generale della guerra, tenendo conto della situazione politico-sociale ed economica. In sostanza per il M. più che dettare delle esigenze, la strategia ne prende atto; e in relazione allo scopo politico generale della guerra determina le forme militari della guerra stessa, indicando anzitutto l'obiettivo militare, il quale può essere la conquista o difesa di una determinata parte di territorio, la conquista o difesa di un centro vitale, oppure la sconfitta dell 'esercito nemico. Quest' ultimo è solo l'obiettivo militare più risolutivo da raggiungere: non è l'unico (come avviene in Jomini e - di fatto - anche in Clausewitz, benché la guerra sia per quest'ultimo un camaleonte) . La strategia è perciò "la scienza del comando" e "quella branca della scienza bellica che ha per obietto il piano che regola e coordina le operazioni militari. Codesto piano direttore lo stratego stabilisce in funzione dello scopo che la politica vuole raggiungere, dei mezzi materiali e morali di cui può disporre uno Stato per conseguirlo, di quelli possibili o almeno probabili che l'avversario può contrapporre, e di certi pochi


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principt che debbono normalmente governare qualunque operazione militare". 51 La strategia è azione, o solo preparazione e studio? In quale rapporto sta essa con le altre discipline? Qual'è l'ordine di trattazione più corretto di quest'ultime? Il M. fornisce condivisibili spiegazioni di questi antichi nodi e dell'evoluzione dei significati attribuiti al termine strategia. Poiché "la teoria della grande guerra, intesa questa nel senso di arte per dirigere e coordinare l'azione degli eserciti, doveva comprendere i principi generali della strategia in sé e in rapporto al terreno (geografia militare), della traslazione delle truppe (alta logistica) e dell'urto (grande tattica)", egli tratta in quest'ordine le branche dell'arte della guerra, facendo quindi precedere la tattica - che in tutti i trattati segue immediatamente la strategia - dalla geografia militare, dalla statistica e dalla logistica. Secondo i greci - prosegue il M. - lo stratega era il generale: Ja strategia era quindi l'arte di comandare gli eserciti, riassumendo in sé tutti i tre atti della guerra (marciare, combattere, riposarsi). Ma, in seguito, quest'ultimi atti (come avviene anche nella Tattica del Brandl e nell'Arte militare al secolo XIX del Riistow) entrarono successivamente a far parte della tattica, e in particolare la tattica delle marce e dei riposi divenne la logistica ("parola che non deriva da maréchal de logis come disse Jornini, ma dal greco, e suona arte di calcolare"). In tal modo "la strategia si trovò respinta fuori dal campo di battaglia e contrapposta alla tattica", accrescendo i suoi legami con la logistica e coincidendo con la preparazione delle battaglie e il coordinamento delle battaglie stesse: Ma se la strategia assegna lo scopo alle battaglie, non meno che alle marce degli eserciti, è impossibile darle lo sfratto dal campo. Chi assegna lo scopo ad un'azione, le porge pure un indirizzo generale, la dirige dall'alto_ Per questa considerazione ci siamo trovati più volte indotti a riprendere per la strategia l'antico significato. Volendo rispettare l'uso moderno e in pari tempo non disconoscere l'azione che l'idea stratq,rica ha sull'attività tattica, si deve dire che sul campo di battaglia la tattica prende norma dalla strategia, ma essa opera; fuori del campo la strategia prende norma dalla tattica, ma essa opera mediante la logistica. Così non si esclude l'azione e la reazione delle diverse attività, non s' interrompe la circolazione. Ma il lettore comprenderà che sarebbe più giu-

" ivi, Voi. ll p. 64.


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sto il dire che la strategia dirige dall'alto le marce e le battaglie, e che la logistica e la tattica eseguiscono, cioè operano, l'una fuori, l'altra dentro il campo.52

Sui contenuti teorici della strategia il M. non è d'accordo (o del tutto d'accordo) con nessuno dei tre mostri sacri del secolo XIX: Jomini, I' Arciduca Carlo e Clausewitz. A suo giudizio, l'affermazione di Jornini che la strategia è "l'arte di far la guerra sulla carta" (cioè è dettata dalla geografia e consiste nella scelta dei punti decisivi, delle ljnee d 'operazione ecc. traendo le indicazioni della carta topografica) può falsarne l'idea. I concetti direttivi, così come la scelta di punti e linee, debbono scaturire dall'esame analitico di tutte le componenti di una determinata situazione e non solo del terreno; "problema oltre ogni dire d~fficile, e la cui soluzione dipende, non solo dalla mente, ma anche dal carattere di chi comanda, e non solo si trova sulla carta, ma anche in mezzo agli uomini a ' quali comanda". 53 Secondo Clausewitz la strategia indica dove e quando dare battaglia, e la tattica come si deve combattere; ma "a nostro credere la strategia fa quello e qualcosa altro, cioè imprime all'urto una direzione, determinata dallo scopo che si vuole raggiungere. Non dice soltanto che devesi combattere in tal giorno e su tale campo, ma anche che si deve combattere in guisa da separare, per esempio, L'esercito francese da Parigi[. .. ]. Nell'ove di Clausewitz è troppo implicito codesto concetto della direzione secondo cui deve svolgersi l'azione tattica". Ne consegue che hanno torto coloro i quali ritengono che la strategia sia nettamente separata dalla lattica, e si arresti sul limitare del campo di battaglia. TI mondo reale non è così nettamente suddiviso al suo interno come avviene nelle suddivisioni teoriche; nella realtà ogni elemento non solo si distingue dall' altro, ma anche convive con esso; e un cervello smarrisce il vero tanto se confonde le cose più diverse, quanto se le tiene in stato di assoluta separazione. Questo fatto psicologico è causa di molti errori intorno ai limiti delle branche militari. Adunque, fuori del campo di battaglia predomina la strategia, dentro, la tattica; ma quella s'inspira a questa nel corulurre le masse alla battaglia in modo che possano tatticamente cooperare; questa a quella coli' adoperarle in modo che si possa raggiungere l'obiettivo strategico.54

52

ivi, Voi. ll pp. 325-326. ivi, p. 64. 54 ivi, p. 66.

53


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Infine, trascurando il fatto che con l' Arciduca Carlo la strategia geometrica dei dottrinari raggiunge la massima espressione, il M. si limita a mettere in guardia il lettore da un'interpretazione troppo letterale della definizione dell'Arciduca, secondo il quale la strategia è "scienza della guerra, che stabilisce i piani, abbraccia e determina il cammino delle operazioni militari; essa è propriamente la scienza del generale in capo". Quest'ultimo è lo stratega per eccellenza; ma sarebbe in errore chi "volesse fare della strategia il monopolio del generale in capo, ed a questa imporre un altro limite art(ficiale, come quello del campo di battaglia". In realtà ogni comandante, fino a quello che guida un drappello, dovrebbe avere una sua strategia, riferita al terreno e all'azione da compiere. Operare strategicamente significa formarsi un concetto di ciò che si deve compiere, per poi definire un piano che coordini le marce e i combattimenti, cosa che si deve fare ad ogni livello: quindi presentando la strategia "come una real donna, che solo dal generale deve essere impalmata" non se ne solleva il prestigio, ma se ne restringe l'azione. Meglio pensare che esistono "una strategia suprema e una più o meno secondaria", entrambe definite in modo identico. Non è una semplice questione di parole, sottolinea il M. ; si tratta di stabilire gli obiettivi dell'educazione intell ettuale dei Quadri inferiori o intermedi, se cioè questi devono elevare e allargare la mente solo dopo che sono diventati generali, oppure se si deve già preparare i comandanti delle minori unità a diventare generali, "abituandoli a pensare sul complesso delle operazioni che devono compiere, prima di porsi a fare un passo in una data direzione". M . concorda con il generale Moltke anche nel giudicare non condivisibile un'altra affermazione dell 'Arciduca Carlo, secondo il quale la più alta espressione della scienza strategica di un generale in capo consiste nella sua capacità di prevedere il futuro andamento delle operazioni militari. Il Moltke obietta che "nessun piano d'operazione può, con probabilità di buon successo, essere applicato oltre il primo scontro con le principali forze del!' avversario. Solo chi non ha esperienza militare può immaginarsi l'andamento di un'intera campagna come l'esecuzione di un piano prestabilito, combinato in tutte le sue parti e seguìto sino alla .fine". La suprema dote del generale - osserva il Marselli - non va ricercata nell'ostinarsi a seguire un piano prestabilito, ma "nella costanza dello scopo, accompagnata dalla pieghevolezza nella scelta dei mezzi ". Non bisogna però esagerare in senso opposto a quanto fa l'Arciduca Carlo: non ci si deve preoccupare solo di un primo scontro, per poi regolarsi secondo le circostanze, né si deve abbandonare un piano non appena ci si accorge che le cose non procedono come si era previsto. Tra l'ostina-


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zione e la debolezza sta la costanza: per creare le occasioni, per obbligare il nemico a fare il nostro gioco, per dominare anche gli eventj sfavorevoli,

occorre mantenere sempre ben fermo lo scopo finale, avere un'idea madre, un piano: "Ciò che è indispensabile è che questo non sia ristretto e rigido: ma la mente direttrice, se non vuole rimanere sorpresa dagli accidenti e palleggiata dal caso, deve molto meditare prima della rottura delle ostilità su i probabili fatti, se non su tutti quelli che possono accadere nel corso di una campagna, ed apparecchiare i mezzi per provvedere a situazioni diverse ". Lo stesso generale Moltke - prosegue il M. - ha seguìto questo criterio nel 1870-1871,quando ha predisposto le cose in modo tale da poter far fronte a qualsiasi eventualità; del resto i casi imprevisti si riducono notevolmente quando da11a vita individuale si passa a quella di un organismo collettivo come l'esercito. In concJusione, se il piano prevede più soluzioni, se si opera razionalmente, le mutevoli circostanze potranno richiedere al comandante la capacità di uscire felicemente da situazioni sfavorevoli; ma è difficile che si venga sbalzati tanto lontano dalle previsioni fatte. Anche su questo il Nostro dà ragione a Clausewitz, "gran maestro della scuola prussiana", il quale ha scritto che "non bisogna fare il primo passo senza pensare all'ultimo", perché "la teoria richiede che il carattere e i contorni generali di qualunque 1:uerra siano preventivamente alle grandezze e ai rapporti politici". 55 In tutto questo ragionare del M . rimane il fatto da lui non rilevato - che il concetto di strategia di Clausewitz (coordinamento dei combattimenti per lo scopo della guerra) pretende, appunto, quella capacità di previsione da parte del generale in capo che né lui né tanto meno il Moltke ritengono possibile o probabile. Poco da dire sulla logistica e sulla tattica, se non che in esse affiora ancor più robusta - anche se non dichiarala - l'influenza di Jomini. 56 Questo si constata prima di tutto nell'ordine di trattazione delle due branche: esaminando la logistica subito dopo la strategia e prima del1a tattica, M. indirettamente lascia capire che la logistica anche per lui è quel che era per Jomini: scienza del movimento e dello stazionamento ancella della strategia, che rjguarda "le disposizioni concernenti l'alterna vicenda di moto e di riposo delle truppe", perciò "esegue nel campo della traslazione" il piano generale di competenza della strategia, calcolando tutte le resisten-

55

ivi, pp, 72-73, concetlo dj logistica in Jomini si veda Voi. Tcap. fl , e inoltre l'crruccio BoW, La logistica dell'Esercito ltali<mo ( 183 1- 1981), Roma, SME - Uf. Storico 1991, Introduzione al Voi, I, 56 Sul


IL PENSIERO MILJTARF. E NAVALE ITALIANO· VOL. Ili ( lg70·1915) • TOMO I

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ze incontrate lungo il viaggio da un esercito che percorra la direzione indicata dalla strategia. Pertanto (stesse parole, più o meno, di Jomini) la logistica è intimamente e prossimamente legata alla strategia: è il veicolo per cui il pensiero del generale arriva all'azione tattica delle truppe. Essa forma il compito più speciale dello Stato Maggiore, deputato a fare in un esercito l'officio di nervi conduttori del pensiero dal cervello alle membra. Il che non vuol dire che soltanto il Capo di Stato Maggiore debba occuparsi delle modalità logistiche. Se ne occupa anche chi comanda in capo, benanche chi eseguisce gli ordini. La stessa elaborazione del piano di guerra si fa attraverso uno studio attento delle possibilità logistiche, senza di che esso potrebbe svanire come sogno fantastico. 57 Il movimento è l' anima della strategia: con questo approccio, dunque,

il M. accredita indirettamente, sia pur non volendolo, le tesi di coloro che fino al XX secolo hanno negato la necessità di distinguere la logistica dalla strategia o da!Ja tattica, conferendole una fisionomia autonoma. Tanto più che egli ne vuol dimostrare l'utilità come branca autonoma, distinguendo tra logistica pura (le disposizioni del Comando dell'esercito e dei Comandi d ' armata, nelle quali prevalgono i concetti) e applicata (l'attività prevalentemente esecutiva dei livelli di comando inferiori): così "l'alta logistica, nelle recenti campagne, ha costituito il compito del generale

Moltke". 511 E ciò che al tempo viene definito come "amministrazione" o "sussistenze"? Stranamente, nonostante la sua attenzione per l'uomo il M. non parla mai dei problemi della sanità militare, della cura e sgombero dei feriti ecc.: accenna tuttavia al fatto che alla logistica riattaccasi [nostra sottolineatura. Che cosa vuol dire? Che è connessa con la logistica, rimanendo perciò cosa diversa, o ne fa parte? - N.d.a.] l'amministrazione delle sussistenze, o sia l'arte di far vivere un esercito in campagna [... ]. Non è un allo militare nel vero senso della parola (sic), come non è atto nùlitare curare i feriti [invece anche al tempo sono alli militari, e come! - N.d.a.]; ma è la condizione sine qua non per compiere gli atti nùlitari. Marcia male e combatte peggio

51

Marselli, La Guerra e la .ma storia, (Cit.), 1• Ed. 1875, Voi. Il pp. 159- 160.

58

ivi, p. 163.


lii - LA SECONDA FASF. DF.I. PENSIERO DI NICOLA MARSELLI ( 1872- 1892)

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quel soldato ch'è malamente nutrito [e anche malamente curato, se ammalato o ferito - N.d.a.]. 59

Nulla di nuovo nel campo del vettovagliamento: tra il vivere sul Paese attraversalo o appoggiarsi ai magazzini, tenendo anche conto della maggior mole degli eserciti M. preferisce una soluzione intermedia. Egli afferma inoltre che la strategia deve tener conto delle esigenze del vettovagliamento, ma non può essere ancella delle vettovaglie; la celebre frase di Napoleone "non parlatemi dei viveri" va interpretata, perché così dicendo "non voleva certo intendere che ai viveri non fosse da pensare; ma che i viveri si debbono saper trovare e che, salvo eccezioni, un 'operazione reputata necessaria debba compiersi superando tutte le difficoltà "_w Anche per M., come per Jomini, la tattica è "la scienza del condurre le truppe alla pugna ", che si occupa del modo di combattere e dell'urto con il nemico. Come per Jomini, anche per lui la tattica ha principi, leggi e regole e consiste essenzialmente nella concentrazione delle forze sul punto decisivo del campo di battaglia; e sempre come per Jomini ammette gli stessi principi fondamentali della strategia, sia pur applicandoli su uno spazio minore, quindi con modalità diverse. Ma, pur ammettendo la frequente labilità dei confini tra strategia e lattica, il M. diverge dal generale Renard, che nel suo libro Considerations sur la tactique de l'infanterie en Eumpe 61 non ha tenuto nel giusto conto la diversità che corre tra le due branche e le ha affatto identificate, sacrificando la strategia a colei che forma l'oggetto del suo libro [cioè alla tattica - N.d.a.]. Ma le difTcrenze esistono. Sul teatro strategico le masse debbonsi spingere avanti con movimento simultaneo; ma sarebbe ciò possibile o utile sul campo tattico? Né l'una cosa, né l' altra. Con eserciti come i nostri l'azione sarebbe disseminata su una fronte così estesa che nessun uomo al mondo potrebbe governarne lo svolgimento ....62

Ciò non toglie che il M. attribuisca grande importanza alla tattica, il cui studio dovrebbe ispirare tutti gli altri studi militari. Le funzioni militari, tanto in pace che in guerra, trovano nella vittoria (che si ottiene appun-

'" ivi, p. 206. "" ivi, p. 213. 61 Paris. Dumaine I857. 62 Marselli. la Guerra e la sua storia, I' Ed. 1875, Voi. 11 p. 283.


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(1870-1915) TOMO ~J _

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to in campo tattico e con la battaglia) "la loro finalità, la loro unità vitale": quindi senza la cognizione del modo con cui s' inizia, si svolge e si compie la pugna, è impossibile comprendere a fondo il perché si ordini secondo certe unità, piccole o grandi, il perché la strategia lo faccia muovere secondo una certa direzione, il perché la logistica segna questo o quel modo di marciare e di stare.63

A rigor di logica, un corso di studi sull'arte militare dovrebbe cominciare con la tattica; è invece prevalso un altro metodo che prende in esame le branche dell'arte militare con criteri cronologici, riferiti cioè all'ordine con il quale si susseguono nel tempo le attività tipiche di ciascuna parte: siccome la potenza militare prima si ordina, e poi si pone in azione, e siccome nell'azione la direzione politica e strategica, le marce e i riposi logistici precedono l'urto meccanico, così n'è risultato l'ordine e cui anche noi abbiamo dovuto piegare in questo libro, e secondo il quale la tattica da primo latente diventa ultimo. Essa però conserva il valore e il posto del suggello. Così fatto ordine ha esso pure un suo razionale fondamento, senza di che difficilmente sarebbe riuscito a trionfare.

Evidentemente M. accetta a malincuore quest'ultimo ordine di trallazione: ma presentando ]a strategia quasi come ancella della tattica, ha più torto che ragione. L'atto tattico (egli pensa soprattutto a11a battaglia) è indubbiamente il suggel1o di tutto ciò che avviene più a monte: ma se esso condiziona la strategia, è anche vero che è condizionato in misura assai maggiore sia dalla strategia stessa che dall' organica, dalla preparazione in genere, dalla logistica. I1 M. è maestro nell'indicare la stretta dipendenza di queste branche dalla realtà politico-sociale, e in particolare della strategia della politica: e allora? La tattica non è una variabile dipendente da fattori esclusivamente militari; come soleva affermare il Cousin ricordato dallo stesso M., dal modo di combattere (cioè dalla tattica) di un esercito si possono trarre tutte le indicazioni necessarie per definire l'indole di quel popolo e la fisionomia di tutte le sue istituzioni. In sintesi la strategia, strettamente legata alla politica, traccia il quadro della battaglia, quadro che alla tattica spetta riempire tenendo conto di vincoli e possibilità che la stra-

63

ivi, pp. 220- 22 1.


ID - LA SECONDA FASE DEL PENSIERO DI NICOLA MARSELU (1 872·1892)

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tegia le assegna: se avvenisse il contrario, se essa fosse cioè subordinata ad esigenze tattiche, come potrebbe - anche secondo M. - finalizzare i combattimenti allo scopo (politico) della guerra? Essa deve certamente tener conto anche delle esigenze tattiche; ma senza concepirle come preminenti e assolute. Evidentemente est modus in rebus: e come nel caso del rapporto tra politica e guerra, l'efficienza di una leadership si misura proprio dalla capacità di armonizzare esigenze contraddittorie, che si manifestano anche negli influssi reciproci tra le varie branche. Si deve concordare con il M., invece, quando trattando delle formazioni di combattimento distingue due scuole, una geometrica e astratta (facente essenzialmente capo a Jomini) che fa riferimento aprioristico a schemi rigidi e prestabiliti nel disporre le truppe sul campo di battaglia, e l'altra che nel definire le formazioni si lascia guidare soprattutto dal terreno e dallo schieramento assunto dal nemico. M. giudica "dannosissima quella predilezione che leva a cielo appunto il lato più formale della tattica", e che sovrappone artificiosamente al terreno degli ordini di battaglia precostituiti: "liberiamoci, liberiamoci da tutto codesto arsenale di martelli, di uncini, di spiedi, di tenaglie, di denti, di arieti ecc., ed anche nello studio guardiamo alla vita reale ".64 Ciò deve essere fatto non solo in guerra ma anche nell' addestramento del tempo di pace, bandendo manovre artificiose e formalismi. Queste giuste intuizioni sono peraltro bilanciate da inutili (e jominiane) suddivisioni della tattica: a) grande oppure ordinaria, "secondo che riguarda la suprema direzione delle truppe neJJa pugna o l'esecuzione della manovra"; b) pura o elementare (definita anche geometrica), che facendo astrazione dal terreno studia le formazioni in generale, considerando il terreno piano e indipendentemente dalla disposizione del nemico; c) applicata, che invece "studia il modo di adoperare le truppe nella pugna, tenendo conto della natura del terreno e della particolare dfaposizione del[' inimico". Su tali distinzioni M. più a torto che a ragione polemizza con il generale tedesco Bogulawski, secondo il quale esse non hanno senso, perché ormai predomina l'ordine sparso e quindi l'unica tattica possibile è quella che si adatta alle disuguaglianze del terreno. 65 Alle tesi del Bogulawski il M. obietta che così facendo si eliminerebbero, ad esempio, anche le analoghe differenze tra meccanica pura e applicata, trascurando che

64

ivi, p. 239. Cfr. A. Bogulawski, Deduzioni tattiche della guerra I870· l 871 (traduzione del cap. Egidio Osio), Roma, Voghera 1873. 65


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CL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO VOL. Ili ( 1870- 1915) TOMO I

la nostra mente ha bisogno di esercitare così la facoltà del generalizzare, come quella di applicare a casi particolari; e non crediamo che nuoccia la discussione sulle proprietà generiche delle formazioni tattiche, a condizione che si consideri come un tirocinio al quale devesi tosto far seguire il correttivo dello studio diffuso della tattica applicata. Parimenti necessario è l'altro tirocinio fatto con gli esercizi da piazza d'anni, e forse è più necessario di prima. E che dovremmo dire noi di quell' altra tendenza, ancor più radicale, secondo cui si dovrebbe sopprimere ogni insegnamento tattico che non fosse fatto proprio sul terreno o che non fosse una partita al giuoco di guerra?66

Affermazioni quanto meno discutibili e contraddittorie. Se - come il M. ha scritto poc'anzi - si tratta di tener conto anzitutto del terreno e del nemico (e perché non parlare, in questa occasione, anche dell'aumentata potenza e gittata delle armi da fuoco?), ha molto poco senso fermare l'attenzione - e addestrare la truppa - su una miriade di formazioni geometriche, che di tale reallà non lengono conlo e che quindi - a parere dello stesso M. - bisogna bandire perché inutilizzabili. La teoria vale in tanto in quanto aderisce alla realtà: dunque qui si tratta di fare soprattutto della meccanica applicata.

J tre principf della strategia: perché non della guerra?

Quando M. parla di principi, tre cose vanno subito notate. La prima è che a tale termine vuol attribuire un significato persino più assoluto di

quello di Jomini, ricordando che "basta che, nella realtà, un solo caso sfugga al dominio d 'un principio, per togliere a questo il suo carattere generale". La seconda è che - caso unico nel pensiero militare italiano si rità a uno sconosciuto autore inglese, il già citato Macdougall, autore nel 1856 del libro intitolato The theory of war, illustrated by numerous examples from military history, del quale esiste solo una traduzione francese, che peraltro non ci risulta reperibile in Jtalia67 ' desiderio di indipendenza rispetto ai sempiterni modelli tedeschi o francesi? omaggio al positivismo, visto che il Macdougall ha scritto anche un libro intitolato M odem warfare influen<.:ed by modem Artillery?68 snobismo inte llettuale, 66

Marselli, La Guerra e la sua storia, Voi. Il p. 227. Cfr. Patrick Leonard Macdougall, Op. cit.. 68 London 1864. 67


111 - I.A SECONDA f:ASE DEL PENSIERO DI NICOLA MAl<Sf.LU ( 1872-1892)

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consislenle nella ricerca di un autore poco noto appartenente a una Nazione da sempre piuttosto estranea alle grandi correnti del pensiero militare del continente? ln tutti i casi, un'operazione della quale non si riesce a vedere la necessità e l'utilità scientifica, benché - come già si è visto in precedenza M_ abbia indicato il Macdougall come esempio di brevità e concretezza, contrapponendolo (solo per questo) al dispersivo e troppo analitico Jomini. Ciò che più importa, comunque, è un terzo aspetto: M. parla di principi della strate1:ia e non - come di solito si è fatto anche nel XX secolo della guerra o dell'arte della guerra_ Va detto subito che, in tal modo, egli sfugge almeno in parte all'inesattezza terminologica in cui cadono coloro che parlano di principi dell'arte della guerra o militare: se è veramente tale, un'arte non ammette principì; si avvale al massimo di tecniche e regole. M., comunque, non si preoccupa di questi risvolti: afferma solo, come si è visto, che strategia e tattica anuncttono gli stessi principi, il che significa che intende riferire i principi solo a tutto ciò che riguarda l 'azione: non a ciò che riguarda la preparazione e alle branche dell 'arte della guerra che ne fanno parte. Ciò premesso, l'attribuzione da parte del M. di principì alla strategia deriva paradossalmente dall'importanza da lui data alla tattica. Come prima accennato, nella sua visione l'atto tattico, più che essere un mezzo per raggiungere il fine strategico, diventa un.fine, perché la vittoria decisiva sul campo di battaglia consente anche di raggiungere il fine ultimo e ideale della strategia, che si compendia nell'infliggere al nemico un colpo tale che non possa rialzarsi. Sta di fatto che per il M. i principi derivano appunto dall' esigenza di rendere vittoriosi e decisivi gli atti tattici, sono cioè (come anche per Jomini) i principi del più forte, di chi intende agire offensivamente. Il primo e fondamentale principio della condotta strategica per il M. è perlanlo que llo di "operare per avere la superiorità sul punto decisivo ". Non basta - egli sottolinea - che tale superiorità sia quantitativa: deve essere anche qualitativa. A parità di forza vince quella parte che ha maggior valore lecnico, morale, intelleltuale; i falti dimostrano che si vince anche con forze minori, e questo significa che uno o più fattori di superiorità in altri settori possono controbilanciare persino l'inferiorità numerica. Perciò il principio più generale, e che più risponde alla pratica, è sempre quello che ci dice di operare in guisa da accumulare sul punto decisivo la maggior somma di forza relativa. Forza che può essere di varia nalura; forza che è la risultante di più componenli, una delle quali è la massa.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALI ANO - VOI_ Ili ( IR? 0- 191.5) - TOMO I

Non si nega, il che sarebbe stolido, l'immenso valore della massa, ma s' include in un'idea più comprensiva: quella della Forza.69

Vi è notevole differenza tra questa interpretazione del M. e quelle - da lui citate - di Jomini, Clausewitz, Macdougall e De Cristoforis, tutte incentrate solo sul valore del numero, della massa. De Cristoforis ha affermalo che "la vittoria è decisa dall'urto della massa ", con ciò ripetendo nella sostanza il concetto di Jomini: ma il M . dimenticando la sua scarsa originalità gli attribuisce (unitamente ai fratelli Mezzacapo) il merito "di avere nel periodo corso dal 1848 al 1859, nel periodo di gestazione del nostro risorgimento, ricondotto le menti degli italiani ali 'ossequio dei principi della guerra napoleonica, di aver osato parlare di princip'ì, quando simile parola destava un orrore poco sacro, e di aver fatto ciò con la scorta continua delle applicazioni storiche " 70 lquesto lo hanno fatto, prima, in tanti anche in Italia; e non è vero che la parola principi destava " un orrore poco sacro " - N.d.a.lCome si è visto, Clausewitz non ha attribuito alla massa il valore risolutivo di Jomini e della sua scuola; ba tuttavia affermato che la prima regola è di entrare in campagna con un esercito più numeroso, e pur attribuendo grande importanza ai valori morali ha definito decisiva la ragione del numero, perché nelle nazioni europee gli altri elementi di forza tendono ad equilibrarsi fciò avverrà appunto nel 1914-1918 - N.d.a.l- Il Marselli obietta che questo è vero; ma si tratta solo di una tendenza, mentre la meta è ancora lontana, specie per l'Italia. Vi è sempre stata, e vi è ancora, una nazione-guida; al momento questa è la Germania, che oltre al numero ha privilegiato la qualità, sì che nella guerra 1870-1871 in campo tattico l' esercito tedesco ha avuto spesso ragione di forze pari o superiori. Ben aragione - ricorda M. - il generale Moltke ha detto che la qualità del soldato tedesco ha compensato taluni svantaggi: e la quali là del Moltke non è pure la istruzione, ma anche l'educazione; non solo dipende dal maestro di scuola, ma anche dalla scuola della famiglia, dell'esercito, della società. Adoperiamoci dunque, in Italia, a moltiplicare il numero, perché oggi è divenuto più importante di prima; ma non lo poniamo in cima ai nostri pensieri. Facciamo noi per l'educazione morale quello che [facciamo] pel meccanismo organico?7 1

69

Marsclli, La Guerra e la sua storia, (Cit.), I' Ed. 1875, Voi. II p. 9 1. ivi, p. 90. 71 ivi, p. 9 I. 70


lii - LA StCONl)A l'ASE DEL PENSIERO DI NICOLA MARSEI.Ll 1872- 1892

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Interrogativo retorico, che sottintende una risposta negativa. Per il M. non vale la celebre massima "il numero è potenza", di fatto prevalente in Italia fino a tempi assai recenti; il numero è solo un importante presupposto della potenza. A suo parere la versione del principio della massa data dal Macdougall (''opporre la massa del Vostro esercito alle frazioni dell'inimico") nel caso di notevole sproporzione qualitativa delle forze, può capovolgersi: in realtà, quando sono più vigorose degli interi, le frazioni li battono: "Napoleone avrebbe certamente gioito, se in un solo campo di battaglia avesse potuto vedersi difronte tutte le.frazioni dell'esercito spagnolo e tutti gli sciami dei guerriglieri". Come si è visto il M. per l'occasione fa un'affermazione assai importante, in certo senso accentuando (e non c 'è bisogno) l'influenza dei princip'ì: "basta che, nella realtà, un solo caso 5fugga al dominio d'un principio, per togliere a questo il suo carattere generale". Divergenza fondamentale da Jomini, secondo il quale - almeno - i principi andavano riferiti ai casi medi d'impiego. In definitiva per il M. ciò che ha valore veramente generale è la forza; egli cerca di rintuzzare le critiche di coloro i quali ritengono un siffatto principio troppo elementare e primitivo, citando la legge fondamentale della meccanica, che consiste nell'ottenere un dato movimento con il minimo dispendio di forze, o quella di Darwin: "il vantaggio del partire da una generalizzazione così larga sta in questo che, appena discendiamo nella regione delle determinazioni particolari, noi ritroviamo la linea di tutti gli elementi che debbono porgere carne e colorito alle pallide parole superiorità e forza . ... ". Sempre riferendosi al Macdougall il M. discute altri due principi, che rispetto al primo già esaminato sono da considerarsi secondari o meglio sussidiari e derivati. Il secondo, così come viene formulato dal Macdougall, è "operare per quanto possibile sulle comunicazioni del nemico, senza esporre le proprie". Anche questo principio - egli osserva - va considerato come complementare del primo, perché indica secondo quale direzione deve essere applicata la forza per avere l'effetto più decisivo. Ma esso porta ad ammettere che anche un esercito notevolmente superiore a quello nemico non potrebbe abbandonare senza danno le proprie comunicazioni: questo è smentito dall'esperienza storica. Ne consegue che deve essere attribuito valore veramente generale all'asserto - più limitativo - che " la superiorità della forza, per riuscire in sommo grado efficace, dev'essere applicata secondo quella direzione che mena un esercito sulla linea di ritirata dell'altro " . Battere il nemico è gran cosa; separarlo dalla sua linea di comunicazione è decisivo. L' importante è raggiungere tale scopo; il generale lo può fare sia mantenendo le comunicazioni , sia abbandonandole, sia


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11. PP.NSIEROMIUTARE E NAVALE ITALIANO - VOL Ili 1870-1915 - TOMO I

accontentandosi di comunicazioni mediocri. Non sempre la situazione permette queste linee di azione: "in tal caso bisogna contentarsi del modesto spostare L'avversario ". Il terzo principio, formulalo dal Macdougall e messo in luce da Napoleone coi fatti e da Jomini con gli scritti, è "operare sempre per linee interne", cioè colpire a forze riunite le forze nemiche, là dove esse sono separate in masse distinte. Ma per il M. "esso vale nel solo rnso in cui L'esercito nemico sia diviso in frazioni più Lontane fra loro che dall'attaccante, e non esprime La necessità di un'azione pronta e vi;:omsa, che è vita del meccanismo morale". Non vale se l'esercito nemico è riunito; perciò si tratta di un principio monco. Ma anche quando il nemico è separato, non sempre i rapporti di posizione consentono di interporsi tra le parti; oltre tutto le linee convergenti in taluni casi possono essere più efficaci delle linee interne, anche se implicano una separazione iniziale delle forze. Se la massa non è messa in azione con sufficiente velocità e vigore d'animo non si può ottenere la vittoria, quindi il principio deve essere riformulato come segue: "operare a massa e con vigore, prescegliendo quelle linee che conducono il proprio esercito o a battere partitamente quello avversario o a riunirsi sul medesimo campo di battaglia nel modo più pronto e più efficace". 72 Nonostante i tentativi del M. di aumentare la loro valenza generale, tutti e tre i principi prima esaminati appaiono principalmente - ancorché non esclusivamente - riferiti a un esercito superiore o almeno equivalente a quello nemico, che intende eseguire atti tattici decisivi e capaci di assicurargli la vittoria, indicata dal M. stesso come loro fine esclusivo. Qual' è, allora, la linea strategica che deve seguire il generale in capo di un esercito inferiore e quindi costretto alla difensiva, perché non può sperare nella debellatio dell'avversario in uno scontro decisivo? non può avere una strategia? IJ M. non studia in profondità questo caso: afferma solo che la difensiva, attuata da chi è più debole, deve cercare nel tempo e nella forza intrinseca delle posizioni il mezzo più adatto e l'occasione più propizia per sconfiggere l'avversario. La difensiva deve avere appunto lo scopo di cogliere questa occasione, o di crearla quando possibile: in tal modo si trasforma nella ricerca delle modalità più adatte per passare all'offensiva. Un piccolo esercito, che guerreggi contro uno più forte, deve rassegnarsi ad accettare battaglia, appoggiandosi a qualche posizione forte preventiva-

72

ivi, p. 102.


lii - LA SECON DA FASE L>EL PENSIHRU L>I NICOLA MARSELLI ( 1872-1892)

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me nte scelta, o a rinserrarsi in una posizione fortificata: "ma anche in tali casi la difensiva deve essere tatticamente offensiva, cioè all'attacco deve rispondere con l'attacco". Più facile a dirsi che a farsi: in questo modo il M. cerca di attenuare l'unilateralità dei suoi principi, derivati - come quelli di Jomini - dall'exemplum napoleonico e dunque adatti soprattutto a un esercito che è in grado di condurre - a scapito di chi si difende, dj chi non è in grado di mantenere l'iniziativa - una guerra rapida e offensiva di stile napoleonico. È persino ovvio rilevare che l'applicazione dei tre principi prima esaminati è infinitamente più agevole per chi - sia pure nel senso del M. - è superiore o dispone di forza equivalente, piuttosto che per chi è inferiore; così stando le cose, come possono essere assoluti dei principi che a priori non valgono in modo uguale per chi è debole e per chi è forte, per chi attacca e per chi si difende? Tanto più che egli conclude la parte dedicata ai principi indicando come "stella polare", come "finalità di tutti gli atti dell'arte di ordinare e adoperare gli eserciti" una proposizione piuttosto tautologica: Il supremo principio dell'arte della guerra è elle si debbano preparare le armi in guisa da essere più forti sul campo di battaglia; il che si ottiene con la quantità e qualità degli uomini armati; con la massa, il moto e l' urto, animati dall'ingegno, dall'istruzione, e dal carattere. 73

Ma questo è un passo indietro anche rispetto a Jomini, il quale dopo tutto, aveva sottolineato la necessità che, mediante le assidue cure del sovrano, l'esercito raggiungesse buoni standard qualitativi fin dal tempo di pace. A parità anche qualitativa di forze sul campo di battaglia, vince quel generale che - come prescrive Jomini e come ammette anche Clausewitz sa concentrare le forze nel punto decisivo.

li rapporto tra geografia militare, statistica e strategia Come si è visto, nel concetto del M. la geografia militare fa parte integrante della scienza della guerra e in particolare rappresenta lo sfondo dell' azione strategica e tattica. Sul rapporto tra geografia e strategia il M. non cita il Durando e la definizione di geostrategia da lui data per primo, ma pur mettendo in guardia dalle esagerazioni giunge a

7

.1

ivi, p. 339.


IL l'cNSIERO MILITARii e NAVAIB ITALIANO - VOL. UI (1 870-191 5) - TOMO I

conclusioni non molto lontane da quelle del Durando stesso. Le sue considerazioni sulla geografia militare sono precedute da un esame dello stato della scienza in campo europeo che per brevità omettiamo, ricordando ancora che indica come precursori degli studi geografici in Italia il generale Pepe e i fratelli Mezzacapo. A suo parere, con I' indirizzo al momento seguìto dal colonnello Perrucchetti nell ' insegnamento alla Scuola di Guerra la geografia militare tocca lo stadio più avanzato, perché supera la teoria idrografica, del Lavallée (basata su un minuto esame dei bacini fluviali che riesce frammentario) dando alla materia una più precisa individualità mediante il suo distacco dalla geografia fisica e l'esame delle condizioni che essa pone all 'offensiva e difensiva degli eserciti; in tal modo le ricadute militari della geografia non sono più marginali come nel Lavallée, ma acquistano carattere predominante. Secondo il M. il predominio della geografia militare è dimostrato dal fatto che anche un generale di genio può forzare fino a un certo punto la mano della natura; "e, iuardate armonia, quanto più si sottometterà all'indeclinabile ragione della geografia, tanto più volgeranno a bene le operazioni militari, tanto più padroneggerà l'avversario. Come lo scienziato illustre doma la natura col comprenderne le leggi e col sottoporvisi, così il generale conquista i favori della vittoria col ricalcare l 'opera della natura, cioè col considerare come linee e punti strategici vitali della guerra quelli che la natura ha fatto tali". 74 Quindi la strategia ha come fondamento la geografia militare, e questa quella fisica; tanto che Gustavo Adolfo di Svezia ha scritto [come il Durando - N.d.a.] che "le regioni sono conquistate mediante lo stesso principio che le ha popolate in origine; il metodo di fare guerra rimane identico a quello tenuto dalla natura ", 75 La geografia militare del momento è appunto figlia del progresso sia della geografia fisica che della strategia. Essa è legata anche alla storia militare, alla quale un tempo era unita e dalla quale non può separarsi interamente: "la storia e la geografia sono legate tra di loro come L'anima e il corpo, come l'attore e La scena, come il tempo e lo spazio". È e sarà sempre indispensabile descrivere ed esaminare dal punto di vista geografico il teatro della guerra, prima di esaminare le operazioni che in esso si svolsero. La geografia militare in senso lato deve essere non solo strategica e Io-

74 75

ivi, Voi. li p. 116. ivi, pp. 119-120.


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~isl ica, ma anche tattica; essa "deve formare il vero studio della difesa ,. dl'll 'offesa dello Stato", perché è il primo elemento da considerare per la definizione dei punti da fortificare. Di conseguenza "la teoria della geografia militare è la ragion composta fra i principt della scienza della guerra e quelli della geografia jìsica";76 valgono i principi della sc ie nza della guerra e non solamente della strategia, perché rientra nel campo della scienza della guerra anche lo studio della struttura topografica del terreno, per riconoscerne la viabilità, la percorribilità, le condizioni che esso offre per l'impiego delle varie Armi. Il principio supremo della guerra, che consiste nell'applicare sul punto decisivo la maggior somma della forza relativa, fornisce anche l'unità di misura per giudicare il valore militare di una posizione: "è bene tutto quello che favorisce l'applicazione di tale principio; è male tutto ciò che la impedisce o la rende malage vole; è bene ciò che unisce, è male ciò che divide le forze militari in guisa da impedire la loro colleganza per la hattaglia ". 77 L'influsso della geografia ha però dei limiti: per chi procede offensivamente il punto decisivo non è costituito solo da elementi geografici, ma dall' esercito nemico schierato su una data posizione, che intende conservarla e contrattaccare: "abbiamo trait<, innanzi gli eserciti, sebbene parlassimo di punti e di geografia, perché crediamo che il furto della così detta chiave geog rajìca, sia pure fortificata, non assicura i giorni del ladro, sino a quando è in piedi colui che può punirlo. È certamente un vantaggio, ma non decisivo. Le posizioni strategiche, di per sé, sono cosa troppo pallida nel quadro generale della guerra". 78 Noi ricordiamo che su questo argomento il giudizio del Clausewitz è analogo; e come Clausewitz il M. ironizza sul concetto di "posizione-chiave" che dominerebbe addirittura due valli: le valli si comandano cogli esercili, e si conquistano col distruggerli. Simile teoria ci pare degna compagna dell'altra, secondo cui è padrone delJe valli chi è lo è già delle foci [ ... ]. È un vero miraggio, per il quale apparisce con luce di punto decisivo quell'obietto che, occupato prima delJa vittoria, è semplicemente vantaggioso, e, occupato dopo, è l' ultima conseguenza di una decisione già conquistata sul campo. Su di questo giace la vera soluzione per eccellenza ...79

76

ivi, p . 128. ivi, p . I 3 1. " ivi, p. 132 . .,. ivi, p. 256. 71


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Nonostante questi limiti e oggettivi più che altro legati al buonsenso, per M. la geografia fisica fornisce già una serie di probanti indicazioni sulle aree nelle quali è più probabile che avvengano le battaglie decisive tra eserciti. Esse si combattono in terreno aperto, dove si allargano le valli dallo sbocco dei fiumi in piano fino alla foce: "l'idrografia determina un sistema stradale, che incatena La civiltà e la guerra". Infatti in queste aree si trovano posizioni che potrebbero essere definite "le calamite della guerra", perché dominano le valli e ne sono i punti vitali: così possono essere definiti i nodi stradali e le confluenze dei fiumi, dove sorgono le città che vengono poi cinte di fortificazioni. Le battaglie avvengono spesso nel raggio d'azione di tali posizioni strategiche, che sono più vantaggiose quando sono collocate a cavallo di un fiume importante come il Po, oppure quando sono difficilmente aggirabili e separabili dal fiume che devono proteggere. In sostanza, per il M. le aree più idonee per la ricerca di una rapida risoluzione della guerra sono le pianure: "le montagne sono l 'ostacolo naturale che maggiormente separa gli Stati e ritarda Le operazioni militari ma non sono terreno di grandi soluzioni. La loro struttura pone gli eserciti in condizioni opposte a quelle richieste per muoversi con facilità, concentrarsi con rapidità e schierarsi con agevolezza". Esse inducono sia l'attaccante che il difensore a separare le forze formando diverse colonne che poco o nulla possono sostenersi a vicenda, e che solo nella pianura possono ricongiungersi. Per il M. come per Clausewitz e l'Arciduca Carlo - chi attacca in montagna ha sul difensore il vantaggio della scelta del1e vie di facilitazione in cui fare il massimo sforzo; ma se il difensore, senza disperdere forze, tiene l'esercito raccolto nella retrostante pianura in una posizium: i<lum:a a osservare gli sbocchi e a contrattaccare con tempestività le colonne nemiche al1o sbocco delle valli, allora l'attaccante si trova esposto al pericolo di vedere le predette colonne attaccate da forze maggiori quando ancora non hanno potuto riunirsi [questo concetto ha grande influenza sulle scelte concernenti la difesa del1o Stato di queg li anni N.d.a.]. Solo chi è costretto a evitare scontri decisivi può organizzare la di fesa proprio nella fascia montana; negli altri casi "la d(fesa dl'lla montagna nel basso è l'unico modo di neutralizzare la superiorità dell'esercito nemico ". Chi, in base a vecchi pregiudi zi, volesse difendere una frontiera montuosa dividendo l'esercito e schierandolo tra le montagne, "affiderebbe all'accidente dei piccoli scontri, alla dt•.,·trl'';.":,{I dei guerri-


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glieri " quella soluzione che invece va ricercata con abile manovra del-

le forze riunite. Non vale il vecchio motto che consiglia di portare la guerra sulle montagne, solo perché "chi è padrone delle sorgenti è padrone delle foci". Senza voler disconoscere i vantaggi delle posizioni dominanti, come osserva l'Arciduca Carlo, estendere tali verità sino al punto da concluderne che la Svizzera sia il baluardo della Francia, il Tirolo del1' Austria, e che lo scopo precipuo della guerra sia l'occupazione delle più alte montagne d'Europa, gli è un andare agli antipodi della verità. Le montagne si debbono difendere con piccole colonne e con forti di sbarramento, senza di che esse non ritarderebbero la marcia dell'inimico se non per effetto della inerte natura; ma la grande difesa strategica di esse e del suolo della patria si fa negli aperti terreni della pianura. 80

Nessuna concessione, dunque, alle buone possibilità che il terreno montano offre alla guerriglia, che pure si trovano nel Grassi, nel Balbo, nel Pepe e in altri; in compenso, anche nel concetto di difesa strategica della fronti era alpina del M . si trova la giustificazione teorica della nascita degli alpini avvenuta non casualmente tre anni prima, sulla quale ci soffermeremo in seguito. Si deve anche constatare che nella guerra 1915-1918 sul fronte dell'Isonzo, è prevalso quell'eccessivo culto delle posizioni condannato dal M., e si è avuta nello stesso tempo la conferma che ciò che vale non è la forza intrinseca o, peggio, l' altitudine - delle posizioni in sé, ma il binomio posizioniforze mobili , cioè il modo con cui le predette posizioni si attaccano e difendono. Infine si deve notare che egli parte da un postulato risultato non più valido per gli eserciti di massa delle due guerre mondiali: la mancanza di una quantità di forze sufficiente per guarnire con continuità (e con sufficienti riserve) una frontiera montana, che di per sé ha imposto per secoli - e fino a Napoleone - il concentramento delle forze nel senso da lui indicato, già attuato dallo stesso Napoleone (che ha approfittato, nel 1796, del debole fronte continuo degli austro-piemontesi sulle Alpi Occidentali) e per questo condiviso anche da Clausewitz e dall'Arciduca Carlo. Come si è visto, nel M_ è presente - anche se non frequente - un concetto di geostrategia affine a quello del Durando; ma ai suoi tempi non si

"" ivi, p. 135.


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conosce ancora la geografia umana,'"1 disciplina nata in Francia a fine secolo XTX e allora concepita in termini evoluzionistici come branca della biogeografia, con lo scopo di "studiare, nell'ottica darwiniana, il modo in cui le società umane sono modellate dall'ambiente nelle loro componenti, nel loro Junzionamento e nella loro evoluzione, in modo da stabilire delle leggi che permellano di spiegare il destino degli uomini e della società". Oggi tale disciplina studia la distribuzione degli uomini sulla terra e la maniera in cui vivono, il funzionamento de1le società, il modo con cui le djstanza e la lontananza ne influenzano le attività, e infine il modo con cui gli uomini concepiscono il globo terrestre e le conseguenti modifiche che apportano all'ambiente naturale. Evidentemente tutti questi elementi rientrano nel campo d'interesse dell' arte militare e, più nel particolare, della geografia militare. Sia pure in modo ancora frammentario, istintivo e formalmente imperfetto i I M. mostra di accorgersene, là ove abbina la geografia militare alla stalistù.:a militare, e afferma che "sul piano di guerra esercita influenza non pure la fisica terrestre, ma anche quella sociale", perchè "la natura opera sulla guerra non soltanto come configurazione geografica e struttura topografica, ma anche come produzione di suolo e come dima". Egli, insomma, riconosce che l'arte militare e la geografia militare sj devono interessare anche di tutto ciò che deriva sia dall'influsso dell'ambiente sull'uomo, sia dall'influsso dell'uomo sull'ambiente. Di qui il ruolo della statistica militare, che nel secolo XIX era spesso considerata come branca a parte, forse perché l'acquisizione di aggiornati dati statistici di interesse politico-strategico, riguardanti sia il potenziale militare e economico proprio che quello nemico, era assai meno agevole di oggi, se non altro perché le scienze statistiche in generale erano assai meno progredite. Per M. lo stratego, veramente degno del nome, non medita soltanto su una carta topografica, ma anche su i dati statistici che gli parlano della varia al tività dell'uomo sociale. La sua scelta è determinata tanto da llo studio delle linee geografiche, quanto dalla cognizione della po1cnz11 n1ili111rc. delle istituzioni politiche e civili, dello stato economico. dd l11 dl·n,it:ì della popolazione, delle condizioni morali di qucsw c. i11 gl'IIL'11tll', di tutto ciò che riguarda il militare, il cittadino. l' uomo. I,11 ~,111i , 11L'll lw nface .alle scienze sociali non pure i dati ma anchl: 1111 rnrtodu 111·1 1ttll'1

"'Cfr. "Enciclopedia delle Sc ienze Sociali"". l, 1i1t1111 l<r1<

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rogarli. Ciac;cuno di quelli li elabora nel proprio campo, e rischiara col lume delle leggi note, li feconda con la scoperta di nuovi rapporti. Ecosì sulla doppia base della statistica, che riguarda piuttosto il presente, e della storia, si elevano le particolari scienze sociali, le quali trovano il loro coronamento nella scienza dell'uomo.82

Accanto a dati di importanza militare ovvia come quelli relativi alla produzione agricola di una regione, interessano i dati relativi al movimento e alla densità della popolazione; ma per compensare gli errori e valutare nel miglior modo possibile i fenomeni complessi dell'attività sociale, non bisogna limitarsi all'esame di un solo fattore ma analizzare il maggior numero possibile, in tal modo dando agli studi strategici un carattere più positivo. Premesso che la statistica fornisce delle basi alle scienze sociali, ma non le sostituisce, la scienza politica e quella economica costituiscono con la scienza storica quel gruppo di scienze sociali che gli ufficiali, deputati a comandare, debbono coltivare con calore e con assiduità. Esse formano non solo il militare, ma il cittadino, l'uomo di Stato, E uomini interi debbono essere coloro che reggono le associazioni umane e coloro che debbono secondarie; !83

Il napoletano M. completa la parte dedicata alla geografia e alla statistica con considerazioni relative all'influsso del clima sulle virtù militari dagli abitanti di determinate regioni, nelle quali difende le popolazioni meridionali dall'accusa - forse dovuta al troppo rapido crollo dell'esercito borbonico nel 1860 - di non essere atte alle armi. Ammette che, in linea generale, gli abitanti delle regioni con climi freddi (o della montagna) hanno maggiori attitudini militari degli abitanti delle regioni calde: ma non si tratta di una legge assoluta. La storia dimostra che anche un popolo ritenuto poco adatto alle armi, se militarmente bene ordinato, se "animato da sentimenti virtuosi, trasformato da benefici contatti"', può diventare ricco di doti militari; il contrario può avvenire per gli abitanti delle montagne. Quindi " la natura permette agli uomini di essere bravi soldati, quando le condizioni storiche non lo impediscano. Ella predispone il carattere, ma nella maggior parte dei casi non lo determina inesorabilmente".

112 Marse lli , La Guerra e la sua storia (Cit.), 1• Ed. 1875, Voi. Il pp. 157- 158. "' ivi, p. 162.


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Il l'ENSlhRO MILITARE E N/\V/\LP. IT/\LI/\NO- VOI.. lii ( IR70-1 91.~) - TOMO I_ _ __

A,,,,licozioni alla difesa d'Italia La guerra e la sua storia è un'opera eminentemente teorica, dove I' exemplum histiricum domina sovrano; tuttavia non vi mancano, qua e là, accenni - magari sotto forma di exempla - a questioni che riguardano specifici aspetti della politica militare italiana, con particolare riguardo alla difesa dello Stato e all'ordinamento e reclutamento dell'esercito. Si tratta di spunti significativi, anche se spesso risultano quasi dissimulati , posti in secondo piano nel mare magnum delle complesse questioni teoriche e storiche affrontate. Come già ricordato trattando della geografia militare, secondo il M. le montagne vanno difese con ridotte aliquote di forze e con forti di sbarramento, ma "la grande difesa strategica di esse e del suolo patrio si fa negli aperti terreni della pianura ", x4 concentrando l'esercito di I• linea contro le colonne nemiche sbarcate in pianura. Da questo concetto-base, dunque, bisogna partire per condurre l'esame del punto di vista del M. sulle scelte strategiche che l'Italia deve compiere. Alla base delle sue riflessioni vi è un'alta motivazione di carattere morale: nel Voi. II accenna all'istituzione nel I 867 della Scuola di Guerra, che dovrebbe rimediare alle lacune emerse in tutte le guerre di indipendenza (non esclusa quella vittoriosa del 1859) preparando un'eletta schiera di Capi e insieme ottimi ufficiali di Stato Maggiore. Auspica perciò che essa sia una delle più potenti forze rinnovatrici dell'esercito, e che possa resistere sia "alla sorda guerra" di coloro che cercano di minarla, sia "all 'indifferentismo italiano, il quale lascia presto in abbandono le migliori istituzioni, per cui non seppe avere che un'ora di fittizio furore ". E aggiunge: facciano questo voto tutti coloro sul cui animo pesa il ricordo di Custoza; tutti coloro che intendono quanto sia all'Italia necessaria una vittoria del suo esercito, combattente da solo. Senza una simile vittoria, gl'Italiani non saranno mai stimati come uomini; e gli stranieri continueranno a trattarci con quella benevola protezione, che più dell'oblio dovrebbe offenderci e stimolarci.85

Anche nel Vol. II quando esamina la politica militare ritorna sullo stesso argomento, premettendo che 84

85

ivi, p. 135. ivi, Voi. IU p. 332.


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per un giovane Stato [come )'. Italia], la ripetizione di un simile fatto [cioè delJa sconfitta del 1866 - N.d.a.] sarebbe davvero il principio della fine. Noi ci dissolveremmo per le interne discordie. A che esserci costituiti ad unità nazionale, se in pace dobbiamo perpetrare la politica degli Statini italiani verso la protettrice Austria, ed in guerra rassegnarci alla parte dell'ausiliario e al destino degli sconfitti? No, non deve andar così. L' Italia si è costituita ad unità di Stato, ma non ancora si è affermala come solida potenza. Per farlo è mestieri che sulla strada ch'ella deve percorrere splenda l'astro della vittoria.86

Ciò premesso, secondo il M. la futura guerra non potrà essere combattuta che per la nostra stessa esistenza, e a tal fine bisogna conciliare la necessità di grandi preparativi militari con le ristrettezze finanziarie: problema di sempre. Così come da sempre, e anche nel XX secolo, avviene ciò che iJ M. sintetizza magistralmente: havvi tra di noi chi trascura la conciliazione [tra finanze e esigenze militari - N.d.a. I, e chi la cerca senza trovarla. La trascurano coloro che vogliono accrescere gli armamenti senza punto c urarsi delle finanze, e viceversa: la cercano senza trovarla coloro che vorrebbero sanare le finanze con una forte diminuzione dell ' esercito permanente, così nello stato di pace come in quello di guerra, coll'impedire c he si rafforzino i valichi alpini e Roma, affidando a un 'alleanza la cura di salvarci dalle offese di potente nemico. Egli è chiaro che la politica, per chiedere all'ordinatore della potenza militare ciò che abbiamo detto doverglisi oggidì chiedere da qualunque Stato corra seri pericoli, deve fornirgli i mezzi. Ora l'Italia non ha sì fatti mezzi; donde la necessità di attenuare, in pratica, il rigore di quell' assoluto principio. 87

La situazione del momento - prosegue M. - è difficile: se si tiene conto della potenza militare delle nazioni confinanti (Francia e Austria in particolar modo), l'esercito ha raggiunto solo un livello di forza MINIMO, mentre per le fortificazioni "non abbiamo una sola posizione formidabile". Per carenza di risorse l'esercito di 1• linea ha una forza di

"" ivi. Voi. II pp. 43-44. .., ivi, pp. 42-43.


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300.000 uomini, mentre se si tiene conto della popolazione dovrebbe averne 400.000: eppure "il fuoco celere ha reso capitale la ragione del numero", e l'Italia dovrebbe essere in grado di combattere e vincere una guerra da sola. Il M., comunque, non è del tutto pessimista: nonostante le costanti lamentele dei politici sulla scarsità di fondi, la ricchezza nazionale e la situazione finanziaria dello Stato stanno migliorando: "se nel paese crescerà il numero di coloro che l'amano, e diminuirà quello dei frodatori dello Stato"; se l'Italia sarà ben governata, "noi xiunxeremo a salvamento senza indebolire il migliore strumento di educazione italiana e virile che abbiamo [cioè l'esercito - N.d.a.], e senza esporci ad essere batluti e svillaneggiati". ln questo quadro, il M. non esclude nemmeno la possibilità di adottare - sia pure in un futuro non meglio precisato, ma non vicino - il modello svizzero: "ancora un po ' di pazienza e poi, se è opportuno, se piace, ci ordineremo anche a modo svizzero". 88 Riguardo alla difesa dello Stato, M. parte da una realistica premessa, che oggi parrebbe ovvia ma al suo tempo non lo era affatto: in fatto di fortificazioni l'elemento più importante <.la considerare è la disponibilità di risorse; e visto che "posti a partito fra il privarsi di una fortezza o di un corpo d 'armata, ognuno vota per conservare questo", occorre "fare gradatamente quello che più urge [per la fortificazione dei confini], rimettendo all'avvenire la difesa interna ". Devono avere la priorità sia i forti di sbarramento sulle Alpi (che hanno il compito di dare all'esercito di 1a linea il tempo di mobilitarsi e radunarsi) sia le fortificazioni di Roma, che ambedue consentono di risparmiare forze mobili. Peraltro, una politica militare che preveda la resistenza fino aJl'estremo "deve all'occorrenza imporre al generale un sistema di guerra che risponda allo scopo, e per poterlo fare deve imporre ali'ordinatore della potenza militare che non preoccupi [cioè che non organizzi aprioristicamente - N.d.a.] il territorio dello Stato con un sistema di fortificazioni, che vincolerebbe il generale in guisa da impedirgli l'effettuazione del piano che egli vorrebbe prescegliere". 89 Per il resto, approfondendo notevolmente e qualche volta modificando quanto afferma negli scritti precedenti (cfr. cap. Il), il M. è portatore di un concetto difensivo "peninsulare" affine a quello dei Mez-

"" ivi, p. 45 . .. ivi, p. 47.


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zacapo, quindi diverge radicalmente dal Ricci (cfr. cap. I), con lui concordando solo sulla necessità - alla quale si è già accennato - di difendere i confini non gravitando con le forze all'interno della fascia alpina, ma schierando l'esercito di prima linea ai piedi delle Alpi per contrattaccare le colonne nemiche sboccate in piano e logorate e ritardate dalle truppe alpine rapidamente mobilitate per presidiare i forti di sbarramento. In proposito, M. scende più nel dettaglio del Ricci. Dopo un accurato esame del confine di Nord-Ovest con la Francia (che manca totalmente per il confine di Nord-Est) egli esamina soprattutto le possibilità della difesa. Ritiene possibile un'offensiva iniziale del1' Italia solo se essa fosse alleata della Germania; in caso diverso, date anche le difficoltà del terreno l'esercito italiano potrebbe passare all'offensiva solo dopo aver riportato una convincente vittoria sul territorio nazionale. Per la difesa del confine di Nord-Ovest riscontra la necessità di dividere l'esercito in due armate, con il Comando Supremo ad Asti: - "un'armata delle Alpi" con Comando a Bra, avente il compito di arrestare e eliminare - impedendone la riunione - le colonne nemiche che "debbono per necessità convergere" nella "forchetta" formata dall'area Cannagnola - Cavallermaggiore - Bra - Alba; - "un'armata dell'Appennino" con Comando ad Alessandria, meno forte della precedente e con essa strettamente collegata per ferrovia, con il compito di sbarrare la direttrice di Alessandria, impedendo che le colonne nemiche procedenti per l'Appennino ligure insieme con quella sboccata dal Piccolo S.Bemardo, tentino di aggirare "l'esercito italiano raccolto nella pianura tra il Po e il Tanaro, e tenuto in fra due dalla minaccia dell'attacco bifrontale procedente dalle valli intermedie". Il M. fa anche un preciso riferimento ai compiti delle neo-costituite (1872) compagnie alpine, che non devono certo difendere ad oltranza le valli: codesto piano non esclude, anzi permette la piccola guerra dei monti, fatta con speciali truppe. Ciò che esclude è il partito di sparpagliare l'esercito nei monti, per andare a caccia di una soluzione che così gli sfugge. Dalle informazioni che i comandanti delle compagnie alpine spediscono, in generale da tutte le informazioni possibili, dalle vicende dei primi scontri [...] dipende il decidere la potenza della controffensiva da applicare a questo o a quello sbocco e quale delle due armate deve muo-


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vere, tutta o in parte, a raffonare l'altra. Sono deliberazioni che non si possono prendere a priori. 90

La divergenza (non esplicitamente dichiarata) del M. dalle idee del Ricci si manifesta sui seguenti aspetti fondamentali: - un'offensiva oltre confine (invece caldeggiata dal Ricci, sia pur senza scendere nel dettaglio) tranne casi particolari non è possibile, né la difesa può essere organizzata applicando esclusivamente il concetto del "più avanti possibile": - mentre il Ricci sottolinea l'importanza capitale del possesso della valle del Po ed è assai scettico sulle prospettive di una ritirata sul1' Appennino Tosco-Emiliano, secondo il M. la valle del Po è importante, ma tale ritirala "è una di quelle operazioni militari che la ragione politica può comandare, e a cui il sistema di fortificazione territoriale non deve essere di ostacolo, ma al contrario di appoggio ". Non è perciò condivisibile la tesi che ''l'Italia militarmente altro non è che la valle del Po " e non si deve escludere a priori una ritirata sull'Appennino centrale. Il caso peggiore (da scongiurare) non sarebbe la perdita della valle del Po ma la separazione dell'esercito dalla penisola e l'Italia spezzata; - tenendo presente che un grande ridotto condiziona in modo decisivo le operazioni e che da esso - come dimostra l'esperienza storica anche recente (Metz, Parigi) - non è affatto agevole uscire per riprendere l'offensiva, si tratta di scegliere tra il ridotto Piacenza-Stradella-Bobbio (teorizzato dal Ricci) e uno più interno; - per l'Italia, però, la costruzione di un grande ridotto nel quale I' esercito battuto potrebbe ritirarsi per riprendere poi l'offensiva NON È NECESSARIA. Non c'è bisogno assoluto di costruire ridotti artificiali, quando ne è già disponibile uno naturale: "a parer nostro, l'Appennino centrale medesimo, da Bologna alla conca aquilana con i passi sbarrati nei due versanti, con le foci dei fiumi principali apparecchiate a difesa, ed il nostro esercito costituiranno il miglior ridotto per la difesa, se gli Italiani sapranno dimostrare patriottismo pari alla gravità della situazione avversa"; 9 1 - il ridotto Piacenza-Stradella-Bobbio è troppo eccentrico rispetto a un eventuale attacco proveniente dal confine di Nord-Est. Inoltre le

""ivi. pp. 146-147. 91 ivi. P- 54_


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sue comunicazioni con la penisola potrebbero essere interrotte da un'aliquota di forze nemiche che interrompesse la via Emilia per proseguire, magari, verso Sud; in questo caso le comunicazioni di Piacenza con il mare non sarebbero sicure, perché la nostra flotta al momento non ba una decisa superiorità su quella austriaca; - a sua volta il vecchio quadrilatero austriaco (Mantova-Verona-Peschiera-Legnago) non può più servire da ridotto in una guerra contro la Francia; e anche nel caso di attacchi dalla frontiera di NordEst correrebbe il pericolo di rimanere isolato dall'Italia peninsulare. Ciò premesso, secondo il M. bisogna reagire "contro quell'esagerato sistematismo, che vorrebbe con anticipo calcolare ogni passo che farà la guerra, e che vuol preparare ad ogni costo un ridotto; se proprio si vuol preparare qualcosa del genere, allora conviene fortificare Roma, che data la sua posizione risponderebbe meglio di Parigi allo scopo dell'ultima d1fesa, quando il Tevere fosse convenientemente difeso ". Per quanto riguarda la difesa della valle del Po, a suo avviso nessuna posizione soddisfa al requisito generale di essere difficilmente aggirabi le e separabile dal Paese che deve difendere; bisogna comunque tener presente che le posizioni sono militarmente più vantaggiose quando sono collocate a cavallo della maggiore massa d'acqua. Per questa ragione Piacenza sul Po è in migliori condizioni di Mantova sul Mincio, che attraverso Borgoforte dovrebbe pertanto ricollegarsi con il Po. A sua volta la posizione di Bologna è più importante di quella di Piacenza, e dovrebbe essere rinforzata "come grande piazza di manovra o piazza da ritirata e da riscossa", senza però diventare un ridotto definitivo o una capitale militare d'Italia, e senza spingere le fortificazioni molto a Sud, verso gli Appennini. 1n sintesi, nena valle del Po bisognerebbe prevedere un solo centro di potenza (l'esercito di l" linea concentrato) e tre centri di resistenza (le fortificazioni di Piacenza-Mantova-Bologna). Esse però "non devono essere da più di ampie e robuste teste di ponte: perni di manovra, non ridotti". Devono avere "grande sviluppo, ossia doppio ordine di forti"; ma tale sviluppo deve essere proporzionato alle loro reali funzioni, non deve diventare "anzi un pericolo che una protezione, pericolo cioè o di.fissare l'esercito nel campo, o di obbligarlo a lasciarvi molta forza, sia pure di milizia mobile, per difenderlo seriamente". 92 In particolare, tenendo conto delle disponibilità finanziarie conviene dare priorità alla difesa periferica rispetto a quella i ntema, cominciando da

., ivi, p. 53.


Il. PENSIERO MIUTARE E NAVALE ITALIANO - VOL. lii ( 1870-1915) - TOMO I

Piacenza-Stradella (che con Mantova-Borgoforte deve essere un perno di manovra per la difesa della linea del Po, non un ridotto). Per quanto riguarda le fortificazioni di Alessandria-Casale e Verona che sono in sistema con le precedenti, vale il detto "cattiva piazza è peggiore di nessuna piazza". Al momento si tratta appunto di cattive piazze: quindi si deve studiare il modo di assegnare loro funzioni più limitate di quelle per le quali sono nate e se questo non è possibile, vanno senz'altro radiate. Per ultimo, il M. tratta del ruolo delle ferrovie nella difesa nazionale. In generale insieme con il telegrafo esse sono "i canali conduttori della vittoria", e in caso di guerra agevolano grandemente la radunata delle truppe in zona di operazioni, facendo in modo che esse giungano a destinazione rapidamente, senza essere stanche per le lunghe marce, e perciò in grado di iniziare una rigorosa offensiva contro il nemico. Nel caso dell' Italia, "ciò che al presente urge di più si è che tutto l'esercito di prima linea, non eccettuato un solo uomo, possa venire, in quindici giorni al più, schierato nella valle del Po; e che quello di seconda linea possa facilmente accorrere ove si minacci uno sbarco, una diversione, una sorpresa, un tentativo per destare l'insurrezione in questa o quella provincia ". Poiché le linee ferroviarie Nord-Sud corrono lungo la costa e quindi sono facilmente interrompibili dal mare, occorre prolungare fino allo stivale la linea interna Bologna-Firenze-Foligno-Temi-Rieti fino a Aquila-Sulmona-Campobasso-Benevento-Potenza ecc. ; inoltre occorre aumentare le linee trasversali nella penisola. Anche dal ruolo assegnato alle ferrovie - che dovrebbero consentire agevoli spostamenti di forze nella penisola e in particolare l'intervento dell'esercito di 2• linea in caso di sbarchi - traspare un'altra non trascurabile differenza tra le concezioni del M. per la difesa dello Stato e quelle del Ricci: mentre quest'ultimo fa di tale difesa anzitutto una questione di ripartizione di compiti tra esercito e flotta prevedendo che l'Italia peninsulare e insulare sia difesa soprattutto dal mare, il M. in questa occasione riduce la difesa dello Stato a una questione essenzialmente terresLrc, non tratta nemmeno la difesa de11e coste e non assegna alcun compito specifico alle forze navali, né accenna - come il Ricci e il Bonamico - alla necessità di un'impostazione unitaria della difesa nazionale. Divergenza anche su questo punto dal Ricci e dal Bonarnit:o. oppure riflesso, per così dire, di esigenze di insegnamento, che alm1.;no ne lla Guerra e sua storia (frutto delle lezioni tenute alla Scuola di (ìu1.;rra) gli impediscono di discostarsi troppo dagli orientamenti s1ratq ~i1:i uflit:iali ? Nel corso dell'esame delle rimanenti opere fornire mo 111 1isposlu a questo interrogativo.


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SEZIONE II - La sociologia e la pedagogia militari: "La Vita del reggimento" (1889)

li M. sociologo e pedagogo militare è stato finora trascurato dalla critica storica. Eppure si tratta della parte più viva e moderna dei suoi scritti, nella quale trae tutte le conseguenze dallo stretto rapporto tra contesto po1itico-sociale e Istituzione militare, che è il costante motivo traente delle sue riflessioni. Lo fa verificando le proporL.ioni teoriche con la realtà mi1itare del suo tempo, che come pochi conosce ad ogni livello; in tal modo riprende un discorso iniziato dal Blanch, dal Pepe, dal D' Ayala e affronta l'impatto - sempre assai problematico - della democrazia sulla vita militare, sulla disciplina, sull'educazione e formazione del personale di ogni grado, sui rapporti gerarchici. Di questi aspetti del pensiero del M. - non certo margfoali rispetto ad altri più noti (o meglio meno sconosciuti) concernenti l'arte militare - abbiamo già trattato in diverse occasioni.93 Basti dire che, a parte La guerra e la sua storia, gli elementi essenziali delle sue riflessioni su questo argomento si trovano già nei primi scritti. La Vita del reggimento, principale suo contributo in tema di sociologia e condizione militare, non è dunque che l'applicazione alla realtà (non solo e non tanto del reggimento, ma a quella dell 'esercito) delle più ampie acquisizioni teoriche precedenti; e da essa traspare una malcelata insoddisfazione del M. per i molti problemi che non è riuscito a risolvere e che nessuno ha risolto, sia quando era comandante di reggimento che quando ha ricoperto l'alta carica di Segretario Generale. I contenuti della Vita del reggimento sono stati largamente apprezzati e condivisi anche dagli ufficiali che hanno combattuto la prima guerra mondiale: lo attestano, tra l'altro, quanto afferma il Giacchi nella prefazione alle citate Lettere inedite, e una lettera del 29 aprile 1889 di Carlo Corsi riportata dallo stesso Giacchi. L'orientamento dell'opera è ben sintetizzato in queste parole della Prefazione dell'autore: "l'istruzione tecnica è indi:.pensabile af?li eserciti, ma non basta. È anche necessario sollevarsi a comprendere i rapporti tra la società e l'esercito, che è sua espressione, sua parte, suo istrumento: è necessario temprare la mente nello studio dei fatti complessi e delle ragioni prime, per acquistare l'abito a pensare con Larghezza e profondità ".94 ~J Botti, L'arte militare del 2()()() (Cil.) pp. 234-260; ID., Quando e per merito di chi è ,wtll la sociologia militare italiana, in "Rivista Militare" n. 2/2000; ID., Profe ti /,,ascoltati e "maitres à penser", (Cit.). .., Marselli, La Guerra e la sua storill (Cii.), I' Ed. 1875, Prefazione, p. 11.


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IL PENS1F.KO MJLITARE E NAVALE ITALIANO- VOL. IU (1 870- 1915) - TOMO I

A quanto ci risulta, il M. è anzitutto il primo (non solo in Italia) a usare il termine sociologia militare, sia pur senza fornirne una definizione. In merito fa riferimento alla legge di composizione e di dissoluzione dello Spencer, secondo la quale la materia cosmica passa dall'iniziale stato diffuso a quello integrato; successivamente avviene tra gli uomini la divisione del lavoro, fino a quando anche questo assetto sociale si decompone per dare vita ad altre forme. Ebbene, "dalla sociologia generale possiamo traspor/are questa legge alla sociologia militare [nostra sottolineatura N.d.a.] e riconoscere che anche questa passa dall'omogeneità all'eterogeneità di occupazioni che si vanno sempre più connettendo". 95 Secondo M. nella società moderna la divisione del lavoro militare è maggiormente avanzata, così come sono più progrediti i legami tra le varie Armi e i raccordi dei vari incarichi tra di loro. Poiché alla composizione deve succedere la decomposizione, quest'ultima in futuro potrebbe essere dovuta sia a un fattore interno che a uno esterno: "il fatto interno sta soprattutto nella perdita della virtù dell'animo, virtù che dell'organismo militare è saldissimo cimento. Il fatto esterno sta nell'urto di una forza più potente e nelle sue conseguenze dissolventi". Per raggiungere questo effetto non basta che l'urto esterno colpisca un organo secondario: deve annientare forma e sostanza dell'organismo militare. È però difficile che ciò avvenga, senza che all' interno non siano già ben presenti elementi di corruzione: "i vermi albergavano già negli ordini orientali quando Alessandro li decompose, in quelli greci quando la ~pada di Roma li di~fece, in quelli latini quando i germani li annientarono". La sociologia militare come aspetto particolare della sociologia generale; la dissoluzione di un organismo militare non solo per effetto di un urto esterno più potente, ma anche per la presenza al suo interno di elementi che ne facilitano la débacle: due concelli classici, che anche la storia del XX secolo non ha mai smentito. 11 M. sfiora, sia pur senza approfondirlo, anche l'argomento della pedagogia militare. Il suo interesse per questa disciplina non è che la conseguenza della grande importanza che ha sempre attribuito all'istruzione ed educazione militare; come si è accennato (sz. I) egli nella Guerra e la sua storia ne fa esplicito cenno quando afferma che la pedagogia militare non esiste ancora come branca autonoma dell'arte militare, quindi in sua assenza l'organica è costretta ad occuparsi anche di ciò che riguarda l'istruzione ed educazione rnilitare. 96 Mezzo secolo più tardi, nel 1921, in un li95 96

ivi, Voi. ID, pp. 468-469. ivi, Voi. I p. 52.


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--" IJ"---1----'--' I.A SECONDA FASE DEL PENSLl::KO DI N ICOLA MARSELLI ( 1872-1892)

bro oggi dimenticato e intitolato appunto Pedagogia militare, il colonnello Boccaccia citando il M. ha indicato la pedagogia militare addirittura come componente organica dell'arte militare, definendola "quel ramo della scienza pedagogica che ha per fine l'educazione militare del cittadino secondo i dettami dell'arte militare, cioè lo sviluppo armonico e completo delle sue energie psicofisiche, onde la società cui egli appartiene raggiunga il fine di una vittoriosa conservazione nelle eventuali lotte tra le forze armate degli Stati"'. 97 Come avviene anche per la sociologia militare, il M . lascia in sospeso la definizione e la collocazione teorica della pedagogia militare: ma nella "Vita del reggimento" non si stanca di toccare i temi dell'istruzione ed educazione del soldato, fino a farne fondamentalmente un'opera di sociologia e pedagogia militare, dove sono sviluppati o integrati temi già presenti, nelle linee essenziali, nella Guerra e sua storia. Già in quest'ultima opera, infatti, ben emerge il motivo traente della sociologia e pedagogia marselliane, che si riassume in un dilemma ancora attuale: l'esercito deve adeguarsi ai nuovi tempi, mettersi in discussione, affrontare e risolvere i problemi che crea lo spirito democratico ormai prevalente nella società, oppure chiudersi allo spirito nuovo, resistere, impedire l'ingresso in caserma dei nuovi valori in quanto contrari al suo patrimonio spirituale e pregiudizievoli per la disciplina? La risposta del M. non è dubbia: anche gU eserciti soggiacciono all'azione delle nuove idee, come dimostrasi dai chiari segni del tempo. Le correnti della società moderna premono ed irrompono da tutte le parti, e le antiche moli militari sono divenute carcasse che fanno acqua e vogliono entrare nel bacino di raddobbo. Lo sviluppo dell ' istruzione, la razionalità del comando, il rispetto del!' opinione dei comandati, il campo aperto alla discussione e al merito, la compiuta distruzione di ogni sorta di privilegi, il servizio militare obbligatorio coi necessari correttivi, l'individualismo che prende il nome di iniziativa e responsabilità (diffuse su tutti i gradi della gerarchia); la tendenza a distruggere qualunque cosa che possa separare profondamente il soldato dal cittadino e costituire l'esercito come una casta nel Paese, ecc., sono indizi evidenti che gli eserciti si vanno trasformando con la società. E fanno bene, ed è questa l'unica condizione di vita;!98

97 98

Epimede Boccaccia, Pedagogia militare, Firenze, CaJl)ignanj e Zipoli 192 1, p.24. Marsclli , La Guerra e la sua storia (Cit.), l' Ed. 1875, Voi. I, p. 176.


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Dopo aver constatato che esistono nell'esercito due correnti di idee, quella degli innovatori e quella dei conservatori, con le parole prima citate il M. si schiera decisamente dalla parte degli innovatori, divenendone anzi una punta avanzata. A suo giudizio non si tratta di distruggere o ignorare (come fanno i conservatori) i dati del problema che ci si trova di fronte, ma di trovare una soluzione che meglio armonizzi l'eredità del passato con i riflessi del progresso sociale. La società va presa per quella che è, con i suoi vizi e le sue virtù; comunque, sono sempre da preferire gli eserciti del momento "a quelli del privilegio, dell'ignoranza e del bastone"_ Pertanto gli Eserciti, il cui sangue non sia corrotto, usciranno islruiti, inciviliti, ritemprati da così fatto lavorìo di trasfonnazione; imperrocché tutto ciò che eleva l'uomo non può sfibrare il militare, a patto che si studino sempre i particolari caratteri della società militare, e che, allargando i limiti della libertà, non si restringano quelli della razionale autorità.w

All'influenza della democrazia sull'educazione militare il M. dedica parecchie pagine nelle quali non si nascondono certo le difficoltà, a cominciare dal fatto che la religione ha diminuito di molto la sua azione educatrice sull'animo del soldato (ciò avviene specialmente in Italia, a causa del persistente conflitto tra Stato e Chiesa e dell' ostilità del Vaticano all' unità nazionale e a tutto ciò che la rappresenta). Ne consegue una realistica e franca diagnosi della realtà del momento: mentre diminuisce l' azione educatrice della religione sull'animo del soldato, cresce quella demolitrice della democrazia sulle vecchie forme degli eserciti pennanenti: di guisa che nel bilancio dell 'educazione militare abbiano una politica attiva in meno, una passiva in più. Da ciò nasce lo spareggio, che urge colmare; lo squilibrio e il malessere, che è necessario combattere con un maggior rinforzo di agenti e reagenti morali. Non credo che la democrazia sia contraria ad ogni principio di autorità, ad ogni regola disciplinare. Chi lo affenna confonde la democrazia con la demagogia. Ma egli è certo che la democrazia, colle sue abitudini di libera discussione, co' suoi principi di emancipazione, mal si armonizza con una vita militare fondata sul comando arbitrario e sulla obbedienza servile [...]. Nessun uomo d'ingegno, che comprenda il carattere de' nostri tem-

99 ivi,

p. 178.


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pi, può negare che nel sistema democratico l'autorità militare non si sottrae al libero esame della coscienza dei soldati, e la disciplina meccanica non è acconcia ad ottenere una obbedienza sincera e sicura. 100

A sostegno di questo punto di vista il M. cita Alexis de Tocqueville, che nel capitolo XXV del suo celebre libro La Democrazia in America affronta il delicato problema della disciplina militare nelle società democratiche.101 Per Tocqueville pretendere dai soldati di una nazione democratica l'antica disciplina cieca, rassegnata, minuziosa sarebbe controproducente, perché non vi sono preparati e non potrebbero sfruttare le loro doti naturali; invece una moderna disciplina militare non deve rischiare l'annullamento del libero slancio degli animi ma deve limitarsi a dirigerlo, instaurando un tipo di rapporto disciplinare meno esatto di quello antico, ma più spontaneo, più intelligente e basato sul consenso. Il M. condivide pienamente queste idee tuttora (2005) valide: anche per lui non è più tempo di ottenere la disciplina con punizioni e minacce, che avrebbero il solo risultato di formare un cattivo soldato, e magari un malfattore. Condanna perciò severamente certi essere anomali, i quali non si accorgono che col ferire l'altrui dignità con la villania dei loro modi, con la poca cura pei bisogni fisici e pei sentimenti morali dei soldati e degli ufficiali perdono il frutto di lutto quello che hanno potuto imparare con lo studio teorico e pratico del1' arte militare. J... I È commiserevole lo spettacolo di uomini che si arrovellano per scoprire il segreto dell'Arte, e non sanno avvalersi del primo e più semplice segreto per riuscire: farsi amare e stimare ... 102

Occorre perciò "un sistema misto", che faccia intendere al soldato i suoi doveri, gli faccia amare la vita militare, e solo se non vi è altra via, lo punisca. In altre parole, per farne un buon combattente si deve conquistare l'anima del soldato con un graduale e paziente lavoro educativo: ''facile è il primo modo di comandare, difficile il secondo: ma bisogna persuadersi che, piaccia o non piaccia, viviamo in tempi in cui il primo modo è un anacronismo, il secondo una necessità". 103

100

Marselli, La \/ila del Reggimento (Cit.), Rist. 1984, pp. 103- 104. Alexis De Tocqueville, La democrazia in America (1825- 1840), Risi., Milano, BUR 1998, cap. XXII-XXVI. '"' Marsclli , La Gaerra e la sua storia (Cii.), I' Ed. 1875,, Voi.Up. 114. 103 Mar.;clli, La Vira del Rexximento (Cit.). Rist. 1984. p. 105. 101


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Di qui il ruolo centrale dell'educazione morale e intellettuale del soldato, settore nel quale - a parere del M. - l'esercito italiano del momento sta solo muovendo i primi passi. A suo avviso, però, l'influenza della realtà sociale sulle cose militari non si ferma qui, per una serie di ragioni: - vi è una relazione costante tra sentimenti, passioni, idee, costumi di un popolo e i corrispondenti fenomeni militari. Pertanto la storia militare non deve fermarsi solo alle battaglie, alle corti, ai governi, ma deve gettare lo sguardo anche sulla vita nazionale e sui suoi aspetti morali , trovandovi così le ragioni autentiche delle vittorie e delle sconfitte;

- "sul piano di guerra esercita influenza non pure la fisica terrestre, ma anche quella sociale". 104 Poiché il vero stratega non medita solo su una carta topografica, nel campo statistico non bisogna considerare solo dei dati numerici sullo Stato nemico, ma anche il carattere del generale e degli uomini di governo, l'indole del popolo, gli aspetti morali della vita nazionale; - per giungere alla piena comprensione della teoria tattica bisogna "porre la tattica in rapporto con la sociologia ". La causa prima della vittoria va ricercata nelle virtù dell 'animo del combattente, le quali si trovano "nel carattere del popolo, nell'educazione dei cittadini,

nelle famiglie, nelle scuole, nelle condizioni di quella società a cui appartengono i combattenti";'05 - la quantità e qualità degli uominj da reclutare, il tipo e la durata della ferma "dipendono dalle condizioni etnologiche, sociali, politiche,

economiche dello Stato, ed operano sul modo di guerreggiare del/'esercito"; - la diffusione dell'ordine sparso e del fuoco individuale in seguito all'accresciuta efficacia delle armi, così come l'aumento della massa degli ese rciti che ne diminuisce la comandabilità e rende necessario un maggiore spirito d'iniziativa a tutti i livelli, aumentano i pericoli di disordine e di dissolvimento sul campo di battaglia; perciò le nuove condizioni richiedono "soldati estremamente disciplinati, animati dal più severo sentimento

del dovere, e preliminarmente educati a simile modo di combattere". La nuova figura dell ' ufficiale che consegue a queste impcgna1ivc esigenze di formazione e il confronto con l'ufficiale deg li an1ichi csen:ili , insieme con il confronto tra il vecchio e il nuovo regg ime nIn sono mol ivi sa-

104 105

Marselli, La Guerra e la sua storia (CiL), 1• Ed. 1875. Voi. 11 p I~/ ivi, p. 248.


- -- - ~DI · LA SECONDA FASE DEI. PENSIEKO Ili NICOLA MARSELLl (1872- 1892)

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lienti della Vita del reggimento. Pur essendo spesso critico anche riguardo al presente, il M. non ha alcuna simpatia per il passato e dissemina il libro di frecciate dirette agli ufficiali conservatori, nostalgici di un buon tempo antico che a suo parere non lo è affatto, e comunque non può tornare. Gli antichi reggimenti delle monarchie assolute - egli ricorda - non compensavano l'ozio intellettuale degli ufficiali con l'aumento dell'attività fisica o con l'educazione morale del soldato. In tempo di pace, le loro attività si riducevano a esercizi in ordine chiuso in piazza d'armi, servizi di presidio, parate o funzioni religiose; rare le marce; regnava l'ozio; "la scuola aveva preso stanza dal liquorista e dal cantiniere e le sue classi erano ripartite secondo i bisogni degl'intestini". Non esisteva educazione morale del soldato; la disciplina era fondata sui ferri e l'autorità sulle legnate. L'ufficiale risentiva della poca cultura e del molto ozio, anche se "insieme col non piccolo stuolo di ufficiali strenui bevitori e giocatori, o avviliti padri di numerosa prole, ci erano uomini ricchi di altissima virtù, i quali, se riuscivano a pigliare il disopra, davano al reggimento una intonazione, che poteva trascinarlo a compiere egregie cose, nonostante i suoi vizi di educazione". 106 li M. non ha dubbi: in un esercito moderno, espressione di una nazione democratica, questo vecchio modello va accantonato perché non ha più nulla che meriti di essere imitato e il valore in guerra non è certo una sua prerogativa esclusiva: oggi detestabile è quel tipo di soldato avvinazzato, sciabolatore, attaccabrighe cogli eguali, prepotente cogl'inferiori, brontolone verso i superiori. Si dice che quel soldato facevasi ammazzare: e chi ha prove per sostenere che scapperebbe il soldato dei nostri tempi e dei nuovi ordini militari? È scappato forse il soldato prussiano? Non sono morti al proprio posto i soldati di Dogali? e per gli ufficiali in guerra non ci vuole forse più coraggio a scappare che a farsi ammazzare? Se l'educazione nazionale e lo spirito della patria sorreggeranno il militare odierno, questo farà il suo dovere come l'antico, ma soltanto lo farà con meno liquore nello stomaco e più cultura nel cervello. Più che dalle forme e dagli ordini militari la vittoria dipende dalle virtù della mente e del cuore. Quando mancò questa, scapparono i soldati con lunghe ferme e gli ufficiali troupiers; quando non ve ne fu difetto, vinsero i soldati con brevi ferme e gli ufficiali colti e civili. 107

106 101

Marselli, la Vita del Reggitnen/o (CiL.), Risl. 1984, p. 50. ivi, p. 30.


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IL PENSlliRO MILITARE F. NAVALE ITALIANO VOL. IU (1870-1915) • TOMO I _ __

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Poiché nei tempi passati gli ufficiali uscivano dalle mense "non di rado brilli o con una sfida a duello, cosa che non giovava alla disciplina", il M. è contrario anche alle mense e ai circoli ufficiali. A suo giudizio il contatto continuo tra ufficiali è poco opportuno, perché genera malumori e pettegolezzi; inoltre si tratta di istituti ormai "poco corrformi allo spirito dei nostri tempi, i quali richieggono che gli ufficiali escano dalla ristretta cerchia dello spirito castale e moltiplichino le loro relazioni con la società civile, tanto più che i nuovi ordini militari abbracciano tutta la nazione, per il che ogni borghese valido è divenuto un militare, nel tempo stesso che ogni militare si sente più cittadino ". 108 In definitiva, per far fronte alle sfide dei nuovi tempo gli ufficiali devono possedere elevata cultura e eccelse doti di educatori, per due ordini di motivi: - gli eserciti sono diventati organismi sempre più grandi e complessi, quindi per guidarli in guerra non basta più l'intuito, il genio di un solo Capo, non basta più un solo cervello, ma ne occorrono molti; - non si tratta più di "maneggiare una massa di contadini, aventi la sottile ma bonaria astuzia delle scarpe grosse; si tratta del governo di uomini la cui intelligenza è di già più aperta, e si aprirà maggiormente". 1 soldati sono diventati "meno disciplinati e meno governabili colla sola autorità materiale o formale, così che è divenuto in pari tempo indispensabile /per gli ufficiali] di ottenere, col prestigio della cultura e con la vigoria della mente, effetti ancor più complessi di quelli che una volta si ottenevano col semplice atto di una volontà assoluta". 109 Nelle scuole per ufficiali devono perciò avere sviluppo maggiore gli studi classici, letterari, storici e sociali, "che formano l'uomo e l 'educatore". Al momento, gli ufficiali subalterni in servizio permanente appena usciti dalle scuole militari arrivano ai reggimenti " come inesperti nuotatori lanciati nella grave acqua", con negativi riflessi sul loro prestigio e rendendo necessario organizzare anche per loro un corso pratico d 'orientamento preliminare. Per eliminare questo inconveniente, secondo il M. bisogna istituire una scuola di applicazione a sfondo pratico e applicativo; inutile aggiungere, viste le opere precedenti, che indica come obiettivo ideale la formazione di una classe di ufficiali omogenea per cultura e educazione come in Germania, "per il che nessuno dovrebbe diventare ufficiale se non supera le medesime prove, senza alcun privilegio di classe, né in favore del nobile, né in favore del plebeo". 108

IO'J

ivi, p. 31. ivi, pp. 84-RS.


_ _ _ __.m,,_,. LA SECONDA r ASE DEL PENSIERO DI NICOLA M = A=R=SE =~ L=Ll~ (~ l 8~72~-1= 89=2)'--- - - - ~ 309 =

Tanto l' ufficiale che il soldato devono avere la possibilità di concorrere per l' ammissione alla Scuola Militare di Modena: ma questo deve bastare. Il M. è quindi molto critico nei riguardi dell' indirizzo al momento seguìto per la formazione dei sottufficiali, che con la scuola superiore per sottufficiali di Caserta e quella dei reggimenti intenderebbe rimediare in qualche modo alla scarsità numerica di ufficiali attingendo in misura troppo elevata ai sottufficiali. Ne consegue un duplice inconveniente: si compromette l'omogeneità della categoria ufficiali e si rende il sottufficiale italiano una figura tendenzialmente irrequieta e insoddisfatta, che adempie malvolentieri agli obblighi di servizio e concepisce il proprio grado come una mera fase di passaggio per diventare ufficiale. Ormai l'appartenenza a quest'ultima categoria per il sottufficiale è diventata praticamente un diritto, perché " il principio democratico dell'eguaglianza non è inteso nel senso della parità di merito per occupare un dato posto, quale che sia La nascita e La posizione sociale; ma come diritto naturale di una classe, di una categoria, di un J?rado a conseguire un grado superiore".uu Il sottufficiale italiano del momento - prosegue il M. - applica il motto "meglio un tenentino che un sergentone "; dovrebbe invece applicare il motto contrario, cioè "piuttosto un gran sottufficiale che un piccolo luogotenente ". In altre parole dovrebbe "adattarsi alla propria nicchia, restringersi al proprio orizzonte, proporzionare L'ambizione alle forze, mirare al grado di ufficiale [soloJ se possiede le necessarie cognizioni, contentarsi altrimenti dei vantaggi non lievi, presenti e futuri, che alla posizione del sottufficiale sono annessi, e, ad ogni modo, far sempre il proprio dovere con modestia e zelo ". Prevedibilmente anche per il sottufficiale il M. si richiama al modello prussiano, ricordando che sottufficiali validi e soddisfatti della loro condizione, ufficiali colti e con reclutamento uniforme sono, insieme con lo sviluppo dell'educazione nazionale del cittadino, gl'indispensabili cardini del sistema prussiano di ferma breve. A proposito della ferma nella specifica situazione italiana, il M. conferma gli orientamenti da sempre espressi (vds. cap. 11), giudicando premature per il nostro esercito le soluzioni prussiane, anche se tecnicamente sono le migliori. Egli sottolinea piuttosto la necessità che l'esercito "sia richiamato alle sue vere funzioni", in modo da lasciare agli ufficiali più tempo per quell' azione educatrice, che è diventata prioritaria. Nei primi anni dell'unità nazionale, per lo Stato si è re-

110

i vi, p. 78.


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--~ II._P~ F.N~SIF.RO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. lii ( 1870.__, - l.,_, 91.,,, 5)_-TO ~ M"' 0 _,_ 1_ _ __

so necessario ricorrere all'esercito per far fronte "a certi bisogni materiali e a certe necessità intellettuali, il cui soddisfacimento in tempi di più diffusa civiltà e di maggior governo di sé potrà essere abbandonato alla libera azione dell'attività individuale e locale". L'esercito si è così trasformato in scuola elementare, per "soccorrere e istruire un popolo di analfabeti, che non sapeva aiutarsi da sé stesso"; e ali' occorrenza il soldato si è trasformato in "infermiere, panettiere, guardia sanitaria, monatto, guarda-bàrberi e simili" laccenno agli interventi dell'esercito in caso di calamità naturali e/o epidemie, sempre avvenuti con successo anche se non esplicitamente previsti per legge - N.d.a.l Secondo il M. con siffatti interventi l'esercito ha acquisito alti meriti sociali: ma si tratta pur sempre di impegni impropri e temporanei. La scuola pubblica non può essere una semplice preparazione all'opera della scuola reggimentale, come vorrebbero anche taluni uomini politici del tempo; va anche tenuto ben presente che in generale i nobili e pietosi ufficiali del maestro elementare, della guardia di sicurezza pubblica, della guardia contro il colera e simili, oltrepassano i doveri a cui un esercito è tenuto, ed a poco a poco potrebbero snaturarlo[ ... ]. Un cosiffatto allargamento di occupazioni non si può verificare che a scapito dell'educazione intellettuale dell'esercito, il cui programma è già così superficiale, e della educazione morale militare, la cui scuola è così meschina. Accentuandosi sempre più un tale indirizzo, l'Italia finirebbe per avere un esercito della salute, invece di un esercito per la guerra. 111

Nel proemio alla Vita del reggimento il M. ricorda di aver scritto gran parte del libro fresco dell'esperienza del comando di reggimento e prima della nomina a Segretario generale del Ministero della guerra, precisando che in ambedue le cariche ha cercato di appUcare le idee esposte nel libro. Qual'è, dunque, il suo giudizio sui vari aspetti della vita reggimentale del tempo, e sulle riforme necessarie? Due cose vanno subito sottolineate: che tale giudizio è asssai critico, e che nel proemio stesso della Vita del reggimento dedica alla figura del colonnello pagine anche oggi valide, da scolpire nel marmo: il colonnello di un reggimento è amministratore, istruttore, educatore di una notevole massa di uomini, che lo considerano come l'immediato

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ivi, p. 70.


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rappresentante del loro sovrano [oggi dello Stato - N.d.a.] e del loro padre. Immenso è il bene che può fare, quando è degno del posto che occupa e gli si lascia l'autorità necessaria; come immenso è il male che può produrre, quando non sappia né comandare né amare, e gli si dia licenza di sbizzarrirsi a posta sua[ ... ]. Ogni giorno egli deve prendere risoluzioni, quasi inappellabili, dalle quali dipende la gioia e il dolore, il piacere e il tormento di altri uomini; ogni giorno deve dar prova agli altri e a sé stesso, se il suo giudizio è sicuro e retto, se il suo animo è davvero imparziale e superiore alle meschine passioni. se nulla lo tange delle bassezze umane , se conosce a menadito la sua professione, e anche se resiste alle fatiche, e se cavalca con ardimento[ ...]. È insomma la vita del reggimento una scuola, in cui il colonnello educa gli altri e così facendo educa sé stesso e diventa più uomo.

Le critiche fondamentali che il M. muove all'organizzazione del reggimento del tempo sono: eccesso di regolamenti e circolari, che limita in misura eccessiva la libertà d'azione del comandante di reggimento e ostacola lo sviluppo della personalità e lo spunto d'iniziativa degli ufficiali dei reparti; eccesso di burocrazia e farraginosità delle norme amministrative, che costringono i comandanti a fare gli scrivani, sottraendo tempo all'attività addestrativa e alla cura del personale; eccesso di attività programmate, che per ciò stesso le rende poco proficue. Si è passati - osserva il M. - da un estremo all'altro: "il nostro esercito venne forse con soverchia precipitazione trasportato da un sistema, nel quale il sapere era quasi disprezzato, ad un sistema in cui il sapere si è sviluppato con eccessiva prevalenza ". Nei reggimenti l'educazione intellettuale e fisica ha troppo prevalso su quella morale; né si può trascurare che la diffusione in forma troppo esclusiva del sapere "rafforza i cervelli, ma toglie nerbo ai caratteri, vigore all'azione, freschezza alla vita". L'eccesso di ozio nei reparti è stato sostituito da un eccesso di attività. L'Istruzione 23 ottobre 1887 prevede che nel reggimento funzionino ben sette scuole (ele mentare, per aspiranti caporali, per aspiranti sergenti, di contabilità, per allievi sergenti, superiore per sottufficiali, per allievi ufficiali di complemento). 112 Per gli ufficiali sono previste: istruzioni per le manovre sulla carta e giochi di guerra, nozioni teoriche sul tiro, conferenze di tattica, conferenze sul regolamento di servizio in guerra, istruzioni

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ivi, p. 52.


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IL PENSIERO M!UTARE E NAVALE ITALIANO - VOL. 111 (1870- 1915) - TOMO I

sul servizio delle artiglierie, istruzioni sulla mobilitazione dell'esercito. A queste molteplici attività dei Quadri si aggiungono le istruzioni interne per la truppa nel periodo invernale, e interne ed esterne - con campi, manovre, ecc. - nel periodo estivo; alla domenica mattina, infine, il generale comandante della Brigata passa in rassegna le truppe, con sfilamento. II M. osserva che l'inserimento di una siffatta pletora di attività nell'orario giornaliero, tenendo conto anche dei servizi di caserma, "è l 'operazione più difficile per un colonnello, il quale creda nelle regole dell'igiene fisica e mentale, e non abbia come suprema norma di tener modo che agli ufficiali non rimanga il tempo neanche di far colazione". Ne consegue che, nelle attività giornaliere, la quantità prevale di fatto sulla qualità e si dimentica che "il profitto non si misura dalla molta zavorra, confasamente e febbrilmente ammassata, ma è frutto di un lavoro calmo, paziente, ordinato, graduale". Inoltre "il lusso dei programmi, delle artificiali manovre, delle geometriche combinazioni tattiche, de ' giochi di guerra, delle banderuole, cartelloni e simili, aumenta in un esercito quando da molto tempo non ha fatto la guerra, e diminuisce d 'assai dopo una campagna seria". II M. crilica in particolar modo il cattivo e irrazionale impiego del tempo che deriva dall'affaslellamento delle istruzioni e ha come scopo essenziale non di trarre il massimo profitto possibile dal tempo disponibile per l'addestramento, ma di esaurire comunque il programma. A riprova di questo errato indirizzo egli cita il modo con cui si eseguono le lezioni di tiro previste (ancora in voga nel secolo XX - N.d.a.): il reggimento che deve eseguire il tiro di combattimento è costretto a percorrere nove chilometri, per esempio, per recarsi dal suo accampamento o dai suoi accantonamenti al sito acconcio pel tiro a grandi distanza, e naturalmente a rifare la medesima strada per tornare ad essi. Chi conosce e comprende lo scopo e la natura del tiro di combattimento sa che questo, per riuscire utile, dev'essere eseguito con calma. con molto ordine, colla vigile e intelligente cura dei capitani e degli altri ufficiali verso i singoli uomini della compagnia. 113

Ovviamente il tempo effettivamente disponibile non consente l' applicazione di questa metodica; così le lezioni di tiro, come lantc altre attivilà, non raggiungono gli scopi indicati dai regolamenti : servono solo a esaurire il programma, senza alcun reale profitto per il soldato.

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ivi, p. 60.


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Oltre agli inconvenienti funzionali prima descritti, l'eccesso di regolamenti e di attività secondo il M. tende a soffocare la personalità degli ufficiali dei reparti e la loro vita individuale, creando un'eccessiva e dannosa uniformità dei caratteri che non si riscontrava negli antichi reggimenti, nei quali "la minor cultura, l'ozio maggiore e l'agiatezza degli ufficiali aristocratici lasciavano coesistere una ricca varietà di caratteri individuali, di tipi militari". Al momento è necessario che nell'esercito l'unità del metodo si armonizzi con la varietà dei caratteri; anche per questo il M. è contrario a circoli e mense, che oltre tutto tendono a "trasformare la caserma in un convento, fino a fargli pigliare a prestito eziandio il refettorio". Un ultimo inconveniente provocato dall'accesso di attività è il logoramento precoce e l'invecchiamento anzitempo degli ufficiali, che crea un nuovo dilemma: "o conservarli logori per la guerra, o gettarli non ancora vecchi di anni in quello stato di povertà che si chiama posizione ausiliaria". Tra le molte riflessioni del M. non manca un eloquente accenno a un problema anche oggi di particolare interesse: gli omicidi e i suicidi. 114 Al tempo le amlÌ individuali (come è avvenuto anche dopo il 1945, fino agli anni 70) erano custodite nelle rastrelliere delle camerate, mentre le cartucce erano in distribuzione allo stesso soldato; questo facilitava sia gli omicidi nelle caserme (per futili motivi di servizio o rancori tra militari di truppa) sia i suicidi. La diagnosi del M. per questi mali è semplice: "nei nostri tempi i suicidi crescono negli eserciti per tre ragioni: per le cause inerenti alla società odierna, per quelle speciali attinenti alla vita militare, e infine per la facilità di adoperare l 'arme a fuoco non appena il desiderio della morte conquisti l'animo del soldato". Anche se la maggior parte dei suicidi avviene per ragioni sentimentali o per debiti (cioè per ragioni indipendenti dal servizio), "gli stessi motivi che nella società in generale predispongono l 'uomo al suicidio, acquistano una speciale vivacità negli eserciti, e più facilmente determinano il militare a ricorrervi". Tra le cause specifiche predisponenti al suicidio nella vita militare il M. indica "le speciali esigenze di codesta vita, lo stato di più forte tensione in cui svolgonsi i suoi atti, il sistema di maggiori proibizioni imposto da' suoi necessari doveri". I suicidi nell'esercito - afferma il M. - accadranno sempre; tuttavia è necessario fare ogni sforzo per combatterne le cause interne. Occorre perciò "render sempre più accetta la vita militare, con un sistema disciplina-

114

ivi, pp. 139- 146.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL.111 ( 1870-1915 - TOMO I

re sempre più razionaie; fare in guisa che il necessario stato di tensione non degeneri in un arbitrario stato di violenza contro le più spontanee passioni umane; e togliere di sotto la mano, nelle ore delle tentazioni e non del servizio, il mezzo più pronto per cedere ad esse e togliersi la vita". Per questa ragione il M. aveva promosso nel 1885, da Segretario generale, una disposizione nùnisteriale che prescriveva di togliere le cartucce al soldato e custodirle in cassa chiusa nel ripostiglio di compagnfa, distribuendole solo per esercitazioni o specifiche esigenze. È bastato questo provvedimento - egli ricorda - per far dirrùnuire la media annua dei suicidi da 85 nel quinquennio 1881-1885 a 57 nel 1886-1887 (cioè il 30% in meno). Ancor piì:1 rilevante la dinùnuzione dei suicidi con arma da fuoco (rispettivamente da 70 a 42 all'anno, cioè il 40% in meno). Egli depreca, pertanto, che questa disposizione - in vigore anche nell'esercito tedesco sia stata successivamente abrogata, perché ritenuta (a torto) tale da dimostrare poca fiducia nel soldato. In generale, per ciascun problema il M. non si limita a sterili critiche, ma indica ragionate ed equilibrate soluzioni. E dopo aver amaramente constatalo che "la macchina è affidata al maneggio e alla custodia di alcuni operai che troppo diffidano di essa e troppo ricordano le macchine antiche", anche in questo caso sostiene il giusto mezzo: noi non apparteniamo alla scuola che vorrebbe distruggere la cultura, la breve ferma, le promozioni a scelta, il corpo di Stato Maggiore e tutti gli ordini militari presenti, solo perché in un periodo di reazione si è esagerato nel nuovo indirizzo e si è sbagliato in certe modalità. A certi mali, che noi pure deploriamo, vogliamo trovare un rimedio, senza però rinnegare lo spirito dei tempi, le conquiste intelligenti del sapere tecnico, il progresso delle nuove istituzioni militari. E il rimedio vero e pratico sta nell'applicare un metodo più razionale al medesimo contenuto delle presenti istruzioni tecniche (... (. Non si tralta dunque di demolir nulla, ma di temperare gli eccessi dello scolasticismo c di svolgere maggiormente le virtù pratiche del!' uomo di guerra. 115

Nel concreto, al livello di reggimento si tratta di razionalizzazione e diminuire le attività, lasciando maggiore spazio ali' educazione morale del soldato e lasciando ai comandanti maggiore tempo da dedicare alla cura del personale e al mantenimento della disciplina.

II S

ivi, p. 58,


lii - LA SECONDA FASE DEL PENSIERO DI NICOLA MARSELLJ..!!872-1892

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Nella Vita del reggimento il M . affronta molti altri argomenti meritevoli di attenzione: ma anche da ciò che qui è stato riferito, gli ufficiali che hanno fatto parte delle unità operative dell'esercito italiano durante la guerra fredda potranno dedurre l'estrema modernità e attualità delle sue riflessioni , e inoltre interrogarsi sulle ragioni storiche che hanno portato l'esercito di un secolo dopo ad avere problemi e lacune così simili a quelli antichi, sempre in attesa di rimedi incisivi. Peraltro, la persistenza secolare di antichi difetti nell'organismo militare ancora una volta corrisponde a conferma delle teorie dello stesso M. - ad altrettanti antichi difetti degli italiani. In proposito conservano un'intatta carica ammonitrice - non solo per l'Italia ma per l'intero Occidente - queste considerazioni, che degnamente chiudono la Vita del reggimento ridotta la vita ad un calcolo aritmetico e mancata la virtù del sacrificio, la società italiana del secolo XV, detto del Risorgimento [sic - del Rinascimento? - N.d.a.], perì sotto i colpi dello straniero, e ci è voluto il rigogJjoso rifiorire di tanti eroici matti, uniti a non pochi ed esperti savi, per farla risorgere davvero [nel Risorgimento - N.d.a.], sotto una fonna interamente nuova [... ]. Non si può negare che alcuni sintomi di decadenza vanno facendosi sensibili [...]. Vi sono ancora taluni avanzi del periodo epico del nostro Risorgimento, e già pare che una distanza secolare corra fra quello che essi furono e quello che ora è la nuova generazione[ ...]. All'abnegazione si è sostituito l'egoismo; all'ideale, l'interesse; al dovere, il piacere [ ... ]. Speculazione diventa tutto, la virtù come il parlamentismo; e però non pregiata, anzi derisa è quella virtù romita, che lavora e tace, si appaga ogni giorno di compiere un'opera buona, senza pensare a utilizzare l'amico, a minare il superiore, ad oscurare l' inferiore e ad affidarsi al reporter. In tempi ne' quali il popolo ingombra le vie e lo strillone stordisce i passanti, anche la virtù è spinta a porsi in vista e a gridare su pe' tetti. 116

Né la vita (militare o non), né la strategia possono essere dunque ridotti a "calcolo aritmetico", che accantona i valori morali e anzi, ambisce a sostituirli: questo è un insegnamento del M. senza tempo, valido anche nell'epoca di INTERNET.

116

ivi, pp. 230-23 1.


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IL PENS IERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. 111 (1870-1915)- TOMO I

SEZIONE III - La politica estera, di sicurezza e coloniale dell'Italia: ruolo delle forze navali e riforma dell'esercito Dopo il J876 il M. tralascia la problematica teorica dell 'arte militare per approfondire, completare e quando necessario modificare - riferendosi agli sviluppi della situazione internazionale del momento - le idee sulla politica estera e di sicurezza dell ' Italia già espresse nei precedenti studi. Lo fa sfa in Parlamento che in due scritti fondamentali: Raccogliamoci;! (1878) 117 e La Politica dello Stato italiano ( 1832) 11 8 , ai quali si aggiungono parecchi articoli sulla Nuova Antologia.119 Nell'opuscolo Raccogliamoci;! M. trae spunto dalle decisioni del Congresso di Berlino (luglio 1878) per sostenere la necessità che l'Italia per il momento adotti una "politica di raccoglimento", senza impegnarsi in alleanze, mettendo ordine in casa propria, accrescendo la propria potenza militare e risanando le finanze. A suo giudizio, consentendo ali' Austria l'occupazione della Bosnia-Erzegovina il Congresso di Berlino ha fatto gli interessi dell'Italia, perché ha favorito l'espansione dell'Austria verso Oriente da lui sempre auspicata, quindi il suo indebolimento verso il confine con l' Italia e la Germania. L'Italia non avrebbe aJcun interesse ad occupare l' Albania, sia perché in tal modo violerebbe il principio di nazionalità da essa stessa rivendicato, sia perché invece di risolvere i suoi gravi problemi interni si lancerebbe "nel mare ignoto delle avventure orientali". Lasciando perdere Trieste, non dovrebbe però rinunciare a chiedere all'Austria dei compensi per il suo ingrandimento verso Est e in particolare la rettifica del confine del Trentino, strategicamente penalizzante. Occorre fortificare il confine e sviluppare la marina; sarebbe però un errore fare di Verona - già baluardo austriaco contro l'Italia - un campo trinceralo che potrebbe divenlare, in caso di guerra, solo una Melz ilaliana: "se vogliamo gridare, gridiamo anzitutto: evviva Taranto;! e morte a Verona;![. .. ]. Noi abbiamo cattive fortezze in buoni punti strategici, e me-

11 7

Roma, Libreria Alessandro Manwni 1878. Napoli, Morano 1882. 119 MarseUi, Gli Italiani del Meuogiorno, in "Nuova Antologia" 16 febbrai o e I marzo 1884; ID., Due uomini del passato, l dice mbre 1887; ID., La Vita del Reggimento, 16 giugno 1888; ID., Delle pene e dei premi dell'Esercito, 1 gennaio 1889; LD., La Civiltà e la sua storia. I luglio 1889; ID., Politica estera e spese militari, 16 dicembre 1891 ; ID., Questioni militari, I fe bbraio 1892. S ulla Politica de/In Stato /talia110 sono riportali i due articoli Politica estera e difesa 11azio11a/e ( I luglio e 16 luglio 1881) e L'Esen:ito italiano e la politica europea ( 16 marLo 1882). A nche i predeui scritti sulla vita del reggimento e su punizioni e premi non sono che anticipazioni dell' opera La Vita del Reggimento. 118


_ _ ___:lii • LA SEC'ONDA FASE DEL PENSIERO DI NICOLA MARSELLI 1872-1892

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diocri fortezze in pessimi punti. È necessario porvi riparo". L'accenno alla necessità di completare i lavori alla base navale di Taranto non è casuale: per la prima volta il Nostro assegna un ruolo prioritario allo sviluppo delle forze navali, sia pur escludendo qualsiasi antagonismo con l'Inghilterra nel Mediterraneo. A suo giudizio, per compensare l'aumento della potenza inglese in questo mare (della quale è stata ultimo segnale l'occupazione di Cipro nello stesso anno 1878) e della potenza austriaca in Adriatico c 'è solo un rimedio che sta tutto nelle nostre mani e che è assai, ma assai migliore dell'occupazione dell'Albania o di Tunisi o di Candia. Il rimedio consiste nello sviluppo della nostra Marina. Italiani, al mare, al mare;! Ma a far che? A proteggere il nostro lontano commercio ed a difendere l'indipendenza della nostra patria. A chi vagheggia una conquista io rispondo che bramo una marina;! 120

Due cose vanno dunque sottolineate: diversamente da altri politici italiani del tempo, egli non ritiene che le decisioni del Congresso di Berlino abbiano danneggiato l'Italia; in secondo luogo, a suo parere lo sviluppo della marina dovrebbe avere la precedenza sulle conquiste territoriali (cioè, in pratica, coloniali). A soli quattro anni di distanza lo scenario internazionale è profondamente mutato, specie per opera della Francia e a tutto danno dell'Italia. La Politica dello Stato italiano rispecchia, appunto, gli orientamenti del M. in relazione a tali mutamenti, che lo inducono a riprendere con rinnovato vigore quella campagna a favore dell'alleanza con la Germania e l'Austria che non aveva mai tralasciato, anche se nell'opuscolo Raccogliamoci;! accantonava temporaneamente l'argomento. La Politica dello Stato italiano può essere perciò definita il momento applicativo della Guerra e la sua storia, il suo pendant per la prassi politico-strategica da seguire nel 1882. La pubblicazione del libro avviene in un momento cruciale e particolarmente delicato per l'Italia: dopo l'occupazione francese della Tunisia e in particolare della base di Biserta (2 maggio 1881) e in coincidenza con Ja firma da parte dell'Italia del Trattato della Triplice Alleanza, avvenuta il 10 maggio 1882 (anzi prima di tale Trattato, visto che il M. vi raccoglie anche articoli scritti sulla "Nuova Antologia" tra il 1881 e i primi mesi del 1882 per caldeggiare l'alleanza dell'Italia con Ja Germania e l'Austria).

120

Marsclli, Raccogliamoci ! (Cit.), p. 29.


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IL PliNSIERO MILJTA!lli t:: NAVALI:: ITALIANO- VUL. U1 ( 1870.1915)- 'IUMU I

In quel periodo il M. sta ancora compiendo il prescritto periodo di comando di reggimento; poiché i riferimenti alla politica interna, alla necessità di riformare gli organi centrali militari e ai problemi del bilancio sono numerosi, il libro potrebbe essere interpretato anche come una sorta di base programmatica per una sua autocandidatura alla carica di Segretario generale de] Ministero della guerra, alla quale verrà chiamato dal generale Ricotti a fine 1884. Quattro i motivi che vi predominano, non del tutto nuovi ma con sfaccettature diverse dal passato, perché riferite alla mutata realtà del momento: la necessità che l'Ttalia si allei con la Germania e l'Austria, che peraltro appare largamente condivisa dal!' establishment politico-militare del momento; l'impostazione della difesa nazionale e il ruolo della Marina; il nuovo assetto degli organi centrali; le modalità per aumentare - senza un parallelo aumento del bilancio - la forza dell'esercito di 1" linea. Il primo argomento riassume in larga parte l'impegno del M. dal 1871 in poi, nel quale alle vecchie argomentazioni prevalentemente filosoficostoriche a favore dell' alleanza con la nuova Germania ne aggiunge altre giustificate dalla vita internazionale e interna dal 187 1 al 1882. Tale impegno è riassunto dallo stesso M. quando ricorda che, dopo la pubblicazione degli Avvenimenti del 1870-1871, ha caldeggiato l'alleanza nella citata polemica del 1872 con i I principe Carlo Boncompagni e successivamente nell'opuscolo La situazione parlamentare - lettera ai suoi elettori (6 dicembre 1879)1 21, per poi dire chiaramente alla Camera (seduta dell' 11 marzo 1880) che "l'amicizia con l'Austria - Ungheria doveva essere uno dei cardini della nostra politica estera, e se si voleva seguire la politica dell'espansione economica, faceva mestieri stringersi all'Inghilterra". 122 La necessità di un 'alleanza con la Germania e l'Austria, autentica e quasi ossessiva wslanle del pensiero del M., nella Politica dello Stato italiano non è più conseguenza di una generica scommessa sulla cultura, sulle virtù civili e militari dimostrate dal popolo tedesco e/o sul futuro della democrazia e liberlà in Germania, ma deriva una volla lanto da concreti interessi e dallo stato dei rapporti internazionali del momento, che porlano il M. a soffermarsi su due argomenti-chiave interdipendenti: il ruolo delle Alpi e il compito della marina nella difesa dello Stato, questa volla precisando le modalità per lo sviluppo e l'impiego delle forze navali in un concetto unitario della difesa nazionale.

121

122

Roma, Libreria Manzoni 1880. Marselli. Lll Politica dello Stato Italiano (Cit.). p. 230.


Ili - LA SECONDA PAS E Dlòl. l'hNSJliRO 1)1 NICOLA MARSELLl (1872-1892)

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La "politica di raccoglimento" auspicata nel 1878 è già superata: questa volta il M. tiene a sottolineare che, in generale, una politica di neutralilà e isolamento non elimina i pericoli per uno Stato, ma all'atto pratico "consiste piuttosto nel non provvedere ai mezzi per evitarli e affrontarli". Tali mezzi "sono soprattutto le alleanze, o almeno le amicizie internazionali, e Le armi nazionali". Negli ultimi anni, a causa del suo isolamento l'Italia ha subìto solo umiliazioni; la stessa occupazione della Tunisia nel 188 I non sarebbe stata intrapresa dalla Francia senza la tacila acquiescenza dei governi di Berlino e Vienna. D'altro canto, "essa è stata per gl'italiani un salutare avvertimento, perché a ' più cechi ha dovuto rivelare quali siano gli scopi della politica francese e i sentimenti di una parte non piccola della nazione verso la nostra patria, che ha la grave colpa di non voler essere soffocata fra Le strette de ' suoi vicini...". JZJ L' Italia deve applicare il motto Indipendenti sempre, isolati mai, tenendo però realisticamente presente che ogni amicizia comporta il sacrificio di una parte della propria indipendenza, e che in passato anche gli Stati più forti sono stati costretti a non perseguire scopi molteplici nello stesso tempo, sacrificando quelli secondari allo scopo principale. In questo quadro il M. torna a prevedere - sia pure in tempi assai lunghi - l' "inorientamento " del]' Austria [al quale avevano accennato anche il Balbo e il Pepe - N.d.a.] , che è nell'interesse di tutte la nazioni europee esclusa naturalmente la Russia, destinata presto o tardi a contendere all'Austria con le armi il predominio nei Balcani. Probabilmente il dilemma dell' avvenire sarà "o L'Austria almeno all'Egeo o la Russia all'Adriatico"; non c'è dubbio che l'Europa - e specialmente la Germania - sceglierà la prima alternativa. In questo contesto, secondo il M. "gli scopi predominanti della politica italiana nell'attuale periodo storico sono chiari: conservare innanzitutto Lu Stato di !{ià formato, tutelare gl'interessi coloniali dei suoi cittadini, espandersi economicamente ".124 Non si tratta di prevedere conquiste territoriali, bensì di adottare i provvedimenti necessari per assicurare la nostra legittima influenza nel bacino del Mediterraneo, dettata dalla geografia. Per forze di cose, l'Austria sta puntando verso Salonicco e la Francia verso la costa settentrionale dell'Africa: poiché l'Italia non è in grado di opporsi ad ambedue queste linee di tendenza, a quale essa dovrebbe opporsi risolutamente, e quale assecondare, per averne in cambio dei vantaggi? La risposta del M.

12

.1 124

ivi. p. 250. ivi. p. 220.


= 32~Q_ _ _ ___IL = PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL.111 ( 1870-1915) -TOMO I

non è dubbia: "basta gittare gli occhi su di una carta del bacino del Me-

diterraneo per intendere subito che il pericolo maggiore che l'Italia possa correre è di vedere la Francia stabilirsi sulla costa settentrionale del1'Africa [come è avvenuto con la recentissima occupazione della Tunisia e in particolare di Biserta, , suscettibile di diventare con pochi Lavori una munita base navale - N.d.a.], a dirimpetto e a poca distanza di quella di Sicilia, che è la nostra sentinella avanzata, e che in caso di guerra potrebbe diventare una sentinella perduta ". 125 I pericoli che per l'Italia derivano dal controllo francese del Canale di Sicilia - prosegue M. - sono ben maggiori di quelli causati dall'espansione fino a Salonicco di una potenza marittima di second'ordine quale è l'Austria. E anche se l'Austria riuscisse ad acquisire il controllo delle coste albanesi, non potrebbe ugualmente diventare una potenza marittima di prim'ordine, senza contare che la sua espansione verso Oriente "sarebbe

una tal causa di trasformazioni e di complicazioni da renderle assai più preziosa L'amicizia dell'Italia". In conclusione, per l'Italia " il punto vitale e decisivo, sul quale deve concentrare i suoi ~forzi" è la difosa "dalla preponderanza esclusiva, assorbente, invaditrice della Francia nel Mediterraneo ". Tra l'Austria a Salonicco o la Russia ali' Adriatico, l'Italia deve scegliere il primo caso: ciò non vuol dire che sia un fatto per noi desiderabile l'Austria a Salonicco, ma soltanto che sia meno pericoloso delJa Francia a Biserta. La Francia a Biserta è padrona deHo stretto passaggio mediterraneo tra la Sicilia e la costa africana, il che le darà la signoria del Mediterraneo L...J. L'ammiraglio inglese Spratt, nelJa sua lettera al Guest, ha ben compreso che Biserta è il punto strategico più importante del Mediterraneo, perché comanda le comunicazioni tra i due sub-bacini in cui si divide questo mare, e che nell'interesse della pace europea è da desiderare che Biserta non sia né francese, né italiana, né inglese. Questa è la soluzione da noi vagheggiata e nella quale siamo persuasi che l'Italia e l' Inghilterra finiranno per trovarsi pienamente d'accordo. 126 Per realizzare i predetti obiettivi prioritari, l'Italia oltre a conservare buoni rapporti con l'Inghilterra deve procurarsi solide amicizie continentali, alleandosi con "quelle potenze che sono destinate ad opporre un argine al panslavismo come al panfrancesismo ". L' Austria secondo il M. ,,., ivi. p. 22 l. 26 ' ivi, p. 223.


lii - LA SECONDA FASP. DEI. PENSIERO 1)1 NICOLA MARSELU ( 1872- 1892)

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non è più quella del Metternich, ma ha dimostrato anche in occasione della liberazione di Roma concreta amicizia per l'Italia. 11 problema dei territori italiani ancora soggetti all'Austria ha carattere secondario rispetto alle esigenze geostrategiche fondamentali, perciò il nobile affetto degli italiani per le terre irredente deve lasciare il passo alla ragione: [noi] crediamo che l'Italia, la quale non avrebbe potuto esistere senza Venezia e senza Roma, possa vivere e prosperare senza Trento e senza Trieste. È in potere nostro di attenuare, con robuste fortificazioni, i pericoli derivanti dall' avere nei fianchi il cuneo del Trentino e di fronte le aperte vie del ba<;so Isonzo; non è I.invece] così agevole il salvarsi dal predominio marittimo d'una nazione irrequieta [cioè la Francia N.d.a.J, che non intende l'amicizia altrui se non come vassallaggio. 127

Le ricadute militari delle scelte di fondo prima indicate secondo il M. possono compendiarsi in tre punti: potenziamento della difesa delle Alpi, con particolare riguardo al confine di Nord-Ovest con la Francia; conseguente aumento deJla forza dell'esercito di I" linea; rafforzamento della marina. Premesso che "l'esercito e la marina sono da considerare come

forze la cui azione è reciproca: ciascuna opera sull'altra ed entrambe devono ricevere incremento", le concrete esigenze da fronteggiare sono così riassunte dallo stesso M.: a me è parso che quando l'Italia avesse un esercito di prima linea di 400.000 uomini; quando potessimo far concorrere almeno 100.000 uomini di milizia mobile !cioè richiamati dal congedo delle classi più giovani e già addestrate - N.d.a.] nelle prime operazioni della guerra, come accade per l'esercito austro-ungarico; quando le nostre Alpi fossero sistemate a difosa e venisse adottato l'ordinamento territoriale per gli alpini; quando si fosse provveduto alla difesa interna col creare pochi grandi perni strategici, ed a quella delle coste col fortificare alcuni punti di capitale importanza e almeno con l'attuale piano organico della marina, noi avremmo un assetto militare proporzionato ai fini della nostra politica, nel presente periodo storico. 128

Con questa impostazione, il M. diverge sia dal Ricci per un nuovo concetto di difesa delle Alpi che si discosta anche da quanto da lui stesso 127

ivi, p. 229. "" ivi, p. 326.


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Il. PP.NSIERO MILITARE E NAVALI; ITALIANO - VOL Ili (1~70-1915 ) -TOMO I

sostenuto in passato, sia dal Bonamico (Cfr. Tomo ll cap. I) per le modalità strategiche di difesa dell' Italia peninsulare e insulare (che a suo giudizio non può essere affidata interamente alle forze navali, come sostiene lo stesso Bonamico). Nel concreto M. ritiene - modificando talune sue precedenti idee - che le Alpi non debbano più essere concepite come un ostacolo naturale da presidiare e fortificare debolmente, solo per dare tempo all'esercito di P linea di mobilitarsi, radunarsi e contrattaccare le colonne nemiche allo sbocco in piano. Questa volta non si deve ricadere nella guerra a cordone; ma senza escludere la possibilità della manovra per linee interne e i grandi vantaggi d'una battaglia agli sbocchi data con forze superiori, rimane fermo che, nel primo periodo della guerra, giovi sempre contrastare semplicemente all'inimico l'occupazione dei principali nodi alpini, e che la stessa battaglia agli sbocchi non si possa dare con probabilità di buon successo, senza contrastare ad oltranza almeno uno degli scacchieri montani. 129

Quindi: nei limiti del possibile, difesa a oltranza anche sulle Alpi. Questo scopo deve essere raggiunto sottraendo il meno possibile deJJe aliquote di forze "dall'esercito destinato alle grandi operazioni"; è quindi necessario "inquadrare tutta la popolazione alpina appartenente all'eser-

cito permanente, nella milizia mobile e nella milizia territoriale, e destinarla tutta alla difesa montana: è mestieri applicare a questa truppa speciale le modalità di un compiuto ordinamento territoriale". Questa proposta non è cosa da poco: non più poche compagnie alpine, ma estensione del reclutamento alpino a tutti gli abitanti della fascia delle Alpi. Si ha, perciò, motivo di ritenere che non sia estranea a tale proposta del M. la costituzione (con legge del 26 giugno dello stesso anno) di 6 reggimenti alpini su 3 o 4 battaglioni, per sdoppiamento delle 36 compagnie e dei l O battaglioni al momento già esistenti. I cattivi rapporti con la Francia e l'alleanza con la Germania e l'Austria inducono anche il M. - come il Ricci, il Bonamico, il Perrucchetti (Cfr. tomo Il cap. IV) a considerare attentamente il pericolo di sbarch.i francesi nel1' Italia peninsulare e insulare: è questa la ragione principale che lo porta a precisare meglio di quanto abbia fatto in Raccogliamoci! le esigenze strategiche che rendono necessario l'incremento delle forze navali. Diversamente

129

ivi, p. 263.


lii - LA SECONDA FASE DEL PP.NSIF.RO DI NILULA MAR.';ELLI (1872- 1892)

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dagli altri autori prima citati, comunque, il M_, lungi dal sostenere una riduzione delle forze terrestri a beneficio della marina, osserva che il potenziamento della difesa delle Alpi e l'aumento della forza dell'esercito di 1• linea "renderebbero meno pericolosi gli sbarchi del nemico e ci farebbero sentire meno La nostra grande inferiorità marittima, perché ci porrebbero meglio in grado di far fronte alle sue diversioni, senza correre il pericolo di esporre soverchiamente i corpi schierati nella valle del Po",- perciò occorre manovrare opportunamente le forze di 7a linea· per "impedire almeno quegli sbarchi che potessero collegarsi con le operazioni principali". 130 Se ne deduce che per il M. gli sbarchi vanno fronteggiati anche con forze di 1• linea, non solamente con forze territoriali (come invece sostengono Bonarnico e Ricci); e data la superiorità delle forze francesi, l'esercito di 1• linea andrebbe aumentato anche se la marina raggiungesse la consistenza organica prevista dal piano. Il suo incremento sarebbe tuttavia necessario anche nell'ipotesi di una guerra con l'Austria, perché pur non sussistendo in questo caso il pericolo di sbarchi, sarebbe necessario porre rimedio alla mancata fortificazione del confine del basso Isonzo e al cuneo sul nostro fianco sinistro dalla parte del Trentino. Nonostante l'insistenza sulla necessità di aumentare le for.te terrestri, la visione che il M. ha dei compiti della marina è in certo senso più larga di quella del Bonamico e del Ricci. Essa non deve solo impedire un grande sbarco, ma - almeno in prospettiva - proteggere anche il commercio italiano nel Mediterraneo, oltre che la vita e le proprietà degli italiani che abitano le sue coste. È il minimo che possa fare, visto che noi - diversamente da altre potenze - "non vagheggiano conquiste di territorio, e crediamo che al nord dell'Africa sia desiderabile e possibile assai più che nella penisola balcanica il costituire piccoli Stati autonomi ed aperti alla libera concorrenza europea ". Perciò da qualunque parti si guardi alla missione della nostra marina, si è costretti a concludere che il diventare una potenza marittima di primo ordine è per l'Italia una questione di esistenza. Se mi è lecito, per il momento, di vestire l'abito del filosofo, io dirò schietto che concepisco in un avvenire lontanissimo, quando avessimo il pieno possesso delle nostre Alpi e le sistemassimo a difesa, un' Italia militare ordinata col sistema svizzero o americano [cioè con la nazione armata - N.d.a.], ma non la concepisco punto senza una marina di prim'ordine_

130

ivi, pp. 273 e 276.


= 32 ~4~ - - - - ~ IL~P= f ill=~=IE=RU ~M ~ l=Ll~TA ~ Rf'._F. NAVALE ITALIANO · VOI.. 11.!J.!870-1 9~1=5)_· ·~ ro=M=O_I_ _ _ __

ln particolare la marina italiana dovrebbe raggiungere il livello di 2/J del tonnellaggio delle navi di linea francesi: a tale proporzione corrisponde il piani organico di 16 navi di prima classe approvato per la nostra marina, che però - sempre che le previsioni siano esatte - non saranno disponibili prima del 1887, quando peraltro una parte di tali navi sarà già antiquata e da radiare, mentre il numero e il tonnellaggio delle navi di linea francesi saranno probabilmente aumentati ... A parte la scarsa rispondenza del piano, la diagnosi del M. della situazione del momento della nostra flotta è estremamente pessimistica. La marina italiana è al momento circa ¼ di quella francese; a fronte delle 23 navi di linea francesi ne sono disponibili solo IO italiane, con un rapporto di circa I a 2 per il numero e di I a 2,75 per il tonnellaggio. Delle nostre corazzate solo il Duilio merita il nome di nave da battaglia; la Maria Pia, la Roma ecc. sono navi deboli e antiquate; per quanto riguarda le corazzate in costruzione bisognerà aspettare il J 882 per avere il Dandolo, il 1884 per avere l'Italia e il 1886 per avere il resto. Difettiamo anche di incrociatori; in quanto alle torpediniere ("di cui nessuna potenza più dell 'Italia dovrebbe abbondare"), ne sono disponibili solo due, che in futuro diventeranno sei; infine, ad eccezione della Spezia le rimanenti basi e gli arsenali sono insufficienti e mal difesi, mentre a Taranto non sono ancora cominciati i lavori dell 'arsenale. Citando un suo intervento alla Carnera del 26 febbraio 1875 il M. affronta anche il problema delle costruzioni navali. Va sottolineato che diverge dai molti scrittori navali del tempo, tutti favorevoli a un'industria cantieristica nazionale: a suo avviso occorre ordinare all'estero sia naviglio leggero che navi da battaglia, "senza Lasciarci spaventare dalle tirate in favore dell'industria nazionale, la quale è ancora impari ai nostri bisogni". Sull'alternativa navi da battaglia/poussére navale si pronuncia in modo abbastanza chiaro, ed è senz"altro di parere diverso dal Bonamico e dall' Acton. Per combattere con forze inferiori ma con qualche probabilità di successo contro le unità da guerra che scorteranno i convogli francesi in marcia, occorre compensare la quantità con la qualità, costruendo navi con corazze e potentissime artiglierie come il Duilio e il Dandolo; oppure, "se vogliamo entrare nella via di un avvenire più Lontano, ci vogliono navi velocissime, anche senza corazzatura"rn [come sosteneva il Bonamico N.d.a.]. Diversamente dal Bonamico, il M. esamina anche il caso che l'azione contro i convogli nemici non riesca; se ciò dovesse avvenire, poiché

IJI

ivi, p. 30].


Ili - I.A SF.CONDA FASE DF.I. PENSI ERO DI NICOLA MARShl.LI ( IHn-1892)

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non vi sono "tesori inglesi" per fortificare bene le città marittime e i punti più importanti delle coste, l'unica soluzione possibile (anche perché è la meno costosa) è il ricorso in ampia misura alle torpedini, ai battelli lancia-torpedini e alle mine. La costruzione di corazzate guardacoste non è conveniente; bisogna invece costruire veloci incrociatori per la protezione del commercio, e - per quanto riguarda le navi di linea - tener presente che non tutte devono avere le stesse caratteristiche del Duilio e dell'Italia. All'esigenza di potenziare l' esercito, dunque, corrisponde una non meno pressante esigenza di potenziare la marina: ma dove trovare le risorse necessarie per questo ambizioso programma, visto che il Nostro non si nasconde le difficoltà finanziarie che sta attraversando lo Stato in quel momento, difficoltà che rendono poco realistico un aumento dei bilanci militari? Per avviare a soluzione l'eterno, arduo problema, con un procedimento assai diverso da quello del Bonamico - che considera solo le possibili economie nel bilancio dell'esercito a favore della marina 132 egli guarda solo alla sua Forza Armata, indicando una serie di riforme e di accorgimenti atti ad ottenere una migliore utili zzazione delle risorse disponibili. Le sue proposte riguardano anzitutto l'esigenza di un sano decentramento, che elimini l'ipertrofia e la tendenza ad occuparsi anche di questioni di dettaglio degli organi centrali , riducendo la burocrazia e migliorando il funzionamento della catena di comando. Pertanto il consolidamento dell'ufficio del Capo di Stato Maggiore Generale con attribuzioni effettive, la istituzione del segretario generale amministrativo e permane nte, la trasformazione dei comitati [cioè degli organismi superiori consultivi d' Arma, dei quali fanno parte gli ufficiali più elevati in grndo dell'Anna stessa - N.d.a.] in enti operativi [cioè in Comandi delle Armi - N.d.a.], l'aumento delle attribuzioni e dell'autonomia dei Comandi di corpo d' armata, la creazione degl'Ispettorati generali e dell'Inte nde nza generale dell'esercito e l' abolizione di tutti gli organi duplicati, sono i principali mezzi meccanici per conseguire in parte gli scopi del decentramento e della stabilità, che solo le modificazioni dei costumi potranno far reggere appieno. 133

132 Cfr. Domenico Bonamico, Scritti sul potere marittimo ( I R?R- 19 14), Roma, Uf. Storico Marina 1998 (a cura di F. Botti), Tomo II Parte II. 133 Marselli, La Politica dello Stato lraliano (Cii.), p. 171.


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Premesso che il compito del Capo di Stato Maggiore (carica istituita proprio nell'anno 1882) è soprattutto strategico e logistico, mentre quello del Ministro è soprattutto di carattere organico e amministrativo (cioè attinente alla preparazione), il M. osserva, a ragione, che sarebbe un grave errore limitare le competenze del Capo di Stato Maggiore all'impiego dello strumento che il Ministero gli mette a disposizione in caso di guerra. I mezzi organici e logistici debbono essere subordinati allo scopo strategico, perciò il Capo di Stato Maggiore deve concorrere con il Ministro anche nel predisporre lo strumento meglio rispondente alle scelte strategiche che si intende adottare; per la stessa ragione anche l'Intendente generale dell 'esercito [responsabile dei Servizi logistici N.d.a.] deve dipendere dal Capo di Stato Maggiore. Infine sarebbe necessario che il re (destinato a comandare in guerra le Forze Armate) disponesse di un proprio gabinetto mmtare, con il compito di mantenerlo al corrente dei progressi dell 'arte militare e della situazione delle Forze Armate, mettendolo così effettivamente in grado di esercitare l'utile ruolo di "terza forza" tra Ministro e Capo di Stato Maggiore, che possono anche trovarsi in disaccordo (non è escluso che il M., formulando queste proposte, abbia davanti agli occhi quanto è avvenuto nel 1866, con Vittorio Emanuele II che ha assistito senza intervenire a disaccordi , scelte e soluzioni palesemente rovinose). A parere del M. queste riforme di per sé consentirebbero un risparmio del personale e quindi una riduzione della spesa; ma se si vuole aumentare la forza dell'esercito di l3 linea (e quindi quella del contingente di leva incorporato ogni anno) mantenendo invariato il bilancio militare, la soluzione (temporanea) è una sola: diminuire di un anno la ferma per gli alpini e di 113 quella della fanteria, dei corpi ausiliari e degli ottimi tiratori risultati tali nei tiri a segno nazionali, senza però diminuire definitivamente e per lutti la ferma di leva da 3 a 2 anni (sarebbe un caso unico in Europa). Che dire di queste proposte? V'è fortemente da dubitare che siffatti provvedimenti bastino per ottenere gli auspicali risparmi; si deve anche constatare che M. non accenna alle modalità per ottenere una marina di primo ordine, tale da raggiungere i 2h di quella francese, con un bilancio che però rimane sempre fermo a circa 1h di quello di quest'ultima. Così anche il M. si arena davanti allo scoglio della cronica insufficienza del bilancio, che non ammette validi rimedi ... Sui principali problemi della difesa nazionale, e in particolar modo sulla spesa militare e sulle possibili economie, M. ritorna circa dieci anni dopo La Politica dello Stato Italiano con i due articoli sulla Politica estera e


lii - LA SECONDA FASE DEL PENSIIlRO DI NICOi.A MARSEI.U ( 1872-1892) _ __ ____,3=2"7

spese militari (1991) e Questioni militari (1992).134 Secondo una sua costante abitudine, il primo di questi articoli contiene molto di più di quanto lasci capire il titolo. In questa occasione intende anzitutto dimostrare che una politica di isolamento per l'Italia sarebbe assai meno conveniente - e più dispendiosa - di una politica di alleanze, perché "nell'ipotesi di un'Italia isolata, le necessità militari relative ai due Stati confinanti [Francia e Austria - N.d.a.J non si elidono, ma si sommano", mentre le nostre Forze Armate non sarebbero comunque in grado di fronteggiare senza altri concorsi anche una sola delle due grandi potenze militari ai nostri confini. Dopo aver sottolineato (come già in passato) che per l'Italia il problema delle fortificazioni più che da scelte teoriche è condizionato dalla scarsità di fondi, il M. anche modificando sue precedenti idee osserva che, in caso di guerra senza alleanze, l'Italia dovrebbe potenziare le fortificazioni tanto ad Est che ad Ovest senza poter concentrare le risorse su uno dei due scacchieri. Ad Est, oltre che completare gli sbarramenti alpini occorrerebbe rafforzare la linea del Piave (a Ponte Priula e a Ponte di Piave), trasformare la posizione di Mantova - Borgoforte in un grande perno strategico, e se possibile, prevedere solide teste di ponte a Legnago e Rovigo sull' Adige e a Santa Maria Maddalena sul basso Po; queste teste di ponte avrebbero la funzione di appoggio alle manovre del centro e della destra della nostra fronte strategica, così come Verona (che in Raccogliamoci;!, il M . riteneva una fortezza inutile) lo sarebbe per la sinistra. Anche ad Ovest non basterebbero i forti di sbarramento, ma sarebbe come minimo necessario "rafforzare la linea del Po con i due campi trincerati di Piacenza - Stradella e di Mantova - Borgoforte, in guisa da preparare due piazze di r(fugio nella ritirata, due sbocchi sulla sinistra del fiume per la ripresa dell 'o_ffensiva ". Da ricordare che in precedenza, il M. (cfr. sz. ll) aveva escluso la convenienza di costruire sia grandi campi trincerati nel Nord che un ridotto centrale nell'Italia peninsulare: ma questa volta cambia anche quest' ultimo orientamento, osservando che lo sviluppo delle forze navali "non può dùpensarci dalle fort(ficazioni costiere". Perciò, oltre a prevedere un conveniente rapporto tra forze mobili e difese delle coste, sarebbe necessario costruire a Capua un grande campo trincerato "già approvato in idea dal Parlamento", nel quale le truppe dovrebbero raccogliersi e rifornirsi per tenersi in misura di intervenire contro eventuali sbarchi o, se sconfitte, radunarsi e riprendere l' offensiva.

'" Marselli , Art. cit..


121!

11 l'l •.NS ll •RO Mli.I rARE E NAVALE ITALI ANO - VOL. lii ( 1870- 1915) - TOMO I

Molte altre sono le cose che secondo il M_ l'Italia dovrebbe fare per difendersi degnamente; ad ogni modo "una politica d'isolamento dovrebbe costringerci a farle nel minor tempo possibile; una politica di alleanze può permetterci una maggiore gradualità di esecuzione". Sotto il profilo finanziario, dallo studio di una serie di dati statistici sui principali eserciti europei il M. deduce che "mentre l'Italia occupa un posto elevato nella graduatoria delle spese militari, essa è l'ultima potenza per la quantità numerica della forz.a mobilitabile e inquadrabile, ultima diciamo non pure in senso assoluto, il che sarebbe naturalissimo, ma anche relativamente alla popolazione". In particolare il nostro corpo d 'annata è il più debole fra quelli (a due divisioni) delle altre potenze militari, mentre anche la compagnia di fanteria è all'ultimo posto per livello di forza di pace, lungi com'è dal raggiungere quel minimo di 100 uomini, da tutti giudicalo necessario per raggiungere accettabili livelli di istruzione anche per i Quadri, e per creare le premesse per un rapido passaggio dal piede di pace al piede di guerra. A tal proposito il M. - suscitando prevedibili reazioni - indica come modello l'esercito austro-ungarico, che rispetto ad altri (e al nostro) riesce a raggiungere livelli di forza elevati con una spesa percentualmente meno elevata. Questo è "il vero indizio di un ordinamento razionale e di un 'amministrazione saggia ", attribuibili a tre fattori: - " il sistema f di reclutamento] territoriale, che per noi è assai precoce"; - il sistema dei congedi, al quale noi abbiamo già fatto troppe concessioni; - il facile ricorso all'industria privata; sistema che è bensì da imitarsi, ma che per lungo tempo ancora non recherebbe a noi i frutti che dà altrove. Che fare dunque? è possibile e necessario, oppure no, attuare delle riforme anche nell'esercito italiano? A questo interrogativo per il momento il M. sembra rispondere negativamente, constatando che ovunque volgiamo lo sguardo noi scorgiamo vuoti da colmare, anziché economie da ottenere, e veniamo alla conclusione che non è questa l' ora di fare risparmi che indeboliscano, né riforme che sconvolgano, né riduzioni che perturbino gli animi. Avremo forse appena il tempo di provvedere all'acceleramento della nostra mobilitazione e al miglioramento del personale.

L' aspetto più nuovo e interessante dell'articolo Politica estera e spese militari è però la previsione di un futuro conflitto europeo e a ncor di


Ili - LA SECONDA FASE DEL PENSIERO DI NICOLA MARSEUJ ( 18n-1892)

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più del modo con cui sarà combattuto. Il M. constata che, come da lui previsto da molto tempo (siamo nel 1991 ;!) l'Europa è ormai divisa in due blocchi armati (Germania, Austria e Italia da una parte, Francia e Russia dall'altra), i cui antagonismi sono tali, da non lasciar sperare in una loro composizione pacifica. L'Italia deve vincere per riscattare Custoza e Lissa (altro motivo ricorrente nel M.); il suo peso nel conflitto sarà - diversamente da quanto sostengono taluni scrittori stranieri - considerevole; il caso più probabile è che i corpi d'armata italiani siano impiegati al di fuori dei confini, per far traboccare la bilancia a favore di uno dei due alleati. Qui va osservato che, dopo tutto, quest'ultima previsione del M. sarebbe stata esatta fino alla primavera del 1915. Risultano invece, pienamente confermate dagli eventi del 1914-1918 e persino del 1940 le sue considerazioni sulla futura guerra tra Francia e Germania, che peraltro smentiscono le previsioni di una guerra breve ricorrenti nella Guerra e la sua storia: quali s'immaginino i risultati finali di una guerra tra Francia e Germania, il suo processo non potrà essere così fulmineo come nel 1870, a cagione di quella certa omogeneità che gli opposti eserciti hanno raggiunto, senza però distruggere interamente le differenze di livello. I fatti ci diranno se l'eccesso di fortezze francesi sarà una causa di forza oppure di debolezza fnel 1940, è stata una causa di debolezza - N.d.a.); ma quello che sin da ora ci par chiaro è che esso sarà un invito al ritorno di quella guerra di posizione che non è certo un fattore di brevità. Fra le disseminale armale che si appoggiano ai campi trincerati e quelle che le mascherano o le tengono in scacco, la vittoria apparterrà al nucleo che saprà spingere arditamente l'offensiva l4ueslo è avvenuto nella primavera 1940 - N.d.a.l. Ora un'offensiva a fondo per parte dei francesi incontrerebbe ostacoli naturali ben allrimenti seri di quelli nei quali urterebbero i tedeschi nella loro marcia su Parigi lqueslo è risultato in ambedue le guerre mondiali - N.d.a.].

Il M. si dimostra preveggente anche quando condanna la "tattica della baionetta" allora sostenuta dal generale russo Dragomiroff135 (che poi avrebbe causato gravissime perdite all'esercito francese all'inizio della

135

Cfr. la traduzione francese : M. Dragomiroff, Manuel pour la preparation des troupes au

combat, Paris, L. Baudoin 1885- I 888 (3 Voi.).


330

Il. PP.NSIF.RO MILfli\RE E NAVALI:: l"li\LIANO • VOL. lii ( 1870-1 915) - TOMO I

guerra del 1914-1918), secondo il quale la baionetta è la vera padrona del combattimento, mentre il fuoco è solo "una penosa concessione". Quindi "una buona truppa non ha né spalle, né .fianchi: la sua fronte è sempre donde viene il nemico", nemico che occorre attaccare a testa bassa andando sempre avanti, "anche quando fossero uccisi tutti quelli che vi stavano innanzi". Secondo il M. questo metodo potrà andar bene in alcuni casi, "ma verrà certo male in altri, col tiro rapido e radente". Esso è ''l'espressione tattica di quella tendenza al rischio che fonna il nocciolo del sistema di guerra che si mira a far prevalere in Russia e Francia", nel quale si arriva a sostenere che bisogna prendere il toro per le corna, atlaccando il nemico proprio là ove è più forte. A tale sistema vanno contrapposte le considerazioni sulla tattica della fanteria neUa guerra 1870-1871 del duca di Wtirtemberg, il quale "scorge nella tattica basata sul fuoco misurato, sull'attacco manovralo, la principale causa dei buoni successi dei tedeschi contro la /altica della baionetta, de/fuoco disordinato e dell'avanzar dritto e allo scoperto ". Le affermazioni del M. sulla scarsa economicità della spesa militare italiana sono contestate sia dalla Tribuna che dall'Esercito Italiano. In particolare il giornale La Tribuna deduce delle cifre citate dal M. (ma da lui successivamente rettificate) che per mettersi alla pari dell'Austria come rendimento della spesa l' Italia potrebbe e dovrebbe fare un'economia sulla spesa dell'esercito cli 75 milioni (poi diventati 30); invece L'Esercito italiano vuol dimostrare che, almeno nel 1891-1892, l'Italia rispetto all 'Austria aveva una maggior forza di 6500 uomini e una minore spesa di 16 milioni. Nel successivo articolo Questioni militari il M. risponde a queste critiche recisamente negando che sia lecito dedurre dalle cifre da lui citate nel precedente Politica estera e .!.pese militari la possibilità di risparmiare 70 milioni, ma confermane.lo la sua tesi che la spesa mjlitare italiana è meno economica di quella austriaca. Premesso che non sarebbe possibile aumentare la spesa militare, perché si dovrebbero aumentare le già pesanti tasse togliendo alle forze armate il consenso dei cittadini, non si può nemmeno diminuirla: occorre perciò stabilire un preciso limite per il rapporto tra spesa militare e entrate dello Stato. D'altro canto non si può nemmeno negare la necessità di tale limite, citando l'elevata spesa militare della Svizzera (che dedica il 37% delle entrate all'esercito). Un siffatto paragone è improponibile, perché si tratta di una Confederazione di cantoni con poche risorse destinate alle esigenze di carattere generale, la prima delle quali è appunto l'esercito: "solo così spiegasi che tale rapporto superi persino quello della Francia, che è lo Stato militare che più !.pende per l 'esercito e la marina".


111 - LA SECONDA FASE DEL PENSIERO DI NICOLA MARSl:c:LLI 1872-18?2

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Sempre secondo il M., il paragone con la Svizzera serve se mai climostrare che l'ordinamento ti po "nazione armata" è costoso almeno quanto il sistema dell'esercito permanente, visto anche che ciascun svizzero spende per la difesa qualcosa in più di ogni italiano. Questo si spiega "con la necessità di rifarsi della poca solidità derivante dalla nessuna permanenza sotto le armi, colle frequenti chiamate per l'istruzione delle classi, colle molteplici scuole militari, col buon trattamento dei Quadri e dei chiamati, e col fatto che la Svizzera preparasi in pace per portare in campo una forza, rispetto alla popolazione, molto superiore alla nostra". A conti fatti, per il M. la sola speranza di una riduzione della spesa militare sta "nella pace europea, sincera e duratura "; per il resto, questa volta egli indica più nel dettaglio come "la nostra amministrazione militare potrebbe fornire la sola fonte di non dannose economie, che dovrebbero però andare a vantaggio della parte combattente dell'esercito". Infatti l'esercito è fatto per la guerra e quindi spende meglio quell'esercito che, col minor sacrificio in pace della libertà personale e del reddito individuale dei cittadini, in guerra riesce a mettere in campo unità efficienti. Il M. indica anche i requisiti che dovrebbe avere tale strumento: buon inquadramento di ufficiali, sia per l'esercito permanente che per la milizia territoriale e la milizia mobile, con elementi colti, dal morale elevato e con alto sentimento del dovere; sottufficiali che "non pensino soprattutto a conquistare spalline", ma che svolgano bene il loro compito di controllo e di anello di comunicazione tra ufficiale e soldato; truppa ben istruita ed educata e con il massimo effettivo di guerra; infine "preparazione in pace di nuclei permanenti per laformazione di guerra della milizia mobile [che al momento mancano, e mancheranno ancora a lungo - N.d.a.J; il minimo rapporto fra il personale non combattente e quello dei combattenti; il minimo rapporto Jra amministratori ed amministrati, fra meccanismo e prodotto utile del lavoro amministrativo". Sotto questo profilo il M. ritorna sull'esempio dell' Austria, che insieme co' tristi ricordi dell'occupazione straniera, ha lasciato nel Lombardo-Veneto indelebili tracce di ollimi sistemi amministrativi, ed ora ci offre l'esempio di un sistema di governo dell'esercito informato a principii di sana economia e, strano a dirsi, di stretto liberalismo. Si, perché il sistema fondato sulla fiducia anzi che sul controllo del controllo, sulla industria privata anzi che su quella di Stalo, sulla larga sfera di azione delle autorità locali, dei comandanti di corpo, sulla prote-


,c, 33"-'2' - - - - - - - = IL'-'PEN = SIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL 111 ( 1870-1915)-TOMO I

zione illuminata e giusta verso coloro che alla Patria dedicano la loro esistenza, è sistema sostanzialmente liberale.

Egli non lo dice esplicitamente: ma se si guarda alle sue proposte di riforma dell'organizzazione militare italiana del momento, se ne deduce con certezza che quest'ultima si trova agli antipodi del sistema da lui indicato come esempio e rende necessario tagliare molti rami. In particolare, M. torna a insistere sul dispendio di risorse e di personale causato da un'amministrazione pletorica e dall'eccesso di burocrazia, che imporrebbe il decentramento e la razionalizzazione delle procedure (evidentemente dal 1861 in poi questi problemi, da lui sempre denunciati, non sono mai stati risolti). Sempre come in passato, sostiene la necessità di un conveniente trattamento economico e morale dei Quadri, anche quando lasciano il servizio; inoltre ritiene più vantaggioso affidare a imprese private - e non più al genio militare - la costruzione delle caserme e la grande manutenzione degli immobili, senza pretendere dagli ufficiali del genio "l'enciclopedia del lavoro nel secolo delle specializzazioni". Le due proposte più "nuove" e di maggior rilievo, anche per le incidenze sulle condizioni morali e materiali dei Quadri, riguardano i troppo frequenti trasferimenti (specie dei reggimenti di fanteria e cavalleria) e la non convenienza di ridurre i corpi d'armata da 12 a 10. Poiché i'ltalia non può ancora scegliere il sistema territoriale, "fa mestieri adottare tutti quei provvedimenti che, ad eccezione del frammischiamento nazionale dei soldati e graduati, fanno parte integrante del sistema territoriale, come sarebbe una maggiore stabilità nelle sedi dei corpi, una minore frequenza nei cambi di guarnigione", fatta eccezione per i corpi di frontiera (che dovrebbero mantenere le sedi fisse) e per le sedi più disagiate (dove, al contrario, i reparti dovrebbero ruotare di frequente). In tal modo i reggimenti stessi potrebbero diventare organi di reclutamento e centri d'istruzione per il personale "di seconda categoria " (cioè soggetto, per ragioni finanziarie, a una ferma abbreviata e solo istruttiva), "aprendo la via ad una riforma nei distretti militari, i quali hanno forse assorbito troppe funzioni e Jroppo personale attivo". In nessun caso, comunque, si dovrebbero tagliare o "tormentare", per ragioni di bilancio, i reparti combattenti. Anche per questo il M. (diversamente dal Perrucchetti, dal Bonamico e dal Ricci) si dichiara contrario alla realizzazione di economie mediante la riduzione a I O dei 12 corpi d ' armata previsti dall'ordinamento Ferrero ( 1882), per una serie di ragioni: - "all'esercito italiano è tanto necessaria una nuova vita amministrativa, quanto una grande e non breve quiete legislativa in tutto ciò


lii - I.A SECONDA FASE DEL PENSIERO DI NICOLA MAKStLLI 1872- 1892)

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che concerne i fondamenti e l'ossatura dell'edifizio con tanti sforzi costruito", - a parità di forza truppa di pace si avrebbe un minor numero di ufficiali, fatto nocivo in caso di mobilitazione e di guerra. Il numero di J 2 corpi d ' annata, anzi "è quello assolutamente indispensabile per provvedere a' molteplici e disparati fini della nostra radunata e delle nostre operazioni"; - al confronto con gli altri eserciti europei, il rapporto tra numero di corpi d'armata e popolazione non è eccessivo, e dopo tutto il nostro corpo d'armata, pur essendo alquanto debole rispetto ad altri, "non è così tipico e rachitico come alcuni immaginano"; - lo scioglimento di due corpi d'armata "non gitterebbe soltanto sul lastrico un paio di migliaia di ufficiali, ma porterebbe un contraccolpo sensibilissimo ai rimanenti, massime di quelli che non occupano un elevato grado" . Ne deriverebbero gravi turbative per il morale dei Quadri; - "fatto il primo passo, non passerà molw e si dirà che 9 corpi robusli valgono meglio di 10 tisici". In conclusione, secondo il M. una riforma del genere porterebbe un grave colpo materiale e morale all'esercito, senza ottenere alcun risparmio a meno che non si voglia diminuire la forza di guerra. L'Europa procede verso l'aumento della forza, non verso la sua diminuzione; perciò una riforma del genere danneggerebbe anche il prestigio dell'Italia, facendo credere all'estero che abbiano raggiunto la soglia del1a povertà. Non si tratta, perciò, di "recidere un membro, colla speranza di rafforzare gli altri", ma piuttosto di procedere a "un lavoro di graduale ricostruzione generale". Per questa ragione M. polemizza anche con coloro che ritengono che la riduzione della ferma a due anni consenta di per sé un'economia; invece ciò che conta è la forza media sotto le armi, che piò essere molta o poca con qualsiasi ferma, di 3 o di 2 anni. Sarebbe perciò preferibile avere una compagnia numerosa con ferma di 2 anni, piuttosto che una compagnia debole con ferma di 3 anni; ad ogni modo "non v'è in Europa alcun uomo pratico di cose militari, il quale propugni insieme la riduzione nell 'uno e nell'altro termine della serie /cioè forza, durata dellaferma e Quadri - N.d.a.]". E se vi aggiungiamo la proposta di ridurre le unità organiche, "abbiamo un complesso di componenti, la cui risultante sarebbe il disfacimento della migliore opera compiuta dal Regno d'Italia, del più solido istrumento della sua difesa e della sua esistenza". In tutti i casi il M. si dichiara contrario, anche in Parlamento, alla riduzione generalizzata della ferma a due anni, perché - per non penalizzare l'istruzione della trup-


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Il. PENSIEKOMJUTARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Ili (1870- 1915) - mMO I _ __

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pa - essa richiederebbe un forte aumento dei Quadri istruttori che per il momento non è possibile ottenere. Dei tanti aspetti del1a politica estera e militare che il M. affronta, ne manca uno: quello dell'espansione coloniale, iniziata nel 1886 con l'occupazione di una ristretta fascia costiera in Eritrea, naturalmente con il consenso e anzi l'incoraggiamento inglese, in relazione alla rivolta del Sudan. Di particolare interesse, su questo argomento, gli articoli Ciò che più urge in Italia (1881) e Algeria e Abissinia (quest'ultimo scritto nel 1891 , cioè dopo i primi infelici tentativi di penetrazione in Africa, culminati con l'episodio di Dogali nel 1887). 136 Nel primo di questi articoli il Nostro mostra di avere idee estremamente chiare, anzi preveggenti, specie là ove si dichiara recisamente contrario alle imprese coloniali e propone di concentrare gli sforzi del1'Italia nel Mediterraneo: la decomposizione di Stati come l'Austria, la Svizzera, la Turchia, soprattutto dei due primi, equivarrebbe alla distruzione di due antemurali necessari alla conservazione, all'indipendenza dello Stato italiano, che con tutto l'acquisto delle terre irredente rimarrebbe troppo piccolo rispetto ai grandi Stati confinanti, cioè quello celtico, quello germanico e quello slavo [ ... ]. Ad ogni generazione il suo ideale, cd alla presente, questo: chiudere fortemente le Alpi, ordinare militarmente tutte le loro popolazioni, volgere le spalle al continente europeo e lanciare molti DUJLI nel mare, in guisa da rendere l'ltalia una potenza marittima di prim'ordine[ ... ]. A scanso di equivoci è però mestieri dichiarare che assegnando all'Italia l'obiettivo di diventare l' Inghilterra del Mezzogiorno non s'intende disconoscere che ogni popolo ha il suo carattere, ogni periodo storico le sue idee ed ogni stato i suoi fini ed i suoi metodi. L'Italia non deve diventare una grande potenza marittima, per rifar la gloria delle sue città repubblicane, ma unicamente per difendere l'allungata penisola, proteggere il commercio, tutelare la posizione dei suoi figli lontani ed assumere quell' ascendente morale che ad altri impedirà di assumere il monopolio del bacino del Mediterraneo. I principi che hanno presieduto alla costituzione del nuovo Stato italiano, i nostri bene intesi interessi, e la triste esperienza che fanno gli Stati conquistatori, ci deb-

136

Nico la Marsclli, Ciò che più urge in lla/ia. in "Nuova Antologia" Voi. XXX Fase. XXll 15 novembre 1881 , pp. 317-320 e ID., Algeria e Abissinia, in "L' Esercito Italiano" del 29 aprile 1891. Va ricordato che il generale Dal Verme, scrittore militare esperto di problemi coloniali, ha indirizzato a l Marselli una lettera di appre7.7.amento per quest'ultimo articolo. Anche il colonnello Cesare Airaghi, caduto ad Adua. nel 1891 ha inviato a l Marsclli parecchie lettere di critica all'ambiente della colonia


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bono consigliare a non ambire alcuna occupazione territoriale sulla costa di Africa e in Albania. Una spedizione di Albania o di Tripoli sarebbero state e sarebbero anche in seguito la peggiore sciagura dell'Italia, se anche riuscissero bene sul principio. Il nostro ideale dev'essere affatto civile e le nostre armi debbono servire, oltre che a difenderci, ad assicurare la espansione economica del nostro commercio, a proteggere la indipendenza dei principi musulmani sulla costa di Africa e ad impedire, che colà prevalga una nazione, che al nostro traffico potrebbe chiudere le vie del centro del continente. La sola conquista cui dobbiamo mirare è quella dell'animo dei musulmani d' Africa, i quali hanno già tanta simpatia per noi, e i principali pericoli da evitare sono: imitare la politica [di conquistai della Francia e non imitare lo sviluppo della sua potenza marittima. In questo deve risiedere la individualità della nostra politica mediterranea, il nostro futuro primato civile.

Nel secondo articolo, Algeria ed Abissinia, il M. diversamente dal passato ritiene strategicamente conveniente per l'Italia stabilirsi sulla costa settentrionale dell'Africa, ma continua ad essere contrario ad un' espansione in Eritrea. Si può perciò dire, semplicemente, che se nella guerra d'Eritrea di quattro anni dopo si fosse tenuto conto delle sue opinioni, si sarebbe stata evitata la tragedia di Adua. Pur ammettendo che l'Italia "non può sottrarsi al fato che trascina le forti razze europee verso le terre vergini dell 'Africa ", egli osserva che c'è modo e modo di soddisfare questa esigenza, anzi che c'è Africa e Africa: altra è la costa settentrionale ldell' Africa], altra è la costa orientale al di là dell ' istmo di Suez, nelle ganasce del Mar Rosso. Alla prima doveva rimaner fisso il nostro pensiero. Una parte della costa settentrionale, massime dopo l'occupazione dell'Egitto Lda parte dell'Inghilterra] e di Tunisi [da parte della Francia], è da considerarsi quale necessaria protezione della penisola italiana, quale facile sbocco sul continente africano. Per essa potevasi essere audaci, rispondendo all'occupazione di Tunisi con quella della Cirenaica; per essa dovevasi andare nel basso Egitto; per essa facevasi mestieri ristabilire quell'equilibrio mediterraneo, che non fu rotto da noi [allusione all'occupazione francese della Tunisia - N.d.a.]; ma per l'altra la prudenza non fu mai eccessiva. L'occupazione di Massaua ci distaccava dal nostro principale obiettivo, che era e deve continuare ad essere il Mediterraneo, e ci poneva sullo sdrucciolo di una cooperazione armata con l'Inghilterra contro il Sudan che sarebbe stata di ben altra natura da quella del basso Egitto [... ]. Ad una spe-


dizione da Massaua a Cartoum I' llaJia non era preparata né militarmente né finanziariamente. Altro era uno sbarco ad Alessandria [d'Egitto] ed una operazione di guerra abbastanza regolare e non lungi dalla base, ed altro era una spedizione all'interno col noto strascico di cammelli, muletti, portatori e bande, contro un nemico affatto ignoto. Avevamo mestieri di fare quella esperienza, che ora stiamo acquistando ...

Per questa ragione l'improvvisa caduta di Cartoum Lespugnata dai rihelli al dominio foglese del Sudan nel novembre 1884 - N.d.a.] "fu per noi una fortuna, che fece passare le tentazioni e sbollire le velleità". Secondo M., dopo l'occupazione di Massaua nel 1885 il governo ha fatto bene a restringere il più possibile l'occupazione, per non essere coinvolto nelle contese che sorgono in regioni daJle incerte frontiere, impegnandovi senza che fosse indispensabile l'onor militare della Nazione. Per la stessa ragione, nei due discorsi alla Camera nella passata legislatura mi ispirai sempre al concetto di frenare la tendenza a internarci in Abissinia e di tener vive le preoccupazioni per il Mediterraneo. E poiché era divenuto necessario, dopo l'occupazione di Saati, trovare una frontiera naturale, indicai l'altopiano di Asmara come zona atta alla difesa e all'offesa.

M . osserva poi che anche l'occupazione francese dell' Algeria è avvenuta dopo molte esitazioni e con gradualità; ma se al momento alla Francia conviene estendere l'occupazione alla Cabilia, a noi invece conviene resistere alla tentazione di allargare l'occupazione dell'Eritrea, "o almeno fare ogni operazione per non lasciarci trascinare oltre quel segno che i nostri interessi ci indicano " .. Occorre, a suo giudizio, "una POLITICA DI SOSTA sulle rive del Mar Rosso, spingendosi avanti solo se obbligati dal[' onore offeso o da provocazione nemica". Questo orientamento andrebbe adottato per due ragioni: - "condizioni finanziarie dell 'Italia che richiedono economia di sforzi"; - "necessità di non porre in oblìo la questione del Mediterraneo, che da un momento all'altro potrebbe richiedere concentramento di attività. Daremmo prova di suprema imprevidenza se credessimo che le cose di Africa procederanno sempre così lisce come è accaduto dopo Dogali ". Non bisogna dimenticare che man mano che si estende l'occupazione in Abissinia crescono le difficoltà e i pericoli, perciò potremmo trovarci "impigliati e impotenti " il giorno in cui


fil - LA SECONDA FASE DEL PENSIERO 01 NICOLA MARSELLI ( 1872-1892)

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avremmo invece bisogno di condurre una vigorosa azione nel Mediterraneo. Al momento - aggiunge il M . - l'Italia sta attraversando una grave crisi della finanza pubblica, che potrebbe persino intaccare la solidità dello Stato; quindi "noi pensiamo che una sensibile riduzione delle spese d'Africa sia preferibile a qualsiasi taglio che minacciasse di indebolire il nostro esercito in Europa". Dobbiamo restare in Eritrea, ma spendendo poco; in effetti si tratta di un territorio "non così fecondo da profondervi tesori, né così improduttivo da rendere conveniente abbandonarlo". Il M. ammette che il confine del Mareb è inconsistente, ma in questa situazione, a suo giudizio, "le buone relazioni con l'Abissinia valgono meglio di unafrontiera più militare". Bisogna perciò assicurare il Negus che non vogliamo l'occupazione dell'Abissinia e, intanto, adottare una strategia che tenga conto del particolare ambiente africano. Non servono occupazioni a macchia d'olio né dispositivi lineari di protezione dei confini, perché le bande locali di predoni scalzi si infiltrano dappertutto: bisogna invece prendere come modello la strategia del Maresciallo Bugeaud in Algeria, con un sistema di "posti-magazzino" organizzati nelle posizionichiave, non molto fortificati (perché gli abissini, come gli arabi, non attaccano i trinceramenti) e presidiati da ridotti nuclei di truppe; essi sarebbero collegati tra di loro da colonne mobili che mantengono aperte le comunicazioni, proteggono le carovane, incutono rispetto. Tali "posti-magazzino" potrebbero essere con facilità abbandonati, o rafforzati dalle stesse colonne mobili. Superfluo osservare che, a distanza di qualche anno, si è fatto esattamente l'opposto di quanto suggeriva il M.: i risultati sono noti. Anche nel 1935-1936 è stata vendicata Adua, ma - in una più larga prospettiva storica - si è ancora una volta dato ragione al M., disperdendo inutilmente le scarse risorse in una fase critica della politica europea e in una enclave rivelatasi indifendibile. Con queste idee, si può ben capire quanto il M. sia rimasto deluso dall'infelice campagna d'Eritrea del 1895-1896, che anziché riscattare - come era nei suoi ripetuti auspici - Custoza e Lissa, vi aggiunge un'altra pagina amara come quella di Adua. Nella citata prefazione all'edizione 1930 della Guerra e la sua storia, il generale Boccaccia riferisce del dolore provato dal M. per quella sconfitta, tanto più che era dovuta a parecchi suoi discepoli: "qualcuno di ritorno dalla triste campagna volle rivedere il Maestro, forse per presentargli qualche giustificazione, ma il Maestro non volle riceverlo". Il Boccaccia ricorda anche che in una lettera al generale Sismondo subito dopo Adua (cioè il 2 aprile 1896) il M. condanna senza appello la Lea-


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO- VOL. 111 (1870-1 915)- TOMO I

dership militare della campagna: "quanto alla direzione c'è da arrossirne; i soliti errori (sic): strade sbagliate - obiettivi erronei - notizie false schizzi imperfetti - attacchi scuciti e parziali - nessuna conoscenza del nemico, né del terreno, né delle sue forze, né del suo modo di combattere - il Quartier Generale che non fa sapere dove si trova, né dà un qualsiasi indizio per la ritirata - insomma, tutti gli errori delle passate campagne, per evitare i quali fu istituita la Scuola di Guerra, trasformato il Corpo di Stato Maggiore... ". Una delusione, anzi una punizione che il M. certamente non meritava, e che certamente ha amareggiato gli ultimi anni de1la sua vita.

Conclusione Dall'esame condotto emerge con chiarezza la complessità dell'opera del M., con le sue molte interfacce, gli aspetti più o meno discutibili e gli altri più o meno condivisibili, le intuizioni o profezie confermate (o meno) dalla storia successiva. Ne consegue, in prima istanza, che un giudizio sintetico, riassuntivo non è facile, e che - come già detto - è comunque ingiusto restringerlo solo a qualche argomento da lui trattato. Le molte lodi , i tentativi più o meno felici di riassumerne l'opera, i cenni biografici o bibliografici sono ormai cosa scontata: più utile ci sembra soffermarci sulle non frequenti critiche, per poi confrontarle e tirarne le fila. Come già osservato, il suo concittadino Benedetto Croce critica il M. solo dal punto di vista filosofico, senza accennare ai suoi legami col Blanch e con altri della scuola di pensiero militare napoletana. La vasta opera militare del M., la risonanza e l'influenza che essa ha avuto, le lodi che ha riscosso, avrebbe pur meritato qualche parola, qualche valutazione magari critica da parte del celebre filosofo, se non altro per verificare se e che misura egli sa trasportare le sue premesse filosofico-storiche nel campo militare: invece nulla. Ciononostante, il magistrale esame del pensiero di Clausewitz condotto dallo stesso Croce risulta in parecchie parti stranamente analogo a quanto ne dice M ., riprendendone le premesse anche filosofiche. Eppure il celebre filosofo suo conterraneo - che pure apprezza l'opera del suo maestro De Sanctis, il quale lo ha iniziato all'hegelismo è estremamente severo con M: la camicia di Nesso della metafisica si stringeva tenace addosso a uno storico, che pure aveva cercato di strapparla da sé con violenza, Nicola Marselli, il quale riuscì a nient'altro che a convertire il suo astratto spi-


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ritualismo di un tempo in astratto naturalismo, il suo idealismo trascendente in trascendente positivismo[ ... ]. Non agnostico come gli altri positivisti, accettava i problemi della metafisica, col proposito di trattarli e risolverli mercè il metodo delle scienze naturali, e ammantandosi delle cognizioni di queste, tentò un quissimile della vecchia filosofia della storia col narrare le origini dell'incivilimento e descrivere le grandi razze umane 1---1- Vero è che egli protestava contro il metodo hegeliano e persino lo scherniva, e per dare positività alle sue deduzioni, aggiungeva "cause" geografiche, etnologiche e storiche; ma con ciò contaminava, non correggeva, quel metodo, e dimostrava quanto egli fosse ancora dominato dalla filosofia appresa o mal appresa in gioventù; che è ciò che a noi importa notare. 137

Per la parte militare, solo un breve accenno del Croce alla Guerra e sua storia; un accenno che non contiene alcun giudizio di merito, nolando solo - è molto poco - che in essa traspare uno schema hegeliano (ma questo non avviene sempre;!). E si noti bene che il Croce nemmeno si pronuncia sull'opportunità o meno di adottare nel caso specifico tale schema: il frutto migliore del suo ingegno, il libro su La guerra e la sua storia, costruisce sul tipo hegeliano la storia dell'arte militare, che in Oriente sarebbe stata rudimentale, in Grecia consolidata, in Roma articolata, e nella Europa medievale e moderna avrebbe ripetuto in guisa più intensa queste tre fonne, e, come sembra, si accingerebbe a ripeterle ancora nella nuova era, apertasi con il sec. XIX.

E le riflessioni del M. sul rapporto tra storia generale e militare, sul metodo storico, sul ruolo della storia? Su questo, il Croce non si pronuncia. Assai più articolata e esauriente l'analisi del Gentile, che dedica a M. un intero capitolo (e non due pagine scarse come il Croce). Il Gentile non manca di elogiare ripetutamente Gli A vvenimenli del 1870-1871, definendolo un altro transfuga dell'hegelismo napoletano [... ] scrittore valente di cose militari, che sull'esempio insigne del conterraneo Luigi Blanch, autore dei discorsi Della scienza militare considerata nei suoi rapporti colle altre scienze e col sistema sociale, mostrò, in un libro sugli Avvenimenti del 1870-1871 ( 1871) e in un'opera poderosa su La guerra e la sua storia

m Benedetto Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX (Cit.), Voi. Il, pp. 172- 173.


IL PENSIERO MILITARE t:: NAVAI.F. ITALIANO VOL lii (1870.1915)-TO=M,,, O~I _ __

(1875), come le istituzioni militari e le sorti del.la guerra dipendono sostanzialmente dalle condizioni storiche della civiltà, e come, insomma, tutta la storia s'addensi compatta intorno a ogni singolo fatto, quando questo si guardi con l'occhio realistico dello storico che mira al concreto. 138 Dopo un'accurata e diligente analisi del suo pensiero filosofico, il Gentile mette bene in rilievo le riserve del Nostro sul positivismo e la sua non completa e circospetta adesione alla filosofia dello Spencer, del Darwin, del Buckle. Dal positivismo- ricorda il Gentile - egli in sintesi dice che fè] "benefico, se misurato; può diventare esiziale, se esagerato dal pedantismo"; per contro di Hegel ha conservalo più di quanto voglia o possa far apparire: dai quadri hegeliani sono tolti ancora in gran parte giudizi e caratteristiche storiche. Hegeliano è il concetto di Stato, come forma concreta della civiltà; hegeliana la correlazione posta tra lo Stato e la cultura, correlazione il cui svolgimento è spina dorsale della storia, sua legge suprema [ ... ]. Di Hegel si ripete più volte la solita critica dell' intelletto; e tutte le opposizioni si torna a risolvere con la dialettica delle armonie; superando così il dualismo spenceriano del tipo sociale guerresco e del tipo industriale [ ...]. Tutto il processo della storia si riassume con Hcgel nell'analisi di una sintesi primitiva e nella tendenza a una sintesi finale 1---1- Hegelianamente infine, e da buon scolaro del De Sanctis, il Marselli spiega la necessità del male, o dei limiti dell' Ideale. Questo senso della razionalità del reale come unità di contrari il Marselli da Hegel l' imparò per davvero. Risorge esso ed opera energicamente in tutti i suoi scritti; ed è seriamente da rimpiangere che, affannandosi dietro al miraggio della filosofia della storia, egb non si sia del rutto raccolto nella storia, che è poi la vera filosofia della storia, e in cui tale senso gli avrebbe fallo scorgere sempre con lucida chiaroveggenza, come nel saggio sugli Avvenimenti del 1870-1871, quelle concrete armonie di cui andò sempre m cerca. Se il Gentile giudica positivamente l'opera militare del M ., nemmeno il suo giudizio conclusivo sulla parte filosofica del pensiero del Nostro piò dirsi - checchè ne dicano taluni - sfavorevole, anche se non è lusinghiero (perché riprenderne solo la parte più critica?):

138

G iovanni Gentile, Le Ori~ini della filosofia contemporanea in Italia (Cit.). pp. 85-86.


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il M., lavorando sempre col suo pensiero intorno alla filosofia della storia, fu degli spiriti più concentrati nella riflessione speculativa, che ci fossero in Italia al tempo suo. Non scoprì nulla, si può dire, né recò contributo di sorta al progresso del nostro pensiero filosofico, ma anch'egli, come il Villani, il Gabelli, il Tommasi, ed altri di cui si tratterà più innanzi, rispecchia il momento del nostro pensiero e conferisce non poco a farcelo intendere.

Dunque il M. filosofo ha pur qualche merito .. . Venendo alla parte militare, ci preme ricordare l'unica, vera critica coeva, che - a quanto risulta - è stata finora ignorata: quella - assai autorevole - del generale Enrico Cosenz, conterraneo del M. e primo Capo di Stato Maggiore dell 'Esercito dal 1882 al 1893. Cosenz nel 1848-1849 diversamente dal M. lasciò l'esercito napoletano per combattere col Pepe a Venezia, e poi fu con Gariba]dj nella guerra del 1859 e nella campagna del 1860- l 86 I contro i Borbom. Probabilmente fra i due c'è stata anche una certa rivalità, visto che a cavallo del 1882 lo stesso M . non poteva non essere tra i papabili per la nuova carica di Capo di Stato Maggiore, grazie anche alla sua amicizia con il Ricotti. Ad ogni modo il Cosenz, che si rivela convinto jominiano, in tre articoli sulla Rivista Militare di fine 1875 1311 contesta i nuovi principi della strategia indicati dal M. nel Voi. II della Guerra e sua storia negando che - come sosterrebbe una non meglio precisata "scuola" - la guerra del 1870187 I abbia imposto l'abbandono di "quei pochi principi di strategia che sono una guida, ma che non vanno interpretati pedantescamente alla lettera ma bensì nel loro spirito e nella loro assenza", e che a questi veccru principi "se ne possano sostituire altri meglio formulati, più generali e comprensivi" [è proprio questo che vuol fare il M. - N.d.a.]. Secondo il Cosenz la guerra del 1870-1871 , lungi dall'infirmarli, ha anzi avvalorato i (non precisa, però, quali siano). Nel riuscito aggiramento di Metz, il generale Moltke ha dimostrato che è sempre valido il principio di "minacciare o tagliare la Linea di operazioni dell'avversario". Anche la penetrazione dell'esercito prussiano in Boemia su tre distinte linee 139 Enrico Cosenz (nei numerosi scritti sulla Rivista militare si finna E.C.), Note sopra alcuni particolari della bauaglia di Graveloue · Saint Privar ( 18 agosto 1870), in " Rivista Militare Italiana" ollobre, novembre e dicembre 1875 (Estratto Roma, Voghera 1875). Meritano solo un cenno le recensioni della Rivista (rubrica "Rivista Bibliografica") ai Voi. I e II della Guerra e In sua storia (Voi. Il maggio 1875, pp. 300-308 e Voi. IV novembre 1875, pp. 257-272), con alcune critiche di dettaglio non sempre fondate , come l'accusa di aver contestato la previsione de l Ricci che le prossime guerre saranno brevi .


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di operazione nella guerra del 1866 (citata - egli dice - per infirmare il principio di "agire per Linee interne contro nemico che agisce per Linee esterne") al contrario ne dimostra la validità, perché "se L'esercito prussiano marciò diviso in tre gruppi così distanti fra loro, non fu già per partito preso e perché non si vedessero i pericoli di tale marcia, ma perché non c'era di meglio da fare in quelle date circostanze". Quindi non si può richiamarsi a quel caso ''.fortunatissimo" per infirmare "il vero e giusto principio delle linee interne", i cui vantaggi sono stati dimostrati anche dalla condotta del la guerra I 870-1871 da ambedue le parti. Di conseguenza, per il Cosenz la nuova redazione dei principi proposta dal M. "anziché essere più comprensiva, più generale, meglio corri~pondente alla idea che si vuole esprimere, ne esprime una tutt'altra, più limitata e.finita e che in sostanza non dice che poco o nulla". Al principio di "operare per quanto possibile sulle comunicazioni del nemico senza e~porre le proprie", il M. vorrebbe infatti sostituire il seguente: "la superiorità della.forza, per riuscire in sommo grado efficace, dev'essere applicata secondo quella direzione che mena un esercito sulla linea di ritirata dell'altro". Secondo il Cosenz, questa definizione ha il difetto di prevedere solo il caso che l'esercito che minaccia la linea di comunicazione dell'altro sia superiore di forze: invece Napoleone ha dimostrato che anche un esercito inferiore di fort:e può minacciare la linea di comunicazione del nemico. In secondo luogo, "in detta definizione non si tiene punto conto, anzi non sifa parola della propria linea di operazione; quindi parrebbe che si potesse abbandonarla intieramente, giacchè come farebbe a vivere o rifornirsi un esercito? Non sarebbe quella un'operazione militare, ma un errore [. ..]. Nessun generale ha mai abbandonalo intieramente le sue linee di operazione volontariamente; non è un errore, è un delitto militare il farlo, dice Napoleone a questo proposito " [si noti che qui il Cosenz, pur senza citarlo, non fa che riprendere un principio del 1' Arciduca Carlo - N.d.a.]. Circa l'altro principio del M., che vorrebbe sostituire "operare sempre per linee interne" con "operare a massa e con vigore, prescegliendo quelle linee che conducono il proprio esercito o a battere partitamente quello avversario o a riunirsi sul medesimo campo nel modo più pronto ", il Cosenz osserva - citando anche Jornini - che la prima parte di questo nuovo principio del M. "non è che una ripetizione del principio di strategia [di ]omini - N.d.a.J, cioè di opporre la massa della nostra armata alle frazioni nemiche"; in quanto all'espressione "con vigore", essa va bene per tutte le operazioni di guerra. Anche la seconda parte sarebbe stata più chiara e comprensibile se il M. avesse detto: "operare sempre che è


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possibile per linee interne e, qualora fosse impossibile, per linee più che si può convergenti e vicine". Ma anche così dicendo, si oscurerebbe il concetto anziché chiarirlo: infatti il principio generale di operare per linee interne vale solo se si può fare, ma se ciò non fosse possibile, "manovrerà meglio chi meno si discosterà da quel principio". Come si è visto, gli strali del Cosenz si dirigono solo sul secondo e terzo principio introdotti dal M.; e il primo? Egli così giustifica questa omissione: "nulla abbiamo detto sul primo principio /jominiano] delle masse combattuto dall'autore citato [cioè M. - N.d.a.J, perocchè sembra più una questione di parole, che poi lo stesso autore abbandona nel formulare i due principf summenzionati". In taJ modo - noi osserviamo - più che un'omissione, questa de] Cosenz è una sostanziale approvazione di un vecchio principio - basato su1la massa pura e semplice - che è anche quello fondamentale di Jomini e dell'Arciduca Carlo. Infine il Cosenz non è d'accordo suHa scelta come riferimento del Macdougall da parte del M., scelta che dichiara di non capire: il suo libro "non è che un breve riassunto che naturalmente sorvola sui particolari, locchè non sarebbe accaduto se si fossero presi per testo lo }omini, per esempio, o altri autori di proposito". Così que11o che per M. è un difetlo di Jomini, per il Cosenz diventa un pregio; al contrario, quello che per M. è un pregio del Macdougall (la brevità, la laconicità) per il Cosenz è un difetto. Il M. ribatte subito alle critiche del Cosenz (che evidentemente gli stanno molto a cuore) con i] già citato articolo del gennaio 1876 sulla Guerra reale, pubblicato anche in appendice all'edizione 1881 della Guerra e la sua storia (si noti la pubblica polemica dottrinale, oggi inusuale, tra un alto esponente dell'esercito e un tenente colonnello di Stato Maggiore, quale era allora il M.). Quest'ultimo attribuisce le critiche al fatto che (al momento, non è ancora uscito il Vol. lll) non ha ben completato il suo pensiero. L'esigenza di "rinnovare l'ambiente della teoria della guerra", di "sottilizzar sulla frase", è infatti nata in lui dopo aver constatato che "verso le usate frasi" esiste un diffuso scetticismo; tra di esso, e la contrapposta tendenza al "facile assoluteggiare all'eccessivo idealismo" egli ha quindi cercato una via intermedia, tenendo presente che altri sono i principi (i quali sono assoluti e sempre validi) e altre sono ]e regole (che invece anunettono delle eccezioni). Detto questo, M. nega che la sostituzione del concetto di forza a quello di massa sia solo una questione di parole; "per me le parole sono idee, e le idee, cose". Il concetto puro e semplice di massa - egli precisa a ragione - si riferisce solo alla quantità, cioè a un fatto materiale che di per sé non spiega la vittoria; invece quello di forza è più completo, perché oltre


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a comprendere la massa, indica anche altri fattori materiali e morali. Di conseguenza "è la più alta generaliu.azione a cui la nostra mente possa elevarsi, e però è il vero Primo della guerra. Certo, col dire che la viuoria appartiene a colui che riesce ad accumulare sul punto decisivo maggior forza dell'avversario, si determina poco; ma coll'affermare il medesimo della massa si esclude molto". Questo concetto - prosegue M. - è stato da lui conservato anche nel secondo principio [quello criticato dal Cosenz per primo - N.d.a.], il quale non è che il complemento del precedente, perché afferma che ''la forza superiore, cioè la forza o viltoriosa o che ha la proprietà per diventarlo necessariamente, come si è stabilito nel principio antecedente, riesce in sommo grado efficace quando è applicata sulla linea di ritirata dell'esercito nemico". Tale principio potrebbe, perciò, essere definito come "il principio della maggiore efficacia della villoria". In effetti anche lo stesso Cosenz, affermando che senza la vittoria di Saint-Privat la manovra aggirante tedesca non avrebbe ottenuto nessun risultato, riconosce implicitamente che affinchè un aggiramento sia efficace, "è necessario che chi Lo eseguisce vinca, cioè sia il più forte; il che rientra nel secondo principio". In quanto alla necessità di colpire le comunicazioni del nemico senza esporre le proprie, si tratta certamente di "una buona regola di guerra, da valere nei casi ordinari; ma non è un principio generale e assoluto, da abbracciare tutti i casi della guerra reale, tutti i modico' quali le grandi vittorie possono essere e furono conseguite..." E dopo aver fatto ricorso alla consueta profluvie di esempi storici, il M. conclude che se le circostanze facessero ritenere allo stesso Cosenz che un aggiramento avrebbe buone probabilità di riuscita, egli lo tenterebbe senz'altro anche se le buone regole lo vietano, perché "in guerra è delitto il farsi battere, quando esistono le condizioni per vincere; ma non il vincere violando una regola pedantescamente formulata". Nel citato articolo del 1876 il M. non risponde solo al Cosenz, ma chiarisce ancora il suo pensiero sulla "Teoria generale della Grande Guerra" esposta nella Guerra e sua storia, fornendo al lettore un prezioso consuntivo dei moventi e dell'impostazione del suo pensiero. 11 punto di partenza de11a Guerra e sua storia - ricorda - è stato il seguente: un principio di scienza applicala deve racchiudere l'idea assoluta, che vive costantemente nella variabilità dei fenomeni; un principio sommo, l'idea ferma e vitale di essi. Or siccome la vittoria è la vita, lo scopo, l'unità della guerra reale, così i principì sommi debbono a lei riferirsi nel modo più diretto; e siccome essa non si consegue che con superio-


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rità di forze (anche la fortuna è una forza;!), così poniamo tale concetto a sostrato di quei principi. Ciò che può essere o non essere, ciò ch'è vero in certe condizioni, ma non in altre, facciamo discendere al grado di regole, che si riferiscono a gruppi di casi, più o meno ricchi e generali. La teoria della guerra è formata da quei principi o da queste regole, le quali col loro coordinamento costituiscono il corpo d' una piramide, che ha per fondamento i fatti sperimentali e storici, per vertice i principi, per vertice, badate. Questa piramide è la scienza della guerra reale.

Premesso che la scienza della guerra ha una parte elevata che concerne la direzione degli eserciti ed una inferiore che concerne l'esecuzione, lo studio di tale parte elevata si basa sulla storia militare, perché questa ci mette a contatto colla vita della guerra reale, ci fa penetrare nei fondamenti di quella piramide di cui la scienza vede in specie quella parte, che uscita fuori dalla terra, si lancia nell ' aria. La storia è lo studio più proficuo della grande guerra, perché esercita il senso delle situazioni relative, così necessario a chi studia per fare, a chi considera la scienza come una guida all'arle_

Poiché la scienza è progressiva, non si può pretendere che "quei principt siano le sole leggi eterne della grande guerra, le sole verità costanti". Si potrebbero formulare molte altre verità assolute, e forse molte altre se ne potranno scoprire: quelle indicate sono solo quelle che si sono rivelate per prime. In ogni caso a noi basta esaminarle in modo che non si chiuda la porta sul viso à fatti che fanno ressa per entrare; che non si diano per principi assoluti, regole particolari; che non s'imponga un'esclusiva regola di condotta. Chi studia la guerra non deve mai dimenticare che essa è pure arte e qualche volta un ardito gioco. Or l'arte è applicazione, e questa è come una sfera che giri attorno ad immoto asse, ma consista di forme materiali sempre variabili.

Con questa metodica il M. vuol formare menti "ragionatrici e positive", eliminare l'antagonismo tra teoria e pratica, "non irrigidire gli ingegni cogli assoluti, renderli pieghevoli alle esigenze delle situazioni relative, far loro comprendere l'alto valore delle cose morali, ...". In particolare, occorre correggere la "tendenza a trinciar cogli assoluti" propria della gioventù, evitando proposizioni teoriche alle quali si possa obiettare che ciò è giusto


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. lii (1870-1915) - TOMO I

appunto in teoria, ma falso in pratica: "ah no;! se è falso in pratica è segno che la teoria è sbagliata o zoppica; e allora modifichiamola". Con la sua opera, il M. ritiene anche di essersi reso interprete d ' "un confuso bisogno " serpeggiante tra le file degli studiosi: in questo tentativo avrò potuto fallare nel tentativo di ricerca della sottilissima vena dell'assoluto, nascosta nella scoria del relativo: che importa? La scienza della guerra vive di più modeste generalizzazioni, e gli assoluti son pari ali' etere che vibra e non si stringe [ma se è così, a che servono i principi? N.d.a.]. È sempre un progresso il dire questo, anzi che il credere di avere in pugno l'universo, mentre non se ne ha che un piccolo frammento; ma il gran progresso consiste nel richiamare le menti alla realtà dei fatti storici c delle situazioni concrete, senza rinnegare principì e regole, sta nel dire alla gioventù: testa in alto, cuore caldo e piedi sulla terra.

Bisogna aspettare il 1930, cioè oltre 50 anni, per trovare un altro esame critico della Guerra e la sua storia capace <li sottrarsi ai consueti schemi laudativi: è quello dell'allora tenente colonnello di fanteria Emilio Canevari, al quale va riconosciuto l'indubbio merito di aver creato premesse fondamentali per una maggiore e migliore conoscenza in Italia del pensiero di Clausewitz, in particolar modo con l'opera CLausewitz e la guerra odierna. 14° Come sempre si dovrebbe fare quando si studia un autore, Canevari dedica una cospicua parte di tale libro a "Clausewitz e la critica militare europea", nella quale esamina "/ critici italiani" e sia pure unilateralmente (cioè considerando solo le divergenze del M . da Clausewitz e non le concordanze, che pure sono numerose anche là ove non esplicitamente dichiarate) fornisce il primo studio del pensiero di M. nel quale si trovino critiche aperte e di fondo. Il giudizio d'esordio è già tale, da negare la validità della Guerra e la sua storia: "se il Marselli avesse svolto le idee fondamentali di Clausewitz, che condivideva quasi interamente [nostra sollolineatura - N.d.a.J. applicandole allo stato militare della sua epoca, il suo vivace e brillante ingegno avrebbe dato all'Italia un'opera fondamentale per lo studio dell'arte militare. Questo in realtà non avvenne". Non è avvenuto, sempre a parere del Canevari, per tre ragioni: a) M. non possedeva un saldo metodo critico; b) le sue concezioni sociologiche derivavano

'"" Emilio Canevari, Op. cit.. Non ha mai visto la luce il Voi. II ; va inoltre ricordato che il Canevari, oltre a pubblicare parecchi articoli e saggi su ClausewilZ ne l periodo tra le due guerre mondiali (Cfr. anche Voi. I. pp. 193- 195) nel 1942 è stato autore con il generale Ambrogio Bollati della prima traduzione italiana completa del Vom Kriege (pubblicata dall' Ufficio Storico SME).


lii - LA SECONDA FASE DEL PENSIERO DI NICOLA MARSEW ( 1872-1892)

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"dalle 11:ffrettate costruzioni di Herbert Spencer"; c) i suoi giudizi critici erano "paralizzati" dalle vittorie tedesche del 66 e 70-71, "che egli non considerava semplicemente quali soluzioni, riuscite di casi particolari strategici, come avrebbe fatto ClausewiJz e come faceva Moltke, ma quale ultimo gradino e perfella espressione di una evoluzione progressiva della guerra"_ In particolare il pensiero di M. ha risentito della corrente positivista anche perché era naturalmente portato "ad innalzare sistemi basati piultosto sopra la dialettica che sulla limitata ma solida realtà dei fatti"; per questo "L'evoluzionismo di Spencer gli sembrò indicare una sicura via per comprendere la struttura e il divenire della società". Sempre per il Canevari, le obiezionj del M. a Clausewilz sono le conseguenze delle sue concezioni filosofiche, inducendolo ad assegnare - a torto - allo studio della guerra uno scopo di immediata utilità [come ad esempio l' individuazione di principì fissi e regole costanti - N.d.a.l , "che Clausewitz nega recisamente "; così come - diversamente dal M. - Clausewitz nega la possibilità di una "dottrina .fissa che serva di guida positiva al campo militare" (veramente - noi osserviamo - Clausewitz parla di una "teoria compiuta della guerra"; tra teoria e dottrina v'è differenza). TI Canevari contesta, perciò, le affermazioni del M . che "scopo predominante della scienza della guerra non deve essere lo speculare, ma l'insegnare a fare, cioè a vincere" e che "la guerra è materia di scienza perché ha i suoi principi immutabili". Per il Canevari la scienza "non può avere uno scopo pratico immediato; non può servire a trovare regole o ricette, altrimenti è semplice empirismo"; e quando M. enuncia uno dei suoi principì, come ad esempio quello di "operare a massa e con vigore" ecc., non fa che dare un consiglio "che forse sarà buono, ma non ha alcun carattere scientifico: trattasi di una norma empirica più o meno contingente". Al contrario, quando Clausewitz afferma che "l'offensiva si esaurisce avanzando", si tratta di un enunciato di carattere scientifico, perché constata "un fatto ripetutosi uniformemente infinite volte"; questo dimostra perciò che "la guerra è obietto di scienza perché in essa o in alcune parti di essa esaminate analiticamente si riscontrano delle uniformità, delle ripetizioni di fatti. Se ciò non fosse, ogni osservazione sarebbe inutile". Un'altra critica di rilievo del Canevari riguarda la tesi del M. che, con il progresso delle scienze morali e psicologiche, diversamente da quanto afferma Clausewitz sarà possibile ridurre il margine del caso e dell' imprevisto, fino a prevedere "con esattezza matematica quale sarà la conseguenza militare di date passioni umane". Senza dubbio - obietta Canevari - "l'osservazione dei fatti psicologici e sociali ha portato all'accertamento di certe ripetizioni, di certe uniformità ", e lo stesso metodo - come


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del resto ha fatto Clausewitz - si può seguire per la guerra; ma anche oggi queste scienze sono "rudimentali ", tanto che la società appare alla scienza come un sistema di corpi in equilibrio dinamico. Le forze che determinano il movimento del sistema sono molteplici, difficilmente valutabili, perché trattasi in parte di forze morali, non logiche, le quali, per di più, sono interdipendenti. La risultante di tali forze, e cioè "la civiltà", come dice il Marselli, o meglio l'andamento dell'equilibrio sociale, non segue una curva progressiva ma una linea sinusoidale irregolarmente ondosa.

Il Canevari poi sottolinea, con Clausewitz, che "dalla conoscenza all'azione vi è un abisso"; attacca perciò il concetto di scienza della guerra dei dottrinari e ]a loro ricerca degli "immortali principi", anche se sarebbe assai comodo fornire ai Capi militari una raccolta di regole, principi e norme da applicare ai vari casi. Invece bisogna accontentarsi dell' "animo dei Capi", cioè dell'elemento più soggettivo di lutti; e migliorarne nei limiti del possibile "Le facoltà di tatto " con "uno studio razionale, scientifico degli elementi della guerra fatto attraverso la logica e la storia". Il tentativo de] M. di combattere le tendenze scettiche di Clausewitz è comprensibile, visto che egli vuol migliorare la cultura degli ufficiali, dimostrando loro l'utilità dello studio; ma "La risposta ai dispregiatori dello studio non sta nell'affermare che esso può darci una sicurezza che in realtà non ci darà mai; sta invece nell'applicazione integrale dei concetti stessi di Clausewitz", aprendo così agli studi militari un campo assai più vasto di quello dei dottrinari; da quest'ultimi M. non ha saputo liberarsi, visto che i suoi nuovi principi' differiscono solo esteriormente da quelli di Jomini. Per ultimo, Canevari ribadendo la perdurante e piena validità delle teorie di Clausewitz contesta l'affermazione del M. che "la scienza della guerra potrà pervenire a conoscere le leggi dell 'evoluzione militare... il che non sarà di lieve giovamento all'arte pratica di ordinare e condurre gli eserciti". Le sue critiche si appuntano perciò sul grafico col quale il Nostro vorrebbe dimostrare che "le guerre e rivoluzioni accadono per cause sempre più essenziali, si succedono a intervalli più grandi o diminuiscono in durata [. ..]. Questo movimento progressivo si farà più accélerato e pieno, nel senso che diminuirà insieme la frequenza e la durata delle guerre". Secondo Canevari gli avvenimenti dal 1878 al 1920 smentiscono una siffatta prospettiva del M. e dimostrano "quanto superficiale fosse quella scienza positiva nella quale l'illustre generale aveva tanta fiducia come guida precisa per gli ordinamenti militari e per La condotta della guerra ".


lii - I.A SF.CTJNDA PASP. DEI. PENS1ERO l>l NICOLA MARSELU (1872-1892)

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Si deve senz'altro dare atto al Canevari di aver violato per primo il tempio eretto non del tutto a ragione al M. dagli scrittori militari successivi, che hanno pressochè ignorato le ombre e gli interrogativi del suo pensiero. Molte delle sue critiche al M., a cominciare dal sostanziale ancoraggio a Jornini e dalla pretesa anticlausewitziana di formulare una vera e propria teoria della guerra, sono opportune e condivisibili: ma sfuggono totalmente al Canevari i limiti e gli eccessi dello stesso spiritualismo clausewitziano, pur dimostrato dall'ancor vicino primo conflitto mondiale. 14 1 Canevari non si chiede affatto quale validità possa avere nel XX secolo una teoria, che come quella di Clausewitz dichiaratamente ignora l'organizzazione e la preparazione, la logistica, il materiale, ecc_ e vuol parlare solo di condotta delle operazioni, ad essa esclusivamente riferendo strategia e tattica e sottovalutando anche l'importanza della geografia. A M., dunque, Canevari avrebbe dovuto riconoscere almeno il merito di aver voluto affrontare questi temi. Riguardo alla vexata quaestio dell'utilità dello studio delle scienze militari e della storia militare, non è del tutto vero che, come afferma il Canevari, la scienza "non può avere uno scopo pratico e immediato". Qui bisogna intendersi bene: come la scienza medica e altre, la scienza militare (o quella che viene così definita) almeno uno scopo pratico - anche se non immediato - lo ha e lo deve avere, che è quello di preparare l'ufficiale a ben svolgere i suoi ardui compiti in guerra; essa perciò "insegna ajàre", anche se, come dice Canevari, non può fornire regole e ricette sempre valide, né ha principi "immutabili e assoluti": tutto questo è ammesso anche da Clausewitz. Non si può accettare a scatola chiusa nemmeno quanto Canevari afferma sulla validità assoluta del principio clausewitziano che "l'offensiva si esaurisce avanzando", per due ragioni: a) Canevari si contraddice, perché non possono essere sempre validi solo i "principi'' di Clausewitz: qui si sta discutendo se siano ammissibili o meno, sul piano generale, principi' assoluti e immutabili; b) non è sempre vero che le offensive si esauriscono: vi sono nella storia molti esempi di offensive che non si sono affatto esaurite, anche se magari hanno incontrato tempi d'arresto più o meno prolungati. Nel primo dopoguerra ( 1955) compare la critica a M. di Piero Pieri, che riprende largamente i giudizi del Canevari, anche al di là delle due sole occasioni in cui lo cita. 142 Diversamente dal Canevari, il Pieri ha l'am-

141 Cfr. Raimondo Luraghi, l'Ideologia della guerra industriale / 861-/865, in " Memorie Storico-Militari" , Roma, SME - Uf. Storico 1980, pp. 169-190. 142 Pieri, Op. cit., pp. 209-227.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. 111 (1870- 1915) -TI>MO I

bizionc di giudicare la sua intera opera: ma - con lo stesso criterio usato per Gli Avvenimenti del 1870-1871 - liquida La Vita del reggimento con quattro righe nelle quali, bontà sua, gli riconosce "grande nobiltà d'intenti e larghezza di vedute". Quando poi viene a parlare della Guerra e la sua storia, conferma solo la prima parte del detto dello stesso M. che "in ogni

Libro vi sono quattro parole o per impiccare o per salvare un autore; ma L'essenziale si rivela nella tendenza generale che lo ispira, negli abiti mentali che crea ".1 43 Più che "salvare", Pieri certamente vuol "impiccare " il M.; raramente tiene conto di tutto quanto non conforta il suo giudizio ne-

gativo. La sua analisi critica diventa così un ancor meno benevolo contraltare militare di quella filosofica del Croce e del Gentile, "affondando " assai di più i già notevoli apprezzamenti negativi del Canevari e aggiungendovi - chissà perché - numerosi accenti ironici mai usati per altri autori, che pure vi si prestano più del M .. Con questo discutibile orientamento, il Pieri mescola osservazioni condivis ibili, giudizi troppo severi o non obiettivi e altri in tutto o in parte inesatti. Riepiloghiamo, qui di seguito, solo le parti più importanti di quella che in parecchie parti assomiglia a un' insolita requisitoria. 1. 11 Pieri definisce "un assurdo anche matematicamente" la pretesa del M. di stabilire "leggi di relazioni costanti" tra lo stato morale di una società e il rendimento in guerra dello strumento militare. Anche se il Nostro avrebbe dovuto meglio chiarire che cosa intendeva con tale espressione, qui il Pieri esagera: perché è un fatto constatato da parecchi studiosi cominciando da Tocqueville - che l' esercito è espressione della società, dunque ne riproduce lo spirito, lo stato morale, i costumi, i pregi e difetti; ed è storicamente accertato il legame tra la Prussia di Jena, la Francia di Sedan (si potrebbe aggiungere anche l'Italia del 1866 o del 1940-1941) e la sconfitta dei rispettivi eserciti. 2. Non ci sembra che ci sia molto da criticare in questa frase del M.:

"la teoria della grande guerra può adunque fare progressi avviandosi per un sentiero più sodo e più largo; ma quale che sia il grado di positivismo che essa raggiungerà, non diventerà giammai formula algebrica per vincere. La pratica ha delle dijjicoltà che La sola teoria non può sormontare in alcun modo". Diversamente da quanto dice il Pieri, questa affermazione non è cosa di poco conto, perché vuol superare uno dei principali limiti di Clausewitz esprimendo la necessità oggettiva - e se si vuole, positiva - di non lasciare nulla d'intentato per erodere i margini deJl' imprevisto, per

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Marselli, La Guerra reale (Cit.), p. 380.


lii - LA S&XJNDA l'ASE DEL rENS!ERO DI NICOLA MARSl!LLI (1872 -"'--'-" 18"-' 92,,_)_

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ridurne gli effetti. È quanto fanno, del resto, le dottrine strategiche e i piani periodicamente concepiti dagli Stati Maggiori: chi ha mai contestato i primari riflessi morali della qualità di armi e mezzi e della logistica? In fondo questa affermazione del M. dimostra che - aI1a fin fine - anch' egli, come Clausewitz e Canevari, ammette che non esistono ricette e principi sicuri per vincere ... 11 Pieri invece commenta: "null 'altra che una brutta copia dei principi [nostra sottolineatura - N.d.a.] del teorico prussiano". Non è vero: perché Clausewitz non indica affatto dei principf come fa M., ma si limita ad ammettere la possibilità di ricavarli, limitando peraltro il loro ruolo a utile esercizio teorico e preparatorio, senza che essi guidino l'azione del comandante. Riferendosi anche a quando afferma il Canevari, si può dunque discutere solo se i principi' dettati da M. siano migliori - o peggiori - di quelli di Jomini, tenendo ben presente che non possono essere paragonati a quelli ammessi - anche se non precisati - da Clausewitz. 3. Proprio come fa Canevari, il Pieri critica - a ragione - I' affermazione del M. che "data un'arma, un terreno e la posizione del nemico, è possibile dedurne la forma tattica applicata". Evidentemente partendo da questi soli parametri (e sarebbe erralo) le soluzioni_ tattiche possono anche essere diverse; evidentemente entrano in gioco anche i fattori morali e la personalità dei comandanti. Ciò non toglie che questa affermazione, avulsa dal contesto, non dice tutto del M. ed è in palese contraddizione con altre parti dei suoi scritti. Come riconosce Io stesso Pieri , anche per il M. la condotta delle operazioni è arte; numerose sono le parti della sua opera nelle quali egli sottolinea l'importanza dei fattori morali e delle qualità del Capo; e che dire del suo concetto-chiave, che il modo cli combattere di un esercito dipende prima di tutto da fattori politko-sociali, la cui mutevolezza è evidente? 4. Sempre sulle orme del Canevari, il Pieri indirizza facili critiche al grafico, con il quale il M. vuol dimostrare che diminuirà la frequenza e durata delle guerre. Questa previsione è stata smentita nel XX secolo? Checché ne dicano i due autori, è stata smentita solo in parte, e solo per quanto attiene alla lunga durata delle due guerre monctiali. Non bisogna dimenticare che M. - come del resto Clausewitz - si riferisce solo alle "g randi guerre" tra Stati europei; dopo tutto dal 1870 al 1914 l'Europa ha vi ssuto un'assenza di "grandi guerre" assai più lunga delle precedenti; assenza che è continuata anche dal 1945 a oggi, fino a rendere ormai inconcepibili guerre tra Stati europei. Riguardo aI1a brevità di tali "grandi guerre" (speranza sempre delusa di tutti, non solo del M.), va ricordato che nel citato articolo del 1891


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fl . PENSIERO MILITAIIB E NAVALE ITALIANO· VOL. lii ( 1870-191S) - TOMO I

dal titolo Politica estera e spese militari M., modificando talune sue precedenti affermazioni, nitidamente accenna alla possibilità che una prossima guerra tra Francia e Germania non sia affatto breve. Inoltre neJla Guerra e la sua storia profeticamente affiorano motivi come la ritrosia a combattere delle società industriali avanzate, la diffusione del pacifismo proporzionale a quella del benessere, la tendenza a forme di organizzazione sovranazionale e all' unità europea e, per contro, la tendenza a rompere l'unità degli Stati nazionali con una maggiore frequenza dei conflitti interni. Certo, nessun scrittore militare - e nemmeno M. - in quanto uomo, è mai stato profeta o profeta compiuto: se è questo che vogliono dimostrare, Canevari e Pieri sfondano una porta aperta. Non è comunque vero che secondo M. l'umanità si avvia alla pace: non ha mai detto questo, ha detto solo che le guerre tendono a diventare meno frequenti ma che, comunque, la scomparsa delle guerre porterebbe anche altri mali. 5. Il Pieri giudica il Voi. I della Guerra e la sua storia "assai scarso, ad onta degl'innegabili pregi saltuari". Infatti "non è dato rilevare in esso nessun vero progresso rispetto a quanto avevano scritto il Blanch, Lo Zambelli, il Cattaneo, il Pisacane: molta pretenziosità, e al tempo stesso troppa genericità, nessun vero approfondimento, nessuna sicura chiarificazione, nessun nuovo e sicuro procedimento, all'atto pratico: la fallacia dei pronostici mostrava poi quale fosse il reale fondamento della nuova sociologia e psicologia militare". Questo giudizio rivela tutti i limiti della critica preconcetta e unilaterale del Pieri. Egli parla di "pretenziosità" e "genericità": ebbene, se si guarda al sommario del Voi. I, più che di pretenziosità si deve parlare di ambizione eccessiva: nessun autore prima o dopo il M., infatti, ha preteso di affrontare in un colpo solo, e in sole cento pagine, tanti argomenti e tanti nodi secolari. Pieri parla di "genericità": ma con un approccio meno prevenuto che tenga conto anche delle precedenti opere, si potrebbe più a ragione parlare di "rara capacità di sintesi", sintesi resa necessaria anche dal fatto che l'opera si basa sulle lezioni dell'autore alla Scuola di Guerra. Senza dubbio parecchi degli argomenti trattati avrebbe richiesto un volume a sé: ma sarebbe stato utile? sarebbe stato veramente necessario, per dire ciò che M. vuol dire? perché Pieri non accenna nemmeno ai molti argomenti collaterali di importanza basilare e ancora attuale pur toccati con sufficiente ampiezza da M., come il concetto di storia, la preziosa panoramica di autori militari italiani, la classificazione delle scienze militari, il metodo storico ecc.? quale autore italiano o straniero, prima o dopo M., ha meglio e più di lui trattato questi terni, sforzandosi di inserirli in un quadro unitario?


111 - LA SECONDA PASE IJEL l't:NSIJ:iRO 1)1 NICOLA MARSELLI ( 1872-1892)

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6. Non è nemmeno vero che M., sempre nel Voi. I, non compie nessun "progresso" rispetto a Blanch, Zambelli, Cattaneo, Pisacane. Prima di tutto Pieri dovrebbe spiegare il significato della parola "progresso" quando si parla di pensiero militare: progresso sotto che aspetto? esiste forse un'evoluzione lineare del pensiero militare? In base a ciò che dice lo stesso Canevari e/o Clausewitz, non ci sembra: esistono solo degli autori con diversa forma mentis legata anche al loro tempo, le cui idee possono essere più o meno confuse. In secondo luogo, se si guarda a quanto abbiamo già scritto di questi autori nei precedenti Voi. I e Il si deve constatare che, rispetto ad essi, la problematica teorica e pratica toccata dal M. è estremamente più vasta, anche perché egli può avvalersi dell 'esperienza delle guerre del 1866 e 1870-1871 , nelle qua1i l'eredità napoleonica si misura con le nuove tecnologie (ferrovie, armi, rigate, telegrafo, ecc.). In particolare, quella del Blanch è solo una storia delle istituzioni; egli limita il suo esame alle grandi linee dell'evoluzione parallela delle arti militari e di quelle non militari, delle istituzioni militari e delle condizioni politico-sociali , quindi gli è totalmente estraneo l'ampio spettro di argomenti trattati dal M., a cominciare dalla sua attenzione per i fattori mora1i. Cattaneo e Zambelli si muovono in un campo ancor più ristretto, trattando solo dell ' influsso a loro parere determinante delle armi da fuoco e di altri mezzi tecnici nella storia dell'arte militare e tra l'altro dimostrandosi positivisti "assai più triviali" (per usare un aggettivo del M.) del M. stesso, che non ha mai trascurato l' importanza dei Capi e dei fattori morali e sociali. Pisacane invece dedica tutte le sue energie a promuovere la rivoluzione (nazionale prima ancor che sociale), definendo i corrispondenti ordinamenti militari e la corrispondente pra~si strategica "meridionalista" per cacciare l' Austria dall'Italia: è quindi estremamente lontano dagli interessi del M., che a lui si avvicina (senza nominarlo) solo nel sostenere la partecipazione popolare alla difesa naziona1e, senza pera1tro condividerne il socialismo rivoluzionario. In fondo lo stesso Pieri ammette, più sotto, che il Marselli va ricordato "per lo sforzo di chiarire i rapporti tra guerra

politica sviluppando il tentativo del Blanch e di porre le basi [mai stabilite con sicurezza da nessuno - N.d.a.] di una teoria scientifica della guerra". Se ne può legittimamente dedurre che, oltre a non essere affatto una quantité négligeable, il pensiero del M. va oltre quello del Blanch e anche quello di tutti gli altri, che non hanno mai approfondito in sede teoe

rica i rapporti tra guerra e politica, non hanno mai indagato la natura e le componenti dell' arte militare, non hanno mai esaminato il rapporto tra la guerra e la sua storia ecc.; e chi può negare che gli interrogativi posti da lui, ancorché ambiziosi, siano legittimi e anzi necessari, anche oggi?


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7. "Il reale fondamento della nuova sociologia e psicologia militare" non è certo dimostrato dalla "fallacia dei pronostici" (che non è sempre tale), ma da quanto M. dice - con pagine memorabili - della nuova realtà militare e sociale rispetto al passato; si deve dunque constatare che il giudizio complessivo del Pieri sul Vol. I - che pure ha parti più o meno condivisibili - è poco centrato. Per tale giudizio più che per il citato Vol. I, si attagliano gli aggettivi "pretenzioso", "generico " e "assai scarso", se non altro perché Pieri pecca d'originalità, poco aggiungendo alle critiche del Canevari. 8. Il Pieri mal commenta, inutilmente sottilizzando sulle parole, anche l'affermazione del M. che "fa guerra è uno strumento della politica ecome tale ne dipende; ma ha la sua individualità, che vuol essere rispettata", preferendogli quanto afferma Clausewitz sullo stesso argomento. Non si capisce la ragione di tale critica e tale dichiarata preferenza, visto che anche per Clausewitz la guerra dipende dalla politica e ha una sua individualità che il politico deve rispettare. Piuttosto, al Pieri sfuggono due differenze notevoli tra quanto affermano Clausewitz e M.: da una parte per Clausewitz il comandante in capo in caso di contrasti può pretendere al massimo una modifica del disegno politico, che tuttavia deve conservare la prevalenza, visto che la guerra è solo un mezzo della politica 144; dall'altra, mentre per Clausewitz la guerra ha una sua grammatica, ma non una sua logica (perché deve prevalere sempre la logica politica), per M_, come si è visto, la guerra ha anche una sua Logica. 9. Pieri critica giustamente la pretesa positivista (ma anche jominiana) di M. di pervenire a una dottrina compiuta della guerra e di penetrare i misteri del mondo morale: ma non considera che, nelle guerre di massa e di materiali del XX secolo e ancor più nell'età nucleare, si è fatto di tutto basti pensare alla ricerca operativa, alle "dottrine del materiale", alle teorie dei nuclear strategists - per ridurre il margine del caso e dell'imprevisto, con un'accurata pianificazione e con calcoli di precisione resi indispensabili dalla complessità e dalla potenza terrificante dei mezzi e materiali disponibili. Quale margine ha lasciato all'imprevisto la strategia occidentale della guerra del Golfo 1990-1991? Non vi è forse, oggi, una crescente tendenza degli Stati Maggiori occidentali ad affidarsi alle tecnologie e ai materiali? Se, dunque, M. esagera con la fede - tipica dei suoi tempi - nel progresso della scienza, certamente l' affermazione di Clausewitz che "nella guerra tutto è indeterminato, non potendo il calcolo applicar-

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Kart Von Clausewitz, Della Guerra, Milano, Mondadori 1970, Voi. I pp. 37-38.


111 - I A S F.CONDA FASE DEI. PENSIERO DI NICOi.A MARSEI.I.I ( 187 = 2~-= 189=2~)- - - - - = 35=5

si se non a variabili" è da ritenersi a sua volta esagerata e non più valida nel XX secolo: gli Stati Maggiori e i politici occidentali hanno concordamente fatto di tutto per smentirla, per ridurre i margini dell'imprevisto, come voleva in sostanza M .. Sempre in buona sostanza, M. pur apprezzando Clausewilz ha voluto dimostrare che il suo pensiero per essere valido aveva bisogno di una certa dose di positivismo: si può discutere sui rimedi, ma non sull'esattezza della diagnosi. 10. Non si capisce perché Pieri critica tanto la parte dedicata da M. alla geografia, dove il Nostro dice parecchie cose interessanti, ivi comprese le applicazioni alla difesa d' Italia. In fondo la geografia è stata alla base delle più ardite e riuscite manovre napoleoniche, a cominciare dalla campagna d'Italia 1796-1797; e anche oggi, qualsiasi problema operativo non può prescindere dalla valutazione dei vincoli e possibilità che offre l'ambiente naturale. Né è vero che, secondo M., sono solo gli elementi di carattere geografico a determinare il punto decisivo: questo lo si deduce anche dalJe stesse citazioni del Pieri. Per contro, e meno si capisce perché Pieri loda tanto il capitolo dedicato da M. alla logistica, dal Nostro intesa non nel significato attuale, ma nel senso jominiano, cioè come scienza del movimento e dello stazionamento che comprende in pratica tutte le attività degli Stati Maggiori: cosa che sfugge totalmente al Pieri, pur così proteso a dimostrare che M. non dice niente di nuovo. Si deve anzi rimproverare al M. (che accusa a sua volta pure Clausewitz di non dare peso ai fattori materiali) di non considerare abbastanza i problemi dei Servizi logistici e il loro evidente influsso sul morale e l'efficienza delle truppe. 11. Nel giudizio conclusivo Pieri afferma che l'opera del M. era "soprattutto il prodotto d'intuizioni, di lampi e di illuminazioni collettive, che egli aveva sentito il bisogno diflssare sulla carta", e gli imputa di non aver meditato a lungo, come ha fatto Clausewilz. A parte il fallo che lulte le opere sono frutto d'intuizioni, ecc., ciò non è vero: come si è visto, M. comincia a meditare sull'opera, a vagheggiarne le finalità e la struttura almeno dieci anni prima della sua pubblicazione, in certo senso iniziala con il citato articolo del 1870. Né è vero che La Guerra e la sua storia non ha subìto integrazioni e revisioni di sorta negli anni successivi, perché l'autore (si noti l'ironia) "era troppo assorto nel ricercare le leggi dello sviluppo storico dell 'umanità". Al contrario, dopo il 1875 il M. è stato assorbito dall'attività militare e politica: è appena il caso di ricordare ancora che, in tale periodo, a parte i doveri parlamentari, M. ha ricoperto impegnativi incarichi di comando e di Stato Maggiore, culminati nell'assunzione della carica di Segretario generale del Ministero della guerra; quindi ha avuto fin troppo da fare. Ciononostante, all'edizione 1881 dell'opera ha aggi un-


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IL l'liNSIERO MILJTA!lli I:: NAVALE ITALIANO - VOL. lii ( 1870- 1915) -TOMO I

to i due citati, lunghi saggi sulla Guerra reale e sulla Teoria della guerra reale applicata alle campagne del 1796 e 1797 in Italia, pubblicati nel 1876 suJla Rivista Militare. Non basta: con opere come Raccogliamoci;! e La Politica dello Stato italiano, oltre che con altri articoli, il M. ha certamente integrato la parte applicativa della Guerra e la sua storia e se non su11a teoria, ha certamente detto cose interessanti e nuove sulla prassi strategica e sulle direttrici di politica militare dell'Italia. Se ne può dedurre che La Guerra e la sua storia non è un troppo scheletrico e approssimativo punto di partenza per esaminare problemi complessi che avrebbero richiesto ben altro spazio e ben altro tempo, come sostiene il Pieri: ma se mai, è il punto d'arrivo di riflessioni e spunti teorici e pratici ampiamente presenti nelle molte opere che l'hanno preceduta, delle quali proprio per tale motivo qui si è dato conto. Questo è niente? questo non merita qualche cenno? 12. Riferendosi unicamente - a quanto par di capire - alla Gue rra e la sua storia, il Pieri afferma che l'opera del M. "servì indubbiamente aridestare, o, meglio, a destare da noi l'interesse per i problemi militari, mostrando che anche l'Italia partecipava degnamente a tale forma di attività spirituale, valse a migliorare la cultura dei nostri ufficiali, a far loro conoscere in qualche modo il Clausewitz: ma quanto ai risultati positivi nel campo scientifico, essi furono oltremodo scarsi". Pertanto, secondo il Pieri ciò che il Gentile ha detto del M. filosofo andrebbe bene anche per il M. scrittore militare: "non scoprì nulla, si può dire ... ma anch'egli rispecchia il movimento del nostro pensiero e contribuisce non poco a farcelo intendere". Non vogliamo neppure accennare ai fondamentali aspetti sociologici dell'opera del M., che come tanti altri Pieri ha il torto di ignorare. Ma ci sembrano suoi meriti incontrovertibili - e in buona parte, direttamente o indirettamente ammessi dallo stesso Pieri - almeno i seguenti: introdurre lo studio critico non solo dì Clausewitz, ma anche di Jomini in Italia; far quindi conoscere, almeno per sommi capi, gli scritti del generale prussiano; tentare di superare ambedue, sia pure con risultati non sempre soddisfacenti ed esaustivi (ma chj li ha mai raggiunti appieno?); indagare sull'indubbio rapporto tra guerra e civiltà e tra Istituzioni militari e contesto politico-sociale; di conseguenza, cogliere fin da allora quella che sarebbe stata la lezione fondamentale del XX secolo, cioè che le guerre non le vincono (e non le perdono) solo gli eserciti; meditare con pagine ancor fresche sul ruolo e i contenuti della storia e della storia militare; fornire spunti non ancora appassiti su Napoleone e sugli insegnamenti delle guerre più recenti (non escluse quelle del Risorgimento e in particolar modo sulla guerra 1870-1871, prese a modello fino al 1914 per tutti); fornire tutta una serie di meditati suggerimenti per la difesa nazionale, per le fortificazioni


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e per il nùglior ordinamento delJ'esercito ... Se poi si aggiungono gli "sprazz.i di luce " dei quali parla persino il Pieri, come si può affermare a parte ogni altra considerazione - che i risultati nel campo scientifico .furono oltremodo scarsi? Eppure, qualche riga più sotto il Pieri ammette come se fosse cosa di poco conto - che, anche in campo nùlitare, M. "rispecchia il movimento del nostro pensiero e contribuisce non poco a far-

celo intendere"! Sempre riferendoci alla parte militare, lascia ugualmente perplessi anche l'altra affermazione del Pieri che M. "non scoprì nulla": perché, dopo Napoleone e i suoi interpreti Clausewitz e Jomini, che hanno dato vita a due contrapposte scuole di pensiero (Cfr. Voi T, cap. ne TIT), che cosa c'era da scoprire ancora? che cosa è stato, invece, scoperto ancora e da chi, in Italia, in Europa o oltre Atlantico? il professor Bruno Colson delJ' Università di Namur ha di recente pubblicato un libro assai interessante dal titolo significativo La Culture stratégique americaine - l'influence de ]omini, 145 che dimostra appunto l'influenza determinante del barone svizzero sul pensiero militare (anche navale e aeronautico) e sulla prassi strategica americana, dai primi anni del secolo XIX alla guerra del Golfo compresa (Mahan è stato seguace e emulo di .Jomini). E, che dire dell'autentico (ma non sempre giustificato) culto di Clausewitz non solo in Italia e Germania fino al 1945, ma anche nella guerra fredda e fino ai nostri giorni? Nel campo del pensiero strategico, più che mai historia non facit saltus e nihil sub sole novi. Per gli autori è pressochè inevitabile rifarsi alle concezioni precedenti, magari per criticarle; e ciò che sembra "nuovo ", o non lo è affatto o non lo è del tutto. Per questa ragione non sarà mai abbastanza ripetuto che chi opera nel campo del pensiero militare dovrebbe sempre inserire il pensiero di un autore nel contesto del pensiero italiano ed europeo del tempo, e in quello del passato. Se Pieri avesse tenuto presenti queste semplici (anche se assai impegnative, e perciò poco applicate) norme di base, avrebbe condotto in modo più obiettivo la sua critica a M., la quale sembra presupporre che altri prima del Nostro, al suo tempo e dopo, abbiano fatto meglio di lui: il che non è vero. Va rimproverato in particolar modo al Pieri di non aver colto affatto i limiti di Clausewitz proprio alla luce delle guerre del XX secolo alle quali ha pur partecipato o assistito, e di aver troppo esaltato il valore dell'opera del De Cristoforis, della quale pure ha intravisto i difetti e la mancanza di originalità. Non c' è dubbio alcuno che, rispetto al De Cristoforis, M. ha compiuto grandi passi

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Paris, Economica - FEDN I 993.


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avanti e ha fornito un corpus di scritti di ben altro spessore teorico: e allora perché non riconoscerlo? perché "calcare la mano"? perché non prendere atto che ciascun autore, a cominciare da Clausewitz e Jomini, non raggiunge mai appieno i suoi obiettivi, non è mai profeta o non è sempre profeta, enuncia tesi condivisibili o attuali e altre meno, è sempre uomo e uomo del suo tempo e della sua Nazione? La frequente accusa di scarsa originalità indirizzata al M. va perciò ridotta ai suoi autentici termini. Di per sé significa assai poco, visto che - cosa che chissà perché raramente viene fatta - dovrebbe essere indirizzata, per obiettività, anche a tutti i "master" del pensiero militare che oggi vanno per la maggiore: a Mahan emulo di Jomini e come lui cultore del principio della massa, a Douhet che oltre a indicare anch'egli tale principio come fondamentale non è certo stato il primo a scoprire l'utilità di colpire le popolazioni per ottenere effetti morali o il possibile ruolo decisivo dell'aviazione, a Jomini e ali ' Arciduca Carlo emuli di Federico Il e (sotto certi aspetti) di Blilow, allo stesso Clausewitz anticipato in talune parti da Maurizio di Sassonia, d,ù Lloyd e da Nockern de Schorn. 146 È venuto ora il moneto di tirare Je fila di un 'analisi assai complessa e quindi non breve: ma qui si è tentato di cogliere tutte le interfaccia di un'opera che, come quella del M., ha segnato il suo secolo quindi è un riferimento obbligato e costante per chi voglia indagare sul pensiero militare non solo italiano - del periodo considerato. Molto di ciò che v'è da osservare sul M. lo abbiamo già detto nel corso dell'analisi della sua opera, e in particolar modo nella critica alla critica del Pieri; ciò che preme qui rilevare è che né il Canevari né il Pieri sembrano cogliere appieno i limiti fondamentali del pensiero del M., limiti che vanno prima di tutto ricercati nel carattere de1l' uomo, nella sua psicologia, negli orientamenti culturali - anzi, nelle "mode" - del suo tempo. Il tratto saliente del carattere del M. ci sembra un'eccessiva ambizione, accompagnata da una forte dose di passionalità meridiomùe e da una sensibilità acuta. Militare fino in fondo e figlio di militari, M. è un caso unico di ufficiale di alte qualità e di alto intelletto, che voglia primeggiare non solo negli studi attinenti alla sua professione o vocazione e nella carriera - ciò sarebbe abbastanza usuale - ma anche nel campo degli studiartistici e filosofico-storici per così dire, civili. Quel che più importa, in am-

'"' Sull' importanza di Nockern de Schom Cfr. Voi. I, pp. 539-545 Cfr. e inoltre Botti, L'Arte mi-

litare del 2000 (Cit.), pp. 102- 104.


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bedue i campi vuol dichiaratamente raggiungere obiettivi che senza dubbio non ha raggiunto o raggiunto appieno, per La semplice ragione che non potevano essere raggiunti o raggiunti in modo esaustivo, senza essere più soggetti a discussioni; e che, perciò non sono stati raggiunti o raggiunti appieno da nessuno, prima o dopo di Lui. Superfluo ricordare, in proposito, che nessuna filosofia - così come nessuna teoria militare - ha mai "chiuso" definitivamente la materia trattata: Clausewitz, Jomini, Douhet, Mahan ecc. ecc. lo hanno forse fatto? hanno raggiunto !"'assoluto" teorico? Vi è forse qualche filosofo che, dopo M., ha individuato in modo definitivo, e non più discusso, le leggi deJlo sviluppo storico dell'umanità e/o una teoria compiuta deJla guerra? Nel campo militare, va riconosciuto a M. il merito non piccolo di aver scosso il trono sul quale fino a quel momento Jomini regnava incontrastato, facendo conoscere i meriti di Clausewitz ma senza aggiogarsi del tutto, al suo carro, come invece fa Canevari. Sfugge, comunque, al Pieri e al Canevari il limite principale di M., dal quale discendono gli altri (che peraltro - cosa che assai poco fa il Pieri - vanno contestualmente indicati accanto a una precisa configurazione dei pregi): la pretesa di applicare il determinismo storico e i meccanismi hegelia11i aJl' arte militare, assogettandola a un'evoluzione secondo leggi costanti smentita specie dalla storia del XX secolo, evoluzione che porta all'unico risultato di adombrare o contraddire parecchie, valide acquisizioni dello stesso M .. Evoluzione è una parola troppo usata in campo militare anche ai nostri giorni e anche a proposito della strategia e della tattica; essa significa "sviluppo Lento e graduale; svolgimento da una forma a un'altra, generalmente più completa e perfetta" (Dizionario Garzanti). ln altre parole, nel l'evoluzione è insito un concetto di progresso che significa "processo di avanzamento, di sviluppo; perfezionamento, miglioramento": ma tutto questo può essere applicalo al concetto di scienza e arte militare del M:? La risposta - già data da Clausewitz - è negativa: se è arte, essa non può essere soggetta a evoluzioni o involuzioni, come vorrebbe il M.; 147 se è scienza, anche ammessa la sua evoluzione essa si arresta al di fuori del campo di battaglia (come vorrebbe Clausewitz), e non può certo guidare il comandante in capo sul campo di battaglia (come vorrebbero i dottrinari e

147 R. Alberini, Riflessioni sulla ~uerra come arte, in "Rivista Marittima" marzo 1950, pp. 535550. Da notare che l' Alberini critica esplicitamente il Marselli per il suo concetto scientjfico della guerra.


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con loro lo stesso M.). Se, poi, si guarda anche alla realtà attuale, nemmeno il termine progresso può essere applicato ali' arte militare: progresso riferito a che cosa? certo, si potrebbe rispondere: alle armi, ai mezzi e materiali, alla logistica, agli ordinamenti, alla logistica, ma non alla qualità della leadership e ai fattori morali e spirituali, che non necessariamente si evolvono secondo processi lineari; non alla strategia e alla tattica, che riguardano una gamma di possibili e autonome scelte del comandante, in base alla sua preparazione, al suo carattere, all'esame di tutti i fattori (contingenti e variabili) della situazione non solo militare del momento. Nemmeno 1'evoluzione delle tecnologie, delle armi, dei materiali, ecc. segna un progresso certo o almeno è un vantaggio, visto che una disponibilità anche larga di mezzi tecnici (Vietnam, Indocina, Algeria ... ) non assicura di per sé la vittoria, comunque non significa di per sé potenza e efficienza, che vanno sempre rapportate ali' "altro" e ad altri fattori non materiali. Sempre a proposito di progresso, e sempre per poter misurare questo progresso, specie oggi si tratta di stabilire qual'è la miglior strategia e la miglior tattica, argomento sul quale i pareri sono discordi: si tratta di debellare il nemico? di fargli solo paura? di dargli una lezione per indurlo a più miti consigli? di vincere una guerra o di indurlo a trattare? o ancora, l'obiettivo principale diventa quello di limitare o addirittura eliminare le perdite? infine, la miglior strategia in assoluto, il culmine dell'arte militare è sempre quella napoleonica, come ritiene M.? 148 Senza contare che, come oggi avviene, il progresso degli armamenti è accompagnato, in Occidente, da un regresso dello spirito militare e dei valori morali, che sono J'anima degli eserciti. Ha perciò ragione il generale dell'Aeronautica Amedeo Mecozzi, il quale nel 1941 ha scritto - rara avis - che la parola evoluzione potrebbe essere considerata non obielliva, perché presuppone un giudizio di progresso; meglio sarebhe parlare di mutazione. Le mutazioni non sempre sono state volontarie e più genericamente, non dipesero da un vantaggio da conseguire o da un inconveniente da evitare; dipesero dalla diversità politica, geografica, stagionale, eccetera, delle successive situazioni; dipesero dalla disponibilità di

148 La contrapposta strntegia "periferica" (a connotazione navale, aeronavale, economico-finanziaria e industriale) prima inglese, poi anche americana e ora occidentale si è sempre dimostrata - alla lunga - vincente, quindi ha profonde radici storiche (Cfr., in merito, Botti, Rivoluzione o m11tamer1to ? Le fondameflta storiche e teoriche della strategia occider11ale, in " Informazioni della Difesa" n. 3/1999, pp. 8-17).


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mezzi (in ispecie e quantità) e dal tempo che occorre per provvederne di specie diversa e in quantità appropriata; dipesero soprattutto da preconcetti dottrinari che talvolta resistono anche all'insegnamento dei fatti [... ]. Il constatare le mutazioni avvenute è vano studio se non si deducono le mutazioni avvenire possibili e ancor meglio quelle desiderabili: il constatare che una delle parti belligeranti ha attirato una mutazione dell'impiego, non può far indurre che quella mutazione sarà perdurante. Possono essere desiderabili anche mutazioni che alla pura logica dottrinaria non sembrano tali, qualora si adeguino a (logiche o illogiche) mutazioni del nemico. 149

Mecozzi ha doppiamente ragione, anche perché - secondo il limite di fondo - il M. come il Blanch vuol ancorare l'evoluzione dell'istituzione militare e dell'arte militare all'evoluzione della società, rendendola inoltre dipendente dalla politica: ma ancora una volta, quando si parla di politica e di società, più che di evoluzioni o involuzioni lineari e/o "progressi" (in che cosa?) è appropriato parlare, anche in questo campo, di mutamenti niente affatto lineari e dovuti principalmente a fattori imprevisti e imprevedibili, a umane passioni, alla complessità di situazioni che nessuna teoria scientifica o sociologica riesce a interpretare, dominare, prevedere; il determinismo storico oggi non è più sostenibile. Terzo limite: dopo aver tanto insistito sul parallelismi con le leggi evolutive della natura e con le condizioni politico-sociali, di una data epoca e di una data nazione, M. parla di principi fissi, a<;soluti, immutabili, ecc. della strategia, per sua stessa ammissione dominata da elementi variabili come la politica o i fattori sociali. Egli ripete, perciò, la stessa contraddizione di fondo di Clausewitz, che dopo aver stabilito che la guerra proprio perché figlia della politica - è un camaleonte e può assumere le forme più diverse, esamfoa solo la "grande guerra", la guerra di eserciti, indicando come esempio da seguire in ogni caso Napoleone e le sue battaglie decisive, e apertamente disprezzando le guerre limitate. Proprio perché anch'egli vuol limitare il suo esame alla grande guerra, va comunque apprezzato il concetto di fondo del M., che la chiave della vittoria e della sconfitta va ricercata nella Nazione e non solo e non tanto nell'esercito, e che - fatta salva la personalità eccezionale di Napoleone - la stessa leadership militare è un prodotto del sistema politico-sociale:

149 Amedeo Mecozzi, Evoluzione dell'impiego dell'aviazione nell'anno 1941 (Supplemento alla Rivista Aeronautica n. 12/1941), Roma, 1st. Poi. Dello Stato 1941.


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buona se questi è buono, altrimenti cattiva. In questo senso, la tendenza del M. a coniugare gli studi militari e storico- militari con quelli civili e storico-generali ha dato buoni frutti, non essendo ammissibile - come egli dice a ragione - alcuna barriera tra cultura generale e cullura militare, ed essendo interdipendenti l'una daJl' altra. E i contenuti di ciascun principio, sui quali il M. si attira le critiche del Cosenz e del Pieri? Va detto subito che, specie se si parla della "grande guerra", è difficile anche oggi sostenere che non sia di importanza basilare concentrare le forze nel punto decisivo, tagliare le linee di comunicazione del nemico, tendere a separarne le forze, cercare di affrontarne le parti con il tutto ecc.: su questo argomento c'è ben poco da essere originali, perciò le accuse del Pieri e del Cosenz cadono nel vuoto. Peraltro non è cosa trascurabile la sostituzione del più complesso concetto di ''forza" a quello semplicistico di "massa ", che il M. fa per primo e che è apprezzata persino dal Pieri; del Cosenz c' è da dire che contrappone i principi del "suo" Jornini a quelli del M., cosa che non sembra un gran merito o un segno di originalità. Ciascuno studioso, ciascun esercito hanno sempre avuto dei loro principi, più o meno diversi da quelli degli altri, e sempre discutibili; noi non contestiamo al M. il diritto di avere i suoi. Piuttosto il termine "principio" è assai impegnativo, perché significa "ciò che rappresenta il fondamento di un ragionamento, d'una dottrina o di una scienza"; di conseguenza, come abbiamo dimostrato in altra sede 150 tale termine si attaglia solo a una scienza compiuta e con propria autonoma valenza, quale non è mai stata - e non potrà mai essere - quella della guerra. Ne consegue anche che se M., al posto di "principi", avesse più genericamente parlato di "massime", "criteri", ecc., ciò che ha affermato in questo campo sarebbe stato assai più accettabile e - cosa che non guasta - assai più vicino allo spirito delle teorie clausewitziane, senza seguirne gli eccessi. È un fatto indiscutibile che, oggi, il generale sul campo più che principi-guida di validità costante può avere dei riferimenti dottrinali, che spetta a lui stabilire in che misura vanno rispettati alla luce di una realtà sempre complessa e imprevedibile. Ne consegue che, se oggi non si può certamente parlare di principi e leggi nel senso assoluto ad essi attribuito da M. e da molti altri, anche le differenze tra scienza della storia e storia scientifica da lui individuate, così come i loro stessi concetti, hanno perso molto smalto. La storia conserva certamente tutta la sua importanza come base insostituibile per le concezioni strategiche avvenire, come somma di

150

Cfr. Voi. I, sz. I e Il e Rotti, L'Arte militare del 20()() (Cit.), pp. 514-529.


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esperienze e fonte di meditazioni, come patrimonio morale ecc.: ma non è più dominata dalla pratica esigenza di dimostrare la validità di principi, leggi e teorie in precedenza riconosciuti, per poi essere studiata attraverso i.filtri di quest'ultimi. In certa misura capovolgendo quanto afferma in merito il M., oggi si può distinguere tra una storia per così dire di primo momento e/o filologica, mirante ad accertare il più possibile i fatti (e a studiare le idee, la letteratura militare, le dottrine, ecc.) con procedimenti e ausili scientifici (archivi, biblioteche, bibliografie ... ), e una storia nella quale, invece, i fatti sono almeno in prevalenza interpretati, commentati, inquadrati da ciascun storico, secondo la sua sensibilità e i suoi obiettivi. La prima rappresenta la base della seconda, e può dirsi, più che "scientifica" (cioè basala su principi), "descrittiva" o "positiva": la seconda non è altro che una manifestazione artistica, un'interpretazione che anche quando vuol essere obiettiva, è in misura diversa soggettiva. Si può anche dire che la prima alimenta la memoria, il ricordo, mentre la seconda vuol ricostruire, vuol fornire nuove interpretazioni, vuol guardare al presente e al futuro. li filosofo francese Paul Ricoeur ba recentemente toccato questo problema distinguendo tra memoria (che è solo il ricordo vivo e riconosciuto) e storia, che vuol ricostruire, riscrivere, perché quando uno storico vuol scrivere qualcosa su un dato periodo, significa che le opere precedenti non lo soddisfano, significa che ad esse vuol aggiungere qualcosa di suo, che dunque è una manifestazione artistica prima ancor che scientifica. Finora abbiamo parlato dei risvolti non positivi del concetto di arte/scienza militare del M., che è anche il bersaglio principale dei suoi critici: abbiamo cioè parlato di circa 200 pagine dell'opera del M., che è ben più vasta e complessa. Degli altri scritti di interesse politico-militare (non esclusa la restante parte della Guerra e fu sua sloriu) si può dire che vi abbondano gli spunti condivisibili e di interesse, i quali dimostrano che è lo stesso M. a rivelare una rara capacità di smentire le parti meno felici del suo approccio filosofico-storico a tutto ciò che riguarda politica e guerra. Per contro, l'autentica infatuazione che fin dalla giovane età il Nostro dimostra non tanto e non solo per la cultura germanica, ma per la Germania politico-militare, accompagnata da una robusta vena antifrancese, è dovuta alla passionalità, alla propensione per i facili entusiasmi dell'uomo. Si deve ammettere che, nel XX secolo, sia la Germania e 1' Austria che la Francia hanno smentito rispettivamente le tinte troppo rosee e le tinte troppo fosche con le quali le dipinge il M., così come le sue fiduciose attese; è però un fatto che le vittorie prussiane hanno lasciato ammirati gli eserciti di tutta Europa non escluso quello francese, fino a far ritenere le solu-


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zioni prussiane un mode11o per tutti. M. certamente sottovaluta il problema de11'irredentismo e sopravvaluta i sentimenti amichevoli dell'Austria verso l'Italia (e viceversa): ma l'orientamento triplicista della politica italiana a fine secolo XIX ha più di una ragione, e i contrasti di interessi con la Francia nel Mediterraneo sono un fatto oggettivo. Dell'opera militare del M. non riteniamo necessario dire altro, se non che non vi troviamo - nemmeno nei primi scritti - nulla che giustifichi le sue asserite aberrazioni filosofiche, e in particolare (Croce) "l'astratto spiritualismo" e "l'idealismo trascendente" della gioventù, dal quale sarebbe poi passato "al trascendente positivismo" e all "'astratto naturalismo" della maturità. Anzi: gli studi e l'esperienza militare dal 1860 in poi lo hanno costretto a misurarsi - con buoni risultati - con la realtà, fino a far ritenere che, mentre l'influsso delle convinzioni filosofiche sulle sue riflessioni militari è risultato, alla resa dei conti, non sempre posWvo, il meglio dei suoi scritti militari potrebbe essere stato scritto anche senza l'apporto della sua filosofia, che peraltro è stata proficuamente influenzata dal M. militare costringendolo ad abbandonare le idee troppo astratte. Detto questo, non intendiamo certo contestare gli autorevoli giudizi sul M. filosofo, la cui crisi e le cui contraddizioni sono peraltro quelle di molti intellettuali e filosofi del suo tempo: ma anche qui dobbiamo contestare l'assai più benevolo trattamento che riceve il suo maestro hegeliano De Sanctis. Notiamo anche che il giovanile, eccessivo entusiasmo del M. per Hegel non è seguito da un pari entusiasmo per il positivismo; sotto questo aspetto, le sue critiche a Hegel, Spencer e Buckle ci sembrano fondate e a parer nostro ne fanno, più che "un transfuga" dell'hegelismo che approda definitivamente al porto più sicuro del positivismo, un intellettuale tormentato e inquieto che ha la presunzione - e il coraggio - di cercare una propria autonomia, "il giusto mezzo", sia pur con frequenti contraddizioni, senza riuscirci sempre e - naturalmente - portandosi dietro il fardello teorico delle precedenti acquisizioni (cosa inevitabile perché ciascun uomo è sempre ciò che è stato, anche quando vuol "rompere"). Ma insomma, lasciando stare le questioni di fede religiosa, quali sono le certezze che la filosofia del XIX e XX secolo ha raggiunto? 11 bisogno del M., sempre vivamente sentito e intensamente soddisfatto, di misurarsi con il concreto, con il reale, con il sociale e il politico oltre che con il militare, lo ha aiutato a correggere più o meno volutamente i suoi entusiasmi filosofici, le sue tendenze più astrattamente naturalistiche o idealistiche. Ad esempio, non c'è dubbio che specie negli Avvenimenti del 1870-1871 il meccanismo hegeliano de11a conciliazione dei contrari, abbinati all'evoluzionismo naturalistico tipico dei positivisti, lo por-


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tano a giustificare - pur non volendolo fare - il diritto della forza più che la forza del diritto, e a cli mostrare come si deve sempre e in ogni caso premiare il successo, perché chi vince è sempre il migliore e oltre ad essere il più forte, è anche colui che di fronte alla storia ha ragione, che merita insomma di vincere. Approccio filosofico che desta perplessità, prestandosi a giustificare anche ciò che non può essere storicamente giustificato: ad ogni modo in uno scritto inedito pubblicato postumo nel 1902 il M. per così dire corregge il tiro, e anche qui cerca il giusto mezzo criticando il libro La Lotta delle razze del Gumplowitz. 15 1 A suo giudizio la storia non può essere ridotta - come fa lo studioso austriaco - a "prodotto del sordido egoismo, della lotta di razze, animate soltanto dall'interesse e dall'odio"; se la scienza storica dovesse portare alla negazione di ogni sentimento altruistico, di ogni ideale, "sarebbe meglio ucciderla sul nascere". li processo che fa passare gli aggregati sociali dalla eterogeneità alla omogeneità civile, formando le Nazioni, "è osservato dal Gumplowitz in modo esagerato e esclusivo", oltre che troppo generalizzato. Per di più al Gumplowitz sfugge interamente l'altra faccia della realtà storica, che è il successivo passaggio dall 'omogeneo all'eterogeneo, con il processo di differenziazione e cli divisione dal lavoro nel seno di una medesima classe e di un medesimo popolo, fenomeno dovuto alJ'accreseimento della civiltà e non aU' eterogeneità etnica. La storia per i1 M. non è la progressiva diminuizione dell'eterogeneo; si deve invece "sperare " che "la civiltà riesca in gran parte a fare quello che sinora ha fatto la guerra, cioè ad avvicinare le nazioni e le classi, per amalgamarle in agglomerazioni più vaste, più pacifiche, meno altruistiche". Non si tratta quindi cli eliminare le diversità, ma di "entrare in una fase di relazioni meno dissonanti, in una fase nella quale l'unità umana si ajj'ermi, senzu distruggerla, sulla varietà delle nazioni, delle classi, delle professioni". Questo potrà essere ottenuto con una graduale evoluzione, non "con la signoria della forza brutale, né con quella del livellamento, che ricondurrebbe {l 'umanità] alla prima fase del suo sviluppo". Facciamo nostra questa speranza del M., anche perché rivela unaricerca del gradualismo, del giusto mezzo che è tipica dell'uomo e lo aiuta a superare i suoi stessi entusiasmi, così come i trabocchetti filosofici e teorici. Una ricerca del giusto mezzo che vale anche per la valutazione de] pe'" La Lolla delle razze del Gumplowitz - studin c riticn di Nicola Marselli (inedito), a cura del col. L. Amadasi, in " Rivista Militare Italiana,. Anno XLVTT. Voi. II Disp. IV - I 6 aprile I 902, pp. 561 -

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so dei fattori morali, ed è tale da smentire quanto afferma il Bonamico, secondo il quale "il principio di Buckle, nazionalizzato fra noi dal Marselli e dai filosofi positivisti, ha scalzato le basi della morale, attribuendo alla intellettualità anche se immorale, la principalissima anche se non esclusiva ragione della civiltà e del progresso"_ 152 Senza considerare numerose altre parti degli scritti del M_, La Vita del reggimento basta a smentire, di fatto e sul piano generale, questa affermazione_ Anche sull'arte/scienza militare, nel 1876 a conclusione delle riflessioni sulla Guerra reale M. scrive che, così come le moderne scienze sociali hanno superato il semplicismo materialistico del celebre economista Adam Smith, dopo che i creatori [della scienza della guerra] scomposero la realtà per elevarsi a una teoria, in cui l'attenzione era principalmente fissata attorno à rapporti aritmetici o geometrici, è necessario che una scienza più larga sorga ad abbracciare altri rapporti che con quelli costituiscono la vita complessa della guerra reale. Per ora questa scienza non può essere che storica, perché nel positivismo dei fatti deve attingere l'alimento e la forza per elevarsi alle idee generali. 153

La complessità del reale politico, sociale ed economico - quindi anche militare e strategico - è il lato saliente della nostra epoca. Ragione di più per non accusare il M . di piatto positivismo o sterile astrattismo e per ribadire che, come tutti gli autori militari, anche i più celebri, egli presenta luci e ombre. Nel suo caso, le luci sovrastano di gran lunga le ombre: è tutto. Rifacendoci alla citata frase del M., non abbiamo perciò inteso né "impiccarlo", né "salvarlo", ma solo rispettare la restante parte della stessa frase: "l'essenziale [di uno scritto, così come dell'intera opera di un autore - N.d.a.J si rivela nella tendenza generale che lo ispira, negli abili mentali che crea".

152 153

Domenico Bonamico, Scritti .ml potere marittimo (Cit.), p. 540. Marselli, La Teoria della guerra reale applicata alle campagne del 1796- 1797 (Cit.), p. 102.


CAPITOLO IV

LA MULTIFORME OPERA DI GIUSEPPE PERRUCCHETII: HA IDEATO PER PRIMO (O FONDATO) GLI ALPINI?

Reparti permanenti, buone truppe, una numerosa cavalleria, vecchi Renerali prudenti e calmi convengono a un paese aperto; milizie, forze insurrezionali, corpi franchi, capi giovani e indipendenti convengono alle montagne, ai passi e ai terreni boscosi.

CLAUSEWITZ Generalità

Meglio dirlo subito: il generale Giuseppe Perrucchetti (1839-1916; d'ora in poi P.) è l'unico scrittore militare italiano che tuttora gode di una certa notorietà anche presso i "non addetti ai lavori'', per una ragione molto semplice: viene generalmente presentato (dagli storici, dalla copiosissima storiografia alpina, dall'Associazione Naziona1e Alpini) come "l'ideatore", "il padre", "il fondatore" degli alpini. Va detto subito che in sede storica questo merito che lo ha reso così popolare deve essere nettamente ridimensionato. Ve ne sono invece diversi altri da riscoprire per collocare il Nostro nel posto di grande rilievo che gli compete nel pensiero militare italiano, sotto molteplici profili: come studioso e insegnante di geografia militare, come membro di qucll' élite di studiosi - alla quale appartengono nomi come il Ricci, il Marselli, il Bonamico - che affrontano in un 'ottica interforze il problema della difesa nazionale, come autorevole pubblicista che commenta l'attualità militare su primari organi di stampa, come Segretario di Comitati di generali e della Commissione d'inchiesta sull'esercito. Non gli si renderebbe certo giustizia ricordandolo come semplice protagonista del1a storia degli alpini: eppure gli studi finora comparsi su quest'uomo notevole, dopo averlo immancabilmente lodato per questo, poco o nulla si curano di prendere in esame la sua restante attività, limitandosi - nel migliore dei casi - ad affrettate sintesi. La lunga serie è aper-


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ta nel 1906 dal colonnello Lodovico Cisotti, che definisce il suo celebre articolo sulla Rivista Militare del maggio 1872 "studio interessantissimo, e sotto nuovi punti di vista in quel tempo, dal quale è provato che il P. fu il primo in Italia a manifestare l'idea dell'istituzione di battaglioni e compagnie alpine, dimostrando i vantaggi di un ordinamento militare territoriale della zona alpina, e fa cendovi seguire le relative proposte". 1 Nessuno dei suoi scritti successivi sulla Rivista Militare - che pure sono numerosi e importanti - viene ritenuto dal Cisotti meritevole di così ampio commento. Prevedibilmente il capitano Giuseppe Sticca, anch'egli alpino e con lui in cordiali rapporti di amicizia, nel 1912 gli dedica una pagina di elogi nella s ua opera sugli scrittori militari italiani, includendolo tra gli scrittori contemporanei di geografia militare e topografia e affermando che a lui si deve la creazione degli alpini.2 Lo stesso Sticca commemorandolo sulla Rivista Militare del 1917 lo chiama "Il Lamarmora degli alpini", attribuendo grande portata innovatrice al predetto scritto del 1872:3 in tal modo, il ricordo agiografico dello Stici.:a t: diventalo una sorta di testo ufficiale, al quale hanno fatto ampio e acritico riferimento gli scrittori alpini successivi, fino ai nostri giorni. Nel 1917 il patriota trentino Ottone Brentari lo ha commemorato a Milano, con una conferenza dal titolo significativo "Il tenente generale Perrucchetti fondatore delle milizie alpine" pubblicata nel 1918,4 che è un altro costante riferimento per gli studi successivi e sia pur troppo brevemente si sofferma anche sui contenuti delle sue principali opere. Dieci anni dopo il colonnello Cesare Cesari pur dedicandogli solo quattro pagine e pur accettando l'appellativo di "Lamarmora degli alpini" fornisce alcuni particolari utili per un primo inquadramento della sua proposta, che pur definisce (a torto) " il suo merito principale": il P., allora capitano di S.M. incaricalo di fare delle ricognizioni sulle Alpi e di studiare il nostro confine in relazione alle condizioni topografiche d 'oltre frontiera, iniziava la sua preparazione scientifica, compilando alcune monografie sull'Engadina, sui passi dello Spluga e dello

1

Lodovico Cisotti, Cinquantesimo anniversario della Rivista Militare Italiana, Roma, Voghera 1906, p. 98. 2 Giuseppe Sticca, Op. cit., pp. 3 19-320. 3 Giuseppe Sticca, Il Lamannora degli alpini - in memoria del generale sen. Giuseppe J>errucchetti, in "Rivista Militare Italiana" Anno LXl - dicembre 1916, pp. 1500- 1509. 4 Milano - Roma - Napoli, Soc. Ed. Dante Alighieri 191 8.


IV - LA MUL:fll'ORME OPERA DI GIUSEPPE PERRUCCHE'ITI

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Stelvio, sulle Alpi Carniche e Retiche, sulla Pontebba, sul Predii, sulla via d'Alemagna, che sono preziosissimi elementi di chiarezza espositiva e di considerazioni militari. E accompagnava queste sue relazioni, che si conservano in originale all'Ufficio Storico dello Stato Maggiore, con altre monografie sussidiarie di carattere tattico [---1- Difronte alle condizioni in cui trovava.si allora la nostra frontiera ed alla necessità di dover ricorrere ad una eventuale radunata del nostro Esercito in zane lontane di confine, le discussioni dei tecnici si orientavano quindi sulla opportunità di costruire intorno a Bologna un grande campo trincerato e di provvedere nei primi giorni della mobilitazione, con un velo di copertura sulle Alpi, costituito da "battaglioni provinciali". 5

Negli anni Trenta sia l'Enciclopedia Militare che l'Enciclopedia ltaliana6 gli attribuiscono il merito di aver creato gli alpini; in particolare il generale Antonio Baldini, compilatore della voce a lui dedicata sull'Enciclopedia Italiana, afferma che "il Perrucchetti è per gli alpini ciò che è La Marmora per i bersaglieri" e attribuisce al Ministro Ricotti il merito di aver accolto la proposta del p__ 7 Una prima revisione storica del ruolo del P. compare solo nel 1980, quando il tcn. coL Franzosi pubblica su Storia Illustrata un articolo nel quale vuol dimostrare che il colonnello Agostino Ricci ha ideato e proposto prima del p_ l'istituzione di truppe alpine,8 riconoscendo al Ministro Ricotti il merito di esserne l'effettivo fondatore_ Tesi da lui ribadita nel 1985 in due successivi articoli sulla Rivista Militare, ai quali nel 1990 ne ha fatto seguito un altro di Virgilio Ilari.9 Non è finita; nel 1981 su Storia Illustrata compare una lettera del generale degli alpini Aldo Rasero, •0 il quale afferma che "poiché Perrucchetti fu allievo del Ricci alla Scuola di Guerra, è Lecito supporre che l'idea di Perrucchelli abbia preso lo !,punto dal prugettu del suo maestro"_ Mette

' Cesare Cesari, Giu.reppe Perrucchetti, in "Bollettino dell 'Ufficio Storico" I settembre 1927, pp. 382-385. • Enciclopedia Militare, VI , I S e Enciclopedia Italiana, XXVI, 795. 7 ivi, XXIX, 278. 8 Pier Giorgio Franzosi. Chi fu il vero padre degli alpini? Inchiesta polemica di un alto ufficiale del corpo - contestala una "verità" codificata da oltre un secolo: 11011 sarehbe Perrucchetti l'ideatore delle truppe da rrw11tagna, in "Storia Illustrata" n. 277 - dicembre 1980, pp. 70-78. • Pier Giorgio Franzosi, le origini delle Truppe Alpine. in "Rivista Militare" n. 2/1985, pp. 99110; ID., L'ideatore delle Truppe Alpine, in "Rivista Militare" n. 3/1985, pp. 112-12 1; Virgilio Ilari, Giuseppe Domenico Perrucchetti e l'origine delle Truppe alpine, in " Rivista Militare" n. 3/1990, pp. 116-121. Si veda anche, di quest' ultimo autore, Storia del servizio militare Ìlt Italia - Voi. II (18711918), Roma. CEMISS - Rivista Militare 1990, pp. 243-248. 10 Aldo Rasero. // vero padre degli alpini, in "Storia Illustrata" n. 280 - marzo 1981 , p. 21.


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tuttavia in rilievo che tale idea è stata sviluppata dal P. fino a giungere a conclusioni assai diverse da quelle del Ricci: infatti "mentre Ricci propose di 'mandare' nelle vallate alpine una fanteria speciale, Perrucchetti propose di 'mandare' nelle vallate alpine i centri di mobilitazione destinati a mobilitare, inquadrare e armare i valligiani rendendoli immediatamente pronti per l'impiego senza perdite di tempo". Nella sostanza il Rasero non nega che il Ricci abbia preceduto il P. nell'idea delle truppe alpine: ciononostante quattro anni dopo, nel 1985, pubblica uno studio (il più ampio che finora si conosca sul Nostro) 11 nel quale dice assai poco di nuovo rispetto a quanto affermato nel 1918 dal Brentari, riprendendone alla lettera molte considerazioni senza mai citare il Ricci e ricordando che la sua proposta "a quei tempi era considerata esageratamente innovatrice, anzi rivoluzionaria" (sic.). Da11'excursus compiuto emergono tre limiti fondamentali degli scritti sul P., in buona parte riscontrabili anche in quelli sul Marselli: un'eccessiva tendenza all'elogio con frasi fatte e rifritte; il mancato, incompleto o troppo sommario esame dell'intera opera dell'autore; soprattutto il mancato inserimento del suo pensiero - a cominciare daJla proposta sugli alpini - nel contesto del pensiero militare antecedente e coevo. La strada migliore da seguire per evitare i relativi inconvenienti è perciò quella - non breve - di sempre, basata sull'esame comparativo del materiale disponibile. Ciò premesso, richiamandoci anche a nostri precedenti scritti che dissentono dalle tesi del Franzosi 12 iniziamo l'analisi dal notissimo articolo del 1872 sugli alpini, con il quale il P. esordisce su11a scena della pubblicistica militare, che abbandonerà solo con la morte, in tarda età. Un articolo importante non solo per la questione delle truppe alpine, ma anche perché vi si trovano in germe molte idee, che poi saranno sviluppate in forma più organica nelle opere successive.

11 Aldo Rasero, Giuseppe Domenico Perruccheui, in "Studi Storico - Militari 1984", Roma, SME - Uf. Storico 1995, pp. 477-518. 12 Ferruccio Botti, le vere origini degli alpini, in "Panorama Difesa" n. 139 - gennaio 1997, PP60--66; ID., Che piaccia u 110 siamo figli dei bersaglieri: fu proprio Perrucchetti l 'i11ve11ture delle penne nere? in "L'Alpino" settembre 1997; ID., Chi hapmpo.tto di creare Kli alpini? in "Genova Alpina" settembre-dicembre 1999; ID., lettere all' "Alpino" (novembre 1997 e ottobre 2000); ID., lettera a "Panorama Difesa" n. 144 - giugno 1997 (che replica a una lettera del Franwsi su "Panorama Difesa" n. 141- marzo 1997, nella quale si critica il citato articolo del gennaio 1997).


IV - LA MUL:rll'ORME OPERA DI GIUSEPPE PERRUCCIIE1TI

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SEZIONE I -Dai bersaglieri (1836) agli alpini (1872): perché? Il vero ruolo del Perrucchetti Cenni sulla vita e sulla carriera militare Come sempre accade, l'opera del Perruccbetti non può essere scissa dalle principali tappe della sua vita e carriera militare. 13 Lombardo di Cassano d' Adda e proveniente da una famiglia di patrioti garibaldini, a fine 1857 si iscrive ai corsi di matematica dell'Università di Pavia, acquisendo una preparazione scientifica che sarà preziosa nei successivi studi di geografia militare. Nel 1859, a vent'anni, fugge dalla Lombardia ancora sotto il domfoio austriaco e si rifugia in Piemonte, dove il 3 aprile 1860 viene ammesso al corso suppletivo dell'Accademia Militare di fanteria di Ivrea. Promosso sottotenente il 6 marzo 1861, è assegnato al 24° reggimento fanteria; subito dopo supera gli esami di geodesia teorica e di disegno. Tenente nel giugno 1864, frequenta la "Scuola di Applicazione di Stato MaF?giore" di Torino (preesistente alla Scuola di Guerra), dove è ,ùlievo dell'allora capitano Agostino Ricci (del quale afferma di "ricordare sempre con gratitudine gli ammaestramenti " neJla sua fondamentale opera del 1884 La difesa dello Stato - p. 143). Nel 1866 è inviato in Sicilia per lavori di topografia; richiamato in alta Italia allo scoppio della guerra, partecipa come ufficiale di Stato Maggiore alla battaglia di Custoza, dove è decorato di medaglia d'argento. Capitano di Stato Maggiore nell'agosto 1866, inizia segrete e pericolose ricognizioni al di là del confine con I' Austria, nel corso delle quali viene arrestato dalla gendarmeria austriaca nei pressi di Bressanone, rimanendo in prigione per tre settimane. Rientrato in Italia, il 27 ottobre 1867 è nominato facente funzione di Capo di Stato Maggiore de lla divisione militare di Milano. L' 11 dicembre 1867 è trasferito alla divisione di Bologna e l' 11 febbraio 1868 a quella di Verona, dove rimane come Capo di Stato Maggiore fino all'aprile 1872, quando è trasferito alla Scuola di Guerra di Torino come insegnante di geografia militare, succedendo in questo incarico allora prestigioso a un altro nome famoso come il Sironi (vds il prossimo cap. VTTT). Mantiene lo stesso incarico fino all' agosto 1877, quando è promosso maggiore e destinato a comandare un battaglione del 71 ° fanteria. Nel marzo 1879, al termine del periodo di comando, è trasferito al Ministero della guerra quale addetto al-

13

SME.

Dati tratti soprattutto dal citato studio del Rasero e dalla biografia fornita da Ufficio Storico


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l'Ufficio Permanente del Comitato di Stato Maggiore Generale composto dalle più alte cariche dell'esercito, con l'incarico di redigere - tra l'altro i verbali delle riunioni. Nel luglio 1880 è riassegnato alla Scuola di Guerra riprendendo l'insegnamento di geografia militare, che mantiene fino al 1885 anche dopo la promozione a tenente colonnello. Nel 1882 svolge anche l'incarico di relatore della 2• Commissione per la difesa dello Stato istituita nello stesso anno_ Nel 1885 è nominato vice-istitutore del Principe Emanuele Filiberto di Savoia - Aosta, futuro comandante della 3" armata nel 1915-19 J 8_ Da allora in poi la sua carriera procede secondo I' iter classico: colonnello comandante del 61 ° fanteria nel 1990 e generale comandante della Brigata di fanteria "Reggio" nel 1895, nel 1900 è promosso tenente generale. Collocato in ausiliaria per limiti d'età nel 1907, da tale anno tino al 1910 ricopre l'incarico di Segretario della Commissione d'Inchiesta per l'esercito in sostituzione del generale Baldissera dimissionario. Come eminente tecnico in un organismo parlamentare, svolge in tale incarico un ruolo-chiave testimoniato anche dallo Sticca, secondo il quale "all'impresa ricca di buone intenzioni, seppure naufragò in un ammasso di carta stampata, diede tutto sé stesso". Nel 1912 viene nominato senatore e nel I913 presidente dell'Associazione "Pro-Esercito", incarico mantenuto fino alla morte che avviene il 3 ottobre 1916, lasciandogli così il tempo di indicare con perspicacia le ragioni del fa1limento del!' offensiva austriaca di primavera nel Trentino (Strafe-Expedition). Il periodo delle prolungate ricognizioni su tutto il confine alpino (18671871) e quello dell'insegnamento sono fondamentali nella vita e nell'opera de P., che da essi trae spunto per gli scritti di maggior peso, tutti pubblicati nel periodo 1872-1884. Importanti anche, per le riflessioni dell'inizio del secolo, le sue esperienze di relatore di parecchie Commissioni di ufficiali di alto grado e/o di parlamentari che hanno trattato i prindpali problemi della difesa: ne ha dato testimonianza egli stesso negli ultimi scritti. 14

Perrucchetti non è stato anticipato dal Ricci: circostanze nelle quali avviene la pubblicazione delle sue proposte e altri precursori L'articolo del maggio 1872 è solo un primo frutto delle ricognizioni di confine del Nostro. La sua effettiva portata innovatrice è stata finora mal definita, anche perché si è poco studiato il pensiero militare antecedente.

14

Giuseppe Perrucchetti, Questioni militari d'attualità, Torino, Laltes 1910, pp. 30-3 1, 35 e I 01.


IV LA MULTIFORME OPERA DI "cc 'lU =S=P.P '-'-P=f, ~PE= : R=RU=CC ='=H=t~ ll_,__· 1 - - - - -- - ~ 37=3

Va approfondito a cominciare dal lungo titolo, generalmente ripreso solo in parte: "Sulla difesa di alcuni valichi alpini e l'ordinamento militare territoriale della zona di frontiera alpina - considerazioni sulla difesa di alcuni valichi della frontiera verso Austria e Svizzera, non compresi nelle proposte di sbarramento fatte nel PIANO RIDOITO dalla Commissione per la difesa generale dello Stato e PROPOSTA di un ordinamento militare territoriale per la difesa della zona alpina". 15 Sulle circostanze nelle quali nasce l'articolo è bene lasciare la parola allo stesso P., che lo ha opportunamente ricordato nel 1915: la situazione finanziaria aveva indotto il governo in quel momento a rimandare ad altra epoca gli sbarramenti nella regione ad oriente del Piave, sulla frontiera verso l'Austria, e quelli di tutta la.frontiera elvetica [... ]. Preoccupato dai pericoli minacciati da tali deficienze, e profondamente convinto della loro gravità, in seguito a ricognizioni compiute in tutta la zana alpina dal 1867 al 1871, presentai nel Jìnire del 1871 alle superiori autorità militari una memoria su quei pericoli, aggiungendo La proposta di prevenirli con l'ordinamento territoriale di un vera leva in rru.,s.m di genti delle Alpi pronte a mobilitarsi su la frontiera e ad operare attraverso ad esse. Il pensiero di profittare delle tradizioni guerresche delle nostre valorose genti delle Alpi [...] aveva xià trovato parecchi fautori presso gli studiosi di cose militari. il colonnello Ricci aveva ideato di utilizzare almeno, come in altri tempi, le così dette milizie provinciali delle Valli alpine. 1 xenerali Bava-Beccaris, Massari e Martini avevano caldeggiato l'idea di qualche miglior preparazione nelle Alpi delle forze locali. 16

Con queste parole, il P. già riconosce che l 'idea non è stata solo la sua, e/o dei suoi superiori. Ad esse aggiunge che la scarsità di risorse e la sua situazione parlamentare non consentivano di risolvere il problema a fondo, con una nuova legge che prevedesse - come già era stato fatto in Austria - speciali norme di reclutamento per le popolazioni alpine. Di qui la sua proposta che, "contenendo il germe di una completa istituzione", intendeva suggerire provvedimenti "attuabili subito, coi pochi mezzi disponibili e senza perdere tempo in discussioni parlamentari", cosa che poteva

15

"Rivista Militare Italiana" Anno XVII - Voi. li maggio 1872, pp. 185-218. Porta la data "dicembre 1871 ". Ristampato (con lievi modifiche e l' aggiunta di alcune note) in appendice alla 3' Edizione del Tirolo - Saggio di geografia militare ( 1874), Torino, Roux e Favale 188 1. 16 Perrucchetti, I nostri soldati alpini, in "La leuura" Anno XV - n. 7 luglio 1915.


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essere fatta sfruttando a fondo le possibilità già offerte dalle proposte di legge sul nuovo ordinamento dell'esercito studiate dall'allora Ministro Ricotti e già in via di attuazione, specie per quanto riguarda il già previsto aumento dei distretti militari, l'estensione dei loro compiti alla mobilitazione, la costituzione di compagnie distrettuali permanenti. A questo punto, bisogna considerare che da sempre un ufficiale di Stato maggiore compie ricognizioni solo su ordine dei suoi superiori e per un dato scopo, presentando poi per via gerarchica una memoria con le relative considerazioni e proposte. Nel caso specifico, l'estensione delle ricognizioni all'intero arco alpino e a zone di oltre confine porta a dedurne che l'ordine di compierle non poteva che venire dal Ministero e/o dal Comando del Corpo di Stato Maggiore di Roma, per legge responsabili dei problemi della difesa dello Stato. Un sia pur importante Comando periferico come quello di Verona non avrebbe certo potuto assumersi - da solo - la responsabilità di inviare un ufficiale a riconoscere anche zone al di là dei confini con pericolo di complicazioni internazionali, oppure zone comunque al di fuori della sua giurisdizione; né il Comando di Verona avrebbe potuto essere l'unico a preoccuparsi della difesa dei valichi di frontiera che l' apposita Commissione per la Difesa dello Stato nel "piano ridotto " non aveva ritenuto possibile fortificare, per scarsità di risorse. Fin d'ora, pertanto, si può affermare che il P. non ha mai agito o scritto di sua iniziativa né ha avuto, come invece afferma il Rasero, un' idea nuova e "rivoluzionaria", visto anche che - come riconosce lo stesso Rasero - egli era un profondo conoscitore della storia delle milizie romane di confine e delle gesta dei montanari nel Risorgimento. 17 Né ha presentato ai superiori alcun documento di sua iniziativa: ha solo sintetizzato i risultati delle sue ricognizioni, con le conseguenti proposte, in una memoria presentata a fine 1871, seguendo la normale via gerarchica, al Comandante del Corpo di Stato Maggiore generale Parodi e al Ministro generale Ricotti, i quali già condividevano, di massima, l'idea di difendere le Alpi ricorrendo alle popolazioni locali .

17 Si veda, in particolare, l'articolo del Pe rrucchetti (non citato dal Rasero) dal titolo Le milizie alpi11e del/'a11tica Roma, in "Corriere della Sera" 2 gennaio 1915 (ristampato sull' "Alpino" giugno

2000). Va inoltre ricordato che nella guerra del 1866 è stata costituita alle dipendenze di Garibaldi una legione di volontari "Bersaglieri delle Alpi" al comando del colonnello dei bersaglieri Guicciardi, con il compito di difendere l'alta Valtellina. Era reclutata tra i montanari di quest'ultima valle e della Valcamonica e può dirsi progenitrice delle future brigate alpine, visto che era composta da due battaglioni volontari (Breno e Sondrio), più un'aliquota di artiglieria in prevalenza da moritag11a, Carabinieri, tiratori di Chiavenna ecc. (Cfr. La campagr,a del 1866 i11 Italia redatta dalla sezione Storica del Corpo di SM, a cura di Carlo Corsi, Roma, Voghera 1875, Tomo I pp. 69-70).


IV - LA MULTIFORME OPERA DI GIUS=E"-' PP~E~P= F.R=R=UC=:C=H=El ~-~ n_

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Particolare interessante, oltre ad essere pubblicato sulla Rivista Militare per esplicito ordine del Ministro, l'articolo del maggio 1872 non è una sintesi della memoria, ma solo la sua "parte non riservata": lo ha scritto lo stesso P.. 18 Purtroppo pur essendo un documento di importanza fondamentale, la memoria completa è andata perduta; essa va comunque concepita come uno studio di fattibilità come sono soliti fare gli ufficiali di Stato Maggiore, lenendo presente che, come riferisce anche il Cesari, l'jdea già circolava nel Comandi. Se ne può anche dedurre che la sua parziale pubblicazione non intendeva promuovere un dibattito (che non c'è stato) e nemmeno gettare un sasso ne11o stagno, ma solo informare i Quadri di quanto si stava preparando e indicarne le ragioni, onde dissipare dubbi e perplessità che certamente sarebbero sorti, sia a proposito del reclutamento territoriale (qui presentato come un'eccezione) che sulla convenienza di costituire una nuova specialità distinta dai bersaglieri. Ha quindi ragione Virgilio Ilari quando giudica "insostenibile" la diffusa tesi che attribuisce senz'altro al Parrucchetti il merito di aver proposto per primo l'istituzione di una nuova specialità alpina e quindi anche l'altra ben nota tesi che in pochissimi mesi sarebbe riuscito a convincere il Ministro Ricotti a dare vita, sia pure in embrione e "di strafo ro", a una nuova specialità. In realtà, come ricorda Ilari, già nel gennaio /872 Ricotti aveva presentato tre progetti di legge sull'ordinamento dell'esercito, uno dei quali prevedeva l'aumento di nove del numero di distretti militari, evidentemente allo scopo di istituirne di nuovi alla frontiera alpina, con le relative compagnie distrettuali. Ma c'è di più: la giunta parlamentare per l'esame dei progetti, di cui facevano parte, oltre ai ,:enerali Bertolé Viale e Cosenz, anche due sostenitori di Ricotti come Corte e Fanin, propose, tra le altre modifiche, anche di radunare i soldati della milizia provinciale dei distretti alpini, istituita nel 1871, in "corpi speciali di tiratori" a reclutamento locale. Le proposte del Perrucchetti giunsero a un Ministro già pienamente convinto, e probabilmente con le idee in argomento assai più chiare di quelle del giovane capitano [...]. La decisione era già presa, se appena quattro mesi e mez.zo dopo la pubblicazione dell'articolo e senza aspettare l'approvazione parlamentare dei progetti di legge in discussione, Ricotti provvide a istituire le compagnie distrettuali [che erano 40 - N.d.a. I, di cui 15 alpine. 19

'"CTr. la breve premessa alla citata 3' Ed. 1881 de l 'limlo e Questioni militari di attualità (Cit.), p. 1O1. ilari, G.D. Perrucchelli ... (Cit.), pp. 11 7- 118.

19


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO· VOL. lll (1870--1915) · TOMO I

Non casualmente il Ricotti era un profondo conoscitore e appassionato delle Alpi, tanto che nel 1864 con Quintino Sella aveva fatto parte del ristretto gruppo di appassionati e studiosi che aveva fondato il Club Alpino Italiano: anche (ma non solo) per questo, a quanto afferma Ilari si può dunque aggiungere che il vero ''fondatore ", "creatore", "padre" ecc. degli alpini è stato il Ministro generale Cesare Ricotti Magnani. Padre è solo colui che crea: non chi propone, per di più su input dei superiori. Sempre per definire meglio la qualità del lavoro del P. e l'effettiva portata innovatrice del suo articolo, è bene esaminare ora che cosa esattamente è stato fatto, studiato e proposto prima di lui in merito alla guerra sulle Alpi. Negli articoli citati il Franzosi critica più volte il difensivismo "rinunciatario" del concetto di difesa dei confini ufficialmente in auge nel 1872, basato non sulla difesa ad oltranza della fascia alpina ma sul contrattacco delle penetrazioni nemiche allo sbocco delle valli alpine nell'alta pianura padana da parte del nostro esercito mobilitato, che avrebbe così potuto opporre la propria massa alle frazioni nemiche al loro sbocco in piano, cioè nel momento di massima crisi per 1' attaccante. Qui va osservato che il problema non era teorico, ma pratico: anche se in linea generale l'offensiva è più conveniente della difensiva, non basta volerla o sancirla in una dottrina, bisogna essere effettivamente in grado di condurla con forze e mezzi sufficienti e terreno favorevole; lo stesso si può dire per la difesa avanzata, che al tempo richiedeva, tra l'altro, un buon sistema di fortificazioni. Ebbene, intorno al 1872 l'esercito italiano sicuramente non aveva forze sufficienti né per condurre offensive oltre confine contro due eserciti assai più potenti come quello francese e quello austriaco, né per difendere con probabilità di successo (cioè con le dovute riserve e l'appoggio di buone fortificazioni, allora semplicemente inesistenti o insufficienti) l'intera fascia alpina, comprese le provenienze dalla Svizzera. Con questi rapporti di fori;e, la strategia ufficiale del tempo era obbligala, perché da sempre - e inevitabilmente - era tipica di chi deve difendere un'estesa fronte montana con poche forze. Del resto, sia Clausewitz (Voi. Il, cap. Xl) sia Marselli (vds. precedente cap. lll) hanno escluso la convenienza di condurre grandi operazioni in terreno montano; e come ha ricordato Riccardo Ceroni nel 1856, prima di loro Machiavelli ha dimostrato la non convenienza di disperdere le forze nella difesa di tutti i passi di un settore montano, indicando invece l'opportunità di concentrarle, per affrontare il nemico ai piedi del rilievo. 20 20 Riccardo Ceroni, Intorno ad alcuni manoscritti militari degli austriaci, in "Rivista Militare" Anno I· Voi. I 1856, pp. 216-245.


IV - LA MULTlr-ORME OPERA DI GIUSEPPE PERRUCCI IETT1

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Quel che più importa, i duchi di Savoia, costretti specie nei secoli XVIl e xvm ad affrontare con poche forze eserciti francesi assai superiori, hanno adottato l'unica strategia possibile, nella quale era già ben presente il germe della formula iniziale delle future truppe alpine: concentrare l'esercito permanente a lunga ferma (solo poche migliaia di uomini) in posizione centrale ai piedi delle Alpi, con il compito di intervenire a ragion veduta nei settori più minacciati; logorare, ritardare, controllare le penetrazioni nemiche nelle valli (e/o colpirle alle spalle con operazioni di guerriglia) ricorrendo a milizie reclutate localmente, che oltre a presidiare le poche fortezze avevano anche il compito di fornire informazioni sul nemico_21 Per questo, secondo l'Enciclopedia Militare, già il duca di Savoia Vittorio Amedeo Il (1665-1732) "adoperò i montanari con leva in massa, che può considerarsi come una milizia alpina".22 L' exemplum historicum che pesa di più nella seconda metà del secolo XTX è però la guerra tra l'esercito francese e gli austro-piemontesi sulle Alpi Occidentali nel 1793-1796, risolta da Napoleone dopo anni di stasi con una rapida offensiva della massa del suo esercito contro il tratto vitale delle posizioni avversarie, in tal modo riuscendo ad aver ragione delle forze austro-piemontesi disseminate "a cordone" per difendere tutto, quindi incapaci di rapide contromanovre e oltre tutto con difformi obiettivi strategici. Dal punto di vista teorico, i precedenti e le proposte più probanti già si trovano nella letteratura militare delle guerre del Risorgimento fino al 1871 (Voi. il - cap. Xl). Riassumendo: - Felice Orsini (1852) scrive che il terreno italiano e le doti delle popolazioni montanare consigliano di "rivolgere le cure maggiori all'istituzione di un corpo considerevole di bersaglieri, una parte dei quali avrebbe ad essere organizzata a modo dei carabinieri della Svizzera" ; 23 - i fratelli Mezzacapo ( 1856-1859) indicano l'importanza delle milizie per le operazioni in terreni rotti e accidentati a cominciare dalla difesa delle Alpi, impiegando l'esercito permanente solo "nei luoghi

21 Si veda. in merito. r.v.r.. Notizie storiche sulle milizie alpine. in "Le Forze Armate" n. 674 - 5 ottobre 1932 e Cecilio Fabris, La difesa alpina e i principi di Casa Sa voia nel XVJ/1 secolo, in "Rivista Militare Italiana" Anno XLI, Voi. Ill Disp. XX.Il - I novembre 1896, pp. 1933 - 1978. 22 Encicloped ia Mi/ilare, VI, 1456. 23 Qui " Carabinieri" non va inteso nel significato attuale, ma come milizie a reclutamento locale composte da tiratori scelti armati di carabine.


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aperti e più importanti". 24 In particolare j forti che sbarrano alcune valli piemontesi dovrebbero "servire di appoggio alle mjlizie alpigiane", mentre per difendere il Tirolo italiano occorrerebbe "un forte ordinamento di milizie [locali] che ritempri l'animo e le forze delle popolazioni italiane"; - ancor più esplicitamente, nel 1860 il capitano Asti ritiene necessario difendere le Alpi Occidentali "con piccole fortificazioni le quali chiudessero i passi accessibili alle artiglierie, ed inoltre organizzando in compagnie di carabinieri territoriali gli abitanti delle vallate, uomini arditi, robusti, conoscitori di ogni sentiero, ed ai quali non mancano che buoni ordinamenti per essere i più sicuri avamposti della nazione". Tuttavia proprio nel periodo 1868-1871 due autori meritano la qualifica di precursori degli alpini più di quelli precedenti e del Ricci, anche se tuttora non riconosciuti come t,ùi: sono l'allora maggiore d'artiglieria Fiorenzo Bava-Beccaris e il colonnello del genio Felice Martini, ai quali lo stesso P. accenna di sfuggita nel citato articolo del 1915. Trattando nel 1869 di questioni ordinative, il Bava-Beccaris accanto all'esercito attivo propone l'organizzazione di una riserva territoriale reclutata localmente e destinata alla guardia delle fortezze, al mantenimento dell'ordine pubblico e a costituire il nucleo di formazioni volontarie che avrebbero, tra l' altro, il compito di condurre la guerriglia contro l'invasore: per questo vorrei che lungo tutta la cinta delle Alpi si formassero le compagnie dei Cacciatori delle Alpi[ ... ] ed a questi fieri montanari, appartenenti alla riserva territoriale, stabilirei che La nazione affidasse la guardia dei passi di quei monti che La natura pose a potente baluardo dell 'Italia [... ]. Pari ai Cacciatori delle Alpi, si potrebbero organizzare i Cacciatori degli Apperrnini [... ]. lo sono d 'avviso che La riserva territoriale così composta ed organizzata, chiamata in appoggio dell'esercito operante e sostenuta da un buon sistema di fortificazioni, sarebbe uno strumento validissimo per la difesa, perché interesserebbe diretta-

24 Da rilevare la <lifferenza tra milizie e<l esercito permanente. Le milizie erano composte da cittadini sommariamente addestrali in tempo <li pace (come le milizie provinciali del Regno di Sardegna) e/o da richiamati delle classi più anziane. che venivano chiamati alle anni solo in caso di bisogno e impiegati localmente anche per il presidio delle fortezze e/o per compiti terriloriali. L'esercito permanente era composto da soldati volontari o che compivano una ferma di leva assai lunga nel secolo XIX, anche se tendeva gradua lmente a ridursi. Pertanto, all'inizio della guerra era già ben costituito e organizzato e doveva solo completarsi con richiamati delle classi più giovani e specie con quadrupedi, mezzi di trasporto, Servizi logislici.


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mente l'individuo e il proprietario a difendere il suolo da essi abitato, Le sue terre, i suoi averi ,çtessi. La Lunga distanza che in Italia separa il nord dal sud, fa sì che la mobilitazione dell'esercito e specialmente il suo concentramento richiederanno qualche tempo; dimodochè importa assai non essere colti alla ,\JJrovvista, e per questo tornano utilissime le riserve territoriali locali, che sollecitamente sul luogo potrebbero essere costituite_ 25

C'è molto della futura formula degli alpini e di tutta l'opera del P. in queste considerazioni del Bava-Beccaris; ma si trova ancor di più in ciò che scrive il colonnello del genio Felice Martini sulla Rivista Militare a partire dal settembre 1871, in una serie di articoli finora ignorata, poi pubblicata a parte nello stesso anno, con la data del 20 luglio 1871. 26 Trascrivendo parte di un suo scritto di fine 1868, il Martini sostiene la necessità di rimediare alla ben nota mancanza di fortificazioni permanenti in molli punti-chiave delle Alpi con "fortificazioni transitorie da eseguirsi in poco tempo" [cioè con fortificazioni campali - N.d.a.]. Inoltre, per evitare che la caduta d'un solo forte di sbarramento comprometta l'intera difesa delle Alpi, si dovrebbe esaminare se non convenga l'organizzare fin d'ora e in modo permanente un sistema di difesa della frontiera assai più attivo, creando un corpo speciale, che potrebbesi denominare bersaglieri delle Alpi; alla quale istituzione sarebbe a darsi un carattere locale, un organamento proprio. La tempra del montanaro è, generalmente, più forte di quella dell'abitatore del piano. Da una parte è costretto fin dai primi anni ad indurire sotto il peso di fatiche improbe, per la natura ingrata del suolo, affine di procacciarsi il pane; d 'allra parte gode per Lo più, sul contadino della pianura, il vantaggio di un 'aria più pura e quello di essere assai meno a contatto dei grandi centri, dai quali L'uomo del volgo non apprende che mollezza, non ritrae se non se male abitudini. Oltre all'essere l'alpigiano, per Lo più, dotato delle qualità fisiche necessarie per sostenere i disagi e le privazioni della guerra di montagna, oltre allo avere generalmente buone qualità d'ordine morale, possedendo egli quasi sempre qualche Lembo di terra ed un abituro, è desso per conseguenza in con-

25 Fioren1.0 Bava - Bccearis, Considerazioni sull'ordinameruo militare del Regno, in "Rivista Militare Ita liana" Anno XIV-Voi. li aprile 1869, pp. 145- 146. 26 Cfr. Felice Mart.ini, Studi sulla d/fesa d'Italia, l'irenze, Voghera 1871.


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dizioni tali da i.\pirare molta fiducia, quando in una guerra nazionale gli sia confidata la difesa di quelle gole dalle quali scorge il proprio casolare e quel po' di suolo che gli costò tanta fatica a rendere produttivo. Ben sa che, mentre egli paga il tributo che la nazione ha diritto di chiedergli, difende la propria famiglia e la sua poca sostanza, laonde energia, co.~tanza e preveggenza non possono fargli difetto. Si tratterebbe di affidare la difesa della frontiera alpestri a chi la conosce in tutti i suoi poggi, in tutte le sue strette e può percorrerla ad ogni ora, in ogni stagione quasi ad occhi chiusi, starei per dire; ad uomini ben conformati, snelli ed instancabili, nei quali i sensi della vista e del1'udito raggiungono uno special grado di perfezione ed i quali militarmente organizzati, ben condotti e muniti di buone armi, il cui maneggio sia loro famigliare, potranno rendere al paese servigi di gran lunga più importanti di quanto in realtà esso possa ripromettersene da schiere di volontari e battaglioni di guardie nazionali mobili, portati infra un labirinto di montagne che non conoscono, dove altro non li aspetta che incessanti stenti e privazioni e fra le quali essenzialmente debbono aspettarsi sorprese, agguati, continui allarmi, senza potere mai ritrarne il compenso difatti che abbiano conseguenze decisive per la campagna. Ma questa è una questione complessa che, quando vi si vegga del buono, ceno, vorrebbe essere studiata profondamente dal lato politico, costituzionale, militare ed economico; ed un ben maturo esame di essa e del come renderla attuabile con reale vantaggio della difesa nazionale farà riconoscere, se questa idea, che al certo non è nuova, in fatto sia per essere feconda di buoni risultamenti, come a prima vista pare ne debbano conseguire per la difesa della nostra frontiera ..... Gli avvenimenti del 1870 in modo particolare indurrebbero a credere tuttodì che siavi alcunchè di giusio in questa idea di provvedere alla dif esa diretta dellefrontiere precipuamente con un'istituzione militare tutta locale, prevelendosi poi di quelle fortificazioni che abbiamo sui varchi alpini e degli studi i più ponderati fatti in tempo di pace per una valida difesa improvvisata al momento del bisogno per quelle gole ove non esistono forti. 27

Il Martini aggiunge che questi "corpi alpigiani" dovrebbero disporre dei materiali necessari per costruire rapidamente fortificazioni campali e

27 Felice Martini, Studi sulla difesa d 'Italia, in "Rivista Militare Italiana" Anno XVI - Voi. W settembre 1871, pp. 3 13-3 17.


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di materiali da mina, avere l'appoggio di artiglierie leggere ma di buona gittata ed essere addestrati anche a costruire batterie, barricate e fortificazioni campali in roccia. Inoltre dovendo i bersaglieri alpigiani agire a parte, per così dire, di tutto l'esercito attivo (colle prime avanguardie del quale sarebbe però necessario si trovassero continuamente a contatto), qualora fossero, dopo ostinata difesa, costretti da forze prevalenti a ceder terreno, avrebbero già nell'interno delle loro montagne designati e preparati i punti di ritirata e non cesserebbero dal mantenersi in azione ricomparendo ben presto sulle comunicazioni apertesi dal nemico, allo intento di arrecargli, senza posa, danno e molestia, procurando, fra l'altro, d'impossessarsi di convogli di approvvigionamento e, obbligandolo a transitare per quelle regioni in masse considerevoli, ad essere più lento ed incerto nelle sue mosse. Questa speciale istituzione militare non avrebbe poi nulla di urlante con quella più generale delle milizie provinciali e distrettuali in sussidio agli eserciti di combattimento, La quale trovasi ora in via di attuazione e la cui opportunità è così evidente che nessuno vorrà riguardarla altrimenti che quale una delle più importanti basi del 'organizzazione delle forze nostre in conformità delle esigenze della guerra moderna.

Non siamo riusciti a rintracciare - sulle riviste militari e sulle principali riviste del tempo - lo scritto di fine 1868 dal quale il Martini afferma di aver tratto le proposte prima citate: ma esso esiste certamente, visto anche che l'Enciclopedia Militare nelle poche righe dedicate al Martini cita tra i suoi scritti un Progetto sui bersaglieri delle Alpi. 28 In tutti i casi è certo che le sue proposte precedono sia quelle del P., sia quelle del Ricci. Per giunta, diversamente da quanto afferma il Franzosi il Ricci non ha affatto sostenuto la necessità di arrestare il nemico all'interno stesso delle Alpi, né tanto meno un 'ipotetica strategia offensiva: per convincersi di questo basta studiare bene i suoi scritti (vds. cap. I). Li riepiloghiamo per comodità del lettore, con l'avvertenza che, su una questione così controversa, siamo costretti a dilungarci riferendo il più possibile alla lettera il pensiero del Ricci: è l'unico modo per rassicurare il lettore, che potrebbe trovarsi sconcertato di fronte a interpretazioni diametralmente opposte degli scritti di un cosi illustre autore.

28

F.11ciclopedia Militare, IV, 882.


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Come si è visto nel cap. I, le proposte del Ricci sono contenute negli Appunti sulla difesa d'Italia in generale e della sua frontiera Nord-Ovest in particolare, datati 1° gennaio 1872 ed editi nel 1872; esse dunque sono precedute - anche senza tener conto di tutte le altre - da quelle del Martini. In secondo luogo, sulla costituzione di truppe alpine il Ricci non solo dice assai di meno del Martini, ma la considera in un'ottica più riduttiva e al tempo stesso più generalizzata, includendola nel problema generale del presidio delle fortezze anche all'interno e delle fortificazioni anche campali di confine, che dovrebbe essere fatto da milizie proprio per liberare l'esercito permanente da queste incombenze, consentendogli di manovrare a massa al di fuori delle Alpi. E dopo aver precisato, in apertura del libro, di volersi occupare specialmente della frontiera con la Francia - l'unica che conosce a fondo - sviluppa le sue idee intorno al concetto-base che segue: vi sono due dati di una certezza, non esita a dire, matematica, per le combinazioni della difesa, e sono: che Le Linee stradali per La traversata delle Alpi, come le posizioni di cui l'invasore deve impossessarsi per sbucare da esse sono determinate. e lo sono in modo da non ammettere dubbio[... ]. Posti fuori discussione per la d(fesa i due dati detti poc'anzi, ne emerge per essa un doppio compito. Creare anzitutto alle colonne aggredienti sulle strade che debbono necessariamente percorrere, tutti gli ostacoli permanenti ed eventuali che per essa si possono. Escludo però quelli, che potessero pregiudicare gli ulteriori periodi della difesa, fra i quali metto principale di non impegnare all'interno delle valli corpi di prima linea di qualche entità[ ... ]. La d(fesa dovrebbe in secondo luogo disputare alle teste delle colonne invadenti le posizioni che si trovano allo sbocco delle valli e di cui è necessario che esse si impadroniscano per dar campo alle forze retrostanti di sboccare e spiegarsi [... ]. Ma per poter soddisfare ai detti due compiti è necessario un lavoro preparatorio[... ] quindi dei progetti completi di ciò che dovrebbe farsi all'occorrenza[ ...]. Né ciò basterebbe, ma converrebbe ancora stabilire in modo preciso a chi spetterebbe all'evenienza far eseguire, e sotto la propria responsabilità personale, i lavori occorrenti sulle dette linee e posizioni. È questo per me un punto capitale; ove si dovesse attendere che o il Ministero o il Comando dell'esercito disponessero al riguardo, si potrebbe essere certi che l'invasore sarebbe sboccato dalle valli prima che si fosse posto mano ai Lavori. L'imitazione di ciò che fece l' Austria per la difesa locale del Tirolo, utilizzando per quella delle nostre valli la parte alpigiana delle milizie provinciali Icioè le classi da


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richiamare solo in tempo di guerra, residenti nella fascia alpina - N.d.a.], mi parrebbe utile sotto molti rapporti e anche sotto quello di coordinarvi la disposizione di cui ho poc'anzi dichiarata la necessità [nostra sottolineatura - N.d.a.].29

Un siffatto orientamento strategico del Ricci non contrasta affatto con i criteri enunciati dal Kuhn, invece citato dal Franzosi tra i sostenitori di una difesa attiva all' interno delle Alpi: il primo crilerio del generale austriaco, infatti, è che " lo elevarsi della strategia a scienza distrusse l 'erroneo sistema adottato nella difesa dei paesi di montagna, di occupare cioè tutte le alture, di.~perdendo per tal modo le forze, e rendendo possibili non solo le dùfatte, ma le catastrofi; e fece prevalere L'idea non assoluta, ma relativa, che il possesso della pianura decide di quello della montagna". 30 Analogamente il Ricci osserva che quando gli eserciti non superavano i 40-50.000 uomini, "il problema Idei passaggio delle Alpi] consisteva nel passare e sboccare; oggidì con 250 o 300.000 uomini [forza presumibile delJ 'esercito francese invasore - N.d .a.] bisogna aggiungere "e riunirsi"; la maggior difficoltà [per l'invasore] quindi comincia ora, ove una volta era tutto finito". Ne deriva che "in questa operazione necessaria ed indùpensabile per l'aggrediente, sta oggidì L'essenza del vantaggio, che la natura volle dare all'Italia assegnandole per confine quella maestosa massa di granito che la separa dalla Francia" :31 infatti, anche se la vittoria non fosse sicura, "l'esercito italiano si troverebbe nella situazione di battere in dettaglio il proprio avversario", contrattaccandolo nel momento di massima crisi prima descritto, cioè allo sbocco dal1e Alpi. Alle "milizia alpigiane" il Ricci dedica dunque sei righe (scarse) in tutto: molto meno del Martini, del Bava-Beccaris e di tanti altri prima di lui. Come messo in rilievo dal Franzosi, ha senza dubbio il merito dj aver sperimentato alla Scuola di Guerra la costituzione di truppe provinciali locali per la difesa delle valli alpine: ma non è stato certo il primo ad avere questa idea realizzata peraltro in modo imperfetto, senza contare che, specie negli istituti militari superiori, è lo Stato Maggiore a suggerire le soluzioni da sperimentare. In quanto al concetto di difesa delle Alpi, non c'è alcun dubbio che il Ricci non ha innovato proprio niente: anch'egli, in de-

29

Agostino Ricci, Appunti sulla difesa d'Italia (Cit.), pp. 61-64. Orazio Oogliotti, Difesa delt 'Italia secondo i principi sviluppati dal generale Fmnz Van Kulm. in "Rivista Militare Italiana" Anno XVIII - Voi. Il aprile 1873, pp. 92- 125. 31 Ricci, Op. cit., pp. 66-67. 30


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finitiva, intende impiegare l'esercito mobilitato per contrattaccare le penetrazioni nemiche sboccate in piano nel momento in cui stanno per riunirsi, lasciando a milizie locali con l'ausilio di forti di sbarramento e fortificazioni campali, nùne ecc. il compito di logorare e ritardare il più possibile le penetrazioni nemiche. Attribuendo al Ricci l'intento di arrestare il nemico nella fascia alpina il Franzosi cade dunque in un equivoco, che nasce sia dalle opzioni teoriche enunciate dal Ricci negli stessi Appunti per La difesa d'Italia, sia dal suo modo di intendere la difesa delle Alpi in senso lato, che certamente non deve essere passiva e statica, ma prevedere una controffensiva, sia pure ai piedi delle Alpi stesse e nel nostro territorio_ Tra una controffensiva così concepita e un'offensiva oltre confine c'è però una bella differenza, e non si può fare confusione. ln effetti all'inizio del libro, e ancor più alla fine, il Ricci enuncia un concetto anch'esso non nuovo e non certo originale, che cioè - in generale - il miglior modo di difendere uno Stato consiste nel prendere l'iniziativa e attaccare il nemico. Perciò afferma nella conclusione - la guerra puramente difensiva non può essere che temporanea e di breve durata: una d!fensiva indefinita, peggio poi se assoluta. non potrebbe essere che la consef?uenza fatale di un grave errore politico, di cui niuno sforw d'uomo varrebbe a scongiurare gli effetti. Uno Stato che non è in grado di far da solo la guerra offensiva si procacci delle alleanze o si rassegni ad aspettare; né l'una né l'altra sono questioni militari.

Subito dopo precisa che "un sistema di difesa territoriale deve considerarsi come l'ultima preparazione all'offesa", evidentemente in vista di una controffensiva; però non bisogna "accumulare i suoi mezzi sulla linea di frontiera (fatta una certa riserva per Le frontiere montagnose) ove sarebbero subito paralizzati ", e neppure al centro, dove sarebbero inutili e nocivi; bensì "su quei punti i più prossimi alla frontiera stessa, che assicurino al difensore, il quale temporaneamente vi si stabilisca, facili e numerose comunicazioni col Paese". ln base a quanto detto prima, questi punli si trovano nell'alta pianura del Po. Inoltre, dopo aver tanto esaltalo l'offensiva il Ricci esamina solo il caso della difensiva contro l'esercito francese, senza mai precisare quanto e come si dovrebbe condurre quest'offensiva oltre confine, ma anzi indicando - come si è visto - la necessità di prevedere in caso di fallimento della difesa sull'alto Po una "piazza di rifugio" nel triangolo Stradella-Piacenza-Bobbio_ Ritiene, infatti, che le sorti della guerra "si decidono nella pianura del Po e il più avanti possibile, ma sempre all'interno dei confini e con


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un'azione difensiva-controffensiva che abbia il suo momento decisivo nella controffensiva ai piedi delle Alpi": non all'interno delle Alpi stesse, né tanto meno oltre le Alpi. La sua polemica non è contro coloro che non vogliono difendere le Alpi (come afferma il Franzosi), ma contro coloro che ritenendo le Alpi un ostacolo facile da superare sostengono che l'Italia vada meglio difesa sul Po, sull'Appennino o ancor più in profondità. Ricci vuol difendere le Alpi, anche perché diversamente da altri le ritiene un ostacolo difficile da superare: ma solo con forti di sbarramento e milizie provinciali, senza pretendere di arrestarvi definitivamente il nemico. E' questo concetto che molto probabilmente ha fatto cadere in equivoco il Franzosi e il Rasero, che hanno interpretalo la "sua " difesa delle Alpi come difesa ad oltranza all'interno delle Alpi stesse, il che non è vero; né tanto meno è vero che il Ricci intende che gli alpini debbano svolgere un'azione prevalentemente offensiva o che auspica la costituzione di un corpo d'armata alpino. Si limita invece ad auspicare (sempre negli Appunti del 1872) l' aumento dei normali corpi d'armata da 10 a 12, con un parallelo incremento del bilancio dell'esercito di 20 milioni, che porterebbe la spesa militare italiana da 5 a 6 lire per abitante, cioè - egli sottolinea - ad un livello pur sempre minimo in rapporto a quella di altri, anche se pari alla spesa austriaca del momento. Sull'effettivo ruolo del Ricci nell ' istituzione degli alpini rimane da esaminare un'ultima questione, che riguarda la poco felice conclusione della sua carriera. 1 suoi meriti sono riconosciuti anche dal Cisotti, il quale nella biografia commemorativa a lui dedicata dopo la sua morte ricorda che "è stato il primo che familiarizzò con le Alpi i nostri ufficiali. Egli era appunto comandante della Scuola di Guerra quando il ministro Ricotti istituì gli alpini, né le dottrine del Ricci furono estranee alla buona idea del ministro". 32 Dopo aver rilevato che anche per il Cisotti il padre, il creatore, il fondatore degli alpini è stato il Ricotti, mentre il Ricci "non è stato estraneo" all'idea del Ministro (che dunque non è stata la sua e non ha avuto per primo), ci si deve semplicemente chiedere: ha più merito chi formula una proposta (prima del Ricci, sono stati in tanti), chi (come il Ricci) la sperimenta, chi (come il P.) ne studia la fattibilità con dettagliate proposte, o chi - come il Ricotti - la traduce in pratica? Senza contare che il Ricci si limita a proporre e sperimentare il richiamo dal congedo di milizie locali non solo alpine, e non ha mai proposto di costituire fin dal tempo di pace unità alpine ...

32

Cisotti, Op. cit., p. 307.


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Infine, come altra prova (in verità unilaterale) della priorità delle idee del Ricci rispetto a quelle del P. il Franzosi cita una lettera inviata dallo stesso Ricci in data 25 settembre 1894 (quando si era appena dimesso dall'esercito) al comandante del 3° reggimento alpini colonnello Oreste Zavattari, che gli aveva inviato il saluto degli alpini del reggimento, per tanti anni alle sue dipendenze. Nella lettera riprodotta e commentata daJJo Zavattari in un articolo del 1900,33 il Ricci è categorico: quando nel 1868 studiai il primo progetto di campagna logistica per la scuola di guerra, mi colpì l'idea dell'utilità che vi sarebbe stata di avere una fanteria speciale da impiegare in montagna, e volendo farne la prova ideai [per esercitazione, cioè sulla carta - N.d.a.] di destinare a tale servizio alcuni battaglioni di bersaglieri mobilitati con le classi in congedo delle zane alpine in cui si doveva operare, e nella preparazione della campagna attuai tale concetto che, perfez ionato nelle campagne successive, fece nascere l'idea delle truppe alpine come mi disse un giorno il generale Ricotti che ne fu l'istitutore. Ecco l'origine di tali truppe e la ragione per cui ne pretendo la paternità ...

Lo Zavattari, apprezzato autore militare anche con studi sugli alpim, si guarda bene dall'accettare in toto queste affermazioni del Ricci (anche se per ovvi motivi non le smentisce, almeno direttamente). Ma dopo aver commentato molto favorevolmente l'articolo del P. e avergli riconosciuto il merito di aver gettato le basi anche morali dell'istituzione degli alpini, così conclude: di fronte pure a questo brevissimo cenno circa l'opera del Perrucchetti, io mi sento perplesso a prendere in esame la lettera del generale Ricci per determinare quanto valore possa avere la sua affermazione circa l'origine degli alpini e soprallutto circa la pretesa della paternità. Mancano a me assolutamente tutti gli elementi per comprovare in qualche modo il valore dell'affermazione. D'altra parte la proposta del Perrucchetti è così completa che non solleva alcun dubbio. Il fatto poi che a poca distanza dalle proposte in essa contenute, cioè il 15 ottobre 1872, il generale Ricotti, allora ministro della guerra,

.n Oreste Zavattari, Per le ori,:ini delle nostre Truppe Alpine, in "Rivista Militare Italiana" Anno LIII - Voi. II giugno 1908, pp. 1010- 1015.


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dava la prima attuazione al relativo progetto, dovrebbe per lo meno far credere che, se pure vi poteva essere nella mente dell'illustre Ministro l'idea della forma zione delle truppe da montagna, egli si determinò ad attuarla solo dopo il lucido, completo ed assennato Lavoro del Perrucchetti.

Come dire: con tutto il rispetto, l'affermazione del Ricci (un generale e scrittore illustre) non è provata e, allo stato, nulla può essere tolto ai meriti del Perrucchetti, anche se probabilmente neppure lui ha avuto per primo l'idea. E poiché - prosegue lo Zavattari - nessuno ha fino a quel momento pubblicato la lettera del Ricci, e nessun ufficiale degli alpini ha mai indagato sulla vera origine delle nostre truppe alpine, "mi assale forte il dubbio che per avventura gli studi fatti dal generale Ricci portassero pure in embrione l'idea dell'istituzione, ma che essi non fossero così completi da provocarne subito l'attuazione". Lo Zavattari osserva perciò che è ormai tempo di chiarire "questo punto essenziale", d1c "senza per nulla scemare la gloria dell 'illustre generale Perrucchetti", consentirebbe di stabilire meglio l'origine di un corpo ormai così prestigioso; in proposito, "l'ultima parola non potrebbe dirla che l'illustre generale Ricotti che fu l'istitutore degli alpini!" . Il generale Riwlli, nel 1908 ancora vivente, non ha mai detto l'ultima parola richiesta dallo Zavattari, né tanto meno ha confermato la versione del Ricci: piuttosto l'ha indirettamente smentita, visto che come ricordano il Franzosi e l' Ilari - ha rivendicato giustamente a sé stesso (e non al P., né tanto meno al Ricci) il merito di essere il creatore (o l'ideatore) degli alpini. Sulla questione non è neppure intervenuto il P., che al momento era in piena attività pubblicistica e aveva ormai lasciato il servizio. Una cosa è certa: che già un siffatto commento alla lettera del Ricci non consente di accreditarla come dimostrazione dei meriti dell'autore e di una priorità della sua idea, peraltro smentita senza ombra di dubbio anche dalle fonti prima citate. Questi sono i fatti; per ultimo, nulla ha a che fare la domanda di dimissioni dal servizio attivo, presentata dal Ricci nello stesso settembre 1894, con la lettera del Ricci allo Zavattari. Come si deduce da quanto scrivono il Cisotti e lo stesso Franzosi, il Ricci ha lasciato il servizio, oltre che per le ragioni di salute di cui parla il Cisotti, per contrasti con il Ministro della guerra del tutto inevitabili , visto che - in piena coerenza con le sue convinzioni strategiche - alla Camera si era opposto all'aumento degli stanziamenti e della forza per l'esercito, sostenendo che bisognava invece rafforzare la marina.


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Contenuti essenziali ed effettiva portata innovatrice dell'articolo del maggio 1872 sugli alpini Dallo scenario prima considerato emerge con chiarezza che sulla strategia da adottare per la difesa delle Alpi non esiste alcun contrasto di fondo tra gli orientamenti ufficiali del momento, le idee del P. e quelle del Ricci; ciò non toglie che i contenuti dell'articolo del l 872 si differenzino su punti importanti dalle idee del Ricci, a cominciare dal prevalente interesse del P. per la difesa del confine alpino con la Svizzera e con l' Austria, mentre invece il Ricci rivolge la sua attenzione soprattutto al confine con la Francia. Una seconda e ancor più importante differenza è che, mentre il Ricci si limita a prevedere l' impiego di "milizie provinciali locali" (cioè di reparti interamente composti da richiamati), senza specificarne le modalità di reclutamento, il P. va molto più in là, proponendo - è questa la vera novità rispetto a un secolare passato - la costituzione fin dal tempo di pace di unità di "bersaglieri delle Alpi" reclutate localmente, indicando a nche il modo ili cosliluirk senza modificare le leggi esistenti. Per ultimo, mentre gli Appunti sulla difesa d'Italia del Ricci contengono riflessioni a carattere generale e a sfondo teorico, il P_ lavora in un campo assai più limitato e ricerca non l'ideale ma il possibile, partendo come già detto da una ben concreta csigenza: difendere quelle valli delle Alpi Centrali e Orie ntali che per ragioni economiche la Commissione per la difesa generale dello Stato non aveva previsto di fortificare. Per dare tempo al retrostante esercito di 1" linea di mobilitarsi e di affluire nell' alta pianura padana, questa difesa secondo il P. deve entrare in azione il più presto possibile, perciò deve anche essere organizzata il più presto possibile: di qui l'esigenza fondamentale che sia organizzata e condotta da ufficiali e soldati mobilitali localmente, già pratici dei luoghi e ben addestrati a condurla. Esigenze che al momento non sono soddisfatte, perché gli elementi locali destinati a far parte delle milizie provinciali in ca<;o di guerra, all' atto del richiamo alle armi devono affluire in distretti lontani dalla frontiera, per poi tornare sulle posizioni che devono difendere al comando di ufficiali anch'essi richiamati, che non conoscono né i loro uomini, né la zona, né i loro compiti. Perciò il P. ritiene anzitutto necessario:

riunire e armare i difensori delle Alpi in luoghi più prossimi alle frontiere, di quello che siano le sedi degli attuali distretti; 2° portare la forza numerica di questi difensori ad un numero più elevato di quello che si otterrebbe destinando a tale ufficio i soli battaglioni formati di montanari provinciali. /

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Si tratta dunque di impiegare per la difesa delle Alpi non solo i richiamati (come proponeva il Ricci), ma l'intero gettito della leva nelle zone alpine, inquadrato in reparti permanenti. Per raggiungere questi obiettivi e al tempo stesso assicurare un buon inquadramento delle unità con ufficiali esperti e capaci che già in pace perfezionino continuamente la conoscenza dei luoghi, il sistema difensivo deve avere i seguenti requisiti: 1° presentare in ciascuna vallata alpina [fin dal tempo di pace! - N.d.a.J un nerbo di forze organizzate, sufficiente alla difesa della vallata stessa e dei suoi valichi;. 2° avere in ciascuna vallata dei centri per riunire o armare senza perdita di tempo tutte le forze mobilitabili per La difesa; 3° offrire attrattive tali da assicurare un volonteroso concorso da parte degli ufficiali che riunissero le qualità di mente e di corpo necessarie alla guerra di montagna; 4° fornire l 'occasione di mettere a prova e d 'indirizzare continuamente allo scopo della difesa l'auività ed intelligenza dei difensori, col rendere famigliari e far ent.rare nelle abitudini loro gli atti, i mezzi e le esi,?enze della difesa stessa.

Nello sludio di un'organizzazione con questi requisiti i1 P. prende in esame due modelli del momento: - quello austriaco, che con apposita legge prevede per il Tirolo e il Voralberg una difesa locale composta da: "/ compagnie organizzate di bersaglieri provinciali (che troverebbero riscontro presso di noi nei battaglioni provinciali); 2°) compagnie di bersaglieri volontari qualificati (che potrebbero essere istituiti anche presso di noi); 3°) leva in massa (che ha riscontro nella nostra guardia nazionale mobile)"; - quello prussiano, basato (diversamente dall'italiano) sull'ordinamento militare territoriale e quindi sul reclutamento locale di tutte le unità e sulle loro sedi fisse. Esso consentirebbe di "dividere la zona alpina per vallate, in tante unità difensive, costituenti ciascuna un piccolo distretto militare. Le forze reclutate sarebbero in ogni unità difensiva formate di un numero indeterminato di compagnie, raggruppate attorno a un centro di amministrazione e di comando, il comando cioè della difesa e del distretto locale". Dopo aver constatato che il sistema austriaco richiederebbe oltre tutto una profonda modifica della vigente legge di reclutamento, per la quale sorgerebbero notevoli difficoltà in Parlamento, il P. intravede la possibi0

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lità di definire - per la sola fascia alpina - un sistema territoriale analogo a quello prussiano, 5fruttando le possibilità I?ià consentite dalla nuova legislazione dovuta al Ricotti a cominciare dall'istituzione di nuovi distretti di frontiera. Da tali distretti dipenderebbero le nuove unità alpine costituite fin dal tempo di pace, e in caso di guerra ad essi affluirebbero direttamente i richiamati delle rispettive valli. Ne discende un ordinamento che secondo il P. "sarebbe informato al principio della divisione del lavoro, principio che non solo ha trionfato nelle cose economiche ma ha altresì avuto solenne sanzione nelle cose militari dai mirabili risultati della mobilitazione prussiana [nella guerra 1870-1871], che su di esso è basata"_ Nel concreto e nel dettaglio, io vorrei suddivisa La zana alpina in tanti riparti, ciascuno dei quali, in via nonnale, dovrebbe comprendere una vallata ed essere per così dire a cavallo di una delle strade che valicano le Alpi. Le forze militari reclutate in ciascun riparto formerebbero l'unità difensiva del medesimo. Ciascuna unità difensiva sarebbe ordinata su di un battaglione di un numero variabile di compagnie. Il comandante del battaglione sarebbe ad un tempo comandante del distretto e della d(fesa locale. Si avrebbero così tante unità difensive organizzate quante sono le porte d'Italia che conviene gutirdare. 1àli unità difensive poi potrebbero anche venir raggruppate sotto comandi !ipeciali, a due, a tre, a quattro, secondo che le due o tre o quattro vallate rispettive si trovassero così situate da formare sistema e prestarsi mutuo appoggio per azione collettiva o combinata.

Va notato che con questi criteri il P. salta dalla "difesa di alcuni valichi della frontiera verso Austria e Svizzera" di cui al titolo dell' articolo, alla difesa dell'intero confine alpino_ Perché questa discrepanza? Non lo dice. Probabilmente essa deriva dal fatto che della memoria si sta pubblicando solo la parte non riservata, cioè solo quella che il Ministro ritiene possa essere conosciuta da tutti; se ne potrebbe anche dedurre che la memoria in questione ha ben altra ampiezza di quella dell'articolo, e magari contiene proposte che per il momento non sono ritenute "mature". Ad ogni modo, i "reparti o distretti alpini'' considerati nell'articolo sono 25 e significativamente coprono l'intero confine: Oneglia- Savona- Cuneo - Saluzzo - Pinerolo - Susa - Bard - Domodossola - Pallanza - Varese - Como - Chiavenna - Tirano - Breno Rocca d' Anfo - Salò - Verona (pei Lessini) - Schio - Bassano - Feltre - Belluno - Pieve di Cadore -Tolmezzo - Udine - Cividale. Ciò premesso, tenendo conto della popolazione alpina del momento (1/10 circa di quella italiana, che fornisce annualmente circa 12000 uomi-


IV - LA MULTll'ORME OPERA DI rn u'-"' s '--" EP_,_ PE "--'P'--"E"-"RRe,c U'-"CC:s:, -.H-"'lò"l-e.:. --1"1 _ _ _ __ _____3'-"-'91

ni di leva provenienti dalla zona alpina, cioè alle armi in tempo di pace), il P. calcola che ciascun distretto avrebbe disponibili in tota1e, in caso di guerra, 3000 uomini, dei quali 2000 (compresi 400 di riserva per rinforzi e 400 indisponibili) al momento destinati a far parte dell'esercito attivo (cioè di l3 linea) e 1000 assegnati alla "milizia provinciale" (cioè a unità interamente composle da richiamati, dette di 2• linea). Con tali forze egli propone di costituire, sempre per ciascun distretto: - un battaglione attivo (cioè costituito fin dal tempo di pace) di "bersaglieri delle Alpi", che avrebbe una forza di circa 500 uomini e in tempo di guerra circa il doppio; - un battaglione provinciale (cioè interamente composto da richiamati solo in ca'>o di guerra o emergenza) di circa 1000 uomini, su 4 compagnie; - una compagnia distrettuale (già prevista dall'ordinamento Ricotti), che in ca<;o di guerra sarebbe anche il nucleo di mobilitazione per il battaglione provinciale. Il P. insiste molto sulle nuove chances che offrirebbero le unità alpine da lui proposte, i cui componenti, che per ragioni di lavoro conoscono a perfezione anche il territorio al di là della frontiera e sono abituati a sfruttare tutti i sentieri, una volta chiamati alle armi fornirebbero tra l'altro " un buon nucleo di eccellenti guide in grado di prestare i più utili servizi all'eserc ito: nell'offensiva come avanguardie, nella difensiva come fiancheggiatori". Più in generale, " l 'istituzione di un numero tale di nuovi distretti che permetta di averne uno in ogni riparto della zona alpina mi pare in armonia colle intenzioni già manifestate in Parlamento da S.E. il Ministro della guerra di aumentare, in pregresso di tempo, il numero dei distretti", mentre renderebbe possibile anche tradurre in pratica " un altro desiderio e:,presso da S.E. il Ministro della guerra nella relazione che precede il riordinamento dei bersaglieri, di portare cioè a 60 il numero dei battaglioni bersaglieri": il tutto senza diminuire " di un sol uomo" la forza già prevista per l'esercito di 1a linea. Ad esempio, nell ' ipotesi di una guerra contro la Francia mentre i battaglioni attivi di bersaglieri delle Alpi già sul poslo formeranno l'avanguardia dell 'esercito combattente, i distretti difensivi della frontiera verso Svizz.era ed Austria, lasciati ai presidii locali i battaglioni provinciali [cioè composti interamente darichiamati - N.d.a.] manderanno i battaglioni attivi ad ingrossare l'esercito. E così non solo non andrà perduto un solo uomo, ma si avranno disponibili in tutti questi battaglioni attivi dei bersaglieri delle Alpi del-


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le masse di montanari prez iosissimi per tentare ~peciali imprese nelle regioni montane. Questa circostanza vuol essere tenuta in conto parti-

colare, perché presenta in sé stessa un largo compenso ad un inconveniente che potrebbe essere contrapposto a questo progetto, quello cioè di depauperare gli attuali reggimenti bersaglieri del miglior elemento l nostra sottolineatura - N .d.a. I.

TI sistema proposto tende perciò ad evitare che "buona parte" dei preziosi elementi che fornisce il reclutamento alpino sia sparsa in tutti i Corpi dell'esercito, risultando così indisponibile sul luogo e nel momento del bisogno. Nel 1881 il P. aggiunge in nota che questo inconveniente, che si verifica in parte anche oggidì (1881). cesserà del tutto quando siano attuati i provvedimenti annunciati coll'atto ministeriale n. 87 (pag. 381 del Giornale Milita re del 1878), secondo il quale "Cogli uomini appartenenti aJle classi di l • categoria in congedo

illimitato saranno fòrmate compagnie alpine di 2" linea nel numero e nei modi che verranno stabiliti". Avuto riguardo alla forza delle classi, relativamente g ro.ue, asse,?nate in questi ultimi tempi ai battaglioni alpini, è a ritenersi che col tempo si potrebbe abbondantemente raddoppiare - col richiamo degli uomini di 1a categoria in congedo illimitato - il numero di tali batta,?lioni, fornendoli anche di un abbondante treno di uomini - portatori (porteurs). 34

Pur non considerando ancora la prospettiva della costituzione di Grandi Unità alpine pluriarma, oltre a ritenere necessario l'assorbimento totale dei montanari da parte dei reparti di "bersaglieri delle Alpi" il P. propone che - come già si fa in Austria - alle loro esercitazioni partecipino anche altre truppe dell'esercito e ufficiali di Stato Maggiore e del genio. Inoltre nel 1881 aggiunge che sarebbe opportuno sperimentare per le truppe non alpine chiamate ad agire in terreno montano "quel particolare assetto di montagna, che gli austriaci hanno reso regolamentare ed applicato nella recente guerra di Bosnia". 35 Infi.ne, sempre ad imitazione di quanto fatto dall'Austria in Tirolo il P. ritiene opportuna anche la costituzione di reparti di bersaglieri volontari qualificati, dei quali potrebbero far parte coloro che, non obbligati a prestare servizio attivo, "si impeinerebbero su 34 Ristampa de ll'articolo nella 3• Ed. del 'firolo (Cit.), p. 146 Notaz. " ivi, p. 144 Nota I. Qui il P. fa riferimento a llo studio di Carlo Corsi, Cli austriaci nella Bosnia - Erze1:ovina nel / 878, Verona, Civelli 1880.


IV - l.A MULTIFORME OPERA DI GIUSEPPE PERRUCOIE1TI

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parola, come i volontari inglesi, a servire in guerra per La difesa della rispettiva frontiera, e fornirebbero in ogni caso un vivaio di volontari per Le guerre nazionali". Con un'implicita critica alla Commissione per la Difesa dello Stato, il P. in chiusura dell'articolo sottolinea la necessità di chiudere con forti di sbarramento tutte le strade carreggiabili che valicano le Alpi, polemizzando con coloro che ritengono la spesa relativa inutile, perché una volta forzato un valico, tutti gli altri sbarramenti diverrebbero inutili. Non si tratta però di organizzare una difesa a cordone, che sarebbe debole da ogni parte: non è a questo che si vuole arrivare; non è a sparpagliare sulle creste delle Alpi il nerbo dell'esercito, ma a porlo in grado di manovrare liberamente che si tende con questi sbarramenti, e, prima di lutto, ad assicurare l'adunata delle nostre forze, a far guadagnare alcuni giorni, sempre preziosi nei momenti critici della mobilitazione, a coprire i primi schieramenti.

Perciò i milioni impiegati consentiranno <li mobilitare e concentrare meglio l'esercito e di "impiegarlo più Liberamente nei suoi primi atti controffensivi", senza contare che i forti di sbarramento, se costruiti "a doppio effetto" e ben difesi, potranno resistere per tutta la campagna "come Bitsche e Belfort", impedendo al nemico di disporre liberamente di preziose strade; in tutti i casi, essi potranno sconcertare e rendere più lente e difficili le manovre del nemico, anche quando è sboccato in piano.

Perché dopo i bersaglieri anche gli alpini ? Il P. (come prima di lui ha fatto il Martini) non parla ancora di milizie alpine o "alpigiane", termine ormai non sconosciuto ai suoi tempi, ma di bersaglieri delle Alpi, scrivendo tra l'altro che "queste truppe di frontiera potrebbero avere uniforme da bersagliere e nome di bersaglieri delle Alpi, cose e nomi ambiti dai militari e simpatici al Paese". Perché? Non è vero che, come scrivono taluni, gli alpini sono nati per rimediare alla mancanza di truppe atte ad operare in montagna: i primi "bersaglieri delle Alpi" sono stati proprio ... . gli stessi bersaglieri, fondati nel 1836 su proposta del capitano Alessandro La Marmora. Tale proposta così comincia: "Convinto dei servigi importanti che potrebbe rendere una compagnia di abili bersaglieri, particolarmente nelle montagne e paesi rotti, quali co-


IL PENSIERO MILITARE P. NAVALE ITALIANO - VOL. lii 1870-1915 -TOMO I

prono li Regi Stati e confinanti suoi, e ravvisando dal! 'indole e dalle abitudini della popolazione la facilità di organizzarli.... ". 36 In aderenza a questi intendimenti le prime due compagnie bersaglieri, oltre ad essere a reclutamento regionale perché ovviamente composte tutte di piemontesi spesso anche montanari, furono dislocate ad Aosta e Charnbèry .... Non a torto, dunque, nel 1886 l'allora colonnello dei bersaglieri Oreste Baratieri scrive che "il La Mamwra può essere detto non solo il fondatore dei bersaglieri ma anche degli alpini, dei quali in due parole ha determinato il pratico programma". 31 Sorge però spontaneo un interrogativo: cosl stando le cose, perché si è ritenuto necessario, oltre che i bersaglieri, creare anche gli alpini? Non sarebbe stato sufficiente, ad esempio, accentuare - anche con opportuna dislocazione delle loro unità - la già esistente vocazione "da montagna" dei bersaglieri, dei quali nel 1872 esistevano ben 10 reggimenti?38 Se si vuol dare una risposta esauriente bisogna anzitutto tener presente che la nascita dei bersaglieri nel 1836 non era affatto dovuta all'insufficiente addestramento al combattimento e alle carenze della fanteria di allora, vista come esclusiva depositaria dei mali della caserma. Se fosse vero, la leadership del tempo avrebbe cercato semplicemente di correggere quei difetti, anziché aggravarli depauperando ancor più la fanteria di buoni e solidi ele-

"' Alessandro La Marmora, Proposizione per lafomwzione di una compaKnia bersaglieri (rislampa in "Rivista Militare Italiana" Anno XXVIll - Voi. m luglio 1883, pp. 96-105). 7 :1 Oreste Barntieri , L'origine dei bersaglieri, in "Nuova Antologia" Voi. III, Fase. XI - l giugno 1886, pp. 459-479 . .l8 In effeni il capitano di SM Emilio Lo<lrini, che secondo il Cesari (Art. cit.) ha collaborato anch'egli con il Ministro Ricotti negli studi per la coslituzione de lle compagnie alpine, in un articolo pubblicato s ulla "Rivista Militare" dell' ouobre 1872 (cioè contemporaneamente al decreto di istituzione delle compagnie alpine) pur citando favorevolmente l'articolo ùel P. rifiuta per i "Bersaglieri delle Alpi" l'appellativo di fanteria scelta e sostiene che si tratta solo di una fanteria speciale, la quale deve essere nata e cresciuta in montagna e avervi sede. A suo avviso, però, questa fanteria speciale esiste già e sono appunlo gli stessi bersaglieri, i cui reggimenti vanno solo spostati in sedi alpine o appenniniche e reclutati localmente. Evidente il dissenso dal P., che nel 1872 non ha sostenuto la necessità di trasformare i bersaglieri ma di creare una fanteria alpina ad hoc, con modalità di reclutamento locale e dipendenze diverse dai bersaglieri e dalla fanteria di linea (Cfr. Emilio Lodrini, Sull'ordina· memo della fanteria, in "Rivis ta Militare Italiana" Anno XVTI - Voi. IV onobrc 1872, pp. 106- 144). Le affermazioni del Lodrini sono confermate anche dal Lessico Militare Italiano (Milano, Vallarcli 1916), dove alla voce Alpini si trova scritto che "non è esatto far risalire l'oriKine delle nostre truppe da nwnta[?na all'epoca in cui furono costituiti gli alpini (1873), giacché allora già esistevano i bersaglieri, e questi, secondo chi li ideò (vds. Bersaglieri) dovevano essere appunto reclutati ed addes trnti in modo tale da poter combattere 'singolarmente in paese montuoso, impedito ed opportuno alla guerra minuta ... ', come era la massima parte degli Stati sardi. Si sarebbe potuto fare a meno di creare gli Alpini qualora per i bersaglieri fossero siate rigorosamente rispettate le ragioni della loro origine: il che non fu".


IV LA MULTIFORME OPERA DI UIUSl:il'l'li l'ERRUCCHF.Tfl

menti. Va invece ricordato che la fanteria di tutti gli eserciti almeno fino agli ultimi decenni del secolo XIX usava combattere normalmente in piedi, a ranghi serrati, su due (o al massimo tre) righe di tiratori, con fuoco a comando. Formazione evidentemente priva di flessibilità e molto vulnerabile a fronte della crescente efficacia delle armi da fuoco, mantenuta però fin troppo a lungo per timore che l'ordine sparso ostacolasse la comandabilità e la disciplina delle truppe sul campo di battaglia, facilitando le defaillances dei meno coraggiosi. In ogni caso essa non poteva essere adottata in montagna, e più in generale in terreni difficili e in tutte quelle situazioni del campo di battaglia nelle qual i era richiesto, anche allora, il frazionamento delle forze, lo sfruttamento accurato del terreno sia da parte dei si ngoli che delle unità e un fuoco mirato, non a comando ma affidato aJJ'iniziativa e all'abilità nel tiro di ciascun combattente. Per far fronte a queste esigenze, fin dal secolo XVII esistevano i cacciatori e in genere la fanteria leggera, così come molto prima della loro nascita come vera e propria specialità della fanteria dell'esercito piemontese esistevano i bersaglieri, che possono dirsi nati da una costola dei cacciatori e appartenenti anch'essi alla fanteria leggera. Giuseppe Grassi (Cfr. anche Voi. 1, cap. V) così definisce queste truppe speciali nel suo Dizionario Militare (I a Ed. 1817 e 2" Ed. 1833, cioè prima della na<;cita del corpo dei bersaglieri piemontesi): "Cacciatore. Soldato così armato per la similitudine dei cacciatori campestri, dei quali imita in guerra le arti e le fatiche ... ", "Bersagliere. In francese Tirailleur. Soldato che combatte spicciolato o a branchi fuori dalla fronte del battaglione, dello squadrone o dell'esercito per assaggiare le forze dell'inimico, commettere i primi colpi, sostenerne l'impeto con vivo fuoco, stancheggiarlo e pizzicarlo". Ebbene, le analogie tra l'impiego dei cacciatori o bersaglieri e quello degli alpini previsto dal P. sono molte. Basti ricordare che negli stemmi di ambedue i corpi si trova il corno, simbolo dei cacciatori, mentre i bersaglieri hanno conservato fino ad oggi i cordoni di colore verde, simbolo anch'esso delle Alpi e insieme dei cacciatori. Anche le piume (una sola o molte) ricordano quest'ultimi, tant'è vero che molto prima di bersaglieri e alpini erano portate sul cappello anche dai cacciatori e bersaglieri tirolesi, già distintisi contro Napoleone .... La speciale attitudine dei bersaglieri ad operare in alta montagna è ampiamente riconosciuta anche dalla regolamentazione tattica piemontese delle guerre del Risorgimento. Le Istruzioni pel servizio in guerra del 1852 (tra l'altro tradotte dal tedesco) affermano che "la guerra di montagna solitamente si limita a combattimenti di posto [cioè di piccoli reparti - N.d.a.J


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in cui i bersaglieri sono l'arma preferibile. L'utilità del loro servizio manifestasi specialmente sopra que' sentieri, e anguste vie, praticabili solo alle bestie da soma, seguendo Le quali su per le dorsali e le vette dei monti, si possono inviluppare le posizioni situate nelle valli". 39 Anche l'Istruzione sulle operazioni secondarie di guerra di dieci anni dopo prescrive che "quando un corpo di truppe opera in un paese montuoso, se il grosso delle forze occupa i/fondo della valle, i bersaglieri debbono osservare La sommità, e viceversa se il grosso occupa La sommità, i bersaglieri debbono osservare il fondo delle valli [. . .]. Nelle montagne l'attacco alle posizioni, il cui profilo abbia un 'inclinazione maggiore di 30 gradi, è principalmente eseguito per mezzo dei bersaglieri impiegati per grosse bande... ". 40 Se si tengono presenti le rispettive origini, la differenza tra alpini e bersaglieri nel 1872 era perciò una sola: il reclutamento locale e le sedi tutte alpine dei primi, che consentivano loro una rapida mobilitazione e una perfetta conoscenza dei luoghi. Requisiti che avevano in buona parte - per forza di cose - i bersaglieri piemontesi, ma che dopo il 1861 non potevano più avere i bersaglieri italiani, il cui reclutamento era su base nazionale come per tutte le unità dell'esercito. A1la loro nascita gli alpini, insomma, erano solo bersaglieri nuovamente tornati al reclutamento locale, ai quali si richiedevano sia le speciali doti fisiche richieste dalla guerra in montagna (non dissimili da quelle dei bersaglieri), sia l'abitudine a vivere e spostarsi in montagna e su sentieri impervi e anche ad alte quote (che almeno i bersaglieri del1'esercito italiano non potevano avere, o non potevano avere tutti). Sotto il profilo dell'impiego i bersaglieri del 1872 erano unità bivalenti, atte ad operare sia in montagna che in pianura, dove avevano importanti compiti particolari: diversamente da quanto sostiene il Franzosi il requisito del1a bivalenza non può invece essere attribuito in alcun modo ai "bersaglieri delle Alpi" de] P. e agli alpini dei decenni successivi, la cui esistenza è giustificata solo dal fatto di essere specializzati per la montagna. Che poi, per forza di cose, abbiano avuto il battesimo del fuoco in Africa nel 1896, e abbiano combattuto sempre in Africa nel 1911-1912, non smentisce questo loro particolare orientamento d'impiego. Il reclutamento alpino è diventato, poi, gradualmente di massa, privilegiando con criteri sempre più larghi il loro carattere locale: ciò non to-

39 l slruzione sul servizio in guerra della Fanteria_ Cavalleria e Artiglieria volgarizzata sulla ]• edizione tedesca anno corrente, Torino, Ferrero e Franco 1852, P- 79_ 40 Istruzione sulle operazioni secondarie di guerra a uso degli ufficiali dell'Esercito, Torino, Tip. Scolastica di S, Franco 1862, p. 102,


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- -- - - ' -IV '_· =LA ~M =U =l;~ l'IF =ORME OPERA DI GIUSEPPE P_,,, ER =R=UC=C= H=E.1Tl '--'--'-_ _ _ __ __

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glie che la creazione e il progressivo, costante sviluppo delle truppe alpine ha provocato nei bersaglieri una crisi d'identità che si è fatta sentire nella letteratura militare fino alla prima guerra mondiale, sulla quale ci riserviamo cli ritornare. Intanto si deve constatare che per la creazione e il progressivo ampliamento delle due prestigiose specialità è stato automaticamente pagato un prezzo molto alto: il depauperamento della fanteria, inevitabile nel caso degli alpini ma forse non altrettanto nel caso dei bersaglieri, visto che - come già osservava Garibaldi (Vol. II - cap. VII) - tutti i compiti assegnati a quest'ultimi avrebbero potuto e dovuto essere svolti dalla normale fanteria, senza bisogno di creare un corpo speciale. In questo contesto probabilmente non tutti, nel 1872, capivano perché, con ben 10 reggimenti di un corpo nato principalmente - ancorché non esclusivamente - per la guerra di montagna, si dovessero creare altri reparti speciali con lo stesso compito, anziché perfezionare reclutamento e sedi degli stessi battaglioni bersaglieri. È perciò lecito ipotizzare che il Ricotti - prima ancora che l'opposizione del Parlamento ad una nuova legge di reclutamento - temesse in particolar modo l'opposizione dei parlamentari militari (specie se provenienti dalla fanteria o dai bersaglieri), e ancor di più l'opposizione interna dei più alti esponenti della fanteria e dei bersaglieri alla nascita di una nuova specialità. Lo climostrano, tra l'altro, parecchi segni che si intravedono nell'articolo del P., che ovviamente non può che fare suoi i timori del Ministro: l'uso del termine hersaglieri delle Alpi (però subito seguìto da queJlo compagnie alpine nel decreto del 15 ottobre che le istituisce), gli accenni alla parallela possibilità di aumentare a 60 i battaglioni bersaglieri, la discutibile assicurazione che con le soluzioni da lui proposte non verrebbe affatto climinuita la forza dell'esercito di 1" linea (noi osserviamo che questo non sarebbe vero in tempo di pace, mentre in caso di guerra diminuirebbe, comunque, la consistenza quantitativa e soprattutto qualitativa della fanteria). Altrettanto probabilmente questa preoccupazione non è stata estranea nemmeno alla costituzione graduale dei reparti della nuova più o meno sotterranea specialità, all'inizio assai distante dalle dimensioni proposte dal P. Nel 1872 non si costituiscono i ben 25 battaglioni (uno per ciascun distretto o ciascuna circoscrizione) con forza media di pace di 500 uomini previsti dal P., ma solo 15 compagnie alle dipendenze dei distretti. Con lo stesso decreto che istituisce le compagnie alpine i distretti sono portati a 62, tra i quali, però solo 4 (Como, Ucline, Cuneo, Verona) appartengono ai "reparti o distretti" di confine indicati dal P. per l'istituzione dei nuovi battaglioni. Il decreto accenna anche all' aumento dei Quadri dei distretti e aggiunge che


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è alquanto accresciuto il numero delle compagnie distrettuali permanenti, ma essenzialmente perché ai Distretti [quali? - N.d.a.J verrebbe associata un'altra istituzione: la creazione di un certo numero di compagnie alpine, di compagnie cioè reclutate nella regione montana, le quali avrebbero per speciale destinazione la guardia di alcune delle valli della nostra frontiera occidentale e settentrionale [ nostra sottolineatura - N.d.a. /. Per ora il numero di esse compagnie è limitato a 15: ma se ne potranno col tempo formare delle altre, quando se ne manifesti la convenienza e quando, come è a sperarsi, questa prima creazione dimostri col fàtto di corrispondere al bisogno.

La probabile tendenza a mettere gli oppositori davanti al fallo compiuto si manifesta anche con la legge 30 settembre 1873 sull'ordinamento dell'esercito dovuta al Ministro Ricotti, che sancisce lanascita della nuova specialità. L' Art. 22 della legge stabilisce infatti che la fanteria comprende la fanteria di linea, i bersaglieri, gli Stati Maggiori e le compagnie permanenti dei distretti, e le compagnie alpine; inoltre l'Art. 25 recita che "in alcuni distretti vi saranno delle speciali compagnie alpine, nel numero da fissarsi secondo le esigenze del servizio". L'incremento dei reparti della nuova specialità, anche se lento, è ininterrotto: nel 1875 si costituiscono 7 battaglioni con 24 compagnie, nel 1878 1Obattaglioni con 36 compagnie, nel 1882 i battaglioni diventano 20, con 6 Comandi di reggimento e un totale di 72 compagnie, cioè con una forza più o meno corrispondente a quella prevista dal P.. Questi sono i fatti, che ciascuno può giudicare come vuole: oltre che dedurne che P. dà una pennellata importante e meritoria a un quadro al quale hanno lavorato in parecchi, se ne può trarre la conferma che, in campo militare, nihil sub sole novi et nullum est jam dictum, quod dictum non fiat prius.

SEZIONE II • Gli studi di geografia militare sul confine alpino (1873-1878)

Il discusso saggio sul Tirolo (1874): una minaccia sopravvalutata? Dal giugno all'ottobre 1874 la Rivista Militare pubblica in quattro puntate Il Tirolo - Saggio di geografia militare preceduto da brevi consi-


IV. LA MULTIFORME OPERA DI GIUSEPPE PERR =U=CC = l=IETrl ~ --

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derazioni su l'indirizzo da seguirsi nello studio di un teatro di guerra. 4 1 È il primo studio a carattere organico del P. ed è anche il primo frutto dell'insegnamento di geografia militare alla Scuola di Guerra, al quale è stato chiamato, oltre che per le molteplici e rare conoscenze acquisite in anni di ricognizioni, anche per la competenza sul più vasto problema della difesa del confine alpino dimostrata con la memoria di fine 1871. Nello stesso anno l 874 i quattro articoli vengono riuniti a cura della Rivista Militare in un opuscolo oggi non reperibile - con quella data nelle biblioteche (et pour cause).42 La seconda edizione compare nel 1877 "con aggiunta di note e schizzi" senza data e casa editrice, probabilmente perché per uso didattico interno e a cura della Scuola di Guerra.43 La terza edizione (1881), già citata, è "riveduta dall 'autore", corredata di 4 schizzi e con l'aggiunta della ristampa dell'articolo sugli alpini del 1872, che evidentemente non ha perso di attualità: il titolo pertanto diventa Il Tirolo - saggio di geografia militare seguìto da un'appendice su la difesa di alcuni valichi alpini e l'ordinamento militare territoriale e della zona di frontiera alpina. Da notare che non si accenna più, in tale titolo, alla difesa dei valichi del1a sola frontiera verso l' Austria e la Svizzera, mentre il testo dell'articolo sugli alpini - così come que11o sul Tirolo - porta qualche modifica specie riguardo a strade e ferrovie , con l'aggiunta di alcune note. Il P. non considera lo scacchiere del Tirolo come a sé stante, ma nel più ampio quadro dei rapporti politico - militari tra l'Italia e Austria, con una parte iniziale di carattere metodologico nella quale dichiara di essersi ispirato all'insegnamento dei suoi due "egregi maestrf' colonnelli Ricci e Sironi e agli scritti del tenente colonnello austriaco Haymerle. 44 A suo avviso il terreno va studiato alla luce della concreta situazione politico-sociale, economica e militare delle due parti supposte in guerra e degli scopi che in tal caso ciascuna di esse intenderebbe raggiungere, abbracciando in uno sguardo complessivo la configurazione geometrica del teatro di guerra, la sua struttura fisica con gli elementi che agevolano o ostacolano

41 I' puntata in " Rivista Militare Italiana" Anno XIX Voi. II - giugno 1874, pp. 305-325; 2' puntata Voi. UI · luglio 1874, pp. 28-61; 3' puntata Voi. III · settembre 1874, pp. 321-348; 4' puntata Voi. IV ottobre I 874, pp. 5-55. 42 Nel carteggio di fine 1874 riportato da Ilari (A/1. Cit.) si parla di un opuscolo e non di artico· li o saggi. 43 Reperibile nella biblioteca dell' Accademia di Modena. Ad essa noi ci riferiremo. 44 Si vedano le recensioni delle opere del Haymerle su " Rivista Militare Italiana " settembre e dicembre l87 I e aprile 1872.


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le operazioni militari, la rete stradale e ferroviaria. L'esame di questi elementi va condotto tenendo presente che per studiare bene il Tirolo si deve partire dal Po e dal Danubio, perché per noi studiare militarmente una regione di frontiera significa: studiare i rapporti strategici fra due Stati attraverso quella regione. Ed a questo siamo convinti che solo si possa arrivare prendendo le mosse nelle nostre ricerche dei centri di potenza, dalla principale hase del nemico, di là insomma donde prenderanno le mosse le sue forze e dove tenderanno le nostre. 45

Fatto questo, si tratta di stabilire l'influsso che tali elementi potrebbero esercitare sulla mobilitazione, sul concentramento e sullo schieramento strategico delle armate di ciascuno dei due contendenti. Una volta definiti gli obiettivi e le basi principali delle due parti, è possibile anche individuare le direzioni delle presumibili operazioni, che si ricavano congiungendo le predette basi con gli obiettivi strategici; rispetto a quest'ultime, bisogna poi individuare gli ":;pazi praticabili" e quelli "impraticabili". La ricerca di tutte queste componenti e dei loro rapporti porta il P. a dividere il terreno tra il Po e il Danubio in diversi scacchieri, di conseguenza divergendo sia dal metodo idrografico del Lavalleé che dalle teorie a sfondo geologico del Niox (Cfr. il prossimo cap. VIII). Ai predetti criteri di carattere generale ne vanno aggiunti altri di specifici da adottare per lo studio delle zone di montagna come il Tirolo, nelle quali le valli segnano le sole direzioni percorribili per le grandi masse di armati e perciò diventano il centro di gravità delle operazioni; ne consegue che le catene montane, che racchiudono le valli, vogliono essere considerate come elementi di queste ultime[. .. ]. Analogamente i corsi d'acqua, quando per entità abbiano importanza militare, vogliono essere considerati come semplici elementi d 'ostacolo nell'interno delle valli. 46

Con i suddetti criteri il terreno tra il Po e il Danubio, il cui ostacolo separatore è dato dalle Alpi Noriche , viene suddiviso dal P. in tre scacchieri: 1°) la pianura lombardo-veneta, nella quale giungono separate e si

. , Il Tirolo, 2' Ed. pp. 22-23. "" ivi, pp. 25-26.


IV - LA MULTIFORME OPERA DI GI USEPPE PERRUCCHETn

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riuniscono tutte le comunicazioni tra il Po e il Danubio, vale a dire tra Italia e Austria; 2°) la regione alpina a Oriente delle Alpi Noriche (solcata dagli affluenti di destra del Danubio); 3°) la regione alpina a Occidente delle Alpi Noriche, alla quale appartiene appunto il Tirolo di aJlora, "costituito dalle province austriache dell'Arciducato, del Salzburghese, del Tirolo e Trentino, e dalla porzione montana del Lombardo - Veneto"_ Non sarebbe possibile, né oggi sarebbe di rilevante interesse, analizzare minutamente le 130 pagine circa dedicate dal P. aJlo studio dei particolari geografici del Tirolo; importa piuttosto ricordare che egli, oltre a fornire un esempio senza dubbio pregevole di studio di uno scacchiere d 'operazioni montano, fin dalle prime pagine manifesta l'intento di sfatare almeno in parte la communis opinio che il saliente del Trentino in mano austriaca, minacciosamente proteso verso il cuore della pianura lombardo - veneta, in caso di guerra sarebbe una perenne e forte minaccia alle spalle dello schieramento avanzato verso il confine dell'Isonzo. Per raggiungere questo scopo assai originale e poco conformista, le considerazioni del P. si sviluppano intorno a due argomenti chiave: un particolareggiato esame delle possibilità offerte dalle vie di comunicazione stradali e ferroviarie ad ambedue le parti, e le precede nti esperienze storiche fino alla guerra del 1866. Premesso che gli eserciti moderni per muoversi e combattere hanno bisogno di buone comunicazioni stradali e ferroviarie e di abbondanti risorse nella regione attraversata, secondo il P. se questa regione è montana il problema diventa "nettamente determinato", le risorse sono scarse e le comunicazioni sono assai poco agevoli, costringendo gli eserciti a dividersi e a muovere su percorsi obbligati. In quest'ottica, nel caso specifico del Tirolo egli individua un complesso di vantaggi per l'esercito italiano e di svantaggi per l' esercito austriaco che scaturiscono dall'esame di una serie di aspetti particolari. Tra di essi, acquistano risalto: - l'eccessiva distanza intercorrente tra gli sbocchi delle valli del Tirolo nella pianura padana, che svantaggia l'esercito austriaco mentre l'esercito italiano ha la possibilità di giungere sui principali nodi di comunicazioni (Rovereto, Trento, Franzenfeste) utilizzando un numero di strade maggiore di quelle di cui dispone l'esercito austriaco; - la possibilità di rapidi spostamenti di masse di forze italiane verso il Tirolo, fornita dalla ricca rete stradale e ferroviaria dell'intera pianura padana, a fronte deHa scarsità di comunicazioni sulle quali può contare l'esercito austriaco.


4~= 02~.- -- -- ~'=L ~PF.NSIP.ROMILITAREENAVALEITALIANO-VOL. 111 (.ISW- 1915)

TOM.~O~I' ------ -

Per il p_ quest'ultimo è l'atout decisivo in mano nostra, anche perché gli spostamenti nostri della pianura non sono inceppati da alcun ostacolo, mentre quelli del nemico possono esserlo fin d 'ora dai forti di Rocca d'Anfo e di Rivoli e dalle molte difficoltà naturali che accompagnano sul territorio nostro le vie dello Stelvio, del Tonale, dell'Alemagna. Si noti ancora che tutte le forti posizioni di sbocco delle linee provenienti dal Tirolo sono sul territorio italiano e, come fu proposto dalle nostre Commissioni di difesa, potranno essere chiuse da forti. Infine si rammenti che un'offensiva efficace contro di noi non può conseguire alcun grande risultato se non dopo essere sboccata, per più di una linea, nella nostra pianura. 47

in definitiva mentre l'offensiva italiana contro la punta meridionale del Trentino e il suo lato orientale avrebbe buone probabilità di riuscita, quella austriaca verso la pianura potrebbe utilizzare un solo fascio di strade, che pur convergendo con le provenienze dal Friuli sarebbe pur sempre sbarrato dalla linea dell ' Adige, "unica tra le vie fluviali del Veneto che presenti per noi buone condizioni difensive". Il P. non concorda, perciò, con la tesi comunemente accettata che con un' offensiva dal Tirolo l'Austria potrebbe far cadere "agevolmente" tutte le linee difensive italiane dall'Isonzo all'Adige: lasciamo per un momento da parte quell' "agevolmente" che la storia di tutti i tempi smentisce. Ma, quand'anche fosse, che importa che quelle linee cadano? Hanno forse esse servito mai dal 1796 al 1866 ad arrestare seriamente e lungamente alcuna offensiva? Napoleone nel 1797 passa il Tagliamento combattendo sul fondo medesimo del fiume. Egli stesso, in detto anno, ed Eugenio Beauhamais nel 1809 non sono arrestati che per 24 e 36 ore dal Piave, in piena e difeso da forze considerevoli. Nugent nel /848 non ebbe a perder gran tempo a far cadere questa stessa linea. Se adunque questi fiumi non possono servire come ostacoli seri e permanenti, qual è il valore della frase sopracitata?48

Il P. conclude che se l' Austria, a causa delJa carenza di vie di comunicazione, troverebbe difficoltà sia ad addensare le forze nel saliente del

47 48

ivi, p. 127. ivi, pp. 128- 129.


IV - LA MUl'.rlFORME OPEKA UI GIUSEPPE l'ERRUCCHETfl

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Trentino sia ad irrompere da esso con la rapidità e la massa di forze necessarie, a sua volta un'offensiva italiana potrebbe facilmente separare dall'Impero austriaco la parte meridionale del Tirolo, ma non potrebbe proseguire verso le province orientali dell'Impero. Peraltro, "un'azione italiana in favore de li 'Austria darebbe a questa l'appoggio necessario a conservare e mettere a profitto, in una guerra generale, la posizione importantissima del Tirolo transalpino, posizione non altrimenti tenibile, perché eccentrica senza quell'appoggio".49 Questo equivale a dire, che ali' Austria l'amicizia italiana dovrebbe premere assai di più che l'amicizia austriaca all'Italia; il P. perciò sostiene, a chiusura dello studio, che se queste conclusioni sono esatte, a noi pare che l'Austria non pregiudicherebbe Le condizioni generali della sua d(fesa verso l'Italia ove rinunciasse al possesso di quella punta meridionale del Tirolo che è abitata da popolazioni italiane; ma, al contrario, mentre con ciò stabilirebbe novelli vincoli d'amicizia sincera e si procurerebbe un valido appoggio, anziché infinnare, renderebbe più agevole la difesa delle stesse province tedesche del Tirolo cisalpino, inquantochè le potrebbe coprire tutte con una sola occupazione verso Evia in val d'AdiRe, e più non sarebbe portata a disseminare le sue difese, come oggi è tentata di fare, per guardarsi dai passi del Tonale, delle Giudicarie, dell'AdiRe (val Lagarina), delle Fugazze e della val Sugana. La separazione fra i due Stati sarebbe determinata da ,?randi Linee naturali, quelle cioè che sono accompagnate dagli attuali confini amministrativi di circondario che, staccandosi dalla frontiera .fra Valtellina e Tirolo presso M. Cevedale, dal Zufall Ferner corrono sulle linee di displuvio fra Adige e Nos, per Pizzo Venezia, i ghiacciai di Zufrid, Pizzo Sassfora, i laghetti di Corvo, di Trento, Pizzo di Lauchen, Toval, M. Roen, Como di Tee.\', Cima d'Arza a Mezzo Tedesco, e, passato l'Adige allo stretto di Cadin, per M. Tolargo, Costa/unga, il giogo Sella, Campolongo, Alpe Incisa, M. Lagazuoi, Vallon Blanch, Crepa del Ravinores, Collefredo Alto, vanno a toccare,-presso Landro, sulla strada d'Alemagna, La nostra frontiera del Cadore, la quale potrebbe, là ove oltrepassa La cresta della catena, a Col S. Angelo esser rettificata in senso inverso, restituendo all'Austria il vallone di Mesurina, affiuente del Rienz. La quale Linea in tutto il suo sviluppo della Valtellina al Cadore non è attraversata da buone strade che in un sol punto, al centro, per modo che una sola e forte occupa-

49

ivi, p. 134.


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zione, poco al di sopra di Egna in val d 'Adige, coprirebbe, come si disse, tutto il paese compreso fra La via dello Stelvio e quella d 'Alemagna. Su questa linea che separa le due razze si rassoderebbero, per sempre, i vincoli già cordiali dell'amiciziafra i due Stati. lo faccio voto perché possa toccare al fondatore della nostra unità ed al restauratore deli 'Austria, a Vittorio Emanuele ed a Francesco Giuseppe, La gloria di stabilire questo pegno di pace e di concordia. 50

Evidenti le implicazioni politiche di questa tesi. Essa non è del tutto nuova, visto che già nell'articolo del maggio 1872 il P. sosteneva che "nelle condizioni attuali della nostra frontiera il Friuli sarebbe la linea principale d'invasione da parte dell'Austria", perché in questo caso l'esercito austriaco sarebbe favorito dalla rete di comunicazioni stradali e ferroviarie. Non del tutto nuove nemmeno le soluzioni politiche adombrate dal P., analoghe a quelle di altri precedenti autori (Pepe, Marsclli, Bonamico) ottimisticamente speranzosi che l'Austria disinnescasse ogni motivo di contrasto con l'Italia, rinunciando di sua spontanea volontà ai territori abitati da italiani. Al momento (1874) i rapporti con la Francia non sono per nulla buoni; anche per questo I' establishment politico- militare italiano (si vedano le tesi del Marselli - cap. II) è impegnato a migliorare i rapporti con l'Austria exnemica, preludio all'alleanza di otto anni dopo. In questo contesto, la chiusa del Ti.rolo prima riferita basta a provocare un nutrito scambio di lettere tra il Ministro degli esteri Visconti Venosta, il Ministro della guerra Ricotti e l' ambasciatore a Vienna di Robilant, tutti preoccupati che la sia pur garbata tesi del P. - che vorrebbe indicare all' Austria una soluzione notoriamente assai impopolare in quel Paese - offenda la peraltro notevolissima suscettibilità del vicino governo, turbando i buoni rapporti con quello italiano. Benché non risulti che l'Austria abbia fatto quei passi di protesta ufficiale che si usano in casi del genere, con lettera in data 5 dicembre 1874 al Ministro degli esteri il generale Ricotti definisce le idee del P. "più che altro un pio e fin troppo ingenuo desiderio" e dichiara di comprendere "la poca convenienza che simile concetto sia stato espresso per le stampe da chi riveste la qualità di capitano di Stato Maggiore e professore presso la Scuola di guerra e pubblicato anche sulla Rivista Militare Italiana, periodico notoriamente posto sotto la dipendenza di questo Ministero". Prec isa tuttavia di non aver letto subito l'opuscolo sul Tirolo, anche perché la di-

50

1/ Iìrolo , 4' e ultima puntata su "Rivista Militare" otlubre 1874 (Cit.), pp. 54-55.


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pendenza della Rivista Militare del Ministero non implica affatto la revisione dei singoli articoli pubblicati dal periodico (che rientrano nella facoltà discrezionale e nella responsabilità del direttore del periodico stesso). Da Vienna il di Robilant riferisce che "sulla questione di nuove cessioni di territorio all'Italia, dall'imperatore fino all'ultimo austriaco tutti la pensano allo stesso modo", e dichiarandosi "colpito dalla manifesta somma inopportunità di quella pubblicazione", chiede che il direttore della rivista (al momento, il generale Chiala) sia senz'altro esonerato dall ' incarico, perché unico responsabile. Con successiva lettera del 22 dicembre 1874 al Ministro degli esteri, il Ricotti informa di aver inviato un rimprovero scritto al Chiala e al P., la cui copia è stata prodotta dal ten. col. Corvetto (Capo della divisione Stato Maggiore del Ministero) all'addetto militare austriaco ten . col. Haymerle, che si era lagnato con lo stesso Corvetto dello scritto del P.; secondo il Ricotti, è bastato questo perché il Haymerle si dichiarasse soddisfatto. Con il predetto provvedimento, in verità poco drastico, il Ricotti tende a chiudere la questione e ad attenuare le responsabilità, ritenendo la destituzione del Chiala un provvedimento troppo severo, perché la sua è stata "più che altro una svista di apprezzamento", mentre lo scritto incriminato, "se considerato senza prevenzioni, non riveste alcuna apparenza di provocazione o di offesa all 'Austria, ma di troppo bonaria ingenuità". La taccia di ingenuità e di scarso realismo rivolta dal Ricotti al P., insieme con quanto afferma il Visconti Venosta sull'unanime modo di pensare austriaco, dimostrano tra l'altro l'infondatezza delle speranze dei non pochi autori italiani, fidenti in un atteggiamento più comprensivo dell' Austria a proposito dei territori italiani. Ad ogni modo questo incidente, o meglio questa tempesta in un bicchier d 'acqua, non ha nessuna influenza sulla carriera e sugli incarichi ricoperti dal Nostro, il quale si limita a togliere la chiusa incriminata dalla seconda edizione ( 1877) del Tirolo, lasciando immutato tutto il resto comprese le conclusioni di carattere strategico. Tale chiusa non compare nemmeno nella 3• edizione 1881, dove i precedenti accenni alla scarsa tenuta de1le linee del Tagliamento e del Piave 51 sono sostituiti dalla seguente, breve frase: "finché rimane intatta la linea dell'Adige, non dobbiamo poi tanto preoccuparci di tentativi tendenti a spuntare Le Linee fluviali più avanzate, che possiamo considerare piuttosto come elementi di manovra che di difesa".52

51

ivi, pp. 48-49. " Il 7tmln, 3• Ed. 1881 (Cit.). pp. 11 3- 114.


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Sempre nella 3" edizione 1881 (pubblicata solo un anno prima de]!' ingresso dell'Italia nella Triplice Alleanza) compare una significativa aggiunta finale, che giustifica l'annessa ristampa dell'articolo del maggio 1872 sugli alpini e indirettamente sotto1inea la perdurante esigenza di rafforzare il confine con l'Austria realizzando pienamente quanto il P. già proponeva in quell'articolo, relativamente a11a forza delle unità alpine e alla necessità di fortificare la frontiera: un serio assetto d!fensivo della wna montana <n che. di qua dalla.frontiera, recinge il Tirolo ed il Trentino, potrebbe trovarsi così.favorito dalle condizioni topografiche e dalle tradizioni locali, da paralizzare qualsiasi rapida od improvviso tentativo austriaco da tal parte, e rendere sicuri, in caso di guerra, l'adunata e gli schieramenti delle nostre forze verso qualsiasi parte della frontiera minacciata. Giunti a questo punto lasciamo al lettore le deduzioni che crederà. Noi ci accontentiamo di avere e.,poste quelle conclusioni, alle quali la pura ragione militare, non alcuna idea preconcetta [accenno alle vicende del 1874 - N.d.a.] ci ha condotti. NOTA (I) Quale può ottenersi con un conveniente impiego di forti di sbarramento, ampi, solidi, a doppio e ffetto [cioè non orientati solo a battere le provenienze dal confine - N.d.a.], atti a far lunga resistenza, offerenti valido appoggio alle difese attive e alle milizie paesane, le quali, organizzate secondo le proposte fatte nell' unita appendice, potrebbero senza grande spesa dare il più potente aiuto.

In questa aggiunta - e in particolare nell'accenno ai forti di sbarramento - vi è qualcosa di più che la semplice difesa dei valichi non protetti da fortificazioni, dalla quale prendono le mosse - peraltro già allargando l'orizzonte - le proposte del P. nel 1872. li citato ordinamento 1882, che raddoppia le compagnie e istituisce 6 reggimenti alpini, non è lontano; da queste connessioni è perciò legittimo dedurre che il P. nel 1881 (ma non prima!) sostiene apertamente una difesa delle Alpi che non si limiti a logorare e ritardare ]e penetrazioni del nemico, ma cominci ad assumere funzioni di arresto, sia pur svolte - almeno a11'inizio - dalle sole unità alpine e dai forti di sbarramento. Le poche righe aggiunte a11a 3" edizione COfltengono l'unico accenno al ruolo e alla fi sionomia delle forze in un 'opera nella quale - sulle tracce dell 'Arciduca Carlo e del Ricci - le indicazioni strategiche sono esclusivamente ricavate da particolari geografici e specialmente dalle caratte-


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ristiche delle vie di comunicazione, trascurando tutti gli altri fattori (geografici e non) e sfruttando in modo spesso non condivisibile i numerosi exempla historica, per i qua1i il P. risale fino ai Cimbri e Teutoni. Pare evidente, infatti, che la resistenza o la mancata resistenza delle truppe su un ostacolo, o lo sfruttamento o meno delle vie di facilitazione per l'offensiva, non dipendono solo dalla forza intrinseca e/o dalle chances in astratto offerte dal terreno all'offesa o alla difesa, ma da tutti gli altri dati della situazione, a cominciare dall'efficienza delle truppe contrapposte e dai rapporti di forze. TI fallimento della Strafe - bxpedition austriaca nel 1916 potrebbe essere visto come una conferma dei punti di vista del P., visto che il Comando Supremo italiano ha senza dubbio potuto fruire dell'ottimo sistema di comunicazioni della pianura veneta: ma che dire della mancanza nel Tirolo di qualsiasi accenno all'importanza dell'altopiano dei Sette Comuni, dove l'offensiva austriaca è stata arrestata solo facendovi affluire una massa di fanterie, e non solo unità alpine? Che dire della convinzione del P. che le linee del Tagliamento e del Piave erano inconsistenti? Sull'altopiano d'Asiago come sul Piave, più che le posizioni hanno contato lo spirito e la consistenza delle nostre fanterie, che 1e hanno gagliardamente difese. Una cosa è certa: che le idee del P., benché esposte nelle sue lezioni alla Scuola di Guerra, non sono condivise dall' establishment militare del momento (oltre che, come si è visto, dal Marselli). Lo dimostra la recensione della 3a edizione (non firmata, quindi redazionale e dovuta probabilmente allo stesso direttore magg. Oreste Baratieri) pubblicata nel 1881 dalla Rivista Militare, 53 nella quale si ricorda che il citato tenente colonnello austriaco Haymerle nella sua opera ltalicae res ha frainteso le conclusioni del P. sul nessun pericolo che in caso di guerra il Tirolo rappresenterebbe per le operazioni de1J'esercito italiano (come dire: di fatto il P. offre agli austriaci una "sponda" per non restituircelo, visto che dal punto di vista strategico per noi non sarebbe un pericolo). Dopo questo rilievo il recensore si dissocia apertamente dalle tesi del P., dimostrando che i forti di sbarramento e l'organizzazione militare delle popolazioni alpine non sarebbero sufficienti per proteggere la mobilitazione e la radunata. Infatti secondo il Haymerle l'esercito austriaco potrebbe concentrare nel Tirolo circa 100.000 uomini, quindi in caso di operazioni concomitanti nel Tiro1o e nel Friu1i la nostra difesa da questa parte sarebbe oltremodo difficile, ponendoci di fronte all'alternativa tra dividere le forze con un rapporto a noi

""Rivista Militare Italiana" Anno XXVI - Voi. II maggio 188 1. pp. 382-386.


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sfavorevole nel Tirolo, oppure abbandonare buona parte della pianura veneta per irrigidire la difesa a cavallo dell'Adige. A conforto di questa tesi il recensore cita anche l'opinione del Sironi, secondo il quale l' andamento concavo della frontiera austriaca renderebbe "insostenibile" la difesa della pianura ad est dcli' Adige, se non si sbarrassero meglio i valichi principali e "se non si possedesse una forza navale preponderante, che ci permettesse la controffensiva sia contro le operazioni dell'aggressore, sia alle spalle del medesimo". Il recensore conclude perciò che il P. avrebbe dovuto esaminare meglio anche il prosieguo delle operazioni dopo la radunata. Al di là di questa critica non casuale e ufficiosa, Il Tirolo viene assunto come modello dal Bonamico, che nel 1881 gli dedica parecchie pagine dei suoi primi studi di geografia militare marittima, nuova disciplina della quale può dirsi il fondatore e, forse, l'unico cultore. Secondo Bonamico l'importanza militare di tale regione i suoi caratteri geografici esattamente definiti, La sua naturale gravitazione sul nostro principale teatro di guerra e, specialmente per me, gli studi interessanti del Perrucchetti non potevano che determinare la mia scelta. Avrei certamente desiderato per la mia applicazione un teatro di guerra in diretta comunicazione col mare, ma i vantaggi sarebbero stati assai pochi, e gli inconvenienti moltissimi, poiché, se si eccettua la Liguria, nessuno degli altri teatri ha una storia militare propria e caratteri tanto spiccati quanto il Tirolo. 54

A supporto delle sue tesi sulla guerra costiera Bonamico dedica particolare attenzione anche a quanto sostiene il P. sull'importanza del Lago di Garda: così lo studio di un teatro di guerra montano fa inaspettatamente da sfondo (è l'unico caso) a considerazioni sulla guerra marittima, che aprima vista dovrebbe essere la più lontana dalla guerra di montagna.

Gli altri studi monografici sulla catena delle Alpi e sulle coste adriatiche il Tirolo è la più importante di una serie di monografie geografiche derivanti dall'attività ricognitiva e di insegnamento del1'autore, pubblicate nel periodo 1873-1878 per uso esclusivamente didattico. La 2" Edizione

54 Oomenico Bonamico, Considerazioni sugli s1udi di geografia mili/are e marittima, in " Rivista Marittima" Voi. Ill - sellembre 1881 , p. 399.


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1878 è riservata e stampata in copie numerate consegnate ad personam. Esse sono: - Esame preliminare del Teatro di guerra italo - austro - ungarico; 55 - La pianura lombardo-veneta e le coste adriatiche; 55 - Dal Friuli al Danubio;55

- Teatro di guerra italo-svizzero, dal Po al Reno;56 - Teatro di guerra italo-franco, dal Ticino al Rodano. 57 Lo studio de] teatro ita1o-austriaco è preceduto da considerazioni di carattere teorico generaJe che completano quelle già citate all'inizio del Tirolo, a cominciare da una definizione di geografia militare che è assai più comp]essa - e completa - di quelle comunemente conosciute fino a oggi, tutte ben riassunte in questa (2000) del Coutau - Bégarie: "branca della geografia che studia l'influenza dei fattori geografici sulle operazioni militari".58 Per il P., invece, geografia militare significa descrizione ed apprezzamento militare della terra, o, più precisamente, degli oggetti terrestri, presi tanto isolatamente che cumulativamente, i quali facilitando o impedendo lo sviluppo dell'azione militare possono avere influenza sulla guerra (non solo sulle grandi operazioni ma anche sugli atti preparatori della guerra, che subiscono nel più alto grado l'influenza dell'elemento geografico I- .. I). La descrizione considera detti oggetti nelle loro forme, ne dà le dimensioni, può procedere indipendente da qualsiasi concetto, e piegarsi a qualsiasi ordine e metodo. L'apprezzamento deve dare il valore degli oggetti relativamente all'azione militare - valore che può variare al variare della direzione e della intensità di forza, colla quale l'azione militare può incontrare L'oggetto geografico. Non essendovi Limiti nel campo astratto delle ipotesi alla direzione e alla intensità, ,:Li ora detti apprezzamenti dovrebbero moltiplicarsi all'infinito. Per limitarli senza inconvenienti, è necessario avere un criterio per scegliere le direzioni e le intensità dell'azione militare più utili ed opportune a fare entrare nel calcolo; il che si può ottenere passando dalle ipotesi astratte al caso concreto di una guerra fra Stati aventi forze note, obiettivi politici noti, determinati i punti, sui quali L'azione militare potrebbe avere interesse

ss 2' Ed. Torino, Roux e Favale 1878. "' I' Ed. 1873; 2• Ed. Torino, Roux e Favale 1878; 3' Ed. Torino. Casanova 1882. 57 2' Ed. Torino, Roux e Favalc 1878; 3" ed. Torino 1882. s. Hervé Coutau - Bégaric, Géographie militaire (in Dic1ionm1ire de Strutégie a cura di T. De Montbrial - J. Klein, Paris, PUF 2000, pp. 262-263).


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a dirigersi; per modo che nello spazio delimitato dal territorio degli Stati supposti in lotta (Teatro di guerra) riescono determinate in modo razionale (e non a caso) le direzioni e l'intensità dell'azione. li procedimento a tenersi nell'apprezzamento degli oggetti geografici vuol essere regolato in modo da poter calcolare gli oggetti geografici prima isolatamente e poi collettivamente, secondo l'ordine col quale si troverebbero nel caso concreto esposti all'azione militare, e riesce per questo fatto determinato. 59

Alla luce dei predetti criteri, secondo il P. occorre considerare: I i rapporti politici tra i due paesi in contrasto, dai quali è possibile ricavare gli obiettivi presumibili in caso di guerra e le direzioni per raggiungerli; - II la situazione politica interna di ciascun Stato, che dà la misura del contributo delle forze vive del Paese alla guerra; - III la situazione delle forze organizzate e dei mezzi per farle muovere, che insieme con la situazione politica interna, dà la misura dell'intensità dello sforzo militare; - IV le "condizioni generali geografico - statistiche" nel teatro di guerra, in base alle quali è possibile definire la ripartizione in scacchieri del teatro di guerra e - sia pur in via approssimativa i più probabili punti di partenza e di arrivo dei due eserciti contrapposti. Accanto a un concetto per così dire allargato di geografia militare, si trova un interessante accenno all'importanza della statistica militare, che secondo il P. merita di essere considerata come nuovo ramo della scienza militare, perché ha uno stretto legame con la strategia. I dati statistici sulla produzione agricola [manca quella industriale - N.d.a.] e sulla popolazione servono infatti a stabilire non solo la possibilità di alimentare la guerra con la guerra, e quindi la misura in cui è possibile svincolarsi dalle basi d'operazione, ma anche le possibilità di accantonamento nella cattiva stagione e l'esistenza o meno di scorte alimentari. Purtroppo tali dati spesso mancano o non sono aggiornati, perché nello studio delle campagne di guerra passate, fu quasi sempre data la prevalenza ai fatti strategici e tattici, e manca per conseguenza la storia dei fatti economici, che influirono sull'andamento delle guerre. Ep-

"'/èatm di guerra italo-austro-ungarico .... (Cit.), pp. 1-2.


IV · LA MULTIFORME OPERA DI GIUSEPPE PERRUCCHETl1

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però manca la possibilità di corroborare coi dati dell'esperienza l'entità del legame che è fra la statistica e l'azione militare. ro

Nell'esame dei rapporti tra Italia c Austria il P., forse memore delle scelte antiaustriache della gioventù, si guarda bene dall'elencare (come fanno il Marselli e il Bonarnico) i vantaggi di un'alleanza con l'Austria, né sottovaluta il problema delle terre irredente. Pur ammettendo che il ritorno all'Italia di tali terre non potrebbe essere di per sé di valore strategico, sottolinea che il principio di nazionalità, portato il tricolore italiano a giro per la penisola, tenta di farlo penetrare in quei campi italiani che sono rimasti al di là della frontiera, e fissa nel Tirolo cisalpino, a Gorizia, a Trieste, nelle città litoranee della Dalmazia, altrettanti obiettivi alle aspirazioni. La ragione della nostra sicurezza tende a far scomparire l'anomalia di una occupazione austriaca in mezw alle nostre province, fra Lombardia e Venezia, e addita nuovamente un obiettivo nel Tirolo italiano

[ma non avevano dimostrato prima (1874) che la minaccia alla nostra sicurezza dal Tirolo in mano austriaca non era rilevante? - N.d.a.], mentre in generale accenna a quella linea di frontiera, che la natura ha in modo così evidente stabilita sulla cresta alpina. Le nostre tradizioni marittime richiamano la rinascente potenza italiana a quel predominio nell'Adriatico che ha fatto, per secoli di Venezia una delle prime potenze marittime del mondo, e qui ci vediamo portati agli obiettivi dell 'Istria e della Dalmazia ed alle stazioni navali dell 'antica repubblica veneta. 6 1

Sono proprio queste le aspirazioni - chiaramente irrinunciabili e non negoziabili - che oltre trent'anni dopo avrebbero indotto il governo italiano ad abbandonare la Triplice e la neutralità e ad entrare in guerra contro l'Austria (si noti: almeno per il momento non contro la Germania, con la quale non c'era alcun contenzioso). D'altra parte, smentendo le discusse considerazioni finali del Tirolo, questa volta il P. si rende conto che l' Austria attribuisce grande importanza al mantenimento dello status quo delle frontiere con l'Italia, fino a far proporre da alcuni scrittori austriaci di approfittare della prima occasione propizia per modificare a ulteriore favore dell'Austria le frontiere del Tirolo; tuttavia, a suo avviso queste aspirazio-

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ivi, p. 82. ivi, pp. 5-6.


4.,_, 12,,____ _ _ _--" IL,__._P__,,, EN "-'S._.,, lE,,., RO ,,._,M LLITARE E NAVALE ITALIANO - VUL. lii ( 1870-19 15) - TOMO I

ni non sarebbero sufficienti per far decidere ali' Austria una guerra generale, che potrebbe avere come obiettivo strategico solo Roma, "assai lontana, e a cui non potrebbe mirare senza il soccorso di una potenza marittima". Per la difesa della penisola in tutte le ipotesi di guerra, il p_ giudica di importanza fondamentale la linea del Po, che appoggiandosi all' Appennino nella stretta di Stradella, copre tutte le comunicazioni della pianura padana con la penisola. I rimanenti fiumi del Nord-Est sono invece lutti aggirabili, compreso l'Adige che pure possiede in misura maggiore degli altri i requisiti di una linea di ostacolo. A cavallo del Po devono gravitare i nostri preparativi difensivi di guerra; esso per l'Austria sarà il principale obiettivo, sia nel caso che tenda a proseguire le operazioni nell'interno della penisola, sia nel caso che esse siano dirette verso le Alpi occidentali_ Il Po sarebbe la naturale base d'operazioni anche per un'offensiva italiana contro l'Austria, che a parere del P. potrebbe avvenire lungo due diverse direttrici strategiche: I operare con la massa maggiore contro il Tirolo per separarlo dal rt:stu ùt:11' Austria, proteggendo i I fianco destro dalle minacce provenienti dal Friuli; 2°) opera.re con la massa maggiore attraverso il Friuli in direzione di Vienna, proteggendo i1 fianco sinistro dalle minacce provenienti dal saliente del Tirolo. È ben noto che quest'ultima è stata la scelta strategica ddl' intera guerra I 915 - 191 8: ma come si è visto, il P. la ritiene la meno conveniente_ A suo giudizio nel primo caso le nostre operazioni, ben appoggiate alla base del Po e minacciale solo da lontano da eventuali offensive austriache nel Friuli, potrebbero godere di un quadro strategico favorevole; nel secondo caso invece il nostro esercito, procedente "oltre Mestre nella Lunga e stretta zona del Friuli, con direzione molto obliqua alla base, con l'ostacolo del mare lungo tutto il fianco destro, colla minaccia che potrebbe scendere sul nostro fianco sinistro dal fascio di strade Cadore - Trentino [ma allora quella dal Trentino è una minaccia non tanto da poco! - N_d.a.], potrebbe trovarsi circondato, separato dalla linea di ritirata e con il pericolo di essere addossato al mare"_ 62 Con un siffatto approccio la prospettiva di una guerra di montagna e di posizione come quella del 1915 - 1918 nel Friuli è del tutto assente nella visione del P., che indulge fin troppo nel prospettare rapide e profonde manovre offensive da parte dell'esercito italiano anche nel cuore dell'Impero austriaco, continuando a vedere una guerra di movimento fatta di colonne che abbastanza rapidamente procedono attraverso le vie di facilita0

)

62

Lo pianura lombardo-veneta .... (Cit.), p. IO.


IV - U. MULTI PORME OPERA DI GIUSEPPE PERRUCOU!TTI

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zione. Tuttavia questa volta si profila nitidamente la sconfitta di Caporetto, là dove il Nostro descrive più nel dettaglio i vantaggi che le operazioni dell'esercito austriaco avrebbero nello scacchiere del Friuli, vantaggi che gli derivano dalla disposizione delle linee di facilitazione, convergenti verso le Alpi, divergenti verso il Danubio; dall'enorme differenza di sviluppo tra la base principale austriaca e quella italiana; e, per ultimo, dalla forma arcuala colla concavità rivolta all'Italia che hanno parecchie delle linee frontali e specialmente i due limiti danubiano e alpino dello scacchiere. Questa disposizione delle linee, avvalorata da una ricca e ben distribuita rete ferroviaria, procura all'esercito austriaco la facoltà di concentrarsi rapidamente e di adottare nella condotta della guerra quel metodo di ardite manovre che sole possono generare i risultati decisivi. 63

Non può essere fatto altrettanto dall'esercito italiano, costretto a investire sempre frontalmente le difese nemiche sulle Alpi, e una volta che le abbia superate, a procedere verso il Danubio con i fianchi esposti a contromanovre nemiche; perciò 1' offensiva italiana potrà trovare rimedio a questi svantaggi solo "rendendo straordinariamente mobili le sue masse e celeri i suoi empi." A1 lettore viene spontaneo obietlare: come se ciò fosse facile! Fuori posto sembra anche il richiamo, in proposito, alle memorie del principe Eugenio Beauharnais sulla campagna del 1813, che sembra ignorare gli enormi progressi dei mezzi di fuoco e di trasporto da allora in poi e l'aumento della forza e del peso logistico degli eserciti, diventati di massa. Più perspicaci, anzi decisamente profetiche, le considerazioni del P. sulla difensiva, dove acquista risalto il pericolo dì una penetrazione nemica sul fianco sinistro del nostro schieramento sull'Isonzo e in particolare dalle Convalli del Natisone, proprio come è avvenuto nell' ottobre - novembre 1917: si è notato come l 'Austria abbia in questo scacchiere potenti mezzi f erroviari per uno schieramento rapido fra Tarvisio e Gorizia, come da parte nostra si pensi di precludere le due strade che sboccano a Ospedaletto rdalla Val Fcllal e a Cividale rdalla Val Natisoncl, per rallenta-

63

Dal Friuli al Danubio (Cit.), p. 73 .


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. lii (IRW- 1915) - ffiMO I

re almeno alcuni giorni la marcia delle forze nemiche, mentre l'altra parte sboccherebbe troppo rapidamente attorno alla troppo vecchia e quasi inutile Palmanova. Aggiungiamo qui che dal conflitto fra i nostri mezzi di concentramento e quelli austriaci, riesce evidente la probabilità di vederci prevenuti dal nemico nella pianura del Friuli/>4

Prima del 1915-1918 è stato fortificato lo sbocco di Ospedaletto ma non quello di Cividale (al quale si è provveduto solo nella guerra fredda); superfluo sottolineare il danno che ne è derivato nelle tragiche giornate di Caporetto, quando il nemico ha trovato completamente sguarnita la via di facilitazione della Val Natisone. Questo fatto dimostra che non del tutto a torto il P. ha incentrato le sue riflessioni sulle vie di facilitazione, trascurando a volte l'importanza delle posizioni che le dominano (il contrario è stato fatto dalla leadership del 1915-1918). Ad ogni modo, dal brano prima citato sulla necessità di fortificare Ospedaletto e Cividale si può dedurre il concetto di difesa del confine orientale al momento sostenuto dal P.: nessuna convenienza di fortificare la p011a aperta della pianurn di Palmanova e/o di irrigidire la difesa lungo i fiumi, che ad Est dell'Adige sono tutti aggirabili a monte (le teste di ponte di Codroipo e Latisana andrebbero rafforzate solo con lavori di fortificazione campale); la controffensiva potrebbe avvenire solo a Ovest del Tagliamento, quindi con probabi le base di partenza tra l'Adige e il Po. 1l P. esamina anche il valore delle fortificazioni dell 'antico quadrilatero austriaco (Mantova, Vienna, Peschiera, Legnago), ormai in mano all'Italia per opporsi a offensive austriache dall'Est. 65 In sintesi: - il quadrilatero al momento non consente il reciproco appoggio strategico tra le quattro piazze (che richiede una distanza di non più di una giornata di marcia tra di esse); pertanto, andrebbero fortificate anche le posizioni di Custoza e il nodo stradale di Villafranca. Con questa estensione, sarebbe possibile arrestare efticacemente un'offensiva nemica da Est, appoggiare la controffensiva e consentire un risparmio di forze mobili a beneficio della difesa dell'Italia peninsulare e di quasi tutta la Val Padana; - Mantova è la piazza più importante del quadrilatero perché ''presenta non solo un solido appoggio alla Linea del Mincio, ma un grande perno per la difesa attiva fra Mincio ed Adige, fra Mincio ed Oglio;

64 65

IBIDEM. La pianura lombardo-veneta (Cit.), pp. 35-36, 61 -66, 69-7 1-


IV - LA MUIXll'OKMl:i OPliRA DI UIUSEPPE PERRUCCHETTI

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da essa si può coprire indirettamente Lombardia ed Emilia contro le operazioni provenienti dal Veneto..."; - Verona, per la sua posizione troppo eccentrica rispetto alle linee di operazione dell'esercito italiano, e per la sua eccessiva distanza dalla base principale del Po, non ha per noi la stessa importanza che aveva e avrebbe tuttora per l'esercito austriaco, del quale coprirebbe la ritirata e agevolerebbe le manovre offensive tra Mincio e Adige. Dopo i confini terrestri, anche il P. come il Ricci e il Marselli si occupa del ruolo della marina, dando però particolare rilievo - diversamente dai predetti autori - al suo impi.e go nell'Adriatico, cioè in funzione antiaustriaca. Già nell 'articolo sugli alpini aveva rilevato che la testa di ponte di Mestre, per la quale la Commissione per la Difesa dello Stato aveva previsto l'estensione, "sarà bensì una minaccia sul fianco dell'invasore, ma essa non avrà per base che il mare e la nostra marina da guerra"; purtroppo "la nostra marina è ancora troppo negletta per dare a Venezia tale appoggio da farne una base efficace" [ai fini della controffensiva - N.d.a.]. Dopo aver implicitamente riconosciuto con queste parole del 1872 la necessità di rafforzare la marina, nello studio del 1878 s ullo scacchiere italoaustriaco torna sull'argomento con ben altra ampiezza, aggiungendo dettagliati specchi sulla consistenza delle due flotte. Per il P. la flotta serve a fornire il maggior aiuto possibile alle forze terrestri, generalmente per mezzo di sbarchi. Per effettuare gli sbarchi, però, è necessario aver conquistato prima il dominio del mare con una battaglia decisiva: se la flotta nemica non accetta il combattimento e si rifugia in un porto, occorre attaccarla in tale porto, a meno che non riesca possibile il blocco con poche forze, cosa assai difficile. Ciò premesso, quando, come nel nostro c:asu, non vi sia gran differenza di potenza marittima tra l'uno e l'altro Stato, è probabile che le più forti piazze marittime attireranno prima gli attacchi dell'avversario efac:ilmente si trasformeranno in basi d'operazione, se conquistate. Pola e Venezia sarebbero,per conseguenza, nel caso nostro, probabilmente i due primi obiettivi delle flotte. 66

Scontati gli accenni alla mancanza di porti sulla costa italiana da Venezia a Brindisi, che però non si presta nemmeno allo sbarco di forze consistenti; le caratteristiche della costa austriaca offrono invece al nemico

.. Teatro di guerra italo-a11stro-ungarico (Cit.), p. 73.


IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. 111 ( 1870 - 191 5"-)~ - TO =M =O ~ l~ - - -

"vantaggi di manovra straordinari", specie per la guerriglia marittima. È ben noto che, per tutta la guerra 1915-1918, la marina italiana temendo l'insidia dei sommergibili e delle mine ha mantenuto il grosso della flotta fuori dall'Adriatico e non ha mai rafforzato Venezia, nemmeno quando il sommergibile non era ancora nato: ma la strategia suggerita dal P. è I' opposto, anche se definisce Taranto "l'unica località che presenti condizioni veramente buone per stabilire una solida base marittima". Nonostante i suoi limiti come base marittima, riconosce giustamente che Ancona potrebbe almeno servire come punto d ' appoggio per una flotta che intenda agire offensivamente: e proprio perché lungo la nostra costa adriatica non vi sono altre naturali basi marittime, insiste particolarmente sull'importanza di Venezia, che "è nello stesso tempo il punto meglio situato per servire di base alle nostre operazioni maritJime, aventi i principali obiettivi a Pola, a Trieste e a Fiume; e anche per rendere efficace, sul territorio nostro, il concorso delle operazioni marittime colle terrestri quando si tratti di esercitare un'azione fiancheggiante sulla zona piana dal Friuli all'Adige". 67 Venezia sarebbe l'obiettivo più importante anche per l'Austria, perché la sua occupazione consentirebbe sia di impedire l'azione fiancheggiante della nostra flotta, sia di agevolare "in alto grado", in caso si offensiva, la riunione tra Treviso e Padova delle masse provenienti dal Trentino e del Friuli. SuJJe coste austriache Pola è la chiave dell ' Istria, perché con la sua posizione avanzata tra i due porti protegge efficacemente sia Trieste che Fiume; è anche la miglior base di operazione austriaca per l'offensiva sulla nostra costa, alla stessa, breve distanza da Venezia e Ancona (circa 70 miglia). Pola potrà comunque essere occupata solo dopo aver distrutto la flotta nemica; se l'occupazione non fosse possibile, rimane la possibilità di tentare un colpo a sorpresa su Trieste, distante da Venezia solo 60 miglia. I nostri obiettivi preferenziali , comunque, rimangono Trieste e Fiume, dalle quali sarà possibile concorrere dal mare a11e operazioni terrestri; questo è un vantaggio, perché se la flotta nemica fosse obbligata alla difensiva sarebbe attratta da Pola, anziché ripiegare su Trieste e Fiume. Il ruolo della flotta viene esaminato dal P. anche ne11a difesa dell' Italia peninsulare e del confine di Nord-Ovest contro la Francia, che in tal modo assume una dimensione interforze. In particolare, per la difesa della penisol a egli esamina due ipotesi strategiche: I 0 ) operazioni of-

67

ivi. p. 87.


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fensive e difensive lungo l'asse della penisola, da Sud a Nord e/o viceversa; 2°) sbarco di consistenti forze francesi per aggirare il fronte delle Alpi Occidentali, avvalendosi della superiorità della marine nationale e della disponibilità nel porto di Tolone di numeroso naviglio da trasporto. Nel primo caso pur senza citarlo P. non fa che ripetere quanto molto prima (J 836) aveva scritto il Pepe (Voi. I, cap. Xlll): per le operazioni lungo la penisola sia l'offesa che la difesa dovrebbero appoggiarsi a successive linee di ostacolo, senza possibilità di manovra. Se però una delle due parti avesse il dominio del mare, potrebbe minacciare ai fianchi e alle spalle lo schieramento nemico; se poi il domini del mare fosse nostro, avremmo anche il vantaggio di poter raccogliere nel territorio non occupato dal nemico forze e mezzi di riserva. Grazie al dominio del mare, Roma ha potuto spostare e concentrare 1e sue forze sconfiggendo Annibale: "quello che i nostri padri hanno fatto potremo ripeterlo noi, se acquisteremo sul mare quel posto, cui natura ci ha chiamati". Nel secondo caso (è bene rammentarlo ancora: siamo nel 1878) il P. conferma le tesi già sostenute nel 1872 riguardo alla convenienza di una controffensiva con il grosso delle nostre forze contro le colonne francesi sboccate nell'alta pianura padana e prima che abbiano potuto riunirsi, divergendo peraltro dal Ricci (e per la parte di interesse marittimo dal Bonamico) su due aspetti fondamentali: - effettive possibilità di condurre con successo un'offensiva terrestre e/o marittima contro la Francia; - possibilità o meno di far fronte agli sbarchi francesi con la sola flotta e con un minimo di forze terrestri di 2a linea. Pur senza citarlo direttamente, il P. ha tutta l'aria di riferirsi agli Appunti sulla difesa d'ltalia del suo "maestro" Ricci, quando osserva che, anche se l'esperienza storica conferma la validità della massima che la miglior difesa è l'attacco, nel caso specifico non è possibile condurre una rapida offensiva contro il nemico nel suo territorio, per diverse ragioni: manca la superiorità numerica, il terreno non è favorevole, le fortificazioni francesi sono numerose e efficienti, non sarebbe possibile sorprendere l'esercito francese nella fase critica della mobilitazione, perché essa sarebbe molto rapida. Anche un'offensiva marittima sarebbe da escludere, sia per l' inferiorità della nostra flotta che per le condizioni della costa francese e per l'impossibilità di un'azione concorrente con 1' offensiva terrestre. TI nostro pur numeroso naviglio da trasporto potrebbe perciò servire solo per gli spostamenti di forze dal Sud al Nord della penisola e viceversa, o per alimentare la difesa delle isole.


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IL PENSIERO MILITARii J:: NAVALI:: ITALIANO - VOL. Ili ( 1870-,191~) -mMO I

Il Ricci e il Bonamico nelle linee essenziali sono d'accordo nell'affidare alla marina la difesa dell' Italia peninsulare e insulare; ma il P., pur riconoscendo che in linea generale toccherebbe alla marina far fronte alle minacce di sbarco, la giudica insufficiente e in grado, forse, di disturbare gli sbarchi, non di impedirli. La flotta francese si presenterà riunita, sia per proteggere i convogli, sia per battere la nostra; poiché chi è più debole deve manovrare unito contro nemico diviso e viceversa, "bisogna che la nostra flotta resti divisa e sia mobilissima, per modo da arrivare da molte parti addosso al nemico, tenerlo nell'incertezza ecogliere tutti i momenti opportuni per offenderlo". Secondo il P. la mancanza di una flotta in grado di impedire gli sbarchi e la vulnerabilità delle lince ferroviarie costiere rispetto agli attacchi dal mare impongono di fortificare Roma e di mantenere inizialmente nella penisola tre dei dicci corpi d'armata, pronti a fare massa sui punti di volta in volta minacciati. Queste truppe di 1q linea rimarrebbero in posto fino a quando le divisioni di 2" linea (cioè di richiamati dal congedo) fossero in grado di sostituirle; alla difesa della costa ligure provvederebbero invece le stesse forze di stanza nel bacino del Po. Le minacce francesi dalla parte di mare, "che secondo i calcoli di distinti ufficiali della nostra Marina [allusione a Bonamico - N.d.a.l potrebbero essere di gran lunga superiori a quanto si è ammesso fin qui", rendono necessario diminuire la quantità delle forze mobili di P linea destinate alla difesa del confine di Nord-Ovest e aumentare quelle destinate alla difesa della penisola: "per la qualcosa appare ancora una volta come sia assolutamente necessario di aumentare con un buon impiego di .fortificazioni e con una buona preparazione delle posizioni, l'attitudine d~fensiva delle nostre Alpi " 68 ( esigenza che - noi osserviamo - implica anche l'aumento delle truppe alpine). Inoltre il P. ritiene che, in caso di guerra, occorrerebbe parecchio tempo per preparare convenientemente, anche con fortificazioni speditive, le posi zioni che legano il Po all ' Appennino e consentono una manovra in profondità sui colli del Monferrato e a cavaJlo del Po; questo tempo potrebbe essere guadagnato solo con una difesa delle Alpi molto efficace. Anche per questa ragione, la fase della difesa "che offre maggiori probabilità di riuscita " è proprio que11a che si sviluppa all'interno de11e Alpi.

68

Teatro di guerra italo-jrancn (Cit.). pp. 17 1 e 179.


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Così stando le cose, basta un semplice aumento delle truppe alpine, oppure è necessario impiegare all'interno delle Alpi anche una parte delle forze dell'esercito di 1" linea? A questo interrogativo il P. non risponde, limitandosi a ricordare che in caso di alleanza italo-germanica i francesi "si lusingano, e forse con buon fondamento", che per far fronte all'esercito italiano "per un primo e lungo periodo di guerra" sarebbe sufficiente un buon sistema fortificato sulle Alpi presidiato solo da milizie di 2" linea (cioè da reparti di richiamati), " rafforzate tutt 'al più da pochi distaccamenti di Ja linea", in modo da poter impiegare la quasi totalità deJle forze di I" linea contro la Germania: a suo avviso, l'Italia dovrebbe e potrebbe fare altrettanto. Anche da quest'ultime considerazioni compare il vero ruolo iniziale degli alpini: posto che - secondo la communis opinio non solo italiana - le fortificazioni, anche di confine, dovevano essere presidiate da forze di 2° linea, il sistema fortificato di confine serviva anzitutto per guadagnare il tempo necessario alla mobilitazione e all'afflusso al confine dell'esercito di I" linea, evitando sorprese. Con la rapidità di mobilitazione consentita dal reclutamento locale e con livelli cli forza di pace mantenuti elevati, gli alpini - per questo considerati, all'inizio, come milizie locali non facenti parte dell ' esercito di 1a linea - svolgevano appunto questa funzione. Essi erano insieme forze mobili (che pertanto si appoggiavano a fortificazioni campali) e unità per il presidio di sbarramenti e fortificazioni; al tempo non esistevano, infatti, reparti specializzati per il presidio delle fortezze. A parte il primo articolo del 1872, gli scritti prima esaminati superano la prospettiva troppo limitata allo studio degli elementi geografici tipica del Tirolo, anche se continuano a dare poco rilievo alle posizioni interposte tra le principali vie di facilitazione, ove graviterà la futura guerra 1915- 1918. Nelle grandi linee, già in questi studi pubblicati nel 1878 il P. si discosta notevolmente sia dal Ricci che dal Marselli, sia pur non citandoli. Diversamente da ambedue (e da Clausewitz) sostiene una difesa più attiva della fascia delle Alpi; diversamente dal Marselli attribuisce grande importanza alla fortificazione permanente, soprattutto per la difesa dei confini; diversamente dal Ricci (e dal Bonamico) ritiene insostituibile l'apporto anche dell'esercito di 1• linea nella clifesa dell'Italia peninsulare. Ciò che lo avvicina agli altri due grandi scrittori terrestri coevi - e al Bonamico - è invece il riconoscimento de11' importanza delle forze navali per la difesa nazionale e la necessità di rafforzarle, che per il momento ne discende solo indirettamente.


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SEZIONE III - Dalla geografia ai criteri per una strategia unitaria: l'importanza delle fortificazioni e delle forze navali nella "Difesa dello Stato" (1884) Nello stesso anno 1881 nel quale vede la luce la terza edizione del Tirolo, il P. pubblica sulla Rivista Militare cinque articoli (completati da altri due nei primi mesi del 1882) con il titolo Del metodo per gli studi sulla difesa territoriale, poi raccolti come al solito in volume nel 1882.69 Se preso alla lettera tale titolo è ingannevole, perché l'autore non tratta solo di questioni metodologiche ma espone con una certa ampiezza anche il suo punto di vista sulle principali questioni riflettenti la difesa dello Stato e le fortificazioni . Se non fosse per questo le novità sarebbero poche, perché il metodo indicato questa volta "per gli studi della difesa territoriale" nelle grandi linee non è altro che quello descritto nel Tirolo per gli studi di geografia militare. Perché, allora, tornare di nuovo sulle stesse questioni? Il P. lo spiega all'inizio del primo articolo della nuova serie: [negli articoli sul Tirolo del 18741 tracciammo le linee generali di un metodo, che a noi era parso conveniente per ottenere che gli studiosi di geografia militare riuscissero, colla maggiore semplicità ed economia, a dare un'idea delle condizioni dell'offesa e della difesa degli Stati, per tutto quanto ha rapporto al terreno. Ma i brevissimi cenni da noi dati sul metodo, sehhene largamente interpretati dal Marselli e illustrati dal Goiran, richiedono, a nostro avviso, qualche nuova spiegazione affinchè Lo studioso non solo si addentri nello spirito di quel metodo, ma trovi una guida per applicarlo. Perciò sottoponiamo al lettore alcune considerazioni: 1°) sul metodo proposto per gli studi di geografia militare; 2°) sul metodo di interpretare i principi dell'arte della guerra nelle applicazioni che se ne fanno per lo studio del terreno; 3°) sull'attuazione di alcuni concetti nella difesa territoriale ["difesa territoriale" intesa non come difesa del territorio alle spalle dell'e-

"' I' puntata in "Rivista Militare Italiana" Anno XXVI , Tomo I gennaio 1881, pp. 25-45; 2• puntata Tomo I febbraio 1881 , pp. 229-260; 3' puntata Tomo Il aprile 1881 , pp. 80-IO I; 4' puntata Tomo m luglio 188 1, pp. 47-89; 5' puntata Tomo IV ouobre I 88 I , pp. 5-64; 6' puntata Anno XXVIJ Tomo I gennaio 1882, pp. 5-64; 7• puntata Tomo Il febbra io I 882, pp. 285-3 I 6. Riunito in volume con il nuovo titolo Del metodo negli studi per la difesa ,Lello Stato, Roma, Voghera 1882. Lo studio è definito dal Cisotti "bello e imporrame".


IV - LA MULTIFORME OPERA DI GIUSEPPE PERRUCCI-IE1TI

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sercito operante, ma come difesa del territorio nazionale tout court, non esclusa la possibilità di controffensive - N_d.a.].

Le considerazioni su questi tre argomenti nel Metodo e negli studi del 1878, opportunamente ampliate e integrate, sono riunite nella successiva opera del 1884 lLI difesa dello Stato,70 che - ancora una volta dimostrando il legame organico e non interrompibile tra studi di geografia militare e studi sulla difesa nazionale - è la summa di dodici anni di attività e può dirsi il lavoro più importante del Nostro. Secondo lo Sticca, Carlo Mezzacapo non ha accettato l'invito del p_ ad aggiornare gli Studi topografici e strategici sull'Italia, riferiti al 1859 (Cfr. Vol. II, Cap. XI - sz. III) e ha a sua volta invitato il P. stesso ad aggiornarli: da questa esigenza sarebbe nata La difesa dello Stato. Ma a parte il fatto che quest'ultimo libro contiene riferimenti a molti altri autori (il Pepe, il Ricci, il Marselli, il Goiran, il Sironi, il Dabormida, il Haymerle, e per la parte navale il Bonamico, il Saint Bon, l' Arminjon, ecc.), i suoi contenuti sono tali da far escludere che si tratti di un semplice aggiornamento degli studi dei fratelli Mezzacapo, evidentemente riferiti a situazioni di vent'anni prima; sono invece una rielaborazione degli studi precedenti dell'autore e in particolar modo dei citati articoli del 1881-1882 sul metodo. Nell'Introduzione dopo aver constatato (come il M. e altri) che la guerra è ormai di nazioni e quindi i problemi militari devono essere affare di tutti, il P. (sempre come il Marselli) combatte il pregiudizio che i popoli del Nord siano meno guerrieri di quelli del Sud: "non è la.fibra che manchi presso di noi, ma la preparazione, l'indirizzo, la educazione militare delle masse". Non solo le masse popolari mancano di tale educazione, visto che anche i dotti "non arrossiscono di confessarsi digiuni di ogni conoscenza militare [... ] e quasi vantansi di essere a tali cose profani, come un giorno Ju moda di cavalleria vantarsi analfabeta". Meritano rilievo anche due puntualizzazioni che si riferiscono ai rapporti internazionali di quegli anni e in particolare ai rapporti con l'Austria, sui quali il P. ha tutta l'aria di non voler fare alcun atto d ' abiura: - le relazioni con gli Stati limitrofi sono soggette a mutamenti non infrequenti. Poiché dall'inizio degli studi al compimento delle fortificazioni passano circa dieci anni, "sarebbe puerile la condotta di quello Stato il quale facesse affidamento sulle armi politiche del momento coll'affaccendarsi o collo smettere i lavori necessari alla

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Torino. Roux e Favale 1884.


IL PENSIERO MILITARE E NAVALI, ITAIJ ANO- VOL. Ili ( 1870-1915 - TOMO I

propria difesa, a seconda della maggiore o minor tensione nelle relazioni diplomatiche"; - le manovre e gli apprestamenti difensivi lungo le frontiere, che ciascun Stato ha il diritto e il dovere di compiere in piena autonomia, non possono essere interpretate come atti di ostilità da parte nostra nei confronti di uno Stato vicino, o viceversa [allusione ai rapporti con l'Austria - N .d.a.]. In questa situazione che ostacola una chiara presa di coscienza dei problemi della difesa nazionale da parte dei mass media e della classe dirigente, il libro ha lo scopo di trattarli in modo tale da renderli comprensibili anche ai numerosi profani di cose militari, diffondendo fiducia nella nostra possibilità di "farci rispettare e temere", sempre che "alla concordia dei sentimenti si accompagni la saviezza politica". Nel primo capitolo, dedicato al metodo, l'intento di subordinare gU studi geografico-militari a concrete ipotesi di guerra con l'uno o l'altro Stato limitrofo appare condivisibile, ma il procedimento per applicarlo nonostante gli sforzi per renderlo agevole rimane macchinoso. In merito, il P. riprende alla lettera i nove fattori da prendere in esame per risolvere i prohlemi della difesa nazionale già indicati dal Ricci; e dopo averli anaUzzati uno per uno, approfondisce il rapporto tra il territorio e ciascuno di essi, con particolare riguardo alle vie di comunicazione ed escludendo i metodi di studio "basati sulla geografia, o sulla f?eologia, o su qualche altro ramo della scienza". Una volta stabilito il valore militare dei singoli elementi geografici, si può "giungere alla conoscenza delle condizioni di offesa e di difesa del territorio di uno Stato". Con questo procedimento, però, il P. non intende indicare dei veri e propri piani di guerra, bensì fornire a tali piani i dati di base necessari, sottraendo gli elementi geografici ad apprezzamenti arbitrari. A nostro giudizio, anche quest'ultimo obiettivo del P. è estremamente ambizioso e pressoché impossibile da raggiungere, visto che le esatte relazioni di ciascun elemento geografico con gli altri, e così come la sua influenza sull'azione militare, rimangono soggette a interpretazioni del tutto divergenti, come dimostrano le contrapposte valutazioni della minaccia del Tirolo. Lo stesso P. indirettamente dimostra che l'interpretazione del ruolo degli elementi geografici è sempre arbitraria, visto che giudica ''.fallace e pericolosa" l'attribuzione di un valore decisivo a linee e punti geografici; invece "una sola è decisiva, la perdita dell'esercito". Ne consegue il suo allineamento sulle tesi dei fratelli Mezzacapo, e perciò la condanna della frase che "perduta la valle del Po tutto è perduto" sostenuta dal Ricci (non


IV LA MULTIFORME OPEHA U1 UIUSEPl'E PERRUCCHEJTI

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citato): "in un paese che ha il sentimento della propria dignità e della patria, tutto lo Stato vuol essere considerato base della difesa, e non deve ammettersi il più lontano pensiero che, per la caduta di un punto o di una linea del territorio, si possa mai patteggiare con straniera influenza... ". Ne deriva anche la netta contrarietà del P. alla "piazza di rifugio" (PiacenzaStradella-Bobbio) prevista dal Ricci a qualche giornata di marcia dalla frontiera, dove "si giocherebbe l'ultima carta, riducendosi volontariamente ad una schenna gretta come quella di chi si basa sopra un punto, su brevi tratti di terreno. ove tutto l'esercito è ammucchiato, invece che sopra una serie di regioni montane o fluviali ...". 1 1 Nel secondo capitolo, che esamina il modo di applicare al terreno i principi dell'arte della guerra, i] P. si discosta notevolmente dalle teori.e del Marselli e del Ricci giungendo ad affermare che "le frasi dottrinalmente sonore sui grandi principt dell'arte della guerra furono e sono ancora oggi, nel campo delle idee militari, lo scoglio più insidioso, il nemico più funesto. Esse .wno il consigliere più pericoloso pei giovani ufficiali, e la principale causa di quegli errori che sul campo di battaglia si pagano a prezzo terribilmente caro". 72 Un approccio opposto a quello dei dottrinari (Jomini, Arciduca Carlo ... ), che va al di là di quanto sostiene lo stesso Clausewitz e si discosta dalla Communis opinio. Nessuna traccia del1'ottimismo scientifico del Marselli, secondo il quale l'area dei fattori indeterminati dell' arte della guerra tende a restringersi: al contrario, "il problema della guerra è talmente complesso che ben di rado e a pochi eletti è dato abbracciarne interamente i termini ed esattamente valutarli" . Solo pochi dati sono ben determinabili; altri sono indefiniti e imprevisti a un punto tale da sconvolgere i più ponderati calcoli; solo l'uomo di genio, talvolta, può valutarli esattamente. Si deve rilevare, però, che dopo aver così drasticamente condannato l'approccio scientifico ai problemi della guerra il P. in tutti i suoi scritti indirettamente lo avvalora, traendo solo daJ terreno un complesso di indicazioni fondamentali, che avrebbero la pretesa di sottrarsi a valutazioni arbitrarie. Se il terreno combinato con altri fattori certi dice già tutto o quasi, la base scientifica dell'arte della guerra non solo è ben definita, ma anche preponderante; tanto più che il P. contraddittoriamente esamina le condizioni poste dal terreno all'applicazione del "principio fondamentale della guerra", il quale non è altro che il primo principio della strategia indica-

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ivi, pp. 39, 45 e 439. ivi, pp. 5 1-52.


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~lL "-'P=E= NS=' IE= RO ~ Ml=LffARE E NAVALE ITALIANO - VOL. IU (1870.19 15) - TOMO I

to dal Marselli (''operare in guisa di urtare il nemico colla maggior somma di forza relativa, nelle migliori condizioni di schieramento, e con direzione tale da rendere possibilmente decisivi gli effetti della vittoria")-13 Le sue considerazioni su questo principio sono pressoché scontate, se non ovvie_ A suo avviso tradurle in pratica è difficile, perché il terreno e in particolare la rete stradale e ferroviaria specie con le grandi masse odierne possono rendere difficili, se non impossibili, i movimenti e concentramenti di forze necessari. Mollo opportunamente egli cita dati che danno un'idea del peso logistico già raggiunto dalle unità del tempo. ricordando anche che un'armata in movimento, non potendo sempre contare sulle risorse locali, dovrà necessariamente avere alle spalle una linea ferroviaria. Insomma: sia pur confusamente il P. intuisce che con i grossi eserciti del tempo la manovra su larghi spazi di tipo napoleonico diventa sempre più ardua e sempre più condizionata dal terreno. Da sottolineare anche l'affermazione che i principi sono riferiti all'esperienza storica deJle manovre del passato compiute da eserciti di consistenza molto più ridotta, quindi non sono più validi ... Viene solo da chiedersi: stando così le cose, come sono possibili le agili manovre in montagna previste da sempre dal P.? Nel capitolo III, che esamina più nel dettaglio le possibilità operative che offrono i terreni di montagna (in particolare queJlo delle Alpi) e di pianura, l'autore: - a proposito della migliore strategia per la difesa del confine alpino salta definitivamente il fosso, contestando indirettamente ma chiaramente la tesi del Marselli e del Ricci favorevoli al contrattacco ai piedi delle Alpi; - contesta anche la diffusa opinjone che nel terreno atipico delle nostre pianure, "rotto, oscuro e ingombro", non si può manovrare. In realtà - afferma - non si sa manovrare e bisogna addestrarsi a farlo sfruttando le sue caratteristiche, sia perché gli eserciti stranieri non lo conoscono e vi si troverebbero a disagio, sia perché nel combattimento su un siffatto terreno rotto sarebbe possibile sfruttare la nostra superiorità in fatto di fanteria e rimediare alla nostra inferiorità in fatto di artiglieria e cavaHeria. Secondo il P. Marselli ha ragione quando sottolinea la necessità di evitare colpi decisivi e manifesta la "fondata speranza" di operare a forze riunite contro un nemico diviso; ma la difesa dei monti fatta solo in pianura,

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ivi, p. 54.


IV· LA MUL:rll'ORME OPtKA 01 GIUSEPPE PERRUC-C HE1Tl

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come da lui sostenuto, non può essere automaticamente applicata a qualsiasi regione montana, a qualsiasi esercito, a qualsiasi situazione: non sempre le montagne creano per l'invasore una separazione seria; non sempre creano per La difesa la necessità di sparpagliarsi fra gli alti monti, non sempre presentano nel loro interno siti così angusti da poter solo dare luogo a piccoli scontri di guerriglieri, non sempre creano eguali condizioni di separazione per l'invasore e pel difensore, il quale ultimo d'altronde può sul patrio suolo, riuscire col mezzo di fortificazioni e di strade ordinarie e ferrate, ad aumentare per il nemico e diminuire per sé stesso quella separazione.

Tant'è vero che gli eserciti francese e austriaco non aspetterebbero certo che il nostro esercito sboccasse nelle pianure del Danubio o del Rodano per contrattaccare [ma, proprio per quanto è stato detto prima dal P., né il terreno d 'oltreconfine né gli altri elementi del problema strategico sono quelli italiani - N.d.a.]. Segue una nutrita elencazione di argomenti a conforto di questa tesi: l'esperienza storica dimostra che non sempre la "guerra di cordone" è stata improduttiva; non necessariamente la difesa lungo il confine è debole ovunque; il terreno montano consente all'esercito più debole (quale è il nostro) di sfruttare la nostra ottima fanteria e rimediare alla carenza di artiglieria e fanteria, conservando tuttavia la possibilità do costituire buone riserve in pianura; si potrebbe ricorrere alla guerriglia, sfruttando la conoscenza dei luoghi e il concorso delle popolazioni; dal canto suo l'invasore, proprio perché numeroso, incontrerebbe nell'attraversamento delle Alpi forti difficoltà logistiche, dovute a un sistema stradale e ferroviario che è e deve rimanere insufficiente. 1n conclusione, per il P. le grandi opernzioni possono essere condotle dentro o fuori dalle montagne, a seconda della situazione e delle caratteristiche del terreno; non sarebbe comunque conveniente rinunciare a priori ai vantaggi di una difesa all'interno delle Alpi, quando non fosse possibile battere l'esercito nemico in pianura. Bisogna anche tener presente che la fascia alpina in nostro possesso fornisce "La massima parte" delle condizioni necessarie per una buona difesa, le quali tuttavia vanno potenziate "con un buon assetto di strade ferrate e ordinarie, di ricoveri e di fortificazioni coll'addestramento delle popolazioni alpine alle armi, con tale sviluppo delle forz.e di mare da açsicurare il libero impiego di tutto l'esercito sulle frontiere di terra". 74

74

ivi, p. 132.


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I successivi capitoli IV e V fanno del P. - a dispetto delle precedenli sue idee sulla necessità di non lasciarsi fuorviare dal dollrinarismo - il più caldo fautore delle fortificazioni del suo lempo, collocandosi anche su questa questione sul versanle opposto a quello del Marselli, a cominciare dal ruolo delle "piazze di frontiera" da quesl'ultimo ritenute - sull'esempio di Metz nel 1870 - pericolose, e dal P. invece indicate come fondamentali per la difesa dei confini. Le fortificazioni costano molto, le nostre risorse del momenlo sono - come sono state e saranno sempre - assai poche; ma il P_ lascia piutlosto nel vago questo problema, come se fosse qualcosa di accessorio e non il punto di partenza per qualsiasi, concreta soluzione. Omissione tanto più da rimarcare, visto che da ciò che egli scrive sull'argomento acquista immeritato vigore la tendenza a identificare la difesa dello Stato con la fortificazione tout court, e in particolar modo con la fortificazione delle frontiere. Dedica al fondamentale problema delle risorse occorrenti tre pagine in tutto, facendo riferimento al piano ridotto della Commissione per la Difesa dello Stato (183 milioni, ridotti a 161 milioni dalla giunta parlamenlare nella relazione del 2 aprile 1873), per concludere che così all'ingrosso, quella .\pesa rappresenta un capitale il cui interesse annuo oscillerehhe intorno ai 20 milioni, avuto riguardo al fatto che una parte delle fortificazioni necessarie fu. già costrutta nell'ora decorso decennio. Una tale spesa equivarrebbe presso a poco a quella necessaria per mantenere permanentemente organizzate due o tre divisioni di più [. .. }. Se si considera tutto ciò, è da ritenersi che, per quanto mercante, La nostra presente generazione abbia ad affrettare coi suoi voti una soluzione, colla quale si tratta di dare fondamento sicuro al nostro avvenire.... 75

Troppo generico! Quello del P. è solo uno degli innumerevoli appelli ad aumentare le risorse per la difesa, con l'indicazione di una cifra (20 milioni all'anno circa in più, ma per quanti anni? forse 10, cioè per il tempo necessario tra progetto e esecuzione) non basata su calcoli precisi e probanti e indicata ancor prima di esaminare nel dettaglio le opere da costruire (assai numerose). A tale cifra, poi, andrebbero aggiunti gli aumenti per la marina, visto che l'autore si pronuncia per il suo rafforzamento: ma vale veramente la pena di diminuire le forze mobili a favore delle fortificazioTti? oppure occorre diminuire l'esercito a favore della marina, o viceversa?

75

ivi, pp. 196- 197.


- - ---'I_V - LA MUt.:llHJRM F. OPERA DI GIUSEPPE PERRUCCHElTI

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Se si prescinde da queste interfacce non certo secondarie, le argomentazioni del P. sono senz'altro convincenti e condivisibili. Con il consueto, fin troppo frequente ricorso a exempla historica controbatte efficacemente i principali pregiudizi contro le fortificazioni, derivanti anche dal frequente, cattivo rendimento di quelle francesi nell'ancor recente guerra 1870-1871. Tal i pregiudizi sono da Jui così riassunti: - 1° sono inutili, perché non resistono agli odierni mezzi d' attacco; - 2° esercitano un'attrazione dannosa su!Je forze mobili e limitano la libertà di manovra; - 3° assorbono troppe forze ostacolando l'applicazione del principio della massa; - 4° sono troppo costose (a quest'ultimo, basilare, argomento, la risposta rimane quella - vaga e insufficiente - alla quale abbiamo già accennato). Questi pregiudizi secondo il P. sono dovuti al fatto che nel secolo XIX i mezzi di offesa sono progrediti assai di più dei mezzi di difesa, anche a causa della naturale tendenza a rinnovare rapidamente l'armamento delle forze mobili e a non rinnovare affatto le difese fisse, a cominciare da11e artiglierie; il cattivo rendimento delle numerose ma antiquate fortificazioni francesi nella guerra 1870- l 871 perciò non fa testo. 1 rimanenti inconvenienti non sono da attribuire alle fortificazioni in sé, ma alla leadership del momento che le ha sopravvalutate, o non le ha sapute utilizzare per quello che potevano dare, magari per carenza di spirito offensivo. Nelle moderne fortificazioni si dovrà invece ricorrere alle torri corazzate come si fa per le navi da battaglia, quando necessario allargando il perimetro offensivo fino a includere posizioni ritenute importanti. Non dovremo temere la dispersione di forze per presidiarle, perché in caso di guerra il nostro esercito permanente disporrebbe di 789000 uomini, la milizia mobile di 330000 e la milizia territoriale di 952000 uomini f ma quale resistenza assicurerebbero queste truppe? e da quando? - N.d.a.l. La prevedibile obiezione che le nuove fortificazioni con torri corazzate sarebbero troppo costose non vale, perché "se vi è un campo dove il motto poco ma buono deve dominare, quello si è delle fortificazioni permanenti"; d'altra parte la spesa ben presto potrà essere ridotta, "se, come tutto porta a sperare, le nostre industrie arriveranno a fornire le corazze e ad emanciparci da questa costosa importazione". 16

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ivi, p. 165.


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Anche Marselli e altri avevano controbattuto le tesi dei nemici della fortificazione; anche Marselli aveva sostenuto, in fatto di fortificazioni il poco ma buono, tenendo ben presenti i limiti de1le nostre finanze; ma non dimostra lo stesso interesse del P. per le torri corazzate, e soprattutto non ha la sua stessa fede nelle fortificazioni per la difesa dei confini. Una fede mai venata da dubbi che lo porta, di fatto, a smentire il principio del poco ma buono enunciato per le fortificazioni moderne: pare evidente che una difesa attiva de1le Alpi come quella da lui propugnata di per sé avrebbe richiesto una costosa intelaiatura di fortificazioni nell'intero arco alpino, soluzione impraticabile per ovvi vincoli finanziari. Su1la fortificazione dei passi alpini il P. non fa che riprendere le considerazioni degli scritti precedenti (compreso Il Tirolo) insistendo in particolar modo sulla necessità di sbarrare anche le rotabili secondarie (sia pur non tutte) e di non limitarsi all'interruzione delle ferrovie che valicano le Alpi (estremamente importanti per l'invasore), ma di interdirle anche con forti. Alla fin fine i punli da forlificare proposti dal P. non si discostano da quelli inizialmente indicati dalla Commissione per la Difesa dello Stato, poi cancellati nel "piano ridotto" esclusivamente per la mancanza di quelle risorse economiche alla quale il P. come tanti altri non può certo trovare rimedio. Rileva, a ragione, che benché siano passati ben 23 anni dalla costituzione del Regno si è fatto poco o nulla per fortificare le frontiere terrestri, mentre per quelle marittime, non sono ancora stati ultimati i lavori in un'unica base, La Spezia: ma si guarda bene, anche in questo caso, dal riconoscere che la carenza di risorse è la causa principale, ancorché non unica, dei ritardi. Al di là di questi non trascurabili limiti, il P. ha ragione nell'indicare tra le cause più propriamente militari dei ritardi: - "la mancanza, lamentata per rrwlti anni, di un istituto o di un Capo permanentemente responsabile della difesa del paese e di tutto ciò che si riferisce alla preparazione di questa così per terra come per mare" [inconveniente al quale si comincerà a porre reale rimedio solo nel 1997, cioè oltre un secolo dopo - N.d.a.]; - gli ostacoli e ritardi causati dal centralismo burocratico nei lavori di costruzione delle fortificazioni; - le idee errate sulla difesa de1le frontiere di terra e di mare diffuse nella pubblica opinione e tra i militari, "che in gran parte vennero mod(ficandosi in questi ultimi anni, ma che tuttora pesano su parecchie menti inerti". Tre cose vanno dette in proposito: che il P. nell'articolo del 1872 non ha certo contestato - né poteva farlo - queste idee, ma ne ha fatto il punto


IV - LA MULTIFORME OPERA DI GIUSEPPE PERRUCCIIE'ITI

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di partenza per sostenere la necessità di creare i "bersaglieri delle Alpi" ; che la ridotta consistenza numerica dell'esercito di allora le rendeva praticamente una soluzione obbligata; che, infine, con la maggiore forza organica del 1884 la "difesa attiva", la controffensiva all'interno delle Alpi erano possibili a due condizioni: la fortificazione dei confini nella cospicua misura da lui indicata (e, prima di lui, dal "Piano ridotto") e una forte marina, in grado di impedire sbarchi francesi sulle coste. Si tratta di due delle tre gambe del tavolo, che non ci sono mai state né potevano esserci, per carenza di risorse; la terza gamba era, ovviamente, la quantità, qualità, il morale ecc. delle forze mobili di 1• linea, questione non presa nemmeno in considerazione. Un intero capitolo (il VI) è dedicato alla "difesa verso il mare"; ne abbiamo parlato commentando la ristampa degli scritti dell'allora tenente di vascello Domenico Bonamico77 insegnante d'arte militare marittima alla Scuola di Guerra nello stesso periodo nel quale il P. insegna geografia militare, che dedica alla Difesa dello Stato due lunghi articoli. 78 Molto probabilmente i due eminenti scrittori e insegnanti hanno discusso insieme, a·lungo, i problemi della difesa nazionale e il ruolo delle rispettive forze armate, trovando dei punti di concordanza ma anche di dissenso. L'elenco dei punti di concordanza è lungo e articolato. Come molto più tardi ha fatto Mahan negli Stati Uniti, ambedue ritengono necessario sensibilizzare la pubblica opinione sui problemi della sicurezza nazionale e diffonderne la conoscenza, non solo per la parte navale. Ambedue auspicano un'impostazione interforze della difesa nazionale, con una corretta ripartizione di compiti e uno stretto coordinamento tra esercito e marina. Ambedue deplorano che la benefica partecipazione di ufficiali di marina ai corsi della Scuola di Guerra dell'Esercito di Torino, prevista nei primi anni del suo funzionamento, sia poi stata abolita. Ambedue auspicano grandi manovre in comune tra esercito e flotta (mai programmate) e ritengono che il ruolo essenziale della marina debba essere quello di agire contro i convogli di sbarco fra ncesi , appoggiandosi a buone basi. Ambedue giudicano la marina del momento non in grado di svolgere questi compiti e sostengono la necessità di orientare le costruzioni navali verso questa esigenza, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo; sono perciò contrari alla battaglia de-

71 Domenico Bonamico, Seri/li sul potere mari/limo (Cit.), pp. 55-59. '" Domenico Bonamico, ù.1 difesa dello Staio - considerazioni sull'opera del ten. col. Giuseppe Perruccheui, in "Rivista Mariuirna " Tomo Il - giugno 1884, pp. 383-405 e To rno III - luglio/agosto 1884, pp. 47-65.


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cisiva, per la semplice ragione che vedrebbe la noslra flotta perdente contro forze assai superiori. Una prima, sorprendente differenza è però data dal fatto che proprio il P., ufficiale dell'esercito da anni concentrato sullo studio delle Alpi, chiede alla marina assai di più dell'allora tenente di vascello Bonamico: non solo difendere le coste dagli sbarchi nemici (è questa l'unica sua missione secondo Bonamico ), ma anche proteggere se necessario i nostri connazionali all'estero e tutelare gli interessi vitali della nazione. Quest'ultimi non si restringono alla sola difesa dei confini terrestri e marittimi e "non sono al di Là delle Alpi ma nel Mediterraneo", perché "mentre le nostre prospettive continentali sono assai limitate [._ .] invece le nostre prospettive marittime sono larghe e ben tracciate da tradizioni invidiabili, antiche e recenti, che chiaramente segnano a noi una grandiosa via".19 La seconda, rilevante differenza - già messa in luce - è data dalle modalità per la difesa dell'Italia peninsulare e insulare. Mentre Bonamico, per la verità molto ottimisticamente, ritiene che debba essere esclusivamente assegnata alla marina, il P. pur riconoscendone pienamente l'importanza non accetta tale esclusivismo, anche perché prevede che passerà ancora del tempo prima che sia competitiva rispetto a quella francese. A suo avviso la flotta deve prevenire, ritardare o impedire lo sbarco anche sacrificandosi; le forze terrestri devono dare battaglia al corpo di sbarco prima che abbia rafforzata la propria base ed occupata una parte importante di territorio; spetta infine alle fortificazioni difendere quei punti vitali interni che in seguito al felice esito di uno sbarco, potrebbero essere facile preda dell'invasore. Cosa che non fa Bonamico, il P. deplora l'eccessiva dipendenza della nostra industria navale dall'estero, specie per i cannoni e gli apparati di propulsione. E pur concordando con il collega della marina sulla convenienza di ricorrere alla guerra di corsa e sull'efficacia anche di piccole navi rostrate negli attacchi ai convogli di sbarco, non è critico come lui sul ruolo delle grandi navi indicalo dal Sainl Bon, dimostrando una fiducia sia pur ragionata nella loro formula e nelle loro capacità operative, anche contro i convogli di sbarco. Ha però maggiore fiducia del Bonamico nell 'efficacia delle torpediniere anche in alto mare e registra una notevole superiorità francese anche in questo campo. Riguardo al1a probabile consistenza degli sbarchi, non esclude che le forze francesi in grado di sbarcare rapidamente sulle nostre coste possano

.,. La difesa dello Stato (Cit.), p. 296.


IV - LA MULTIFORME OPERA DI GIUSEPPE PERRU<..'CHElTI

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essere anche più numerose di que11e previste dal Bonamico, ma che non sia conveniente assumere come dato costante da porre alla base dei calcoli strategici una ben definita forza nemica, tanto più che le basi francesi sono vicine e quindi se necessario le forze navali da trasporto potranno effettuare in breve tempo più viaggi. In ogni caso, in mare come in terra si tratta sempre di operare a forze riunite contro nemico diviso. Per questo anche il P., come il Bonarnico, ritiene che la nostra flotta, essendo inferiore, non dovrebbe impegnarsi contro la flotta francese riunita, nemmeno nel caso che essa - come teorizzato dalla Jeune École - bombardi a scopo terroristico le nostre numerose città costiere; tuttavia ben rendendosi conto de11e conseguenze di una siffatta scelta sul morale delle popolazioni, in merito a questo impiego del1a nostra flotta è assai più elastico del Bonamico, attribuendo comunque ai bombardamenti dal mare minore efficacia di quest'ultimo. 80 Singolare il dissenso tra i due autori sulla questione dei fondi. Coerentemente con gli impegnativi e fin troppo ambiziosi compiti da lui attribuiti alla marina e con l'asserita fiducia nella formula delle grandi navi, il P. più volte ritorna sul1a necessità di aumentare i fondi per la marina almeno fino a 95 milioni, perché non si tratta di pareggiare il bilancio navale francese del momento (circa 200 milioni), ma almeno di coprire la differenza tra la somma dei bilanci della marina austriaca e tedesca nostre alleate (circa 105 milioni) e quello della marina francese. Invece il Bonamico in quel periodo oltre a combattere le grandi navi sostiene la possibilità di attaccare con successo i convogli nemici con poche navi veloci e leggere, costruite ad hoc e armate principalmente di rostro, senza che sia indispensabile aumentare il bilancio della marina; perciò non concorda con il criterio indicato dal P. per l'aumento di tale bilancio, includendolo tra le "esimie personalità dell'esercito" che (come il Ricci) ritengono preferibile non aumentare i corpi d ' armata da 10 a 12 (come verrà fatto) e destinare i fondi così risparmiati al1a marina. Secondo il Bonamico il problema difensivo non deve, come quello offensivo di un giorno, ammettere un elemento imponderabile e incerto fra quelli dai quali dipen-

""Si veda, in merito, la risposta del P. alla lettern di protesta di un ignoto ufficiale di marina, che sul n. 84 (22 aprile 1882) della Rassegna aveva voluto precisare che l'idea di non impiegare la flotta per difendere le cittò costiere (sostenuta dal Bonami<.:o) non oorrispondeva ai sentimenti e alle aspirazioni degli ufficiali di marina. In questa oc<.:a~ione il P. ribadisce la sua fiducia nelle grandi navi e accenna anche alla possibilità di rappresaglie sulle <.:osle francesi (La ,lifesa dello Stato - Cit., pp. 485-491).


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de La nostra esistenza; e, se si ammette la sufficienza dell'esercito, non è punto Logico né giusto il non ammettere anche quella della flotta, entro Limiti bastevoli per assicurare la penisola dalle grandi invasioni marittime. Non posso poi assolutamente piegarmi a credere, nei limiti dello scopo difensivo, che una eventuale situazione politica debba vincolare il nostro avvenire I ... I. Mi sia concesso di credere che, cogli stessi rapporti numerici, e quando sia pari la preparazione e condotta della guerra, L'esercito e l'armata sono sufficienti a proteggere l'integrità del paese.

Il Bonamico imputa inoltre al P. di essere rimasto nel vago sul livello di forza che la nostra flotta avrebbe dovuto raggiungere rispetto a quella francese, come invece ha fatto il Marselli indicando i 2/3. Infine non concorda con le sue idee sull'importanza della base di Venezia, sostenendo che occorre piuttosto creare una solida base d'operazioni per la flotta sulle stesse coste austriache, senza di che "la difesa sarà sempre tarda, de-

bole e insufficiente". Oltre ad avere una certa risonanza sulla stampa nazionale, La difesa dello Stato è recensita anche dalla Rivista Militare e dalJa Rivista di Artiglieria e Genio. 81 Accanto alle molte lodi, la recensione della Rivista Militare (non firmata) muove al libro le seguenti critiche: - se si tiene conto dell'aumento dei prezzi per artiglierie e munizioni e delle numerose fortificazioni proposte dall'autore, il limite di 20 milioni annui di spesa da lui indicato è troppo basso; "ma si arrivasse pure a un capitale della rendita annua di 40 milioni, dovrebbe l'Italia esitare? Si rifletta alle enormi spese e alle disastrose conseguenze economiche di una sconfitta... "; - per difendere ad oltranza Ja frontiera del Friuli, così come proposto dal P., occorrerebbe impiegare la maggior parte delle nostre forze in una regione troppo lontana dalla base principale di operazioni fil Po - N.d.a.] e dedicare molte risorse alla fortificazione dei 30 Km di pianura. Perciò vanno mantenute le riserve già fatte alle tesi del P. sul Tirolo, tenendo presente che "manovra centrale per terra contro l'Austria, manovra centrale per mare contro la Francia, ecco le dure necessità della nostra situazione geografico-militare"; - l'autore è stato piuttosto vago nel delineare le modalità per la difesa dell'Appennino e della Liguria.

81 In "Rivista Militare Italiana " Anno XXIX. Voi. I marzo 1884, pp. 562-577 (recensione redazionale) e "Rivista di Artiglieria e Genio" Voi. Il aprile 1884, pp. 31 -56 (a firma del Cap. E Lo Forte).


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Per il resto il recensore della Rivista Militare concorda con le proposte del P., comprese le modalità per la difesa delle Alpi, per la fortificazione dei valichi al confine con l'Austria e per il rafforzamento della linea del Piave. invece il recensore della Rivista di Artiglieria e Genio, capitano Lo Forte, dissente da quello della Rivista Militare su due aspetti qualificanti: a) continua ad essere convinto che, per ottenere risultati risolutivi, "biso-

gnerà prima o poi uscire dalle Alpi e misurarsi in qualche giornata campale o sul nostro territorio o su quello nemico"; b) condivide l'ottimistica opinione del P. che la difesa ad oltranza del Friuli sarebbe assicurata solo con le fortificazioni e con la completa mobilitazione delle milizie locali, senza bisogno di impiegarvi la massa dell' esercito. Molto a proposito il Lo Forte ricorda che, se in pa<;sato la difesa della fascia alpina non è avvenuta come propone il P., ciò non è dovuto a imperfetta valutazione dei termini del problema, ma alla carenza di forze erisorse per le fortificazioni. Al momento, la disponibilità di forze è molto diversa, e migliore .... Non ha tutti i torti nemmeno quando giudica il libro troppo tecnico per raggiungere gli scopi divulgativi che l'autore vorrebbe assegnargli: ha invece più torto che ragione quando lo difende dall'accusa di seminare di fatto sfiducia, visto che le risorse necessarie per attuare le sue proposte sulla fortificazione e su11a marina non ci saranno mai (fatto innegabile che è anche il lato debole delle idee del P.). Dopo queste critiche tutto sommato benevole viene la stroncatura, in un articolo anonimo pubblicato dalla Rivista Militare un anno dopo, nel 1985.82 Il clou dell' articolo è semplice: ciò che importa non è difendere i confini, difendere la capitale ecc., ma battere l'esercito nemico a forze riunite; tutto il resto viene dopo, a cominciare da dove batterlo, come batterlo, se scegliere l'offensiva o la difensiva strategica, ecc .. Si deve anzitutto mantenere la massa dell ' esercito di prima linea riunita nella pianura padana, quindi in caso di conflitto con la Francia, tenuto conto dei rapporti di forze e delle condizioni geografiche, "a noi pare doversi propendere: pri-

mo, per la convenienza per l'Italia di attendere in casa sua l'esercito nemico; secondo, per La convenienza di attenderlo in Piemonte". Alla luce di questa esigenza, per l'ignoto autore il ruolo della flotta e delle fortificazioni, preminenti negli scritti del P., risulta drasticamente ridimensionato. Non essendo in grado di sostenere la lotta con i probabili avversari a parità di forze ovunque, J'ltalia deve mantenere l'esercito riu-

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A.F.J., La difesa di uno Stato come lo intendiamo noi, in " Rivista Militare Italiana" Anno XXX - Tomo Ili luglio 1885, pp. 5-39.


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IL l'ENSlliRO MILITARF. F. NAVALE ITALIANO - VOL. lll (1 870-1915) • TOMO I

nito, senza distaccare un solo battaglione di prima linea per la difesa delle coste e/o dell'Italia peninsulare e insulare; "che se la nostra flotta e gli altri elementi di difesa, all'infuori del nostro esercito permanente, non saranno riusciti a impedire uno sbarco, o a ricacciare il nemico sbarcato sulle coste toscane, romane, napoletane e sicule; le sorti della guerra rimarranno sempre intatte fino a tanto che intatta ed intiera sarà la massa delle nostre forze di prima linea". Il solo sbarco che occorrerebbe impedire a qualunque costo, con tutti i mezzi, è quello sulla riviera ligure di ponente, attraverso la quale le forze francesi sbarcate potrebbero riunirsi con quelle che hanno attraversato le Alpi: peraltro un solo brevissimo tratto di tale riviera si presta a sbarchi, quindi solo in questo tratto bisognerebbe prevedere le fortificazioni. Anche sull'utilità generale di quest'ultime l'autore dell'articolo è di parere opposto a quello del P.. A suo avviso non è detto che non si debbano ripetere le cause accidentali, che in passato hanno provocato la prematura resa di parecchie fortezze; e per quanto tutti ammettano in linea di principio che debbono essere poche, in realtà solo il fattore economico impedisce la loro proliferazione. Ad ogni modo, esse non consentirebbero alcun reale risparmio di forL.e per l'esercito di 1" linea, che fin dai primi giorni di guerra dovrebbe presidiare almeno quelle più importanti, per assicurarne l'efficacia resistenza, non garantita ajjàtto dall'ampia disponibilità di truppe di milizia mobile e territoriale vantata dal P. [idea realistica da sottolineare, anche perché al momento poco diffusa - N.d.a.]. Anche per le altre presto o tardi verrà il momento di rafforzarne i presid'ì, sempre con forze di 7a Linea; d'altro canto non è facile stabilire con sicurezza, a priori, quale fortezza è più importante ... Le fortificazioru - prosegue il recensore - non servono nemmeno per impedire il bombardamento delle città costiere, perché l'efficacia delle loro artiglierie contro navi in movimento sarebbe aleatoria, a fronte del loro costo elevato. In questo caso, l'unica difesa sarebbe la flotta, che comunque non converrebbe impiegare per questa esigenza perché tali bombardamenti avrebbero un effetto trascurabile sulle sorti della guerra [altra idea realistica - N.d.a.l.

SEZIONE IV - Gli ultimi scritti: "Guerra alla guerra?" (1907) e "Questioni miliJari d'attualità" (1910) Pur non trattandosi di lavori organici, ma di raccolte di articoli su argomenti vari (in massima parte pubblicati sul Corriere della Sera), queste


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due ultime opere del P. - ormai tenente generale al culmine della carriera sono importanti sia come consuntivo di un'attività quarantennale e dei relativi risultati, sia come espressione di un suo punto di vista (per ovvie ragioni, questa volta liberamente espresso) sui principali aspetti del problema militare, nei cruciali anni che precedono la guerra di Libia 191 1-1912 e la prima guerra mondiale. Ne abbiamo già trattato sugli "Studi StoricoMilitari ";83 ci limitiamo ora a riprenderne gli aspetti di maggiore novità. L'opera Guerra alla guerra'!x4 porta il sottotitolo " Osservazioni sulla situazione politica internazionale, seguite da considerazioni e proposte sull'assetto militare dell'Italia"; essa si divide dunque in due parti. Nella prima l'autore prende in esame senza alcun ottimismo l'inquieta situazione internazionale del momento, lanciando i suoi strali contro il pacifismo (o meglio centro certo falso pacifismo che è solo antimilitarismo autolesionista). Nella seconda tratta parecchi aspetti del problema militare italiano del momento, riprendendo le tesi esposte in precedenza (si noti che proprio nell 'anno 1907, il P. è stato nominato segretario della Commissione d'Inchiesta per l'esercito, dove sostiene non sempre con successo le idee qui esposte). La prima parte è lo specchio del tempo e della difficile situazione interna ma potrebbe essere scritta anche oggi, di per sè dimostrando - anche a prescindere dalle idee dell'autore - quanto sia lento il cammino della storia. Ha inizio con la frase "anch'io, vecchio soldato, vado gridando pace!": ma non si tratta di una pace ad ogni costo, bensì di "pace con giustizia ed amore, la pace di chi rispetta e vuol essere rùpettato, di chi vuole, ad ogni costo, per sé e per le generazioni future, il severo godimento della indipendenza e della libertà, guadagnale dai nostri martiri a prezzo di tanto sangue". Purtroppo le conquiste del Risorgimento sono al momento minacciate, perché "la discordia delle sette, l'odio di classe e l'egoismo di partito minacciano oggi la compagine di tanto monumento, e minano, sotto le parvenze pacifiche di una propaganda umanitaria, la saldezza del nostro esercito, leale personificazione della nostra forza, palladio intemerato dell'indipendenza e unità nazionale". Al momento si dimentica troppo che siamo diventati un solo popolo "dal dì che sapemmo essere uno per tutti - tutti per uno, dal dì che sapemmo sacrificare il tornaconto personale del momento ad un utile generale ancora remoto"_ xs

"' Ferruccio Bolli, Note .ml pemiero militare italiano da fine secolo X IX all'i11izio della p rima guerra mo11diale - Parte I, in "Studi Storico-Militari /985". Roma, SME- Uf. Storico 1986, pp. 63-75. "' Milano, Treves 1907. 85 ivi, PP- 3-5.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Ili ( 1870-1'-<91'-"'5'----'--' TO=M=0 _,__ 1_ _ __

Sono necessarie salde e ben preparate forze militari, confortate dal consenso popolare, proprio per fare meglio "guerra alla guerra" (di qui il titolo): infatti "la stessa enorme responsabilità nei conflitti, creata dall'enorme massa di interessi e di vite umane che si pongono in gioco cogli ordinamenti militari odierni", è un freno ad avventure militari ecostringe i governi dei grandi Stati ad essere prudenti, di per sé riducendo il rischio di guerra. 86 Di fronte agli imponenti armamenti degli altri Stati l'Italia non può rimanere disarmala,.anche perché le tensionj internazionali sono molteplici e profonde, sì che passeranno altri secoli prima di veder scomparire gli odi di razza e di classe, i conflitti tra religioni, le tendenze particolariste, il sentimento delle rivincite, le rivalità di interessi tra Stato e Stato, per raggiungere la fraternità tra gli uomini e l'onestà nei rapporti internazionali , dalle quaJj solamente potrà nascere una duratura pace. Nel frattempo non l'antimilitarismo e l'anarchia, ma le grandi alleanze tra Stati potranno garantire l' equilibrio necessario per tendere all ' ideale kantiano di pace. Per il P. la situazione internazionale non è certo rassicurante. In Asia si assiste al risveglio del Giappone, della Cina (paese del "quietismo per eccellenza", che però sta acquistando una crescente capacità militare) e della stessa India, dove stanno emergendo le aspirazioni all'indipendenza dal dominio inglese. E benchè lo sfaccio dell' Impero turco abbia fatto dimenticare all'Europa che per nove secoli ha sostenuto una dura lotta per la vita e la morte contro l'Islam, nel Medio Oriente parecchi segnali indicano che il pericolo islamico Ioggi lo definiremmo "del fondamentalismo islamico - N.d.a.J non è affatto scomparso .... Infine i Balcani sono continuamente sconvolti da crisi e guerre locali, mentre anche oltre Oceano si profila per l'Europa una nuova minaccia "nell'imperialismo della maggiore repubblica americana lgli Stati Uniti - N.d.a.} che, imbaldanzita dall'ultima lotta [cioè dalla vittoria nella guerra ispano-americana del 1898 N.d.a .. ], comincia ad espandersi fuori dal suo territorio vastissimo".87 In questa situazione - si chiede il P. - "possiamo noi dire che l'Europa si presenta concorde e unita, come l 'interesse suo e quello della pace vorrebbero ?". Domanda retorica che il P. lascia senza risposta, forse perché è negativa anche oggi. Tenendo conto di questo quadro internazionale, nella seconda parte di Guerra alla guerra? il P. si dichiara recisamente contrario a qualsiasi ri-

"" ivi, p. 26. 87 ivi, pp. 24-25.


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duzione degli organici dell'esercito e ribadisce tutte le sue precedenti idee sul modo di garantire la sicurezza dei confini, amaramente constatando che, benché siano passati parecchi decenni dalle sue prime proposte in merito, esse non hanno avuto gran successo a cominciare proprio dagli alpini, per i quali "non si è ancora giunti ad una organizzazione indipendente, in reparti organici territoriali con complementi delle diverse Armi, batterie da montagna, guide a cavallo, reparti del genio e tutto l'occorrente per la guerra, quale era stato proposto fino dal 1871! ". 88 Come esempio dell'efficacia delle fortificazioni costiere cita la lunga resistenza delle difese russe di Porth Arthur contro la flotta giapponese e gli efficaci tiri contro le navi russe in porto da parte delle batterie giapponesi appostate sulle alture [ma le navi non erano in movimento! - N.d.a.]; per contro la scarsa efficacia deii bombardamenti delle fortificazioni spagnole di Santiago e San Juan da parte della flotta americana ( 1898) ha dimostrato il mediocre rendimento del tiro navale anche contro difese costiere antiquate. Ciononostante, a suo avviso in Italia si è fatto poco o niente per rafforzare le Alpi o le coste; il tratto di pianura del confine del Friuli rimane aperto e non si è provveduto nemmeno a sbarrare la Val Fella e la rotabile della Val Natisone. Eppure l'Austria ha sbarrato tutte le strade che provengono dal confine con l'Italia, la Francia e la Germania hanno dato imponente sviluppo alle fortificazioni e persino l'Inghilterra, pur possedendo la flotta più potente del mondo, ha costruito imponenti fortificazioni costiere. Noi osserviamo che si tratta di paragoni calzanti fino a un certo punto, perché - a parte altre considerazioni - le possibilità economiche della Francia, della Germania e dell'Inghilterra erano notoriamente ben diverse da quelle dell ' Italia del momento, che tra l'altro non poteva sottrarre molle risorse alle forze mobili terrestri e marittime, perché esse erano già di molto inferiori a quelle della Francia e dell'Austria e se mai andavano notevolmente incrementate, anche dal punto di vista qualitativo. Invece, come sempre il P. sorvola sul fattore economico e sulle non meno importanti priorità tra forze mobili e fortificazioni, limitandosi a polemizzare con coloro che ritengono rovinosa la spesa militare italiana, quando invece l'Italia risulta all' ultimo posto in Europa come spesa per l'esercito (lire 6,50 per abitante a fronte delle 17 dell' lnghi Iterra, delle 16,60 della Francia, delle 15,90 per la Germania, delle 9,86 della Svizzera, delle 9,70 dell'Austria).... Interpretazione statistica assai discutibile: la ricchezza nazionale e

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ivi, p. 35.


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lo sviluppo economico e industriale delle grandi nazioni europee citate erano assai maggiori di quelli italiani, quindi per la spesa militare il paragone andava fatto rispetto al bilancio complessivo dello Stato; in dati statistici del genere, inoltre, è sempre consigliabile considerare anche la spesa per la marina. Accanto alla rielaborazione delle antiche idee non ne mancano di nuove, specie sull'ordinamento dell'esercito. Su questo argomento il P. è molto critico, fino a far apparire ottimistiche talune considerazioni nella Difesa dello Stato di oltre vent'anni prima, che dimostravano fiducia nella possibilità di sensibilizzare la pubblica opinione sui problemi e sulle esigenze militari. Riconosce che se la propaganda antimilitarista si è diffusa tanto facilmente, ciò ancora una volta è avvenuto per ignoranza delle cose militari, per la sfiducia e i dubbi derivanti da un poco esauriente dibattito sull'intera problematica militare, per l'instabilità dei criteri e indirizzi nel campo della difesa (in 46 anni si sono succeduti 35 Ministri della guerra e 42 della marina). Cita perciò un recente articolo anonimo sulla Nuova Antologia stranamente afline alle idee sempre sostenute dal generale Marselli, nel quale si lamenta la sfiducia del Paese nell' esercito e la continua ricerca di espedienti (spesso cattivi) per limitare la spesa militare, osservando che hanno contribuito a creare questa sfiducia la poca unità di concetto nella orianizzazione delle risorse e delle attitudini militari della nazione; la nessuna stabilità di limiti nella richiesta di mezzi per completarla e mantenerla; e la .facilità con la quale oggi si fa credere che con un dato bilancio è garantita per sempre la sicurezza del paese, e domani si chiedono dagli uni nuovi fondi per nuove necessità, dagli altri si trovano espedienti per farne senza e limitare le spese, quasi che l'amministrazione della guerra fosse messa a concorso sul criterio del miglior offerente. L'abuso dell'espediente è divenuto il nwdo normale di amministrare l'esercito. 89

Alla critica ai criteri generali per la politica militare ne fa seguito un'altra non meno severa al sistema di reclutamento e alla ripartizione della forza in tempo di pace, che giudica non rispondenti né alle esigenze della mobilitazione e radunata né a quelle dell'istruzione e del comando. Gli inconvenienti che ne sono derivati - osserva causticamente - non hanno

•• Y., t ;sercito nazionale ed economico, in "Nuova Antolog ia" Voi. LIV l'a<;e. XXIH - I dicembre 1894, pp. 427-457.


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mai potuto essere rimossi, "opponendosi difficoltà politiche di vario ordine, ma poco dissimili da quelle che hanno sempre impedito una più razionale ripartizione delle nostre preture per il buon funzionamento della legge, ed 01:ni misura tendente a correggere la esilarante (sic) distribuzione delle nostre Università minori". 90 Si dichiara perciò deciso sostenitore dell'adozione sia pur graduaJe del reclutamento regionale e delle sedi fisse dei reggimenti per tutto l' esercito, "due condizioni che costituiscono la principale causa di vigorìa, la più efficace molla disciplinare e che rendono rapida ed economica la mobilitazione ". A suo avviso tali sistemi hanno fatto e fanno la forza dell'esercito tedesco, ma noi abbiamo cercato di imitarne "solo Le forme esteriori", trascurando questi due fondamentali aspetti e invece imitando ciò che non doveva essere imitato date le peculiarità geografiche dell'Italia, cioè la ripartizione dell'esercito in corpi d 'armata a composizione fissa [su due divisioni - N.d.a. I. La natura del nostro terreno, prevalentemente rotto e montuoso. avrebbe richiesto formazionj più elastiche, meno pesanti e più maneggevoli. Come ha fatto l'Austria nelle recenti campagne in terreni montuosi, sarebbe stato opportuno costituire, anziché delle divisioni, delle brigate pluriarma a composizione variabile , formando dei corpi d'armata su tre brigate che bisognerebbe chiamare legioni [si noti, anche a parte questo nome, le analogie con le soluzioni organiche indicate nel 1836 dal Pepe - Vol. I cap. Xli - N.d.a.J. A fronte di queste esigenze peculiari dell'Italia - lamenta il P. - il solo pur incompleto passo che sì è fatto per adattare gli ordinamenti al terreno è l'istituzione degli alpini ... Da quest'uJtjmo rilievo risulta perciò confermato che egli aveva le stesse idee già nel 1872, quando dopo lunghe ricognizioni delle Alpi ha proposto la formula degli alpini; tale formula era da Jui vista (ma allora, non lo poteva dire) anche come un primo passo per introdurre il reclutamento regionale in tutto l'esercito, a beneficio della sua efficienza e coesione morale, e della rapidità e semplicità di mobilitazione e radunata, oltre tutto con notevole risparmio di spesa. Inoltre sulla base della sua lunga esperienza di comando dì brigate e divisioni il P. constata che la formazione "binaria " di quest'ultime (cioè rispettivamente su due reggimenti e due brigate) ha il grave inconveniente di non consentire la formazione di riserve organiche, costringendo i comandanti a improvvisarle con reparti messi insieme solo al momento, con un capo nuovo. Propone perciò di estendere la formazione ternaria anche

"" ivi, p. 34.


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alle brigate (su tre reggimenti di fanteria, sempre su tre battaglioni, più i reparti necessari delle altre Armi e i Servizi logistici), come aveva sostenuto il Ministro Ricotti già nel 1895; però i battaglioni dovrebbero rimanere su quattro compagnie, perché in guerra sono frequentemente soggetti a forti perdite e sottrazioni di forza. Proposte profetiche che sono accolte solo ne] 1925 e solo per quanto riguarda la divisione (passata da quattro a tre reggimenti), ma rimangono purtroppo ignorate nel 1937, con l'infelice soluzione organica della divisione "binaria", che - come dimostrato dalla guerra - non consente a] comandante la formazione di riserve organiche di forze, di fuoco e di mezzi logistici. P. si dichiara però contrario al progetto de] Ricotti del 1895 (poi non attuato) di ridurre i 19 reggimenti bersaglieri a 16, costituendo 8 brigate miste composte ciascuna da un reggimento bersaglieri e un reggimento alpini, in modo da "avere le nostre frontiere alpine [... ] permanentemente custodite da 22.000 uomini, pratici dei luoghi e perfettamente abituati alle operazioni in quelle d(fficili regioni". Questo obiettivo si potrebbe meglio ottenere - obietta il P. - senza alterare la formazione organica dei bersaglieri e degli alpini: basterebbe rafforzare gli effettivi di pace dei bersaglieri e dislocare tutti i 12 reggimenti del corpo nella Val Padana, per costituire con i 7 reggimenti alpini 6 brigate atte ad agire sulle Alpi. In tal modo, secondo il P. si otterrebbe un consistente nucleo di forze di pronto intervento in grado di coprire la mobilitazione, "senza esporre l'esercito al grave inconveniente, che oggi si verificherebbe, di scompigliare un gran numero di grosse unità e di mandare reparti incompleti fra le Alpi, mentre ferve il lavoro della mobilitazione, e proprio nel mqmento in cui buona parte degli ufficiali è sbalestrata tra i siti di reclutamento in cerca dei richiamati". A suo giudizio le diffidenze per il reclutamento regionale non sono affatto giustificate: l'eccellente prova già data dai reparti alpini dimostra il benefico influsso sul morale della truppa di questo sistema, "mentre attraverso a tutte le prove più dolorose, e malgrado i tentativi più accaniti dei sovversivi, il soldato italiano di ogni provincia ha dimostrato che non ha bisogno di essere tenuto lontano dal focolare natìo per compiere il proprio dovere ".91 Dopo le questioni ordinative il P. si occupa anche della condizione militare, con particolare riguardo ai problemi dei Quadri. È recisamente contrario alla diminuzione del numero delle compagnie, prima di tutto per non accrescere ulteriormente i ritardi di carriera degli ufficiali inferiori, specie

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ivi, pp. 41-42.


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di fanteria_ Lamenta che nei cambiamenti di sede dei reggimenti si adottano "due pesi e due misure", trasferendo con troppa frequenza - e con notevoli disagi per il personale - i soli reggimenti di fanteria. Propone perciò di mantenere fisse le sedi anche della fanteria, sia perché i mutamenti di sede comportano un cospicuo quanto inutile dispendio di fondi, sia perché hanno riflessi assai negativi per i Quadri e le loro famiglie, con traslochi troppo frequenti "sempre rovinosi per un modesto bilancio di casa": l'unico risultato è che "si obbligano reggimenti e famiglie ad uno spreco enorme, si abitua il militare a non affezionarsi alla sua caserma come alla propria casa, ma a considerarla sito di passaggio....". 92 All'efficienza, al buon governo del personale, all'addestramento dei reparti, all' igiene nuoce anche la frequente ripartizione dei reggimenti in due o tre caserme, che tra l'altro obbliga i subalterni a gravosi turni di servizio impedendone l'utilizzazione per altre più proficue attività. Per quanto attiene al personale, con considerazioni pienamente attua1i critica anche il sistema d'avanzamento che non premia i migliori, e propone di abolire il volontariato di un anno, privilegio ingiustamente concesso ai giovani di leva più danarosi per sottrarsi agli obblighi militari. Bisogna invece fare tutto il possibile per far affluire alle scuole militari gli elementi migliori e offrire loro condizioni economiche e di carriera competitive rispetto al mondo civile, eliminando i ritardi di carriera e l'instabilità dei criteri di avanzamento e migliorando il trattamento economico, "di gran lunga" inferiore a quel1e degli altri eserciti europei. Se mai, in Italia si procede nel senso opposto: mentre nella Lotta per la esistenza vediamo i Lavoratori di tutte Le classi insistere, anche fino oltre il Limite del ragionevole, per la diminuzione delle ore di lavoro e l'aumento delle paghe, noi assistiamo nell'esercito ad uno spettacolo in senso opposto, e cioè del più assoluw altruismo. Vediamo l'ufficiale compiere un lavoro enonne, che ogni giorno diventa più oneroso{. .. ] senza che alcun maggiore compenso lo metta almeno in grado di sopportare il maggiore dispendio cui è assoggettato per il bene del servizio, in mezzo al rincaro di tutto quanto è necessario alla vita.93

Nonostante questa e altre critiche, il P. è intransigente difensore del prestigio e dell'onore dell'esercito, il quale anche nelle recenti, sfortunate

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93

ivi, p. 47. ivi, p. 84.


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vicende africane ha dimostrato tutto il suo valore. Ritiene una dimostrazione di immeritata sfiducia l'amplificazione da parte di taluni organi di stampa lcome La Preparazione diretta dal colonnello Barone - N.d.a.l del pericolo di un'improvvisa e incontrastata invasione austriaca del nostro territorio, attraverso il confine del Tirolo o quello del basso Friuli. Contesta aspramente una frase offensiva del presidente americano Roosvelt, il quale in un recente libro ha collocato gli italiani tra i popoli which have lost the flghting edge (cioè "che hanno perduto la combattività"). 94 A Dogai i - egli afferma - i nostri 500 soldati, circondati da migliaia di abissini, sono tutti caduti con le armi in pugno a fianco del loro comandante; ad Adua 15.000 italiani hanno tenuto tesla a circa 100.000 abissini, infliggendo loro perdite enormi e costringendoli a ritirarsi nella Scioa, senza tentare la riconquista di Massaua e senza far fronte alle truppe italiane che stavano arrivando dall'Italia. Anche un corpo di spedizione inglese più forte del nostro ha subìlo a Karloum una dura sconfitta, e solo per venire a patti con circa 40.000 boeri l'Inghilterra ha inviato in Sud Africa ben 448.000 uomini, con una spesa di cinque miliardi. Anche le tesi del P. in Guerra alla guerra"! sono commentate sulla Rivista Marillima dal Bonamico,95 che si dichiara d'accordo con lui sulla necessità di sbarrare con un campo trincerato la frontiera aperta del Friuli nonostante la presumibile spesa di 100 milioni, e ritiene che la marina debba essere solidale con l'esercito nel caldeggiare l'adozione di tutti quei provvedimenti che volgano ad accrescere la capacità difensiva delle forze terrestri. Bonamico concorda con il P. anche sull'importanza terrestre delle basi di La Spezia, Venezia e Taranto, ma non condivide la sua proposta di fare del Golfo di Napoli una vera e propria base di operazioni marittime e una piazza di rifugio per la flotta, fortificando le isole che ne controllano l'accesso. A suo giudizio il Golfo di Napoli non soddisfa ai requisiti richiesti per una base d'operazione; ma anche se fosse possibile predisporla attirerebbe anziché allontanare il grosso della flotta nemica, con gravi conseguenze per la flotta e per la città. Per evitare il bombardamento di una città così importante è inutile guarnire di fortificazioni i monti e le isole circostanti: l'unica difesa efficace sarebbe una buona base per torpediniere e sommergibili a Ischia, Procida e Capo Miseno. Per ultimo, Bonamico ricorda che gli ufficiali di marina non hanno mai contestalo il valore delle fortificazioni costiere anche quando erano antiquate a fronte delle 94

Si veda anche l'articolo del P. Un'offesa al ,wme italiano, in " Lega Navale " 16 agosto 1905. Domenico Honamico, Guerra alla guerra ? A proposito di una recente pubblicazione, in "Rivista Marittima " Tomo lii- luglio 1907, pp. 279-284. 95


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moderne navi corazzate, "ma hanno reagito contro la tendenza allo :,perpero del denaro e delle forze vive, quando non rispondevano alle nuove condizioni della guerra marittima". Come dire: le fortificazioni costiere sono utili solo quando agevolano il preminente compito delle forze navali, alle quali è affidala la difesa costiera .... Quesle idee del Bonamico non valgono certo a scuotere l'antica fede nelle fortificazioni del Nostro, che nelle Questioni militari d'attualità96 ritiene necessario fortificare anche l'isola d'Elba e Genova, non accetta il principio che ''fortezza assediata è fortezza presa" e nega che in una rasa pianura (come è quella del Friuli) sarebbe inutile costruire fortificazioni, per non sbilanciare troppo la difesa in avanti. L'unica novità in proposito è che, per evitare l'accusa di sostenere una difesa a cordone delle Alpi, egli non ritiene più necessario fortificare anche i valichi secondari. Ciò premesso, gli argomenti trattati nelle Questioni militari d'attualità da ritenere in tutto o in parte nuovi , sui quali il P. assume posizioni anche diverse dal passato, sono: l'organi zzazione di un vertice interforze, i rapporti esercito - marina anche sotto l'aspetto delle rispettive aliquote di bilancio, la convenienza (o meno) per l'Italia di adottare un ordinamento dell'esercito tipo "nazione armata", alcune questioni riguardanti i Quadri e la ferma biennale, e persino il ruolo della nascente Arma aerea. Ne daremo qui di seguito qualche cenno.

Organizzazione del vertice interforze. 97 Come il Marselli, il Ricci , il Bonamico, il P. ha sempre ritenuto indispensabile un'impostazione interforze della difesa nazionale; questa volta però ne approfondisce meglio di tutti la complessa problematica organizzativa. Come si è visto (Voi. n, cap. XIV) nel 1860, dopo continue lamentele degli ufficiali di marina e in particolare del Borghi, era stato costituito un Ministero della marina separato da quello che rimaneva "della f?uerra", ma in realtà era solo dell'esercito. Questo provvedimento non aveva evitato le sconfitte del 1866 per terra e per mare, che il P. attribuisce anzitutto alla mancanza di coordinamento osservando a ragione che, con due diversi Ministeri, da noi, n on solo si è portati ad adoperare due pesi e due misure; ma, ciò che è peggio, si finisce per non coordinare mai e per trattare a spiz-

"" Torino, Lattes 1910. 97 ivi, pp. 25-35 e 48-60.


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zico, separatamente e persino in epoca diversa tutte le questioni del concorso che esercito e marina devono dare a un unico scopo. Sicchè ciascuno di questi due fattori integranti della difesa nazionale va soggetto all'altalena dei megalomani oppure dei microcefali, alla Larghezza dei mezzi od alle economie.fino all'osso a seconda del momento, degli uomini che reggono i Ministeri, degli umori politici, dei partiti e delle preoccupazioni economiche del Parlamento e del Paese / ... /. Per consuetudine, le discussioni nel Parfamentu delle questioni che interessano i bilanci militari, oltre ad essere fatte separatamente e senza alcun nesso fra il punto di vista terrestre e quello marittimo, non hanno mai luogo in un momento propizio, e tale da assicurare una trattazione calma... 98

Per ovviare a questi e ad altri inconvenienti il P. (unico tra tutti gli scrillori coevi) suggerisce la istituzione di un solo Ministero della difesa sul modello dell'Austria, che con un solo Ministro responsabile di tutto ciò che riguarda le difese, aiutato da un personale meno numeroso di quelli dei nostri due Ministeri della guerra e della marina sommati insieme, è arrivata in quarant'anni a trasformare con ammirabile armonia ed economia i propri mezzi di guerra, evitando le soverchie discussioni parlamentari, cui offre troppe occasioni l'uso nostro di trattare separatamente i due bilanci. 99

Al di sotto del Ministro dovrebbe essere prevista una Commissione Suprema di difesa (o "Consesso di tutti gli uomini destinati ad assumere in guerra le più grandi responsabilità per terra e per mare", analogo al Conseil superieur de guerre francese), che avrebbe facoltà di riunirsi anche d'iniziativa per trattare le principali questioni relative alla preparazione e all'impiego delle forze di terra e di mare. Tale organismo, con il concorso "delle migliori intelligenze dell'esercito e dell'armata", dovrebbe inoltre fornire indicazioni per la scelta del Capo di Stato Maggiore Generale, comandante in capo, o addirittura eleggerlo. Per assicurare la necessaria continuità d'indirizzo a fronte dei continui mutamenti degli uomini di governo, sarebbe opportuno non scegliere tale comandante in capo tra i più anziani, così come non era tra i generali

"" ivi, pp. 48-49. 9'I ivi, p. 141.


_ __ _ _ _e.e. I V_- = L A-'-'-M =U=LT ,.,, IFO = RME OPERA DI GIUSEPPF. PF.RRIJCC=. H=F.1'--'T '1-_ __ _ _ ____, 44 ~5

più anziani Moltke. Egli "d'accordo col consenso dei capi dell'esercito e dell'armata" deve fissare le grandi direttive, e deve sperimentare e scegliere fin da] tempo di pace gli uomini destinati a ricoprire le più alte cariche dell'esercito e della flotta. A loro volta, i Capi di Stato Maggiore di Forza Armata "devono essenzialmente studiare e predisporre tutto nei più minuti particolari, per rendere facile ed efficace [ 'attuazione di quelle direttive, e pronta l'azione del Comando in capo". Questa soluzione assai drastica, che esalta i poteri del Capo di Stato Maggiore generale riducendo quelli del Ministro e dei Capi di Stato Maggiore di Forza Armata, sarà attuata almeno in qualche sua parte solo a fine secolo XX. Ad ogni modo, con essa il P. intende rimediare a due inconvenienti: - tendenza dei Ministri a soffocare l'autonomia dei Capi di Stato Maggiore, o, al contrario, a concedere loro troppi ampi poteri in relazione alla provvisorietà del loro incarico; - insufficienza del decreto del 1899 istitutivo di una Commissione Suprema Mista per risolvere le più alle questioni della difesa, il quale intende limitare le attribuzioni della Commissione all'assetto difensivo del territorio facendone inoltre un organo consultivo e non di alta direzione della guerra fin effetti, non ha mai funzionato N.d.a.]; - scarsa rispondenza anche del decreto del 1906 sulle nuove attribuzioni del Capo di Stato Maggiore dell'esercito, che non risolve il problema del comando e gli assegna compiti che meglio dovrebbero essere svolti dalla stessa Commissione Suprema (come, ad esempio, quello di "stabilire i concetti fondamentali a cui deve informarsi la preparazione della guerra").

Ruolo dell'esercito e della marina e conseguente ripartizione del bilancio. 100 Pur continuando a sostenere la grande importanza della marina, il P. combatte le opposte esagerazioni dei navalisti (secondo i quali la minaccia nemica verrebbe solo dal mare) e dei continentalisti (secondo i quali la minaccia verrebbe solo dalle Alpi); al tempo stesso, si oppone alla proposta di taluni - e dello stesso Bonarnico - di diminuire l'esercito per rafforzare la marina. Non senza sferzante ironia contesta l'affermazione in verità fantasiosa - del Callwell, secondo il quale nel 1848 il Maresciallo Radetzky si è sentito rinfrancato, e ha potuto riprendere l'offensiva, so-

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ivi, pp. 61 -75 e 140-147.


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lo quando la flolta napoletana ha lasciato l'Adriatico, senza più minacciare dal mare le sue comunicazioni con l' Austria 101 • In realtà - obielta giustamente - a parte il fatto che Radetzky ha sempre potulo conlare sulle comunicazioni con l'Austria attraverso il Tirolo, l'evento decisivo - a tutto suo favore - è stato l'arrivo dal Friuli dei corpi di soccorso del Welden e del Nugent. Al tempo stesso, dall'esistenza di sole cinque strade interamente rotabili sulle Alpi Occidentali, ciascuna con la portata logistica (secondo il Ricci) di 50.000 uomini, non si può dedurre con assoluta sicurezza che l'esercito francese potrebbe impiegare nell'offensiva sulle Alpi solo 250.000 uomini, "scaricando per mare contro l'Italia il maggior nerbo delle sue forze". Dopo queste precisazioni il P. esce dall'ambiguità di talune sue affermazioni precedenti, per sottolineare che nella guerra futura la battaglia decisiva anche per l'Italia avverrà per terra e non per mare; pertanto (si noti la divergenza dal Bonamico) "la flotta, per quanto sviluppo ricevesse, non potrebbe bastare e lottare a f ondo, con vantaggio da sola, contro le odierne strapotenti marine di parecchi altri Stati. Essa invece è e sarà, oggi e sempre, il complemento efficace e necessario all'esercito". Così pensa - egli aggiunge - anche il Capo della marina austriaca pro tempore ammiraglio Montecuccoli, mentre la Camera inglese, pur potendo contare per la difesa delle coste sulla più potente flotta del mondo, ritiene necessario anche un forte esercito, di consistenza sufficiente per impedire lo sbarco di forze considerevoli. Riguardo alla ripartizione delle risorse tra esercito e marina, 102 il P. cita dati statistici i quali dimostrano che nell'ultimo ventennio la spesa media per l'esercito, detratti i 25 milioni circa per i carabinieri e i sussidi per le famiglie dei richiamati, è rimasta costante (circa 200 milioni), mentre quella per la marina ha subìto frequenti oscillazioni, con tendenza all 'aumento (da 83 nùlioni nel 1887- 1888 a 105 milioni nel 1907-1908); di conseguenza la differenza tra i due bilanci è diminuita dai 117 milioni del 1887-88 ai 10 del 1907-1908, a tutto sfavore dell'esercito. Egli non commenta questi dati, né apertamente sostiene che occorre ristabilire la proporzione del 1887-1888, magari aumentando anche il bilancio dell'esercito: ma le considerazioni prima citate sul ruolo decisivo di quest'ultima Forza Armata di per sé parlano chiaro. Ad esse vanno aggiunte le ripetute raccomandazioni di non diminuire di un solo uomo, ma anzi di aumentare la fon:a di pace dell'esercito (per esempio aggiungendo

101

Cfr. anche Bonamico, Seri/ti ~-u l potere mariuimo (Cit.), pp. 239-241.


IV - I.A MUL:rl~URMt OPERA 01 GIUSEPPE PERRUCOIETII

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un quarto battaglione ai 96 reggimenti di fanteria). Con queste tesi, perciò, egli prende forti distanze non solo dai navalisti coevi, ma anche dal Bonamico (che pure lo aveva inc1uso tra coloro che sostenevano la riduzione dell'esercito a vantaggio della marina) e da] Ricci: due autori ai quali, in passalo, era stato assai vicino.

Conveni~nza per l'Italia di un ordinamento tipo "nazione armata".'02 Anche in questo caso per il P. è il terreno, e non il contesto politico-sociale, a dettare legge. Ritiene la "nazione armata" adatta alle peculiarità geopolitiche e geostrategiche della Svizzera, ma esclude recisamente che essa possa essere adottata con vantaggio dall'Italia, almeno ''fino a quando su questa via già non si fosse preceduti da tutte le altre grandi potenze d'Europa". Diversamente dalla Svizzera noi non possiamo contare sul comune interesse delle grandi potenze a rispettare la nostra neutralità, anche al di là dei fatti internazionali; in secondo luogo, dal punto di vista geostrategico "la Svizzera presenta la massima attitudine difensiva, per condizioni topografiche, nella sua regione centrale; l'Italia invece, mercè l'ostacolo delle Alpi che obbliga le enormi masse di una invasione a dividersi sulla frontiera, presenta proprio soltanto in prossimità della frontie ra stessa tutti i vantaggi difensivi che invano si cercherebbero all'interno del Paese". Ne consegue che mentre la Svizzera non ha alcuna convenienza ad impegnare fin dall'inizio di un conflitto le sue forze nella difesa di un confine indifendibile, aJ contrario per l'Italia è indispensabile disporre fin dal primo momento deUa guerra e a ridosso dei confini delle forze maggiori, esigenza che può essere soddisfatta solo con forze permanenti. Insieme con la nazione armata il P. boccia anche la formula - sostenuta da taluni - dell'esercito permanente "difensivo" (cioè con poche forze e pochi mezzi di trasporlo, quindi adatto al massimo a una difesa statica dei confini). Ovvia la sua obiezione: questo esercito non sarebbe in grado di manovrare, di inseguire a fondo il nemico dopo un successo e/o di reiterare l'azione difensiva all' interno del Paese, se sconfitto.

Problemi dei Quadri e ferma biennale. 103 Per questo argomento il P. manifesta interesse con idee assai originali che non hanno avuto alcun sue-

"" Questint1i militari d'attualità (Cii.), pp. 11 9-126. un ivi, pp. 36-47 e I 85-190. Cfr. anche la lettera in data 5 gennaio 189 I del Perrlll:cheLLi - allora colonndlu comandante del 61 ° fanteria · al Marselli (in Lettere inedite dall'archivio del generale Marselli - a cura del gen. Nicolò Giacchi, Op. cit. 7, pp. 52-53).


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cesso fin dal gennaio 1891, quando in una lettera indirizzata al Marselli (che, come si è visto, la pensava in modo assai diverso) scrive: a mio avviso il collegio militare, così come oggi è organizzato, è una delle prime cause - vero peccato originale - dell'abbassamento del livello dei nostri Quadri. Ricettacolo di bocciati, il collegio militare è una specie di contrabbando, una fabbrica di lana meccanica che fa passare per buone delle stoffe a gramo tessuto. Se si vuole tenere il collegio militare, esso deve diventare un buon ginnasio o una buona scuola tecnica come le altre, per quanto riflette le materie d'insegnamento [... ]. Bisogna inoltre che facciamo in modo che i plotoni allievi ufficiali e il volontariato di un anno diventino un meu.o di reclutamento per ufficiali dell'esercito e non una scappatoia. Quanto agli avanzamenti, credo che dovrem11w fissare delle guarentigie per la prima esclusione negli avanzamenti a capitano, per tutti, anche per le Armi speciali, e non ammettere come ufficiali superiori che elementi capaci di giungere al comando di reggimento. Il Corpo di Stato Ma,:giore non dovrebbe (se si vuole conservarlo con vantaggi di carriera) avere un quadro fisso, causa di continue ingiustizie e malumori. In tempo di pace la scelta non può essere applicata che per meriti eccezionali. Né si può ammettere che con un quadro così numeroso come quello del nostro Stato Maggiore tutti siano meritevoli di tanto. Invece l'esclusione deve essere seria e non produrre i fatti dolorosi che tutti conosciamo, di gente inetta lasciata giungere troppo in alto e di elementi preziosi Lasciati arenare e invecchiare troppo in basso. Mentre con un annuario che conta i generali a centinaia si arriva con fatica a trovare, in caso di mobilitazione, i comandanti delle armate e delle divisioni, si vedono raggiungere i limiti di età, per andare in posizione ausiliaria, elementi che hanno invano dato tutte le prove di attitudine per una bella carriera.

li p_ si mantiene favorevole a una maggiore selezione dei Quadri anche vent'anni dopo, con già citata proposta di costituire brigate pluriarma ternarie. In tal modo con l'abolizione dei Comandi di divisione i generali potrebbero essere ridotti da 88 a 60 (corrispondenti a 11 legioni e 49 falangi). Inoltre egli vorrebbe semplificare anche la catena gerarchica al di sotto del grado di generale, abolendo i gradi non necessari all'esercizio del comando e prevedendone solo quattro: comandante di reggimento, capo battaglione, capitano, capo plotone. Con tutte queste innovazioni sarebbe possibile allargare la base di avanzamento a tutti i livelli, garantendo così


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una migliore selezione dei Quadri, nell'intesa che il loro avanzamento deve avvenire nell'interesse dell'Istituzione e non in quello dei singoli. Oltre a non essere accolte né allora né dopo, queste soluzioni ordinative cadono in un periodo di diffuso malcontento e di disagio morale dei Quadri, a causa dei ritardi e sperequazioni nell'avanzamento tra le varie Armi e di una nuova legge sui limiti di età, che però diversamente da quanto viene fatto in Francia, prevede per gli ufficiali collocati in pensione un trattamento economico insufficiente. Per risolvere gli ardui problemi che derivano da questa situazione (destinata a ripetersi anche nel prosieguo del secolo) il P. propone di: - stabilire una speciale indennità di carica solo per coloro che hanno incarichi di comando; - legare il trattamento economico all'anzianità di servizio, con scatti triennali indipendenti dal grado; - ridurre i limiti di età da 8 a 3 (per generali, ufficiali superiori, ufficiali inferiori), prevedendo per ciascun limite un mac.simo e un minimo; - sopprimere i posti "a disposizione". Con questi provvedimenti (anch'essi mai attuati) egli intenderebbe facilitare l'operato delle Commissioni d'avanzamento e rendere possibile una giusta selezione, evitando che esse di fatto vi rinuncino "per sentimento di umanità" e eliminando o almeno riducendo malumori reclami, contenziosi legali, sperequazioni, ingiustizie e incertezze dei Quadri sul loro futuro. Al tempo stesso, si eviterebbe che a causa del meccanismo automatico dei limiti di età siano collocati in congedo ufficiali ancora validi e nel pieno vigore delle loro forze ( che poi sarebbe necessario rimpiazzare con spesa doppia) o, al contrario, che generali troppo anziani non assicurino la necessaria continuità di indirizzo in incarichi-chiave. Problemi e proposte non certo nuovi e non ventilati solo allora, che si prestano a obiezioni: ma le loro interfacce sono così complesse e delicate, da renderli ancora attuali - e non del tutto risolti - persino a distanza di un secolo. L'impegno del P. per sanare il disagio anche morale dei Quadri del tempo è comunque lodevole, e da sottolineare. Ne è tra l' altro dimostrazione una veemente protesta, "da antico fantaccino" , proprio per il trasferimento "per punizione" in fanteria di un ufficiale degli alpini, giustamente da lui giudicato lesivo per il prestigio di un'Arma, che non può essere chiamata regina delle battaglie solo dopo la guerra, e i cui ufficiali svolgono una missione "per difficoltà ed elevatezza superiore a qualsiasi altra ", visto che con il prestigio e l'esempio devono trascinare i loro soldati nel combattimento reso micidiale dalle armi moderne. Una lezione tuttora attuale per quegli alpini o appartenenti a corpi speciali - pochi in


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO · VOL. lii (1870-1915) - TOMO I

verità - che per malinteso spirito di corpo si sono fatti quasi un dovere di ostentare una certa superiorità (se non una punta di più o meno celato disprezzo) nei confronti della cosiddetta "buffa", della fanteria che è invece sempre stata espressione autentica del popolo italiano, e che dunque un vero italiano non può guardare con sufficienza e dall'alto in basso. Il problema dei Quadri emerge anche in vista della riduzione della ferma di leva a due anni, alla quale il P. non si dichiara pregiudizialmente contrario, purché - con il relativo, inevitabile onere di spesa - si creino le condizioni organizzative indispensabili per un efficace addestramento quotidiano delle truppe in tempi più contratti. In merito, egli ricorda che in tutti gli altri paesi, quando si passò alla ferma biennale, si pensò prima a preparare i Quadri, al lavoro intensivo che ne è la conseguenza. Abbondanza di ufficiali e sottufficùlli, caporali maggiori e caporali raffermati con premio. soppressione di distaccamenti. creazioni di caserme. di cavallerizze e di tutti i sussidi materiali possibili per l'istruzione, preparazione marziale e patriottica della gioventù in tutte le scuole, ecc...

Esigenze che avrebbero dovuto essere tenute ben presenti - e non lo sono state - anche dopo il 1945..... La rassegna dei problemi del dopoguerra si conclude con le considerazioni sul ruolo da attribuire alla nuova Arma aerea, nelle quali il P. dimostra un raro equilibrio e senso pratico. Non condivide il catastrofismo e le esagerazioni del deputato Odorico d'Odorico, il quale, in un articolo del 1909 (cioè ancor prima di Douhet e, anzi, diversamente dalle idee dello stesso Douhet in quel tempo) prevedeva che "l'una e l'altra nazione, la prima notte dopo la dichiarazione di guerra, lanceranno i loro più potenti incrociatori aerei attraverso i confini e porteranno la strage e la distruzione nelle maggiori e più opulente città dell'avversario d(ffondendo il panico più pauroso....". 1()4 Per P. si tratta più che altro di mantenere i piedi per terra, .incoraggiando gli studi e gli esperimenti dei già numerosi e validi nostri pionieri aeronautici in modo da disporre dei migliori dirigibili e aeroplani, senza trascurare l'educazione del popolo a resistere anche moralmente ai nuovi mezzi di lotta. 105

104 Odorico d' Odorico. La fine delle guerre, in "Corriere della Sera" 27 agosto 1909. Sulle questioni aeronautiche dibattute nel periodo Cfr. F. Botti - M. Cermelli, La teoria della guerra aerea I 8841939, Roma, Ufficio Storico Aeronautica 1989, PARTE I. 105 Questioni militari d'attualità (Cit.), p. 192,


IV · LA MULTIT-ORME OPERA DI <il U'-" S'-" EP..:.. P"-E =·K= KU=C= ' C=Hl:: =rlc..:. T I,,,__ _ _ _ __ _ _4 .,_,,5=1 l c..' .o t

Meritano infine un breve cenno gli acuti giudizi del P. storico, sparsi in tutte le opere e in particolare in queste due ultime. Geografia e storia sono i due riferimenti continui del suo pensiero: ma si sofferma in particolar modo sulle vicende della guerra del 1866, per dimostrare che le sconfitte di Custoza e Lissa non vanno sopravvalutate né possono minare la fiducia nel vigore della Nazione, perché non sono dovute a carenti doti militari individuali ma solamente a "deficienza nella preparazione e direzione delle imprese militari" e a mancanza di impostazione e condotta unitaria delle operazioni di terra e di mare_l<l6 La sua analisi, assai severa con i Capi, è interamente condivisibile. Addebita loro, prima di tutto, di non aver saputo rimediare agli insuccessi ini ziali. Non attacca direttamente il La Mannora, ma dalla descrizione degli avve nimenti le responsabilità del generale in capo e quelle del generale Della Rocca risaltano con chiarezza. Giustamente sottolinea la scarsa preparazione e la ritardata mobilitazione della flotta, che un mese dopo l'inizio della guerra non era ancora pronta, e attacca direttamente il Mini stro della marina Minghetti e gli ammiragli Persano e Albini, riprendendo i g iudizi del Bonamico ma suscitando la reazione di Alberto Lumbroso, il più convinto e autorevole difensore del Persano. 107 Con le Questioni militari d'attualità può ritenersi conclusa la vicenda del P. autore militare; anche gli articoli successivi non fanno che confermare le sue tesi di sempre, anzi i suoi sentimenti di sempre. Da sempre antiaustriaco, nel 1915 non può che essere interventista e collocare al primo posto l'esigenza di liberare finalmente i territori italiani soggetti all' Austria. Facendo appello anche in questo alle sue vaste conoscenze geografiche e storiche, in un articolo del gennaio 1915 sul Corriere della Sera (quotidiano anch'esso notoriamente interventista) dimostra che l'Istria è da venti secoli italiana_l 08 In altri due articoli del marzo 1915 109 contesta l'affermazione del conte Fiquelmont (uno dei più noti uomini di Stato austriaci) che dal Gottardo aJle Alpi Illiriche i fiumi italiani nascono interritori abitati da popolazioni germaniche, quindi "per una legge di geografia

106

ivi, pp. 7 -24. "" Cfr. anc he Bonamico, Scritti sul potere mari/limo (Cit.), p. 12 e ID. Considerazioni critiche sull 'opera "La guerra austriaca ncll' Adriatico" Idei comandante Attlmayr. souocapo di Stato Maggiore di Tegetlhof a Lissa - N.d.a.J, in "Rivista Marittima" I Voi. - febbraio 1897, pp. 359-381. Il dissenso dall' interpre tazione del Bonamico si Lrova in Alhcrto Lumbroso, La battaglia di U ssa nella storia e nella leggenda, Roma. Ed. La Rivista di Roma 191 O, pp. 284-285. 108 Perrucchetti, L'Istria e i mai venti secoli di costanti tradizioni italiane, in "Corriere della Sera "3 1 gennaio 19 15. 109 Pcrrucchetti, A11e111ati all'italianitù, in "Corriere della Sern" I marzo e 8 marzo 1915.


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IL PENSIERO MlLITARE E NAVALE ITALIANO · VOL. Ili (1870-191 5) · TOMO I

politica" devono appartenere alla Germania anche le pianure che si stendono ai piedi delle Alpi, necessarie aJla difesa dell'Impero. Il P. obietta che solo le sorgenti dell 'Adige sono in territorio tedesco; ma in Alto Adige l'immigrazione tedesca si è arrestata di fronte alla contro-immigrazione italiana. In tutte le aJtre valli alpine del versante Sud, i pochi abitanti tedeschi e slavi si sono tutti italianizzati e sono diventati come i valdesi e i valdostani, che sanno parlare la lingua francese e parlano diaJeui vicini a tale lingua, ma fanno parte integrante della famiglia italiana e per essa hanno sempre vaJorosamente combattuto, anche contro la stessa Francia. Né è vero che gli abitanti dell'altopiano dei Sette Comuni discendono dai Cimbri: sono tedeschi chiamati nel 1397 da Cangrande della Scala a difendere una delle porte d'Italia, così come i tedeschi chiamati dai Romani in Alsazia. La conclusione del P. è perciò quella del 18481849, da lui condivisa già in gioventù: "gli italiani non hanno parole d'odio per alcun straniero, ma non possono che ripetere agli antichi oppressori: passate le Alpi e tomerem fratelli". La stessa conclusione, insomma, del Tirolo nel 1874, che non ha mai rinnegato. Le tesi del Tirolo ricompaiono anche in un articolo del maggio 1916 (cioè solo quaJchc mese prima della morte), 110 nel quale il P. commenta con soddisfazione il fallimento della Strafe-Expedition austriaca sugli aJtopiani, ricordando che le precedenti invasioni austriache dal Trentino erano quasi sempre fallite perché le colonne sboccate in piano da vaJli assai divergenti agevolavano i contrattacchi del difensore, che poteva concentrarsi contro ciascuna di esse sfruttando l' ottima rete di comunicazioni. Questa volta gli austriaci hanno cercato di evitare gli insuccessi del passato con un enorme sforzo logistico, che ha consentito loro di concentrare la massa delle fone - in quantità peraltro sproporzionata alle effettive possibilità offerte daJ terreno - su un tratto ristretto di fronte, cioè nel bacino dell' Astico, dal quaJe è più agevole passare nella VaJ Sugana e nella Val d ' Adige che sboccare direttamente nella pianura. L'esercito austriaco è così "caduto in una pania dalla quale difficilmente riuscirà a districarsi", dove è stato fermato da "eroismo di combattenti e sapienza di comando". È perciò auspicabile conclude il P. - che la nazione sappia seguire l'esempio dato dall'esercito, trattando da traditori coloro che atteggiandosi a pacifisti umanitari raccolgono e esagerano ogni notizia scoraggiante che giunge dal fronte, e ostentano orrore per una guerra che è il solo mezzo degno e sicuro per liberare l'Italia dalla prepotenza e dall' oppressione dello straniero.

110

Perrucchelli, L'offensiva austriaca, in "Corriere della Sera " 22 giugno 191 6.


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Conclusione

ll P. dà una lezione - forse insuperata e tuttora viva - di metodo negli studi geografici, con una copiosa serie di scritti sul confine alpino di grande utilità anche nel XX secolo, in ambedue le guerre mondiali e fino a quando si è trattato di organizzarne la difesa a Nord-Est. Non per nulla come già si è accennato - nella guerra fredda, sbarrando con fortificazioni la Val Fella e la Val Natisone così come la cosiddetta "Soglia di Gorizia", inconsciamente non si è fatto che confermare le sue teorie, così come il suo concetto allargato di geografia militare. Indirettamente, ma in modo molto efficace, la sua opera dimostra perciò l'importanza di questa disciplina. Egli ha anche il merito di non allinearsi con la Communis opinio del tempo, evitando di accreditare il mito della guerra breve e non concedendo troppa fiducia agli "immortali principì' dell'arte della guerra. Condivisibili anche molte sue idee sulla problematica militare del primo decennio del secolo, tra le quali meritano speciale sottolineatura le sedi fisse anche per i reggimenti di fanteria, l'ordinamento ternario, i provvedimenti economici e normativi per i Quadri , il reclutamento tendenzialmente regionale, l'impostazione operativa interforze con un vertice unico per la difesa, l'importanza delle forze marittime, la scarsa convenienza di prevedere le "piazze di rifugio" sostenute dal Ricci. Riguardo alla difesa dello Stato e alla sicurezza dei confini si è già accennato che nonostante l'annuncio di una metodica assai equilibrata - nella quale si intenderebbe valutare e armonizzare le varie componenti riconoscendo a ciascuna il giusto valore - nei suoi scritti finiscono per acquistare peso eccessivo tre elementi: la fortificazione (permanente; assai raramente campale), le truppe alpine (troppo ottimisticamente viste come componente esclusiva, almeno, iniziale, della difesa delle Alpi), le vie di facilitazione. In particolare, quest'ultime nella visione del Perrucchetti sarebbero troppo facilmente e troppo rapidamente percorse da colonne, che trascurerebbero gli spazi montuosi interposti per puntare rapidamente verso il piano, con una capacità e velocità di manovra confermata nelle speciali circostanze di Caporetto ma smentita da tutti i restanti avvenimenti della prima guerra mondiale e persi no da quelli della guerra di Grecia 1940-1941. Detto questo, gli effettivi meriti del P. nella costituzione delle truppe alpine vanno definiti tenendo presente che le sue idee in proposito derivano da un concetto generale di difesa del confine alpino, nel quale l' esigenza primaria è lo sbarramento dei valichi con fortificazioni permanenti, e con le forze locali che le presidiano e ne integrano l'azione. È fuor di dubbio che se i concetti di base dell'articolo del maggio 1872 non sono


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certo originali, a lui e solo a lui si deve il primo concreto progetto per la nascita della nuova specialità, con soluzioni praticabili ed equilibrate che realisticamente tengono conto della situazione del momento e da parecchi segni lasciano capire che l'autore avrebbe anche voluto andare più in là, se i superiori glielo avessero consentito. Ciò non toglie che quando - negli scritti successivi - ha preteso di difendere le Alpi solo con gli alpini e la fortificazione permanente, non ha tenuto conto che le sole truppe alpine sarebbero state sempre più insufficienti per una difesa anche iniziale delle Alpi al loro interno, rendendo indispensabile prevedere l'impiego nella fascia alpina, fin dal tempo di pace, anche di consistenti aliquote dell'esercito permanente. In definitiva negli scritti del p_ si trova assai poco della guerra di trincea del 1915-1918, nonostante il suo culto delle posizioni e le sue intuizioni sulle difficoltà che l'offensiva austriaca avrebbe incontrato nel Trentino. L'eccessiva importanza da lui attribuita alla fortificazione permanente porta a svalutare le chances offerte da quella campale (o almeno semipermanente) invece intuite dal Marselli, e ancor di più il ruolo delle forze mobili in genere. Anche per questo il limite più severo della sua intera opera è l'approccio alla questione delle risorse, vista non come una hase di partenza sicura per il quidfacendum, ma come fastidiosa appendice da affrontare dopo tutto il resto, troppo affrettatamente liquidata con generiche esortazioni ai concittadini ad addossarsi virtuosamente i sacrifici che richiederebbe la risoluzione di problemi da ritenere vitali per l'esistenza della nazione. Come dimostra anche l'articolo anonimo sulla "Nuova Antologia" del 1894 da lui citato, è questo invece il clou della difesa nazionale e di conseguen7.a anche della difesa dei confini , a maggior ragione se si tratta di costruire tutte quelle fortificazioni permanenti che sono la costante meta dei suoi studi_ Le domande alle quali il P_ avrebbe dovuto rispondere - ma non ha mai risposto - erano perciò tre: nella situazione del momento e a breve termine, quanto avrebbe potuto (non dovuto!!) spendere il Paese per la difesa? La cifra così individuata come avrebbe dovuto essere ripartita tra le due Forze Armate? Nell'ambito di ciascuna di esse, quale era l'aliquota da destinare alla fortificazione permanente (e/o, per la marina, alle basi?). Solo dopo aver risposto a queste domande il P. avrebbe dovuto affrontare il problema della fortificazione permanente, indicando le opere prioritarie. Non avendo egli fatto questo, molte delle sue considerazioni sulla difesa dei confini ecc. sono pura teoria e - come in precedenza avevano fatto i fratelli Mczzacapo - obbediscono a una logica apparente più che reale, arbiln1riamente confondendo il necessario con il possibile e facendo


IV · LA MULTIFORME OPERA DI C.IIJSF.PPF. Pt,KKUCCH1,Tr.,_ 1 _

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apparire insufficienti - invece che ancora troppo ambiziose - le conclusioni del "Piano ridotto" per la difesa dello Stato. Solo il Bonamico ha affrontalo, sia pur con risultati opinabili, il problema nei termini prima indicati. Il P. non ha seguìto la stessa strada; perciò buona parte dei suoi scritti va inclusa nell 'interminabile serie - non ancora interrotta - dei tentativi di sensibilizzare la pubbJica opinione sulle esigenze della difesa nazionale, dimostrandone la necessità strategica. Tentativi necessari, meritori e - come quelli del P. - spesso di elevata caratura: ma tali da non fornire una guida sicura a chi deve quotidianamente operare ricercando solo il possibile, e da non agevolare la ricerca di una risposta a un doveroso quesito storico: le lacune nella difesa nazionale prima della grande guerra erano principalmente dovute a scarsità delle risorse, o a cattiva allocazione delle risorse stesse?



CAPITOLO V

IL PIÙ ILLUSTRE EMULO DEL MARSELLI: ENRICO BARONE COLONNELLO, STRATEGA, STORICO, SOCIOLOGO ED ECONOMISTA MILITARE

Premessa: generalità sull'uomo e sull'opera La scuola napoletana del secolo XIX - e Nicola Marselli in particolare - sono stati alberi troppo rigogliosi per non lasciare robuste tracce di sé. I Filangieri, i Blanch, i D' Ayala, i Mezzacapo, i Pisacane, i Marsellì non potevano non avere degli emuli, dei continuatori: tra di essi il più illustre e attrezzato è stato Enrico Barone (d'ora in poi E.B.), che purtroppo chiude la serie. Attivo dal 1884 al 1922, in molti tratti della sua personalità poliedrica si avvicina al Marselli, subendone un' influenza non dichiarata ma evidente, che tuttavia non gli impedisce di assumere su argomenti importanti una propria e diversa posizione. Anch'egli napoletano come Marselli, E.B. - ufficiale della generazione successiva - come il suo illustre conterraneo è stato allievo della Scuola Militare della Nunziatella, ufficiale delle Armi dotte, insegnante alla Scuola di Guerra di Torino, storico, scrittore, sociologo militare, giornalista. Sempre come Marselli ha saputo unire gli studi teorici a quelli applicativi e miranti ad incidere sulla realtà militare del suo tempo, tra l'altro con un'attività pubblicistica di collaborazione a giornali e riviste (o di direzione) assai più intensa di quella - già notevole - del suo celebre predecessore. Ma il suo merito maggiore - che lo accomuna ancora a una volta a1 Marselli, come lui un'eccezione - è di aver coltivato accanto agli studi militari alti studi in discipline non militari, che gli hanno fatto guadagnare fama, consensi e notorietà tra gli studiosi civili coevi e nel difficile mondo accademico, non solo italiano, con contributi nel campo degli studi di economia politica e coloniale tuttora studiati, apprezzati e tradotti in varie lingue, il cui livello è testimoniato anche dal fatto che è stato in cordiali


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOI.. 111 ( 1870-1915) - 'IUMO I

rapporti di amicizia e collaborazione con un uomo del calibro di Luigi Einaudi e con altri economisti coevi di prim'ordine. l suoi scritti militari, mai studiati a fondo, sono oggi conosciuti e apprezzati assai di meno: pertanto, in prima approssimazione E.B. potrebbe essere definito un militare economista prima ancor che uno scrittore ed economista militare. Ma se da una parte la sua esperienza e competenza militare gli consentono di affrontare meglio di chiunque altro la problematica politico-economica connessa con il fenomeno guerra e con l'Istituzione militare in genere, dall 'altra i suoi studi economici sono in larga parte anche storico - sociologici e quindi anche storico - sociologici militari, perché sfuggono alla frequente tentazione di schematizzare, ridurre a sole quantità matematiche i fenomeni economici, in tuttj i calcoli facendo entrare l'uomo, le sue passioni, i moventi anche morali e spirituali che lo spingono ad aggregarsi ai suoi simili e a combattere. Con questi caratteri generali e proprio grazie ai prediletti studi di economia, il pensiero di E.B. lo qualifica come ultimo esponente della grande scuola sociologica militare meridionale, che anche nei suoi scritti conserva i due suoi tratti distintivi principali: un amore per la Nazione e per la sua effettiva indipendenza che è strettamente connesso con l'amore per la libertà, e che non sconfina mai in gretto, egoistico nazionalismo; la ricerca mai sazia di un parallelismo, di un raccordo tra cultura militare e cultura civile, tra Istituzione militare e società, tra l'homo militaris e il cittadino, tra guerra e progresso sociale ed economico, tra storia generale e storia militare. Il tutto sullo sfondo di avvenimenti che hanno fortemente segnato la fisionomia del secolo XX e che né il Marselli, né tanto meno gli altri esponenti del pensiero meridionale prima citati hanno potuto vivere. Numerose sono dunque le interfacce che fanno di E.B. una figura di particolare rilievo; qualche notizia su vita e opere lo conferma. 1 Nato a Napoli nel 1859, frequenta la Nunziatella e poi l'Accademia Militare di Artiglieria e Genio di Torino, uscendone sottotenente di artiglieria nel 1878. Tenente nel 1880 e capitano nel 1886, frequenta la Scuola di Guerra di Torino e nel 1887 è assegnato aUa Scuola di Applicazione di Artiglieria sempre in Torino, dove insegna fino al 1888 arte militare. Dopo aver prestato servjzio al Comando di divisione di Firenze, nel 1894 è promosso maggiore e destinalo al 70° reggimento fanteria, dove

1 Ci riferiamo soprattutto allo "Sta/O di l·erviziu" di E.B., documento di base probante ma c he tullavia per taluni periodi risulta lacunoso.


V . IL PIÙ ILLUSTKE EMIJl.0 DEL MARSELLI: ENRICO BAKONE

comanda il TT battaglione. Nel 1896 è assegnato alla Scuola di Guerra, dove insegna storia militare fino al 1902. Trasferito in tale anno al Comando del Corpo di Stato Maggiore in Roma, viene assegnato alla sezione storica. Colonnello nel 1903, rimane in tale incarico (senza comandare il reggimento) fino al 1906, quando si dimette secondo taluni per dissensi (peraltro non documentati) con il Capo di Stato Maggiore gen. Saletta sulla necessità di rafforzare la frontiera con l'Austria (diversamente dal Marselli, è sempre stato assai diffidente nei riguardi dcli' Austria e antitriplicista). Secondo altri autori E.B. si è dimesso per potersi dedicare con maggiore libertà e più tempo agli studi e all'insegnamento di economia. Un complesso di indizi e elementi, insomma, che hanno presumibilmente provocato ad E.B. delle difficoltà di convivenza nell'ambiente militare, rendendogli sempre meno agevole conciliare i suoi molteplici interessi culturali con gli impegni di servizio; questa situazione oggettiva emerge anche dalla malevola ma significativa testimonianza del De Rossi, che è stato alle sue dipendenze alla se1,ione storica del Corpo di Stato Maggiore e gli attribuisce tra l' altro delle ambizioni politiche che non risultano soddisfatte, visto che non è mai stato eletto deputato.2 Oltre che dedicarsi con maggiore impegno agli studi di economia, dal 1906 in poi E.B. svolge intensa attività giornalistica, dirigendo fino al 1907 "Il Popolo Romano" e dal 1909 al 1916 il giornale militare "La Preparazione". Anche dopo aver dato le dimissioni rimane molto attaccato all'esercito e quando scoppia la prima guerra mondiale chiede di essere richiamato, ma tale richiesta (non si sa perché; eppure scarseggiavano molto gli ufficiali provenienti dai corsi regolari) non viene accolta. Nel 1920 fonda un 'associazione tra ufficiali il cui organo di stampa è il periodico "L' Ufficiale Italiano", ma l'iniziativa non ha successo perché il Ministro della guerra del tempo (Bonomi) proibisce agli ufficiali di farne parte. Muore nel 1924; mancano documenti che attestino la sua adesione - o meno - al nuovo regime, anche se certamente le fondamenta delle sue teorie in campo economico-sociale e militare portano ad escludere che egli creda nell'opera tli personalità carismatiche o sia favorevole al dirigismo economico. Per la parte militare E.B. ha lasciato un'imponente mole di articoli, conferenze, opere, che riguardano essenzialmente quattro argomenti:

2 Gen. Euge nio Dc Rossi, La vita di 11n ufficiale italiano sino alla ~uerra, Mondadori, Milano 1928, p, 154.


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l) aspetti teorici del1'arte militare (il cui frutto sono le Lezioni di arte militare del L888, sintesi del giovanile insegnamento alla Scuola di Applicazione); Il) studi di storia militare, frutto dell'insegnamento alla Scuola di Guerra e de11'attività presso l'Ufficio Storico. Tra di essi, daricordare soprattutto / grandi capitani fino alla Rivoluzione Francese (1898), gli Studi sulla condotta della guerra in Boemia 1866 (1900), e la Storia militare della nostra guerra fino a Caporetto (1919); lll) studi, conferenze o prolusioni riguardanti il rapporto tra sviluppo della società, economia e guerra; di particolare importanza l'opuscolo dal titolo Le Istituzioni militari e le condizioni politico-sociali (1898) e quello su La guerra nell'ascensione economica (1912); IV) studi, articoli e conferenze sull'attualità militare anche internazionale (Considerazioni sulla guerra anglo - boera - 1900) e sulla pulili«.:a militare e coloniale italiana (articoli sulla Nuova Antologia, come Armi e politica - 1903 e Per il problema militare - 1905; numerosissimi articoli sulla "Preparazione" e s u diversi giornali (tra i quali La Stampa, La Tribuna e La Vita ita-

liana). Per la parte non militare, ci limitiamo a citare i fondamentali Principi di economia politica del 1908, l'altro scritto assai apprezzato Il Ministro della produzione nello Stato collettivista dello stesso anno, le Sinossi di Economia Coloniale del 1911 e quelle di Scienza delle finanze del 1912. E.B., infatti, nel 1898-1899 è stato insegnante di economia coloniale presso la scuola diplomatico - coloniale di Torino, nel 1902 ha conseguito la libera docenza in economia politica, nel 1908 è stato incaricato di economia politica presso l'Istituto Superiore di Studi Commerciali e Amministrativi di Roma, nel 191 O è diventato professore ordinario di economia politica e scienza delle finanze presso il predetto Istituto. Tutti incarichi di insegnamento in materie non militari che ne fanno un caso unico di insegnante nei più alti istituti civili e militari (Marselli non ha mai insegnato in istituti civili). Per quanto attiene agli studi su E.B., dobbiamo registrare che molti di essi sono più che soddisfacenti e esaurienti per gli scritti non militari, ma sono assai sommari e carenti per la parte militare, dove coloro che finora hanno parlato di E .B. lo hanno fatto- come è avvenuto per il Marselli - con molte lodi e con concetti, giudizi, ricordi assai interessanti ma sempre espressi in forma troppo generica, troppo sommari e tali da non entrare


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mai nel vivo della materia, omettendo l'indispensabile analisi cnllca e comparativa dei contenuti dei principali scritti, per poi determinare l'effettiva valenza del suo pensiero; 3 non sono inoltre rari gli errori nei dati riferiti dai biografi. li clima del secondo dopoguerra, che ha portato a una caduta generale d ' interesse per la storia e cultura militare, ha fatto sentire anche in questo caso i suoi effetti, benchè nel 1982 l'Ufficio Storico SME abbia ristampato - senza commento - il suo scritto del 1898 sui Grandi capitani fino alla Rivoluzione Francese. 4 Ncgli ultimi anni, comunque, il generale Bovio ha pubblicato una buona biografia e bibliografia5 , mentre una studiosa, Catia E. Gentilucci, ha di recente dedicato a E.B. parecchi studi e scritti e una tesi di dottorato di ricerca.6 Anche se non rientra nei suoi obiettivi l'analisi organica della parte militare del suo pen siero, la stessa Gentilucci ha il merito di aver risveglialo nell'ambiente militare un certo interesse per questo autore, sul quale nella primavera 2000 è stato organizzalo a Napoli un Convegno promosso dal locale Comando Regione Militare. Ciò premesso, allo scopo di fornire finalme nte un quadro sufficientemente esauriente dell 'opera militare di E.B., suddivideremo la materia nelle seguenti parti: - Arte militare; - Storia militare: sua metodica, suo ruolo e ammaestramenti delle guerre passate; - guerra e società: influsso dell'economia e ruolo dell' istituzione militare; -Attualità militare: la politica militare e coloniale.

3 Brevi commenti alla parte di interesse militare degli scritti di E.B. si trovano in Gabriele Martinez, L'esame della storia secondo E.8., in "Rivista Militare Italiana~ Anno XLVIII - Voi. TV dicembre 1903, pp. 2 132-2 148 ; Emilio Canevari - Giuseppe Prezzolini, Marte - Antologia Militare, Firenze, Bcmporad 1925, pp. 263-264 ; Oscar Nuccio, Enrico Barone, in Dizionario Biografico degli l!aliani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana 1964, Voi. 6° pp. 449-45 1; Giuseppe Mayer, Enrico Hamne da Colonnello di S.M. a insigne economista, in "Quadrnnte" n. I - gennaio 1969 ; Richard A. Webster, l 'imperialismo industriale italiano 1908-1 9 15, Torino, Einaudi 1974, pp. 99- 100; Nicolò Giacchi, Enrico Barone, in " Bollettino dell'Ufficio Storico" 1929, p. 283. 4 Enrico Barone, / grandi capitani nell'età moderna (1898), Ristampa (senza commento) Rnma, SME - Ufficio Storico 1982 (sintesi delle lezioni tenute dall' autore alla Scuola di Guerra, ma seni.a l'importante prolusione pubblicala a parte nello stesso anno 1898). 5 O reste Bovio, Sacerdoti di Marte, Roma, SME - Ufficio Storico 1992, pp. 283-30 I. • Catia E. Genti lucci, la sociologia, l'economia e la politica economica di Enrico Barone. Un 'analisi tra scritti economici e l-crilli politico-sociali, Tesi di dottorato in Sto,;a delle Dourine Economiche presso l'Università degli Studi di Firenze - Anno Accademico 1999-2000.


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Non rispetteremo in modo rigido le suddivisioni prima indicate, perché parecchi lavori a carattere economico hanno anche risvolti militari, così come parecchi lavori di carattere storico possono laccare l'arte militare (naturalmente, vale anche il contrario).

SEZIONE I - Le opere giovanili di arte militare (1884-1893): contiguità con Clausewitz E.B. si occupa di arte militare - anche sotto l'aspetto teorico - soprattutto nel primo periodo della sua vita militare. Diversamente da quanto affermano alcuni autori, il suo primo articolo è del 1884 e s'intitola Studi sulle regole di tiro7: come si deduce dal titolo, esso ha carattere eminentemente tecnico e dcnola una conoscenza dei problemi balistici e del tiro e una preparazione anche matematica assai rare in un giovane subalterno. A distanza di 3 - 4 anni seguono le già citate Lezioni di arte militare, scrille nel 1887 e pubblicate nel 1888 a cura della Scuola di Applicazione dove al momento E.B. insegna. Si tratta di un'opera fondamentale per due ragioni essenziali: perché dal punto di vista teorico rivela - fatte le debite eccezioni - un raro approccio clausewitziano all'arte della guerra e alla sua ripartizione (in questo segnando una notevole differenza tra E.B. e Marselli, Ricci e la quasi totalità degli autori del suo tempo); in secondo luogo perché è un lavoro a carattere oltre che teorico anche pratico - applicativo, che fornisce un' immagine precisa e dettagliata dell'organizzazione dell'esercito italiano del tempo, dei criteri che la informano e dei suoi problemi, lasciando trasparire critiche e opinioni poco ortodosse dell'autore. Oltre tutto, il lettore di oggi resta ammirato per lo stile piano e scorrevole e per la semplicilà con la quale sono esposti agli allievi i concetti più ardui, riuscendo sempre a conciliare ottimamente nozioni teoriche e nozioni pratiche. Fondamentale è la prima parte, nella quale E.B. espone il suo concetto di guerra e arte della guerra, indicandone la ripartizione e definendo e configurando le varie parti. La guerra ha uno scopo politico (ad esempio, ottenere ciò che l'avversario non vuol concedere), ma in ogni caso il suo scopo militare è di ottenere la debella/io dell'esercito nemico; e qui E.B. precisa (come a suo tempo hanno fatto taluni autori della Restaurazione Cfr. Voi. I Parte T) che non si tratta tanto di eliminare i singoli, ma piutto-

7

"Rivista di Artiglieria e Genio" Voi. lll Puntata 7• - luglio 1884, pp. 39-80.


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sto di minare l'organizzazione dell'esercito nemico, distruggendone i vincoli organici e disciplinari. Per raggiungere ta]e scopo è necessaria la lotta materiale (battaglia o combattimento), che segna la vittoria per uno dei contendenti e la sconfitta per l'altro; Je battaglie che decidono la lotta si chiamano, appunto, battaglie decisive. Una volta tanto, egli non indulge alla solita ripartizione orizzontale dell'arte della guerra nel classico quadrivio strategia - tattica - organica logistica, ma perfezionando la suddivisione del Ricci, distingue tra attività inerenti alla preparazione (come ad esempio quelle rientranti nel campo dell'organica) e attività inerenti ali' azione (strategia e tattica), che comunque passano sempre per due fasi: quella dei movimenti che conducono l'esercito della battaglia (strategia) e quella del combattimento (tattica). In tal modo l'arte della guerra si suddivide come segue:

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1° organica

Mobilitazione

2 ° strategia Azione ············

}

·· {

4° Logistica

3° tattica

La strategia "è quel ramo dell'arte della guerra che decide il dove e il quando conviene battersi". Essa detta anzitutto i criteri per la compilazione di un piano di guerra, che in relazione allo scopo indica nelle grandi linee il "concetto generale" secondo il quale la guerra deve essere condotta, definendo in armonia con tale conceuo anche lo schieramento strategico iniziale più opportuno e le principali modalità per muovere al primo incontro con il nemico. La strategia, comunque, non si limita alla pianificazione, ma riceve dalla politica il compito di dirigere le operazioni fino alla conclusione della guerra. Quel che più importa, della strategia e della pianificazione operativa E.B. ha un concetto assai elastico, dunque moderno. Non hanno tempo queste sue considerazioni: bisogna guardarsi dal cercare di elaborare soluzioni applicabili a tutte le ipotesi. I progetti che rispondono a tutte le ipotesi sono i più dannosi. Le disposizioni infatti che ne risultano sono mezzi termini, ed i mezzi termini in guerra non sono mai abbastanza energici da permettere il successo. Per evitar ciò, dopo aver ben ponderate tulle le ipotesi, biso-


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gna scegliere quella che sembrerà la più probabile; in base ad essa prendere le proprie risoluzioni ben nette, semplici e definite e studiare tutti i mev.i, affinché possano essere tradotte in atto con semplicità e vigore. Meditare prima: ma dopo aver meditato, osare. Naturalmente per far ciò è necessario avere quella forza di carattere, primo fattore di ogni successo alla guerra, senza la quale non si sapranno mai vincere le esitazioni fra tanti partiti differenti e proporsi un solo grande scopo. 8

Clausewitz - peraltro mai citato da E.B. - non avrebbe potuto dire meglio: così come appare sostanzialmente assimilabile a quello di Clausewitz il punto di vista di E.B. sulla questione cruciale dei principi, tale da segnare - su questo punto - una differenza di fondo dal Marselli e dagli autori italiani coevi, che tutti rimangono più o meno nella scia di Jomini e dell ' Arciduca-Carlo. Per E.B. "alcuni scrittori militari lultimo, il Marselli - N .d.a.] hanno preteso di ridurre la strategia a pochi e semplici principi assoluti. Noi riteniamo che così facendo essi abbiano seguìto una via falsa. L'arte militare, appunto perché arte, non ha principi assoluti, ha bensì massime lii termine massima ha un significalo meno vincolante e assoluto di princip'io, né può pretendere di essere immutabile - N.d.a. I che sono il frutto del!' esperienza. Tali massime sono numerose e non possono perciò essere cristallizzate in pochi enunciati dogmatid". 9 E.B. precisa, peraltro, che le predette massime non possono essere trascurate senza una fondata ragione e ne indica ben l O: - I O il principale obiettivo è l'esercito nemico, sul quale vanno concentrati tutti gli sforzi; - 2° sempre che sia possibile, condurre una guerra offensiva. La difensiva va concepita come una forma temporanea di guerra, dalla quale passare al momento opportuno ali' offensiva; - 3° lo schieramento iniziale dell'esercito ha importanza determinante per le operazioni successive, anche perché non è più possibile, dopo, correggere i suoi difetti; - 4° la batlaglia decisiva è "la vera soluzione"; bisogna però guardarsi dal compromettere il successo per averlo voluto troppo pieno; - 5° per la battaglia non si è mai forti abbastanza, quindi non bisogna distogliere forze per scopi secondari, che saranno ugualmente raggiunti se si vince la battaglia decisiva;

• Barone, Lezioni di arte militare, Torino 1888 pp. 23-24. ivi, p. IO.

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- 6° nell 'offensiva con i grossi eserciti del momento è quasi sempre inevitabile la separazione delle fort.e; gli inconvenienti vanno attenuati con opportune disposizioni, tenendo presente che "il vero danno sta nel farsi prevenire dal nemico nelle offese"; - 7° sempre a causa della mole degli eserciti del momento, diventa inevitabile prevedere più di una linea di operazione. Al danno che ne deriva bisogna rimediare tenendosi in misura di riunirsi al momento opportuno; - 8° nella difensiva scegliere le modalità più adatte alle circostanze, evitando di frazionare le forze; - 9° non solo nell'offensiva, ma anche fin quando è possibile nella difensiva, occorre mantenere l'iniziativa "con la semplicità e chiarezza nel concepire e con La rapidità e vigore nell'eseguire"; - 10° dopo il successo, bisogna impedire al nemico di riprendersi; quindi di tale successo bisogna "fare il punto di partenza ad immediati successi ulteriori''. Come si è visto al precedente capitolo, il Capo di Stato Maggiore dell'esercito in carica quando E.B. esprimeva queste idee, generale Coscnz, era un jominiano ortodosso che credeva nei principi assoluti e immutabili ancor più di Marselli: eppure, l' insegnante di arte militare alla Scuola di Applicazione di Artiglieria aveva idee del tutto opposte, che trasmetteva ai suoi allievi .... Fatto che può essere interpretato in vari modi, dal quale si potrebbe dedurre, ad esempio, che al momento non esisteva una dottrina strategica italiana nel senso più completo del termine, o che esisteva nell' esercito una notevole libertà di pensiero e anche di insegnamento ... Non ci soffermiamo a lungo sulle definizioni delle rimanenti parti del1' arte della guerra, che presi:::nlanu minori caratteri di originalità anche se denotano quella chiarezza, semplicità e praticità che dovrebbero sempre contraddistinguere l'insegnamento, e in particolar modo l'insegnamento militare. Più a monte della strategia vi è l'organica, componente essenziale della preparazione che ha il compito di preparare, fin dal tempo di pace, la potenza militare dello Stato, affinché questa possa essere all'occorrenza utilmente impiegata in guerra. Della potenza militare l'elemento essenziale è l'esercito [ ... ]. Nel suo lavoro di preparazione l'organica deve necessariamente tenere sempre in vista lo scopo, al quale deve servire Lo strumento che essa fabbrica: deve insomma ricever norma dalla strategia, dalla tattica, dalla logistica ...


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In pace l'organica ha tre compiti essenziali: reclutare l'esercito, ordinarlo e, nel periodo di transizione, in concorso con la logistica mobilitarlo. Dopo che la strategia ha deciso dove e quando battersi, la tattica decide come bisogna battersi; essa "ha quindi per oggetto I' opportuno impiego delle truppe nella battaglia, per conseguire il fine a cui questa mira". La logistica rende possibile tradurre in pratica il dove e il quando fissati dalla strategia e il come indicato dalla tattica; essa pertanto provvede "alla raccolta iniziale, ai movimenti e alle soste delle truppe e ai vari rifornimenti che loro occorrono per vivere ed operare"_ Detto questo, E.B. chiarisce che la distinzione tra le varie parti dell'arte militare non può essere rigida, perché ciascuna di esse non può fare completa astrazione dalle altre, né fra esse esiste una successione temporale netta: questo si può dire: che durante l'azione, mentre L'autorità centrale del tempo di pace (Ministero della guerra) continua a fare organica, il Comando Supremo dell'esercito e i comandanti dei più grossi reparti di questo.fanno essenzialmente strategia, tutti gli altri Comandi fanno essenzialmente tattir.a e gli organi au\·iliari e coadiutori dei vari Comandi (Stati Maggiori, Intendenze) fanno essenzialmente logistica.

Accanto agli aspetti teorici, ci sembra meritevole di qualche cenno quanto E.B. afferma sulla struttura gerarchica dell'esercito, su compiti e requisiti dei Quadri e sulla loro formazione. A suo giudizio è opportuno predesignare fin dal tempo di pace un Comandante Supremo o Capo di Stato Maggiore distinto dal Ministro della guerra: ma il difficile sia nel definire esattamente le attribuzioni di queste due autorità e metterle d'accordo. Né l'accordo è possibile stabilirlo per mezw di disposizioni organiche. L 'accordo e il buon .funzionamento delle due istituzioni non può ottenersi che dal tatto delle due autorità e dall'intervento del Capo dello Staio. Il creare un Capo di Stato Maggiore de/L'Esercito e metterlo alla dipendenza del Ministro della guerra ( come da noi) è una mezza soluzione; e come tale non priva di gravi inconvenienti.

Anche il Marselli ritiene che l'accordo tra le due alte cariche dipenda soprattutto dalla loro buona volontà e non possa essere ottenuto con disposizioni di legge: ma non accenna mai agli inconvenienti della nostra soluzione per il comando delle Forze Armate. Probabilmente E.B. pensa che,


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in guerra almeno, il Capo di Stato Maggiore non debba dipendere dal Ministro, ma dal re che è il comandante supremo: questo però potrebbe avveniTe, solo se lo stesso re non delegasse più al Ministro, come in pace, il comando delle Forze Armate ... La sua reticenza nell'indicare una soluzione migliore è comunque comprensibile; già la critica, in una raccolta di lezioni per i giovani, è ardita. Sul ruolo dell'utticiale (e, nell'ambito della categoria, di quello di complemento) e del sottufficiale le sue osservazioni potrebbero apparire banali 1°: ma lo sono fino a un certo punto, se si considera la frequenza con la quale, in tutto il XX secolo, sia in pace che in guerra non se ne è tenuto conto. All'ufficiale sono affidate funzioni di concetto, che esigono iniziativa e energia, perché dipendono da contingenze non sempre esattamente prevedibili che dunque non possono essere determinate da prescrizioni tassative; al sottufficiale (classificalo tra i graduati di truppa) competono invece funzioni d 'ordine, che sono fissate con precisione da prescrizioni regolamentari perché dipendono da contingenze esattamente prevedibili ed esigono solo puntualità nella loro applicazione. L'educazione del soldato compete all'ufficiale; in queslo campo, il sottufficiale esercita un continuo controllo sul soldato e lo indirizza verso gli obiettivi dell'educazione, soprattutto fornendogli sé stesso come modello. Per l' istruzione del soldato le parti si capovolgono: l'agente principale è il sottufficiale, mentre l'ufficiale si limita a controllare, conducendo direttamente l'istruzione solo "in tutti quegli altri rami, dove l'intelligenza ha più larga parte". In guerra invece "l'ufficiale determina l'indirizzo da seguirsi, il sottufficiale inquadra, cioè concorre a mantenere la truppa nell'indirizzo segnato dall 'ufficiale". In base all'aurea massima che "la vera educazione e l'efficace comando non sono possibili che là ove chi educa sia esempio agli educati, chi comanda abbia ascendente sui suoi comandati", per E.B. l'ufficiale alla robuslezza fisica deve abbinare un elevato livello intellettuale e morale, requisiti assai più necessari che in passato, perché richiesti dalle brevi ferme, dal servizio di leva obbligatorio e dal modo di combattere in ordine sparso: "ma tutte queste doti a nulla valgono senza il carattere e / 'attività. Quelle sono forze latenti, queste costituiscono il modo di farle valere". A1 sottufficiale invece sono richiesti robustezza e vigore fisico, buona memoria, intelligenza discreta, saper leggere e scrivere, senso dell'onore, spirito d'ordine, energia, pazienza.

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ivi, pp. 93-107.


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La formazione dei Quadri viene trattata da E.B. in modo problematico, senza rinunciare ad esporre proprie idee anche in contrasto con gli orientamenti ufficiali. Anzitutto giudica il sistema germanico (reclutamento degli ufficiali dagli istituti militari o dai sottufficiali, fermo restando che il grado di sottotenente viene concesso solo dopo apposite prove uguali per tutti) preferibile al sistema francese (reclulamento degli ufficiali in parte dagli istituti militari e in parte dai sottufficiali, ai quali viene riservato per diritto un numero fisso di posti da sottotenente). Il primo sistema assicura l'omogeneità nel corpo degli ufficiali; il secondo invece introduce nel corpo degli ufficiali elementi diversi per età, cultura, aspirazioni. Poiché il sistema italiano del tempo era alquanto analogo a quello francese, si tratta di una più o meno velata critica alle nostre soluzioni; va solo aggiunto che il Marselli era più o meno della stessa idea. In ogni caso, E.B. diverge ancor più nettamente sia dal Marselli sia dagli orientamenti ufficiali del tempo (durati, si badi, fino alla seconda guerra mondiale) su due aspetti essenziali: - l'utilità degli istituti preparatori militari o collegi militari (come quello della Nunziatella fino a tutt'oggi), che al momento sono ben 5 (Napoli, Firenze, Milano, Roma, Messina) ; - la necessità di una scuola unica per gli ufficiali di tulte le Armi. Secondo E.B., i collegi militari devono impartire ai giovanetti un'istruzione militare elementare. Tuttavia, tenendo conto che alla loro età non si sono ancora manifestate con chiarezza le attitudini e vocazioni, "nell'interesse militare e sociale" l'istruzione ed educazione loro impartite non deve avere il carattere di preparazione alla specifica professione delle armi, ma renderli idonei all'esercizio futuro di qualsiasi professione: "ma allora - si dirà - diventano superflui! - E superflui sono infatti, là dove l'opportunità non lo esiga". Frase - noi osserviamo - non chiara: cosa significa "opportunità"? per chi, dove e perché? Probabilmente, con le ultime parole E.B. vuol solo mascherare la critica .... Al tempo - come del resto oggi - il genfo era l'Arma più tecnica; e (come in parte anche oggi) prevaleva l'idea che gli ufficiali del genio dovessero avere un particolare e separato iter di studi. Ma E.B. non se ne mostra affatto convinto, già con l'affermazione - alquanto sibillina e reticente - che ci sarebbero molte cose da dire "sugli istituti superiori e professionali" dove gli allievi ufficiali dovrebbero acquisire "le cognizioni scientifiche e pratiche necessarie per chi deve coprire il grado di ufficiale ingegnere, indipendentemente dalle cognizioni speciali tecniche proprie a ciascuna Arma". Detto questo, indica due "principì' ai quali dovrebbe rispondere la formazione iniziale dei Quadri:


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I) per ragioni prima di tutto morali e per ottenere la solidarietà tra gli ufficiali di tutte le Armi, è indiscutibile l'utilità di un unico istituto per formare gli ufficiali di tutte le Armi, "in cui da tutti si acquisti, nello stesso modo e nella stessa misura, quel sottostrato di cognizioni generali necessario agli ufficiali di tutte le Armi; e in cui a tutti si ispiri la convinzione che un 'Arma non vale più di un'altra, e che tutte concorrono al bene comune dell 'esercito. Dopo aver conseguito la promozione a sottotenente in questo istituto, gli ufficiali acquisirebbero in altre scuole la preparazione specifica necessaria per ciascuna Arma.Il) se difficoltà pratiche di varia natura dovessero impedire la creazione di un unico istituto, ancora una volta il sistema germanico (vari istituti per ufficiali di tutte le Armi) è preferibile al sistema italiano, francese e austriaco (istituti distinti per le varie Armi)_ JI primo sistema, infatti, riuscirebbe più facilmente ad ottenere una preparazione degli ufficiali unificata, mentre il secondo "per forza stessa delle cose, e per quanto grande sia la virtù degli uomini preposti a farlo funzionare, non può a meno di stabilir pregiudizi o pretese dif!erenze fra Arma e Arma". In sostanza, oltre alla loro formazione unificata ciò che preme di più a E.B. è l'omogeneità del corpo degli ufficiali; anche per questo egli è assai insoddisfatto del sistema di reclutamento dei sottufficiali al momento in vigore, e questa volta lo dice apertamente_ Il Marselli voleva un sottufficiale contento del proprio stato e concentrato sui suoi doveri, senza aspirare a mete troppo alte; ma anche su questo punto RB. è di parere diverso. A suo giudizio il sottufficiale di vecchio stampo, sul quale si poteva far pesare quasi interamente l'istruzione e l'educazione della truppa, per ragioni sociali ha fatto il suo tempo, né bisogna illudersi di farlo ritornare. Premesso che per avere sottufficiali esperti occorre una lunga ferma, per indurre i cittadini a scegliere la carriera del sottufficiale bisognerehhe offrire condizioni competitive rispetto al1e professioni civili. Tutti gli eserciti, chi più chi meno, hanno scelto questa strada: "ma in tutti gli eserciti, dal più al meno, il sistema {predetto] rivela il suo lato debole: un numero non scarso di malcontenti e spostati" . La soluzione alternativa espressamente indicata da E.B., però, appare oggi "datata" e non è certamente all'altezza di altre. Essa parte dalla constatazione che la realtà sociale è ormai tale, da far prevedere che negli eserciti del futuro i soli elementi permanenti, i soli custodi dello spirito militare capaci di resistere alle lusinghe della vita civile, saranno gli ufficiali. Quindi si può fare una sola cosa: imporre a un numero il più possibile limitato di caporalmaggiori di leva una ferma


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di leva più lunga, in modo da ottenere dei discreti sottufficiali_ Del resto egli aggiunge - è quanto già si fa, al tempo, per talune Armi, e in particolare per le Armi a cavallo .... Interessante, infine, la proporzione di massima individuata da E.B. tra Quadri e truppa (ufficiali: 2% per la fanteria, 2,5% per l'artiglieria e 3,5% per la cavalleria; graduati (cioè anche sottufficiali): 11 % per la fanteria, 14% per l'artiglieria, 15% per la cavalleria). In pratica, 1 ufficiale e 5 graduati di truppa ogni 40 uomini. Interessante anche quanto E .B. afferma per gli ufficiali di complemento, che oggi fa ritenere anche questa figura ormai "datata" : a) gli ufficiali di carriera, per ragioni sociali e economiche, non possono bastare per inquadrare, in caso di guerra, la massa di cittadini che accorrono alle armi ; b) d'altro canto, è giusto che, quando il popolo viene mobilitato in guerra, "le classi colte, agiate e influenti" mettano al servizio della Patria le loro speciali attitudini morali c intellettuali e "l'ascendente che ritraggono dalla rispettiva condizione sociale"; pertanto il ricorso agli ufficiali di complemento va interpretalo non come un ripiego, ma "come un prezioso elemento di vitalità per l'esercito". Al tempo, gli ufficiali di complemento non erano formati in apposite scuole ma con il volontariato di un anno, cioè con l' arruolamento a ferma ridotta di un anno, a pagamento, di g iovani appartenenti alle classi agiate (i soli a possedere un elevato livello di istruzione), che al termine della ferma potevano essere nominati, appunto, ufficiali di complemento. E.B. è favorevole a tale privilegio, significativamente non concesso nell'esercito tedesco, perché più elevato è il grado d'istruzione, di inte lligenza e di educazione, meno tempo occorre per l'educazione e istruzione militare; inoltre, nell' interesse della società è opportuno che il g iovane destinato a carriere o professioni c ivili interrompa per i1 minor tempo possibile i suoi studi .... E.B. ammette che il volontariato di un anno non è un tirocinio sufficiente per sviluppare in un g iovane ufficiale subalterno sia la capacità di istruire e educare il soldato, sia la capacità di condurlo in guerra: ma è quest'ultima queJla che importa. Inoltre, per condurre il soldato in guerra nei g radi inferiori, bastano poche norme tattiche e disciplinari : "ciò che soprattutto importa [ma che è assai raro! - N.d.a.l è il buon esempio, cioè il risultato de/l'altezza d'animo e del cuore; ciò non si apprende con la pratica; è frutto di educazione e può possederlo tanto il novizio che il veterano". Strettamente connesso con le Lezioni di arte militare è un libretto di formato ridotto e di stampo divulgativo ( 132 pagine) dal titolo Come ope-


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rano i grandi eserciti. 11 È compilato da E.B. quando ha già lasciato l'insegnamento alla Scuola di Applicazione e fa parte della "Biblioteca Minima Militare Popolare", collana diretta da un gruppo di ufficiali e di pubblicisti civili, che tra i collaboratori conta tutti i più noti scrittori militari del tempo, a conùnciare dal Marselli_ La data di pubblicazione dell'opera - chiaramente indicata anche sul frontespizio - è il 1892; non si comprende, perciò, perché quasi tutti i citati biografi di E.8- (forse perché non l'hanno letta) la indichino come prima opera di E.B., e/o spostino tale data al 1882. Le prime dodici pagine sono di gran lunga le più interessanti, per le considerazioni sui caratteri della guerra moderna, sul ruolo dei mezzi tecnici e delle armi a tiro rapido, sulle ricadute sociali. Come Marselli , ritiene che in futuro le guerre, date le profonde turbative sociali che ne deriverebbero, saranno più rare che in passato, perché gli Stati si decideranno a combatterle solo quando riterranno minacciata la loro esistenza; ma avranno essenzialmente "il carattere di guerre accanite, .fino all 'ultimo, poiché in tali casi una nazione non deporrà le armi prima di aver messo in gioco tutte le risorse di cui si sente capace". Si tenderà dunque a esaurire la potenza militare nemica con i mezzi più rapidi ed energici, "per quanto ciò sia conciliabile col diritto delle genti, per sé stesso assai vago (sic), e con l 'opportunità" . L'obiettivo essenziale della guerra - sul quale concentrare tutte le forze - dovrà perciò essere [come per Napoleone e Clausewitz - N.d.a.J l'esercito nemico: non l'occupazione del suo territorio o della sua capitale, non la distruzione dei suoi commerci e delle sue risorse, anche se quest'ultimi fattori concorrono a determinare la pote nza militare di uno Stato. E.B. - in questo precorrendo in certo modo Douhe t - nega che un siffatto tipo di guerra sia barbaro; l'unico modo per rendere meno gravi gli effetti di un flagello è di diminuirne la durata, "con l'impiego rapido, energico, illimitato della forza, valendosi degli apparecchi distruttivi più potenti". E nega anche, a torto, che mezzi di distruzione più potenti siano di per sé causa di maggiori perdite: è vero il contrario. Infatti la lotta è decisa dall'effe tto morale che producono le perdite; e proprio perché le moderne armi a tiro rapido sono in grado di mettere fuori combattimento in

11 Cfr. Barone, Come operano i grandi esercili, Roma, Casa Ed. ftali ana 1892 (Biblioteca Minima Militare Popolare ordinata e diretta dai Signori L. Cisolli. F. Salvati, M . Bassi, G. Santanera, C. Lcssona - Voi. V).


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breve tempo un numero di uomini assai maggiore di quanto potessero fare le armi antiche, solo per questo fatto esse "producono sugli altri combattenti un effetto morale che non era conseguito con le armi antiche se non dopo aver reciso forse un numero doppio di vite umane". Tant'è vero che nessuna delle battaglie moderne, a parità di numero di combattenti, è stata sanguinosa come quelle napoleoniche di Eylau o Borodino.... Se ne deduce che "non la maggiore o minore potenza distruttiva dei mezzi di guerra, ma il più o meno grande valore dei combattenti è la causa principale per cui le perdite in un combattimento sono più o meno forti". Ne consegue un'altra proposizione clausewitziana: "le dottrine degli umanitari sono giuste quando si propongono di evitare qualunque eccesso non necessario; ma sono essenzialmente antiumanitarie quando tendono a porre un limite alla rapidità e alla violenza d 'impiego della forza" . In definitiva - proposizione anche questa clausewitziana - per E.B. ciò che conta soprattutto sono le virtù militari di un esercito; il numero e il livello di addestramento vengono dopo. Neppure l'entusiasmo nazionale può supplire alla disciplina: esso "è sempre un prezioso aiuto, ma è assai esigente. Quando la guerra apparisce nella sua triste realtà, e invece di esaltare con i successi ben visibili, fa continuamente appello alla devozione e al disinteresse di ciascuno, allora l'entusiasmo presto si raffredda e le speranze che su di esse si fondavano svaniscono". Negli inevitabili momenti difficili, ciò che salva tutto è la disciplina; d'altra parte, anche per E.B. "la vera disciplina è ben lungi dall'affievolire l'entusiasmo o qualunque altra nobile passione. Essa è ben diversa da ciò che pensano coloro che non la intendono; essa non richiede nell'uomo l'insensibilità dell'automa, ma quell'imperio assoluto su sé stesso che dà vigore a tutte le facoltà del/' animo e dell'intelletto". E.B. aggiunge che la disciplina è diventata ancor più necessaria negli eserciti delle nazioni moderne, le quali "sono tanto poco guerriere, che i loro eserciti in campagna presto si stancano di una lotta anche fortunata". Perciò le qualità morali delle truppe, anche se solide all'inizio della guerra, rapidamente peggiorano; i migliori cadono nei primi scontri, e "con il progredire della campagna, per un processo di selezione, scema il valore morale dei combattenti". Se così avviene in eserciti di sciplinati e solidi, con truppe raccogliticce sarebbe molto peggio: non citate l'esempio di Garibaldi e dei suoi valorosi volontari: spinto da una santa causa, incitato dalla voce di un uomo [Mazzini - N.d.a.] che come lui fu il Dio della guerra popolare, può un paese dar mille


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eroi: non può darne un milione [nostra sottolineatura - N.d.a.]. Non citate L'esempio della prima repubblica francese: nelle sue vittorie ebbero gran parte Le fucilazioni e la ghigliottina. 12

Sul rapporto tra entusiasmo e disciplina, e quindi tra volontari (e/o nazione armata) ed esercito permanente, E.B. la pensa dunque come Marselli; ma questo non gli impedisce - sempre come Marselli - di distaccarsi dalle tesi di Cattaneo, Zambel1i e dei positivisti in genere, secondo i quali ciò che conta sono le armi e le tecnologie: si sente spesso dire che nel combattimento odierno Le armi da fuoco, per la loro cresciuta efficacia, sono il fattore più importante; che la vittoria è decisa dal maggior numero di fucili; che perciò il valore - cioè la disciplina - delle truppe oggi contribuisca alla vittoria meno che non per il passato. È insomma la deffìcazione del numero a danno della qualità. Si dimentica che qualunque sia l'ejfir.ada delle armi, piccola o grande, la vittoria è e sarà sempre di quello dei due avversari, i legami disciplinari del quale resistano ancora agli effetti morali delle perdite avute, allorché già i legami disciplinari dell'altro si sfascianoY

Ancora una volta, la conclusione di questa sorta di discorso preliminare sulla guerra è clausewitziana: la condotta delle operazioni [cioè la strategia e la tattica - N.d.a.] "non è una semplice e arida questione di cifre e compasso, come molti credono e come facilmente induce a credere l'arte accademica". Gran parte delle restanti pagine del libro Come operano i grandi eserciti non è che una sintesi degli argomenti trattati nelle precedenti Lezioni di arte militare. Da notare, comunque, che vi si sostiene la convenienza di abbinare il sistema dello sfruttamento delle risorse locali con quello dei rifornimenti da tergo (al momento la preferenza nella dottrina ufficiale spiccatamente offensiva - è data allo sfruttamento sistematico delle risorse locali, così come fatto da Napoleone e anche dai prussiani nella guerra 1870 - 1871). E.B. ha però iJ torto - generalizzato ai suoi tempi - di fare della logistica soprattutto una questione di rifornimento dei viveri e di organizzazione del movimento, trascurando tutto il resto e in particolare il rifornimento munizioni e la sanità. Inoltre alla fine contraddice le molte

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ivi, p. 11. IBIDEM.


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cose sensate che ha dello, sostenendo che, per quanto ingenti siano i bisogni di grandi eserciti, "La condotta delle operazioni è indipendente quasi da qualunque preoccupazione sul modo di far vivere le truppe", è dunque una sorta di variabile indipendente rispetto alla logistka .... Non siamo più ai tempi di Napoleone! Numerosi sono i suoi riferimenti alla guerra 1870 - 1871, dei quali si può dire che, senza mai citarlo, riprende quasi alla lettera parecchie considerazioni tecnico-militari del Marselli, ivi compresi gli elogi al valore dimostrato dal nuovo - e raccogliticcio - esercito repubblicano francese nei sei mesi circa di guerra che hanno seguìto il rovescio di Sedan e Metz e la caduta di Napoleone III. Non accenna mai, però, alle virtù militari prussiane e ad altri argomenti pro - Triplice del Marselli, cogliendo l'occasione per precisare che le battaglie decisive "debbono intendersi come tali nel senso che sia poi difficile al vinto rimettere Le sorti della campagna a proprio favore". 14 Non è perciò detto che, dopo averle perdute, il vinto debba cedere senz'altro le armi e che non ci sia più nulla da sperare: "il secolo mercantile così predica; ma predica La rovina della patria e prepara il disonore dopo l'infortunio. Esso non conta che i milioni e il sangue 'inutilmente spesi', quasi che nella vita delle nazioni per nulla contino ,?li 5forzifatti per resistere fino all'ultimo e cadere almeno con onore". E.B. dedica, infine, pagine ancor fresche ai problemi del comando in guerra e alle doti che deve possedere il generale. Sul campo di battaglia si fronteggiano due forze di volontà, che danno l'impulso alle contrapposte masse di combattenti. Gli uomini che sanno sfidare serenamente la morte sono numerosi; ma pochissimi eletti hanno uguale serenità di fronte alle immani responsabilità e alle angosce del comando. Quest'ultimi dati di carattere sono indispensabili in un generale, perché l'incerteua ha sempre largo campo in tutte le operazioni di f?uerra. Chi per prendere una risoluzione aspettasse una situazione limpida, sarebbe inevitabilmente battuto. È necessario di saper sfidare l 'ignoto. Né basta. Il giocatore che non arrischi la sua posta se non quando sia quasi certo di vincere, ha tutte le probabilità di f?Uada,?nare in qualsiasi ,?ioco, tranne in quel gioco tutto speciale che è la f?uerra [ ... ).La.storia insegna che l'audacia finisce quasi sempre con l'aver ragione dell'eccessiva prudenza. 15

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ivi, p. 125. ivi, p. 127.


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Per vincere è necessario prima di tutto avere - e conservare - la ferma volontà di vincere: verità banale solo all'apparenza. Molte battaglie sono state perdute, solo perché si sono credute perdute. In guerra la difficoltà maggiore non sta nel comprendere e nel sapere, cose alla portata di chiunque abbia buon ingegno e buona cultura militare; "sta invece nel fare - cioè nel decidere, nell'osare, nel persistere - e queste nell 'ambiente della guerra sono virtù di pochissime anime elette". 16 Quest'ultima pennellata ben riassume il carattere saliente delle due opere giovanili di E.B. prima esaminate. le quali ne fanno il primo autore di netta ispirazione clausewitziana che abbiamo finora incontrato. Parlando di economia, E.B. si dichiara "nemico delle citazioni, pe rché le verità scient(fiche non si dimostrano a colpi di citazioni". Questo vale - non è un suo merito - anche per gli scritti militari, dove è estremamente parco di citazioni, in particolare citando assai poco Clauscwitz, e comunque, non nelle due opere prima esaminate. Ciò non toglie che nel 1895, recensendo sulla Nuova Antologia il celebre saggio del suo maestro Severino Zanelli su Moltke 17, riprenda (in parte) i giudizi del Marselli sullo stesso C lausewitz, definendolo " il vero capo - scuola della odierna scienza bellica, [il quale! dà forma al moderno sistema prussiano col suo immortale libro La guerra, libro induttivo quant'altri mai, frutto dell 'osservazione dei fatti considerati in sé e nei loro svariati rapporti: il metodo sperimentale contrapposto allo speculativo". Dopo questa forzatura dalla quale si potrebbe dedurre che lo spiritualista Clausewitz era un positivista, E.B. corregge il tiro: " lo spirito a cui si informava la dottrina del Clausewitz aleggia su tutta la cultura militare tedesca del presente secolo. È il savio contemperamento dell'analisi con la sintesi, è l'assenza assoluta di dogmatismo e di aride teorie stratef?iche, che regge e guida il lavoro mentale delle generazioni preparantesi alle vittorie del 66 e del 70" . Di Clausewitz, però, E.B. - come del resto i generali tedeschi, a cominciare dallo stesso Moltke - coglie soprattutto la tendenza alla guerra offensiva, risoluta, spinta a fondo, perché " la guerra è la guerra, cioè la distruzione delle forze dell 'avversario; la guerra non tollera dubbi, tentennamenti, sentimentalismi". E presenta Moltke come il miglior allievo di Clausewitz .... Si potrebbe anzi dire che qualche volta negli scritti prima esaminati E.B. è più realista del re e accentua lo spiritualismo clausewitziano, fino a

16

ivi. p. 132. Barone, Multke - a proposito di una recente pubblicazinne, in "Nuova Antologia" Voi. LIX Fase. XIX - I ottobre 1895, pp. 490-5 10. 17


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sottovalutare (non è il solo) il forte influsso della cattiva logistica e del cattivo armamento sulla volontà di combattere delle truppe, e/o a non attribuire la dovuta importanza all'addestramento: fattori che Clausewitz poteva permettersi (ma fino a un certo punto) di collocare in seconda linea, solo perché sono sempre stati dei naturali punti di forza dell'esercito prussiano, la cui qualità non è mai stata messa in discussione. Né si deve trascurare che Clausewitz ha avuto il torto di considerare più o meno equivalenti armamento e logistica dei principali eserciti del suo tempo, dando di conseguenza spazio ai fattori morali e spirituali. come a quelli che ''facevano la differenza". Ad ogni modo, in un lungo articolo del 1889 18 E.B. pur riferendosi al caso particolare di un reparto autonomo dimostra di avere una visione mollo equilibrata della realtà del combauirnento specie al livello di minori unità, e delle conseguenti esigenze per la preparazione dei Quadri e per il corretto sviluppo delle loro capacità decisionali. Prendendo spunto dal nuovo regolamento d 'escrcizi e di evoluzioni per la fanteria tedesca (che "porta ali'esagerazione il principio dell'agir secondo le circostanze"), egli si sforza di cercare una via intermedia tra coloro che, facendosi forti di tale modello, sostengono che tutte le norme sulla tattica della fanteria "sono roba da mettersi nei ferri vecchi'', e coloro che invece vorrebbero limitare l'iniziativa e la libertà d'azione dei comandanti. A suo giudizio, se spesso i giovani ufficiali nonostante gli studi di tattica non riescono a formarsi prontamente un chiaro concetto dell'azione da svolgere in combattimento e a dare i conseguenti ordini, ciò dipende da due fattori negativi: - la mancanza di metodo nell'impostare il ragionamento che conduce al concetto d'azione e ai conseguenti ordini; - la mania del difficile e del.finito, tale da indurre a trascurare il fallo che in guerra solo ciò che è molto semplice può riuscire. Occorre un concetto semplice, con poche idee chiare, nette e precise, basato sui pochi dati o indizi di cui si dispone: tali dati o indizi debbono in tutti i casi bastare, non si può pretendere di più ed evitare di sfidare la sorte, perché, se prima di prendere una decisione si aspettasse che la situazione fosse chiarita, si sarebbe senza dubbio battuti. Insieme con il concetto sono necessarie delle "massime generali", che servono però solo per tradurre in pratica il concetto stesso; per crearlo, occorre un metodo. A tal proposito, E.B. osserva che il nuovo regolamento tedesco va bene solo per

18 Barone, D el comba11imento autonomo. Roma, Voghera 1889 (Estratto dalla "Rivista Militare Italiana" lug lio 1889).


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l'esercito tedesco, dove a monte della libertà di agire secondo le circostanze si trovano una "meravigliosa unità d'indirizz.o" e "una straordinaria disciplina delle intelligenze" che sono state fattori importantissimi delle vittorie del 1864, 1866 e 1870, anche se hanno causato, in talune occasioni, delle "cantonate". Il resto dell' articolo è perciò dedicato alla ricerca piuttosto minuziosa di un metodo adallo all'esercito italiano e alla mentalità italiana, nella quale non fa che definire i Lermini da esaminare nell ' attuale metodica per la risoluzione del problema operativo e come esaminarli , indicando anche uno schema di massima per impartire gli ordini. Fatto ancor più degno di nota, i risullati ai quali perviene non sono poi tanto lontani da quanto si insegna nelle scuole militari dal 1945 in poi. Gli elementi da esaminare da lui indicati sono infatti i seguenti: - situazione generale; - scopo speciale (che è l'elemento più importante da definire per rispondere ai quesiti); - forza (ivi compresi i concorsi diretti o indiretti); - tempo (inteso non solo come durata dell'azione, ma anche come periodo della giornata nel quale agire, e come condizioni meteo con relativi vincoli e possibilità); - terreno, che è "importantissimo" quando si tratta di decidere come articolare e disporre le forze per l'offensiva o la difensiva, ma non ha minore importanza negli altri casi, per i quali l' elemento detenninante diventa lo scopo. Con queste tesi E.B. provoca il risentimento di un altro noto scrittore militare coevo, il colonnello Cesare Airaghi, insegnante di tattica alla Scuola di Guerra dal 1883 al 1888 e caduto ad Adua. In un articolo sulla Rivista Militare che non ha il pregio della chiarezza, 19 I' Airaghi ravvisa in parecchie considerazioni del Nostro delle critiche dirette o indirette alle sue precedenti tesi in materia di tattica, negando di aver giudicato troppo vincolanti le vigenti Norme per l'impie,?o delle tre Armi nel combattùnento e di volerle collocare tra i ferrivecchi; ciò che ha voluto sostenere, invece, è che il metodo prescritto in tali Norme potrebbe date luogo a inconvenienti, "per effetto di esa,?erazione e di letterale applicazione". L' Airaghi contesta, inoltre, l'affermazione di E.B. che, poiché l'iniziativa di per sé non si presta ad essere regolamentata, tanto varrebbe modificare le nor-

•• Cesare Airnghi, Critica militare · a proposito del combat1imento autonomo, del correre al cannone, del metodo, in "Rivista Militare Italiana" Anno XXXV - Tomo I gennaio 1890.


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me esistenti, prescrivendo che il comandante di un reparto isolato tranne casi eccezionali deve sempre accorrere al cannone; secondo l' Airaghi invece tale scelta deve in ogni caso essere lasciata ai comandanti, senza alcunché di tassativo. Gli scritti _giovanili di arte militare di E.B. si chiudono con un opuscolo ricco di grafici e formule sul fuoco di fucileria (1893)2°, del quale basti dire che affronta i problemi di tiro con il nuovo, famoso fucile a ripetizione ordinaria mod. 91 (che al tempo viene chiamato "a tiro rapido o celere"), rettamente distinguendo tra tiro in poligono e tiro sul campo di battaglia e dimostrando grande preparazione tecnica. Sia sui problemi tecnici del tiro, sia su molti aspetti teorici e dell ' arte militare egli non tornerà più: ma gli scritti storico - strategici successivi spesso non fanno che aggiungere nuovi elementi di prova - magari riferendosi anche a guerre recenti alle acquisizioni teoriche di questo primo periodo. In ogni caso, quanto E.B. ha scritto da giovane capitano di Stato Maggiore regge bene all'usura del tempo sia sotto l' aspetto teorico che pratico, ed è di per sé sufficiente per collocarlo nel ristretto numero di coloro che hanno affrontato con originalità argomenti sui quali già si era detto molto, anche da illustri predecessori.

SEZIONE II - li concetto di storia, fondamento dell'arte militare, dell'economia e della sociologia Come già per il Marselli , anche per E.B. la storia è anzitutto filosofia della storia: non la consueta, arida descrizione degli avvenimenti e/o quella che Benedetto Croce ha chiamato "storia oratoria" , intesa cioè a commuovere ed esaltare gli animi, ad indirizzarli al bene beateque vivendum, a ''fornire paradigmi di bene e male alla morale, alla politica e alla vita tutta". 21 Per E.B. la storia è la base non solo dell'arte militare, della "grande guerra", della sua teoria, ma anche di qualsivoglia ragionamento inteso a penetrare la realtà economico - sociale del momento e del futuro, individuando - insieme con i rapporti tra guerra e civiltà, tra guerra e società - anche quelli tra guerra ed economia.

20 21

Barone. // fiwco di fucileria - leltere due, Roma, Casa E<l. Italiana 1893. Benedetto Croce, Ullimi saggi, Bari, Laterza 1935, pp. 3 13-315.


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Potrebbero perciò essere scritte anche dal Marselli queste parole che significativamente precedono il corso di storia militare (sui Grandi Capitani) tenuto dal Nostro alla Scuola di Guerra nel 1898: la storia militare, nello studiare il problema complesso della guerra quale si presentò in passato fino ai tempi a noi vicini, non !ii propone r<ià un vano scopo di erudizione. Essa mira al risultato, ben più importante, di sottoporre alla meditazione gli e.!iperimenti guerreschi di ogni età, per indurne i principi [si noti che, diversamente da quanto fa nelle Lezioni di arte militare, questa volta E.B. parla di principi - N_d_a_/, i quali devono governare la preparazione militare e l'impiego degli eserciti. Ed infatti, una conoscenza completa della guerra non può fondarsi che sull'esperienza: e la storia è soprattutto esperienza. Tutti i grandi capitani, in tutte le epoche, lo studio che maggiormente predilessero fu quello di meditare sulle gesta dei loro predecessori.

La storia - prosegue E.B. - non serve solo per fissare dei princip'ì dottrinali: quest'ultimi derivano dai fatti, quindi solo meditando sui fatti stessi ci si può convincere della verità dei princip'ì e si può coglierne tutta la portata; e solo tale meditazione "può dar quello squisito tallo, che è necessario per interpretare giustamente gli enunciati che la scienza della guerra dà informa rigida e assiomatica". E poiché la vera abiHtà dell'uomo di guerra non sta nel conoscere i princip'ì, ma nell'applicarli, se ne deduce anche che "la meditazione sulla storia è la più efficace scuola per chi voglia degnamente preparare sé stesso alle funzioni, modeste o grandi che siano, che l'avvenire gli riserba." Sempre come il Marselli, E.B. vuol sfatare due pregiudizi. Il primo è che sia sufficiente lo studio dei fattj più vicini a noi, essendo quelli lontani avvenuti in circostanze troppo diverse da quelle recenti; il secondo è che "possa mutare da cima a fondo l'arte della guerra, sol che mutate siano le armi o gli altri meu.i meccanici di cui essa si vale". Premesso che la guerra si fa con uomini e mezzi materiali, con il tempo solo quest'ultimi variano; ma "non varia la natura dell'uomo con le sue passioni, e i suoi istinti; e soprattutto grandissima parte rimane immutata di quel complesso di passioni, che si agita nelle masse costituenti gli eserciti. La psicologia collelliva assai meno di quella individuale è suscettibile di cambiare con il cambiare dei tempi...". Ne consegue che non bisogna lasciarsi ingannare dai mutamenti più superficiali e appariscenti come sono quelli delle armi, il cui studio è il più facile e semplice; "permangono, invece, le manifestazioni più profonde, perché han radice soprattutto nel cuore dell'uomo; e


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coteste manifestazioni più profonde sono difficili ad intendere e padroneggiare, giacché la conoscenza del cuore umano f ... ] è ciò che veramente fa distinguere l'uomo di guerra non comune dall'uomo di guerra mestierante". Tra queste "manifestazioni profonde" vanno considerati i fenomeni sociali, che perciò influiscono anche sull' arte della guerra. L'importanza da lui data al cuore umano anche nella valutazione dei fatti storici già schiera E.B. - come Marselli - tra gli avversari non solo del1' histoire - bataille, ma anche della cosiddetta scuola storica filologka, che vuol basarsi sull'esame analitico dei fatti, visti esclusivamente attraverso la ricerca e il minuzioso esame dei documenti storici. Per altro verso, i risvolti militari prima indicati non sono che un aspetto della filosofia della storia di E.B., quale è stata descritta da Gabriele Martinez (suo allievo), che ora riepilogheremo. 22 Come Marselli E.B. - pur differenziandosi da lui su alcuni aspetti legati anche ai suoi studi di economia - ha un concetto detenninistico e laico della storia, ritenendola governata da leggi scientifiche non ancora del tutto conosciute, e al tempo stesso escludendo che essa possa essere guidata da una forza sovrannaturale; e come Marselli nella ricerca di queste leggi si lascia guidare da un approccio fondamentalmente positivista, anche se non del tutto aderente alla filosofia positivista. A suo avviso il fatto storico è prodotto da innumerevoli fatti precedenti; ma dopo essersi verificato a sua volta interagisce sui predetti fatti che lo hanno preceduto, modificandoli. I rapporti tra i fatti storici sono di una duplice natura: o di causa ed effetto, o di mutua dipendenza. Questo vale anche nel campo sociale, dove l'influsso unidirezionale del clima è un esempio del primo tipo di rapporto. Nei fenomeni riguardanti lo stato economico, politico, intellettuale e morale della società, invece, quel che conta è la mutua dipendenza, il cui studio per E.B. passa attraverso tre fasi successive: - la percezione della sua esistenza; - il senso delle variazioni provocate in ciascun fattore da un altro; - la conoscenza deHa grandezza di tali variazioni. L'unica scienza che al momento si trova nel teno stadio è 1' astronomia, che conosce tutti i dati relativi alla mutua dipendenza tra gli astri. L' economia politica è la sola delle scienze sociali [alla quale appartiene anche la scienza della guerra, visto che come Clausewitz egli considera la guerra un fatto sociale - N.d.a.l che sta passando dal primo al secondo stadio, giungendo in alcuni casi a determinare approssimativamente la gran-

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Martinez. Art. cii..


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dezza de11e variazioni (ad esempio, in tema di rapporto tra quantità di moneta e prezzi). Le rimanenti scienze sociali sono ancora al primo stadio; anzi, in alcune non si è al primo stadio, perché non si è ancora si è ancora fatto nemmeno il primo passo "per uscire definitivamente da tutte le dottrine, anche recenti, più o meno sempliciste". Per E.B. la realtà sociale in un dato momento risulta dalJ'equilibrio dinamico di molteplici fattori, tutti interdipendenti: ambiente fisico, stato economico, costituzione politica, istituti giuridici, credenze morali, stato delle conoscenze, complesso dei sentimenti che dominano le masse, componenti della classe dirigente. E poiché alla spiegazione del fenomeno si può giungere solo analizzando uno per uno i vari fattori, bisogna guardarsi dalJa "tendenza al semplicismo", cioè dall' attribuzione a un solo fattore - e non a un insieme di fattori tra di loro interagenti - la causa dei grandi avvenimenti storici. Di conseguenza E.B., pur non concordando con coloro che negano del tutto l'influenza delle grandi personalità storiche sugli avvenimenti, in polemica con il Carlyle tende a ridimensionare l'importanza di tali grandi personalità e/o del saggio legislatore che vuol plasmare la società a suo modo. Lo Stato non è un'entità astratta, con una sua vita indipendente ed esente dai difetti e vizi degli uomini. In fondo il despota più assoluto non è che il capo di una oligarchia militare o di una burocrazia; perciò, anche se vuole sinceramente il bene di tutto il popolo, non potrà mai governare contro gli interessi dei gruppi sociali dei quali è espressione. Questo vale anche per i regimi democratici, costretti a trattare con partiti e classi che esprimono ben precisi interessi: "in realtà tutti i governi, dal più al meno, obbediscono anche allorché hanno l'aria di comandare". Sempre per questa ragione E.B. non ritiene possibile un completo liberismo economico, perché, nonostante i vantaggi che ne ricaverebbe la collettività, non difenderebbe i privilegi di quei pochi, ai cui interessi lo stesso governo si deve piegare, visto che ne assicurano la vita. D'altra parte la netta ostilità alle dottrine "sempliciste" lo porta a polemizzare anche con i sostenitori del determinismo economico di matrice marxista, che è il cavallo di battaglia dei socialisti del tempo nella loro lotta contro il capitalismo. Egli non nega la grande importanza di questo fattore, ma si chiede e chiede: se determina tutto, perché - in base alla legge della mutua dipendenza - gli altri fattori a loro volta non dovre bbero interagire su di esso? E se l'evoluzione economica determina anche l'evoluzione in altri campi, da chi o che cosa, a sua volta, è determinata? Anche ammesso che sia determinata dallo strumento produttivo, da che cosa dipende, a sua volta, l'evoluzione di tale strumento?


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A suo giudizio il fattore economico è il più importante quando si tratta di cogliere i caratteri generali dell'evoluzione della società in un arco di tempo molto esteso; diventa, invece, meno importante quando si vogliono cogliere i caratteri di un singolo fatto e/o si prende in esame un arco di tempo assai limitato: "è questa la concezione delle approssimazioni successive, che già applicata alle altre scienze della natura, è stata così feconda per la spiegazione dei fatti. Che io sappia, la sua applicazione alla scienza storica non ancora fu tentata. La tenterò io in questo corso [quello di storia generale, economia e economia coloniale presso la scuola diplomatico - coloniale di Torino nel 1898 - N .d.a. ]". In ogni caso, secondo E.B. accanto al fattore economico bisogna considerare la risultante di vari sentimenti, passioni, aspirazioni dei singoli individui, che egli definisce sentimento delle folle. Tale risultante non va considerata come la somma algebrica di ciò che pensano i singoli individui, ma è assimilabile a un nuovo composto chimico con proprie caratteristiche diverse da quelle dei singoli, il quale fa sì che nella folla prevalgano i caratteri del selvaggio, della donna e del fanciullo. 1n tal modo l'interesse personale viene accantonato e il singolo si comporta in modo assai diverso da come si comporterebbe se isolato; le folle ragionano, ma con argomenti primitivi tal i da renderli piuttosto estranei alla logica. Per fare presa su di esse le idee devono essere semplici, assolute, perentorie, generiche e mal definite anche se di grande potenza suggestiva, come ad esempio le formule di democrazia, socialismo, libertà, uguaglianza .... Per questo sono facile preda non tanto degli intellettuali, dei filosofi, ma degli uomini d'azione, che sanno mostrarsi profondamente convinti delle idee che diffondono con tre strumenti: l' affermazione, la ripetizione e il contagio. Né è vero che il sentimento religioso è scomparso nelle folle: "non si è religiosi soltanto quando si adora una divinità", ma anche quando si mette tutto sé stessi al servizio di una causa o di un uomo; per questo al momento ci si trova in un periodo ascendente di intensità religiosa, perché alle credenze propriamente religiose si sono sostituite altre fedi, come il socialismo e l'umanitarismo. Sono queste, per E.B., le chiavi interpretative da usare per i fatti storici. In buona sostanza esse, sia pur notevolmente accentuando il peso dei fattori economici nel divenire storico, non sono molto distanti dalle tesi del Marselli e dalla sua polemica contro i "positivisti triviali". Non distante dalle idee del Marselli nemmeno il ruolo da lui assegnato alle grandi personalità storiche; basti ricordare che il Marselli così scrive nel 1876 di Napoleone: l'apparizione di Napoleone Buonaparte sulla scena della storia è uno di quei fenomeni che paiono meravigliosi, ma che sono naturali. Le ge-


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sta di quel grande capitano non sfuggono alla legge di graduale evoluzione dei fenomeni naturali e sociali. Per contrario, si riattaccano strettamente alla necessità dei tempi, e ai termini antecedenti della serie dei fatti militari e politici. 23

Come meglio vedremo in seguito, anche i concetti di scienza della storia e di storia scientifica del Marselli (cfr. cap. il) non sono estranei ad E.B., così come il metodo storico "delle approssimazioni successive" non appare del tutto originale, essendo stato enunciato e applicato dallo stesso Marselli nei suoi studi sulla guerra 1870-1871. Ciò non toglie che le differenze ci siano, e già da queste schematiche enunciazioni di E.B. ne emerge, forse, la principale: se nell'evoluzione della società i fattori economici sono a loro volta condizionati dai "sentimenti delle folle" in un rapporto di mutua dipendenza, evidentemente il parallelo che il Marselli vuol stabilire tra evoluzione darwiniana del mondo animale ed evoluzione della società (quindi anche dell'arte della guerra ecc.) non regge. Constatazione confermata nel 1909 dallo stesso E.B., che nega la possi bilità di una trasposizione nel campo sociale delle teorie darwiniane, negata da Darwin stesso. E aggiunge - differenziandosi dal Marselli, secondo il quale il più forte alla fin fine è anche il migliore - che nella lotta sociale il trionfo non è dei più forti, ma di coloro che posseggono le qualità che in quel determinato ambiente possono assicurare il trionfo: qualità che possono essere anche tutt'altro che le migliori. In una società di bricconi, emergono i hricconi più esimi: in una società nella quale non l'ingegno, non il Lavoro pertinace siano il mezzo più sicuro per il trionfo, ma invece l'infingimento, l'intrigo[. .. ] la preminenza non è di coloro che hanno ingegno e perduranza, ma degli astuti, degli intriganti, dei dissimulntori. .. 24

D'altra parte, proprio in virtù del fondamentale concetto di mutua dipendenza enunciato da E.B. gli aspetti economici-sociali non possono non avere forte influenza sul fenomeno guerra e sul modo di condurla, anche per questa via rendendolo un economista lontano dal liberismo puro, che lo porta piuttosto ad applicare, non solo nel campo economico, l'empirica regola del "caso per caso". Per lui, infatti, ciò che va bene per una Nazione - o per un eser23 Nicola Marselli, La teoria della guerra reale applicata alle campagne del 1796 e 1797 in Ita lia (Cit.). 24 Barone, Darwinismo sociale, in "La Preparazione" n. 3 - 6f7 febbrnio 1909.


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cito - non va bene per un altro, quindi il problema non è tanto di individuare princìpi o concetti - guida, ma di applicarli bene a una specifica realtà. Ne consegue che il realismo che impronta l'intera sua opera lo rende senza dubbio più refrattario del Marselli agli idola, qualunque sia l'argomento che tratta; né ha troppi riguardi per qualcuno o qualcosa, rifuggendo da quegli accenni di storia retorica, volla a commuovere ed esaltare gli animi, che sia pur di rado troviamo nel Marselli. I suoi scritti di carattere storico dimostrano costantemente questo approccio che definiremmo disincantato. Se ne può anche dedurre, rifacendosi a definizioni marselliane, che egli è un frequentatore più della scienza della storia che della storia scientifica: nel senso che per lui la storia non è uno strumento di indagine asettica con .finalità scientifiche che si esauriscono nella storia stessa, ma serve anzitutto per dimostrare idee, leggi , teorie, con unaricerca accurata che vuole accertare i fatti, ma sempre con finalità ben precise, tipiche della "storia a test'. Lo dimostra la sua prima e principale opera di carattere storico, i citati Grandi capitani fino alla Rivoluzione Francese, dove analizza le figure di Gustavo Adolfo di Svezia, di Turenne, del principe Eugenio, di Federico li di Prussia e infine di Napoleone. Per quale ragione il tema di fondo riguarda i condottieri, non gli eserciti, le Istituzioni militari e le guerre dal secolo XVll al secolo XVlll, che pure descrive con mirabile chiarezza, semplicità e sinteticità? Ciò che gli interessa è guardare alle decisioni di queste grandi figure e allo strumento del quale dispongono, sottoponendo la loro condotta delle operazioni a un continuo vaglio critico per poi fame emergere idee - guida, ammaestramenti, orientamenti concreti, che valgano a confermare le sue idee che già conosciamo. In tal modo, più che gli avvenimenti in sé acquista rilievo il modo con cui li vivono i protagonisti e il modo con cui li commentano gli scrittori coevi e successivi: così egli cita spesso le Memoires di Napoleone I e i giudizi di Clausewitz, dimostrando - fatto da sottolineare - di conoscere del generale prussiano non solo il solito Della guerra, ma anche le opere minori tuttora in Italia ignorate, anche perché mai tradotte. Nei Grandi capitani le considerazioni, i commenti, le conclusioni, l' esame delle diverse valutazioni acquistano così il rilievo maggiore, anche se non traboccano troppo, come avviene per il Marselli, in questioni politiche contingenti e rimangono in genere limitate al campo tecnico-militare e strategico. Basti citare, quale esempio, il paragrafo finale della parte dedicata a Gustavo Adolfo di Svezia, dove il Nostro confuta duramente i giudizi del Thiers e afferma: allorquando il Thiers dice che non Lui, Gustavo Adolfo, era timido, ma l 'arte, dice una frase e niente altro; la quale se un significato può ave-


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re, è questo: che in quelle condizioni politico-sociali una maggiore celerità non sarebbe stata possibile senza cadere nell'avventatezza, senza compromettere il successo finale. È per queste considerazioni che il primo Napoleone lasciò scritto del re di Svezia: "Una cosl breve carriera ha lasciato grandi ricordi per l'arditezza, la rapidità dei movimenti, l'ordinanza e l'intrepidità deUe truppe. Gustavo Adolfo era animato dai principi di Alessandro, di Annibale e di Cesare". Fu una luminosa meteora, un vero precursore, la cui grandezza non si può intendere, se non ci si pone nell'amhiente dei suoi tempi.

Un'altra indagine storica notevole riguarda le guerre del Risorgimento e non casualmente è pubblicata postuma nel 192925, anche se è forse databile al periodo d'insegnamento di storia militare alla Scuola di Guerra. Argomento che, inevitabilmente, oltre che queJle della leadership coinvolge le responsabilità della monarchia: eppure anche in questo caso, senza sacrificare l'accuratezza della descrizione delle operazioni E.B. mantiene una distaccata, fredda professionalità e dice a ognuno il fatto suo, smentendo ancora una volta quegli storici di fine secolo XX che hanno condannato in blocco la storiografia militare del Risorgimento, da loro vista come frutto di retorica e del maldestro tentativo di mascherare responsabilità ed errori. Della guerra del 1848 - 1849 egli dice tutto quello che c'è da dire (e che del resto emerge anche dal Voi. Il - Parte ID): da una parte (quella austriaca) una chiara e costante visione dello scopo strategico da conseguire e una vigorosa condotta dell'azione, frutto però non solo delle doti delMaresciallo Radetzky, ma "effetto di tutto un ambiente, di tutto un sistema"; dall'altra (quella piemontese) "l'arte fiacca, che cotesto scopo netto non vede né si pre.figf?e; che pur quando lo intuisce non sa resistere alle circostanze perturbatrici d'ogni natura le quali tendono a influire sulle sue risoluzioni, che insomma né sa discernere un obiettivo, uno solo, né sa questo fermamente volere". Nessun accenno al ruolo delle forze insurrezjonali e dei volontari, al mancato concorso degli altri eserciti della penisola ecc.: per E.B. quella guerra è una faccenda che riguarda esclusivamente l'esercito piemontese e quello austriaco, visti anche quale espressione di un sistema politico sociale. Sotto questo profilo, la condotta delle operazioni da parte pie-

" Cfr. Barone, Studi sulla condotta della guerra a cura del ten. col. Sandro Piazznni - le campagne per l'indipendenw e l'unilà d '/Jalia (1848-1849, 1859, I 866), Torino, Schioppo 1929.


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montese viene da lui presentata come un esempio in negativo di ciò che dovrebbe essere fatto per vincere una guerra: anzitutto unità di comando, con un uomo solo che abbia tutte le qualità del Capo; al di sotto del Capo, uno strumento in grado di condurre vigorosamente le operazioni , con una cavalleria che sappia effettivame nte scoprire le mosse del nemico, con esecutori che sappiano "non soltanto morire ma vincere", e che siano preparati all'esercizio del comando; infine Servizi logistici che non siano una palla al piede per l'azione di comando, ma che agevolino le operazioni. Tutto questo non basta: per re ndere possibile un'energica condotta delle operazioni è necessario che a tergo dell'esercito vi sia uno spirito pubblico alto,

compatto, patriottico Iricordo di Adua 1896? - N.d.a.], che lo sorregga e che sorregga l'azione di comando e non gli crei ostacoli e dannose impressioni e scoramenti più dannosi ancora. Le grandi vittorie non furono che di quei popoli virili, i quali durante la pace, senza badare a sacrifici, nulla trascurarono per prepararsi[. .. ] che seppero comprendere essere anzitutto necessario un governo forte e auto revole[. .. ]. Guai a colui che di fronte ai primi insuccessi, col nemico in ,:asa o fuori, debba lottare contro gli spadroneggiamenti di piazza. le sfuriate dei partiti e Rli eccessi di giornali pettegoli e ciarlieri[ ... ]. Al rispetto delle pubbliche libertà si tornerà da quando la vittoria avrà allietato In nostra bandiera del suo sorriso. E quindi condizione essenziale per un'arte vigorosa sul campo di battaglia è una politica forte, condotta con mano tenna e sicura.26

Parole senza tempo, la cui validità è stata dimostrata anche dalle vicende italiane del XX secolo: né esse si preslano ad accuse al loro autore di essere fautore di regimi autoritari, visto che si riferiscono al tempo di guerra, per il quale è fuor di dubbio necessaria un'union sacreé. 1n fondo Garibaldi (cfr. Vol. li - cap. VII) sostenendo apertamente la necessità della dittatura (da conferire a lui stesso) in periodi eccezionali, è stato assai più radicale .... A questo punto, le critiche alla condotta della guerra da parte piemontese sono prevedibili: Carlo Alberto, pur essendo "un 'anima tersa come il cristallo", non aveva le doti del Capo; troppi consigli di guerra e troppi consiglieri nel suo entourage, tutti di levatura modesta tranne il generale Bava; impari alla sua carica e troppo arrendevole il Capo di Stato Maggiore generale SaJasco; bizze e gelosie tra i generali, con il Ministro Franzini che rie-

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ivi. p. 107.


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sce solo ad accrescerle, ecc .. Grave sottovalutazione delle possibilità del nemico, dato per finito dopo le cinque giornate di Milano; discordie tra i partiti, inframmettenze e nocive critiche di gazzettieri e strateghi da caftè, i quali non fanno altro che minare la fiducia dell'esercito nei suoi capi, e quella del Paese nell'esercito; il Governo lombardo e Venezia che hanno obiettivi separati e perdono tempo in dispute su ciò che si sarebbe fatto dopo una vittoria, che ancora doveva venire: "ciascuno voleva la sua guerra, ciascuno voleva la sua vittoria. E si lasciò che facessero. E questo influì sinistramente sulle operazioni militari." Dopo queste considerazioni sulla campagna del 1848, superfluo prendere in esame i giudi zi del Nostro sulla seconda fase della campagna nel 1849, o quelli - inevitabilmente severi nei confronti della leadership - sulla guerra del 1866. Val solo la pena di rammentare che anche a proposito della vittoriosa battaglia di San Martino nel 1859, egli osserva che le forze piemontesi rispetto alle truppe francesi combatterono quasi una battaglia a parte, e che "nella loro condotta tattica dettero prova degli .,·tessi difetti che ahbiamo notato nei corpi austriaci fronteggianti i francesi: mancanza di unità di comando, separazione delle forze, sminuzzamento/ ... ]. Il difetto di unità d'azione dei piemontesi aveva, fra le tante, anche un 'altra causa: il loro sistema divisionale [cioè la mancanza del livello di corpo d'armata, comprendente normalmente due divisioni - N.d.a.l: a San Martino comandavano due generali, Cucchiari e Mollard, di ugual grado". 21 Nel ca<;o delle guerre d'indipendenza come di tutti gli altri avvenimenti storici da lui esaminati, l'ispirazione di E.B. è sempre autenticamente napoleonica, quindi clausewitziana. Sulla strategia napoleonica pubblica parecchi studi, frutti anch'essi dell'attività d'insegnamento: diversamente dal Marselli dedica però scarsa attenzione alla guerra 1870 - 1871, senza dimostrare per l'esercito e il "sistema" prussiani il grado di ammirazione a volte un po' sopra le righe del Marselli, senza erigerlo a modello. Poiché, come si è visto, in Moltk.e vede il miglior allievo di Clausewitz, e - di riflesso - di Napoleone, non si perita di contraddire il generale Von der Golz,28 negando che nella campagna del 1866 contro l'Austria egli abbia inaugurato "nuovi procedimenti strategici, radicalmente in antitesi a quelli napoleonici" e dimostrando che, se è penetrato in Boemia con l'esercito diviso in due annate separate ciascuna con una propria linea d'operazione, non ha adottato una strategia opposta a quella raccomandata da Napoleone (massa unica con unjca

21 28

ivi, pp. 254-255. Barone, Moltke (Art. cit.).


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linea d'operazione): infatti il principio di presentarsi con masse riunite contro nemico diviso non implica affatto che si debbano sempre avere le forze riunite, e la soluzione di Moltke - che, tenendo conto delle circostanze, prevedeva di riunire le due masse appena possibile e in territorio nemico - pur comportando dei rischi, era la migliore possibile in quel momento, anche perché doveva tener conto di vari vincoli di carattere politico e strategico. Ben diverso il giudizio del Marselli, il quale (cfr. cap. Il) vede questa manovra prussiana come un segno di "decadenza" dell'arte militare, insieme con quella italiana nella stessa guerra Ad ogni modo, E.B . tiene a mettere in evidenza, più che le sue capacità strategiche, due aspetti della figura del Moltke: - le doti di uomo di cultura amante delle lettere e arti; - il ruolo di "apostolo della pace armata" da lui svolto anche in tarda età, con incisivi interventi nel Parlamento tedesco che miravano a combattere, con tutto il peso della sua autorità o del suo prestigio, "quegli oratori che in nome deUa libertà, del progresso, della fratellanza tra i popoli, negano all'esercito ciò che gli abbisogna per essere forte, dimenticando che, specie nel clima inquieto dell'Europa, la sicurezza dello Stato è la sua prima condizione di vita". Anche in Italia, a fine secolo, non mancavano certo coloro che si opponevano alle spese militari, i pacifisti, gli antimilitaristi; l'approccio di E.B. alla figura di Moltke non è dunque casuale, ma guarda alla realtà italiana del -momento. Così come, da uomo di cultura con vasti interessi extra - militari quale egli è ormai nel 1895, quando scrive il saggio su Moltke probabilmente vuol dimostrare che le più elette qualità militari si possono - o forse si devono - accompagnare anche a una larga cultura in genere. Non consideriamo come opere propriamente storiche le Considerazioni sulla guerra anglo - boera del 1900 e la Storia militare della nostra guerra fino a Caporetto del 1919: più che di indagini storiche si tratta di lavori che esprimono il punto di vista del Nostro sull'attualità militare del momento. Anche se non vi mancano certo eloquenti accenni all'attualità, l'ultimo suo lavoro a carattere storico è invece quello su Adua del ·1911 , importante anche se breve.29 È la breve sintesi di una conferenza tenuta nel quin-

29 Adua (nel 15° anniversario) - conferenz.a del prof Enrico Barone, Roma, Tip. Roma 19 11. Alla battaglia di Adua E.B. aveva già dedicato un altro lavoro (La battaglia di Adua dal campo abissino e da fonti russe, in "Rivista Militare Jta)jana" Anno XLII - Tomo Il aprile 1897, pp, 572-591). Da esso risulta che anche le fonti russe avevano riconosciuto il valore del soldato italiano, mentre il generale Baratieri prima della battaglia si sarebbe fatto ingannare da false notizie sulla grave crisi logistica delle tmppe ahissinc. che le avrebbe costrette a dividersi.


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dicesimo anniversario della battaglia; ma se si guarda alla data, che precede solo di alcuni mesi la guerra di Libia iniziata a fine settembre 1911, si comprende subito che ancora una volta E.B. parla con l'occhio rivolto alla realtà del momento; ciò non gli impedisce, peraltro, di fornire in poche pagine la miglior indagine che sia comparsa fino a quel momento sulle cause della sconfitta. In questo caso - è 1' unica volta - non mancano accenti passionali e un po' retorici: la parte iniziale è infatti dedicata a una veemente, impietosa contestazione dei contenuti del telegramma, con il quale il generale Baratieri subito dopo la battaglia informava della sconfitta il Ministero, attribuendo la maggior parte delle perdite alla subitanea ritirata dei soldati, i quali , senza ascoltare gli ufficiali che cercavano di trattenerli per organizzare la difesa su successive posizioni, "come pazzi gettavano fucili e munizioni per l'idea che, presi senza armi, non sarebbero stati evirati, e quasi tutti gettavano viveri e mantelline. Invano io, col generale Ellena, coi colonnelli Stevani, Brusati e Valenzano, cercammo di dirigere la corrente verso la sua base Saurià. Tutti volgevano verso Nord per la via più larga ..." E.B. obietta che le truppe si sono battute con valore e che il Baratieri ha cercato solo delle attenuanti alle responsabilità della sconfitta, che sono invece sue e del governo Crispi. Lo testimoniano fonti di parte abissina e coloro che hanno seppellito i morti , trovandoli per la maggior parte ancora allineati sulle posizioni che non avevano mai abbandonato. Non vi è stata nessuna ritirata e nessuna resa, ma anzi si è combattuto fino all'ultimo: la battaglia d 'Adua costò all'Italia la perdita di 4600 bianchi e 2(X)() indigeni, con 2(X)() feriti: circa la metà dei combattenti. Al nemico costò 7(X)() morti e 10.(X)() feriti. Generale Baratieri [il generale Baratieri era deceduto nel 1901 - N.d.a.], conoscete voi alcun altro esempio di un esiguo corpo di truppe che come il nostro, per tante ore, abbia tenuto testa, ad un esercito numeroso più che quadruplo come quello scioano di Adua e che, pur restandone sopraffatto, abbia potuto produrre in esso perdite così enormi e talmente superiori alle proprie ?30

Eppure - nota E.B. - si trattava di truppe non omogenee e poco affiatate, affluite dalle varie caserme d' Italia, con ufficiali che non conoscevano e non le conoscevano ... Anche questo fatto dimostra che la preparazione e condotta della guerra d'Eritrea non hanno te nuto conto che non si ini-

"'Barone, Adua (cii.), p. 10.


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zia una guerra, "senza aver prima accumulata la maggior somma di à tout dalla propria parte". La guerra è "un tremendo gioco" ricco di imprevisti, perciò non si fa con la strategia del terno al lotto. Ci pensino coloro che devono prepararla e che restan pavidi e dubitasi dinnanzi alla precisa richiesta di tutto quanto una virile preparazione richiede. O una politica di pace, senza muscoli; ovvero, se la guerra non sia da escludersi, meglio tutti i sacrifizi necessari oggi, che la sconfitta e la vergogna domani!

E.B. aggiunge che le maggiori responsabilità sono state del Governo, che avrebbe voluto accrescere le conquiste territoriali in Africa senza fornire al generale i mezzi necessari e senza lasciargli la necessaria autonomia operativa, ma anzi incitandolo continuamente ad avanzare, ad agire anche quando la situazione prima di tutto logistica consigliava di non muovere in avanti senza aver prima ricevuto i mezzi - e soprattutto i quadrupedi - indispensabili. Ma, subito dopo il Governo, è stato responsabile della sconfitta lo stesso generale Baratieri, che dopo aver dato le dimissioni a fronte delle pretese del Governo e delle scarsità di mezzi, si è dimostrato incapace di imporre al Governo 1'aut - aut e le ha poi ritirate, adattandosi ad eseguire le direttive che lo avrebbero portato ad Adua. È così avvenuto che, dopo la caduta dell' Amba Alagi e di Macallé nel dicembre 1895 - gennaio 1896, il Governo ha creduto di risolvere la situazione solo inviando nuove truppe, mentre il generale Baratieri non le accettava volentieri, ritenendo a ragione che, data la situazione, servissero più che altro mezzi logistici e quadrupedi. A fine gennaio la situazione militare avrebbe consigliato di ripiegare, per diminuire le difficoltà logistiche impegnando la battaglia con il nemico nelle migliori condizioni: ma né il Governo, né Baratieri erano ormai in grado di adottare questa soluzione, perché ciò significava lo sgombero del Tigré, il riconoscimento che nel 1895 la campagna si era risolta a favore del nemico, e soprattutto

"la virile risoluzione di riconoscere gli errori politici e militari connessi fino allora". Baratieri si è spostato ancora in avanti, a Saurià, aggravando le difficoltà logistiche; e data la scarsità di viveri, nei giorni precedenti la battaglia si è trovato in un cul de sac: o attaccare o ritirarsi: ma la ritirata non era più possibile senza combattere ... Per E.B. , è stata questa la causa della decisione del Baratieri: non la notizia (non si sa se giuntagli o meno) che il IO marzo, due giorni prima della battaglia, era stato sostituito dal gene-


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rale Baldissera, ancora in viaggio. Egli esclude anche che la battaglia sia stata perduta a causa degli errori del generale Albertone, che si era spinto troppo avanti, o di altri. La storia dimostra che siffatti errori si fanno in tutte le battaglie, anche vittoriose; "senonché i loro dannosi effetti non si fanno sentire, quando la situazione f?enerale è buona e si ha un sufficiente numero di à tout dalla propria parte, mentre, invece, essi pesano con tutte le loro conseguenze sull'esito finale, allorché la situazione d 'insieme è assai arrischiata e il successo, se mai, pende da un filo di rasoio. E tale era Adua". A questo punto, il Nostro si discosta nettamente dalla diffusa opinione che in quel momento storico l'espansione all'interno dell' Abissinia era una buona scelta, e che, comunque, la sconfitta di Adua avrebbe dovuto essere subito vendicata, proseguendo la campagna ad ogni costo. A suo avviso, se Crispi - pur non sapendo rinunciare a una politica di espansione non ha chiesto al Paese i sacrilìci indispensabili , ciò è accaduto perché " il Paese non lo avrebbe seguìto: né il Paese poteva seguirlo" , visto che si trovava al culmine della crisi di Lraslurmaz.ione dell'economia da agricola in industriale, con tutti i negativi fenomeni connessi. Sarebbe perciò stata necessaria una politica "del più rigido raccoglimento", anche perché le errate scelte di Crispi hanno favorito l' antimilitarismo, dovuto a tre cause: a) l'esercito, data la necessità di raccoglimento, veniva concepito come un organismo costoso ma di poca utilità; b) l' urbanesimo gli forniva uomini refrattari al1a disciplina assai di più dei contadini; c) l'intervento di reparti militari per sedare la violenza nei conflitti tra capitale e lavoro gli faceva perdere la popolarità. Solo guardando a questo difficile contesto economico - sociale, afferma E.B., si può "pronunciare una parola equa e serena sui fatti di quella nostra anneé terrible e scagiona re taluni atteggiamenti della pubblica opinione, che parvero atti di viltà nazionale, e darsi ragione di propositi e concelli che sembrarono miserevoli pretesti di partito". 31 Sorprendentemente, dopo queste parole che autorizzano ampiamente a ritenerlo un anticolonialista E.B. si dimostra favorevole all'impresa di Libia ormai imminente. Lo fa- altra sorpresa - con argomentazioni insolitamente poco convincenti e irrealistiche, che contrastano con le precedenti e, in genere, con il consueto approccio ai problemi. Troppo ottimisticamente constata, infatti , che nel 1911 la crisi è ormai superata, le cose sono cambiate e nel Paese c'è un nuovo spirito: "che è mai, che è mai, o gio-

·" ivi, p. 35.


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vani che mi ascoltate, questo complesso di fenomeni cui oggi assistiamo, e che paiono meravigliosi se confrontati a quelli di pochi anni or sono, di quindici anni or sono? Tramonto dell'antimilitarismo (sic), desiderio di essere forti, sintomi di tendenza all'espansione, aneliti verso una più attiva politica estera e coloniale[ ... ]. Una grande impresa africana allora era prematura. Dico con intenzione allora: non oggi". Prevede pertanto che "quando il giorno della necessaria e~pansione sia venuto - e quel giorno non è lontano!", i fatti si svolgeranno in modo assai diverso rispetto a quanto è avvenuto ai tempi di Adua. Con l'avvenuto sviluppo della grande industria muta l'atteggiamento della pubblica opinione anche nei riguardi della guerra e dell'esercito; "e lo stesso popolo che quindici anni or sono toglieva le rotaie dei binari delle ferrovie perché i richiamati non partissero lquesto è stato fatto anche durante la guerra di Libia! - N.d.a.], potrà domani secondare e sospingere l'azione del suo esercito con tutto L'impeto suo e tutta la sua perseveranza". 32 Era veramente così? Ci basti osservare all ' inizio del suo libro La guerra alla fronte italiana33 il generale Cadorna giudicava, assai severamente la preparazione prima di lullo morale del Paese - e quindi anche dell'esercito - negli anni che precedono la prima guerra mondiale; che l'antimilitarismo e il pacifismo in tali anni erano tutt'altro che morti, e che, infine, la grande massa dell'esercito continuava ad essere composta da contadini, dimostrazione che nel 1915 l'industrializzazione era tutt'altro che conclusa. ln quest'ultima occasione, dunque, E.B. si avvicina alla "storia retorica" del Croce, facendo del passato un modello in negativo proprio per provocare una reazione, per commuovere ed esaltare gli animi in vista di un nuovo cimento che spera vittorioso. Un esempio in anteprima di quell ' uso della storia per fini di attualità, del quale tanto oggi si parla ...

SEZIONE m - Il rapporto tra economia, società e guerra Anche ne11'opuscolo su Adua, così come in altri scritti finora esarninati,34 affiora il parallelismo tra condizioni politico - sociali, arte del-

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ivi, p. 38 e 42. Cfr. Luigi Cadorna. La guerra alla fronte italiana, Milano, Treves 1921 (2 Voi.). 34 Si veda ad esempio Barone, / grandi capitani (cit), p. 67.

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la guerra e Istituzioni militari. Si tratta del motivo centrale dell'opera di E.B., che però non è certo un tema nuovo: il fatlo nuovo è piuttosto che E.B., militare economista, studia in modo particolare le ricadute sociali, quindi anche militari del fattore economico. Ne scaturisce un'analisi che senza dubbio è la più stimolante e interessante trn i suoi scritti, anche perché quest' ultimo fattore economico è comparativamente considerato sia rispetto alla guerra, che rispetto alla pace_ In tale analisi confluiscono dei motivi di carattere storico e altri di carattere economico sociale; essa segna il culmine della sua opera ed è sviluppata in due opuscoli fondame ntali anche se brevi: Le istituzioni militari e le condizioni politico - soc ia li ( 1899),35 e La guerra nel 'ascensione economica (1912). 36 Alla problematica della guerra e della pace, tuttavia, egli accenna anche in due precedenti studi , che sono una sorta di antipasto, di anticipazione rispetto agli scritti maggiori su questo argomento_ Nel più volte citato saggio su Moltke espone il proprio punto di vista sulla pace armata che al momento caratterizza i rapporti internazionali, non certo privi di tensioni e pericoli, e lo fa con argomentazioni che anticipano in buona misura la logica della dissuasione tipica della guerra fredda dopo il 1945_ La pace armata - egli afferma - è " un gran male"; ma è un male pur sempre assai minore della guerra. A uno Stato di 30 milioni di abitanti costa circa trecento milioni all 'anno, cioè dieci lire per ciascun cittadino: ma una grande battaglia perduta costerebbe molto di più sia per spese di guerra che per indennità al vincitore, tanto più che la sconfitta non provoca affatto rassegnazione nei popoli civili e con essa dei risparmi nelle spese militari. È innegabile che solo il disarmo può essere il fine ultimo delle società civili; ma se vi è un grande Stato che non lo voglia, se l'armamento suo impone il nostro, al disarmo graduale non si può giungere che con la.forza. O il disarmo dopo una guerra di distruzione, o il disarmo senza guerra. E per ottenerlo senza guerra, non v'è, non vi può essere, per chi non si pasca di desideri pii, che un mezzo solo: creare tal.forza di armi e di alleanze da una parte, che dall'altra paia impossibile vincerla, onde [le] paia inutile perseverare negli armamenti; poi intendersi pacificamente o imporsi; e restringere gli apparecchi.

" Barone. Le is1i1uzio11i militari e le condizio11i politico-sociali: pro/11siu11e. Torino, Roux e Frnssali 1898. 36 Barone, la guerra 11el/'ascensiu11e ecunumirn, Roma, Annani e Ne in 19 12.


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In un altro articolo dal titolo emblematico, Lo spirito pubblico nella guerra (1900), 37 E.B. fa per la prima volta riferimento aJl'opera sulla guerra futura dello scrittore russo pacifista Bloch, il quale (bisogna ammetterlo: pienamente a ragione) aveva previsto che per effetto della maggior potenza delle armi moderne le guerre future sarebbero state più lunghe e le perdite molto maggiori che in passato, mentre proprio a causa della maggiore ricchezza degli Stati moderni i loro danni economico - sociali sarebbero stati anch'essi assai maggiori che nel passato. 3K Per il momento il Nostro non entra nel merito di queste tesi, antitetiche a quello che credeva (o meglio, sperava) gran parte dell' establishment politico - militare europeo del tempo: osserva solo che se la guerra pur portando tante rovine non è scomparsa, anzi prospera tra i miti canti di pace degli uomini del tempo, ciò significa che "le ragioni le quali ad essa tra-

scinano - e se non vi piace dir le ragioni, dite gli istinti, gli accecamenti, le cupidigie - sono tali, che né da un uomo, né da un popolo, almeno per ora, possono essere dominate". E siccome la guerra continua ad essere inevitabile, ed è una tremenda cosa specie per il vinto, non c'è altro da fare che prepararsi a vincerla . .. Sono perciò ispirate a una pur triste realtà, secondo E.B., queste parole pronunciate al Reichstag dal Maresciallo Moltke: "ciò che forma ancora la vitalità di questa vecchia Europa, è che

noi sappiamo ancora uccidere e farci uccidere. Il giorno in cui avremo perduto quell'avanzo di barbarie che si chiama coraggio militare, nuovi barbari verranno da altri continenti per punirci della nostra fiacchezza. Il giorno in cui vorremo soltanto vivere, sarà il giorno della nostra fine". Ecco perché nel titolo si parla di "spirito pubblico": per vincere (tesi anche del Marselli) non basta preparare un forte esercito, occorre lo sforzo concorde di tutta la nazione, con un complesso di virtù estese in tutto il popolo, al quale E.B. dà il nome di "disciplina politica", che è anche l'anima della disciplina militare perché virtù civili e militari coincidono. La disciplina militare vera, infatti, "è ben diversa da come l'immaginano co-

loro che non vedono oltre le forme esteriori di essa, quelle forme coercitive, che sono il portato del particolare ambiente, pieno di subitanei perigli, in cui essa deve esplicarsi. La sostanza della vera disciplina militare - che è la sintesi di tutte le virtù del soldato - è questa: la convinzione, tradotta in sentimento, che tutte le facoltà dell'anima e dell 'intelletto debbano convergere verso la grande idea comune: vincere". 37 Barone, Lo spirito pubblico nella gue"a, in "'Nuova Antologia" VoL LXXXVITT, Serie IV Fase. 688 . 16 agosto 1900, pp. 694-71 O. 38 Cfr. Jcan Rloch, la guerre (traduction de l 'ouvrage russe "La guerre future"), Paris, Duponl

1900 (6 Voi.).


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Anche gli exempla storica citati da E.B. a suffragio di queste affermazioni coincidono almeno in parte con quelli del Marselli (esempio in negativo quello della Prussia del 1806, il cui esercito per carenza di "spirito pubblico" non venne preparato e riformato subendo così una grave disfatta a Jena, e quello dell'Italia del 1848 - 1849; esempio in positivo, la Germania del 1870 - 1871). Sempre con idee analoghe a quelle del Marselli, E.B. conclude osservando che al momento è molto cresciuto il peso dello spirito pubblico, appunto perché è cresciuto il peso dell'opinione pubblica. Sono sparite le guerre personali e diminuite le "guerre capricciose"; solo diminuite, perché non sempre la pubblica opinione ha coscienza dei suoi veri interessi, e può giungere a forzare la mano a un Governo dissennato. Soprattutto, pretende di intervenire anche per commentare le operazioni guerra durante, e questo potrebbe causare gravi pericoli, perché potrebbe spingere ad operazioni mal concepite e condotte solo "per soddisfarla, per chetarla o per darle spettacolo". E.B. non ha mai avuto simpatia per i socialisti, ai quali non perdona l'opposizione preconcetta a11e spese militari e le idee utopiche sulla guerra, sulla pace e sugli ordinamenti militari; ciononostante, nel 1902 sulla rivista li socialismo diretta dall'acceso e celebre antimilitarista Enrico Ferri compare un articolo nel quale lo si definisce "uomo di grande compef Pnza tecnica, onde sono altamente apprezzate Le sue Lezioni alla Scuola Superiore di Guerra di Torino" e si cita ampiamente il predetto articolo sulla "Nuova Antologia", senza concordare con il Bloch ma approvando gli auacchi di E.B. a Bonamico e ai navalisti, sostenitori di un aumento di spese per la notta. 39 L'argome n10 - cardine, sviluppato a tutto favore delle tesi socialiste, è però un ahro: la sua insistenza sull' inevitabilità delle guerre e sulla conseguente necessità che la preparazione militare e la guerra poggino su un saldo spirito pubblico. sul consenso popolare. Per l'articolista socialista Bruno Franchi - le affermazioni di E.B. da una parte dimostrano che il capitalismo non riesce ad evitare, anzi provoca le guerre, dall'altra sono solenne ammonimento ai militaristi d'Italia, la voce de ' quali supera - purtroppo per la Patria nostra - la voce di lui. Ma sono anche la dimostrazione apodittica che, se condizione necessaria di vittoria è il consentimento del popolo alla guerra, non possono essere combattute

"' Bruno Frnnchi, Dalle altre riviste, in "Il socialismo" 25 aprile 1902.


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se non guerre di difesa da invasioni straniere,- e, per queste han mostrato i Boeri, come mostrò Garibaldi, e come tutta la storia insegna, che non occorrono eserciti stanziali; e per queste, nutre l'Autore la fede che, mentre si combatterà il nemico di fuori, non vi sarà nessun "nemico di dentro, che ne approfitti per i suoi fini parricidi". Noi tutti - cittadini d'Italia - saremmo, per una guerra difensiva, alle frontiere. Ma poiché la guerra, si vinca o si perda, è sempre un flagello terribile, noi non vogliamo la Triplice, né alcun 'altra alleanza, che ' ogni alleanza costituisce incentivo ad essere trascinati, invasori o invasi, in guerre di fronte alle quali potremmo - con la politica di raccoglimento imfapensabile anche per lo sviluppo di tutte le nostre energie economiche - restare neutrali.

Un'efficace sintesi delle tesi socialiste, francamente demagogiche, per una neutralità disarmala, contro l'esercito permanente, per una guerra solo "difensiva" combattuta da masse di cittadini che accorrerebbero con (supposto) entusiasmo alle armi, per l'isolamento dell'Italia ecc_: esattamente l'opposto non solo delle tesi di E.R pur lodate, ma di qualsivoglia logica di sicurezza.

Il preminente fattore economico e l'evoluzione della società e della guerra nell'opuscolo "Le Istituzioni militari e le condizioni politico-sociali" (1898)40 Parafrasando il Marselli, E.B. esordisce con l'affermazione che i tentativi dello stesso Marselli, del Blanch, dello Zambelli, del Cousin ecc. di individuare le leggi di "evoluzione" della guerra non hanno potuto fornire una base salda alle ricerche, perché ''furono compiute in tempi in cui troppo bambine erano le scienze sociali" (il Marselli dice le identiche cose di tutti gli altri che l'hanno preceduto, con l'ambizione dichiarata di fornire una parola definitiva, che evidentemente non è riconosciuta come tale da E.B.). Oggi - prosegue E.B. - è tutt'altra cosa: i progressi delle scienze sociali consentono di cogliere indirettamente questa legge, che considerando le cose nelle loro grandi linee, a certi salienti caratteri politico - sociali, corrispondono

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Barone, Le Istituzioni militari e le condizioni politico-sociali. (Cit.), 1898.


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certi salienti caratteri militari; vale a dire che i motivi per cui si fa la guerra, il modo con cui è foggiato Jo strumento che si adopera, I' esercito, e il modo stesso come codesto strumento è impiegato - cioè la condotta deUa guerra - non sono che semplici sovrastrutture del complesso delle condizioni politiche e sociali, e di queste ultime seguono le variazioni. Quindi, alla successione dei fenomeni sociali bisogna riportarsi, per intendere la successione dei fenomeni militari".41

A loro volta, per E.B. le condizioni politico - sociali mutano per effetto di un fattore fondamentale: La forza. La storia dimostra, infatti, che il più forte tende sempre a trarre il massimo profitto dallo sfruttamento del più debole, quando è necessario mutando le forme dello sfruttamento per adottarne altre magari più morbide e progredhe, quindi capaci di dargli un rendimento maggiore; queste forme più miti non sono perciò da attribuire all ' ingentilirsi dei costumi o a sentimenti umanitari, bensì all'interesse stesso del vincitore. Sotto la necessità impellente di esercitare la forza o di difendersi da quella altrui sono sorte le prime embrionali forme sociali e militari. Le necessità di difesa e di attacco hanno costretto l'uomo ad unirsi ad altri in orde, a cominciare a stabilire un capo, una gerarchia, una disciplina, e a gettare le prime fondamenta della morale e dei costumi (consistenti nel proibire atti nocivi alla comunità e che potevano minarne la capacità di difesa). L'aumento della popolazione ha successivamente imposto il passaggio da una società di cacciatori a una di pastori, e poi a una di agricoltori. Con quest'ultima sono nati vari Stati con una classe dominante di guerrieri, che tendeva a invadere il territorio di una o più tribù per sottomettere la popolazione autoctona imponendole di coltivare la terra, mentre a sé riservava le funzioni dirigenti. Da allora in poi è rimasta la divisione della società in classi dominanti e dominate. E mentre i popoli di cacciatori o pastori uccidevano o mangiavano le genti sottomesse, con le società agricole il vincitore ha trovato più conveniente costringere i vinti al lavoro della terra. Oltre che lo Stato (il quale è "L'organizzazione di una minoranza dominatrice per tenere soggetta la minoranza dominata"), dalle società agricole sono nati il Diritto (che è "un complesso di istituti, di cui la minoranza si vale per tenere a freno la maggioranza là ove le sanzioni della morale non bastano" ) e le caste.

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ivi, p. VII .


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Per ordinare e amministrare meglio lo Stato, la classe dominante di guerrieri ha ritenuto conveniente dividere il potere con i sacerdoti, il cui ruolo sociale corrispondeva a quello delle attuali professionj liberali_ Infine, tra i proprietari - guerrieri e i servi o schiavi si è inserita a poco a poco una terza classe, quella dei commercianti e artigiani, titolari dj una crescente ricchezza mobiliare che li ha fatti ben presto entrare in conflitto con i possessori della ricchezza immobiliare. La loro lotta ha dato origine a due tipi di Stati: que11i - di tipo feudale - dominati dai proprietari terrieri, la cui società è rimasta di tipo militare e la cui politica estera non si è curata degli aspetti economici ma della gloria e della potenza, e quelJi nei quali la classe dirigente era, al contrario, assorbita dalle attività economiche, affidando la guerra a dei mercenari. Nelle lotte tra piccoli Stati guerrieri di tipo feudale la prevalenza del più forte ha portato alla nascita di grandi Stati con poteri fortemente accentrati; a loro volla, per diverse ragioni quest'ultimi si sono dissolti facendo di nuovo rinascere la feudalità. L'interruzione del ciclo ternario feudalesimo - accentramento in un grande Stato - dissoluzione è dovuto alla rivoluzione industriale, che ha sostituito il lavoro dell'uomo con quello della macchina. Ne è derivata una ancor più marcata prevalenza della ricchezza mobiliare, che anziché con i vecchi metodi schiavistici di sfruttamento poteva essere meglio incrementata - sempre a vantaggio delle classi dirigenti - con l'imposta; al più forte è bastato quindi impossessarsi del diritto d'imposta, lasciando per il resto maggiore libertà ai singoli. Con l'aumento della ricchezza mobiliare così ottenuto è aumentato anche il peso politico della classe media, al cui appoggio le monarchie assolute hanno fatto ricorso per imporsi alla vecchia aristocrazia terriera. Una volta consolidatesi, le monarchie assolute hanno lottato tra loro per allargare la base d'imposta: è questa la ragione delle cosiddette "guerre di r:abinetto" del secolo XVill. Anche la Rivoluzione Francese va spiegata in termini economici: essa è dovuta alle lotte che la borghesia ha sostenuto con la vecchia nobiltà feudale, contro la quale "ha scagliato l'onda delle passioni popolari, da cui ora essa medesima si vede trascinata e minacciata". Infine, il tramonto delle monarchie assolute dimostra ancora una volta che l'anima vera de1le trasformazioni sociali risiede nei cambiamenti dei rapporti dj produzione che avvengono per ragioni ineluttabili, il cui movente è sempre l'interesse del vincitore, non è mai il minor danno del vinto. Con il crescente peso delle masse popolari nel governo degli Stati, da un lato i proventi delle imposte non sono più proprietà dei governanti ma vengono destinati aj servizi pubblici; da1l'altro il vincitore non cerca più il governo del vinto per sfruttarlo con l'imposta, ma ricorre a un nuo-


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vo strumento dj dominazione: un vasto e perfezionato sistema di credito, il quale gli consente "di imporre e di ottenere, in una volta sola, contribuzioni colossali che mai avrebbe potuto ottenere col sistema proprio dei governi assoluti".42 In questo quadro la guerra ha agito (motivo anche questo marselliano) come fattore di progresso, perché ha facilitato la trasformazione della società e il passaggio a forme più remunerative di soggezione da parte del più forte; ma anche quando lo sfruttamento economico non ne è stato il principale movente, i suoi effelli lo hanno facilitato, e in definitiva sono sempre stati di carattere economico: "il non avere fatto questa osservazione - lo avere, cioè. scambiato l'effetto per La causa - ha condotto il determinismo econornico I marxista - N.d.a.J alle sue affrettate generalizzazioni".43 Nonostante questo attacco al determinismo economico marxista - o meglio a certe sue interpretazioni - si deve constatare che quella di E.B. è a sua volta una forma particolare - sia pur diversa da quella marxista - di materialismo storico, che si distingue dall'evoluzionismo del Marselli (e dei positivisti ai quali quest'ultimo si ispira) solo per essere ancor più positivista. Tuttavia egli sente il bisogno di precisare che l'evoluzione alla quale ha accennato è dovuta a motivi essenzialmente economici, ma non esclusivamente economici: siamo ben Lungi dal negare che in questa evoluzione il sentimento abbia avuto parte. Siamo ben lontani dall'aderire a quella fredda, sconsolata e unilaterale dottrina - il determinismo economico - che esclusivamente nel fatto economico vuol rintracciare il motore segreto della evoluzione umana. Noi. in questa - come direm meglio fra poco - diamo La pane che spetta al senrimemo ed aJ?li uomini che di esso furono J?li ispiratori o gli emi. Diciamo solo che, in questo campo, il sentimento non ha creato, perché non poteva crearle, nuove forme più miti di servaf?J?io; esso non ha fallo che accelerarne l'avvento, allorché J?ià le cause più profonde della tra.~formazione cominciavano a maturarsi. 44

Nonostante questa ammissione, il sentimento, le passioni umane per E.B. continuano ad avere un ruolo del tutto residuale, visto che, al massi-

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ivi, p. XVII. ivi, p. XVI. 44 ivi, p. Xlii. 43


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mo, sono dei correttivi che non intaccano le trasformazioni sociali, né incido:10 seriamente sulle loro cause motrici, che è quel che importa. La sua correzione di rotta è dunque tautologica e contradditoria, visto che neppure il positivista più convinto potrebbe negare che, nei singoli come nelle società, esistono delle passioni, dei sentimenti. È un fatto che E.B. - proprio come gli anarchici - ha presentato lo Stato e il Diritto esclusivamente come strumento delle classi dominanti per tenere soggette e sfruttare meglio le classi subalterne. Perciò egli potrebbe dimostrare di non essere un materialista storico, solo se ammettesse - cosa che non fa - che le trasformazioni sociali sono dovute a un complesso di fattori, nei quali il fattore economico, anche se sempre importante, non necessariamente è determinante o esclusivo, così come non può essere sempre determinante ed esclusiva la prevalenza degli interessi delle classi dominanti. E dove va a finire, in un quadro dominato da fattori economici, il principio della "mutua dipendenza" a lui tanto caro? Questo approccio storico di carattere materialista viene del resto da lui trasferito all'attualità economica, indicando lo Stato come espressione degli interessi di una classe dominante e il governo come un organismo che, anziché dirigere, in realtà obbedisce a tali interessi. Ci si deve perciò chiedere dove e come l'organismo militare, inevitabile espressione di un siffatto Stato e di una siffatta società nei quali predominano interessi e fattori materiali, dovrebbe attingere quell'alto profilo morale e spirituale che anche E.B. gli richiede tassativamente, tra l'altro negando - con evidente incoerenza - l'incidenza determinante dei fattori di carattere materiale. In una società progressivamente dominata dalle macchine che sostituiscono l'uomo, non dovrebbero forse essere queste ultime il motore principale, se non unico, dell'evoluzione dell'arte militare e degli ordinamenti? Nonostante le contraddizioni E.B. dà il meglio di sé quando descrive i mutamenti dell'arte della guerra e soprattutto degli ordinamenti, in relazione ai fenomeni sociali descritti. Alessandro - egli ricorda - ha avuto buon gioco contro il coacervo male amalgamato di satrapie sacerdotali del1'0riente; Roma e Sparta sono stati due tipici esempi di società militari; ed è facile capire perché Roma ha avuto la meglio su Cartagine, società di mercanti basata su princip'ì opposti a quelli militari; agevole sarà poi spiegarvi lo sf asciamento delle istituzioni militari romane; e le istituzioni militari del Medio Evo, che sulle rovine di quelle si adergono, non vi nasconderanno l'intima lor ragione d'essere. E quando sarete al risorgimento dell'arte militare [nel Rinascimento, al ternùne dell' età feudale basata sull' individualismo di pochi cavalieri,


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coperti di costose armature, ai quali era riservata l'arte della guerra N.d.a.], non avrete certo l'ingenuità di attribuire all'invenzione delle armi da fuoco una trasformazione, che è dovuta a cause sociali ben più importanti, e delle quali l'invenzione medesima non è che una superficiale manifestazione. [nostra sottolineatura - N.d.a.).45

Quest' u1tima affermazione è importante, perché da una parte avvicina E.B. al Marselli, e dall'altra lo distacca da positivisti militari come lo Zambelli, il Cattaneo e lo stesso Blanch. Essa equivale a dire che il vero fattore di trasformazione è stato lo sviluppo della borghesia produttiva e quindi di istituzioni politico - sociali sempre più de mocratiche. Ai caratteri della guerra nell'età d'oro delle monarchie assolute, che va da11a seconda metà del secolo XVII ai primi anni del secolo XVIII ed è dominata dalla figura di Luigi XIV, E.B. dedica un certo spazio. Si tratta di guerre non nazionali e non popolari, combattute appunto da mercenari, alle quali i sudditi si manteneva no estranei, limitandosi a pagare le imposte. Di conseguenza, non si ricorre più al sistema di vivere sul Paese e si ammassano i rifornimenti in magazzini spesso collocati dentro le fortezze. G1i assedi diventano frequenti e i movimenti solo a breve raggio, perché vincolati ai magazzini. Le battaglie sono rare, perché gli scopi della guerra sono limitati, mentre gli eserciti sono costosi e difficili da ricostituire: "infondo, La guerra è spesso una speculazione economica, di cui i profitti non coprirebbero il costo, qualora del soldato non sì facesse parsimonia". In un siffatto contesto la strategia non mira a schiacciare l'avversario ma a costringerlo a ripiegare senza combattere; assume grande importanza anche la protezione delle comunicazioni, lungo le quali sono dislocati i magauini. La causa ultima di tale indirizzo del1'arte della guerra è una sola: la costituzione degli eserciti e il modo come la guerra era condotta, stavano in cosi intime correlazioni con le condizioni politico - sociali dell'epoca, che date queste, non era possibile che quella costituzione degli eserciti e quella condotta di guerra, a tal segno, che è agevole far discendere e l 'una e l'altra, con un procedimento semplicemente deduttivo, da poche premesse di indole sociale e politica. 46

45 46

ivi, p. xvm. ivi, p. XIX.


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Tant'è vero che, nella seconda metà del secolo XVIlJ Federico Il di Prussia ha "fatto molto" per superare questo sistema di guerra, ma ci è riuscito fino a un certo punto, perché non sussistevano ancora le condizioni politico-sociali indispensabili_ In particolare egli "non ha elevato a sistema il vivere sul paese - come pure fece incidentalmente nel 1757 nella marcia da Rosshach a Leuthen - e non ha operato a massa con azioni rapide e decisive Lnon è vero - a volte lo ha fatto, e lo ha teorizzato; vds_ VoL I cap_ I - N.d.a.], come, assai prima che Napoleone comparisse, avevano fatto i sommi condottieri delle età antiche" [ma come mai, allora, Annibale, con un esercito di mercenari al servizio di uno Stato non militare ma di commercianti e marinai, con la battaglia di Canne ha fissato un modello insuperabile di battaglia decisiva? - N.d.a.]. Solo la Rivoluzione Francese ha creato le premesse politico-sociali per un mutamento di fondo dell'arle militare, con il passaggio da Federico a Napoleone: nel campo sociale, alle nuove concessioni fatte alla gran massa della popolazione I ... I andarono compa1:ni nuovi obblighi, e nacque la coscrizione; e con questa, il materiale umano. mi sia concessa la frase, potette essere impiegato nella guerra con ben altra prodigalità che non potesse fare Federico. Con l' irrompere delle masse popolari nel governo della cosa pubblica, la guerra poté.fare assegnamento su più grandi risorse. Un notevole cambiamento avvenne non soltanto nelle istituzioni militari, ma anche nella condot.ta della guerra. 47

A proposito del peso delle grandi figure di condottieri - e quindi anche di Napoleone - in queste trasformazioni, E.B. osserva che "ciò che di peggio possa capilare al maestro, è di avere discepoli che ne esagerino il pensiero"; quindi ammonisce i suoi allievi a non esagerare anche su questo argomento, negando - in base a ciò che ha detto - l'importanza delle personalità storiche e della loro opera. Questo perché la gran massa de1:li uomini subisce gli influssi dell'ambiente; ma per fortuna, ve ne sono stati e ve ne sono in tutti i tempi, [degli uomini/ i quali, con più o meno ener~ia, contro L'ambiente reagiscono e lo sanno foggiare secondo i loro fini. Costoro - codesti privilegiati - la fanno la storia; e sarebbe un travisare del tutto La realtà se dell'azione di cote-

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ivi. p. XXI.


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sti uomini e delle qualità loro nelle vicende storiche non si tenesse il dovuto conto.

Quindi - aggiunge - si traviserebbe il suo pensiero se si pensasse che Napoleone, messo nelle condizioni di Federico, avrebbe anch'eg1i fatto ciò che fece Federico, e viceversa ... Anche le suddette precisazioni del Nostro appaiono contradditoric: la strategia di Napoleone - peraltro ispirata, per sua stessa ammissione, da quella deJle più grandi figure militari dell'antichità - è stata dettata almeno in prevalenza dal genio di questo condottiero italiano diventato francese, oppure dalle condizioni politico-sociali della Francia della Rivoluzione? Egli è stato "un privilegiato che ha fatto la storia"? non sarebbe stato più semplice - e più coerente - dire che in base al principio di mutua dipendenza dei fattori storici da lui slcsso enunciato, le grandi personalità storiche hanno avuto una loro influe nza, ma hanno anche avuto bisogno di un favorevole contesto politico - sociale? In fondo è ciò che sostiene anche il Marselli, il quale non ha mai scritto che vi sono dei personaggi eccezionali che '1anno la storia". Se è così, la storia non la fanno più i fattori di carattere economico, come finora ha cercato di dimostrare E.B. trascurando alquanto, anche in questo caso, i principi di mutua dipendenza legali alla complessità dell'evento storico, dei quali prima ci ha parlato il Martinez. Per queste ragioni il suo excursus pur fornendo spunti di notevole interesse, mantiene gli stessi limiti dell 'evoluzionismo positivista ai quali si richiama, senza aggiungere mollo di nuovo.

Il ruolo delle due Forze Armate e i presupposti economici della spesa militare Da fine secolo XIX all'inizio della prima guerra mondiale le agitazioni sociali dovute alla miseria delle classi lavoratrici, il dissesto del bilancio dello Stato, l'elevala pressione fiscale a fronte di un ' economia povera di capitali, il frequente impiego dell ' esercito in ordine pubblico per supplire alla scarsità di Carabinieri, fanno nascere non solo nel movimento socialista ma anche nella borghesia correnti d'opinione pacifiste e antimilitariste, che vedono nelle Forze Armate un anacronostico ostacolo alla pace e al progresso sociale e nella spesa militare un inutile dispendio di risorse, sotlratle a impieghi più produttivi.


IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITAUANO • VOL lll (! 870-1915) - TOMO I

In piena coerenza con il suo concetto di guerra E.B. si oppone a queste idee, contestando la tesi che le spese militari sarebbero necessarie, ma improduttive. 48 Definizione a suo parere illogica e assurda, perché ciò che è necessario non può non essere anche produttivo: infatti se voglionsi considerare gli eserciti e le armate [navali] come strumenti di guerra, essi sono i primi produttori del mondo, perché le loro produzioni sono avvenimenti storici. La geografia politica del mondo l 'hanno fatta essi. In Italia hanno fatto l'Italia. Se anche non vogliate ammetterlo in modo assoluto, dovete ammettere che senza di essi non si sarebbe fatta. Tra un loro prodotto riuscito e uno fallito, cioè tra una vittoria e una sconfitta, stanno anni e anni di prosperità e di miseria, di potenza e di avvilimento, di egemonia e di vassallaggio per tutta la nazione. Qualche volta sta l'essere o il non essere.

Poiché ogni prodotto serve a soddisfare un bisogno o un desiderio, basterebbe abolire il bisogno e il desiderio di battersi, per rendere inutili forze militari: ma "disgraziatamente o fortunatamente (il decidere tra questi due avverbi ci porterebbe a una lunga digressione) i bisogni e i desideri crescono con La civiltà"; ne11' ultimo cinquantennio le guerre e rivoluzioni sono state frequenti, mentre gli ultimi avvenimenti internazionali dimostrano che "la guerra guadagna in estensione più che non perdere in intensità". In realtà le forze militari oltre ad essere indispensabili in guerra, anche in pace "concorrono indirettamente a tutte le produzioni perché L'ordine, La tranquillità, La certezza di godersi in pace il frutto del proprio lavoro sono condizioni indispensabili a tutti", specialmente a quelli che hanno qualcosa da difendere. I nemici dell'ordine sono anche nemici delle Forze Armate; ma anche la borghesia non comprende il loro ruolo, sì che grava sulle spalle dei militari "lo spinoso fardello di fare continuamente la guardia alla bottega che Li chiama vampiri". Riguardo alla spesa militare, comunque, la posizione di E.B. è tutt'altro che vicina a quella dei militaristi e navalisti duri e puri, che tendono a farne una sorta di variabile indipendente. Due i capisaldi del suo approccio: - lo Stato deve proteggere l'industria militare e sostenere la ricerca scientifica connessa quali che ne siano i costi, perché non può dipendere da altri Paesi per le esigenze della produzione di interesse militare (è questo l'unico caso nel quale una politica economica protezionista è conveniente);

.. Barone, Spese necessarie ma improduttive, in "La Preparazione" n. 57-8/9 giugno 1909_


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- poiché lo sviluppo economico è una successione di fasi depressive ed espansive, nella fase depressiva la spesa militare deve essere contenuta, perché la riduzione dei consumi e salari induce a una politica di "raccoglimento " e favorisce l' antinùlitarismo. Il contrario deve avvenire nella fase espansiva, invece caratterizzata da una psicologia collettiva che spinge all'imperialismo e alla colonizzazione. In questo quadro la guerra - o anche solo l'aspettativa di una guerra provoca una serie di turbative economiche, dovute ai mutamenti nella struttura produttiva e nell 'impiego dei capitali. agli spostamenti della forza-lavoro, all' inflazione derivante dal bisogno del governo di far fronte con nuova moneta al costo della g uerra. Queste turbative, però, per E.B. non si sottraggono alle leggi economiche di carattere generale, secondo le quali presto o tardi l'equilibrio economico turbato tende a ristabilirsi. Di conseguenza, l'intervento dello Stato durante le guerra è giusto e necessario, solo se è tale da favorire il rapido adattamento a un nuovo equilibrio dell'economia nazionale. che se lasciata a sé stessa la raggiungerebbe troppo tardi. Le concezioni generali prima descritte sono applicate da E.B. al caso specifico della guerra navale, che fa derivare dal ruolo economico essenziale del mare, ben esposto nel saggio del 1902 Il mare nella vita economica. 49 In quanto via di trasporto rapida e poco costosa, secondo E.B. il mare "ha determinato l'allargarsi mondiale del mercato con lo specializzarsi della produzione nei vari Stati"; ne sono derivati fenomeni di grande portata economica e sociale che possono essere riassunti nella constatazione che "è il grande livellatore del saggio d'interesse, dei salari, delle rendite terriere". Esso ha corroso i I reddito terriero e ingigantito quello mobiliare, consentendo il trasporto di prodotti agricoli a basso prezzo dai paesi meno popolati a quelli con agricoltura intens iva e perciò con prezzi più alti; di conseguenza quest' ultimi sono stati e saranno sempre più costretti a diventare paesi industriali , a loro volta avvalendosi del mare per esportare i loro prodotti . In questa s ituazione, l' Italia deve recuperare le antiche virtù che l'hanno fatta grande in ogni campo dal 1100 al 1400, e il cui progressivo affievolimento è stata causa de lla sua decadenza prima ancor che la scoperta del nuovo mondo. Dobbiamo recuperare l'amore per i traffici e le industrie e approfittare della nostra posizione privilegiata nel Mediterraneo, trasfor-

49 Barone, // mare nella vita eco11omica, in "La Riforma sociale" Anno [X Voi. X1J Fase. I - 15 gennaio 1902.


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LL PtNSltKU MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. IIJ ( 1870- 1915) mMO I

mandoci da Stato agricolo in Stato industriale ed espandendoci soprattutto in un mercato relativamente facile da conquistare come è quello dell' America latina, dove già si trovano molti italiani.so Questo potrà esser fatto con tenacia, perseveranza e una politica economica non protezionista, il cui risultato concreto si riassuma nell'ottenere il più basso costo di produz10ne. Con 1' aumento delle esportazioni aumenteranno necessariamente anche le importazioni, specie di grano e di carbone: ne deriva la necessità assoluta di proteggere il vitale traffico marittimo con una efficiente flotta militare, onde evitare che, in guerra, la resistenza della Nazione sia fiaccata prima ancora che essa abbia esaurito gli altri suoi mezzi di difesa. Per E.B. tra liberismo economico e forza navale non c'è antitesi, ma sussiste un rapporto molto stretto; infatti se la libertà economica crea la necessità di una forza navale, essa produce pure la ricchezza che è necessaria per costruirla e mantenerla. Esiste, invece, un'antitesi tra protezionismo e potenza navale: un'economia protezionista non ha bisogno di forze navali, però soffoca le attività produttive e non fornisce i mezzi per una flotta. Hanno torto i protezionisti agrari, secondo i quali bisogna produrre tutto, dato che in caso di guerra potremmo rimanere isolati. Occorre seguire invece la politica opposta: "mantenere aperte le vie del mare perché in esse è la prosperità e la ricchezza, e tenerci in misura di proteggerle con una.flotta ". Per quanto elevato sia il costo delle navi da guerra, esse costeranno sempre assai meno che rinunciare ai traffici intensi elevando dannose barriere commerciali. L' approccio economicistico al potere marittimo, ben più lungi mirante di quello del Bonamico, emerge ancor di più nella prefazione al libro La guerra in mare del capitano di corvetta Eugenio Bollati di Saint Pierre, già insegnante di arte militare marittima alla Scuola di Guerra di 'forino, e che pertanto lo dedica agli ufficiali dell'esercito.si Questa volta E.B., con una interpretazione originale delle teorie di Mahan, polemizza con coloro che danno della celebre opera dell'ammiraglio americano L'influenza del potere marittimo sulla storia ( 1890) una lettura troppo navalista e operativa, mirante a esaltare unicamente il ruolo delle forze navali:

"'Si veda, in merito, anche Barone, La espansione coloniale italiana nell'America Latina (a proposito di un receme libro) , in "Nuova At110/ogia" Voi. LXXX1IJ, Serie IV Fase. 666 - 16 seuembre 1899, pp. 277-295. Il libro a l quale E.B. fa riferimento è del suo amico Luigi Einaudi (Un principe mercati/e. Studio sul/·espansione coloniale italia11a, Torino, Bocca 1899-1900). " Cfr. Eugenio Bollati di Saint Pierrc, Uz guerra in mare, Torino, Casanova 1900.


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non è colpa di Mahan se il suo concetto è stato frainteso da coloro i quali ne parlano senza averlo studiato abbastanza; da coloro i quali credono avere egli dimostrato La gran parte che nelle grandi Lotte della storia moderna - specie quelle sostenute dall'Inghilterra contro La Francia di Luigi XIV e di Napoleone I - è spettata alle marine militari; mentre egli non hn dimostrato altro se non che la gran parte che in queste lotte hil rappresentato un rigoglioso sviluppo della ricchezza, dovuto in parte ai traffici I marittimi] e al predominio commerciale. La sua tesi è essen z.ialmente economica; la tesi militare, più ristre!Ja, della parte spettante alle marine da guerra in codeste Lotte, non entra nella sua indagine che i11dirr,11a111ente, ed attraverso a molte altre proposiz.ioni intermedie. i11 quanto le marine militari furono mezzo per proteggere e conservare quel predominio commerciale, che fu effetto di ben più complesse e ben più remote ragioni.52

Dopo quella di Mahan E.B. prende in esame anche l'opera del generale Callwell Gli effetti del dominio del mare sulle operazioni terrestri da Waterloo in poi ( 1897), 53 accusando non a torto il generale inglese, e ancor più i suoi seguaci, di a vere ''sforzato talvolta i fatti, per far loro dire ciò che in realtà essi non dicono". La sostanza delle sue tesi è che "anche le marine da guerra. e non gli eserciti soltanto, in certe determinate circostanze hanno contribuito al successo finale, pur là dove a prima vista a un osservatore superficiale non 11arrebbe "; invece i seguaci del Callwell, travisando le sue tesi, hanno sostenuto che in tutti i casi la conquista del dominio del mare è causa essenziale del successo in campo terrestre. In proposito secondo E.B ., bisogna distinguere due casi: gli Stati belligeranti hanno in comune solo la frontiera marittima e non quella terrestre, oppure hanno in comune ambedue le frontiere. Nel primo caso la conquista del dominio del mare è condizione necessaria ma non sufficiente per la vittoria, che può essere ottenuta solo battendo l'avversario anche in campo terrestre. Nel secondo caso alla via del mare ricorre il più forte, quando non trova il modo di impiegare efficacemente tutte le sue forze terrestri. Dopo aver conquistato il dominio del mare, infatti, impiegando le sue forze terrestri esuberanti per sbarchi sul territorio del nemico, può costringerlo a impiegare per la difesa terrestre delle coste maggiori forze di

52 ivi, p. Xli I. '-' Cfr. gen. Charlcs E. Ca llwcll , Ciii ef]è11i d<'t dominio del mare sulle operazioni Ierreslri da Wa terloo in poi ( 1897) - Prima Ed. ilaliana 1898 (Torino, Casanova) ; Seconda Ed. italiana 1996 (Roma, Fomm di Relazio ni Internazionali).


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quelle da lui inizialmente destinate allo sbarco, perché non è più in grado di contrastare con la flotta gli sbarchi: in tal modo il più debole in campo terrestre indebolirebbe ulteriormente il fronte terrestre principale. E.B. si differenzia dal Mahan anche per un atteggiamento più flessibile riguardo alla battaglia a forze riunite. Certo, bisogna battere la flotta nemica, ma questo non esclude la probabilità che la flotta più debole accetti il combattimento solo quando e dove la situazione è ad essa favorevole; in proposito ritiene perciò che gli studi di arte militare marittima siano più arretrati di quelli in campo terrestre, e fa riferimento pur senza mostrare di condividerle alle teorie della Jeune École Navale francese, contrarie alla guerra navale di squadra. Con queste concezioni teoriche E.B. dimostra una certa flessibilità soprattutto per gli aspetti economici del problema militare, ancora una volta dimostrando che il suo è un liberismo non dogmatico, non assoluto ma sempre da riferire a una realtà nazionale che può anche richiedere, ali' occorrenza, appropriati interventi statali. Così facendo differenzia le sue posizioni da quelle di taluni economisti antiprotezionisti del tempo, che vedono nei capitali destinati alla difesa e/o negli aiuti all' industria militare sempre e in ogni caso un onere improduttivo per il bilancio.

La polemica con Jean Bloch sulla guerra futura, gli svantaggi della pace e i vantaggi delle colonie Nel secondo degli opuscoli citati, La guerra e l'ascensione economica, E.B. ancora in polemica con Jean Bloch sviluppa tesi senz'altro più originali ma assai più discutibili, intendendo dimostrare che dal punto di vista economico la guerra non è poi un cattivo affare, né causa i lutti e le rovine che molti temono. A sua volta la pace non è così vantaggiosa come si potrebbe credere; e anche le guerre coloniali almeno a certe condizioni sono vantaggiose e necessarie (siamo nel 1912, cioè all'epoca della guerra di Libia alla quale, come si è visto, egli è favorevole). Riprendendo talune argomentazioni dei suoi primi scritti militari (Cfr. sz. I), E.B. obietta al Bloch che le perdite più che dalla potenza intrinseca delle armi dipendono dalla resistenza, dalla volontà di combattere delle truppe; bisogna però tenere conto che lo spirito combattivo negli eserciti moderni tende a diminuire, rendendo così le guerre meno lunghe e meno cruente. Ne consegue che "le perdite economiche che la guerra infligge, non tanto dipendono dal fatto obiettivo della riccheua, ora aumentata, e dall'intensità degli scambi, or divenuta più folta, quanto dipendono dalla


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resistenza economica di quella delle due parLL in contesa che l'ha minore". 54 E così come le truppe di oggi hanno minore resistenza alle perdite, "gli ordinamenti democratici di oggi hanno, in generale, una minore resistenza alle distruzioni di ricche:ua, che non avessero organamenti politici d 'altri tempi ", e in tal modo concorrono anch'essi a diminuire la durata e quindi i danni delle guerre _55 In fondo, secondo E_B_ nell'ultimo cinquantennio (cioè dalla guerra del 1859 alla guerra russo-giapponese 1904-1905) sono stati perduti 60 milioni di capitali co!l 3 milioni di vite umane. ciò che equivale a una perdita media annua di 60 mila uomini e 1200 milioni_ Inoltre bisogna considerare che solo 1h delle vittime de lle guerre è dovuto a ferite, mentre i 2h sono da attribuire a malattie e privazioni ; nè le guerre provocano alterazioni permanenti nei programmi demografici, perché le perdite sono rapidamente colmate con un incremento della natalità nel dopoguerra. KB. rileva anche che la ricchezza degli Stati moderni più progrediti è in grandissima parte composta da capitali fi ssi sui quali l'azione devastatrice della guerra ha scarsa presa, me ntre ad essa si sottrae interamente l'ingente massa di capitali investiti all ' estero_ ln de finitiva, "la falce della guerra non conosce altro 111r.ur che quella dei prodotti consumabili e delle materie prime; il capitale circolante, insomma",- tulle le altre forme d'investimento ne sono coinvolte solo in modo non rilevante. Questo fatto spiega perché poche settimane dopo la sconfitta nella guerra 1870-1871 la macchina economica francese ha ripreso a funzionare a pieno regime; per lubrificarla è stato sufficient e far rinuire in patria una parte degli ingenti capitali investiti ali' estero. L'economia della Russia ha risentito della guerra 1877-1878 e della guerra russo-giapponese in misura molto maggiore; ma questo è avvenuto perché in quel paese la quantità di capitali fi ssi rispetto al totale era assai minore di quella francese. Se ne deduce che i Paesi poveri risentono delle guerre più dei paesi ricchi; ma questa "è la riprova del teorema che ahhiumo enunciato.- lungi dal crescere, la distruzione di ricche:ua in proporzione della ricche:ua stessa lcome sostiene Bloch - N.d_a_], ella segue una pmgressività a rovescio. È la bancarotta delle teoriche del signor Bloch e soci". Dopo aver te ntato di dimostrare che la guerra, sme ntendo il catastrofismo di Bloch e dei pacifisti , ha costi economici e sociali limitati, E_B. fa risaltare - pe r contrasto - g li ingenti danni economic i e sociali che si veri-

54

0

Barone, l..11 !,:l ll'rm 11el/ f/\1"1'11.1imw l'co,ro mica (cit.). p. 12 . " IBIDEM.


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ficano in tempo di pace solo per effetto di tre fenomeni: la libera concorrenza, le periodiche crisi economiche e l'emigrazione. La libera concorrenza, che pure è fattore di progresso e arreca alla società benefici maggiori dei pur gravi danni che produce, assicura la prevalenza solo degli industriali più capaci, quindi schiaccia i più deboli, "seminando il campo di rovine e morti ben altrimenti che, di tanto in tanto, non faccia la guerra", con un numero molto elevato di falliti e di suicidi. Le crisi economiche, che si verificano ciclicamente quasi di decennio in decennio e che nessuno - nemmeno il Ministro della produzione in uno Stalo collettivista - potrebbe evitare, sono connesse al dinamismo dei mercati e al progresso economico; ma anch'esse distruggono inesorabilmente gli organismi più deboli. Un altro aspetto negativo è la viricoltura (cioè "la sregolata produzione di uomini in senso economico", spesso causata da un basso tenore di vita), che provoca un aumento di mortalità e specie per l'Italia, una dannosa emigrazione che ci costa circa 500 milioni all'anno per "spese di allevamento " dei lavoratori, senza essere compensata del tutto dalle rimesse degli emigranti. A causa di un siffatto salasso il nostro popolo, pur essendo frugale e attivo, in tanti anni ha potuto accrescere ben poco la sua ricchezza mobiliare e fondi aria; a ciò si aggiungano i danni indiretti che derivano all'economia nazionale dall'esportazione di "miseri e di pezzenti ", attraverso i quali noi italiani siamo mal giudicati dagli stranieri. E.B. insiste molto su un ultimo, forte inconveniente: i riflessi della mancanza di disciplina sociale, che sarebbe favorita dai lunghi periodi di pace. Si tratla di un fenomeno trascurato dagli economisti, i quali quando parlano di uomo, terra, risparmio ed organamento come fattore di produzione, fanno una elencazione semplicistica e primitiva, cui molti altri fattori importantissimi sfuggono. Massime uno: la disciplina sociale. Quando questa faccia difetto, sono enormi le distruzioni di ricchezza che ne derivano: e non tanto di ricchezze prodotte e distrutte, quanto di ricchezze che si sarebbero potuto produrre e non si producono. 56

Disciplina sociale significa rispetto della gerarchia dal basso, e "sentimenti di simpatia e di benevolenza" dall'alto. Si tratta di due forze di primissimo ordine, che non sono solo connettive dal punto di vista sociale, ma produttive nell'ordine economico. Se esse vengono meno, i piani alti

56

ivi, p. 20.


_ __ _ _ _V .!..:..,-1,,_ L.,_, Pl"Ù-'-'ILL "- =,US,_,_ T""'RE EMULO DEL MARSELLI: ENRICO BARO =N'-" F.' - - - - - - - - -- - - - - - '5"---'l'---'1

della gerarchia sociale si dedicano alla "ricerca violenta dell'utile proprio" oppure "degenerano in un molle sdolcinato sentimentalismo, per cui diventano pavidi difronte al foltissimo gregge delle bassure, e perdono lo spirito pugnace a difendere le loro acropoli, e corteggiano il demos [... ] e, inebetiti dal narcotico umanitario, quasi si stupiscono che, a sostenerli sugli incerti fastigi, si profferisca ancora da qualche bocca forte una maschia parola ". Per evitare queste jatture occorre garantire un continuo ricambio della classe dirigente, con i più degni che dal basso abbiano la possibilità di sostituire i meno degni in alto, ascendendo a tutta la piram ide sociale e non solo al suo vertice: se questo processo si arresta o rita rda, l'equilibrio sociale diventa instabile e covano le rivoluzioni . Ma se tutti vogJjono comandare e nessuno sa obbedire, questa è anarchia; questo è il modo di cagionare 1111 'incredibile distruzione di ricchezze. Le democrazie sono già, per loro natura, sperperatrici: ciascun partito che vuole conquistare il potere, sa hN1r ,·hr a dar la scalata, basta esagerare le promesse dei suoi rivali: e, nelle democrazie, il potere è instabile assai e il pensiero politico 11w11c·a di ('()ntinuità; incapaci di perseguire il maggior utile lontano. le democrazie preferiscono il più prossimo, anche se minore, e si muovono soltanto sotto l 'impulso dell'ora urgente.51

Purtroppo - prosegue E.B. - nelle lunghe paci queste degenerazioni sono favorite, perché spesso - anche se non sempre - la selezione sociale avviene alla rovescia: tendono a prevalere l'egoismo, la mancanza di scrupoli, la servilità e la simu1azione, mentre "le alte virtù connettive sono spesso una causa di debolezza individuale, non già di forza ... Solo la guerra, solo le grandi calamità fanno emergere gli uo mini migliori; non per nulla la vittoria è di quei popoli, che posseggono la più salda disciplina sociale .. . Queste concezioni di carattere generale determinano anche la sua posizione sul problema delle colonie. Nel 1909, tre anni prima della guerra di Libia,58 polemizza con l'on. Chiesa che si dichiara "un anticoloniale irriducibile", richiamandosi a un'affermazione del francese Guiot secondo il quale per essere una grande potenza non c'è affauo bisogno di avere co-

" ivi, p. 22. '" Barone, Le cnlo11ie e la potenza del Paese , in "la Preparazit,111•" 1-2 lug lio 1909.


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Ionie. Egli obietta che è legittimo dubitare dei vantaggi economici che la Francia, paese poco popolato e senza emigrazione, ha tratto dal suo fin troppo vasto impero coloniale, ma ciò che non va bene per un Paese, può andare bene un altro: in particolare "La migliore e la più proficua colonia della Francia è la Tunisia, perché? Perché la popolano e la coltivano gli italiani. l quali popolerebbero e coltiverebbero tutta la costa settentrionale dell'Africa, se non vi incontrassero ostacoli politici e fossero un poco più forniti di risparmio". Rispetto alle altre nazioni del Mediterraneo,

l'Italia si trova nelle migliori condizioni per colonizzare dei territori oltremare: ha solo bisogno di avere più capitali. Perciò "non oggi, ripetiamo, ma in un avvenire abbastanza prossimo, se non si arresterà il lato ascendente della nostra razza, potremo rivolgere l'esuberanza delle nostre attività verso il mare", con le spalle ben protette dalla barriera delle Alpi.

Nell'opuscolo in esame le difficoltà di fine secolo XIX non sussistono più: sul piano generale, l'espansione diventa " una necessità ineluttabile quando un Paese fcome sarebbe ormai, l'Italia in quel momento - N.d.a.] dopo essersi tra.sformato da agricolo in industriale (sic) - sul punto di uscire dalla tremenda crisi che accompagna il transito faticoso dai campi alle officine - si affaccia, tiepido, alle grandi competizioni internazionali ". 59 In

questo caso proprio la distruzione di vite umane e di ricchezze provocate dalla guerra "serve ad affrettare L'uscita da una crisi che di vite umane e di ricchezze è ben più fiera vendemmiatrice ", e 1' espansione si impone per gli stessi motivi che durante la crisi imponevano il raccoglimento. Di qui la polemica contro i pacifisti e gli anticolonialisti, i quali sostengono la "penetrazione pacifica ", imperniano le loro tesi sul motto emigrazione sì, colonizzazione no e fanno dilemmi puerili, e ragionano come se vivessimo in regime di Libero scambio universale e in un mondo di lattemiele. Affermano I... I che La colonizzazione è effetto d 'insaziata febbre del capitalismo moderno; e che, insomma, Le colonie sono inutili e dispendiose, e i Loro ipotetici vantaggi sociali sono irrisori di fronte alle spese, ai rischi, ai pericoli, alle continue complicazioni internazionali che provocano ogni giorno. 60

Particolare interessante, anche con queste espressioni polemiche E.B. si rivela favorevole alla guerra di Libia, ma non alla precedente guerra d'E-

'" Barone, La guerra 11el/'asce11sione economica (cit.), p. 26. ivi, p. 27.

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IL PIÙ 11.1.IJSTRE EMULO DEL MARSELLI: ENRICO~B=A=RO =N -'-'E' - - - -

ritrca infelicemente conclusasi con la sconfitta di Adua nel 1896. A suo avviso, le argomentazioni di coloro che al momento sono contrari all'espansione coloniale sono state favorite da "molti e gravi errori" del passato in materia di colonizzazione: i nostri errori derivano soprattutto dall'aver noi dimenticato questo, che quando c'è esuberanza di braccia e difettano i rispanni, è inutile parlare di colonizzazione Inostra sottolineatura - N.d.a.]; bisogna rassegnarsi alla piaga dell'emigrazione. Il nostro tentativo coloniale fu, quindici anni or sono, semplicemente prematuro. Oggi è tutt'altro. Come allora, in piena crisi di trasformazione, si imponeva il raccoglimento, oggi comincia ad imporsi l'espansione. Intendiamoci: io non dico che in Italia ci sia già tale abbondanza di ri..,parmio da poterne esportare una considerevole quantità. Ne abbiamo però quanto basta per inizia re, sia pure con moderato ritmo, l'opera di colonizzazione di una vasta contrada: perché non sempre si può comodameflle aspettare che prima una grunde abbondanza di rispa rmio si sia accumulata. Si rischierebbe di a rrivare troppo tardi. Questo appunto sarebbe accaduto a noi, se avessimo, un po' ancora, indugiato. Altri era già pronto a precederci[ ...]. Oggi l 'impresa coloniale è per noi una necessità; e non nell'interesse capitalista soltanto, ma nell'interesse collettivo di tutti. 61

Imprese coloniali sì, ma dove? con quale impegno economico e militare? la Libia di allora era veramente un territorio adatto per assorbire il grande esubero di braccia e il sempre modesto esubero di capitali dell'Italia? il quadro internazionale sempre più torbido del tempo consigliava di distrarre le poche risorse e forze militari valide dal teatro europeo? Sono queste le domande specifiche che le nuovo tesi del Nostro sul colonialismo lasciano senza risposta.

61

ivi, pp. 28-29.


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SEZIONE IV - Lu difesa terrestre e marittima dell'Italia all'inizio del secolo XX e i problemi del bilancio

I 1>ri11cipali nodi del problema militare negli scritti del periodo 1900-1908 E.B. è tra i pochi scrittori militari italiani d'ogni tempo a seguire un approccio interforze al problema militare, senza esclusivismi di Forza Armata.62A suo avviso, la strategia nazionale da adottare sia in campo terrestre che marittimo deve essere sostanzialmente basata sul principio della massa: non disseminare le forze per coprire una data ci uà o una data provincia, ma mantenerle riunite anche se il nemico penetra da qualche parte, in modo di aver maggiore probabilità di batterlo. In secondo luogo, le manovre strategiche devono essere decise senza tener conto delle pressioni della pubblica opinione, che nel 1848- 1849 hanno portato l'esercito piemontese alla sconfitta. In terzo luogo, come il Marsclli eg li soltolinca che per vince;;n: "è necessario preparare virilmeme lo spirito pubblico", perché le protagoniste delle guerre prima ancor c he gli eserciti sono ormai le nazioni. Come Bonamico, Ricci, Marselli e Perrucchctti, anch'egli è fautore di "un intimo coordinamento" di esercito e flolla nella difesa nazionale; ma sa ben distinguere tra c iò c he sarebbe necessario, e ciò che è concretamente possibile. A suo parere, per risolvere in modo soddisfacente il nostro problema militare è giocoforza ricorrere a idonee alleanze; nel frattempo non potendo avere contemporaneamente - come sarebbe necessario - un forte esercito e una forte marina, le soluzioni sono due: o un forte esercito e "una discreta flotta" (comunque superiore a quella del momento) o una forte flotta e un discreto esercito. Con quest' ultima soluzione sarebbe possibile fronteggiare bene le esigenze di una guerra contro la Francia ma non contro l'Austria, perché in questo caso la superiorità navale non potrebbe compensare l'inferiorità terrestre, dovuta anche alle caratteristiche del confine orientale che agevolano l'offensiva da Est. Invece, con un forte esercito e una discreta flotta si

62 Cfr. Barone, Prefazione a Eugenio Bollati di Saint Pierre, Op. cii., pp. XXII-XXV : Barone, lo spiri/o pubblico nella ,:uerra (cit.) ; ID, le for1ificazioni di Genova, in "Nuova Antologia" Voi. XVVIII - Serie IV Fase. 725 - I mano 1902, pp. 149- 155; ID, Armi e poli1ica ( a proposito del bilancio della guerra), in "Nuova Antologia" Voi CV - Serie IV Fase. 755 - I marzo 1903, pp. 444-453; ID., Per il problema militare, in "Nuova Anto logia" Voi. CXCIX Serie IV Fase. 796 - 16 febbraio 1905, pp. 710-715 ; ID., Che cosa urge, in "Nuova RivisLa di Fanteria" Anno I Fase. 111 - 15 settembre 1908, pp. 175- 183.


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pou·ebbe meglio far fronte alle esigenze di una guerra sia sul fronte est che sul fronte ovest, "perché, quando la nostra flotta non sia di troppo inferiore a quella avversaria, noi possiamo con una parte delle forze di terra, lasriate nella penisola, sopperire - fino a un certo segno - alla deficienza di flotta, affidando la difesa della nostra frontiera marittima a un ben coordinato concorso di navi, di truppe di terra e fortificazioni". L'esatto contrario di quanto sostengono Bonamico e gli scrittori navali in genere .... Tenendo presente che contro le nostre coste sono possibili due tipi di offesa (bombardamenti delle città marittime o sbarchi), sui primi E.B. è della stessa opinione del Bonamico e del Perrucchetti: in questo caso l'unica arma di difesa è la rappresaglia e un saldo spirito di resistenza della popolazione. Lo sbarco di forze considerevoli, invece, può essere effettuato dal nemico solo dopo aver conquistato il dominio pieno e assoluto del mare, distruggendo la nostra flotta o mantenendola bloccata per il tempo necessario in un porto; ma ''fino a quando la nostra flotta - sia pure inferiore di numero - possa tenere il mare e non si lasci bloccare e non manchi di spirito aggressivo, L'operazione di uno sbarco con forze considerevoli è estremamente arrischiata, perché il nemico la tenti". In altre parole. per E. B. la nostra flotta dovrebbe rimanere in being in una base ben forti licata (La Maddalena), nella quale i] nemico non possa bloccarla senza dividersi e non possa costringerla ad accettare battaglia, ma dalla quale sia in grado di uscire sia per attaccare una parte delle forze nemiche, sia per gettarsi con decisione, costi quel che costi, contro la flotta nemica, quando questa la trascuri per tentare grossi sbarchi. Anche su quest'ultimo aspetto E.B., pur non citandolo, manifesta idee analoghe a quelle del Bonamico; ma le posizioni ancora una volta si allontanano - e anzi la polemica diventa aperta - quando si tratta di stabilire più nel dettaglio il ruolo delle fori:e marittime e terrestri nella difesa della penisola e delle isole, e - di conseguenza - il rapporto tra consistenza delle forze terrestri e consistenza delle forze navali. Nel concreto egli ritiene che "una forte marina, nei limiti dei nostri mezzi, sia un complemento non solo utile, ma necessario, del nostro esercito ", già con questa affermazione escludendo la preminenza delle forze marittime. Perciò attacca "l'opera insana di certa stampa " navalista, che fa balenare il pericolo degli sbarchi nemici se non si rinforzerà la flotta. A suo avviso la flotta non riuscirebbe a impedire, da sola, tali sbarchi; nemmeno le forze terrestri potrebbero impedirli all' inizio, ma piuttosto dovrebbero gettare in mare il nemico dopo, quando sarà stato possibile concentrare rapidamente sulla zona di sbarco forze sufficienti rapidamente affluite da altri punti della penisola.


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Ne consegue che l'opinione pubblica deve essere preparata a subire senza traumi il successo iniziale degli sbarchi; di qui un 'altra dura condanna per la stampa navalista, che mira a far credere due cose non vere: che la perdita della flotta equivarrebbe alla definitiva caduta dell ' Italia e che la guerra con la Francia sarebbe perduta in partenza se la nostra flotta non uguagliasse quella francese, in tal modo "sminuendo nel concetto del Paese qualsiasi altra opera che 11011 sia quella che si riassume nella espressione: navi, navi, navi". Da Bonamico, che avrebbe voluto fortificare solo le hasi navali principali, E.B. si discosta anche sul ruolo delle fortificazioni. Sostiene la necessità di ammodernare le fortificazioni di Genova e di ampliare quelle di Piacenza, in modo da fare della fronte Genova-Piacenza una salda seconda posizione difensiva ove ripieghere hhe un eserc ito eventualmente sconfitto sulle Alpi Occidentali, per poi tentare una controffensiva sull ' una o sull'altra sponda del Po. Anche per le esigenze della guerra marittima le fortificazioni costiere - come scrive Mahan nelle lezioni della guerra ispano-americana - sono necessarie, perché consentono alle forze navali di adempiere alla loro vera mi ssione, che è solo di combattere in mare aperto: "dare a una .flotta ceri i dclcrminati obiettivi territoriali da coprire, sarebbe sciupare l'efficace azione del 'elemento essenzialmente mobile, per volere che esso adempia le ji111zio11i dell'elemento essenzialmente fisso" . Siamo agli antipodi delle idee del Bonamico, anche perché, oltre a non ritenere che la flotta possa bastare da sola alla nostra difesa marittima, da buon economista E.B. non trascura affatto i gravissimi danni che deriverebbero alla nostra economia dall ' interruzione dei traffici marittimi, come avverrebbe se non si cercasse almeno di contrastare al nemico il dominio del mare. La polemica tra i due raggiunge il culmine (anche se continuano a non citarsi) a proposito della riforma dell'eserc ito e degli stanziamenti per le due Forze Armate. Nel Problema marillimo dell'Italia (1899-Tomo II cap. I) Bonamico propone, in buona sostanza, di ridurre l'esercito per recuperare fondi a favore della marina, alla quale vorrebbe affidare praticamente per intero la difesa dell'Italia peninsulare e delle isole. A questa tesi sostenuta anche dal Ricci e dal Perruccheui E.B. replica duramente, presentandola come tipica "degli industriali, cioè dei cantieri e dei loro rappresentanti [nei quali, evidentemente, include lo stesso Bonamico - N.d.a.l ", quindi tale da non rappresentare affatto le aspirazioni dei veri marinari. E aggiunge: non meno di questi ultimi, noi siamo convinti della opportunità di una salda marina; come, non meno di noi, essi sono cu11vinti che a codestu


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ideale non si debba punto tendere anche a costo della rovina dell'esercito. I veri marinari non hanno questo di mira: coloro che, palesemenll' o con abili sottintesi, si fanno campioni di questa tendenza industriale, hanno altri scopi sui quali non dobbiamo qui fermarci.

Bonamico replica a sua volta ricordando che nel Problema marittimo de/l'Italia accanto alla perequazione dei bilanci a favore della marina aveva ritenuto necessaria una spesa di ben 300 milioni all'anno per l'esercito. 11 c.:he è vero: ma sembra trascurare che, se ha proposto di aumentare di 50 milioni il bilancio annuale di esercito e marina fino alla rispettiva proporzione di 300 e 150, ha anche ritenuto necessaria un'assegnazione straordinaria di 300 milioni per la sola marina.63 Le ragioni per cui E.B. è contrario a qualsiasi riduzione dell'esercito sono due: una di politica estera e una di politica interna. Una politica estera attiva come quella italiana del momento richiede forti armamenti, quindi necessitano forze terrestri adeguate agli impegni di politica estera già assunti. D 'altro canto le Alpi hanno elevato valore difensivo solo dalla parte della Francia: assai di meno dalla parte della Svizzera, e ancor di meno dalla parte dell' Austria. Sarebbe perciò un errore se, pur essendo alleati dell'Austria, non preparassimo un esercito sufficientemente valido anche per l' ipotesi di una guerra alla frontiera orientale (che pertanto va fortificata, così come sta facendo del resto la stessa Austria [Bonamico invece non la riteneva pericolosa - N.d.a.]). Senza contare che "non è nelle ipotesi impossibili" che la Svizzera possa prendere parte a una guerra nell'Europa centrale, e in tal caso una manovra aggirante nelle Alpi centrali paralizzerebbe il nostro schieramento. Dal punto di vista della politica interna secondo E.B. la realtà del momento non consente di evitare l'impiego dell 'esercito in ordine pubblico (come auspicano alcuni scrittori militari, tra i quali il Marselli e il Perrucchetti): questo richiederebbe un aumento dei Carabinieri che non è sostenibile dal bilancio dello Stato. Pertanto non è possibile ridurre la forza di pace dell'esercito, tant'è vero che, proprio per far fronte a queste specifiche esigenze, di recente si è reso necessario addirittura richiamare delle classi in congedo. Oltre che da Bonamico, E.B. dissente anche da coloro che spacciano illusioni, sostenendo la possibilità di ottenere cospicui risparmi sul bilan63 Per una visione più approfondita delle idee di Bonamico sul problema Cfr. Domenico Bonamico, Scritti sui pntere marittimo (Cit.), pp. 477-562 e ID., recensione allo studio de l tenente di vascello Santoro Navi o battaglioni ?, in " Rivi.,ta Marittima" 1904, Voi. I Fase. I, P- 224_


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cio dell'esercito solo con idonee riforme che non intacchino la sua "parte viva", cioè le unità operative; in questo, perciò, implicitamente dissente anche dal Marselli. A suo giudizio il problema militare non è solamente una questione di economia e finanza , né i confronti con la spesa militare di altri Stati sono agevoli perché il bilancio militare di ciascun Paese è funzione di parecchie variabili non sempre ben quantificabili: tutto dipende dai compiti, dalle funzioni che si intende assegnare a una Forza Armata. ln ogni caso "la facoltà di far valere le proprie ragioni, quando occorra, ali'estero; la libertà massima, compatibile col mantenimento dell'ordine all'interno, sono beni che costano. Se il Paese 110 11 si sente di mantenere il loro costo, lo dica, e rinunzi a quei beni; ma 11011 si illuda di poterli conservare senza i sacrifici che essi ric:hiedmw ". Tuttavia, non sarebbe conveniente che le risorse destinate alla difesa eccedano la potenzialità economica del Paese: è necessaria anche la forza economica, perché "un popolo economicamente esaurito 11011 p110 · <1 .uPn' capace di lunghe resistenze, ed è una forza militare in gra11 parte c:!Ji111era quella che dietro a sé abbia un. popolo economicamente stremmn ··. L'applicazione del princ ipio <lella massa al quale si è prima accennato porta E.B. a polemi zzare s ia con i sociali sti, che strumentalmente indicano nelle Alpi un ostacolo naturale invalicabile onde poter sostenere anche per questa via la riduzione dell'esercito, sia con coloro c he sostengono la possibilità di arrestare il nemico sulle Alpi stesse (come - noi osserviamo - fa anche il Perrucchetti nei suoi ultimi scritti): "non vi è forza di esercito, la quale possa da per tutto, su una frontiera tanto estesa, impedire che una colonna nemica discenda in questa o quella vallata, o che addirittura, con forze più o meno grandi, sbocchi nel pian.n ". N e consegue - siamo nel 1900 - una strategia tradizionale. che ormai è stata abbandonata: senza lasciarsi impressionare dalle penetrazioni e dalle conseguenti conquiste di territorio da parte del nemico, occorre mantenere le forze riunite per contrattaccare il grosso delle truppe nemiche al loro sbocco in piano: una volta riportata la vittoria contro tale grosso, anche le aliquote minori de ll 'esercito nemico non potranno che cedere. Fin qui bisognerebbe giudicare E.B. un conservatore: ma non è così. È stato da sempre fautore di sane riforme, però distinguendo, con realismo, le soluzioni possibili da quelle solo ideali , che incontrano sempre molli ostacoli. In un articolo del 1905 sulla Nuova Antolo,?ia, 64 ad esempio, egli

"" Barum,, Per il prublemu militwe (cit.).


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Il l'IÙ ILI.U~'flU, EMULO DEL MARSELLI: ENRICO llAKONP.

fa riferime nto a una serie di riforme proposte nello stesso anno dal tenente colonne llo Ghersi (ferma ridotta a due anni, un esercito del tempo di pace più numeroso, visto che le future guerre saranno brevi, quindi non abhisogneranno di molte riserve; produzione di armi e materiali affidata al1' industria privata anziché a stabilimenti militari; semplificazione e decentramento dell'amministrazione ecc .. ). Non prende posizione contro queste proposte: si chiede solamente per quale ragione anche un Ministro della guerra preparato, esperto, con un programma ben definito e accuratamente studiato, di solito non riesce a compiere riforme realmente incisive. A suo avviso ciò accade perché le riforme organiche e radicali toccano una tal serie di interessi costituiti, da essere inesorabilmente bloccate in Parlamento. Non ignari di questo, gli uomini di governo cercano di attuarle gradualmente, un poco alla volta: ma non riescono a portarle a compimento, a causa della loro breve permanenza neUa carica. 11 problema essenziale è dunque questo: "modificare il sistema in guisa che nonostante l'inevitabile frequenza nei cambiamenti dei Ministri, sia tuttavia possibile un.a certa continuità nell'opera riformatrice. E non solo in questa, ma anche nell'opera di organamento della difesa del territorio...". E dopo aver esaminato le soluzioni già previste nei vari Paesi europei, E.B. arriva alla conclusione che in un Paese come l'Italia, dove per diverse ragioni non è possibile un intervento diretto del re su questioni militari come avviene in Germania e Austria, la continuità d'indirizzo nella gestione della difesa nazionale dovrebbe essere assicurata "da un organo permanente, stabile, estraneo alle vicissitudini della politica, più autonomo ed indipendente dal Ministro di quanto non sia il Consiglio Superiore di guerra francese" [presieduto dal Ministro stesso - N.d.a.l. All'atto dell'assunzione della carica, i singoli Ministri delJa guerra dovrebbero accettare il programma stabilito dal Consiglio nella sua integrità, e impegnarsi davanti al Parlamento ad attuarne una parte stabilita. Dopo essersi tanto preoccupati di consolidare il bilancio, "sembra a me che ora sia il momento di consolidare l'indirizzo. È questo il punto che si deve risolvere prima di ogni altro: tutto il resto potrà meno difficilmente venire da sé dopo". Sulla Nuova Rivista di Fanteria del 190865 E.B., che dopo il congedo svolge anche un'attività di consulenza di uno studio legale per i ricorsi militari, si occupa di un argomento assai delicato, trattandone con una franchezza che sarebbe anche oggi inusitata in un periodico militare: i nume-

6'

Barone, Che cosa urge (cii.).


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Il. PENSIERO MILITAR E E NAVALE ITALlANO • VOL. lii ( 187()-.1915) -TOMO I

rosi casi di reclamo dei militari, per asseriti soprusi dei superiori. L' esordio è impietoso: "lo scrittore di queste righe - e per le moltissime lettere che riceve dagli ufficiali e per certe sue occupazioni professionali - se ne vede continuamente passare sotto gli occhi. Potrebbe citarne alcuni tipici: i quali dimostrano quanto ancora sia ottuso il senso della giustizia in alcuni superiori - non dico in tutti, ben altro - ed anche nella burocrazia". In passato - egli ricorda - le ingiustizie si tolleravano di più e soprattutto si ignoravano di più, anche se magari erano più numerose: ne derivava un minor danno per la disciplina dell'esercito. Oggi, se si vuol limitare i danni chi comanda deve essere migliore di prima e i casi vanno risolti subito, rendendo giustizia a chi ha eventualmente patito un torto e punendo chi ne è stato causa. Solo eosl facendo si blocca l'effetto deleterio che il caso, perdurando, esercita sugli animi; in secondo luogo l'intervento modifica la psicologia di chi un giorno dovrà comandare e/o giudicare, favorendo una salutare selezione tra chi sa distinguere l'uso fermo, efficace cd energico de ll' autorità da ciò che invece è abuso. Circa le modalità per rendere giustizia, non si può lasciare questo c:ompilo né alla burocrazia, né a una Commissione (come ha fatto il Mini:aro de lla guerra del momento, che è l'on. Casana, primo Ministro civile). La buroc razia ha essenzialmente il compito di conservare la tradizione, quindi non è la più adatta; ma una Commissione, composta da persone che non hanno la responsabilità di governo, sarebbe portata ad esagerare ne l senso opposto, indebolendo l'autorità del comando. Solo il Ministro può assumersi questa responsabilità, anche se ha molte cose da fare; e il fatto t:hc al mo mento sia un civile ha dei vantaggi. I generali-Ministri non hanno autorit à cd esperienza politica, non possono riformare ciò che è necessario perc hé lino a ieri facevano parte della gerarchia militare per tornarc i una volt a lasciala la carica, e infine - fatte le debite eccezioni - per la loro Sll'SSa me ntalit à d' altri tempi, "non possono portare, nel governo degli uo1111111. in 1111 Mi11istero, quel tanto di sourplesse che è necessario per intentl,·n· , ·0111(' l'abuso oggi debba essere represso più di prima, per il maggior dunno du• o lutto l'istituto militare può derivare"

\4•r.w lo J.:Uerra: gli articoli sulla "Preparazione" nel 1909-1910 Sl·111u smentire le posizioni precedenti, gli articoli sulla Preparazione 11l"I 11)()1) I 1) I O aggiungono nuove interfacce a] pensiero di E.B., tanto più inll-1 l'),,:11111 pr rché in questo periodo già comincia a delinearsi lo spettro de lla pr i 11111 guc 1ra mondiale e l'aeroplano progredisce rapidamente. Tra di essi ri-


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cordiamo la rinnovata polemica con i socialisti e in particolare con l' on. Bissolati , le connesse questioni di bilancio, le questioni riguardanti l'efficienza militare (i Capi, la burocrazia, le grandi manovre, l'aeronautica... ). Nel 1909 E.B. conduce una campagna contro le utopie pacifiste e internazionaliste dei socialisti e per l'aumento del bilancio dell'esercito. Nell'articolo Sofismz-66 contesta pertanto le argomentazioni di coloro che, pur dichiarandosi a parole patriottici e pur indicando gli obiettivi che dovrebbe avere la politica estera italiana, con ragionamenti "sofistici" negano i mezzi per realizzare tale politica: essi sono i pacifisti, i riformatori radicali e i pessimisti. Secondo i pacifisti i benefici della pace sono ormai tali che la guerra si può considerare come scomparsa, perché arrecherebbe troppe rovine e costerebbe troppo sangue; e siccome più si preparano i mezzi militari più aumentano le possibilità di farla, tanto vale non concedere alcun aumento delle spese militari. Anche i riformatori radicali ritengono superfluo tale aumento, sostenendo illusoriamente che basterebbe una radicale riforma deJl 'organismo militare per renderlo molto più forte, senza bisogno di aumenti di spesa. Infine, secondo i pessimisti i Capi militari del momento non danno alcun affidamento di saper condurre l'esercito alla vittoria, quindi sarebbe inutile fare nuovi sacrifici per prepararlo meglio. E.B. ammette che alcuni Capi militari del passato o del presente possano non aver ispirato o non ispirare fiducia, ma nell'esercito gli uomini validi per carattere, ingegno, attività ci sono e sono ben conosciuti. Inoltre contesta le utopistiche tesi del deputato socialista Bissolati,67 secondo il quale in un non meglio precisato futuro il proletariato conquisterà in tutti i paesi una tale superiorità, da eliminare il pericolo di sopraffazioni di una nazione sull'altra, quindi anche le guerre. Nel frattempo la ferma dovrebbe essere ridotta a due anni e gli stanziamenti dovrebbero essere limitati, lasciando all'ordinatore il compito di realizzare, nei limiti di quanto disponibile, uno strumento efficiente. E.B. chiama questa formula del Bissolati "difesa a forfait" osservando che i limiti di tempo da lui indicati per la scomparsa delle guerre sono vaghi e indefiniti, tanto da rendere puramente accademica ogni discussione in proposito; comunque a suo avviso si dovrebbe seguire l'indirizzo contrario, con l'ordinatore militare che chiede al governo risorse in armonia con gli obiettivi di politica estera indicati dal governo stesso. Poiché

"" Barone, Sofismi, in "La Preparazione" n. 6 - 13/14 febbraio 1909. • 7 Barone, Difesa a forfait, in " La Preparazione" n. 14 - 3 / 4 marzo 1909.


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quel che conta è solo la forza, occorre uno strumento militare in grado di raggiungere i fini di politica estera condivisi dallo stesso on. Bissolati, che però nega i mezzi. Se si potesse essere sicuri di avere davanti un lungo periodo di tranquillità, con idonee riforme e senza aumentare il bilancio si potrebbe anche raggiungere un 'efficienza militare maggiore: ma con i tempi che corrono nessuno, forse nemmeno J'on. Bissolati, si sentirebbe di

"cacciare l'esercito in una lunga crisi di trasformazione". La conclusione di E.B. è che in questioni di tanta importanza le esigenze economiche non sono le sole da tener presenti, e che il bilancio ordinario dell'esercito del momento non basta: occorre un aumento di almeno 25 milioni all'anno. A sostegno di questa tesi, nell'articolo Patria e guerra68 egli fa riferimento a quanto aveva scritto poco prima sull' Avanti! lo stesso on. Bissolati, il quale facendo, per così dire, "macchina indietro", era stato costretto ad ammetlere onestamente che le recenti guerre balcaniche avevano smentilo due capisaldi de lle tesi pacifiste dei socialisti (che cioè le guerre tradizionali europee non erano più possibili e, comunque, i socialisti di ciascun paese si sarebbero opposti allo scoppio della guerra). In realtà la mobilitazione dell 'esercito austriaco si è svolta regolarmente e si è comhattuta "una grande, grandissima guerra", mentre i socialisti austriaci si sono limitati a sterili proteste sul loro giornale e a promuovere un voto di pace del Parlamento austriaco ... a guen-a finita. Alle questioni del bilancio militare E.B. dedica altri articoli, 69 nei quali discute e dimostra questa tesi: "pel bilancio straordinario, portare fino

a 400 milioni gli stanziamenti già stabiliti con la legge del 1907 e luglio 1908 e distribuire la disponibilità in un periodo di quattro anni al massimo, anziché diluirla fino al 191 7; per il bilancio ordinario, stabilire un aumento di 30 milioni, che solo con alcuni ripieghi potrebbe restringersi nei limiti dei 20 milioni, cifra da considerarsi come un nùnimo, al di sotto del quale riteniamo ben difficile discendere quando si voglia intraprendere qualsiasi operazione di riordinamento e rafforzamento del nostro apparecchio militare". Le nuove esigenze che rendono indispensabile un aumento del bilancio sono: a) aumento da 205.000 a 225.000 uomini della forza bilanciata; b) aumento delJa frequenza dei richiami alle arnù per istruzione; c) au-

68 Barone, Patria e guerra, in " La Preparazione" n. 29 - 8/9 aprile 1910. "' Barone, flllomo al bilancio: la qiuulratura del cerc:hio. in " La Preparazione" n. 30 - I0/1 I aprile 1909; ID., Intorno al bilancio: come devono essere ripartite le spese straordinarie. in "La Preparazione" n. 3 1 - l:l/14 febbraio 1909, ID., /111om o al bilancio: 33-13=20. in "La Preparazione" n. 35 - 22123 aprile 1909.


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mcnlo delle pensioni e "spese inerenti alla soluzione del problema dei capitani e subalterni anziani di fanteria, il quale non può prorogarsi"; d) aumento dei prezzi dei viveri, effetti di corredo e materiali vari; e) incremento delle attività di tiro a segno, "almeno nelle regioni di frontiera"; f) deficit delle "masse", che occorre annualmente sanare fino a quando l'assegno del soldato non sarà aumentato. 70 La proposta di diluire le spese straordinarie in quattro anni (cioè fino ali' esercizio 1912-1913) ha alla base un preciso fine politico: "porsi, per lo scadere della triplice alleanza, in condizione o di non rinnovarla, se sarà tale la nostra convenienza, o di rinnovarla, ma a patti migliori e più espliciti di quelli avuti .finora: porsi, in sostanza, in tali condizioni di assetto difensivo, da poter seguire con libertà quella linea di condotta che sarà più conforme ai nostri interessi e da rendere meglio pregiala l'amicizia nostra, e la nostra inimicizia più temuta che oggi non sia". E.B. contesta perciò la tesi che le spese straordinarie vanno essere diluite in limiti abbastanza ampi, tesi sulla quale confluiscono sia gli orientamenti del Ministero del Tesoro - d1c in tal modo ridurrebbe al minimo l'impatto sui bilanci annuali delle spese stesse - sia taluni interessi industriali, favorevoli a un aumento del bilancio militare ma contrari a una preparazione intensa, che concentrerebbe i maggiori stanziamenti in pochi anni. 1n questo caso, infatti, dala la ridotta potenzialità delle industrie italiane esistenti, lo Stato sarebbe costretto ad adottare dei provvedimenti che comunque le danneggerebbero: o rivolgersi in parte a industrie straniere, o incoraggiare la nascita di nuove industrie nazionali aumentando quindi la concorrenza, o costringere le imprese interessate a onerosi investimenti per nuovi impianti, onde far fronte alle accresciute esigenze produttive nell'unità di tempo. Argomenti, quest'ultimi, all'ordine del giorno anche a fine secolo XX, specie per quanto riguarda la tendenza a diluire troppo le

"' li sistema delle "masse", eredità del passato di origine francese, nel 1909 continuava ancora per poco ad essere alla base de ll'amministrazione militare (è stato abolito nel 19 10). Per massa si intende "somma di denaro raccolta per uso di soldatesche e che viene amministrata da un cnnsi!ilio di ufficiali d'ogni reggimento [detto "Consiglio di Amministrazione" • N.d.a.J, per provvedere al soldato di quelle cose alle quali non provvede lo Stato" (Giuseppe Grassi, Dizionario Militare //oliano, Torino 1833). Consisteva, in sostanza, nel cumulo e nella gestione da parte di un Consiglio di Amministrazione di reggimento della somma complessiva assegnata annualmente dallo Stato al Reggimento stesso per il mantenimento di ciascun soldato, della quale solo una parte veniva pagata alla mano al soldato (prestilO) , trattenendo il resto (deconto) per vettovagliamento in comune, vestiario ed equipaggiamento ecc.. ll sistema si prestava ad arbitri e indebite trnllenute da parte dei comandanti di compagnia e reggime nto, creando spesso un nocivo contenzioso tra il Consiglio di Amministrnzione e il singolo soldato (Cfr. anche, in merito, Ferruccio Bolli, la logis1ica dell'Esercito Italiano - Voi. I (I 831 -1861), Roma, SME - Ufficio Storico 1991 , specie pp. 59- 137).


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spese straordinarie e il contrasto tra interessi industriali e interessi della Difesa, che sono anche quelli della sicurezza nazionale. Non sono privi di interesse attuale anche altri argomenti trattati da E.B. nello stesso anno 1909, come ad esempio la burocrazia e le grandi manovre.71Allora come oggi, della burocrazia si diceva molto male: ma egli nega che "essa costituisca un potere occulto, il quale circonda il Ministro, gli adombra la verità e ne vincola la volontà, rompendo e recidendo così - con la sua tendenza alla supina, musulmana conservazione dei vecchi metodi tradizionali e dei vecchi sistemi - ogni fecondo slancio di energia fattiva e riordinatrice". Il fatto è che quando assumono la carica i nuovi Ministri non hanno le idee chiare su ciò che può e deve essere fatto con priorità e su come farlo, quindi devono "cominciare con lo studiare mentre si dovrebbe andare per fare", avendo studiato prima i modi e i tempi per farlo; e di solito lasciano la carica quando stanno ancora studiando, dando ingiustamente la colpa alla burocrazia se non hanno concluso niente di notevole. In realtà la burocrazia, mentre manca l'azione direttrice di chi era al momento impegnato a studiare, fa in modo che, intanto, bene o male la macchina vada avanti e non deragli, come certamente avverrebbe se a manovrarne le delicate leve fossero mani inesperte: '1ate che quella medesima burocrazia sia posta agli ordini di chi sappia veramente spiegare un 'azione direttiva cosciente - di chi abbia già studiato..." , e allora si potrà vedere che essa darà un prezioso contributo per tradurre in pratica i concetti direttivi di "un uomo che sappia realmente prendere e tenere il timone tra le mani". Delle grandi manovre annuali a partiti contrapposti del tempo, alle quali partecipava il meglio dell'esercito, E.B. dice semplicemente che esse oltre ad essere dispendiose non raggiungono il loro scopo, che è quello di addestrare specialmente i comandanti di grado più elevato e di accertare le loro capacità. Questo perché "possono in qualche caso rivelare delle incapacità che siano assolutamente tali; ma quando tali estremi non ci siano, possono dar luogo a giudizi quanto mai fallaci. Tutto vi è alterato e deformato; incertezze molto minori che non nella realtà; distanze accorciate; durata dell'esecuzione affrettatissima. E poi manca il.fischio delle palle, mancano le responsabilità tremende del tempo di guerra". Verità indubbie anche un secolo dopo ... Per ultimo va ricordato un merito storico di E.B., che fa della Preparazione un riferimento importante nella storia dell'aeronautica: fin dal 1909

71 Barone, La burocrazia, in '"La Preparazione" n. 21 - 20/2 1 mano 1909 ; m ., Le gra11di manovre, in "La Preparazione" n. 85 - 24n5 agosto 1909.


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egli apre le pagine del giornale a un dibattito sulle possibilità di utilizzazione militare dei nuovi mezzi aerei, avente lo scopo di creare un clima favorevole per l'assegnazione di fondi al loro sviluppo.72 Quel che è più importante, a partire dal luglio 19 IO La Preparazione ospita una serie di articoli di un nuovo collaboratore, l'allora maggiore di artiglieria di Stato Maggiore Giulio Douhet, il quale, come dice lo stesso E.B. in un trafiletto di presentazione, "trauando con profonda competenza i problemi dell'aeronavigazione, esprime, corredandoli di ampi e prove, opinioni e giudizi che spesso sono in antitesi con quelli più comunemente e generalmente accettati". Ne nasce un dibattito che si sviluppa nel 1910-1911 , nel quale Douhet sostiene due tesi preveggenti: - l'aeroplano, allora ai primi passi, avrà sempre più la prevalenza come macchina da guerra sul dirigibile (che, specie in Germania e in Italia, era il cardine della preparazione aeronautica); - in futuro, il dominio dell'aria sarà un fattore decisivo di successo, anche se l'aeroplano - così pensa Douhet almeno fino al 1913/1914 - è adatto solo ali' esplorazione e non al bombardamento. E.B. non sposa né le tesi di Douhet né quelle dei suoi avversari sostenitori del dirigibile, ma sostiene che per il momento, all'alternativa "aeroplano/dirigibile" occorre sostituire "aeroplano e dirigibile", intensificando gli studi su ambedue i mezzi.

SEZIONE V - I commenti alle operazioni della prima guerra mondiale I commenti del Nostro alla guerra anglo-boera (riguardanti solo le operazioni del 1899-1900)73 hanno un interesse limitato, anche perché non tengono conto dell'andamento complessivo del conflitto, terminato nel maggio 1902. Ne omettiamo pertanto la trattazione, per soffermarci solo sui suoi scritti riguardanti la prima guerra mondiale. In proposito, egli nel 1916 dà un suo contributo quale economista al1a propaganda di guerra con una conferenza a Roma, nella quale cerca di convincere i capitalisti recalcitranti a sottoscrivere subito il "Prestito della vittoria", senza aspettare

72 Per i particolari relativi a tale diballito si rimanda a Ferruccio Botù - Mario Cermelli, la teoria della guerra aerea dalle origini alla seconda guerra mondiale ( 1884-1939), Roma, SMA - Ufficio Storico 1989, cap. IV-VII. 73 Cfr. Barone, Cmuiderazioni militari sulla guerra anglo-boera (sulle operazioni fino a t11ttn dicembre), Torino, Viarengo 1900.


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emissioni di titoli di Stato a saggi di interesse più alti. 74 Molto più importanti i commenti alle operazioni belliche prima sul fronte francese e poi su quello italiano, pubblicati sulla "Preparazione" e sul Giornale d 'Italia e poi raccolti in tre libri: - La guerra - Vol. l anno 19 I 4; 75 - La storia della guerra mondiale a cura di Vico Mantegazza, "con note militari di Enrico Barone"; 76 - La storia militare della nostra guerra fino a Caporetto. 11 Tre pregevoli esempi di "storia immediata", dai quali si può chiaramente desumere - diversamente da tante altre storie - il suo pensiero sulle principali questioni strategic he e sull'operato delle leadership nei vari fronti.

Le operazioni iniziali del 1914: perché la Germania non può vincere

Nel citato volume sul 1914 E.B. commenta la fase iniziale della guerra sui fronti francese e russo, con un'analisi strategica che pur risentendo inevitabilmente dell'incompletezza e del ritardo delle informazioni si rivela su parecchi argomenti-chiave acuta e preveggente, fino a fame un lavoro anche oggi di primario interesse. Egli si dichiara subito favorevole all'intervento dell'Italia al fianco delle potenze dell'Intesa; lo si capisce anche dal centro focale della sua attenzione, che riguarda soprattutto le difficoltà della Germania, gli errori del suo Stato Maggiore, gli insuccessi del suo pur magnifico esercito, la sempre modesta portata dei suoi successi. Per contro gli errori e le gravi sconfitte delle pote nze dell'Intesa rimangono sempre in sordina, con costante tende nza di E.B. a minimizzarne le conseguenze. Nessun accenno ai presupposti totalmente errati del piano francese, al suo conseguente fallimento, alle gravissime perdite dei franco-inglesi e al forte divario tra di esse e quelle germaniche, a tutto favore della parte tedesca. 1 •

etc. Barone. Il prestito della villoria - ConferenZJ1 tenuta il 23 gennaio /9/fi a/l'Associazio11e Artistica Internazionale, Roma 1916. 75 Barone, La guerra - Vol. I anno 1914, Roma. Armani e Stein 1915. 1 • Vico Mantegazza, Storia della guerra momiiale con note militari di Enrico Barone. Milano. Istituto Editoriale haliano 19 15-1919, Voi. Ili Sette mesi di guerra sul fronte occidentale ( ottobre 1914-aprile /915), pp. 335-357 (edito ne l 19 16). n Barone, Storia militare della nostra guerra fino a Caporetto, Bari, Laterza 19 19 (2' Ed. 1931 ). Raccoglie gli articoli pubblicali su "La Vita iLaliana" dal novembre 1918 al settembre 1919.


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Nonostante l' approccio palesemente unilaterale, E.B. è tuttavia tra i pochissimi scrittori militari del nostro secolo a non spiegare solo con la preponderanza del trinomio tattico trincea-mitragliatrice-reticolato i massacri della prima guerra mondiale, e a non accettare a scatola chiusa una serie di luoghi comuni sulle reali cause del fallimento della guerra offensiva di stampo napoleonico (preparata da tutti gli Stati Maggiori) e della sua degenerazione nell'inconcludente guerra di trincea, che è l'antitesi della strategia e non solo della strategia napoleo.tùca. Pur ritenendo che debba essere solo temporanea, egli condivide la scelta de11a neutralità da parte del governo italiano ai primi di agosto 1914 e le ragioni che lo hanno indotto a tale atteggiamento (l'Austria ha scatenato la guerra nei BaJcani senza preventivo accordo con l'Italia, come previsto dal trattato della Triplice; l'azione militare dell'Austria turba l'equilibrio balcanico-adriatico, che è invece interesse dell' Italia mantenere; non essendo stata preavvisata dall'Austria, l'Italia non ha nemmeno potuto prendere talune precauzioni necessarie per la tutela dei suoi più vitali interessi). Ma a parte queste prese di posizione politiche, già nettamente anti-austriache, egli fornisce una risposta storicamente valida su tre questioni strategiche di grande portata: - perché la Germania, nonostante la buona preparazione e l'indiscutibile qualità dei suoi Quadri e del suo strumento militare, non è riuscita a realizzare il suo progetto strategico iniziale, peraltro ambizioso (atterrare prima rapidamente con la massa delle forze la Francia - piano Schlieffen - e poi volgersi contro la Russia); - perché non può essere condivisa l'affermazione (o giustificazione, o rassegnazione) di molti, secondo i quali la guerra di logoramento, l'assenza di manovra ecc. vanno accettate così come sono, perché sarebbero dovute a fattori di base oggettivamente ineliminabili, quindi non ammetterebbero alternative; - se e in che misura è possihile anche nelle nuove condizioni (disponibilità di ferrovie; eserciti di massa assai superiori di numero a quelli del passato) rinnovare i fasti della strategia di Federico II di Prussia e di Napoleone. Tra l' 11 e il 14 agosto 1914, quando non è ancora chiaro il quadro degli avvenimenti né si conoscono bene, in Italia, i progetti dei due Stati Maggiori contrapposti, E.B. giudica "chimerico" il concetto che "una parte dell'esercito tedesco possa essere lanciato, come una grandiosa riserva mobile, da un teatro di guerra all'altro, per ottenervi successivamente la decisione su ambedue i teatri". In secondo luogo, a suo avviso la Francia, protetta da una forte e profonda catena di fortificazioni da Longvy al con-


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fine belga e con Parigi difesa da tre campi trincerati, non potrà certo essere schiacciata in un mese. Lo lascia prevedere anche quanto è avvenuto nella guerra 1870-1871 , quando dopo le dure sconfitte degli eserciti di Napoleone m la nuova Repubblica, pur mancando di una valida mente militare direttrice capace di gettare gli eserciti organizzati nelle varie province sulle retrovie prussiane, è riuscita a resistere ancora sei mesi. La previsione, anch'essa indovinata, è che i tedeschi concentreranno le loro forze a Nord, tendendo a invadere la Francia attraverso il Belgio. A questo quadro iniziale E.B. aggiunge che né i tedeschi , né i francesi di oggi sono più quelli del 1870- 1871. La preparazione politica della guerra da parte di Bismarck nel 1870-187 l è stata perfetta, riuscendo a isolare la Francia di Napoleone ID e a far credere a una sua aggressione; oggi invece

"la Germania sembra quasi ossessionata dal proposito di tirarsi addosso quanti più nemici possibile ". Dal canto suo la Francia è migliorata; lo dimostra, tra l'altro, il silenzio patriottico della sua stampa sulle operazioni militari dell'esercito, che contrasta "col triste petteRolezzo ciarliero di cui diede inverecondo ~pellacolo nel 70 ". Assai centrata anche la previsione che nella condotta futura della g uerra i Comandi dovranno risolvere tutta una serie di pmhl<'mi nuovi, sia per quanto riguarda le moli enormi di armati fuori dal campo di battaglia e sul campo di battaglia, sia per quanto si riferisce alle fortificazioni gigantesche, sia per ciò che riguarda il vettovagliamento di masse mai prima viste, rinserrate in breve spazio [nostra sottolineatura - N.d.a.] (il problema del vettovagliamento, e in generale di tutti i Servizi Logistici, può diventare un enigma penoso per l'invasore, quando le linee ferroviarie siano intercettate da poderose piaz.z.eforti! ).

Per ben cogliere la portata di queste affermazioni va ricordato che fino alla prima guerra mondiale era prevalso ovunque il modello prima di tutto logistico di guerra breve e offensiva applicato con successo da Moltke nel 70-71, modello ben diverso da quello resosi necessario già a fi ne 19 14 e basato sul massimo sfruttamento delle risorse locali per il vettovagliamento organi dei Servizi log istici molto mobili e quindi mollo leggeri, a cominciare dal rifornimento munizioni che poi ha dovuto fronteggiare esigenze cresciute con andamento esponenziale.78

'" Sugli a~pelli logistici della grande guerra Cfr. Ferruccio Bolli, LA logistica dell'Esercita Italiano - Vol. li, Roma , S ME - Uffic io Storico 1991, Parte IV.


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Le critiche di E-B. alla condotta della guerra da parte tedesca si riassumono nella constatazione che il grande Stato Maggiore, erede di Moltke, non ha raggiunto gli obiettivi perché ha peccato di presunzione e ha sottovalutato l'avversario, dimostrandosi di levatura assai inferiore a quella del1' artefice delle vittorie del 1864, 1866 e 1870-71. Così l'offensiva iniziale attraverso il Belgio si è sviluppata su un fronte troppo largo, con poche riserve; e, in generale, tutti i calcoli iniziali dei tedeschi si sono dimostrati infondati. Fin dal settembre-ottobre 1914 appare chiaro ad E.B. che la Germania non è più in grado di ottenere risultati veramente decisivi ad Ovest, mentre anche una serie di vittorie ad Est contro la Russia non la porterebbe alla pace. Ciò è avvenuto perché " si è cacciata in un 'impresa cui non è adef?uato neppure il suo mirabile e grandioso organamento militare e statale". A questo errore politico-militare, sempre a suo parere, se ne è aggiunto un altro: lo Stato Maggiore tedesco ha di mostrato di non avere un concetto chiaro e vigorosmnente perseguito delle azioni da compiere, ma specie dopo il fa11imento dell'offensiva iniziale ha solo adottato delle mezze misure dalle quali traspare "la pretesa di far fronte a tutto e coprire tutto", con la speranza fallace di raggiungere gli obiettivi ad Ovest, senza dover cedere una parte sia pur piccola del territorio nazionale ad Est. Federico Il e Moltke avrebbero agito diversamente .... A fine ottobre E.B. contesta perciò l'affermazione di taluni, che la situazione sarebbe "lievemente più favorevole ai tedeschi". In realtà quest'ultimi non possono infliggere colpi decisivi a nessuna delle tre potenze nemiche: non all'Inghilterra, che non può essere battuta se prima non si strappa il dominio del mare alla sua flotta; non alla Russia, il cui esercito sta premendo in Polonia e che è protetta dai suoi grandi spazi; non alla Francia, che non è stata schiacciata all'inizio, quando sarebbe stato più facile. In realtà, anche se dispone di un esercito sempre formidabile, la Germania ha due punti deboli: l'Austria (che data la sua minore efficienza militare può essere indotta a una pace separata con condizioni accettabili) e la chiusura delle comunicazioni marittime, i cui inconvenienti cominciano già a farsi sentire, anche se finora attraverso i paesi neutrali - e in particolare attraverso l'Italia - la Germania e l'Austria hanno avuto la possibilità di rifornirsi di quanto abbisognavano. In questo contesto, a suo avviso l'entrata in guerra dell' Italia a fianco dell'intesa provocherebbe il tracollo della bilancia a lutto svantaggio delle potenze centrali, per tre ragioni: a) in campo terrestre l'esercito austriaco sarebbe costretto a dividere le sue forze tra fronte italiano e fronte russo, indebolendosi ulteriormente e gettando ancor più il peso della guerra sulle spalle del-


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la Germania, per la quale verrebbe a dinùnuire ancora la probabilità di ottenere risultati decisivi; b) "in mare: un'enorme prevalenza delle squadre alleate su quella austriaca in Adriatico; possibilità di combinare azioni da terra con operazioni da mare per la distruzione completa della potenza navale austro-ungarica; opportunità per l'Inghilterra di concentrare ancora maggiori mezzi nel mare del Nord, e di ricevervi in tempo non lungo anche il concorso delle forze navalifrancesi"; c) totale scomparsa del respiro delle potenze centrali attraverso "questo gigantesco polmone italiano", al quale tengono tanto. Già nell'ottobre-novembre 1914, quando sul fronte occidentale è appena comparsa la guerra di trincea, E.B. - come si è accennato - contesta l'affermazione che le brillanti e decisive manovre del periodi di Napoleone e Moltke non sarebbero più possibili, sia perché le masse combattenti sono enormemente cresciute <li numero e quindi sono diventate più pesanti da alimentare, sia perché manca la possibilità di mantenere il segreto, per effetto della comparsa dei mezzi aerei. A questo ragionamento egli replica negando che si tratti del nuovo, inevitahile carattere della guerra moderna: in realtà "è semplicemente il carattere della guerra moderna quando La genialità manchi, e si seguiti, peggiorandole, a vivere delle idee dei grandi predecessori, copiandole meccanicamente senza intenderne profondamente lo spirito e senza introdurvi quelle sostanziali modificazioni, che le cambiate circostanze della tecnica possano suggerire a chi non si fermi semplicemente allo schema tradizionale". Infatti, come ha dimostrato la guerra russo-giapponese, irapidi successi sono ancora possibili a due condizioni: una forte superiorità di forze sull'avversario e - di conseguenza - la possibilità di sferrare l'offensiva su un fronte assai ampio (di l0-15 km almeno), che non renda agevole al difensore battere la breccia nemica anche con le artiglierie laterali e organizzare successive linee di difesa, e al tempo stesso, consenta di tenere alla mano forti riserve. Il fatto è - prosegue E.B. - che al momento né la Germania né i suoi avversari sono in grado di disporre di questa superiorità di forze: se questa superiorità esistesse, anche con gli armamenti e la mole degli eserciti del momento sarebbe possibile rendere le battaglie più brevi e più decisive, anche se di durata maggiore di quelle napoleoniche. Senza dubbio gli eserciti più ridotti di un tempo facilitavano il concentramento delle forze nel punto decisivo, mentre la gittata maggiore delle armi e la maggiore durata delle azioni ora spingono alla guerra di trincea; ma ciò non significa che le battaglie debbano durare per settimane, come sta avvenendo sul fronte francese.


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È indubbio che al momento le masse sono meno mobiU di una volta, gli spazi sono più saturi e quindi la libertà di manovra è minore, ma il genio del Capo può ugualmente pesare sugli eventi: il progresso appunto delle reti ferroviarie, in me:a,o alle tante cresciute difficoltà, le offre un sussidio che prima non c'era e che sfruttato da un uomo di vero talento - non meccanicamente, secondo schemi ormai sorpassati - può fornire il mezza - e come! - di manovrare anche oggi, e portare su quel punto del teatro di guerra che si giudica più conveniente alla soluzione, quella schiacciante superiorità numerica che può permettere di venirne a capo [e il fattore qualilalivo? - N.d.a.].

Appunto con un impiego magistrale delle ferrovie Hindenburg in Prussia Orientale ha compiuto su spazi più larghi e con più forze una manovra di matrice napoleonka, dimostrando che "anche oggi, è assai difficile concepire qualche cosa di veramente buono nei procedimenti della condotta della guerra, che non ricordi il grande maestro: Napoleone". Non risponde quindi a verità quanto taluni affermano su una pretesa involuzione dell'arte della guerra verso forme più grossolane e primitive. Ai primi di novembre 1914 il Nostro nota, però, preoccupanti forme di decadenza nel campo del morale, dello spirito combattivo delle truppe. Lo dimostrano parecchi segni, da ambedue le parti: il gran numero di prigionieri; l'acutizzarsi dei fenomeni di diserzione; la prevalenza assoluta che l'artiglieria va acquistando nel combattimento; l'enorme consumo di munizioni, specie di artiglieria, "l'uso larghissimo - diremmo quasi L'abuso che si fa delle fortificazioni e delle trincee sul campo di battaglia". Ma questo fenomeno negativo è dovuto solo in parte alla diminuzione delle ferme, all 'affievolimento dello spirito militare, ai lunghi periodi di pace e alla propaganda antimilitarista: esso è effetto, soprattutto, della crescente prevalenza del numero sulla qualità, e della tendenza a sostituire con anni perfezionate Le virtù guerriere. Ne è derivata la più grande contraddizione che si potesse mai immaginare. Questa: che mentre i mezzi di guerra sono divenuti così potenti da mettere a durissima prova le più salde tempre di soldati; quando, perciò, sarebbe stato necessario avere truppe di una solidità fisica e morale senza confronto superiore a quelle di altri tempi pur non lontani, noi, invece, per le grandi masse di armati che dobbiamo mettere assieme, siamo costretti a portare in campo truppe la cui saldezza, nel complesso, non è in ragione dello sforza grande e penoso al quale debbano essere sottoposte. Ciò avrebbe ri-


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chiesto ma1u~iori cure ne,?li apprestamenti del tempo di pace. Le ha poste queste cure la Germania; ed è in virtù di quesJe, che essa oggi può ancora reggere e lottare validamente, pur essendo nelle condizioni più aspre e difficili[ ...]. Non altrettanto è accaduto in questi ultimi anni per la Francia, né a più forte ragione, è accaduto per l'Inghilterra.

Perciò egli ammonisce i paesi neutrali (come è al momento ancora l' Italia) a non lasciarsi prendere dalla manìa del numero, e a tener presente che occorre ancor più che in passato un' artiglieria numerosa e largamente dotata di munizioni.

Le operazioni di fine 1914-inizio 1915: è possibile ridare fiato all'offensiva?

Nelle "note" del 1915 inserite nel Voi. m della citata opera del Mantegazza, a distanza di oltre un anno dall'intervento americano E.B. nitidamente prevede che, nella guerra di logoramento che si sta ormai nettamente delineando, i tedeschi non potranno avere la meglio, e che "il conflitto potrà essere deciso con ogni probabilità in.favore di quella delle due parti che sappia assicurarsi il concorso dei paesi rimasti neutri fino adesso. Le forze armate di questi, se numerose e salde, costituiscono, nella situazione attuale della lotta, le poderose riserve, il poderoso maglio che potrà dare il corpo risolutivo". 79 L'andamento della guerra terrestre, che dal 19 15 in poi è diventata sempre più statica e di logoramento, non provoca affatto da parte sua una revisione delle precedenti idee. Anche nel 1916 combatte la diffusa opinione che la manovra offensiva non sarebbe più possibile, o comunque non porterebbe a risultati decisivi: nelle condizioni nelle quali si sono venuti a porre gli eserciti avversari, è innegabile che la condotta del combattimento è di estrema difficoltà, ogni qualvolta si voglia muovere dalle proprie profonde trincee per superare quelle nemiche. Anche col più grande valore dei capi e delle truppe, anche a prezzo di perdite gravissime, il progresso non potrà essere che lento, faticoso e limitato. Ma con ciò non mi pare da escludere - come molti escludono - la possibilità che, pur nelle attuali,

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Barone, Note militari.... in Mantegazza, Op. cit., Voi. III p. 357.


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difficilissime condizioni, un combattimento ben condotto possa portare a profitti maggiori di quelli jìnora conseguiti sia da una parte come dall'altra. 80

La battaglia di Soissons, nella quale i tedeschi hanno ben manovrato, dimostra che la manovra è ancora possibile, né è sempre vero che l' attaccante, costretto a superare successive linee di trincee e minacciato sui franchi dalle trincee nemiche non investite direttamente, presto o tardi viene inesorabilmente arrestato, senza poter dare respiro all'offensiva strategica: questa obiezione che, per molti casi, ha pure un fondo di vero, ha il torto di essere troppo generalizzata_ Allo stesso modo che non sarebbe prudente dogmatizzare in un senso - nel senso, cioè, della convenienza di spingere più a fondo i combauimenti - non è prudente nemmeno dogmatizzare nel senso opposto. Poi, quella obiezione va bene quando si riferisca ai combattimenti come si sono svolti quasi sempre Jinora: azioni, tutt'al più, di alcuni pochi battaglioni su ristretta fronte, alle quali appunto il solo risultato sperabile può essere bensì una rottura della linea nemica, ma così limitata da non alterare per niente le condizioni generali della fronte[ ... ]. Ma supponiamo - come avvenne a Soissons - che l'azione si svolga invece con forze adeguate, sopra una fronte di dieci, di quindici chilometri, allora le locali rotture della linea nemica potranno essere più d 'una,- ed allora, all'attaccante - se avrà saputo disporre le sue riserve e se saprà farne buon uso - non dovrebbe mancare la possibilità di costringere alla ritirata il nemico che ancora si ostini nei tratti intermedi e di allargare, così, la breccia. E se è vero che le truppe cacciate da una linea trovano poco indietro, già pronto, un nuovo riparo per una nuova resistenza, non si deve però dimenticare che questa seconda resistenza di truppe già battute non potrà, quasi mai, essere così tenace e valida come potrà essere la prima... 81

In sostanza, per ottenere risultati veramente importanti per E.B. non bastano azioni locali: occorrono azioni di più vasto respiro, con sapiente impiego delle riserve. Egli però dissente da coloro che criticano il continuo ricorso ad attacchi frontali: li ritiene anzi inevitabili ed esplicitamente loda il celebre "Libretto rosso" del generale Cadoma, da parecchi autori '" ivi, p. 35 1. " ivi. pp. 353-354.


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ritenuto una sorta di ottusa teorizzazione della guerra di logoramento e delle inconcludenti, sanguinose offensive sul fronte italiano: · già da alcuni anni, in un breve suo studio inedito, l 'attuale Capo di Stato Maggiore delineava con profondo senso della realtà quali sarebbero stati i caralleri della guerra futura : quei medesimi caratteri, appunto che ora la lolla sui due grandi scacchieri ha messo in luce [... J. Anche a prescindere da/fatto che un attacco sulfi.anco del nemico se è tale rispello alla linea generale di battaglia, si riduce poi anch 'esso ad un attacco frontale nel luogo ove si svolge, tranne che il nemico non sia del tutto sorpreso dall'azione nostra: sta l'altra considerazione che l'attacco sul fianco di una este~;issima fronte, come sono quelle di oggi, ben difficilmente potrebbe produrre oggi gli effe/li di una volta, quando Le fronti erano molto più ristrette. Allora, spuntato che si .fosse un .fianco del nemico, era con cià gravemente compromessa, nella generalità dei casi, la linea di ritirata di esso. Ora ciò non accade più; perché cun le larghissime fronti alluali non si ha più una linea di ritirata, ma un lascio di linee: perduta una delle quali, in seguito a uno scacco su un fianco, ne restano .vempre molte altre. di solito. disponibili. 82

Data la sua importanza, esamineremo più nel dettaglio, a parte, il " Libretto rosso " del Cadoma e la questione dell'attacco frontale: per iI momento ci preme sottolineare che, un anno dopo, le vicende di Caporetto avrebbero senz'altro smentito le tesi di E.B. sullo scarso rendimento dell'attacco di fianco nel campo strategico, almeno in quel caso particolare.

La guerra mariuima e l'efficacia del sommergibile

Anche nel campo della guerra marittima le valutazioni di E.B. sono assai più preveggenti di quelle coeve dei navalisti puri e duri, così come di quelle di coloro che si ostinano - persino oggi - a vedere nell 'Adriatico il clou della guerra marittima per l' Italia (trascurando il fatto elementare che mantenere aperte le vie di comunicazione marittime specie con l'America e l'Impero britannico era per noi la vera questione di vita e di morte). Nel dicembre I 914 il Nostro giudica i recenti bombardamenti delle città costiere inglesi da parte di incrociatori tedeschi inutili anche sotto l'aspello

12

ivi, pp. 354-355.


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dei danni che dovrebbero infliggere al morale delle popolazioni britanniche, contrari alle convenzioni internazionali e in definitiva più dannosi per chi li fa che per chi li subisce. A suo avviso, i concetti informatori della nostra difesa marittima dovrebbero essere due: - non conviene frazionare la flotta per difendere le coste, in tal modo impedendole di impegnare battaglia quando e dove le convenga; - di conseguenza, a parte la protezione indiretta derivante da una buona flotta, le città costiere possono essere protette solo con difese locali, e quando queste manchino, le popolazioni devono virilmente sopportare le offese dal mare. Fin qui nulla di originale: sono le tesi di Bonamico e di altri, ribadite anche da lui stesso nella citata introduzione all'opera del comandante di Saint Pierre. Più originale, invece, il suo accenno alla crescente efficacia dimostrala dal sommergibile, che "andrà affermandosi quando giungerà il momento delle vere e grandi azioni marittime, sia nella guerra di squadre che nella difesa delle coste ". Pertanto chi ha Ja responsabilità della nostra preparazione marittima deve dotare al più presto la nostra tlotta di un buon numero dei nuovi mezzi, che costano relativamente poco e sono di rapida costruzione; e anche se le risorse e il tempo disponibile non consentissero di costruire sia sommergibili che dreadnoughts, sarebbe meglio rinunciare a qualche grande nave, piuttosto che fare a meno dei nuovi mezzi.

Le operazioni sul fronte italiano fino a Caporetto: non è colpa di Cadorna

Si è già visto che le idee di Cadorna sull'attacco frontale, criticare da gran parte degli storici, sono invece lodate e giudicale preveggenti da E.B .. Ebbene, l'ultimo volume dei tre prima citati, che esamina le operazioni sul fronte italiano fino a Caporetto, è forse il meno felice proprio perché si riassume in una pervicace difesa dell'operato del generale Cadoma, che rovescia esclusivamente sulle spalle dei subordinati, e/o del ''fronte interno", le responsabilità degli insuccessi e in particolare di Caporetto. Non casualmente l'analisi di E.B. si arresta proprio a Caporetto, cioè alla gestione Cadorna, senza esaminare il successivo periodo più felice della nostra guerra, gestito dal suo successore generale Diaz. Nelle poche righe introduttive egli definjsce l'opera come "un modesto contributo" da parte di "chi invano chiese ripetutamente, e non ottenne, di poter servire [la Patria] in altro campo". Dopo questo chiaro accenno al rifiuto di richiamarlo in servizio (da parte del Ministro o di Cadorna?), egli spiega perché il libro non va oltre Caporetto: gli è stata negata l'autorizzazione a


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consultare i documenti d'archivio da Caporetto alla fine della guerra, relativi cioè alla gestione Diaz, rendendogli così impossibile esporre le ragioni della magnifica resistenza sul Piave (e, aggiungiamo noi, quelle della resistenza sul Grappa nel novembre-dicembre 1917)_83 Molto probabilmente non sono estranei a tale divieto - peraltro in armonia con le norme sulla consultazione degli archivi non solo militari - i contenuti di quest'opera di KR, che pur non mancando di pregi, è essenzialmente una difesa totale dell'operato del generale Cadoma, al quale addebita un solo errore: non aver dato le dimissioni nel periodo immediatamente successivo alla battaglia della Banisizza dell'agosto 1917, quando i ripetuti segnali di allarme da lui indirizzati al governo sugli effetti nefasti della propaganda antimilitarista e pacifista tra le truppe proveniente dall'interno, rimasero inascoltati_ Si tratta, dunque, di un'indagine storica - o meglio di una "storia immediata" dichiaratamente a tesi. Al di là di questi severi limiti, comunque, non sono pochi gli aspetti pregevoli, a cominciare daJI ' approccio che rifiuta la solita, arida histoire-bataille per esaminare sullo sfondo degli eventi l'azione strategica e tattica dei Comandi, il quadro nel quale essa si svolge e i suoi effetti. Magistrale il pur breve capitolo iniziale dedicato ai dieci mesi di neutralità, nei quali E.B. sintetizza i vari aspetti dell'impreparazione dell'esercito nel 1914 e l'opera - senza dubbio meritoria - del generale Cadoma per eliminarne nei limiti del possibile le lacune: particolari peraltro noti, in quanto esposti dallo stesso Cadoma nelle sue opere e neJle memorie da lui indirizzate al governo dell'epoca. Tra le cause dell'impreparazione acquista rilievo l'operato del generale Pollio (predecessore di Cadorna, convinto triplicista e anch'egli napoletano), che egli da convinto cadorniano attacca direttamente: "mi astengo dal pronunciare giudizi sull'uomo e sull'opera sua, che potrei formulare non a cuor leggero [... ]. Certo è che allo scoppiare della guerra europea nessuno studio esisteva per una guerra offensiva - dico nessuno: tutte le predisposizioni e tutti gli studi in caso di guerra con l'Austria lche spettava evidentemente al Pollio far compilare N.d.a.] erano esclusivamente difensivi[ ...]. Ed anche sotto l'aspetto difensivo, quanto era stato predisposto non era esente da gravi lacune".84 Questa critica ci sembra ingiusta: anche volendo prescindere dal fatto che l'Austria era nostra alleata, notoriamente il terreno del confine orien-

83 84

Barone, Storia militare della nostra guerra .... (cii.), p. 219. ivi, p. I6.


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tale non si prestava a un'offensiva (la guerra lo avrebbe dimostrato), tanto più che l'esercito austriaco era di molto superiore a quello italiano. E.B. tuttavia ha ragione quando osserva che, benchè il nostro esercito fosse impreparato per un'offensiva, essa era richiesta sia dagli scopi della nostra guerra, sia dalla necessità di impegnare sul nostro fronte una grossa quantità di forze austriache, alleggerendo gli altri settori. Giudica l'offensiva iniziale ben concepita da parte del Comando Supremo, e tale da poterci assicurare subito, con sforzi relativamente modesti, posizioni - come il Sabotino e il San Michele - la cui conquista avrebbe poi richiesto tante forze e tanto sangue: ma se i risultati iniziali ottenuti (tranne che sul fronte della l3 armata del trentino) sono stati inferiori a quanto sarebbe stato possibile ottenere, ciò è dovuto al1'insoddisfacente operato di "alcuni grandi Comandi". E se le operazioni offensive fino all'inverno 1915 hanno portato a esigui guadagni territoriali, ciò dipende daJl'impreparazione del nostro esercito e in particolar modo dalla scarsità di artiglierie. Anche i cospicui successi iniziali dell'offensiva austriaca del maggiogiugno 1916 sugli Altipiani sono dovuti, secondo E.B., agli errori del Comando 1• armata, che ha spinto le truppe troppo avanti, su posizioni non adatte per organizzarvi un'efficace difesa e quindi rapidamente perdute; comunque l'offensiva è stata fermata sempre e solo grazie all'operato e alla preveggenza del generale Cadorna, al quale indirizza molte lodi anche per la successiva conquista di Gorizia, arditamente concepita - sorprendendo gli austriaci - subito dopo l'arresto dell'offensiva sugli Altipiani. Accanto alle lodi a Cadoma, forti critiche al generale Capello accusato anche da E.B. di essere troppo prodigo del sangue dei suoi soldati, e di essere troppo duro - e inurbano - con i dipendenti anche di alto grado, fino a rappresentare "l'antitesi del Capo che pur severo, intransigente e rigido, sa affezionarsi gli animi dei suoi "85 (tale è stato, invece, il Duca d' Aosta comandante della 3" armata). Capel1o sarebbe colpevole anche di non aver sfruttato a fondo il successo subito dopo la conquista di Gorizia, fino ad affermarsi sulle posizioni di Monte San Gabriele - Monte San Marco - Vertoibizza, che non riuscì mai a conquistare, ignorando le esortazioni del Comando Supremo e invece perdendo tempo "a concedere interviste e a prendere atteggiamenti da trionfatore". 86 E.B. attribuisce gli insuccessi o i limitati risultati dell'offensiva del maggio-giugno 1917 sulla Bainsizza anche alla perdita di vigore offensi-

11.1 ivi, p. 194. .. ivi, pp. 88-89.


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vo delle truppe, e nota che nel luglio 1917 si erano diffuse nel Paese e nel1'esercito tesi pacifiste e disfattiste, miranti a mettere fine agli "inutili massacri" e allo stallo delle operazioni, con una pace di compromesso nella quale ambedue i contendenti facessero delle concessioni. Ma giustifica la successiva, grande offensiva della Bainsizza con la necessità di completare i risultati dell'offensiva di maggio 1917, con gli impegni assunti a fine luglio con gli alleati - che premevano per un' offensiva - e proprio con la necessità di tener conto delle precarie condizioni morali dell'esercito e del Paese, che secondo il Comando Supremo sarebbero peggiorate con un periodo di inazione troppo protratto, migliorando invece decisamente in caso di un'offensiva vittoriosa [e se la vittoria non fosse venuta? - N.d.a.l. Ancora una volta, secondo E.B. l' offensiva della Bainsizza è stata ben concepita dal Comando Supremo, con relativa abbondanza di artiglierie e munizioni che questa volta hanno consentito di sferrarla su una fronte assai ampia, sia pure sguarnendo - per fare massa - il fronte del Trentino. Se essa non ha dato i risultali sperati e nel settembre 1917 è stata anzi sospesa, ciò è dovuto ancora una volta sia al diminuito spirito offensivo delle truppe, sia a ragioni strategiche e logistiche (eccessivo consumo di munizioni; scarsità di complementi, visto che da maggio a settembre si erano perduti circa 280.000 uomini tra morti, feriti e dispersi; notizie di concentramenti di truppe tedesche sul nostro fronte). Tn tutti i casi, secondo E.B. fino a Caporetto (compresa) il generale Cadorna si è dimostrato sempre "non solo un grande organiz.z.atore, ma anche uno stratega manovriero e un vincitore di battaglie di primissimo ordine". Se specie ma non solo all'inizio della guerra l'esercito italiano ha condotto offensive su fronti poco estesi (facilitando così le contromanovre di fuoco e di forze del nemico), ciò è avvenuto per due ragioni : per le caratteristiche del terreno che poco si prestava all'offensiva e forniva al difensore passaggi obbligati sui quali il fuoco nemico poteva essere concentrato, e soprattutto perché la disponibilità di artiglierie, bombarde e mitragliatrici, scarsissime nel 1915, è rimasta sempre insufficiente. Queste carenze rendevano necessario schierare i mezzi di fuoco su breve spazio per rendere più intensa la loro azione, con una fronte d'attacco più ristretta sulla quale, quindi, il difensore poteva concentrare il fuoco delle sue numerose artiglierie. In questa situazione ciascuna spallata sull'Isonzo "ci cagionava gravi perdite di uomini, con conseguente Logorìo delle unità e grande consumo di munizioni, delle quali non a vevamo abbondanza" fma allora, perchè se ne sono date tante? - N.d.a.]; quindi, fino a quando avremmo potuto disporre di mezzi di fuoco e di munizioni in quantità maggiori, ogni avan-


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zata avrebbe richiesto tempi lunghi e sarebbe stata pagata a carissimo prezzo_ Per completare il quadro, nei terreni montani del fronte dell'Isonzo non era possibile una difesa elastica: perduta una dorsale, se ne trovava un'altra solo a grande distanza_ Questo richiedeva J' occupazione delle posizioni di prima linea con un livello costantemente elevato di forze e la clislocazione avanzata delle riserve, rendendo così molto limitata la possibilità di tenere forze in riposo e stabilire dei turni di avvicendamento. Riguardo alle vicende di Caporetto, E_B. ricorda che con lettere in data 8 giugno, 13 giugno e 18 agosto 1917 il generale Cadoma ha chiesto invano al governo di prendere idonei provvedimenti per por fine al grave pericolo della propaganda disfattista che dal Paese si diffondeva sempre più nell'esercito, giungendo ad affermare che "il ioverno italiano sta facendo una politica interna rovinosa per la disciplina e per il morale dell'esercito, contro la quale è mio stretto dovere di protestare con tutte le forze dell'anima ". Visto che il governo non rispondeva, secondo E.R Cadorna "aveva il dovere di non rendersi complice di una catastrofe con la sua esitazione a ricorrere all'unico mezzo che ancora gli restava [cioè le dimissioni - N.d.a.] , ajjìnchè il Paese aprisse gli occhi e obbligasse i responsabili della politica interna a cambiar rotta"_ 87 È in questa situazione pregressa che è avvenuto quello che E.B. definisce "lo sciopero militare" di Caporetto, dovuto alla convinzione di una parte delle truppe dell'opportunità di non resistere per far finire La guerra; "di questo carattere dello 'sciopero militare' - secondo la giusta espressione di un ministro del tempo - ebbero l 'esatta sensazione quanti testimoni vi furono della ritirata sul Tagliamento e sul Piave". 88 A tale "sciopero" si è giunti, a suo parere, dopo che sui fenomeni di indisciplina e di mancanza di spirito offensivo già rivelatisi in alcuni reparti durante la battaglia della Bainsizza si sono innestati la delusione per il mancato raggiungimento della pace neppure dopo tale battaglia, l'annuncio dato al soldato da determinate correnti politiche che non vi sarebbe più stato un altro inverno in trincea, l'esempio di sciopero militare già fornito dalla rivoluzione russa. Dal punto di vista militare, senza alcun accenno ali' intenso e efficace fuoco di artiglieria e all'altrettanto efficace impiego dei gas da parte delle truppe attaccanti nella fase iniziale dell'offensiva, E.B. - sempre come a suo tempo aveva fatto Cadoma - indica nella resa senza combattere delle

87 88

ivi, p. 143. ivi, p. 140.


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nostre truppe dislocate sulle posizioni di Gabrie e Selisce, e nella successiva caduta di Monte Maggiore (27 ottobre 1917) le cause fondamentali della ritirata. Per il resto, a suo giudizio nella fascia montana vi è stata scarsa o nulla resistenza non solo da parte della fanteria, ma anche dall'artiglieria del IV e XXVll corpo d'armata. La fanteria ha ceduto senza combattere posizioni giudicate in precedenza forrrùdabili , "solo perché grossi pattuglioni nemici, spingendosi temerariamente lungo il fondo delle valli, intimavano la resa a intere brigate, dichiarandole aggirate; e queste si arrendevano!". 89 In quanto all'artiglieria, "la verità dolorosa è che,

purtroppo, molte batterie furono abbandonate senza nessun motivo". Insomma: per E.B. l'unica causa della ritirata sul Piave sarebbe la mancata resistenza delle truppe. Poiché lo strumento si è spezzato loro tra le mani all'improvviso, non hanno nessuna responsabilità (sic) né Cadorna, né il comandante della 2a armata, né i comandanti di corpo d'armata, anche se quest'ultimi avevano in precedenza dato ampie assicurazioni sullo spirito delle truppe e anche se il progetto del generale Capello per una controffensiva a Sud di Tolmino avrebbe avuto un esito molto dubbio:X 1 È questo l'unico accenno alla divergenza d'opinioni su come reagire all'offensiva tra il Capello e il Cadorna; per il resto, con una serie di argomentazioni interessanti E.B. nega che la rotta vada attribuita o a mancanza di idonee predisposizioni riguardanti le forze e gli apprestamenti difensivi, o a errori di condotta della battaglia. Cadorna oltre tutto ha magistralmente predisposto e organizzato la ritirata, sì che "la bella resistenza che il nostro esercito fe-

ce sul Piave e Monte Grappa negli angosciosi mesi di novembre e dicembre 1917, fu, in gran parte, una vittoria postuma del generale Cadorna riportala dai suoi successori"; e anche se quest'ultimi si sono poi dimostrati all'altezza dei loro compiti, è stato "un salto nel buio" sostituirlo. Nonostante i discutibili giudizi sulle cause di Caporetto e sul comportamento delle truppe in quell'occasione, E.B. osserva giustamente che l'azione dell'esercito fino a quel momento non può essere misurata in termini di chilometri quadrati di terreno conquistato e che le truppe si sono fatte onore con memorabili battaglie vinte. Le potenze dell' Intesa però hanno rrùsconosciuto l'apporto italiano, e soprattutto hanno avuto il torto di non prendere mai nella dovuta considerazione la giusta idea del nostro Comando Supremo, che fosse necessario concentrare le forze sul fronte italiano, per provocare anzitutto il crollo della parte più debole delle potenze centrali, cioè l'Austria. "" ivi, p. I 64. p. 193.

•nivi,


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SEZIONE VI - Politica, economia e preparazione della guerra futura negli ultimi scritti del dopoguerra

Il difficile dopoguerra - difficile soprattutto dal punto di vista economico-sociale - oggettivamente dimostra la fallacità di parecchle idee sostenute da E.B. prima del 1915 in merito agli aspetti economici della guerra e ai suoi riflessi sociali, così come dei vantaggi che avrebbe avuto l'Italia rompendo la sua neutralità e schierandosi a fianco dell'Intesa. Notevole, sotto questo profilo, una prolusione del 1921 nella quale manifesta la sua opinione sulla situazione internazionale e interna del primo dopoguerra e indica anche de11e soluzionj per la grave crisi econorica in atto.91 Scompaiono del tutto, questa volta, i precedenti e fin troppo favorevoli accenni alla Francia e a11'Inghilterra. Premesso che (non l'aveva mai detto prima), la guerra è scoppiata per cause essenzialmente economiche, cioè "per l'urto fatale fra due potenti, invadenti ed inconciliabili imperialismi: quello inglese e quello gennanico", secondo E.B. l'Italia non ha raggiunto gli obiettivi per cui è entrata in guerra - compiendo tanti sacrifici e rimanendo "economicamente spossata" - per tre ragioni essenziali: "l° un feroce egoismo inglese; 2° una cieca gelosia francese; 3° un male psicologico collettivo, di cui tutto il mondo più o meno oggi soffre, ma che più gravi fa sentire i suoi effetti nei paesi meno ricchi". Ne consegue un'aspra critica a11a politica franco-inglese, che ha portato al trattato di Versailles nel 1919. Con la guerra l'Inghllterra avrebbe voluto eljmjoare la concorrenza tedesca; ma questo risultato è stato ottenuto al prezzo dell'intervento americano, che ha segnato la fine dell'egemorua inglese nel mondo, costringendo l' imperialismo inglese ad accodarsi a quello americano. Al momento manca all'Inghilterra anche la tranquillità all 'interno e all'esterno: l'Impero inglese, cresciuto ancora, ha aumentato le difficoltà di conservarlo, mentre il mondo musulmano "s 'agita dappertutto e fneJ scuote i cardini più saldi". Vi è poi la questione irlandese ... La situazione interna dell'Inghilterra è grave: a fronte di una diminuzione della produzione, con una serie di scioperi e agitazioni sociali le masse chiedono di lavorare di meno e di guadagnare e consumare di più. Queste difficoltà avrebbero dovuto indurre l'Inghilterra a rinunciare a11a sua tradizionale politica egoistica: invece non lo ha fatto, correndo il peri-

1 • C fr. Barone, La lampada votiva. Discorso di inaugurazione del/'an110 scolastico /921 - 1922 al R. Istituto Superiore di Studi Commerciali di Roma ( 16 novembre 192 1), in "Ra.uef!,na delle Scienze Economiche e finanziarie " Anno I n. I - dicembre 1921.


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colo di rimanere senza armi e in particolare senza l'amicizia dell'Italia, che per colpa dell'Inghilterra vede mal compensato il sacrificio dei suoi 500.000 caduti. Anche la Francia, pur essendo corrosa dal male della denatalità, mira contradditoriamente a una "larga, insaziata" politica di espansione. I suoi uomini di Stato "non hanno ancora compreso quale convenienza vi sia per

lei, che produce molto risparmio con pochi uomini, a tenersi cara La minor sorella latina [cioè l'Italia, che al contrario produce poco risparmio con natalità elevata - N.d.a.] così feconda, per poter tener testa insieme ai popoli germanici, tutt'ora in vibrato aumento". Invece la Francia ha visto nell' Austria prima un bastione contro l'espansione turca e slava, poi contro l'espansione italiana nei Balcani, sostenendo anche dopo il 1918 la sua indipendenza dalla Germania per impedire la costituzione di un gruppo demografico unico ancor più forte e minaccioso al centro dell 'Europa. Per queste ragioni la Francia durante la guerra si è sempre opposta ad esercitare quello sforzo decisivo sulla fronte italiana che la ragione militare consigliava e ha favorito e favorisce in tutti i modi la Jugoslavia in funzione antitaliana. Lo stesso "terrore demografico" che l' ha indotta a un atteggiamento "òeco e ingrato" verso l'Italia, l'ha anche spinta "a volere a Versailles l'assurdo che 70 milioni di produttori del centro d'Europa [cioè i tedeschi - N.d.a.), Laboriosi, capaci, prolifici fossero posti nell'impossibilità di risorgere e di accrescersi", favorendo cos'ì presto o tardi un'alleanza della Germania, che rimane la maggior potenza industriale d ' Europa, con la Russia comunista, che è un enorme deposito di materie prime delle quali la Germania stessa abbisogna, così come la Russia abbisogna delle risorse tecniche e organizzative tedesche. Per effetto del "male psicologico collettivo" anche le masse italiane, nonostante la forte distruzione del risparmio provocata dalla guerra, sono tornate dalle trincee "con molta minor voglia di lavorare (e quindi di pro-

durre) e con l'aspirazione a un tenore di vita più alto di prima (e quindi a un maggior consumo)". Dal canto suo il governo ha aggravato la situazione, con una politica economica demagogica che ha di fatto favorito la fuga di capitali all'estero ... Ne è derivato lo svilimento della moneta, accompagnato da una crescita continua dei prezzi; fenomeno di per sé non del tutto negativo, che tenderebbe a ristabilire l'equilibrio rotto tra consumo e produzione, stimolando la produzione e limitando il consumo, dopo di che i prezzi si abbasserebbero. Ma se - come sta avvenendo - i proletari, che sono la massa dei consumatori, non si rassegnano a diminuire il loro tenore di vita "come ha dovuto e saputo fare la media borghesia", e se con gli aumenti dei prezzi essi chiedono più alti salari per conservare e ma-


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gari accrescere il tenore di vita precedente, allora si innesta un circolo vizioso, con la rincorsa continua tra prezzi e salari. l1 rimedio indicato da E.B. non è altro che quello tipico del liberalismo classico, in voga anche nel 2000: fare di tutto perché i capitali non si trasferiscano al1'estero, lavorare di più e consumare di meno. Ciò non significa - egli precisa - che i nostri salari e consumi non debbano essere aumentati, visto che sono inferiori a quelli di altri paesi: significa solo che nelle specifiche condizioni del momento della nostra economia, essi non corrispondono alla scarsa produttività del lavoro. Inoltre, anziché ricorrere a prestiti o nuove imposte per colmare il deficit di bilancio, lo Stato deve diminuire le spese, restringendo gli organici della burocrazia e rinunciando a interventi diretti nel campo economico (come la pretesa di combattere la disoccupazione con risorse economiche alla fin fine sottratte con le tasse agli stessi imprenditori, che sarebbero costretti a ridurre gli occupati con conseguente aumento dei disoccupati). Pe rciò - conclude E.B. anziché pagare il debito dei Caduti nella guerra con lampade votive e manifestazioni esteriori, bisogna onorarne la memoria impegnando noi stessi perché il loro sogno divenga realtà, e "au5picando con tutta l'anima nostra l'avvento degli uomini di forte polso, di sincerità e di fede, onde il nostro destino, per cui voi combatteste e moriste, sia compiuto". Tn un libro dal titolo La nazione organizzata pubblicato nel 1922 subito dopo l'avvento al potere del nuovo regime,92 il ten. col. di artiglieria Natale Pcntimalli suggerisce una radicale riforma deJl'organi zzazione della difesa nazionale, che per il futuro dovrebbe essere basata sul binomio douhetiano aviazione-gas e su un 'accurata organizzazione industriale da mettere a punto fin dal tempo di pace, onde consentire, all'occorrenza, il rapido passaggio dalla produzione di pace aJla produzione di guerra, con particolare riguardo alle industrie chimiche e aeronautiche. Il Pentimalli ritiene perciò che mantenendo per la preparazione militare gli stessi criteri dell'anteguerra si sprecherebbe solo ricchezza. Di qui tutta una serie di riforme: abolizione della cavalleria, motori zzazione dell'artiglieria, abolizione delle fortificazioni, radiazione delle corazzate e costruzione solo di naviglio leggero e portaerei, con un ridotto esercito di pace altamente operativo, riduzione della ferma a tre mesi e mobilitazione tipo nazione armata.

92

Cfr. Natale Pe ntimalli, La nazione organizzata, Koma, Tip. Società Cantieri Centrali 1922. Si veda anche, in merito, Fermeeio Botti - Vu-giliu Ilari, /I pensiero militare italiano tra il primo e il secondo dopof?uerra, Roma, SME · Ufficio Storico 1985, pp. 55-60.


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E.B. compila per il libro del Pentimalli una presentazione, nella quale dichiara di non condividere sempre le idee a volte "esagerate" dell'autore, accettando però la sua affermazione di base che occorre impostare la preparazione militare con nuovi criteri e la sua previsione che la guerra futura sarà basata sul binomio aviazione-gas. Osserva però che una così profonda trasformazione dell'organismo prebellico pur essendo necessaria richiede del tempo; intanto, bisogna esigere che i vertici militari non si mettano su una falsa strada. Su questo punto, E.B. è molto critico: "noi qui in Italia su questafalm strada siamo e pervicacemente ci ostiniarrw a rimanere", non si sa se per incapacità dei Capi militari di vedere chiaro e lontano, per "arrugginimento" dei cervelli, per timore di a<;sumersi le grandi responsabilità che una siffatta trasformazione comporterebbe, oppure per non voler offendere "alcuni interessi di classe o di grosse prebende". Comunque non è vero che una preparazione impostata con criteri diversi comporterebbe un minor aggravio finanziario per il paese: "in verità, ad evitare tale credenza erronea non ha abbastanza contribuito" lo stesso Pentimalli, che non è andato sufficientemente a fondo sui risvolti finanziari delle sue proposte. Un Paese tende sempre a sostenere il massimo sforzo finanziario possibile per le esigenze militari; tale sforzo non dipende dal tipo di preparazione militare e di condotta della guerra prescelti, ma solo dalla maggiore o minore ampiezza degli obiettivi di politica estera. Quindi, per E.B., una volta definiti questi obiettivi, i nuovi criteri per la preparazione avrebbero non già lo scopo di diminuire la spesa militare, ma di evitare gli sperperi, raggiungendo il massimo risultato utile con il minimo sforzo. Per E.B., insomma, l'economicità della spesa militare non significa affatto di per sé contenimento di tale spesa, ma sua proporzionalità con gli impegni di politica estera assunti e sua qualificazione, ottenuta con un'allocazione delle risorse disponibili che wnsenta di raggiungere gli obiettivi essenziali senza ridondanze e sprechi: concetto estremamente attuale, anche se raramente seguìto nella realtà quotidiana di ieri e di oggi.

Conclusione Pochissimi autori hanno toccato, come E.B., un ventaglio di argomenti militari così articolato e ancora così attuale; al tempo stesso, parecchi aspetti delle sue tesi almeno alla luce dell' esperienza storica successiva appaiono datati o in parte o in tutto criticabili, fino a non giustificare le lodi totali e incondizionate quanto generiche che finora sono state di norma tributale ai suoi scritti militari, mai esaminati a fondo.


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Tuttavia, al di là delle contraddizioni egli ha fornito un contributo prezioso e spesso originale su tutta una serie di argomenti: a) nei giovanili scritti sugli aspetti teorici dell'arte militare, dove supera sia il Marselli del quale rimane emulo e seguace - che il Ricci e altri, recependo (cosa rara anche oggi) il meglio di Clausewitz; b) nella direzione della Preparazione e nelle tesi che sviluppa anche sulla Nuova Antologia per un inquadramento razionale e realistico della problematica militare, trattata nei suoi molteplici aspetti senza escludere lo spinoso problema del bilancio (cortocircuitato sia dal Marselli che dal Perrucchetti, che tendono a prospettare delle esigenze più che delle soluzioni realmente praticabili); c) in un inquadramento prevalentemente a sfondo economicistico (quindi più completo di quello degli altri scrittori terrestri e navali) del ruolo delle forze navali, con particolare riguardo all'importanza basilare delle vie dicomunicazione marittime per l'alimentazione del nostro sforzo bellico, senza per questo concedere spazio agli eccessi dei navalisti ; d) nella tendenza generale a ricercare il parallelismo tra aspetti economico-sociali e problematica militare, non esclusa la preparazione e condotta delle operazioni; e) nel combattere la diffusa tesi dei liberisti che vedevano nella spesa militare solo un passivo e un inutile gravame, e nel mantenere riguardo allo sviluppo di un'industria militare nazionale una posizione flessibile e tale da ammettere anche forme protezionistiche e interventistiche dello Stato, nella fattispecie giustificate dall'esigenza pratica di rendere la preparazione militare nazionale il meno possibile dipendente dall'estero; f) nel sostenere a proposito de11e cause della guerra di trincea tesi tali da sfuggire alle consuete banalità sul binomio mitragliatrice-reticolato e da avvicinarsi al vero, specie là ove sottolinea che il vero problema consisteva nel creare la differenza di potenziale (morale e/o materiale) necessaria per assicurare il successo dell' offensiva, proprio perché reso più difficile dalle accresciute chances tecnologiche della difesa; g) nel sostenere con rara preveggenza il rafforzamento del confine orientale con l'Austria e in particolare il potenziamento del sistema ferroviario nel Nord-Est; h) nell'aprire Je colonne della Preparazione a un dibattito sull'aeronautica allora ai primi passi, concedendo in particolare le pagine del giornale ai primi celebri articoli di Giulio Douhet; i) più in generale, nel farsi promotore con "La Preparazione" da lui diretta di un ammodernamento delJe Forze Armate, affrontando tutto un ventaglio di argomenti, trattati da vari autori sempre con competenza e con proposte spesso originali e calzanti; 1) infine, nel sostenere un concetto di storia come risultante momentanea di diverse componenti che si influenzano a vicenda in misura variabile, quindi non autorizzano quei dogmatismi, quegli ideologismi partigiani, quegli approcci ten-


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denziosi e quegli esclusivismi non certo infrequenti tra gli storici di ieri e di oggi (basti pensare al frequente uso politico della storia). Alla luce degli eventi successivi e delle carenze dimostrate dall'esercito nella guerra 1915-1918, specie ma non solo con le campagne di stampa della Preparazione E.B. non fa che perseguire l' interesse vero della nazione e dell'esercito: ma ce n'è abbastanza per farlo definire dall'inglese Richard A. Webster un nazionalista vicino all'industria pesante, ecc. ecc ... 93 Così facendo, questo scrittore inglese di incerta fama segue una diffusa moda degli storici del suo Paese, abituati a pontificare a dritto o a rovescio sulle cose italiane con scritti accolti chissà perché con grande reverenza, nei quali accusano di nazionalismo ecc. tutti coloro che si permettono di fare - o vorrebbero si facesse per l'Italia - ciò che da secoli hanno fatto e fanno (senza alcun scandalo da parte di nessuno, né tanto meno da parte loro), i governanti della Gran Bretagna, da secoli ben convinti della British superiority e non secondi a nessuno quando si traila di dife ndere con ogni mezzo gli interessi del loro Paese, che con una politica spregiudicata ha conquistato e mantenuto per secoli il più grande impero coloniale della storia e le principali posizioni strategiche in tutto il mondo, monopolizzando per lungo tempo le più importanti risorse mondiali e controllando buona parte del commercio mondiale. Intendiamoci: perseguire con il "sacro egoismo" i propri interessi nazionali non è una colpa, o non necessariamente è una colpa. Ma se questo è vero per l'Inghilterra, perché non dovrebbe esserlo per l'Italia? Nella fattispecie, non si vede che cosa avrebbe dovuto scrivere E.B. per sfuggire alle disinvolte e sbrigative affermazioni (o meglio insinuazioni) del Webster: sostenere che le nostre Forze Annate non avevano bisogno di ammodernamento e di risorse? dire che l'Italia doveva e poteva essere disarmata, o che non abbisognava di un' industria militare che le consentisse di costruire le proprie corazze e artiglierie, favorendo così i monopoli stranieri e proprio quelli inglesi? E.B., infine, ha forse sostenuto qualcosa di simile al rule Britania, al Deutschland uber alles o al France d 'abord? E poiché Webster parla nel titolo del suo libro di "imperialismo industriale italiano" nel periodo 1908-1915, tale "imperialismo industriale" regge forse anche alla lontana - il confronto con le attività dell ' industria cantieristica inglese nel1o stesso periodo, impegnata nella più grande corsa agli armamenti navali della storia in omaggio al principio - questo sì imperialistico - del two powers standard? 9 ' Cfr. Richard A. Wcb stcr, /,'imperialismo industriale italiano 1908- 1915 - Studio sul prefascismo, Torino, Einaudi 1974 (specie pp. 99 e 539).


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Per contro i punti di caduta dell'opera di ER sono molteplici e non lievi. Non può essere anzitutto condivisa la tendenza - emersa in particolar modo nella polemica con Bloch - a presentare la guerra futura come portatrice di vantaggi anche economici più che di danni e rovine, e invece la pace come fonte di indebolimento e terreno di coltura di germi dissolventi per la società. In proposito, non c'è bisogno di spendere molte parole per dimostrare i danni che non solo all'Italia, ma all'Europa hanno causato le due guerre mondiali, con gravissime perturbazioni politiche, sociali ed economiche e una serie di riflessi internazionali non positivi. E che dire dei milioni e milioni di morti della guerra di trincea 1914-1918, o dei danni anche alle popolazioni civili e alle infrastrutture economiche e industriali nella seconda guerra mondiale, provocati prima di tutto dalla nuova Arma aerea? In breve: nel XX secolo è avvenuto esatlamenle l'opposto delle previsione di E.B., anche se lo spirito militare, la volontà di battersi dei contrapposti eserciti sono andati gradualmente diminuendo, sia nel corso delle due grandi guerre che nel corso del secolo. Si deve solo dire che, proprio in relazione alla diminuzione dello spirito militare (fenomeno peraltro tipico solo delle società industriali avanzate occidentali), si è sempre più manifestata la tendenza a sostituire gli uomini con le macchine e le tecnologie. Un ripiego pseudopacifista che non ha mai assicurato di per sé né la vittoria né le agognate guerre brevi, fermo restando che, anche a prescindere dalla bomba atomica, uno scontro totale tra nazioni industrialmente sviluppate è stato - e ancor più sarebbe - un gravissimo danno sotto tutti gli aspetti, oltre tutto equamente suddiviso tra vinti e vincitori. Intendiamoci: quanto abbiamo detto vale in particolar modo per l'Europa. In effetti, in ambedue le guerre mondiali vi è stata una vera potenza vincitrice, anche e soprattutto sotto l'aspetto economico: gli Stati Uniti, che grazie ad esse hanno conquistato una leadership militare e economica oggi incontrastata (e tale destinata a rimanere anche nel medio periodo). Ma proprio questo fenomeno se da un lato dimostra la validità del concetto di storia come equilibrio dinamico e variabile di varie componenti tipico di E.B., dall'altro fa emergere un altro suo grave limite: la tesi generalmente condivisa che la spesa militare va accresciuta in tempi di espansione economica, ma va diminuita in tempi, per così dire, di vacche magre. Una tesi che anche oggi ha successo specie in Italia, ma che a un più attento esame si rivela di una razionalità solo apparente, semplicistica e totalizzante, quindi contradditoria rispetto all'approccio prevalente nel Nostro: perché anche su questo aspetto cruciale bisogna distinguere caso per caso. È un fatto storico accertato che negli anni Trenta il regime hitleria-


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no con una politica di grandi lavori pubblici, con l'aumento della spesa militare e la rkostjtuzione di un grande esercito di leva è riuscito a eliminare in poco tempo la rusoccupazione e la crisi economica in Germania. Più o meno nello stesso periodo e in un contesto politico-sociale estremamente ruverso, anche l'amministrazione Roosvelt con il New Deal e il riarmo ha rilanciato l'economia degli Stati Uniti ed eliminato la disoccupazione, con una svolta nella quale la spesa militare americana - da allora in poi sempre rimasta assru elevata - non ha mai ostacolato lo sviluppo economico, ma anzi ne è stata una componente propulsiva fondamentale (anche sotto l'aspetto tecnologico) fino ru nostri giorni. Che avverrebbe se gli astronomici stanziamenti americani per la difesa fossero improvvisamente eliminati? Se ne deduce che in periodi di depressione economica l'aumento della spesa militare può anche essere (anche se non necessariamente, non ovunque e non sempre lo è) una delle leve da manovrare per uscire dalla crisi. In secondo luogo, l'esempio odierno degli Stati Uniti dimostra che la prosperità economica può convivere benissimo con un livello molto elevato della spesa militare. Su questo punto, dunque, E.B. viene meno al condivisibile "relativismo" che caratterizza tante altre sue posizioni in campo economico e militare; lo stesso si può dire a proposjto del problema delle colonie per l'ltalia. ln questo caso egli sostiene con piena ragione che l' Italia di fine secolo XIX non era affatto matura per imprese coloniali, prima di tutto perché si trovava in piena crisi di trasformazione da Paese agricolo a Paese industriale; ma poco più di dieci anni dopo dà senz'altro per superata tale crisi e traccia un panorama idilliaco della situazjone anche finanziaria interna, che renderebbe conveniente l'impresa di Libia. Come se non continuassero a esistere gravi problemi economici e sociali, e come se non vi fosse almeno da chiedersi se era conveniente impiegare per Lak impresa le scarse risorse, oltre tutto distraendo cospicui fondi e forze militari, proprio quando si addensavano sempre più le nubi dell' ormai vicina tempesta (sono ben noti i riflessi negativi di questa campagna sulla nostra preparazione alla guerra europea, messi in luce dallo stesso generale Cadoma in un suo promemoria all'alto dell'assunzione della carica di Capo di Stato Maggiore). In secondo luogo, se si guarda al beneficio che hanno tratto dalle colonie i veri, grandi Paesi colonialisti (tali sono stati prima di tutto l'Inghilterra, e poi anche la Spagna, il Portogallo, il Belgio e l'Olanda) è senz'altro giustificata la tesi di E.B. che le colonie, in generale, corrispondono al bisogno dell'economia di un Paese di espandersi, di conquistare nuovi mercati ecc.: ma era questo il caso dell'Italia di allora? l'Eritrea e la Libia


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erano veramente in grado di assorbire l'esubero di manodopera costretta, allora e dopo, a un'emigrazione di massa in paesi stranieri? possedeva l'Italia, dal 1890 al 1915, il volume di risorse finanziarie necessario per conquistare e valorizzare territori oltremare? La risposta a questi interrogativi non può che essere negativa; dunque E.B. presenta un quadro della situazione economica nazionale non aderente alla realtà e stranamente trascura una realistica analisi dei costi e benefici che avrebbe offerto la conquista di territori nel Corno d'Africa o in Libia. Su questo argomento, sono dunque di gran lunga più acute le analisi del Ricci e del Marselli. Non può nemmeno essere accettato il quadro della cause della rotta di Caporetto fornito da E.B .. Al generale Cadoma vanno riconosciuti grandi meriti, a cominciare da quello di aver trasformato, in poco tempo, in un grande e temibile esercito una massa di Quadri e uomini che risentivano, com'era inevitabile, degli storici difetti e delle carenze della nazione italiana da poco formata. Ma l'attribuzione delle responsabilità esclusivamente alla propaganda sovversiva e agli errori dei sottoposti del generale Cadoma contrasta anzitutto con l'approccio storiografico dello stesso E.B., basato - oltre che sul principio della mutua dipendenza, sul ruolo non esclusivo del Capo militare nelle vittorie e nelle sconfitte, sulla complessità dell'evento storico visto quale risultante di molteplici fattori ecc .. Nella fattispecie, non si può perdonare a una leadership di non conoscere il morale delle proprie truppe, di sopravvalutare la reale solidità della propria organizzazione difensiva, di non aver percepito la reale portata della minaccia che si stava profilando. Anche i negativi riflessi sulla "tenuta" morale delle truppe delle continue, sanguinose offensive e in particolare dell'ultima della Banisizza, avrebbero dovuto essere meglio valutati da E.B., visto che esse non hanno certo fornito risultati proporzionati allo sforzo compiuto e al dispendio di vite umane. 94 Oltre tutto, le chiavi interpretative da lui fornite su questo punto sono in contrasto anche con la relazione ufficiale sulla guerra 1915-1918. Come già osservato, E.B. dice parecchie cose interessanti anche sul nesso tra istituzioni militari e società, giustamente negando l'influsso determinante del progresso degli armamenti, quindi delle varie, pretese "rivoluzioni" (delle armi da fuoco, del vapore .... ) delle quali ancor oggi parecchi studiosi vaneggiano; tuttavia non può essere accettata la sua visio-

94 Cfr., in merito, SME - Uffi cio Storico, L 'esercito ilaliano nella grande guerra ( /9/ 5- / 9 / fi) le operazioni del / 917 (avvenimenti da ottobre a dicembre), Voi. IV To mi 3°, 3° bis e 3° ter, Roma 1967.


= 55 ~ 0~ -- - - ~ IL~P= EN=S= I E~RO ~M = l=Ll=TAREl:iNAVALt lTALLANO-VOL,_l_!_l_fil70-191 5) -TOMOI

ne di un'evoluzione rettilinea della società e quindi delJa guerra, che sottintende pur sempre - in quanto tale - una vaga idea di "progresso" tutta da configurare, nella quale il fattore economico risulta di fatto l'unico motore della storia, fino a fare dello Stato - a suo dire - uno strumento diretto ed esclusivo delle classi dominanti, riducendo i governi a meri esecutori e gestori del loro predominio. Stando così le cose, l'approccio marxiano allo sviluppo storico, pur contradditoriamente combattuto da E.B., è del tutto analogo al suo. Più che naturale, infatti, che in un processo lineare di trasformazioni sociali che ha già visto la borghesia soppiantare la nobiltà e il clero, sia alla fine il "quarto stato", cioè il proletariato, a prevalere: ma la storia della seconda metà del secolo XX ha smentito questa versione semplificata, che pretende di dare un senso compiuto agli avvenimenti .... Ancora una volta est modus in rebus e i fenomeni sono complessi. Più che di "evoluzioni" si può e si deve parlare di "mutamenti "; né ci si deve ostinare - come fa a nche E. B. a ricercare nella storia un filo conduttore, che talvolta manca o si spezza, per un complesso di cause attribuihili a quell'equilibrio dinamico sempre temporaneo, con varie componenti di peso variabile, del quale parla egli stesso per spiegare le trasformazioni della società e quindi anche della guerra. Riguardo al grande problema della pace il Nostro ha il merito di discostarsi dalle interpretazioni positiviste del Marselli, per il quale la storia è un processo di selezione continua ove mediante lotte e guerre finisce per prevalere non tanto il più forte, ma il migliore in tutti i sensi; tuttavia da un economista, da un sociologo e da un esperto militare della sua portata sarebbe stato legittimo attendersi molto di più sul rapporto tra economia e guerra, tra guerra e società, tra strategia e politica. I due citati opuscoli sul rapporto tra Istituzioni militari e condizioni politico-sociali e sulla "guerra e l'ascensione economica" non bastano; per fare un paragone, ben altra è la profondità d' indagine di Corrado Gini, che nel 192 I ha trattato le cause apparenti e reali e le ricadute economiche e sociologiche della guerra con una valutazione organica di tutti i possibili fattori, sia pur privilegiando il fattore demografico.95 Sulle cause delle guerre il Gin i distingue rettamente tra cause apparenti e reali e giunge alla conclusione - molto meno semplicistica delle tesi dei positi visti, del Marselli e dello stesso E.B. - che "i con:flitti armati tra i popoli o tra Le classi sociali sono dovuti al risveglio e all'esasperazione, in tutte le al-

95

Cfr. Corrado Gini, Problemi .mciolo,:ici della 1:uerra, Bologna, Zaniche lli 192 1.


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tre classi, della combattività umana, di fronte agli ostacoli che le diversità fisiche e psichiche delle popolazioni oppongono alla tendenza dei vari elementi sociali a distribuirsi conformemente alla loro naturale forza cl'espansione". 96 Perciò iJ Gini non accetta né l'ottimistica credenza, condivisa anche dal Marselli, che almeno in un non precisato futuro l'evoluzione deUa civiltà possa compiersi in modo pacifico, né l'idea che la guerra sarebbe un fenomeno moraJmente assurdo e riprorevole. Le guerre sono invece inevitabili e traumatiche rotture di equilibrio che si verificano nella vita degli Stati così come avviene nella vita biologica; sono I' "epilogo di un processo evolutivo, la man(festazione palese e latente di uno squilibrio lentamente sorto e acuitosi sotto il velo di successivi adattamenti". 91 Non bisogna perciò dare troppa importanza aJle cause occasionali e apparenti che ne provocano l' inizio, trascurando " Le cause interne del loro maturare". Per il Gini, se si tiene conto di tali cause remote si deve a mmette re che a parte le singole responsabilità, la grande guerra appena conclusasi avrebbe potuto essere ritardata, ma a lungo andare non avrebbe potuto essere evitata. Essa va ricondotta allo scontro di tre razze (latina, slava e tedesca) che ha segnato la sua storia; perciò "non sono tanto le conquiste g uerresche [ ... ] che spinRono questo mutuo penetrarsi e soverchiarsi e sostituirsi di razza, quanto movimenti di massa, non sempre visibili a occhio nudo, della cui importanza da pochi anni appena ci si comincia a render conto ". 98 Se si considera la grave situazione politico-sociale dell'immediato primo dopoguerra, anche il quadro dei riflessi economici, demografici e politici del contlitto tracciato dal Gioi ha specie per l'Italia punte di eccessivo ottimismo: 99 ma ciò non gli impedisce di compiere un'analisi estremamente accurata dei riflessi della guerra in ogni campo, smentendo indirettame nte le tesi di E.B. e facendole apparire grossolane anche (ma non solo) con la conclu sione che "se la guerra a cui la nostra nazione ha partecipato dovesse giudicarsi dal punto di vista del suo immediato tornaconto economico e potesse riguardarsi come un 'imp resa a cui ci si poteva sottrarre, La guerra sarebbe stata certamente per noi un cattivo affare". 100

"" ivi, p. 93. 97 ivi, pp. 6-7. 98 ivi, p. 9. 99 ivi, pp. 175-302. 100 ivi. p. 366.


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Di ben altra profondità, sempre rispetto alle malferme obiezioni di E.B. alle tesi del Bloch, anche la contestazione da parte del Gini delle tesi antimilitariste e anticolonialiste di Norman Angeli, che poco prima dello scoppio della guerra 1914-1918 aveva sostenuto che le guerre non avrebbero mai apportato al vincitore alcun vantaggio economico e che le colonie e gli eserciti erano un passivo. 101 In pratica le sue obiezioni, che non mette conto qui riassumere, si riducono a un principio ribadito e rispettato, almeno in teoria, dallo stesso E.B.: dipende, non è sempre vero. Le guerre, come le colonie, possono avere anche dei vantaggi, se non altro perché spingono progressivamente le grandi potenze ad associarsi, ad amministrare il molto che tendono sempre più ad avere in comune. Se si seguono le teorie del Gioi, si deve concludere anche per questa via che E.B. sull'argomento cruciale delle guerre e delle colonie almeno nel caso particolare dell'Italia ha avuto più torto che ragione: ma questo è ve~o anche sul piano generale? Data la complessità dell'argomento, trovare hic et nunc una risposta definitiva sarebbe impresa impossibile. Come termine di confronto foriero di salutari riflessioni, ci sembra tuttavia utile riassumere brevemente il contrapposto punto di vista di un autore inglese poco noto e solo di recente tradotto in Italia: John A. Hobson, che nel suo libro del 1902 (con aggiunte successive) L'imperialismo 102 sostiene tesi antimilitariste e antimperialiste antitetiche a quelle dello stesso E.B., con forti critiche nei riguardi della politica estera, coloniale e militare inglese e degli asseriti vantaggi economici che l'Impero assicurerebbe al1'Inghilterra stessa. Hobson capovolge totalmente gli asserti di base di gran parte degli autori militari (non solo italiani) del secolo XIX e XX e in particolare la tesi dell'armonia tra la figura del soldato e quella del cittadino, sostenuta con particolare forza dal Marselli e dallo stesso E.B .. 11 suo linguaggio non è certo militarily correct quando scrive che vi è un antagonismo assoluto tra l'attività di un buon cittadino e que lla di un soldato. Il.fine del soldato non è, come si dice falsamente, di morire per il suo paese: è di uccidere per il suo paese. Se muore ha f allito il suo scopo: il suo mestiere è uccidere, ed egli raggiunge la perfezione come soldato quando diventa un pe rfetto assassino. Questo fin e, il mas-

101 Cfr. Norman Angell, La !/rande illusione (studio sulla potenw miUrare in rapporto alla p rosperità de/I nazioni), Bari, Humanitas 1913. 102 C fr. John Alkinson Hobson, L'imperialismo ( I' Ed. 1902), Roma, Newton e Compton Editori 1996.


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sacro dei propri simili, costituisce una caratteristica professionale che è estranea e antagonistica a quella del nostro normale cittadino, il cui

lavoro conduce invece alla preservazione degli uomini[... ]. Se manca la coscienza di questo fine, tutta la routine quotidiana della vita del soldato, le esercitazioni, le parate e gli eserciti sono un 'attività inutile e senza scopo[... ]. D'altra parte le conseguenze fisiche della vita militare sono ben note; anche quelli che difendono l 'utilità dell'esercito non negano che essa rende l'uomo inadatto alla vita civile. E non si può nemmeno sostenere che un esercito di leva più corto, come sarebbe sufficiente per un esercito di cittadini, sfuggirebbe a queste conseguenze. Se il servizio militare deve essere lungo e rigoroso quanto basta per essere efficace, esso porta con sé queste conseguenze fisiche, che sono in realtà parte integrante dell'efficienza militare. 103

Con notevole efficacia Hobson controbatte anche un'altra opinione piuttosto diffusa: la pretesa, ingannevole e meritoria lontananza delle istituzioni militari inglesi dal "militarismo" che sarebbe tipico solo delle principali Nazioni continentali, i cui eserciti, anche in tempo di pace numerosi e costosi, sarebbero pericolosi per la pace. In proposito cita la seguente tabella dei bilanci militari, dalla quale risulta l'elevatissima spesa militare inglese (dimostrazione lampante, oltre che di un imperialismo esteso, di un militarismo di fatto: altro che il preteso "imperialismo" italiano!). 104 SPESA MIUTARE PAESE

GRAN BREfAGNA FRANCIA RUSSIA GERMANIA AUSTRJA ITALIA

1869-1870 (migliaia di sterline)

1897- 1898 (migliaia di sterline)

22440 23554 15400 11217 9103 7070

40094

37000 35600 32800 16041 13510

Con pari acribia Hobson demolisce anche il diffuso mito (nel quale aveva creduto persino Garibaldi) dell'Inghilterra Paese libero, democratico e pacifico, il cui modello militare si collocava all'estremo opposto del militarismo reazionario delle principali Nazioni del continente. A suo giudizio l'Inghilterra può mantenere un ridotto esercito volontario, solo per-

103

104

ivi, p. 148. ivi, p. 151.


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ché per Je sue numerose guerre coloniali usa da sempre impiegare truppe locali al comando di ufficiali britannici. L'Impero indiano e gran parte dei "dominions" sono stati conquistati con tali truppe, ma questo tipo di militarismo, sebbene sia dapprincipio meno costoso e più.facile, comporta sempre meno controllo da parte della Gran Bretagna. Benchè riduca il peso del militarismo sulla popolazione della madrepatria, aumenta i rischi di guerre, che diventano più frequenti e più barbare man mano che coinvolgono in grado minore la vita degli inglesi. L'espansione del nostro Impero sotto il nuovo imperialismo è stata ouenuta gettando le "razre inferiori" l'una contro l'altra, gonfiando le inimicizie tribali e ulilizzando per un nostro presunto beneficio le tendenze selvagge degli uomini verso i quali avremmo avuto La missione di portare La cristianità e I.a civiltà. 105

L'idea [sostenuta in particolar modo dal Marselli - N.d_a_J che il mondo "sia come un'arena di combattimento delle nazioni" nella quale per selezione naturale soccomberebbero man mano i combattenli più deboli per lasciare il campo a una sola nazione, "non ha alcuna validità scientifica". Anche l'idea fper esempio di Moltke - N .d_a. I che con 1'eventuale fine delle guerre il vigore nazionale decaderebbe, è basata sull'ignoranza del.fatto che Le forme inferiori di guerra cessano per lo scopo dichiarato che divenga possibile una forma più elevata di lotta, ed a condizione che ciò si verifichi_ Con la fine delle guerre, tutto ciò che è realmente vitale e valido nella nazionalità non muore; al contrario, cresce e prospera, come non aveva potuto fare quando lo spirito nazionale da cui deriva era assorbito da forme più vili di lotta_ 106

In realtà l'imperialismo "genera guerra e militarismo" e "si palesa come nemico mortale e implacabile della pace e dell'economia"_ Sul piano interno ostacola inevitabilmente le riforme sociali e i provvedimenti a favore delle classi più povere (istruzione, sanità, ecc_), rendendo necessario concentrare Je risorse sulle spese militari. Sul piano internazionale crea tensioni e pericoli di guerra, compromettendo la stessa, vera indipendenza degli Stati, la cui politica (anche in terra) finisce con l'essere sempre più condizionata da quella altrui. Infatti

"" ivi. p. 150. "'" ivi, p. 181.


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la Gran Bretagna non possiede più di un milione di sterline che essa possa considerare sue; tutte le sue risorse finanziarie sono ipotecate per una politica che sarà dettata lin praticai dalla Germania, dalla Francia o dalla Russia. Una sola mossa da parte di queste potenze può costringerci a spendere il denaro che avevamo destinato a scopi domestici, per comprare più navi da guerra o per preparativi militari_ La priorità e la disgraziata ampiezza (sic) della nostra espansione imperiale ha reso il pericolo di una coalizione annata delle grandi potenze contro di noi tutt'altro che una oziosa chimera. Lo sviluppo delle loro risorse lungo la linea del nuovo industrialismo, da un lato le costringe a cercare nuovi mercati, e le porta in tutte le parti del mondo a combattere contro le vessatorie barriere commerciali dei possedimenti britannici; dall'altro ha procurato loro ampie risorse per la spesa pubblica. La diffusione del nuovo industrialismo tende a portare i nostri "rivali" al nostro livello quanto alle risorse pubbliche. Così, proprio nel periodo in cui abbiamo ragioni crescenti per temere coalizioni armate contro di noi, stiamo perdendo quella superiorità finanziaria che ci ha reso possibile mantenere un annamento navale superiore a quello di qualsiasi associazione di paesi europei . 107

Come si vede, persino Hobson considera la perdita della superiorità navale del suo Paese un fatto negativo ___ Dopo queste parole che chiaramente intravedono l'ormai vicino scontro mondiale con al centro la competizione tra Inghilterra e Germania, Hobson demolisce un'ultima communis opinio: che le colonie siano - per la stessa Inghilterra - un buon affare. Dedica un intero capitolo - il II - al "valore commerciale dell 'imperialismo", 108 per dimostrare con ricchezza di dati statistici la falsità del celebre dello che " il commercio segue la bandiera" (perciò, noi aggiungiamo, a maggior ragione non è vero nemmeno il contrario, cioè che la bandiera segue - o deve seguire - il commercio). In effetti dimostra che nel periodo 1870-1903 - quello di maggior espansione dell'Impero - le importazioni inglesi da Paesi stranieri hanno oscillato da un minimo del 71 % circa a un massimo del 78% circa, mentre quelle da possedimenti inglesi si sono mantenute da un minimo del 21 % circa a un massimo del 29% circa. Anche le esportazioni della Gran Bretagna hanno avuto un andamento analogo: dal 63 al 69% circa verso Paesi stranieri e dal 26 al 37% circa ver-

llll

ivi, p. ] 5 1.

''"' ivi, pp. 76-88.


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so territori inglesi. Nel 1934-1935 questo andamento del commercio estero risultava assai poco mutato: il 63% circa delle importazioni e il 53% delle esportazioni sono avvenute da o verso paesi stranieri. Avvalendosi di altre interessanti statistiche, l'Hobson conclude perciò che: a) l'espansione territoriale dell'Impero dal 1870 in poi non è stata seguita da una parallela crescita del commercio al suo interno, rispetto al valore totale delle importazioni - esportazioni; b) mentre la dipendenza commerciale della Gran Bretagna dal suo Impero risulta stazionaria, la dipendenza commerciale dell 'Impero stesso dalla madrepatria tende a diminuire rapidamente; c) in questo quadro si è verificato un rapido incremento del movimento commerciale con le ex-colonie che hanno raggiunto l'autogoverno, mentre con i possedimenti britannici (a cominciare dall'India) le importazioni della madrepatria sono rimaste stagnanti e le esportazioni hanno manifestato " una tendenza molto leggera e irregolare a crescere"; d) "il maggiore aumento del nostro commercio estero si è verificato nei riguardi di quel gruppo di nazioni industria/iv.ate che noi consideriamo come nostri nemici industriali. In questi paesi la nostra politica espansionista ha corso il rischio di suscitare una corrente di inimicizia politica nei nostri confronti; questi paesi sono la /<rancia, la Gennana, la Russia e gli Stati Uniti"; 1<1J e) in definitiva, dal punto di vista economico l'imperialismo degli ultimi sessanta anni è stato un pessimo affare. Se la Gran Bretagna ha seguìto una siffatta politica, è solo perché esso "è stato un buon affare per certe classi e certi commerci all'interno della nazione. Le grandi spese per armamenti, le guerre costose, i gravi rischi e difficoltà della politica estera, i freni imposti alle rifanne sociali e politiche interne, benchè abbiano portato grave danno alla nazione, sono servite molto bene ai concreti interessi economici di certe attività e professioni". 110 Dopo quest'ultimo excursus su un pensiero antitetico a quello di E.B., quindi tale da caratterizzarlo meglio in positivo e in negativo, lasciamo al lettore di trarre le conclusioni su argomenti estremamente controversi e an-

109 11 0

89-99).

ivi, p. 81. ivi, p. 89. Si veda inoltre, in merito, il cap. IV "/ para.çsiti ecnnnmici dell'imperialismo" (pp.


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che oggi tutt'altro che esauriti. Quel che ci preme rilevare a conclusione della nostra indagine, è la molteplicità delle interfaccia di una figura di scrittore e di animatore culturale militare come lui, che vive - prendendo sempre posizioni coraggiose, nette e non di rado originali - la difficile fase di passaggio dal XIX secolo al XX secolo, si potrebbe dire: da Napoleone alla guerra industriale. Al di là di aspetti meno felici o discutibili, E_B. ricerca sempre un'impostazione razionale o non angustamente militare, terrestre o attenta agli interessi nazionali dei problemi. Grazie a questo approccio lo storico, il teorico, il critico militare attento alla realtà quotidiana si fondono per lasciare una traccia profonda che abbiamo voluto ricordare nel modo migliore, cioè fornendo da ciascun problema da lui trattato un'analisi che dia risalto sia alle luci che aHe ombre. Con la metodica seguìta, abbiamo l'ambizione di aver messo una buona volta fine al consueto approccio povero, generico, senza termini di raffronto e ricco solo di lodi alla figura di un autore che non merita di essere così studiato, proprio perché il copioso corpus di scritti che ci ha lasciato è una chiave interpretativa preziosa, un passaggio obbligato per capire la trasformazione politico-sociali e militari del cruciale periodo che va dall'ultimo decennio del secolo XTX alla grande guerra e alla sua distorta strategia.



PARTE SECONDA

ASPETII TEORICI DELL'ARTE MILITARE IN ITALIA E IN EUROPA



CAPITOLO VI

L'ARTE MILITARE E/O DELLA GUERRA: LINGUAGGIO, CONTROVERSI CONTENUTI TEORICI, PROPOSTE DI RIPARTIZIONE

SEZIONE I - Gli studi generali sul linguaggio militare e le critiche alla Crusca del Randaccio e dell'Angelucci Nel Voi. II abbiamo rilevato che gli studi e le opere sul linguaggio militare nel periodo delle guerre d'indipendenza risultano meno numerosi e pregevoli di quelli della Restaurazione. Dopo il 1870 lali studi decadono ulteriormente, con un panorama piuttosto ristretto nel quale l'opera dominante è il Vocabolario marino e militare del Padre Alberto Gugliemotti. 1 Tra coloro che sul piano generale si occupano della materia emergono comunque tre nomi: il Randaccio, il Quarenghi e l' Angelucd, le cui riflessioni meritano di essere brevemente ricordate. Nel 1871-1872 Carlo Randaccio pubblica sulla Rivista Marittima altre tre puntate del suo studio sui Dizionari di marina italiani,2 che fanno seguito alla già citata prima puntata dell'ottobre 1870, nella quale si dimostra convinto antipurista (Cfr. Vol. 11 cap. Xill). Questa volta il Randaccio fornisce una panoramica preziosa e tuttora insostituibile dei dizionari del Medioevo e del Rinascimento, ma non vi si trova più alcun riferimento alle pubblicazioni del secolo XIX, se si eccettuano "una menzione particolare" del Glossaire nautique di Auguste Jal,3 utile soprattutto per la storia delle marine antiche, e un esame critico abbastanza ampio delle due edizioni del dizionari.o del Parrirn. Pur riconoscendo a quest'ultimo il me-

1 Cfr. Alberto Guglielmotti , Vocabolario marino e militare Roma, Voghera 1889. Ristampa con notizie sulla vita e opere dell'autore a cura del Padre l. Pio Grassi, MjJano, Mursia 1%7. Sul dizionario del Guglie lmotti Cfr. anche il Nostro l dizionari di marina italiani - Parte seconda 1870- 1900, in "Rivista marittima" febbraio 2002, pp. 13-22. 2 Carlo Randaccio, I dizionari di marina ilaliani, in " Rivista Marittima" gennaio 187 1 (pp. 25 19-253 1), agosto 1871 (pp. 805-8 15) e ottobre 1872 (pp. 54-60). 3 Paris, Didot 1848.


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rito di aver dato a11a marina italiana "il più ricco vocabolario che oggi esista", il Randaccio definisce "assurda" la sua pretesa di formare un nuovo linguaggio marinaresco nazionale, trova il suo lavoro in parecchie parti ancora lacunoso (mancano, ad esempio, le voci riguardanti la marina mercantile) e non condivide affatto la sua affermazione che la nostra lingua marinaresca si trova in stato d'inferiorità rispetto alla francese: in realtà parecchie voci da lui ritenute francesi hanno antiche radici greche e romane (qui il Randaccio concorda con il Fincati), così come le hanno altre che il Parrilli non cita nemmeno. E' un vero peccato che uno studioso così attento alle cose linguistiche e con acume critico così pronunciato come il Randaccio, dopo il 1872 non abbia più scritto nulla su questo argomento; sarebbe stato interessante conoscere un suo giudizio sul vocabolario del Guglielmotti, del quale troviamo - in nota - solo un cenno all'inizio del 1871: "so che il chiarissimo P. Guglielmotti ha fatto un Dizionario di Marina italiano. Perchè noi pubblica egli? Il nome dell'autore ci è orra della bontà dell'opera". Il Ranùaccio è un antipurista moderato, che non fa mai riferimenti diretti ali' operato dell' Accademia della Crusca e si occupa solo della parte navale. Ben diversi sono gli obiettivi dell'altro grande nome degli studi linguistici del periodo, il maggiore in congedo Angelo Angelucci. Eminente esperto di armi antiche,4 r Angelucci si schiera a fianco dei professori Alfonso Cerquetti e Pietro Fanfani in un'aspra polemica contro l'operato dell'Accademia della Crusca, che anima il dibattito linguistico della seconda metà del secolo XIX ed è ben riassunta da Cesare Quarenghi nel 1880.5 Il Quarenghi non nasconde la sua simpatia per le tesi antipuriste dello Sponzilli (Voi. I, cap. IV), pur ammettendo che ha esagerato. In particolare riconosce all' ufficiale napoletano il merito di aver dimostrato che l'amore per la dignità del patrio linguaggio deve stare nei limiti della ragione e non deve mai toccare il ridicolo; che il vero cultore della lingua la ravviva, mentre il purista è un falso cultore e l'aduggia; che

4 Angelo Angclucci (1820- 1891) dopo aver lasciato da maggiore dj artiglieria il servizio attivo, si dedicò allo studio delle armi da fuoco antiche con numerosi scritti. Fu conservatore del Museo Nazionale di artiglieria di Torino, membro della Deputazione di Storia Patria e professore onorario ali' Accademia di Belle Arti di Parma. Morì prima aver potuto ultimare un dizionario militare al quale lavorava da molti anni (Cfr. "Enciclopedia Militare". 1, 568). 5 Cesare Quarenghi, Un soldato filologo e il vocabolario della Crusca. in "Rivista Militare Italiana" Anno XXV - Voi. Il disp. I aprile 1880, pp. 80-93.


VI - I.' ARTE MILITARE PJO DELLA GUERRA

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il complesso della lingua militare d'Italia ricavata dalla Crusca e raccolta col sistema da lei seguito, è insufficiente ai bisogni odierni; che il fine che si propone il buon scrittore è di adattarsi all 'intelligenza di tutti gli italiani, mentre il vocabolario della Crusca si limiterebbe all'intelligenza dei soli Fiorentini; che infine questo vocabolario è riboccante di errori e non ha diritto a signoria della lingua.

Il Quarenghi accusa perciò la Crusca di "non aver tenuto conto di qualcuno dei consigli dello Sponzilli" e riassume i molteplici motivi del1' ostilità che incontra il suo recente operato: l'Accademia della Crusca si pose all'impresa di rifare a nuovo il vocabolario omonimo, rendendolo razionale, tipico, inappellabile nelle questioni di filosofia, e incominciò la pubblicazione della prima dispensa nell'anno 1863. In 17 anni le dispense non sono ancora giunte alla lettera E. Insofferenti di attendere la fine di una pubblicazione che promette di andar troppo in Lungo, molti Letterati si diedero a studiare subito i primi fascicoli. Ne vennero appunti sul metodo di compilazione[ ... ]; sulla gravissima spesa, che sale a circa 44 mila Lire all 'anno; sullo scarso numero delle copie (750); sulla discutibile utilità di tanto Lavoro, perchè le 750 copie nel corso degli anni di disperderanno tutte, e all'ultimo non se ne troverà più una delle intere; sulla poca probabilità che esso possa riuscire (come desidererebbe, ed ha diritto di pretendere chi paga) il più grande e bel monumento della lingua e letteratura italiana.

A sua volta 1' Angelucci si inserisce nella polemica con il fondamentale opuscolo Appendice agli errori del Vocabolario della Crusca (Quinta impressione - lettera b) notati dal professore Alfonso Cerquetti, 6 utilizzando in particolar modo la sua competenza sulla terminologia delle armi e fortificazioni antiche per rinfacciare ai compilatori della Crusca molteplici errori, dovuti anche al fatto che, more solito, essi non hanno alcuna competenza militare e oggettivamente mancano di conoscenze specifiche in fatto di anni e fortificazione. Tra le molte voci contestate dall' Angelucci ne citiamo una assai comune come baionetta, la quale dimostra, oltre che la sua preparazione, la sua vis polemica:

6

Torino. Stamp. Reale di G. Paravia 1876.


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- "BAIONETTA.. Sost. .femm. Ferro trian,?olare e acuto che fermandosi con un anello in cima alla canna del moschetto o fucile, serve al soldato come d'arme in asta. Da Baionna, [Baionne in Francia - N.d.a.] cillà ove dapprima furono fabbricate; onde pure il francese bajonette" -. Questa definizione è inesatta, incompiuta e oscura. - Ferro triangolare e acuto-. Lungo, o corto? Largo, o stretto? Anche il ferro di un verrettone è triangolare, ma è lungo poco più della larghezza della base che è equilatera. Il triangolo della sezione della sua baionetta è rettilineo o curvilineo? La baionetta, fu sempre triangolare? Quando Ella, signor Apologista, dettava questa definizione, cioè nel 1866, o in quel tomo, non si usavano che baionette triangolari? - Fermandosi con un anello in cima alla canna del moschetto o fucile, ecc. -. Questo è per me un indovinello, e scommetto che lo è anche per Lei che lo ha scritto. Per quanto penso non so immaginare un anello che fermi quel ferro triangolare e acuto in cima alla canna -; perciocchè il suo ferro acuto non ha un manico; chè, se lo avesse, Ella me lo avrebbe dovuto dire. Si figuri poi se posso immaginare questa sua maniera di fermare la baionetta quando Ella del manico non dice verbo! Io conosco, ed ho avuto tra le mani molte baionette anteriori a quella sua fabbricata a Baiona, ed altre anche posteriori che non hanno anello di sorta alcuna per fermarle - in cima alla canna del moschetto o fucile-. EJla dunque mi definisce non la baionetta primitiva che non era un - ferro acuto triangolare -; non quelle di Baiona nè quelle posteriori che non avevano anello; non quelle moderne che sono anche quadrangolari, sebbene abbiano l'anello (al suo modo, cd al modo nostra la Ghiera) perchè non si parla di manico; e una baionetta senza manico non potrà mai esser messa in cima aJla canna deJle armi da fuoco da nessun soldato, salvo che non sia un Accademico suo pari. Se Ella voleva essere inteso, senza entrare in particolari, doveva definire la BAIONETfA. Sf Lama di acciaio amò di pugnale o di stocco di varia lunghezza con manico, che si pone alla sommità della canna delle varie armi da fuoco portatili, servendo così come arma d'asta -. Con questa definizione Ella accennava le vecchie baionette, veri pugnali con manico fusiforme che s'introduceva nell'anima delle armi da fuoco; quelle di Baiona ('!!) che avevano il manico a gorbia, o, come lo chiamavano i nostri vecchi, a cartoccio, ma senza il suo anello, o la nostra ,?hiera con lama a mò di pugnale, o di coltello ad unfilo e meu.o; finalmente le più moderne a Lama di stocco triangolare o quadrangolare sgusciata a manico a gorbia con ghiera o con molla di ritegno ecc. Di più non avrebbe lasciato le Carabine, che passa sotto silenzio, senza baionette, e ciò contro il fatto. Nel primo Tema mi pare che ci sia a bastanza di inesattezze, e mi sono di buon augurio per gli altri che andrò a mano a mano esaminando. Si metta


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adunque bene in ordine, Cavaliere, perchè io Le menerò tagli e punte senza pietà. L'offesa fatta aJ mio amico deve essere vendicata.

Con numerosi altri scritti citati dal Quarenghi l' Angelucci prosegue implacabilmente le critiche ai vocaboli militari della Crusca. Lo stesso Quarenghi fa voti perchè egli pubblichi presto un suo Lessico militare al quale lavora da molto tempo, e che risulta ormai composto da 15.000 schede: ma questo Lessico, che ogni giorno cresce di qualche voce dovrà necessariamente riuscire opera da biblioteca e non potrà essere un libro da tasca per gli ufficiali dell'esercito. E intanto un vocabolario militare italiano è necessario, e questa necessità venne dimostrata dalla nostra Rivista Militare, parlandosi con lode del Vocabulaire mililaire français-allemand pubblicato a Lipsia dal Signor Ribbentmp_ Non sarebbe forse opportuno pubblicare il concorso per un Vocabolario militare italiano per l'esercito e per l'armata con le voci corrispondenti nelle lingue francese e tedesca? O perchè non incaricare addirittura il maggiore Angelucci di farlo'!

Purtroppo la proposta del Quarenghi cade nel vuoto; l' Angelucci muore nel 1891 senza aver dato alla luce il suo Lessico, il cui materiale risulta oggi disperso. E' una grave perdita, perchè in tal modo rimane solo il ricordo di uno studioso validissimo ma occupato a demolire più che a proporre e costruire, oltre tutto con interessi rivolti in prevalenza alle voci concernenti le armi antiche (che sono solo una parte, e non la più importante, del patrimonio linguistico militare). Comunque anche I' Angelucci, come già il Fincati, non riconosce alcun primato alla lingua toscana. Lo dimostrano i suoi orientamenti che seguono, anch'essi citati dal Quarenghi: io ho avuto ed ho tuttora un 'idea fissa, cioè che come l'esercito è il simbolo parlante dell'unità della Nazione, così egli debba essere il più potente operatore della unità della lingua in Italia; come ho avuto e ho tuttora l'altra idea fissa che per questa lingua non faccia mestieri ricorrere ad una sola provincia, ma a tutte le provincie italiane, perchè trovo in tutte le medesime voci e le medesime locuzioni, salvo qualche piccola varietà nella forma. La prima idea potrebbe facilmente diventare un fatto, se tutti i libri d'istruzione, di teorie, di regolamenti, di leggi ecc. fossero scritti italianamente. La seconda idea è già un fatto e io ne mostro la verità cogli esempi che allego nel mio Lessico, i quali tolgo, nel-


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la maggior parte, da scrittori non citati dalla Crusca e da scritti rinvenuti da me negli archivi che con molta pazienza e non minore accuratezza ho rovistati dal 1862 in qua.

Anche dopo la morte de11' Ange1ucci l'idea di un dizionario militare veramente completo e organico continua a percorrere la pubblicistica militare, insieme con il riconoscimento della necessità di affrancare la nostra lingua da eccessivi influssi stranieri. Ad esempio nel 1898 il direttore della Rivista di Fanteria, capitano Domenico Guerrini, scrive: potrei fare un discorso molto lungo ma perfettamente inutile per dimostrare che la nostra lingua militare si è maledettamente imbastardita a contatto coi vocaboli e le frasi venuteci difranceseria o di tedescheria: ma chi è che non lo sappia? non è di scoprire il male che c'è bisogno: piuttosto di trovare un rimedio. 1

Appunto per trovare un rimedio il Guerrini aggiunge di aver avuto (noi osserviamo: come tanti altri) l' idea - poi non realizzata del tutto - di annotare i termini usali dal Machiavelli allo scopo di compilare un dizionario militare, e riporta un centinaio di vocaboli da lui raccolti con relative definizioni. Un altro scrittore militare tra i maggiori del tempo, il colonnello Lodovico Cisotti, nel 1903 commenta favorevolmente la recente pubblicazione da parte del colonnello di Stato Maggiore Carlo Porro (eminente scrittore di geografia) di una Terminologia geografica8 e coglie I' occasione per richiamare 1'attenzione "sulla mancanza nella nostra lingua di una precisa terminologia militare, cosicchè non di rado avviene che a molti vocaboli si attribuiscano diversi significati e molti concetti ed atti riferentisi a cose militari non trovino corrispondenti espressioni, comunemente riconosciute". Tale mancanza è diventata più evidente sia col progresso degli studi militari, sia in relazione ai nuovi ritrovati della scienza bellica; eppure "un lin1:uaggio militare preciso, chiaro, completo, da tutti ricono-

7 Domenico Guerrini, Per un dizionario militare italiano. in "Rivista di Fanteria" Anno VU 1898, CCXXIIl, pp. 473-486. • Lo<luvico Cisolli, Terminologia militare italiana - a proposito di una recente pubblicazione, in ''Rivista Militare Italiana" Anno XLVIII - Voi. I Fase. Il febbraio 1903, pp. 243-246. 11 Cisotti fa opportuno riferimento alla Raccolta dei vocaboli di geografia e scienze affini per uso degli studi di geografia generale e militare (Torino, Unione Tip. Editrice 1902) del Porro. Lavoro prezioso e molto raro, che raccoglie anche alcuni tcnnini tattici e strategici cd è completato da tabelle di segni convenzionali anche stranieri.


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sciuto, potrebbe sussistere e sarebbe di gran vantaggio non solo agli studi militari, ma anche agli usi pratici della vita militare, poichè renderebbe, col suo convenzionalismo, più precisa, più.facile e più rapida l'intelligenza delle cose". La diagnosi degli studi linguistici militari del momento compiuta dal Cisotti è assai pessimistica: "in Italia siamo ben lungi da questo ideale di

filologia militare, né si può dire che vi siano accenni a volervisi accostare". E anche se negli Stati pre-unitari vi sono stati valorosi cultori di tali studi, le tracce lasciate da questi non furono seguite [dopo il 1861] dal nuovo esercito italiano, cosicchè la nostra moderna letteratura militare conta solo due e non ben completi dizionari militari; quello del colonnello Carbone, specialmente buono per i termini d'artiglieria, e quello del padre Guglie/motti, più parJicolarmente dedicato al linguaggio marinaresco, e nel quale si cerca di ricondurre, con discutibile intento pratico, la lingua alle fonti classiche.

A fronte di un ristretto panorama italiano il Cisotti trova particolarmente nutrita la produzione in lingua germanica di dizionari (Poten, Rtistow, Meynart, Nieman, ten. Col. Frobenius); anche in Inghilterra sono state pubblicate parecchie opere pregevoli (col. Bum, cap. Knollys, ten. Campbell, geo. Voyle). Sempre a suo giudizio, la disponibilità di dizionari francesi è meno ricca; tuttavia di recente è stata costituita una Commissione di dotti ufficiali, che sta attendendo aJla compilazione di un poderoso Dictionnaire militaire. Encyclopedie des sciences militaires redigé par un Comité des officiers de toutes armes. 9 Il Guerrini e il Cisotti si riferiscono in particolar modo aJla questione dei dizionari/vocabolari militari; ma vi è anche chi, come il tenente dei bersaglieri Emilio Bosi nel 1900, ha il merito di affrontare meglio di tutti il problema generale della lingua italiana, e solo di riflesso anche quello della lingua militare. 10 La diagnosi del Bosi è pessimistica come quella del Guerrini e del Cisotti. Ciò che afferma potrebbe essere benissimo riferito alla situazione di oggi, visto che il motivo centrale del suo studio, la sua maggior preoccupazione ha carattere non strettamente militare ed è la di-

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Paris - Nancy, Berger - Lévrault (iniziata nel 1896 e nel 1903 ancora in corso di pubblicazione). Pier Emilio Bosi, La lingua italiana nella p olitica, nella burocrazia e nell 'esercito, in " Rivista Militare Italiana" Anno X LV - Tomo 1 Disp. Il 16 febbraio 1900, pp. 201-270. 10


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fesa de11'italiano - militare e non - dagli eccessivi influssi stranieri (francesi, tedeschi, inglesi) e la diffusione della lingua italiana all'estero, ostacolata sia dal disinteresse del governo e degli italiani, sia dalle decise misure nazionalistiche di taluni governi stranieri (ad esempio il governo inglese a Malta e il governo francese in Tunisia), che mirano a comprimere o abolire a vantaggio deJla propria lingua l'uso dell'italiano da parte delle locali popolazioni di origine italiana: perchè dunque negli altri questa trascuratezza generale, questo poco desiderio d'apprendere una Lingua che pur - come ho detto - è Reneralmente Lodata? Non già nella inferiorità della nostra Lingua rispetto ad altre, bensì soltanto: 1 ° Nella nostra scarsa influenza politica nel mondo - e questo s 'intendeva, ma anche: 2° Nella poca importanza che noi stessi diamo alla nostra Lingua e alla sua diffussione - e il perchè di questo non s'intende affatto.

Gli italiani - prosegue il Bosi - sembrano dimenticare che, se l'influenza politica contribuisce a diffondere all'estero la lingua di un Paese, è vero anche il contrario. Mentre i francesi sono sempre pronti a celebrare ciò che è francese, noi abbiamo il difetto opposto: siamo l'esagerazione dell'umiltà, abbiamo un'assoluta sfiducia in noi stessi, in ogni cosa italiana, siamo l'esteromanìa personificata. Difetto ch'è dieci volte peggiore. Difetto che fa un danno immenso al commercio, all'arte, alla Lingua, a tutto[... ]. Bisogna dunque essere meno scettici sulla produzione italiana, sia essa artistica, militare, industriale o inventiva. Bisogna .\·enlire assai di più L'italianità, tanfo nelle cose piccole quanto nelle grandi.

Qui il Bosi cita certo sig. Patem da Venezia, che sulla Gazzetta letteraria oltre a protestare per l'ostracismo alla lingua italiana dato dal governo inglese a Malta protesta con ancora maggiore forza per l'ostracismo dato alJa lingua italiana in Italia: "gli uffici pubblici - dice lui [cioè il Patelli - N.d.a.] - l'esercito, i giornalisti, questi più di tutti, non adoprano quasi più la nostra lingua, ma il francese travestito all'italiana, ...". Anche per il Bosi la burocrazia militare e civile, l'esercito, il giornalismo "non fan proprio alcun sforzo. O inventano a casaccio, o continuano col loro vecchio stile, colle vecchie frasi stereotipate, illogiche e spesso - diciamolo pure - ridicole". Almeno gli ufficiali italiani, che hanno dato così fre-


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quenti prove di un alto sentimento di italianità, non dovrebbero tollerare "queste ridicolaggini che per quanto possano essere chic o smart (come direbbero adesso i nostri francofili) fan sempre offesa alla nostra lingua [... ]. Gli è con piccole cose che si fanno le grandi ...". Senza badare alla loro contrapposta impostazione, il Bosi aggiunge che i dizionari del Grassi e dello Sponzilli, ignorati da molti ufficiali, dovrebbero essere consultati di più. Al tempo stesso, la burocrazia e la corrispondenza militare dovrebbero lasciare in disparte circonlucozioni e lungaggini di pessimo gusto. Bisogna seguire, a suo giudizio, l'esempio degli inglesi, che nei mesi scorsi volevano multare il Times per aver usato parole straniere senza che ciò fosse necessario, e quello dell'Imperatore Guglielmo Il, che di recente ha imposto per decreto di sostituire con termini tedeschi le parole straniere usate nell'esercito; è perciò degna di lode la recente iniziativa del nostro Ministero della guerra, che ha ordinato all'Ispettorato della cavalleria di compilare un dizionario di sostituzione con voci italiane dei troppo numerosi vocaboli inglesi usati negli sport equestri e nell'equitazione. Un'altra critica del Bosi riguarda l'abitudine di moltissimi ufficiali nativi del Piemonte di usare anche in servizio il loro dialetto, tra l' altro rischiando di non essere capiti da chi di origine piemontese non è. TI nostro regolamento di disciplina - egli ricorda - al paragrafo 89 prescrive che in servizio si deve usare sempre e solo la lingua italiana; perciò gli ufficiali, sia pur senza mostrare disprezzo per i vari dialetti parlati dalla truppa, devono parlare il più possibile la lingua italiana, e soprattutto far capire al soldato l'importanza e la necessità di parlare e di diffondere anche all'estero un'unica lingua nostra. Il Bosi perciò conclude che se l'esercito deve essere "scuola della nazione", l'ufficiale deve anzitutto essere un educatore, quindi lo spazio di tempo dedicato all'azione morale, alla scuola analfabeti - e, nel suo ambito, anche ali' apprendimento e alla valorizzazione della nostra lingua - dovrebbe essere aumentato, eliminando nei reparti auività poco proficue come i lunghi rapporti ufficiali giornalieri, che tra l'altro impediscono agli stessi ufficiali di studiare e perfezionare la loro preparazione tecnico-professionale. Comunque, tiene a prendere le distanze dal purismo assoluto con un sano concetto da scrivere a lettere d'oro anche nel 2000: "prendiamo pure e senza sofisticar troppo come una volta, tutto ciò che l'uso o una invenzione rendono indispensabile, non siamo pedanti - ma non accettiamo neppur Lutto ad occhi chiusi, quasi credendo dir qualcosa di più prelibato solo perchè detJo con motto straniero". E per dare un contenuto concreto alla sua proposta, fornisce anche una breve lista di vocaboli e modi


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di dire, in prevalenza di uso militare, che dovrebbero essere depurati dagli influssi stranieri e/o modificati. Ne riportiamo le voci più interessanti, anche perchè parecchie sue osservazioni sono tuttora valide. ACCAMPAR I SOLDATI va bene; ma non accampar pretese o ragioni, bensì mettere innanzi, produrre. ACCANTONATO, tcI111ine architettonico che vien veramente da cantoni ed angoli in squadra. Accantonar milizia dunque non andrebbe ma l'uso l'ha ormai accettalo e diffìcilmenle si cambierà. Meglio sarebbe: acquartieralo, che ha quartiere. E anche acquartierarsi è meglio di accasermarsi (nonostante che il luogo ove la truppa dimora si chiami oggi, secondo il Regolamento, caserma e non più quaitiere), poichè acquartierarsi vien da "prendere i quartieri d'inverno ecc.". ACCIDENTATO. Dice il professore Sala nel suo Correttore che significa colpito da accidente o da apoplessia. Più elegante sarebbe dunque dire apoplettico. Ma il nostro terreno accidentato che usiamo noi ogni momento, non fa ridere? Non significa dunque apoplettico? Eppure abbiamo terreno vario, ondulato, ineguale, sinuoso, rotto, ecc. ADDEBITARE va bene per scrivere a debito e non per incolpare, imputare, accagionare. AGGIORNARE: farsi giorno, ma per differire è brutto. Meglio è d(fferire una cosa, rimetterla, prorogarla. ALLARMARE va bene per dar l'allarme, ma non già per insospettirsi, mettere in apprensione, sgomentarsi e simili. APPELLO. Qualcuno l'usa ancora. Giustamente il Regolamento stabilì la chiamata. APPUNTAMENTO. L' uso, aimè, lo farà adottare. Ma come si fa se appuntamento vuol dire aguzzare, far la punta? Si dica invece convegno, posta, ritrovo. ATTACCARE. E' l'unire una cosa con l'altra. Attaccar battaglia può andare ma non si dirà attaccar una città, una fortezza ecc. bensì assalire, assaltare. Così assalire il nemico, non attaccare ... ma l' uso ormai ... AVALLO. Questa voce può essere ben sostituita da cauzione, sicurtà, malleveria. BIVACCARE. Voce barbara: dire invece quando si puà porsi a campo, campeggiare, attendarsi secondo i casi. li nostro regolamento per bivacco ha ora addiaccio. BRUGHIERA. Vocabolo francese che ormai ha dato il bando al nostro sterpeto, landa, scopeto, ericaja. CARICA. Ora non si dice più a pa<;so di carica ma a passo di corsa, di corsa.


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CARRIERA delle anni molti dicono, ma è brutto usarlo per professione, arte. Carriera indica veramente il corso del cavallo. CASO (che del). Narra il Fanfani che il senatore Lambruschini in una pubblica tornata del Senato, mentre discutevasi una legge ov'era incastonata la frase "i provvedimenti che del caso" irritato esclamò: opportuni, convenienti, bisognevoli, e così fu emendato. CAUTELARSI, PRECAUZIONARSI. Sono orribili, come munizionarsi, esser stato relazionato, notiziato ecc: Tutte parole e modi ancor troppo nell'esercito usati. CETO, sinonimo di cetaceo. Non si dica dunque ceto di persone ma ordine, classe. CIRCOSTANZIARE-CIRCOSTANZIATO. Meglio particolareggiare particolareggiato. CLUB dicasi Circolo. COCCARDA dicasi nappa, rosa ma anche qui l'uso ... CONTEMPLATO. Non è contemplato dai regolamenti , fa ridere poichè tutti sanno che contemplare vuol dire sollevare lo sguardo o il pensiero con attenzione. Si dica non è considerato, piuttosto_ CONTINGENZA Non si dica: in ogni contingenza fate capitale di me ma in ogni congiuntura, occasione ecc. DEFEZIONE-DEFEZIONARE va nel significalo di difetto ma non per abbandonare, disertare, tradire. Eppur tutti parlarono della defezione di Bata-Agos usando così un francesismo. DEGRADARE-DEGRADAZIONE. Parola forse usata cento volte nell'esercito ove non si può passar rivista o visitar un corpo di guardia senza trovar degradazioni o la tal cosa degradata. Meglio sarebbe deteriorate, guaste, peggiorale. DIRAMARE GLI ORDINI. Usatissimo nell' esercito mentre diramare vuol dire veramente troncare i rami. Dicasi spedire, distribuire. DISPOSIZIONE. Non dicasi sono a sua disposizione, bensì a' suoi ordini o comandi_ EFFRAZIONE si dovrebbe dir scasso, rottura. ELENCARE è proprio brutto. Dicasi notare, registrare, porre ad elenco_ ENTJTA' è ciò che costituisce l'ente. Invece di poca entità, dicasi, cosa da nulla, di poco valore, di poco conto. EVACUARE se parlasi di affari diremo sbrigarli, trallarli. Se di fortezza o città: sgombrare, vuotare_ EVADERE, DAR EVASIONE. Non s' adopera nel senso di rispondere, adempiere.

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FISIONOMIA. Non dicasi la.fisionomia di Milano, la.fisionomia della Camera ma l'aspetto, la vista. GESTIONE non è italiano per amministrazione, azienda. INTACCA L'ONORE. Si dica offende, pregiudica, denigra poichè intaccare vuol dire fare tacche o piccoli tagli. INTROITARE. Non basta riscuotere? MANEGGIO. Meglio è cavallerizza. MENTE. A mente del paragrafo·tale, è modo curialesco e non da soldati. Meglio è dire in conformità, secondo, giusta ecc. MONDO. Se pochissimi dicono tutto il mondo per dire tutti, moltissimi dicono ancora ho un mondo di pensieri, un mondo di cose a fare mentre potrebbero sostituire visibilio, quantità_Altri dicono il mondo parigino, il mondo artistico, militare, politico, ecc. per i parigini, i militari, ecc. Tutti sanno che il primo modo di dire è francesismo e brutto. OGGETIO. Molti dicono: a questo oggetto. Meglio è a tal fine, a questo fine, scopo. ONDE DIRAMARE, onde vedere. Usato da moltissimi anche buoni scrittori. Dimenticano che l'onde in questo caso regge il congiuntivo. Non si usa coll'inlinito ma si sostituisce col acciorchè, affinchè, per. ORGANIZZARE. Spesso si volge a significati che non ha quali sono preparare, apparecchiare, raccogliere, formare. Organizzare significa veramente costituire gli organi del corpo animale o vegetale. ORIZZONTARSI. E' voce straniera. Meglio, quando non si tratta dei quattro punti cardinali, dir raccapezzarsi, comprendere, farsi un idea_ PANICO. Bisognerebbe usarlo sempre come oggettivo non come sostantivo. Così non colti dal panico ma da timor panico. PAVESARE. Significa guemir di pavesata cioè coperta, le galee in occasione di battaglia. Troppo spesso l'usiam quindi per parare, ornare. RANCIO. Ormai adottato. E' parola che vien dalla Spagna mentre si sarebbe potuto dir pasto. Pasto non sarà forse bello né preciso ma neanche la parola rancio lo è di certo. Confesso ch'è difficile sostituirlo. RANGO. Molti lo dicono ancora. Meglio sarebbe, secondo i casi, riga, ordine. Parlandosi di non militari si potrà sostituire con grado, dignità, condizione, posto. RIFUSIONE di danni. Si dica risarcimento o compenso. RIMARCARE, RIMARCO, per considerare, osservare, notare - considerazione, osservazione, ecc. è un brutto barbarismo. RIMPIAZZARE, RIMPIAZZO. E' pure un bruttissimo barbarismo. Meglio sostituire, surrogare; cambio, surrogazione, sostituzione.


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RUOfABILE. Strada ruotabile è improprio poichè la strada non ruota affatto. Meglio è carrozzabile. SALIENTE. Invece di fatto saliente che significafàtto che sale, si dica notevole, degno di considerazione, ecc. SALVAGUARDARE. Parola bastarda da poco introdotta. Dicasi proteggere, difendere, custodire, tutelare, così per salvaguardia dicasi custodia, tutela, sicunà, guarentigia. SANGUE. A sangue freddo, a sangue caldo. Meglio a mente fredda, nel bollore della passione. Così invece di sangue freddo, dicasi: calma, pacatez.w, freddezza d'animo e, qualche volta, coraggio. SANZIONARE è francese. Dicasi sancire, decretare, statuire, approvare. SCHIACCJANTE: prove schiaccianti. Dicasi invece chiare, evidenti, irrefragabili. E il discorso, convincente, logico, non schiacciante. SIMULTANEAMENTE, poichè non ci si perde nulla, dicasi contemporaneamente, nel tempo stesso. SOLVIBILE, vuol dire che può sciogliersi ma non sta per buon pagatore. STAZIONARE. Molto spesso si può sostituire con stare, fermarsi, dimorare, abitare. SUICIDARSI. Francesismo ormai usatjssimo, introdotto al principio del secolo ma non necessario. Uccidersi lo può sostituire assai spesso. Suicidarsi la un pò pensare al comico suicidando sé stesso da sé del nostro Pascarella. TANGENTE. Latinismo poco garbato invece di quota, parte, porzione, rata. TEATRO della guerra m'è sempre sembrata una brutta offesa per chi si batte sul serio. Ormai è in tutti i nostri trattati rna non sarebbe male modificarlo. Se non va campo di battaglia, luogo, territorio, si deve però cercarne la sostituzione. TENUTA. Voce, fra i militari arei-usatissima ma è brutta e strana per assisa, divisa, vestito gala. Uniforme è pure un gallicismo. TRADURRE. Vuol dir volgere da una lingua ad un' altra. Non dunque tradurre alle carceri ma condurre, trasportare, accompagnare. TRAMITE. Significa sentiero, passaggio. Ma non si dirà pel tramite invece di per mezzo, mediante. Qualcuno usa ancora: pel canale, ed io credo non sia, in alcuna lingua del mondo, espressione più buffa. TRASFERTA, per gita, andata o per paga non è proprio. La nostra indennità di trasfe rta è dunque composta da due gallicismi. Non han torto coloro che dicono si potrebbe aver più cura della lingua anche fra noi. TRASLOCAMENTO. Le voci buone sono trasmutamento, tra.\ferimento e per traslocare, anche traslazione, tra.\ferire, trasmutare.


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UBICAZIONE. Dicasi sito, situazione, luogo, positura. UNIFORMARSI. E' gallicismo come uniforme. Dicasi conformarsi, rassegnarsi. Invece di uniforme o tenuta festiva meglio sarebbe assisa o divisa festiva. VERSANTE. Oggi in molte geografie. Voce a torto introdotta da alcuni scienzati. Meglio è declivio, pendio. l nostri antichi dicevano acqua pendente. VERSARE. Per pagare, contare è erroneo. VERTENZA. Non è proprio per controversia, lite. VIADOTTO. Meglio cavalcavia. VIGILIA. Dicasi per il giorno avanti d'alcuni santi. (Derivò da ciò che un tempo invece di digiunare, si vegliava). Dicasi pure così quello spazio di tempo che i soldati passan di notte vigilando ma non dicasi la vigilia della battaglia, la vigilia delle elezioni per: il dì prima della battaglia, il giorno prima delle elezioni.

ln conclusione, tutti gli autori prima esaminati giudicano il purismo un rimedio insufficiente e attribuiscono l'uso improprio o inutile di termini stranieri - e/o l'accentuato imbastardimento de11a lingua italiana - a un fatto di costume, sostanzialmente riconducibile all'esterofilia e al provincialismo - con relativo amore per le forme dialettali - degli italiani di ieri (ma - diremmo noi - anche di quelli di oggi). Tutto sommato, nessuno di loro dice di più di quanto affermato fin dal 1867 da Nicola Marselli, anzi: è l'eminente scrittore napoletano a inquadrare meglio di tutti il problema e a suggerire le soluzioni più appropriate (cfr. cap. Il) che giova qui riepilogare e anzi ampliare. Come già accennato, senza tanti complimenti il Marselli - che nel 1867 era ancora un giovane ufficiale - scrive che "nui non abbiamo una lingua italiana, e tanto meno una lingua militare italiana. E ' questa una necessità storica più che un fatto deplorabile, ma è una necessità alla quale possiamo e dobbiamo ricominciare a sottrarci". 11 In genera]e, nel nostro passato noi troviamo molte glorie locali, ma non troviamo mai l' Italia: "il non essere mai stato un popolo, una nazione, il non aver mai avuto una vita pubblica una, ci ha tolto di avere una vera lingua italiana. Noi pensiamo ad un modo, parliamo con un altro e scriviamo poi in maniera assai differente ".

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279.

N icola Marselli, Il problema militare del/'il1dipendenza nazionale, (cit.), marzo 1867, pp. 276-


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Nel campo militare la situazione della lingua è se mai peggiore, perchè nei vari eserciti pre-unitari la lingua italiana era ancor meno conosciuta e studiata che nel mondo civile, l'abuso dei dialetti era maggiore e gli scrittori erano molto pochi. Sono anche mancati, nel campo militare, gli autori classici ai quali pur potevano fare riferimento gli scrittori civili, così "a poco a poco i modi forestieri, il gergo provinciale si sono insinuati nella lingua militare e l 'hanno resa meno italiana della stessa non italiana lingua del Paese". Diversamente dagli altri autori militari, il Marselli è assai poco tenero anche con i compilatori di dizionari e vocabolari italiani del suo secolo: "parecchi tentativi si sono fatti da alcuni scrittori, ma quasi nessuno è riuscito, non dico a conseguire lo scopo, sibbene a destare almeno la voglia di parlare e scrivere italianamente. Il ridicolo ha coperto i loro Jforzi...". Con queste dure parole egli vuol riferirsi in particolar modo ai puristi, che, mancando del più elementare buonsenso, hanno voluto correggere un eccesso e un vizio con un vizio ancora peggiore, pretendendo che si parli nell'esercito come nel trecento e cinquecento: "volere che il nostro esercito parli come a quei tempi si faceva, gli è lo stesso che invitarlo a smettere Le sue armi e la sua divisa ed a coprirsi dell'elmo, della corona e della rotella". Inutile opporsi all'uso di parole straniere ormai entrate nell' uso quotidiano, pretendendo, ad esempio, di sostituire plotone con manipolo; ci si deve accontentare, al massimo, di sostituire plotone a pelottone. Premesso che, se i puristi fanno ridere, "gli scrittori barbari" (cioè coloro che infarciscono inutilmente i loro scritti di termini stranieri) fanno piangere, il Marselli suggerisce gli orientamenti generali da adottare: dalla barbarie dunque bisogna uscire, ma senza grandi rivoluzioni, senza spettacoli di catastrofi, senza pretendere che si scordi tulla la lingua parlata e vivente e se ne impari un 'altra impostavi da un uomo che non è poi Dante Alighieri, il quale, teniamolo bene a mente, è grandissimo perchè ha saputo depurare e imporre al popolo quella stessa lingua greggia che il popolo aveva imposto a lui. E' questo il segreto della questione. Se ci contenteremo di perfezionare, correggere, dirozzare e smetteremo la smania di sconvolgere, se adotteremo il metodo del cuci e scuci, anzi che quello delle demolizioni, io credo che non sarà malagevole il risolvere la questione della lingua militare d'Italia 1---1- Se è bene essere implacabili con i modi scorretti, e inutilmente e irragionevolmente forestieri, è forza, per contrario, avere le braccia Larghe come quelle della Provvidenza con i modi adottati - sia che vengano di fuori, sia che vengano dai dialetti - dal senso spontaneamente razionale dell'esercito.


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Poichè nell'esercito, dove tutto è disciplina, non si può certamente cambiare il linguaggio senza la volontà e l'intervento del vertice, il Marselli propone di costituire al livello di organi centrali una Commissione composta da pochi e ben scelti membri , con l'incarico di fare proposte pratiche, che poi se del caso verrebbero tramutate in prescrizioni: "il minislro di giustizia ci ha dato un esempio, affidando al professor Coppino il carico di sbarbarizzare e italianizzare le leggi nostre " [altro eterno problema! - N.d.a.]. Sagge parole, che tuttavia indicano delle soluzioni non certo originali , anche se rifuggono da.i contrapposti estrenùsmi. Benchè egli esponga meglio degli altri i] da farsi, nemmeno ciò che egli dice ha avuto un riscontro nella realtà quotidiana fino ai nostri giorni: ennesima dimostrazione che i1 Jinguaggio implacabilmente rispecclùa una realtà, un costume nazionale e militare che molto lentamente mutano nei secoli, lasciando a poclù uomini di cultura le preoccupazioni e le grida d' allarme che regolarmente cadono nell'indifferenza.

SEZIONE II - I pochi dizionari e vocabolari a carattere interforze e terrestri Qui di seguito verranno brevemente esaminati i dizionari riferiti al1' arte della guerra terrestre e a carattere interforze; quelli relativi esclusivamente alJ'arte mmtare marittima saranno presi in considerazione nella parte ad essa dedicata nel Tomo Il. Non può essere considerato un vero e proprio dizionario militare il lavoro (1870) del tenente Pio Bosi Il soldato italiano istruito nei fasti miliLari della sua Patria dalle epoche più remote fino ai nostri giorni - dizionario storico biografico topografico militare d 'Italia, 12 dal quale ad esempio mancano le voci arte militare, strategia, tattica ecc., numerose biografie, numerose battaglie fondamentali. E' solo un insieme di notizie utili soprattutto per la truppa e al più per i gradi inferiori, come del resto preannuncia il titolo; ma il suo interesse teorico e tecnico è assai ridotto. Ha perciò torto Jo Sticca, che lo giudica "non perfetto, ma ricchissimo di notizie su personaggi militari antichi e moderni, su località celebri nella storia guerresca; al quale diede poi due supplementi. Libro lodato dal Moltke ma

12

Torino, Candeletli 1870.


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troppo poco noto, che ogni ufficiale dovrebbe avere sul tavolino". 13 Non si sa dove - e a proposito di che cosa - il Moltke abbia lodato questo lavoro; da un'opera sul linguaggio militare si deve comunque pretendere che per prima cosa dia un valido contributo critico alla ricerca del significato più appropriato dei termini fondamentali riguardanti gli aspetti teorici dell'arte militare.

Il "Vocabolario marino e militare" del Guglie/motti ( 1889). ultima frontiera del purismo e ultima opera a carattere interforze Non c'è paragone tra quest'opera e quella precedente del Bosi , che pertanto senza volerlo le conferisce maggior risalto. L'autore, il già citalo padre domenicano Alberto Guglielmotti (18 I 2-1893) è una singolare figura di frate, di dotto, di viaggiatore con un carattere battagliero e orgoglioso, la cui vocazione si direbbe piuttosto di uomo di mare o di soldato, dei quali ha persino l'aspetto. 14 Eminente storico navale del periodo velico e rernico, in un periodo di forte contrapposizione tra Vaticano e Stato italiano ha fallo opera altamente patriottica, illustrando come nessun altro ha saputo fare le gesta e le glorie delle antiche marine italiane del Medioevo e del Rinascimento, con un posto di rilievo per la marina pontificia quale protagonista di secolari lotte contro i turchi. Non basta: da instancabile rovistatore di biblioteche e viaggiatore per mare quale è stato, nella narrazione degli eventi inserisce una profluvie di preziosi dati d'ogni genere sulle flotte, sul loro modo di navigare e combattere, sui tipi di navi, sugli equipaggi, sulle costruzioni navali, sulle fortificazioni costiere ecc., fino a fornire un quadro insostituibile di tutto quanto concerne la guerra marittima nel Mediterraneo tra i secoli VIII e XVIII, senza dimenticare il grande contributo da lui dato alla storia del la fortificazione non solo costiera, nella quale esalta il primato degli architetti militari italiani. Ripercorrendo quelle antiche vicende, il Guglielmoui si scopre istin-

13

Giuseppe Sticca. Op. Cit., p. 367. Su vita e opere del Padre Guglielmotti Cfr. specialmente Augusto Alfani, li Padre Alberto Guglie/motti (commemorazione ali' Accademia della Cmsca), in "La Rassegna Nazionale" Voi. LXXXI - Anno XVII, I fehbraio 1895, pp. 357-374 e Innocenzo Taurisano, Alberto Guglielrrwui - La vita, le opere e lt, pagine più belle, Roma, F.lli Palombi 1960. Il suo capolavoro è la Storia della Marina Pontificia dal 728 d.C. al 1807 in nove volumi (iniziata con un primo volume nel 1854 e poi stampata definitivamente al completo dal 1886 al 1893 a cura della Tipografia Vaticana. con l'aggiunta di un Atlante delle cento tavole di fortificazioni). 14


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tivamente, genuinamente e profondamente italiano, oltre che marinaio di vocazione: nella discordia degli italiani, sordi alle esortazioni dei grandi pontefici del Rinascimento, nell'abbandono della causa nazionale disarmata contro le aggressioni dell'lslam, Alberto Guglie/motti attinse quel sentimento navale e supremamente italiano che rese austero giustiziero lo storico appassionato per la verità e talvolta gli potè suggerire giudizi acerbi contro uomini, istituti, dottrine, ed usanze marittime che italiane non fossero. 15

li celebre e tanto lodato Vocabolario marino e militare, pubblicato quattro anni prima della morte, è sintesi e frullo di quarant'anni di studi, ricerche, appunti specie sulla guerra navale del Medioevo e del Rinascimento nel Mediterraneo: questo è il suo pregio, e insieme il suo limite. Era già stato ultimato nel 1865, subendo un ritardo più che ventennale per la difficoltà di trovare un editore (lo stesso editore Voghera, specializzato in pubblicazioni militari, aveva accettato di pubblicarlo solo dopo che il re e il Ministero della guerra ne avevano sottoscritto 350 copie). Un lavoro, dunque, conclusivo, che testimonia non solo gli studi e le ricerche di un'intera vita, ma anche il carattere dell'uomo. Per le voci più importanti assume la veste di un dizionario enciclopedico, dove l'autore prende posizioni sempre nette (e non di rado polemiche) su argomenti che gli stanno più a cuore, o sui quali si sente più ferrato. Stando così le cose, prevedibilmente l'opera si caratterizza come ultima espressione del purismo navale e militare in genere. Intende risvegliare l'interesse per 1' antico linguaggio militare e navale dimenticato, riportarlo in auge, dimostrarne le possibilità anche a fronte del progresso dell'arte nautica e delle nuove costruzioni navali, more solito riscattando la nostra lingua dagli influssi stranieri e in particolare francesi. Lo dichiara esplicitamente il Nostro nel proemio: perchè il nostro linguaggio tecnico di terra e di mare deriva dal pelasgo, comune ai greci ed ai Latini, sarà bene sollevare La mente alle classiche.fonti originali dei nostri maggiori, anzi che sottometterla alla servile dipendenza dei moderni idiomi stranieri; d'onde è venuta sempre,

15 Prefarazione del Padre Innocenzo Taurisano a Antologia del mare (dalle opere di P.A. Gugliemoui), Firenze, Libreria Editrice Fiorentina 1913, p. VII .


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e crescerebbe sempre di più, la nostra confusione. Gli esempi della Crusca, e degli altri maestri, s'intendono qui ripetuti, dove solamente qualcuno sarà aggiunto, dove speciale convenienza Lo richiede; volendosi brevemente discorrere co' marinari [come faceva l'autore nelle sue lunghe navigazioni - N.d.a.l. Più ciascuno troverà, che non crede, anche delle voci dimenticate o neglette della ricchissima e bellissima lingua nostra...

Grazie a queste idee il Guglielmotti nel 1871 viene nominato Accademico della Crusca e commemorato dopo la morte del prof. Augusto Alfani nella seduta del 9 dicembre 1894 della predetta Accademia, che ritarda la pubblicazione del suo dizionario per potervi includere man mano le voci marinaresche da lui compilate. Ci troviamo di fronte, insomma, ali' alter ego navale del Grassi (anch'egli membro della Crusca), sia pure grazie a un'opera data alle stampe oltre settant'anni dopo quella del dotto piemontese, a sua volta assai discussa. Alter ego navale, abbiamo detto; perchè non casualmente, nel titolo, l'aggettivo marino precede l'altro militare. I termini e contenuti dell'opera, infatti, sono in prevalenza marittimi e rispecchiano la grande competenza dell'autore in materia di navigazione del periodo remico e velico e di linguaggio marinaresco non militare, accompagnata però - questo va sottolineato - da incomplete conoscenze di tutto ciò che riguarda la guerra (anche navale) e gli eserciti terrestri della seconda metà del secolo XIX. Ne consegue che l'approccio interforze del vocabolario, di per sè lodevole, rimane più nel titolo e nell'intento dell'autore che nel testo: basta confrontarlo con il dizionario del Grassi (Voi. I cap. V), molto più esauriente e preciso su antiche voci e sull'esercito in genere. Accanto a questa seconda caratteristica fondamentale ne emerge una terza, da ricondurre agli ormai ben noti (e oggettivi) limiti del purismo: ferrato più di tutti su tutto ciò che riguarda il periodo remico e velico, il Guglielmotti dimostra di non esserlo altrettanto in fatto di navigazione e di tipi di navi del secolo XIX, con particolare riguardo al periodo del vapore, per il quale rispetto al Parrilli fornisce nozioni numericamente insufficienti e non di rado qualitativamente insoddisfacenti. Nel titolo avrebbe dovuto essere incluso l'aggettivo storico: questo perchè, da storico insigne quale è, il Guglielmotti per ciascuna voce - e in particolare per quelle da lui giudicate più importanti - si sotferma sulla storia e non sull'attualità, così capovolgendo il normale indirizzo dei dizionari, vocabolari e enciclopedie, che si volgono in prevalenza al presente e solo in subordine al passato. La causa principale delle lacune è facile da individuare: il Guglielmotti semplicemente ignora la guerra terrestre e navale dalla Rivoluzione


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Francese in poi e i fondamentali autori italiani e stranieri del suo secolo (tra i quali Rocco, Marselli, Ricci e tanti altri), citando soprattutto la Crusca e molti autori - spesso di non chiara fama - del Medioevo e Rinascimento. Per il XIX secolo si trovano molto sporadici riferimenti solo al Botta, al Colletta, al Grassi, al Carbone, e - per la parte navale - allo Stratico, al Parrilli e al Fincati. Nelson e Napoleone, per il vocabolario, non dicono niente; così come non dicono niente i numerosi regolamenti emanati dall'esercito e dalla marina dopo il 1861. Probabilmente ciò avviene anche perchè il Guglielmotti ha ultimato il vocabolario nel 1865 e da allora in poi lo ha aggiornato, ma - a quanto pare - lo ha fatto solo parzialmente e senza includervi le voci che rispecchiano i grandi progressi delle tecnologie militari, degli ordinamenti e degli studi militari in genere in particolar modo dal 1815 al 1870. Mostra, ad esempio, di seguire con una certa attenzione la Rivista Marittima; ma perchè non cita i fondamentali studi navali coevi di Domenico Bonamico 16 e il ricco patrimonio linguistico da lui usato, in parte nuovo? che dire del dibattito coevo, a molte voci, sulla fortificazione e sulla Difesa dello Stato? perché, infine, non cita nemmeno la Rivista Militare? Tra le voci più significative mancanti: guerriglia, guerra per bande (in parte sostituita da guerra minuta e guerra sparsa), guerra di popolo, nazione armata, esercito permanente, organica (da tutti intesa come parte fondamentale del l'arte /scienza della guerra), principf della guerra, controffensiva, punto strategico, linea strategica, aggiramento, ordine rado o sparso, Difesa dello Stato, mitragliatrice, Commissariato (inteso come corpo), prestito, deconto e molte altre voci logistico-amministrative, potere marittimo, dominio del mare (quest'ultimo termine è già frequente nel secolo XVI), guerra di squadra, guerra di corsa, guerra di crociera, guerra costiera, difesa costiera, difesa marittima, correlazione terrestre-marittima ecc. ecc.. Accanto alle voci mancanti, ancor più nutrito potrebbe essere l'elenco delle voci trattate in modo poco chiaro, inesatto, insoddisfacente o troppo breve in relazione alla loro importanza, a cominciare da quelle - fondamentali - riferite ai concetti di guerra, arte militare/della guerra, strategia, tattica e logistica. La definizione di guerra in generale risulta assai meno centrata rispetto a quella del Grassi, perchè si tratta di un "dissidio di gente, che vogliono vincere con le armi il punto stimato del proprio diritto" (ma a quale livello? il duello tra due persone è già una guerra? Gli Stati non c 'entrano?).

16

C'.fr. nomenico Ronamico. Scritti sul potere mari/limo / 878-1905 (cit.).


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ll secondo significato attribuito a tale vocabolo confonde ancor più le idee, anzi è palesemente errato: "filologicamente dicesi per semplice combattimento". Infine il Guglielrnotti riprende il vecchio detto, fonte di frequenti quanto giustificate ironie, "sedia della guerra" (per regione o area dove si combatte). Semplicistica anche la definizione di guerra navale, che non dà alcun peso alle pur notevoli differenze rispetto alla guerra terrestre: " le competono, per similitudine, gli stessi vocaboli col fraseggio medesimo, salvo il sostituire mare, porto, isola e simili, dove si dice campagna, forteua, città" [e tutto ciò che si riferisce alle navi e al modo di impiegarle? - N.d.a.]. Nel 1889 ci si sarebbe aspettati anche una definizione un pò più completa di arte militare, che è "tutto ciò che la natura umana ha cavato per mantenere il suo, e per impedire colle armi le usurpazioni dei nemici. Le sue parti seguono tattica, strategia e fortificazione". Anche la definizione di Arte della guerra è troppo generica e sommaria: "Tutto ciò che l'industria umana ha trovato per condurre praticamente alla battaglia e alla vittoria gli eserciti o le armate [navali]". Poichè secondo il Guglielmotti è un insieme di ritrovati tecnici (e dunque: non un'arte), l'arte della guerra dovrebbe essere piuttosto una scienza o una tecnica; ma il significato da lui attribuito a scienza, pur corretto, non aiuta a chiarire la materia. La scienza è "cognizione ordinata delle cose, per loro principi". Questo potrebbe andare; lascia però perplessi il seguito: "nel caso nostro v. Strategia e nautica ". Inoltre trattando dell'aggettivo strategico, il vocabolario lo riferisce a " ogni operazione eseguita secondo i principi di scienza militare", omettendo però le voci scienza militare e principi. Se ne deduce che per il Guglielmotti la strategia è una scienza, che però - per quanto da lui stesso affermato - fa parte dell'arte militare, mentre in base al significato attribuito all'aggettivo strategico dovrebbe invece fare parte di una scienza militare, peraltro non definita. Per quanto riguarda la nautica (da lui indicata come una scienza) il Guglielmotti dissente dalla Crusca e dal Fanfani, che non fanno differenza sostanziale tra nautica e navigazione chiamandola "arte del navigare". Solo quest'ultima che è da lui ritenuta un'arte, che a sua volta farebbe parte dell'arte navale, così definita: "tutto ciò che l 'industria umana ha trovato per trasportar sui mari persone e cose con maggiore sicurezza e velocità. Le sue parti sono costituzione, alberatura, attrezzatura e navigazione". Se è così, oltre a riguardare solo la marina mercantile l'arte navale più che essere tale è una scienza: e perchè l'uso non militare dell'aggettivo navale, già dagli altri autori del tempo riferito a tutto ciò che riguarda l'impiego delle flotte militari? Stupisce, in proposito, che persino


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il Gugliemotti non colga bene le differenze tra marittimo e navale, a quest'ultimo aggettivo attribuendo il significato generico della Crusca ("attinente a nave") e inoltre "navale, parlando di battaglia, combattuta dai navigli sul mare". Troppo poco! Come si è visto, per il Guglielmotti la logistica non fa parte dell'arte della guerra (cosa che invece ammette gran parte degli autori del tempo); tuttavia ne fornisce la seguente defuùzione: "arte calcolatrice di ordinare e condurre le mosse delle armate [navali] e degli eserciti, al segno voluto e in determinato numero, luogo e tempo". Ma di che cosa fa parte? con quale branca dell'arte della guerra è connessa? perchè quell'espressione "arte calcolatrice" che piuttosto ne farebbe una scienza? L'accenno alle "armate", poi, fa emergere un concetto di logistica navale del tutto sconosciuto ai suoi tempi, e tale da avvicinarsi piuttosto al significato di strategia navale. Dalle predette voci si deduce che il Guglielmotti non ha un' idea chiara della differenza tra arte e scienza/militare/della guerra e tratta in modo troppo generico e sommario le voci connesse, sulle quali parecchi autori del secolo XIX, coevi e antecedenti, si erano da tempo soffermati di più e meglio ( vds. Vol. I e II). Questi limiti si riscontrano ancor di più nelle definizioni di strategia e tattica che qui riportiamo, oltre tutto riferite in gran parte alla guerra terrestre: STRATEGIA. s.f. (Strategia, f. greco Strateghfa), Term. Mil. Grassi, Colletta, Fanfani. 1ècnica voce e solenne di tutti i secoli. Quella suprema scienza militare, che trova il modo di condurre Le masse sul campo alla vittoria. Simile alla dinamica, considera in astratto sul tappeto Le lefa?i del moto, dello spazio, e del tempo: passa alle masse, alla velocità, all'urto, alla resistenza, all'attrito; calcola le linee, i lati e gli angoli di operazione dalla hase all'obbiettivo, alle comunicazioni, alle ritirate; ragguaglia le formale col più e col men del danno e del vantaggio; e risolve in concreto sul terreno il problema fondamentale di condurre il pieno delle forze per Le vie più spedite, e nel tempo più breve, in ordine e in punto, alla vittoria; sì per terra, e sì per mare. 2° La Strategia, nella mente dei grandi capitani, sorge spontanea per intuito razionale, per esperienza, e per esempi: ma in pratica, secondo gl'istinti diversi, ciascuno ha i suoi metodi: Alessandro .1fondava i centri, Fabio traccheggiava, Scipione colpiva nel paese nemico, Bonaparte girava la fronte, Nelson metteva tra due fuochi; ed ogni altro, se abbia tal genio, deve sentirlo. A tutti poi gioveranno gli ammaestramenti


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delle storie militari, ed i trattati di Eliano, Frontino, Polieno, Ycgczio, Sanuto, e Machiavello. 3° La Strategia, nel presente ordinamento, si insegna agli ufficiali scelti nella scuola superiore di RUerra, raccolta a l'orino.

Evidente la solita confusione tra strategia e tattica. Il riferimento esclusivo a autori terrestri come il Grassi e il Colletta, accompagnati da un linguista digiuno di cose militari come il Fanfani, dimostra ancora una volta che il Guglielmotti ignora la schiera di autori anche navali del suo secolo, che molto di più e meglio e con conoscenze più aggiornate del Grassi hanno trattato di strategia. Per il resto, il meno che s i possa dire è che il carattere geometrico di una tale definizione la rende analoga a queJla del Bi.ilow, criticata persino da Jomini (Voi. 1, cap. Il) e, come sempre, l'espressione "condurre le masse sul campo alla vittoria " è estremamente generica, potrebbe andar bene anche per la tattica e certo non rende la complessità della branca e i suoi risvolti navali. L' affermazione, poi, che essa "sorge spontanea nella mente dei grandi capitani" è contradditoria, perchè rende legittimo dedurne che è arte o almeno anche arte, e che dipende esclusivamente dal genio e dell' intuito del generale, quindi non ammette principi; tanto più che si accenna esplicitamente a1 genio e agli "istinti diversi " del condottiero. Stupisce, infine, che proprio un cultore del linguaggio marinaresco come il Guglielmotti parli solo di "masse" terrestri, non accenni alle differenze tra strategia terrestre e navale e non dedichi una definizione particolare a quest'ultima; senza contare che, quando Nelson "melteva tra due fuochi" faceva della tattica e non della strategia. Rimane anche da dire che la tattica di Nelson - come quella di Napoleone - consisteva, anzitullo, nel concentrare le forze sul punto decisivo dello schieramento nemico e nella ricerca esasperata della distruzione del!' avversario, mantenendo la flotta riunita. Infine, un dubbio: la strategia al tempo si insegnava solo alla Scuola di Guerra dell' esercito, e non nelle scuole navali? La definizione di tattica è assai dotta, molto lunga, ma concettualmente è ancor meno soddisfacente di quella di strategia e indicatrice anche del carattere polemico dell'uomo: TAIT/CA sj (Tactica........ ). Voce solenne, dedotta dal classico Taxis, reRistrata dal Forcellino nell'app. E.fin dal non secolo ripetuta nei libri dell'imperatore Leone il Tattico, nelle versioni latine; e poi in volgare dal Colletta, Gra<;si, Manuzzi, e Fanfani. - L'arte di ordinare le masse dei combattenti, tanto che ciascuno stia al suo posto, e tutti insieme si


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riconoscano, superiori ed inferiori, in un corpo solo. Esempio classico ci fornisce la Stolarchia e Falange greca, la Legione e Classe latina, e quindi l'esercito e l'armata italiana da Egidio Colonna, e da Marino Sanuto fino a Niccolò MachiaveUo. 2° La tattica, per estensione, porta l'ordinamento suo non solo alla piazza e nell'arsenale, ma oltre alla navigazione e sul campo; e quivi rassegna le masse ben ordinate nelle mani della strategia, cui, secondo gli alti principt del calcolo intuitivo, compete condurle alla vittoria. Così la Tattica è arte di composizione numerica, come la Strategia è scienza di movimento trionfante. Ambedue riguardano l'esercito e l'armata. a. La tattica, rispetto ali eserciti, mette in rilievo tra gli antichi la falange e la legione; porta nell'età di mezzo l'oste, la gualdana, lo stormo, la compagnia, il terza; si ferma nei tempi moderni ai reggimenti di fanti e cavalli, artiglieria e genio. Con essi discende ai battaglioni, squadroni, compagnie, drappelli: e con essi risale alla f ormazione delle brigate, divisioni, corpi, ed eserciti. Intorno ai quali La tattica non si ferma: ma leva, mette, aggiunge, sdoppia, e duplica pezzi, cavalli, treni, telegra,fi, areostati, e gente di speciale attitudine, come bersaglieri, alpini, lacunari: pascolo gradito all'attività dei tattici nella legislazione militare, e sui banchi dei parlamenti. b. La tattica, riferita all'armata, comincia cogli argonauti e colle poliremi, scende alle navi e galere del medio evo, sdrucciola ai vascelli ed alle fregate del seicento, e sosta coi piroscafi e corazzieri [cioè con le corazzate - N.d.a.] del tempo nostro. Con essi forma Le armate, le divisioni, le squadre, gli stuoli, i gruppi, Le sezioni; e fissa il punto unitario sulla nave di battaglia e di alto mare. Ma quante trasformazioni e quante dispute in brevissimo tempo! La macchina, La ruota, l' e/ice, il rostm, La corazza, il cellulare, le torri, le torpedini, Le reti, il posticcio, gl'incrociatori, e l'artiglieria di cento tonnellate. Di mezZo al vortice delle trasformazioni, che niuno sa fin dove abbiano a giugnere, la Tattica terrassiferma al gran tipo della nave dominatrice sugli uomini e sui mari: grandezza. fornimento, equipaggio, artiglieria, velocità, riparo; e non dispregerà mai il corredo della velatura ausiliaria per ogni caso di necessità eccesionale. 3° Tattica. Fig. Condotta artificiosa ed astuta nelle civili faccende: onde si dice: Costui ha gran tattica. Che tattica! - In questo senso, figurato e furbesco, ma non militare, la voce corre ardita su pei giornali moderni; ed anche negli scritti recentissimi di un generale italiano e di un ammiraglio francese, difensori ambedue della gran tattica (dicono essi) di quel tristo ceffo, notissimo per le medaglie, pit-


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ture, stampe, e sculture contemporanee di casa sua lGian Andrea Doria,, sospettato di tradimento - N.d.a. I; il quale rifiutò sempre la battaglia, e di fatto non comhattè, come gli altri, a Lepanto. Quanto alla voce, per menar buona la scusa, due uomini del mestiere, invece di gran Tattica, avrebbero dovuto dire Sublime strategia: e quanto al fatto, vadano: e, se lor basta il cuore, si provino di fare altrettanto.

Più che parlare di tattica, in questo caso il Guglielmotti vuol parlare di storia della tattica, che è cosa diversa. Anche gli autori di riferimento dimostrano il suo approccio antiquato e insufficiente, con il quale dice molte cose meno quella essenziale, generalmente accettata ai suoi tempi: che la tattica riguarda la condotta delle truppe (o delle navi) nei combattimenti e nelle battaglie onde conseguire la vittoria, che è il suo scopo essenziale. La identifica, invece, con l'ordinamento delle forze (che è cosa diversa) e con la loro disposizione sul lerreno dello scontro, che è solo una modalità conseguente al concetto tattico. Da respingere decisamenle la frase "rassegna le masse ben ordinate nelle mani della strategia, cui [... l compete la vittoria "_ Se mai è il contrario: è la stralegia a creare le premesse per il successo tattico, rassegnando le masse ben ordinate nelle mani di chi le deve impiegare per 1' atto finale di combattere e raggiungere la vittoria, che dunque viene ottenuta essenzialmente nel campo tattico, con la strategia che prepara lo scontro e ne crea le più favorevoli premesse. Nemmeno della tattica navale il Guglielmotti fornisce un concetto chiaro, un'idea direttrice; oltre a idenlificarla con le varie suddivisioni della flotta, con l'affermazione ''fissa il punto unitario sulla nave di battaglia e di alto mare" lascia capire che, come per la vecchia scuola francese di Padre Hoste, consiste nelle evoluzioni e nella scelta delle rotte. Alla fine il Guglielmotti dimostra di credere nelle grandi navi come unità tattiche fondamentali; potrebbe sembrare un'apertura di credito alle moderne tecnologie, ma l'accenno a "non dispregiare mai il corredo della velatura ausiliaria per ogni caso di necessità eccezionale", ormai anacronistico nel 1889, induce a ritenere che il Guglielmotti, che lavorava da decine d'anni al vocabolario, non è certo stato, a suo tempo, tra i sostenitori della propulsione a vapore (o non si è preoccupato di aggiornare la voce quando finalmente ha potuto dare alle stampe il djzionario). Lo stesso si potrebbe dire per la voce piroscafo, "bastimento che, oltre all'ajuto occasionale della vela, principalmente è mosso dal vapore": ma intorno al 1890 lenavi unicamente propulse a vapore erano già il nerbo delle flotte anche mercantili...


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Il. PENSI ERO MII.ITARE E NAVALE ITAI.IANO - VOI- JU (1870-1915) - TOMO I

Sempre in materia di tattica, val la pena di riportare quanto viene detto, in modo non sempre chiaro ma colorito, alla voce vascello: ... sovr'esso il cotone del volume spandorato con tanto Lus.w, alla fine del cinquecento, il britannico Drake, formidabile a tutti gli altri,, impiantò la torva strategia della tattica a vento Isi noli il bisliccio di parole: che c'cnlra la slratcgia? e perchè è "torva"? - N.d.a.]; le corse oblique, Le batterie di fianco, l 'ordine di fila [non l'ha certo inventato Drake - N.d.a. I, La marcia di traverso, Le evoluzioni di passata, e l' arrembo finale. Gli stolti a bocca aperta credevano che quello fosse un gran progresso di petpetua durata. Ma, rispetto al palamento libero di tutti i secoli [cioè alla propulsione a remi, libera dal vento - N.d.a.], riuscì breve, e finì presto il periodo della dispotica forza veliera [se ne dedurrebbe che il Guglielmotti ha in antipatia la vela - N.d.a.]: cominciata dal Drake, e .finita in fila dietro al Nelson. Veterani, attenti a Lissa! [monito poco chiaro: vuol forse dire ai nostalgici della vela che con la battaglia di Lissa è finito il periodo velico? - N.d.a.J.

Dopo aver preso atto della fine del vascello, che "disarmato e brullo restassi intorno alle banchine come carcassa di libero pontone", nota che "ormai i piroscafi han rimenato ogni cosa di tattica e strategia al nostro sistema primitivo di libera forza motrice [cioè al periodo rcmico - N.d.a.], le cui tradizioni, durate fino a noi, vogliono e sempre vorranno pala (sic.) e macchina sul militar tipo solenne di linea, di battaglia, e d'alto mare". Quindi anche per il Guglielmotti le formazioni del perodo del vapore sono analoghe a quelle del periodo nemico? e i principi' della strategia e della tattica, cavallo di battaglia di tanti autori coevi e antecedenti? Semplicemente, come già dello non ne parla... Data l'importanza assunta dalla corazzata già ai suoi tempi, ci si aspetterebbe che egli Je dedicasse almeno la stessa attenzione del Parrilli o quella riservala alla galea o galeazza (quasi tre colonne con dovizia di preziosi dettagli); invece la voce occupa poco più di una colonna, con oltre metà dello spazio riservato alla sua storia fin dai tempi più antichi. Nessun accenno, però, ai prototipi di nave corazzata usati contro Gibilterra dai franco-spagnoli fin dalJa guerra di indipendenza americana 1775-1883, al mode1lo del Fulton, alle batterie galleggianti impiegate contro i forti russi di Kinbum nella guerra di Crimea (Cfr. Voi. I, cap. XV). E' definita semplicemente e semplicisticamente "nave munita di corazza": nulla sui crescenti dislocamenti, sulla potenza delle artiglierie, sulla forza della macchina a vapore, sulla velocità, sugli equipaggi, sul ruolo reciproco del can-


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none e dello sperone; si trova solo la descrizione dettagliata della corazzatura dello scafo. Vuol chiamare la corazzata corazziere, termine mai adottato anche perchè la confonde con il soldato (o cavaliere) protetto da corazza, fino ad oggi. Alla voce Rostro afferma che "le navi corazzate hanno ripreso il sistema dell'urto", mentre alla voce abbordare specifica che l' "urto porta rovina, come facevano le antiche navi rostrate, e più farebbero le moderne c:orazzate" (che, dunque, a suo avviso userebbero ancora il rostro, nonostante le ultrapotenti artiglierie delle navi tipo Duilio, da lui visitata in porto a Civitavecchia). Sempre alla voce corazzata, ha comunque il merito di invitare gli ingegneri navali e terrestri e studiare meglio il rimbalzo sulle corazze, come rimedio per diminuire la crescente efficacia dei proietti. Va ricordato anche che nel Vol. I della Storia della Marina pontificia 17 critica opportunamente la tendenza degli ingegneri del tempo a corazzare solo i fianchi e non i ponti delle navi corazzate (come si faceva con le antiche barbotte); ma al tempo stesso si dichiara contrario sia alle batterie laterali sia alle artiglierie sistemate in torri centrali , suggerendo invece dicostruire a prua un ridotto armato di artiglierie, ad imitazione di quanto già si faceva con le "rembate" delle antiche galee. Il Parrilli dedica alle formazioni deUe flotte a vapore un notevole spazio, con disegni a corredo del testo: nulla di simile nel vocabolario del Guglielmotti. Liquida la voce fonnazione, già con ampio uso militare ai suoi tempi, con "azione del formare"; e tratta quelle che comunemente oggi si chiamano formazioni alla voce ordinanza, limitandosi a elencarne una gran quantità, senza distinguere tra guerra marittima e terrestre e senza specificare brevemente, per ognuna, in che cosa consiste: "sarà retta, semplice, doppia, attelata, trinciata, inflessa..." (segue un lungo elenco); manca però l'ordine sparso, e non si accenna alle formazioni normali della fanteria del tempo, dibattute con grande frequenza sulla Rivista Militare. Solo quattro righe, che val la pena di ricordare, sembrano riferite alla guerra navale: "ordinanza, rispetto al fine, si dice disposta a tagliar la linea nemica, a metterla tra due fuochi, a spuntarla, a girarla sui fianchi, a sfondare il centro, a circuir le ali, a pigliarla dietro le spalle". ll più ampio riferimento alla situazione de11a flotta italiana si trova alla voce naviglio, dove ne descrive la composizione tratta dal primo numero della Rivista Marittima del 1886: navi da guerra di I" classe (corazzate), navi da guerra di 2" classe (corazzate, arieti torpedinieri, incrociatori torpedinieri, corvette,

17

Si veda, in merito, Amnlngia del mare (cit.), pp. 212-282.


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incrociatori, torpediniere di alto mare); navi da guerra di 3aclasse (avvisi, lanciasiluri, cannoniere, navi-scuola, navi onerarie di I", 2" e 3" classe). Non specifica, però, che cosa si intende per navi da guerra e/o navi di 1•, 2a e 3a classe, né fa menzione - alla rispettiva voce - degli incrociatori torpedinieri. Da quanto afferma alla voce ariete, si deduce solo che ancora nel 1889, ha mal risposta e mai confermata fiducia in questo tipo di nave armato di sperone, da lui definito "arma invincibile" che se manovrata con destrezza potrebbe distruggere un intero convoglio. Tratta la voce siluro ma dimostra di non credere al suo avvenire, profetizzando a torto che "cotesto nuovissimo petardo navale, che perturba la fantasia dei moderni, percorrerà tutta la traiettoria delle armi simiglianti: voga, stanchezza e abbandono". E trattando della voce torpediniera (costiera), non la descrive armata di siluro, ma ancora di un' "asta lunghissima a prua che possa cacciare sotto alla carena nemica, e fuggire ". Quanto finora si è rilevato dimostra, se ce ne ancora fosse bisogno, che il vocabolario ha serie lacune per quanto concerne la guerra marittima di fine secolo XlX: ma tali lacune sono ancor più rilevanti per la guerra terrestre, dove - a parte le notevoli omissioni - numerose voci sono incomplete, troppo sommarie o errate, cominciando dalla voce milizia, dove tra l'altro - chissà perchè - il Guglielmotti riferisce la composizione dell 'esercito (che meglio avrebbe dovuto essere collocata sotto quest'ultima voce). Rifacendosi alla Crusca, definisce la milizia "arte della guerra", significato improprio e già allora in completo disuso. E prosegue: "arte e scienza di mantenere con le armi i propri diritti, e di condurre gli armati alla vittoria. Scienza che ha per fondamento le meccaniche, la politica (sic), la strategia, l'architettura militare e navale; arte che applica siffatti principi fma quali? la politica, la strategia, l'architettura militare ecc. sono dei principi? - N .d.a.] alla tattica e alla pratica della guerra". Alla stessa voceriporta la composizione dell'esercito, ma senza indicarne la ripartizione in corpi d'armata, divisioni, reggimenti , ecc. e riferendo solo la suddivisione della forza (esercito permanente sotto le armi e in congedo e milizia mobile). Il fondamentale termine battaglia viene definito "affrontamento di eserciti o di armate nemiche, ordinate a combattere; purchè vi sia cambiamento della base d 'operazione, presenza delle forze maggiori, e scontro deliberato da una parte e dall 'altra ". Ma perchè vi dovre bbe necessariamente essere il cambiamento della base d'operazione, nella generalità dei casi sconsigliato persino da Napoleone? E perchè lo scontro dovrebbe essere cercato da ambedue le parti, cioè quasi concordato? Vi era tutta una letteratura che dimostrava il contrario, cioè la conve-


VI - L'ARTE MILITAKf: FJO DEI.LA GUERRA

nienza di costringere a venire a battaglia un avversario, in un terreno e in un momento che non ritiene conveniente; a questo serve anche per la sorpresa. Errate le voci Intendente e Intendenza. L'Intendente militare del tempo viene nominato solo in tempo di guerra; l'Intendenza è un corpo sciolto dal Ministro Ricotti nel 1873. 18 Invece nel vocabolario si legge ancora che "in tempo di pace gli Intendenti(?!) seguono i vari corpi o divisioni militari, alle quali provvedono in terra e in mare" (forse li confonde con i Commissari). Nessun cenno all' Intendenza come corpo, ma essa viene definita "l'ufficio e dignità dell'Intendente, e luogo di sua giurisdizione". Errata anche la più importante voce relativa aHa fortificazione permanente del tempo, campo trincerato: anzichè accennare ai forti staccati tra loro cooperanti che lo compongono e alla vasta area che ormai comprende, lo presenta come "accampamento difeso da fortificazioni campali", cosa che andava bene nei secoli precedenti. Per il Guglielmotti la fondamentale riforma Ricotti semplicemente non è mai avvenuta: non parla mai di ufficiali commissari, contabili, veterinari, t:usì come non sembrano esistere, per lui, le guerre d'indipendenza e i volontari sul modello garibaldino (cioè uomini che temporaneamente prendono le armi di propria volontà non per denaro ma per combattere lo straniero in nome di un ideale) e i reparti o Armi speciali, che dunque vanno tenuti ben distinti da quei volontari, troppo genericamente da lui definiti "soldati che di propria elezione, senza esservi costretti dalle leggi, entrano e servono nella milizia" (cioè nell'esercito regolare). Insoddisfacente anche la voce esercito, che è semplicemente una "moltitudine di gente insieme, armata per guerreggiare in terra". E' una moltitudine, ma è anche organizzata, addestrata e disciplinata, altrimenti rimane sempre e solo moltitudine e non diventa affatto esercito. Molto meglio il Grassi, secondo il quale è "una moltitudine di soldati d'ogni milizia, armati, ordinati ed esercitati nell'arte della guerra". Le principali suddivisioni dell'esercito (corpi d'armata, divisioni, reggimenti) sono descritte in modo troppo sommario e incompleto, dimenticando ad esempio i servizi logistici. Ignorate le espressioni, molto usate, "sul piede di pace ", "sul piede di guerra", "sul piede mobile". Alle voci esercito e fànteria si accenna ai bersaglieri, ma non agli alpini; e certamente il Guglielmotti non si riferisce - come dovrebbe - all'esercito italiano,

18 Si veda, in merito, Ferruccio Bolli, La loi:istica de/l'Esercito Italiano - Voi. U, Roma, SME - Uf. Storico I991, cap. VII.


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quando alla voce .fanteria scrive che tale anna si suddivide in di linea, leggera ("che combatte ugualmente serrata negli ordini, ma [non è vero - N.d.a.J con armi, Jornimenti e uomini più piccoli") e infine bersaglieri e cacciatori (quest'ultimi nell'esercito italiano non sono mai esistiti). E i granatieri? C'è parecchio da dire anche sulle voci alpini e bersaglieri. La voce alpini manca; alla voce soldato vi è solo quella di soldato di montagna, "ciascuno raccolto di quella gente che, nata e vissuta sempre tra i monti, ha naturale attitudine a corrervi sopra, e notizia squisita dei valichi e sentieri più acconci. L'usanza è antichissima, in ogni paese; ma oggidì sul nostro si chiamano con nuova voce Alpini; essi formano reggimenti; ad essi è affidata la guardia del confine sulle Alpi". Chissà perchè un'altra definizione si trova alla voce montagna, con il sottotitolo milizia di montagna (piuttosto da collocare alla voce milizia), così definita "com pagnie o reggimenti di giovani, armati alla leggiera, che per nascita o dimora possono meglio di ogni altro combattere e scorrere sui monti. Oggi deui Alpini". Viene perciò da chiedersi: perchè, mai, visto che l'ltalia ha confini montuosi ed è in gran parte montuosa, alla voce guerra non si parla (come diffusamente fa la stampa militare del tempo) di guerra di montagna? e perchè un corpo che svolge un compito così importante come la guardia ai confini non viene ritenuto meritevole di citazione specifica tra la specialità della fanteria, nè di una voce a parte con il suo nome? Dei bersaglieri, costituiti come corpo nel 1836 (cioè poco dopo la pubblicazione della seconda edizione del dizionario del Grassi 1833) il vocabolario dice di meno di quanto faccia il Grassi stesso, citato insieme al Montecuccoli e al Fanfani (questi due ultimi, non si sa a quale titolo). Eppure, da uno storico sarebbe stato lecito attendersi qualche cenno alle origini, ai compili e all'ordinamento attuale del corpo e alle speciali caratteristiche psicofisiche dei suoi componenti. Per le voci tecniche basti citare Artiglieria, Cannone e Fucile. Alla voce Artiglieria ci si aspetterebbe qualche cenno sui compiti, ordinamenti e organizzazione del momento dell'Arma, che manca. Alla voce cannone il Guglielmotti, more solito, dedica metà dello spazio alla parte storica, peraltro molto interessante. Per la parte d ' attualità omette di indicare in che cosa il cannone si differenzia dall'obice e dal mortaio e si parla solo della bocca da fuoco, senza mai accennare al munizionamento, all'affusto, al servizio del pezzo, al traino ecc .. Del fucile, stringi stringi, si limita a fare la storia, senza mai darne una definizione esaustiva e moderna e senza mai illustrare le caratteristiche generali del fucile del momento, o almeno del fucile in dotazione all'esercito. Ne parla co-


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me di "quell'arma da fuoco portatile, che principalmente si usa dalle fanterie alla guerra", definizione generica che potrebbe andar bene per molti altri tipi di armi come la pistola, la carabina ecc.; molto più esauriente, e moderno, quanto ne dice il Grassi. Anche per la fortificazione, nonostante i suoi lunghj studi storici non sembra rendersi conto dei mutamenti in atto, e soprattutto della possibilità di dotare anche le fortificazioni terrestri di costose torri corazzate, come le moderne navi. Invece ignora questo tipo di torri, diffondendosi piuttosto sulla descrizione di quattro vecchie torri fortificate austriache a Rovigo da lui visitate, composte da "grossa muraglia, terrapieni rinforzati, due ordini di piazze casamattate, una scoperta, tre batterie ed otto pezzi di grosso calibro per ciascuna". Senza contare che parla della scarpa ma non della controscarpa, termine assai usato anche nella fortificazione antica. Non si può chiudere la panoramka delle voci senza accennare al l'insolita vis polemica del Guglielmotti, nella quale non è secondo a nessuno. Valga come esempio l'ultima parte delle voci ufficiale e chirurgo: gli ufficiali, dopo tale filatessa, vorrebbero in terra e in mare titoli di ordinamento più logico e più razionale nella nomenclatura: perchè ripugna in mare che gli ufficiali s'abbiano a distinguere pel vascello o per altre carcasse simili, fuori di linea; e ripugna in terra sentire il titolo di Maggiore generale appioppato al minimo della specie; e ripugna gettar giù il gran nome di Maresciallo sotto alle capriole di certi sergentucci. Di questa materia discutono alcuni periodici [ ... ]: ma l'ultima parola non compete né a giornalisti, né a lessicografi.

Quanto ai chirurghi imbarcati sui bastimenti da guerra non devo tacere quanto l 'esperienza e la storia de' viaggi dimostrano di stranezza ne' chirurghi, e delle cattive conseguenze di Loro caparbietà. Se, tu che leggi, appartieni alla classe rispettabile degli Ufficiali sanitari, abbi l'avviso per tuo bene, procaccia unifomzarti alla disciplina degli altri Ufficiali e di seguire i suggerimenti del comandante.

Le interfacce prima descritte sono sufficienti per dimostrare che, in definitiva, il vocabolario del Guglielmotti è opera di consultazione indispensabile per gli storici non solo militari e gli storici navali del Medioevo e (talvolta) del Rinascimento, ma per il restante secolo XIX è decisamente impari alla sua fama e può risultare fuorvante; peraltro i re-


Il. PF,NSIERO MJLITARE E NAVALE ITALIANO · VOL. ll1 ( 1870-19~15=)-- TO ~ M=O..c l _ _ __

censori e gli autori coevi e successivi (ivi compreso lo Sticca) 19 non hanno rilevato questi aspetti di fondo, abbondando in generiche lodi e limitandosi a critiche marginali. Fa eccezione il colonnello Alberto Cavaciocchi, il quale nel 1908 rileva del tutto a ragione che nel più recente vocabolario marino e militare del Guglie/motti la definizione della strategia e della tattica appare non meno confusa che nell'antica enciclopedia ora ricordata [cioè neU'Enciclopedie méthodique francese - N.d.a.·1. L'una e l'altra sono denominate ora scienza ed ora arte; la strategia comprende anche quella che comunemente dicesi tattica e la tattica si può scambiare con l'ordinamento. 20

Dopo tutto il Cavaciocchi è un autore terrestre, non in grado di valutare gli aspetti marittimi del vocabolario. Ma trent'anni dopo le sue osservazioni, nella prefazione al Dizionario di Marina Medioevale e Moderno dell'Accademia d'Italia (1937) l'Accademico e linguista Prof. Giulio Bertoni ~ assai severo con il vocabolario, fino a rasentare la stroncatura: Alberto Guglie/motti diede gran parte della vita operosa al suo Vocabolario marino e militare compilato con tenacia e con passione. Vì sono, non v'ha dubbio, definizioni garbate, aderenti alle cose descritte, talora elaborate con intenti artistici. Tuttavia non difettano le mende. Dalle stesse definizioni trapela non di rado uno spirito polemico poco atto alla oggettività scientifica. Le informazioni storiche sono numerose, ma .1pesso inesatte; forme e significati non appaiono molte volte sufficientemente giustificati; non è fatta di solito distinzione tra termini antichi e moderni; le etimologie sono :.pesso fantastiche, e su di esse disgraziatamellte sono fondate qualche volta dejiniziuni inesutte. Esempi: battello (da battere), caribo (da garbo), or1,a (da forza), staffa (da stat pcs), Sud (dal ted. Sieden, bollire), ecc. Il lettore di questo nostro dizionario noterà da sé che il Guglie/motti ha inventato taluni significati (compiglio, liutaio, ecc.) e ha citato persino voci inesistenti (boncio, gazzurro, caletta, ecc.). All'entusiasmo e alla passione non si accompagnava in lui altrettanto discernimento critico. Molte definizioni hanno un valore più letterario e rettorico, che scientifico. E malauguratamente parecchie di esse sono passate in diversi vocabolari di uso comune.

19 20

Giuseppe Sticca, Op. cit., pp. 333, 350 e 368. Alberto Cavaciocchi, Della partizione teorica dell'arte militare (cit).


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Stringi stringi, il Bertoni riconosce al Guglielmotti solo tenacia e passione. Tra le critiche di qualche rilievo si può solo aggiungere quella del colonnello Lodovico Cisotti nella recensione della Terminologia geografica del Porro, dalla quale appare ben chiaro che l'ancoraggio esclusivo alle fonti classiche della Crusca è insufficiente. Nel 1889-1890 la Rivista Marittima, con assai discutibile scelta e per ragioni ignote, non usa va ancora recensire i libri di maggior interesse marittimo; manca perciò il giudizio più qualificato sul vocabolario. Per la verità, anche l'opera complessiva del Guglielmotti e i suoi alti meriti di storico e amico della marina non ricevono soverchia attenzione dalla rivista, che dopo la sua morte pubblica una commemorazione fin troppo sobria a cura del capitano di corvetta Ferdinando Salvati, nella quale non si va più in là di una breve lode ormai di pramrnatica.21 La recensione più lusinghiera e più ampia è quella del colonnello Temistocle Mariotti sulla Rivista Militare, 22 il quale inquadra la comparsa del dizionario nell'ambiente letterario militare dell'epoca, dove prevalgono tre aspetti non positivi: l'imbastardimento del linguaggio militare per opera specialmente del francese, la profonda separatezza della cultura dell'esercito da quella della marina (che "mantiene nell'Italia odierna un così deplorevole e pericoloso

stato di debolezza, che non rimediandovi in tempo, potrà essere fecondo di tremende sventure nazionali ") e infine il cattivo sistema educativo delle scuole militari, "che infarcisce Le menti della gioventù di una immane e indigeribile congerie di così detto tecnicismo". A parere del Mariotti il vocabolario contribuisce validamente a sanare questa situazione ed è "il più completo, il più ricco, il meglio ideato di quanti altri mai ne siano venuti alla Luce". Suo "pregio massimo" è di avere riunito le discipline sorelle della guerra terrestre e marittima, operazione che non è soltanto di un' evidente utilità tecnica, "ma a parer mio, che

sento la vergogna e il danno che gli ufficiali dell'esercito e dell'armata reciprocamente non si conoscono e non si guardino ignorando le rispettive discipline, è un'altra benemerenza nazionale ". E a questo punto il Mariotti, a parer nostro a torto, cita a mò di esempio la voce tattica, convinto com'è che in essa "il nostro autore corre innanzi a tutti i lessicografi che l'hanno preceduto ". Affermazione che non ci sentiamo di condividere; ma

21 Ferdinando Salvati, P.M. Alberto Gug lie /motti, in " Rivista Marittima'" dicembre 1893, pp. 553-557. 12 In "Rivista Miliiare Italiana" Anno XXX IV - Voi. U maggio 1889, pp. 3 19-329. I giudi:t.i e persino le citazioni del Mariotti sono ripresi anche da Ernesto Manaresi nelle Nozin11i di lelleratura militare compilate secondo i pm11rammi tlel Mi11istem della guerra, Milano, Hoepli I 906. pp. 97- 102.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. 111 (1870- 191S) TOMO I

anche ammesso che sia vera, l'esigenza del momento era un' altra: fornire una definizione di tattica che rispecchiasse i mu lamenti dell' arte della guerra, alla luce degli scritli dei principali autori e lessicografi del secolo XIX. Questo sfugge al Mariolli, forse perchè non è mai stato uno studioso di arte militare, ma si è dedicato ad altri settori dello scibile militare. Nella più breve recensione (anonima) che dedica al vocabolario la R ivista di Artiglieria e Genio si parla di alcune omissioni e di "qualche piccola menda" dovuta anche a parole tecniche tratta dal vocabolario del Fanfani, "profanissimo di tutto ciò che sente di scientifico"; per il resto, solo lodi palesemente non meritate_ Ad esempio il recensore attribuisce al vocabolario un pregio inesistente, là ove afferma che dopo i dizionari del Grassi e del Carbone i nuovi vocaboli erano cresciuti a dismisura a causa del progresso, quindi si sentiva la mancanza di " un nuovo vocabolario che potesse a ppagare gli studiosi". Tale vocabolario a suo avviso sarebbe proprio quello in esame, che come s i è visto ha diversi pregi ma non certamente quello di rispecchiare i mutamenti avvenuti nella seconda metà del secolo. Ci manca, purtroppo un'opinione dell' altro autorevole linguista marinaresco, il Randaccio. Tuttavia si può essere certi che certe sue considerazioni in un commento alla Storia della Marina Pontificia nel Medioevo dal 728 al 1499 del Guglielmotti, comparsa nel 1871 , sarebbero perlettamente calzanti anche per il vocaholario_ 23 Secondo il Randaccio il libro "onora l'Italia ed è grandemente utile alla storia e alla scienza nautica"; ma questo non gli impedisce di disapprovare giustamente il ricorso a parole e frasi italiane ormai non più in uso, e di non accettare taluni vocaboli che il Guglielmotti vorrebbe introdurre, aggiungendo: a proposito di qualcuna di queste voci, dissi in un altro mio scrittarello che il r1fame uso era un resuscitare i morti; ed ef?li risponde: "essere

sempre meglio richiamare in vita a pubblico servigio qualche benemerito veterano caduto nel mare, anzichè tenersi in casa i morti a marcire". S ta benissimo: ma io replico che a far risorgere i morti, ci voglion miracoli; o/tracciò alcuni di questi morti mai non fur vivi.

Rispetto alle giuste critiche del Randaccio, quelle del Bertoni non sono che una conferma.

'-' In "Rivista Marittima" novembre 1872, pp. 333-339.


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Cenni sul " Vocabolario militare italiano" dell'Urangia (1893) e sul Voi. 1 del "Lessico Militare Italiano" (1916) A pochi anni di distanza dall'uscita del vocabolario del Guglielmotti, Roberto Urangia (un nome non altrimenti noto) dà alla luce un suo Vocabolario militare italiano compilato sulla scorta dei migliori Autori di opere scientifiche militari e dei vocabolari Guglie/motti, Bosi, Grassi, Fanfani, Petrocchi, Melzi ecc., contenente notizie storiche, nozioni topografiche e tecnù:o-scientifiche. 24 A dispetto del titolo assai pretenzioso, si tratta di un volumetto di proporzioni del tutto modeste (solo 286 pagine di formalo ridotto) e non privo di lacune. Per la parte strettamente tecnico-militare e terrestre, tuttavia, risulta pur sempre più completo - e soprattutto più aderente all'attualità - del vocabolario del Guglielmolli. Ha dunque torto lo Sticca a non citarlo, mentre tributa elogi sproporzionati al lavoro del Bosi. Migliore di quella del Guglielrnotti, anche se a sua volta non è del tutto condivisibile, la definizione di arte o scienza militare/della guerra_ Per arte militare l 'Urangia intende piuttosto scienza militare, visto che si tratta del "complesso delle regole necessarie e risultanti dal1'esperienza, dalla pratica e dall 'ingegno per mantenere temuta erispettata una Nazione, e per impedire colle armi l'invasione e l'occupazione da parte del nemico". Più centrato il concetto di arte della guerra, dove si mette il giusto accento non sullo studio ma sul FARE: ''facoltà di preparare e far la guerra in tal modo che porga i mezzi di vincere non solamente le forze eguali nemiche, ma quelle altresì,, in apparenza superiori, e talvolta di gran lunga più numerose". Purtroppo quel che di buono c'è in questa definizione è guastato dal concetto di scienza della guerra, dove si trova parecchio del Guglielmotti. Come per quesl'ullimo, la scienza in generale è "cognizione ordinata delle cose per loro principì", il che è vero: ma la scienza della guerra "non è che l 'arte della guerra (sic) che giovandosi di ogni sorta di nuovi ritrovati, di miglioramenti e di perfezionamenti si è sollevata all'altezza, si è ingrandita delle proporzioni di una scienza vastissima e gravissima._.". Sempre come fa il Guglielmotti, pur descrivendo bene - diversamente da quest'ultimo - i diversi tipi di milizia del tempo (mobile, territoriale, comunale), l'Urangia attribuisce a tale termine anche un

,. Milano, A. Bocca 1893.


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11 . PENSIERO MII.ITARE E NAVALE ITALI ANO - VOL.111 ( 1870 1915) TOMO I

significato teorico già desueto ai suoi tempi, che ]o avvicina a arte/scienza militare senza che, viste le precedenti voci, di ciò ci sia alcun bisogno: "arte e scienza di mantenere colle armi i propri diritti, di condurre gli armati alla vittoria. Scienza che ha per fonda mento le matematiche, la meccanica, la politica, la strategia, I' architettura. Arte che applica siffatti principf alla tattica e alla pratica di guerra". Anche da questa definizione si può dedurre che l'Urangia considera come parte componenti dell'arte della guerra solo la strategia e ]a tattica, con la prima che è scienza e la seconda che è arte, proprio come per Jomini. La strategia è "scienza che insegna a tessere, connettere e dirigere tutte le operazioni militari; a .fissare i punti di partenza, d'appoggio e d'arrivo; a disegnare e dirigere l'insieme delle operazioni militari e combattimenti allo scopo della guerra". La tattica è "arte di ordinare le milizie, di disporle per Le operazioni tutte di guerra, e di farle operare sui campi di battaglia". Infine la logistica - che per l'Urangia non farebbe parte del]' arte della guerra - ha il so1ito significato jominiano attribuitale anche dal Guglielmotti: "arte calcolatrice [ma allora è piuttosto scienza - N.d.a.l di ordinare e condurre la masse al segno voluto, in determinato numero, tempo e luogo". L'ultima parte della definizione di strategia è clausewitziana e accettabile; non così la prima, dove in poche righe sono concentrati parecchi errori concettua1i. Qui noi osserviamo che la strategia non riguarda tutte le operazioni mi]itari, cioè anche quelle ci minori livelli, ma detta le grandi linee per condur]e; può fissare in dettaglio "i punti di partenza, d'appoggio e d 'arrivo ", ma so]o per le Grandi Unità al livello di armata/corpo d'armata; non è scienza compiuta e nella fase applicativa è soprattutto arte, dove pesa anzitutto i] coup d'oeil clausewitziano del Capo. La definizione di tattica è invece di massima accettabile, anche se si potrebbe osservare che l'ordinamento delle truppe compete piuttosto all'organica (voce mancante nel dizionario, nonostante la sua importanza anche e soprattutto a quei tempi). La definizione di armata [dell'esercito] è esatta, ma quel1a di corpo d'armata che ad essa segue è errata, perehè sarebbe " un complesso di più reggimenti sotto il comando di un tenente generale", anzichè l'insieme di due o tre divisioni (come viene detto, stranamente, in altra parte del dizionario, sotto la voce corpo del quale manca, peraltro, il fondamentale significato amministrativo). Errata - sempre come nel vocabolario del Guglielrnolli - la definizione di campo trince-


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rato, che non è un "accampamento difeso da trincee o fortificazioni campali, dove una armata tien fermo e difende la frontiera, il passo ecc.". Come già si è detto, il campo trincerato del tempo è caratterizzato da un insieme di forti staccati cooperanti, che difendono una vasta area ma non necessariamente impegnano un'intera armata e non necessariamente difendono la frontiera. Oltre alla fondamentale voce organica, ne mancano altre importanti come principi (della guerra o strategia), guerriglia, ordine rado I sparso I sottile I profondo, ecc ... Manca anche la nuova voce aeronautica dirigibile; in compenso si trovano sufficienti riferimenti ali' attualità e agli ordinamenti del momento, non esclusi i Servizi logistici (con l'esatta voce Intendente) e con qualche accenno alla storia. Sintetiche ma apprezzabili anche voci importanti come alpini, artiglieria, cavalleria, bersaglieri, Eritrea (con cenni sulla composizione delle truppe coloniali), esercito, fanteria, fucile, genio, accompagnate da parecchi termini relativi al diritto internazionale, alla disciplina e allo status del personale. Per la prima volta si trovano in un dizionario anche voci nuove come mitragliatrice e aerostato. La prima è così definita: "sorta di artiglieria composta da varie canne che possono tutte insieme o separatamente far fuoco rapido, e produrre maggiori effetti che non la mitraglia scagliata da un solo cannone. Si monta sopra carri ed affusti a ruote ". Grazie a questi caratteri il dizionario dell ' Urangia, pur risentando in modo non positivo dell'influsso del Guglielmotti, è apprezzabile soprattutto come utile strumento pratico per istruire i Quadri sul!' attualità militare, senza molti fronzoli ed eccessive pretese culturali, ma sempre con chiarezza. Per quanto ciò possa sembrare strano, è l'ultimo dizionario militare "terrestre" del secolo XX pubblicato (o almeno pubblicato per intero). In tale secolo, infatti, gli fa seguito solo il Lessico militare italiano pubblicato a puntate da Vallardi (Milano), del quale ha visto la luce nel 1916 solo il Voi. T (da A a D).Tra i principali collaboratori di tale lessico spiccano nomi come il magg iore Gritti (Amministrazione e diritto militare), il maggiore Guidetti (ingegneria militare), il capitano Zugaro (strategia e logistica), il colonnello Santangelo (organica militare), iJ tenente generale Carlo Porro (geografia militare). Da quel che si può constatare dal primo volume, si tratta di un ' opera di primissimo ordine con fisionomia più di enciclopedia che di dizionario, giustamente bilanciata tra storia e attualità: è dunque un vero peccato che sia rimasta incompiuta, forse a causa della guerra in corso.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVA LE rli\LJANO • VOL. lii ( 1870-191 5) • TOMO I

SEZIONE m - Il primo libro clausewitziano in Italia: "L'arte militare - libri sei" di Vincenzo Molinari (1871) Nel 1871 compare un libro finora mai studiato o citato, L'arte militare - libri sei di Vincenzo Molinari.25 Il sottotitolo rende gli argomenti trattati nei sei Jjbri: "filosofia della guerra - Istituzioni militari - tattica pura logistica - machetica - strategia". Un lavoro di notevole interesse, per diverse ragioni. E' tra i pochi del tempo a fornire, sia pure con riflessioni opinabili, una panoramica completa del problema militare del momento, non escluso quello marittimo. E' pieno di assennate considerazioni sulla guerra e sulla pace, sul ruolo della forza militare, sul rapporto tra politica e guerra, sul modo di fare la guerra, sui lirniti da porre aJla violenza bellica. E' il primo autore italiano a citare con frequenza Clausewitz, in diversi punti - anche se non sempre - riflettendone le teorie. Trattando della ripartizione teorica dell'arte militare sfugge più di tanti altri autori del tempo alle consuete banalità, anche se le sue affermazioni sono spesso criticabili. Per ultimo vanno ricordati i frequenti ed opportuni riferimenti ad exempla historica, insieme con le riflessioni spesso centrale sulle ultime guerre o su argomenti secondari.

il ruolo degli eserciti

Gli Stati si fondano con la forza militare, e con essa si mantengono. Gli studi militari sono perciò necessari non solo per gli ufficiali, ma anche per i cittadini, i cultori di storia e i politici. Segue la ricorrente lamentela che, diversamente dai principali Paesi europei, in Italia gli studi militari sono poco seguiti ... La potenza degli Stati si riflette certamente sugli eserciti ma dipende anche da diversi altri fattori: "ben disposto territorio, popolazione numerosa, governo forte, copiose ricchezze, coltura d'ingegno e virtuosi costumi". Gli eserciti "rilevano la loro.forza dalla società e ne sono l'immagine". Se l'esercito è vittorioso, la società deve compiacersi di sé stessa; se è sconfitto, deve sentire l'umiliazione come sua propria: 1:l 'Italiani avversano i loro generali che fecero sì male prova a Custoza e Lissa, ma, se bene considerassero, dovrebbero prima accusare sé medesimi. A che mi parlate sempre d'ignoranza, sconfitte e viltà? Il nostro

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Parma, Tip. Grazioli 1871.


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esercito è l 'immagine.di voi medesimi. Volete migliorarlo? principiate a migliorar voi stessi col rispetto alle buone istituzioni che avete, col sottoporvi alla disciplina dell'educazione primaria, coltivare i duri studi, cacciar i pregiudizi, rett(ficar le coscienze, e in ispecie col temperarvi alla forte, sobria e severa virtù.

li denaro specie oggi è il nervo della guerra, ma non è sufficiente: "gli eserciti devono avere bravura nell'armi, pazienza à comandi, abnegazione ne' pericoli, il che vuole educazione massima popolare, vanto della Germania sull'ignorante colono francese: voglionsi buoni studi e buone scuole. Infine un buon governo è grande elemento di possanza in uno Stato, perchè tutte le forze li disciplina ed ordina a un intento, sicchè l 'invasione non è possibile e non fa effetto... ". Dietro gli eserciti sta la forza dei popoli, che "ha una terribilità profonda " e con la quale devono fare i conti gli eserciti invasori. Gli eserciti napoleonici sono stati sterminati dal1' insurrezione delle popolazioni calabresi, spagnole, russe; la Repubblica francese ha sbagliato ricorrendo solo parzialmente alla mobilitazione popolare nel 1870-1871. Sui ril1essi dell'uso della forza annata il Molinari ha idee opposte a quelle del Marselli, pur lenendo conto anch'egli dell 'esperienza della guerra franco-prussiana. A suo parere non è la forza che fa il diritto, bensì il diritto che fa la forza. Le armi di per sé distruggono, abbattono e non edificano. il ricorso alle armi è lecito, solo quando si rende necessario distruggere gli ostacoli che si oppongono alla realizzazione del diritto e del bene. La forza armata, che è solo un mezzo, va subordinata al diritto, pena la confusione nel mondo: "errò dunque il Romagnosi e con lui il Rosmini quando chiamò il diritto un 'attività e una forza; 1...1. Se diritto e forza si confondessero, L... ] il trionfo della massima forza si risolverebbe nel trionfo del massimo diritto. Non è la teoria di Hobbes e di tutti i prepotenti?". Perciò "la forza materiale è morto peso senza la forza morale, perchè in questa risiede l'umana energia, ed è l'uomo che si batte. Per avere la forza vera, nel movimento delle truppe tu porrai sempre dalla tua parte il diritto: persuadere il soldato che la tua causa è tiusta e la guerra è necessaria".

La guerra: natura, cause, rapporti con la politica, aspetti umanitari

Per il Molinari la guerra è lecita solo in due casi: "quando un vero diritto è violato - ovvero è minacciato". L'utilità di una guerra è in genere,


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LL PtNSIBRO MILITARE E NAVALE ITALIANO • VOL. 1U (1870- L9 L5) TOMO I

più morale che materiale, anche perchè "oggidì le .guerre in Europa costano miliardi per gl'immensi eserciti che si tengono in campo e l'armi dotte che si maneggiano; una nazione s'esaurisce ben presto, se a lungo dura la campagna". I vantaggi d'una guerra possono essere: la conquista dell'indipendenza della patria entro i suoi confini naturali, la diminutio capitis di una potenza rivale e minacciosa, l'espansione delle proprie attività nel mondo con la conquista di porti e scali sicuri, un aumento dell'influenza sui popoli vicini o la conquista dell'egemonia. Prima di intraprendere una guerra l'autorità politica deve consigliarsi con quella militare per valutare bene le sue possibilità di riuscita. In guerra vince il più forte, ma la forza effettiva di un popolo belligerante è difficile da valutare. In generale, "oggidì essendo uguale in Europa l'educazione militare, nel deliberare dell'esito di un'impresa si guarda al numero degli eserciti, ed all'abbondanza de ' denari". Un tempo gli uomini valevano più dei denari; ora trattandosi di amzi dotte, senza denari e industrie non si può spingere una guerra ad oltranza. L'Italia in questa parte è debole; manca di capitali, manca d'industrie f econde. L 'Austria per esempio si dice a noi superiore, perchè la sua flotta, ancora che inferiore alla nostra, e L'armamento di lei è frutto de' suoi capitali ed industria, laddove la nostra fu costruita co 'capitali ed industria stranieri. Aggravati noi da ' debiti, senz 'altri cespiti di prodotto che l'agricoltura e il commercio, come potremmo affidarci di sostenere lunga e grossa guerra con industre e ricco nemico, che ci precludesse ogni comunicaz ione colla restante Europa? Non però dobbiamo scoraggiarci, ma conosciuti i mali provvedere ai rimedi.

Le cause della guerra sono: la negazione del principio di nazionalità e la conseguente mancanza dei confini naturali per gli Stati; la negazione della libertà dei popoli, perchè il potere personale è ancora eccessivo; la mancata armonia fra capitale e lavoro e la mancanza di buone istituzioni morali, perchè l'educazione pubblica e privata anzichè fare gli uomini buoni, li deprava. Sul rapporto tra politica e guerra il Molinari la pensa esattamente come Clausewitz, sottolineando che il politico non deve sostituirsi al generale, ma deve moderare la guerra rispetto solo al fine, per il resto limitandosi ad alimentarla e sostenerla. In ogni caso, la guerra tende a distruggere la forza armata nemica ed a occupare il territorio. Il nemico può essere distrutto con due diverse strategie, ugualmente valide a seconda delle cir-


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costanze: "o differendo la lotta e ritirandosi per consumare il nemico colle distanze, Le ree stagioni, la mancanza di vettovaglie, i paesi malvagi, le insurrezioni de' popoli, le malattie contagiose, in breve Le fatiche, la fame, il ferro popolare"; oppure ricercando la battaglia decisiva, alla quale ricorrono tutti i grandi capitani che hanno superiorità di forze. Solo le battaglie consentono di por termine alla guerra; dilazionarle conviene solo a chi è più debole. Per arrivare alla pace una sola battaglia non basta; nel suo stesso interesse il vincitore deve comportarsi con moderazione nei riguardi de] vinto, evitando di imporgli condizioni di pace troppo gravose. Deve avere solo l'obiettivo di "realizzare quel diritto per cui si sono impugnate le armi, ed a cui si aspirava, né più né meno" [e se lo scopo della guerra era di per sè già tale da conculcare il diritto del vinto? - N.d.a.]: con maggiori pretese, non farebbe che far coincidere il diritto con la forza, gettando il seme di altre guerre. Non ci può essere un diritto dj conquista, che porterebbe a includere nei confini dello Stato vincitore terre e popoli che appartengono ad altre nazioni_ Né il vincitore ha il diritto di punire il vinto, a meno che non abbia violato il diritto delle genti con delle atrocità. Chi vince ha però il diritto di premunirsi, chiedendo al vinto garanzie tali da non correre più pericolo dj essere assaltato e offeso; tuttavia anche in questo deve usare moderazione, per non tramutare le giuste garanzie in oppressione. Il pagamento delle spese di guerra può essere richiesto dal vincitore al vinto a due condizioni: la prima è che siano proporzionate alle effettive possibilità economiche del vinto, la seconda è che siano richieste quale indennizzo per danni effettivamente sofferti e non per opprimere l'avversario. Sotto il profilo umanitario bisogna distinguere l'intenzione ostile dal1'animo ostile. L'intenzione ostile è legittima e propria del guerriero, che scende in campo appunto per nuocere al nemico e distruggerlo; "non così l'animo ostile, ossia l'animosità, l'odio, la vendeua, la sete dell'umano sangue". Tutto ciò che è proditorio, vile, crudele va bandito dalJa guerra: ha torto perciò Montecuccoli, quando ha definito la guerra come "azione di eserciti offendentisi per ogni guisa, il cui fine è la vittoria". I temperamenti al furore guerriero possono essere ridotti a due: il rispetto per gli inermi e il rispetto del territorio. Gli eserciti devono rispettare la popolazione civile, se non per umanità almeno per convenienza, cioè per impedire "le insurrezioni, le rivolte a coltello, la guerra proditoria", che hanno sempre arrecato il massimo danno alle forze regolari: cercherai forse se i militari, quando la guerra si fa popolare, come avviene nelle invasioni, ove si tratta d 'indipendenza, abbiano a conside-


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IL PENSIERO MILITA RE E NAVALE ITALIANO- VOL. LII U70-1915 - TO .C..:"-"M.:..:0:_,l_ __

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rare buoni nemici o briganti i cittadini che coll'armi difendono il suolo natìo. l nostri capitani di truppe disciplinate Li vogliono briganti. Pur è certo che il soldato non è che il cittadino armato, e che ogni cittadino ha il diritto di difendere La propria indipendenza dall'invasione. E' giusto dunque che il cittadino ar,rwto sia considerato e trattato come buon soldato, ma vuolsi che abbia qualche segno, onde il nemico non abbia ragione di percuotere come avversari quanti incontra nel paese invaso, uomini, donne,fanciulli, vecchi, ed impedire che La guerra non si faccia in maniera proditoria e sleale, e godano il privilegio degli inermi quelli che fanno la guerra del brigante e dell'assassino.

Le rappresaglie sono lecite solo entro certi limiti, "ché la malvagità di un nemico non ti dà diritto di essere malvagio_ S 'ei svena bambini, Li svenerai tu!". Per ultimo le requisizioni, ancora in uso in Europa e applicate dai Prussiani metodicamente e su vasta scala in Francia nella guerra 1870-1871, "nel vero codice di ~uerra non sono tollerabili se non come necessità; ma converrebbe pagarle, perchè ogni duellante dovrebbe far da sé le spese del suo due/Lo_ Le requisizioni poi non devono mai avere la forma del! 'ingordigia del lupo predatore; ciò disonora La guerra" rqueste considerazioni sono un pò troppo utopiche; al Molinari sfugge che non solo dalla Rivoluzione Francese e Napoleone ma anche da Cesare e altri, la guerra è stata portata in territorio straniero anche per alimentarla con la guerra stessa, cioè con le risorse del Paese nemico - N.d.a.].

L'arte militare: ripartizione, leggi e principi della strategia, tattica e logistica Per il Molinari la guerra ammette "certe leggi dell'arte, che la violenza ne regolano e al suo fine l'ottemperano",- questo è richiesto sia dalle finalità della guerra stessa che dal bene dell' umanità. Infatti "le guerre fatte senz'arte sono lunghe e costano gran dispendio di vite umane, come si può vedere nelle guerre de' tempi di Napoleone 1, e anche oggidì nella guerra d'America, che fu sì lunga e con tanta mortalità, perchè da nessuna vera intelligenza venne regolata ". Invece nella recente guerra L8701871 i Prussiani hanno battuto in due mesi l'esercito francese; perciò "un grande generale non solo è gloria di sua Nazione, ma dell'umanità "_ Diversamente da Clausewitz, tuttavia, il Molina ri ritiene che "l'applicazione presuppone la teorica; senza buoni princip'i, ossia senza un'arte


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fissa, non vale ispirazione o genio di qualsiasi specie.· l'ignoranza rude e barbara non può competere col vero sapere", anche se la sola teoria non basta per il generale, che deve avere il colpo d'occhio e saper correre dei rischi. Ciononostante, sui principi ecc. Il Molinari si distacca da Clausewitz e si avvicina piuttosto a Jomini, con la solita affennazione che "Tutta la scienza militare si riduce a Principf, Leggi e Precetti. J Principf sono qualcosa di immutabile ed assoluto, non si possono ignorare dai generali senza biasimo, né si violano mai impunemente". Perciò - a suo avviso - Berenhorst [Considerations sur l'art de la guerre. 1797 - N.d.a.l ha avuto torto a negare la loro esistenza, nei primi tempi della Rivoluzione: li vide trionfare in campo contro la vecchia scienza di Federico Il, diremo meglio la vecchia tattica, un Moreau avvocato, un Hoche garwne di scuderia, un Saint-Cyr pittore, un Jourdan cerusico, un Augereau maestro di scherma, un Napoleone di non molta cultura_· dunque non è una scienza della guerra. disse. E non considerava che questi uomini n'erano i veri creatori, ed in tutte le arti vuolsi chi incominci senza aver imparato dagli altri. Di più si vedeva che l'azzardo (cioè la sorte -N.d.a.] può assai nelle battaglie moderne; una palla in un momento uccise 1ùrenna: la vista è tolta dal fumo e dalla con.fusione, dunque ogni arte è impossibile oggidì! Se non che egli non avvertì, che L'arte prepara la battaglia prima, e pone le condizioni a lui favorevoli innanzi di venire all'attacco, soccorre nell'attacco stesso, ed era errore porre tutta la perfezione nelle manovre di Federico [ma Jomini l'ha fatto - N.d.a.(, mezza assai erroneo dopo la tattica. Berenhorst negà i principf perchè non li conobbe. 26

Come Clausewitz il Molinari distingue tra principf e leggi: legge propriamente, sia meccanica, che dinamica o morale, è un modo costante d'opera.re, che s'impone come necessità alla mente come dovere alla coscienza. Ancora che le leggi si confondono co 'principf, pure sono altra cosa. I principf si possono apprendere e devono sapersi dai generali.- le leggi onde opera la forza al suo fine sono ancora arcane. Spesso tu fai bene, ma la formula della legge di tua operazione ignori. Così ci sono ignote molte Leggi con che la Provvidenza governa il mondo, molte leggi fisiche, artistiche (sic) ed economiche della so-

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ivi, p. 72.


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IL PENSTERO MII.ITARE E NAVALI; ITALIANO - VOL. W ( 1870-1915) • TOMO I

cietà ci sono ancor dubbie: e la scienza della guerra appena ieri deliberò questo difficile argomento.

Come avviene per tanti altri autori coevi, però, anche per il Molinari i principi si riducono a formulazioni estremamente generiche e tali da non vincolare affatto la condotta delle operazioni, specie a livello strategico: è un principio strategico Levare simultaneamente nella guerra il massimo numero d'uomini, portare sul terreno del con_fl,itto il massimo numero dei medesimi, dividere il nemico, ovvero girarlo, avvilupparlo, incalzarlo ad oltranza dopo La battaglia, ecc.. Principi tattici sono invece tenersi negli ordini sempre, attaccare in linea spiegala col fucile, in colonna colla baionetta, tener sempre una riserva, non porre La cavalleria avanti ma a fianco o dietro l'infanteria, munirsi di avamposti e vigilie, marciare in ordine di battaglia presso il nemico, non allargar troppo gli accantonamenti, fissare addietro, non avanti La linea difronte ecc..

Noi osserviamo: chi oserehbe sostenere i1 contrario? Ma se ci si limita solo a rispettare questi "princip'i", automaticamente non si arriva certo alla vittoria ... Per il Molinari anche le leggi che portano alla vittoria si riducono a una sola: quella del/'economia delle forze, che non significa risparmiare 1e fori;e, ma impiegarle nel modo migliore, ottenendone il massimo rendimento. Tale legge si divide in molte altre, tutte rientranti nell'ovvietà: a) legge del numero e della combinazione delle forze: "è chiaro che con numero maggiore di forze a pari circostanze si ottengono maggiori effetti. Inoltre la combinazione delle forze armate ne aumenta L'efficacia; e così Le forze [di diversa specie] vanno combinate fra sè, tatticamente e strategicamente"; b) Legge del miglior armamento: chi ha migliori armi vince lperò a parità di altre condizioni : questo il Molinari non lo dice - N.d.a.]; c) Legge della massima celerità d 'azione: muovendo con la massima celerità di forze se ne aumenta il rendimento; d) legge dell'eroismo: quanto più le truppe sono abili, addestrate, disciplinate, agguerrite e valorose, tanto più con lo stesso numero si ottengono dei risultati.

La conclusione - assai ovvia - è che il numero e la massa non sono il solo fattore di vittoria, e che "sono falsi i precetti che paralizzano le forze,


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vogliono il superfluo, inducono ad operare effetti pochi e fievoli"_ Anche in questo caso: chi oserebbe, ieri e oggi, sostenere il contrario? Ciò premesso, come Clausewitz il Molinari suddivide l'arte militare in sole due parti, strategia e tattica_· La prima (strategia, condotta degli eserciti) tratta del mondo di divisare Icioè gestire, condurre - N.d.a. I una stagione campale, e segna le Linee delle grandi operazioni della guerra; La seconda ammaestra i modi migliori e pratici (tattica, operazioni) per eseguirli. La scienza della guerra antica sino a Carnot e Napoleone era ridotta quasi tutta alla tattica; La strategia era Lasciata al genio individuale de' Capitani. Dopo le operazioni di Federico Il i primi lumi di strategia si riscontrano in Lloyd_· Biilow e il principe Carlo estesero la scienza, ma diedero troppa importanza alle linee geometriche, ché la guerra non dipende solo dalle linee ma dalla prevalenza delle masse che s'urtano. Napoleone I spiegò vero talento strategico, e trovò in )omini il suo interprete. Se non che Jomini tiene troppo della scuola sperimentale; ci dà i mezzi acconci alla vittoria, Li prova co'fatti storici, ma non ne porge le ragioni intrinseche_ IL perché del vero genio militare non si rileva dalla sua teorica_· trattarono la guerra con vero genio filosofico assai meglio i generali pru.uiani Clausewitz e Willisen, che ora danno forma a tutta la bellica scienza-21

L'accostamento di Clausewitz a Willisen senza lumeggiarne le opposte concezioni è indebito; inoltre Willisen non tratta la guerra meglio di Jomini. Criticabile anche la confusione tra strategia intesa come prassi e strategia intesa come teoria. Ciononostante, ]a definizione di strategia e tattica del Molinari è preferibile a tante altre; indovinata anche la critica a Biilow, al principe Carlo e Jomini_ Clausewitz ha trattato la guerra certamente meglio di Jomini: l'unica cosa che manca, è che il generale prussiano si riferisce non tanto a Jomini ma a Napoleone, del quale pertanto - diversamente da quanto afferma il Molinari - è il miglior interprete. Ciò premesso, le differenze tra strategia e tattica sono così definite: la strategia è il contrapposto della tattica. Tattica suona ordinazione, perciò ella si occupa delle ordinanze che deve prendere la truppa per

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ivi, pp. 70-7 1.


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marciare, combattere e riposarsi, e dei movimenti più acconci per prendere quell'ordinanze. Ordinanze e movimenti cadono sotto il concetto di manovre, che sono forme di schieramento e marce assieme_ Strategia invece suona condotta dell'esercito, per ciò si occupa del terreno su cui devono avviarsi le forze armate, delle combinazioni delle loro mosse e de' modi f?enerali per meglio farle guerreggiare e debellare il nemico. Perciò la correlazione che passa tra la tattica e la strategia e concilia i due opposti, è questa.- la strategia ordina le grandi operazioni di guerra per debellare il nemico, la tattica le eseguiscc 1... J_ In generale l'Of?f?etto della strategia è di dare i principi, perchè si possa divisare una stagione campale e condurla al fine che è debellare il nemico. 28

La strategia è strettamente connessa alla politica, alla morale, alla statistica e a "tutte le scienze positive e pratiche"_ Può avvalersi di mezzi diretti o indiretti. Per mezzi diretti si intendono le forze armate e, in genere, i mezzi militari; per mezzi indiretti tutto ciò che contribuisce a rafforzare le nostre forze e a indebolire il nemico, come il clima, le malattie, le insurrezioni ecc .. Raramente è possibile annientare il nemico coi soli mezzi indiretti: questo può avvenire solo "nelle selvagge contrade della Russia, negl'ermi deserti d'Africa, nei paesi lontani d'Asia, ove il clima è inimico per caldo o gelo, e dove non incontri tracce d 'umana coltura". Perciò nel caso più frequente il generale deve ricorrere a mezzi diretti o militari, avvalendosi tuttavia di mezzi indiretti per diminuire le forze nemiche in vista della battaglia; per questa ragione la strategia è "una scienza vasta, amplificata, difficilissima"_ Normalmente i fattori da considerare per un buon piano strategico sono: il teatro delle operazioni, le forze proprie e quelle nemiche, l'indole, il modo di ragionare, le necessità del generale nemico. Tre i requisiti principali che tale piano deve avere: l'unità (cioè il coordinamento delle operazioni delle varie forze in vista di un unico scopo), la semplicità, la praticità_· "un buon piano di guerra non deve avere nulla di aereo, di.fantastico, di utopico... "(cosa ancora una volta ovvia). Molto equilibrato e realistico il confronto tra offensiva e difensiva strategica. Per il Molinari i vantaggi dell'offensiva sono molteplici; ma non fino al punto da oscurarne gli svantaggi. A suo avviso, sostenendo la superiorità della difensiva sull'offensiva Clausewitz è stato influenzato probabilmente dalla vittoria dei russi su Napoleone nel 18 12; "se non che

"'ivi, p. 4 19.


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difficilmente potrannosi rinnovare in favore della difesa tante circostanze, quante furono quelle che concorsero in Russia ad abbattere Napoleone. Se Napoleone avea meno audacia e sostava a Smolensko, la tesi difensiva avrebbe perduto ogni suo prestigio". Diversamente dal passato, quando gli eserciti erano ridotti, oggi fin dall'inizio della guerra si porta in prima linea il massimo numero di armali, lasciando all'interno del Paese solo poche e deboli riserve strategiche; "l'indole adunque della guerra moderna è tale, che esaurisce di prima leva le popolazioni: ella ha dato così l'ultimo colpo alla forma difensiva anche per i popoli più agguerriti". D'altro canto l'offensiva ha il massimo dei vantaggi solo all'inizio della campagna: ma in seguito non è più così. Deve distruggere rapidamente il nemico all'inizio; se ciò non avviene, per l' invasore l'insuccesso equivale a una sconfitta. Oltre a perdere il vantaggio morale, non può più sfruttare la sorpresa; più avanza più le sue forze si assottigliano, mentre quelle del difensore aumentano. Ha contro di sè sempre più le popolazioni, le distanze, le privazioni ... Per ottenere la rapida debellatio del nemico chi conduce l'offensiva deve prevenirlo nella preparazione, nella mobilitazione e nella manovra delle forze. Non si tratta solo di vincere una battaglia, ma di occupare il Paese nemico. A tal fine occorre disporre di una sicura superiorità di forze, anche per proteggere i fianchi del dispositivo avanzante. L'avanzata deve mirare alla battaglia decisiva ed essere rapida e decisa, senza perdere tempo nell 'assedio di piazzeforti o nell'occupazione di città. La manovra può mirare alla rottura strategica, per separare un'aliquota di forze nemica dall'altra e poi batterle separatamente, oppure ali' aggiramento strategico. In generale, però, "senza forma girante è impossibile nelle campagne o_ffensive annientare il nemico dopo le grandi battaglie". Se un popolo è risoluto e valoroso, anche la difensiva strategica ha ottime carte da giocare; essa "possiede molti elementi di forza ancora latenti, perchè può allearsi massime ai grandi ostacoli de ' territori, ai fiumi profondi, alle inondazioni, alle fortificazioni, alle stagioni ma/vage, al disertamento del paese, alle insurrezioni de' popoli. I quali, chiamati alla lotta nella disperazione, possono dare denari, alimenti, eserciti, e propagar resistenze da far tremare i più audaci invasori nel colmo delle loro vittorie. Napoleone I fu vinto da queste combinazioni: l 'offensiva sotto di lui pareva onnipotente...". Se si dispone di buoni ostacoli ai quali appoggiarsi, è più conveniente coprire il paese dall'invasione e rintuzzare i primi colpi dell'avversario, per poi debellarlo in uno scontro in campo aperto. La ritirata all'interno del Paese per esaurire il nemico con le distanze, le privazioni, le cattive sta-


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gioni e gli ostacoli che logorano man mano l'offensiva è invece "sistema di disperazione" che non si adatta a tutti gli Stati, perchè "vuole territori ampi, profondi e mezw selvaggi, mortali all'invasore per gran caldo o gelo". Inoltre "vuole il disertamento del paese [cioè richiede di fare del territorio terra bruciata, distruggendo tutto - N.d.a.]; e bene, uno Stato civile potrà abbandonare all'incendio una città per salvarsi, ma chi abbandonerà allo sterminio un paese intero? Praticarono tale sistema i russi contro Napoleone, ma non saranno imitati". Qui però il Molinari, guardando al caso italiano, con dubbia coerenza precisa di non ritenere affatto convenknte abbassare le armi dopo le prime sconfitte nell'Italia settentrionale: una ritirata interna, tenace, profonda, può avere i suoi vantaggi massime per ottenere migliori patti dall'invasore, ed ancor stemzinarlo, se egli non è grosso assai. Quelli che in Italia vorrebbero finite le resistenze a Piacenza [come il Ricci - N.d.a.] non conoscono che la tenacità è La prima virtù d'un popolo, che l'offensiva più s'avanza più s 'indebolisce, e che la valle del Po non è ancor tutta l'Italia. Si può resistere più oltre, ma vuolsi che questa sacra terra, poichè bene si presta, si renda irta d'ostacoli tutta quanta, sicchè un invasore non possa inoltrarsi, se non a rilento e con grandi perdite! Quindi devesi attendere la risoluzione delle forze di lui dall'insurrezione popolare, dalle inondazioni, cagioni di laide febbri in Lombardia e nel Veneto, e dai soli estenuanti !cioè dai raggi del sole - N.d.a.] e malattie sulla Linea del Tevere, dove per fermo i settentrionali morranno di dissenteria e tifo ne' mesi del caldo.

Ricetta palesemente ottimistica ed esagerata; certamente più realistica la conclusione del Molinari a proposito della convenienza generale di adottare una strategia offensiva o difensiva: La questione non è astratta ma pratica, sempre va risoluta co' dati effettivi e pratici. L'indole dello Stato che piglia la guerra, il genio del capitano, la forza del nemico e i suoi intendimenti e disposizioni, la ragione politica e morale, Le condizioni topografiche e simili accidenti entrano in mezzo a decidere, se tu nel divisare un sistema campale debba attenerti ali'attacco o alla difesa. 29

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ivi, pp. 452-453 .


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Anche l'analisi della concreta problematica tattica evita i frequenti errori e le affermazioni aprioristiche di parecchi autori coevi. A compimento delle precedenti considerazioni, .il Molinari definisce la tattica "arte che dà le regole, perchè le truppe compiano nel miglior modo possibile i disegni della strategia ad ottenere il più vantaggioso combattimento". Questa definizione, migliore della precedente perchè lumeggia lo scopo ultimo della tattica, è anche migliore di tante altre del periodo, anche perché è l'opposto di quella del Guglielmotti. Lo sarebbe ancor di più se non parlasse contradditoriamente di un'arte che fornisce delle regole, mentre tutto ciò che è artistico non fabbrica regole ma al massimo le applica, quando non le ignora .. Molti autori, coevi e non, sostengono che tra tattica e strategia non vi può essere un confine netto: ma per il Molinari, che ha definito la tattica come l'opposto della strategia, tra le due branche non esiste alcun punto di contatto. Polemizza perciò con il De Cristoforis e il Colletta, che a suo dire confondono i due termini: che cosa avete imparato per la pratica con queste distinzioni, esclama il Capitano De Cristoforis? V'ho imparato, rispondo, Le due competenze dello strategista e del tattico [ ... ]; e in i.\pecie v'ho schivato le vostre confusioni. Per voi (idea che l'avete presa da ]omini, che l'ha presa da Biilow), la strategia conduce la massa al combattimento, la tattica conduce la massa al punto decisivo del combattimento. Con ciò si confonde strategia e tattica. Certo, per condurre la massa al combattimento ci vuole un disegno d'operazioni e marce d'esecuzione, [ma] è dell'uno o dell'altro che voi parlate?

Il Molinari critica anche Jomini, che chiamando strategia le marce lontano dal nemico e tattica quelle a lui vicine fa la medesima confusione. Ugualmente confusionaria è la definizione del Colletta, secondo il quale "la strategia insegna a muovere l'esercito lontano dalle offese e dal guardo del nemico per giungere a un certo punto determinato dalle ragioni di guerra e debellare senza contrasto schiere, fortezze, città, conservare le proprie basi e linee, occupare le linee e basi dell'oste contrario". Il Molinari ha buon gioco nel replicare che possono essere strategiche anche le operazioni fatte sotto lo sguardo del nemico, che non è quasi mai possibile debellare il nemico "senza contrasto", e che non necessariamente la strategia intende colpire ]e basi e linee di operazione del nemico; può cercare anche quella che Willisen chiama rottura strategica..


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Oltre tutto, per il Molinari mentre la tattica dipende principalmente dalle caratteristiche delle armi (noi aggiungeremmo anche dallo spirito, dal1'indole del soldato e del popolo da cui proviene), "la strategia è sempre la stessa, perchè ella non guarda che le masse combattenti e il terreno". E' in funzione delle armi che si adottano le formazioni di combattimento, le quali hanno appunto lo scopo di sfruttare nel modo migliore le prestazioni delle nostre armi, rendendo il meno possibile efficaci quello del nemico. Poichè le armi principali sono due, il fucile e l'arma bianca, sono due anche le formazioni di combattimento di base, cioè l'ordine sollile o lineare o spiegato (adatto per il fuoco) e l'ordine profondo (adatto per gli attacchi alla baionetta). A questi due ordini bisogna aggiungerne un terzo, l'ordine sparso, modo naturale di combattere che ''fu trovato terribile, micidialissimo né calabresi, tirolesi, spagnoli e vandeani. Si suppone però una libera individualità, molta indipendenza d'animo ed energia". Nessuna preferenza nell'impiego dell'uno o dell'altro dei vari ordini; dipende dalle circostanze. In ogni caso, la fanteria di linea deve imparare anche a combattere in ordine sparso, mentre i bersaglieri devono a loro volta essere in grado, all'occorrenza, di schierarsi in ordine profondo o in colonna (acquisizioni, queste, che hanno molto tardato a farsi strada). Le evoluzioni o manovre da compiere sul campo di battaglia devono essere poche, semplici e rapide. Le attività addestrative da compiere in tempo di pace devono dare un'immagine reale della battaglia, quindi bisogna insegnare al soldato solo i movimenti di marcia, il maneggio dell 'arma e le formazioni da adottare: le manovre, solo belle in parata, sono non che inutili perniciose, perchè in battaglia con/ondono la mente del soldato, e lui precipitano in fuga vera. Ché ognuno fugge, quando si crede in disordine [ ... ] sì bene si avvezzi il soldato a passare dall'ordine al disordine e viceversa, e ad operare con la massima celerità. E' cosa ridicola che il soldato non sappia offendere e difendersi disperso, e quando disperso sia, non sappia raccogliersi, massime à nostri tempi in che lo spargf!rsi sotto il fuoco è sì facile e talor sì utile. La celerità nella tattica è necessaria quanto nella strategia...

Il Molinari non privilegia né il fuoco né la baionetta, ma assegna a ciascuna modalità di offesa un proprio ruolo. Il fuoco - e specie il fuoco d'artiglieria - serve a disordinare il nemico e a indebolirlo, mentre; "la baionella è l'arma della decisione, e la colonna compie il secondo


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periodo della battaglia, che è la repulsione del nemico". Le colonne devono essere piccole e numerose; il loro lato vulnerabile è il fianco, che va protetto con plotoni di bersaglieri. Ciò non toglie che "coll'armi moderne la difesa tattica è di gran lunga superiore all'offesa", quindi la colonna può attaccare il nemico disposto in linea solo dopo che è stato indebolito a sufficienza, specie con l' artiglieria. Diversamente da quelle sulla strategia e sulla tattica, le considerazioni sulla logistica sono di scarso interesse e originalità, perchè rispecchiano abbastanza fedelmente quelle del Jornini e del Marselli. Come Jornini la definisce di competenza dello Stato Maggiore; però a suo avviso (come per altri) Jomini sbaglia facendola derivare da "Marechal des Logis", ufficiale preposto al movimento dell ' esercito e agli alloggi: " Logistica come tattica, machetica, strategia viene dal greco, e vuol dire calcolo aritmetico, perchè le marce vanno regolate con perfetto calcolo rispetto alle forze, alle mosse, alla lunghezza del cammino: la castramentazione è pure tutta a calcoli o proporzioni commisurata ". Nella parte dedicata alla logistica tratta anche della mobilitazione dell'esercito, chiamandola con l'originaria denominazione di mobilizzazione (che significa rendere mobile con tutti i relativi mezzi di trasporto - e quindi impiegabile in operazioni di guerra - l'esercito, che tali mezzi per economia non possiede in tempo di pace): ecco dunque la ragione della trattazione di tale argomento sotto la voce logistica. Oltre a mettere in risalto l'importanza militare delle ferrovie (non è il solo, già al suo tempo), il Molinari sostiene tra i primi la necessità che anche l'Italia adotti il reclutamento e la mobilitazione regionali, dividendo il territorio nazionale in 12 regioni che dovrebbero fornire altrettanti corpi d'armata di due o tre divisioni ciascuno, con possibilità di aggiungerne altri 12 in caso di mobilitazione totale. Polemizza, perciò, con coloro che sostengono un sistema regionale per così dire corretto, nel quale le unità mobilitate provenienti dalla Calabria, Sicilia e Sardegna farebbero parte dei corpi d'armata del Nord. A suo avviso, in tal modo si getterebbero "i semi di perpetua diffidenza ed odi nella nazione e nell'esercito ", perché si dimostrerebbe diffidenza preconcetta verso gli abitanti di una parte notevole de1Io Stato.

L'incerta fisionomia della "machetica" Il Molinari è l'unico autore italiano a dedicare un capitolo intero al-


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la machetica, vocabolo a suo dire introdotto dal Brandt. 30 Il significato che le attribuisce è analogo, troppo analogo, a quello che, anche ai suoi tempi, viene spesso considerato come tipico della tattica: la parte che tratta della battaglia dicesi machetica, voce greca che suona combattimento, ed è l 'ultima conclusione di tutta la scienza militare, la risoluzione di tutti i movimenti strategici, tattici, Logistici, l'assoluzione o La condanna della bravura o dappocaggine degli strategici[ ... ]. E' quella parte dell 'arte della guerra che insegna a presentare al nemico una battaglia e a combatterla con successo. Ella governa quindi Le mosse e La combinazione delle colonne sul terreno tattico del combattimento; dispone e ordine Le varie armi [ ... ]; determina il punto risolutivo della giornata, vi concentra le forze; f ... I cerca di trarre il massimo dalla vittoria, come di menomare più che possa i mali della sconfitta_ Di che si vede. che La machetica è una mistura di tattica e di strategia, e Lo diventa tanto oggidì, che agitandosi in campo le grandi masse, la battaglia porta il conflitto di disparati corpi in ben lontane posizioni, ma pure amareggiali o combattenti in intendimento strategico unico. 3 1

Dimenticando che egli stesso in altra parte del testo scrive qualcosa di analogo, i] Molinari critica l'affermazione di Jomini che ]a strategia conduce le masse a] combattimento, lasciando quest'ultimo al dominio della tattica; a suo giudizio questo concetto era valido solo per gli eserciti numericamente ridotti del passato, ma non ]o è più con ]e masse armate del momento, perchè bisogna coordinare i] combattimento di vari corpi d'armata in punti strategici diversi, quindi si rende necessaria un' impostazione strategica unitaria. Ciò premesso, La disposizione machetica è la collocazione de' vari corpi sul terreno, in che devono farsi gli armeggiamenti e le operazioni della battaglia. Ella divide L'armata in tre parti, due ali ed un centro. La disposizione tattica spiega e ordina i corpi stessi sul terreno Loro assegnato,

30 Heinrich Brandt (1789- 1868), generale e scrittore militare tedesco autore, tra l'altro, di un Manuale delta grande strategia e della Tattica delle tre Armi (Cfr. Enciclopedia Militare, 2°, 419)_ Questo autore è ignorato da Jcan-Jacques Langcndorf nella voce Allemands et Prussiens (Théoricier1s) del nictionnaire de Stratégie di Th. Dc Montbrial - J. Klcin (Paris, PUF 2000, pp. 8- 13). 31 Molinari, Op. r.it. , PP- 322-324.


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acciò possano Le varie armi mostrare meglio La Loro virtù, e sostenersi; ella ordina Le forze su due linee e una riserva dietro. 32

Differenza precaria, perchè il combattimento e/o la battaglia sono una serie di azioni coordinate che non possono essere rigidamente, anzi artificiosamente suddivise nel tempo e nello spazio tra due diverse branche, e hanno tutte uno scopo comune. Tanto più che il Molinari precisa che i principi' della strategia, della tattica e della machetica sono gli stessi, mentre in precedenza, come si è visto, aveva affermato che compete alla tattica compiere i disegni della strategia per mezzo delle tre operazioni fondamentali (marciare, stazionare, combattere). Quest'ultime non possono non riguardare anche la cosiddetta machetica: a questo punto, come si fa a distinguere se una manovra rientra nella machetica o nella tattica? Queste malferme idee hanno delle analogie con gli attuali sostenitori (2005) dell'arte operativa, che sarebbe anch'essa intermedia tra strategia e tattica, mentre invece - al massimo - è una riscoperta della logistica nel concetto jominiano. Riscoperta perniciosa perchè crea equivoci, portando i I lettore poco colto a ritenere che la strategia non sia affatto "operativa", mentre la tattica sarebbe una sorta di sottoprodotto dell' arte operativa stessa, anzichè riassumere tutto ciò che riguarda il combattimento e/o la battaglia (anche in questo caso le distinzioni sono incerte).

Guerra di montagna, guerriglia e contro guerriglia Il Molinari ha anche il merito di dedicare un capitolo ciascuno a due problemi poco trattati dagli autori coevi: Ja guerra di montagna e la guerriglia e controguerriglia. Richiamandosi a Clausewilz, sulla guerra di montagna sostiene tesi nel complesso originali, la cui validità è stata dimostrala nel 1917 dallo sfondamento di Caporetto: - "chi è padrone delle valli è padrone delle montagne, non viceversa, trattandosi di strategia e non di tattica; invero che giova tenersi in su alti massi di terra, coperti di boschi o di nevi, se Là non sono né strade, né vettovaglie? Le valli sono dunque la chiave strategica delle montagne, ed è padrone delle valli chi è padrone de ' grossi borghi e città che sono in quelle";

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ivi, p. 378.


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- il terreno montano si presta più all'offensiva che alla difensiva_ Le grandi valli non sono intercomunicanti , quindi o la difesa disperde in tutte le valli le sue forze (lasciando così a chi conduce l'offensiva la possibilità di fare massa su una sola via di facilitazione), oppure le concentra in una sola valle, lasciando aperte all'invasione le rimanenti_ In ogni caso la celerità è il gran segreto della guerra di montagna, sia difensiva che offensiva; - la montagna non è adatta alla "grande guerra", a causa della mancanza di strade e vettovaglie e dell'impossibilità di dare unità d 'azione ai movimenti delle colonne; si presta invece alla guerra partigiana. I reparti che conducono la guerra partigiana non devono essere molto numerosi (50-150 uomini), per trovare meglio di che vivere, essere meno individuabili e spostarsi più facilmente. Devono attaccare di preferenza i convogli e le comunicazioni dell'esercito nemico, riunirsi per l'azione e poi disperdersi rapidamente, per tornare a riunirsi per una nuova azione. E' "una guerra orrenda tutta in favor della difesa", della quale in Europa prima della Rivoluzione Francese si avevano ben pochi esempi. Nelle invasioni, perciò, bisognerà sempre "tener conto dell'elemento rivoluzionario, che può o improvvisare armate, o preparare orrenda lotta di barricate e bande partigiane". L' insurrezione nazionale scoppia solo per la difesa del proprio territorio contro l'invasore, o alleandosi con l'esercito regolare e appoggiandolo nelle sue operazioni, o fronteggiando da sola l'esercito invasore. Perché essa scoppi e abbia probabilità di successo occorre che: a) l'esercito invasore si sia già inoltrato nel territorio e abbia provocato l'ostilità delle popolazioni con spoliazioni, requisizioni forzate e atti di crudeltà; b) il territorio si presti alla guerriglia e sia montagnoso, boscoso, con poche strade; c) la popolazione "non sia avvilita da lungo servaggio, e non abbia a vedere nel conquistatore un amico" [riferimento all'Italia? - N.d.a. I. La strategia delle forze insurrezionali deve essere basata sui seguenti criteri: a) evitare attacchi frontali e operare sui fianchi e sul tergo del nemico; b) non operare a massa ma con unità indipendenti e di ridotta consistenza; c) evitare le battaglie e i combattimenti in campo aperto; "i suoi combattimenti sono agguati e sorprese, piccole ma incessanti e continue"; d) operare in maniera indipendente dagli eserciti regolari_ Sbaglia chi pretende di organizzare l'insurrezione costituendo con gli insorti battaglioni di riserva e guardie mobili: "ciò è buono, ma se altro non è, tu non avrai vera insurrezione, la cui natura è d 'essere spontanea, violenta, fuori legge, universale. Ogni disciplina impedisce lo scoppio della sua selvaggia e disprezzata ener,?ia".


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Per combatlere l'insurrezione occorre dapprima vincere gli insorti, poi disarmarli e infine pacificare il Paese. Per aver ragione degli insorti bisogna tenere le forze riunite evitando di essere battuti in combattimenti tra forze di ridotta entità, e quando sono disponibili, ripararsi in fortezze che gli insorti non sono in grado di conquistare_ Se gli insorti operano in appoggio a forze regolari, conviene per prima cosa battere quest'ultime: "se gli spagnoli non avessero visto gl'eserciti inglesi nell'lberia non avrebbero operato con tanta tenacità nella piccola guerra"_ In ogni caso occorre dividere le forze degli insorti e costringerle a concentrarsi per affrontare combattimenti in campo aperto, dove grazie anche alle artiglierie sarebbero facilmente battute: "divisione strategica e concentrazione tattica, ecco le due prime operazioni d'una campagna diretta a debellare l'insurrezione armata d 'un popolo" _Per dividere le forze degli insorti occorre dividere il territorio delle varie bande controllando i passi e le vie di comunicazione e al tempo stesso dividere i Capi dai gregari, gettando su di loro il sospetto di coJlaborazionismo e seminando discordie. Dopo aver divise le forze e i Capi, si deve costringere gli insorti ad accettare combattimenti in campo aperto; "ciò sifa dividendo l'esercito in tante colonne strategiche che operino prima alla larga, ma più e più si restringano in una direzione concentrica, sicché tu possa addossare i sollevati o a monti impervi, o a un gran fiume, o alla riva del mare". Specie in terreno montuoso e desertico e contro Capi abili, è difficile costringere gli insorti a combattere in campo aperto: allora l' unica cosa da fare è "ordinare un servizio di partigiani liberi e sciolti", che stendano una cornice di sicurezza intorno al nostro dispositivo impedendo ai guerriglieri di penetrarvi, e organizzare una rete di spionaggio tutto intorno. Per il disarmo della popolazione, particolarmente difficile nelle campagne, il Molinari cita il poco nolo ma vecchio esempio del generale Hoche nella repressione della controrivoluzione in Vandea, che ha anzitutto separato questa regione della Francia con una catena di posti fissi e poi ha stretto gradualmente il cerchio occupando i paesi e disarmandone gli abitanti; dopo di che se alcuna terra si f asse sollevata la pena era di sterminio inesorabile. Per costringere i contadini a dare Le armi si pigliavano in ostaggio i primi del paese, e si requisivano bestiame e granaglie_ Non si restituivano se non a chi cedea le armi, e perché i montanari non dessero ferri vecchi e smussati ritenendo Le armi buone, si prendevano i registri delle parrocchie, e si esigevano tanti moschetti quanti erano gli arruolati; in mancanza di registri, quant'era il quarto dei maschL Al Vandeano mi-


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sero più stavano a cuore la sua vaccherella e le sue granaglie che la causa dei barboni, e così cedeva Le armi 33

La successiva pacificazione è cosa lunga e richiede arti più politiche che militari. Specie dove la repressione è stata particolarmente dura (e qui il Molinari probabilmente si riferisce anche alla lotta al brigantaggio nel Meridione, appena terminata), La pacificazione sarà lenta massime ove l'irritazione e la vendetta pigliano la forma di brigantaggio, specie di latrocinio esercitato da scellerati uomini sotto qualche colore politico, ove subbollono umori di parti, e rancori di vinti. Conviene venire in soccorso ai mali delle misere popolazioni, dare pane e lavoro agli scioperati, sementi a' lavoratori campagnoli, panni all'ignudi; vuolsi clemenza pei buoni, ri~petto ai costumi, massime al pudore e agli altari, premi ai benevoli, giustizia nelle leve, protezione della proprietà. La forza sia schermo de' deboli e dei pacifici, non mai anna di soverchieria e di arbitrio. I briganti si estirpano con vigile spionaggio, repressione di manutengoli, bande di partigiani, concorso de' terrazzani, premi ai virtuosi che si prestano a estirpare la mala zizzania. Chi vuole pace proponga ai Governi pacifici uomini, giusti e severi/. .. ]; principino quindi le riforme da sé[... ]. Ma che meraviglia che insorgano briganti, se voi come tale trattate qualunque campagnuolo che a un 'erta vi si presenti, e contrastate con vili accuse i brutti oltraggi?

Queste considerazioni del Molinari danno quel carattere di dignità strategica alle insurrezioni popolari che era stato loro negato da Jomini, con un passo avanti anche rispetto a Clausewitz. Del tutto nuovo l'esame dei metodi per il disarmo e la pacificazione, dal quale traspare un'implicita critica ai nostri sistemi di lotta al brigantaggio nel Meridione, da combattere soprattutto nel campo politico - sociale ed economico (su questo punto, v'è concordanza con il Bianco - vds Voi. Il cap. III).

Le Istituzioni militari: definizione, vantaggi della "nazione armata" e importanza dei Servizi logistici

Il Molinari è tra i pochi a dare una precisa definizione delle Istituzioni militari, che "sono quelle leggi od ordini che danno gli eserciti, " ivi, pp. 491-492.


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[cioè formano - N.d.a.] con cui si combatte, li reintegrano e rinnovellano se vinti, li ordinano ed armano nella miglior forma, e loro assicurano buono Stato Maggiore e ottimi soldati. Per ciò fu detto che organizzano la vittoria". Il loro compito più importante è di fornire eserciti numerosi; in secondo luogo, devono renderli virtuosi e fortL L'esercito deve essere di cittadini, perciò di leva: l'esperienza storica ha già dimostrato la non convenienza di arruolare volontari, mercenari o qualche classe privilegiata di cittadini. In ogni caso, non bisogna mai mescolare truppe volontarie e/o corpi privilegiati a truppe di leva: così facendo non si rispetterebbe il principio dell' "uguaglianza di onori, comandi e stipendi secondo il merito". Anche l'Inghilterra del tempo "medita di abolire il privilegio ne' suoi eserciti, e cassare al tutto l'abuso di lasciar comperare ai ricchi gli uffici, stipendi e onori de' Comandi militari". Anziché fortificare Londra, l'Inghilterra farebbe meglio a formare un esercito di cittadini; "perrocché a che giova munire una capitale se, stretta d'assedio, non hai dietro in riserva le le,:ioni che possono accorrere in suo aiuto a liberarla?" Il Molinari spinge la sua preferenza per il reclutamento di leva fino a suggerire il classico modello di Nazione Armata. Obbligo militare per tutti i cittadini dai 18 ai 50 anni; loro suddivisione in tre classi (di tirocinio, di professione, di riserva); istruzione militare nelle scuole; Lirocinio di caserma di soli sei mesi. Dopo tale tirocinio, passaggio alla "professione militare", che consiste nel rimanere a disposizione per la chiamata in caso di guerra fino ai 35 anni, esercitandosi per un mese all'anno in tempo di pace. La riserva, che interessa i cittadini dai 35 ai 50 anni, coincide con la leva in massa, alla quale si ricorre solo in caso di gravi pericoli o di calamità per la patria. Il Molinari precisa però che il model1o di reclutamento da lui suggerito non è adatto per tutti i popoli, e specie per coloro Lallude agli italiani? - N.d.a.], "che hanno abitudini schiavesche, ossia non si curano punto del ben pubblico né dell'onor nazionale, od hanno abitudini sedentarie". Segue un'esortazione di stampo garibaldino agli italiani a scegliere tra essere schiavi o fare il soldato, introducendo la ginnastica, il tiro, gli esercizi guerreschi nell'educazione della gioventù ecc.. Le sue assennate considerazioni sulla disciplina, sullo spirito militare e sulJo spirito nazionale si compendiano nell'affermazione che "per aver soldati temprati a forma eroica conviene alla virtù militare, nata dalla disciplina, congiungere quel furore che viene dallo spirito nazionale". Rara avis, dedica un lungo capitolo anche all' "Amministrazione dell'esercito legge della conservazione e della mobilità", in una parola: all'odierna logistica. Molto moderno il concetto che


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il soldato non appartiene solo all'esercito, appartiene prima alla Nazione_· egli non è solo un valore pel comandante, la cui perdita lo distrugge senz'essere vinto, ma è un valore per la Nazione che è interessata più d'ogni altro, perché non perisca un suo libero, operoso e virtuoso cittadino_ Conviene quindi, che dietro l'amministrazione militare siano sempre vigilanti Commissioni cittadine intese a riconoscere com'è trattato il milite alla caserma, al campo, all'ospedale, nelle marce, sul terreno della strage, e provvederlo d'ogni specie di conforti somministrati dalla carità cittadina. 34

Molto pertinente anche il concetto che la logistica deve conciliare nel modo migliore due esigenze antitetiche: la conservazione dell'esercito, che richiederebbe gran copia di carriaggi, materiali e ambulanze, al seguito, e la sua mobilità, che al contrario imporrebbe di ridurre al minimo le impedimenta. Per l'alimentazione degli eserciti in guerra propone un sistema misto: sia requisizioni che magazzini costituiti sulla linea di operazione delle truppe. La requisizione diretta, fatta con mezzi violenti e senza pagare, non deve essere praticata su larga scala, perché provoca l'osti1ità della popolazione civile e assomiglia a un ladroneccio: meglio coinvolgere con le buone o con le cattive le autorità locali. Il vitto del soldato deve essere sufficiente, ma non sovrabbondante come è avvenuto per i soldati unionisti nella guerra di secessione americana_ Durante le operazioni di guerra basta carne arrostita e pane; in altre circostanze "il vitto del soldato dev'essere quello di un operaio cittadino.- minestra, carne, pane, legumi; La varietà è salutare; vino o birra è pur almeno ad intervalli necessario". Altre considerazioni assai apprezzabili riguardano i requisiti igienici di una buona caserma e di un buon ospedale e l'organizzazione della sanità militare, nell'intesa che l'alloggio sano, il buon vitto e l'igiene devono essere la prima cura dell'Amministrazione, del generale e del corpo medico militare. I moderni igienisti considerano i nostri ospedali civili come ''focolai d'infezione, templi elevati alle febbri e alla morte". In tempo di guerra, perciò, meglio che in fabbriche murate giova elevar ospedali in luoghi aperti, un po' funge dall'abitato, con baracche, e formarne tanti padiglioni, che comunichino tra loro con gallerie. L'aria vi si respiri libera[. .. ].

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ivi, p. 133.


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Tubi di ferro gireranno intorno in doppio ordine, gli uni per l'acqua calda e gli altri per L'acqua fredda; righe di ferro saranno in mezza a' corridoi per agevolare il trasporto degli ammalati; il regime /alimentare] sarà sostanzioso e variato secondo il bisogno. Un orto sarà costruito vicino all'Ospedale, così avrai i legumi freschi tanto necessari ai malati, e un'onesta occupazione ai convalescenti, cui la noia e L'ozio sono spesso più fatali delle malattie.

11 personale di sanità militare deve essere in numero sufficiente; dieci medici per divisione sono pochi, tant'è vero che nel 1859 a Solferino i feriti francesi sono stati cinque giorni sul campo di battaglia senza poter essere soccorsi. In ogni caso, i1 personale militare deve essere coadiuvato da "un corpo di cittadini liberi". Grazie a una Commissione civile presieduta da Miss Nighlingalc, le perdite inglesi per ferite o malattia nella guerra di Crimea sono state nove volte inferiori a quelle francesi. Meglio ancora hanno fatto gli americani, che vorrebbero dare se' esempio alla vecchia e sperimentata Europa; ma nella guerra per poco fanno ridere. Né la loro organizzazione militare, né i Loro cannoni mostruosi, né i Loro armeggiamenti vanno presi sul serio: in una cosa sola vanno imitati, nel soccorso che la Nazione intera prestò a ' suoi figli militanti.

Da ricordare, in merito alle proposte del Nostro, che subito dopo l'inizio della guerra di secessione, gli unionisti hanno formato una Commissione civile che si è presa cura de ll ' igiene, del benessere, del vitto del soldato, degli alloggiamenti e della cura dei feriti e ammalati. Questo modello organizzativo è stato imitalo con grande vantaggio dalla Prussia nella successiva guerra 1870 - 1871.

La difesa dello Stato e il ruolo pre:minente della marina Le soluzioni che il Molinari propone per la Difesa dello Stato sono troppo ambiziose, anche se - cosa che non tutti fanno - considera in un quadro unitario sia la difesa terrestre che quella marittima. Come tanti altri, non tiene affatto conto delle limitazioni di bilancio e delle effettive possibilità strategiche, quando suggerisce ciò che l' Italia dovrebbe fare per rendere sicuri i suoi confini terrestri e marittimi . A suo avviso la difesa marittima deve avere la priorità rispetto a quella terrestre: "ciò si ri-


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leva facilmente dalla condizione geografica d'Italia, dall'indole della difesa in generale, e dalle Nazioni o Stati che possiamo avere a combattere per la nostra indipendenza"_ Per la sua sicurezza l'Italia deve avere il possesso della Corsica, della Sardegna e della Dalmazia, "che è italiana per necessità militare, interessi, tradizione storica, popolazione colta"_ L'Adriatico deve diventare un mare italiano; per giunta l' Italia "non ha interesse che una grande potenza occupi l'Africa. L'Africa stessa, senz 'essere incorporata, dovrebbe essere una dipendenza italiana. Nel1'istesso senso conviene all'Italia che nessuna grande potenza le sia superiore nel Mediterraneo"_ Perciò la flotta italiana dovrebbe addirittura pareggiare quella francese ed essere in grado di battere la flotta austriaca. Segue una diagnosi assai ottimistica: e lo può, perché non manca di mezz.i all'uopo, massime d'ottimo legname per Le costruzioni, d'officine metallurgiche, ove si sviluppino le sue industrie [appunto! Non è cosa facile - N.d.a.], di ferro per le macchine. che hanno tanta importanza e sono oggi tutto nelle costruzioni marittime. Di marinai abbiamo maggior copia noi che non ha la Francia; che se a noi manca ancora l'arte e il tirocinio, abbiamo il vantaggio di non avere la presunzione francese, e i mali molti che si sono inoltrati in quella marineria di Francia, come già apparve negli eserciti di terra.

Conviene costruire "vascelli d'una forma sola" ricercandone l'uniformità, "circondarli di buone scialuppe cannoniere, ben corazzarli, dar loro forti sproni per l'urto, a che è tornata come in antico la tattica marinaresca, ed avvezzare navi e equipaggio a ben girarsi e urtare il nemico senza offendersi a vicenda". La strategia navale da seguire è piuttosto sbrigativa, se non semplicistica: "presentarsi audaci davanti Tolone e Marsiglia, o incrociare né paraggi di Gibilterra, per impedire la congiunzione delle squadre francesi dell'Atlantico con quelle del Mediterraneo, e batterle separatamente". La difesa terrestre "è tracciata dalla natura". Bisogna sbarrare con fortificazioni le vie di facilitazione per l'invasore: però le fortezze devono essere poche, sia perché costano molto, sia perché disperdano le forze; "la vera difesa d'un Paese sta nei petti dei cittadini". A queste condivisibili premesse, però, fa seguito la consueta indicazione di successive linee cli difesa, con troppi punti da fortificare. Devono essere fortificate anzitutto la linea delle Alpi, poi quella del Po, poi quella dell ' Appennino, e infine Foligno e Roma. Al tempo stesso bisogna tenere il quadrilatero, "vero ridotto d 'Italia, perché sempre male incorrerà a quell'invasione che lasciato il


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nemico sulla linea dell'Adige e del Mincio s'affrettasse a Roma e Napoli". Infine vanno fortificate le coste, congiungendo le difese di Roma con quelle marittime, per evitare uno sbarco di sorpresa a Ostia e dintorni. Siamo tornati ai fratelli Mezzacapo, che volevano fortificare tutto ..... Molte delle tesi del Molinari sulla Difesa dello Stato e sulla marina sono approssimative e si avvicinano all'utopia; dal punto di vista teorico le dubbie considerazioni sulla machetica, che sanno di imparaticcio e di affettato, sono il punto di maggior caduta della sua opera ma non possono influenzare il giudizio complessivo, che rimane positivo. A parte la massa di utili richiami sia alla storia che alla realtà del momento, egli riesce infatti a dare un'immagine organica e non dogmatica di come viene sentito il problema della guerra e della pace al suo tempo, oltre che dei problemi che comporta la preparazione e la condotta della guerra stessa; né è da trascurare che, sul cruciale e discusso problema delle formazioni da adottare in combattimento, egli in poche righe dimostra - per di più con notevole anticipo - assai maggiore equilibrio, e diremmo buonsenso, di molti dei più u;lebrali e seguiti teorici d'oltralpe. Un libro, dunque che nonostante i suoi limiti, con la già esaminata Guerra e sua storia del Marselli può essere scelto come emblema del tempo e delle sfide che si preparano nel XX secolo.

SEZIONE IV - Gli altri studi sugli aspetti teorici dell'arte militare, della guerra e sulla sua ripartizione.

Parametri di giudizio preliminari. La quantità di materiale disponibile è veramente ragguardevole; ciononostante gli autori finora citati, e in particolare quelli emergenti dopo il 1870, hanno già detto tutto o quasi. Ci limiteremo pertanto a dare conto degli spunti più originali e/o degli autori che più si avvicinano - o più si allontanano - rispetto ad alcuni parametri di giudizio sull'arte militare e/o della guerra emersi dagli studi precedenti, che qui di seguito riassumiamo, anzi ripetiamo per maggior chiarezza_ 1. Oltre a riferirsi in massima parte, al tempo, alla guerra tra eserciti di tipo europeo, l'arte militare/ della guerra attiene al fare e all'agire, più che al conoscere e al sapere: quindi come ha detto Clausewitz si avvicina a un'arte più che a una scienza, pur non potendo essere considerata appieno né un'arte, né una scienza. E come ha detto Napoleone (in parte para-


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frasato da Clausewitz) "è un'arte semplice e tutta d'esecuzione/ .. .]. Tutte queste questioni di grande tattica [Napoleone non usa il termine strategia - N.d.a.] sono dei problemi fisico - matematici indeterminati, che ammettono molteplici soluzioni e quindi non possono essere risolti utilizzando le formule della geometria elementare". Come dire: ogni dogmatismo è da proscrivere e le conoscenze scientifiche non bastano per trovare delle soluzioni corrispondenti a una realtà troppo mutevole. 2. Essa comprende sempre tre momenti fondamentali: quello conceltuale - di competenza del Comandante e/o del vertice politico/militare quelJo organizzativo (Stali Maggiori) e quello esecutivo (comandanti e Slati Maggiori), dove emerge soprattutto la capacità di rapida decisione, l'intuito, il coeup d'oeil cJausewitziano, la capacità di far fronte all'imprevisto dei comandanti a tutti i livelli. Ne deve perciò essere esclusa la tradizionale ripartizione orizzontale e paritetica in strategia, tattica, organica e logistica che non rende bene i tre diversi momenti ai quali si è accennato, e in particolare non distingue - come in tutti i casi va fatto - tra preparaziorte, orgunizzazione e condotta della guerra. 3. Essendo arte più che scienza, non può essere soggetta a rivoluzioni, evoluzioni o involuzioni. 11 concetto di rivoluzione - cioè di rottura netta, traumatica e violenta rispetto al passato - viene generalmente ammesso, sia pur con molte discussioni, in campo scienlifico35 ; ma se l'arte è genio, è intuito, è libera e spontanea espressione deJJ'individuo, nel corso del tempo non può segnare sempre una vera e propria rottura o un'evoluzione / involuzione; ad essa è riferibile con esattezza sempre e solo la parola mutamento. Vale la pena di ricordare ancora, in merito, quanto ha scrilto il comandante Alberini, che corrisponde all'approccio clausewitziano: "nella guerra tutto è aleatorio e incerto. In essa agiscono largamente forze e eff etti morali, cioè imponderabili[. .. ]. Un evento della guerra non si ripete mai nelle identiche condizioni; come si fa a parlare della scienza della guerra ?[. .. ]. l mezzi della guerra si perfezionano (perfettibilità tecnica); l'arte della guerra varia, ma non si può dire che progredisca. Parlare di evoluzione dell'arte della guerra, come sifa spesso, è un errore, come sarebbe errore parlare di evoluzione della poesia da Dante e Ungaretti". 36 Premesso che - diversamente della poesia - l'arte della guerra è azione, e come tale incide nella realtà, l ' uomo è sempre uomo, azioni e reazioni so-

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Si veda, in merito, la recensione di Paolo Rossi a Encyclopedia of the Scieritific Revolution from Copemicus to Newton a cura di W. Applebaum, London 2001 (in " Il Sole - 24 ore" del 3 maggio 2001). 36 R. Alberini, Art. cit.


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no da sempre essenza della vita: ciò che su di esse si basa, oltre che sul1a natura umana, può forse essere tale da non trovare, nel passato, qualcosa di analogo? Per Napoleone, che secondo alcuni avrebbe rivoluzionato l'arte della guerra, la risposta è decisamente negativa. Scrive infatti che "Tutti i grandi capitani dell'antichità, e coloro che più tardi hanno degnamente camminato sulle loro tracce, non hanno compiuto grandi cose se non conformandosi ai princip'ì naturali dell'arte, cioè con la giustezza delle combinazioni e il rapporto ragionato dei mezzi con le loro conseguenze, degli sforzi con gli ostacoli". 4. Napoleone parla di "principi": ma se quella del1a guerra/ militare è un'arte, può avere dei veri e propri princip1? La risposta è negativa. Secondo il Vocabolario della lingua italiana (Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1991) per principio si intende "concetto, affermazione, enunciato che forma uno dei fondamenti di una dottrina, di una scienza o di un particolare sistema", quindi i principi si attagliano a una scienza compiuta; se poi - come - in genere si conviene - quella della guerra/militare è una scienza incompiuta, anche i principi a loro volta non possono essere che incompiuti, e di conseguenza non essere veri e propri princip1. A maggior ragione, l'arte della guerra - riferita all'azione collettiva di uomini dominati da sentimenti e passioni variabili - non ammette regole vincolanti l'azione; ammette solo un corpus tecnico di base, per l'impiego di armi e unità. Conclusione: premesso che l'uso del termine principio è sempre improprio, esso può essere tollerato solo a se gli si attribuisce un significato flessibile, un carattere relativo e non assoluto che pure in senso stretto non dovrebbe avere, anche se Clausewitz è stato il primo a dare ai principi un valore assai circoscritto e ristretto alla pura teoria. S. Tprincipi vanno riferiti (come quasi sempre accade, anche oggi) all'arte della guerra, oppure all'arte militare, oppure ancora solo alla strategia, come fa Marselli? Non è la stessa cosa: sia l'arte militare che que11a della guerra si riferiscono tanto all'azione che alla preparazione e ammettono una suddivisione in diverse branche, che varia da autore ad autore. Non tutti i principi sono applicabili a ciascuna di tali branche; non tutti sono applicabili all'arte militare; tutti sono invece applicabili alla strategia. Ne consegue che solo la strategia e la tattica, che vanno riferite essenzialmente all'azione, dovrebbero ammettere i principi che generalmente sono attribuiti all'arte della guerra (massa, economia delle forze, sicurezza, sorpresa ecc.); ciò non toglie che ciascuna branca possa e debba avere principi diversi. Ragione di più per prendere con le molle i principi, o - meglio - per sostituirli con termini più elastici e meno assoluti, come ad esempio "fattori essenziali di successo".


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Che cosa avrebbe fatto Napoleone I nella guerra 1914-1918? Nessuno può dirlo, anche se in quella guerra i Capi militari si sono ispirati con scarso successo alle sue inipetibili imprese. Ecco i limiti invalicabi1i della teoria, ecco la dimostrazione che ci si trova di fronte più che altro a un' arte, sia pure imperfetta.

L'arte militare e il progresso politico-sociale e scientifico: due studi sign~ficativi del Pifferi (1895) e del Cravero (1907)

I due studi che seguono consentono di allargare notevolmente il campo d'interesse delle questioni trattate, mettendone in luce delle interfaccia generalmente trascurate. Nel 1895 certo E. Pifferi, ufficiale non altrimenti noto fino a far pensare a uno pseudonimo, 37 contesta tre a<;serti di base spesso accettati anche oggi: - i principi dell'arte militare possono e devono essere tratti dall'esperienza storica; - la condotta della guerra ha come scopo la villoria; - il progresso delle anni da fuoco impone di adottare formazioni più rade. Secondo il Pifferi i principi non sono affatto confermati dalla storia; ad esempio, "ben undici furono le campagne combattute dal 1796 al 1866 nella valle del Po e in due sole fu osservato il principio della massa tanto caldamente sostenuto dal De Cristoforis: in quella del I 796 da Napoleone Bonaparte e in quella del 1859 a Solferino dagli austriaci i quali - poveracci - se l'ebbero e sode". Senza contare che la virtù guerriera può tenere in scacco o vincere anche forze numericamente superiori. .. Ciò avviene perché "i fatti che si compiono da un esercito in guerra emanano dalla civiltà dei tempi e non dallo stretto interesse militare", mentre "un esercito scende in campo al solo scopo di far trionfare il principio per cui combatte, e la vittoria materiale non è sempre la sua mira". I Capi in guerra non devono seguire né principi, né leggi, né regole fisse. Occorre "libertà di pensiero e d'azione assoluta" per poter apprezzare nel giusto modo le differenti situazioni della guerra e prendere rapide decisioni. Anche gli ordinatori devono tener conto del continuo e rapido progresso della civiltà, perché gli eserciti hanno inevitabilmente gli stessi difetti e virtù dei popoli.

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E. Pifferi, Arte militare e civiltà dei popoli. in "Rivista Militare Italiana" Anno XL- Voi. I febbraio I 895, pp. 275-294.


VI - L' ARTE MILl'IAIIB .l'/O DELLA GUERRA

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La storia della fanteria è chiara dimostrazione della prevalenza graduale dell'individuo, "che prima finiva nella società e adesso trionfa, e della società non fa che un mezzo per raggiungere il proprio benessere morale e materiale". Nel campo militare, perciò, "come il cittadino tende oggi alla libertà della propria azione civile, così il soldato tende alla libertà della propria azione militare". Le conseguenze di una siffatta linea di tendenza sono due: - il passaggio dall'ordine sottile all'ordine sparso, "il quale permette all'individuo di meglio esplicare le proprie capacità intellettuali e.fisiche" e non è quindi dovuto al progresso delle armi da fuoco; - la riduzione progressiva delle specialità della fanteria (sic), dovuta al fatto che "lo spirito vero di libertà ha distrutto ogni privilegio e la ragione militare ha voluto soppressa ogni differenza nell'armamento e addestramento". Ai Quadri e alla truppa di oggi e del futuro non si può più imporre regole e principì; si può solo loro dire: andate, operate del miglior senno e del miglior animo vostro, adottate tutti quei mezzi, quella tattir.a e quella strategia che sieno più adatte a sviluppare le qualità che possedete, che valgano a impedire lo sviluppo delle virtù nemiche, e operando fortemente avrete la vittoria. E questo è il vero principio dell'arte della guerra ....

L'addestramento, la vita di caserma, la mentalità dei Quadri devono cambiare profondamente: "io vorrei vedere i nostri ufficiali là, fuori, soltanto fuori in campagna a studiare sotto buona guida le grandi questioni tattiche e strategiche, vorrei saperli approfonditi nell'ardua scienza balistica, vorrei sentirli discorrere non d' annuario, di picchetti o di scoponi ma ogni ora, ogni minuto stretti in fratellevole consorzio, vecchi e giovani, generali e sottotenenti, studiando sui grandi problemi della civiltà moderna preparare il trionfo dell'avvenire". Nel 1907 il tenente Giulio Cravero esamina le condizioni teoriche del rapporto tra progresso dell'arte militare e delle scienze sociali, argomento già trattato dal Marselli. 38 Come quest'ultimo nega che l'arte militare sia "incapace di sistemazione scientifica". Non è un' "arte bella" ma appartiene alle "arti logiche", che applicano principi scientifici e hanno per fon-

38 Giulio Cravero, Considerazioni sulla sistemazione scientifica dell' [arte] bellica. in "Rivista Militare Italiana" Anno LU - Voi. U giugno 1907, PP- 2119-21 36.


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<lamento il raziocinio. Poiché i due tipi di arti sono sostanzialmente diversi, non si può paragonarli tra di loro, come fa il Marselli. Come il Marselli però il Cravero sostiene che bisogna tener conto del progresso delle scienze sociali e psicologiche, quindi se La sociologia è capace di costituzione scient(fica, perché non dovrebbe esserlo del pari La bellica che ne è una branca? Per oppugnare questo corollario bisogna necessariamente dimostrare: o che gli elementi di essa sono diversi da quelli sociologici; o che essi sono animati da forze di diversa natura dalle sociologiche. Ma invece, la bellica e la sociologia hanno gli stessi elementi costitutivi; uomini, territorio, istituzioni; e il fatto che tutti i fenomeni che presenta la società, incominciando dalla delinquenza e finendo alla concorrenza, sono presentati dalla società militare ( eserciti), sebbene con intensità diversa, dimostra la identità delle forze agenti.

All'obiezione che la società militare rispetto alla società civile ha in più l'arma e la lotta cruenta, si può rispondere che "l'equivalente dell'arma nella società civile è il denaro, parimenti micidiale di quella, e che il commercio è fenomeno ancor più cruento e catastrofico, talora, che non la guerra; anzi esso è la vera guerra... " fma né il denaro, né il commercio richiedono lo scontro armato, deliberato, sanguinoso di masse disciplinate, addestrate, organizzate e dirette a tal fine! - N.d.a.]. Né vale, per il Cravero, l'argomentazione che l' arte bellica dopo tanti secoli di ricerca e studio non ha ancora potuto trovare una sistemazione scientifica, ciò che di per sé dimostrerebbe l'impossibilità di pervenirvi: lo stesso ragionamento, a suo giudizio errato, potrebbe essere fatto prima di tante nuove discipline scientifiche come ad esempio la sociologia, la linguistica ecc. [ma tale sistemazione scientifica non è stata ancora trovata nemmeno nell'era nucleare e spaziale; inoltre l'arte militare attiene all'azione e non alla pura speculazione - N.d.a.]. Questa ventata di ottimismo scientifico farebbe pensare che, lì sotto il cappello, il Cravero abbia già pronte le sue soluzioni e definizioni, per fornire finalmente della guerra una collocazione scientifica compiuta. Non è così: ammette che le scienze sociali, delle quali fa parte anche quella della guerra, non sono scienze esatte ma approssimative, nelle quali quindi "il rapporto tra i fenomeni - cioè la legge - non è preciso e determinato ma

ampio, e spazia in una serie di valori di cui solo i limiti estremi possono con una certa approssimazione, determinarsi". Più o meno come diceva Napoleone ...


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Stando così le cose, "la scienza strategica non è completamente costituita e non può esserlo; essa è una scienza, dirò così, evolutiva, in quanto i suoi elementi sono evolutivi, così come variabili sono i rapporti intercedenti fra di essi [. . .]. Difatti una scienza non si limita alla determinazione delle leggi generalissime, agli assiomi, ma deve determinare e stabilire tutte le leggi ad essa proprie". Di qui la critica al primo principio della strategia, quale risulta grosso modo dalla formulazione del Marselli e degli altri autori coevi: "per ottenere la vittoria - ossia lo squilibrio - è necessario avere la superiorità della forza sul punto decisivo". Questo osserva a ragione il Cravero - è "un assioma che non è proprio della strategia, ma di tutta la meccanica, anzi di tutto il cosmo". Anche i termini "forza" e "punto decisivo" sono generici, vaghi e indetenninati: "di quale forza s'intende parlare? Di forze meccaniche, fisiche, morali, chimiche?". Perciò "quella prima regola strategica, impiegando due termini non chiari e non precisi, non può non essere indeterminata [.. .]. Tutti i principi strategici attualmente citati dai tratlati militari e che riguardino solamente la superiorità della forza e la più opportuna direzione d'urto sono principi comuni [cioè universali, che trovano in ogni scienza la loro applicazione - N.d.a.] e non propri [cioè specifici di ciascuna disciplina, e, nella fattispecie, dell'arte della guerra - N.d.a.]". Per il Cravero ugualmente errati e arbitrari sono il concelto di guerra e la frequente ripartizione dell'arte della guerra in strategia, tattica e logistica. La guerra è ad esempio definita " lotta armata fra i popoli''. Questa definizione non può essere accettata, perché escluderebbe della guerra tutte le lotte fra popoli che non siano armate e tutte le lotte armate fra comunità che non siano popoli. Anche Clausewitz definendola "un atto di forza avente per scopo di costringere l'avversario ad accondiscendere alla nostra volontà"" dimentica di specificare la natura e la quantità della forza stessa, sì che anche le lotte commerciali e le lotte dei singoli sono comprese nella definizione. In quanto alla divisione tradizionale dell'arte nùlitare in strategia, tattica, e logistica, le condizioni perché una divisione sia esatta sono che i membri dividendi esauriscono la estensione del concetto e che i membri si escludano L'un l'altro. Ora, se la prima condizione è ri.\pettata, la seconda è violata: quanta parte di strategia v'è nella tattica e quanta nella logistica - e quanto di lo~istica nelle altre due!

La ragione per cui "in quaranta secoli circa la dottrina (parlo sempre della dottrina e non dell'applicazione, che è arte) strategica non ha fatto


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un solo passo" è una sola: la mancanza di metodo; inoltre non si è tenuto

conto che le scienze si formano partendo dai postulati delle scienze che le precedono gerarchicamente. In base a questo criterio, La scienza militare non prende in blocco allo stato greggio tutta La materia sociale nella quale si manifesta la crisi bellica, ma sibbene La prende quale fu elaborata dalla sociologia f?enerale; e sui suoi postulati poggia il proprio edificio. Essa quindi dovrà basarsi e sulla psicologia individuale e collettiva f?enerale e sulla sociologia generale. lo credo che sarà necessario creare nuove scienze militari che servano di base alla scienza bellica: una psicologia ed una sociologia militare che si dipartano dal tronco della psicologia e sociologia generale. Ed un 'altra, credo, sarà necessario creare: una psico - patologia collettiva militare.

In effetti, al di sopra dell' individualità psichica singola ve n'è una collettiva che deriva dall'educazione e dalJ'influsso dell'ambiente. Quando la psicologia dell'individuo è esaltata dalle passioni violente o dal pericolo, la psicologia collettiva s'indebolisce, "e dal cozzo delle due personalità psichiche nasce uno stato morboso molto simile alla demenza". Questo fenomeno, particolarmente frequente in guerra, ha una fisionomia tutta sua, molto diversa dalle altre demenze sociali; perciò "questa nuova scienza militare getterebbe, io credo, un raggio di luce nell'oscuro fenomeno bellico, e darebbe, forse, la spiegazione di certe anomalie o paradossi o incongruenze che tanto spesso s'incontrano nelle battaglie".

Gran parte dei fenomeni che avvengono nel seno della guerra sono ad essa estranei, quindi vanno riferiti alle scienze che di quei fenomeni trattano (sociologia generale, psicologia generale e collettiva, ewnomia ... ). Fatto questo, poiché la guerra è una lolla fra aggregati e non fra individui, il suo studio dovrà tenere conto solo dei fenomeni che sono propri della collettività; di conseguenza il criterio che l'analista dovrà seguire per sceverare il fenomeno propriamente collettivo, con una psiche veramente sua, da quello propriamente generale che rispecchia La psiche dei suoi componenti, sarà che quello è distinto da fenomeni (modi d'agire, di pensare, di sentire) esteriori all'individuo e dotati di un potere coercitivo capace di imporsi ad esso. Questo potere coercitivo che informa a suo piacimento le volontà sin,?ole è quello che distingue la materia bellica collettiva dalla materia bellica individuale.


VI - L' ARTE Mll.lTARE FJO l>ELLA GUEKRA

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Poiché anche quella della guerra è una scienza in formazione, sul piano generale dovrebbe essere adottato il metodo induttivo, partendo dai fatti elementari per giungere agli assiomi medi, alle leggi; d'altro canto nel caso della sociologia - e della scienza della guerra che ne deriva - occorre andare dalle leggi delle combinazioni complesse a quelle dei fatti elementari. Siccome non si può dedurre automaticamente dalle leggi che governano i sentimenti e Je azioni degli individui quelle che governano le comunità, non è nemmeno possibile studiare la guerra esaminando solo la psiche individuale, senza inserirla in quella della collettività militare; "donde si vede quanto errasse il Clausewitz quando credeva di potere

dalla tenzone singolare trarre lume per indurre i principi guerreschi, e quanto l'Ardant du Picq, il quale quel lume cercava anche nella lotta fra animali". Secondo il Cravero, quando si è appUcato alle cose militari il metodo induttivo lo si è fatto male, e magari si è fatto ricorso anche al metodo deduttivo, che non è possibile "in una scienza ancora bambina". Qui v'è da osservare che ci si trova di fronte a affermazioni contradditorie, visto che prima ha sostenuto la falsità del metodo induttivo per le scienze sociali e per quella de1la guerra. Se ne potrehbe invece dedurre, semplicemente, che la scienza della guerra non si presta né a deduzioni né a induzioni, cioè non si presta ad alcuna formulazione teorica, sia pur con obiettivi limitati. Se però i trattatisti militari - egli prosegue - banno fatto così frequente e malaccorto ricorso al metodo deduttivo, traendo conseguenze da pochi principi stabiliti, forse a priori, la colpa non è loro: è della scuola filosofica razionalista, che con Fiche e Hegel ha imposto a tutta la scienza una fede "smisurata" nei principi assoluti. E qui disconoscendo i tentativi del Marselli, del Ranzi, del Barone ecc., afferma che non si è mai studiata la guerra come ''fenomeno immerso in tutto l'ambiente sociale, spaziale e temporale", che lo modifica attraverso i suoi impulsi: solo il Blanch lo ha fatto. Anche la ricerca degli influssi della politica sulla guerra è un circolo vizioso: poiché la politica non differisce dalla guerra, anzi è la guerra stessa nel suo periodo preparatorio, così facendo le cause si cercano non fuori dal fenomeno come si dovrebbe, ma dentro di esso. Considerazioni non nuove, che tuttavia hanno il pregio di far ben emergere le contraddizioni del Marselli e di molti altri che, dopo aver tanto parlato del parallelismo tra realtà sociale e guerra, di fatto formulano principi assoluti in base a considerazioni puramente tecnico - militari, guardando solo dentro al fenomeno preso a sé stante e non fuori. li Cravero conclude che quella bellica è una scienza morale, quindi approssimativa: "il fatto che non ebbe mai una sistemazione scientifica non ne di-


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mostra la incapacità, sibbene la difficoltà la quale è dimostrata dal fatto che essa, nell'ordine gerarchico delle scienze, è al vertice". Ciò non significa, a suo avviso, che quando avrà raggiunto una definitiva sistemazione scientifica, la vittoria sarà deducibile da una formula, così come nella meccanica. Si potrebbe quindi dire che la montagna partorisce il topolino: dopo tanto peregrinare nei piani alti della filosofia e delle scienze sociali, egli in buona sostanza riconosce ciò che da secoli si sa, cioè che non è possibile una completa "sistemazione scientifica della bellica".

La crisi dei concetti di logistica e di strategia negli scritti del Corsi, del Favre, del Corticelli e del Cavaciocchi

Due i punti di caduta più comuni nei predetti autori, peraltro già riscontrati nel precedente esame: un concetto di arte militare / della guerra derivato dal Marmont,39 che la riduce a un complesso di cognizioni sul modo di preparare e condurre la guerra, quando invece, in quanto arte, consiste piuttosto nelle attività - non escluse quelle concettuali e speculative - per ben preparare e condurre la guerra stessa. In secondo luogo, un concetto jominiano o marselliano di logistica che la riconduce essenzialmente ad arte e scienza del movimento ancella della strategia, trascurandone o collocando in posizione subordinata l' aspetto - oggi prevalente - che concerne l'alimentazione logistica delle truppe, more solito affidato piuttosto all' "Amministrazione", branca che come sempre riassume molti dei contenuti dell'attuale logistica. In merito, va detto subito che una delle definizioni di logistica che più si avvicinano alla fisionomia che poi ha assunto nel XX secolo è quella del ten. col. Moreno, che nel suo Manuale di logistica (1866) la inquadra accennando anche alle operazioni logistiche; quest'ultime comprendono "le marce, le stazioni, le misure di sicurezza, i trasporti e il funzionamento dei Servizi necessari ali'ese rcito per operare e per vivere". Più in generale, per logistica egli intende "quel ramo della scienza militare che ha per oggetto il mantenimento dell'esercito in campagna, la sua sicurezza e il compimento dei movimenti

39 "L' arte della guerra è l'insieme delle cognizioni necessarie per condurre una massa d' uo mini armati, organizzarla, muoverla, farla combattere e dare agli elementi che la compongono la loro ma.~sima efficienza, vigilando tuttavia alla loro conservazione" (Maresc iallo Marmont, Dello spirito delle istituzioni militari ( 1845), traduz. lt. a cura del gen. Giacomo Carboni, (cit.)).


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necessari al fine di presentare al nemico le truppe nelle migliori condizioni per combattere". 40 Se non fosse per l'inserimento delle misure di sicurezza tra i compiti della logistica, questa definizione sarebbe in accordo con il concetto attuale (2005) di logistica, anche se si potrebbe osservare che oltre a scienza, è anche arte. Con il tempo, comunque, il concetto di logistica non si avvicina affatto a quello attuale, ma se mai tende a peggiorare. Ad esempio nella sua Guida allo studio della logistica dei primi anni del secolo XX il ten. coL di Stato Maggiore Carlo Ruelle. insegnante alla Scuola di Guerra, si attiene a un concetto di logistica ancor più "allargato" e jominiano, nel quale all 'organizzazione e funzionamento dei Servizi si aggiungono l'esplorazione, la sicurezza, i provvedimenti tipici della mobilitazione e in genere tutte le attività dello Stato Maggiore. In secondo luogo, dalle definizioni del Moreno e del Ruelle - che esprimono una continuità di approccio della quale bisogna tener conto - si deduce chiaramente che, fino a quanto rimane "scienza (o arte) del movimento o stazionamento delle truppe" e si occupa anche di esplorazione, sicurezza, ecc., la logistica stenta a raggiungere una precisa individualità, per la semplice ragione che la strategia e la tattica oltre a non poter prescindere da esplorazione e sicurezza già contengono in sé il movimento delle truppe e anzi in esso si compendiano in gran parte, perchè non c'è manovra senza movimento, così come non c'è ordine che comporti anche un movimento. Ha perciò ragione il generale Carlo Corsi4 1, quando nel 1874 critica questo approccio alla logistica e, più in generale, le "non necessarie sminuzzature dollrinali" dell'arte militare: la logistica fu dunque considerata talvolta come parte integrante della tattica [ ... ],- tale altra volta fu divisa tra la tattica e la strategia; l'abbiamo vista bandita dal corso d'arte militare e lasciata al Regolamento pel servizio di campagna; l'abbiamo vista puranco messa molto più in su, cioè alzata all'onore di dottrina .\peciale del corso di Stato Maggiore ...

Negli ultimi tempi poi, con l'importanza assunta dai trasporti militari per ferrovia "fu levata da alcuni maestri a tal grado da soprastare addi-

'° Gennaro Moreno, Ma11uale di logistice ( 1866), Torino, Tip. Camilla e Bertolero 1866, pp. 6-7 (parecchie edizioni successive). 41 Carlo Corsi, Vello studio dell'arte militare, in "Rivista Militare Italiana" Anno XIX - Tomo Ili luglio 1874. pp. 180- 183.


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rittura alle altre parti dell'arte militare". Ma ciò è avvenuto senza alcun vantaggio, anzi con danno dell'istruzione complessiva dei Quadri; e "se guardo bene Le cose eh'essa abbraccia nel suo periodo primo, me la veggo sfuggire di mano e cadere, come per forza d'attrazione e gravitazione, parte in grembo alla strategia, parte in grembo alla tattica, e ciò che resta mi sembra proprio materia da Regolamento di servizio piuttosto che da Corso d'arte militare". Vi è anche chi oltre che le ragioni dell'esistenza della logistica, mette addirittura in dubbio i contenuti teorici del concetto di strategia come parte dell'arte della guerra, ritenendo più logico identificarla - come molti oggi (2005) fanno - con la stessa arte della guerra. Così fanno due autori: il colonnello Paolo Favre ( 1886)42 e il generale Carlo Corticelli (1901).43 ll Favre è tra i pochi a fornire con poche parole una buona definizione di arte militare, che "consiste a organizzare e mettere in azione i mezzi offensivi e difensivi d'un paese". Mette però in dubbio che essa possa essere intesa come scienza, cioè come complesso di cognizioni, mentre l'arte consisterebbe nel complesso degli atti del vertice politico - militare per organizzare e condurre la guerra: "ma a questo modo si potrebbe chiamare scienza anche la retorica, che insegna l'arte di ben dire e ben scrivere". Né è vero che l'arte militare va considerata come scienza, perché si fonderebbe su principi immutabili, e magari sull'unico principio Idi Jominil di assicurarsi la preponderanza delle forze sul punto decisivo: "ma questo non è un principio, è lo scopo stesso della guerra, la conditio si ne qua non per vincere". Qualsiasi operazione in pace o in guerra deve avere il naturale scopo di organizzare la vittoria e di procurare all'esercito la preponderanza di forza sul campo di battaglia, per "forza" intendendo la sommatoria di tutti gli elementi che contribuiscono a rendere più efficace l'azione del personale: "questo è il vero senso da attribuirsi alla parola strategia; e dal volerne fare una parte dell'arte militare, mentre è tutta l'arte, proviene la difficoltà di darne una definizione esatta e soddisfacente". Se, invece, si vuol far rientrare nel dominio della strategia la fase della guerra che segue il concentramento dell'esercito e precede l'urto, essa non può essere distinta né dalla logistica né dall'amministrazione, perché una battaglia si può perdere tanto per il mancato afflusso di rifornimenti, quanto per cattiva condotta delle operazioni; "da ciò risulta manifesto che la strategia, inventata da }omini [non è vero - N.d.a.J e dai dottrinari che

42 43

Paolo Favre, Dell'arte militare, Torino, Tipografia Operaia 1886, pp. 5-8. Cfr. Carlo Corticelli, Manuale di organica militare, Torino, Camilla e Bcrtolero 1892 (noi ci

riferiamo alla 2' E<l. 1901, pp. 1-5).


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vogliono ridurre a scienza positiva quel che non è che l'effetto del genio e della fortuna, è una cosa impalpabile (sic), o quanto meno, non si può sceverare dall'organica né da altre parti dell'arte militare senza cadere nell'astruso". Anche i piani di guerra preparati fin dal tempo di pace e i pur costosissimi sistemi di fortificazione sono assai poco utili alla difesa del Paese, perché pretendono di predeterminare, tappa per tappa, gli avvenimenti e le azioni e reazioni del nemico; perciò "la strategia per il Ministro consiste soprattutto nel preparare un buon strumento di guerra e affidarlo non al più scienziato o più anziano, ma al più abile"_ Quanto si dice della strategia vale almeno in parte anche per la logistica, visto che la parte più palpabile di questo ramo dell'arte militare, quella che concerne la mobilitazione e il concentramento, riposa sull'ordinamento territoriale e perciò rientra nelle competenze dell'organica,- dei due compiti che poi le spettano durante le ostilità, cioè la sussistenza e la marcia delle truppe, il primo è una questione d'amministrazione, e il secondo non si può guari astrarre dalla strategia e dalla tattica, ed in ogni modo non è suscettibile d'insegnamento teorico.

Per queste ragioni il Favre propone di suddividere l'arte militare in organica, tattica, amministrazione e psicologia militare. L'amministrazione (che sarebbe la logistica attuale) "ben a ragione merita di formare un campo speciale di studi, come speciali sono la più gran parte dei suoi organi". La psicologia militare comprende anche la disciplina e l'addestramento del personale, nell'intesa che "la tattica fa agire la massa, ma formarla e cementarla spetta alla psicologia". Dal canto suo l'altro autore, il Corticelli, tratteggia in poche righe la scienza e arte militare e la relativa ripartizione. La scienza militare comprende "il complesso delle cognizioni necessarie per organizzare, condurre e far combattere gli eserciti''. L'arte militare "è la scienza in atto, ossia l'applicazione dei dettami di essa ai casi concreti di guerra". La scienza militare si suddivide in organica (raccolta, predisposizione e coordinamento dei mezzi d'azione), logistica (stesso significato attribuitole dal Moreno, esplicitamente citato) e tattica (combattimento per raggiungere la vittoria). Manca la strategia, e non è cosa da poco: perché? Perché su questo argomento - chiave il Corticelli la pensa come il Favre, anche se non lo cita: nelle sopra accennate dottrine costituenti la scienza militare non abbiamo di proposito incluso la strategia, in quantoché essa non è mate-


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ria da professarsi in apposito corso o da apprendersi in particolari trattati n libri. La strategia è la sintesi della scienza militare (sic), od in altri termini è la risultante degli atti organici, logistici e tattici, coi quali si svolge ogni campagna. Atti strategici non si danno; vi è bensì un pensiero strategico, che dapprima presiede all'opera della preparazione e quindi determina ed informa la condotta delle operazioni, indirizzandole al raf?giungimento di un dato obiettivo militare, o militare o politico a un tempo.

Nel 1904 il Corticelli insieme con il colonnello Garioni pubblica un'altra edizione della sua opera, con alcune interessanti varianti e aggiunte.44 Opportuna la precisazione che il termjne arte militare è usato più frequentemente di quello di scienza; "ciò non già perché vo1:tiasi negare alle cose di guerra il fondamento scientifico, ossia l 'immutabilità dei principi fondamentali, ma perché la denominazione di arte meglio si accorda allo scopo pratico essenziale degli studi militari, che non è ,?ià lo speculare, ma l 'insegnar a fare, cioè a vincere". Scienza e arte militare vanno suddivise in due grandi branche, l'una relativa alla preparazione e conservazione delle forze militari (cioè all'organica), l'altra al loro impiego (logistica e tattica). Manca ancora la strategia, ma questa volta non si spiega il perché; e si potrebbe anche osservare che, almeno nel concetto del secolo XX, la logistica riguarda proprio la preparazione e conservazione delle forze. Altrettanto opportunamente sono indicati i requisiti essenziali che deve avere un organismo militare per far scendere in campo il maggior numero di forze nel più breve tempo e nelle migliori condizioni possibili, che sono l'opportunità, la stabilità e la semplicità. Per opportunità si intende l'armonia delle istituzioni militari con quelle sociali, tenendo presente che le istituzioni militari adatte per un Paese possono non esserlo per un altro o anche per il Paese stesso, se mutano l'assetto politico - sociale o la situazione internazionale. La stabilità è richiesta dal fatto che le modifiche dello strumento militare fanno sentire i loro effetti solo a lunga scadenza e consiste nell'evitare non solo mutamenti rilevanti ma non indispensabili, ma anche mutamenti di minor conto che, pur segnando di per sé un progresso, non sono così importanti da indurre a sacrificare le esigenze di slabil ità. Bisogna anche tener conto delle tradizioni che sono la forza di un

44 Cfr. Carlo Corticelli - Vincenzo Garioni, Organica militare - parie ,lourinale e teorica. Torino Bertolero 1904.


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esercito; inoltre i mutamenti troppo frequenti sono da evitare, perché generano sfiducia nelle Istituzioni. Un pregio ancor maggiore dell'indicazione di questi requisiti tuttora validi è l'esame abbastanza dettagliato deifattori di potenza degli Stati: sono fattori materiali: a) la popolazione, considerata come cifra assoluta ed in rapporto ali'estensione del territorio, il che ne esprime La densità; b) la giacitura e configurazione geografica del paese; e) le condizioni economiche e finanziarie, determinate principalmente dalla ricchezza e produttività del suolo e dallo sviluppo industriale e commerciale; d) lo stato della pubblica .finanza, quale risulta dalle condizioni dei bilanci attivi e passivi dello Stato. I fattori morali si possono riassumere nei seguenti: e) il sentimento di nazionalità e di amor patrio: f) lo spirito militare prodotto dall'indole nazionale e dalle tradizioni; g) il grado di cultura e di educazione morale delle popolazioni; h) le istituzioni politiche e civili; i) il sentimento e lo spirito religioso.

Alla luce della realtà internazionale di fine 2005 ci sembrano inoltre profetiche le considerazioni dei due autori sui riflessi militari del sentimento religioso, non particolarmente importanti al tempo: dell 'influenza del sentimento religioso sulle cose militari la storia ci porge non pochi esempi; e sebbene a questo proposito si sia operata nel mondo una vera rivoluzione per l'impoverirsi od almeno per il modificarsi nei paesi civili di tale se11time11to, sarebbe imperdonabile impreveggenza non tenerne tuttora il debito conto, specialmente in date circostanze di tempo, di luof<o e di popolazione. L'idea religiosa fu spesso pretesto e soste,:no a interessi materiali di varia specie e si spiegano quindi le terribili guerre di religione che funestarono il mondo in altre epoche. Il fanatismo ha tuttora molta presa in certe popolazioni e nulla esclude che non possano nuovamente attizzarsi conflitti, che una fede più o meno ben intesa potrebbe contribuire a rendere lunghi o sanguinosi.

Secondo una communis opinio tuttora in auge, solo A.T. Mahan e quasi contemporaneamente (questo pochi lo ricordano) il nostro Do-


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Il . PF.NSIF.RO MILITAR E F. NAVALE ITALIANO-VOI- Ili ( 1870-1915)-TOMO I

menico Bonamico - hanno indicato e studiato i fattori e elementi che influiscono sul potere marittimo delle nazioni. 45 Ebbene, in prima approssimazione l'analisi del Corticelli - Garioni, pur essendo molto più breve, regge il confronto concettuale con le considerazioni dei due celebri autori e dimostra che fattori finora presentati ed esaltati dagli scrittori navali come specifici ed esclusivi del potere marittimo, in realtà esercitano la loro influenza anche sul potere terrestre (al quale si è aggiunto, nel XX secolo, il potere aerospaziale), quindi non sono altro che componenti del potere militare. Quest'ultimo è il prodotto (e non la somma) dei singoli "poteri", senza che qualcuno di essi si arroghi caratteristiche speciali, che lo rendano non integrabile e non comparabile con altri. Dopo tutto il Favre e il Corticelli non si distaccano molto dal consueto approccio teorico all'arte militare; ma l'autore del periodo che più esce dai ranghi è il colonnello di Stato Maggiore (già Capo dell'Ufficio Storico) Alberto Cavaciocchi, che oltre per l'originalità della tesi conclusiva, si distacca dagli altri per una preziosa analisi storica del modo di intendere l'arte militare che comincia da Filippo Forni (I 640) e si estende fino agli autori coevi. 46 Il Cavaciocchi esamina le tesi di Jomini , dell ' Arciduca Carlo, di Clausewitz, del Ricci e del Marselli, fino al D' Ayala, al Corsi, al Guerrini , al Corticelli e allo Zuccari, soffermandosi particolarmente sul ruolo della logistica e sui suoi confini con le altre branche. Mette in giusto rilievo che la tradizione classica italiana (Forni, Machiavelli, Montecuccoli), ben distingue tra preparazione delle forze e loro impiego, e fa carico a Jomini di considerare solo l'impiego delle forze e non la preparazione, a ragione criticando anche l'inclusione nell'arte della guerra, come branche a parte, sia della politica (che è un elemento di interesse generale affidato a poteri diversi da quelli del capo militare) sia dell'arte dell'ingegnere, che è collegata molto strettamente con la strategia e con la tattica. Secondo il Cavaciocchi anche il Ricci e il Marselli commettono gli stessi errori di Jomini, mentre lo stesso Clausewitz, pur riconoscendo l'unità della materia, non ha neppure lui tracciato una classificazione ben chiara e distinta.

'·' Si veda, in merito, A.T. Mahan, L 'influenza del potere marittimo ~·ulla storia (1890) - Cap. I, traduz. It. 1994 Roma, Ufficio Storico Marina Militare e Domenico Bonamico. Op. cit., Tomo I pp. 207-367. 46 Alberto Cavaciocchi, Art. cit.


VI - 1; ARTE MILITARE PJO DEI.I.A GUP. _!R_R_A_ _ __ _ _ _ _ _ _ _6~3_7

Più in generale - prosegue il Cavaciocchi - mentre in Italia si è sostanzialmente seguito un approccio di tipo jominiano alla ripartizione dell'arte militare, nelle scuole militari superiori delle principali nazioni si è adottato un indirizzo ben diverso. Lo dimostra il seguente specchio da lui riportato: Ecole supetieure de Guerre Francese Taltica applicata (divisa in Ire callcdrc)

Kriegschule austriaca

-

Kriegsalcademie tedesca

Tattica

Tatlica

Storia militare e strategia

Storia militare

Guerra d'assedio

Guerra d' assedio

Mohilitazionc

Servizio di Stato Maggiore (operazioni)

Servizio di Stato Maggiore

Servizio di Stato Maggiore

Servizio di Stato Maggiore (amministrazione)

Storia militare, strategia e tallica generale (La guerra d' assedio manca quale cattedra a sè)

Amministrazione

-

-

Tallica navale

(manca quale cattedra a sè)

Guerra marittima

(Manca)

Costituzione degli eserciti

(Manca)

-

Anche il Cavaciocchi appunta le sue critiche sul concetto di logistica, che nel Jomini ha una formulazione equivoca e indeterminata, mentre ì1 Ricci e il Marselli cadono ambedue nell'errore di separare, nella materia logistica, il concetto (di competenza del generale) dall'esecuzione (di competenza dello Stato Maggiore), dimenticando che "concetto ed esecuzione sono indissolubilmente uniti neLl'azione guerresca e il volerli dividere è cosa che sfugge dal campo dell'attività pratica". Ne consegue che la logistica non può aspirare a formare una trinità con la strategia e con la tattica; poiché se a queste è possibile, salvo gli addentellati inevitabili, assegnare un significato abbastanza preciso, la logistica invece è parola che l 'abitudine ha reso eccessivamente autonomistica e che, come altre molte, non è solo un traslato, ma nasconde mancanza di contenuto interiore e conduce quindi a gravi errori, o per lo meno a indeterminatezze. Questo pensiero appare evidente, ogni qualvolta si eviti di adoperare l'a1u:ettivo logistico e vi si sostituisca una indicazione più concreta od anche nulla[. .. ]. Basti ricordare che nell'anno scolastico 1905 - 1906 potè l'insegnante di logistica alla Scuola di Guerra svol-


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IL PENSIERO Mn.ITARF. E NAVALE ITALIANO- VOL. lii ( IRW -1 9 15)-TOMO I

gere l'intero corso senza necessità di mai adoperare questa parola, né come sostantivo, né come aggettivo (tranne che nel titolo del corso), e che l'Ufficio Storico l 'ha completamente bandita dal proprio vocabolario ....

Una delle ragioni per cui la ripartizione dello Jomini, dell'Arciduca Carlo, del Marselli e del Ricci non risponde allo scopo è la confusione tra scienza e arte, "o meglio la pretesa di dare carattere scientifico a quella che è e non può essere altro che arte", anche se - come fa Clausewitz - non si può escludere l'utilità di principi e regole, peraltro non sufficienti per conferire all'arte militare il carattere di scienza. Mettendo in rapporto questi concetti con le attività belliche fondamentali (preparare l'esercito; adunarlo sul teatro d ' operazioni per mezzo dei trasporti; impiegarlo con marce, soste e combattimenti; mantenerlo in efficienza con i Servizi logi stici) il Cavaciocchi propone una ripartiz ione dell ' arte della guerra del tutto inedita: ESERCITO

PREPARAZIONE

IMPIEGO

Comandi e Stati Maggiori Fanteria Cavalleria Artiglieria Genio

Ordinamento nel senso più esteso del termine (comprese quindi le attività inerenti al reclutamento)

Servizi

Amministrazione - conservazione della forza

Marce, soste e loro sicurc1.1.a Combattimenti e Assedi

Secondo il Cavaciocchi questa ripartizione si basa sull'insegnamento degli autori classici italiani e consente di "evitare le distinzioni non abbastanza nette di strategia e di tattica, e quella inutile ed anzi scolasticamente dannosa di logistica", al tempo stesso inquadrando la materia con unità di criteri e indirizzi. Molte delle sue considerazioni ci sembrano appropriate e condivisibili, specie là ove indica i limiti dell'approccio "orizzontale" jominiano e insiste sull'opportunità di distinguere tra preparazione e impiego, evitando interpretazioni dogmatiche per una materia, che certamente non può dare origine a una scienza compiuta. Ma così come la preparazione può essere in gran parte racchiusa nell'organica, non si capisce perché, trattando della condotta delle operazioni, non si possa distinguere - a prescindere dalle denominazioni - tra i concetti che definiscono le grandi linee della condotta di una guerra in relazione al suo scopo politico e quelli che atte ngono alla condotta dei singoli combattimenti ed episodi, che peraltro vanno legati a uno scopo superiore. La sua suddivisione è invece asimmetrica: mentre l' organica pensa a dare alla preparazione un indirizzo unitario, proprio la fa-


VI - L' ARTE MILITARE FJO DEl.1.~GU~ER = R=A _ _ __ _ _ _ _ _~ 63=9

se suprema, cioè l'impiego delle forze, non ammette quel concetto direttore che invece la pratica rende indispensabile. Né si vede perché tutto ciò che riguarda il supporto logistico e la conservazione delle forze non debba, a sua volta, sottostare a un unico criterio direttivo e richiedere specifici provvedimenti che non possono essere inclusi altrove, visto anche che lo stesso Cavaciocchi ammette la necessità di organi speciali, quali sono quelli dei Servizi logistici. Anche qui: la montagna, in prima approssimazione apprezzabile, partorisce il topolino ...

I contributi teorici più equilibrati: Valle ( 1883 ), Allason ( 1891 ), "Piccola Enciclopedia Hoepli" (1895) Dopo aver dato conto dei contributi che per una ragione o per l'altra dimostrano maggiore originalità, è ora opportuno soffermarsi su quelli che pur senza molti voli esprimono in maggior misura lo spirito dei tempi e/o commettono meno errori. Una delle opere migliori è il Trattato di arte mi-

litare (organica, strategia, logistica e tattica) compilato secondo i programmi approvati dal Ministero della guerra è in armonia coi regolamenti in vigore del colonnello Pietro Valle ( l 883).47 Bene - in rapporto ai tempi - la definizione di guerra: "lotta sanguinosa e violenta tra due Stati, mediante la quale l'un di essi cerca d'imporre all'altro la propria volontà, mentre questi fa ogni .sforzo per non subirla. La guerra consta di una o più campagne di guerra". E' subordinata alla politica ed è l'ultima ratio cui ricorre uno Stato. Anche durante la guerra la politica, come per Clausewitz, continua la sua azione. Tipica dei tempi è una mal riposta ma diffusa fiducia nella guerra breve, eredità della guerra franco - prussiana: "ora le guerre sono brevissime: constano di

una campagna o al massimo due, e ciò a motivo dei grossi eserciti, delle armi perfezionate, della rapidità dei mezzi di comunicazione e della progredita civiltà". Ben centrati i vantaggi della guerra offensiva e difensiva (anche se il Valle non parla degli inconvenienti e/o delle circostanze che le rendono concretamente possibile). Vantaggi della guerra offensiva: a) morale elevato dell'esercito e della nazione; b) piena libertà d'azione, al contrario della guerra difensiva; c) minore spesa per il mantenimento dell'esercito, derivante dalla possibilità di alimentarlo con le risorse del Paese occupato [ma il Valle nulla dice della necessità di raggiungere la superio-

47

Firenze, Successori Le Monnier 1883 (specie pp. 3- 1l).


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rità di forze, ciò che comporta anche una maggiore spesa - N.d.a_]. Vantaggi della difensiva: a) maggiore conoscenza del terreno su cui si combatte; b) possibilità di utilizzare le fortificazioni; c) possibilità di sfruttare l'entusiasmo e il patriottismo delle popolazioni, sempre che in esse lo spirito nazionale e d'indipendenza sia fortemente radicato; d) rifornimenti più agevoli; e) possibilità di evitare battaglie decisive_ Solito errore nel concetto di arte militare: "è quel complesso di cognizioni...." ecc .. I suoi "principali rami" (quindi non gli unici) sono (nell'ordine) organica, strategia, logistica e tattica: "molte altre cognizioni hanno stretta attinenza all'arte militare, ma bisogna considerarle come rami di studio a parte, perché troppo vasti e complessi o troppo tecnici''. Tra di esse la storia militare, che come ba<;e dell'arte militare "va studiata a parte, e soltanto dopo che si è ben compreso i precetti dell'arte, corroborati da qualche breve citazione storica". Altre "scienze sussidiarie" sono la fortificazione, la topografia, la geografia, lo studio delle armi (e quindi anche la metallurgia, la fisica, la chimica, la balistica, ecc_), la telegrafia, il servizio delle ferrovie, l'economia politica, la filosofia della guerra. L'organica è il primo ramo dell'arte militare, in quanto riguarda l'organizzazione dell'esercito. Segue la strategia, che "stabilisce i precetti, secondo i quali si apprende a condurre, regolare e dirigere effettivamente la guerra" [ ... J. Si potrebbe anche definire con altre parole_- essere la medesima quel ramo scientifico dell'arte militare che insegna a dirigere le masse sul teatro di guerra per concentrarle e quindi battere il nemico [ ... ]. Quantunque i vari rami della strategia siano fra loro strettamente collegati, purtuttavia è la strategia il più importante di tutti, come quello che ha maggiore affinità colla scienza" [dunque non è - o non è del tutto - un "ramo scientifico", come detto prima- N.d.a.]. Come molti altri il Valle insiste sull'importanza basilare del genio e dell' ispirazione del Capo nella strategia; e molto opportunamente cita il LJoyd, il quale primo scrittore militare che si provò di ridurre a corpo di scienza la strategia, così si esprimeva: "l'arte militare (intendi strategia) ha una grande rassomiglianza colla poesia e coll'eloquenza, di cui molti conoscono le regole ma pochi hanno il talento. Chi non è poeta o oratore riuscirà sempre freddo e noioso per quanto si affatichi a scrivere secondo le regole, sempre che non possegga il fuoco divino e l'entusiasmo celeste che sono caratteristiche del genio. Possiamo applicare questo paragone anche ali'arte nostra.

Solita definizione di logistica, che si occupa anche del servizio informazioni e viene subito dopo la strategia, perché ne è la parte esecutiva fi-


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no al momento in cui avviene l'urto con il nemico, quando subentra la tattica. Di quest'ultima il Valle dà una definizione anche oggi accettabile, sempre che ci si riferisca alla guerra di eserciti: "quel ramo dell'arte mili-

tare che insegna a dirigere le masse e loro frazioni sul terreno ove deve avvenire lo scontro con il nemico (sul campo di battaglia): insegna inoltre quali fonnazioni siano da impiegarsi dalle unità di guerra, cioè dai corpi tattici e dalle unità tattiche, nei vari casi, per combattere il nemico cioè per assaltare o per difendersi, e così raggiungere possibilmente lo scopo che è sempre quello della villoria". Questa definizione generale è però guastata, anziché chiarita, da una manìa tutta jominiana di suddividere e classificare, anche quando non ce n'è alcun bisogno. Nella fattispecie il Valle (non è il solo) distingue tra:

- tattica pura, ''formale o regolamentare, detta anche volgarmente tattica di piazza d 'anni"; - tattica applicata; - grande tattica, "che sarebbe, ci si pennetta di dirlo, la parte strategica della tattica". Nel concetto del Valle la tattica pura sembra corri spondere più o meno alla parte teorica e all'addestramento sul terreno: "si occupa più specialmente della costituzione materiale delle varie Armi, delle varie unità

di cui si compongono, delle frazioni in cui si suddividono, delle proprietà tattiche che desse posseggono, delle formazioni e delle mosse necessarie e convenienti per maneggiarle e servirsene, dei fuochi da impiegarsi e delle norme per eseguirli e per mantenere la disciplina durante l'esecuzione dei medesimi." La tattica applicata "ci ammaestra ad applicare in guerra tutto ciò che abbiamo imparato colla tattica pura". Se così fosse, - noi osserviamo - andrebbe bene, perché si tratterebbe della tattica minuta di combattimento; ma non è proprio così, perché essa - aggiunge il Valle - "ci insegna pure le misure tattiche da adottarsi per la sicurezza delle truppe", e inoltre il più appropriato sfruttamento del terreno in relazione alla situazione. Evidentemente la distinzione tra i due tipi di tattica sarebbe più chiara, se solo alla tattica pura fosse lasciato il compito di istruire e addestrare sia il singolo che il reparto e la tattica applicata fosse la tattica effettivamente seguìta in combattimento, cioè l'applicazione pratica dell'attività addestrativa sul campo di battaglia. La grande tattica non è altro che quella di Jomini: arte di condurre e vincere le battaglie. Ha confini a loro volta incerti rispetto alla tattica applicata, dei quali si rende ben conto lo stesso Valle quando afferma che


IL PENSIE'!O MILITARE E NAVALE ITALIANO -VOL. Ili (1870-1915)- ·mMO I

"quantunque si sia fatto un capitolo a parte della grande tattica, pure bisogna convenire che essa altro non è che la continuazione della tattica applicata, perché non è che l'applicazione delle formazioni e delle manovre di unità più grandi ... ". Rispetto a quelle del Valle, le definizioni dell' Allason ( 1891), pur eccezionalmente espresse in un trattato di geografia militare,48 ci sembrano ancor più centrate, anche se trascurano la parte che attiene alla preparazione: - la strategia somministra i principi regolatori, delle mosse che conducono alla battaglia, cioè: insegna il modo di servirsi della battaglia, dice dove e quando conviene battersi; - la tattica dirige l'azione durante la battaglia, cioè: insegna il modo di servirsi delle varie armi nella battaglia, dice come bisogna battersi (Von Moltke). Ma durante le mosse che conducono alla battaglia si deve regolare il movimento e provvedere alla vita e alla sicurezza delle truppe[ ...]. Gli atti che si compiono, i provvedimenti e le disposizioni che si prendono, le norme che si seguono e i principi che si rispettano per ottenere questo scopo, costituiscono quel ramo !>peciale dell'arte militare che pre11de il nome di logistica.

La terminologia militare più monda dai soliti errori si trova, però, nella Piccola Enciclopedia Hoepli (l 895)49, le cui principali voci - qui di seguito riportate - hanno solo il difetto di essere troppo brevi. Guerra: "a) lo stato di due o più potenze, le quali vengono alle armi

tra loro per decidere una controversia; b) tutta la serie dei fatti e delle operazioni militari, che si succedono dal momento della dichiarazione di guerra fino alla sua cessazione". Arte della guerra: "consiste nel saper impiegare nel modo più proficuo i mezzi di combattimento e presuppone la conoscenza dell'intera scienza della guerra". Strategia: "l'arte di coordinare i movimenti di tutte le grandi masse che compongono l'esercito in modo da poterle presentare difronte al nemico in condizioni di successo"_ Logistica: "quella parte dell 'arte militare che insegna a far vivere, marciare, accampare le grosse unità di truppa". Qui l'Enciclopedia fari-

48 49

Ugo Alla5on, Studio di geografia militare, Torino, Candeleui J 891, p. 11. Milano, Hoepli 1895 (2 Voi.).


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ferimento al citato Manuale di logistica del Moreno del 1886; va peraltro sottolineato che ne migliora la definizione, una volta tanto escludendo le misure di sicurezza dai compiti della logistica e mettendo per prime le esigenze di vita delle truppe.

Conclusione Due le deduzioni di carattere generale che possono essere tratte dal1' excursus compiuto. 1. Nel campo del linguaggio militare si assiste a un duplice canto del cigno. Canto del cigno del purismo, che con paradosso solo apparente affiora proprio dall'apprezzabile tentativo del Guglielmotti, il cui vocabolario, per altri versi pregevole, non è palesemente in grado di rendere i più recenti progressi dell' arte e tecnologia militare. Lo stesso si può dire delle dispense della Crusca alle quali il Guglielmotti collabora o si richiama, le cui imprecisioni - ben messe in rilievo dall' Angclucci - fanno anche ricordare la necessità di ricorrere a degli esperti militari per chi voglia affrontare con proprietà certi temi legati all'arte militare. L'intera opera storica di questo frate/soldato/marinaio, e in particolare la sua parte linguistica, è comunque importante anche oggi, per richiamare gli scrittori non solo militari italiani al rispetto della nostra lingua e della nostra lingua classica, sfruttandone a fondo tutte le possibilità e ricorrendo a termini stranieri non tradotti in italiano il meno possibile, solo quando non si può fare altrimenti e non per snobismo. In secondo luogo il canto del cigno va riferito ai vocabolari e dizionari militari "terrestri"', la cui ultima pubblicazione completa nel XX secolo rimane quella dell'Urangia, cioè di un secolo fa (nessun commento; questo fatto parla da solo). 2. L'altra caratteristica saliente del periodo è la crisi (prevedibile) del concetto di logistica, accompagnata dalla crisi (permanente) di quello di strategia e dei relativi principi ''fissi, immutabili" ecc. (quest'ultima rivelata dalle obiezioni - non infondate anche se prive di valide alternative - di taluni autori). Evidentemente solo facendola coincidere con quella che al tempo viene ancora chiamata amministrazione - alla quale già si riconosce un ruolo autonomo - la logistica nel XX secolo potrà acquistare un ruolo autonomo e di valenza crescente, che già si profila nella guerra di Libia 1911-1912 e nella guerra 1915-1918, dove le esigenze enormemente accresciute di sostegno logistico alle truppe pongono in modo particolarmente acuto il problema - già esistente anche nei secoli precedenti e testimoniato dai vocaboli "Intendenti" e "Intendenze" - di un organo di rac-


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cordo capace di armonizzare le esigenze di vita e di combattimento del1'esercito con le possibilità del Paese e le sue strutture produttive. La crisi della strategia, invece, comincia dalla confusione - tipica non solo del periodo - tra arte militare e arte della guerra. La prima è riferita anche alle attività del tempo di pace, alle istituzioni militari e alla problematica militare in genere. La seconda ha un campo più circoscritto, e riguarda essenzialmente la preparazione e condotta delle operazioni di guerra. Ebbene, in quanto azione, gestione, condotta delle operazioni già nel suo significato etimologico, la strategia di ieri e di oggi non può che essere riferita all'arte/scienza della guerra e identificarsi con le grandi linee dell'impiego delle forze militari o prevalentemente militari. 50 Se è così, essa non può e non deve racchiudere in sé altre funzioni, notoriamente affidate a organi specializzati - militari e non. Al tempo stesso ha un'individualità abbastanza chiara, perché le predette funzioni (non solo la logistica nel concetto attuale, ma anche tutto ciò che rientra nell'approntamento delle forze) riguardano specifici settori, che poi spetta alla strategia ispirare, coordinare, disciplinare, gestire per raggiungere, appunto, un unico obiettivo. Perché dunque la strategia, polarizzata sull'attività operativa, dovrebbe contenere interamente, in sé - appesantendosi e alterando la sua vera missione - anche quelle componenti che le spetta solo coordinare? Perché dovrebbe addirittura coincidere con l'arte/ scienza della guerra, della quale rimane solo la componente più importante, e alla quale compete, appunto, riunire le varie funzioni, componenti, attività che attengono non solo alla guerra, ma a tutto ciò che in genere è di interesse militare? Senza contare che se - come anche oggi viene comunemente ammesso - preparazione e impiego delle forze sono due attività diverse anche se tra di loro connesse, sarebbe assai poco logico se la strategia dovesse racchiuderle entrambe in sé per intero. Clausewitz cade nell'eccesso opposto, rifiutandosi di esaminare tutto ciò che attiene alla preparazione. Della preparazione, comunque, ammette l'importanza; e proprio questo fatto dovrebbero portare a quella visione equilibrata del problema, che manca agli attuali sostenitori di un concetto di strategia onnicomprensivo, fino a racchiudere in sé sia l'antica arte della guerra, sia la politica di sicurezza, di difesa e militare, pretendendo anche di estendersi al campo civile, fino a trasformarsi in una sorta di teoria dell'azione indistinta, civile o militare che sia, dove ciascuno pascola a suo modo.

50

Botti. l 'arte militare del 2000 (Cii.), pp. 433-487.


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L'insostenibile genericità e illogicità di un siffatto concetto estremamente "allargato", particolarmente in auge all'inizio del secolo XXT, non richiedono particolari sottolineature. Per giunta i suoi sostenitori attuali credono in una nuova fisionomia della strategia resa necessaria dalla realtà atluale, ignorando che già ne] secolo XIX, come si è dimostrato, si manifesta la tendenza a identificarla con l'intera arte militare/ della guerra. In sostanza, sia per il secolo XIX che per il secolo XX rimane vero quanto scriveva nel 1783 il colonnello Nockem de Schom, tentando invano di mettere un po' d'ordine: alla imperfezione di ordine e di metodo che regna nella teoria della scienza militare considerata nella sua universalità e come si trova ne' libri, si accoppia ancora un altro difetto capace di ritardarne i progressi, ed esso consiste nella significazione vaga e allargata de' vocaboli tecnici[... ]. Da ciò derivano gli abusi delle parole, le e!.pressioni equivoche, qualche volta monotone, e anche contradditorie; da ciò nascono Le logomachie de' nostri polemici [. .. }; da ciò finalmente procedono le false idee, le definizioni poco esatte, i principi insussistenti o dubbiosi, e per conseguenza de' ragionamenti erronei senzafine. 5 '

Una persistenza nel tempo che fa pensare e aumenta l'interesse attuale dell'argomento qui preso in esame, le cui sfaccettature dimostrano quanto meno ciò che la strategia non può essere e quali sono i suoi limiti .

·" Nockem de Schom. Op. cit.. p. XVII.



CAPITOLO VII

UN QUADRO DI RIFERIMENTO INDISPENSABILE: I RIFLESSI TEORICI E DOITRlNALI DELL'ACCRESCIUTA EFFICACIA DEL FUOCO E DEGLI ESERCITI DI MASSA SECONDO I PRINCIPALI AUTORI FRANCESI E TEDESCHI

Premessa: modelli da non seguire Su una materia così complessa e multiforme come l'arte militare, della guerra non ci si può limitare all'esame dei "pilastri"' italiani prima citati. Solo un quadro organico a livello europeo è in grado di fornire un'idea precisa e attendibile delle linee di tendenza di un dato periodo, tenendo sempre presenti (Voi. I - Parte I) le discriminanti concettuali tra le due grandi correnti di pensiero facenti rispettivamente capo a Clausewitz e Jomini, che tuttora forniscono i veri parametri di riferimento. TI pericolo del "riassunto" o di interpretazioni eclettiche - e perciò inattendibili - è sempre in agguato: lo dimostrano due opere pubblicate in Italia a notevole distanza di tempo, che qui vogliamo indicare come modelli da non seguire. Il colonnello Rodolfo Corselli ha pubblicato a fine secolo XIX un'opera sull'Arte della guerra nelle varie epoche della storia 1, nella quale accanto a molte notizie utili su arrni e mezzi, tattiche, formazioni ecc. fornisce interessanti biografie e bibliografie su molti scrittori militari italiani e stranieri: ma - fatte alcune eccezioni - lo fa senza alcuna analisi comparativa, senza alcuna chiara presa di posizione, senza alcun parametro di riferimento e quindi senza alcun spazio per giudizi critici che peraltro non sarebbe in grado di giustificare o ancorare a precise opzioni teoriche. Così facendo l'interrogativo primario - e diremmo quasi spontaneo - che occorre porsi, quali siano cioè i caratteri generali degli studi teorici di arte militare del periodo in Europa, rimane senza risposta; né si sa come giudica-

1

Cfr.:Rodolfo Corselli. L'arte della guerra nelle varie epoche della storia, Panna, Tip. Ed. Ga-

rihaldi 1898.


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re, dove collocare i riassunti delle opere che il Corselli, bontà sua, talvolta fornisce. A fronte di quesle mende perde quasi importanza il difettoso approccio del Corselli al pensiero militare germanico. Non cita mai il già celebre Vom Kriege di Clausewilz, accennando solo ad alcune sue opere minori sulle guerre dell' età napoleonica. A Clausewitz dedica tre righe scarse; ma a Willisen (tra l'altro chiamandolo, a lorto, ..emulo di Clausewitz") ben otto pagine, senza nascondere la sua preferenza per quest' "emulo" (lo è stato, ma di Biilow). In uno dei pochi paragoni che si trovano nell'intero libro, infatti, afferma che "la differenza più appariscente tra il Willisen e il Clausewitz è questa: il primo crede che la scienza della guerra derivi da principt inconcussi, e possa perciò essere tradotta in lezioni positive; il secondo, invece, non vede in essa che solo lo studio dell'esperienza. Però tutti e due s 'incontrano in uno stesso punto: il Willisen dà le regole, il Clausewitz dice che non si possono stabilire leggi e regole di guerra (ciò eh 'è tanto seducente a chi non vuol aprire un libro), ma viceversa finisce col darle anche lui". 2 Subito dopo la prima guerra mondiale il tene nte colonnello di Stato Maggiore Luigi de Biase fornisce un altro esempio in negativo con un ' opera, che pure avrebbe lo scopo di preparare il lettore allo studio della storia. 3 Per il de Biase dopo Napoleone "l'arte militare accenna per qualche lato a decadere, [ma] per altri molti, invece, si solleva sulla via del progresso". Noi osserviamo per l'ennesima volta che, se si tratta di un'arte, non si può parlare di "decadenza" o "progresso". L'arte - sia essa militare o meno - può esprimere solo dei mutamenti, legati ai mutamenti delle società e del quadro internazionale. Al progresso delle tecnologie non sempre corrisponde un reale "progresso", se non altro perché bisognerebbe, prima, intendersi bene sul significato di tale diffusa parola e chiedersi quali sono i riflessi specifici del quadro economico - sociale sull' arte militare, da molti giudicati determinanti . Quel che più colpisce è la tendenza del de Biase a gettare in un unico calderone "buonista", senza affatto distinguere, i vari autori (che giudica tutti positivamente, per di più seguendo l'inveterata, detestabile abitudine di riassumerne il pensiero in poche righe). Osserva che l' Arciduca Carlo "espone i/frutto delle sue profonde riflessioni in materia di strategia, unite alla sua esperienza pe rsonale e all'esperienza dei grandi capitani"'. Condivide il giudizio (del tutto errato) dell'ufficiale francese Levasseur, 2

ivi, p. 328. Cfr. Luigi de Biase, Avviamento allo studio della storia politico-militare - Voi. l ( 1796- 187 1). Pinerolo. Tip. Sociale 1920. 3


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secondo il quale "la concordanza dei principi dell'Arciduca Carlo con le idee di Napoleone sull'arte della guerra è tale, che si può giudicare il riassunto dei suoi principi [compiuto dal Levasseur] come quello stesso dei principi dell 'Imperatore". E per completare degnamente il quadro, afferma che "una eccellente edizione dei Principi della strategia dell'Arciduca Carlo fu stampata a Napoli nel 1870 a cura di Luigi Blanc" finutile rilevare quest'ultimo, grossolano errore di data e di curatore: Vds. Voi. I, cap. TI sz. H - N.d.A.]. A sua volta Jomini "dopo aver potuto osservare l'intiera Europa nelle diverse sfaccettature politico - militari consegnò in molti volumi il frutto delle sue osservazioni e dei suoi studi...". Punto e basta: ma quale è stato il suo apporto teorico? Lo stesso si potrebbe dire di Clausewitz, il quale "ha lasciato molti volumi che in Prussia destarono rumore e che costituiscono indubbiamente la base di ogni buon studio di strategia". Troppo vago: e gli autori italiani? Nessun cenno. Il de Biase va almeno in parte perdonato: in fondo, anche un illustre scrittore militare del secolo XIX come Carlo Corsi nel suo celebre Sommario di storia militare tra gli scrittori militari italiani della prima metà del secolo XIX cita solo il Vacani , e si limita a definire, senza altri giudizi, sia il Précis de l'art de la guerre di Jomini che il Della Guerra di Clausewitz "Opere classiche". 4 La via che seguiremo è un'altra. Essa si basa, come sempre, su parametri di riferimento teorico ricavati dalle differenze tra "ideologi" (facenti capo a Clausewitz) e "dottrinari" (facenti capo a Jomini), già messe in luce dal Mordacq e da noi riepilogate anche in un recente saggio su Stratégique. 5 In secondo luogo, per valutare in modo il più possibile equilibrato il reale livello dei contributi italiani che esamineremo, ci sembra indispensabile dare prima un rapido sguardo a quanto si scrive nelle due Nazioni da sempre all'avanguardia in campo militare e da sempre rivali: la Francia e la Germania.6 Solo così si potrà disporre di qualche ancoraggio, di alcuni termini di confronto attendibili per la non facile ana4 Carlo Corsi, Sommario di storia militare (]871), Voi. li ( 1815- 1870) - Rist. Torino, Schiappo 1932, pp. 22-31. 'Botti, la pensée stratégoqie italienne de 1789 à /81 5 (in atti del Convegno "Pensée stratégique et humanisme··, Namur, 19-2 1 maggio 1999, Paris, Economica 2000. pp. 227-27 1). 6 Ci riferiremo principalmente, in merito, al libro del colonnello (poi Maresciallo d' Italia) Ettore Bastico L' Evoluzione dell'arte della guerra. Firenze, Carpigiani e Zipoli 1924, 3 Voi. (2' Ed. Firenze, Casa Ed. Militare Italiana 1930) e al più recente Hervé Coutau-Bégarie, Traité de Stratégie, Paris, Economica 1999. Utili anche gen. Emilio Bobbio, Eccessi e contraddizioni delle dottrine militari negli ultimi due secoli, in "Rivista di Fanteria" n. 3 - mano 1937, pp. 363-379, e Hervé Coutau-Bégarie, voce "Français (Théoriciens)" in 11ùerry dc Montbrial - Jcan Klein, Dictionnaire de Stratégie, Paris, PUF 2000, pp. 250-253.


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lisi critica che intendiamo condurre; in caso diverso la prospettiva sarebbe troppo ristretta, quindi pregi e limiti da noi individuati non riceverebbero la giusta luce.

SEZIONE I - Da Lewal a Foch: la sostanziale impostazione dogmatica e anticlauscwitziana del pensiero militare francese

I giudizi del Mordacq e le sue conclusioni jominiane Per un breve sguardo al pensiero militare francese - al quale quello italiano è sempre stato molto legato - è utiJe il più volte citato libro del generale Mordacq ( 1912)7, anche se ha il difetto di essere troppo sintetico. l1 Mordacq non nasconde la sua ammirazione per Clausewitz e critica soprattutto Jomini; sta di fatto che parla di evoluzione della strategia - vocabolo a ragione mai usato da Clausewitz - e che ammette l'esistenza di principi della strategia, fraintendendo ciò che afferma il generale prussiano in proposito: la strategia riposa su un certo numero di principf, che ne costituiscono le fondamenta_ L'arte militare, ha detto Napoleone !, è un'arte che ha dei principf che non si possono violare. L'Arciduca Carlo ha intitolato una delle sue opere "Principi di strategia" [.. . ].Anche ]omini è del parere che "sono esistiti, da sempre, dei principi' fondamentali sui quali si fondano le buone combinazioni della guerra". Clausewitz riconosce del pari l 'esistenza di questi principi: "Noi cerchiamo di riunire in un solo fascio tutti i principi già conosciuti dell'arte militare, per ricondurre poi ciascuno di essi alla sua più semplice espressione [... )"_Per principi si intende generalmente le regole fondamentali di un 'arte Ii principi non sono regole! - N.d.A.] che, senza essere immutabili in via assoluta, 1wn subiscono attraverso i secoli delle modifiche molto importanti_ Di conseguenza ogni arte si basa su un insieme di nozioni positive, di regole che ne costituiscono la teoria propriamente detta, la base_ La strategia, dunque, non/a che rientrare nel caso generale_8

7

Cfr. Commandanl Monlacq, Stratégie - histnriq11e, évnlutio,i, Paris, Foumier 191 2.

• ivi, pp. 119-120.


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Quale sia la differenza tra principi e regole; come possa un 'arte avere dei principì, che (Voi. I, p. 50) se mai sono propri di una scienza, il Mordacq non lo spiega; né spiega bene come un'arte, per di più basata su principi "immuables", possa evolversi. Al tempo stesso omelle di ricordare (non è il solo) che Clausewitz non ritiene possibile formulare una teoria compiuta della guerra, e che pur ammettendo l' utilità - specie ai minori )j velli - di principi e regole, non )j ritiene né immutabili né assoluti ed esige che rimangano nel campo delle pure riflessioni ed esercitazioni teoriche, senza accompagnare il Capo sul campo di battaglia, là ove per lui vale solo il genio, l'intuito, il coeup d'oeil. Alla fin fine, in che cosa si risolve quell'evoluzione della strategia, alla qua1e il Mordacq pur intitola il suo libro? Dopo aver criticato, come si è già accennato, i dottrinari perché "poco manca che mettessero la guerra in equazioni"' e dopo aver constatato che, nelle loro concezioni, "la ieometria gioca un ruolo capitale nella direzione delle operazioni"', di Clausewitz dice che cerca di reagire,- si eleva al di sopra di queste teorie, che considera un po' come terra - terra; ciò che lo interessa soprattutto è la filosofia della grande g uerra Senza dubbio, a forza di volare egli finisce col non mantenere i piedi per terra, con il dimenticare le contingenze terrestri; ma da grande pensatore quale egli è, non cessa di ricordare che solo con il pensiero, con il ragionamento si possono risolvere al meglio i problemi strategici lc'è forse qualcuno che ha mai sostenuto il contrario? N.d.a.]. Da eminente razionalista quale egli è, dimostra un certo disprezw per i risultati dell'esperienza [non è vero; disprezza solo chi vuol trame dogmi - N.d.a.].9

Il giudizio del Mordacq sul pensiero militare francese post - napoleonico non è certo positivo. A suo giudizio, da Marmont fino alla guerra del 1870-1871 non si trova, in Francia, una sola opera originale sulla condolta della guerra; dall'esperienza delle guerre d ' Africa, di Crimea e d ' Italia nasce anzi la scuola degli Jnneistes (termine francese senza corrispondenti in italiano, che potrebbe essere reso con "lnnatisti" cioè coloro che collocano le doti innate del Capo al centro dell 'arte militare). Infatti, portando alle estreme conseguenze ciò che in proposito afferma anche Clausewitz, gli adepti di tale scuola credono soprattutto nel coeup d'oeil del Capo:

• ivi, pp. 108- 109.


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a quale scopo lavorare, a quale scopo andar a cercare nelle pieghe dei libri una scienza inutile, visto che è sufficiente andare avanti per ottenere il successo? In tutti i casi, se si doveva prendere una decisione in certi momenti critici, non c'era che da affidarsi all'ispirazione: o si possedeva il genio militare o non si possedeva, esso era innato o meno. 10

Il "coup de foudre" del 1870/1871 - nota il Mordacq - ha fatto giustizia di queste idee, ha provocato un brusco risveglio:ma in che modo? Qui è il punto. Almeno da come la presenta, l'evoluzione della quale egli parla non esiste: se mai si tratta di un'involuzione. È stata fondata in Francia - egli ricorda - una Scuola di Guerra, nella quale il generale Pierron (autore di un'opera sui Principes de la guerre) ha tenuto un corso di strategia; "ma ben presto si riconobbe che si stava mettendo il carro davanti ai buoi e che, prima di voler stabilire una dottrina strategica, era saggio dare al nostro esercito una dottrina tattica...". 11 Affermazione, questa, che almeno per il lettore di oggi non appare condivisibile: così come una buona poUtica deve tenere conto anche delle possibilità strategiche, una buona strategia oltre a dipendere dalla politica deve tener conto anche di vincoU e possibilità di carattere tattico; ma ciò non toglie che generalmente la tattica è subordinata alle scelte strategiche, se non altro perché la strategia sola può dare il giusto scopo ai combattimenti, e questo scopo evidentemente influenza anche il modo di condurli. Siamo, insomma, ancora una volta agli antipodi di Clausewitz. .. Secondo il Mordacq dopo il t 870 - 1871 gli Inneistes non sono scomparsi, anche se sono rimasti in minoranza. Egli accenna al gran numero di opere di strategia che tuttavia sono state pubblicate; nel complesso, però di tutte queste opere che sono comparse in Francia dal /870 al 1900 si deve riconoscere che ancor risentono troppo dell'influenza di Jomini e della scuola dei dottrinari; certamente un poco della filosofia, del razionalismo, dell'eclettismo tipici di Clausewitz avrebbe loro fatto un gran bene. Ancora troppo formalismo e troppo dogmatismo, accompagnati da lunghe considerazioni sulle virtù delle basi d 'operazioni, linee e punti strateiici e da altre teorie care alla predetta scuola; tuttavia si

p. 63. ivi, p. 64.

IO ivi, Il


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ha la netta sensazione che la nuova scuola francese, con uomini dalle vedute assai larghe come i Maillard, i Gilberl, i Langlois, se ne rende conto e cerca di rea,?ire. Sotto questo profilo, l'ultima decade del XIX secolo (dal 1890 al 1900) è assai interessante da studiare; vi si man(festa in maniera netta un 'evoluzione assai caratteristica; il vecchio buonsenso francese vi prende il sopravvento, e un po ' sollo vi appare una nuova scuola che potrebbe essere definita un'autentica scuola del buonsenso.12

Stringi stringi, l' "evoluzione" del Mordacq si ferma qui: citando il suo stesso contributo e quello dei generali Bonnal, Picquart, Foch, egli precisa che la predetta "scuola del buon senso" ricerca evidentemente nell'insegnamento della storia la teoria della ,?rande arte della guerra che la sua propria esperienza non le può fornire, ma quando si traila di applicare a un caso particolare i principi, Le regole di questa teoria, ritiene a ragione indispensabile furti pusl·ure per il filtro del pensiero, della riflessione e del ragionamento. Empirismo sì, ma soprullullo razionalismo. 13

Questo - noi osserviamo - ~ solo e sempre Jomini: nel Précis de l'art de la guerre dello scrittore franco - svizzero (più che svizzero - francese) non si trova forse qualcosa di molto simile [Cfr. Voi. l, pp. 104-105? E il Mordacq rimane sempre e solo nel solco di Jomini, quando scrive che "d'altro canto la strategia si evolve da un altro punto di vista: diventa sempre più semplice. Ai trattati particolarmente voluminosi dell'inizio del XX secolo hanno fatto seguito, a poco a poco, dei modesti opuscoli. Ma la guerra non diventa forse di giorno in giorno più complicata?". 14 Scegliere come unità di misura il numero di pagine dei trattati per giudicare della semplicità o meno della strategia ci sembra un metodo del tutto discutibile, ieri come oggi: ma in fondo Jomini non ha fatto lo stesso, pretendendo di ridurre la complessità politico - strategica delle guerre e la stessa, irripetibile personalità di Napoleone a un solo "principio Jondamentale" della strategia, e anche della tattica (Vol. I, p. 100)? Oltre tutto si tratta di un principio dalla scmpUcità ingannevole, perché essere più forti del ne-

12 13 '

4

ivi, pp. 66-67. ivi, p. 109.

IDIDEM.


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mico nel tempo e luogo più opportuni è un'esigenza pleonastica: il djfficile è per prima cosa valutare bene tale tempo e luogo, e in secondo luogo realizzare la superiorità necessaria con le modalità volute. Come è già avvenuto per il Marselli, dopo un'analisi prelirrùnare del pensiero militare europeo per molti versi acuta e condivisibile il Mordacq perviene a risultati francamente deludenti come queJli sopra esposti, ai quali dà la pennellata finale constatando - sempre sulla scia di Jomini - che il progresso della tecnica non influisce sui principi e che la vera difficoltà sta nella loro applicazione (ma allora, in cosa consiste l' "evoluzione" delJa strategia?). Per altro verso, "questi principf poco numerosi sono ben conosciuti: l'offensiva straJegica, l'economia delle forze, la sicurezza strategica o libertà d'azione, la velocità, la distruzione". 15 Insomma: gli identici caratteri della strategia di Napoleone. Viene perciò da chiedersi se si potrebbe essere meno originali in questa risposta, che il Mordacq pur dà - o meglio non dà - al titolo interlocutorio del primo capitolo della seconda parte: "L'evoluzione agisce sui principi strategici?". Risposta tanto più significativa, visto che jn quel momento (1912) insegna a11' "École Supérieure de guerre" .... Dopo quanto ha detto Mordacq, non ci si può stupire se in tutta la vasta e spesso interessante produzione letteraria militare francese del periodo 1870 - l 914 non siamo riusciti a trovare un solo autore, che non renda (anticlausewitzianamente) omaggio agli immortali e immutabili principi e non ritenga possibile formulare una compiuta teoria della guerra. Si sente se mai il bisogno opposto, visto che - più a torto che a ragione - all'individuazione preliminare di una compiuta teoria della guerra si tende erroneamente a legare la definizione di una dottrina, come se le due cose non fossero indipendenti. li Mordacq, inoltre, oltre a soffermarsi pressoché esclusivamente sul pensiero strategico (trascurando gli orientamenti tattici) non rende, nella sua pur interessante opera, il travaglio di idee che porta la dottrina tattica e strategica francese del 1914 a un esagerato culto del!' offensiva, smentito in poco tempo dalla realtà della guerra. A parer nostro gli autori che più segnano in Francia il periodo in esame sono due: uno attivo subito dopo il 1870, il generale Lewal, e l'altro assai vicino alla prima guerra mondiale, il tenente colonnello d' artiglieria Foch (poi generale comandante delle forze dell'Intesa nel marzo 1918 e Maresciallo di Francia nello stesso anno). Gli altri autori francesi, pur nu-

15

ivi, p. 122.


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merosi, o riempiono la cornice, l'intelaiatura dovute a questi due o rappresentano una reazione critica alle loro idee, che per molti versi vanno collocate ag1 i estremi opposti.

Lo scientismo estremo e la prevalenza del fuoco nella tattica del generale Lewal ( 1875) Il Mordacq presenta il Lewal come un avversario del1a "grande arte

I della guerra]", tanto che - ricorda - in una conferenza de] 1878 ha sostenuto che "il termine strategia va ormai tolto dal vocabolario militare"; però in seguito è stato folgorato sulla via di Damasco, perché non c'è scrittore militare francese che, dal 1880 al / 90X (data della sua morie), abbia pubblicato altrettanto opere di strategia l.. -1- Le opere del generale Lewal sono numerose; si può dire che egli ha studiato pressoché tutti i casi, tutte le situazioni che si possono presentare in una grande guerra: il più interessante, quello che oggi ci offre più insegnamenti, è certamente quello che è intitolato "Strategia di marcia". 16

Dopo aver scorso i suoi Études de guerre - tactique de mobilisation tactique de combat del 1875, 17 noi riteniamo tuttavia che sia questo il suo libro più importante, per due ragioni. La prima è che dal punto di vista teorico e strategico la sua impostazione generale ne fa un' interessante raccolta di tutte le affabulazioni pseudo-scientifiche, di tutti i pregiudizi, di tutte le aprioristiche chiusure che percorrono anche sotto la pelle il mondo militare europeo del secolo XIX e fino al 1914, accompagnandole però con inaspettate quanto inascoltate aperture ai riflessi tattici dell 'impiego di armi più perfezionate. La seconda è che il Lewal, pur non citando mai Clausewitz, in questa occasione si dimostra - a quanto ci è dato conoscere - la punta più avanzata dell'anticlausewitzianismo francese, in questo superando persino Jomini (peraltro da lui criticato, a ragione, per la confusione fin dalle prime pagine del suo Précis fa tra arte e scienza del1a guerra). Inutile ricordare che il Lewal, se non altro perché confonde ciò che per lui è indispensabile con ciò che è possibile, crede fermamente in una teoria 16

ivi, p. 65. Cfr. généml Lewal. Études de guerre - tactique de mobilisation - tactique de combat, Paris, Dumaine I 875. 17


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compiuta dell'arte della guerra, con i suoi principi, regole ecc.; ma va molto più in là, fino ad attaccare anche quei capisaldi classici delle tesi di Clausewitz che sono spesso condivisi dagli stessi avversari del generale prussiano. Per lui non ci possono essere equivoci: la guerra deve essere una scienza e solo una scienza, quindi non può essere nemmeno parzialmente un'arte. In secondo luogo non si tratta di agire secondo le circostanze [Clausewitz, Moltke - N.d.a.], ma - come ha detto il maresciallo Bugeaud - di agire malgrado le circostanze; bisogna sempre dominare gli eventi e non esserne dominati. Questo è richiesto dal carattere francese, che "non ha la mentalità dell'ordine, non ama la previsione e il calcolo, ha più immaginazione che discernimento, conta soprattutto sulla vivacità della sua intelligenza e sulla sua attitudine a trarsi d'impaccio". Ne è derivata " la dottrina dell'ignoranza, dovuta a un 'interpretazione ben consolidata e maturata, che ha dato luogo agli errori militari più incresciosi e più diffusi" : una dottrina che, al massimo, andava bene in passato .... 18 Per il Lewal fino a quando si applicherà la "deplorevole formula di routine." di agire secondo il luogo, il tempo e circostanze, non ci si potrà attendere nessun progresso, né si potrà sperare in alcun successo: è l'arte con tutti i suoi capricci, tutte le sue incertezze, tutti i suoi errori. E ' il funesto regime dell'avventura. Al contrario, agire malgrado il Luogo, il tempo e le circostanze. o in altre parole, ra,?giungere il proprio scopo nonostante gli ostacoli, è un principio mirabilmente fecondo. E' la dottrina degli uomini forti. La sua applicazione richiede la previdenza, La fermezza perseverante e la conoscenza della guerra[ ... ]. Per avere un obiettivo bisogna saperlo scegliere, cioè soppesare le diverse modalità d'azione, prevedere tutte le eventualità e assicurarsi i mezzi per farvi fronte; confrontare le proprie forze con quelle dell'avversario; calcolare le sue marce e le combinazioni dei suoi movimenti, in modo da evitare scontri con un rapporto di forze sfavorevole. Questo travaglio intellettuale esige la conoscenza completa di tutti i procedimenti, di tutti i mezzi, di tutte le combinazioni praticabili[ ... ]. La scienza sola consente di portare a compimento un disegno ben maturato e definito, e in più fornisce l'energica volontà di tradurlo in pratica con la convinzione di essere nel giusto. La capacità di previsione, che è la qualità più indispensabile dell'uomo di guerra, richiede più ponderazione che immaginazio-

18

ivi, pp. 3-4.


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ne, più sapere che spirito, più calcolo che slancio; è per questo che essa è così poco diffusa in Francia, anche se è la base di qualsiasi azione. L 'approccio artistico, con la sua improvvisazione, con le sue azioni ispirate o impulsive, non s'adegua per nulla alle previsioni, si rifiuta di seguire un cammino tracciato in precedenza. Al contrario, la scienza prima di mettersi in marcia vuol conoscere le sue tappe; essa non si muove in avanti senza una ricognizione, senza un programma ben tracciato. Con il particolare temperamento francese, nulla potrebbe essere più fatale della cultura dell 'arte in campo militare. L'intelligenza, La vivacità, l'iniziativa della razza gallica La porteranno sempre a fare a sufficienza dell'arte. Essa tende a fame troppa, e lungi dall'incoraggiare questa propensione, è indispensabile moderarla. Vi si arriverà proprio assoggettandola alle forme positive della scienza delle armi. ' 9

Non conosciamo nessun autore che abbia negato persino alla condotta delle operazioni di avere degli aspetti artistici, ma il Lewal non si ferma qui. Critica l'Arciduca Carlo, perché riconosce che almeno la tattica è arte, e inoltre (qui ha ragione) "dirigere delle masse e impegnarle in combattimento rientra ugualmente in molti casi, e le due parti non possono essere nettamente separate". E' tra i pochissimi a lodare Btilow, che pure è criticato anche da Jomini per il suo schematismo geometrico; ed è il solo ad attribuire erroneamente a lui (e non a Clausewitz) il merito teorico delle vittorie germaniche. TI giudizio che segue è segno eloquente - e raro del suo estremismo: Biilow, la cui dottrina, poco conosciuta in Francia, ha avuto delle conseguenze così felici per il suo Paese (sic) e così tristi per il nostro, è il primo scrittore militare che abbia tentato di fissare razionalmente i diversi principi e di trasformare il dogma dell'arte militare in una certezza scientifica 1-.. j. Ciò che ha insegnato Biilow è stato tradotto in pratica dai prussiani. Grazie a un Lavoro perseverante, essi sono stati in grado di fare la guerra con successo nel 1866, senza averla mai praticata dopo il /815.w

Prevedibilmente il Lewal - anche in questo seguendo Jomini e divergendo da Clausewitz - indica come base della scienza della guerra la storia, che 19

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ivi, pp. 5-6. ivi, p. 17.


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presentando i trionfi e i rovesci degli eserciti, ci indica altresì le cause che hanno condotto agli uni e agli altri. Studiandole, si vede chiaramente che coloro che hanno prescelto una certa linea d'azione sonorisultati sempre vincitori, mentre coloro che hanno agito diversamente sono stati senza rimedio battuti. Questo si è ripetuto in tutti i tempi, e per tutti i popoli. E' questo che fornisce una certezza assoluta, derivante dall'esperienza, ai d~fferenti principf La cui osservanza è stata coronata da successo e la cui inosservanza ha causato la disfatta. Esistono dunque delle verità assolute, certe, incontestabili nelle cose militari, ed esse sono le fondamenta della scienza. 2 1

Come dire: seguendo con fermezza una certa linea d'azione, anche al variare delle circostanze non si sbaglia mai .... Un ' impostazione, dunque, molto più rigida e assolutistica di quella di Jomini, che nel Précis annacqua alquanto le sue certezze e si accontenta di dire che i principì valgono almeno nella maggior parte dei casi, sono cioè una verità media. Dopo tutto anche Jomini ammette l'influenza della politica sulla guerra, fino a indicare la politica della guerra come una delle cinque parti dell'arte militare. Per il Lewal, invece, il legame tra politica e guerra, elemento dominante negli scritti di Clausewitz, semplicemente non esiste: questa ripartizione [dell'arte militare, fatta da Jomjni - N.d.A.1 è inesatta e incompleta. La politica determina la guerra; essa influisce sulla sua condotta e i suoi risultati, su questo non c'è dubbio, ma essa non riguarda né la guerra, né coloro che la fanno. Senza dubbio i generali in capo devono tener conto di certe condizioni politiche; ma, in linea di principio, questo non è affar Loro. La politica riguarda solo il governo e deve rimanere assolutamente al di fuori delle cose militari. I Capi dell'esercito non sono chiamati a decidere la guerra; devono solo farla una volta che a torto o ragione essa è decisa, e il loro compito è di condurla nel modo migliore rimanendo negli stret.ti limiti della loro speciale professione. La scienza militare non ha dunque alcun rapporto con la politica e non se ne deve occupare. [nostra sottolineatura N.d.a.]. Questa separazione consentirà delle operazioni più lineari e più semplicità nella dottrina. Così facendo la guerra diventa logicamente una sola come la scienza che la governa; i differenti caratteri

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ivi, p. 9.


_ _ _Vcoll,_-_,.,RIFLESS=I DELL' ACCRESCIUTA EFFICACIA Or:L ~·uoco IN FRANCIA E GERMANIA

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che si pretende di darle dal punto di vista politico, non hanno alcuna importanza militare. I principf della guerra sono evidentemente indipendenti dalla natura della guerra o dalle cause che la provocano. Battersi per una ragione o per un'altra è proprio la medesima cosa, e la scienza delle armi non deve affatto preoccuparsi di sapere se l'origine del conflitto è civile o religiosa, se si tratta di una conquista o di un intervento, se lo scopo è semplice o composto, giusto o ingiusto. Lo storico, il moralista, il filosofo, l'uomo di Stato possono esaminare queste questioni, definirle, giudicarle; ma il militare di tutti i gradi deve occuparsi solo della condotta della guerra, e dei modi per condurla a buon fine. 22

Su questa via, non sempre a torto il Lewal critica anche le contraddizioni e gli errori di Jomini, dell'Arciduca Carlo, di Marmont e di Btilow, nell'indicare insieme con le differenze lra slralegia e tattica, delle differenze che per lui non esistono affatto: noi leggiamo nel dizionario Littré alla voce Tattica "L'arte di combattere e di impiegare le tre armi principali, fanteria, cavalleria e artiglieria, nei terreni e posizioni che loro sono favorevoli. La tattica esegue i movimenti che sono comandati dalla strategia". Quest 'ultima frase è la miglior definizione che sia stata data delle due branche della scienza della guerra l- .. 1. Configurata in questo modo, la definizione stabilisce tra le due pani strategica e tattica una differenza molto netta e specifica, che non rompe L'unità della scienza e che non ammette alcuna Linea di demarcazione_ Una delle due parti è la concezione, la direzione; l'altra è l'esecuzione. Saremo ancor più precisi affermando: La strategia è la pane direttrice della guerra, menlre la tattica è la parte esecutiva. L'una abbraccia le combinazioni, l'altra l'applicazione. L'intimo legame tra queste due parti rimane per intero; la seconda è la conseguenza obbligata della prima, ma al tempo stesso la prima è influenzata dalle esigenze della seconda. L'una è il pensiero, l'altra è la realizzazione del pensiero. Quest'ultima subisce senza sosta l'azione dell'altra ed è ad essa completamente subordinata, se è lecito esprimersi così. Non è dunque senza stupore che si legge quanto ha scritto un uomo assai eminente, il generale Dufour, secondo il quale "le regole della strategia possono differire in modo sostanziale da quelle della tattica, fino ad essere il

22

ivi, pp. 23-24.


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loro esatto contrario"_ Questo errore è inesplicabile: l'applicazione di un 'idea, la materializzazione del pensiero, non possono avvenire in contrasto con ciò che lefa nascere[ ... ). Noi diremo, al contrario, che la strategia e la tattica, lungi dall'essere due diverse arti o scienze (come pretende qualcuno), non sono che una sola e identica scienza e che le regole che governano le due parti sono le stesse, poiché la seconda non è altra cosa che la traduzione materiale della prima. 23

Molto ci sarebbe da dire su queste valutazioni, che peraltro non sono molto originali, perché rispecchiano la sostanza delle tesi di molti dottrinari. Dopo aver notato che la strategia non può essere solo pensiero e piano e che la tattica è vincolata alla strategia dallo scopo ma non dalle sue forme, ci preme mettere in evidenza che per il Lewal strategia e tattica concernono ambedue il movimento, quindi per lui (lo stesso, peraltro, si potrebbe dire per Jomini, l'Arciduca Carlo ecc.) non esiste alcuna "arte operativa" intermedia tra le due branche. Un"'arte operativa" non esiste anche per un altro motivo: per il concetto che il Lewal ha della tattica, una delle due parli dell' arte della guerra (l'altra è ovviamente la strategia)_ Un concetto che ha almeno un pregio, quello dell'originalità; a suo giudizio, poiché la strategia, parte direttrice dcH' arte della guerra, deve tener conto di tutti gli elementi (relativi al personale, materiali e morali), essa deve conoscerli e quindi studiarli a fondo, per poterli poi ben dirigere. E poiché occorre studiare le procedure relative all'esecuzione prima di quelle proprie della direzione, ne consegue anche che lo studio della tattica deve precedere quello della strategia [il braccio deve dettare legge alla mente?! - N.d.a.). Nell'insegnamento ha prevalso l'orientamento contrario, e ciò è avvenuto, io credo, a torto. La scienza della guerra va inse,?nata sinteticamente, piuttosto che analiticamente. E' sul/' esecuzione che bisogna insistere, indicando le modalità precise così come le applicazioni pratiche [ ... ]. E' estremamente importante insistere sulla parte esecutiva, sulla scienza del dettaglio, proprio perché in Francia si tende a trascurarla e a preferire le speculazioni a vasto re.,piro, le grandi combinazioni che la nostra immaginazione si compiace di accarezzare.24

23

ivi, pp. 26-27 pp. 31-32.

24 ivi,


VU • RIFLESSI DELL'ACCRESCIUTA EFFICACIA DEL RJOCO IN !'RANCI/\ E GERMANIA

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Da questo singolare approccio deriva un non meno singolare concetto del campo d'azione della tattica, esteso a un punto tale da farla diventare la vera quintessenza dell'arte della guerra, in sé assorbendone tutte le branche: "la tattica non si riassume affatto nel dfaporsi in colonna, a scaglioni, in formazione a quadrato o nello spiegarsi in ordine sparso a guisa dei bersaglieri. Essa comprende tutte le modalità con le quali si mette in esecuzione una concezione militare, quale che essa sia. Marciare, combattere, esplorare, rifornirsi, provvedere alla propria sicurezza ecc. sono distinte parti della tattica". Pertanto il Lewal ne prevede ben sette tipi: - tattica di mobilitazione (sullegetica, dal greco sulleghein, radunare), che consiste nelle operazioni di mobilitazione e radunata; - tattica di combattimento (o machetica, dal greco maché, combattimento): l'impiego sul campo di battaglia delle varie Armi, della fortificazione improvvisata, dei lavori di campagna ecc. e la condotta di piccole operazioni; - tattica di marcia (o proegetica, dal greco proaghein, far avanzare, condurre in avanti): movimenti di piccole o grandi masse di truppe; - tattica di riposo (o stratopedìa, dal greco stratos, esercito e pedon, suolo, oppure strat6pedon, esercito accampato): accampamenti , avamposti; - tattica di approvvigionamento (o pronoetica, dal greco pronoein, provvedere): alimentazione, approvvigionamenti, linee di rifornimento o di tappa (cioè: l'odierna logistica); - tattica di fortificazione (o poliorcetica, dal greco polis, città e erx6s, muro o ramparo): investimento, blocco, osservazione, attacco e difesa delle piazze; - tattica di esplorazione (che l'autore, differenziandosi da Jomini , chiama logistica dal greco logizomai, impiegare dei dati, dei documenti): ricognizioni, servizio d'osservazione, segnali, spionaggio. Una siffatta, insolita ripartizione della tattica in troppe sotto-tattiche ha delle analogie con il tentativo oggi in gran voga di identificare la strategia con l'arte militare e con la stessa politica, in un pot - pourri nel quale essa - proprio come fa la tattica in questo caso - perde ogni specificità, ogni carattere unificante delle sue attività, ogni confine. Eppure, con una siffatta accolta di disparati elementi il Lewal ha la pretesa di semplificare l'arte della guerra! Per giunta, c'è parecchio da osservare sulle varie "tattiche". Poco da dire su un concetto di logistica gravemente peggiorativo rispetto a quello di Jomini e ancor più rispetto a quelli del Marselli o del Ricci, che ha il solo merito di no n identificarla con il calcolo matematico o la statistica. Ri-


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ducendo la logistica stessa ad attività del tutto specifiche di ricognizione, spionaggio ecc. non la si identifica più con il servizio di Stato Maggiore e/o con l'organizzazione del movimento e stazionamento delle truppe, che non potevano rifiutare di occuparsi anche di trasporti e Servizi logistici, aprendo così la strada all'attuale concetto di logistica. 25 Ancor meno accettabile ci sembra la pretesa di separare in maniera netta marce, tattica di combattimento e manovre. Le prime per l'autore formano una tattica speciale (per rifornire o combattere, non si marcia?); le seconde - diversamente da quanto viene detto nelle considerazioni che seguono - non fanno nemmeno parte della tattica di combattimento, visto che si ha la cattiva abitudine di distinguere le marce in strategiche, tattiche, marce - manovre, marce di fianco ecc., senza poter dire dove finisce l'una e dove comincia l 'altra. Le une sono studiate con la strategia, le altre con la tattica, e in sintesi la mescolanza, così come la suddivisione della medesima azione, porta a un 'inevitabile confusione. Il nostro metodo, al contrario, considera la marcia come una specialità della tattica, e ne ammette un solo tipo: o si marcia o si manovra. Se si manovra, si cade inevitabilmente nella tauica di combattimento !della quale, dunque, fa parte la manovra - N.d.a.]. In questo modo la differenza tra una marcia e una manovra è ben configurata, mentre essa non è chiara, quando bisogna distinguere tra una marcia vicino al nemico o lontano, una marcia verso l'avanti o di fianco, ecc ... 26

Viene da chiedersi: non solo la tattica di combattimento, ma anche quella di mobilitazione, di approvvigionamento, delle fortificazioni, di esplorazione, non comportano forse tutte delle marce, dei movimenti ? anche se una marcia non necessariamente coincide con una manovra, quest' ultima può forse prescindere dalle marce, dai movimenti rapidi? le marce non sono forse il modo di realizzare le manovre strategiche e anche tattiche? Vi può essere una reale dicotomia tra le due azioni? Evidentemente no. Tant'è vero che quando parla di tattica di combattimento il Lewal non può evitare di parlare di movimenti, benché su questo argomento sostenga tesi che lasciano perplessi ancor più delle precedenti: - la tattica è indipendente dal terreno;

25 Per una più dettagliata visione delle origini e dell 'evoluzione del conceuo di logistica/amministrazione si rimanda a l'erruccio Botti, la logistica dell'Esercito Italiano - Introduzione al Voi. I, Roma, SME- Uf. Storico 1991. 26 Lewal, Op. cit. , p. 35.


VII - Rl~LESSI DELL' AC'CRESCIUTA EFFICACIA DEL FUOCO IN FRANCIA E GERMANIA

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- i principi della tattica sono unici per tutte le Armi. Non esiste una tattica dell'artiglieria, della fanteria o della cavalleria; - la tattica e le manovre sono due cose assai diverse. A suo giudizio il terreno è un elemento passivo variabile all'infinito; perciò se la tattica dovesse adattarsi a ciascun tipo di terreno, anch'essa dovrebbe variare all'infinito. Esso acquista valore solo per il modo con cui le truppe lo sfruttano e vi si dispongono; se la tattica dipendesse dal terreno, due reggimenti vicini, o anche uno stesso reggimento, dovrebbero avere tattiche diverse a seconda del tipo di terreno, e anche uno stesso reggimento dovrebbe cambiare tattica a seconda del terreno che incontra. Invece con i grandi eserciti bisogna combattere in qualsiasi tipo di terreno, manovrare il meno possibile sotto il fuoco Idunque anche in campo tattico si manovra! - N.d.A.], e di conseguenza conservare la stessa formazione quali che siano i tipi di terreno e gli ostacoli che s'incontrano [ma perché? - N.d.A.]. Non avveniva lo stesso in passato, questo è vero [ ... ]. O!?!?i, data La grande estensione delle fronti non vi è più terreno favorevole per una battaglia [ma chi l'ha detto'! - N.d_a_]; se è favore vole in certi punti, è sfavorevole in altri. Bisogna combattere in tutti i tipi di terreno. Molti esempi dimostrano che sullo stesso terreno sono state applicate con successo tattiche differenti !questo contrasta con quanto l' autore ha affermato in precedenza a proposito del successo sempre garantito da una stessa linea d'azione; in secondo luogo, la tattica deve tener conto anche della situazione propria e del nemico (mai uguale alla precedente), né è detto che la soluzione che dà il successo debba essere una sola e/o che i comandanti la debbano pensare sempre allo stesso modo - N.d.a.J. 27

Riguardo all'adozione degli stessi principi tattici da parte di tutte le Armi, il Lewal ha ragione quando osserva che una tattica vincente può derivare solo dalla combinazione degli sforzi delle varie Armi, dalla loro cooperazione: ma perché escludere, per ciascuna, le indispensabili modalità e procedure tattiche specifiche? Tanto più che i principi comuni da lui indicati sono estremamente generici, anzi banali e non rispecchiano affatto la realtà del combattimento di ciascuna Arma, come ad esempio quello che "le regole [cosa diversa dai principi - N.d.a.l della carica sono le stes-

-n

ivi, pp. 110- 111.


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IL PENSlllRO MILITARE E NAVALE ITALIANO· VOL. IU (1 870-1915) · TOMO I

se tanto per la fanteria che per la cavalleria". Senz'altro ovvia è anche l'affermazione che "un principio essenziale della tattica è la buona organizzazione della fanteria", e che "poiché l'artiglieria e la cavalleria non possono combattere isolatamente, devono subordinare la loro azione a quella della fanteria". Così come sono generiche e prive di effettivo valore pratico le affermazioni seguenti: la lotta, quale che essa sia, può essere condotta in due modi: con il getto e con l'assalto. Il primo metodo esi,?e formazioni sottili, il secondo delle fonnazioni più compatte [non è detto - N.d.A.]. Inoltre la celerità nelle manovre [che dunque fanno parte della tattica - N.d.a.], la precisione nel tiro, l'impetuosità nell'assalto, l'influenza del numero, la successione degli sforzi 1- .. l, tutto questo vale oggi come ai tempi di Ciro. Sono necessità assolute alle quali non ci si può sottrarre tutte le volte che si affronta la lotta, e di conseguenza sono dei principi certi [ma questi non sono principi: sono piuttosto requisiti generici delle forze, indici di efficienza - N.d.A.]. Fare il più male possibile al nemico, garantendosi il più possibile dal riceve me, è un assioma. Proteggersi con una riga di scudi serrati o con una trincea - rifugio sono differenti applicazioni d'un medesimo principio Lma fare il più male possibile al nemico impedendo che lo faccia a noi, è un vero principio o una caratteristica intrinseca della guerra? ci può essere qualcosa di diverso per chi combatte una guerra? - N.d.A.).28

Per quanto attiene alla pretesa separazione delle manovre dalla tattica, già si è visto che il Lewal trattando di tattica non può fare a meno di comprendervi anche le manovre. Si deve aggiungere che su questo argomento il Lewal è piuttosto reticente e che l'unica probabile giustificazione di quest'altro anomalo approccio è che egli sembra attribuire al termine "manovre" il significato limitativo di "esercitazioni di pace in piazza d 'armi", altrimenti non si spiegherebbero queste sue parole: io mi occuperò, beninteso, solo delle formazioni tattiche obbligate per le diverse fasi del combattimento, e non mi preoccuperò in questo studio del modo di ottenere queste formazioni o di passare dall'una all'altra [ma in guerra il modo di ottenere una formazione è importante quanto il vantaggio tattico che essa assicura, perché ne condiziona il rendi-

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ivi, p. 120.


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mento e ne determina l'effettiva possibilità e convenienza di adottarla N.d.a.l. Questa seconda parte costituisce la manovra, e ha solo un debole Legame con La prima [ma, allora, un legame sia pur debole esiste! - N.d.A.]. La tattica richiede la conoscenza della guerra. Le manovre sono puramente meccaniche [ma rispondono, a uno scopo ben preciso, che anch'esso richiede la conoscenza della guerra in chi lo indica N.d.a.]. Si può conoscere perfettamente le manovre, e ignorare completamente la guerra; essere molto brillanti sulla piazza d 'armi, ed essere molto mediocri sul campo di battaglia [questo è vero: ma si manovra anche sul campo di battaglia, come riconosce lo stesso autore - N.d.a.], La differenza è capitale [ma di quale differenza si tratta? se l'autore si riferisce alla differenza tra le manovre di piazza d' armi e quella sul campo di battaglia, essa non dovrebbe esistere o essere ridotta al minimo; se si riferisce alla separazione tra tattica e manovre, cioè tra dispositivo e modo di ottenerlo, essa non esiste - N.d.a.].29

In chi deve solo eseguire, cioè ai livelli più bassi, è certamente vero che la manovra è un atto meccanico; ma questo non autorizza a separarla dalla tattica, o peggio ancora, a separare le formazioni dalle modalità e dai movimenti per adottarle: con quale scopo, con quale vantaggio? oltre tutto, ai nuovi livelli sono meccanici anche tutti gli atti tattici ... Ma ciò non toglie che gli atti tattici e le manovre sia in campo tattico che in campo strategico, devono avere un preciso scopo, la cui rispondenza è virtù di comando ... Eppure queste tesi sono sostenute proprio dal Lewal, secondo il quale non devono esistere separazioni tra strategia e tattica. Bisogna comunque guardarsi bene dal liquidare le sue tesi come qualcosa che rasenta l'assurdo, essendo chiari - e da tutti ammessi anche allora - concetti basilari come la dipendenza della strategfa dalla politica e ancor meglio dalle condizioni politico-sociali, la piena appartenenza delle manovre alla tattica, la necessità che la tattica si adatti (anche se non solo) al terreno (questo, senza voler tener conto della sua dipendenza da fattori politico-sociali dimostrata dalle guerre della Rivoluzione Francese, e messa in luce dal Marselli). Peraltro, tra le considerazioni del Lewal se ne trovano anche parecchie di acute e condivisibili, specie ma non solo su Jomini, l'Arciduca Carlo e Marmont. Inoltre il principio anticlausewitziano dell'indipendenza della condotta della guerra della politica, e addirittura della subordinazione della politica alla guerra stessa

"' ivi, p. 13.


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(Ludendorff) è stato quotidianamente applicato dagli Stati Maggiori dei principali eserciti nella prima guerra mondiale (con risultati certamente non brillanti, viste le stragi). Sempre di fatto, nella stessa guerra è stato applicato l'altro principio - così osannato dal Lewal che lo chiama "doctrine des gens forts" - di agire malgrado le circostanze, il che equivale a dire: attaccare malgrado la mitragliatrice, la trincea ecc. e - sul fronte italiano - anche malgrado il terreno e la deficienza di artiglierie. Un principio che ha causato delle vere stragi, portando la tattica e la strategia a ottenere il minimo risultato con il massimo sforzo, cioè l'antitesi storica dell'arte o scienza militare, che ha voluto anzitutto razionalizzare la guerra: "doctrine des gens fort:/'? Terzo fatto: non sarà mai abbastanza sottolineato che il Lewal ha ragione quando afferma che "i principi della guerra sono evidentemente indipendenti dalla natura della guerra o dalle cause che la provocano"30• Come abbiamo già ricordato parlando del Blanch (Voi. I, Cap. Vll, pp. 410-41 I), questo squalifica i numerosi autori di ieri e di oggi che, come il Mordacq, parlano di "e voluzione" dell'arte del1a guerra, e quindi anche coloro (altrettanto numerosi) che parlano di "rivoluzione", di "decadenza" o di " involuzione". Se tutto si riduce - come riconosce anche Napoleone - ad un'applicazione sempre variabile secondo le circostanze del momento di principi immutabili, l'uso dei predetti vocaboli è improprio e contraddittorio; come più volte detto, meglio parlare di mutazioni, tenendo anche presente che non si può sostenere contemporaneamente l'influsso della politica sulla guerra e l'esistenza di principi immutabili, tipici della sola guerra o strategia (come fanno, oltre a Jomini, molti autori di ieri e di oggi). In questo senso il Lewal è coerente, visto che è l'unico a sostenere l'indipendenza della guerra dalla politica; ma al tempo stesso anch 'egli cade in patente contraddizione. Nell 'applicazione dei principi alla realtà contingente si può forse ignorare - come egli sostiene - il terreno o altre circostanze? la teoria, la scienza devono tener conto della realtà, oppure costringerla ad aderire ai loro postulati-guida, il che sarebbe palesemente antiscientifico, pur avendo la vernice della vera, inossidabHe scienza? Dopo di questo, si resta francamente interdetti constatando che il Lewal - come del resto ha fatto anche Jomini - contradditoriamente ammette anche l'importanza delle forze morali, benché con ogni evidenza non rientrino nel suo concetto assoluto di scienza:

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ivi, p. 24.


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è tuttavia incontestabile che, se il valore non è più la qualità che predomina in guerra, se il meccanismo ha prima uguagliato e poi sorpassato la bravura individuale, cionondimeno bisogna tener conto nella giusta misura della parte morale che si mantiene al di fu.ori dei dati della scienza pura [ma allora, oltre alla scienza, conla qualcosa d' altro! - N.d.A.). 31

Per altro verso, un approccio così schematico e assolutista come quello del Lewal farebbe pensare a una sua consolidata, inossidabile predilezione per le formazioni tattiche dense e serrate tipo quelle del De Cristoforis (Vol. II, cap. IV): eppure ciò che dice su questo argomento è sorprendentemente centrato, fino a farne la parte più pregevole e meno caduca della sua opera, inducendo anzi a perdonargli volentieri tutto il resto. A quattro anni di distanza dalla guerra 1870-1871, infatti, con argomentazioni esemplari egli sostiene ciò che a molti apparirà chiaro solo a fine 1914: che cioè la crescente efficacia del fuoco rende inevitabile adottare l'ordine sparso in attacco e trincerarsi in difesa. Come dimostrano le ultime guerre, 1'80% delle ferite è dovuto al fucile, il 18% all'artiglieria e solo il 2% alla baionella. Di conseguenza bisogna rifiutare il culto della baionetta e prendere allo che le nuove armi a tiro rapido [si riferisce, forse, anche alle mitragliatrici N.d.a.] condannano pressoché per intero l'impiego dell'arma bianca. L'intensità del fuoco e la portata delle armi vi si oppongono, se non sempre, almeno nella maggior parte dei casi. Questa forma d'azione è ormai praticabile solo dopo una preparazione di fuoco energica e efficace dell'attacco.

Su questo argomento che sembra gli stia mollo a cuore, il Lewal si contraddice vistosamente. Dopo aver sostenuto che le marce non hanno nulla a che fare con le manovre e averle separate dalla tattica di combattimento, scrive che "le condizioni essenziali del combattimento sono per prima cosa La rapidità e l'agevolezza delle marce, e in secondo luogo la possibilità di utilizzare tutte Le armi in avanti. L'ideale è dunque la formazione americana su una sola riga: fianco a fianco". Depreca perciò che l'ordine sparso - adottato solo per forza di cose e per carenza di addestramento nei primi anni della Rivoluzione Francese - sia stato ben presto abbandonato, fino ad abusare (come è avvenuto a Waterloo da parle delle

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ivi, p. 11.


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truppe napoleoniche) delle formazioni in vulnerabili colonne profonde. Fino al 1870 dell'ordine sparso si sono considerati solo gli inconvenienti e non i pregi; è sempre prevalsa la preoccupazione di tenere le truppe alla mano: una specie di repulsione istintiva sembra prevalere in Francia per l'impiego dei tirailleurs, per quanto sia una forma tattica che si adatta così bene all'indole della nazione. La carica alla baionetta, arma ritenuta francese per eccellenza, è stata desiderio di tutti. Questo errore ha trattenuto gli spiriti nell'ordine serrato e nella formazione in colonna, e li ha allontanati dall'ordine sparso e dal combattere in tirailleurs. Molti ufficiali hanno creduto e credono ancora che l'ordine sparso, le piccole operazioni, l'azione individuale portino all'indipendenza, all'indisciplina e rovinino le truppe. Invece di cercare il rimedio informazioni meglio studiate, in una disciplina più energica, in un'azione di comando più intensa dei Quadri, si è preferito sopprimere l'iniziativa individuale. Invece di utilizzare le qualità tipiche del soldato francese con formazioni in tirailleurs, sono state soffocate nella morsa della formazione serrata. Questo è stato un errore immenso, la cui origine si trova nella mancanza d'istruzione e di capacità dei Quadri. Chiunque, con un po' di spirito, può condurre un battaglione in colonfUl e compiere una carica alla baionetta. E' molto più difficile dirigere delle linee di tiratori, condurre operazioni in ordine sparso. Nel primo caso si procede diritti, si rimane in gruppo, nulla è più semplice. Nel secondo caso, occorrono varie combinazioni, che solo degli ufficiali istruiti possono realizzare. 32

Per il Lewal l'ordine sparso non è più una scelta ma una necessità, visto che l' ordine serrato non è più ammissibile. Benché questo modo di combattere sia nato in Francia, nella sua applicazione l'esercito tedesco ha superato quello francese, che solo dopo la disfatta del 1870-1871 ha potuto accorgersi dei suoi errori, peraltro non ancora da tutti riconosciuti. Non si tratta di una questione di disciplina: la disciplina non dipende dalle formazioni ma "si trova tutta intera nell'educazione militare, nella bontà dei quadri, nelle istituzioni militan·". 33 In totale contrasto con quanto da lui prima detto sulla tattica che non può dipendere dal terreno, per il Lewal

32

ivi, p. I08. I 1iraille11rs francesi erano unità di fanteria leggera eqivalenti ai nostri hcrsaglieri. L'espressione "en tirailleurs" equivale alla nostra - abbastanza usata al tempo - "in bersaglieri", che sib'Tlifica più o meno "formazione in una sola , rada catena di tiratori con fuoco libero". " ivi, p. I08.


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anche quest'ultimo va sfruttato a fondo: "l'utilizzazione del terreno, più che mai importante con le armi a tiro rapido, richiede un'estrema mobilità, una completa flessibilità delle formazioni, di guisa che si possa approfittare dei minimi ostacoli. Le formazioni compatte in linea o in piccole colonne sono troppo rigide per piegarsi a queste esigenze di dejìlamento minuto, che esigono assolutamente l'azione individuale". Anche la trincea, la fortificazione campale è ormai una necessità: "se è vero, come stiamo dimostrando, che il fuoco è l'azione capitale ed essenziale del combattimento, se ne può trarre questa deduzione obbligata, che il dispositivo tattico più razionale consiste nell'aumentare gli effetti del nostro fuoco sul nemico, al tempo stesso sottraendosi il più possibile agli effetti del suo fuoco". 34 Peraltro, i] Lewal inquadra la necessità della fortificazione campale solo nell'azione offensiva: la guerra vera e propria di trincea, statica e di logoramento rimane ancora lontana dalla sua prospettiva. Ogni movimento in avanti - egli afferma - provoca inevitabilmente un ritorno offensivo del nemico, quindi in linea di stretta logica è necessario organizzare immediatamente la resistenza, creando dei ripari se non ne esistono. Le obiezioni in proposito, secondo le quali la fortificazione improvvisata nuoce allo spirito offensivo delle truppe, le affatica, provoca perdite di tempo e richiede un oneroso trasporto di attrezzi e materiali al seguito delle truppe, per lui non valgono. Proprio coloro che sostengono queste tesi - egli osserva - non cessano di raccomandare il pronto e razionale sfruttamento di tutti gli ostacoli natural i: se è così, perché dovrebbe essere sconsigliabile solo l'utilizzazione di ostacoli artificiali? Bisogna anche tener conto che lo scavo di trincee richiede poco tempo (30-40 minuti) e non affatica affatto il personale. È vero che la costruzione di ripari non deve indurre a sospendere la marcia in avanti nel combattimento, ma quando si è costretti dal nemico a dei tempi d'arresto, perché non approfi ttame per migliorare la situazione? Anche il problema del trasporto degli attrezzi può essere risolto: in combattimento li si farà portare al soldato alleggerendo il suo carico in altro modo, mentre durante le marce potranno essere trasportati da carri leggeri all'immediato seguito delle truppe, che le raggiungeranno prontamente quando essi assumeranno l'ordine di combattimento. Poiché nessuno è profeta, non si può pretendere che il Lewal dica di più all'epoca di queste riflessioni: tuttavia si può dire che getta valide ba-

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ivi, p. 24 .


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si - purtroppo in seguito perdute di vista - per evitare le clamorose illusioni offensiviste del 1914-1915, alle quali nonostante tutto anch'egli dà un notevole contributo. Nemmeno nei suoi scritti, infatti, trova posto un qualche approfondimento dell'azione difensiva, e questo avviene anche quando parla dell'importanza della fortificazione campale, anch'essa finalizzata all'azione offensiva; tale tipo d'azione per lui è la conditio sine qua non per ottenere dei risultati, per imporre la propria volontà al nemico. In definitiva l'approccio del Lewal non va al di là di un richiamo alle tradizioni napoleoniche, delle quali tende a schematizzare i risultati, sia pur tenendo conto delle nuove armi e della preminenza del fuoco in campo tattico. li Bastico lo presenta perciò come principale esponente della Jeune École francese, che subito dopo l'amara esperienza del 1870-1871 (formazioni d'attacco troppo dense, che erano un facile bersaglio per il ben organizzato fuoco prussiano; generali troppo prudenti e privi di carattere come Bazaine) proclama la superiorità del fuoco sull'urto (cioè sulla baionetta), sostiene l'estensione generale dcll 'ordine sparso e indica come modello di leadership "generali coraggiosi, esperti e pratici della guerra; più audaci che prudenti; più ricchi di valore che di sapere" (Bastico). Sempre secondo il Bastico, gli appartenenti all'avanguardia della Jeune École non esitarono a proclamare la necessità di passare dai fuochi isolati ai fuochi a salve e di intensificare questi ultimi in maniera tale, da creare sul campo di battaglia e sulla fronte delle posizioni occupale una wna micidiale entro La quale fosse interdetto ogni movimento[ ... ]. Ne venne di conseguenza che non si esitò ad affermare la necessità di una tattica quasi primitiva, che facendo astrazione da ogni qualsiasi nuova forma zione o nuovo procedimento di attacco, si limitasse a saggiamente utilizzare le proprietà balistiche delle armi perfezionate e a risparmiare per quanto possibile la vita del soldato... 35

La nuova regolamentazione tattica francese (Regolamento di esercizi per la fanteria in data 12 giugno 1875) recepisce questa nuova impostazione, accantonando in nome della preminenza del fuoco la tattica dell'urto e della baionetta, da sempre ritenuta la più adatta ali' élan francese: "l'offensiva si traduceva in realtà nel bombardamento delle posizioni nemiche [da parte dell'artiglierial; e se in qualche caso l 'attacco doveva apparire ancora necessario, esso si sarebbe prodotto non più come manife-

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Bastico, Op. cit., Voi. li p. 78.


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stazione di forza e di volontà, ma come complemento secondario degli effetti già ottenuti con i/fuoco" (Bastico). Con le teorie del Lewal e il Regolamento 1875 la regolamentazione tattica francese comincia ad occupare il centro della scena a scapito della stessa strategia, che ne viene dominata fino al 1914. Essa assume un carattere essenzialmente materialista, perché privilegia il fuoco e fa dell'uomo essenzialmente un portatore di fucile, dimensionando le modalità del combattimento esclusivamente sugli effetti del fuoco sia per la difesa che per l'attacco (che però intende decisamente aver ragione della difesa con opportuna utilizzazione del fuoco stesso). Nella concezione del Lewal i fattori spirituali contano poco, quelli materiali e il fuoco molto di più. Le sue idee non vanno sottovalutate, perché paradossalmente ne fanno un precursore della guerra metodica, statica, di artiglieria, di materiali e masse armate combattuta nel 1914-1918. Anche allora si pensava che la guerra dovesse essere migliore e diversa rispetto a quella del Lewal: sta di fatto che non lo è stata, ed ha finito col rassomigliare di più alla sua, che a quella di Clausewitz.

Il radicale spiritualismo del colonnello Ardant du Picq, contrapposto alle idee del Lewal (1880) Poiché ogni azione provoca una reazione uguale e contraria, l'opposizione alle idee del Lewal non si fa attendere e ha come riferimento principale gli scritti del colonnello Ardant du Picq (caduto nella guerra 18701871), significativamente pubblicati postumi nel 1880.36 Il motto dell' Ardant du Picq, "meditiamo Gedeone" (che con soli 300 valorosi ha attaccato i molto più numerosi medianiti, disperdendoli), riassume una teoria essenzialmente spiritualista, agli esatti antipodi di quella del Lewal perché mette al centro del combattimento 1' uomo e non il numero, le armi o il fuoco. Secondo il Bastico, per l' Ardant du Picq il combattimento è ilflne, la ragione di essere la suprema manifestazione degli eserciti; lutto ciò che ad esso non conduce, è cosa superflua se non dannosa f ... l. Di tutti i mezzi di combattimento l 'uomo è istrumen-

36 Cfr. Ardant du Picq, Études .rnr le cnmhat. Cmnhat antique et cnmhat moderne, Paris, Chapelot-Hachette 1880 (2• Ed. 1904; J• Ed. 1914) e inoltre Gustavo Reisoli, Ardant d11 Picq, Torino, Scarrone 1929.


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to per eccellenza, anzi il solo che sia indispensabile; l'uomo però possiede vizi e virtù, qualità positive e qualità negative. Elevare in lui queste ultime, sfruttarle insieme con le sue virtù, ecco l'arte sublime del condurre la guerra. La guerra, in sostanza, è un gioco audace di forze rtUJrali, a cui quelle materiali possono offrire, a seconda dei tempi, un contributo maggiore o minore, ma che comunque non possono influire, se non in misura infinitamente piccola, sull'esplicarsi delle leggi fondamentali di ordine psicolo1tico su cui la guerra stessa riposa.

Lo studio della guerra antica, dove l' uomo ha il ruolo preminente, per l' Ardant du Picq prepara a valutare in modo più equilibrato l'effettivo apporto delle nuove armi e dei nuovi mezzi, che hanno assunto un peso indubbiamente importante, se non determinante. Egli attacca la teoria del numero; per lui la tattica non è una faccenda di formazioni e di fuoco, ma "l'arte, la scienza di far combattere gli uomini col massimo di energia, che solo può dare un'organizzazione che comunque contrasti la paura". Se è questo lo scopo della tattica, sia l'azione individuale, nella quale il soldato è più facile preda della paura, sia l'ordine sparso e le formazioni in genere perdono smalto, fino a far affermare ali' Ardant du Picq che tutto nel combattimento e in particolare nell'attacco deve essere ordine e disciplina, e che "la colonna vale assai di più per L'attacco che non l'ordine sparso" . Ad ogni modo la tattica deve essere aderente al carattere nazionale, non deve prescrivere né di sparpagliare eccessivamente le truppe né di tenerle troppo ammassate, mentre il fuoco deve essere coordinato con il movimento e agevolarlo, ma non sostituirlo né ostacolarlo. Anche il fuoco e lo sfruttamento del terreno, fondamentali per il Lewal, perdono dunque d'importanza. Per Ardant du Picq ciò che conta è solo il motore morale dal quale discende la "fuga in avanti'', così da lui stesso motivata: l'urto è una parola [ ... ] nessun nemico vi attende se siete risoluti [ ... ] mai si trovano difronte due uguali risoluzioni. In sostanza non vi è urto della fanteria contro La fanteria, non vi è impulsione.fisica data dalla forza della massa. Non vi è che un'impulsione morale[ ... ]. Noi siamo, è vero, nudi contro il fuoco, contro il piombo, ma ciononostante bisogna ugualmente avanzare francamente, risolutamente, perché in ogni caso bisogna finire La lotta, e per finirla biso1tna portarsi in avanti, bisogna cercare il nemico.31

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Cfr. anche Bastim, Op. cit., Voi. 11 pp. 83-84.


VII - RIRF.SSI DEI .I .' ACCRF.SCIU1:.\ EFFICACIA UJ:::L flJOCU lN ~ltANC.:lA I:: GERMANIA

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Siffatte idee, che al tempo hanno grande successo in Francia, collocano le teorie dell' Ardant du Picq al polo opposto del Lewal e del Regolamento 1875. Esse sono prevedibilmente recepite dal nuovo Regolamento francese di esercizi e manovra per la fanteria del 1884 e dalJ'lstruzione per il combattimento del 1887, che a loro volta configurano una tattica basata su principì opposti a quelli del 1875. La nuova regolamentazione intende sfruttare il tradizionale spirito offensivo francese; il fuoco e il terreno, pur conservando in parte la loro importanza, cedono nocivamente il passo come fattore predominante alla forza morale, alla "fuga in avanti" senza troppo preoccuparsi delle perdite. All'ordine sparso torna a sostituirsi, come nel 1870-1871, la linea ben serrata e densa, che si ritiene capace di dare all'assalto finale alla baionetta (che torna in auge e diventa anzi la fase più importante del combattimento) la massima potenza: "l'arte di utilizzare il terreno non è che un mezzo; il vero scopo del combattimento è quello di recar danno al nemico, di vincere ad ogni costo le contrarie resistenze [... ]. Una fanteria salda ed energicamente comandata può avanzare sotto il fuoco più violento anche contro delle trincee ben difese e impadronirsene. In terreno scoperto il cacciatore non prende posizione se non ne riceve l'ordine ... " . Con un siffatto, ampio credito aperto ai valori morali, non dovrebbero essere necessarie le minute prescrizioni di altri tempi; invece anche il nuovo regolamento, già sbilanciato sui fattori morali, offre ulteriormente terreno fertile alle critiche degli avversari con una serie di prescrizioni troppo minute e di formazioni troppo numerose e complicate, che generano schematismi incompatibili con la realtà del combattimento e scavano un solco tra tattica scritta e tattica reale. Questi inconvenienti non impediscono ai successivi regolamenti francesi (1889; 1894; 1901) di mantenere un orientamento spiccatamente offensivo e la predilezione per l'urto alla baionetta. Solo il nuovo regolamento del 1904, che recepisce gli insegnamenti della guerra anglo-boera, sembra annacquare i concetti fondamentali di quelli che l'hanno preceduto, dando maggior rilievo al fuoco e alla preparazione dell'attacco e affermando, tra l'altro, che "solo il movimento in avanti è decisivo e irresistibile; ma esso è tale solo quando il fuoco efficace ed intenso gli ha aperto la via". Frase salomonica fino a un certo punto, perché l'unica prospettiva rimane solo e sempre quella dell 'attacco. Ma perché dovrebbe essere unicamente il nemico a difendersi, con le truppe amiche le uniche ad attaccare?


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IL PENSIERO MIUTI\RP. E NI\VAI.P. ITALJANO - VOL. lll (1870-1915 ) -TOMO I

Da Foch a Grandmaison e Montaigne (1900-1914): la definitiva vittoria dell'estremismo offensivo Il periodo che va dalla guerra anglo - boera ( I 899-1902) ali' inizio della prima guerra mondiale è di gran lunga il più interessante e il più fertile di idee anche sotto il profilo strategico. Vi giunge a maturazione, peraltro in modo non equilibrato, un dibattito iniziato subito dopo la guerra franco - prussiana; da tale guerra, e anche dall'epopea napoleonica, gli autori francesi pretendono di trarre gli insegnamenti fondamentali, in tal modo trascurando assai più dei tedeschi il peso dei nuovi fattori in gioco. Questa tendenza si riscontra prima di tutto nell'autore più importante del periodo: il già citato tenente colonnello d'artiglieria di Stato Maggiore Ferdinand Foch, che un anno dopo la fine della guerra anglo - boera getta, per così dire, un sasso nello stagno con il suo libro Des principes de la guerre Conferencesfaites à l'École Supérieure de guerre [nel 19001, pubblicato per la prima volta nel 1903, riedito nel 1906, nel 1911, nel 19 l 7, nel I 91 8 e nell'immediato dopoguerra, con una settima e ultima edizione comparsa nel 1921 senza varianti, quindi senza affrontare (non si sa perché) i riflessi della prima guerra mondiale, tanto più interessanti visto che l'autore è il suo più autorevole protagonista nel campo dei vincitori. 38 L'opera del Foch ha due caratteri fondamentali, che ne riassumono i limiti e insieme i pregi. Si richiama soprattutto all'esperienza napoleonica e vuol sistematizzarne e attualizzarne gli insegnamenti, in tal modo avvicinandosi a Jomini e ai dottrinari. In secondo luogo rispecchia benissimo, magari senza rendersene pienamente conto, i1 razionalismo francese e, al tempo stesso quella che potremmo definire l'opinione media (francese, ma anche italiana) sui problemi della guerra, della strategia e della tattica del suo tempo. Come Marselli è un anticlausewitziano moderato e inconsapevole, pur citando frequentemente - c sempre con lode - Clausewitz; cerca anch'egli il giusto mezzo tra lo spiritualismo del generale prussiano e di Ardant du Picq, lo scientismo esasperato del Lewal e il materialismo di altri; adotta un approccio sempre razionale e flessibile ai problemi. Lascia insomma la porta aperta - e non chiusa, come fa spesso il Lewal - a nuovi sviluppi e nuove concezioni della guerra, anche se - come si deduce dallo stesso titolo - diversamente da Clausewitz crede in principi immutabili e

"'Ferdinand Foch, Des principes de la guerre - Conferences faites à l'École Superieure de guerre nel 1900], Paris, Berger-Lévrault 1903 (molte successive edizioni anche dopo la I• guerra mondiale).

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riduce in modo assai poco originale la guerra e la strategia alla loro applicazione. Questa impostazione, che ha oltre tutto chiare quanto inevitabili finalità didattiche, si deduce anche dalla prefazione alla 5a edizione del settembre 1918. Dopo aver brevemente descritto la nuova fisionomia della guerra ancora in corso dando particolare rilievo alla forza acquistata dalle moderne organizzazioni difensive, all' aviazione e alla produzione industriale, il Foch si dichiara come sempre convinto che malgrado questo, le verità fondamentali che reggono questa arte restano immutabili, allo stesso modo che i principi della meccanica reggono come sempre l 'architettura, sia che si tratti di costruzioni in legno, in ferro, in pietra o in cemento armalo [... ].E ' dunque sempre necessario stabilire i principi della guerra. Malgrado questo, anzi proprio per questo, i comandanti devono prepararsi ad affrontare, in un orizwnte sempre più vasto, delle situazùmi sempre più variabili. E ' ancora vero che solo sviluppando per mezzo dello studio la loro capacità di analisi, di sintesi e di conclusione con lo studio di casi reali presi dalla storia per evitare deviazioni del pensiero, si potrà far loro acquistare la capacità di decidere bene e rapidamente, al tempo stesso dando loro, con la convinzione del sapere, la fiducia in sé stessi necessaria per adattare queste decisioni sul terreno dell'azione. 39

Dopo questo più o meno consapevole ma chiaro omaggio a Jomini che si manifesta anche con il frusto concetto di storia come fonte di principi immutabili - il Foch citando esplicitamente Io stesso Jomini nega che la guerra possa essere una scienza esatta; è però (come ammette lo stesso Jomini nel Précis) "un dramma spaventoso e appassionato". Ma negare che la guerra possa essere una scienza esatta non significa, a suo parere, negare anche che possa esistere una teoria dell'arte della guerra. E qui citando il generale russo Dragomirov richfama gli scopi assai ridotti che dovrebbe avere la stessa teoria, peraltro analoghi a quelli indicati da Jomini: non ha la pretesa di formare dei Napoleoni, ma fornisce la conoscenza dei caratteri del terreno e delle truppe. Indica dei modelli, dei capolavori realizzati nel campo della guerra e per questo spiana la via a co-

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Foch, Op. cit., (7' Ed. 1921 ), p. IX.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO · VOL. llJ ( 1870-1915) • TOMO I

Loro che la natura ha dotato di capacità militari [ ... l. Non consente ali 'uomo di credere che sa tutto su una cosa, ma almeno che ne sa una parte l-- .J. Per potere bisogna sapere, questo è incontestabile, perché, come dice Willisen, "vi è parecchia distanza tra sapere e potere, però il salto non si fa partendo dall'ignoranza, ma al contrario dal sapere". Se la teoria ha preso direzioni sbagliate, ciò è avvenuto perché troppo pochi teorici hanno visto veramente la guerra ... 40

La strada scelta da Foch per pervenire a queste conclusioni non è certo quella del Lewal. Afferma, a chiare note, che "un insegnamento positivista di una teoria scientifica che non consideri l 'elemento vivente della guerra sarebbe una mostruosità". Per creare una teoria non si può dunque partire da dati positivi, che sarebbero incompleti; d'altra parte nemmeno i fattori di carattere morale e spirituale - che sono variabili e indeterminati si prestano a questo scopo. Rifiutando l'una e l'altra via, e rinunciando a costruire una teoria completa solo con il travaglio dello spirito o con il semplice ragionamento, occorre invece crearla partendo dai falli , cioè con l'analisi minuta e la discussione approfondita degli eventi della storia (metodo - noi osserviamo - tutt'altro che nuovo, e tipicamente jominiano). Citando Napoleone, Lloyd, il maresciallo Bugeaud e finalmente Jomini, il Foch indica anche i consueti principi ricavati appunto dalla storia ("economia delle forze, libertà d'azione, libera disponibilità delle forze, sicurezza ecc.") da applicare in misura variabile a ciascun caso particolare, senza cadere o ricadere, in questo modo, nell'anarchia delle idee perché - appunto attraverso lo studio nelle scuole militari - è necessario adottare una metodica comune per l'esame del problema operativo, dal quale deriverà anzitutto uno stesso modo di vedere le cose, e quindi uno stesso modo d 'agire [il che, per la verilà, non è detto che avvenga - N.d.a.l. Con una posizione così flessibile, senza passare all'opposto campo degli ideologi capeggiati da Clausewitz il Foch rimane assai lontano dagli estremismi concettuali del Lewal, anche perché ha la massima attenzione per il caso concreto, per la variabilità delle situazioni contingenti, alle quali non pretende - come il LewaJ - di imporre camicie di forza. Diversamente dal Lewal egli non si occupa di definizioni dell'arte della guerra e non ne indica le parti componenti. Dà un' importanza centrale alla "battaglia" e all' "attacco decisivo", con un' impostazione offensivista e spiritualista che potremmo definire prettamente napoleonica e anche

"'ivi ( l'Ed. 1903). pp. 7-9.


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clausewitziana (se si eccettua lo scopo della guerra, della strategia e quindi anche della battaglia, che per il Foch è sempre e solo militare e si riassume nella vittoria, senza alcun accenno alla problematica politica tipica di Clausewitz): la guerra moderna, per raggiungere il suo scopo: imporre la propria volontà all'avversario, non riconosce che un mezzo: la distruzione delle forze organizzate nemiche. Questa distruzione la inizia e la provoca con la battaglia, che causa l'atterramento dell 'avversario, disorganizza il comando, la disciplina, i legami tattici, le truppe in quanto forze. Essa lo realizza nelle fasi dell'azione successiva, nelle quali il vincitore, sfruttando la superiorità morale ottenuta con la vittoria, dà il colpo di grazia a truppe demoralizzate, disarticolate, che non possono più essere comandate, vale a dire che non esistono più. t,'' a quest 'atto di guerra, unico mezzo per abbattere l 'avversario, che noi ora guardiamo. 41

Come scopo razionale delle operazioni strategiche, solo oggetto della guerra e mezzo più efficace della tattica, la battaglia non può essere puramente difensiva: "in questa forma, essa permette bensì di arrestare la progressione del nemico impedendo,?li di raggiungere un obiettivo immediato, ma questi risultati sono esclusivamente negativi. Essa non consente né di distruggere il nemico, né di conquistare il territorio, cosa che è il risultato visibile della vittoria; di conseguenza, essa non può creare la vittoria" .42 Non crea un vinto, né un vincitore; è solo una partita da ricominciare. E' un duello nel quale ambedue i combattenti non fanno che parare

i colpi dell'avversario. Il difensore, perciò, non può aver ragione del nemico; "al contrario, per quanto possa essere abile si espone ad essere colpito, a soccombere sotto uno dei colpi dell'attaccante, anche se quest'ultimo è più debole" .

Un'elencazione senza dubbio puntuale e completa degli svantaggi della difensiva, che ha il solo, grande torto di considerarla una scelta alla quale contrapporre i vantaggi dell'offensiva, non una necessità sia pur indesiderata che sempre si presenta per uno dei contendenti, e anzi non raramente - in diverse fasi delle operazioni e/o in diversi settori - per ambedue. In altre parole, l'interrogativo che come tanti prima di lui, anche in

41 42

ivi, p. 265. ivi, p. 266.


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IL PENSIERO MlLITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. 111 (.I R70-1915)- TOMO I

Italia, il Foch lascia senza risposta esauriente, è sempre il solito: che cosa deve fare un esercito o una sua parte, quando circostanze diverse (ivi compresi, ovviamente, i fattori che rendono forte, anzi troppo forte una difesa) non consentono all'attacco ragionevoli possibilità di successo o di successo economico? Questo interrogativo, al quale solo la prima guerra mondiale avrebbe dato una risposta con il brutale linguaggio dei fatti, non fa parte nemmeno del bagaglio teorico del Foch, il quale afferma che la forma offensiva (difficile negarlo) è la sola a dare dei risultati definitivi e quindi deve sempre essere adottata, per lo meno come atto controffensivo finale con il quale bisogna necessariamente porre termine a una battag lia puramente difensiva. La mancanza di questo concetto elementare, secondo Foch, ha provocato la disfatta del 1870.. __ Masi è sempre in grado - dal punto di vista spirituale e logistico anzitutto - di passare a11a controffensiva? Volere non basta; bisogna potere. Si potrebbe obiettare che con questa tesi il Foch ammette implicitamente che, se una controffensiva per ragioni diverse non è possibile o conveniente, non viene falla ; ma il quadro peggiora con queste sue parole , tali da avvicinarsi, con il loro offensivismo assoluto, alle esasperazioni dogmatiche del Lewal e degli spiritualisti francesi prima esaminati, e da presentare la difensiva come non-azione: l 'azione, già in tattica, diventa la legge primordiale della guerra: "Fare la guerra è attaccare" (FEDERICO [in tal modo, l'azione diventa solo offensiva - N.d.a.l. Di tutti gli errori uno solo è if!famante, l'inazione. Perciò noi dobbiamo costantemente tendere a creare gli avvenimenti, non subirli Ilo stesso sostengono il Bugeaud e il Lewal - N.d.a. I, a o rganizzare anzitutto l'attacco, perché tutto il resto è subordinato ali ' attacco stesso e deve essere considerato solo dal punto di vista dei vantaggi che ne derivano per L'attacco. 43

m

Beninteso, da buon artigliere il Foch dà grande importanza al fuoco d'artiglieria e al fuoco in genere: ma lo vede essenzialmente come mezzo per facilitare il movimento in avanti della fanteria, senza minimamente soffermarsi sull'organizzazione del fuoco nella difesa, sull ' importanza della fortificazione campale in questo tipo d 'azione ecc .. Il necessario coordinamento tra fuoco e movimento della fanteria in attacco viene da lui visto sotto tre aspetti principali:

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ivi, p. 267.


- ---'VII · RIFLESSI DELL'ACCRESCIUTA lll'l'ICACIA DEL AJOCO IN FRANCIA E GERMA = NlA "'-------" 6'-'-79.

- nessuna preclusione per l'ordine sparso e per il fuoco individuale mirato, ma costante sfruttamento del terreno senza alcun schematismo nelle formazioni, fino a distanza d'assalto; - peraltro, fino a distanza d'assalto il fuoco deve essere diretto dai comandanti che di volta in volta ne devono indicare le modaUtà, perché "i fuochi lenti, continui, non diretti (fireries) com e è anche il fuoco a volontà, disordinati, sia perché non viene indicato l'obiettivo sia perché non sono controllati né gli effetti prodotti né le cartucce sparale, devono essere assolutamente proscritti come uno !.preco senza effetto" 44 [ciò significa rinunciare alla possibilità di ottenere un fuoco individuale mirato addestrando meglio il singolo - N.d.a.l; - i lavori di fortificazione campale, e in particolare lo scavo di camminamenti, sono anch' essi ammessi solo in quanto facilitano il fuoco, e soprattutto il movimento, nell'attacco. In sintesi il Nostro dà la dovuta importanza alle forL.e morali con un approccio generalmente assai equilibrato, che lo allontana dal Lewal anche nell 'apprezzare il valore del terreno: tuttavia sull 'argome nto - peraltro cruciale - dell 'offensiva anch'egli si sbilancia troppo, mostrando per giunta una fiducia nella possibilità di controllare il fuoco da parte dei Quadri inferiori smentita dagli eventi successivi. Della guerra russo - giapponese dice solo - in una breve introduzione all'edizione 1906 - che essa ha confermato le sue idee, e in particolare che " l 'offensiva manovrata ha, alla fine, ragione di tutte le resistenze" e che " la difesa passiva non può evitare la sconfitta" fma come si fa a generalizzare? - N .d.a.]. In lui come negli autori prima esaminati, comunque, si riconosce magari l'importanza del fuoco e del cannone, ma non si trova mai alcun accenno all'importanza della mobilitazione di tutte le risorse dell'intera nazione, della produzione industriale, della tecnica, della guerra in tutte le sue dimensioni: l'unica prospettiva del Foch è la guerra breve e offensiva, in una parola: napoleonica. Essa finisce con il diventare un modello abbastanza rigido, che al nuovo quadro della guerra e ai riflessi delle nuove armi, dei nuovi materiali e mezzi di comunicazione si limita a concedere - solo nel campo tattico - un certo numero di provvedimenti aventi lo scopo di far fronte ali' efficacia del fuoco della difesa. Se si guarda agli squilibri precedenti , appare comunque apprezzabile l'ammissione che "la superiorità morale, risultante dal numero, dalle formazioni ecc., non è ormai più sufficiente con Le armi attuali; i loro effetti sono troppo demoralizzanti. Bisogna quindi

"" ivi, p. J IR.


6=8=0_ _ _ _ _~ 1=1.~PF.=.N=Sl=ER=O~M=II=.IT =ARF. P. NAVAI.F. ITALIANO - VOL. TII (I 87(}.1915) - TOMO I

sviluppare anche la superiorità materiale; impiegare vantaggiosamente il numero di cannoni e di facili che fornisce la massa, ciò che richiede lo spazio". Una nuova esigenza che porta il Foch ad apprezzare una preferenza tedesca: l'attacco avvolgente, come forma d'azione che meglio consente di realizzare e sfruttare la superiorità di fuoco. Ciò non toglie che abbia ragione il Bastico, quando afferma che "non possiamo disconoscere che, se non nella forma, già non vi fosse almeno nel suo intimo, un qualche eccesso di spirito offensivo; e che pertanto non fossero in essa latenti quei germi che dieci anni più tardi dovevano dare vita ad un'altra dottrina tanto poco saggia quanto attraente". 45 Oltre tutto questo spirito offensivo troppo marcato, che sovente diventa una ricetta bonne à toutfaire, un aprioristico dogma, non si accorda molto con l'elogio che il Foch fa delle concezioni strategiche del Moltke, il quale si guarda bene da una pedissequa e impersonale rimasticatura dei concetti napoleonici, dando spazio alla razionalità dell' agire e non solo al coeup d'oeil. Il Foch, infatti, dopo averle citate dichiara esplicitamente di voler seguire queste riflessioni moltkiane: "il generale che, in ciascun caso partico/.are, prende se non Le migliori misure, almeno delle misure razionali ha pur sempre delle po,çsihilità di raggiungere il suo scopo. E ' chiaro che le conoscenze teoriche per questo non bastano; è necessario lo sviluppo libero, pratico, artistico delle doti di .\pirito e di carattere, basato, s'intende, su una cultura militare preliminare e guidata dall'esperienza, che si trae sia dalla storia militare, sia dalle vicende della propria vita[ ... ]. La strategia è un insieme di espedienti. Essa è più che una scienza. E' il sapere trasportato nella vita reale, lo sviluppo del concetto d'azione iniziale, a seconda dei continui mutamenti del/.a situazione; è l'arte di agire sotto la pressione delle circostanze più difficilf'.46

Se è così, come potrebbero accompagnare il Capo sul campo di battaglia tutti quei principi, tutte quelle linee d'azione tassative e obbligate delle quali il Foch per la verità è fin troppo prodigo? Le soluzioni razionali che anche il Foch vuol ricercare, devono essere più vicine ai principi e alle altre regole da lui indicate, oppure alla situazione reale? Con queste idee che hanno vasta risonanza, il Foch si qualifica come capo della "scuola napoleonica" francese dell'inizio del secolo, alla quale

45 46

Bastico, Op. r.it., Voi. Il p. 101. Foch, Op. cit., p. 17.


va - RIA..ESSI DE1L' ACCRESCIUTA EFFICACIA DEL FUOCO IN FRANCIA E GERMANIA

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appartengono anche i già citati generali Bonnal, Picquart, Mordacq e Langlois. Ad essa si oppone la cosiddetta "scuola degli evoluzionisti" il cui capo è il generale De Négrier (con articoli sulla Revue des Deux Mondes nel periodo 1901-1906), con )'ancor più noto comprimario colonnello Grandmaison (poi caduto da generale nella guerra mondiale). Richiamandosi agli insegnamenti della guerra anglo-boera, il De Négrier attacca senza perifrasi "certi professori" che negano la validità di tali insegnamenti, e "coloro che vedendo nella storia delle guerre napoleoniche l'evangelo della scienza strategica, si ostinano a voler applicare con le armi nuove dei procedimenti d'altri tempi". Perciò critica in particolar modo gli attacchi "cosiddetti decisivi" che nel corso delle manovre di pace sono eseguiti "da fanterie in masse compatte, diritte verso il nemico al suono di musiche e di tamburi che battono la carica"; ma dalla guerra 1870-1871 in poi, egli osserva, questi attacchi sono stati decisivi solo perché si sono trasformati in altrettanti disastri per le truppe che li hanno condotti. Anche per il De Négrier il fuoco dovuto alla grande potenza delle nuove armi è l'elemento dominante del combattimento. Di conseguenza l'azione delle varie Armi non può essere costretta entro formule fisse, né si devono indicare delle formazioni: l' unica tattica valida per la fanteria è quella del "seguitemi", con la quale gli ufficiali inferiori e i sottufficiali sono altrettanti condottieri che alla testa di piccoli gruppi avanzano risolutamente e senza alcun vincolo o schema verso le linee nemiche, cercando di penetrarvi. La cavalleria deve scendere di sella e combattere col moschetto; il cavallo non è più la sua arma. L'artiglieria deve abbandonare il falso concetto dell'impiego a massa e frazionarsi; il Comando dell'esercito deve manovrare distaccamenti di copertura che precedono le armate e attaccano il nemico su una fronte molto estesa, dando al nemico stesso l'illusione del numero e al tempo stesso consentendogli di manovrare (a ragion veduta, in ba'ie alle circostanze e senza attenersi a un piano prestabilito) il grosso retrostante. Anche con il De Négrier si discute sempre sul modo di attaccare, di condurre l'azione offensiva: nessun'altra possibi1ità viene da lui ammessa. Le sue tesi, sbilanciate in senso opposto rispetto a quelle della scuola napoleonica, danno modo ai suoi avversari di replicare che la battaglia non può risolversi in una lotta casuale "di soldati o di tenenti", ma va gestita dal generale in base a un suo concetto d'azione, anche se non immutabile. Ad ogni modo, pur tenendo conto che prima di sterrare l'assalto bisogna conseguire la superiorità di fuoco, secondo gli avversari del De Négrier si tratta pur sempre di seguire i concetti napoleonici, cioè di indirizzare gli sforzi della strategia alla ricerca della battaglia e quelli della tattica all' av-


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volgimento e/o allo sfondamento, ottenuti concentrando la massa delle forze in un solo punto. II dibattito tra le due scuole non trova mai una sintesi, né sembra particolarmente proficuo; anzi, con le leorie del Grandmaison si sbilancia nettamente e definitivamente verso l'estremismo offensivo, che risulta vincitore nonostante gli elementi di equilibrio che pur si trovano nel Foch. Il Grandmaison riassume le sue idee in due conferenze del febbraio 1911 allo Stato Maggiore dell'esercito francese. Egli parte dalla critica al concetto di sicurezza che ispira l' ancor vigente regolamento francese sul servizio delle armate in campagna del 1895, che era stato esteso dal Foch e dalla sua scuola alla grande strategia, in sostanza ritornando al concetto di "avanguardia generale" tipico della condotta della guerra napoleonica. A suo giudizio dietro questa estensione c'è solo la "paura del rischio", perché al momento l'incontestata superiorità degli attacchi convergenti impone di allargare al massimo, fin dall'inizio, la fronte delle operazioni, senza aspettare che l'avanguardia generale fornisca - come ai tempi di Napoleone - gli elementi per chiarire la situazione. In realtà tale avanguardia non è in grado di svolgere questo compito, costringendo i comandanti a rinforzare i distaccamenti di protezione immediata, per metterli in grado di svolgere loro stessi questa funzione. In tal modo buona parte delle forze viene di fatto sprecata per esigenze di sicurezza, togliendo alla condotta delle operazioni non solo audacia, ma energia e favorendo la pigrizia intellettuale e la mancanza d'iniziativa degli alti comandanti, indotti a prendere le loro decisioni solo dopo aver conosciuto in genere troppo tardi - ciò che intende fare il nemico. Con questa linea d'azione remissiva e attendista, secondo il Grandmaison si dimentica che

"specialmente nell'offensiva, la sicurezza di una truppa deve essere ricercata soprattutto in sé stessa, nella sua capacità di attacco, vale a dire nelle disposizioni che essa ha preso per attaccare presto e forte". Questa è la migliore premessa anche per ottenere la piena riuscita dell ' azione offensiva, perché "un avversario assalito bruscamente e per ogni parte,

pensa a parare i colpi, ma non manovra più e diviene incapace di ogni seria offensiva". Da queste premesse non può che discendere un esasperato e solo apparentemente razionale offensivismo, non certo nuovo per la tradizione francese, che è riassunto nei seguenti motti:

- "la violenza dell'attacco può solo assicurare contro la manovra del nemico"; - si deve applicare il principio, "di cui solo la forma è paradossale", che "nell'offensiva l'imprudenza è la migliore delle sicurezze";


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- per essere veramente tale "l'offensiva deve rischiare molto"; - "per attaccare presto e forte è necessario prendere contatto su una vasta fronte, cioè su una fronte assai vicina in ampiezza a quella della fronte di combattimento della truppa impegnata" [e se il nemico è superiore di numero? Si noti anche che con questa proposizione di fatto si sminuisce, se non si annulla, il ruolo non solo dell'esplorazione ma anche delle riserve - N.d.a.]. Gli scritti del Grandmaison e quelli del suo seguace tenente colonnello Montaigne47 sono in buona parte recepiti nella dottrina strategica e tattica francese del 1913-1914, cioè quella dell'entrata in guerra. Il generale Bobbio così sintetizza i riflessi di questa impostazione dottrinale sulla pianificazione operativa con la quale l'esercito francese entra in guerra nel 1914: il piano di guerra XVII, con il quale la Francia entra in guerra con la Germania, è il più evidente esempio di questo magnifico spirito offensivo, però troppo assoluto. Da tutto il documento una idea direttiva predomina e cioè: "l'intenzione del comandante in capo di portarsi con tutte le forze riunite all'attacco delle armate tedesche". Il dubbio di una o.ffensiva tedesca, se non proprio per il Belgio, per il Lussemburgo, che negli anni precedenti era stata tenuta presente, è dissipato; anzi, la dottrina strategica francese vede in ciò una buona occasione per lo svolgimento della propria offensiva. "Se i tedeschi estenderanno la loro fronte d'attacco lìno a Lilla, si faranno tagliare in due. Non potremo desiderare di meglio" . L'esercito francese si preparava ad entrare in una prossima guerra con una dottrina le cui caratteristiche erano il fanatismo per l'offensiva, la noncuranza della volontà e dell'azione dell' avversario, la negazione della difensiva ripudiata in ogni suo scopo e in ogni sua 111anifesta1,ione, una insufficiente ed erronea valutazione della potenza che il fuoco andava ogni giorno più acquistando. Era una dottrina che nel campo strategico predicava la strategia Lineare in assenza di riserve, privandosi per questo solo.fatto della possibilità di manovrare e che nel campo tattico proclamava che, per vincere, era sufficiente andare avanti con ferma volontà e passione, anche trascurando Of?ni preparazione Idi fuoco] precedente e ogni appoggio successivo. 48

47

Cfr. licuL col. F. Montai1,'lle. Études sur la guerre, Paris, Bcrger-Lévrnult I9 I I e Vaincre. Esquisse sur la doctrine d 'une guerre, Paris, Berger Lévrault 191 3 (3 Voi.). 48 l:lobhio, Art. cit.. pp. 368-369.


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Più che mai, in una dottrina così concepita, vale il principio che la qualità di una teoria o dottrina militare si misura esclusivamente dalla sua aderenza alla realtà della guerra. E' fin troppo noto che le mitragliatrici tedesche e la lunga guerra di trincea avrebbero ben presto fatto giustizia della falsa logica delle predette proposizioni e previsioni, peraltro diffusesi immeritatamente non solo nel campo francese. E ' quasi scontato dare a posteriori un giudizio molto critico su delle linee di tendenza, che pur volendo rispecchiare l'indole del popolo francese hanno sfruttato molto male le sue antiche virtù militari, causandogli fortissime quanto inutili perdite. Tuttavia, se si volesse riassumere in poche parole il carattere del pensiero militare francese tra il 1870-1871 e il 1914 si potrebbe dire che, paradossalmente, applica il dogmatismo jominiano anche ai fattori morali e spirituali. Nelle ricette presuntuose che pur mirano ad abolire ogni schema, Jomini è presente con la sua vana pretesa di spiegare il segreto delle grandi vittorie napoleoniche e di suggerire un modo generalmente sicuro per ripeterle. In questo senso l'antico razionalismo francese pretende di rendere sistematico, controllare e convogliare anche ciò che, appartenendo al mondo morale e spirituale, non può essere soggetto ad alcuna ricetta sicura.

SEZIONE II - La scuola tedesca e la sua dottrina: i moderati (ma spesso infedeli) seguaci di Clausewitz

Il contrasto tra "individualisti" e ''formalisti" e la dottrina tedesca dal 1870 al 1914 Se Jomini continua ad affiorare anche nell'inconscio della scuola francese, la scuola tedesca dal 1870 in poi è forse la scuola di Clausewitz tout court? Sarebbe semplicistico affermarlo. Si deve solo dire che Moltke si è dimostrato buon allievo di Clausewitz, ma nel 1870-1871 non ha vinto solo Clausewitz o Moltke: hanno vinto anche la buona leadership a tutti i livelli, l'impiego magistrale delle ferrovie e del telegrafo, la buona organizzazione logistica49 e la buona organizzazione in genere, con partico-

49 Sugli aspetti logistici della guerra 1870-1871 e sulle innovazioni tedesche si veda, in particolare, Ferruccio Botti, La logistica ... (Cit.), Voi. Il cap. Vll.


Vll - RffLtSSI UELL'ACCRFSCflrfA F.FFlCACIA DEL PUOCO IN FRANC = IA = =. EG = ERM=AN ~ IA c c.__ _ _= 6 8=5

]are riguardo al perfetto meccanismo di mobilitazione, alla superiore disciplina e al superiore addestramento, alla coesione morale, alla forte motivazione dimostrati sul campo dalle truppe prussiane. Nessuna sorpresa: dopo tutto, prima di Clausewitz c'erano slati BUlow e Willisen, che in certo senso rispecchiavano quell'aspetto metodico, schematico, amante del dettaglio organizzativo ben presenle nell'anima tedesca, contro i cui eccessi ha appunto reagito lo spiritualismo clausewitziano. E' stata prima di tutto la felice combinazione di questi due elementi da parte di una leadership ben preparata e con elevato livello medio ad assicurare la vittoria. Non sarà mai abbastanza ricordato che Clausewitz si è permesso il lusso di ignorare la logistica, ]'armamento ecc. e in una parola l'organizzazione e i fattori materiali, proprio perché questi importanti fattori del problema militare erano già di per sé estremamente curati - per virtù della stirpe nell'esercito prussiano a] quale faceva riferimento. Il contrario avviene nel campo francese: lo dimostra anche l'approccio teorico del Lewal, miranle a imporre una rigida camicia di forza metodica e scientifica al carattere prevalente del suo esercito, che anche nella guerra franco - prussiana ha dimostrato di peccare ne11 'organizzazione, nella mobilitazione, nell 'impiego delle ferrovie ecc .. Dal punto di vista teorico Mo1tke è stato allievo di Clausewitz fino a un certo punto; all'esatto opposto di quanto avviene per Lewal, per lui contano le circostanze ancor più di quanto contino per Clausewitz. Definisce la strategia come un semplice insieme di espedienti e non giudica affatto necessario ostinarsi a mantenere i] piano di guerra, che ritiene abbia valore solo all'inizio. Ben diversa la concezione di Clausewitz, che alla strategia assegna il compito di coordinare i combattimenti per raggiungere lo scopo della guerra, con ciò stesso ritenendo necessario seguire un piano al quale non casualmente dedica una parte ragguardevole del Vom Kriege. 50 Senza contare che nella personalità di Moltke prevalgono lo studio metodico e approfondito, la ponderata e analitica valutazione degli eventi, la meticolosa preparazione, la ragionata previsione degli eventi (cfr. anche ciò che ne dicono Barone e Marsel1i) . Non è certamente il condottiero ideale di Clausewitz, il cui genio, il cui colpo d' occhio può supplire anche alla mancanza di studio fino a fargli affermare che, in genere, i Capi militari non sono degli studiosi, o non necessariamente devono essere degli studiosi. Volendo contraddire un detto di Napoleone (secondo il quale il Capo è tutto), per Moltke il Capo è

'° Karl Von Clausewitz, Della guerra ( 1832), Milano, Mondadori

1870, Voi. 11 pp. 830-862.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITAUANO- VOL. lii ( 1870-19 15)-mMo I

solo la parte più importante di un organismo equilibrato, dove ciascuno presta nel modo migliore la sua opera. In ogni caso, in campo strategico Moltk.e fissa dei punti fermi, crea dei precedenti coronati dal successo che i suoi successori non hanno che da seguire, a cominciare dalla guerra offensiva mirante a schiacciare rapidamente l'avversario e dall'accurato sfruttamento delle ferrovie. La vera sfida è quella della crescente efficacia dei mezzi di fuoco, percepita in Germania come in nessun'altra nazione: una sfida che, dunque, riguarda in prevalenza il campo tattico. In proposito, il Bastico descrive il contrasto tra la scuola degli "individualisti'' (il cui capo è lo Schlichting con il suo Saggio sulla tattica e la strategia odierne - 1898) e quella dei "formalisti'', capeggiata dallo Scherff.5 1 Di quest'ultimo autore il Bastico ricorda parecchie opere (Studi sulla regolamentazione - 1891; L'attacco nell 'azione offensiva - 1900; Armi e terreno nell'odierna azione offensiva - 1904), ma non i suoi Studien zur neuen lnfanterie Tactik (1872- 1873), l'unica opera tradotta in italiano (Studi per una nuova tallica di fanteria, Roma, Voghera 1873-1874 - 3 Voi.). li dissidio tra le due correnti di pensiero riguarda appunto i riflessi dell' accresciuta efficacia dei mezzi di fuoco, dei quali già aveva preso atto il Moltke, osservando che "il perfezionamento delle armi dafuor.o ha dato al-

la d{fènsiva tattica un vantaggio assai spiccato sull'offensiva. Nella campagna del 1870-1871 noi abbiamo, è vero, operato sempre offensivamente e siamo riusciti a impadronirci delle più forti posizioni nemiche: ma a prezzo di quali perdite! Mi sembrerebbe perciò più conveniente di tenersi in un primo tempo sulla difensiva e di passare all'offensiva solamente dopo aver respinto parecchi allacchi del nemico".52 Si tratta soprattutto di individuare le formazioni e i procedime nti più adatti per la fanteria in attacco: per il resto gli autori tedeschi concordano sulla preminenza dei valori morali e spirituali, sulla superiorità dell'offensiva, sulla convenie nza di ricercare il successo sia con la manovra di fronte che con quella di fianco, sulla necessità di far convergere il fuoco e le forze nel punto decisivo. In questo quadro, per gli individualisti l'esigenza prioritaria è di sottrarre il più possibile la fanteria in attacco al fuoco nemico, perché le perdite provocherebbero un'usura morale tale, da privare il soldato di ogni forza di volontà e di resistenza. Occorrono quindi formazioni il più possibile rade e la massima libertà d'azione per i Quadri di minore livello, con esaltazione dell'iniziativa anche del semplice soldato, che deve imparare a

" Bastico, Op. cit., Voi. II pp. 27-41. " ivi, Nota I p. 28.


vn RIFLESSI DEL!,.'ACCRESCIUTA EFFICACIA DEL FUOCO IN FRANCIA E GERMANIA

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fare da sé anche senza ordini. I formalisti, al contrario, ritengono necessario ridurre al minimo - anche a costo di maggiori perdite - la dispersione sul campo di battaglia e limitare l'individualismo, che a loro giudizio finiscono con l'aumentare i pericoli di debolezza morale già insiti nel combattimento, fino a rompere gli indispensabili legami tattici e a compromettere l'unità d'azione. Perciò lo Scherff sostiene la necessità di imbrigliare l'azione tattica con disposizioni chiare e tassative, fino a "compiere l'attacco a colpi di uomini" senza preoccuparsi delle perdite, e persino - se necessario - senza l'appoggio dell'artiglieria. La regolamentazione tedesca dal 1870 al 1914 cerca di conciliare con un certo grado di prudenza le due tendenze estreme. Così il nuovo regolamento per la fanteria del 1906 e quello sul servizio di campagna del 1908, con i quali l'esercito tedesco è entrato in guerra, recepiscono in buona parte criteri di ba<;e criteri già emersi nel 1870-1871 e vicini a Clausewitz: superiorità dell 'offensiva intesa come mezzo per assicurare la superiorità morale, indipendenza e responsabilità dei Capi in tutti i gradi della gerarchia, assenza di ogni schematismo. Per quanto attiene alle modalità per l'attacco, la regolamentazione tedesca riesce a conciliare ardire e prudenza, rinunciando ad ogni aprioristico culto dell'offensiva e cercando di conciliare l'iniziativa con la disciplina. Secondo il Baslico, inoltre: d'altra pane ricorda che se l'iniziativa "è la base fondamentale dei grandi successi in guerra", essa deve "farsi valere in giusti limiti" e mai "la libertà d'azione dei capi in sottordine deve trascendere in licenza". Per questo la disciplina deve imperare sovrana e poiché la disciplina può solo conseguirsi attraverso l'abitudine al comando e alla esecuzione perfetta de1:li ordini, il regolamento !tedesco] non rinuncia a certe prescrizioni formali che potrebbero anche apparire in contrasto con i criteri di libertà che esso sancisce, specie per quanto riguarda il combattimento. 53

La fanteria, Arma base, deve essere animata da alto spirito offensivo ma "l'artiglieria costituisce l'ossatura della battaglia e deve appoggiare e sostenere in ogni momento l'azione della fanteria", quindi è necessaria una stretta cooperazione tra le due Armi. La fanteria deve avvicinarsi il più possibile al nemico in formazioni rade, senza far fuoco, sfruttando il terreno e cercando ogni altro mezzo per diminuire le perdite; ma questo non

53

ivi, pp. 35-36.


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IL l'ENSlliROMILITARE E NAVALE ITAUANO - VOL. 111 ( 1870- 1915)-mMO I

deve pregiudicare lo spirito offensivo. L'attacco deve essere alimentato con forze razionalmente scaglionate in profondità e con un fuoco sempre più intenso man mano che diminuisce la distanza tra i reparti attaccanti in I O scaglione e il nemico. L'artiglieria appoggia l'attacco senza interruzione, concentrando il suo fuoco sui tratti della posizione nemica che devono essere investiti dall'assalto. I predetti indirizzi dottrinali tedeschi inducono a chiedersi non tanto quali sono le concezioni strategiche a monte di siffatte modalità tattiche, (come una logica in questo caso più apparente che reale vorrebbe): ma se mai, fino a che punto la strategia di Clausewitz e di Moltke dopo il 1871 viene condizionata anch'essa dalle nuove armi e dai nuovi ritrovati tecnici. In secondo luogo si tratta di stabilire se e fino a che punto nel pensiero strategico germanico prevale - come in quello francese - l'esigenza di fissare dei punti fermi, dei riferimenti (per non dire dei principi) che devono orientare l'azione dei comandanti ai livelli più elevati. La risposta a questi interrogativi va cercata principalmente negli scritti di tre autori ai quali il Bastico dedica una certa attenzione (cosa che - non si sa perché - non fa Jean Jacques Langendorf sul più recente dizionario strategico francese) :54 il colonnello Blume e i generali Von der Golz e Von Bemhardi.

Il contradditorio ma raro "relativismo" del Blume e Le sue parziali intuizioni sulla guerra futura ( 1882) Nel suo libro Strategie - eine Studie (1882) 55 il Blume definisce la guerra "il mezzo violento che i popoli impiegano sia per far trionfare le Loro idee politiche, sia, al contrario, per salvaguardarle". Essa ammette solo i limiti che sono rispellali da ambedue i belligeranti per ragioni umanitarie e di civiltà. Pur affermando che "una guerra condotta con vigore fortifica il carattere della nazione, mentre un 'altra condotta senza energia oltre ad essere più lunga, causa dei danni ma,teriali e morali più considerevoli", è ben lungi dall'esaltarla, ma anzi la presenta come ultima ratio, senza nascondersi le rovine e i danni che può causare. Uno Stato, secondo il Blume, deve ricorrere alla guerra solo quando sono minacciati i suoi interessi più vitali e la sua stessa esistenza; ma non sempre essa è un fattore di

54

Jean Jacques Langcndorf, voce Allemnnd et prussiens (Théoriciens) in Montbrial-Kle in, Op.

cit., pp. 8-13_ 55 Cfr. CoL Wilhelm Von Blume, Strategie · eine Studie ( 1882). Traduzione francese Stratégie, Paris, Baudoin 1884. Nessuna traduzione italiana. Noi ci riferiremo alla traduzione francese_


VII RIFLESSI DELL'ACCRESCIUTA EFFICACIA Ut::L FU(X,'O IN FRANCIA E GERMANIA

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progresso e arreca dei vantaggi, anche se gli eventi militari non sono indipendenti dallo stato di civilizzazione dei vari Paesi. Riguardo al rapporto tra guerra e pace, il Blume osserva che prima che scompaiano le guerre dovrebbe sparire la pluralità di Stati; peraltro quest'ultimi sono ancora necessari, perché corrispondono alla diversa indole e alle diverse esigenze dei popoli. Tale obiettivo è ancora molto lontano e, al momento, "sembra, al contrario, che la crescente attività degli Stati e dei popoli aumenti le ragioni di rivalità nel tempo stesso che rende le relazioni internazionali più frequenti". 56 E' perciò indispensabile che gli Stati posseggano una valida forza militare, la quale si fonda sull'intelligenza e sulle forze fisiche, morali e intellettuali dei suoi abitanti: "una razza vigorosa, abituata a un lavoro duro e a una vita sobria, è superiore a un'altra più numerosa, ma di costumi molli e incapace di sopportare i sacrifici della guerra".57 li Blume dà grande importanza al rapporto tra guerra e politica (ivi compresa la politica interna), che devono prestarsi reciproco sostegno prima, durante e dopo la guerra. Su questo argomento non fa che sviluppare le stesse idee di Clausewitz, insistendo sull'armonia completa che deve esistere tra i diversi organi che dirigono gli affari politici e militari, senza alcuna subordinazione passiva dell' uno all'altro. Ciò non toglie che sullo sfondo delJa sua opera rimanga la prospettiva prevalente della guerra totale e l'esigenza di ottenere in tempi brevi la debellatio dell'avversario: come per Foch, l'obiettivo più importante dell'esercito è perciò la vittoria. Egli dedica solo un capitolo di tre pagine alle questioni puramente teoriche e in particolare alla strategia e alla tattica, senza affrontare il problema della ripartizione dell'arte della guerra. Ciò che afferma in proposito non ha nulla di veramente originale: la strategia è l'arte del generale, ossia l'impiego delle forze e dei mezzi militari per raggiungere lo scopo della guerra. Nel linguaggio tecnico-militare a questa parola si attribuisce un significato più ristretto. Con il nome di "tattica" ci si riferisce a tutto ciò che riguarda l'impiego delle forze militari nel combattimento e a ciò che le ordina e le prepara in vista del combattimento; di conseguenza, dalla "strategia" o arte del generale va escluso ciò che è compito della tattica. Strategia e tattica non hanno confini precisi; si può dire che la tattica è al servizio della strategia, ma quest'ultima deve chiedere alla tattica solo ciò che può fare. Compito della strategia è di riunire nel tempo e nel luogo più

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57

ivi, p. 12. ivi, p. 13.


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opportuni i mezzi dei quali ha bisogno la tattica; essa indica all'esercito l'obiettivo e la direzione, mentre alla tattica compete l'esecuzione. Fin qui tutto è scontato; ma il Blume comincia ad avvicinarsi - sia pure non del tutto - a Clausewitz quando afferma che la strategia è un'arte che come tale richiede larghe vedute, immaginazione, discernimento e soprattutto carattere: perciò "sarebbe disconoscerne la natura se si cercasse di trasformarla in un sistema razionale perfettamente determinato". Negli studi strategici si deve solo sviluppare il colpo d'occhio e la capacità di valutare correttamente le varie situazioni e le possibili soluzioni pratiche; ma ne11a ricerca di quest'ultirne il Blume rifiuta di basarsi unicamente su11'esperienza storica, come fanno i dottrinari. A suo avviso, per arrivare a questo [cioè alla soluzione del problema strategico N.d.a.] vi sono due strade. L'una parte della storia militare e ricerca il rapporto tra causa e effetto; l'altra parte dallo studio delle varie forze che agiscono nella guerra e dalla loro sfera d'azione, per trarne delle conclusioni. Noi intendiamo seguire unicamente quest'ultimo metodo: tuttavia, ci lasceremo guidare dalle esperienze e dagli insegnamenti della storia militare. Altrimenti, si sarà tanto più esposti al pericolo di incamminarsi su una strada sbagliata, e di trascurare delle conclusioni pratiche utili, perché la guerra ha un certo carattere convenzionale che deriva più dalla storia che dai fattori essenziali della guerra. 58

E i principi? Il Blume usa questa parola, ma accompagnandola con il termine "fattori'' e soprattutto attribuendole un significato ben diverso da quello letterale (adottalo dai dottrinari) di "concetto fondamentale di una dottrina, una scienza, una disciplina" o di "norma generale che informa tutta la pratica, canone" (Dizionario Zanichelli). I principi fondamentali per lui sono solo due, estremamente generici, fino a non essere propriamente tali: distruggere le forze nemiche e cercare di conservare le proprie. Più in generale, nello studio dei mezzi di guerra si incontreranno dei fattori che sono tipici di tutti i tempi e di tutti i paesi, anche se variano all'infinito, in quanto derivanti da principi generali identici. Questo è particolarmente vero per gli uomini; essi costituiscono la componente principale della forza militare, che ne assume sotto molteplici aspetti lo stesso carat-

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ivi, p. 42.


VIJ • RIFLESSI DELL'ACCRESCIUTA EFFICACIA DEL FUOCO IN FRANCIA E GERM/\Nl/1

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tere. D'altronde la natura delle forze militari è estremamente variabile; questo vale ancor di più per i mezzi di f?uerra. Ne consegue che non si dovrà attribuire un valore assoluto alle considerazioni che dedurremo dallo studio dei mezzi di f?uerra, per giungere al loro impiego. Spesso, nelle nostre considerazioni, noi terremo presente la nostra epoca e la nostra specifica situazione militare; pertanto le nostre conclusioni avranno valore solo da questi punti di vista particolari. 5<)

NeUa restante parte dell'opera del Blume si trova tuttavia un aspetto "relativistico" assai originale, che basta a qualificarla e che si contrappone con vantaggio aUe riflessioni del Lewal e del Foch, sotto certi a<;petti configurando lo scenario deUa prima guerra mondiale: egli ricorda che bisogna anche tener conto delle reazioni deU'avversario; ciò che noi siamo, valiamo, possiamo e dobbiamo fare va soppesato e giudicato solo in rapporto all'avversario e in quel momento. Decisioni e procedimenti che in una data guerra hanno assicurato la vittoria, in circostanze diverse hanno portato alla sconfitta: Napoleone ha fallito completamente quando ha preteso di sottomettere l'intero Impero russo con metodi di guerra che, in altre circostanze, gli avevano fruttato dei risultati così grandiosi. Un generale prudente entrerebbe difficilmente in Boemia come i prussiani hanno fatto nel 1866, se avesse contro un Federico Il che lo minaccia come solo lui sa fare. Eppure vi sono dei critici che, basandosi su astratti precetti teorici, definiscono errato il modo con cui l'esercito prussiano ha invaso la Boemia ritenendo che una siffatta azione avrebbe avuto gravi conse,?uenze se il nemico avesse fatto questo o quest'altro [così fa anche il Marselli - N.d.a. I. Queste critiche trascurano il fatto che i risultati di una guerra sono la conseguenza dell'azione reciproca delle forze viventi e non l'applicazione meccanica di formule immutabili. Questi rimproveri sarebbero giustificati solo se si potesse dimostrare che le armate prussiane non sono state affatto a/l'altezza del loro compito, o che lo Stato Maggiore prussiano ha mal ,?iudicato la probabile condotta del nemico, o almeno che non se ne è curato. 60

Ogni teoria che trascura queste considerazioni e pretende d'ingabbiare l'azione reciproco delle forze viventi va perciò respinta, perché all'atto

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ivi, p. 43. ivi, pp. 141- 142.


IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIAN O· VOL. lii ( 1870- 1915) • TOMO I

pratico avrebbe conseguenze funeste: "un generale deve preoccuparsi solo del valore e delle capacità delle truppe nemiche e di quelle delle quali dispone". 61 La conoscenza dell'esercito nemico è indispensabile, anche se difficile: per questo il grande Stato Maggiore fin dal tempo di pace deve preoccuparsi costantemente di studiare le forze militari dei paesi più probabili avversari, se possibile estendendo l'indagine anche al carattere e alle doti dei principali comandanti, fattore jmportante che entra nei calcoli nella strategia e può essere anche decisivo. Da questo sano concetto di relatività deriva l' individuazfone di un' esigenza clamorosamente e colpevolmente trascurata prima dai teorici francesi sostenitori assiomatici dell'offensiva (tra i quali lo stesso Foch) e dopo - con ben più pesanti conseguenze - dalle leaderships politico - militari della grande guerra: anche chi è sicuro di ottenere un grande successo deve nondimeno preoccuparsi di conquistarlo senza grandi sacrifici. D 'altra parte, chi si ritira davanti al nemico non deve mai perdere di vista, anche di fronte alle più grandi sventure, che deve cercare di riconquistare la superiorità, per essere in grado di distruggere il nemico. 62

Soprattutto - continua il Blume - come dimostra la storia militare, non bisogna dimenticare che, in guerra, le forze militari sono soggette a un complesso di fenomeni negativi che ne riducono gradualmente l'efficienza: diminuzione degli effettivi delle unità per morti, feriti, malati e prigionieri; perdite o degradazione di materiali; difficoltà di mantenere la disciplina e quindi il valore delle truppe, specie quando si va incontro a dei rovesci; difficoltà di rimpiazzare con Quadri e truppe di pari valore le perdite, specie in caso di battaglie sanguinose. Solo una buona organizzazione militare, con truppe altamente disciplinale, può attenuare questi inconvenienti. Bisogna però tener presente che il valore degli elementi di rimpiazzo andrà costantemente diminuendo: per questo "è vantaggioso condurre rapidamente le operazioni tendendo a economizzare le proprie forze; così facendo, non si lascia al nemico il tempo di utilizzare le risorse importanti delle quali potrebbe disporre per porre rimedio alle sue perdite" .63 Un'indubbia e quasi inaspettata caduta: perché, dopo tanto ed equilibrato

61 62

IBIDEM

ivi, p. 138. 63 ivi, p. 140.


VII - Kit-LESSI DELL' ACCRESCi trrA EFFICACIA DEL FUOCO IN FRANCIA liGl'.RMANJA

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ragionare, il Blume qui finisce co] confondere "volere" con "potere", per altro verso indirettamente presagendo quanto è avvenuto per la Germania nelle due guerre mondiali, nelle quali il fallimento della guerra breve e decisiva ha significato il passaggio alla guerra di logoramento e quindi la sconfitta. l1 Bastico nota che, con queste idee, il B1ume segue le orme di C1ausewitz64: ma a parer nostro non si può affermare - come egli fa - che "l'analogia col pensiero di Clausewitz è completa, perfetta". Non solo e non tanto perché il Blume parla di principì (sia pur lontani dall'avere il peso vincolante di quelli dei dottrinari) : ma perché da tutte le sue righe traspare, fino ad assumere un valore vincolante e di fatto dogmatico, l'esigenza di schiacciare rapidamente il nemico, di vincerlo presto e al completo impiegando tutte le forze della nazione in una guerra assoluta. Dov'è, alJora, la guerra come strumento della po1itica che esercita su di essa una forza moderatrice, la guerra come camaleonte della quale, pur contraddicendosi a sua volta, parla Clausewitz? Il Bastico mette in rilievo anche il forte spiritualismo del Blume, tanto che in esso gli elementi intellettuali sono considerati o incidentalmente o di sfu,ggita; la figura del comandante non è che adombrata; non si discorre né di metodi, né di disciplina delle intelligenze, né di azione di comando; e se trattando del combattimento in generale, la "superiorità del comando" è citata per prima fra gli elementi che "danno la speranza di vincere", essa è messa alla pari con la "superiorità della qualità delle truppe, e dei procedimenti tattici" e con quella numerica. 65

Si può obiettare che l'accentuato spiritualismo, l'importanza secondaria attribuita agli elementi intellettuali, la scarsa attenzione per le questioni di metodo e per la disciplina delle intelligenze sono caratteri distintivi proprio delle teorie di Clausewitz, quindi in questo caso il Blume non fa che seguire CJausewitz; per contro, quando sottovaluta l'importanza del Capo si discosta da uno dei cardini del pensiero del suo dichiarato maestro. Questi caratteri dell'opera del Blume ci forniscono, perciò, l'occasione per precisare una volta per tutte che, se la maggior disgrazia per un

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Baslico, Op. cit., pp. 4 1-46.

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IBIDEM.


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IL PENSIERO MILITAllli E NAVALE ITALIANO VOL. lll (1870- 1915) -TOMO I _ __

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"maftre à penser" è di avere cattivi allievi (cosa che avviene piuttosto di frequente), dai. seguaci di un autore si può legittimamente esigere che non ne stravolgano il pensiero; ma non sarebbe giusto pretendere che, al di là delle loro intenzioni, ne facciano una specie di bibbia valida sempre in toto, senza tener conto delle mutevoli realtà. Tra l'altro, ciò significherebbe andare anche contro Clausewitz.

L'eredità strategica e tattica della guerra 1870-1871 nel libro dei generali Peuker/Paris ( 1880) Merita un cenno anche un poco noto libro coevo a quello del Blume, Il Trattato di tattica applicata redatto secondo i programmi del generale Peuker dal generale F.A. Paris (diversamente dal libro del Blume tradotto in italiano a Torino in tre successive edizioni).<,(, I motivi d' interesse di questo libro, assai più "tecnico" di quello del BI urne, sono essenzialmente tre: I) dal punto di vista tecnico generale si avvicina più ai dottrinari che a Clausewitz; 2) dal punto di vista tattico, con una minuta trattazione fa emergere molto bene le ragioni del successo prussiano nell'ancor vicina guerra 1870-1871; 3) anche se non viene esplicitamente ammesso, ha tutta l'aria di essere un testo di riferimento anche per la nostra Scuola di Guerra (a parte le tre successive edizioni, il traduttore sostituisce con evidenti finalità didattiche la parte dedicata a fronti e profondità del corpo d'armata tedesco con analoghi dati riguardanti quello italiano). Il Paris intende occuparsi solo di tattica, ma esordisce con una accenno alle scienze militari che si discosta in modo netto sia dall'approccio di Clausewitz che da quello di Blume e oltre ad essere "orizzontale" trascura completamente l'organica e la logistica: le scienze militari in generale si distinguono: a) in principali, quali sono: la storia militare, la strategia e la tattica; b) in secondarie ed ausiliari, cioè: la tecnologia, la fortificazione, lo studio del terreno, la topografia, la geografia militare, le cognizioni speciali per il servizio di Stato Maggiore e de/l'Amministrazione delle truppe [manca, così come anche nel Blume, il concetto di logistica - N.d.a.]. La Storia militare occupa il primo posto fra le scienze della Ja categoria, alle quali serve da

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Noi ci riferiremo alla 3' Ed. 'lbrino, Tarizzo 1880.


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RIFLESSI DEI.I.' ACCRF,SCIUTA HHCACIA DEL FUOCO IN FRANCIA E GERMANIA

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base. La storia militare deve considerarsi come il breviario dell'ufficiale e come il solo mezz.o che puà renderlo atto a seRuire con successo la carriera militare. 67

La storia ridotta a semplice descrizione degli avvenimenti, però, non serve a niente. Occorre lo studio critico e comparalo di diverse campagne di guerra condotte in epoche e circostanze diverse, studiando le cause vicine e lontane dagli eventi e le conseguenze; così facendo si riuscirà a fi.uare i principi Renerali dell'arte (sic), deducendoli dal paragone di più atti o rassomiRlianti o prodotti da circostanze più o meno identiche; si riuscirà ad assimilare in noi gli elementi di questa dottrina per indi trasportarci nel più vasto campo a cui appartiene la condotta delle armate e dei Rrossi distaccamenti; e finalmente ponderando i concetti a cui si informarono i grandi capitani, si perverrà a possedere i veri princip'ì delle teorie astratte della guerra. Tale studio critico formerà, per così dire, la chiave delle massime fondamentali e delle regole generali, e farà notare le eccezioni che ne debbano risultare. 68

Sempre dal punto di vista teorico, la geografia militare, le conoscenze relative al servizio di Stato Maggiore e l'Amministrazione delle truppe sono considerate scienze ausiliari della strategia, mentre la tecnologia, la fortificazione e la topografia rientrano nel campo della tattica. Le regole e le eccezioni che esse ammettono ''furono riunite in un sistema scientifico, che consta di due parti principali: la strategia e la tattica". L'autore anunette la dipendenza della guerra della politica e afferma che la strategia provvede a tutto ciò che serve a raggiungere lo scopo finale della guerra, ma a queste due parti dell 'arte attribuisce il solito significato militare, negando tra l'altro che la tattica possa essere influenzata dalla politica (e quindi dalla realtà politico-sociale). La tattica si ripromette sempre di annientare il nemico risparmiando il più possibile le nostre truppe, ma non può obbedire ad altri principi generali o dogmi assoluti, perché le situazioni da affrontare in un combattimento sono sempre assai diverse; perciò "all'opposto della maggior parte delle altre scienze, non ha nulla di assolutamente positivo; essa espone considerazioni e meditazioni razionali intorno ad eventualità probabili."

67 68

ivi, p. I . ivi, pp. l -2.


6%

JL PENSliiROMlUIA IIB E NAVALE ITALIANO- VOI.. 111 ( 1870-1915) • TOMO 1

Persino in quest'ultimo aspetto della tattica si trova l'esatto contrario di Clausewitz, che tendeva a fare della strategia un'arte più che una scienza, ammettendo invece l'utilità di regole e principi ai livelli inferiori, dove l'iniziativa e la discrezionalità dei comandanti erano necessariamente limitate. Poco clausewitziana - e poco logica - anche la suddivisione della tattica in pura e applicata. La prima "abbraccia l'arte di ordinare, di formare, di far muovere e di far combattere le truppe senza tener conto della topografia e della natura del terreno e della specifica situazione del nemico " , perciò si occupa solo delle formazioni tattiche in generale; la seconda studia l'impiego delle truppe tenendo conto dei predetti fattori e riferendosi specialmente al combattimento, ma senza tra<;curare le altre attività (campi, marce, ricognizioni ... ). Dopo aver trattato in modo decisamente discutibile questi aspetti, il libro ha però il pregio di non dimostrare, una volta tanto, alcuna preferenza aprioristica per l'offensiva, collocandola sullo stesso piano della difensiva con una realistica elencazione dei vantaggi e svantaggi di ciascuna di queste due forme d'azione fondamentali, che ambedue - precisa - servono a raggiungere lo scopo della guerra. TI secondo aspetto interessante è l'analisi delle formazioni della fanteria tedesca nelle guerre del I 866 e 1870, al confronto con quelle avversarie austriache e francesi. Con le formazioni in ordine sparso (se necessario anche dei rincalzi), con l'accurato sfruttamento del terreno senza schematismi, con l'iniziativa la<;ciata anche ai minori livelli, con lo stretto coordinamento tra le tre Armi sul campo di battaglia e la preferenza data al fuoco anziché alla baionetta. l'esercito prussiano ha avuto ragione prima degli austriaci (che prediligevano troppo l'attacco alla baionetta) e poi dei francesi (che credevano a torto di sfruttare la superiorità degli chassepots sui fucili prussiani, abituando il soldato a sparare a distanze troppo grandi). Invece la fanteria tedesca risparmiava le cartucce per poter farne uso a distanza efficace di tiro, sfruttando la sua miglior istruzione al tiro e anche la sua maggiore disciplina. Sempre secondo l'autore, nella guerra 1870-1871 l'artiglieria prussiana si è dimostrata superiore all'analoga Arma francese in misura ancor maggiore della fanteria, con un appoggio alle truppe arniche sempre aderente e efficace, grazie anche alla superiorità del materiale: "l'artiglieria francese con cannoni del sistema Lahitte, introdotto nel 1855 (caricantesi dalla bocca) era rimasta stazionaria; fu perciò superata dall'artiglieria tedesca che era ben provvista di cannoni a retrocarica,e che si era perfezionata anche nel tiro " .69

"' ivi, p. 302.


VU - Rlt""LESSI DELL'ACCRESCIUTA Efl'ICACIA DEL FUOCO IN FRANCIA E GERMANIA

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Un cenno anche alle prime mitragliatrici francesi, che non sembra abbiano impressionato troppo i prussiani: per contro i francesi adottarono le mitragliere, le quali avrebbero dovuto surrogare gli incerti tiri a mitraglia, e avere anche maggior portata. Sebbene queste nuove artiglierie abbiano, quando tenute nascoste, prodotto sensibili perdite alle truppe tedesche, tuttavia in generale non corrisposero alla aspettazione che di esse si aveva, specialmente per essere troppo limitato il raggio di irradiamento dei proiettili. 10

In sintesi, anche per il dibattito in Italia il modo di combattere prussiano nel 1870-1871 appare, sotto molti aspetti, un modello suscettibile di ulteriori sviluppi e pertanto valido almeno nei criteri di base fino alla prima guerra mondiale, senza richiedere molte discussioni. Si deve al tempo stesso osservare che esso richiede nel soldato e nei Quadri inferiori delle qualità (addestramento, controllo di sé stessi, disciplina, iniziativa, ecc.) non facili da trovare in altri eserciti nella stessa misura di quello prussiano. L'autore, infatti, così ]o riassume: veggiamo essere la fanteria quella che inizia la vera lotta e che la decide. L'artiglieria apre il combattimento, prepara l'attacco di quella, l 'appoggia in tutte le direzioni e con ciò contribuisce essenzialmente alla decisione; ma questa decisione in ultima analisi è quasi sempre conseguenza dell'avanzarsi della fanteria. I tedeschi, per massima.formarono la prima linea con colonne di compagnia disposte le une accanto alle altre, e solo in rari casi impegnarono i mezzi battaglioni colle compagnie d 'ala avanzate. Per l'attacco essi fecero uso di.fitte catene di tiratori le quali, avanzando celermente fino a 400 passo dalle linee francesi, cercavano riparo nel terreno o gittavansi a terra e aprivano quindi il fuoco contro l'avversario. Il collocare reparti in ordine chiuso vicino e dietro le linee dei tiratori, laddove il terreno non offriva riparo, era cosa impossibile, !>'tante la micidiale efficacia del tiro nemico; non rimaneva perciò altro mezzo fuorchè quello di tenere i sostegni molto indietro, ovvero di distenderli anch'essi, ciò che accadeva il più delle volte di dover fare, poiché le catene ben presto si diradavano ed abbisognavano di rinforzo. Talvolta però avvenne che anche in terreno coperto, al fine di utilizzare gli ostacoli naturali p er avanzare, i soste-

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IBIDEM.


IL PlòNSl~:KO MILffAKE E NAVALE ITAI.IANO - VOI.. lii ( 1870- 19151 - TOMO I

gni si sciolsero frammischiandosi alla catena. Epperciò non di rado si videro interi battaglioni distesi fin dal principio del combattimento. 1 1

Appare quindi chiaro che nelle formazioni prussiane per l'attacco la preoccupazione per la vulnerabilità ormai faceva ampiamente premio su quella - tradizionale - per la rigida disciplina, la comandabilità, la necessità di prevenire confusioni e disordini dovuta anche alla sfiducia per lo spirito combattivo e l'autodisciplina del soldato. Un ultimo aspetto di rilievo riguarda la netta preferenza prussiana, anche nel campo tattico, per quello che con termine moderno si chiama attacco avvolgente, 72 combinato con un 'azione di fissaggio frontale. 73 L'autore infatti giudica l' attacco frontale "la forma più semplice, ma anche la peggiore". A meno di disporre di forze preponderanti, difficilmente fornisce buoni risultati, perché anche nel caso che abbia successo non minaccia la linea di ritirata del nemico; conviene perciò ricorrervi solo quando, per lo scarso numero di forze e per le difficoltà del terreno, non è possibile l'attacco frontale. Una domanda a questo punto sorge spontanea: come mai una forma d'attacco così redditizia come l'attacco avvolgente, nella guerra mondiale specie ma non solo dall'esercito italiano è stata trascurata per applicare l'altra - più semplice ma palesemente meno redditizia - dell'attacco frontale? A questo interrogativo intendiamo dare esauriente risposta nel prosieguo dell'opera, limitandoci intanto a porre un altro interrogativo: era possibile ed era frequente - particolarmente in campo tattico e ai minori livelli - ricorrere con successo all'attacco avvolgente contro un sistema trincerato continuo e profondo come quello della grande guerra, ben diverso per capacità difensiva e di fuoco e assoluta assenza di spazi vuoti - da

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IBIDEM. La Pub. SME n. 5895 Nomenclatore militare (Esercitn) - Ed. 1969 distingue trn mannvra di accerchiamento, manovra di avvolgimento e manovra di aggiramentn e così le definisce: - "mannvra di accerchiamentn: forma che assume la manovra quando tende a sviluppare l'a:tione su entrambe le ali dello schieramento nemico [a contatto], per rinserrarlo totalmente e recidergli le linee di mmunica:tione"; - "manovra di a vvo/Jiimtmto: forma che assume la manovra quando tende a superare un'ala dello schieramento nenùco [a contatto], dopo averne impegnata la fronte, per investirlo sul tergo"; - "numovra di aggiramento: forma che assume la manovra quando tende a investire il fianco o il tergo dello schieramento nemico lungo un a.~se esterno allo schieramento stesso [cioè non a contatto - N.d.a. I, ovvero dal c iclo - aggiramento virtuale - senza impegnare la fronte". 73 Secondo il predetto Nomenclatore, per azin11e difissaJiKio si intende "azione diretta ad impegnare prevalentemente con il fuoco un'aliquota delle forLe nemiche, allo scopo di agevolare lo sforzo principale. Puù, talvolta, identificarsi con uno sforLo sussidiario". 72


VII - RIA .F-5SI l)EIJ :ACC:RF.5\.IUTA EFFICACIA DEI. A JOCO IN FRANCIA E GERMANIA

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quello del 1870-1871? Oltre tutto l'attacco avvolgente richiedeva alle truppe, e in particolar modo ai Quadri inferiori, accurato addestramento, capacità di manovra e di coordinamento, iniziali va ecc.: requisiti sempre più rari, per quanto detto anche dal Blume, in eserciti di massa.

I caratteri della futura guerra "tedesca" di nazioni e Le crescenti d(fficoltà dell'offensiva nelle opere del Von der Golz (1883-1895)

Rispetto al Blume e al Peuker/Paris il generale Colmar Von der Golz, "comandante del grande Stato Maggiore Germanico", ha una visione assai più larga e meno tecnica, pur riprendendo non poche concezioni strategiche e tattiche dei precedenti autori. Anche se scritte a distanza di oltre dieci anni, le sue due opere La Nazione Armata - organizzazione militare e grande Lattica moderne (1883) e Condotta della guerra - brevi inse,?namenti circa i suoi principi e le sue forme più importanti (l895)74 vanno esaminate contestualmente, perché si integrano a vicenda e qualche volta si sovrappongono con non poche ripetizioni, spesso senza nette distinzioni negli argomenti trattati e senza mutamenti sostanziali dall'uno all'altro. Il Von der Golz dedica alle questioni teoriche, alle definizioni delle varie parti della guerra ecc. ancor minore spazio del Blume, permettendo anzi di non volersene occupare per la semplice ragione che "non servono a gran cosa". Il suo interesse è rivolto non alla guerra in genere, ma alla guerra tedesca quale si profila al momento e per l'avvenire, con i suoi aspetti pratici, le sue esigenze e le sue difficoltà. A suo avviso ciascun Paese ha una propria strategia che dipende da vari fattori a cominciare dalla sua posizione geografica; ciò che ha valore pratico non è dunque la teoria strategica in sé ma la prassi strategica, necessariamente diversa per ciascun Paese: una buona organizzazione militare deve corrispondere al carattere nazionale [...]. Questo vale altresì per l'azione che esercitano il comandante in capo e le truppe. Qualunque scritto di strategia e di tattica non deve, nelle sue riflessioni teoriche, trascurare lo specifico punto di vista del suo popolo: occorre che ci indichi una strategia, una tattica nazio-

74 Gen. Colmar Von der Golz, La Nazione annata - or,?aniz;.azio11e militare e ,?rande tatlica moderna ( 1883) - Lrd.duz. frn.ncese 1884, traduz . il. a c ura del cap. Pas4uale Meomartino, Benevento, De Martin i 1894 e ID., La condotta della f?Uerra - brevi ime,?namenti e le sue forme più importanti (1895),

traduz. il. a cuni del cap. Pas4uale Meomartino, Benevento, Tip. L. Martini 1896.


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IL PENSlllRO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. lii (1870-1915)- TOMO I

nale. Solo così facendo potrà rendere un vero servizio al suo Paese; così come un individuo, nella vita di ogni giorno, dà tutto ciò che può dare solo quando viene impiegato nel posto più adatto, anche gli eserciti hanno bisogno di essere nel loro elemento per mettere in luce le loro qualità. 15

Su quale sarà per l'avvenire la guerra tedesca, il Von der Golz non ha dubbi ed è ancor più categorico del Blume: deve essere [ma potrà esserlo? - N.d.a.l la guerra della nazione in armi, intesa non solo come ordinamento delle masse annate, come numero e qualità delle forze militari , ma come mobilitazione di tutte le risorse morali e materiali del popolo, come salda unione dell'esercito e della nazione per raggiungere lo scopo comune: è questa l'unica garanzia di vittoria. Una guerra totale e assoluta dunque, anzitutto dal punto di vista operativo: l'attuale metodo di guerra tedesco consiste nel condurre con colpi vibrati a fondo la battaglia decisiva, che per noi è inseparahile da un' offensiva brutale. Un orientamento offensivo tacito è alla base di tutte le elaborazioni teoriche e della maggior parte delle esercitazioni pratiche. Noi non ne vogliamo sapere di temporeggiare, di attendere, di restare tranquillamente sulla difensiva. Noi abituiamo i nostri ufficiali a agire da soli, a prendere l'iniziativa, a cercare dei risultati reali, tutto questo in vista dell'offensiva. La nostra/orza consiste nel vibrare dei grandi colpi sul campo di battaglia. Nel 1870 la configurazione geo1:rafica del teatro di guerra, la costituzione delle nostre forze e di quelle nemiche, tutto questo ha favorito l 'applicazione pratica di questi metodi, dai quali sono derivati così brillanti risultati. Ovunque noi ritroveremo la situazione di quella guerra, noi potremo ottenere risultati molto migliori di quando saremo costretti a passare lunghi mesi d 'attesa nei campi e nei bivacchi, o - peggio - a restare, senza che sia possibile vibrare colpi decisivi, su una noiosa difensiva.16

Il modello del 1870-1871, la guerra offensiva, rapida, decisiva, con colpi brutali sferrati fin dall'inizio con tutta l'energia possibile: questo è il poco originale succo delle teorie del Von der Golz, che esasperando la già marcata propensione del Blume per l'offensiva batte e ribatte sul concetto

75 76

Von del Golz, La Nazione Annata (Cit.), pp. 19 e 137. ivi, p. 137-1 38.


VII - RIFLF_•;s1 OF.U: ACX:IIBSCIUTA EFFICACIA DEL ruoco IN FRAN=C l"--'A-"' E=G=I,;RM==AN o.:.:le..,. A_

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che la "sua" guerra fa parte della tradizione, dell'indole prussiana e germanica. A ragione osserva, infatti, che gli Stati che sono spinti dalla loro storia e dalla loro politica a cercare degli obiettivi che corrispondano alle loro aspirazioni al di là della frontiera, sono di per sé indotti ad adottare una strategia offensiva, perciò passano per aggressori: il contrario avviene per gli Stati soddisfatti di ciò che già posseggono. Con queste affermazioni il Von der Golz cade in contraddizione, sia perché confonde anch'egli "volere" con "potere" (o meglio il conveniente con il possibile), per di più prescindendo dall'atteggiamento del nemico, sia perché dopo aver tanto caldeggiato l'offensiva per il suo Paese, non si nasconde affatto i vantaggi della difensiva e gli svantaggi e ostacoli del1' offensiva: questo tanto sul piano generale che nel ca,;o particolare di una nuova guerra con il secolare nemico francese, che starebbe (come egli almeno nel 1883 prevede a torto) sulla difensiva. Ciononostante tratta l'offensiva e la difensiva - argomento molto ricorrente nella pubblicistica militare dell' epoca - con un approccio moderato e partendo da una premessa assai acuta: l'interrogativo se sia più forte e più conveniente l 'offensiva o la difensiva non ammette risposte univoche; questo dipende dalle migliaia di casi sui quali si può ragionare. Così, secondo Clausewitz "la difensiva è più forte dell'offensiva" e secondo Blume "l'offensiva strategica è la forma più efficace di guerra". La maggior parte dei testi tratta questo argomento come se ambedue i contendenti fossero Liberi di scegliere tra offensiva e difensiva_ Non è quasi mai così.- La stessa situazione generale al momento della guerra impone a uno dei contendenti l'offensiva e all'altro La difensiva[... ]. Possono esserci delle eccezioni. Una situazione non Jàvorevole può costringere uno Stato normalmente aggressivo a rimanere temporaneamente sulla difensiva f... l. Il caso che ambedue i contendenti prendano l 'offensiva si può presentare solo se essi sono ugualmente forti e hanno la stessa organizzazione militare. Attualmente una semplice differenza di qualche giorno nella mobilitazione impone la difensiva al belligerante che si trova in ritardo. 77

In partkolare la difensiva ha molti vantaggi: possibililà di sfruttare a fondo il fuoco e il terreno, maggiore facilità dell'azione di coman-

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ivi, PP- 247-248.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO- VOL. 111 ( 187(J.1915) - 'IUMU I

do, più agevoli possibilità di rifornimento delle truppe, maggiore vicinanza dei magazzini e depositi e quindi linee di comunicazione più brevi, possibilità di sfruttare l'apporto delle fortificazioni e migliori risultati della leva in massa, perché il cittadfoo prende assai più volentieri le armi per difendere il suo focolare natìo che per rinforzare un esercito che vuole estendere le sue conquiste. L'offensiva ha invece molti svantaggi: maggiori perdite e maggior logoramento delle truppe, maggiori difficoltà di rifornimento, linee di comunicazione sempre più estese e quindi sempre meno agevoli, progressiva riduzione delle forze di prima linea dovuta anche alla necessità di lasciarsi dei presidi alle spalle. Per contro, essa ha il grande vantaggio di far emergere e sfruttare tutte le energie morali e intellettuali dell'esercito e di tenderle ali ' estremo. Inoltre la difesa hen riuscita prova solo che, per il momento, il nemico non è più forte; L'attacco hen riuscito invece prova che è lui ad essere più forte [...]. Ciò che preoccupa nella difesa, è che il suo scopo può essere raggiunto solo se essa riesce a mantenersi integra su tutta la fronte I... I. Tra attacco e difesa vi è una differenza., che va a tutto svantaggio del difensore: che egli vince se vince su tutta la fronte, mentre all'assalitore per trionfare busta sfondare su un solo punto. Questa verità, che depone a 4avore più della tanto esaltata difensiva strategica, spiega perché non si è mai riusciti a difendere a lungo un fiume o una catena montana. 78

Ciononostante, il Yon der Golz si rende conto che la prossima guerra sarà ben diversa da tutte quelle precedenti o che non sarà possibile ripetere le rapide operazioni e i folgoranti successi del 1866 e 1870: prima <li queste campagne non si conosceva bene la forza reale dell'esercito prussiano, perciò le sue modalità d'azione sono state una sorpresa; ma ora i nemici - e in particolare i francesi - non si faranno sorprendere una terza voila e non ripeteranno gli errori del 1870. Questo è dimostrato, sempre a suo parere, dall'indirizzo assunto dalla preparazione militare francese. Dopo aver adottato parecchie soluzioni tipiche dell'organizzazione prussiana, i francesi non sentendosi ancora in grado di prendere l'offensiva hanno coperto di fortezze il loro confine occidentale per imbrogliare e arrestare la prevedibile offensiva tedesca in un'area ristretta, rinunciando a seguire l'e-

1

ivi, pp. 252-253.


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-~ VU ~ - RIFLESSI DELI.' ACC'.RESCIUTA EfflCACIA DEL FUOCO IN FRANCI A,--"E'"°' G°""l::KM=AN ,,_,=._ IA _

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sempio della Germania nel preparare una guerra offensiva, che può essere attuata solo con Capi ben addestrati a condurla. Infatti "le principali qualità [degli ufficiali] per questa guerra sono l'iniziativa e l'indipendenza: esse non si instillano lnei Quadri] dall'oggi al domani, esse si ottengono

solo a forza di un lavoro continuo, che richiede lunghi anni". In Germania le idee per superare questi potenti ostacoli - registra il Von der Golz - sono molto diverse. Vi è chi pensa di tenersi sulla difensiva lungo il Reno mantenendosi lontani dalla cintura corazzata francese, chi vorrebbe darle semplicemente l'assalto, chi propone di infiltrarsi tra i forti francesi lasciando alle truppe di riserva il compito di espugnarli, chi pensa che basterà un breve assedio, chi ritiene assolutamente necessario organizzare degli assedi in piena regola: a<l ogni modo, quel che è certo è che "i francesi non sono più quelli di una volta" (cioè quelli del 1870), e che la guerra sul fronte francese sarà più lenta e difficoltosa che in passalo. Anche sul fronte orientale le prospettive non sono migliori: vi sono larghi spazi che faciliterebbero certamente l'offensiva i1ùzialc, ma le grandi distanze da percorrere e il cattivo stato delle vie di comunicazione potrebbero produrre lo stesso effetto delle fortificazioni francesi, cioè delle soste periodiche per ristabilire le comunicazioni fino a richiedere non una sola campagna, ma più campagne. In queste previsioni del Von der Golz non c ' è ancora la guerra di trincea: comunque si trovano già ben abbozzate le difficoltà strategiche delle guerre del XX secolo per la Germania, che hanno portato al fallimento dei suoi piani offensivi. Per questo non si capisce bene con quale fondamento logico in altra parte del testo il Von <ler Golz giustifica il suo giudizio sull'ineluttabilità dell'offensiva - la sola a poter ottenere l'annientamento del nemico - con "dei motivi intrinsechi, non esterni, con delle ragioni che derivurw dalla natura umana e dai misteri del cuore umano". E, totalmente smentito da11a storia delle due guerre mondiali, prevede che "più il suo

compito diventa arduo, più l'aggressore avrà delle idee sempre nuove e delle nuove energie; la sua capacità di riflessione ne sarà più stimolata, il suo spirito d 'iniziativa crescerà; gli si chiederà di più, ed egli darà di più. Felice il soldato al quale il destino assegna il ruolo dell 'assalitore". 79 Con una siffatta impostazione eminentemente nazionale e molto attenta ai risvolti pratici, si potrebbe dire che nel Von der Golz la teoria discende dalla pratica, o meglio da irrinunciabili esigenze pratiche del solo popolo tedesco: tuttavia senza volerlo e forse senza rendersene conto egli

19

ivi, p. 255.


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IL PENSIERO MILJTARJ:! E NAVALE ITAI.IANO- VOL 111 (187 0-191 5) - TOMO I

si pronuncia anche in materia teorica. Ma qual'è il suo rapporto con Clausewitz, che nei suoi scritti è come sempre oggetto di lusinghiere citazioni? TI Bastico lo presenta come un suo seguace che ne completa le acquisizioni mettendo l'accento sulla guerra totale e di nazioni, ma non se ne distacca; al contrario noi riteniamo che, pur riprendendo molto del teorico mio compatriota e anche citandolo, egli se ne distacchi nettamente su aspetti non secondari, proprio dal punto di vista teorico. Basterebbe a dimostrarlo quanto scrive in apertura dell'Introduzione alla "Nazione Armata" (che potrebbe certamente essere scritto da Jomini o da Marselli, ma altrettanto certamente non potrebbe essere scritto da Clausewitz): benchè i principffondamentali dell'arte della guerra siano senza dubbio eterni, i fenomeni dei quali essa si occupa, e con i quali deve fare i conti, sono soggetti a continue trasformazioni. La guerra è un atto della vita sociale; essa subisce nelle sue forme visibili tutte le modifiche alle quali è soggetta quest'ultima. Le ferrovie e il telegrafo, che aprono nuove vie al commercio, hanno aperto anche all'arte della guerra delle strade che fino a quel momento le erano precluse. L'industria ha potuto disporre di macchine sempre più perfezionate, il soldato si trova tra le mani delle nuove armi con Le quali ottiene dei risultati nei quali i suoi padri non avrebbero osato sperare. Di conseguenza, i principf dell 'arte militare trovano delle applicazioni che continuamente si modificano. Si può affermare a buon diritto che ciascuna epoca ha il suo modo particolare di fare la guerra e che i metodi che ci hanno fruttato la vittoria nel 1870, dopo dieci anni non possono più servire tali e quali da modello per l'avvenire. Oggi vi sono altre esigenze che ci costringono a cercare nuove modalità d 'a zione e nuovi mezzi. 80

In altra occasione afferma che "Clausewitz dice con ra1:ione, che nel

malagevole elemento della guerra, tutta la difficoltà consiste nel rimanere fedele ai principi della guerra, che abbiamo fermati dentro di noi. Perciò conviene che ci si ricordi di loro nel momento giusto; la quale cosa esige, a sua volta, che di tanto in tanto li si richiamino alla memoria". 8 1 Se ne dovrebbe dedurre che anche per Clausewitz si tratta di seguire in guerra dei principi fondamentali, aprioristicamente stabiliti: cosa del tutto er-

"° ivi, p. V. •• Von der Golz, la condotta della guerra (Cit.), p. 5.


VII · RIFLESSI Dfil.L'i\CCRESCIITTA E~'l'IC:ACIA DEL FUOCO IN FRANCIA E GER=M=A=N=IA' - -_ __

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rata. Errato - e decisamenle anticlausewitziano - è anche quanto afferma nelle poche righe dedicale alla definizione di strategia e tattica: la strategia si definisce anche: la scienza del modo di dirigere gli eserciti; la tattica: la scienza della condotta delle truppe [...]. Clausewitz definisce la tattica: la scienza (.çfr') dell'impiego delle forze in combattimento, e la strategia: la scienza (sic) dell'impiego dei combattimenti per raggiungere Lu scopo della guerra. 82

Superfluo qui ripetere che Clausewitz non ha mai parlato di scienza della guerra, ma (cosa ben diversa) ha affermato che quella della guerra si avvicina piuttosto a un'arte. Né tanto meno ha sostenuto che la strategia è scienza, facendo piuttosto emergere che essa ha aspetti artistici, in quanto affidata al genio, all' intuito del Capo: è se mai la tattica ad avere aspetli meno arlistici ed a ammettere più regole. Errori di traduzione? Non siano in grado di verificarlo: osserviamo solo che è oggettivamente difficile confondere arte e scienza. Comunque, fin dal titolo il Nostro parla di princip'ì, quindi anche per lui, come per il Blume, la guerra non è certo il famoso camaleonte di Clausewitz: come si è visto, l'unico caso che esamina è quello della guerra che più conviene alla Germania, nella sua forma più brutale e assoluta, mirante al completo e rapido abbattimento del nemico. Questa è anche la preferenza di Clausewitz, che però lascia almeno la porta aperta ad altre forme. D'allro canto, come Clausewitz il Von der Golz parla di guerra come continuazione della politica e come fenomeno sociale, dà grande importanza agli aspetti morali , riconosce che la guerra è dominata dall'incertezza e da molti fatti accidentali, "per la qual cosa i calcoli preventivi anche più accurati, sono spesso campati in aria ".83 E sempre richiamandosi allo spirito, se non alla lettera, delle teorie di Clausewitz - per il quale le vere difficoltà della guerra stanno tutte nell 'esercizio e nell'intuizione, non nello studio - afferma che non è affatto difficile comprendere la guerra: ciò che è estremamente difficile è farla, senza nessun dubbio; ma la vera difficoltà non sta nel fallo che occorre una scienza speciale o un grande genio per comprendere i veri principi della guerra; ogni uomo intelligente ne è ca-

" ivi, pp. 26-27. •.1 ivi, p. 29.


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pace, sempre che non abbia pregiudizi e che la cosa non sia a lui del tutto sconosciuta. Non è del pari difficile applicare questi principi sulla carta e compilare un buon piano d'operazioni. Ecco qual'è La dij]icoltà: "restare fedeli, nell'esecuzione, ai principi in precedenza stabiliti". Questo l'ha detto Clausewitz Ima Clausewitz, pur raccomandando fennczza e tenacia nel perseguire i propri disegni, ha detto che i principi non devono accompagnare il Capo sul campo di ballaglia N.d.a.]. 84

Ne deriva l'ammissione, abbastanza scontata, che la semplice conoscenza delJe "leggi che governano la guerra" non basta, ma anzi "può preparare fatali disinganni quando non vada congiunta con la nozione ben chiara delle condizioni prime delle quali, nella pratica applicazione, dipende il successo". Nonostante queste affermazioni nella sostanza anticlauscwitzianc (sia pur senza che lo voglia o se ne accorga), quando il Von der Golz indica quali sono i principi dell'arte della guerra si deve constatare che essi anche per lui non sono certo quelli soliti degli autori francesi, che più o meno sono ovunque sopravvissuti fino a oggi: come per il Rlume, anche nel suo caso più che di principi si potrehhe parlare, in senso lato, di criteri, di orientamenti da adottare specie all'inizio della guerra, per giunta abbastanza banali. PRIMO PRINCIPIO DELL'ARTE DELLA GUERRA: volgere i nostri sforzi sulla massa principale nemica raccogliendo una massa superiore, e in tal modo creando la premessa più sicura per ottenere la vittoria. Un comandante di vaglia saprà realizzare l'economia delle forze, che consiste nel paralizzare tutte le forze nemiche con una frazione delle proprie, e nel compensare con l'abilità della condotta delle operazioni e con l'audacia la superiorità nemica. SECONDO PRINCIPIO DELL'ARTE DELLA GUERRA: raccogliere, per l'ora della decisione, tutte le forze, evitando di distaccare forze la cui azione non possa in alcun modo influire sull'atto decisivo principale. Anche in campo tattico, perciò, il primo principio è raccogliere il maggior numero di forze possibile sul punto nel quale si intende sferrare il colpo decisivo.85 Sulle orme di Clausewitz egli precisa anche che, almeno all'inizio della guerra, il numero è l'unico fattore certo da prendere in considerazione e

.. Von der Golz, La Nazione Annata (Cit.}, p. 453. "' ivi, p. 141.


~RIFLESSI DELL'ACCRESCIIITA EfflCACIA DEL FUOCO IN l'RJ\NCIA E GEKMANIA

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nel quale bisogna fare di tutto per assicurarsi la superiorità iniziale, perché i fattori qualitativi (come ad esempio la capacità della Leadership del nemico e il valore del suo esercito) non possono essere calcolati con esattezza in precedenza. Peraltro, non vede certo di buon occhio il forte e continuo incremento numerico degli eserciti del tempo, che considera solo un dato di fatto al quale bisogna adeguarsi valutandone attentamente i riflessi negativi , a cominciare dall'eccessiva pesantezza delle masse armate che ostacola i movimenti rapidi, dall'enorme estensione delle fronti che rende difficile anche l'attività di comando, dai problemi logistici ecc .. Di conseguenza per un futuro sia pur ancora lontano, profetizza addirittura il ritorno a formazioni d'élite come la falange macedone di Alessandro: giorno verrà nel quale i fattori dominanti delle guerre attuali saranno scomparsi, nel quale le forme, gli usi, le opinioni saranno cambiati. Se si spinge lo sguardo verso l'avvenire si potrà intravedere il tempo nel quale i milioni di uomini armati di oggi non saranno più protagonisti. Sorgerà un nuovo Alessandro che alla testa di un piccolo reparto di uomini perfettamente armati e addestrati si 5pingerà davanti delle masse senza nerbo che con la loro tendenza ad aumentare continuamente avranno oltrepassato tutti i limiti della logica, e che dopo aver perduto ogni capacità combattiva si saranno trasformati, come le "bandiere aperte" della Cina, in un'innumerevole e inoffensiva folla di borghesi e bottegai. Allora tutto quello che sarà stato scritto sull'impiego delle masse armate non avrà più alcun valore. Ma il momento nel quale avverrà questa trasformazione è ancora lontano; al momento attuale, lo sviluppo numerico degli eserciti segue ancora una curva ascendente. ~6

Poiché al Von der Golz non sfugge certo il peso negativo del numero sulla capacità manovriera dell'esercito e sulla rapidità delle manovre stesse, non può essere condiviso il giudizio del Bastico, che parla di una sua "categorica rinuncia a ogni manovra [strategica]". 87 Anche l'azione frontale è un particolare tipo di manovra, che richiede a monte tutta una serie di predisposizioni e movimenti, la cui adozione o meno con successo - come avviene per tutte le manovre - dipende dalla specifica situazione propria e nemica. Ma a parte questo, se in campo strategico si possiede la superiorità di for-

"'ivi, p. VII. 87 Bastico. Op. cit., p. SI.


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ze e si intende battere rapidamente il nemico in una battaglia decisiva - è stata anche la strategia di Moltke - quali reali alternative vi sono alla decisione di dirigersi verso la massa principale dell'esercito nemico, mantenendo le forze il più possibile riunite e/o in grado di concentrarsi rapidamente? D'altra parte il Von der Golz non esclude tassativamente, anche in campo strategico, la manovra sui fianchi o sul tergo del nemico: afferma solo che " qualsiasi azione sussidiaria al semplice attacco frontale non è di per sé stessa né un guadagno né una particolare sorgente di forza, in quanto esigendo l'impief?O di forze adef?uate, p01ta a tutta prima ad un indebolimento del['attacco principale". Fatto innegabile, che a maggior ragione vale quando la forza degli eserciti è infinitamente superiore a quella delle guerre napoleoniche e le fronti sono infinitamente più ampie. Per ultimo, come ricorda lo stesso Bastico il Von der Golz precisa che quando si è giunti a contatto dell'avversario la decisione in campo tallico va ricercata nel modo più opportuno, anche con l'aggiramento o avvolgimento. Insomma: egli non fa che prendere atto che le manovre napoleoniche non sono più possibili o sono estremamente ardue, il che è un suo merito perché è vero. Perciò, quando il Bastico al termine dell'esame delle sue teorie nota con palese ma eccessivo intento critico che "dalla nuova dottrina tedesca è ormai scomparso quanto di napoleonico era in quella di Clausewitz e in certa misura in quella del Moltke ", oltre a contraddire il precedente giudizio su Von der Golz fedele seguace di Clausewilz sembra non rendersi conto che - come già ha dimostrato chiaramente la prima guerra mondiale - nel XX secolo ripetere le manovre risolutive di Napoleone e Moltke non è più possibile, e che il Nostro riconoscendo questa reallà cerca il modo di applicare per quanto possibile gli antichi modelli strategici: anche per questo si dichiara convinto clausewitziano, almeno quando sottolinea l' importanza delt ' azione di comando e del la personalità del Capo in un ambiente operativo dove essa diventa sempre più difficile. Un altro carattere delle guerre del presente e del futuro sul quale il Von der Golz si sofferma è la loro antieconomicità, derivante dal grande sforzo che ormai richiedono alla Nazione in ogni settore. Questo fatto innegabile lo induce a sostenere che con l'elevato costo degli armamenti e delle guerre i sempre più numerosi eserciti del tempo esercitano di per sé un ruolo dissuasivo, di fatto contribuendo ad evitare le guerre assai più degli arbitrali internazionali ai quali manca la capacità di imporre le loro decisioni. Perciò il mezzo migliore di conservare La pace sono i gagliardi ordinamenti militari; perché si aggredisce meno facilmente il forte che il debole. Con la grandezza e La potenza degli eserciti cresce anche La sciagura che il


Loro urto produce; La responsabilità nel decidere La guerra diventa più grave, e perà questa decisione è più difficilmente presa. Quindi gli Stati militarmente deboli in mezw a vicini più potenti formano un pericolo di guerra. Quelli in particolare che, per falsi riguardi, trascurano i loro ordiTUJmenti militari, provocano quel pericolo per colpa propria. La stessa cosa vale per gli Stati che hanno un governo fiacco, non in grado di frenare le passioni popolari; perché Le masse eccitate leveranno il grido di guerra più facilmente dei gabinetti dei ministri. lIB

Vero o falso? Vero o falso, anzi più vero che falso. Se nel 1914 il massiccio riarmo dei princip,ùi Stati non ha impedito la guerra e i governi non ci hanno pensato troppo a dichiararla, nella guerra fredda del XX secolo la dissuasione ha funzionato grazie anche alla bomba atomica; quel che qui importa rimarcare è che il meccanismo della dissuasione non era affatto sconosciuto a fine secolo XIX, anche tra gli autori delJa potenza allora ritenuta più aggressiva. Per giunta il Yon der Gol7. si rende conto di un'altra grande verità, che sarebbe andata a tutto danno della Germania nelle due guerre mondiali: "la semplice durata dello stato di guerra è - per la sensibilità tanto sviluppata della vita commerciale odierna - diventata già di per sé sola una Jorz.a dissolvente e distruggitrire che, in date circostanze, può esercitare un 'influenza addirittura decisiva [...]. Chi è in grado di sostenere più a lungo la guerra gode di un grande vantaggio" [nostra sottolineatura - N.d.a.]. Il Yon der Golz aggiunge che Paesi come la Prussia, molto estesi e con popolazione frugale e in gran parte contadina, non hanno molto bisogno di importazioni e possono sostenere la guerra a lungo, anche perché le popolazioni contadine, sparse su un grande territorio. non hanno i mezzi per far pesare la loro volontà di pace. Diverso è il caso di Stati più c ivili, più popolati, con intensa attività industriale e commerciale molto disturbata dalla guerra, che hanno bisogno di molle importazioni e oltre tutto non sono concordi. In questo caso "c'è una borghesia ricca, dedita alle industrie e dimorante nelle grandi città, che può perdere tutto dal turbamento della vita abituale. Essa, dopo le prime sconfitte, non solo sarà subito propensa per la pace, ma, avendo in mano la stampa e influenze di ogni sorta, possiederà anche il mezzo di far dare ascolto ai suoi desideri". 89

"' Von dcr Golz. La Nazinne Amwta (Cit.), p. 8. "" Von dcr Cìol7. !J, Co11do11a della f(tll!rra (Cit.), p. 20.


IL PENSIERO MILrlA RE E NAVALE ITALIANO · VOL lii ( 1870-191 5) - TOMO I

Sempre a parere del Nostro queste circostanze, unite al grande costo degli csercitj moderni hanno riflessi operativi di grande peso: inducono i governi a imporre ai comandanti militari di evitare le fasi statiche e le lunghe pause delle guerre passate, per condurre invece operazioni a ritmo serrato. Ecco dunque comparire o meglio ricomparire e permanere, anche per questa via, il mito della guerra breve, rapida e offensiva di marca napoleonica, che tende a confondere il "volere" con il potere, il conveniente con il possibile; peraltro il Von der Golz ha almeno il merito di non credere a soluzioni semplici, e anzi sottolinea che non basta la debellatio de1l 'esercito nemico in una sola grande battaglia per ottenere la pace. Ciò non toglie che - con parole poi riprese aJla lettera dal Foch - egli esalti i vantaggi dell'offensiva e i limiti della difensiva, pur dando la dovuta importanza all'efficacia del fuoco che con questa forma d'azione si ottiene e alla fortificazione campale. Non è, invece, entusiasta della fortificazione permanente, che può essere utile solo in ben determinati casi ed è molto dispendiosa, con il rischio di servire a poco nel caso che le operazioni di guerra prendano una piega inaspettata. In particolare, citando anch'egli l'esempio di Mctz nel 1870 non crede all'cfiìcacia delle piazze-rifugio, dove gli eserciti dovrebbero trovare rifugio e riorganizzarsi per poi riprendere l'offensiva; e come il Marselli ritiene che le grandi piazzeforti finiscano con l'esercitare una dannosa attrazione sulle operazioni degli eserciti. Per tutte queste ragioni intravede una soluzione alternativa abbastanza vicina alla futura formula del carro armato, che ne11a sua più semplice espressione non è che una fortezza mobile: bisognerehhe trovare il meu.o di fare la piazza mobile e organiu.ata così, che le bastas.ve una guarnigione minima, per semplice sicurezza contro un attacco di viva forza. Un avviamento a ciò noi troviamo nell 'impiego del f erro e dell'acciaio come mezzi protettori, ai quali è immediatamente collegato il cannone, così che questo e la sua opera fort~ficatoria vengano a formare un peu.o solo, che si puà montare e smontare sul posto. Per tal modo si riuscirà a difendere luoghi importanti con poche macchine servite da un manipolo di uomini, e a ridurre le future posizioni fortificate o i campi trincerati a uno scheletro. Le une e gli altri andrebbero impiegati solo nel momento in cui è probabile che saranno per giovare all'andamento delle operazioni. 90

90

ivi, p. 231.


VII RIFLESSI DF.1.1.' ACCKtSCIUTA EFFICACIA DEL l'IJOCO IN FRANCIA E GERMANIA

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Infine, anche se la Prussia - e poi la Germania - sono le grandi potenze militari che più si sono avvicinate alla formula della nazione armata, il Von der Golz non ha nessuna simpatia per questa soluzione completa e propende per quella tipo esercito permanente di leva, che in pace addestra il personale e in caso di guerra funge da robusta intelaiatura per inquadrare prontamente i richiamati. Egli pensa evidentemente al caso particolare della Svizzera quando scrive che un ordinamento tipo nazione armata "può sembrare giustificato [solo] là dove l'ambiente naturale rende impossibile l'attacco di un esercito già pronto a combattere, e dove la piccola estensione e popolazione dello Stato fanno ricorrere a questo mezzo per mettere su un esercito, che sia considerevole almeno per il suo numem". 91 TI titolo Nazione Armata della sua opera più famosa, dunque, va rettamente interpretato e non è certo una semplice formula ordinativa di tipo svizzero. Oltre a quelle indicate, tra le condjzioni di successo il Von der Golz indica anche l' opera della politica, sia interna che estera: "è dalla politica che dipende la situazione generale, lo spirito pubblico, il carattere delle Istituzioni, il vigore morale e fisico dello Stato, e il modo di fare la xuerra dipenderà da tutti questi elementi". 92 Come e ancor più di quanto il Blume, però, alla politica non riconosce alcun ruolo moderatore sul carattere della guerra: la guerra non può nascere che da considerazioni politiche, tra politica e guerra deve esistere la massima armonia, e senza una buona politica non si può condurre una guerra con esito favorevole: ma "questo non diminuisce per nulla l'importanza della guerra, questo non ridurrà affatto la sua indipendenza. purchè sia il generalissimo che l'uomo di slato che dirige la politica siano convinti che, quale che ne sia la causa, la guerra serve al meglio la politica ottenendo la disfatta completa del nemico ". 93 Da questa proposizione deriva, anche se l'autore non lo dice, una sorta di subordinazione di fatto deHa politica al tipo di guerra, che in ogni caso deve essere assoluta e mirante a schiacciare l'avversario: la po)jtica, dunque, non può fare altro che creare le migliori condizioni, prima e durante la guerra, perché ciò avvenga. Accanto a questa posizione anticlausewitziana ve ne sono altre ugualmente divergenti dallo spiritualismo dello stesso Clausewitz. Come si è visto, il Von der Golz nel sottotitolo della Nazione Annata parla anche di "organizzazione" (cioè di un argomento che Clausewitz nel Von Kriege si rifiuta esplicitamente di trattare, intendendo occuparsi solo dei problemi di 91

Von dcr Golz, La Nazione Armata (Cit.), p. 9. "'- ivi, p. 131. 93 ivi, p. 136.


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condotta) e si guarda bene dal sottovalutare - come nella sostanza fa Clausewitz - l'importanza delle buone armi, dei materiali, dei mezzi finanziari, della logistica. Pur non usando quest'ultimo termine, ne tocca con ampiezza i contenuti sotto un duplice aspetto: l'esigenza fondamentale di assicurare comunque buone condizioni di vita e di riposo per le truppe, che altrimenti non combatterebbero bene e avrebbero il morale basso; i problemi che crea il movimento di masse armate con un carreggio sempre più importante al seguito. Per fare un esempio, dopo aver osservato che la sollecitudine, l'abilità e l'esperienza del comandante e dello Stato Maggiore si misurano dalle disposizioni che sono in grado di dare per il movimento e lo stazionamento, suggerisce di ammassare fin dal tempo di pace nelle vicinanze delle stazioni ferroviarie di testa e delle grandi piazzeforti grosse quantità di materiale per costruire baracche, allo scopo di impedire che, per quanto possibile, le truppe mobilitate dormano all'addiaccio. Nessun altro autore europeo, a quanto si sa, ha simili preoccupazioni.... Accanto alla logistica indica altre "condizioni di successo", che ha il buonsenso di non chiamare principi: la qualità delle forze, il buon armamento, i mezzi finanziari, la disponibilità ai sacrifici dell'intera nazione. Alle precedenti considerazioni sul numero aggiunge che esso vale solo se si trovano di fronte eserciti di pari qualità e che la superiorità qualitativa può compensare fino a un certo punto altre carenze; anche un grande capitano ha trovato e troverebbe difficoltà a battere forze doppie. Un'altra condizione di successo è il buon annamento, sul quale il Von der Golz fa considerazioni ancor valide, non sempre tenute presenti - come quelle relative all'organizzazione e alla logistica - nelle guerre italiane del XX secolo: un malinteso concetto di economia, gli errori tecnici e La testardaggine e il falso orgoglio che dopo aver dichiarato che un 'anna è buona inducono a non smentirsi, possono provocare una grave inferiorità, visti i progressi rapidi di oggi. E ' dunque estremamente importante disporre di un armamento che risponda a tutte Le esigenze di un'epoca nella quale la fiducia del soldato si ottiene a questo prezzo. Nulla è più terribile che avere a che fare con uomini che credono di essere trascurati sotto questo a~petto, e che prevedono di soccombere sotto l'effetto di armi contro le quali le loro non valgono niente. Questo può servire da scusa alle disfatte, e il successo non ha nemico peggiore di questo sentimento, se e.vso si impossessa dei soldati_ 94

"'' ivi, p. 142.


VIJ - RIFLESSI DELL'ACCRESCIUTA EFFICACIA DEL FUOCO IN FRANCIA E GERMANIA

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Anche le sue considerazioni sull'importanza dei mezzi finanziari sono state confermate - a tutto danno della Germania e dell'Italia - nelle guerre del XX secolo. L'antico detto che "è il denaro che fa la guerra" è da lui ulteriormente sottolineato con l'affermazione che "per fare la guerra occorre del denaro, ancora del denaro e sempre del denaro", per due ragioni che si aggiungono al1e antiche e danno loro maggior peso: la guerra di oggi mobilita nel modo più completo e assoluto tutte le risorse di una nazione; in secondo luogo, l'esercito moderno di una grande potenza costa da 1,5 a 2 milioni di talleri al giorno (da 5,6 a 7,5 milioni di franchi), perciò "nessun Stato al mondo è così ricco da potersi permettere questa ::.pesa giornaliera per degli anni interi". Ne consegue che le risorse finanziarie si esauriscono assai prima delle risorse di uomini (con un esercito di 1,5 milioni in caso di guerra, la Germania potrebbe chiamare alle armi fino a 3 milioni di uomini), perciò "una Nazione che è in grado di sostenere una guerra lunga possiede una seria garanzia per il successo finale". 95 Nulla del genere si trova negli autori francesi ... Un'altra conseguenza del grande costo delle guerre moderne è l'importanza del dominio del mare (anch'essa ignorata dai francesi). Possedere mezzi finanziari ingenti non basta. bisogna essere in grado di impiegarli per rifornirsi anche all'estero dei mezzi necessari. Perciò gli Stati che in caso di guerra mantengono aperte le comunicazioni marittime hanno, per f,fruttare i loro crediti finan ziari, ben altre possibilità rispetto agli Stati i cui porti in caso si guerra sarebbero immediatamente bloccati. Hssi, inoltre, potranno ricorrere alla industria straniera per armare e equipaggiare nuovi eserciti. Senza quest'ultima possibilità, l 'Amministrazione della difesa nazionale !tedesca! nell'ultima guerra non avrebbe potuto mettere in campo le formidabili armate che hanno stupìto il mondo intero. Se nel 1814 Napoleone avesse avuto questa possibilità, le cose sarebbero andate diversamente. Nella guerra di secessione americana i Sudisti malgrado la loro superiorità militare hanno dovuto cedere, perché le loro comunicazioni marittime erano interrotte. Il dominio dei mari contribuisce dunque indirettamente a rendere forte uno stato, anche se le sue forze marittime non so110 i11 grado difomire un appoggio diretto alle operazioni del/' esercito. 96

95 96

ivi, p. 143. ivi, pp. 143- 144.


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Il Bastico, che gli dedica non più di sei pagine, ignora sia i suoi accenni all'importanza della qualità, dell'armamento, dei mezzi finanziari, sia quelli - assai moderni e attuali - alla disciplina, che a parer nostro meritano qualche cenno. Smentendo radicate quanto inesatte idee sull'autoritarismo della casta ufficiali germanica e sul suo modo di trattare il soldato, il Von der Golz dopo aver osservato che solo una buona disciplina può consentire l' azione del comando sulle enormi masse degli eserciti del momento, così sintetizza il problema disciplinare di ieri, pienamente valido anche oggi: generalmente per disciplina si intende il mantenimento dell'ordine e la buona tenuta delle truppe, ottenuti con la puntuale applicazione di una legge severa. A questo bisogna obiettare che tra la severità delle leggi e l'ordine e la buona tenuta delle truppe non c'è affatto un rapporto diretto. Non vi sono mai state truppe più disciplinate di quelle tedesche delle ultime guerre, eppure esse erano governate con le leggi più benigne che abbiano mai avuto degli eserciti in guerra; per di più, tali leggi erano applicate con molta umanità nei riguardi dei trasgressori. Per rnntm, nella storia antica e moderna si trovano molti casi nei quali la durezza draconiana delle leggi è stata accompagnata dall'indisciplina. Negli eserciti della Repubblica francese dopo il settembre [1870) si.fucilava ogni mattina e le esecuzioni sommarie non erano rare; ciononostante, la disciplina era rilassata. Infondo, tutto ciò risponde alla logica: le leggi nascono da una certa situazione e l'influenzano solo afauo compiuto. D'altra parte, non si deve credere che nell'esercito di un popolo civile la disciplina venga da sé, perché essa discenderebbe semplicemente dalla morale civica. Ciò che si domanda agli uomini in guerra è troppo duro, è troppo difficile perché cià avvenga. Certamente i crimini sono in lutti i casi minori nel!' esercito di un popolo civile che nelle orde di una razw barbara. Ma la disciplina non esige solo delle virtù negative; chiede al soldato il sacrificio della vita per vincere il nemico. Essa gli domanda delle prestazioni straordinarie, essa mira a rendergli tali prestazioni così familiari che esse finiscono per sembrargli immutabili, cioè naturali. Il miglior concetto di disciplina l'ha fornito Darwin, secondo il quale "la superiorità dei soldati disciplinati sulle masse barbare deriva principalmente dalla fiducia che ciascuno di essi ha nei camerati". Questa fiducia assoluta costituisce certamente il mi,:lior mezw d'azione disciplinare, ed è il miglior elemento caratterizzante di questa cosa della quale si parla tanto, la discip/ina. 91

97

ivi, pp. I 56- 157.


VII - RIFLFSSI DELI.' A<XRESCllffA EFFICACIA DEL FUOCO IN FRANCIA E GERMANIA

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Ciò non significa che non sia necessaria, come base della disciplina, una legge assai severa e applicata strettamente, con particolare riguardo a tutti gli atti di disobbedienza. Con l'esatta applicazione della legge si deve arrivare all'idea che grandi e piccoli nell'esercito sono ugualmente tenuti all'obbedienza. L'esempio del superiore è ben più efficace delle leggi scritte e delle parole; il soldato regola la sua obbedienza nello stesso modo che la vede praticare dai suoi superiori. Non è però sufficiente che egli obbedisca agli ordini; è necessario che eserciti la sua obbedienza nei più minuti dettagli del servizio. Sotto questo aspetto, la tradizionale precisione che nell'esercito tedesco si esige dal soldato nei minimi dettagli del servizio non è un segno di pedanteria o di rispetto della tradizione, ma mira ad instillargli il senso del dovere, ad educarlo facendone un uomo nel quale si può avere una fiducia illimitata. Occorre inoltre che si stabiliscano delle relazioni veramente intime, una comunione di spiriti tra ufficiali e soldati. Ogni uomo sotto le armi deve sapere, per esperienza, che il suo ufficiale non abbandonerà mai il plotone, che il suo reparto è come una famiglia nella quale vi sono solo interessi comuni e nella quale ciascun membro si manterrà unito in modo inseparabile agli altri nell'era del pericolo. E' questo che crea, ad ogni livello, la reciproca fiducia: "è grazie a questa fiducia che nelle ultime guerre ogni reparto del noslro esercito ha poiuto attaccare senza esitazione il nemico, anche quando era inferiore di numero, tutte le volte che ciò sembrava utile alla causa comune o che l 'occasione era favorevole". E ogni generale, così come ogni comandante di plotone, sapeva che in caso di bisogno i reparti più vicini sarebbero accorsi in suo aiuto .... Le fatiche, i pericoli , le perdite e la fame del tempo di guerra possono distruggere qualsiasi disciplina; "essa viene meno soprattutto quando si impongono alle truppe delle fatiche inutili e quando sono esposte a perdite che si sarebbe potuto evitare". Ma a parte l'azione di comando e il ruolo degli ufficiali, una buona disciplina dipende da una buona organizzazione militare: anche sotto questo aspetto il Von der Golz sottolinea delle esigenze non di rado ignorate nella mobilitazione italiana per le guerre del XX secolo, peraltro rivelatesi sempre più difficili da soddisfare anche per l'esercito tedesco in guerra. A giudizio del Yon der Golz bisogna anzitutto evitare il sistema di mobilitazione francese (e - aggiungiamo noi - anche italiano), cioè la costituzione ex-novo e/o l'assemblaggio in pochi giorni di unità che in tal modo risultano improvvisate, con Quadri e truppe che non si conoscono e per ciò stesso risultano poco efficienti e disciplinate:


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se facessimo questo anche noi, la stesso base dell'istruzione, dell 'urtiine e della disciplina sparirebbe, e con essa anche il principio che ogni superiore è personalmente responsabile delle condizioni delle truppe ai suoi ordini. Diminuirebbe altresì il personale interesse degli ufficiali per i loro uomini, la [uro influenza su di essi e di conseguenza la disciplina. 98

Per evitare tali inconvenienti occorre per prima cosa che le unità già costituite in tempo di pace conservino - anche per ragioni addestrative - un livello di forza elevato e siano mantenute integre anche in tempo di guerra, evitando di scindere i battaglioni e/o di affidare ad altro comandante dei battaglioni tratti da reggimenti diversi. Peggio ancora, si deve evitare di costituire all'improvviso unità con forze tratte da vari corpi d'annata, perché le differenze tra le varie regioni tedesche sono notevoli, e i soldati di ciascuna esigono un governo disciplinare diverso. Il Capo che deve condurre uomini in guerra deve conoscere i suoi soldati fin dal tempo di pace, perciò bisogna evitare troppo frequenti cambiamenti di desti11aL.io11e J.egli ufficiali specie ai minori livelli , e al tempo stesso, fare in modo che i soldati richiamati per quanto possibile rientrino allo stesso reggimento dove hanno compiuto l'istruzione di pace, dove ritrovano gli stessi ufficiali, gli stessi commilitoni, e lo stesso ambiente. Solo così si mantengono le tradizioni e lo spirito di corpo. E' necessaria, infine, la disciplina delle intelligenze degli ufficiali, che può derivare solo da una loro educazione e istruzione uniforme: se in un esercito l'impiego, l 'azione dell'intelligenza non è regolata, è difficile condurre questo esercito. Questa lacuna è stata sovente la causa della sconfitta degli eserciti improvvisati [ ... ]. Tra gli ufficiali subalterni degli eserciti della Repubblica francese del seuembre Ll870J vi era un gran numero di giovani appartenenti alla più alta aristocrazia. Tra di essi abbondavano Le doti di intelligenza, ma si trattava di un 'intelligenza indisciplinata che nun era stata formata e hen indirizzata: di qui la mancanza di un 'unità d 'azione.99

A questo punto affiora lo spirito di casta e il modo tedesco di allora di ottenere l'unifonnità di formazione del corpo ufficiali: quando la discipli-

•• ivi. p. 160. "" ivi. pp. 162-163.


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na delle intelligenze esiste, il generalissimo può tranquillamente lasciare campo libero all'iniziativa dei comandanti in sottordine, sicuro che "anche se non si farà ciò che lui stesso avrebbe fatto, si farà pur sempre ciò che risponde allo scopo da lui indicato"_ Bisogna però tener presente che questa unità, questa uniformità dell 'istruzione intellettuale è possibile solo negli eserciti nei quali l'intero corpo ufficiali appartiene alla medesima classe sociale. Essa farà difetto là ove gli ufficiali provengono in parte dalla truppa, in parte dalle scuole militari e di guerra. In questi eserciti non si potrà mai contare su una pe,fetta unità d'azione.

Altra implicita critica a1 sistema francese e italiano; va anche notato che affermazioni del genere non si trovano in nessun scrittore italiano o francese coevo. Per altro verso, anche da questa interfaccia risalta il principale intento caratterizzante dcll ' opera del Yon dcr Golz: fare un'opera prettamente tedesca, a1 servizio della Nazione e ùd suo esercito, del quale, teoria a parte, ad ogni piè sospinto emerge la coscienza della propria superiorità e la pregiudiziale offensiva, mirante all'annientamento dell ' avversario in tempi brevi. Sono, insomma, le peculiarità cd esigenze tedesche - e solo tedesche - a costituire il più forte limite di un complesso di riflessioni spesso esemplari per il realismo, lo spirito pratico e la flessibilità che le informa.

Da Canne alla battaglia della Marna: limiti (ma anche pregi) della strategia classica d 'avvolgimento del generale Von Schlieffen (7909- 1913)

Dopo il Von der Gol.t il Bastico prende in esame con condivisibili accenti critici le teorie del generale Von Schlieffen, 100 Capo di Stato Maggiore tedesco dal I 891 al 1905 e autore del famoso piano iniziale di avvolgimento dell'ala sinistra francese attuato - con poco felici ritocchi e senza successo - dal suo successore Von Moltke Junior nel 1914_ Con il famoso studio Cannae, '° 1 lo Schlieffen prende come modello per la battaglia decisiva del futuro appunto la battaglia di Canne, nella quale Annibale lasciando debole il suo centro riuscì ad accerchiare l'esercito romano da

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Bastico, Op. cii., Voi. Il pp. 52-6 1. Di questo studio la Bihliotcca Militare Centra le dello SME possiede una riedizione degli anni 20 (Berlin, Miuler 1925). 101


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ambedue le ali distruggendolo. Con queste reminiscenze storiche, evidentemente lo Schlieffen parte dalla stessa esigenza del Blume e del Golz: atterrare l'avversario con un colpo decisivo fin dall'inizio della guerra, sfruttando a fondo la superiorità quantitativa e soprattutto qualitativa dell 'esercito tedesco. Quest'uJlimo è un dato ormai assiomatico, del quale nessun autore tedesco e forse nessun tedesco al tempo dubita e che, del resto, più o meno a denti stretti è ammesso anche da molti autori di altri Paesi , non esclusi i francesi. TI concetto offensivo delJo Schlieffen è semplice fino ad apparire semplicista e diverge radicalmente da quello del Von der Golz, assumendo oltre tutto la veste di un vero dogma. Lo dimostra la seguente citazione letterale delle sue tesi, riportata dal Bastico: "la battaglia decisiva che mira all 'annientamento dell'avversario può svilupparsi ogni giorno tale quale Annibale L'aveva concepita in antico [quindi, le nuove armi e i nuovi mezzi non contano niente e nessuna nuova difficoltà è sopravvenuta anche dopo la guerra del 1870- 1871 N.d.a.l. Come allora, l'obiettivo dell'attacco principale non deve essere La fronte del nemico; e non è contro la fronte che si debbono ammassare le forze e disporre le proprie riserve. La questione essenziale è di agire contro i fianchi dell'avversario; ben lungi dall'essere limitato alle ali delle prime Linee, tale altaccu deve tendere alle riserve, e svilupparsi in profondità a tergo delle posizioni occupate dal nemico. L'annientamento sarà tanto più completo, quanto più l 'azione aggirante si sarà manifestata sul tergo dell'esercito nemico. In un primo tempo tale missione sarà affidata alla cavalleria". 102

A conforto di queste tesi il Von Schlieffen cita Federico il, Napoleone e Moltke, con personali interpretazioni delle loro gesta che fanno dire al Bastico, a ragione, che mette la storia al servizio di tesi preconcette. Il difetto fondamentale dell'impostazione strategica del Von Schlieffen va infatti ricercato nel suo schematismo e nel suo meccanicismo, che prescindono da contingenze impreviste e dal le contromanovre dell'avversario, perciò ricordano il Bi.ilow e il Willisen e si allontanano da Clausewitz e dallo stesso Moltke, secondo il quale - come già detto - la strategia è un insieme di espedienti e poco affidamento si può fare sul piano iniziale di guerra. Paradossalmente è proprio lo stesso Schlieffen a riconoscerlo con-

102

CiL. in Dastico, Op. cii., pp. 53-54.


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tro ogni sua intenzione, quando afferma che "nella storia militare.fatta eccezione per Sedan [capitolata il 10 settembre 1870 di fronte alle forze prussiane - N.d.a.], è vano ricercare una completa battaglia di Canne: ciò perché occorre un Annibale da una parte e un Terenzio Varrone [console romano in comando a Canne - N.d.a.] dall'altra, che concorrono ciascuno a suo modo (sic) al raggiungimento del grandioso successo". 103 Ma come si può giudicare un piano, che per riuscire oltre che del perfetto funzionamento di tutti i rotismi e della totalità delle forze mobilitate ha bisogno della collaborazione, degli errori dell'avversario? che dà arrogantemente per scontata, a priori, l'inferiorità della leadership e la mancanza di contromanovre delle forze che ne contrastano l'esecuzione? Ha perciò ancora ragione il Bastico, quando riscontra che una siffatta concezione, basata sulla svalutazione dell' avversario e su un'eccessiva e pericolosa coscienza della propria superiorità, ha avuto successo solo perché ben corrispondeva allo stato d'animo della nazione tedesca in quel momento. Nel merito, sempre secondo il Bastico comunque la si considerasse, è evidente che una tale dottrina strategica e tattica dovesse apparire anche se.fattibile, rigida, schematica, troppo materialistica nella sua stessa essenza spirituale, e soprattutto di ben dubbia utilizzazione di fronte ad un nemico accorto, manovriero ed animato da spirito offensivo [... J. Ma se questa presunta superiorità non esiste, o per una qualsiasi causa non può manifestarsi; se il nemico manovra o resiste; se la sorpresa non avviene, l'intrinseca debolezza di una strategia e di una tattica così semplicistica può condurre al disa-

stro.104

TI disastro nel 1914 non è avvenuto, ma certamente la battaglia della Marna ha fatto giustizia delle idee dello Schlieffen, ed è ben noto che i perdenti hanno sempre torto; ciò non significa, però, che siano tutti giustificati i fin troppo facili crucifige lanciati addosso alle sue idee. Intanto è doveroso, anche se antistorico, chiedersi che sarebbe avvenuto se, nel settembre 1914, fosse stato egli stesso a co11audare sul campo il suo piano: per comune ammissione, infatti, il Moltke Junior è stato un cattivo e poco energico esecutore, che del grande zio portava solo il nome. E che dire della cattiva preparazione politica che - diversamente da quanto chiedevano

103 104

ivi, p. 60. ivi, pp. 60-6 1.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE JTAUANO - VOL.Jll (1870 -1915) - TOMO I

Clausewitz, Blume, Golz - ha costretto l'esercito tedesco a combattere subito su due fronti, quindi indotto Moltke Junior a fare ciò che SchJieffen non avrebbe mai voluto, cioè distogliere forze dal fronte occidentale per rinforzare quello orientale contro la Russia? E quanto hanno pesato sul ritmo dell'avanzata tedesca attraverso il Belgio le difficoltà logistiche e la stanchezza della massa aggirante tedesca, già lucidamente previste dal Von der Golz? Eppure almeno ali' inizio i generali francesi hanno di fatto collaborato con l'avversario, con una dissennata quanto sterile offensiva frontale ad ogni costo che ha finito col favorire la manovra ledesca. Quesl' ultima è dunque fallita più per demerito proprio che per merito dell'avversario, e in ogni caso, almeno nella fase iniziale non è certo fallita a causa del predominio del binomio tattico mitragliatrice - reticolato, ma semplicemente perché - dando ancora una volta ragione al Von der Golz - "i francesi non erano più quelli del 1870", la resistenza delle truppe francesi è stata più salda e la loro leadership più avveduta e reattiva_ Ciò non toglie che l'opera dello Schlieffen è eminentemente anticlausewitziana; il suo principale limite sta proprio nell'aver trascurato completamente i possibili condizionamenti della politica sulla guerra previsti da Clausewitz, pretendendo al contrario di asservirla e non considerando che, come diceva Napoleone e come ben sapeva Moltke, "l 'imprevu domine à la guerre" . Per di più, in un articolo del 1909 sulla Deutsche Revue tradotto e pubblicato anche in ltaliaw5 il Yon Schlieffen rivela una visione della guerra futura antiquata e non certo preveggente sotto il profilo strategico, mentre sotto il profilo tattico le sue considerazioni, assai poco originali, non si discostano di molto da quelle già esaminate del Peuker/Paris. Ritiene che le cifre di 4-5 milioni di uomini mobilitabili siano "più o meno immaginarie ".- in realtà a suo giudizio non sarà mai possibile impiegare in prima linea più di un milione di uomini, sia per le numerose esigenze di presidio di fortezze e varie località dell'interno, sia perché l'uomo che dalla caserma è andato alla fabbrica o alla miniera, non può, dopo quindici anni, ricordarsi della tattica che gli fu insegnata nella piav,a d'armi della guarnigione. Il fucile che il soldato della territoriale ha usato per il bersaglio è passato da tempo a qualche truppa nativa delle colonie, e la nuova arma che gli è posta tra le mani gli ispira

'"' La ,:uerra di o,:,:i, in "Nuova Antologia" Voi. CXXXIX, Fase. 890 - 16 gennaio 1909, pp. 329-340.


VII - RI A.ESS I DEIL' ACCRP.SCIUTA EFFICAC IA DEL FUOCO IN FRANCIA E GERMANIA

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la stessa diffidenza. che potrebbe sentire un antico granatiere per un fucile ad ago. L'operaio di una fabbrica che è abituato ad andare e tornare dal lavoro in bicicletta, difficilmente potrà, carico di armi, munizioni e zaino, percorrere giornalmente 30 o 40 chilometri! Milizia territoriale e riserva possono in assai scarsa misura essere computate nel numero della truppa combattente in ca.vo di guerra.

La guerra ormai vicina avrebbe smentito questi calcoli, sia pur facendo emergere gli inconvenienti del crescente impiego in prima linea anche di personale richiamato ormai anziano e con famiglia; così come avrebbe smentito altre considerazioni dello Schlieffen sulla durata della guerra, tra l'altro contradditorie_ Si rende ben conto dell'efficacia del fuoco, fino ad affermare che "nessuna truppa in colonna, nessun uomo non protetto e ritto in piedi, può sfidare una tal piogg ia di proiettili"; ma anch'egli come tanti scambia il volere con il potere e il possibile con il necessano, con la constatazione - in parte non nuova - che la guerra russo-giapponese ha dimostrato che l 'assalto scoperto sulla fronte nemica. nonostante tutte le difficoltà che presenta. può riuscire felicemente. L'esito di esso però, anche nel più favorevole dei casi, non è di grande importanza. Il nemico, ricacciato indietro, riprenderà di nuovo La resistenza dopo qualche tempo e in altri luoghi. Si protrae l'azione, senza definirla. Ma siffatte guerre troppo protratte non sono possibili in un'epoca come la nostra, in cui l 'esistenza della nazione si basa sull 'andamento costante del commercio e dell'industria; la ruota che è stata fermata ha bisogno di riprendere al più presto il suo corso, dopo una rapida azione decisiva. Una strategia fiacca non è concepibile quando si tratta di mantenere milioni di uomini con il dùpendio di miliardi. Ma per ottenere un esito decisivo e schiacciante è necessario che l'attacco proceda da due o tre parti simultaneamente contro la fronte o contro tutti e due i fianchi.

Insomma: mentre sue valutazioni tecnico-tattiche porterebbero a prevedere una guerra lunga, lo Schlieffen non la ritiene possibile e conveniente per ragioni essenzialmente economico-sociali; proprio questo spinge anch' egli, come tutti, a cercare il modo di renderla breve. Esigenza, o meglio, speranza completata dalla previsione - anch'essa totalmente errata - che, come ha dimostrato la guerra russo-giapponese, "le battaglie di lunga durata [del futuro] non saranno certamente più sanguinose di quelle antiche"---· Pochi autori come lo Schlieffen, dunque, fanno emergere le


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contraddizioni e le errate previsioni di un ' epoca, nella quale proprio le nuove realtà tecnologiche, industriali, economiche, sociali spingerebbero a ripetere una guerra napoleonica, che non è più possibile. Si sarebbe rivelata possibile, invece, proprio la guerra lunga ritenuta impossibile ...

La critica a Clausewitz e ]omini e gli aspetti della guerra moderna nell'opera del Von Bemhardi "La guerra di oggi" (1912) Nessun autore tedesco come il Von Schlieffen trascura gli aspetti puramente teorici ed epistemologici dell'arte della guerra per dedicarsi esclusivamente alla ricerca di un modello di prassi strategica che consenta di abbattere rapidamente, hic et nunc, il secolare nemko francese. Va da sé che il riferimento a Canne non ha nulla di culturale o scientifico, serve solo a dimostrare, rendere convincente ciò di cui egli è già profondamente convinto. A fronte di questo approccio scopertamente strumentale, un altro scrittore coevo di vasta notorietà, il generale Von Bernhardi, con la sua opera La guerra di oggi (1912) 106 è l'unico autore tedesco a dire cose abbastanza originali in materia teorica, senza per questo trascurare la consueta analisi delle caratteristiche della guerra presente e futura, ancora una volta nella prevalente ottica tedesca. Il Von Bernhardi è anche l'unico autore tedesco a criticare oltre a Jomini anche Clausewitz, con giudizi e argomentazioni persino oggi interamente da condividere, anche se - come il Von der Golz e diversi altri autori - interpreta in modo non sempre corretto l'autentico pensiero di Clausewitz, le sue coordinate. Fin dalle prime righe dell'Introduzione di quest'ultimo dice cose vere e meno vere, ad esempio sbagliando nell'attribuirgli l'intento di pervenire a una teoria compiuta della guerra, di voler formulare dei principi ecc .. Inizia infatti così il Torno I: quando Clausewitz ha scritto la sua opera "Della guerra", che hafatJo epoca, egli intendeva esporre tutta la teoria della guerra nel suo insieme, mettersi dal punto di vista della filosofia della guerra, dare alle sue acquisizioni teoriche un valore universale, ed estrarre da ciascun fatto particolare il principio essenziale e fondamentale. E' noto che non ha

106 Gen, Friedrich Von Bemhardi, Vom heutigen Kriege, Berlin, Mittler 191 2 (2 Voi.). Traduz. francese La guerre d'aujourd 'hui (Tome I Principes e/ elemenls de la guerre modem e; Tome II Attaque et déf ense, conduite de la guerre), Paris, Chapelol 191 2-1913 (a cura di M . Etard, sotto la direzione del ten. col. J. Colin). Nessuna traduzione ialiana.


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completamente raggiunto questi obiettivi; solo i primi capitoli dell'opera rispecchiano i suoi propositi. Il resto non è che un insieme di materiali destinati a edificare una teoria della guerra. Con questi elementi di base, egli ha tuttavia dato la possibilità alle generazioni successive di lavorare al completamento del suo programma, e di costruire con il suo stesso spirito l'edificio delle scienze militari. Le idee che ha esposto nel suo libro "Della guerra" devono spesso essere sottoposte a un esame critico. Esse derivano in parte dalla sua esperienza personale e in parte dai suoi studi storici, che non ha avuto il tempo di passare al vaglio della critica, per valutare _fino a che punto esse avrebbero potuto essere delle verità eteme [ma Clausewitz non ha mai ammesso, e cercato, verità eterne! - N.d.a.]. Una gran parte di ciò che ha detto ha valore solo per l'epoca in cui sono state scritte [è quanto avviene più o meno, per tutti gli autori; ma pochissimi anche nel XX secolo l'hanno riconosciuto, specie parlando di Clausewitz - N.d.a.]. Altre, al contrario, conservano il loro valore anche oggi; sono la riserva aurea del suo capitale intellettuale. Sarebbe un'operazione altamente meritoria liberarle da ciò che è accidentale ed effimero. L'opera intellettuale di un'esistenza così f econda si estende in ogni senso dal presente verso I' avvenire. A mio avviso, è impossibile terminarla definitivamente. Continuano a comparire senza sosta nuove forze, la volontà umana non le utilizza anch'essa senza sosta. 107

Nonostante i limiti del Vom Kriege dovuti anche alla sua morte prematura, Clausewitz rimane per il Von Bemhardi l'autore che sbaglia di meno o, se si preferisce, l'autore che ha detto il maggior numero di cose giuste e valide. Mollo più severa è la sua critica a Jomini e agli autori della sçuola "geometrica" (forse Bi.ilow e Willisen, anche se non li nomina mai). Egli osserva che spesso la teoria della guerra ha preso delle strade sbagliate, che hanno portato a gravi sconfitte; in particolare gli errori sono dovuti a due tipi di approccio. Il primo, fondato sulla storia, pretende di trarre dallo studio delle battaglie più fortunate dei grandi condottieri dei principi e delle regole, che i predetti generali avrebbero appl icato e ai quali va quindi attribuita una validità permanente: }omini ne è un esempio classico. Quando lo si legge, sembra che nella guerra non ci sia più niente di problematico: per ciascun tipo d'azione

107

ivi, Tomo I pp. Xl-X li.


7 ~2 ~ 4~ - - - - ~l= L ~PENSIEROMIUTARE E NAVALEITAUANO - VOI- lii ( IM70-l_'Jl5)- 'IOMO I

vi sono delle regole e delle Leggi che portano al successo, e si direbbe che il grande corso deve i suoi successi unicamente a/fatto che si è attenuto alle regole che il critico in seguito ha dedotto dallo studio delle sue campagne. In realtà, ]omini violenta oltraggiosamente le grandi gesta di Napoleone. Egli Le racchiude in un sistema razionale spesso del tutto arbitrario che attribuisce a Napoleone, perdendo così di vista la vera ragione della grandezza di questo generale: L'ardimento assoluto delle sue decisioni, nelle quali, infischiandosi di qualsiasi teoria, egli cerca solamente di adattarsi al meglio possibile a qualsiasi situazione.

Per il Von Bernhardi idee analoghe ed ugualmente errate sono state sostenute anche dagli interpreti di Moltke, i cui successi sono stati attribuiti da taluni alle relazioni reciproche tra profondità di marcia e lunghezza delle marce quotidiane, da altri alla sua preferenza per le azioni aggiranti, e da altri ancora al principio della concentrazione delle forze sul campo di battaglia, senza ricorrere al loro aggruppamento preventivo. Sempre a suo avviso, conduce a risultati ugualmente errati un secondo approccio teorico, che non trae la teoria della guerra dalla storia ma parte da una serie di valutazioni a priori e di relazioni convenzionali e arbitrarie: questa dottrina mira a far scorrere La corrente possente dell'attività bellica in un letto regolare, per mezzo di angoli e linee, oppure la priva della libertà di movimento in nome di esigenze sistematiche. Essa ha condotto a sistemi che, proprio nel bel mezzo del paese più ricco, fan no dipendere le operazioni dai movimenti sistematici e preordinati dei convogli di rifornimento. Essi sono subordinati a circostanze xeuxrafiche e topografiche; hanno cercato di strangolare la libera attività con delle figure geometriche. Questi sistemi, che hanno potuto sedurre per la loro apparenza scientifica, in ultima analisi conducono a disconoscere i reali aspetti caratterizzanti del combattimento. Per ricorrere a un'immagine di Clau.~ewitz, essi trmformano la clava della guerra in uno spadino da hallo destinato a rompersi a contatto con la realtà. 108

Ciò non significa però - precisa il Von Bemhardi - che non si debba aver fiducia ne11e ricerche teoriche: anche se esse hanno dato spesso ri-

108

ivi, p. 45 .


VII - RIFLFSSI r>ELL' ACCIIBSCIUTA EFFICACIA DEL FUOCO IN FRANCIA P. GER MANIA

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sultati cattivi e incompleti, "sono la condizione necessaria per il progresso dell'arte della guerra, purchè procedano con metodo, e purchè non partano da proposizioni ingiustificate e ingiustificabili per giungere a delle conclusioni che formano, è vero, un sistema Logico, ma sono costruite sulla sabbia". 109 Unico tra gli autori tedeschi, il Von Bemhardi (come prima di lui il Marselli) non accetta Clausewitz a scatola chiusa e - pur dissentendo dai dottrinari - parla anch'egli di principi; ma le sue posizioni, diverse da quelle del Marselli e tutt'altro che chiare, univoche e ben definite, lo portano a fraintendere lo stesso Clausewitz (cosa che il Marselli non fa, dimostrando di essere tra i pochi ad averne ben compreso il pensiero). Proclama di volersi mantenere vicino al suo pensiero, di volerne continuare l 'opera con lo stesso spirito; ma aggiunge di non avere intenzione, come lui, " di esporre scientificamente una teoria della guerra di valore universale" (cosa che Clausewitz non ha mai voluto fare). Afferma di voler invece scrivere per il presente, e di voler ricercare " l'influenza e il sign(fi,cato dei fatti che determinano il carattere della guerra di oggi e quello dell'azione pratica nella prossima guerra" (come se Clausewitz non avesse fallo altrettanto). A suo parere (altra errata interpretazione), L'accordo intimo con il pensiero del generale Clausewitz risulterà anche dal f atto che, nel mio lavoro, io non ho trascurato di sviluppare i principi generali. Specialmente nell'attività pratica, bisogna regolarsi in base a tali principi [cosa che Clausewitz non ammette - N.d.a.]. Su di essi si basano in tutti i casi le leggi fondamentali della condotta della guerra e mai il successo apparterrà a coloro che le trascurano [Jomini è molto meno categorico, p~n,;hé ammette, più mo<leslamenle, che i suoi principt valgono nella maggior parte dei casi - N.d.a.]. 110

In allra parte del testo ammette che il concetto di " Legge" si presta a diverse interpretazioni e ricorda che, secondo Clausewitz, "in guerra data la molteplicità dei f enomeni, non esistono regole così generali da meritare il nome di leggi". Non è questo un punto cruciale? perché egli non nola la contraddizione dello stesso Clausewitz che parla di " leggi" della guerra sia pur senza dare loro un significato prescrittivo e vincolante del-

'OII 110

ivi, p. 47. ivi, pp. XV-XV I.


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Il. PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO · VOL.111 (1870-191 5) • TOMO I

l'azione? La contraddizione risulta anche dal fatto che condivide la tesi dello stesso Clausewitz che non è possibile pervenire a una teoria compiuta della guerra, perché: non è possibile stabilire delle regole.fisse per la condotta della guerra. Una teoria della guerra che serva da guida costante per l'azione è impossibile. L'insegnamento deve limitarsi a considerare i procedimenti della guerra e le diverse forme operative in tutte le loro implicazioni, e a studiare comparativamente le circostanze che precedono e seguono gli eventi, in modo da fornire al generale un insieme di materiali utili per lo sviluppo della sua capacità di giudizio. Da queste considerazioni teorico-critiche nasceranno spontaneamente le linee direttrici dell'azione da svolgere. 111

Clauscwitz non direbbe meglio: ma al tempo stesso anche Jomini non direbbe meglio, quando lo stesso Von Bernhardi afferma che è precisamente in una libera applicazione dei princip'ì difronte a circostanze e problemi notevoli senza sosta che consiste l'arte della guerra. Un principio non deve mai diventare una regola, una forma d'azione schematica che uccide lo spirito, che incatena l'azione e che diventa una "maniera": perché in guerra, tutti i pretesi princip'ì sono subordinati a una legge generale superiore, quella del raggiungimento dello scopo e possono essere riconosciuti come veramente tali solo nella misura in cui si adattano agli eventi[ ... ]. Ogni azione, in guerra, ha come fine la vittoria e può essere giustificata solo con questo risultato. Clausewitz l'ha già dimostrato chiaramente [... ]. Mi è sembrato possibile e necessario fare la guerra in base a priru:ip'ì ammessi a priori IClausewitz lo nega recisamente! - N.d.a.], e di sottomettere all'intelligenza le forze potenti che nella guerra stessa si scateneranno, invece di abbandonarle ai loro impulsi primitivi, contro l'opinione di quel generale italiano il quale sostiene che, nella guerra futura, solo la condotta iniziale delle operazioni potrà essere predeterminata, mentre per il resto "le acque del torrente si dirigeranno per così dire automaticamente". 112

111

ivi. Tomo Il p. 218. ivi, Tomo Il pp. 347,425 e 451. In nota l'autore precisa che si rifrrisce all 'articolo del "generale conte Luchino del Magno Oher die Millionen 1/eere. in "Deutsche Revue" settembre 1911. Molto probabilmente si tratta del generale Luchino Del Maino, autorevole scrittore militare de l te mpo e collahoratore con parecchi articoli della "Nuova Antologia". 11 2


VII · RIHESSI UELL"ACCRESCIUTA EFFICACIA DEL FUOCO IN FRANCIA F. GEKMANIA

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Anche a Jomini importava soprattutto la vittoria militare, a prescindere dallo scopo politico della guerra; anche Jomini riduceva l'abilità del Capo all'applicazione di principi aprioristicamente stabiliti in relazione alle mutevoli circostanze e avendo come unico fine la vittoria. Si può quindi dire che l' impostazione teorica del Von Bemhardi ha delle analogie con quella del Marsclli, ma presenta notevoli elementi peggiorativi per almeno due ragioni: non interpreta sempre correttamente e con coerenza lo spirito e la lettera delle teorie di Clausewitz; in secondo luogo, come gli altri scrittori tedeschi poco si cura dei riflessi dello scopo politico della guerra sulla sua condotta strategica. Questo si vede anche dal1' anticlausewitziana (e jominiana) definizione di strategia: "la strategia ha lo scopo di condurre le truppe al combattimento nella direzione decisiva e nelle migliori condizioni [... ]. Portare le truppe al combattimento in buone condizioni è lo scopo unico della strategia". 113 Più in armonia con Clausewitz, ma a] tempo stesso vicino a Jomini, la definizione di tattica: "mentre il concentramento delle forze e le operazioni rientrano nel dominio della strategia, la condotta del combattimento appartiene alla tattica. Si definiscono con il nome di tattica delle cose differenti: da una parte i principi della condotta del combattimento, dall'altra tutte le.formazioni elementari e tutte le specie di movimento che rientrano nell'attività operativa nelle quali e per mezzo delle quali le truppe muovono e combattono". Per completare il quadro teorico rimane da verificare quali sono, secondo il Von Bemhardi, i principi ai quali continuamente si richiama, che sembrano importanti mentre in realtà non lo sono affatto. Come sempre, anzi più che mai, nel suo caso i "principi' non sono tali, ma dei criteri estremamente generici: l'aspetto più interessante è piuttosto il suo lungo ragionamento sui principi stessi e sul modo di ricavarli. Distingue tra "principi" aventi validità costante e altri aventi validità temporanea (che dunque - noi osserviamo - non sono tali). Pur criticando gli storicisti, non può fare a meno di richiamarsi all'esperienza storica per ricercare anch'egli le leggi dcli' "evoluzione" dell'arte militare; e osserva (come Marselli) che se si studiano le guerre, si nota che certi rapporti tra le azioni e i loro effetti restano spesso costanti, certe circostanze e certe cause hanno sempre avuto un carattere decisivo, mentre invece la massa dei fenomeni particolari è mutevole e soggetta al caso. Perciò oltre ad analizzare l'essenza della guerra del momento si ripromette di individuare "un principio supe-

113

Von Bemhardi, Op. cit., Tomo Il, pp. 346-347.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITAUANO • VOL Ili (1870- 1915) • mMO I

riore dell'azione, che consenta di apprezzare tutte le questioni militari e la loro importanza reale per la condotta della guerra". 114 Quale sia con precisione questo "principio superiore" non è ben chiaro; comunque non si tratta certo del "principio fondamentale per tutte le operazioni di guerra" di Jomini, anche se - come si vedrà in seguito - certe proposizioni del Von Bemhardi gli rassomigliano non poco. Indica piuttosto una serie di "principf" più o meno importanti; e distingue (è l'unico a farlo, a quanto ci è dato di sapere) tra principi dell'arte della guerra e principi della condotta della guerra, dedicando un capitolo a ciascun tipo. Dà grande importanza al generale in capo, sia pur in maniera ancora una volta difforme da Clausewitz; tra le molte qualità che gli chiede, infatti, c'è anche quella che deve essere "un teorico della guerra (quanto meno alla maniera di Clausewitz) per poi poter essere un abile comandante sul campo" (ricordiamo ancora che Clausewitz non gli chiedeva affatto di essere uno studioso). Nonostante la definizione di strategia prima citata riconosce che la politica è importante non come elemento moderatore ma, al contrario, per assicurare la popolarità della lotta e l' entusiasmo della nazione per la guerra, per dare più slancio all'azione militare e per dare alla strategia un carattere nazionale. Quando passa alla concreta indicazione dei principi della guerra, però, siamo alle solite, fino a sconfinare nel pleonastico: il primo principio dell' arte della guerra è " ricercare sempre il massimo successo possibile con il massimo grado di energia"; il secondo, "agire sempre offensivamente fino a quando le circostanze lo permettono; se si è costretti a restare sulla difensiva, farlo con la riserva di riprendere più tardi l'offensiva lma se non sarà possibile? - N.d.a.] e lasciarsi costringere alla difesa passiva solo nei casi più di~perati". Per ultimo, primo compito del generale in capo è di articolare le forze in relazione al nemico, al terreno e al tempo ecc., cosa che appare piuttosto ovvia. Non meno ovvi - o almeno prevedibili e poco originali - sono anche i principi della condotta della guerra: "tutte le predi~posizioni strategiche devono concorrere unicamente a creare .favorevoli condizioni per la battaglia decisiva [ma se non conviene ricercarle? - N.d.a.] "; "le truppe devono essere concentrate e fatte muovere in modo tale che tutti gli elementi della prima linea arrivino a contatto nel medesimo tempo, e che nel momento della decisione, le riserve strategiche siano ugualmente impegnate"; "sforzarsi di rimanere padroni delle linee esterne, di respingere l'avversario concentricamente e non esporsi mai al pericolo di essere a nostra volta avviluppati e re~pinti dal nemico"; "come afferma anche 11 4

ivi, p. 45 1.


VU - R!Rl:SSI DELL'ACCRESCIUTA EFFICACIA DEL FUOCO IN FRANCIA E GERMANIA

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Clausewitz, più che l'abilità vale il coraggio del generale in capo; l'energia e la semplicità devono ispirare le sue azioni". Per quanto riguarda il combattimento, il Von Bernhardi in polemica con un ignoto autore della Deutsche Revue (che non nomina ma che probabilmente è lo stesso Schlieffen) è l'unico autore tedesco a non accettare a scatola chiusa la proposizione che l'attacco avvolgente è la forma d'azione più redditizia, se non l'unico modo di ottenere il successo nell'attacco: si deve tener conto che il difensore, a sua volta, prevede un attacco del genere e si è preparato a fronteggiarlo. Alle colonne dell'attaccante che tendono ad aggirarlo opporrà un nuovo fronte che l'attaccante dovrà superare appunto con un attacco frontale: questo è d'altronde quello che l'esperienza ha sempre confermato. Perciò non si capisce bene per quale ragione l'auacco avvolgente offre maggiori garanzie di successo dell'attacco frontale; l'unico vantaggio che si può accordare a chi compie l'attacco avvoliente è che il terreno non sarà più così favorevole alla difesa come il fronte principale, scelto dal nemico. Ma anche questo vantaiiio è dubbio, visto che il d~fensore, ritenendo l'aggiramento inevitabile, avrà anche sui franchi scelto e preparato il terreno [ ... ]. E' un errore profondo credere che l'avvolgimento condotto contemporaneamente a un attacco frontale dia di per sé stesso la superiorità all'attaccante. Poiché, dato il perfezionamento delle armi moderne, il difensore è superiore all'attaccante nel combattimento di fronte, il primo ha la possibilità di manovrare le forze più del secondo, e per impedire l'avvolgimento può intervenire con forze superiori. Si deve anche escludere che l'avvolgimento possa avvenire di sorpresa, senza dare tempo al difensore di reagire. Ma questo può avvenire solo se il difensore deve far fronte ad attacchi da varie direzioni: cosa che è esclusa dai fautori dell'attacco avvolgente, che prevedono di impiegare sul fianco del nemico la maggior parte delle forze, senza riserve al centro. 115

Indiretta ma chiara critica anche alle tesi del Von Schlieffen.... Anche il Von Bemhardi, con considerazioni analoghe a quelle degli autori precedenti, dà la dovuta importanza al perfezionamento delle armi da fuoco e al valore del terreno, ma non concorda con l'opinione che per l'avvenire i

"' ivi, pp. 45-46.


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IL PENSltKU MILITAKE t NAVALE ITALIANO - VOL. 111 ( 1870-1915) · TOMO I

campi di battaglia si estenderanno quasi all'infinito e ritiene che la tendenza ad estendere le fronti debba essere controbilanciata dalla necessità di conferire all'attacco la necessaria profondità, che sola potrà dargli un vantaggio considerevole. In quanto alle formazioni d'attacco, nessuna scelta aprioristica: devono adattarsi alle circostanze. Spesso nel caso di uno stesso attacco dovranno essere adattate formazioni differenti, a seconda del terreno e del fuoco nemico: l'unico principio da adottare è di "mettere in azione il maf?gior numero possibile di fucili, evitando però perdite inutili ". 116 L'attacco - prosegue il Von Bernhardi - non otliene la vittoria solo con il fuoco, ma anche con l'assalto. Bisogna inoltre considerare che la linea è la sola formazione di combattimento per La fanteria, mentre con il perfezionamento delle armi da fuoco la difesa ha enormemente accresciuto la sua capacità di resistenza. Ne consegue La necessità di adottare un dispositivo d'attacco assai profondo e al tempo stesso con forze assai diradate, senza rinunciare più del dovuto ai vantaggi dell 'ordine lineare. La superiorità di forze dovrà essere ottenuta in modo diverso dal passato, impiegando la fanteria in ondate successive disposte in linea t:ontro uno stesso obiettivo e su una stessa fronte. L'intensità del fuow dell'attaccante diminuisce man mano che si avvicina alle posizioni nemiche, in misura assai maggiore del fuoco del difensore. Di qui l'inevitabile logoramento e la crisi dell 'attacco al1e minime distanze, che esigono l'immissione di rincalzi freschi ali' immediato seguito della prima linea, da rafforzare non solo con nuovi fucili e nuove munizioni, ma altresì con uomini il cui slancio morale è ancora intatto. Nella sostanza, quando il Von Bernhardi applica queste idee alla guerra del presente e dell 'avvenire non si discosta molto dai suoi predecessori tedeschi. Dissente dall'affermazione di Clausewitz che la difesa è la forma più forte della guerra, e afferma che bisogna paragonare attacco e difesa sotto un duplice punto di vista: come forma di combattimento e come metodo per la condotta della guerra. Sotto il primo la condotta offensiva della guerra è la scelta migliore, anche e soprattutto nelle condizioni del momento. Se non fossero accompagnate dalla consueta, eccessiva fiducia nelle effettive possibilità dell'offensiva, le parole che seguono potrebbero essere definite preveggenti: il principio della superiorità dell 'offensiva ha una importanza fondamentale. Esso domina tutta l'ane delle guerra. Oggi più che mai, esso

116

ivi, p. 57.


VII - RIFI.F$SI DEI.L"ACCRESCIIJTi\ EFFICACI/\ DEL ruoco IN !'RANCIA E GERMANIA

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deve ispirare tutto ciò che si fa durante la ,?uerra e in vista della f?Uerra. Ma se si vuol ottenere il successo, non si deve separare questa idea dalla convinzione che, nel campo tattico, l'attacco di o,?gi è infinitamente più difficile di quello del passato e che se si vuol ottenere la decisione, occorre una superiorità molto forte: è compito della strate,?ia assicurare tale superiorità. 117

Secondo il Von Bernhardi i fattori che più fanno sentire la loro influenza nella guerra del momento sono tre: gli eserciti di massa, il perfezionamento delle armi offensive e difensive e i mezzi di comunicazione moderni. Quest' ultimi facilitano il movimento della masse, ma le legano al sistema stradale e ferroviario; la loro mobilità operativa risulta perciò ridotta. Le armi moderne, a loro volta, hanno effetti morali e materiali maggiori di quelle del pa<;sato; per tutte queste ragioni, "si deve concludere che, nelle guerre dell'avvenire, vi saranno due elementi decisivi, proprio perché son in contrasto con un'evoluzione che sembra naturale: essi sono il valore tattico e morale delle truppe e la loro attitudine alle grandi operazioni".• •x Un'ultima peculiarità della sua opera è l'attenzione dedicata alle mitragliatrici (anche se non al reticolato). Sul loro impiego ha idee chiare e confermate dalla guerra mondiale: 11 <J esse favoriscono la difesa, perché la fanteria nemica che avanza è un ottimo obiettivo, che hanno la possibilità di battere da posizioni scelte in modo da non essere ostacolate dal fuoco dei fucilieri amici e da non ostacolarlo. In attacco, invece, per sviluppare un fuoco efficace i reparti mitraglieri dovrebbero portarsi in avanti sulla stessa linea dei fucilieri, subendo così perdite gravi perché i serventi, che trasportano le armj e le munizioni, non possono sfruttare il terreno come i fucilieri; se, invece, rimangono alle spalJe dei fucilieri, il loro tiro ben presto subisce limitazioni e rappresenta un pericolo per quest'ultimi. Possono essere utili all'attacco solo se sono disponibili posizioni da occupare senza troppo perdite, dalle quali sia possibile il tiro al di sopra delle truppe amiche o un fuoco fiancheggiante: ma posizioni con tali caratteristiche sono assai rare. Nella guerra russo-giapponese il loro impiego da parte giapponese si è rivelato molto utile anche in attacco, ma secondo il Von Bemhardi da questa esperienza non si possono trarre ammae-

117

ivi, pp. 32-33_ ivi, p. 455_ 11 9 ivi, pp. 11-12. 11


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stramenti generalizzati, perché sono state impiegate in condizioni del tutto particolari (attacchi notturni o a posizioni fortificate, che durano giorni). Assai poco felici, invece, le considerazioni del Nostro sul rendimento del fuoco di artiglieria: pur ammettendo che giova senza dubbio alla difesa, ritiene che "gli ultimi progressi l'hanno reso vantaggioso anche per l'attacco. Insomma, io ritengo giustificata l'opinione secondo la quale l'artiglieria giova soprattutto all'attaccante, perché rende la sua a zione più agevole: probabilmente è questo il fatto più importante che abbia prodotto il progresso moderno". Questa affermazione è giustificata da consi-

derazioni tecniche sul tiro diretto e indiretto che la guerra rivelerà totalmente infondate, se non altro perché basate su una tattica di fanteria e artiglieria ben presto superata. Per il Von Bemhardi il numero è importante, ma non così importante come per Clausewitz, il Von der Golz, lo Schlieffcn; sono i fattori qualitativi , e in particolare quelli morali e intellettuali, che prevalgono. Nelle parole che seguono si trova, anzi, un' indiretta ma chiara critica allo Schlieffcn, che è anche una sintesi delle finalità reali del libro La g uerra di oggi: se tra tutti questi elementi contraddittori si vuole scoprire e preparare la via della vittoria, non biso,?na abbandonare le cose alle loro tendenze naturali, al loro "sviluppo automatico"_ Questo condurrehhe a un conflitto puramente meccanico nel quale non si potrehhe mai avvertire la preminenza dei fattori spirituali,- da ambedue le parti si cerca di superare il nemico nella quantità di truppe, nella qualità e nel numero delle armi, nel miglioramento dei mezzi di trll.lporto e di comunicazione[ ... ]. Tutte le componenti materiali aumentano all' infinito, ma in questa leveé en masse vanno a poco a poco scomparendo i fàttori morali e materiali di successo, mentre in realtà essi aprono proprio alla superiorità intellettuale un vasto campo d'azione. Contro questa evoluzione, naturale in apparenza, è necessario reagire, se non si vuole lasciarsi condurre alla rovina, al trionfo delle risorse materiali sulle qualità più alte, più nobili dei popoli [è invece quanto è avvenuto nelle due guerre mondiali del XX secolo - N.d_a. I. Bisogna .\forzarsi anzitutto di rendere utilizzabili gli elementi che possono accrescere l'energia del comando e Limitare o compensare gli effetti degli elementi che lo paralizzano e lo affievoliscono. 120

120

ivi, pp. 454-455.


Yll - RIFLESSI l>tLL' AL'CRESCIUTA EFFICACIA DEL Fl!OCO IN Fl(ANCIA I:: GERM!,!'!!A_

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Come ricorda anche il Bastico, in altre parti del testo il Nostro attacca ancor più esplicitamente la concezione deJJo Schlieffen, affermando che "è insidiare la .fiducia, affievolire il desiderio di espansione, diminuire La volontà di vincere, il predicare una teoria della guerra che proclama La superiorità numerica ed i fattori materiali [... ] come elementi decisivi della guerra, escludendo più o meno completamente i fattori intellettuali e morali della vittoria". 121 Anche l' impostazione della manovra strategica e tattica dello Schlieffen viene da lui bocciata senza equivoci: con lo svolgimento strategico lineare del suo piano. nel quale dovunque si impegna battaglia, non è possibile individuare il centro di gravità della manovra, né modificare Je disposizioni precedenti; con un attacco frontale uniforme, lento ed eseguito con forze uniformemente ripartite, che dura intere giornate, non è possibile cogliere risultati decisivi, perché non si manifesterà alcuna causa di superiorità. Riguardo alla tendenza all 'avvolgimento dell'avversario da entrambe le ali (che nello Schlieffen diventa una sorta di dogma e una ricetta aprioristica per il successo), "L'indebolimento della fronte, necessario per poter avere il mezzo di avviluppare le ali, sarebbe tutto ciò che di più grande il genio militare potrebbe trovare per battere l 'avversario! ". 122 In definitiva una siffatta condotta delle operazioni "non si riferisce mai alle leggi costanti della guerra" e soprattutto non può chiamarsi arte; essa diviene un mestiere, e il generale in capo un meccanico. La sua principale occupazione sarehhe di mettere in movimento il meccanismo dell'esercito in campagna, servendosi della rete stradale e di quella ferroviaria; di ingrassare convenientemente le ruote dentate e di provvedere costantemente l'esercito di forza meccanica, sotto forma di munizioni, viveri e uomini. 123

La storia della prima guerra mondiale ha dato piena ragione alJe critiche del Yon Bernhardi; ma si deve parimenti constatare che ha dato più torto che ragione ad altre sue idee "altemative ", visto che il materiale e il numero hanno finito con l'assumere - malgrado tutto e per forza stessa dicose - un ' importanza preponderante, rendendo il suo accentuato spiritualismo e intellettualismo una soluzione altrettanto semplicistica, così come

121

ivi, p. LV. Cit. in Bastico, Op. cit., p. 65. 123 IBIDEM e Von Bcmhardi, Op. c:it.. Tomo JI Parte IV cap. I. 122


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I L PENSIEKO MILITAKP. P. NAVAI.F. ITAl.li\NO -VOI.. fil

(1870-1915)

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semplicistica appare la sua fede nell'offensiva, che per l'ennesima volta confonde "volere " con "potere". L' offensiva strategica era praticame nte una soluzione obbligata per la Germania; ma da questo a ritenerla senz'altro fattibile in tempi rapidi nonostante le difficoltà peraltro ben individuate, ce ne correva. Come avviene per tutte le reazioni, le teorie del Von Bernhardi appaiono sbilanciate in senso opposto a quelle del Von Schlieffen. Dice tante cose vere e utili, meno una quasi ovvia: che le guerre - tanto più quelle del XX secolo - derivano da un equilibrio di volta in volta variabile - e quindi difficilmente preordinabile - di vari fattori , tra i quali l'uno o l'altro acquista la preminenza a seconda della situazione, sia per ciascuna guerra che per ciascuna fase della guerra stessa. Giustamente presentando l'opera del Yon Bernhardi come una prevedibile e opportuna reazione alle idee dello Schlieffen, il Bastico limita solo alle critiche a quest' ultimo il suo apporto. Noi riteniamo invece che l'opera di questo generale tedesco - l'ultima della serie - abbia diverse altre interfacce degne di nota, e tra di esse, le non sempre condivisibili interpretazioni di C lausewitz. Per il resto, non potrebbe essergli riconosciuta una particolare originalità e preveggenza, e anche questo il Bastico avrebbe dovuto notarlo.

Conclusione Sia gli autori francesi che quelli tedeschi rimangono, sia pure in misura diversa, piuttosto lontani dalla realtà della guerra mondiale. Facili condanne ispirate dal senno di poi non sarebbero serie: nessun uomo è profeta, ché allora non sarebbe uomo. Quale stratega occidentale ha previsto il repentino crollo dell'URSS nel 1989, peraltro dovuto a ragioni extra-militari? 124 Di primo acchito, si deve piuttosto notare un fatto positivo e uno negativo. La libertà del dibattito militare in ambedue queste grandi Nazioni è sorprendente, ed esemplare anche oggi. Nella guerra fredda sarebbe

124 Nessuno ricorda, in proposito, che Clauscwitz dissente da coloro che hanno criticato la condotta della campagna di Russia da parte di Napoleone e afferma profeticamente che quella era semplicemente una guerra che non si poteva vincere, perché "un Paese dj Lai natura non può essere domato che per effetto della propria debolezza e della scissione interna". (Clausewitz, Op. cit., Voi. 11 pp. 846-847). Proprio come è avvenuto nel 1941-1945 e nel 1989, con l'implosione improvvisa del sistema comunista dovuto a cause extra-militari sottovalutate dall 'Occidente, i cui media hanno esaltato fino a qualche giorno prima la potenza militare sovietica.


Vll - RIFLESSI DEU.'ACCRESCIUTA EFFICACIA l>l::L ~·uocu IN ~'RANCIA E GERMANIA

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stato inconcepibile che un generale criticasse pubblicamente - come ha fatto il Von Bernhardi addirittura poco prima del fatidico 1914 - la dottrina ufficiale, e anzi le linee essenziali del piano di guerra poi applicato. Un forte elemento negativo - fonte di future, gravi perversioni strategiche specie per la Germania - è invece la tendenza, affiorata in ambedue i campi, a capovolgere inconsapevolmente l'impostazione clausewitziana, già pretendendo di asservire la politica alla guerra. Se sempre e in ogni caso si tratta di prendere l'offensiva per abbattere al più presto l'avversario in uno scontro decisivo, evidentemente la cosa migliore che può fare la politica è impegnarsi al massimo per spingere la guerra all'assoluto, assecondando il disegno dei militari anziché volerlo indirizzare, guidare, moderare se e quando lo richiedono esigenze politiche (era questo Io scenario di Clausewitz). L'invasione del Belgio e la guerra sottomarina senza restrizioni del 1914-1918, che hanno aumentato in modo soverchiate i nemici della Germania, sono state la più vistosa conseguenza di una linea di pensiero già emersa - questo va sollolineato - prima della guerra. Più in generale, si trovano da ambedue le parli i germi di una strategia la quale nel quotidiano checchè ne abbia detto Clemenceau - ha portato a far concepire la guerra, almeno fino al 1917, come una cosa troppo seria per lasciarla condurre ai politici. Di fallo quest'ultimi di ambedue le parti si sono ridotti, per anni, a fungere da meri fornitori di uomini e materiali alla guerra e quindi alla strategia dei generali, la cui fama e di uomini era insaziabile e decisamente dannosa. Con i suoi celebri libri Kriegfii.hrung und Politik 125 e Der totale Krieg' 26 del dopoguerra, il generale Erich Ludendorff non ha fatto, dunque, che proclamare brutalmente a posteriori una verità già emersa da ambedue le parti durante un conflitto che - come aveva presagito il Von Bernhardi - ha finito col favorire i nemici della Germania, cioè coloro che potevano permettersi di condurre una guerra lunga. Gli aspetti della grande strategia prima delineati sono anche quelli di maggior rilievo, perché da essi è in ultima analisi derivato l'esito della guerra. Nulla di veramente originale e interessante emerge invece dal punto di vista strettamente teorico (concetto di arte/scienza militare, sua ripartizione , definizione delle parti componenti ecc.). Possiamo ben dire fin da adesso non senza una punta di orgoglio - che sotto questo a<;petto gli scrittori italiani fin qui esaminati non hanno nulla da invidiare a quelli di altri Paesi, e an-

125 126

Rcrlin, Mittlcr 1920. Miinchcn, Ludcndorff 1936.


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zi si mantengono non di rado (Marselli, Ricci e talvolta anche Barone) a livelli superiori. Non notiamo nemmeno, nei nostri autori, gli estremismi concettuali di parecchi altri d'oltralpe. ll culto preconcetto della guerra breve, quindi offensiva e economica e bac;ata sulla battaglia decisiva, è ancor più coltivato - ed esagerato - altrove, forse perché l'Italia di allora soffre assai di meno di nocivi complessi di superiorità e di affabulazioni nazionalistiche, non ha né può avere ambizioni di primato europeo e può, al massimo, ambire a condurre con successo una difesa attiva del territorio nazionale. Per contro, gli autori tedeschi e francesi sono troppo dominati da un imperativo categorico e aprioristico, richiesto loro prima di tutto dalla Nazione: schiacciare l'avversario con una rapida offensiva. Questa esigenza sovrasta i risultati di qualsivoglia, serena analisi tecnico-militare, è un cappello da indossare qualunque sia l'abito. Ne conseguono un diffuso disinteresse per le questioni puramente teoriche e un interesse pressochè esclusivo per la prassi strategica e tattica (come vincere non il nemico, ma quel nemico). Oltre che dalle (irripetibili) reminescenze napoleoniche e dall'esperienza della guerra 1870-1871 , ambedue le leadership militari sono spinte, anzi praticamente costrette a queste scelte dal rispettivo contesto politico-sociale e dal timore - prima di tutto dell'autorità politica - che i popoli non reggano a lungo una guerra moderna. lnsorruna: per una serie di fattori concorrenti, più che sperare si vuole, si ritiene una condizione pregiudiziale la rapida dehellatio del nemico, che politicamente significa anche guerra breve ed economica. Gli scrittori militari di ambedue le parti, anche quelli che più si rendono conto del!' importanza assunta dal fuoco, dal terreno e dalla fortificazione - che per loro stessa ammissione facilita la difesa - dedicano gran parte delle loro risorse intellettuali, della loro cultura, del1a loro fantasia a risolvere il seguente problema, normalmente insolubile: come rendere possibile ciò che è da tutti riconosciuto indispensabile, come far coincidere volere e potere. E' questo il più serio limite che, sempre da ambedue le parti, nel campo teorico si traduce in un comune assolutismo che risulta di per sé anticlausewitziano, e anche antimoltkiano. Purtroppo (è il caso di dirlo) la guerra russo-giapponese 1904- 1905 conferma che, in fondo, una valida azione di comando e una fanteria ben motivata e addestrata - come, a torto, si suppone anche in Italia (Barone) che debba essere sempre quella del proprio esercito - possono superare le crescenti difficoltà dell'attacco e i forti vantaggi creati specie per la difesa dall'accresciuta efficacia delle nuove armi (tra le quali, al momento, il fucile a ripetizione è ancora più temuto della mitragliatrice). Con l'uso generalizzato de11a vanghetta durante l'attacco stesso, la fanteria giapponese


VII - RIFLESSI DELL'ACCRESCIUTI\ EFFICACIA llEL l' UOCO IN FRANCIA E GERMANI/\

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ha infatti messo la fortificazione campale, la creazione di ripari artificiali al servizio dell'offensiva e non della difensiva.· ne vengono confortati i fautori deH'offensiva e tutti coloro che la ritengono più o meno pregiudizialmente, oltre che conveniente, anche possibile. Rimane così in ombra, sempre da ambedue le parti, ciò che non sfugge almeno in parte al Barone: che la vittoria giapponese è anzitutto dovuta al forte divario qualitativo tra i due eserciti, al quale andrebbe aggiunto (a parer nostro) l'impiego ancor limitato della mitragliatrice e del reticolato da parte russa. Si deve però riconoscere che negli scritti prima esaminati sono molte le considerazioni acute, condivisibili e dimostratesi valide anche nella prima guerra mondiale e dopo, a cominciare dai vantaggi incontestabili dell'offensiva, dall'importanza dei fattori morali e della leadership, e soprattutto dalla decrescente capacità combattiva delle masse armate, nonostante tutti i mezzi disponibili. Ciò che sfugge agli autori di ambedue i campi, però, non è tanto l'aumento delle chances delJa difesa e del valore del terreno, ma l'effettiva portata di questo aumento, proprio in rapporto alla predetta, graduale diminuzione della capacità offensiva delle masse armate. Decidere presto la guerra risultava, per un complesso di ragioni, estremamente difficile. Deciderla dopo lungo tempo, praticamente per esaurimento di una delle due parti, risultava quasi egualmente nocivo sia per il vinto che per il vincitore. Il tempo avrebbe provocato un inesorabile livellamento del1a quaJità delle truppe di ambedue le parti: questo proprio quando· la tattica avrebbe richiesto, per giungere a risultati importanti se non risolutivi, una differenza di potenziale assai elevata tra l'attaccante e il difensore. Questo stato di fatto è stato più o meno coscientemente percepito; stupisce, invece, che in totale spregio delle eredità storica alla quale pur si vogliono richiamare, le leadership di ambedue questi eserciti-guida abbiano ottimisticamente e presumibilmente ritenuto di poter impostare la loro pianificazione operativa prescindendo dalla più probabile linea d'azione dell'avversario e prendendo in esame un'unica, rigida azione strategica, che in tal modo non è diventata una sia pur ragionata linea d'azione, ma l'unica azione possibile, la via obbligata da seguire. Stupisce anche che proprio questa loro ossessione offensivistica non li abbia portati, per ciò stesso, ad ammettere che almeno uno dei due (e non è detto che tocchi sempre e solo al nemico: nessuno è profeta!) sia presto o tardi costretto alla difensiva, la quale va dunque meglio studiata e prevista, lasciando al1a pianificazione un minimo di flessibilità e preparando gli animi anche all'imprevisto. Le multiformi voci del dibattito che è dietro queste scelte contrapposte, ma ugualmente categoriche, inducono perciò a chiedersi: è possibile compilare un piano di guerra, o delineare una strategia, senza tener conto della va-


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lenza delle forze contrapposte e della più probabile linea d'azione strategica dell'avversario? tenere conto di tale linea d'azione significa forse - come teme il Lewal - giocare di rimessa? fino a che punto un piano di guerra deve essere rigido e non ammettere alternative e aggiustamenti azione durante? se si compila, fino a che punto deve e può essere mantenuto dopo le prime battute della guerra? bisogna mantenere ad ogni costo il disegno iniziale (Lewal) o al contrario regolarsi a seconda delle circostanze (Moltke)? Ci sembra, comunque, molto significativo un dato citato da Paul-Marie De La Gorce: nel 1915 le sole forze francesi (escluse quelle inglesi e belghe) ebbero 1.350.000 morti, feriti e prigionieri, contro i soli 350.000 tedeschi. 127 Si tratta di una differenza importante che dimostra con il linguaggio dei fatti il forte differenziale di qualità, di leadership anche ai minori livelli, di addestramento tra i due eserciti; un dato che ben rende anche la differenza tra i principali esponenti del pensiero militare dei due Paesi e tra gli stessi piani di guerra. Non c'è dubbio che prima del 1914 nel campo tedesco la realtà del combattimento è stata assai più viva e presente, così come appaiono più nitidi il carattere di guerra totale e di nazioni della guerra futura e l'importanza anche morale delle armi, del materiale, della logistica, delle condizioni di vita delle truppe, dell'accurata organizzazione in genere. La stessa, diffusa preferenza per l'azione sui franchi e sul tergo del nemico degli autori tedeschi, pur criticata a ragione dal Von Bernhardi, denota se non altro la preoccupazione di compiere operazioni redditizie e miranti a ottenere il successo al minor prezzo possibile, in una parola: Ja preferenza per la manovra. Come osserva il Bastico, questa ricerca tutta tedesca del realismo, della praticità e della semplicità, senza lasciarsi trascinare dal fascino di soluzioni solo apparentemente geniali e innovative, hanno consentito agli autori tedeschi di mantenere i piedi per terra più di quelli francesi, e alla loro regolamentazione d ' impiego di subire un 'evoluzione graduale, con soluzioni che denotano un maggior equilibrio, senza gli sbalzi, le fascinazioni e gli opposti estremismi tipici della regolamentazione francese. Volendo aderire all' indole, al modo di sentire e di pensare delle rispettive nazioni e alle loro aspirazioni, ambedue i piani di guerra hanno finito col concedere troppo a miti e idola nazionali, anzi nazionalisti: sono stati insomma l'immancabile versione militare e strategica della revanche, del France d'abord e del Deutschland ii.ber alles, che hanno finito con l' elidersi a vicenda in una guerra dove if vero fattore decisivo è diventato a poco a poco il serbatoio di armi, viveri, materiali e uomini d'oltreoceano. 127 Paul-Marie De la Gorce, Le Armi e il potere: l'esercito francese da Seda11 all'Alite ria ( 1963), traduz. iL a cura di Guido D. Neri, Milano, Il Saggiatore 1967, p. 164.


VII - Rlfl .FSSI DELL.ACCRESCIUTA EFFICACIA DEL FIJOCO IN FRANCIA E GERMANIA

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Per altro verso, con la loro costante tendenza a spingere la guerra all'assoluto rifiutando un approccio esclusivamente militare, gli autori tedeschi hanno allargato la prospettiva clausewitziana introducendovi il peso dcH' organizzazione e della guerra di nazioni capace di assorbirne per intero le risorse morali e materiali, ma così facendo hanno creato anche le premesse per il capovolgimento del ben noto detto clausewitziano che la guerra è strumento della politica e la prosegue con altri mezzi. Come già si è accennato, infatti, la mobilitazione delle risorse morali e materiali dell'intera nazione per un'unica opzione strategica militare richiede che tutti lavorino per il successo di tale strategia, cioè che alle spalle della leadership militare operi una complessa organizzazione di fatto al suo servizio. Al confronto gli autori francesi, pur sottovalutando spesso la difficoltà di ottenere quel soldato estremamente motivato e aggressivo sul quale - dando per scontate tali qualità - si sono fondate anche le loro teorie, hanno avuto il difetto (che può essere anche un merito) di occuparsi solo del modo di ottenere la debellatio del nemico. Sorprendentemente, la politica dei due governi ha finito con l'aiutare più i generali francesi di quelli tedeschi, che nonostante le loro pretese di asservire la politica sono stati costretti a battersi su due fronti con risorse umane, morali e tecnico-organizzative all'inizio invidiabili e superiori a quelle avversarie, ma inesorabilmente decrescenti e decrescenti in misura maggiore di quelle avversarie. La complessità della guerra di nazioni del XX secolo e quindi la difficoltà di prepararla, condurla, portarla a compimento, col minor danno possibile: ecco che cosa dimostra lo scontro tra autori e strategie che abbiamo descritto. Quel che più importa è che, pur non percependo ancora appieno il ruolo tattico - a tutto favore della difesa - non solo della mitragliatrice e de] reticolato, ma anche del fuoco in genere, gli autori pri ma esaminati nitidamente hanno fatto emergere che l'attacco è diventato assai più difficile di quello del passato e che per raggiungere gli obiettivi dell'offensiva occorreva, di conseguenza, una differenza di potenziale molto più forte. E' stato quest'ultimo, più che il binomio mitragliatrice-reticolato, il fatto veramente nuovo che serve a spiegare sia gli insuccessi dell'offensiva nel 1914-1918, sia i suoi successi (battaglie di Caporetto, Riga, Vittorio Veneto). Successi che pur ci sono stati laddove, appunto, la differenza di potenziale e la qualità della leadership hanno potuto avere un peso sufficiente a favore dell'offensiva. Altro fatto notevole, nelle tre battaglie citate questo peso maggiore l'hanno avuto in prevalenza i fattori morali e spirituali, anche se nel quadro complessivo della guerra è stata la di sponibilità di risorse di ogni genere a rappresentare H fattore ultimo e decisivo.



PARTE TERZA

QUALE DIFESA NAZIONALE? LE CONTROVERSE IDEE SULLA FORTIFICAZIONE E SULL'ORDINAMENTO DELLE FORZE



CAPITOLO VIII

LA MINACCIA VIENE DALLEALPI O DAL MARE? IL CULMINE DEGLI STUDI DI GEOGRAFIA MILITARE E DEL DTBAITITO SULLA DIFESA DELLO STATO

"La geografia s'impone da sé a chiunque prenda a studiare l'asse/lo difensivo di un determinato Paese. Data l'Italia, come madre natura l'hafaua, con le sue estese.frontiere terrestri e mariffime. voi non potrete far a meno anzitutto di chiudere le 1110/tc porte all'invasione che le dette frontiere presenluno / ... /. Se alcuni han dello che le fortificazioni, non u\'endo .mfrmo la Francia nel 1870, sono perciò inutili, allri hanno risposto che tanto varrebbe il dire che da poi che l'esercito .fran<'ese non salvò la /<rancia, è inutile avere un esercito". (xxx, "Rivista Militare" 1886)

"Nella guerra tutto è fattibile; escludere a priori la possibilità di una manovra, sarebbe esagerazione [. .. ]. Non è dunque l'idea della manovra in sé che è discutibile, bensì L'idea di volerla elevare a sistema, difarne l'unica via possibile per l'Italia [. .. ]. La fortificazione è un 'arma potente, ma non onnipotente, ed è molto costosa [. .. ]. (MAGG. A. VANZO, "Rivista Militare" 1901)

Premessa Nel Voi. II (cap. Xl) abbiamo già messo in rilievo il legame organico tra studi di geografia mjlitare e studi sulla ilifesa dello Stato. Ambedue questi campi di studio raggiungono il culmine nel periodo in esame, con un dibattito a molte voci ancor più intenso e articolato di quello del periodo 1848 - I 870. La ragione è la stessa che condiziona in tutti i suoi aspetti il problema mjlitare italiano 1870 - 1915: con due eserciti ostili o alme-


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no non sicuramente amici alle frontiere (quello francese e quello austriaco), entrambi nettamente superiori a quello italiano, e con la flotta francese che anch'essa si mantiene costantemente superiore alla nostra, il "che fare" diventa pressante, tanto più a fronte di una pronunciata carenza di risorse che non è rimediabile, perché corrisponde al dissesto del bilancio dello Stato. Una situazione che pone problemi di difficile se non impossibile soluzione e che è grave specie intorno al 1880 per poi migliorare, ma non a un punto tale da eliminare le cause principali che incidono sul grado di efficienza del sistema difensivo che è possibile apprestare, e da garantire quel livello di sicurezza che poteva essere raggiunto solo con le alleanze.

SEZIONE I - Gli studi di geografia militare Dalla teoria idrografica (Lavallée) alla teoria geologica (Niox): il dibattito teorico Gli studi di geografia militare del periodo hanno tre pregi: esaminano realisticamente, senza reticenze, le condizioni per l'offensiva e la difensiva sia per noi che per il probabile nemico; spesso non si limitano a considerare fattori puramente tecnico - militari ma estendono la loro indagine a quella che oggi si chiama geografia umana 1, della quale non sfuggono i riflessi militari; infine (caso urtico) in molti casi fanno precedere l'analisi della problematica geografico - militare italiana da consideraziorù di carattere teorico sulla miglior metodica da seguire, nelle quali emerge una lodevole quanto rara apertura agli studi di geografia (anche non militare) in campo europeo. Il relativo dibattito si sviluppa specie dal 1883 al 1898 e si riassume nel superamento della teoria idrografica del Lavallée, che fino a quel momento aveva dominato nelle scuole militari piemontesi e italiane, per accostarsi alla teoria geologica sostenuta oltre confine dal Clerc, dal Beaumont e soprattutto dal Niox e dal Marga.2

1 Sull 'odierno concelto di geografia umana si veda la relativa voce in "Enc iclopedia delle scienze sociali" - Voi. IV, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana 1994, pp. 265 -275 (a cura di Paul Clava!). 2 Cfr., in merito, Hcrvé Coutau - Bégarie, Traité de Jlratégie, Pari,, Economica 1999, pp. 640-652; Élie de Beaumont, Leçons de génlngie pratique, Paris 1849 (2 Voi.); ID., Explication de la carte géeoloRique de la France, Paris 1841; ID., Géologie de$ Alpes et du tuflflel des A/pt!s, Paris, Gaulhier ViUars


_ _ _ _ _ __ _V~l= ll ~-LA ~ M=IN ~ A= CC=:J~A~V=IE=·N=E=O~A=LL =E =·A ~L=P~IO ~ DA ~ l~.M ~ A= RE='1_ _ _ _ _ _ _ _ _745

Le opere del Niox sono recensite con molla attenzione dalla Rivista Militare, che nel 1878 ben riassume le tesi degli avversari del Lavallée: i nuovi studi geografico - militari francesi hanno bandito la croce contro il Lavallée, lanciandogli due gravi accuse: che la sua storia si basa esclusivamente sulla considerazione della Linea di divisione delle acque e dei bacini idrografici, e che essa considera il suolo come un insieme di superfici immateriali, cioè senza substratum. Si ricordò allora ciò che il Beaumont aveva già proclamato da molti anni: che cioè La forma plastica del terreno è intimamente Legata alle grandi Linee geologiche; che si osservano discordanze numerose e sovente capitali tra il rilievo reale della superj"icie d'una regione e il disegno lineare risultante dal tracciato dei corsi d 'acqua, e che siccome i sistemi montagnosi sono imponenti unità geografiche e geologiche, così è un errore lo sminuzzare il massiccio, elemento fondamentale degli studi orografici, allungandolo in catene per farne il limite d<'i hacini idrografici. 3

Ciò non significa che l'ignoto recensore accetti il metodo geologico a scatola chiusa, anzi: dopo aver sottolineato che il Niox raccomanda di evitare qualsiasi esagerazione nell'applicazione del metodo geologico, osserva: la geologia è, certamente, grande elemento negli studi geografi.co-militari, i quali avendo per base l'ostacolo - questo può essere, ed è quasi sempre, definito e limitato dalla sua costituzione geologica. Ma non è il solo dato_· altri, di diversa natura, concorrono a dare all'ostacolo quel valore o strategico o logistico o tattico che è il determinante dell'azio-

1874; Charlcs Clcrc, Géologie et géographie militaire, Paris, Dumaine 1880; ID., L.es Alpes fra11çaises, études de géologie militaire, Paris, Berger - Lévraull 1882; Gustave - Léon Niox, lntrod11ctio11. Notiom de géologie, Paris, Dumaine 1876; ID., Géographie militaire - 1° fascicolo. Paris, Dumaine 1878 (numerose edizioni successive, con studi geografici particolari sulla Franc ia e varie regioni europee, compresa l' Italia); ID., Géographie militaire. Notions de géologie, de climatologie et d 'etnographie, Paris, Dumainel 880; Philippe Boulanger, la géographie militaire de Gusta ve - Léon Niox, in "Stratégique" n. 76 - 4/2000, pp. 95- 125; Anatole Marga, Cours d'art militaire. Géograpltie militaire, Paris, Bergcr - Lévrault 1876- 1884 (5 Voi. e 3 atlanti) e ID., Géographie militaire - VetLtième Partie - Pri11cipa1JJC États de I· Europe, Tome Il Autriche - Hongrie et ltalie, Paris, Berger - Lévrault 1884. 'Gli studi geografico - militari in Francia - / 0 fascicolo della geografia militare del capitano di Stato Maggiore Niox, Paris 1878, in "Rivista Militare Italiana" Anno XXIII- Voi. IV ottobre 1878, pp. 80-81.


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ne militare. l!.gli è percià che, pure riconoscendo l'utile grandissimo che ne sarebbe derivato agli studi geografico-militari, associandoli a quelli geologici, abbiamo subito combattuto per impedire che il nuovo sistema precipitasse in esagerazione. 4

Con una serie di studi pubblicati daJla Rivista Militare nel periodo 1883 - 1884, il ten. col. di Stato Maggiore Riva Palazzi si qualifica come il principale esponente della scuola geologica. 5 Egli parte da due elementi fondamentali: l'insufficienza del metodo idrografico e l'imperfezione e incompletezza delle carte geografiche del tempo, che non rendono bene il rilievo. A suo avviso l'andamento e le forme dei rilievi sono stati "snaturati" dal sistema idrografico del Lavallée, che alla vera ossatura del suolo sostituì una ossatura artificiale, quale risultava dal fatto tutto superficiale e accessorio delle acquapendenze. Così le solcature e i canali aperti dalle acque attraverso una Lunga catena bastarono a far considerare le varie parti di essa, intercedenti fra quelle acque, non più come elementi tra Loro solidali, ma come pani di più catene e contrafforti, spesso costituiti da elementi fra loro di.vparatissimi per età, per costituzione, per forma e per aspetto...

Perciò il metodo geologico è solo un metodo naturale che studia il terreno quale realmente si presenta ai nostri occhi, ne indaga le relazioni e i legami tra le varie parti, "e risalendo alle origini dei fenomeni e dei fatti fisici, ne ricerca la ragione nella storia della terra, nella sua costituzione, nello svolgimento delle sue vicende passate e presenti". Tra i predetti fatti fisici il più importante è la orografia, che conferisce a una regione i caraneri essenziali; l'idrografia ha importanza secondaria, anche se ha estesa influenza sulle condizioni geografiche di una regione. Secondo il Riva - Palazzi lo studio del terreno sotto il profilo militare riguarda essenzialmente la sua praticabilità tattica e logistica, cioè le condizioni che pone al movimento e alla permanenza e alimentazione delle

4 Gli studi geografico - militari in francia ... in "Rivista Militare Italiana" Anno XXVI - Voi. I febbraio I 88 I. pp. 431-432. 5 Giovanni Riva - Palazzi, Importanza della geologia nello studio militare del terreno, in "Rivista Militare Italiana" Anno XXYill Voi. U aprile 1883, pp. 45 - 67 e giugno 1883, pp. 393 - 428; Voi. lii luglio 1883, pp. 5 - 38. Prima di pubblicare questi studi il Riva - Palazzi aveva ricoperto l'incarico di Capo della sezione topografica del Corpo di Stato Maggiore (poi soppressa), compilando delle monografie dove già applicava il metodo geologico.


VIII - LA MINACCIA VlliNli l>ALL~; ALPI O DAI. MARE?

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truppe; perciò il metodo geologico è il più idoneo a stabilire il grado di tale praticabilità. Esso consente non solo di stabilire i caratteri del terreno, ma anche di indovinarli quando non sia possibile riconoscerlo. Per giungere a questi importanti risultati non è però necessario che i Quadri posseggano profonde conoscenze di geologia, litologia, ecc.; è sufficiente una buona conoscenza delle rocce e dei terreni, grazie alla quale è possibile completare le notizie fornite dalla carta topografica con il concorso della carta geologica e con i dati sulla costituzione geografica generale della regione che interessa. Ciò non toglie che siano utili le cognizioni generali di geologia,

cioè di quelle che si riferiscono alle teorie sull'origine e formazione della terra, sulle grandi fasi della sua costituzione, ecc.: ma tali nozioni non tarderanno ad essere comprese nei programmi delle scuole civili. Per la verità quest'ultima precisazione, unita alle successive, lunght: digressioni teoriche sui caratteri geologici della superficie terrestre, smentisce di fatto la precedente afferma7.ione sul carattere sommario e sull'accessibilità delle cognizioni geologiche veramente indispensabili per i Quadri. Ad ogni modo il Riva - Palazzi ribadisce le sue idee in un' aspra t:ritica a talune tesi del Perrucchetti (cap. IV),6 che nel suo citato libro del 1884 La d(fesa dello Stato aveva sostenuto la necessità di "liberarsi anzitutto dalla falsariga, comoda se si vuole ma :.pesso fallace, dei metodi di studio basati sulla idrografia, o sulla geologia, o su qualche altro ramo di scienza che, al pari degli ora detti, potrà bensì essere di aiuto al militare ma non può fargli da guida". E' più conveniente, per il Perrucchetti, esaminare gli elementi geografici così come si presentano secondo l'ipotesi operativa che di volta in volta si prende in esame, senza preoccuparsi di seguire questo o quel metodo teorico. Il Riva - Palazzi non nega che l'approccio empirico del Perrucchetti sia assai utile per risolvere i problemi pratici della difesa dello Stato e i problemi operativi in genere; ma a suo avviso prima di esaminare una data ipotesi operativa occorre stabilire dei principi teorici che sono indispensabili per trarre corrette indicazioni dalle caratteristiche geografiche di una data regione. In tutti i casi, il metodo geologico rimane quello più fruttife-

"Riva - Palazzi, La geologia e gli studi militari, in " Rivista Militare Italiana" Anno XXIX Voi. 11 maggio 1884, pp. 96 - 11 2.


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n . PENSIERO MILITARE E NAVALt rrALIANO - VOL. UI ( 1870-1915) · TOMO I

ro; e anche se non è necessario che il comandante in capo sia un geologo, il suo Stato Maggiore deve essere in grado di fornirgli quei dati sulla natura e praticabilità del terreno che solo la geologia può fornire. Certo, nessuna carta geografica può sostituire una ricognizione; ma se non è possibile effettuarla, "le divinazioni del geologo" daranno sempre risultati migliori di una ricognizione mancata, o di altre divinazioni che sarà costretto a fare chi, senza il concorso della geologia, dovrà basarsi solo sulle carte. Nel 1896, cioè a distanza di oltre dieci anni dagli studi del Riva - Palazzi, il tenente colonnello di Stato Maggiore Car1o Porro (al momento insegnante di geografia alla Scuola di Guerra e poi generale Sottocapo di Stato Maggiore nella grande guerra) espone sulla Rivista Militare l'indirizzo che sta seguendo nell'insegnamento, con un saggio di importanza fondamentale anche perché fornisce un'analisi dettagliata e unica nel suo genere degli studi di geografia - militare e non - in Europa.7 Anche il Porro critica le teorie del Lavallée (derivate dalle idee fondamentali del padre Kircker - 1664 e del geografo francese Filippo Buache - 1756), che pur avendo il merito di aver superato il metodo statistico, ''non risalì allo studio delle leggi naturali, né penetrò nel/' esame dei nessi causali tra fenomeni geografici e fenomeni storici, e finì col ridurre la geografia ad una semplice descrizione dei paesi, nella quale ai convenzionali confini politici del metodo statistico si sostituivano quelli segnati da accidentalità orografica, spesso pure convenzionali, poiché esagerando l'importanza delle linee di displuvio si era molte volte condotti ad alterare i veri lineamenti del terreno". Tuttavia il metodo geologico, che alla Scuola di Guerra grazie anche agli studi del Riva - Palazzi ha sostituito il metodo idrografico, secondo il Porro ha a sua volta accusato dei limiti dovuti alle esagerazioni dei suoi seguaci, che "fecero della geologia anziché della geografia militare, introducendo negli studi militari quel malinteso scientificismo che riveste di apparenze difficili cose relativamente facili, e finirono col perdere di vista quell'indirizzo essenzialmente pratico e applicativo, al quale devono essere sempre informati gli studi militan"'. Peraltro sempre secondo il Porro l'opposizione a tale nuovo metodo, dovuta alla scuola ipotetica che ha avuto successo specie in Italia (Perruc-

7 Carlo Porro. Note sulla sistemazione scientifica dello .ttudio della geografia militare, in "Rivista Militare Italiana" Anno XLI Voi. IV Disp. XXII - 16 novembre 1896, pp. 2055 - 2066 e Disp. XX lii - I dicembre 1896, pp. 2135 - 2149.


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_ _ _ _V~ll~I -~LA MINACCIA VIP.NE DJ\LLE ALPI O DAL MARE'!

chetti) e in Austria (Haymerle), ancora una volta non si è rivelata in grado di dare un completo sviluppo allo studio della geografia militare. Questo perché la scuola ipotetica

nu,

ci conduce all'esame degli elementi non quali sono in natura, come si presentano in circostanze determinate [cioè secondo un'ipotesi operativa - N.d.a.] e perciò mutevoli; ci dà cioè la soluzione pratica di una serie di problemi, ma non La teoria per risolverli [qui il Porro concorda evidentemente con le critiche del Riva - Palazzi - N.d.a.]. In certo qual modo si potrebbe dire che questa scuola rappresenti u,1 ricorso alla scuola storica, alla quale si è del resto ispirata, offrendo tuttavia su quella un notevole progresso, dipendente dalla differenza fra una operazione effettivamente svoltasi ed una operazione ipotetica, che bene architettata tra limiti estesi ed elastici, permette un più completo e.m me ed un più largo apprezzamento degli elementi geografici della regione

studiata.

Scartato anche questo metodo, il Porro arriva alla conclusione che è opportuno abbandonare l'esclusivismo delle varie scuole fin qui esaminate, per giungere a un " metodo eclettico sostanzialmente scientifico e giustamente pratico e perciò ben rispondente agli scopi della geografia militare". Tale metodo consiste nell'analisi preliuùnare degli elementi geografici considerati in sé stessi, nei loro mutui rapporti e nella parte che rispettivamente hanno nella definizione della fisionomia di una data regione. Solo dopo questo primo passo si procede alla valutazione di tali elementi dal punto di vista militare, che dovrà e ssere fatta dapprima in modo generico e direi quasi teorico.formulando cioè i principi sulle fun zioni generali di ciascun elemento geografico nelle operazioni di guerra; ma limitato a questi soli principi l 'apprezzamento riuscirebbe sempre vago e ne/formularlo si correreb be di frequente il rischio di cadere in astrazioni teoriche. Ed ecco qui emergere Lu necessità di completare e rendere positivo questo apprezzamento seguendo il concetto della scuola ipotetica, ossia introducendo nello studio quelle ipolesi, che ci permettono di fissare i dati variabili relativi all'intensità e alla direzione delle forze in azione.

Poiché il terreno è l'elemento più importante, è necessario studiare la geologia, che è appunto scienza del terreno. Contraddittoriamente, mentre tutti ammettono la necessità per la geografia di ricorrere al contributo del-


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_ _ _ IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO- VOL. !Il 1870- 1915) TOMO I

le altre scienze, quando si tratta del terreno vorrebbero fare a meno del concorso della geologia. Tuttavia "al fondamento geologico si deve chiedere solo le linee generali dell 'architettura della regione. emergenti dalla sua formazione, ed i caratteri generali derivanti dalla natura delle rocce prese in grandi masse", quindi non è necessario approfondire lo studio di questa materia. Tn conclusione, mentre la geografia generale studia la superficie terrestre in tutti i suoi elementi ivi comprese le relazioni con l' uomo, la geografia militare si occupa solo di quest'ultimo argomento, considerato però da un punto di vista particolare e solo per quei fattori che esercitano maggiore influenza sulle operazioni degli eserciti (terreno, acque, clima, vegetazione). Con questi caratteri, l'approccio del Porro è il più equilibrato e reaJjstico, perché affida, in sostanza, all'abilità e perspicacia dello studioso e/o dell'ufficiale di Stato Maggiore la corretta valutazione del peso militare di ciascuno degli elementi da considerare, senza esclusivismi teorici e chiusure aprioristiche, perché tale peso varia di volta in volta a seconda delle circostanze. Specie con le carte - o con la 111am:anza ili <.:arte - del tempo, il metodo idrografico non poteva certo bastare, e lo studio dell'orografia doveva essere integrato con nozioni geologiche; anche l'esame applicativo di taluni teatri d'operazione serviva a dare concretezza al tutto. Con i due articoli del Porro il dibattilo sugli aspelli puramente teorici della geografia militare può considerarsi definitivamente concluso (nel XX secolo, non viene più ripreso). Merita di essere appena citato un successivo lavoro del maggiore di fanteria Carlo Spigardi (insegnante di topografia alla Scuola di guerra dal 1900 al 1903; da non confondere con Paolo Spingardi, generale e Ministro dal 1909 al 1914), che si sofferma sopratlullo sulle lacune della cartografia e sul modo di eliminarle, per il resto mostrando di apprezzare particolarmente il metodo geologico nonostante le lodi al Porro. 8

Le principali opere di geografia militare: Lodi (/872), Fogliani (1871),

Sironi (1873), Goiran (1880). Sassu (1881), Allason (7891). Porro (1898) Sono in prevalenza dovute a ufficiali insegnanti di geografia militare nelle scuole, e in particolare alla Scuola di Guerra. Risentono in misura 8 Carlo Spingardi, Sul fondamento scientifico degli studi geografico - militari e sulla sua applicazione ai lavori cartografici, in "Rivista MiHtare Italiana" Anno XLIII (1898) - Voi. I dispensa 4' pp. 3 16 - 326 e dispensa 5' pp. 399 - 409.


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modesta delle teorie prima esaminate, visti anche g1i intenti eminentemente pratici che perseguono, attinenti in particolar modo alla difesa dello Stato, con valutazione e proposte che esamineremo nella parte dedicata a quest'ultimo argomento. Seguendo l'ordine cronologico, il primo testo da prendere in esame è il Compendio di geografia militare dell'Europa (1872) de1 tenente Lodi9, che fa riferimento ai programmi ministeriali di geografia militare per gli Istituti Militari Superiori e dal punto di vista metodologico in certo senso anticipa i criteri eclettici poi teorizzati dal Porro, suddividendo l'Europa in regioni geografiche senza tener conto delle divisioni politiche, per poi esaminare per ciascuna di esse l'orografia, l'idrografia e le pianure: "questo metodo, che io chiamerò della geografia per sistemi e catene di montagne e per lince fluviali, mi parve il più semplice, il più razionale ... ". Segue una descrizione delle regioni geografiche europee, con le nozioni indispensabili per lo studio della storia militare. Ma nonostante le dimensioni ridotte (325 pagine in piccolo formalo) il libro non si limita a questo. Con un concetto di geografia rnilitan: insolitamente ampio, nel quale viene compreso anche l'esame delle fortificazioni (la geografia militare "ha per V!{!{ello l'esame delle varie accidentalità del suolo siano naturali che artijì.ciali" , definendone l'influenza nel campo tattico e strategico), il Lodi accenna anche al ruolo ddk principali fortezze, alle ferrovie e alle linee di comunicazione. Con questi caratteri, egli traccia una sintesi sommaria ma efficace, senza dubbio molto utile agli ufficiali del tempo. La coeva Geografia.fisica e politica (1871) del capitano Fogliani, insegnante di tale materia aJla Scuola Militare di Fanteria e Cavalleria di Modena 1°, è anche a lungo libro di testo per gli alunni della predetta scuola; ciononostante, come già si deduce dal titolo non può dirsi un'opera di geografia mi1itare, ma piuttosto di geografia fisica, politica e militare, con quest'ultima parte che ne occupa uno spazio assai modesto. li Fogliani risente ancora dell'influenza del metodo idrografico, ma non trascura certo l'importanza dell'orografia e di tutti gli altri elementi che concorrono a ca-

9 Cfr. Filippo Lodi, Compendio di fieofirti/ìa mi/ilare dell'Europa. Ro ma, Tip. mii. Bencini l 872. Si veda anche la recensione in " Rivista Mi litare Italiana" Anno XVIII - Voi. I febbraio 1873, pp. 108 - 109. 1°Cfr. Tanc redi Fogliani. Geograjìajìsica e politica, Modena. Cappelli 1871 (vds. anche recensione in " Rivista Militare Italiana" Anno XVI I - Voi. IV ottobre 1872, pp. 147 - 149). La lunga vita del lihro come testo di geografia per la Scuola Militare di Modena è testimoniata dalle numerose edizioni successive. fino a quella 1890 con co-autorc il capitano Ruggero (Milano, Vallardi). Noi ci riferiamo a quest' ultima.


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ratterizzare geograficamente una regione. Il capitolo li è dedicato alla geografia politica, della quale l'autore ha un concetto largo e assai vicino a quella che viene ora definita geografia umana. Molto importante l'indicazione dei fattori di potenza di uno Stato, che nella sostanza già riassumono - su un piano esteso alla parte terrestre - i famosissimi elementi del potere marittimo molto dopo indicati dal Mahan 11: popolazione, territorio, fonti della ricchezza di un popolo, ordinamento civile e politico, forze militari di terra e di mare, vi.e di comunicazione (stradali e ferroviarie). Da sottolineare ciò che il Fogliani afferma a proposito del territorio: "sul territorio è da osservarsi: la sua posizione, la sua estensione, la sua potenza produttiva, il suo clima: dalla posizione di un paese sono determinate le sue relazioni con gli altri, particolarmente per rispetto ai commerci". In fondo, c'è tutto quanto concorre a determinare anche la potenza marittima. TI successivo, voluminoso libro (762 pagine) del colonnello di Stato Maggiore (poi generale) Giovanni Sironi Saggio di geografia strategica (1873), frutto dell'insegnamenlo dell'autore alla Scuola di Guerra negli anni I 870-1872 e tradotto anche in francese e spagnolo, è l'opera italiana di geografia militare più famosa del secolo XTX. 12 Come il Lodi il Sironi risente ancora dell'influenza del metodo idrografico, ma se ne allontana spesso con un'analisi equilibrata e organica come poche, che anticipa quelle del Perrucchetti e del Porro e riunisce insieme una parte teorica, cenni di terminologia geografica e strategica, considerazioni geografico strategiche sulle varie regioni europee e in particolare sulla regione italica, alla quale naturalmente dedica la parte maggiore. Secondo il Sironi non esiste al momento una definizione di geografia militare che sia da tutti accettata; di conseguenza i principali trattati europei della materia presentano tra di loro rilevanti differenze d'impostazione, anche perché la geografia militare deve tener conto di parecchi elementi riguardanti la geografia fisica, politica e statistica, ai quali ciascuno tende a dare valori relativi anche molto diversi. Inoltre i trattati di geografia militare al momento in uso nelle scuole italiane spesso non sono propriamente tali ma riguardano più che altro la geografia generale, esami-

11 Cfr. Arthur T. Mahan, l'influenw del potere mari/limo sulla storia (I 890), traduz. it. Roma, Ufficio Storico Marina Militare 1999. 12 Cfr. Giovanni Sironi, Saggio di geografia strategica, Torino, Candeletti 1873 (si veda anche recensione in "Rivista Militare Italiana" Anno XVIII - Voi. 111 settembre 1873, pp. 476 - 487 e Cecilio Fabris, Giovanni Sironi militare e geografo, in "Rivista Militare Italiana" Anno XLVII (1902) - Voi. I dispensa 2', pp. 203 - 207).


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nando solo marginalmente questioni attinenti alla geografia militare 13 ; invece la geografia militare deve consistere principalmente nell'individuazione di elementi di interesse militare e nelle relative deduzioni. Per raggiungere questo obiettivo, gli elementi principali le vengono somministrati dalla strategia e dalla geografia comparata con la storia militare; della quale ultima anzi, tanto La strategia quanto la geografia militare vogliono essere riguardate come creazioni dirette, essendo ché dallo studio di quanto i più celebri capitani, per proprio intuito e per l'esperienza tolta ai precursori rispettivi, operarono, derivò la serie dei precetti e delle norme regolatrici che formano il patrimonio della scienza strategica, e si chiarì l'importanza delle svariate condizioni geografiche relativamente all'azione degli eserciti. 14

Per non confondersi con la topografia, la geografia militare deve inoltre riguardare solo le grandi operazioni di guerra da parte di "grossi corpi d'armati''; può perciò essere definita come "quel ramo della geografia generale. il quale descrive e discute Le grandi accidentalità del suolo, dal punto di vista della loro importanza ed azione, individuale e collettiva, rispetto alle grandi operazioni della guerra". Da questi contenuti teorici discende, sempre a parere del Sironi, che può essere suddivisa in due parti diverse fra loro intimamente connesse: la parte descrittiva, La quale consta di dati di fatto e che pur restringendosi, come si è detto, ai lineamenti fondamentali delle regioni e ai dati economici generici e complessivi, deve nondimeno estendersi, in diversa misura relativa, sulle fomze principali del suolo, sulle sue acque, sulle strade, sui maggiori abitati, sulle suddivisioni politiche, sui sistemi fortificatori e sulle condizioni economiche complessive. La parte ragionata o geografia strategica, che togliendo a base la precedente e fondandosi su certi principi e criteri somministrati dalla strategia e dalla geografia comparata alla storia delle guerre, con una serie di ragionamenti e deduzioni procura di mettere in luce il funzionamento strategico dei diver-

3 ' Probabilmcnte il Sironi intende riferirsi al trattato del colonnello Pietro Valle La geografia militare esposta compendiosamenle e dedicata alla gioventù dell'esercito italiano (Modena, Cappelli 1870), che parte dal principio opposto (i trattali di geografia militare devono parlare di lullo). o anche al citalo lesto del Fogliani. 14 Sironi, Op. cit. , p.3.


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si accidenti geografici di un teatro n wna di operazione, sia isolatamente considerati, sia tenendo conto delle reciproche loro relazioni. 15

L'essenza della geografia militare consiste appunto in questa seconda parte, per la quale occorre tener presente che da un lato essa può dirsi immutabile perché legata alle forme del suolo detenninate dalla natura, dall'altro subisce gli effetti di tutti i grandi cambjamenti di carattere politicosociale e/o dovuti all'opera dell'uomo, come ad esempio lo spostamento delle frontiere, la costruzione di fortificazioni, ferrovie e vie di comunicazione, il disboscamento di una considerevole parte di territorio ecc .. A questo punto viene da chiedersi: che cosa c'è di veramente nuovo nel concetto di geografia strategica del Sironi? La risposta è semplice: poco. Non si tratta che di una buona sanzione teorica della metodica già seguita dai migliori autori italiani precedenti e coevi che si sono occupati di geografia militare e difesa dello Stato (Vol. Il, capo Xl) e in particolare dal Ricci e dal Perrucchetti. Giusto e ben delineato il concetto di geografi a strategica: ma a proposito della geografia militare bisogna pur dire che, anche se bisogna evitare di confonderla con la topografia (cioè con lo studio dei minuti particolari del terreno), essa non deve riguardare solo "le grandi operazioni di guerra" condotte "da grossi corpi d'armati", cioè il livello strategico, ma va estesa al livello tattico e a quello logistico, anche perché i confini tra geografia e topografia militari sono tutt'altro che chiari. Con questa impostazione troppo restrittiva l'approccio del Sironi non appare del tutto condivisibi1e; tuttavia esso rimane una pietra miliare, un riferimento costante per definire le caratteristiche geografico-militari dell'intero territorio italiano e di quello dei Paesi confinanti, con l'indicazione di tutta una serie di posizioni da fortificare che avvicinano le sue riflessioni a quelle dei fratelli Mezzacapo. L'opera del Sironi è seguita da un altro libro di testo per gli ufficiali allievi della Scuola di Guerra, le Lezioni di geografia militare (1880) del maggiore di fanteria (poi generale) Goiran 16, che per quanto attiene al linguaggio geografico militare e alla descrizione del continente europeo a lui si richiama esplicitamente, mentre "ciò che si espone sull'indirizzo della geografia militare e sul procedimento per studiare le regioni montane e quelle pianeggianti" è ripreso dal Perrucchetti, del quale il Goiran si dichiara seguace. ivi, p. 4. Cfr. Giovanni Goiran, f,ezinni di geografia militare, Torino, Tipografi a operaia 1880 (a cuni della Scuola di Guerra). IS

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In effetti più che la metodica del Sironi il Goiran segue quella "ipotetica" del Perrucchetti, rifiutando sia il metodo idrografico che quello geologico e suddividendo il terreno da esaminare non in regioni geografiche con determinate caratteristiche, ma in teatri d'operazione corrispondenti a determinate ipotesi di guerra tra Stati vicini. Questo perché i confini tra Stati non possono sempre coincidere con i confini tra diverse regioni geografiche, mentre "l'influenza d'un elemento geografico varia col variare delle forze, che lo debbono incontrare, e col variare della direzione, con cui può essere incontrato. Occorre quindi partire dai due dati relativi all'intensità e alla direzione dell'azione militare, per poter dare un apprezzamento positivo, altrimenti potrebbero farsi ipotesi infinite, e non si avrebbero limiti nel modo di apprezzare un medesimo elemento geografico"_ 17 Con questo tipo di approccio "la geografia militare deve potersi riattaccare al medesimo principio fonda111e11tale. dal quale discendono i dettati dei rami dell'arte militare". Tale principio per il Goiran non è altro che quello della concentrazione della massa delle forze nei punti deci sivi (.lomini e poi Marselli); la geografia militare ha appunto il compito di determinare l' ubicazione dei predetti punti decisivi. e di studiare gli elementi geografici naturali e artificiali che favoriscono o ostacolano la concentrazione delle forze. Essa può pertanto essere definita "descrizione de,?li elementi naturali e artificiali del terreno e apprezzamento del 'influenza favorevole o ~favorevole ch'essi, tanto comples::,ivamente che isolatamente, possono esercitare sulla guerra". Poco da dire sulle Note sinottiche di geografia militare ( 1881) del capitano Sassu, insegnante di geografia alla Scuola Militare di Modena, che dichiara anch'egli di ispirarsi indistintamente al Perrucchetti, al Sironi e ai fratelli Mezzacapo. 18 Di un certo interesse le Considerazioni sugli studi di geografia militare continentale e marittima di Domenico Bonamico19 (vds successivo Tomo II), con le quali il Bonamico, richiamandosi ampiamente al saggio del Perrucchetti sul Tirolo, esamina le nuove condizioni per lo sviluppo degli studi di geografia militare marittima, dei quali può essere considerato il fondatore e l' unico cultore almeno del secolo XIX (non si conoscono, nemmeno nel XX secolo, contributi di pari livello, se si eccettua for-

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ivi. p. 6. Cfr. Cristoforo Sassu, Note sinolliche di geografia militare, Mode na, Soc. Tip. Antica Tip. Soliani I 88 I (a cura della Scuola Militare). 19 Cfr. Domenico Bonamico, Considerazioni sugli studi di 11engrajia militare e marittima. Roma, Barbèra 1881 (riunisce tre articoli pubblicati sulla "Rivis1a Marittima" dello stesso anno). 1 •


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se il Fioravanzo). Il Bonamico non fornisce una definizione di geografia militare marittima, ma ne approfondisce i rapporti con la strategia navale (della quale invece fornisce una delle prime definizioni) e la propulsione a vapore, facendone derivare molte considerazioni di estremo inleresse sulla difesa marittima, riferita anche alla nuova situazione mediterranea creata dall'occupazione francese de11a Tunisia e della base di Biserta. Dieci anni dopo il maggiore d'artiglieria (poi generale) Ugo AJlason, insegnante della materia presso la Scuola d'Applicazione di Artiglieria e Genio di Torino, nel suo Studio di geografia militare (1891) 20 pur dichiarando di ispirarsi al suo maestro Sironi e al Barone si distacca neltamentc dalla scuola geologica e anche da quella eclettica, tornando a soslenere la priorità del metodo idrografico. Diversamente dal Sironi (che la riferisce solo alle grandi operazioni di guerra), definisce più genericamente la geografia militare "quel ramo delle scienze militari che ha per iscopo di ri-

cercare, discutere e stabilire l'influenza del terreno sulle operazioni di guerra". Non nega i limiti del metodo idrografico (che peraltro a suo avviso sono stati esagerati dai suoi avversari), ma ritiene che "le descrizioni geologiche sono troppo incerta base alla descrizione del terreno montuoso, quando scopo di questa sono le considerazioni militari". In questo contesto, il metodo idrografico oltre ad essere semplice e di facile applicazione rimane fondamentale "per dare una chiara idea delle forme superficiali specialmente nei terreni di montagna, e la sua preferenza è assoluta, allorché è .fatta con intendimenti militari", anche perché ha il pregio di dare subito un'idea di ciò che più interessa ai fini militari, cioè del grado di percorribilità del terreno. L' Allason ammette tutlavia che tale metodo possa e debba essere "opportunamente completato" con nozioni di geologia e di altre scienze: posizione ben diversa da quella del Porro, che non riconosce alcuna priorità né al metodo idrografico né al metodo geologico. Se ne deduce che nono-

20 Ugo Allason, S1udio di geografia mi/ilare, Torino, Can<lelelli 1891. Si vedano anche le recensioni in "Rivista Militare Italiana.. Anno XXXV II - Vol.1 febbraio 1892, pp. 288 - 293 e in ..Rivista di Artiglieria e Genio" Voi. I gennaio 187 1, pp. 163 - 171 (a firma E.R., cioè Enrico Rocchi). li generale Rocchi, luminare del l'Anna <lei genio dell'epoca, autore di vari trattati di fortificazione e progettista egli stesso di fortificazioni, concorda co11 la preferenza che l' Allason continua a dare al metodo idrografico, perché "n011 è 1/Uari oppor/uno ingolfare lo studioso di cose militari 11e/ /abirilllo dei terreni eocenici, miocenici e peroce11ici [ ... l ecc.; oltre che la più bella e più completa carta /ieO/irajica non polrà mai dare imlizi sulla militare praticabilità del lerreno [... ].Invece il metodo idrografico si presellla assai più affine alla ragione militare e all'impiego del terreno nelle operazioni di guerra". E ricorda anche che il De Cristoforis, nel capitolo VI! della sua opera Che cosll sili la guerra (Cfr. Voi. il, cap. IV) ha scritto che, per conoscere la geografia militare di un Paese, bisogna studiarne la geografia fisica "colla scorta della teoria idrografica e del principio sommo della guerra".


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stante le precedenti, autorevoli teorie del Riva - Palazzi, nel 1891 il metodo idrografico in Italia gode ancora di buona salute e ha ancora degli estimatori e dei seguaci nelle principali scuole militari. La serie dei trattati di geografia militare meritevoli di qualche rilievo si chiude con la Guida allo studio della geografia militare (1898)2 1 del Porro, che vi sviluppa le idee esposte nei citati studi del 1896, con notevoli ampliamenti specie riguardo agli studi di geografia generale e militare in ambito europeo. Il testo è completato con una Raccolta di vocaboli di geografia e scienze affini per uso degli studi di geografia generale e militare ( 1902), anch'essa già citata. 22 In questa occasione sono di particolare interesse le considerazioni del Porro sull'influenza degli elementi antropogeografici nelle operazioni di guerra e, più in generale, sul rapporto tra geografia militare e scienze sociali, che in termini attuali equivarrebbe al rapporto tra geografia militare e geografia umana. Infatti la conoscenza delle condizioni sociali ( che nei Loro multifòrmi aspetti ci si presentano talvolta con carattere eminentemente politico-sociale, tal'altra assumono indole più specialmente economico-sociale), vivifica la fisionomia del territorio che la geografia ha preso in esame, mette in evidenza quella serie complessa di azioni e reazioni che incessantemente si sviluppano fra l'ambiente e l'uomo, e da ciò la strategia trae maggior numero di criteri per concepire il disegno delle operazioni e la logistica maggior numero di d.ati per tradurre in atto il concetto strategico. Perciò la geografia militare, come già nel campo fisico ebbe ricorso alle scienze naturali, dovrà in quello antropico cercare l'appORgio delle scienze sociali, avvertendo anche qui d 'evitare il facile periculu del lasciarsi trascinare in discussioni per essa inutili, e che la allontanano da quell'indirizzo eminentemente pratico e applicativo, al quale sempre devono informarsi gli studi militari-23

Sulla base dei concetti prima esposti il Porro indica infine, nel dettaglio, lo schema di uno studio geografico - militare riferito al territorio di

21 Cfr. Carlo Porro, Guida al/u studia della xeograjia mi/ilare - compendio delle lezioni di geui:rofìa militare ( Parte generale) esposte agli ufficiali allievi della Scuola di Guerra, l 'orino, Unione Tip. Editrice 1898. 22 Cfr. Porro, Raccolta di vocaboli di geografia e scienze affini per 11so dei:li studi di geografia generale e militare, Torino, Unione Tip. Editrice 1902. 2 ' Porro, Guida allo st11dio di geografia militare, (Cit.), p. 344.


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uno Stato, cioè a un teatro di guerra. In breve la materia è da lui suddivisa in: A) Introduzione (oggetto e scopo dello studio, con relativi riferimenti bibliografici e cartografici); B) Parte I - Studio generale del territorio dello Stato (descrizione geografica e considerazioni militari); C) Parte Il Monografie dei teatri, scacchieri e zone d'operazione; C) Parte m - Considerazioni mHitari riassuntive sul territorio dello Stato (sia sotto l'aspetto difensivo che offensivo). 24 Accanto a una recensione semplicemente laudativa della Rivista di Artiglieria e Genio 25 , è interessante quanto il Riva - Palazzi - nel frattempo diventato generale- dice dell'opera del Porro. 26 Nessuna critica: lo arruola, anzi impropriamente tra i seguaci del metodo geologico, ignorando quanto il Porro afferma sulla necessità di superarlo e ricordando invece la trattazione assai dettagliata che egli fa del terreno e delle acque. Nessun rilievo anche a proposito delJ'opcra dei suoi predecessori: "i classici libri del Mezzacapo, del Sironi e quelli applicativi del Perrucchetti, del Goiran e di altri conservano il loro integrale valore quali opere di scienza strategica e geografica". Per il resto, il Riva - PaJazzi si diffonde come in passato sull'utilità, anzi sull'indispensabilità del metodo geologico e sulla necessità che gli ufficiali acquisiscano un sufficiente bagaglio di conoscenze di geologia, arrivando a consigliarli di ''farsi da sé una raccolta di 15 a 20 pezzi delle principali rocce [. .. ]; quando le avranno ben riconosciute, le gettino pure" . Insomma: il Riva Palazzi tiene a presentarsi come l'artefice del nuovo indirizzo degli studi geografico-militari in Italia, con l'opera del Porro che rappresenterebbe il coronamento delle sue tesi e non il loro superamento, visto che la giudica "il primo libro di testo di geografia militare, in cui quel mio ormai lontano programma di studi del terreno [riferimento alle sue tesi del 1883/1884 - N.d.a.l trova sanzione e (sic) completa suddi.~fazione". In ogni caso, al di là di interpretazioni di comodo come quest' ultime del Riva - Palazzi le opere finora prese in esame di fatto non seguono mai, in esclusiva, alcun metodo, ma si distinguono tra di loro solo per il diverso peso di volta in volta attribuito a questo o quell'elemento. In secondo luogo, esse rivelano un concetto, per così dire, allargato di geografia mili-

24

ivi, pp. 384-387. lo studio della geogrcljìa mililllre - a proposito di una recente pubblicazione, in " Rivista di Artiglieria e Genio" Voi. VI - dicembre 1898, pp. 379-384. 26 Riva - Palazzi, Per la conclusione sull'indiri?.zo degli studi di geografia militare - a proposito di u,w recente pubblicazione, in "Rivista Militare Italiana" Anno XLIII - I semestre 189R, disp. 2' pp. 674-692. 25


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tare, aJla quale si chiedono concrete indicazioni strategiche sulle modalità d'azione di un ipotetico invasore e, di conseguenza, sul miglior modo di condurre la difesa del territorio nazionale, con una parte solo marginale riservata all'azione offensiva oltre confine. TI metodo del Porro diventa così lo sbocco finale e insuperato degli studi di geografia militare, né può dirsi che abbia perso d'attualità.

SEZIONE II - Fortezze o forze mobili? Le controverse possibilità della fortificazione e della difesa delle Alpi Lo Stato si difende con forze mobili di terra e di mare bene organizzate e con elevato spirito combattivo, che si avvalgono degli ostacoli naturali e artificiali (fortificazioni e difese passive) e delle comunicazioni stradali e ferroviarie. Questa semplice constatazione, valida in ogni tempo e per chiunque, all'epoca scmhra passare in seconda linea e viene oscurata, se non accantonata, da un concello distorto e troppo esclusivo del ruolo della fortificazione, ben riassunto ne l 187 1 dal generale Antonio Brignone, secondo il quale "per piano generale di difesa di uno Stato si intende quell'insieme di opere di fortifica zione, stabilimenti militari e di comunicazioni ordinarie, ferroviarie ed acquatiche che valgono ad appoggiare colla maggiore efficacia le operazioni delle truppe sia di terra che di mare e porle in grado di contrastare dapprima un 'invasione sulle frontiere di un Paese e successivamente l'occupazione delle varie parti del suo territorio, prolungandone la resistenza alla maggior possibile durata" .21 Per il Brignone, dunque, il piano di difesa dello Stato consisterebbe solo nella definizione di fortificazioni , stabilimenti e vie di comunicazione, trascurando le caratteristiche e i lineamenti d 'azione delle forze mobili ai quali dovrebbero fare riferimento, che a l contrario diventano, di fallo, un elemento integratore delle fortificazioni stesse. In un siffallo contesto alla geografia militare si tende a chiedere non solo di far emergere i con-

27 Antonio Brignone, Sulla difesa de1:li Stmi in 1/PIIPrall' P dp/1"/tnlin i11 particolare - Memoria I, in "Rivista Militare Italiana" Anno XVI - I Voi. gennaio 187 1. p. 11 5. Il generale Antonio Brignonc, proveniente dal genio, membro della Commissione per la difesa dello Stato e autore di parecchi scritti, non va confuso con il generale e deputato Filippo Brignone. proveniente dalla fanteria, che pur essendo anch'egli memhro della Commissione per la difesa dello Stato non ha mai scritto nulla, anche se diversrummle <lai precedente è citato nel n ;zinnarin Ringrafico degli Italiani (1st. Encicl. Ttaliana).


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dizionamenti e le possibilità che il terreno offre all'attacco e alla difesa, ma anche di dettare i lineamenti della difesa stessa, imperniata sulle posizioni da essa indicate; in tal modo, la geografia militare più che essere tale diventa geostrategia. Questo vizio d'origine si trova in gran parte della copiosissima letteratura sull'argomento, che sarebbe impossibile, oltre che scarsamente utile, studiare nel dettaglio. Prenderemo perciò in esame solo le voci che a parer nostro concorrono maggiormente a far emergere i punti nodali del dibattito e le principali correnti di pensiero, allo scopo di fare finalmente il punto su una questione strategica fondamentale, ma finora trattata solo in modo episodico e frammentario. Un approccio sufficientemente equilibrato e realistico al problema deve invece tener conto di alcuni parametri di giudizio, che condizionano anche le dottrine strategiche e tattiche delle due Forze Armate. La situazione strategica dell 'Italia è assai infelice. Oltre all'arretratezza economica e industriale, alla scarsità di materie prime e di risorse finanziarie, come già detto ha alle sue frontiere due eserciti assai più forti (quello francese a Ovest e quello austriaco a Est) e uno Stato la cui neutralità non è sicura, se non altro perché può essere violata (la Svizzera). In particolare il nemico più probabile ancor prima dell'adesione all'Italia alla Triplice Alleanza ( 1882) è la Francia, che a parte la sua forte superiorità economica, industriale, agricola, oltre a un esercito più forte ha anche una flotta militare e mercantile assai superiore alla nostra (la flotta militare francese può contare su stanziamenti circa tripli rispetto a quelli destinati alla flotta italiana). Poiché da sempre la fortificazione serve ad aumentare le chances del più debole contro il più forte, questa situazione di base - praticamente immutabile - dovrebbe favorirne un esteso impiego da parte nostra; si deve però tener conto che essa è sempre più costosa, mentre il continuo progresso tecnico oltre a provocare il rapido invecchiamento delle opere rende sempre più frequente la necessità di rinnovare anche gli armamenti delle forze mobili terrestri e navali. Il primo elemento da valutare diventa quindi l'importanza che si vuol attribuire alla minaccia di "proiezioni di potenza" dal mare (sbarchi e/o bombardamenti terroristici delle unità costiere esplicitamente teorizzati dalla Jeune École navale francese contro l'Italia). Ovviamente dalla valutazione di tale minaccia dipende la priorità da attribuire alla difesa terrestre e alla difesa marittima, così come alla difesa dell'Italia continentale o insulare e, in genere, alla fortificazione delle coste. Per le fortificazioni permanenti (sia "interne" che costiere) bisogna tener conto di due fattori di base determinanti, anche se piuttosto in ombra


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nella pur vasta produzione dell' epoca: il ruolo e i più prohahil1 l1m·111 111·11 li d'azione delle forze mobili (terrestri e mariuimc) t.: il volu11w c1H11pln sivo di risorse disponibili. Per essere ancor più chiari : meglio u11.1 di vi1,10 ne, una nave o una fortezza? meglio ammodernare le forze mobili o cu struire fortificazioni? Le fortificazioni vanno integrate con il sistema ferroviario, che ne può essere anche l'alternativa: Moltke consigliava di costruire ferrovie e non fortezze. Esse dipendono anche dalle possibilità rispettivamente assegnate all'offensiva e alla difensiva. Esse dipendono, infine, dall'importanza attribuita alla fortificazione campale (o "passeggera", "eventuale" ecc.), che, come si è vislo, il Marselli non a torto considera in grado di sostituire in buona parte la fortificazione permanente, estremamente più costosa e ovviamente mollo meno flessibile. Senza questi parametri di giudizio non è possibile alcuna valutazione critica dei vari contributi, né il loro inquadramento nel contesto del l'epoca.

Le considerazioni sulla difesa del/{) Stat{) del Sironi

e degli altri autori di geografia militare Le opere di geografia militare prima esaminate contengono molte indicazioni sulla difesa dell 'Italia, sulla possibilità di sbocchi offensivi oltre confine e sulle posizioni da fortificare, senza peraltro prendere in esame per quest'ultime - i risvolti fin anziari . Tra gli autori prima esaminati il Sironi è di gran lunga il più importante e il più influente, con idee che rispecchiano e riassumono i punti di incontro e di scontro del dibattito non solo tra gli autori coevi ma anche tra quelli successivi, perciò sono frequentemente richiamate e citate. Come quella del Ricci , la visione strategica del Sironi è eminentemente continentalista, quindi contrapposta a quella dei fratelli Mezzacapo. L'Italia - egli afferma - ha una parte continentale e una parte marittima, ma la parte continentale è di gran lunga la più importante, per diverse ragioni: ha la maggiore disponibilità di mezzi e risorse di ogni genere, si presta più dell' Italia peninsulare ai movimenti di grandi masse d'armati, è a contatto diretto con i tre grandi scacchieri del Danubio, Reno e Redano. Di conseguenza l'occupazione dell ' Italia continentale da parte di un aggressore oltre a portare " un colpo gravissimo e fatale, forse, alla patria nostra" isolerebbe l' Italia peninsulare dal resto dell'Europa e premerebbe sulla penisola sia dall'Appennino che dai due mari, "mettendola in condizioni tri-


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stissime e confinanti con L'ultima rovina". Se si tiene anche conto che, ormai, gli Slati iniziano le guerre mettendo subito in campo tutti gli uomini e i mezzi che posseggono, si arriva alla conclusione che, senza escludere la possibilità di una resistenza protratta neU ' ILalia peninsulare o la probabilità di sbarchi, "La partita risolutiva sarà più ancora oggidì che in passato, giocata nel teatro dell'lJalia settentrionale" (e in particolare nel bacino del Po). Ciò non toglie che tra il teatro d'operazionj dell'Italia settentrionale e quello dell'Arno e Tevere esista una reciproca dipendenza, perché uno sbarco di forze consistenti sulle cosle del Tirreno prenderebbe alle spalle la barriera dell'Appennino e comprometterebbe le comunicazioni tra l'Italia settentrionale e Roma, minacciando da vicino la capitale stessa: da questi pericoli "si ravvisa immediatamente il sommo e urgente bisogno che abbiamo, nell'interesse della nostra d~fesa, di ravvicinare, mercé di moltiplicati rapporti ferroviari, quei due nostri principalissimi teatri" .28 Il Sironi è inoltre convinto dell'importanza stralcgica di Roma, anche a prescindere dal fatto che è la capitale de l Regno. E' "l'obiellivo principalissimo del bacino del Tevere e di tutta La penisola" e il punto di convergenza di tutte le comunicazioni che dall ' Italia settentrionale per il versante tirrenico e adriatico tendono all'estremità meridionale della perusola; inoltre "è abbastanza vicina al mare, da poter essere al medesimo colle{?ata, e abbastanza lontana per non avere da temere dall'azione immediata di una flotta". Se ne deduce che, per il Sironi, la ragione principale che dovrebbe portare a fortificare Roma non è la necessità di proteggerla da eventuali sbarchl, ma il suo ruolo nella difesa dell'Italia peninsulare. Per quanto attiene alla difesa dell'Italia settentrionale le idee del Sironi possono essere così riassunte: - scarso valore impeditivo intrinseco delle Alpi, sia a causa dei "numerosi e comodi varchi" che consentirebbero a un invasore di attraversarle senza troppe difficoltà, sia perché in passato le divisioni politiche "hanno ceduto a Stati estranei porzioni considerevoli e militarmente importantissime" del nostro territorio, che pure ha confini naturalj così ben definiti; - importanza difensiva fondamentale della linea del Po; - la difesa della frontiera occidentale con la Francia dovrebbe avvenire con modalità analoghe a quelle sostenute dal Ricci, con particola-

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Sironi, Op. cit., p. 541.


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re riguardo alla grande piazza di Piacenza - Stradella - Pavia. Pjacenza ha perciò maggiore importanza dj Bologna, troppo vicina al Po per fungere da perno difensivo della linea dell'Appennino, per un esercito balluto sul Po; - nel caso che l'Italia sia minacciata simultaneamente su tutta la frontiera terrestre, le posizioni di Mantova - il Serraglio (confluenza Mincio - Po) - Borgoforte sarebbero le più indicate per riunirvi la massa delle nostre forze onde condurre una manovra da posizione centrale; - per la difesa verso Est [questa volta, diversamente da quanto sostiene il Ricci - N.d.a. I ha grande importanza il quadrilatero, con particolare riguardo a Verona e Legnago. Esso consente di trarre il massimo utile possibile dalla linea dcli' Adige, sia come linea di difesa, sia come base d'operazione offensiva - difensiva nel Veneto; - diversamente da quanto sostiene il Pcrrucchetti il saliente del Tirolo è estremamente pericoloso. Molto vasto e ben fortificato, "appartiene a una grande potenza che può trasportarvi mezzi d'ogni sorta per due ferrovie, e può spingerli sul nostro lerritorio per i molti sbocchi" che possiede per intero, insieme con le posizioni che li proteggono; - per eliminare il pericolo occorrerebbe fortificare i principali sbocchi dal Tirolo verso il nostro territorio, rafforzare le Iinee dell'Adige inferiore, del Mincio e del Po, costruire un buon sistema di ferrovie che faciliti i nostri movimenti verso il saliente e infine possedere i centri etnograficamente italiani di Trento e Rovereto; - il possesso del Tirolo da parte dell'Austria rende assai difficile un'offensiva italiana verso Tarvisio e l'Isonzo, che sarebbe l'unica a poter fornire risultati strategici di grosso rilievo, perché consentirebbe di raggiungere Vienna e Pest e si svilupperebbe in una regione con minori difficoltà topografiche, meno povera e con buone comunicazioni. Per poter condurre tale offensiva, bisognerehhe perciò eliminare preventivamente il saliente del Tirolo; - anche sul piano generale l'Austria è favorita perché possiede buone posizioni al di qua delle Alpi. Inoltre l'andamento del confine ad S rovesciata, con la parte convessa !cioè con il saliente del Trentino in suo possesso - N.d.a.] separa la Lombardia dal Veneto minacciando l'Alta Lombardia, mentre con la parte concava "avvolge e serra talmente tutto il terreno al di là dell'Adige, potendolo assaltare da Est, Nord e Ovest, da renderlo insostenibile" se l'Italia non sbarrerà i valichi principali e non disporrà di una forza navale preponderante che le consenta la controffensiva;


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- verso la Francia il terreno rende difficile sia la difensiva che l'offensiva da parte italiana. Il territorio francese ha un andamento avvolgente rispetto alla pianura padana, perciò l'esercito francese dispone di "una base a tenaglia e avviluppante", mentre il nostro esercito può contare solo su "una base avviluppata". Senza contare che mentre la difensiva francese potrebbe sfruttare un terreno molto favorevole, la nostra sarebbe molto svantaggiata dalle caratteristiche del versante italiano delle Alpi, che è assai meno profondo di quel1o francese e molto compartimentato, quindi offre al difensore scarse possibilità di spiegamento, di manovra, di difesa prolungata delle valli; - gli sbarchi sono tanto più pericolosi, quanto più vicini a Genova; se riuscissse ad attuarli il nemico potrebbe prendere alle spalle le nostre difese dell'Alto Piemonte. In particolare la strada costiera della Cornice (Riviera di Ponente), pur non essendo agevolmente percorribile ed essendo esposta ad attacchi provenienti dal1e valli laterali, sarebbe assai utile per un invasore padrone del mare. Di conseguenza Genova e La Spezia (destinata a diventare la principale base navale italiana) sono i due principali punti di appoggio della difesa delle coste tra Venti miglia e il fiume Magra; - nel1'ltalia meridionale il terreno si presta solo alla guerriglia (per questa ragione vi ha sempre prosperato il brigantaggio) e gli sbarchi non sono molto temibili, anche se i punti che vi si presterebbero sono parecchi. In tutti i casi anche gli sbarchi sulla costa orientale tenderebbero verso la costa tirrenica, dove si trovano Napoli e Roma, "principale obiettivo delle province meridionali l'una, principalissimo fra tutti, l'altra". Il Sironi - rara avis - ha il merito di prendere in esame anche le possibilità tattiche e strategiche che offre il terreno a un invasore proveniente dal Sud, con parecchie considerazioni (come quelle sull'importanza della linea del Volturno e della stretta di Mignano) la cui validità è stata confermata dalla campagna d'Italia 1943 - 1945; molto indovinati anche gli accenni all'importanza della Corsica e di Malta. Magistrale il suo esame del terreno; si deve però dire che le conclusioni alle quali perviene sulla difesa dello Stato, analoghe a quelle di altri autori coevi, accentuano in misura eccessiva le dissimmetrie strategiche tra l'Italia continentale e peninsulare, con la difesa di quest'ultima che diventa parva res, come se non fosse possibile un'unica strategia nazionale. L'insistenza sull'importanza di Roma, che sarebbe addirittura da collegare con fortificazioni al mare, appare in contraddizione con la centralità strategica della val padana, sulla


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quale, comunque, nonostante il nessun rilievo dato alla difesa della fasc ia alpina e della regione a Est dell'Adige i punti da fortificare rimangono fin troppo numerosi. Troppo sfumato anche il ruolo delle forze navali; se ne ammette qua e là l'importanza ma non si assegna loro un ruolo ben definito: che cosa potrebbero fare, ad esempio, per ostacolare gli sbarchi? Gli altri autori di geografia militare concordano su parecchi punti con il Sironi, ma non mancano discordanze anche profonde. Per il Goiran l'azione dell'esercito italiano nella pianura friulana potrebbe essere appoggiata dalla nostra flotta, superiore a quella austriaca; ma tra Venezia e Trieste la costa non si presta a sbarchi e la flotta austriaca può contare su un sistema di basi molto migliore del nostro. Anche verso la Francia la nostra manovra da posizione centrale ai piedi delle Alpi sarebbe possibile solo disponendo di una forza navale sufficiente; sarebbe anche necessario che la Svizzera rimanesse neutrale. Il Sassu ha una visione continentalista come il Sironi, con idee analoghe in merito all'importanza della strada della Carnia, di Genova e delle posizioni di Mantova - il Serraglio, alla minaccia austriaca dal Tirolo e alle favorevoli possibilità di un'offensiva austriaca. Ha però idee opposte a quelle del Sironi sulla difesa delle Alpi, nella quale si avvicina al Perrucchetti affermando che "è nostro supremo interesse che la lotta sia sostenuta a oltranza e con la maggior forza possibile sulla linea di frontiera, e quindi ali 'interno della zana alpina, entro la quale non si farà sentire la nostra inferiorità numerica".29 Se, dunque, per il Sironi le Alpi erano un ostacolo più per la difensiva che per l'offensiva, per il Sassu è l'opposto: tutto sta a organizzarne bene la difesa, svantaggiata peraltro dal fatto che buona parte della fascia alpina (anche a Sud e a Est della displuviale) appartiene ad altri Stati. Pur non concordando con il S ironi sull ' importanza del quadrilatero, il Sassu attribuisce a Piacenza, alla linea dell'Adige e a Mantova - il Serraglio lo stesso suo valore. Esamina nel dettaglio anche le due linee d'operazione Tarvisio - fiume Fclla - Ospedaletto - Gemona e Caporetto - Staro Selo - Cividale del Friuli , da lui giudicate poco favorevoli all'offensiva austriaca, perché la prima pur consentendo di mettere in crisi le difese italiane a Est del Tagliamento è troppo ristretta, soggetta ad attacchi provenienti dalle Prealpi Carniche e dominata da posizioni di notevole valore, mentre le forze austriache che percorressero la seconda sboccherebbero in piano su un fronte troppo ristretto, correndo il rischio di essere contrattacca-

"" Sassu, Op. cit., p. 126.


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te da forze preponderanti. Anche per una nostra offensiva la linea d'operazione Fe11a - Tarvisio presenterebbe molti ostacoli; invece quella Cividale - Caporetto sarebbe preferibile, perché un nostro successo da questa parte romperebbe a metà lo schieramento austriaco e la ristrettezza de11a valle non consentirebbe alla difesa di spiegare forze superiori alle nostre. L' Allason è favorevole come il Sassu alla difesa ad oltranza delle Alpi, che peraltro non assorbirebbe tulle le nostre forze e non sarebbe tale da escludere "azioni più grandiose e decisive" nella valle del Po. Non è invece della stessa idea del Sironi e dell' Allason sul pericolo di un'offensiva austriaca dal Tirolo, per la quale enumera una serie di difficoltà analoghe a quelle individuate dal Perrucchetti. Pur attribuendo anch'egli molta importanza a Verona, Mantova e Piacenza - Stradella, ritiene inoltre che il campo trincerato di Bologna sia "l'obiettivo strategico più importante della regione emiliana", non tanto perché Bologna è il centro più popoloso, ma perché la sua preventiva conquista è indispensabile per un attaccante che intenda valicare 1' Appennino e spingersi verso l'Italia peninsulare. Infatti oltre a sbarrare l' intersezione tra la via Emilia e la strada Padova - BoJogna - Firenze, per la sua posizione e per il gran numero di truppe che possono esservi dislocate Bologna sarebbe una forte minaccia sul fianco per un invasore che tentasse il passaggio dell'Appennino sia più a Est che più a Ovest. Gli studi prima esaminati danno un'idea di quanto si insegna nelle scuole militari italiane del periodo e toccano tutti gli argomenti più controversi del dibattito sulla difesa dello Stato. Le differenze tra le tesi e le interpretazioni dei vari autori, non di rado profonde, fanno tuttavia emergere la mancanza di un indirizzo, di una direttiva ufficiale in proposito; il che in linea teorica può essere un male, ma di fatto lo può anche non essere o non essere sempre, favorendo le libere interpretazioni e un utile confronto delle idee. Gli autori citati sono comunque concordi su due punti importanti: il terreno non favorisce un ' offensiva italiana oltre confine; in secondo luogo la difesa dei confini a Est del1' Adige è assai difficile, con le carte migliori in mano all'esercito austriaco.

Le scelte (e non-scelte) della Commissione per la difesa

dello Stato (1871) e le critiche dirette del Gandolfi e dell'Ulloa Il periodo 1871 - 1876 è veramente cruciale per i problemi della difesa del1o Stato, per almeno tre ragioni. Lo spostamento della capitale da Fi-


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renze a Roma corona l'unità nazionale e assicura una completa continuità territoriale tra Nord e Sud, ma rimescola completamente le carte e pone il nuovo problema della difesa di una capitale a poca distanza dal mare, dove nel 1849 e 1867 avevano già avuto un peso decisivo nelle cose italiane i corpi di spedizione francesi sbarcati a Civitavecchia senza colpo ferire. In secondo luogo, il 2 agosto 1871 la Commissione permanente per la difesa generale dello Stato presenta finalmente al Ministro della guerra la sua Relazione a corredo del piano generale di difesa dell'Jtalia30, per essere poi sciolta con R.D. del 10 settembre. Terzo: proprio per questo un gruppo abbastanza nutrito di alti ufficiali - in genere appartenenti ali' Arma del genio e parlamentari - pubblica una serie di studi, dove affiorano spesso idee molto diverse da quella Commissione e non mancano aperte polemiche. I contenuti della relazione sono la base del dibattito e valgono anche come riferimento per le successive scelte di politica militare fino al secolo XX: pertanto è indispensabile esaminarli con un minimo di ampiezza. La Commissione crede nella fortificazione permanente e nei grandi campi trincerali assai piì:J del Marselli e del Ricci. Ritiene non sempre e non in ogni caso validi gli ammaestramenti tratti dalla guerra franco-prussiana, nella quale a suo avviso i campi trincerati di frontiera di Metz e Sedan per l'esercito francese si sono trasformati in trappole, solo perché la loro dislocazione era stata mal scelta. La Commissione assegna pertanto alle fortezze tutti i compiti classici, a cominciare da quelli di coprire dall ' invasione buona parte del territorio nazionale per dare tempo all'esercito di mobilitarsi, e di offrirgli dei perni di manovra (campi trincerati) per contenere l' offensiva di un avversario troppo superiore di numero. Essa ritiene il concorso della marina indispe nsabile nella difesa del paese, tuttavia i principi strategici che pone a base delle sue considerazioni hanno carattere essenzialmente continental ista: divide l'Italia in due parti ben distinte, delle quali la prima, cioè la conti nentale, confina con due potenze primarie d' Europa (la Francia e l'A ustria). e perciò "trovasi esposta alle invasioni più poderose" , mentre la seconda, cioè la peninsulare, è esposta solo a sbarchi di forze limitate. Le differenze non si fermano qui . Solo nel Nord è possibi le una difesa sistematica, appoggiata "alle molte e robuste dife.w: artificiali" che g ià vi esistono; ma nella penisola la difesa va concentrala intorno ai presumibili obiettivi principali dell' invasione, anche perché in questo caso ben po30 Cfr. Commissione permanente per la difesa gene rale de llo S1a10. Rela:i""" a corredo del piano generale di difesa dell'Italia, Roma, Voghera 187 1. Si veda and1c la 1cccn,ionc della "Rivisw Militare" (Anno XVI - Tomo IV ottobre 187 1, pp . 126- 145), che ne è un :" euico riassun10.


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co si può contare sulle fortificazioni. Ne consegue la convenienza di studiare due sistemi diversi di difesa, sia pur raccordandoli "nel modo più robusto sulla loro linea di unione" [cioè sul1' Appennino - N.d.a.]; in tal modo, saranno sempre possibili reciproci concorsi tra i due sistemi, oppure la manovra deJle forze con criteri unitari. La Commissione passa poi ad esaminare separatamente la difesa delle frontiere continentali, quella delle frontiere marittime, la difesa interna dell'Italia continentale, dell'Italia peninsulare e delle isole. Si può subito osservare che in un siffatto approccio - nonostante la premessa - manca un concetto unitario della difesa nazionale, e che l' unitarietà della difesa è ulteriormente compromessa dall'esame separato delle frontiere terrestri e marittime, anziché di distinte parti del territorio nazionale aventi una loro individualità, nelle quali la difesa terrestre e marittima siano considerate con uno sguardo d'insieme, che tenga opportunamente conto anche di un contesto strategico unitario. Giova anche ricordare che una siffatta visione continentalista è ben diversa da quella del Ricci, del Marselli e del Perrucchetti, né viene condivisa - come meglio si vedrà in seguito - sia da altri esponenti dell'esercito, sia dagli esponenti della marina, ivi compresi gli esponenti meno "navalisti" come il Bonamico (cfr. Tomo II, cap. le VI). Per la difesa del confine alpino la Commissione ritiene necessario "sbarrare le strade rotabili mediante un forte robustamente costituito in fortificazione permanente e convenientemente situato all'uopo, senza curarsi dei minori passag!(i accessibili alla sola fanteria, i quali si difenderanno, occorrendo, attivamente" [ecco un'altra ragione per costituire le truppe alpine - N.d.a.J. Sbarrare con un forte tutte le strade rotabili dell'intero arco alpino sarebbe evidentemente troppo oneroso; per questo la Commissione non prevede di fortificare i] confine con la Svizzera, contando sulla sua neutralità. Decisione tutto sommato comprensibile; assai meno comprensibile, invece, è la decisione di non fortificare nemmeno il confine con l'Austria, perché "si trova nella regione più lontana dal cuore del Regno". A sei soli anni da Custoza, 1'alleanza con l'Austria era ancora lontana: si vuole forse abbandonare il Friuli e gran parte del Veneto all'invasione? Più che altro sembra che la Commissione sia orientata a una debole difesa da questa parte, visto che su tutta la frontiera Nord-Est prevede la costruzione di soli 7 forti (tra i quali quelli di Primolano, Ospedaletto e Stupizza) e il miglioramento di altri 3 (tra i quali, unica posizione fortificata della pianura, la piazza di Palmanova). Ad ogni modo va ancora rammentato che la proposta del Perrucchetti di costituire truppe alpine - per questo condivisa e anche prima di lui sostenuta dai suoi superiori - mira anzitutto a difendere il confine che la commissione ha lasciato sguarnito a Nord e Nord-Est.


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Al contrario di quanto avviene per la difesa dei confini terrestri, nel concetto di difesa terrestre delle coste la Commissione appare decisa a non lasciare "buchi'', con una soluzione ugualmente criticabile perché troppo ambiziosa, contradditoria e sbilanciata in senso opposto, come accade in genere per le difese che vogliono tutto coprire: la difesa delle frontiere marittime si troverebbe abbastanza assicurata, tanto per parte delle forze di terra, quanto per quelle di mare, quando fossero fortificati indistintamente da mare tutti i porti o le rade, in cui una sqULui.ra nemica potrebbe trovare sicuro riparo contro i fortunali del mare, e Le truppe di sbarco un facile approdo, fort~ficando soltanto da terra quei porti che racchiudono gli arsenali marittimi o che pure possono, per la loro situazione speciale, concorrere efficacemente, come piazze di terra, alla difesa continentale. 31

La Commjssione non si preoccupa delle spiagge aperte dove pur ammette che sarebbero ugualmente possibili gli sbarchi, perché "in simili circostanze difficilmente un corpo d'esercito si periterà di gettarsi alla c:osta col rischio di vedersi l'operazione interrotta a mezzo di un semplice colpo di vento, con grave pericolo dei primi sbarcati; tutt'al più saranno piccole scorrerie ... " . Giustificazione, questa, che ci sembra piuttosto debole: tutte le operazioni belliche sono rischiose, né il pericolo di colpi di vento è così frequente e devastante, almeno nella bella stagione. Per la difesa delle coste, comunque, sembra che secondo la Commissione ci sia ben poco da fare: si tratta solo di migliorare dove è necessario le fortificazioni esistenti [che già proteggono tutti i porti e le rade? - N.d.a.], "che anzi la sola fortificazione d'importanza, che vi si progetta si è quella della Spezia, della cui conservazione, contro qualunque tentativo da terra e da mare, è da tutti sentita l'assoluta necessità". Dopo aver valutato piuttosto ottimisticamente le difese marittime già esistenti, la Commissione valuta ancor più ottimisticamente quelle " interne" dell'Italia Continentale. Giudica le fortificazioni di Genova "molto robuste" dal lato di terra: si tratta solo di renderle atte a resistere a bombardamenti dal mare. Alessandria è un nodo importantissimo di comunicazioni e "centro del cerchio che costituisce la nostra frontiera occidentale", ma anche in questo caso le sue difese vanno solo ampliate, includendovi le colline di Valenza Po, in modo da "costituire il primo perno di manovra dell 'esercito in caso di guerra contro la Francia" . Nessuna indicazione di priorità tra Piacenza e

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ivi, p. 16.


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Bologna; Piacenza, già munita di opere in terra e di molti fabbricati e stabilimenti militari, è "una posizione di somma importanza" per offrire un nuovo perno di manovra a un esercito battuto sulla frontiera Ovest, pertanto va dotata di opere permanenti. Anche la stretta di Stradella va fortificata, mentre Cremona, Pavia e Pizzighettone sono utili teste cli ponte sul Po, senza che sia necessario potenziarne le difese. Bologna è invece un punto di eccezionale importanza da potenziare, perché fin che essa resiste, è assicurato il collegamento con l'ltalia peninsulare, consentendo all'esercito di riprendere l'offensiva e di riconquistare la valle del Po; inoltre anche dal punto di vista tattico finché i forti di pianura e quelli di collina (Monte Calvo - Monte Capra) resistono, non può essere accerchiata. Come già accennato, la Commissione a Nord - Est prevede assai poche fortificazioni di confine, il che fa presupporre una difesa molto arretrala. Essa conta soprattutto sulle solite fortezze del quadrilatero (Verona, Peschiera, Mantova e Legnago) che opportunamente potenziate "formano un ottimo perno di manovra per la difesa del Veneto, specialmente contro un'aggressione dalle valli dell'Oglio, del Chiese, del Mincio e dell'Adige". Più a Est secondo la Conunissione è utile preparare qualche difesa sulla linea della Livenza, "sola tra Le lineefl.uviali che, per corpo di acqua e per poca estensione, ne offre l'opportunità in tutto il territorio che si estende dall 'Tsonzo all'Adige". Tuttavia, poiché anche tale linea può essere aggirata devono esservi costruite solo opere in terra e senza stabile armamento. Mantova è una "gran piazza di deposito e di appoggio per la difesa contro un 'invasione proveniente dalle valli dell'Adige e del Mincio"; la sua azione va estesa al Po con una doppia testa di ponte a Borgoforte. Insomma: la vera difesa ad Est si fa sul quadrilatero. Per la difesa dell'Italia peninsulare la Commissione considera due versanti nettamente separati dall'Appennino, quello adriatico e quello tirrenico, quest'ultimo assai più agevole e importante. Per sbarrare il versante adriatico sono sufficienti le piazze di Ancona e Lucera. Sul versante tirrenico occorre costruire a Roma una grande piazza, collegata con Bologna mecliante le piazze di Radicofani, Chiusi, Magione, Perugia. Per Napoli, altro grande centro, sono previste difese a mare con un "centro di occupazione militare" a Capua, da cui sarebbe possibile intervenire per una difesa attiva della città. Poiché la difesa della penisola "poggia essenzialmente sulla marina militare", la Commissione ritiene indispensabile "una .flotta numerosa e potente" e raccomanda al governo di provvedere [ma con quali soldi? - N.d.a.J alla costituzione della medesima, in 1rwdo che corrisponda al grarule sviluppo delle nostre coste e


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all'azione che la flotta dovrà esercitare in una guerra in cui una potenza marittima di primo ordine [che al momento non può essere che la Francia - N.d.a.]si trovasse nel campo avverso all 'Jtalia. Questo dovere si stima tanto più indispensabile di ricordarlo, in quantoché dalle recenti discussioni al Senato del Regno, parrebbe per confessione stessa del Ministero, che la nostra marina, specialmente per una lotta navale in alto mare, non sarebbe costituita da sufficiente, valido e potente materiale. 32

lno]tre la marina dovrebbe approntare naviglio adatto per la difesa e l'attacco delle coste, studiando di concerto con il Ministero della guerra "il miglior sistema di torpedini da impiegarsi nei porti, nelle rade e nelle spiagge" . In totale la Commissione prevede 97 piazze o punti fortificati per una spesa complessiva di 307 milioni, senza pe rò tener conto dei fondi - senz' altro ingenti - richiesti dall'armamento delle opere e dalla costruzione dei nuovi magazzini e stabilimenti ritenuti necessari. Sono previsti 16,5 milioni per il confine francese, 9 milioni per il confine svizzero, 10,5 milioni per il confine austriaco. I soli forti previsti a Est dell'Adige sono quelli friulani di Ospedaletto (che intercetta le provenienze dalla Val Fella e Val Tagliamento) e Stupizza (che sbarra le provenienze da Caporelto lungo la Va] Natisone). In tota1e la spesa per la fortificazione del confine alpino è di 36 milioni su 307, cifra che di per sé dimostra la bassa priorità attribuita a questa esigenza. Molto maggiore la spesa per la fortificazione delle coste e basi navali (108 milioni), che quindi non è affatto trascurata. L'Itali a continentale (comprese le difese alpine e del litorale ligure, di Venezia, Genova e Spezia) assorbe 182, 6 milioni, contro i 124 (comprese le difese delle coste e le basi navali) dell' Italia peninsulare e insulare. Una priorità che risulta assai modesta, specie se si tiene conto che ben 52 milioni sono assorbiti dalla fortificazione di Genova, La Spezia e Venezia (dei quali 30 solo per La Spezia). Se si tiene conto del bilancio dell'esercito e della marina del tempo (rispettivamente meno di 200 e di 40 milioni) si tratta di una spesa ingente, nella quale sembra prevalere il concetto dei fratelli Mezzacapo di ritenere importante tutto o quasi. Con una siffatta fisionomia, la pianificazione assume piuttosto l'antipatico aspetto di uno scarico di responsabilità da

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ivi. pp. 28-29.


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parte dei componenti dl'llli ( '111111111 .... 111111 11 1 h1• 111111 pm,so1111 non rendersi conto di aver proposto il IH'll'""' " ''1 11 111 111111 ti pm,, ll11lr, l.'otnc invece dovrebbe fare un siffatt o 01prn111 1'11 \1 dll11l11w1111• il /'OVl'l'll O come precisa la stessa relazione - in1p11111· 111111 ( '111111111, "11111· d1 l1111it an.: lu spesa a 100 milioni circa, cioè di rid11111111dd11111111.1 111/ , 111 l'lw sono servile, dunque, le proposte preceden ti '/). Il "piano rido110" du· 111· d1·1t\11 pH' ' 1·1k 111111 s pesa ancora superiore a questo limite ( 142 111il iu111 ), 1111 1w1111• 1111111.'l il di quella iniziale, alla quale si aggiungono all1i •I I 11111111111 l'L'I 1·.11111:111,ento delle opere e la costruzione di nuovi stahili11w1111 1111111 11 11 1· 1111wa11ini. Il risparmio viene ottenuto sia sopprimendo talu1w 111w11· 111n1111c 11 11.:no importanti, sia riducendo i lavori da effettuarl' in u ll ll' I 11 ,pl·,.1 pl'r il confine francese è ridotta da 16,5 a 6,5 milioni l' k 11111!1 11111111111 p1 l'v istc verso il confine svizzero sono soppresse, con un 1" 11111111111 d1 1, 111ilioni. TI confine meno toccato è quello austriaco, duVl' M 11, 1,,11 1111,ttH> ~olo 700.000 lire. Le spese per Piacenza passano d a ) O 11 ,I 111111 ,1111 . 111.1 non viene toccata la spesa per Bologna ( IO milioni ), c 11n L' l11 111d11 l'lla1rn.:nle sottolineandone la priorità. La spesa per Roma vi1.·m· d1111l'11.a1a. Sono soppresse le quattro fortezze di collegamento tra R,1111;1 ,· Hulug.11a. mentre la spesa per Capua passa da 10 a 6 milioni. Sul k l "llSl l' viene munLenulo il ridotto stanziamento per Ancona (1 milione), 111t1 lu sp ·sa per "trasformare completamente" Taranto viene soppressa e que ll a p ·r La Spezia e Venezia ridotta della metà. In totale la spesa per l' It alia t:ontincntale (comprese le frontiere terrestri e marittime e le hasi navali ) e ridotta da 182 a 88 milioni, quella complessiva dell'Italia pe ninsulare e insulare passa da 124 a 53 milioni e quella per la difesa delle coste da I08 a 50 milioni. Una riduzione che può dirsi salomonica: tutto viene ridotlo un po' più della metà, con una diminuzione lievemente maggiore per I' llalia peninsulare e insulare. Con questa impostazione, la relazione della Commissione oltre ad essere la base del dibattito che si sviluppa specie nel 1871 - 1873 è subito oggeuo di fort i critiche dirette nello stesso esercito. Le due più veementi e docume ntate sono quelle del maggiore del genio di Stato Maggiore e miliano Antonio Gandolfi (poi generale e deputato), che naturalmente non fa parte de lla Commissione, e del generale in ritiro ex - borbonico e noto

·'3 La Commissione è presieduta dall'ammiraglio principe Eugenio di Savoia, gif1 comandante della marina s.u·da, e composta dai gtmerali Bariola, Antonio e Filippo Brignone, Giuseppe Ricci (da non confondere con Agostino), Cerroti, Coscnz, Pctitti , Valfré, Menabrca, Pettinengo, Pianeti, Della Rocca, Longo. A parte il Presidente ivi mancano esponenti della marina, ciò che darà luogo a prcvcdihili l~e nnn7.c e polemiche.


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scrittore militare Girolamo Ulloa (sui suoi scritti Cfr. il Voi. II, cap. I, IX e XI). Nella sua opera del 1871 Bologna e l'Appennino nella difesa d'ltalia34, il Gandolfi dopo aver rilevato che l'esercito piemontese e poi italiano è stato sconfitto nel 1848 - 1849 e 1866 perché non ha mai applicato il principio napoleonico deUa massa sostiene che, sul piano generale, una difesa ben concepita deve concentrare la massa del suo esercito sul punto decisivo del territorio da difendere, e su di esso attendere l'urto della massa delle forze nemiche avvalendosi di posizioni rese forti dalla natura e dal]' arte fortificatoria. Inoltre la resistenza a un invasore riesce sempre più valida ed efficace all'interno degli Stati piuttosto che sulle loro frontiere, per quanto formidabili siano le difese periferiche: questo perché solo all' interno si trovano i punti di convergenza delle comunicazioni principali, che diventano anche i punti strategici decisivi. Secondo il Gandolfi, a fronte di questi criteri di base il piano di difesa proposto dalla Commissione, probabile frutto di un compromesso tra i suoi membri, non corrisponde a questi principi, anzi non è che uTUJ applicazione del principio del disseminamento, una parafrasi del sistema delle linee frontiere, una fragrante infrazione del principio della massa e dell'assioma: le piazze devono essere poche e strategicamente situate. 35

Ben 97 piazze, tra cui 11 di primo ordine, sono sparse per tutto il territorio italiano, senza un unico concetto direttivo. Sono ovunque conservate e spesso ampliate le fortificazioni esistenti, anche se inutili perché costruite in epoche diverse e per scopi diversi dagli attuali. Ad esempio il quadrilatero, che in mano austriaca era formidabile e rispondente al suo scopo, ora servirebbe solo ad allontanare l'esercito italiano dal territorio al di là dell'Appennino toscano. La linea Casale -Alessandria è stata un'ottima base per l'esercito piemontese, ma sarebbe dannosa per l'esercito italiano, "che nell'Appennino ha quella che gli è più naturale per coprire direttamente la parte maggiore d'Italia e la capitale". Il Gandolfi mette poi in rilievo che le assegnazioni per Alessandria e Piacenza superano quelle per Bologna (questo è vero solo per il piano

34 Cfr. Rolog11a e l 'Appennino nella difesa d'Italia - cunsideraziuni di A.G. a proposito del piano generale proposto dalla Commissione permanente per la difesa dello Stato Modena, Zanichelli.

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" ivi, p. 13.


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completo; nel piano ridotto a Piacenza sono assegnati 4 milioni ed a Alessandria 10 come a Bologna). Tenuto conto di queste assegnazioni e delle opere già esistenti ad Alessandria e Verona, mentre a Bologna "tutto è provvisorio e cadente", egli arriva alla conclusione che proprio Bologna, dove convergono le lince d'operazione degli eserciti invasori sia da Est che da Ovest, è il punto più debole, mentre i perni principali della difesa previsti dalla Commissione (Alessandria e Verona) si troverebbero in prossimità della frontiera, come era Metz che nella guerra 1870-1871 è caduta aprendo la via all'invasione prussiana della Francia. La soluzione alternativa proposta dal Gandolfi già si trova nel titolo dell'articolo: Bologna e l'Appennino (per un tratto di 150 Km tra il passo della Cisa e S. Godenzo sulla strada forlivese) sono il perno della difesa d'Italia, mentre Mantova (per le provenienze da Est) e Stradella (per le provenienze da Ovest) sono gli unici due perni secondari avanzati. Eccellente conoscitore dell'Appennino e della sua regione, il Gandolfi dedica fin troppe pagine alla dimostrazione dei vantaggi strategici e tattici della posizione di Bologna, che non può essere aggirata nemmeno strategicamente. Sulle coste hanno particolare importanza Genova (che sbarra la strada del litorale ligure), La Spezia e Messina. Le difese di Roma possono essere ridotte al rafforzamento della cinta di mura sulla destra del Tevere con pochi forti staccati, perché a Civitavecchia - solo porto che si presti a sbarchi contro la capitale - potranno sbarcare - come in passato - non più di 30-40000 uomini, che dovranno presidiare anche Civitavecchia stessa e i ponti sul Tevere. Nessun altra fortificazione nell'Italia peninsulare e persino nessun forte di sbarramento sulle Alpi, perché"/'espugnazione di due o tre dei più deboli basterà a rendere inutili tutti gli altri, e una spesa così ingente non avrà altro effetto che di trattenere per qualche giorno l'invasione sulla frontiera". 36 Lo stesso risultato dei forti di sbarramento - assicura ottimisticamente il Gandolfi - potrebbe essere ottenuto, con una spesa di sole poche migliaia di lire, "seminando di fornelli di mina i tratti delle vie alpine, che ad ogni piè so5pinto si rinvengono incavati nel granito". Con queste vistose riduzioni delle difese periferiche e peninsulari il Gandolfi riesce a ottenere un forte risparmio, prevedendo una spesa corrispondente a quella indicata dal governo e di solo 1h rispetto a quella prevista dal piano completo, oltre che assai inferiore alla cifra del piano ridotto. La gravitazione è ovviamente sui punti strategici prima indicati:

"' ivi, p. 59.


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ben 25 milioni per Bologna, 1O per Mantova, 12 per Stradella, 5 per j passi dell'Appennino. Nessuna assegnazione per Piacenza, 4 milioni per Roma, 20 milioni per Spezia, IO per Genova, 6 per Messina e 4 per Ancona, 5 milioni per altre fortificazioni minori terrestri e marittime e infine 2 milioni per l'armamento. Totale: I03 milioni. Da notare che la spesa di gran lunga maggiore è per l'ltalia continentale: nella penisola solo per Roma e Messina è previsto un limitato stanziamento. La polemica ac;sume così connotazioni regionali: l'emiliano Gandolfi indica nell'Emilia e nell'Appennino il centro strategico della difesa d'Italia ma il suo continentalismo è solo apparente, perché approda a concezioni analoghe a quelle dei fratelli Mezzacapo. Contesta il concetto della Commissione e del Ricci che i destini d' Italia si decidono nella valle del Po, definendolo "un pretesto troppo spesso allarmato" per mantenere in questo bacino, anzi in Piemonte, il centro della difesa: chi vide con dispiacere l'antico ordine di cose in Piemonle svanire di fronle al gran fatto della nostra unità nazionale, vorrebbe il perno principale della nostra difesa in Alessandria. Chi nella ripetizione dei falli di guerra avvenuti in quest'ultimo periodo di storia militare sul Po vede la futura difesa d'Italia, lo vorrebbe a Verona ....

Bologna, per il Gandolfi, non va vista come centro propulsore della difesa della val padana, ma soprattutto come antemurale della difesa dell'Italia peninsulare. Non è vero, a suo parere, che la con.figurazione geografica dell'Italia non si presta a una valida difesa permanente e unitaria_ L'Appennino tosco - emiliano divide l'Italia in due parti ben distinte, delle quali la continentale protegge la peninsulare. Sarebbe un errore stabiUre a un capo dell' Italia il centro delle risorse dell'esercito, e dall'altro capo il centro politico e amministrativo dello Stato [Roma - N.d.a_]: essi devono amhedue trovarsi nella penisola. Bisogna tener conto che l 'Appennino Tosco - Emiliano coll'Appennino romano si collega alla difesa passo 11 passo della penisola, a cavaliere del quale l'esercito della difesa in ritirata potrà sostenerla colla maggiore efficacia fino a monte Velino, punto culminante e centrale della penisola. ed ugualmente distante da Roma e da Pescara. La penisola, centro inesauribile di risorse, perché dal mare [ma se la flotla nemica è superiore? - N.d.a. I potrà rifornirsi di quanto difettasse, e la capitale saranno libere di pmvvedere a tutti i bisogni della. difesa, e il governo non sarà costretto ad andar ramingo nel momento in cui deve essere più attiva e meno nwlestata la sua azione.


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Per queste ragioni è necessario possedere una buona marina, in grado di difendere le coste e i rifornimenti e trasporti. Bisogna anche prevedere due "campi" militari, uno nell'Italia centrale e uno nell'Italia meridionale, le cui truppe avrebbero un duplice compito: reagire contro possibili colpi di mano dal mare e rinforzare l'esercito nel caso che sia costretto ad abbandonare l'Appennino. Una difesa più a Nord dell' Appennino non sarebbe conveniente: Alessandria e Verona sono ambedue posizioni facilmente aggirabili. Se si ritirasse in Piemonte e/o nel Veneto, il nostro esercito perderebbe qualsiasi comunicazione con la penisola. e anche se riuscisse a ripiegare su Genova e Venezia, sarebbe ridotto molto a mal partito e costretto a ritirarsi via mare nella penisola. Né vale affermare che ritirandosi in Piemonte o nel Veneto potrà minacciare le comunicazioni di un invasore che si inoltri a Sud dell'Appennino: impadronendosi di Verona e/o di Alessandria l'esercito nemico potrà mettere completamente al sicuro le proprie linee di comunicazione. Il Gandolfi conclude perciò che l'Appennino Tosco - emiliano deve diventare le "Termopili d'Italia", e nulla sarà perduto fino a quando con Bologna sarà in nostro possesso. A conforto delle sue tesi egli cita tra l'altro il punto di vista del generale Fanti (anch'egli emiliano), il quale fin dal 1859 aveva individuato in Bologna il perno della difesa d' Italia e ne aveva proposto senza essere ascoltato la fortificazione. La recensione della Rivista Militare non concorda con l'autore su alcuni punti cssenziali.37 Ritiene a ragione indispensabili i forti di sbarramento sulle Alpi per dare tempo all'esercito di compiere la mobilitazione e radunata, mentre Alessandria, distante solo 6 marce dalla frontiera, è un ridotto di prima linea verso Ovest, così come Mantova lo è verso Est. Il vantaggio del concentramento della difesa a Bologna sarebbe annullato dall'abbandono all'invasione della pianura padana; né con soli 4 milioni sarebbe possibile fortificare Roma e con 2 milioni acquistare tutto l'armamento occorrente, visto che una sola bocca da fuoco costa almeno 50.000 lire. A queste ed altre obiezioni il Gandolfi replica con le opere successive, dove ribadisce le sue c~nvinzioni sulla preferenza da dare a Stradella invece che ad Alessandria e sul ruolo decisivo di Bologna e dell' Appennino.38 Di particolare interesse l'opera conclusiva, La d(fesa interna dell'l37 In "Rivista Militare Italiana" Anno XVIB - I gennaio 1873, pp. 149- 153. '" Cfr. Stradella e Alessandria nella difesa occidentale d'Italia - nuove considerazioni di A.G.,

Bologna, Zanichclli 1872 (recensione in "Rivista Militare Tt.aliana" Anno XVU - Voi. I mar.w 1872, pp. 510-513); l,i nostra rete ferroviaria e la difesa dello Stato - considerazioni di A.G., Verona, Stab. Tip. Civclli 1873 (recensione in "Rivista Militare lt.aliana" Anno XVIll - Voi. Il giugno 1873, pp. 469473); Antonio Gandolfi, La difesa interna dell 'Italia, Bologna, Zanjchclli 1875 (recensione in " Rivista Militare Tt.aliana" Anno XX - Voi. i marzo 1875, pp. 458-63).


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ta/ia (1875), nella quale oltre a riprendere e giustificare con nuovi argomenli le sue tesi precedenti attacca direttamente il Ricci e personalizza il dibaltito sulla difesa dello Stato, presentandolo come uno scontro tra una "scuola regionale" , alla quale appartengono il Ricci e i generali piemontesi contrari a ogni innovazione, e una "scuola nazionale" facente capo agli emiliani generali Fanti e Cialdini, le cui tesi sono risultate perdenti non solo per quanto attiene alla fortificazione di Bologna ma anche sulle riforme dell'esercito in generale. Per inciso le affermazioni del Gandolfi su quest'ultimo argomento sono fortemente deplorate dalla Rivista Militare, che non entra nel merito delle questioni dibattute ma afferma che egli fa riferimento a "passioni le quali fortunatamente furono fin qui ignote ali' esercito", visto che "nell 'esercito italiano non ci.fu, non c'è e non ci sarà mai dualismo; non c'è che una sola scuola, come non c'è che una sola bandiera". La rivista pertanto auspica che la polemica non abbia un seguito, e che "nessuno della parte lesa sorga a combattere l'autore su questo terreno" . Il Gandolfi osserva, in particolare, che l'unico grande ridotto previsto dal Ricci nel triangolo Piacenza - Stradella - Bobbio non protegge le province venete e gran parte delle province centrali e meridionali ; inoltre una volta che l'esercito vi si fosse ritirato "si troverebbe rinserrato in un cul de sac circondato dal mare e dalle Alpi" . A suo avviso, al Ricci interessa solo salvaguardare il Piemonte e le province più vicine della Lombardia e dell 'Emilia, obiettivo che non è affatto in armonia con le finalità politiche di uguaglianza delle varie parti d'Italia che il Risorgimento ha inteso raggiungere; d 'altro canto una piazza o una posizione fortificata unica non può essere una base sufficiente per un paese della potenza e dell 'estensione dell'Italia. Questa tesi appare in contraddizione con la sua perdurante insistenza sull'importanza di Bologna come unica posizione - chiave della difesa d'Italia; ma va detto che qui egli sottolinea particolarmente l' importanza del triangolo - più esteso - compreso tra Stradella, Mantova - Borgoforte e Bologna, così come l'importanza del possesso dell'Appennino e del controllo della riva destra del Po. Premesso che le difese della valle del Po sono sempre aggirate quando il nemico sia riuscito a impadronirsi della val d'Arno da terra (cioè dall'Appennino Tosco - Emiliano) o dal mare (per mezzo di uno sbarco sulle coste toscane o su quelle romagnole o marchigiane), or qual è dei due sistemi proposti, il regionale [Ricci - N.d.a.], e il nazionale [il suo, che a suo dire riflette anche quello della terza relazione


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della giunta della Camera, tornata del 2 aprile 1873 - N.d.a.J? quello che si oppone più efficacemente a questi tre probabili attacchi? Quello della giunta della Camera, che vuole L'Emilia per centro di irradiamento con una testa di valle.formidabile a Bolo,:na, la quale colle,:ata alle due posizioni di Val di Sieve, e San Marcello del versante meridionale dell'Appennino toscano ne abbracci la difesa, e sia alla portata delle due coste minacciate e della sottoposta Val d'Amo; oppure quel sistema che sarà costituito da una posizione fortificata unica nei pressi di Piacenza, che la.scierebbe scoperta la valle dell'Arno all'attacco di Nord - Est, sia che esso si pronunci da terra che da mare, e non sarebbe alla portata di rintuzzare uno sbarco da Nord - Ovest, sulle coste lucchesi e pisane; il quale minaccerebbe di tagliargli, non solo le comunicazioni terrestri colla penisola, ma la priverebbe ben anche di quelle per mare, di cui fanno tanto caso i contradditori?39

ln tal modo il Gandolfi accentua ancor più la minaccia dal mare e l'impostazione peninsulare del suo concetto strategico, che vale anche quando si tratta di contrastare un' invasione dal Tirolo e dal Friuli. A s uo parere non conviene difendere la linea dell'Adige, perché la linea d'operazione principale da salvaguardare è quella da Ferrara a Bologna e attraverso la penisola. Con l' Alto Adige e il Tirolo in suo possesso, l'invasore potrebbe facilmente aggirarla. Un solo nostro insuccesso su questa linea condurrebbe direttamente il nemico sulla nostra linea d'operazione verso Piacenza o il Ticino. lnvece, solo se il nostro esercito mantenesse il suo fronte strategico rivolto verso Nord e parallelo al basso Po, noi avremmo il nostro fronte parallelo a quello del nemico e rivolto verso gli sbocchi delle Alpi, con la nostra linea d'operazione ben protetta. Un ultimo concetto sul quale il Gandolfi si sofferma è la necessità d1 una difesa metodica e per linee successive lungo tutta la penisola, resa necessaria e possibile dall'aumento della mole degli eserciti, che possono essere suddivisi in forze di prima, seconda e terza linea. Al lettore viene perc iò da chiedersi: se è così, perché rinunciare subito alla difesa dell ' rtalia settentrionale a Nord del Po? In realtà sia per l'Italia continentale (ad esempio: Venezia, Legnago, Pavia, la stessa Piacenza, S. Marcello e Val di Sieve sull 'Appennino) sia per l'Italia peninsulare il Gandolfi riconosce contradditoriamente l'importanza di diverse altre posizioni , per le quali, però, prevede fondi palesemente insufficienti o non ne prevede affatto.

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Gandolfi, /.,a difesa intema dell"ltalia (cit.), p. 54.


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Senza contare che sostiene anche il potenziamento in funzione difensiva del sistema ferroviario, con proposte condivisibili ma tali da comportare anch 'esse ingenti spese. Nel suo opuscolo del 1872 / due sistemi di difesa d'Italia presentati alla Camera40 il generale Ulloa diverge sia dalle tesi della Commissione sia da quelle del Gandolfi, pur concordando con quest'ultimo su parecchi difetti della relazione del1a Commissione, a cominciare dal concentramento del maggior numero di fortificazioni nell'Italia settentrionale, dalla tendenza a troppo fortificare per accontentare tutti, dal mantenimento o rnigl ioramento di parecchie piazze inutili, e dall'abbandono della difesa del confine di Nord-Est. Anche secondo l'Ulloa in Parlamento si sono scontrate in passato due opposte concezioni strategiche, quella "piemontese" del generale La Marmora, secondo il quale la Lombardia era "il vero scacchiere di guerra a difesa della penisola" e quella del Cialdini (le cui conclusioni a suo avviso sono state poi fatte proprie dal Gandolfi). L' Ulloa non condivide né l'una, né l'altra. Con la soluzione del Cialdini, che prevedeva la rinuncia alla difesa della Valle del Po e la fortificazione di Bologna per coprire l'allora capitale Firenze. si forniva agli austriaci il vantaggio di accorciare la loro linea d 'operazione (Verona - Firenze anziché Verona - Torino), senza bisogno di superare le linee fluviali della sinistra Po e di investire le varie piazzeforti della pianura padana (Cremona, Piacenza, Alessandria .... ). Dopo aver passato il Po l'esercito austriaco avrebbe così potuto varcare 1' Appennino a San Pellegrino, a Pontremoli e ali' Abetone, aggirando sia Bologna che Piacenza, vigilate solo da corpi d'osservazione. Ancor più facile sarebbe stata un' invasione francese da Nord - Ovest, perché avvalendosi della superiorità della flotta l'esercito francese avrebbe potuto aggirare le gole degli Appennini e l'intera linea di difesa delle Alpi. il progetto del generale La Marmora per l'Ulloa era strategicamente più accettabile, ma aveva il difetto di subordinare le sorti d 'Italia alla resistenza delle sole province settentrionali, facendo inoltre eccessivo affidamento su piazzeforti assai deboli. Queste critiche già lasciano intravedere gli orientamenti di fondo dcll'Ulloa, che diversamente dalla Commissione e da molti altri, come il Marselli non crede molto nelle fortezze e fa piuttosto affidamento sulle forze

"' Cfr. Girolamo Ulloa, / due sistemi di d(fesa d 'Italia presentati alla Camera, Firenze, Tip. Capponi 1872 (si veda anche recensione in "Rivista Militare Italiana" Anno XYll - Voi. I marzo 1872. pp. 5 13-5 17).


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mobili, dimostrando che gran parte delle fortezze ritenute importanti dalla Commissione, ivi comprese quelle del quadrilatero, potrebbero essere aggirate e comunque non sarebbero in grado di assolvere i loro compiti. Oltre ad attribuire scarsa importanza a Bologna, che potrebbe essere aggirata anche da un esercito proveniente da Ovest per la strada Bobbio - Firenze, l'Ulloa non ritiene conveniente fortificare Roma per una serie di ragioni: è troppo estesa, il suo territorio è insalubre e offre pochissime risorse per alimentare un grosso esercito, è soggetta a facili attacchi dal mare. Anche le quattro fortezze previste dalla Commissione tra Firenze e Roma non servono, perché l'esercito francese dopo aver passato l'Appennino potrebbe evitarle, seguendo la strada costiera Lucca - Pisa - Livorno - Grosseto Orbetello - Civitavecchia - Roma e godendo per giunta anche deH' appoggio della flotta, superiore alJa nostra. L'Ulloa non condivide nemmeno l'affermazione che le grandi piazze di frontiera sarebbero inutili e anzi pericolose, e più in generale la svalutazione della difesa delle frontiere. La linea principale di difesa è indicata dalla geografia e può essere convenientemente potenziata dalla fortificazione: non si può certo rinunciare a una linea o a un punto forte, solo perché è sulla frontiera. Metz e Strasburgo non hanno provocato la sconfitta dell'esercito francese, ma ne hanno prolungato la resistenza. Tant'è vero che la Germania ha mantenuto queste fortezze e vuol costruirne altre, così come stanno facendo Ja stessa Francia, la Russia e l'Austria anche vicino al nostro confine: "e in Italia si vorrebbe lasciare aperta la frontiera dell 'Isonzo, quella delle Alpi, quella del Tirolo, trascurando Verona e concentrando la difesa su Bologna!" .4 1 Se si trascura la difesa avanzata della val padana, aHora le fortezze arretrate volute dal Gandolfi diventano, di fatto, piazze di frontiera più vicine al nemico di quanto 11011 lo sarebbero quelle più avanzate da lui non ritenute utili. Anzi: così facendo si sceglierebbe di iniziare l'offensiva proprio quando il nemico si sarebbe già impadronito di gran parte della val padana e potrebbe alimentare la guerra con le ube.rtose regioni conquistate, mentre da parte nostra il morale dell'esercito e del popolo sarebbe inevitabilmente già scosso. n concentramento della difesa su una breve linea interna converrebbe solo a un piccolo Stato minacciato da una grande potenza: "ma con 750 mila uomini, quanti ne conta l 'Italia in tempo di guerra, è egli ragionevole di abbandonare la fortissima barriera delle Alpi, quella del Po e le forti linee di Alessandria - Casale e di Verona - Venezia?

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ivi, p. 33.


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I .. -1 Per difendere il cuore si troncherebbe la testa! I ... I Le piazze di frontiera non servono soltanto ad impedire che il nemico s'inoltri impunemente, ma valgono altresi a legare la difesa interna con quella della periferia, e servono di appoggio ai ritorni o.ffensivi". 42 I criteri per la difesa d'Italia, impliciti in queste osservazioni, sono dall ' Ulloa definiti come segue: - "piccoli fortilizi con deboli distaccamenti di truppe" solo sui principali passaggi delle Alpi e degli Appennini, con il compito di guadagnare tempo; per il resto d'Italia i piccoli forti devono essere banditi. - poche grandi piazze sul modello di Metz nei principali punti strategici; opere in terra sui punti strategici secondari e sui nodi ferroviari. - per la difesa marittima oltre alla flotta devono essere previste "poche grandi piazze marittime situate nei grandi centri di commercio, che perciò stesso sono punti strategici primari". Inoltre la difesa delle coste - come già proposto dal lo stesso Ulloa in un opuscolo del 1859 pubblicato a Parigi - "dovrebbe essere affidata a cannoniere e sostenuta per terra da un sistema di batterie in ferro mobilizzate col mezzo dellaferrovia". 43 In aderenza a questi principì l' Ulloa prevede per la difesa verso la Francia "un triangolo strategico formato dal Po e dal Tanaro" e con esso le piazze di Casale, di Alessandria e Valenza, collegato al campo trincerato di Genova. Di tale triangolo Alessandria è la piazza principale "da difendere sino agli estremi". Verso Est le piccole fortificazioni di Primolano, Stupizza, Ospedaletto, Osoppo ecc. non resisterebbero [ma non sono piccole fortezze di frontiera ritenute necessarie, sul piano generale, dall'autore? - N.d.al. Per costringere il nemico a dividere le forze minacciando le sue comunicazioni occorre "appoggiare l'esercito su Palmanova, Verona e Padova con Venezia dietro questo triangolo". In tal modo, "mentre gl'Italiani starebbero sulla difensiva, minaccerebbero in caso di prospera fortuna la stessa Vienna". 44 L'Ulloa insiste particolarmente sull'importanza di Verona e Venezia; quest'ultima piazza "g razie alla sua mirabile posizione al sicuro di ogni attacco, è il deposito naturale del commercio del Levante e della Germania, è la piaz.z.a di deposito destinata a provvedere al-

ivi, pp. 35-36. ivi, p. 44. '"' ivi, p. 42. 42

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l'approvvigionamento delle linee dell'Isonzo e del/ 'Adige e delle piazze dell 'Adriatico",45 ecc .... A parte le evidenti esagerazioni sull ' importanza terrestre e marittima di Venezia, le considerazioni dell ' Ulloa servono egregiamente ad inquadrare i lati deboli delle tesi della Commissione e del Gandolfi. Indubbiamente l'abbandono di gran parte della val padana non è accettabile; ma l'Ulloa, a sua volta, senza affatto misurarsi con le ricadute finanziarie delle sue proposte prevede un numero rilevante di grandi piazze nella pianura padana, il cui costo sarebbe senza dubbio esorbitante. Come il Ricci e altri non intende difendere ad oltranza la fascia alpina, ma anche le grandi piazze da lui previste potrebbero essere aggirate. Rimprovera a1la Commissione di non essersi preoccupata a sufficienza della difesa dell' Italia peninsulare: ma a sua volta concentra le "poche, gran.di piazze" (che alla fin fine, dato il loro costo, non sono poi tanto poche) nella val padana, dimostrandosi anticontincntalista solo in teoria.

Per Bologna chiave della difesa d 'Italia: Brignon.e (1877-1873) e Martini (/ 871)

Il dibattito prosegue con altri due notevoli interventi di ufficiali del genio: il generale Antonjo Brignone e il colonnello Felice Martirn (del quale abbjamo già citato la proposta dj costituire gli alpini, che anticipa quella del Perrucchetti). La visione strategica del Brignonc46 è continentalista come poche: a suo avviso la chiave della difesa d'Italia è la valJc del Po, mentre la minaccia proveruente dal mare è "incomparabilmente minore" di quella ai confini terrestri. Il sistema di difesa dello Stato va organizzato con una linea di difesa sulle frontiere, collegala con un ridotto centrale mediante piazzeforti che sbarrano le principati linee d'operazione provenienti dal confine e hanno lo scopo di formare punti di resistenza successivi agevolando la ritirata dell'esercito nel ridotto centrale. Le difese interne, comunque, vanno predisposte tenendo presente prima di tutto il piano d'operazioni del comandante in capo e non solo le caratteristiche del terreno, in modo da lasciargli piena libertà d'azione. 4

ivi, pp. 39-40. Antonio Rrignonc, Sulla difesa degli Stati in generale e dell'Italia in particolare, Memoria I, Il, lii e IV, in "Rivista Militare Italiana" Anno XV I Tomo I e Il, febbraio - maggio 187 1; ID .. J)ifese interne della valle del Po, in "Rivista Militare Italiana" anno X VII - Voi. I marzo 1872, pp. 417-464: ID., Esame del controprogetto di difesa compilato dalla giunta della Camera dei deputati sotto la data del 2 aprile 1873. in "Rivista Militare Italiana" Anno XVTJI - Voi. IV dicembre 1873, pp. 305-394. S

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li ridotto centrale deve valere tanto per la difesa terrestre che per quella marittima, e poiché la guerra può durare a lungo, deve comprendere anche arsenali e stabilimenti militari. Negli scritti del 1871, pubblicati prima della relazione delJa Commissione, il Brignone indica come unica zona che possiede lutti i requisiti quella compresa tra l'Amo e il Secchio da Pontassieve a Pisa, con centro a Pistoia e posizioni avanzate a La Spezia, all'Abetone, alla piazza di Bologna e ai passi appenninici di S. Gaudenzio e Trabaria. Tale ridotto ha il difetto di non includere la capitale: ma non conviene prevederlo a Roma, che ha importanza politica ma non militare, perché è troppo lontana dalla val padana (cioè dalla parte del territorio dove deve gravitare la difesa), non intercetta le comunicazioni che si irradiano fino alle frontiere, non costituisce - come gli Appennini - una naturale barriera contro le invasioni, non ha alcuna influenza sul territorio circostante. A ciò si aggiunga che la perdita della capitale in una lontana zona del territorio sarebbe disastrosa solo per un governo debole; comunque dal mare potrebbero sbarcare non più di 50.000 uomini, che non avrebbero alcuna probabilità di successo contro i 300.000 che in caso di necessità sarebbe possibile concentrare in breve tempo nella zona di Roma o in altre località della penisola. Nel 1872, dopo la pubblicazione della relazione della Commissione, il Brignone abbandona l'idea del ridotto centrale toscano e insiste sulla preminenza della piazza di Bologna (che prima era solo il vertice Nord del ridotto toscano) come ridotto centrale della val padana, preferibile a Piacenza unita o meno a Stradella. A suo avviso, dato il suo perimetro ridotto Bologna per un esercito stanco e già battuto è più facilmente difendibile di Piacenza, che anche se non unita a Stradella ha un perimetro molto più vasto, la cui sicura difesa richiederebbe molte forze; inoltre Bologna è mollo meglio collegata di Piacenza con l'Italia peninsulare. Anche la difesa della frontiera alpina non va trascurata. Alla frontiera verso la Francia esistono solo 7 forti di sbarramento: ne occorrono 21, tenendo anche presente che la strada costiera della Cornice (particolarmente pericolosa perché con l'appoggio della flotta - superiore alla nostra - l'esercito francese potrebbe aggirare le nostre difese sulle Alpi) viene sbarrata solo dal debole forte di Ventimiglia. Più indietro le due linee d'operazione Genova Spezia - Pisa e Alessandria - Piacenza - Bologna - Pistoia potrebbero essere sbarrate rispettivamente dalla grande piazza di Alessandria, ampliata senza che ciò comporti grandi spese fino a Valenza, e dalla piazza di Genova. Alessandria è preferibile a Stradella, perché da essa si irradia un maggior numero di strade verso il confine alpino ed è un nodo di comunicazioni più importante, mentre entrambe includono aree collinose e quin-


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di offrono elevata resistenza, anche se Alessandria può essere più facilmente aggirata di Stradella. Casale deve essere abbandonata; bisogna però prevedere a Piacenza un punto fortificato intermedio tra Alessandria e Bologna. Anche se tatticamente meno favorita, Piacenza è preferibile a Stradella, perché vi si riuniscono parecchie strade e ferrovie. D'altro canto non conviene collegarla a Strade11a per farne una sola grande piazza di manovra, che sarebbe troppo ampia e quindi difficilmente difendibile. Per la difesa verso Est non conviene prevedere fortificazioni avanzate, tutte facilmente aggirabili. Da Cormons a] mare occorrono forze mobili e non fortificazioni, perché un fronte fortificato continuo sarebbe troppo costoso. Si potrebbe predisporre solo "opere transitorie" da preparare al momento del bisogno; sarebbe molto vantaggiosa anche una pronta mobilitazione, per sorprendere il nemico assicurandosi la superiorità iniziale di forze. In ogni caso il quadrilatero, troppo arretrato, non si presta a fungere da centro e ridotto delJa difesa né contro l'Austria, né tanto meno contro la Francia. L'unica soluzione è imperniare la difesa verso Est sulla linea del Po, fortificandovi Piacenza, Borgoforte (per sbarrare la ferrovia Verona - Mantova - Bologna) e Pontelagoscuro (per sbarrare la ferrovia Padova - Ferrara - Bologna). Occorre anche una piazza più avanzata, alla quale non si prestano né Verona, né Venezia, né Padova, né Mantova - Serraglio (che è molto costosa e non domina il terreno circostante), né Peschiera e Legnago (che sono troppo lontane e ristrette): per tale piazza la posizione più favorevole è quella dei Colli Euganei. Per la difesa delle coste secondo il Brignone le tesi di coloro che temono sbarchi di sorpresa di 100.000 uomini in qualsiasi punto del litorale sono esagerate. Nessuna marina al mondo riuscirebbe a sbarcare 100.000 uomini al completo con lutti i materiali; ad ogni modo, una spedizione così imponente sarebbe preparata di lunga mano e il difensore se ne accorgerebbe prima. Ciononostante egli concorda con le proposte della Commissione di fortificare lutti i porti e rade che si prestino a sbarchi e ritiene necessario fortificare ben 21 porti, rade e stretti con una spesa complessiva ingente (70 milioni): tra di essi Spezia (da fortificare anche verso terra), Genova, Gaeta, Ancona, Venezia, Napoli, Taranto, Brindisi, lo stretto di Messina, Palermo. Sempre secondo il Brignone, alla spesa occorrente per fortificare le coste bisogna aggiungere I00 milioni per le fortificazioni di frontiera, 95 milioni per la difesa interna del territorio e 55 milioni per il ridotto centrale: totale 300 milioni, come per le proposte iniziali della Commissione. Poiché tale cifra è troppo elevata, anch'egli propone di ridurre la spesa a 150 milioni, ottenuti evitando di fortificare Roma, eliminando le difese in-


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terne della media e bassa Italia e fortificando solo i porti più vicini ali' Italia continentale (escluse Venezia e Ancona perché già munite di sufficienti difese). Anche al Sud vanno protette dai bombardamenti dal mare le città costiere più importanti e vanno fortificati Taranto, Brindisi e Io stretto di Messina. Altri risparmi sono ottenuti dal Brignone con alcuni accorgimenti e limitazioni alle opere da costruire inizialmente. Egli propone anche di suddividere la spesa complessiva in tre periodi fino al 1880, dando priorità ai 14 forti di sbarramento sulle Alpi e alla fortificazione di Rivoli, La Spezia, Genova e Alessandria. Con queste proposte, pur dissentendo sull'importanza da attribuire al quadrilatero, a Piacenza e Roma, il Brignone si mantiene nel complesso vicino alle conclusioni della Commissione della quale ha fatto parte, così come a quelle presentate il 2 aprile 1873 dalla Giunta parlamentare incaricata di riferire sul progetto presentato dal Ministero; non perde invece occasione per attacchi diretti al Ricci e al Gandolfi. Le proposte di quest'ultimo sono da lui definite unilaterali, contrarie ai principi della scienza militare e poco altendihili, e le sue critiche alla Commissione gli sembrano "assai arrischiate". Anche per quest'ultima ragione il Brignone può essere definito un difensore dei punti di vista della Commissione e della Giunta parlamentare, dai quali dissente di rado e mai sui criteri di base e sugli aspetti finanziari. Pur evitando critiche dirette, il Martini ha idee molto diverse dalla Corrunissione e dal Brignone, avvicinandosi piuttosto al Gandolfi.47 Non ha molta fiducia nel valore impeditivo intrinseco delle Alpi, dimostra che le fortificazioni e le artiglierie che le devono armare sono troppo costose specie per l'Italia (e in merito cita le grandi spese della Francia, dell'Inghilterra e del Belgio), ritiene le grandi piazze di frontiera inutili e pericolose e crede soprattutto nelle forze mobili e nella fortificazione campale. La sua citata proposta di costituire truppe alpine locali mira appunto a ridurre la spesa per i forti di sbarramento, ricorrendo fin che possibile a opere campali. A suo avviso, anziché avere un gran numero di cattive piazze meglio non averne nessuna; perciò propone di demolire in gran parte Verona e al completo Palmanova, Cremona e Pastrengo. li suo concetto di difesa dell'Italia continentale ha parecchie analogie con quello del Gandolfi, anche se prevede la difesa (non ad oltranza) del

47

Cfr. Felice Martini, Studi sulla difesa d 'Italia, in "Rivista Militare Italiana" Anno XVI, Voi. III settembre 1871 , pp. 273-330; Voi. IV ottobre 1871 , pp. 5-48 e nove mbre 187 1, pp. 161-23 1 (pubblicali anche in unico opuscolo).


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confine alpino. A tal fine, per la difesa ad Ovest e Nord propone di mantenere in buono stato, senza migliorarli, i forti di Rocca d' Anfo, Bard, Exilles, Fenestrelle, Vinadio e Ventimiglia, mentre i passi rotabili del Tonale, Aprica, Spluga, S. Gottardo, Cenisio, Col di Tenda dovrebbero essere sbarrati con fortificazioni campali presidiate da "truppe ausiliari locali" (cioè dalle truppe alpine che propone di costituire). Più indietro occorre predisporre la linea difensiva Casale - Genova con centro ad Alessandria, sulla quale l' esercito si ritirerebbe in caso di eventi sfavorevoli. Alessandria non va però considerata come ridotto per un grande esercito, ma solo come punto d'appoggio fino a quando è possibile all'esercito resistere nell'alta valle del Po. In caso di ulteriore ritirata va fortificata la linea Pavia - Piacenza Stradella - Pizzighettone, prevedendo per Stradella solo opere campali e per Piacenza il minor numero possibile di forti staccati. La frontiera dell'Est, invece, va lasciata completamente aperta, affidandone la difesa a forze mobili con fortificazioni campali. E' comunque importante la linea del1' Adige, dove Legnago andrebbe rafforzata in modo da farne una testa di ponte insieme con Badia. Mantova potrebbe essere "il più formidabile ridotto di difesa dell 'Alta Italia e grande perno di operazioni per la difesa delle linee del Mincio, dell'Adige e del Po", ma a causa dei laghi che la circondano non dispone di buoni sbocchi e ha dintorni malsani; bisogna perciò rimediare per quanto possibile ai suoi difetti collegandone le difese con quelle di Borgoforte. In ogni caso, anche per il Martini "le Alpi si difendono dall'Appennino e dal Po (medio - basso corso)", perciò" a noi importa più di tutto fare il massimo assegnamento sulla difesa dell'Appennino da Genova a Bologna, e quest'ultima città deve considerarsi come ridotto di difesa dell'Italia continentale, piazza di rifugio di prim'ordine e centro della difesa appenninica" . Una visione, dunque, anch'essa continentalista; ma paradossalmente il Martini ne deduce l'esigenza di fortificare Roma. A suo avviso , se il nemico riesce a superare 1' Appennino e conquista Bologna la miglior cosa da fare è chiedere la pace, con possibilità di ottenere buone condizioni perché il nemico potrebbe trovare arduo proseguire fino a Roma, specie se quest'ultima città fosse fortificata. Oltre che per questa ragione, conviene fortificare la capitale anche per la sua importanza politica e per proteggerla da possibili attacchi dal mare, dal quale dista solo 26 Km: tanto più che la nostra marina non potrà raggiungere in tempi brevi un grado di efficienza che le consenta di competere con le principali forze navali, anche se bisogna tener conto che occorre tempo e molto denaro e che l'Italia è priva di carbone, scarsa di metalli e poverissima d'industrie metallurgiche.


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Oltre al materiale bisogna disporre di arsenali ben difesi e di personale ben preparato; la marina deve perciò risolvere i suoi problemi interni e raggiungere un buon grado di efficienza logistico - amministrativa. Sulla strategia navale da seguire il Martini ha idee analoghe a quelle sostenute dal Bonamico dieci anni più tardi: attacco ai convogli francesi con navi corazzate e rostrate. Anche per la difesa terrestre delle coste, che ritiene necessaria fino a quando sarà possibile contare su una forte marina, il Martini ha idee analoghe a quelle del Bonamico: fortificare solo le piazze marittime principali o che racchiudono arsenali, trascurando la protezione delle città costiere. Le piazze marittime principali da fortificare sono 6: Genova, La Spezia, Venezia, Ancona, Taranto e Messina, con Venezia meno importante di Ancona che pure ha dei difetti. In conclusione il Martini, pur non prevedendo alcuna nuova piazza, oltre a Bologna propone la trasformazione e il rafforzamento di ben 9 piazze nell' Italia continentale (Genova, Alessandria, Casale, Pavia, Piacenza, Mantova - Borgoforte, Legnago e in parte Verona) e il miglioramento di numerose altre, più le 6 piazze marittime prima indicate: la solita tendenza a tutto fortificare, aggravata anche in questo caso dal mancato esame dei risvolti finanziari delle proposte.

Contro Bologna e per Piacenza e Roma: Bruzzo (1870-1 871) e Veroggio (1871-1875) Sia pur in diversa misura, la Commissione e gli autori prima presi in esame hanno una visione strategica fondamentalmente continentalista eritengono Bologna un punto fondamentale sia per la d ifesa dell ' Italia continentale che per quella dell ' Italia peninsulare. Colui che più di tutti si allontana dalle conclusioni degli autori precedenti è il generale del genio (Ministro nel 1878) Giovan Battista Bruzzo48, al quale il Ministro Mezzacapo affida la direzione dei lavori di fortificazione di Roma e della frontiera occidentale, mantenendolo a11e sue dirette dipendenze senza coinvolgere il Comitato di artiglieria e genio. Pur essendo ligure, il Bruzzo rifugge da una visione angustamente continentalista, con un approccio policentrico che si avvicina non casualmente alle vecchie idee dei fratelli Mezza-

•• Cfr. Giovan Battista Bruzzo, Cmisiderazioni sulla difesa Ketterale d'ltalia,Napoli. Ed. Dura 187 1 ( I' Ed. novembre 1870). Si veda anche l'articolo sul giornale L'Opinione riportato in "Rivista Marittima" T trimestre 1872, Fase. II pp. 217-218.


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capo e una difesa per linee successive estesa a tutta l'Italia peninsulare, dedicando inoltre un'attenzione particolare al pericolo di sbarchi di consistenti forze francesi sulle coste della penisola. Ne consegue la solita tendenza a tutto fortificare, sintetizzata nei punti seguenti: - il progetto di di[esa dello Stato non va compilato partendo da precise ipotesi strategiche. Bisogna essere in grado di respingere un'invasione da qualunque parte provenga; - un'invasione proveniente dal confine alpino avrebbe come obiettivo intermedio la val padana e come obiettivo finale Roma. Un esercito battuto al Nord ripiegherebbe nel Sud e dopo essersi rinforzato riprenderebbe l'offensiva (e viceversa); - lo sbarco di un esercito di 150.000 uomini proveniente dalla Francia, dall'Africa o dalla Dalmazia sulle nostre coste, dopo aver bloccato in qualche porto le nostre forze navali , è da ritenersi più probabile che in passato. Per il Bruzzo l'Italia non ha (come ha la Francia con Parigi) un grande centro politico - strategico che eserciti una influenza eccessiva sul resto dello Stato, ma questa è una fortuna, perché il territorio italiano può essere suddivi so in tre "grandi scompartimenti": la Valle del Po, l'Italia centrale e l' Italia meridionale, senza che la perdita della capitale renda necessario darsi per vinti. Ciascuno di questi scompartimenti ha un suo centro strategico fondamentale, che il Bruzzo - cosa nuova - intende scegliere tenendo conto anzitutto della possibilità di concentrarvi i più importanti stabilimenti militari e magazzini, onde consentire a un esercito sconfitto di riacquistare l'efficienza necessaria per riprendere la campagna. Ciò premesso, a suo parere nella valle del Po il punto che più degli altri ha i requisiti necessari per un centro strategico è Piacenza, in posizione centrale e con facilità di comunicazioni per mezzo delle strade ordinarie e ferrate, esistenti e da costruirsi, col Veneto, colla Lombardia, col Piemonte, con Genova, colla Spezia, colla Toscana e colle Romagne.49 A Piacenza vanno collegati due centri di difesa secondari (Alessandria a Ovest e Mantova - Verona a Est); inoltre vanno previste altre quattro teste di ponte sul Po, due sull'Adige e tre grandi basi navali (Genova, La Spezia e Venezia).50 Nel settore centrale Roma deve diventare il ridotto di un sistema di piazze (Civitavecchia, Viterbo, Foligno e un punto da scegliere tra Roma e L'Aquila). Ben collegate tra di loro da ottime strade e ferrovie e dal tele-

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BnJ?.zo, Considerazioni ... (cit.), p. 8. ivi, p. 19.


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grafo, esse formerebbero " il gran campo trincerato centrale", il quale va completato con altre fortificazioni periferiche a cominciare da Bologna, che non sarebbe il perno della difesa della val padana ma la prima difesa dell'Italia peninsulare. Il Bruzzo attribuisce elevata importanza anche al terzo scompartimento, quello meridionale: finora Le province meridionali furono considerate, dal punto di vista della difesa dello Stato, quasi come una parte inutile e parassita. Questa idea va messa in magazzino con Le robe vecchie, come quella che le sorti d'Italia dipendano unicamente dall 'esito di una battaglia sul Po. 5 1

A parte il fatto che l'Italia può essere attaccata anche da Sud, queste province sono così ricche di uomini e risorse d 'ogni genere, che non difenderle "equivale a toglierci volontariamente un braccio". La principale piazza di approvvigionamento dovrebbe essere Altamura nella Basilicata. 'faranto va fortificata come La Spezia; inoltre va fortificata Brindisi (che sembra destinata ad acquistare grande importanza) e va protetta con batterie Bari. Il colonnello del genio Veroggio pur avendo anch'egli una visione strategica sostanzialmente c.:ontinentalista è il principale contradditore del Brignone e il principale sostenitore dell' importanza di Piacenza e Roma, ma diverge anche dal Bruzzo, perché non condivide la visione peninsulare e meridionalista di quest'ultimo, che a suo parere prevede un eccessivo numero di piazze delle quali ben 8 nuove, cosa che comporterebbe una spesa eccessiva. 52 In sostanza egli prevede solo due grandi piazze, Piacenza nel Nord e Roma nell'Italia peninsulare, dove peraltro ritiene gli sbarchi poco probabili. A suo parere il ridotto sull'Arno proposto dal Brignone è una linea di circa 110 Km che richiederebbe un fronte continuo di fortificazioni da Firenze a Pisa, cosa assurda. Il ridotto centrale dovre bbe, inoltre, essere lontano dalla frontiera, non vicino come sostiene Brignone.

"ivi, p. 24. " Benedetto Veroggio. Della difesa territoriale d'halia- Memoria I, in "Rivista Militare llaliana" Anno XVI - Tomo Il giugno l 871. pp. 290-3 18 e Memoria II - Anno XVII - Voi. I gennaio 1872, pp. 46-86; ID., Sulla difesa territoriale d'Italia - studio di un progello completo. l 'orino, Locseher 1872; ID.. Piacenza o Bolog11a ? Memoria sulla difesa territoriale d 'Italia, in "Rivisla Militare Italiana" Anno XVIIl - Voi. I gennaio 1873, pp. 24 1-256. Del Veroggio è probabilmente anche W., / ,e fortificazioni di Roma, in '°Rivista Militare Italiana" Anno XX - Tomo 11 aprile 1875, pp. 5-3 1.


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Netta divergenza dal Brignone anche a proposito di Roma. Anche se al momento ciò non avviene ancora, Roma diventerà in futuro un importante nodo di comunicazioni. Il territorio che la circonda è poco ubertoso, ma questo è un vantaggio per costruirvi fortificazioni senza bisogno di imporre onerose servitù militari. La scarsità di risorse dei dintorni sarebbe uno svantaggio soprattutto per l'invasore, perché la guerra comincerebbe al Nord e la difesa avrebbe tutto il tempo di approvvigionarsi. Le imponenti fortificazioni di Roma di per sé scoraggerebbero sbarchi nemici anche in tutto il Sud, consentendo notevoli risparmi. In ogni caso gli sbarchi sarebbero poco temibili, perché specie se non fossero accompagnati da offensive terrestri sarebbe agevole concentrare contro le truppe nemiche sbarcate forze superiori. Ma anche nel caso che fossero accompagnati da offensive terrestri, le fortificazioni di Roma, cardine del sistema, la proteggerebbero da ogni pericolo. Per tutte queste ragioni il Veroggio propone di destinare alla fortificazione di Roma una cifra imponente ( 11 O milioni), già superiore a quella indicata nel Piano ridotto della Commissione per l'intero territorio nazionale: fatto, questo, che di per sé indica i limiti anche dell'intera sua opera. Per la difesa dell'Italia continentale anch'egli ritiene utili i forti di sbarramento sulle Alpi, senza però prevederne alla frontiera svizzera e austriaca dove si deve solo migliorare il sistema ferroviario. Inoltre vuole fortificati anche i principali passi sugli Appennini e sulla linea del Po vuol costruire, come già accennato, la grande piazza di Piacenza, che dovrebbe comprendere anche magazzini e stabilimenti militari per tutto l'esercito. Posto che a suo parere una grande piazza ne11a pianura padana è indispensabile, la dimostrazione dei vantaggi (fin troppi) di Piacenza e degli svantaggi (fin troppi) di Bologna è il clou dei suoi scritti, nei quali questo argomento occupa il maggior numero di pagine senza alcun accenno alle effettive e ben note possibilità finanziarie, che se mai avrebbero dovuto far considerare come alternativa reale non già Piacenza o Bologna. ma Roma o Piacenza o Bologna. A parere del Veroggio i limiti di Bologna sono di carattere sia strategico che tattico. Non ha il dominio del Po e non copre la difesa degli Appennini, anche perché troppo eccentrica rispetto al Po. Sarebbe un ostacolo inevitabile solo per invasioni dal Veneto; ma da Ovest il nemico non potrebbe arrivare all' Appennino senza aver prima espugnato Alessandria e Piacenza, dopo di che non necessariamente, per valicare l'Appennino, dovrebbe passare per Bologna. Se poi il ridotto centrale fosse a Roma, cadrebbe anche l'esigenza (Brignone) di dover arrestare presto il nemico prima che sbocchi nella Valdamo. Né Bologna può far parte del ridotto centrale di difesa previsto dalJo stesso Brignone, perché troppo


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avanzata e disposta al centro della linea appenninica passo della Cisa Bocca Trabaria, che è troppo estesa (250 Km) perché Bologna vi possa esercitare la sua influenza. In sintesi per il Veroggio Bologna non si presta né all'offensiva né alla difensiva e anche dal punto di vista tattico ha molti difetti: forma troppo convessa, che avvantaggia il fuoco concentrato dell'attaccante; area di pianura troppo ristretta per un grande esercito; mancanza a Est, Ovest e Nord di ostacoli natural i di qualche rilievo; solo le valli del Reno e del Savena si prestano alla dislocazione di truppe, che però difficilmente potrebbero essere impiegate in pianura a causa della ristrettezza degli spazi. Infine, non è vero che dopo la perdita del settore di pianura comincerebbe la difesa fortemente appoggiata alle colline, "il periodo più brillante". In realtà l'attaccante, protetto dal fuoco dei forti di collina dallo stesso abitato, potrebbe impadronirsi dei magazzini e organi logistici del settore di pianura c poi bombardare dai forti conquistati le colline, che presto o tardi cederebbero per carenze logistiche e comunque perderebbero il loro scopo, perché l'attaccante mantenendo sul posto solo un corpo d'osservazione potrebbe anche passare l' Appennino da qualche altra parte. Sempre secondo il Veroggio, Piacenza può essere considerata la sentinella avanzata di Roma nella Val Padana, come già avveniva per i Romani. E' un importantissimo nodo di comunicazioni; collocata al centro della linea del Po e a breve distanza dall'Appennino, rispetto a Bologna ha il grande vantaggio strategico di essere l'unica posizione che appartiene sia alla linea di difesa del Po che a quella dell'Appennino, prestandosi così a fungere da ridotto centrale sia per la difesa verso Ovest che per quella verso Est. La sua importanza è accresciuta dalla non convenienza di fare di Alessandria (facilmente aggirabile) e di Mantova (troppo lontana dal Po, scarsamente atta all'offensiva e con scarse comunicazioni con il resto della penisola) dei ridotti avanzati di difesa; andrebbe però collegata a mezzo ferro via con Genova, da fortificare insieme con La Spezia. Dal punto di vista tattico Piacenza rispetto a Bologna ha il vantaggio di essere protetta a Nord dal Po e di comprendere un'area maggiore, con numerosi organi logistici in grado di dare rifugio a un grande esercito. Può essere collegata con il contrafforte più avanzato dell ' Appennino per mezzo di due forti, uno all'altezza di Vigolzone e Rivergaro e l'altro in posizione tale da battere la strada che dal fiume Trebbia conduce a Rivergaro e S. Giorgio. Per l'andamento del campo trincerato, il Veroggio sceglie come modello le fortificazioni di Anversa, ricordando che il generale Brial-


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mont ha definito Piacenza la capitale militare d'Italia. Per aggirarla sarebbe necessaria una quantità di truppe molto maggiore di quella richiesta per Alessandria, mentre i due forti di collegamento con l'Appennino, ben fiancheggiati dagli altri del campo trincerato, garantirebbero una resistenza tale, che con una difesa intelligente e attiva e con il concorso di truppe mobili, sarebbe possibile sbarrare l'intera Val Trebbia anche nel caso che Genova dovesse soccombere a un attacco dal lato del mare. In totale nel giugno 1871 (cioè prima della pubblicazione della relazione della Commissione) il Veroggio ritiene necessaria una spesa di 235 milioni, dei quali 35 per Piacenza, 140 per Roma, 40 per La Spezia, 15 per Alessandria e 5 per Genova. A tale spesa andrebbe aggiunta quella richiesta dai forti di sbarramento sulle Alpi e sugli Appennini. Questa cifra, ancora una volta eccedente le effettive possibilità finanziarie, non viene da lui modificata negli studi successivi, che pertanto mancano anch'essi di una base realistica. Da notare anche che più della metà della spesa è assorhita dalle fortificazioni di Roma e che per Piacenza, benché intenda farne l'Anversa d'Italia, contraddittoriamente egli prevede solo 35 milioni, meno di La Spezia. Un po' poco, data l'enfasi che pone sulla sua importanza e dato anche che poco si cura della minaccia dal mare.

Dal campo trincerato alla regione fortificata: l'attacco al Ricci e al Veroggio e il nuovo concetto della difesa di Bologna del/ 'Araldi ( 1873-1876) 11 colonnello del genio e deputato Antonio Araldi, conterraneo del Gandolfi e direttore del genio a Bologna, nel 1873 prevedibilmente appoggia le tesi del Gandolfi, del Brignone e del Martini difendendo la soluzione di un campo trincerato a Bologna e attaccando perciò le tesi del Ricci e del Yeroggio53. Ottimo conoscitore dei dintorni della città grazie anche al suo incarico, fa tesoro dei suoi studi e progetti per avvalorare su tutte le questioni principali tesi esattamente opposte a quelle del Yeroggio. A suo giudizio le posizioni del campo trinceralo di Piacenza sulla riva destra del Po sarebbero facilmente aggirabili sia da Est che da Ovest, perciò (come già proposto dal Gandolfi) sarebbe opportuno conservare solamente la testa di ponte sulla riva sinistra del fiume. E mentre Bologna rimarrebbe sempre e in ogni cac;o in comunicazione con il resto della penisola, un esercito nemico superiore di

53 Antonio Araldi, Bnlngna n Piacenza? Risposta agli scritti dei colonnelli Veroggio e Ricci, in "Rivista Militare Italiana" Anno XVlli - Voi. U maggio 1873, pp. 161-215.


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numero e con il morale alto ben difficilmente potrebbe essere arrestato per più di quattro o cinque giorni dai forti di collegamento di Piacenza con il contrafforte dell'Appennino tra Trebbia e Nure. Una volta superate queste posizioni, prenderebbe alle spalle e sul fianco sinistro l'esercito del difensore, costringendolo o a ripiegare rapidamente su Bologna, o a rinchiudersi in Piacenza per farvi la fine dell'esercito del generale Bazaine a Metz. Quelli che per il Veroggio sono i limiti tattici della piazza di Bologna si trasformano per l' Araldi in altrettanti pregi. Il settore principale della piazza non è quello di pianura ma quello di collina, che peraltro va esteso alla displuviale appenninica fino a coprire un'area di circa 60 Km2, protetta ai lati da due giogaie elevatissime e quasi inaccessibili. Grazie all'elevata forza intrinseca delle posizioni, la difesa del perimetro di quest'area richiede pochissime forze, mentre nelle valli del Reno e del Savena (dove non manca affatto l'acqua, come sostiene il Ricci) è possibile dislocare fino a 150.000 uomini con tutti gli organi logistici necessari, senza bisogno di appoggiarsi alla pianura. Queste forze sarebbero in grado di sboccare in pianura ,ù massimo in tre ore, smentendo così le previsioni del Veroggio; e grazie alla gravitazione nel settore collinare, il campo trincerato di Bologna non potrebbe essere aggirato e manterrebbe sicure comunicazioni (due buone strade ordinarie e una ferrovia) con la penisola. Dopo le proposte del Veroggio 1' Araldi contesta con non minore veemenza quelle del Ricci, osservando che anche se il concetto di campo trincerato esteso a Stradella - Bobbio di quest'ultimo sfugge al "gravissimo difetto" della ristrettezza dell'area difesa e al pericolo di interruzione delle comunicazioni con Genova, queste posizioni "sono Jroppo eccentriche per potervi stabilire il perno principale delle operazioni difensive, e il ridotto centrale di difesa" ; inoltre il Ricci commette "il grave errore" di trascurare del tutto la viabilità ordinaria per tener conto unicamente delle ferrovie. Dal punto di vista tattico, è vero che i fronti Ovest (contrafforte tra Trebbia e Nure) e Nord (fiume Po) della piazza possono essere ritenuti inattaccabili, mentre il fronte Est (verso Parma) può essere investito con difficoltà e con molte forze; ma basterebbe al nemico controllarlo con un'aliquota di forze per tagliare ogni comunicazione di Piacenza con il resto della penisola e con Genova. A ciò si aggiunga che il collegamento della piazza con il mare e con la penisola è precario. Se il nemico sarà la Francia la sua flotta, superiore alla nostra, potrà interrompere le comunicazioni lungo la riviera e magari conquistare Genova. Se il nemico sarà l'Austria la sua flotta potrà ugualmente disturbare i nostri trasporti, mentre un corpo di 60 - 80000 uomini potrà passare gli Appennini (che il Ricci non prevede di difendere) a Bologna o altrove, scendendo in Toscana e intercettando ugualmente le comunicazioni


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dell'esercito immobilizzato a Piacenza - Stradella con il resto della penisola. Né le sortite controffensive da Piacenza potrebbero avere successo: se il nostro esercito puntasse a Est o Ovest sarebbe certamente sconfitto da forze nemiche (austriache o francesi) assai superiori; se puntasse a Nord rischierebbe di essere tagliato fuori dalla testa di ponte e spinto verso la frontiera svizzera. Cosa strana, le sortite che per l' Araldi non sarebbero possibili da Piacenza lo sarebbero da Bologna (non incontrerebbero forse forze ugualmente superiori?). Oltre alle tesi del Ricci sul campo trincerato di Piacenza I' Araldi contesta anche la sua affermazione che dal punto di vista geografico Bologna ha dietro di sé la penisola, ma dal punto di vista logistico è Piacenza - Stradella, e non Bologna, ad avere la penisola dietro di sé. Infatti secondo il Ricci in caso di guerra atlluirebbero in 15 giorni via mare dalla penisola a Genova e La Spezia 100.000 uomini circa, che poi sarebbero avviali per ferrovia appunto a Stradella - Piacenza. Non si può dare torto ali ' Araldi quando obietta che il naviglio militare e mercantile disponibile non sarebbe sufficiente per trasportare in così breve tempo 100.000 uomini con quadrupedi e materiali; e quando ricorda che per essere pronta all'inizio delle ostilità la marina dovrebbe mobilitarsi 15 giorni prima dell' esercito .... Ne consegue un' ulteriore ragione di svalutazione del campo trincerato di Piacenza, rispetto al quale per l' Araldi è Bologna ad essere meglio collegala con la penisola anche tramite una viabilità ordinaria più ricca, che il Ricci non considera: quindi il concentramento dell'esercito su Bologna sarebbe più rapido e l'alimentazione della piazza più agevole. Oltre a Bologna, I' Araldi prevede solo la fortificazione di Piacenza Stradella come antemurale Ovest della difesa di Bologna e di Mantova - Borgoforte come antemurale Est della difesa del Po. Per la difesa delle frontiere e delle regioni ad esse più vicine "debbono provvedere i perni eventuali di operazione, situati quanto più è possibile a cavallo delle nostre linee fluviali di difesa, e in quelle posizioni che meglio si prestino ad una azione concentrata, che mantenga loro aperta la linea di ritirata". Con queste idee l' Araldi si fa portatore di una visione strategica ancor più continentalista e ristretta di quella del Gandolfi. Il suo contributo, comunque, non si limita a sostenere, come già il Gandolfi e altri,la necessità di creare un campo trincerato a Bologna: assai interessante è l'articolo del 1876 I campi trincerati e le regioni fortificate 54 , nel quale con una profonda evo-

"' Antonio Araldi, / campi trincerati e le regioni fortificate, in "R ivista Militare Italiana" Anno XXI - Voi. I febbraio 1876, pp. 193-237.


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luzione rispetto alle tesi precedenti dimostra l'opportunità di rinunciare alle fortificazioni isolate e di superare il concetto di campo trincerato, sostituendolo con quello più vasto di regione fortificata, che già si trova in nuce nella grande estensione da lui proposta per il campo trincerato di Bologna e non pare originale, perché mutuato da soluzioni francesi e belghe (generale Brialmont) del tempo. Trascurando il fatto elementare che l'azione delle fortificazioni isolate va coordinata con quella delle forze mobili che ne impediscono l'aggiramento, egli sostiene che esse hanno fatto ormai il )oro tempo, perché l'attaccante ha sempre la possibilità di attaccarle con forze e fuoco superiori, oppure di aggirarle o bloccarle. Le piccole piazze di frontiera sono utili solo se disposte su potenti linee difensive naturali, le quali andrebbero difese anche con fortificazioni campali negli intervalli tra le opere, che non sempre si ha il tempo di costruire. A loro volta i campi trincerati nella loro formula classica hanno due limitazioni: a) per non diventare trappole devono essere costantemente alimentati mediante comunicazioni non interrompibili con il resto del Paese, obiettivo difficile da ottenere; b) devono necessariamente essere situati all'interno del Paese, quindi non sono in grado di ac;sicurare la difesa delle regioni di confine. Se l'esercito per difendere le frontiere dovesse affrontare forze superiori , sarebhe sicuramente sconfitto; l'unico modo per ottenere la vittoria è perciò, di appoggiarlo a posizioni forti, che gli consentano di neutralizzare la superiorità dell'invasore. Tali posizioni forti possono anche non esistere; in questo caso non vale la pena di tentare la difesa avanzata, che però può essere organizzata ricorrendo alle regioni fortificate, sempre che il terreno si presti ad attuarle. Nel concetto dell' Araldi la regione fortificata non è altro che un campo trincerato molto più esteso, con un perimetro dell'ordine del centinaio di chilometri, che però può essere anch'esso economicamente difeso grazie alla forza intrinseca delle posizioni prescelte, con il vantaggio supplementare di non poter essere aggirato e di racchiudere tutte le risorse necessarie per alimentare per lungo tempo un grosso esercito. Tale regione fortificata svolge - con maggiore necessità di forze mobili - lo stesso ruolo del campo trincerato, e come il campo trincerato deve essere in costante comunicazione con il resto del Paese. Applicando questi concetti alla difesa d' Italia I' Araldi annacqua assai la sua vecchia idea della centralità strategica di Bologna, prevedendo da Nord a Sud tre regioni fortificate, senza assegnare a nessuna di esse una precisa priorità. La prima, con Mantova - Borgoforte posizione - chiave e ridotto centrale, è denominata "regione del quadrilatero" ed è limitata a


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Ovest dal lago di Garda, da] corso superiore deJ Mincio e dalle inondazioni delle valli del Buscoldo fino a Mantova; a Nord daJl'allineamento VaJ d'Adige all'altezza di Brentino - Monti Lessini; a Est dal corso dell' AJpone e de]I' Adige fono a Legnago e dalle valli veronesi (impraticabili) fino al Po; a Sud dal Po. La regione fortificata così delimitata avrebbe il grande vantaggio di sbarrare l'intera valle del Po dai Monti Lessini ali' Appennino contro tutte le provenienze, lasciando anche ampi sbocchi per la controffensiva. La "piazza - posizione" di Bologna, estesa fino alla cresta dell' Appennino così come previsto in precedenza, costituirebbe la seconda regione fortificata, completata con una terza regione identificabile con il versante Sud dell'Appennino, che "copre interamente dagli attacchi dal mare una gran parte della Toscana.formandone quasi la citladella centrale d'Italia" , e soprattutto mantiene le comunicazioni con Roma per Arezzo e Foligno. Queste tre regioni non sono però le sole: l' Araldi ritiene possibile identificarne altre, quali ulteriori lince d'arresto per un'invasione da Nord e quali ridotti per la difesa della capitale e delle province meridionali. Quel che più preme al Nostro è di dimostrare l'economicità e il maggior rendimento operativo delle soluzioni da lui proposte; ma lo fa con argomentazioni invero discutibili. A suo avviso un sistema composto da sei piazze isolate richiederebbe 72-90 milioni e 36.000 uomini di presidio fisso; per un sistema composto di tre campi trincerati occorrerebbero 90 milioni e 45.000 uomini; in ambedue i casi il perimetro esterno sarebbe di 135-150 chilometri. Invece per una regione fortificata basterebbero al massimo 50 forti periferici con una spesa complessiva di 20 milioni e un presidio di 25.000 uomini; è però necessario includervi un campo trincerato interno che garantisca sicure comunicazioni con il resto del Paese, il cui costo sarebbe di 50 milioni. ll compito dei forti periferici, armati con poche ma potenti artiglierie, si ridurrebbe a resistere agli attacchi nemici fino a quando non giunga in loro soccorso l'esercito operante, quindi essi non richiederebbero una guarnigione molto numerosa. Per contro una regione fortificata richiede la continua presenza di un esercito interno, cosa che non è necessaria per un campo trincerato. Queste proposte non superano affatto il concetto di campo trincerato, che rimane il clou della regione fortificata, con un costo più che doppio rispetto a quello complessivo dei forti periferici. Garantire con poche forze e pochi piccoli forti un perimetro così ampio appare impresa ardua anche con terreno favorevole; per di più, si tratta di una soluzione contradditoria rispetto alla scarsa convenienza di costruire forti isolati sostenuta dallo stesso Araldi. Egli confida nelle posizioni naturalmente forti: ma esse so-


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no difficili da trovare, mentre quelle da lui indicate non lo sono in misura sufficiente per consentire un forte risparmio di forze e garanti re I' i mpenetrabilità del perimetro difensivo. Al contrario, per svolgere i loro compiti essenziali le regioni fortificate avrebbero bisogno di numerose e salde forze mobili: è questo, in fondo, l'aspetto più nuovo delle tesi dell' Araldi, che una volta tanto mette le stesse forze mobili più o meno esplicitamente al primo posto, assegnando di fatto alle fortificazioni un ruolo marginale, visto che quel che conta di più - anzi: conta troppo - è il valore impeditivo intrinseco del terreno.

Difendere a oltranza le Alpi: la svolta del Dabormida sulle orme del Perrucchetti (1878) Tutti gli studi fin qui esaminati, ivi compresi quelli geoslrategicamente più "meridionalisti" del Marselli o del Bruzzo, pur prevedendo - nella migliore delle ipotesi - di difendere la fascia alpina, danno per scontato che la fase decis iva della difesa contro un invasore abbia come teatro la pianura padana, e solo in qualche caso (Veroggio) indicano in Roma l'obiettivo vitale da difendere a oltranza. Nel frattempo la guerra franco-prussiana lascia una duplice eredità: la superiorità del sistema di mobilitazione regionale prussiano e la tendenza a un forte e continuo aumento della forza mobilitabile. E' in questo contesto generale che va inserita la proposta di difendere a oltranza le Alpi al loro stesso interno del maggiore di fanteria di Stato Maggiore Vittorio Emanuele Daborrnida, caduto da valoroso - con il grado di generale - nella battaglia di Adua. 55 Una proposta non interamente nuova: il Dabormida si richiama esplicitamente al PerruccheUi, che - come si è visto - già nel suo celebre articolo del 1872 prevede - senza essere per il momento ascoltalo - la mobilitazione totale per Ja difesa delle valli degli stessi abitanti della zona alpina. Va anche detto subito che il Dabormida - come già il Ricci - si preoccupa solo della difesa della frontiera occidentale, il che è un serio limite. A suo avviso una controffensiva del-

" Vittorio Emanuele Dabormida, La difem della nostra frontiera occidentale in relazione agli onlinamellfi militari odiemi, Torino, Loeseher 1878 (tradotto anche in frnncese ne llo stesso anno) e ID., Dell 'ordinamento militare delle popolazioni alpine, in "Rivista Militare Italiana" Anno XXIII Voi. IV novembre 1878 pp. 165-197 e dicembre 1878 pp. 237-262. Con lo studio storico La battaglia dell'Assiel/a (in "Rivista Militare Italiana" anno XXII - agosto, settembre e onobre 1877) il Dahormida aveva già inteso dimostrare le elevate possibilità difensive delle Alpi.


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l'esercito italiano nell'alta valle del Po, contro un esercito francese che fosse riuscito a sboccare contemporaneamente nel piano dalle valli alpine, avrebbe assai poche probabilità di riuscita a causa della ristrettezza dello spazio disponibile e della scarsa consistenza degli ostacoli naturali ai quali si potrebbe appoggiare. Di conseguenza le soluzioni possibili rimangono due: o si rinuncia a contrastare all'invasore il possesso dell'alta valle del Po arretrando la difesa lungo il fiume da Strade11a al mare, o si deve ampliare il campo di manovra della difesa comprendendovi anche ostacoli naturali efficaci, il che è possibile solo estendendola in avanti fino a comprendere la fascia alpina. La prima soluzione - prosegue il Dabormida - è sostenuta da pochi; ma anche la seconda desta delle perplessità, principalmente dovute al fallo che in tal modo si condurrebbe una guerra di cordone con una difesa su spazi troppo ampi, debole dapperlullo. Per questa ragione fino a quel momento è prevalso l'orientamento a utilizzare la fascia alpina solo per imporre all ' invasore un tempo d'arresto, onde dare tempo al nostro esercito di mobilitarsi e sferrare una controffensiva ai piedi delle Alpi; ma "per quanlo generalizzata sia tale opinione, per quanto grande l'autorità degli uomini che la dividono, a me è sembrato che l'anzidetta formula riduca in limiti troppo ristretti l'importanza delle Alpi". A parere del Daborrnida una vittoria dell'esercito invasore nell'alto Po all'inizio delle ostilità, influirebbe in modo decisivo sull'esito della guerra, perché attraverso i passi alpini rimasti aperti potrebbe affluire una massa di forze nemiche di gran lunga superiore a quella della nostra difesa, che non sarebbe più in grado di reagire con successo. Al contrario una nostra vittoria non avrebbe risultati ugualmente decisivi , perchè al massimo potrebbe respingere l'invasore verso gli sbocchi alpini, dove però quest'ultimo potrebbe subito trovare "quelle [forti] posizioni di rifugio, che in caso di sconfitta le forze italiane dovrebbero [invece] andare a cercare dentro la stretta di Stradella e dietro il medio Po ". Per di più, sarebbe praticamente impossibile respingere l'esercito francese anche dalla fascia alpina, o - peggio - condurre oltre confine un'offensiva, che verrebbe troppo fortemente ostacolata dal terreno e dalle fortificazioni. Pertanto nel caso che l'Italia debba condurre da sola una guerra contro la Francia, qualunque sia la strategia del Comando Supremo italiano l'unjco risultato che potrebbe ottenere sarebbe quello di arrestare l'invasione, prolungando la lotta fino a quando l'avversario, o per stanchezza o per intervento diplomatico o armato di altre potenze, sarebbe indotto a desistere. Fortunatamente il recente, cospicuo aumento della forza mobilitabile consente di eliminare i temuti inconvenienti della difesa a cordone, per di-


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fendere con efficacia e sufficiente densità di for.le l'intera fascia alpina. E' vero che la frontiera con la Francia ha uno sviluppo di 300 km, ma essa è attraversata da sole sei strade rotabili, a sbarramento delle quali possono essere concentrate le nostre forze. Se si tiene anche conto che il terreno limita di per sè le forze ultimamente impiegabili in un determinato settore, si creano condizioni assai favorevoli per una difesa che abbia definito con precisione fin dal tempo di pace la forza occorrente per ciascun settore e che abbia accuratamente organizzato le posizioni da difendere "sia con opere di fortificazione permanente, sia col preparare proKetti particolareggiati di fortificazioni eventuali, sia col costruire comunicazioni che favoriscano le proprie operazioni e col predisporre la distruzione di taluni tratti di strada utili all'avversario, sia coll'erigere nei punti più convenienti per la riunione di truppe, nelle alte regioni dei ricoveri e dei magazzini, sia, in ultimo, e principalmente, col dare alle popolazioni alpine un forte ordinamento militare". Sarebbe così possibile al nostro esercito non solo organizzare all'interno delle Alpi una difesa altiva, efficace "e fors 'anche insuperabile ", ma anche costituire nell'alto Po una riserva generale di gran lunga superiore numericamente a ciascuna delle masse numeriche, divise tra di loro, che eventualmente sboccassero in piano, con il compito principale di contrattaccare tali masse in piano. E' peraltro possibile che la flotta francese, assai superiore alla nostra, provochi gravi danni sulle nostre coste, in gran parte indifese: ma quest'ultima azione "poco conforme ai dettati della moderna civiltà" potrebbe essere fatta indipendentemente dalle operazioni terrestri. E poichè "pochi giorni occorrono a una flotta, che sia padrona del mare, per scorrere e devastare tutto il litorale del Golfo di Genova e del mare Tirreno", il rimedio per l'Italia non sta tanto nell'opporre poca resistenza all'invasione terrestre, ma piuttosto "nel costituirsi una marina da guerra che sia in grado di lottare con la marina francese nel Mediterraneo, e nel provvedere e_fficacemente all'armamento delle coste". Dopo aver enunciato questi concetti generali il Dabormida sviluppa più nel dettaglio l'organizzazione difensiva delle Alpi con particolare riguardo all'aumento delle truppe alpine, che a suo dire non riguarda tanto la loro utilità da tutti riconosciuta "grandissima", ma piuttosto il timore che accrescendone la forza se ne diminuisca la qualità e si depauperi sempre più di buoni elementi la normale fanteria di linea. Al momento, però, come proposto dal Marselli è possibile aumentare la forza dell'esercito da 330.000 a 400_()()() uomini e si sta gradualmente adottando il reclutamento territoriale; in tale quadro, è possibile risolvere anche il problema dell'aumento degli alpini senza danno per la fanteria.


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Con il sistema di mobilitazione in vigore - prosegue il Daborrnida la metà dei giovani atti alle armi residenti nella fasc ia alpina non viene incorporata negli alpini; se invece vi si applicasse per intero il reclutamento territoriale, la fanteria di linea non sarebbe affatto depauperata, perchè il suo reclutamento rimarrebbe esteso all' intero territorio nazionale meno le Alpi, mentre gli alpini non sarebbero più truppe scelte, ma di qualità. Con il reclutamento territoriale completo si potrebbe costituire fin dal tempo di pace 100 compagnie alpine delle quali 40 scelte per compiti particolari. Non ci sarebbe più bisogno di mantenere le predette compagnie sul piede di guerra, perchè con il reclutamento territoriale completo sarebbero più numerose e quindi la mobilitaz ione potrebbe essere più rapida. Le I 00 compagnie alpine permanenti sarebbero raggruppate in 25 battaglioni e i battaglioni in 13 reparti retti da un colonnello, che in caso di guerra riceverebbero in totale altri 25 battaglioni di milizia mobile (cioè interamente richiamati dal congedo). Infine il con lìnc alpino sarebbe suddiviso tra 5 Ispezioni (Veneto, Lombardia, Tic ino, Piemonte e Liguria), ciascuna retta da un maggior generale e comprendente 2 o 3 reparti , più 3 ballerie da montagna. Il Dabormida si dichiara però contrario a raggruppare le truppe alpine a parte, facendole dipendere - anzichè dai corpi d' armata di frontiera - da un Ispettore con il grado di generale di corpo d ' armata. A suo avviso così facendo le unità alpine perderebbero gli stretti legami che devono mantenere con i corpi d'armata di frontiera, che in caso di guerra sarebbero destinati a sostenerle sia penetrando all' interno della zona montuosa sia costituendo le riserve retrostanti. Egli esamina anche, a grandi linee, l'ordinamento complessivo dell'esercito. Per la difesa dei confini in caso di guerra oltre alle truppe alpine tratte dalla mobilitazione locale prevede anche il concorso della fanteria di due corpi d 'armata. Sei corpi d'armala completi più l'artiglieria e la cavalleria dei due corpi impiegati nelle Alpi formerebbero la riserva generale dislocata nell'alta valle del Po, mentre i rimanenti due corpi d'armata dell 'esercito di prima linea presidierebbero l'Italia peninsulare e insulare, fino alla completa mobilitazione dell'esercito di seconda linea. In totale la zona alpina sarebbe difesa da 130.000 uomini, dei quali circa 80.000 alpini (25.000 di prima linea, 25.000 di milizia mobile alpina e 30.000 di milizia territoriale alpina), più 50.000 uomini dei due corpi d' armata di rinforzo. Nella recensione dedicata al suo citato libro sulla Difesa della frontiera occidentale in relazione agli ordinamenti militari odiemi56 la Rivista

"' In " Rivista Militare Italiana". Anno xxm

- Voi.

I gennaio 1878, pp. 135-139.


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--~ vm . LA MINACCIA VIENE lJALll ALPI o DAL MARE?

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Militare da una parte nega che nel vertice dell'esercito prevalga l'orientamento a non difendere a fondo le Alpi e ritiene che l'incremento delle Lruppe alpine sia solo una questione di tempo e costi, dall'altra giudica (a Lorto) sufficiente l'aumento delle compagnie alpine permanenti a 36, aggiungendo che "non bisogna tuttavia dimenticare che l'esercito non è fatto per combattere tra le gole delle Alpi, nelle quali certamente non avrà luogo la decisione suprema". La contraddizione ci sembra evidente, anche perchè la rivista mette contemporaneamente in rilievo che uno dei vantaggi della difesa a oltranza della zona alpina, non indicato dall'autore, sarebbe quello di evitare i riflessi negativi che una scarsa resistenza sulle Alpi da parte di poche truppe provocherebbe sul morale dell'esercito e della popolazione. Per altro verso la rivista accusa il Dabormida di aver tentato di avvalorare le sue Lesi esagerando ad arte la capacilà di rapida mobilitazione e la rapidità e facilità dell'offensiva dell'esercito francese, e per contro prevedendo che il nostro esercito nello stesso tempo non sarebbe ancora pronto, rendendo così indispensabile l'apporto delle truppe alpine e una rapidissima loro mobilitazione. A parere della rivista, tale rapidità non va assicurata con gli accorgimenti spesso discutibili indicati dal Dabormida, ma - diversamente da quanto da lui proposto - mantenendo le 36 compagnie sul piede di guerra anche in pace. Inoltre la costituzione di compagnie speciali è da ritenersi dannosa, "per le complicazioni che essa produrrebbe e per l'inferiorità che infliggerebbe alle altre compagnie alpine". A parte quest'ultima condivisibile puntualizzazione è legittimo chiedersi: la rivista è favorevole o contraria alle proposte del Dabormida? Se la difesa a oltranza delle Alpi è conveniente, ma non si può e non si deve impiegare al loro interno l'esercito di prima linea, bastano forse 36 compagnie alpine? La rivista, comunque, non contesta al Dabormida la lacuna principale del suo scrilto: qual'è il ruolo della fortificazione nella difesa a oltranza delle Alpi e nella successiva controffensiva delle forze di riserva in piano?

Le forti critiche del Cerroti ai lavori di fortificazione di Roma

e la replica anonima a difesa dell'operato del Ministro Mezzacapo (1882) La relazione della Commissione del 1871 e il dibattito che ne consegue, prima di tutto per difficoltà economiche tutt'altro che imprevedibili trovano uno sbocco concreto assai modesto, che si riassume in gran parte nella costruzione ex-novo e/o nel miglioramento degli sbarramenti sul confine delle Alpi (con relativa tendenza all'aumento degli alpini anche in so-


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stituzione delle fortificazioni) e nella fortificazione di Roma, dovuta anche al personale impulso del Ministro Luigi Mezzacapo ( 1876-1878). Dal 1877 al 1882 sono così costruiti 12 forti staccati alla distanza di 2-4 chilometri dalla vecchia cinta di mura, intervallati tra di loro di circa 2 chilometri e con un'estensione frontale massima di 200 metri. All'inizio del 1882 un altro eminente ufficiale del genio, il generale e deputato romano Filippo Cerroti già membro del la Commissione del l 871 , su una rivista esterna autorevole com'è la Nuova Antologia dopo una premessa sulla difesa strategica dell'Italia centrale critica sotto parecchi ac;petti la formula con la quale sono stati realizzati i forti, indicando anche le cause degli errori.57 Va subito ricordato che nel periodo in cui le fortificazioni sono state progettate e costruite iJ Cerroti era presidente della sezione genio del Comitato di artiglieria e genio, nella fauispecie non consultato e non coinvolto dal Ministro Mezzacapo, che per guadagnare tempo si era avvalso direttamente - come si è visto - del generale Bruzzo e dei locali Comandi e direzioni di artiglieria e genio. Di qui una prima ragione delle sue critiche, per così dire, dall'esterno, che indirettamente riguardano anche lo stesso generale Bruzzo e non sono fondate su una conoscenza diretta e approfondita dei problemi ma - come ammette lo stesso autore su informazioni raccolte e su "quanto appare alla vista di chiunque vi faccia qualche escursione". Il Cerroti si dice certo che, in caso di guerra, un'invasione proveniente dalle Alpi sarebbe arrestata dal nostro esercito nel triangolo Piacenza-Bologna-Mantova, formidabile posizione che impedirebbe al nemico di proseguire l'avanzata verso l'Italia peninsulare. Il pericolo per Roma verrebbe piuttosto dal mare, perchè la Francia, mentre "il suo sterminato esercito" impegnerebbe gran parte delle nostre fone per la difesa della valle del Po, grazie alla sua superiorità marittima potrebbe nello stesso tempo sbarcare un corpo di spedizione di circa 50.000 uomini sulle coste tirreniche tra Talamone e Gaeta e impadronirsi fac ilmente con un colpo di mano deJJa capitale, ottenendo anche grandi effetti morali sulla nazione e sull'esercito. Al momento le coste tirreniche sono quasi completamente sguarnite, nè si può fare molto affidamento sulla nostra flotta, "che nello stato odierno, e forse chissà per quanti altri anni, non sarebbe in grado di cimentarsi a battaglia aperta con la flotta francese, molto superiore di forze" e dovrebbe rifugiarsi nel porto di La Spezia, in attesa di qualche occasione fa-

57 Filippo Cerroli, Lefortifrnzioni di Roma e il sistema di direzin11,, ,t,,; lm•ori 1111hb/it'i miliwri, in " Nuova Antologia" Voi. XXXI Fase. III I febbraio 1882, pp. 504-532.


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vorevole. Per fronteggiare eventuali sbarchi francesi dovrebbero perciò essere impiegate forze terrestri dell'ordine di due corpi d'armata, sottratte alla "lotta decisiva ai piedi delle Alpi"; e si deve anche tener conto che i] nostro cattivo sistema ferroviario costringerebbe le nostre forze a spostarsi lungo linee ferroviarie costiere soggette all 'offesa di una marina supenore. Per queste ragioni - prosegue il Cerroti - bene ha fauo la Commissione del 1871 a proporre, oltre che la creazione di una cintura di forti staccati intorno a Roma, anche la fortificazione di Monte Argentario, Civitavecchia e Gaeta. Le fortificazioni costiere dovrebbero anzi precedere quelle della capitale, perchè per poter sbarcare un corpo di spedizione è indispensabile impadronirsi prima di una buon porto che anche se fortificato con una sola batteria, ostruzioni e torpedini, quanto meno ritarderebbe lo sbarco, dando così tempo alle forze mobili di intervenire; e se si lasciasse il litorale completamente sguarnito, per difendere Roma anche se fortificala occorrerebbe pur sempre un corpo d'armata. Non è necessario costruire difese costiere in tutto i] litorale: sono poco probabili sbarchi a Nord di Talamone e a Sud di Gaeta, quindi basterebbe fortificare in ordine di priorità sei porti (Civitavecchia, Porto Ercole, Porto Santo Stefano, Talamonc, Gaeta e Porto d'Anzio). Dopo aver lamentato che le sue proposte in questo senso sono state ignorate e che successivamente il Comitato è stato escluso da qualsivoglia incombenza in merito alla nuova cintura fortificata di Roma, il Cerroti rivolge una serie di critiche ai criteri tecnici con i quali sono stati eseguiti i lavori di costruzione dei forti, a suo parere antiquati e tali da compromettere gravemente l'efficienza della difesa stessa, oltre tutto con notevole dispendio di risorse. In particolare: - pur avendo adottato per i forti il tracciato poligonale, vi si è introdolto "l'anacronismo del fronte di gola a sistema bastionato "; - le scarpate dei terrapieni sono state costruite con un'inc1inazione eccessiva, provocando crolli e frane e rendendo necessari successivi lavori di rifacimento e rivestimento, con grande dispendio di fondi; - non è stata sufficientemente curata con idonei ostacoli passivi la difesa vicina dei forti; - oltre a costruire male i fossati perimetrali non si è previsto di batterli con apposite artiglierie leggere, prevedendo solo tiri di fiancheggiamento di fucileria; - l'area occupata dai forti è troppo ristretta, con conseguente loro vulnerabilità al tiro delle artiglierie; - data ]a loro posizione troppo avanzata o troppo arretrata rispetto ai


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forti collaterali, alcuni forti sono soggetti a un dannosissimo tiro d'infilata; - per tutti i forti si è astraltamente adottato un modello unico "come si trova disegnato pei forti di pianura su qualunque atlante annesso ai trattati moderni di fortificazione", senza tener conto della mutevole conformazione del terreno (come invece è stato fatto per i forti di Parigi); - la strada di arroccamento dietro i forti, pur attraversando un terreno privo di ostacoli, è stata tracciata con andamento tortuoso e con numerose opere d'arte non necessarie, e con rifacimenti e rettifiche che ne dimostrano la carente progettazione. Prevedibilmente il Cerroti attribuisce queste carenze a una sola ragione: la mancata supervisione dei progetti e lavori da parte di un organo superiore, che nella fattispecie avrebbe dovuto essere solo il Comitato del genio, separato da quello di artiglieria (com'era prima della riforma Ricotti del 1873). Al momento invece si tiene il Comitato del genio assorbito da quello dell'artiglieria, e in così magra rappresentanza da formarne una speciale sezione composta di soli tre generali. L... I Il genio militare è oggidì acefalo del tutto, imperrocchè se già prima non aveva al Ministero un proprio direttore generale, attualmente oltre a quella mancanza non ha più nemmeno il proprio Comitato o Consiglio d 'arte. E ciò dobbiamo vederlo proprio oggigiorno, che la scienza ingegnesca ha preso un dominio sterminato!

Il Cerroti lamenta inoltre che la direzione dei lavori di fortificazione di Roma e della frontiera austriaca è stata affidata a un generale estraneo al Comitato LBruzzo - N.d.a.J e totalmente indipendente dal Comitato stesso. E anche se la direzione dei lavori rispettivamente alla frontiera occidentale e alla frontiera marittima è stata affidata a due generaJi del genio membri del Comitato, essi agivano indipendentemente l'uno dall'altro e indipendentemente dal Comitato, senza quei proficui scambi d ' idee che nella fattispecie sarebbero stati estremamente utili; cosicchè tutti gli ordini e disposizioni provenivano direttamente dal Ministero, che peraltro non ha nemmeno un direttore generale proveniente proveniente dall ' Arma del genio. Critiche così impietose, che investono direttamente la responsabilità del Ministro e chiamano in causa l'organizzazione del vertice militare, non possono rimanere senza una risposta, che ben presto arriva con un articolo sullo stesso periodico a firma "x+y", anche per questo particolare chiaramente


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ispirato - se non compilato - dal Bruzzo o dal Mezzacapo. 58 L'ignoto autore, molto probabilmente anch'egli ufficiale del genio dj grado elevato, concorda con le critiche del Cerroti alla costituzione del Comitato di artiglieria e genio, ma per il resto ne controbatte tutte la tesi a cominciare dal criterio di fortificare prima di Roma il litorale da Gaeta a Talamone. A suo avviso l'unica valida difesa contro il pericolo di sbarchl è una forte flotta, che al momento non possediamo per carenza di fondi, anche se richlederebbe uno sforzo finanziario minore dei danni enormi che provocherebbe la sua mancanza; contrastare gli sbarchi con le fortificazioni e con l'esercito è più costoso e meno efficace. Le località dove il nemico potrebbe sbarcare sono assai numerose e non si vede perchè dovrebbe sbarcare solo dove vuole il Cerroti, perciò fortificare le coste costerebbe molto, anche perchè i piccoli forti da luj previsti sono insufficienti; nessuno, poi, potrebbe impedire al nemico di sbarcare con mandate successive anche 100 - 150.000 uomini. Poichè in mancanza di una forte marina e con le coste indifese sarebbe stato necessario distogliere dal Nord per la difesa delle penisole forze notevolissime, un 'altra soluzione, La più ovvia, si affacciava, ed era di fortificare direttamente Roma mettendola al riparo di un colpo di mano di un nemico sbarcato con Limitati mezzi di attacco. Questa soluzione fu adottata, e si procedette alla costruzione del campo trincerato di Roma con La massima sollecitudine. [... ] Se nel 1877 invece di por menu alla difesa della capitale, si fosse iniziata una discussione sulla opportunità e sulla convenienza di fortificare piuttosto Roma che il Litorale, abbiamo l'intimo convincimento che nell'anno di grazia 1882 non si avrebbero ancora né Le fortificazioni a mare, né il campo trincerato di Roma.

L'ignoto autore difende perciò l'operato del Ministro Mezzacapo, che di fronte all ' urgenza di difendere la capitale si è assunto la responsabilità di tagliare corto con le discussioni, i pareri e la burocrazia, e di iniziare subito i lavori con una prima assegnazione di 4 milioni. Fino a quel momento c'erano state solo molte parole, discorsi, relazioni senza nulla concludere: hasti citare un fatto solo: che cosa si è fatto circa i lavori di difesa dello Stato pei quali si presentava elaboratissima relazione fin dall'aprile

58 x + y , Ancora delle fortificazioni di Roma, in " Ntwva Atllologia" Voi. XXXII - Fase. VII I aprile IR82, pp.49 1-518.


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1873? - Quante belle e sante cose non si son dette da uomini insigni e per ogni aspetto competentissimi? - Quanto il fatto corrispose poco alle parole! Quanto lavoro, quanto studio gettato!

Segue una lode all'operato del generale Bruzzo, che ha persuaso il Ministro ad abbandonare l'idea iniziale di costruire intorno alla capitale solo fortificazioni in terra e nel maggio 1881 ha presentato una relazione con la quale la spesa complessiva era calcolata in 23 milioni, dei quali I I già assegnati. Con queste risorse - prosegue x + y - non si potrà certo costruire il grande campo trinceralo previsto dal piano generale della Commissione nel 1871 e nemmeno quelJo ridollo, il cui costo sarebbe rispettivamente di 70-80 milioni e 40 milioni circa; ma si realizzerà una cintura esterna di opere sufficienti per proteggere la capitale da un bombardamento e per far fronte con un limitato presidio ai tentativi di un corpo nemico sbarcato di impadronirsi di sorpresa della città, dando così tempo alle forze di soccorso di accorrere dal1'ltalia del Nord. Né è vera, per x + y, l'affermazione del Cerroti che non vi è stata una supervisione dei lavori da parte di un organo tecnico collegiale: di fatto ha operato un "Consiglio eventuale" che ha adottato le decisioni necessarie cd era composto da l generale Bruzzo direttore superiore, dai comandanti territoriali dell'artiglieria e del genio, dal direttore territoriale del genio e dal capitano del genio al quale è stato affidato il progetto per ciascun forte. Sempre a parere di x + y, grazie a questa supervisione i lavori hanno avuto esito soddisfacente. Evidentemente il generale Cerroti, che li ha criticati senza peraltro avere potuti controllarli di persona, è stato male informato. Tnfatti: - approfittando del fatto che il terreno era tufaceo (e non sabbioso, come afferma il Cerroti), per mancanza di tempo e di fondi le conlroscarpe dei fossati sono state rivestite in muratura solo due anni dopo, senza peraltro che si siano verificate frane consistenti: - come può facilmente constatare con prove pratiche il presidio :-.11::-.so dei forti, i fossati perimetrali hanno profondità suffìcic nl · pl:1 o:-.lacolare seriamente un attacco. E se si tiene conto del gra1uh: p1or 11.":-. so delle armi portatili a retrocarica (fucili a ripc1i zio1w l' 111111 :igliu trici), il fuoco di fiancheggiamento dei fossi prcvis111 c1111 1 "'11 lul·i li senza artiglierie è sufficiente. Anche in molle 01wH· 11·d1·,1 lw. 1111 striache e francesi tale fuoco non è affidato ai c11111111111 . - non è vero che è stato adottato un unico schl' 11111 di 111111·. 11 p11·,ç i11dere dalle condizioni del terreno. li lnH.:t: ialo d1 1111,11111 l,1111· 111111 e stato studiato a tavolino ma sul poslo:


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- il paragone del Cerroti tra i forti di Roma e quelli di Parigi è improprio. Parigi è l'obiettivo obbligato dei nemici della Francia e il grande ridotto centrale nel quale si rifugerebbe l'esercito battuto, con un perimetro doppio di quello di Roma, che invece non è tale perchè su di essa non ripiegherà mai l'esercito eventualmente battuto nel Nord; - la strada di arroccamento tanto criticata dal Cerroti è stata tracciata tenendo conto anche dell'opportunità di limitare, per economia, le spese per indennizzi vari ai proprietari; - l'anacronismo del fronte di gola a sistema bastionato è stato previsto solo in tre delle venti opere costruite, e lo si è fatto per particolari ragioni; - non è vero che vi sono stati sperperi di fondi. Se il Cerroti avesse paragonato il costo di una piazzola per bocca da fuoco delle fortificazioni di Parigi con quello di una piazzola delle fortificazioni di Roma, quest'ultima sarebbe risultata certamente meno costosa; - il Cerroti cade in contraddizione da una parte rilevando che il Comitato di artiglieria e genio così com'è composto non può funzionare bene, dall'altra pretendendo che venga coinvolto nel controllo della progettazione ed esecuzione dei lavori. Per eliminare gli inconvenienti dovuti al cattivo funzionamento del vertice dell' Arma del genio, secondo il compilatore dell'articolo dovrebbe essere previsto un comandante dell'Arma del genio, dal quale dipenderebbero un ispettore per le truppe, alcuni ispettori per i lavori di costruzione di caserme, campi, poligoni, ecc. e alcuni ispettori per i lavori di fortificazione. A quest'ultimi competerebbe la direzione degli studi e dei lavori e il collaudo delle opere ultimate. L' efficacia delle fortificazioni di Roma non è mai stata dimostrata. Un giudizio storico sereno su di esse potrebbe essere oggi espresso solo dopo un confronto con analoghe realizzazioni del tempo specie in Francia, Germania e Austria. Desta comunque perplessità il fatto che il Cerroti abbia fondato le sue osservazioni non su una conoscenza personale e diretta dei problemi, ma su quanto gli ha riferito un informatore ottimo conoscitore dei lavori ed evidentemente ostile al Bruzzo. Ugualmente perplessi lascia il dimensionamento "per economia " dei lavori in base a un' ipotesi operativa per così dire minimale e favorevole il più possibile al difensore. Un fatto però è certo: data la ridotta distanza dei forti dal le vecchie mura e la mancanza di torri corazzate, questo campo trincerato - mai rimodernato a fronte del continuo progresso delle artiglierie si avviava ben presto ad essere superato, rendendo così dubbie le economie reali realizzate.


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Come fortificare le Alpi e Roma: la notevole metamorfosi delle idee de li 'Araldi ( 1881-1884) e i suoi attacchi alle soluzioni adottate Negli scritti del 1873-1876 già esaminati l' Araldi dimostra di non far parte né dei sostenitori di una difesa a oltranza delle Alpi (per le quali, prevede solo "fortificazioni eventuali") né di quelli della fortificazione di Roma. Le sue idee mutano piuttosto radicalmente con due successivi studi del 1882-1884 compilati subito dopo aver lasciato il servizio attivo ed essere stato eletto deputato, nei quali basandosi su una sua vasta esperienza in materia di fortificazioni polemizza apertamente con la Commissione prima lodata e con gli alti gradi che hanno deciso e diretto le fortificazioni, con critiche di fondo che non riguardano solo particolari tecnici di un solo sistema fortificato (come quelle del Cerroti), ma l' intera filosofia strategica e tattica delle nuove fortificazioni , ovunque esse siano state previste. 59 Tali critiche sono precedute da considerazioni teoriche che sviluppano concetti già espressi in nuce a proposito delle regioni fortificate e possono essere così riassunte: - "sarebbe una pazzia" non sfruttare a fondo con una difesa a oltranza i forti ostacoli naturali che presenta la frontiera alpina, le cui poche vie di facilitazione vanno tutte sbarrate (e in proposito anche l' Araldi cita il Perrucchetti). Sono perciò in errore "le persone stimate tra le più competenti" che invece di resistere sulle Alpi ritengono meglio dare una battaglia decisiva nella valle del Po; - il principio teorico che la miglior difesa è l'offesa, valido in linea generale, non può essere applicato nella scelta delle posizioni da fortificare, che devono soprattutto assicurare la più efficace difesa passiva con il minimo delle forze, sfruttando a fondo gli ostacoli naturali. Questo vale in particolar modo per le fortificazioni di confine; - l'aumento di gittata delle artiglierie d'assedio impone di ampliare notevolmente il perimetro delle aree fortificate, allo scopo di impedire al nemico di battere il nucleo abitato e il ridotto centrale delle piazze. La distanza delle opere più avanzate dal centro del la piazza non può essere fissata a priori, ma deve essere dettata dal terreno;

59 Cfr. Antonio Araldi, Gli ostacoli naturali e la fnrt!ficazione - .l'enmt/11 1•1/1: /1111,· 1111111/wto , .,,,, applicazioni alle difese alpine e a quelle di Roma (rielaborazione e ampliami:n111 do 1111 111111·1110 ,11 11:a "Rivista Militare" del 1881), Bologna. Zanichelli 1882 e ID., Gli ermri 1·1111111'.\,11 111 /111/111 111•/111 ,/1/1•.\fl dello Stato - appunti del generale Antonio Araldi depulato al Par/1111w11111, ll11h11•1111, '/11111, hd l, I 8114 . Il generale Araldi si avvale anche della sua passata esperienza di dirc11orc l('1111t1111k ,it'I 1•1•11111 11 /\k,sandria, Milano, Mantova e Bologna e di presidente de l Comitalo di art igli1·oi11,. p1•11111


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- in montagna il predetto aumento di gittata impone di includere nel perimetro delle opere anche le alture dominanti circostanti, sulle quali l'assediante potrebbe appostare le sue batterie. Questo non era necessario in passato; di conseguenza molte fortificazioni alpine costruite nei secoli scorsi non sono più valide e vanno senz'altro radiate; - le valli alpine devono essere sbarrate nel loro punto più allo e dominante, cioè sui valichi dove la via di facilitazione si restringe; l'aggiramento è molto difficile e anche il clima rigido, le nevi e i ghiacci sono un ostacolo per l'invasore. Le nuove opere vanno previste solo dove è possibile ottenere queste condizioni ottimali, quindi non possono essere molto numerose. Secondo l' Araldi sia i criteri adottati per i lavori di difesa delle Alpi che quelli della fortificazione di Roma (per i quali fa riferimento anche al Cerroti) sono antitetici ai principi prima enunciati. In particolare gli errori principali da noi commessi nella difesa delle Alpi, ben noti alle potenze confinanti, sono due: - per lo sbarramento delle valli principali sono state scelte (o conservate) posizioni troppo arretrate e/o vecchie fortificazioni dei secoli passati che dovrebbero essere abbandonate. Per contro sono state trascurate posizioni fortissime e non dominabili, che pur favoriscono al massimo grado la difesa; - oltre a conservare nelle vecchie fortificazioni le murature scoperte e a vista ormai vulnerabili al tiro delle moderne artiglierie, si è fatto ricorso a tali murature anche nei nuovi forti e nell'ampliamento di quelli vecchi. Per lui non è valida l'obiezione che non è conveniente costruire opere di difesa sui valichi, perchè sarebbero soggette al fuoco di analoghe opere nemiche che talvolta le dominano. Al concetto della lotta tra opere e truppe assedianti bisogna ormai sostituire quello della lotta tra opere contrapposte ; sarebbe perciò deplorevole arretrare le nostre opere solo per timore della lotta contro altre fortificazioni nemiche, senza contare che quasi sempre è possibile individuare posizioni laterali, dalle quali un valico può essere meglio difeso. Il "sacro orrore di andare troppo avanti" è giustificato solo quando si tratta di posizioni esposte all'aggiramento; ma in questo caso tale pericolo va escluso, perchè per evitare gli aggiramenti lontani attraverso altri valichi di minore importanza, poco percorribili, basta presidiarli "con pochissime squadre di truppe alpine convenientemente asserragliate, le cui riserve siano ben riparate dalle intemperie sotto buoni baracconi coperti dalla vista e dalle of fese nemiche". Non è neppure conveniente lasciare aperte al nemico buone


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posizioni avanzate, solo per consentire ipotetiche controffensive sui fianchi e alle spalle delle colonne dell' invasore_ Tra i forti da radiare perchè irrimediabilmente esposti all'offesa delle artiglierie nemiche I' Araldi indica quelli -famosi - di Exilles, Fenestrelle e Vinadio, che possono essere sostituiti da nuove fortificazioni e in particolare sul Monte Chaberton alla destra del passo (nel quale all'inizio del secolo XX verrà costruito un forte, poi smantellato dall'artiglieria pesante francese nel 1940)_ Anche il forte di Vinadio andrebbe sostituito da difese portate avanti sul colle della Maddalena. Analoghe critiche I' Araldi rivolge agli sbarramenti della Val d' Adige e Val Lagarina_ Di tali critiche la Commissione di difesa del momento non tiene conto; rammaricandosene molto, egli arriva ad affermare che ciò è avvenuto a causa della grave malattia mentale dei due generai i che la presiedevano, della quale a suo parere già avevano dato segno respingendo le sue proposte. Per rimediare al difetto delle murature scoperte e vulnerabili I' Araldi propone di coprirle con uno strato di terra chiudendo le aperture delle batterie in casamatta, per poi tra<;formarle in magazzini o ricoveri per la truppa. Là ove possibile, le artiglierie dovrebbero essere disposte in barbetta; specie in posizioni dominanti, tal i batterie sono poco vulnerabili. Non giudica convenienti le torri corazzate, sia perchè troppo costose, sia perchè pur proteggendo efficacemente i serventi e rendendo difficile demolirle con artiglierie pesanti, se battute con pezzi da campagna o da montagna provocano il rimbalzo di numerosissime schegge, che in pratica impediscono a1 presidio di manovrare allo scoperto. Non meno dure e totali le critiche dell' Araldi a1 concetto strategico e tattico e alle modalità tecniche di costruzione delle fortificazioni di Roma, che (diversamente da quanto sostiene il Cerroti e come già indicato da] Veroggio) a suo avviso devono essere tali da consentire una difesa a oltranza della città e non una difesa a tempo determinato, percbè Roma "è il cuore della Nazione ( e forse con più ragione che non lo sia Parigi per la Francia) [...], è il centro principale delle nostre risorse e speranze, è la mente direttiva di tutto l 'andamento della difesa dello Stato, e non deve mai poter essere circondata dal nemico ed isolata dal Paese". Bisogna perciò seguire l'esempio della Francia, che dopo i disastri del 1870-1871 non ha avuto esitazioni di fronte alla necessità di evitarli per il futuro fortificando sia la capitale che grnn parte del suo territorio, anche se ba dovuto sobbarcarsi a " una spesa ingentissima e quasi.favolosa ". Sarebbe stato necessario seguire l'esempio francese anche con una approfondita discussione in parlamento; invece presso di noi la questione delle fortificazioni di Roma.fu tralfnta unicamente alla Camera e al Senato come questione amministralivo per /'ap-


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provazione dei fondi necessari: e la parte strategica fu appena sfiorata per dire che trattavasi unicamente di porre la Capitale al riparo da un colpo di mano[ ...], ponendo ogni cura ne/fare apparire che sarebbesi trattato di spesa assai limitata, la quale non poteva compromettere l'ottenuto pareggio della Finanza.ro

La mancanza di una pubblica discussione su un argomento tanto importante avrebbe dovuto stimolare ancor più l'impegno degli organi tecnici; invece sono stati commessi "con una leggerezza imperdonabile " degli "errori colossali" che richiamano, in sostanza, quelli rilevati dal Cerroti (scelta, senza tener conto de] lerreno e delle esigenze della difesa, di un tipo unico di forte, con una cintura periferica di 40 km e con una distanza massima dei forti staccati dalJa cinla muraria di 4 km; costruzione dei nuovi forti su posizioni malariche, dominale dal1' cstcmo e prive di dominio sul terreno circostante, trascurando invece posizioni fortissime e sane; mancata difesa dei pochi passi difficili e facilmente sharrahili che chi invesle Roma deve necessariamente occupare, ecc.). Con questi erronei criteri il campo trincerato di Roma non è in grado di assolvere nemmeno il compito - arbitrariamente limitato - di opporsi a un colpo di mano nemico, perchè la limitata ampiezza del perimetro consente anche a un corpo nemico di 60.000 uomini appena sbarcalo di investirlo e controllarlo, grazie alla forza rilevante delle posizioni circostanti e aJl' occupazione incontrastata dei passi-chiave che adducono alla città. Tali difese saranno ancor più compromesse e cadranno in breve tempo, quando il nemico avrà potuto schermarle - come è prevedibile - ulteriori contingenti di truppe. Per rimediare a tutti questi inconvenienti r Araldi, questa volta coerentemente con le precedenti tesi, propone un notevolissimo ampliamento del campo trincerato di Roma fino a comprendere le alture a Est del lago di Bracciano e i CoJli Albani, che definisce "le due grandi chiavi di posizione, che sono pure in sostanza e realtà le chiavi di Roma". Con questa soluzione il perimetro aumenterebbe a 250 km ma la difesa del campo trincerato non si indebolirebbe, nè richiederebbe forze maggiori, data "la forza naturale enorme" delle predette posizioni. Il nuovo perimetro sarebbe protetto da vaste e continue zone malariche intransitabili e non potrebbe essere aggirato, perchè mancano buone comunicazioni. Oltre a consentire

""Cerroli, Gli errori commessi .... (Cit.), p. 89.


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un'economica difesa e a dissuadere il nemico dal tentarne l'investimento, esso assicurerebbe al presidio e alJa popolazione le risorse necessarie per sostenere un lungo assedio e sarebbe un'ottima base di partenza per contrattaccare il nemico, tagliando le sue comunicazioni con i punti di sbarco. Per la difesa della nuova regione fortificata secondo l' Araldi basterebbero 25.000 uomini e uno stanziamento di 18 milioni per i forti esterni, più 4 milioni per il rafforzamento della vecchia cinta della città. Una somma contenuta, perchè i forti dovrebbero resistere solo alle più potenti artiglierie da campagna, essendo troppo lungo e difficile per il corpo di sbarco trascinarsi dietro per cattive strade un parco d'assedio. Anche se il totale di 22 milioni è il doppio degli 11 milioni già richiesti dal Ministero al Parlamento, questi fondi sono indispensabili e devono essere trovati, così come si sono trovati due miliardi per le ferrovie e così come non esitiamo ora davanti alle spese colossali che ci debbono dare col tempo una Marina proporzionata all 'importanza del nostro Paese e all'enorme distesa delle nostre coste! Ebbene, facciamo conto d'avere a costruire un Duilio od un Dandolo od un Lepanto in più; e fortifichiamo radicalmente con questo danaro la nostra Capitale, la cui caduta sarebbe per noi immensamente più fatale della perdita di qualcuna di quelle nostre poderosissime navil°'

Sul piano generale, l' Araldi attribuisce gli errori commessi alle "esorbitanze pedantesche, dovute principalmente alle aberrazioni della vecchia scuola francese di Mézieres", delle nostre scuole di fortificazione, che trascurando gli iHuminati insegnamenti del Cosentino e del Perrucchetti 62 non hanno mai addestrato gli allievi a tenere realisticamente conto dei compiti, delle caratteristiche delle posizioni e degli altri elementi variabili delle opere da costruire, e "furono disgraziatamente per troppo lungo tempo autoritarie e burocratiche, fino quasi alla pretesa di una assoluta infallibilità, ed al punto di non ammettere che vi possa essere salute all 'infuori delle regole da loro stabilite ".63

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Araldi, Gli ostacoli naturali ... (Cii.), pp. 208-209. ln proposito I' Araldi cita l'opera del maggiore del ge nio Enrico Cosc111i110, i11~cgn:1111c ullu Scuola di guerra, Sull'indirizzo degli studi per lafortijìcazio11e camf)ale ( 1873). d 1c a M lii lli,c '"ha i11contrato molte riluttanze e opposizioni"', e la c itata opera de l Pem1cche11i sul M1'tod11 1h·>1l1 .11111/1 pa la difesa dello Stato, puhblicata nel 1881 proprio come l' articolo del Cerroli Mtgli 0 .,10111/1 110111,nli ,, la f ortificazione . .., Araldi, Gli ostacoli naturali .... (Cii.), pp. 195-196. 62


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Il Nostro si può permettere siffatte critiche solo perchè ha ormai lasciato il servizio attivo: un recente provvedimento del Ministro, che egli disapprova, vieta infatti agli ufficiali in servizio attivo di pubblicare senza sua autorizzazione articoli e studi sulla difesa dello Stato. A parte le condivisibili considerazioni generali sugH elementi da considerare per la scelta delle posizioni da fortificare, la sua pretesa di ampliare in una siffatta misura il perimetro delle difese di Roma, contando unicamente sulla supposta forza intrinseca delle posizioni per risparmiare forze e fondi, appare ancor meno giustificata. Ugualmente irrealistiche, perchè come al solito prive di un parallelo esame dei risvolti finanziari, sono le sue proposte di mantenere il quadrilatero con particolare riguardo a Mantova, di fortificare Genova, Ancona, Stradella Piacenza e Bologna, con Piacenza "come testa di ponte validissima sulla sinistra del Po a minaccia laterale di un 'invasione proveniente dall'Ovest" e Bologna avverte lo scopo di "mantenere ine~pugnabile nelle nostre mani uno sbocco potente nella valle del Po, quando anche ne fosse temporaneamente forzata e invasa la riva destra".

Anche con questo notevole ridimensionamento dell' importanza di Bologna, che non è più la chiave della difesa della val padana, I' Araldi dimostra di aver notevolmente mutato le sue tesi di dieci anni prima, forse dovute a un dovere d'ufficio più che a salde convinzioni personali. Va anche notato che le sue idee hanno molte analogie con quelle sostenute in Germania da un certo Winterberg sullo JahrbUcher fiir die deutsche Armee und Marine del 4 ° Trimestre I 883 (Cfr. recensione in "Rivista Militare Italiana" gennaio 1884). Nell'autunno 1886 contemporaneamente alle polemiche dell' Araldi compare sulla Rivista Militare un articolo non firmato, quindi ufficioso e dovuto a un' alta personalità militare,'j4 riguardante i criteri adottati per un nuovo piano generale di fo1tificazione che ha formato la base di un disegno di legge presentato al Parlamento nel 1885, e che "non è l 'opera di ingegneri militari, ma è il risultato di parecchi anni di lavoro di una Commissione formata dagli uomini più competenti, in fatto di cose militari, che l'esercito e la marineria italiana posseggono " (si noti l'accenno sottilmente polemico agli "ingegneri militari ", quali sono, in massima parte, gli

autori fin qui esaminati). L'articolo è preceduto da un motto del Settembrini, secondo il quale è meglio ripetere verità vecchie, che inventare stravaganze nuove. In effetti

64 (xxx), Alcune considerazioni sull'assetto difensivo de/l'Italia, in " Rivista Militare Italiana" Anno XXXI- Voi. m seuembre 1886, pp. 37 1-392.


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ci si trova di fronte al più eloquente esempio di eclettismo, che riproduce, se mai aggravandola, la tendenza a tutto fortificare tipica del1a Commissione del 1871, anche se non vi manca qualche spunto degno di attenzione. Dopo un accenno piuttosto scontato all'importanza delle fortificazioni (che devono essere poche ma buone, consentire il risparmio di forze mobili ecc.), si cita ]'esempio della Germania vittoriosa nella guerra del I8701871, che ha ricostruito rapidamente i campi trincerati di Metz e Strasburgo, e dell'Austria e Francia, che alla nostra frontiera costruiscono anch'esse poderose fortificazioni. E' importante la flotta, ma è necessario anche fortificare le coste e soprattutto le basi navali , delle quali la flotta ha bisogno non solo per i frequenti rifornimenti di carbone e per le esigenze di riparazione, ma anche per trovarvi temporaneamente rifugio in caso di "infortuni marittimi" o di inferiorità rispetto al nemico: "ecco perchè l'Inghilterra ha accoppiato alla flotta più potente del mondo le più robuste e numerose fortificazioni costiere!". Oltre alle coste, devono perciò essere fortificate con particolare attenzione le tre grandi piazze marittime di I ordine di La Spezia, Taranto e Venezia. Segue una rara valutazione strategica della crescente importanza dell'Adriatico e del1e relative esigenze di difesa anche in questo mare: 0

nessuno porrà in dubbio che una nostra squadra non potrà sostenere una lotta in questo mare, conservando La indispensabile libertà d'azione, senza che abbia validi appoggi oltre di Venezia, anche a causa della i rande vicinanza della costa dalmata, cui la natura ha concesso tanti porti naturali. E si noti che l'occupazione [austriaca] della Bosnia e dell'Erzegovina [1878-N.d.a.] ha stabilito un leiame tale fra l'interno della monarchia austro-ungarica e i porti dalmati, da rendere assai minacciosa questa base marittima de/i 'Austria così vicina alle nostre coste. E però sono giustamente comprese nel piano generale delle difese d'Italia le fortificazioni di Ancona e di Brindisi per assicurare alle nostre navi il possesso di quei due punti importanti delle coste dell 'Adriatico, e impedire che il nemico se ne possa valere come rifugio e come basi per operazioni di sbarco sul nostro territorio. Adunque la marineria non potendo far senza porti sicuri e fortificati, sarebbe irrazionale aumentare il numero delle nostre navi da guerra se parallelamente alla loro costruzione (di cui tutti sentiamo la necessità) non progredisse anche quella della fortificazione dei porti e delle rade più importanti.

Se la flotta, pur essendo inferiore a quella nemica, grazie ai numerosi punti d'appoggio sulle coste riuscisse a ottenere ugualmente molta libertà


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d'azione, il nemico diventerebbe più guardingo nel tentare le spedizioni marittime e il Capo dell'esercito rimarrebbe a sua volta "più svincolato e più padrone di attuare i suoi piani". Deve perciò esistere una grande armonia tra marina, esercito e fortificazioni, "armonia che dovrà spingere il patriottismo italiano afare di mano in mano per la marineria e per lefortifìcazion.i, quello che ha fatto e va facendo per l'esercito, senza forzare d'altra parte Le condizioni delle nostre finan ze". Obiettivi ideali ma proprio per questo troppo salominici e contradditori, quindi difficili da raggiungere, ai quali corrisponde la consueta elencazione di fortificazioni, con l'altrettanto consueto, mancato esame della parte finanziaria. Devono essere fortificate le Alpi, dal Colle di Tenda alla Val Fella "compreso l'ordinamento difensivo del Cadore", ma anche il Po (seconda linea di difesa) e i passi appenninici (terza linea di difesa). Della linea del Po devono essere in particolar modo fortificate la spalla sinistra (Genova - Stradella), Casale, Alessandria, Pavia, Pizzighettone. La linea del!' Appennino appoggerebbe il fianco sinistro alla Spezia e il fianco destro a Bologna. Le difese verso Est "abbracceranno la linea Peschiera Mincio - Serraf?liO e il tronco inferiore del Po fino a Polesella". Novità rilevante, una volta tanto tali difese non si fermano ali' Adige: siccome la nostra frontiera orientale verso l 'Jsonza è affatto scoperta ed è molto lontana dal Po !constatazione ovvia ma al tempo rara! - N.d.a. I, così è sembrato prudente il proporre qualche testa di ponte sul Piave [è la prima volta che se ne parla - N.d.a.] e alcune teste di ponte sulla linea de Il 'Adige, la più importante delle quali sarebbe quella del fianco sinistro, cioè Verona, Le cui fortificazioni saranno perciò aumentate a Oriente e a Nord dell'attuale piazza. E questo senza parlare delle minacce che le opere staccate intorno a Mestre, in cursu di costruzione, ci permetteranno sempre di esercitare contro La sinistra delle forze nemiche che, valicato il Paese, si volessero spingere verso il Brenta.

Non è finita. Dopo aver costellato di fortezze l'Italia continentale, bisogna fortificare contro il pericolo di sbarchi la costa ligure, la costa toscana con particolare riguardo a Livorno, l'Isola d'Elba, Monte Argentario, Civitavecchia, Gaeta, e inoltre le basi navali di La Maddalena e Messina. Da fortificare anche Roma e Capua, facendo di quest'ultima piazza un "centro fortificato o piazza di deposito, a protezione delle forze mobili destinate alla difesa delle province meridionali" e quale protezione indiretta di Napoli contro il pericolo di sbarchi; inoltre all'interno delle isole deve essere previsto un perno di manovra o "campo di osservazione". Il


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pericolo di grossi sbarchi non va sottovalutato: la propulsione a vapore li ha resi più facili, aumentando anche la capacità delle forze navali di operare unitamente alle forze terrestri. E per opporsi a sbarchi nell'Italia peninsulare non basta spostare le forze mobili per mezzo delle ferrovie, anche perchè essi potranno avvenire quando il nostro esercito è già fortemente impegnato nel Nord. Le implicazioni finanziarie di una siffatta prospettiva globale, che ricorda quella dei fratelli Mezzacapo, sono senza dubbio eccedenti le effettive possibilità di bilancio. Esse vengono tenute presenti prima di tutto stabilendo che "non tutte le fortificazioni permanenti è necessario che abbiano lo stesso grado di robustezw. né lo stesso numero abbondante di ricoveri per provvigioni da guerra e da bocca". Ad esempio i forti delle Alpi, che devono resistere a veri assedi, devono avere il massimo grado di robustezza e il massimo livello di approvvigionamento; non così avviene per altre opere (come quelle dell'Appennino ligure) che devono servire solo da perni di manovra delle forze mobili, le quali possono anche ritirarsi facendo loro perdere la loro importanza. lnoltre bisogna assegnare diverse priorità alle fortificazioni progettate, e sfruttare al massimo le fortificazioni "improvvisate", che "possono fare veri prodigi qualora vi concorrano tutte le forze vive del Paese e non manchi una mano vigorosa a capo dei lavori, perchè quando tuona il cannone la burocrazia tace... ". Il disegno di legge presentato al Parlamento nel 1885 sulle nuove spese straordinarie militari - prosegue l'ignoto autore - assegna la priorità alla fortificazione delle frontiere terrestri e dei punti più importanti delle coste, il cui possesso consentirebbe al nemico di far concorrere la flotta alle operazioni terrestri; inoltre le difese del Po hanno priorità 1, quelle del1' Adige priorità 2 e quelle del Piave priorità 3. Una volta ultimata la fortificazione dei confini e delle coste "è certo (sic) che se si potrà arrestare l'invasore nelle aspre regioni alpine, rimarrà col fatto neutralizzata la sua superiorità numerica, e noi guadagneremo un tempo prezioso, sia per compiere e accrescere tutti i nuovi preparativi di guerra, sia per organizzare o completare le difese nei teatri d'operazione interni" Sia la relazione della Commissione del 1871 che questo articolo fanno la loro comparsa quando il generale Ricotti è Ministro. Non appare perciò casuale la continuità d'indirizzo tra i due documenti: peraltro nell'articolo ora esaminato il pericolo di grossi sbarchi - e quindi il ruolo della flotta risulta notevolmente accresciuto (Ministro della marina del momento è Benedetto Brin). Tale articolo è di per sè dimostrazione di quanto poco abbia pesato il dibattito finora esaminato e di quanto poco si sia fatto fino a quel momento. Nella misura in cui mantiene la vecchia tendenza a tutto fortifi-


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care, l'articolo potrebbe essere definito utopico e frutto dei soliti compromessi, anche tra Forze Armate_ Ma quando passa da ciò che dovrebbe essere fatto a ciò che va fatto subito diventa realista: non c'è dubbio che il minimo (o il massimo) che al momento si possa fare è fortificare come meglio si può i confini terrestri e le principali basi navali_ E ' questo l'orientamento di sempre del Ministro Ricotti, al quale si deve evidentemente il progetto di legge del 1885 citato nell'articolo (secondo il Minniti nel 1876 il Ricotti aveva sostituito nella carica di Segretario del Ministero il Veroggio - favorevole alla fortificazione di Roma - con il generale Primerano).65

L' "incubo del le fortificazioni" del M arazzi ( I 901) e La contestazione delle sue idee difensiviste da parte del Fazio (1901), del Vanzo (1901) e del Roluti ( 1907) Probabilmente per effetto del provvedimento restrillivo del Ministro al quale accenna l' Araldi, dal 1886 a fine secolo XIX il dibattito sulla difesa dello Stato, almeno nel senso ristretto e improprio della fortificazione del territorio, perde smalto e non dà più luogo alle polemiche del passato. Un certo revival si nota nei primi anni del secolo XX, sia con i già citati scritti del Perrucchetti e del Barone sia con la celebre opera del colonnello Marazzi L'esercito dei tempi nuovi (l 90 I), contestata da parecchie parti anche per la parte riguardante le fortificazionL66 Oltre a schierarsi decisamente a favore del sistema di reclutamento regionale, il Marazzi è un difensivista e continentalista ad oltranza e il più convinto sostenitore (ancor più del Perrucchetti e all'opposto del Marselli) del valore della fortificazione e della fortificazione delle Alpi. In apertura del libro si dimostra assai tiepido verso la Triplice Alleanza. A suo avviso la minaccia maggiore ci verrà dalla Germania, che tenderà a espandersi verso il Mediterraneo; quindi ritiene indispensabile per l'Italia mantenere buoni rapporti con la Svizzera e assicurarsene la neutralità. La Francia non ha ragioni per temerci e trarrebbe molti vantaggi da un' alleanza con l'Italia; in ogni caso la guerra futura sarà "assolutamente nuova", perciò non bisogna basarsi solo sulla Triplice Alleanza nel prevederne i lineamenti, così come è un errore seguire pedissequamente modelli strategici e ordinativi stranieri o adottare schemi rigidi. 65 Fortunato Minniti, Eserr:ito e politica da porta Pia alla Triplice Alleanza (ll), in "Storia contemporanea" IV 1973, pp. 41-42. 66 Cfr. Fortunato Marazzi, l 'eserr:ito nei tempi nuovi, Roma, Voghera 1901.


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Anche il principio dell' offensiva, di per sè valido, deve essere adattato alle situazioni contingenti. Specie nel caso delJ'Italia, la realtà politicomilitare del momento spinge alla difensiva. L'Italia ha risorse e forze inferiori a quelle della Germania, della Francia e dell'Austria; il progresso delle armi da fuoco e dei mezzi di trasporto a ruote favorisce la difensiva; anche il terreno delle Alpi ostacola le operazioni di un invasore con forze superiori e rende più efficace il fuoco del difensore. La nostra difensiva va comunque "intesa con mezzi complessi e con largo significato, in quel sign~ficato cioè che non esclude l'offesa, anzi ritiene legittima ogni condotta, santa ogni arma impiegata per l'indipendenza della patria". 67 Data la sua superiorità numerica, sulle Alpi occidentali l'esercito francese potrebbe premere su tutti i passaggi; ma se anche riuscisse vittorioso in qualche punto, non potrebbe sfruttare il successo se non dopo aver conquistato quasi tutti i valichi montani. Per questa ragione nella prossima guerra per l'Italia non vi saranno battaglie decisive iniziali ma solo combattimenti difensivi di montagna, che se per noi non avranno successo non comprometteranno nulla, e se invece saranno vittoriosi ci arrecheranno grandi vantaggi morali e materiali. Le conseguenze che il Marazzi trae da un siffatto quadro politico- militare sono pressochè obbligate ma non originali, perché ricalcano le tesi del primo Perrucchetti e del Dabormida. Bisogna organizzare in tutti i dettagli la difesa a oltranza della fascia alpina e la mobilitazione totale delle popolazioni ivi residenti; alla difesa delle Alpi devono concorrere anche i bersaglieri e un'aliquota di truppe scelte di fanteria. Deve essere subito dato il massimo impulso alla fortificazione delle valli alpine; su questo punto-cardine, il Marazzi è l'unico ad affermare chiaramente che "lo sviluppo completo della f ortificazione di confine è così importante ed insoffribile di indugio, che al medesimo dedicheremmo tutti i fondi disponibili del bilancio, anche a costo di dimezzare (sic) la forza annuale media sotto le armi". 68 Bisogna fortificare anche il confine orientale, "vulnerato a Trento e monco di tutta la valle dell'Isonzo"; tuttavia da questa parte il rapporto numerico tra le nostre forze terrestri e le nostre finanze e quelle austriache "non è così stridente per noi come nei possibili conflitti con la Francia e la Germania". L' Italia può contare anche sulla superiorità della sua flotta e sui sentimenti delle popolazioni irredente; queste circostanze "rendono poco probabile il semplice carattere difensivo, da parte nostra, in una guerra austro-italiana". 69 67

ivi, pp. 16-1 7. ivi, p. 55. 09 ivi, p. 5 1. 68


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Il Marazzi non è però tra coloro che, come il Dabormida e l' Araldi, non credono alla possibilità di sferrare una controffensiva ai piedi delle Alpi con l'esercito riunito, dopo aver completato la mobilitazione: "è bensì vero che una difesa passiva, a lungo andare, sarebbe fiaccata; ma noi, dai forti alpini, ci attendiamo soprattutto un arresto della marcia del nemico" .10 Per agevolare la manovra da posizione centrale delle nostre fori:e contro le colonne nemiche che hanno superato le Alpi, si deve anzitutto fortificare lo sbocco delle valli in piano, sfruttando a fondo le circostanze che favoriscono la nostra offensiva: noi possiamo sfruttare le ferrovie e il nemico ne è privo; le nostre truppe potranno disporre di risorse d'ogni genere, mentre al nemico mancheranno le vettovaglie; inoltre gli alpini e le truppe scelte inviate sulle Alpi all'inizio della guerra, che dopo la caduta dei forti si saranno rifugiali nelle valli laterali e sulle montagne, condurranno la guerriglia contro le colonne e i rifornimenti dell'invasore. La manovra da posizione centrale, possibile lungo tutta la fascia di confine, è però meno agevole verso l'Isonzo, ove "per un tratto di 20 chilometri le Alpi, rispetto all'Italia politica, spariscono e le strade ferrate austriache, le vie ordinarie, il terreno in genere, permettono il contemporaneo passaggio di un fortissimo esercito schierato in battaglia"; bisogna perciò "chiudere questa insidiosissima porta, chiuderla ora che ne abbiamo il tempo e la possibilità". In ogni caso il massimo pericolo per la difesa d 'Italia è pur sempre il lato di terrai Qualsiasi invasore che non abbia coscienza di poter forzare le Alpi in un tempo relativamente breve, farà molto fracasso, ma non tenterà altre diversioni. Lo facesse ...... peggio per Lui/ ___ f- concentriamo tutta la difesa al settentrione, ed innalziamo fortezze di carattere più militare che politico: spenderemo meno e saremo piùfortU 1

Per il Marazzi una volta che il nemico si è impadronito della maggior parte della val padana non è più possibile, né utile, prolungare la difesa. Solo con la difesa delle Alpi si può capovolgere a nostro favore il rapporto di forze; una volta passate le Alpi, l'invasore potrà far affluire tutte le riserve che vuole. Un esercito su due o più scaglioni che agiscono successivamente conviene solo a chi deve condurre una guerra di conquista. Nel

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ivi, p. 56. ivi, p. 68.


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caso nostro, conviene anzitutto un ' energica difesa sulle Alpi e poi un'offensiva a fondo: riserve? conati successivi? linee posteriori di d!fesa? leva in massa ? Tutta rettorica e classicismo inutile. la nostra avanguardia stia sulle Alpi, e tutta la d!fesa si concentri in una sola linea. E dopo? Dopo non v'è che la vittoria decisiva che annichelisce senza rimedio il nemico, o il crollo d'una patria che ripiomba nella servitù. 12

Nonostante queste posizioni continentaliste fino all ' estremo, il Marazzi non nega la necessità di potenziare la marina, ma dissente dalle argomentazioni di coloro che ad arte esagerano il pericolo di sbarchi e bombardamenti dal mare e/o sostengono che a nulla valgono le fortificazioni contro l'offesa delle grandi navi moderne. Non è comunque vero - egli precisa - che il bilancio dell'esercito preveda delle spese solo per la difesa delle Alpi: su di esso gravano anche le spese per le difese di Vado, Genova, La Spezia, Monte Argentario, stretto di Messina, La Maddalena, Ancona, Venezia, deUe fortificazioni di Roma ecc .. Solo la Francia ha la possibilità di effettuare sbarchi di sorpresa; ma tali sbarchi oltre a richiedere una lunga preparazione sono possibili solo sulle coste della riviera ligure di ponente, sulle coste toscane e sulle coste che facilitano l'investimento della capitale. Tutte località dove "l'arte fortificatoria già corresse, e correggerà, la natura, come avvenne a Genova, alla Spezia, a Messina, alla Maddalena, ove il bilancio della guerra ha già profuso e profonde milioni". 13 E' quindi poco probabile che uno sbarco francese possa avvenire di sorpresa, senza essere efficacemente contrastato dalle compagnie costiere e dalle forze terrestri all'uopo dislocate nelle valli dell' Appennino e nelle isole, che sono 1h - ¼ di tutto l'esercito. Il Marazzi non crede nemmeno ali' efficacia morale dei bombardamenti dal mare. Se effettuati a puro scopo terroristico, sono inutili atti di barbarie; possono essere solo un mezzo per distruggere la flotta nemica o per preparare degli sbarchi. Solo con le grandi battaglie navali sul modello di Trafalgar è possibile ottenere risultati decisivi, tenendo però presente che senza Waterloo Trafalgar sarebbe servito a poco, perchè per porre fine alle guerre in tutti i casi bisogna annientare l'esercito nemico. Così stando le cose, il Marazzi condanna "le incrostazioni di interessi inferiori attorno ai veri bisogni della marina e della difesa nazionale", che esa-

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ivi, pp. 63-64. ivi, p. 73.


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gerando ad arte i pericoli dal mare mirano a un aumento puro e semplice del naviglio, cioè "ad ingo(fàre il paese in considerevole dispendio, innalzando contemporaneamente nei nostri arsenali, esuberanti di numero, lo scheletro di molti bastimenti". Con questo sistema si manterrebbe artificialmente in vita una grande e costosa industria di Stato che darebbe lavoro in pura perdita a migliaia di operai, con l'unico risultato di avere navi invecchiate non in mare ma sullo scalo, che cioè scenderebbero in mare quando sono già superate. Inoltre ogni spesa straordinaria avente lo scopo di aumentare il naviglio provoca automaticamente un considerevole aumento delle spese ordinarie, per la maggior quantità di personale peraltro difficile da formare. L'Italia manca di carbone, e in caso di guerra i rifornimenti di questa vitale materia prima sarebbero interrotti, mentre continuerebbero i forti consumi relativi anche ai trasporti e ai movimenti terrestri. Per questa ragione nel nostro caso "rafforzare la flotta vuol dire essenzialmente perfezionare il naviglio", cioè compensare la quantità con la qualità rinnovando di frequente il naviglio stesso e mantenendosi sempre alla testa del progresso navale. L' ingegneria navale è ancora ben lontana dall'aver armonizzato i tre fattori dell'armamento, della protezione e della velocità; e per ottenere buoni risultati, è più che mai necessario un completo accordo tra forze di terra e di mare. Ciò non significa che quest'ultime debbano limitarsi a proteggere le coste dagli sbarchi e dai bombardamenti: diversamente dalle forze terrestri devono essere anche in grado di "offendere il nemico anche se lontano dalle spiagge nostre, e rappresentare la spada nuda del paese, che scintilla e colpisce, ovunque la sua ragione è disconosciuta. 74 Con queste idee, oltre che alle Alpi e alla fortificazione il Marazzi chiede molto, anzi troppo anche alla marina, visto che è a'>sai dubbio che la qua1ità (da riferire anche al personale) riesca a compensare nella misura così ampia da lui voluta la quantità. Il tutto senza precisare bene in che modo bisogna reperire le somme - senza dubbio ingenti - sia per le fortificazioni, sia per la marina, che a suo avviso sarebbe ottimisticamente possibile rendere disponibili solo con forti economie di bilancio. Per questa ragione le sue idee sulla Rivista Militare dello stesso anno 190 I sono duramente contestate dal colonnello e deputato Fazio e dal maggiore di Stato Maggiore Vanzo.75 Il Fazio condanna il difensivismo preconcetto del Marazzi, il quale ignora la possibilità

74 ivi, p. 78. '·' Giacomo Fazio, lo difesa d'Italia secondo le idee dell 'un. Culu11nellu Marau.i. in " Rivista Militare Italiana" Anno XLVI - Il semestre ottobre 1901 , pp. 1705-1726 e Augusto Vanzo, L' "Esercito nei tempi nuovi" di Marav.i. in "Rivista Militare Italiana" Anno XLVI· II semestre, ottobre 1901 , pp. 1727- 1749.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO · VOL. lii (1870-1915) • TOMO I

che l'Italia, nell'ambito delle sue alleanze e per far sentire il suo peso negli avvenimenti internazionali, debba inviare il suo esercito a combattere anche fuori dai confini nazionali: " un esercito strategicamente difensivo non si addice a una nazione di 32 milioni, ad una potenza di prim'ordine 1... ]. Il concetto puramente difensivo ha costituito sempre il cancro degli eserciti". Egli non è d'accordo nemmeno sui forti mutamenti che potranno produrre le nuove armi, e sul carattere decisivo e definitivo di una grossa battaglia nella val padana: "sarebbe un delitto militare e nazionale rinunziare al proseguimento della lotta dopo una prima e grave sco~fitta. L'flalia non è tutta ai piedi delle Alpi..."; non si vede per quale ragione non si dovrebbero sfruttare, se necessario, i successivi ostacoli del Po e del!' Appennino. Gli sbarchi di grosse forze nemiche sono difficili , ma ciò non significa che siano impossibili ; comunque per garantire da sbarchi l'Italia peninsulare e insulare e per guarnire le fortificazioni il contingente di 600.000 uomini calcolato dal Marazzi per la controffensiva sarebbe ridotto a metà, quindi insufficiente. Per ultimo, se si tiene conto della necessità di prevedere costose artiglierie in torri corazzate, per le fortificazioni ritenute necessarie dal Marazzi occorrerebbe l'enorme somma di 400 milioni Lii bilancio dell' esercito del momento è di 239 milioni - N.d.a.l. Anche il Vanzo non condivide il difensivismo assoluto del Marazzi e ritiene che il sistema di fortificazioni da lui voluto oltre a non avere l'efficacia che gli attribuisce assorbirebbe un volume eccessivo di risorse, che potrebbero essere meglio impiegate a favore delle forze mobili, anche perchè l'attacco ha ormai la prevalenza sulle difese e i fronti continui di fortificazioni possono sempre essere perforati. Ma pur ritenendo opportuno fortificare almeno in certa misura le Alpi e organizzare militarmente le popolazioni alpine, il Vanzo ritiene che le Alpi non abbiano il valore impeditivo intrinseco che loro vuole attribuire ottimisticamente il Marazzi e che la controffensiva ai piedi delle Alpi , alla quale il Marazzi attribuisce carattere decisivo, sia tutt' altro che agevole. La frontiera dell 'Isonzo è completamente aperta, né sarebbe tanto facile sbarrarla con le fortificazioni, come mostra di ritenere il Marazzi. Il Tirolo "penetra come un cuneo nel nostro territorio, e da Trento alla pianura veneta non v'è che un passo". Alla frontiera svizzera "si riscontrano condizioni identiche se non peggiori ", con il saliente del Canton Ticino e la displuviale sotto controllo svizzero. Anche alla frontiera occidentale, che è la più favorevole a noi, si riscontrano diversi elementi di debolezza: è poco profonda; è aggirabile ai due lati dalla Svizzera e dalla frontiera ligure; ha scarsi collegamenti rotabili tra le valli principali, con conche ampie che consentono la raccolta di forze numerose e posizioni difensive che favoriscono la dispersione delle forze ecc .. A parere del Vanzo non si può infine indicare - come fa il Marazzi - la manovra per linee interne come unica modalità per la difesa dalla val padana.


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VIU LA MINACCI/\ VIENE DALLE Al.PI O DAI. M-..:: AR ::.,E,..,_"/_ __

Una volta passate le Alpi il nemico avrebbe l'iniziativa delle operazioni, né si può ammettere a priori che commetterà l'errore di prestarsi alla nostra manovra per linee interne, la cui riuscita è dunque subordinata a condizioni di tempo e spazio che potrebbero anche non verificarsi, esponendo anzi il nostro esercito ad essere avviluppato a sua volta. Alla contestazione su base finanziaria del Fazio e del Yanzo si aggiunge nello stesso anno quella - ancor più efficace anche se indiretta - del tenente di fanteria Roluti, che guarda all'aspetto operativo e finalmente - rara avis - tocca il rapporto tra efficienza delle forze mobili e fortificazioni : lo spirito pubblico accarezza l'idea di fortificazioni inespugnabili dietro cui potersi dire sicuro, di fortificazioni con una potenza indefì,nita e indefinibile, misteriosa, per cui gli eserciti e Le flotte avversarie siano senz 'altro ridotte all'impotenza. La sfiducia in noi stessi, la mancanza di disciplina morale, falsa il concetto su cui deve essere basata la nostra difesa, sicché il pubblico è portato a fare un eccessivo e dannoso affidamento sulle fortificazioni mettendo in seconda Linea Le forze mobili e attive, e si sente più sicuro dietro una linea fortificata che non dietro un esercito e una jlolla ben costituiti, audaci e animati da un .rnldo spirito offensivo. Questo può indurre - come già avvenne - a rivolgere le cure, gli sforzi, più alla parte materiale che non a quella morale; e cioè è errore fatale. 76

Secondo il Roluti è necessario aumentare anzitutto le nostre forne mobili, perchè al momento la proporzione con gli eserciti delle altre potenze risulta eloquentemente dallo specchio seguente: GERMANIA

BATrAGLIONI

BATIERJE

SQUADRONI

~ I" linea

FRANCIA ( e,w:lm·e faine cobmU11i)

AUSTRIA

ITALIA

502

346

7 18

678

2• linea

643

732

194

173

~ 1• linea

54 1

496

330

207

2' linea

85

470

---

78

~ 1• linea

472

395

341

144

2' linea

93

36

99

31

Le fortificazioni vanno perciò limitate "a quel tanto indispensabile a dar modo alle forze mobili di far valere tutta La loro efficienza". Sulla

76

Francesco Roluti, llltomo al nostro problema militare, Torino, Casanova 1907, pp. 11-1 2.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. li (1870- 1915) - TOMO I

frontiera occidentale è stato già raggiunto " il minimo indispensabile"; la frontiera dell'Isonzo è invece completamente aperta. La radunata dell' esercito dietro il Po è da scartare, perchè consentirebbe al nemico di occupare senza resistenza un intero territorio e gli permetterebbe di sfruttare tutte le linee d'invasione, in modo da presentarsi riunito per la battaglia decisiva. Invece la nostra radunata dietro l'Adige sarebbe più vantaggiosa, perché ci permetterebbe di operare riuniti tra le due principali linee d'invasione del nemico (l'Adige e l'Isonzo); ma per rendere possibile questa scelta "occorre assicurare il fianco e le spalle dell 'esercito adunatesi dietro l'Adige e operante verso Est"_ Una volta fatto questo, non è indispensabile fortificare la linea d' invasione dell 'Isonzo: meglio impiegare i fondi disponibili per il rafforzamento dell'esercito e della flotta. Alle divisioni di cavalleria nemiche che potrebbero invadere il Veneto fin dai primi giorni di guerra non conviene opporre la nostra cavalleria, ma "qualche saldo reggimento di bersaglieri e le nostre compagnie ciclisti". Solo fronteggiando il grosso dell'esercito nemico con la massa delle nostre forze mobili coadiuvate dalla flotta potremo vincere, perchè con grandi fortificazioni ma con esercito e flotta deboli "non riusciremo che a prolungare l'agonia". La nostra flotta, una volta padrona assoluta del mare, minacciando il fianco e il tergo dell'esercito nemico potrà essere più utile delle fortificazioni: ma per poter svolgere questo compito deve disporre della base navale di Venezia, che perciò va fortificata anche dalla parte di terra. Per far fronte alle esigenze prima prospettate il Roluti propone lo stanziamento straordinario di 230 milioni in cinque anni, dei quali 80 milioni per le fortificazioni (60 per la frontiera orientale e 20 per Venezia) e 100 milioni per nuove artiglierie e mitragliatrici; inoltre per l'ampliamento degli organici dell'esercito il bilancio ordinario dovrebbe essere aumentato di sette milioni ali' anno.

"Difesa dei confini" e non "Difesa dello Stato": i rilievi critici e le proposte della Commissione d 'Inchiesta per l'Esercito (1908) Segno non indubbio della grande importanza che le attribuisce, la Commissione d'Inchiesta sull'esercito si occupa della difesa dello Stato fin dalla prima relazione, pubblicata nel 1908.77 Essa premette infatti che, 77 Commissione d'Inchiesta per l'esercito (legge 6 giugno 1907, n. 287), Relazione prima, Roma, Tip. Mantellate 1908, pp. 5-13.


Vili - LA MINACCIA VIENE DALLE ALPI O DAL MARE'!

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insieme con la questione delle nuove artiglierie, "veniva di pari passo la constatazione delle frontiere indifese a sollecitare dalla Commissione la formazione di un programma preciso di opere di difesa, di cui l'attuazione richiederà il decorso di qualche anno". Significativamente la Commissione - della quale, va ancora ricordato, fa parte come membro di nomina governativa il Perrucchetti - non usa il termine "Difesa dello Stato" ma quello più limitativo "Difesa dei confini", con ciò stesso escludendo la oecessità di campi trincerati in posizione più arretrata e sottolineando l'importanza della fascia alpina. L'accenno - molto eloquente aJle ''frontiere indifese" è completato dalla constatazione che nella difesa delle frontiere di terra e delle coste esistono "gravi lacune e non lievi difetti", e che "considerazioni finanziarie, per lungo periodi di anni, hanno contribuito a far po:,porre le esigenze di sicurezza del paese, od a far prendere in modo affrettato e saltuario provvedimenti isolati". Occorre perciò una soluzione organica e unitaria del problema, tenendo presente che le fortificazioni di frontiera non si improvvisano e devono essere sempre in grado di funzionare. Premesso che la difesa del territorio nazionale e la difesa costiera spettano all'esercito, la Commissione diversamente dal Vanzo (e come il Perrucchetti che ne è membro) giudica le Alpi un ostacolo di grande efficacia, perché obbligando qualsiasi grande invasione a presentarsi divisa nel momento critico della traversata dei monti, possono consentire al nostro esercito, ancorché meno numeroso o meno provvisto di quelle armi che hanno più facile esplicazione in pianura, di sfruttare nella controffensiva una vera superiorità tecnica, quella delle sue speciali attitudini alle operazioni in alta montagna.

Sembrerebbe, dunque, che la battaglia decisiva anche per la Commissione debba avvenire - come per il Marazzi - aJl'intemo stesso della fascia alpina; ma queste considerazioni sono contraddette dalla contestuaJe precisazione che "la Commissione ha rivolto le prime e maggiori preoccupazioni al dovere di porre Le frontiere in condizioni tali da non obbligarci a cimenti decisivi in condizioni impari, cioè prima di aver potuto mettere a profitto il grande naturale vantaggio offertoci dalle Alpi". Se ne deduce che tale cimento decisivo dovrebbe avvenire dopo aver sfruttato a fondo il valore impeditivo delle Alpi; non sulle Alpi. Ad ogni modo i criteri adottati dalla Commissione per la difesa del territorio, piuttosto generici, mettono l'accento sulla necessità di fortificare le Alpi e l'Appennino ligure non solo sbarrando le valli principali e le valli se-


8=2=6_ _ _ _ _~1L~ P=EN=S=IE=KO MJLITAR.E ENAVALEl"IALIANO • VOL,,_111 (1870-1915) • TOMO I

condarie che possono comprometterne la difesa, ma anche "occupando con piccoli presidi, chiusi infrmi protetti contro i mezzi di attacco moderni, le regioni di particolare importanza militare". Inoltre occorre "difendere qualche zona aperta e rafforzare qualche linea di speciale importanza militare" e tener conto delle esigenze della difesa nazionale nella costruzione delle ferrovie. Per la difesa marittima, occorre fortificare specialmente le basi navali che hanno importanza strategica per le operazioni della flotta e gli specchi d'acqua che si prestano a sbarchi, affidando alle sole siluranti la difesa delle città costiere. A fronte di queste esigenze, la Commissione constata che la massima parte delle opere montane e delle difese marittime esistenti devono essere rimodernate per metterle in grado di resistere ai moderni mezzi d'attacco, che alcune strade montane di notevole importanza militare, qualche zona di pianura e qualche specchio d'acqua non sono stati fortificati, e che sono state costruite strade pericolose senza provvedere alla loro difesa. Inoltre in una stessa frontiera si sono notale "differenze di criterio difensivo e di misura nello sviluppo dato alle opere", dovute principalmente a mancanza di un unico criterio direttivo. A tal proposito, indirettamente dimostrando che le procedure del momento sono macchinose almeno come quelle che trent'anni prima avevano indotto il Ministro Mczzacapo a "tagliare corto", la Commissione rileva che i lavori sono fortemente ritardati da intoppi burocratici causati dalla sovrapposizione di competenze, visto che al momento "i progetti particolareggiati delle opere di difesa dello Stato sono successivamente esaminati da dieci uffici, i quali possono modificare e rimandare un progetto; sicchè si impiegano circa due anni in studi e in esami prima di iniziare le costruzioni". Suggerisce perciò una nuova procedura, basata sui seguenti criteri: - suddivisione del territorio dove sono previste nuove fortificazioni in zone a cura della Commissione Suprema di difesa. A ciascuna zona deve essere preposto un ufficio tecnico dirello da un ufficiale di grado elevato con speciali attitudini, che sulla base delle direttive della Commissione Suprema compila i progetti particolareggiati delle opere da costruire; - tali progetti sono inviati al Ministero della guerra, per l'esame da parte della Commissione Suprema con l'ausilio degli Ispettori di artiglieria e del genio; - una volta approvati i progetti, il Ministero impartisce le disposizioni esecutive e assegna i fondi necessari; - per le opere pubbliche che interessano la difesa dello Stato deve essere sentito il preventivo parere dei Capi di Stato Maggiore dell 'esercito e della marina.


VIII - LA MINACCJA VIENE DALLE ALPl--= O'-"D"-A'-" L'-'MA=RE =?_ _ _ _ _ _ _ _ _--= 8"'2"-7

GH stanziamenti previsti dalla Commissione per le molte lacune da colmare sono ingenti, e testimoniano che essa è più vicina alle idee del Perrucchetti e del Marazzi che a quelle del Roluti: J40 milioni per le frontiere terrestri e 50 milioni per quelle marittime.

Conclusione Il diballilo sulla difesa dello Stato è stato finora trattato (Mazzetti, Minniti, Gooch)78 in modo frammentario, riferendolo pressochè esclusivamente alla difesa terrestre e senza indicare, oltre che il fondamentale rapporto difesa terrestre/difesa marittima, le vere alternative sul tappeto. Dall'analisi condotta, che pure per ragioni di spazio non può essere esausliva,79 è possibile far finalmente emergere i principali nodi del problema, riassumibili come segue.

Cfr. Massimo Mazzelli, / piani di guerra contro /"Austria dal I 866 alla prima guerra mondiale, in L'Esercito italiano dall'unità alla grande guerra. Roma, SME - Uf. Storico 1980, pp. 16 1182; Fortunato Minnili , Esercito e pulitiw da Porta Pia lilla Triplice Allelln za , Roma, Bonacci Ed., 1984; fohn Gooch, Esercito, StalO e Società in Italia 1870-/ 9/5, Milano, Franco Angeli 1994; Eugenio Vascon, 1860- 1880: / venti anni cruciali delle fortificazioni pen na11e11ti italiane, in " Rivista Militare" n. 1I 1981, pp. 89-94. 79 Tra i numerosi scritti da noi trascurati (che peraltro non aggiungono molto a quelli fin qui esaminati ) ricordiamo: Michele Massari, Sulla difesa generale d'Italia, Palermo, Pedone 187 1; ID., Sulla necessità della fortificazione per la difesa degli Stati in generale e del 'Italia in particolare, Palermo, Pedone 1871: Luigi Gianolti, L'Italia e le sue fortifica zioni, Milano, Treves, 187 1; F.M. Fasolo, Lt.t difesa dello Stato cunsi<lerata relativamente all'oro-idrografia del Paese e all'indole delle guerre odierne, Verona, Civelli 1872; Vincenzo Pizzoccaro, Alcuni ce1111i sulla difesa territoriale e delle coste d 'Italia e più specialmente sulla difesa della frontiera Nord - Ovest, Torino, Candcletti, 1872; I D., Stru,Je/lu e Bolugnu nel ,'ist«mu difensivo dellu valle del P11, li,rino, Can<lèlelli 1872 (qui si dimostra l'inopportunità di fortificare la stretta di Stradella e di fare di Bo logna il perno principale della difesa territoriale). Arturo Galleui, Studi sulla d(fe.1·a 11azio11ale, Roma, Bartoli 1873; Filippo Pagnamenta, / miei pensieri sulla difesa d 'Italia, Verona. Vianini 1873; Egidio Osio, Verona e la linea ,le/l 'Adige ndla difesa dellafromiera Noni - Est, Verona, Civelli 1873 (sostiene la necessità di conservare e potenziare la piazza di Verona. opponendosi alla proposta della Giunta parlamentare di distruggerla. Di diverso avviso è il colonnello del genio Emilio Pagano, sulla "Rivista Militare" 1874); C. Minonzi , l a difesa dello Stato, in "Nuova Antologia" Voi. XXVI - Fase. VII luglio 1874, pp. 704-739; Antonio Morici, La difesa d'Italia e l'organizzazione dell'esercito, Brescia, Tip. La Provincia 1874; G. Zavattari . Una pagina geografico - militare: la situazione militare dell'Austria - Ungheria per rapporto all'Italia, in " Nuova Antologia" Fa~c. IX - I maggio 1880, pp. 155- 172. Tancredi Nagliati, ll Tirolo, in "Rivista Militare Italiana" Anno LVID - Disp. VI, VIII e IX. giugno - settembre 1913 (sostiene la pericolosità del saliente de l Tirolo, potentemente fortificato dall' Austria, e la necessità di interrompere con lavori e opere di fortificazione le comunicazioni nemiche tra lo scacchiere del Tirolo e quello dcll"lsonzo, nel caso che l'esercito austriaco riesca a invadere il nostro territorio). Da ricordare infine la lunga serie di articoli e opere del generale del genio Enrico Rocchi specie sulle modalità tecniche per la costruz.ione e l'armamento delle fortificazioni. 78


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IL PENSIERO MILITARE Il NAVALE ITALIANO- VOL. m ( I R? 0- 1915),_-~ l n=M=O~I - - --

I. Il nemico del 1915 è stato l'alleato dal 1882 in poi; il nemico del periodo 1870-1915 è stato la Francia. Le fortificazioni proposte e quelle realizzate non hanno mai ricevuto il collaudo della guerra. Non è quindi possibile pervenire a giudizi probanti e definitivi sulla rispondenza o meno di ciascuna soluzione teorica o pratica. 2. Non è vero che il ruolo della flotta nella difesa nazionale è stato trascurato dagli autori terrestri. Anche se tale ruolo viene quasi sempre preso in esame solo dal punto di vista riduttivo della difesa delle coste, sia pure in misura variabile la stessa Commissione del 1871 e gli autori prima esaminati ne riconoscono l'importanza e sostengono la necessità di rafforzarla. 3. Peraltro, per valide ragioni- mancanza o carenza di materie prime, di industrie metallurgiche tecnologicamente avanzate, di arsenali per le riparazioni ecc. - gli autori terrestri specie fino al 1886 ritengono tale rafforzamento un obiettivo non facile e non immediato. Questo stato di fatto porta a ritenere ancor più necessarie non solo le difese costiere, ma anche la difesa di punti-chlave interni di particolare importanza (a cominciare dalla stessa capitale, fortificata per timore di colpi di mano dal mare da parte della flotta francese). 4. Oltre che per la sua flotta dominante l'Inghilterra viene spesso citata come esempio da non seguire per la potenza e l'estensione delle sue difese costiere, alle quali ha potuto dedicare ingenti risorse non disponibili in Italia. In genere si ammette che l'Italia peninsulare e insulare almeno dall'inizio della guerra va difesa anche con un'aliquota di forze terrestri di 1a linea; pertanto risultano poco realistiche le tesi del Ricci, che vorrebbe una sorta di spartizione di compiti tra esercito e marina con la difesa dell'Italia peninsulare e insulare praticamente affidata a quest'ultima, che potrebbe contare solo su un limitato concorso di forze terrestri di 2u linea. 5. L'effettiva portata della minaccia di sbarchi può essere solo ipotizzata; in mancanza di un collaudo degli avvenimenti, qualsivoglia ipotesi è ugualmente lecita. Sarebbe tuttavia possibile pervenire a qualche dato certo se si conoscesse, dall'esplorazione degli archivi francesi, quali erano i piani della Francia contro l'Italia e qual'era in tali piani il ruolo della flotta, non solo per gli sbarchi ma anche nel bombardamento delle città costiere teorizzato dalla Jeune École. Non si è mai saputo se e fino a che punto le teorie dell'ammiraglio Aube contro l'Italia siano state applicate; né ci risulta che sulla stampa militare francese siano stati dibattute le possibili linee di azione strategica contro l'Italia, for:-;e per ragioni di segreto militare. Si dice, oggi, che non si


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VIU LA MINACCIA VIENE DALLE ALPI O DAL MARE?

trovano negli archivi piani francesi contro l' Italia: ma qualche piano ci sarà pur stato! 6. L'esigenza di un confronto sufficientemente approfondito tra strategie e tattiche degli eserciti e delle marine contrapposti va naturalmente estesa ai rispettivi sistemi di fortificazione, e soprallutto ai rispettivi bilanci. Sottolineare - come spesso viene fatto - solo l 'elevata incidenza della spesa militare italiana rispetto al bilancio dello Stato, senza parallelamente considerare il volume di risorse destinate alla difesa dagli Stati più probabilii nemici e dagli alleati, significa fornire una versione unilaterale e distorta del problema, in tutti i suoi aspetti. Anche da questa interfaccia, perciò, emerge non solo la necessità, ma l'indispensabilità del ricorso alJa melodica della storia comparata. 7. Un giudizio probante ed equilibrato (anche se pur soggettivo) sulle singole soluzioni non è possibile anche per altri motivi. Mancano in tutte le proposte, come già accennato, gli indispensabili parametri di riferimento o convitati di pietra: strategia e ordinamenti da attribuire alle forze mobili terrestri e navali, bilancio militare possibile (e non teorico o richiesto), organizzazione della mobilitazione, sistemi di comunicazione ferroviarie e ordinarie. 8. Lo scarso o inesistente realismo di parecchie proposte, che confondono (come spesso capita) volere con potere e l'optimum con il possibile, emerge anche da alcuni dati sul bilancio delle due Forze Armate del periodo, riportati nello specchio che segue: 80 GUERRA (milioni)

MARINA (milioni)

TOTALE (milioni)

1870

183

32

215

1875

180

38

2 18

1880 1885 - IR86

2 11

45

253

84

256 337

1890-1891

285

113

398

1900 - 1901

246

126

1905 - 1906

253

12 1

1908 - 1909 19 11) - 1911

30 1

166 207

372 374 467 576 999

ANNO

-

191 2

369 637

362

80 Cfr. Ragioneria generale dello Stato, Il hilancin del Regno d'Jtali.n dal /862 al /9/4, Roma 1914, pp. 468-47 1 e 500-503 e Luigi De Rosa, Incidenza delle spese militari su/In sviluppo ecnnomico italiano, in AA.VV., L'Esercito italiano dall'unità alla Krande KUerra (Cit.), pp. 469-5 12.


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IL PP.NSIP.RO MI LITA RE P. NAVA LE ITALIANO - VOL. lii ( IR70-19 15) - TOMO I

9. Si tratta nel complesso di una spesa in valore assoluto assai inferiore a quella delle principali potenze europee81, anche se incide fortemente sul bilancio complessivo dello Stato italiano; le fortificazioni realizzate rispecchiano questa realtà. Va anche considerato che le guerre coloniali (Eritrea e Libia) richiedono specie per l'esercito un notevole aumento di spesa, che però oltre ad avvenire a discapito del bilancio della marina, non va affatto a favore del potenziamento delle armi e materiali e del sistema di fortificazioni, ai quali anzi sottrae risorse. Inoltre bisogna tener conto che la spesa per costruzione e organizzazione a difesa delle basi navali e per le fortificazioni costiere compete esclusivamente all'esercito. IO. A fronte di queste disponibilità reali, la cifra di 300 milioni di spesa totale per le fortificazioni calcolata dal Minniti (ove è da ritenersi compreso anche l'armamento delle opere) appare piuttosto esigua e, se si tiene conto dell'accelerato progresso delle artiglierie e corazze, tale da giustificare pie namente i "buchi" rilevati dalla Commissione d' Inchiesta. La fortificazione dei passaggi delle Alpi e delle principali basi navali (anch' essa lacunosa, come rileva la Commissione) è una soluzione obbligata, imposta dalla scarsità di fondi. Assai controvertibile la fortificazione di Roma esclusivamente contro un colpo di mano francese dal mare, giustamente avversata dal Ricotti. 81 Ad esempio ne l 1875 il colonnello Cisotti dimostra che ne lla corsa agli armamenti dell' Europa de l momento l'Italia è ultima, con un hilancio de ll'esercito di 192 milioni e de lla marina inferiore ai 40 milioni (che impedisce al nostro esercito di contare sul concorso delle forLe navali per la difosa nazionale). I dati sulle forLe terrestri europee sono riassunti dal Cisolli nel seguente specchio:

NAZIONE

Francia Russia Germania Grai1 Bretagna Austria - Ungheria Italia

BD..ANCIO DELW ~"IATO SPF.SE MILITARI (F.SERCITO) CONSUNTIVO (1874) ORDINARIE E STUAORDINARlli (1874) (milioni di lire)

(milioni di lire)

2 .838.260 2.500.548 2.257.8 16 2.109.593 1.572.804 1.364. 147

7 19.929.753 788.390.1 03 488.742.3 15 378.41 8.040 254.983.593 192.0 11.542

Per la marina nello stesso anno 187 1, la Germania spende 79 milio ni, l' Inghilterra 275, la Francia 157. (Cfr. Lodovico Cisotti , /,a pace annata e /'e.t ercitn italiattn, in " Nuova Antologia", Voi. XXXIX - Fase. VIII agosto 1875, pp. 911 -925). Questa proporzione delle spese non cainbia molto nel 1896, quando secondo una statistica olandese l'Italia spende perl'esercito 108 milioni di fiorini, a fronte dei 148 dell ' Austria, dei 170 della gran Bretagna , dei 360 de lla Germania, dei 520 della Russia e dei 280 della Francia (Cfr. "Rivista di Artiglieria e Genio" I Vol./ 1896, pp. 476-477).


_ _ _V=ll~I - I.A MINACCIA VIENF. DAI.I.E Al.PI O l)AI. M~RF.?

83!

11. Non si sa pertanto in base a quali elementi il Gooch afferma che "il conservatorismo e l'innata mancanza di fiducia nelle truppe indussero i militari ad adottare una politica di difesa fle scelte della politica di difesa competono ai politici - N.d.a.J che si basava su estese e costose fortificazioni ... " e che "l'esercito, ritenendo inaffidabile la maggior parte della società italiana e indifendibili Ima chi l'ha detto? - N.d.a.] le frontiere, preferì impegnarsi nella costruzione dicostose jòrtificazioni, simbolo di una forza d'occupazione (sic) essa stessa sotto assedio".82 Perché il Gooch, con maggiore cognizione di causa, non parla piuttosto delle costosissime (queste sì) fortificazioni delle coste e dei porti inglesi , delle fonnidabili fortificazioni di Malta, Gibilterra, Singapore ecc.? Fantasioso è poi il suo accenno alle nostre fortificazioni come protezione (anche verso l'interno?) di una ''forza d'occupazione" che sarebbe il nostro stesso esercito di leva (che però - noi ricordiamo - non era volontario e con gradi che ancora nel 1870 - 1871 venivano acquistati dall'aristocrazia, come quello inglese). Un fatto è certo: che nazioni peraltro più ricche come la Francia, la Gennania, l'Inghilterra e il Belgio hanno speso in fortificazioni molto più dell'Italia, e che le poche nostre fortificazioni realizzate, né nel XIX secolo, né nel XX secolo hanno mai retto il confronto con quelle delle principali potenze confinanti (non esclusa la Svizzera), sia per quantità che per qualità. 12. Il fattore finanziario è di gran lunga quello che più detta legge; si potrebbe dire, perciò, che la montagna (cioè l'infinita serie di proposte, discussioni, articoli e opuscoli, progetti e controprogetti ecc.) partorisce il topolino . Questo è vero anzitutto per la relazione della Commissione del 1871, il cui "piano ridotto" che già ridimensiona notevolmente il piano completo, è ulterionnentc ridotto dal Ricotti a 65 opere e 90 milioni, a sua volta ridotti dalla Camera a 22 milioni. 13. A fronte di questa realtà perdono smalto i molteplici nodi che emergono dal dibattito (grado di priorità da attribuire alla difesa dell' Italia continentale, e conseguente definizione del rapporto difesa terrestre/ difesa marittima; rapporto tra difesa a Ovest e difesa a Est; ruolo da attribuire alle Alpi, al Po e aU' Appennino; importanza o meno del quadrilatero; alternativa Piacenza/Bologna; ruolo di Mantova e Alessandria; necessità o meno di un grande ridotto per l'ultima dife-

xi John

Gooch, Op. cii., pp. 43 e 6 I.


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IL l'l:NSlliRO MILITARE E NAVALE ITALIA NO - VOL. UI ( 1870-1915) -TOMO I

sa e, in caso affermativo, dove prevederlo). Le varie opinioni in proposito dimostrano, ancora una volta, che la geografia militare del tempo non è una scienza esatta, specie là ove sconfina (come avviene spesso) ne11a geostrategia e dove si vuol trarre esclusivamente da essa indicazioni strategiche e tattiche. 14. Dal dibattito emergono accese polemiche e animosità personali tra alti gradi, che ben poco hanno a che fare con i contenuti tecnico - militari dei problemi trattati, e che certamente non giovano alla compattezza e al prestigio dell'esercito. Scrive, in proposito, il Minonzi: le gravi discrepanze che sorsero fra scrittori militari, tostoché si cominciò a discorrere del modo di fortificare l'Italia, furono a molti cagione di meraviglia, direi quasi di scandalo. Parecchi in buonafede ne inferirono che i militari stessi non sapevano quel che si volessero. Come? Dicevano, si chiedono al paese, in questi bei momenti d'abbondanza, quasi cento milioni e non si è neppur d 'accordo sul nwdo di :;,penderli? Mentre questi vuol fare Roma fortezza di prim 'ordine, quegli sostiene che bastafarla sicura da un colpo di mano, un terzo preferisce lasciarla come sta. Gli uni affermano che la d1fesa d'Italia tutta deve compendiarsi in Piacenza, gli altri che va concentrata intorno a Bologna. V 'è chi vorrebbe accresciute di forza Verona, Peschiera, Alessandria, altri invece le vorrebbe nientemeno che rasate tutte e tre. A chi c redere, a qual partito appigliarsi, se gli uomini dell'arte si dibattono essi pure fra le incerteu.e ? O non sarebbe più prudente consiglio e più saggio risparmiar nuove piaghe alle povere nostre finanze, sospendere lavori che una parte dei 1ecnici crede inutili e dannosi, per dedicarci da senno a fortificare l'Italia fra qualche anno ?83

15. Sul piano generale, si può osservare che lo studio delle possibilità o meno di aggiramento di una fortificazione specie in pianura è in gran parte ozioso: le fortezze non operano in vacuo, spetta aJle forze mobili impedirne l'aggiramento e sfruttarne l'azione. Oziosa ci sembra anche la ricerca della priorità da conferire a Piacenza o Bologna: le possibili linee d'azione del nemico non possono essere predeterminate, quindi sono entrambi punti - chiave da fortificare, sempre che (cosa che non avviene) siano disponibili i fondi. Oziosa ci sembra anche la ricerca di un grande ridotto ove l'intero esercito, già battuto, possa rifugiarsi e poi riprendere l'offensiva. A parte la mancanza di

"., Minonzi, Ari. cii., p. 704.


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fondi, i crescenti effettivi raggiunti dall'esercilo già a fine secolo rendono sorpassato il concetto di un unico grande campo trincerato. Lo stesso aumento degli effettivi rende possibile ciò che prima non era possibile, cioè la difesa a oltranza deHe Alpi. L' aumento degli alpini è logica conseguenza di tale difesa a oltranza, oltre che dell'opportunità (ben chiara già nell'articolo del 1872 del Perrucchetti) di sostituire con milizie locali le fortificazioni che mancano. Non condivisibile, in proposito, )'affermazione del Rochat - Ma<;sobrio che il continuo aumento dei reparti alpini è dovuto anche, se non soprattutto, a ragioni politiche (cioè alla loro provenienza da ragioni "politicamente sicure" di orientamento monarchico e conservatore). 84 Che bisogno c'era degli alpini per l'impiego in ordine pubblico, peraltro sempre avvenuto, di fatto, in misura assai più limitata ed episodica di quanto è stato fatto dalla fanteria e cavalleria e con rendimento - se così si può chiamare - non certo superiore? 16. Il terreno e le comunicazioni esistenti oggettivamente non favoriscono un' offensiva italiana oltre confine, né a Ovest né a Est (come del resto dimostrano, da quest'ultima parte, le sanguinose e poco redditizie offensive condotte nel 1915-1917 dal nostro esercito). Tale offensiva è resa decisamente improponibile anche dalla netta inferiorità delle forze e degli armamenti (artiglierie, mitragliatrici) italiani rispetto agli eserciti francese e austriaco. Coloro che hanno tacciato di eccessivo difensivismo le scelte strategiche italiane dell'epoca sono pertanto fuori strada. Va anche aggiunto che là ove il Ricci e altri parlano di offensiva si riferiscono essenzialmente alla controffensiva da sferrare prima di tutto sul nostro territorio contro l'invasore, cioè a una difesa reattiva e non passiva, appoggiata alle fortificazioni di 2a linea e/o ai campi trincerati. 17. Ovvia e inevitabile - dalo il quadro politico di riferimento - la priorità assegnata alla fortificazione della frontiera occidentale, rivelalasi del tutto inulile nelle due guerre mondiali così come inutili sono state le fortificazioni (per fortuna poche) costruite alla fronliera con la Svizzera. Già nel 1885 il Capo di Stato Maggiore generale Cosenz aveva ritenuto necessario prevedere la radunata dell'esercito non più dietro l'Adige ma dietro il Piave; ma solo a partire dai primi anni del secolo XX, per merito del Capo di Stato Maggiore generale Saletta e

84 Giorgio Rochat - Giu)ju Ma~sobrio, Breve storia dell'esercito italiano diil 1861 al 1943. Torino, Einaudi 1978, pp. 94-95 e 104.


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dei suoi successori fino a Cadorna, si è cominciato a fortificare prima il confine dal Monte Grappa al Trentino e poi il confine più a Est (sia pure in misura incompleta per la solita carenza di fondi, visto che la priorità continuava ad essere attribuita, per ovvie ragioni, al confine occidentale con la Francia). 85 Si tralascia, in particolare, di fortificare Stupizza, a sbarramento della celebre via di invasione Caporetto - Cividale utilizzata nel 1917; rimane aperto anche lo sbocco delle convalli del Natisone, fortificato (ancora una volta inutilmente) dopo il 1945. Da queste interfacce risulta evidente che il dibattito, pur non privo di elementi di interesse, non riesce ad esprimere bene l'armonia che deve sempre esistere tra azione delle forze mobili, terreno e ruolo della fortificazione, né considera con sufficiente attenzione il ruolo sostitutivo della fortificazione campale (o "provvisoria", o "eventuale") rispetto a quella permanente. Pochi gli accenni in proposito; solo il Marselli - non casualmente stretto collaboratore del Ricolti - dimostra di avere idee chiare, più di tutti intuendo l'importanza dei lavori in terra rispetto a fortificazioni che comunque avrebbero avuto per i nostri bilanci costi proibitivi. Ed è sempre il Marselli a trarre dalla fisionomia geostrategica policentrica dell' Italia l'unica conseguenza valida e opposta a quella del Bruzzo, che cioè non conviene prevedere la costruzione di grandi e costosi campi trincerati (la fortificazione di Roma è probabilmente da lui concepita in senso ristretto senza pretesa di fame il ridotto centrale di difesa, come per il Veroggio). Più in generale la fisionomia policentrica dell' Italia, alla quale accenna solo il Bruzzo deducendone però la solita tendenza a tutto fortificare, accredita ancor di più le soluzioni indicate dal Marselli e induce a riflettere su un dato certo, confermato dall' imprevista guerra offensiva decisa dall'Italia contro l'Austria ex-alleata nel 1915: per un paese povero di risorse, dalla politica instabile e dalla fisionomia geostrategica bivalente come l'Italia del 18701915 la fortificazione permanente, a parte i suoi costi probitivi, era una carta sulla quale ben poco si poteva contare, e che alla prova dei fatti si è rivelata superflua. Non c'è dubbio che, almeno in Italia, avrebbero meritato maggior successo le teorie del generale francese Langlois, il quale nel 1906 sostiene la scarsa utilità dell'imponente e costosissimo sistema fortificato costruito dalla Francia ai suoi confini, e afferma a chiare note che "La fortificazione perma-

85 Cfr, in merito, Maurizio Ruffo, L 'Italia nella Triplice Alleanza - i piani opera/ivi dello Stato Maggiore verso /'A11stria - Ungheria dal 1885 al 1915, Roma, SME - Uf. Storico 1998, pp. 93- 110.


vm . LA MINACC IA Vll:'.Nli DALLE ALPI o DAL MAR E?

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nente è sulla via di essere completamente campale". Il capitano di Stato Maggiore Zincone, che sulla Rivista Militare mette a confronto le tesi del Langlois con quelle contrapposte del maggiore del genio austriaco Kuchinka86, propende per le idee di quest'ultimo e per la solita tesi delle poche ma buone fortificazioni, con particolare riguardo ai confini; ma rimane il fatto che la successiva guerra ha bocciato ogni soluzione dettata da piatto buon senso e ha dato piuttosto ragione al Langlois.

86 A. Zincone, Le vedute del generale Langlois circa la f orlifìcazione, in "Rivista Militare Italiana", Anno LI - Il semestre ottobre 1906. pp. 1997-2004.



CAPITOLO IX

VERSO LA "NAZIONE ARMATA" POSSIBILE: L'ESERCITO DALL' ORDINAMENTO RICOTTI (1870-1873) ALL'ORDINAMENTO FERRERO (1882)

Le Amministrazioni della guerra e della Marina, io temo, credono in cuor loro che Le angustie economiche, le quali gravano il paese ,e le difficoltà .finanziarie, le quali premono su lo Stato, siano, a dir poco, momentanee; e che presto, perciò, possa venir meno il pungolo del[' oggi, e quindi riavere, in occasioni più benigne, parte dei maggiori assegni di tre o quattro anni addietro, più consentanei, in verità, e meglio rispondenti agli organici rimasti immutati. GIUSTINO FORTUNATO ( 1893)

Premessa: tramonto o sviluppo della nazione armata? Nel periodo in esame nessun esercito segue il modello svizzero (puro e vero) di nazione armata, basato sull'assenza di un esercito permanente e sulla periodica chiamata alle arnù per pochi giorni - e solo per istruzione di tutti i cittadini, con il minimo numero di esenzioni. Si può dunque dire che la prospettiva della nazione armata tramonta? Non sarebbe esatto; in realtà si tende ovunque, sul modello tedesco, a una nazione armata possibile, cioè alla chiamata aJle arnù in tempo di pace del massimo numero possibile di cittadini per compiere una ferma di leva sempre più breve ma temperata da periodici richiami in tempo di pace, con la rapida mobilitazione in caso di guerra di un esercito sempre più numeroso, che dunque deve contare - diversamente dal passato - su una larga intelaiatura di ufficiali di complemento (categoria che comincia a prendere forma solo dopo la guerra 1870-1871). Pur continuando ad avere dei fautori anche in Italia, il modello francese di esercito di qualità, a lunga ferma, con ridotto spazio per la mobilitazione, tramonta ovunque, anche in Francia: ma ciò avviene per forza di cose, prim4 ancor che per il prestigio acquistato dalle armi prussiane e germaniche con la vittoria del 1870-1871. Lo sviluppo economico, il pro-


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gresso sociale, la rivoluzione industriale, l'incremento demografico delle popolazioni portano di per sé a mettere in campo in caso di guerra contingenti sempre più numerosi, con un salto ordinativo notevolissimo rispetto alle precedenti guerre. E più che precise opzioni teoriche o modelli ordinativi astratti, nei provvedimenti di carattere organico specie in Jtalia prevalgono due fattori: i limiti di bilancio, che di per sé conclizionano fortemente la forza da istruire e mobilitare, e talune esigenze che emergono dalla situazione politico - sociale interna (come l'esteso impiego dell'esercito in ordine pubblico in sostituzione e/o integrazione dei troppo scarsi Carabinieri, la necessità di amalgamare le giovani generazioni provenienti da regioni molto diverse, la necessità di dare un'istruzione elementare ai numerosi analfabeti o semi - analfabeti, ecc.). Ma fino a che punto le ma<;se armate, che è già difficile addestrare, possono essere dotate di spirito militare'! Il problema è posto già nel 1870 dal generale Carlo Corsi: il pac(fìco campagnolo dei nostri giorni, il terrazzano, il cittadino, avvezzi a vita molto diversa da quella dei loro padri ed avi, anzi parecchi assuefatti ad un viver molle e diletto.\·o, in questi tempi in cui regna sovrano il culto dell 'oro e del piacere, sbrigliali oramai da ogni vincolo d'obbligo e consuetudine di rispetto alle autorità, in mezzo a un brulicame d'apostoli di vario colore che loro non parlano d'altro che di libertà e diritti,chiamati a passare qualche anno tra le armi, sotto una disciplina più blanda assai di quella dei tempi napoleonici, non possono avere i gusti, le idee, i sentimenti dei soldati d'un tempo. So~pirano il giorno della liberazione, non desiderano la guerra, si rassegnano facilmente a non aver nome d'eroi. Sanno che la sorte della maggior parte di loro non cambierà d'un punto, sia pace o guerra, si vinca o no: che il nemico rispetterà i campi, le case, le famiglie loro, e passerà come un ospite; che finita la guerra non vi saranno né padroni né schiavi. E dopo quei pochi anni di vita militare tornano alle loro case, ai Loro ozii, alle loro pacifiche occupazioni, colla speranza (bisogna dirlo, e bisogna compatirli) che la patria non abbia più bisogno del Loro braccio. Che fior di soldati possano essere quando siano richiamati alcuni anni dopo alle bandiere per ra1:ion di guerra, strappati a un tratto alle famiglie, ai negozi, ai mestieri loro, al dolce far niente, è facile figurarselo, anche chi non conosca per pratica le odierne milizie. E gente siffatta la si conduce ad affrontare la morte non più a masse cerchiate di veterani, ma a sparpaglio per luoghi rotti e coperti, sotto 1:li ordini di uomini che non conosce, molti dei quali sono gio-


IX - DALl.' ORDINAMEN'IU RIC(J(TI ALL'ORDINAMENTO fERRERO

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vanetti inesperti, contro nemici appiattati, sotto una grandine di cannonate e fucilate ... 1

Questo problema specie in Italia gioca a favore dei tenaci fautori delle ferme lunghe e fa della nazione armata una sorta di mito, di meta ideale soprattutto per i socialisti, o meglio per quei socialisti che ammettono la necessità di una difesa nazionale, e con la mobilitazione improvvisa, in massa e magari volontaria di tutti i cittadini solo nel caso che la Patria sia in pericolo, intendono evitare quelli che giudicano i due principali ostacoli per il progresso del proletariato: l'impiego dell'esercito permanente in ordine pubblico e il peso della spesa militare. Non c'è dubbio che il miglior modello di "nazione armata possibile" rimane quello germanico, assai lontano dallo svizzero. Persino Friedrich Engels, che per inciso - come Marx - non ha mai considerato la guerriglia come l'unica forma di "guerra rivoluzionaria", mostra di condividerlo sostanzialmente, là ove osserva che ogni nuovo passo verso la realizzazione del servizio militare ohbligatorio per tutti rende l'esercito prussiano meno adf.1tto a servire da strumento di colpi di Stato [... ].Il servizio [di leval di due anni è un contrappeso sufficiente all'aumento dell'esercito. Nella stessa misura in cui il rafforzamento dell'esercito accresce a favore dell'esercito i mezzi materiali per i colpi di Stato, il servizio di due anni ne diminuisce i mezzi morali[ ... ]. Nel terza anno di servizio, allorché non ha più niente da imparare dal punto di vista militare, il nostro soldato, soggetto al servizio militare obbligatorio sedicente "per tutti", si avvicina già in certa misura al tipo di soldato francese o austriaco reclutato per lunghi anni [ ... ]. La questione di quanti soldati occorrano allo Stato prussiano per continuare a vegetare come grande potenza, è indifferente al proletariato tedesco. Se il peso militare aumenta o diminuisce a causa della riorganizzazione, anche questo importa poco alla classe operaia in quanlo classe. Al contrario, ciò verso cui non è affatto indifferente è la questione se il servizio militare obbligatorio per tutti è applicato rigorosamente oppure no. Più lavoratori addestrati all'uso delle armi vi saranno e meglio sarà. Il servizio militare obbligatorio per tutti è il complemento necessario e

1 Carlo Corsi. Dello studio dellu storia militare, in "Rivista Militare Italiana" Anno XV - Voi. l gennaio 1870, p. 33.


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naturale del suffragio universale; esso mette gli elettori nella condizione di imporre le loro decisioni, armi alla mano, contro tutti i tentativi di colpi di Stato. 2

Nemmeno Engels, dunque, è un esaltatore della formula pura della nazione armata: ritiene già conveniente per ]a classe operaia il servizio militare obbligatorio. Ciò non toglie che questo termine sia spesso usato da contrapposti filoni di pensiero, che vogliono attribuirgli il significato che loro fa più comodo. Come scrive il De Chaurand a fine secolo XIX, La nazione armata soddisfa gli ideali dei conservatori, che vedono in essa una soluzione al problema di avere un grande esercito con limitata spesa; dei progre.\',\' Ìsti, i quali vi scorgono un mezza per aumentare maggiormente la fusione dell 'esercito con la nazione; dei radicali, che mirano a realizzare il motto di Carlo Cattaneo: tutti militi, nessun soldato, e contrappongono la nazione armala all'attuale nazione accasermata. Nel nuovo sistema che si fa strada, ,?li oppositori del militarismo intravedono il primo sintomo della tendenza alla soppressione degli eserciti permanenti; i fautori della pace universale e perpetua e i filan tropi ne traggono la .\ peranza della graduale abolizione della f?Uerrafra gli uomini; gli economisti vi fondano la fiducia di poter addivenire presto a una considerevole riduzione delle spese improduttive per gli Stati [ ... ]. Insomma, lo stesso nome di nazione armata si adopera per esprimere una quantità di dijjèrenti ideali, dappoiché la sua esatta portata è finora vaga e l'interpretazione libera. 3

Un'altra caratteristica saliente - e tutta italiana - del periodo è la ricerca della formula di un esercito numeroso, efficiente ma al tempo stesso più economico, che assomiglia alquanto alla ricerca della pietra filosofale o della quadratura del cerchio, perché pur muovendo magari da critiche fondate, mira a conciliare l'inconciliabile e non tiene conto a sufficienza di una realtà anche politico - sociale tipicamente italiana, che limita le scelte e impone delle soluzioni non ideali ma possibili, quando non obbligate. Il ventaglio di soluzioni prospettate è estremamente numeroso e vario; ma anche se esse spesso difettano di aderenza alle effettive esigenze, meritano solo in parte la bocciatura del De Chaurand, secondo il quale Friedrich Engels, w questior1e militare e la classe operaia, Ed. Maquis 1977, pp. 86-87 e 95-%. Felice De Chaurand de Saint Eustache, Le istituzioni militari odieme e il loro avvenire, Roma, Voghern 1895, pp. 257-258. 2

3


IX - DAU.:ORDlNAMENTO RICaITl ALL' ORDINAMENTO FF.R ~·=R =E=R0 ~ - -- - - -~84 ~1

l'esercito si concepiva come una semplice raccolta di uomini, dalla quale si sarebbe dovuto eliminare, ora di qua, ora di là, non il superfluo inesistente [che il superfluo non esistesse non era sempre vero N.d.a.], ma il meno necessario. Non si teneva conto di quanto occorreva fin dal tempo di pace, in materiali d'ogni genere, per mettere L'esercito in grado di attendere in guerra al suo compito 1- _-1- Basterà ricordare come questi improvvisati organiz.zatori, attenendosi al supposto di costituire l'esercito territorialmente, cercassero di massima la soluzione del problema, o trasformando l'esercito in una specie di guardianazionale a contingente annuo fisso, o sopprimendo nella scala gerarchica la formazione in corpi d'annata territoriali, o adottando formazioni a base ternaria, riducendo le unità, specie le Anni a cavallo, quali più costose, o limitando i servizi generali dell'esercito e i Quadri degli ufficiali non combattenti, sopprimendo i collegi militari e gli stabilimenti d'artiglieria e del genio l- .. j, Tutti insistevano sulle semplificazioni amministrative, senza indicarle !4

Il dibattilo che segue ruota intorno a questi parametri: inutile ricordare che ne esamineremo solo gli aspetti più originali e meno noti .

SEZIONE I - La lunga opera riformatrice del Ministro Ricotti (1870-1876): motivi ispiratori, obiettivi e critiche

Le cause ordinative della sconfittafrancese nel 1870-1871 secondo Napoleone III

A partire dal dicembre 1870 la Rivista Militare pubblica un recente opuscolo attribuito a Napoleone III sulle cause della sconfitta francese, tra le quali acquistano particolare rilievo le questioni ordinative e attinenti al reclutamento e mobilitazione. 5 Da settembre si è insediato al Ministero della guerra il generale Ricotti, che manterrà la carica fino al marzo 1876. Al momento l'esercito italiano assomiglia notevolmente a quello francese,

4 Felice De Chaunmd de Saint Eustache, Come l'esercito italiano entrò in guerra, Milano, Mondadori 1929, pp. 79-80. 5 le cause del disastro di Sedan, in "Rivista Militare Italiana", Anno XV - Voi. IV dicembre 1870, pp. 407-430 e Anno XVI - Voi. II aprile I87 1. pp. 96-111.


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e senza dubbio ne riproduce molti difetti; si ha quindi motivo di ritenere che la pubblicazione dj siffatte considerazioni critiche dell'Imperatore sconfitto non sia casuale e serva a preparare il terreno alle riforme che il Ricotti ha in animo di compiere. Napoleone III mette anzitutto in rilievo la forte superiorità numerica germanica (550.000 uonùni contro 300.000), che avrebbe potuto essere compensata solo con una pronta mobilitazione francese, completamente mancata "a causa dei vizi della nostra organizzazione militare". Quattro i difetti capitali che hanno provocato disservizi e ritardi: 1) l'accentramento dei materiali di mobilitazione in pochi grandi magazzini, dai quali poi dovevano essere inviati, per ferrovia, ai depositi dei reggimenti spars i in tutta la Francia e in Algeria; 2) il reclutamento nazionale, non regionale come in Prussia. Con questo sistema le riserve chiamate a far parte di un reggimento si trovavano sparse in tutta la Francia, e per affluire al rispelljvo deposito dovevano percorrere con notevolissima perdita di tempo gli itinerari più strani; 3) il servizio ferroviario diversamente da quello tedesco non era stato ben organizzato e non è riuscito ad assicurare un'ordinata e rapida mobilitazione; 4) l'eccessivo accentramento organizzativo ("per La menoma cosa occorreva un ordine ministeriale"), che ha impedito ai generali sul campo di rimediare ai difetti dell' organizzazione con rapidità e preveggenza. Napoleone III inoltre ricorda che prima della guerra i vertici militari francesi negavano i vantaggi dell' ordinamento militare prussiano, e "sono stati sempre contrarissimi al sistema delle riserve esercitate". Opinione che l'Imperatore definisce pericolosa, perché mantiene in riserva solo uomini non addestrati alle armi a fronte di un'organizzazione prussiana che grazie anche al reclutamento regionale istruisce l'intero contingente di leva e mobilita in 24 ore tutti gli uomini dai 23 ai 32 anni, adunando in 15 giorni 13 corpi d'armata pronti a marciare sul nemico. Per rimediare almeno in parte ai difetti del sistema di reclutamento nazionale francese, che chiamava alle armi, con una ferma di 8 anni, solo una parte del contingente e ne lasciava 50.000 per ogni contingente a casa non istruiti, nel 1860 l'Imperatore aveva disposto éhe le reclute non incorporate per la ferma di leva venissero addestrate nei depositi dei reggimenti di stanza nel rispettivo dipartimento per tre mesi nel primo anno, due mesi nel secondo e un mese nel terzo, e che in caso di guerra si presentassero a tali depositi, per essere poi avviati ai rispettivi reggimenti: ma questa disposizione nel 1866 era stata modificata ... L'impietosa analisi dell'Imperatore si conclude con una serie di proposte, che nel prosieguo del secolo diventano anche la tematica corrente del problema militare sia in Francia che in Italia:


IX - DALL'ORDINAMENTO RICCJTTI ALL'ORDINAMENTO FERRERO

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1° divisione del territorio della Francia in 14 province, formanti altrettanti corpi d'armata costantemente reclutati nella stessa circoscrizione territoriale; 2° servizio obbligatorio per tutti; 3° servizio attivo nell'esercito da 20 a 24 anni [cioè ferma di leva, per tutti, di 4 anni - N.d.a.]; da 24 a 28 anni nella riserva; da 28 a 32 nella milizia [ciò significa che a 32 anni cessa ogni obbligo militare - N.d.a.]; 4° ammissione nell'esercito di arruolati volontari per un anno; 5° ammissione degli arruolati volontari per un anno come ufficiali nella milizia, dopo aver superato gli esami prescritti [al momenlo quesla è la principale modalilà di reclutamento per gli ufficiali subalterni di complemento, che pertanto non esistono in lempo di pace - N.d.a.]; 6° organizzazione del corpo di Stato Maggiore secondo i principi adottati in Prussia; 7° scuola superiore d'arte della guerra, simile all'Accademia di Berlino. Ormai scontata, e corrispondente alla Communis opinio, la conclusione che "ciò che bisogna soprattutto imitare dell 'esercito tedesco è la sua disciplina severa, la sua infaticabile attività, il suo amore del dovere, il suo rispetto per l'autorità". Peraltro, come sottolineano i già citali rapporti 1866-1870 del colonnello Stoffel (addetto militare francese a Berlino), ampiamente recensiti nel 1871 dalla Rivista Militare6, se nell' esercito prussiano la disciplina è così forte e sicura da rendere pressoché superfluo ogni intervento degli ufficiali per mantenerla, ciò non è dovuto a provvedimenti interni all'esercito stesso, ma "alla semplice ragione che i giovani entrano al servizio disciplinati, vale a dire abituati .fin dall'infanzia all'obbedienza in generale, al rispetto dell'autorità, alla fedeltà, al dovere''.

La molto parziale applicazione del modello prussiano da parte del Ricotti: un compromesso inevitabile?

Come risulta anche dalla relazione introduttiva7, il primo progetto di legge presentato dal nuovo Ministro Ricotti al senato in data 6 dicembre

6

ln "Rivista Militare ltaljana" Anno XVI - Voi. IV ottobre 187 1, pp. 146- 157. ln "Rivista MiJjtare Italiana" Anno XV - Tomo IV dice mbre 1870, pp. 366-386. Di importanza fondamentale la legge ordinativa 30 settembre 1873, n. 1591 e la legge sulla circoscrizione militare territoriale 30 settembre 1873, n. 16 11 . 7


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1870 prende come riferimento il sistema prussiano e le proposte di Napoleone TTJ, peraltro con una serie di mezze misure (più che di sani compromessi) derivanti dalla mancata adozione dei quattro capisaldi del sistema prussiano e poi germanico (ferma breve ma estesa a tutto il contingente annuale, con poche esenzioni e abolizione dei privilegi delle classi agiate; reclutamento regionale; sedi fisse dei reggimenti; assenza di impieghi extra - militari dell'esercito)_ TI reclutamento italiano rimane a livello nazionale, eccezion fatta per gli alpini, che peraltro nei primi anni di vita assorbono solo in parte i contingenti di leva fomiti dall' intera fascia alpina; solo la mobilitazione delle riserve in caso di guerra avviene a livello regionale. Per ragioni economiche continua a non essere istruito l'intero contingente annuale di leva, ma ci si limita ad aumentare la parte istruita di detto contingente. La ferma di leva viene ridotta, ma non fino al livello di quella prussiana. Ciononostante, il progetto di legge del Ministro ha due scopi assai ambiziosi, raggiunti con ben altre modalità dal1' esercito prussiano: 1) la rapidità di mobilitazione, grazie al1a quale (come l'esercito prussiano) l'esercito italiano deve essere in grado di mobilitarsi ed entrare in campagna in 15 giorni; 2) il raddoppio della forza istruita mobilitabile. Quest'ultimo obiettivo di per sé implica l'introduzione del principio del servizio militare obbligatorio per tutti, come in Germania; ma cli fatto tale principio è applicato solo in parte, mantenendo il sorteggio dei militari destinati a far parte della I a categoria che compie l'intera ferma di leva, mentre gli altri (2" categoria) rimangono allearmi solo per un massimo di cinque mesi, ripartiti in uno o più anni. Inoltre Ricotti abolisce la surrogazione ordinaria (cioè la facoltà di farsi sostituire a pagamento da altri nel servizio di leva), ma mantiene almeno in parte l'affrancazione (cioè l'esonero a pagamento dal servizio militare), con la possibilità di passare dalla 1a alla 2a categoria previo pagame nto di una certa somma: inutile dire che in tal modo si priva l'esercito di I " linea di preziosi elementi appartenenti alle classi agiate, quindi con elevato grado di istruzione. Nonostante questi limiti il Ricotti, forse preoccupato per l'opposizione dei generali della vecchia guardia, tiene a precisare che la legislazione che intende adottare non ha nulla di rivoluzionario, perché i suoi lineamenti fondamentali sono stati definiti da una Commissione nominata nel 1866 dal Ministro Cugia, della quale egli stesso ha fatto parte. Tale Commissione, già sulla base dell'esperienza delle guerre prussiane del 1864 e 1866, ha dovuto riconoscere che accanto a un esercito di 1a linea ben istruito e in grado di passare rapidamente sul piede di guerra, "era non meno indispensabile avere un sistema di riserve perfettamente organizzato". Si è reso così


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DALL' ORDINAMENTO RICO'ITI ALL' UlilllNAMENTO FERRERO

necessario - prosegue il Ricotti - istituire "un secondo esercito" chiamato alle armi solo per il tempo di guerra e "destinato a sostegno dell 'esercito permanente e più particolarmente a concorrere con esso nella difesa interna dello stato". I suoi componenti, come si è visto, sono chiamati alle armi solo per un ridotto periodo di istruzione in tempo di pace. Tale esercito corrisponde alla Landwehr prussiana ed è da lui chiamato milizia distrettuale, perché "ve rrebbe iscritto, ordinato per battaglioni e compagnie, amministrato e messo in armi per distretto militare". Per questo secondo esercito, insomma, viene adottato il reclutamento regionale sul modello prussiano; infatti se considerazioni di grande importanza, tra le quali primeggia quella di affrettare, mercé la fusione delle differenti parti del regno nei corpi dell'esercito permanente, la intima unificazione delle popolazioni nostre, consigliano di non ordinare l'esercito permanente in corpi provinciali o re~ionali, come praticasi altrove, ove l'unità nazionale è antica quasi quanlO da noi nuova: eguali ra~ioni non si oppongono a che le truppe non permanenti, siano invece formate territorialmente, provincia per provincia, o piuttosto distretto per distretto militare.

Con siffatti provvedimenti il Ricolti intende mettere in campo in caso di guerra 750.000 uomini così ripartiti : 300.000 uomini di 1• categoria inquadrati nell 'esercito permanente di pace (completato per raggiungere l'organico di guerra) e 450.000 appartenenti alla 2• categoria (tra i quali 120.000 assegnati ai depositi dei reggimenti come riserva per riempirne i primi vuoti). La ferma di leva è ridotta da 5 a 3 anni (un anno di più che in Germania); fa eccezione la cavalleria, per la quale è di 4 anni. L'esercito è ripartito in te mpo di pace in 7 Comandi generali (10 in guerra), 16 divisioni territoriali , 62 distretti militari, 16 direzioni di sanità militare e 16 direzioni di Commissariato militare. La divisione militare ha anche una fi sionomia logistica; il Ricotti vorrebbe costituire 4 divisioni "attive" (cioè operative fin al tempo di pace), ma deve rinunciare in parte al progetto per ragioni economiche . I Comandi genenùi non hanno invece rilevanza logistico - amministrativa, sicché per tale branca in molti casi i reggimenti/corpi continuano a far capo direttamente al Ministero, con ovvie complicazioni burocratiche derivanti - come in Francia - dall'eccessivo accentramento. Altra caratteristica saliente dell'ordinamento Ricotti è l'istituzione di distretti militari con relativa circoscrizione territoriale, che ha lo scopo di eliminare nei limiti del possibile i difetti del reclutamento e della mobilitazione secondo il sistema francese, peraltro in gran parte dovuti al siste-


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ma di reclutamento nazionale mantenuto anche nell'ordinamento Ricotti. I nuovi organismi intendono alleggerire i reggimenti attivi delle incombenze relative alla ricezione, vestizione e istruzione delle reclute e dei richiamati, in modo da accrescere la mobilità e operatività dell'esercito di P linea. Ne deriva un insieme di compiti assai complessi e gravosi, fissati in un decreto del 13 novembre 1870 secondo il quale oltre la disciplina e L'amministrazione dei soldati in con[<edo illimitato, incombe ai Comandi di distretto l'istruzione annuale dei soldati di 2a categoria del distretto; il servizio di deposito di leva al contingente di I° categoria del distretto; vestirlo e dar[<li una prima istruzione militare, innanzi di ripartirlo ai corpi attivi dell'esercito; riunire i militari in congedo illimitato, quando vengono richiamati sotto le armi, rifornirli di corredo, e all'occorrenza anche d 'armi, e mandarli, in ordinati drappelli, sollecitamente direttamente ai corpi attivi. Approvvigionare di vestiario, di attrezzi da campo, di carreggi i corpi di fanteria e cavalleria [sono dunque esclusi i corpi di artiglieria e del genio - N.d.a.J stanziati nel distretto - E finalmente, in tempo di guerra essere centri di governo, di amministrazione e di approvvigionamento ai depositi dei corpi suindicati Itali depositi sono costituiti solo in tempo di guerra, mentre in pace vi è solo una compagnia deposito per reggimento - N.d.a.].

Un ultimo provvedimento di rilievo, che pone fine a tutta una serie di problemi ma ne crea altri, è l'abolizione del corpo di Intendenza, composto di funzionari civili ma assimilati al grado militare che di fatto controllavano l'operato amministrativo dei comandanti, e la parallela militarizzazione integra1e dei Servizi, i cui organi direttivi sono pertanto composti da ufficiali a pieno titolo (medici, veterinari, commissari, contabili), sia pur con profili di carriera inferiori a quelli degli ufficiali delle Armi combattenti (fatto, questo, destinato anch'esso a creare problemi e malumori).

Le anticipazioni del Bava - Beccaris ( 1869) e la dura polemica tra il La Marmora e il Ricotti ( 1871)

Il Ricotti è fuor di dubbio il maggior esponente dell'ala più progressista del vertice militare del momento, e avrebbe anche voluto andare più in là delle riforme di base prima descritte. Per la loro natura, tali riforme si prestano singolarmente ad essere viste o come un bicchiere mezzo pieno che alla prima occasione va riempito del tutto (ci riferiamo, per esem-


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pio, al reclutamento regionale) o, al contrario, come un contenitore troppo pieno, fino a denotare un dannoso eccesso di innovazione. Appartiene alla corrente degli innovatori il maggiore d'artiglieria (poi Ministro) Bava - Beccaris, che già nel 1869 precorre l'opera del Ricotti e anzi suggerisce soluzioni più radicali.8 Secondo il Bava - Beccaris, specie in un Paese come l'Italia povero di spirito nazionale e militare, bisogna educare militarmente tutta la nazione, facendo dell'esercito la sua scuola militare e migliorando l'istruzione delle masse. Pertanto dovrebbero essere istituite cattedre di scienze militari nelle Università, mentre la surrogazione ordinaria e l'affrancamento dovrebbero essere senz'altro aboliti, perché riducono la qualità del contingente di leva allontanando gli elementi più istruiti, tra i quali andrebbero scelti anche graduati e sottufficiali, perché la figura del sottufficiale ignorante non è più attuale. Per il Bava - Beccaris è anche possibile diminuire la ferma da 5 a 3 anni, eliminando però le eccessive e nocive perdile di tempo provocate dai troppi servizi di guardia e dal frequente frazionamento dei reggimenti in diverse caserme. Questi inconvenienti riducono a soli 18 mesi il tempo effettivamente impiegato per l'addestramento del soldato, nel quale andrebbe privilegiato - anche per la cavalleria - l'addestramento al combattimento e non l'addestramento formale, con grandi vantaggi dal punto di vista morale, perché l'eccesso di addestramento formale e di servizi di guardia annoiano e prostrano moralmente e fisicamente il soldato. Perciò conviene avere il coraggio di romperla colle vecchie abitudini, sopprimere gran parte delle guardie ad honorem , ridurre allo stretto necessario tutte le altre, e fare maggior uso di piantoni e di pattuglie volanti. Bisogna far intendere una buona volta a tutti quei stabilimenti e municipii i quali sono continuamente ad assediare il Governo per avere corpi di guardia e distaccamenti a maggior vantaggio del dazio consumo, che i soldati non si tengono sotto le armi per farli stare perennemente in fazione, ma per addestrarli a far la guerra, e non per far la guardia ad ogni cassa e ad ogni carcere. Come fanno gli Stati Uniti d'America, come fanno gli Svizzeri, i quali non hamw esercito, a provvedere alla sicurezza è pubblica, a guardare i loro stabilimenti, a garantire Le Loro casse? Una buona polizia, carceri ben fatte, buone ser-

8 Fiorenzo Bava - Bec;caris, Considerazioni sull'onlinamento militare del Regno, in "Rivista Militare Italiana" Anno XIV - Voi. Il aprile 1869, pp. 108- 159, Voi. Il giugno 1869, pp. 468-494 e Voi. lii luglio 1869, pp. 34-53.


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rature, e soprattutto gente proba ed accorta a sorvegliare questi servizii, bastano nel più dei casi per assicurarne l'andamento. Noi ci siamo talmente abituati a vedere ovunque un soldato colla baionetta inastata, che non si sa più concepire, per esempio, come alla porta di un teatro non sia indispensabile una sentinella. Nelle circostanze di feste, corsi, corse, mascherate, ecc., allora sono reggimenti in massa che si chiamano per assicurare l'esecuzione delle fantastiche idee dei signori direttori di detti .\pettacoli; quei signori in simili circostanze si credono in obbligo, per divertire il colto pubblico, di vessare l 'inclita guarnigione.

Anche per il Bava - Beccaris le possibilità finanziarie impongono di avere il minimo numero di soldati in pace, per poi mobilitarne il massimo numero in guerra; tuttavia ricordando la cattiva prova data nella guerra del 1866 dalla 2a categoria della classe 1844, non ha molta fiducia nel rendimento della 2" categoria in generale, proponendo di ridurla a 30.000 uomini sui 90.000 dell'intero contingente annuale di leva, e di destinarvi gli individui in particolari condizioni di famiglia o molto istruiti. Tenendo conto di questi limiti, egli propone dei livelli di forza inferiori a quelli previsti dal Ricotti (esercito permanente a reclutamento nazionale di 195.000 uomini in pace e 300.000 in guerra; riserva territoriale a reclutamento locale, formata con le tre classi più anziane di 1a categoria e le tre più anziane di 2" categoria). Di tale riserva territoriale dovrebbero far parte i "cacciatori delle Alpi" [cioè gli alpini - N.d.a.], da costituire per la difesa immediata delle vaJli e il presidio delle fortificazioni. Sempre a proposito delle unità "cacciatori'' il Bava - Beccaris ritiene conveniente mantenere i reparti bersaglieri soprattutto per le loro tradizioni e per il prestigio che si è guadagnato questo corpo speciale, "quantunque l 'utilità assoluta di un corpo di cacciatori, dopoché si va estendendo l'uso delle armi rigate di precisione a tutta la fanteria, possa essere molto contestata". A suo parere, non potendo essere più impiegati come cacciatori o avanguardie i bersaglieri potranno costituire una riserva scelta (torneremo su questo problema). All'estremo opposto del "giovane" maggiore Bava - Beccaris si colloca il "vecchio" generale Alfonso La Marmora, che pur essendo stato tra i principali responsabili dell'infelice esito della guerra del 1866 non si ritira dall'agone politico e parlamentare, ma anzi rimane fieramente sulla breccia cogliendo ogni occasione per difendere il suo operato e il modello (pur rivelatosi sbagliato e perdente) di allora, e, al tempo stesso, per attaccare duramente i suoi successori al Ministero, dimostrandosi sos~nzialmente fedele al vecchio modello francese di "esercito di qualità" a lunga ferma, con poche riserve.


IX - DALL'OROINAMEN 'IU RICOTTI ALL'ORDINAMENTO FERRERO

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All'inizio del 1871, cioè subito dopo la presentazione in Parlamento dei citati progetti di legge del Ricotti, il La Marmora pubblica un opuscolo che contiene una vera e propria requisitoria diretta sia contro il Ricotti che contro i Ministri dal 1866 al I 870. 9 Del loro operato condanna tutto, meno il reclutamento nazionale e la ripartizione del contingente annuale di leva in 1• e 2• categoria. Daremo pertanto, qui di seguilo, una sintetica panoramica delle principali questioni da lui affrontate. Egli lamenta che si è trascurato di compiere un'approfondita inchiesta sulle cause della sconfitta del 1866, sicché la Commissione per il riordinamento dell'esercito nominata subito dopo la guerra e i Ministri suoi successori hanno imboccato una strada completamente sbagliata. Infatti Dal 1866 al /869, mentre si avvicendavano ben 5 Ministri della guerra, si sciolsero non solo i quinti e sesti battaglioni Idei reggimenti] e altre truppe formate solo per la guerra, ma si sciolse un battaglione per ciascun reggimento di linea, e una compagnia per cia,çcun reggùnento bersaglieri. Si propose La distruzione (sic) di 8 reggimenti di fanteria. Si abolirono i gran Comandi [cioè i Comandi periferici aJ livello di Corpo d'armata] per rimetterli un 'altra volta, a patto che non comandassero. Si volevano distruggere le brigate; e sono distrulle quasi di fatto. Si abolirono i comandanti di circondario. Si distrussero quasi tutti i collegi [militari 1- Si distrusse ogni apparenza di sentimento religioso ....

Per il La Marmora questi provvedimenti così distruttivi sono tanto più gravi e ingiustificati, visto che anche con un bilancio più ridotto sarebbe stato possibile conservare la struttura dell'esercito. In quanto al Ricotti, io speravo anzitutto che il nuovo Ministro avrebbe saputo resistere alla smania, r.he invase presso di noi il civile come il militare, di voler tutto rifomiare, cambiare, abbattere, srnnvolgere e distruggere. Mi lusingavo eh'egli non avrebbe partecipalo agli errori, ai pregiudizi e agli equivoci coi quali, specialmente dopo il /866, si è falsata l'opinione pubblica dentro e fuori l 'esercito. Ora però mi accorgo dalle leggi che ha presentato, e dalle ragioni che addusse in Parlamento per sostenerle, e più ancora dai decreti che sta provocando e attuando con una energia e un co-

9 Alfonso La Marmara, Quattro discorsi ai colleghi della Camera sulle condizioni dell'esercito italiano, Firenze, Voghera 1871 (questi "discorsi" non sono mai stati pronunciati dal La Marmora).


IL PENSIERO MILITARE I; NAVALP. ITAUANO - VOL. lii ( 187~1915) -TOMO I

raggio degni di migliori concetti, che se egli non è l'autore di quegli errori ed equivoci ha però contribuito a mantenerli e svilupparli. w

Tra "tali errori ed equivoci'' il La Mannora indica la pretesa, che ritiene a torto infondata, di stabilire delle analogie tra i noti difetti della mobilitazione francese del 1870 e l 'andamento della nostra nel 1853 e 1866, che invece a suo giudizio ha dato buoni risultati. In merito, giudica il modello prussiano adatto solo per la Prussia, quindi ritiene che non è il caso di farne un oggetto di culto, come fa il Ricotti. Passa poi a criticare fortemente la gestione della campagna del 1870 per la liberazione di Roma da parte dello stesso Ricotti, che oltre a intromettersi continuamente nelle operazioni ha mobilitato il corpo d'operazione in modo estremamente confuso e dannoso per l'intero esercito, tra l'altro acquistando 17.000 cavalli senza che ciò fosse necessario, per rivenderli subito dopo. Segue l'accusa allo stesso Ricotti di aver compiuto una serie di rovinose riforme addirittura "a furia di bombe": e che bombe! Colla prima si offesero più o meno 45 battaglioni di bersaglieri. La seconda portò lo scompiglio nell'artiglieria da campagna e in quella di piazza, e seppelliva in pari tempo l'intero corpo del treno. La terza distrusse tutto il servizio sedentario. La quarta feriva gravemente 6 intieri reggimenti bersaglieri. La quinta mellevafuori combattimento un battaglione per ogni reggimento di linea. La sesta faceva saltare in aria 80 batterie ... di tamburi. 11

Non basta: ha abolito "i distintivi di colore tra i vari corpi", utilissimi per sviluppare lo spirito di corpo, ha cambiato in peggio le uniformi, ha aumentato e complicato le pratiche burocratiche, ha introdotto sul modello prussiano i corpi d'armata su due divisioni "che con le mostruose compagnie a 250 uomini fecero così mala riuscita nel 1848", ha istituito i distretti, " i quali altro non sono che mostruosi depositi distaccati" [di reggimento], e infine ha voluto creare "un secondo esercito" da mobilitare in caso di guerra, che non potrà mai svolgere i compiti che gli sono richiesti. Invece per il La Marmara la vecchia organizzazione da lui creata, che ora il Ricotti vuole "distruggere", è molto più adatta alle nostre condizio-

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ivi, pp. 7-8. ivi, p. 92.


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ni e al tempo stesso applica i principi del sistema prussiano meglio di quella del Ricotti stesso. Perciò essa ha dato buona prova tanto nella guerra del 1859 che nella guerra del 1866, quando in poche settimane è riuscita a concentrare nella valle del Po 250.000 uomini. La Commissione del I 866 della quale faceva parte anche il Ricotti, del resto, lo ha ammesso .... Con queste idee il La Marmara dà il meglio di sé nella critica al secondo esercito e ai distretti, ma il peggio su tutti gli altri aspetti. Il criterio di base della riforma del Ricotti - diminuire la forza alle armi in pace e accrescere quella mobilitata in guerra - è da lui bocciato senza remissione; tuttavia non ha tutti i torti quando causticamente afferma che "il secondo esercito è il più maiuscolo di tulti gli equivoci che la fantasia italiana potesse inventare; e quanto ai comandi distrettuali, saranno tanti centri di una inevitabile e inestricabile confusione". 12 Sul primo argomento il La Marmara osserva che: - lo scopo di portare immediatamente tutto l'esercito di l3 linea del tempo di pace sul teatro delle operazioni, che il secondo esercito dovrebbe facilitare, sarebbe meglio raggiunto se si fossero conservati gli 80 battaglioni attivi (uno per reggimento) che il Ricotti ha sciolto, lasciando così in tempo di pace i reggimenti su 3 battaglioni e non più su 4; - le truppe del secondo esercito, formato in 40 distretti dell'interno in caso di guerra, non potranno mai servire da sostegno e rincalzo ali' esercito di P linea, che si troverà in vicinanza della frontiera; - in guerra i reggimenti subiscono perdite in misura diversa, quindi ciascun reggimento dovrebbe contare subito su una propria riserva. Ma se queste riserve sono riunite in un secondo esercito, "sia pur apparecchiata La sua congegnatura amministrativa quanto volete, sarete obbligati a disfarlo prima che riceva il moto, e quel che è peggio appena Lu avrebbe ricevuto''; - se il primo esercito venisse sconfitto, il secondo esercito, anche ammesso che fosse riuscito a formarsi, non sarebbe certo in grado di prendersi la rivincita; - se fosse veramente possibile formare subito un discreto secondo esercito, sarebbe gravemente colpevole quel generale in capo che lo lasciasse in seconda linea, anziché riunirlo al primo aumentando così le probabilità di vittoria. Il La Marmara passa poi ai distretti, osservando che essi hanno gli stessi compiti degli antichi depositi distaccati di reggimento, da lui sciolti

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ivi,

r- 177.


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nel I849 prevedendone la costituzione solo in caso di guerra e il più possibile vicino ai reggimenti. Tali enti, infatti, mancavano di Quadri per l' istruzione delle reclute; erano lontani dai battaglioni e quindi rendevano molto difficile ai colonnelli controllarne il funzionamento; a fronte del gran numero di pratiche burocratiche mancavano di personale contabile; davano luogo a infinite querelles con i battaglioni e a continui movimenti di personale e materiale con i battaglioni stessi. Tutti questi inconvenienti - prosegue il La Marmora - risultano molto peggiorati nei nuovi distretti, perché mentre gli antichi depositi dovevano far fronte alle esigenze di un solo reggimento, gli attuali distretti devono ''fare il servizio di deposito di Leva al contingente di prima categoria, vestirlo e dargli una prima istruzione militare", per poi inviare il personale a tutti i reggimenti di qualunque Anna che si trovano nella loro circoscrizione. Di conseguenza avranno ancor più carenza di personale, anche perché mentre il colonnello quando il deposito era alle sue dipendenze aveva tutto l'interesse a inviargli dei rinforzi, ora ciò non avviene più, e molto di malavoglia aderirà all'ordine del Comando divisione di trasferire loro del personale. Aumenteranno i contrasti tra Enti indipendenti come reggimenti e distretti, e anche le pratiche burocratiche tra il deposito e i diversi reggimenti risulteranno accresciute richiedendo più personale, né la contabilità potrà mai essere in ordine. Senza contare che quando esistevano i depositi di reggimento i richiamati affluivano in reparti ove, almeno in parte, ritrovavano i loro superiori, mentre ora "ogni battaglione distrettuale non sarà che una massa di sottufficiali e soldati provenienti da corpi diversi", c he non si conoscono. I rimedi da lui indicati per eliminare gli inconvenienti prima descritti si compendiano, in buona sostanza, in un ritorno ali' antico. In particolare: - "bisogna cambiare e riformare il meno possibile, poiché anche Le migliori riforme richiedono tempo e un concorso di circostanze che bene spesso non si presentano"; - anche a tal fine occorre "dare alle divisioni la massima solidità e compattezza possibile, fornirle di tutto l'occorrente, impedire che siano smembrate e sminuzzate", e soprattutto mantenerle costituite fin dal tempo di pace, come è stato fatto (da lui) per la guerra del 1859 e come invece non è stato fatto, con notevoli inconvenienti, per la guerra del 1866. Anche i cambi di sede dovrebbero avvenire per divisione e non più per reggi mento; - le riserve vanno previste solo a livello reggimento. Le brigate o divisioni di riserva sono un assurdo, perché i Quadri superiori sono tutti necessari nell 'esercito di 1• linea. Se si alimenteranno bene i


IX - UALL' ORDLNAMl:iN'IU Rl<:CJITI ALL'ORDINAMENTO FERRERO

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reggimenti di 1a linea, si avrà un esercito efficiente; in caso diverso non si avrà né un esercito di l" linea né un esercito di 2" linea; - come in passato le reclute dovrebbero affluire direttamente ai reggimenti, che provvederebbero alla loro vestizione, istruzione ecc.. Almeno in caso di guerra dovrebbero essere costituiti dei depositi di reggimento, dove affluirebbero i richiamati e dove si formerebbero - come nel 1866 - i quinti e sesti battaglioni di riserva, dando piena facoltà ai colonnelli di tra<;ferirvi personale dai reparti di 1" tinea o viceversa. Le critiche del La Marmora non si fermano a queste interfacce, mariguardano diversi altri argomenti: ne riepiloghiamo brevemente alcuni, destinati a essere dibattuti fino alla grande guerra.

CORPI D 'ARMATA. TI Ricotti intende costituirne in caso di guerra IO, su due divisioni; ma i loro comandanti - osserva il La Marmora in tempo di pace "non comandano" c sono in realtà degli Ispettori. Inoltre se si mantiene il corpo d'armata su due sole divisioni, in guerra si deve prevedere un anello intermedio tra il comandante in capo e i IO comandanti di corpo d'armata, cosa che non sarebbe necessaria se il corpo d ' armata fosse su 3, 4 o 5 divisioni. A parte questo problema, il La Marmora è decisamente contrario alla loro composizione fissa; solo in ba<;e alla situazione è possibile stabilire di quante divisioni devono essere composti. BERSAGLIERI E FANTERIE SPECIAU. Il Ricotti ha ridotto i bersaglieri da 45 a 40 battaglioni, aumentandone però i reggimenti a IO (uno per corpo d'armata). Poiché ormai anche la fanteria sa combattere in ordine sparso, il Ministro ritiene che i bersaglieri abbiano fatto il loro tempo come fanteria speciale, anche perché hanno ormai lo stesso armamento della fanteria. Al contrario il La Marmora rimane un convinto sostenitore dell'utilità delle fanterie speciali e dell'ordine chiuso della fanteria in combattimento. A suo parere tutti gli eserciti hanno sentito la necessità di avere truppe leggere per proteggere le ali, minacciare i fianchi del nemico e controllare gli intervalli, specie se in terreno difficile: tutti compiti " che i nostri bersaglieri facevano ammirabilmente, e che una truppa di linea non potrà mai fare senza perdere della sua solidità". Pertanto specie in Italia è necessario avere due specie di fanteria, l'una appositamente organizzata e istruita per comhanere nonna/mente in ordine J.parso, bene inteso che, occorrendo, sappia combattere in or-


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dine chiuso; ed a ciò i nostri bersaglieri corrùpondevano perfettamente. L'altra specie di fanteria dev 'essere bensì esercitata nell'ordine sparso, ma checché se ne dica, deve essere impiegata a combattere in tale ordine il meno possibile (sic). Né mi si venga a dire che ora la linea fa tutto cià che possono fare i bersaglieri. E ' impossibile; accade del fisico degli uomini ciò che avviene del fisico dei cavalli. Voi trovale cavalli che fanno più di 100 Km nelle 24 ore, e altri che non ne fanno 30. 11

Senza dedicare alcuna attenzione ai riflessi del continuo aumento del1' efficacia delle armi da fuoco, il La Marmora mostra di avere grande fiducia anche nell 'utiUtà dell'addestramento scolastico e met:canico di piazza d'armi, sostenendo a torto che di tutte le difficoltà, le quali si incontrano nei combattimenti, la ma,?giore è quella di conservare uniti e ordinati i soldati, e che specialmente non è possibile di mantenerli calmi sotto il fuoco, e impedire inoltre che non isprechino le munizioni, senza la presenza degli ufficiali; risultato che non si raggiunge se questi non abbiano, non dirò soltanto con gli esercizi di piazza d'arme, ma certo moltissimo con questi, acquistato sui loro subordinati il necessario ascendente. 14

Per questo egli critica il nuovo regolame nto di esert:izi per la fanteria, nel quale "l'ordine chiuso, se non abolito, è intieramente rovinato" (sic). Per mantenere in combattimento - e specialmente dopo una mischia - l' ordine e la precisione, è invece necessario che ciascuno si riconosca, eritrovi facilmente il proprio posto; per queste ragioni "non i pedanti, ma i grandi capitani'' stabilirono, oltre alle bandiere, segnali di colore diverso per i reggimenti, che sono stati aboliti dal Ricolti insieme con le numerazioni, favorendo così la confusione [in questo il La Marmora ha ragione - N.d.a.]. Sempre per l'importanza da lui attribuita all'ordine, alla precisione e all'addestramento di piazza d'armi, il La Mannora deplora anche la riduzione dei granatieri da 8 reggimenti a 2, perché ritiene che uomini di alta statura "stanno assai male nelle file della linea, e fanno scomparire gli altri di statura più bassa"; inoltre riunendoli in appositi reggimenti si facilita la vestizione e si ha il vantaggio di regolare meglio l'andatura nelle marce per ciascun ti po di fanteria.

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ivi, pp. 97-98. ivi, pp. 106-107.


IX - DALL'ORDINAMENTO RICOTTI ALL'ORDINAMENTO l'ERRERO

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FORMAZIONE DEI QUADRI E DEI SOTTUFFICIAU. Gli strali del La Marmora si dirigono soprattutto contro i Quadri del secondo esercito così come sono previsti dal Ricotti. La truppa eterogenea e raccogliticcia dei battaglioni distrettuali sarebbe inquadrata da ufficiai i di carriera costretti a suo tempo a lasciare il servizio e richiamati controvoglia quando non hanno più Je attitudini necessarie; questi ufficiali sarebbero coadiuvati da subalterni già volontari di un anno richiamati, cioè "da signori avvocati, procuratori, negozianti, possidenti che hanno compiuto un anno di servizio in un reggimento qualsiasi, e si sono fatti trmferire dalla Ja alla 2a categoria, pagando una data somma". Il modeJio prussiano non vale, perché in Prussia i sottufficiali non possono diventare ufficiali: ma nell 'esercito italiano non è giusto, né conveniente che "individui che hanno servito per un anno solo, e probabilmente con tutti i loro comodi", rubino il posto ai sottufficiali più capaci e meritevoli, che si sono adattati a percorrere una lenta carriera con la speranza di diventare ufficiali [anche qui i] La Marmora ha ragione - N.d.a.]. Anche sulla formazione dei Quadri dell' esercito di P linea la condanna dei provvedimenti del Ricotti da parte de La Marmora è totale: - è stata abolita la surrogazione, in tal modo "mandando in aria" la cassa militare e le risorse finanziarie per favorire il riassoldamento; - compromettendo il reclutamento dei Quadri, sono stati sciolti due dei tre collegi preparatori per ufficiali esistenti, e tutti e tre quelli preparatori per sottufficiali, che pure avevano dato ottimi risultati; - in Italia non è possibile pagare meglio i sottufficiali, visto che gli stessi ufficiali sono mal pagati. D'altra parte non è possibile, come più volte proposto, assicurare loro un impiego civile come si fa in Prussia, perché "i Dicasteri [civili] mettono sempre avanti una quantità di difficoltà insormontabili''; - i giovani di famiglie agiate scelgono sempre di meno la carriera militare, mentre quelli che l'hanno incominciata, anche se appartenenti a famiglie di ottime tradizioni militari, se ne vanno. E' sperabile che cessi questa deplorevole tendenza; ma dopo l'abolizione dei collegi militari preparatori, dove si prenderanno gli ufficiali? - un interrogativo analogo vale per i sottufficiali: aboliti anche per loro i collegi preparatori, impedito l'avanzamento, non ve ne sarà nessuno che vorrà rimanere alle armi; e se con la ferma ridotta a 3 anni si otterranno soldati mediocri, si avranno dei sottufficiali "mediocrissimi"; - con l'abolizione delle mense ufficiali decisa dal Ricotti si è gravemente minato lo spirito di corpo, perché gli ufficiali non stanno più


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insieme, dopo il servizio, tra di loro; né è mai stato possibile prevedere l'avanzamento per corpo, come si usa in altri eserciti. Il Ministro Ricotti non può lasciare che passi sotto silenzio una pubblica condanna - così totale e autorevole - del suo operato e dei suoi progetti, che sarebbe letta e commentata nell'esercito, e che per di più arriva a pochi mesi dalla sua nomina. Pertanto chiede che i contenuti della pubblicazione del La Marmora siano discussi alla Camera; ciò avviene nelle sedute del 18, l 9 e 20 maggio 1871, i cui resoconti sono stati poi pubblicati a parte a cura della Camera dei deputati. 15 Nella sua lunga replica il Ricotti molto opportunamente ricorda al La Marmora che i membri della Commissione e i Ministri suoi successori dal 1866 al 1870 hanno partecipato alla guerra del 1866 e ne hanno tratto i dovuti ammaestramenti: possibile che tutti quanti abbiano trascurato quell'esperienza, e siano riusciti solo a "distruggere" l'esercito? Egli respinge poi l'accusa di aver voluto copiare il modello prussiano anche quando non era il caso, dichiarandosi anch'egli convinto che di un modello straniero bisogna prendere solo ciò che si adatta meglio alle nostre specifiche condizioni; quindi "io credo di dover imitare la Prussia L-. -1 particolarmente nella parte morale, nella istruzione, nel riparto in grande delle forze [cioè nel1a costituzione dei due eserciti - N.d.a.], e nel procurarsi la fa cilità di passare dal piede di pace al piede di guerra". Quest'ultima è stata la sua principale preoccupazione; tutte le modifiche che ha introdotto l'hanno avuta come obiettivo, anche se non è possibile costituire in Italia "corpi d 'esercito e divisioni territoriali, che sono La base di quel sistema" .16 Detto questo il Ricotti contesta l'esaltazione della mobilitazione del 1866 che ha fatto La Marmora, il quale parla di 250.000 uomini concentrati nella valle del Po "in poche settimane". Intanto i 250.000 uomini erano in realtà 200.000, differenza non di poco conto; in secondo luogo tra questi 200.000 uomini ve ne erano 32.000 di 2" categoria della classe 1844, poco istruiti e con il morale basso, perché era stata ritardata la chiamata della l3 categoria della classe 1845 che avrebbe dovuto essere chiamata nel gennaio 1866, quindi "quei soldati dicevano: noi di seconda categoria del 1844 dobbiamo andare alla guerra, mentre quelli di prima categoria della classe 1845 non sono ancora stati chiamati".

15 Cfr. Discorsi alla Camera dei depulali nella tomata del I 8. 19 e 20 maggio 1871 a proposito del libro "Quattro discorsi del generale La Marmora sulle condizioni dell'esercito italiano", Firenre, Tipografia della Camera dei deputati l 871. 16 ivi,pp. 32-33.


IX - DAU .'ORDINAMENTO RICmTI ALL'ORL>INAMENTO l'ERKE!.O

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Quel che più importa, secondo il Ricotti nel 1866 le "poche settimane" per la mobilitazione non sono state affatto poche; la chiamata alle armi delle classi in congedo è cominciata il 28 aprile, e anche se la guerra è stata dichiarata il 19 giugno e il piede di guerra è stato ordinato il 20, dal 28 aprile al primo scontro (24 giugno: Custoza) sono passate ben 8 settimane. Al confronto, la Prussia nella guerra del 1870 ha iniziato la chiamata delle classi in congedo il 16 luglio, ma il 2 agosto, cioè solo 16 giorni dopo, alla frontiera c'era già un esercito prussiano di 450.000 uomin.i pronto a iniziare operazioni offensive: "Che immensa differenza"! Il Ricotti ne deduce che il sistema di mobilitazione tanto vantato dal La Marmora andava forse bene nel 1959 e nel 1866, ma non più nel 1870; i tempi sono cambiati. Senza contare che, come ha potuto constatare di persona quando il 16 maggio 1866 ha preso iI comando di una divisione che era già sul Po, la mobilitazione del 1866 ha avuto anch'essa i suoi inconvenienti. Il materiale, soprattutto per merito del Ministro Della Rovere (del quale egli è stato direttore generale) era disponibile; ma il male fu che [come nell' esercilo francese del 1870 - N.d.a.J non si trovava ben ordinato e ripartito, per poterlo far giungere prontamente ai corpi. Un corpo arrivava al magazzino; vi prendeva i carri, ma non trovava adeguato numero dei finimenti, e restava così coi carri senza le bardature; oppure riceveva carri e bardature senza i cavalli. Così è successo non solo nel 1866, ma anche un po' l'anno passato nella limitata mobilizzazione che si effettuò [per la liberazione di Roma]. lo capisco che uno Stato che non ha danari debba fare economia: se non potrà dar 20, darà 10 per reggimento; ma quando questa roba c'è e la non si può impiegare utilmente, questo è per me il difetto capitale dell'amministrazione; difetto che fu sentito terribilmente nell'ultimo disastro dei francesi ... 17

E' proprio per evitare inconvenienti del genere che sono stati istituiti i distretti militari, i quali fungono da depositi per tutti i reggimenti, e dopo aver armato, vestito ed equipaggiato coloro che sono chiamati allearmi nella rispettiva circoscrizione li inviano direttamente ai reggimenti attivi là ove si trovano. In passato invece, anche se il reggimento di destinazione era dislocato vicino alla località ove risiedeva, un soldato chiamato alle armi per essere armato, vestito ecc. doveva anzitullo raggiungere il de-

17

ivi, p. 37.


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posito del reggimento (generalmente molto lontano) e poi tornare al reggimento. Inoltre "come è successo nel 1859 e 1866, il numero degli individui chiamati in servizio era così considerevole, che detti depositi venivano tutto ad un tratto a. prendere delle proporzioni enormi". 18 Sempre per facilitare l'afflusso delle reclute e la mobilitazione, ogni reggimento di fanteria di 1• linea viene ora alimentato da tre province diverse (una del Nord, una del Centro e una del Sud). Questi accorgimenti - conclude il Ricotti - "anche se non si può adottare un sistema territoriale completo, al quale non potremo venire che tra qualche a.nno" 19, facilitano sia la ripartizione delle reclute, sia il passaggio dal piede di pace al piede di guerra, senza rinunciare a] "benefico amalgama di individui delle diverse province del regno". Non è possibile applicarli ai reggimenti granatieri, che essendo composti da uomini di alta statura, devono continuare a ricevere le reclute e i richiamati da tutta Italia. Per questo essi sono stati ridotti da 6 a 2 reggimenti, peraltro sufficienti per inquadrare gli uomini di statura superiore a m. 1.80, che se fossero incorporati nei reggimenti di fanteria, creerebbero "qualche difficoltà per la vestizione e l'approvvigionamento; e qualche sconcio nell'apparenza stessa dei reggimenti" [ma non nell'impiego dei reparti sul campo, come per il La Marmora - N.d.a.]. 11 Ricotti, comunque, non li vede con un occhio molto benevolo: "dichiaro francamente che avrei preferito di non aver dovuto mantenere neppure questi, poscia.ché per me i reggimenti di granatieri non sono altro che reggimenti di fanteria con uomini di statura più alta. Non c'è mai stato e non vi sarà mai per tali reggimenti alcun motivo di distinzione o di preferenza". 20 I suddetti "motivi di distinzione e di preferenza" egli assicura invece di volerli mantenere per i bersaglieri, anche se il La Marmara e altri sostengono il contrario: ha voluto solo cambiarne l'impiego tattico prevedendolo al livello di corpo d'armata anziché a quello di divisione, perché "nel 1859 e 1866 io ho veduto che i lbattaglioni] bersaglieri ripartiti nelle divisioni erano impiegati come fanteria di linea e nulla più". Mantenendoli riuniti in un reggimento aJ livello di corpo d'armata, invece, essi possono agire "anche d'accordo con la cavalleria nelle operazioni più difficili e faticose" e possono ricevere altri compiti speciali per i quali è necessario l'impiego di truppe ottime, senza sconvolgere la divisione. 21 Anche la critica del La Mar-

•• ivi, p. 65. '" ivi, p. 48. 20 ivi, p. 49. 21 ivi, p. 46.


IX - OAI..L'OROINAMEN·m RJCUITI ALL'ORDINAMENTO FERRERO

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mora al corpo d'armata su due divisioni per il Ricotti non ha fondamento; questo organico serve solo a fornire un riferimento per la preparazione di pace. Ciò non impedirà affatto al comandante in capo in guerra di formare i corpi d'armata come meglio crede; sarebbe però molto più difficile fare il contrario, cioè formare dei corpi d'armata su due divisioni partendo da corpi d'armata su tre o quattro. Né è vero che gli organi di demoltiplica in guerra tra comandante in capo e i IO corpi d'armata sono stati trascurati: "non solo ho pensato a questo, ma ho anche previsto la mobilitazione di tre eserciti. ciascuno formato di tre o quattro corpi d'esercito". 22 li Ricotti, comunque, ritiene che la costituzione del corpo d'armata su due divisioni sarebbe conveniente anche in operazioni, purché le divisioni siano, anziché su 8-10.000 uomini, su 14-15.000 uomini. Questa preferenza per un minor numero di unità ma più consistenti, la mantiene anche nel rintuzzare l'accusa del La Marmara di avere "distrutto" 80 battaglioni di fanteria: ciò che conta per lui è la forza complessiva dell'esercito sia come quantità che come qualità; il modo con cui essa è ripartita conta assai di meno. Nella fattispecie, "con l'organico da me stabilito [cioè reggimenti su 3 battaglioni invece di 4, però mantenendo la forza invariata - N.d.a.l ho raggiunto un aumento di consistenza e di.forza". A suo avviso i reggimenti su tre battaglioni forniscono parecchi vantaggi: tre battaglioni sono il massimo che un colonnello può controllare e comandare in guerra; rendono più agevole la mobilitazione; consentono di mantenere la forza delle compagnie a livelli sufficienti per una buona istruzione (100 uomini, contro i 60 circa dei reggimenti su 4 battaglioni). Con una forza esigua, infatti, è ben difficile ottenere che i capitani comandanti di compagnia si interessino personalmente dell'istruzione come dovrebbero. Il Ricotti si dichiara invece d'accordo con il generale La Marmara sulla necessità di salvaguardare lo spirito di corpo evitando il più possibile di trasferire ad altro reggimento gli ufficiali promossi al grado superiore: ennesima esigenza fin da allora riconosciuta, ma mai soddisfatta, nemmeno nel XX secolo. Sulla vexata quaestio della promozione dei sottufficiali al grado di ufficiale il Ricotti diversamente dal La Marmara è ac;sai poco propenso a questa soluzione. Sono in parecchi - egli afferma - a condividere la sua opinione che il sistema di promuovere i sottufficiali !al !,'fado di ufficiale] per semplice turno di anzianità non è più ammissibile, e direi che ciò non è né mo-

22

ivi, p. 55.


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raie, né conveniente agli stessi promossi, perché già avanzati in età e privi dell'istruzione necessaria per fare carriera, essi sono poi fermati al grado di capitano. Per tal modo si dà loro una posizione, quasi direi, più infelice di quella che avrebbero nella posizione di sottufficiali, o se otterrebbero e gratificazioni e conveniente aumento di pensione, che vale ad assicurare loro un avvenire onorato e sicuro. 23

Ad ogni modo, senza modificare la legge di avanzamento, prima di promuovere un sottufficiale al grado di ufficiale lo si dovrebbe mandare per uno o due anni alla scuola militare di Modena "per procurargli l 'istruzione voluta, ed abilitarlo a sostenere esami, se non identici a quelli degli allievi dei corsi regolari, almeno tali da metterlo in condizione dicoprire degnamente il grado di ufficiale". 24 Meritano, infine, un cenno le preoccupazioni del Ricotti sul problema dell' uniforme, per il quale oltre alle critiche del La Marmora vi è stata anche un'interpellanza parlamentare. Egli premette che " il nostro soldato, a detta di tutti, è il peggio vestito d 'Europa, perché non ha che il cappotto. Questo sia o non sia, si è certo peraltro che il nostro soldato è quello il di cui vestiario costa di più"; ma non ne fa - come sarebbe pure necessario una questione di estetica, di immagine, di benefico orgoglio e prestigio, bensì una questione esclusivamente di economia. Tl nostro soldato è costretto a portare tutto l'anno il cappotto, che costa 35 lire; in tre anni di ferma consuma due cappotti, per un totale di 70 lire. In nessun esercito, escluso l'inglese, il soldato veste tutto l'anno un capo di tal valore; se invece oltre a un cappotto si potesse dare al soldato una giubba di minor costo (da 20 - 25 lire), si spenderebbe in totale per vestirlo 60 lire e non 70, "ottenendo ancora il vantaggio di avere i nostri soldati un po' meno indecorosamente vestiti". 25

Altre voci importanti del dibattito: C.M., C.F., Angioletti, Pastore, Mariotti, Corsi, Nunziante, Sani

Un insieme di questioni nuove e vecchie come quelle toccate dal Ricotti (e noi abbiamo qui citato solo le più importanti) è tale da suscitare non pochi "diversi pareri" . 23 24 25

ivi, p. 39. ivi, p. 40. IBIDEM.


IX - l)ALL' OROINAMENTO RICOITI ALL'U~DINAMENTO FEIU!ERO

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Già nello stesso maggio 1871 compare un articolo sulla Nuova Antologia a firma C.M. (non è escluso che si tratti di Carlo Mezzacapo, fratello di Luigi futuro Ministro) nel quale si attacca violentemente sia il Ministro Sella che il Ricotti e i suoi predecessori. 26 Secondo l'autore dopo il 1866 e fino alla guerra franco - prussiana è prevalsa anche nell'esercito la politica delle economie ad oltranza del Ministro delle finanze Sella. Pochi gli oppositori di questa politica che ha compromesso la sicurezza dell'Italia; in ossequio a tale politica i Ministri della guerra del periodo (e in particolar modo il Govone) hanno iniziato "la distruzione" dell'esercito, che sarebbe stata portata a compimento se non fosse improvvisamente sopraggiunta la guerra franco - prussiana; e allora "bisognò pure, benché a malincuore, risolversi ad armare, rifacendosi in furia e alla peggio ciò che si era disfatto. E si diè mano a quella stupenda operazione finanziaria, già tante volte esperimentata nell'esercito, di ricomprar oggi per cento ciò che ieri s'era venduto per dieci". AI Mini stro Ricotti l'articolista riconosce il coraggio di aver accettato di raccogliere l'eredità di una situazione così compromessa, e anche ingegno e attività; ma al tempo stesso, "al vedere soldati prodi e ancora validi condannati a riposo, al vedere i corpi tutti o sciolti o trasformati e con altro riparto mutati i poteri de' Comandi e l'esercito sconvolto da cima a fondo, e tra ' ruderi del vecchio gettate le fondamenta di due nuovi eserciti; è doloroso il pensare che tutto si atterri, tutto si crei per la dispotica volontà di uno solo, senza il concorso od il consiglio degli uomini più cari all'esercito e più rispettati". Oltre tutto il Ricotti sta compromettendo la stabilità della quale l'Istituzione militare ha tanto bisogno, perché sconvolgendo ogni cosa con "gli arhitr'ì ministeriali conosciuti sotto il nome di Reali decreti", implicitamente autorizza il successore a fare altrettanto in senso contrario, con pari dispotismo. Prima di entrare nel merito del suo operato, comunque, C.M. intende stabilire "la prevalenza della questione militare" specie per l'ItaUa: "qualche milione aggiunto al bilancio della guerra non sarà la rovina della nostra.finanza", perché i nùlioni delle spese militari rientrano sotto altra forma e con tanto interesse all'erario e le braccia tolte ai campi rientrano più forti e più operose. Di conseguenza, commettono un errore gravissimo quegli econonùsti che ritengono il nostro esercito "un enorme consumatore che produce una voragine immensa che tutto inghiotte e nulla rende". C.M. non ha nemmeno dubbi sull'opportunità di applicare anche in Italia il sistema prussiano vittorioso, basato sui tre capisaldi mobilizzazio26

C.M., Armi e denaro, in " Nuova Antologia", pp. 164-176.


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ne, numero e qualità. Peraltro, a suo avviso è un errore attribuire tutto il merito dell'efficienza militare prussiana al sistema di reclutamento regionale, trascurando altri fattori che hanno avuto il loro peso. Tanto più che il sistema regionale ha due difetti: l'impossibilità di concentrare nel primo periodo della mobilitazione un buon numero di forze là ove occorre, e la costituzione di tanti piccoli eserciti regionali con pregiudizio per la sicurezza e l'unità dello Stato. Questo sistema era eccellente per la Prussia ma non lo sarà per la nuova Germania, dove potranno sorgere dei conflitti, e a maggior ragione per l'Italia. Egli approva l'orientamento del Ricotti ad escludere il reclutamento regionale dall'esercito attivo, prevedendolo solo per il secondo esercito; ma qui termina il suo consenso, e inizia un attacco ancor più veemente di quello del La Marmora al secondo esercito: a fronte della semplicità del sistema prussiano, mettete, se vi dà l 'animo, il nuovo progetto infelicissimo, complicato di due r.ategorie, l'una con quattro anni sotto le armi riducibili a tre, l'altra con soli cinque mesi che al pari delle accademie si fanno o non si fanno. E così in guerra avremo un terzo almeno del/' esercito attivo e due terzi dell'esercito provinciale composti di ,?ente affatto nuova al mestiere. Per me confesso che nello sforw dell'inno guerriero sento la tosse. Purtroppo è la tosse del ministro delle finanze [ ... j. La seconda categoria è un 'ingiustizia fondata sulla cecità della sorte [dovuta al sorteggio - N.d.a.(, ma più sulla cecità di coloro che le dan fede [ ... ]. Quando la seconda categoria comincia ad avere un valore perché capace di entrare in campagna con qualche idea d'istruzione e di disciplina, conviene congedarla perché, passato il tempo utile, la guerra è finita, o talmente pregiudicata da non lasciare più speranza. La seconda categoria non è risultato di scienza militare, è un pessimo provvedimento finanziario a danno dell'esercito. E poiché sifa credere al Paese [come fa il Ricotti - N.d.a.l ch 'egli ha un esercito di 700.000 uomini (poco meno della Prussia), perché non si aggiunge, come onestà vuole, che di questi settecento trecento soli sono soldati, tutti gli altri coscritti e nulla più?

A questo vero e proprio siluro ne segue un altro indirizzato al volontariato di un anno e al cambio di categoria a pagamento: privilegio di censo, quest'ultimo, che oltre a ledere gravemente il principio del servizio militare obbligatorio per tutti è "tanto più odioso se si confronti con gli scarsi favori concessi ai volontari [di un anno] senza soldo, cioè all'intelligenza". Se vogliono continuare gli studi, quest'ultimi sono costretti ad ar-


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molarsi per un anno a loro spese, prima ancor di conoscere l'esito del sorteggio per la loro classe. Dopo un anno devono sostenere un esame per l'idoneità a] grado di ufficiale, e dopo l'esame devono pagare ancora una tassa per il passaggio alle categorie in congedo. Invece un giovane sfaccendato ma danaroso può attendere tranquillamente l'esito del sorteggio di leva senza dover trascorrere un anno sotto le armi; e se viene sorteggiato per la l" categoria può pagare per passare subito nella 2", se invece la sorte lo favorisce ha il vantaggio di rimanere in quest' ultima categoria senza nessun onere finanziario. Così stando le cose, è facile prevedere che il numero dei volontari di un anno sarà assai esiguo, perciò "l'esercito continuerà a essere privo della classe agiata che potrebbe dargli un po' di prestigio". Non è conveniente mantenere una simile ingiustizia solo per poter disporre dei fondi necessari per il riassoldamento dei soldati e sottufficiali che desiderano rimanere sotto le anni anche dopo il servizio di leva: questi mezzi oltre ad essere "poco decorosf' sono anche scarsamente efficaci. Per evitare tutti questi inconvenienti secondo C.M. non c 'è altro mezzo che prevedere un' unica categoria (cioè la chiamata alle armi con ferma completa dell'intera classe annuale di leva, e non della sola 1" categoria). A suo parere tutti, compreso lo stesso Ministro Ricotti, riconoscono la convenienza di questo provvedimento: l'unica opposizione viene da] Ministro delle finanze. Eppure, non è vero che la categoria unica richiederebbe quelle enormi spese delle quali si parla: "la forza sotto le armi eccederebbe d'un sesto quella che ora prescrive la legge [ ... ). 1àle eccedenza sarebbe in parte coperta dai risparmi sulla seconda categoria e da quelli che ci promette la riforma dell 'amministrazione militare a cui già attende, per quanto si assicura, l'instancabile operosità del generale Ricotti" ... L'articolo di C.M. è seguìto a breve distanza di tempo da un aJlro ancor più interessante, a firma C.F. (probabilmente Cecilio Fabris). 27 Pur senza mostrare alcuna simpatfa per le tesi dei conservatori, vi si commenta la polemica tra La Marmora e Ricotti, a ciascuno attribuendo dei meriti, ma anche dei torti; soprattutto, vi si analizza criticamente l'iter parlamentare che ha preceduto la prima legge Ricolti del luglio 1871. Secondo C.F. sugli attacchi del La Marmora ha pesalo troppo l'istintiva esigenza personale di evitare che venisse demolita a colpi di piccone gran

27 C.F., /.,e rifonne militari e la legge 19 luglio 1871, in "Nuova Antologia" Voi. IX sellembre 1871, pp. 82-116.

xvm - Fa~c.


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parte della sua opera riformatrice ai tempi dell'esercito piemontese. Ciò non toglie che sulJa condotta della campagna del 1870 per la liberazione di Roma La Marmora ha avuto ragione. Anche se si trattava di una campagna "politica", il Ricotti avrebbe dovuto lasciarne la responsabilità a chi aveva il comando, e comunque la sua direzione è stata "infelicissima"; inoltre "i servizi sussidiari lasciarono non qualcosa, ma tutto a desiderare". La Marmora ha avuto tutti con sè anche quando "rimproverò al Ricotti la improvvida riforma del corpo dei bersaglieri e la soppressione dei tamburi; argomenti sui quali Ricotti ri~pose poco e male". Infine secondo C.F., il Ricotti non ha giustificato in modo convincente nemmeno il mancato approfondimento delle cause della sconfitta di Custoza da parte dei sette generali (compreso lui stesso) che dopo iI 1866 "s'erano creduti così informati dei molteplici accidenti della campagna e di tutte le loro cause, da poter accingersi alle riforme senza indagine di sorta alcuna". Sulla cruciale questione de i distretti, anche se non ne è il caso C.F. dà, invece, ragione più al Ricotti che al La Marmora. Quest'ultimo - egli afferma - ha scritto "pagine stupende" sugli inconvenienti dei depositi distaccali, alle quali il Ricotti "nulla rispose e nulla poteva rispondere, ma al tempo stesso nulla doveva ", perchè i distretti da lui creati erano cosa diversa [ma la critica del La, Marmara si rivolgeva appunto ai distretti, che a suo dire non erano altro che una riedizione dei vecchi depositi distaccati da lui sciolti, dei quali riproducevano e anzi aumentavano gli inconvenienti -N.d.a.J. Anche la risposta del Ricotti al La Marmora sulla forza dei battaglioni e deJle compagnie è stata "lucida ed efficace"; ma il Ricotti ha segnato dei punti decisivi a suo favore a proposito degli ordinamenti e della mobilitazione per la guerra del 1866, per i quali il La Marmora non ha dimostrato a sufficienza che gli ordinamenti poi così profondamente mutati dal Ricotti hanno veramente dato buona prova. Riguardo al dibattito parlamentare, C.F. vede con simpatia l'intervento del generale Mezzacapo che sostiene la categoria unica; ma questo non gli impedisce di a11inearsi sostanzialmente sulle posizioni del Ricotti, nell'intesa che le riforme dovrebbero essere tali da dimostrare che, "sebbene la base più ovvia e materiale del sistema sia l'ordinamento territoriale, essa non è l'unica, e restano possibili temperamenti mediante i quali si possono ottenere effetti se non identici, almeno di poco minori" (qui noi sottolineiamo che è effettivamente questa la questione essenziale, dalla quale dipende la riuscita o il fallimento degli ordinamenti da Ricotti in poi). C .F. ricorda poi che mentre in Senato i generali Menabrea e Pettinengo concordano con il Ricotti sulla necessità di mantenere la 2• categoria, il gene-


IX - UALL'ORDINAMENTO RICOTTI 111.1 .'0Rlll NAMl::NTO FERRERO

rale Angioletti sostiene una 2" categoria talmente sui generis da poter essere meglio incluso tra i fautori della categoria unica. Propone infatti di arruolare per la ferma di leva completa solo gli elementi in possesso di elevali requisiti psicofisici, destinando gli altri alla milizia provinciale o distrettuale che dir si voglia; in tal modo l'assegnazione alla 2• categoria deriverebbe da una scelta in base alle doti fisiche e non più dal sorteggio. L' Angioletti osserva inoltre che gli esentati dal servizio militare per ragioni legali (cioè per ragioni diverse dall'inidoneità fisica) sono in numero troppo elevato, quasi pari a quello degli appartenenti alla 1• categoria: la loro esenzione è giusta in tempi di pace, ma in guerra sarebbe "in{?iustissima ". Giudizio sul quale C.F. è pienamente d 'accordo, lamentando anch'egli l'eccessiva larghezza delle esenzioni per ragioni di famiglia, che diminuiscono di un buon terzo di giovani validi e intelligenti le nostre file in tempo di guerra. C.F. non accenna alla replica di Ricotti alle tesi dell' Angioletti nella seduta del Senato del 13 marzo 1871, che riassumiamo perchè è assai interessante. Secondo il Ministro, se si seguissero i criteri di reclutamento indicati dati' Angioletti si otterrebbe un esercito numericamente debole per la ta categoria e pessimo per la 2". Farebbero parte dell 'esercito di I" linea anche le classi più anziane, composte da uomini già con famiglia che hanno lasciato il servizio da troppo tempo, il cui rendimento sarebbe molto incerto (a Sadowa, Metz e Sedan hanno vinto soldati prussiani giovani); a sua volta l'esercito di 2• linea sarebbe interamente composto da personale totalmente inesperto e non addestrato, con non più di due mesi di servizio militare. Nel suo progetto, invece, tutti questi inconvenienti non si verificano: in caso di guerra l'esercito di 1" linea verrebbe completato con soldati di 1• categoria richiamati delle classi più giovani, mentre l'esercito di 2• linea acquisterebbe maggiore solidità, perchè i giovani privi d' istruzione militare o quasi vi sarebbero almeno affiancati da soldati anziani ed esperti. Il Ricotti non concorda con I' Angioletti nemmeno sull'opportunità di aumentare le esenzioni per difetti fisici: un provvedimento del genere sarebbe solo un incentivo a procurarsi delle mutilazioni volontarie allo scopo di evitare il servizio militare, come già avviene in parecchi casi. Inoltre ali' Angioletti e a coloro che lamentano l'eccessivo depauperamento della fanteria obietta che l'artiglieria e la cavalleria hanno esigenze d' impiego tali da richiedere oggettivamente elementi scelti; questo vale anche per i bersaglieri, perché si può discutere sull 'opportunità di conservarli ma non sulla necessità di destinarvi, fino a quando esistono, personale con speciali requisiti. Anche la paga maggiore della fanteria per le Armi a cavallo è


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giustificata con l'impegno particolare che richiede il governo dei quadrupedi. Infine il Ministro ammette i gravi inconvenienti addestrativi e disciplinari che comportano i troppi impegni extra-militari dell'esercito, ma è dell'avviso che nella realtà politico-sociale del tempo non se ne possa fare a meno, tanto più che l'aumento dei Carabinieri richiederebbe 20-30 milioni. C.F. dedica un certo spazio anche alle tesi del generale Pastore, che si oppone al progetto Ricotti perchè, a suo parere, non esiste un'organizzazione in grado di istruire ed educare a sufficienza i 750.000 uomini che il Ministro vorrebbe mettere in campo. Proprio per questo - obietta C.F. - bisogna cominciare ad impostare subito una nuova organizzazione, che poi in un secondo tempo potrà essere consolidata e migliorata. C.F. dissente dal Pastore anche sulla questione della ferma di leva obbligatoria per tutti, che secondo il Pastore sarebbe "una durezza alla quale il Paese non è preparato", mentre l'affrancazione e la surrogazione sarebbero "insieme diritti naturale ed acquisiti" che vanno rispettati per non provocare gravi danni sociali. A queste idee, che fanno del Pastore un sostenitore della vecchia e superata formula di esercito a lunga ferma per pochi, C.F. obietta che non è affatto dimostrato che la hravura di un soldato sia in relazione alla durata della ferma; ma anche se esistesse tale relazione, ormai per ragioni finanziarie e sociali la ferma non può superare i tre anni. Comunque, sia essa gravosa o no la leva è una necessità inderogabile, è una vera e propria tassa che in quanto tale non può sottrarsi a criteri di giustizia e di equità, perché sarebbe ingiusto continuare a far gravare il servizio militare solo sui non abbienti. Anche l'affrancazione e la surrogazione non sono diritti naturali ma al contrario li ledono, oltre tutto privando l'esercito "d'intelligenza e di interessi conservatori", e ingrossandolo "di venduti proletari" che occupano il loro posto, dei quali parecchi fini scono nelle carceri o nelle compagnie di disciplina. Infine C.F. puntualizza che il volontariato di un anno non danneggia le carriere liberali e che la ferma di tre anni non fa affatto mancare di braccia i campi e le officine, visto che in Italia sono molti gli oziosi; in ogni caso, tre anni di ferma sono sempre meglio degli otto o dei cinque del passato ... L'ordinamento Ricotti non tocca una questione essenziale, che riguarda direttamente l'efficienza dell'esercito ma va distinta dalle modalità di reclutamento: il sistema dei continui cambi di guarnigione specie per i reggimenti di fanteria e cavalleria. Eppure nel 1875, quando ancora egli regge il Ministero, la Rivista Militare pubblica un articolo a firma del capitano Temistocle Mariotti (compilatore sotto gli auspici dello stesso Ricotti del Regolamento di disciplina 1872) nel quale si critica tale siste-


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ma e si propone l'adozione di sedi fisse. 28 Secondo il Mariotti i cambi di guarnigione sono un'eredità dei tempi antichi, nei quali si voleva mantenere l'esercito separato dalla società. Al momento questo obiettivo è stato superato, ma essi sono rimasti sia "per la forza della tradizione", sia perchè si attribuiscono loro alcuni vantaggi, come un'equa ripartizione tra tutti i reggimenti della permanenza nelle le sedi migliori, la conservazione nei reggimenti dell'abitudine a spostarsi rapidamente, la possibilità di frenare la tendenza al matrimonio degli ufficiali con pregiudizio dello spirito militare, il concorso alla fusione morale della nazione non ancora raggiunta. Il Mariotti dimostra, però, che questi vantaggi sono più apparenti che reali_ L'equo godimento dei vantaggi delle sedi migliori non è raggiungibile, perchè sono molti i reparti in distaccamento e i comandi, reparti e uffici che non vengono mai spostati. L'organizzazione e condotta del movimento di un reparto in pace è ben diversa da quella tipica delle operazioni di mobilitazione; né è vero che l'ufficiale stando sempre in sedi fisse diventa meno efficiente in caso si mobilitazione_ Più i matrimoni sono scoraggiati, più aumenta il concubinaggio; comunque è se mai nelle sedi fisse che il colonnello riesce a controllare meglio la condotta privala dei suoi ufficiali. Infine la fusione morale della nazione non si può ottenere certo con i cambi di guarnigione: si ottiene se mai con il reclutamento nazionale. Se i vantaggi sono illusori, a parere del Marioui gli inconvenienti sono molti, sia di carattere materiale che morale. Tra i primi egli indica i seguenti: - le forti spese dello Stato per il trasferimento dei reparti, senza contare il maggior deperimento dei materiali; - i disagi e le maggiori spese personali degli ufficiali (a fronte di una paga già scarsa), e le maggiori spese anche dei corpi, per indennità e spese varie, riadattamento dei locali ecc. ; - difficoltà e complicazioni nei rapporti tra corpi e distretti per quanto attiene alla mobilitazione e all'afflusso delle reclute, che con le sedi fisse sarebbe possibile semplificare notevolmente; - notevole aggravio del lavoro burocratico del Ministero per mantenere aggiornata la situazione dei trasferimenti, aumento delle pratiche burocratiche tra corpi, Ministero e autorità locali, frequenti disservizi postali in seguito al trasferimento - non sempre tempestivamente conosciuto - dei reparti.

28 Temistocle Mariotti, Il sistema di guarnigione più adatto alle condizioni politiche e militari dell'Italia, in "Rivista Militare Italiana" Anno XX - Voi. m agosto 1875, pp. 170-203.


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Tra gli inconvenienti di carattere morale il Mariotti indica "tutti gli effetti della vita nomade", cioè la mancanza di una corrente di affetto e simpatia tra reggimento e popolazione locale, la vita più precaria, meno agiata e meno comoda del reparto e degli individui, la necessità per gli ufficiali di adattarsi e òadattarsi continuamente alle particolari abitudini di ogni guarnigione o divisione territoriale, l'ulteriore diminuzione (di circa un mese per ogni trasferimento) del già scarso peòodo di istruzione utile per la truppa, l'aumento del numero di ufficiali che chiedono di essere trasfeòti dai reparti operativi ai distretti (che hanno sedi fisse), l'impossibilità per i componenti di un corpo di affezionarsi alla loro caserma e di vedervi descritta nei muri e nei cortili la loro storia, con benefici effetti sul morale e sullo spirito di emulazione [inconveniente, quest'ultimo, lamentato anche dal Marselli - N.d.a.]. Tenendo presente che le sedi fisse consentirebbero, tra l'altro, di disimpegnare il genio militare dalla manutenzione e consegna delle caserme e di affidare la manutenzione ai corpi stessi riducendo notevolmente le spese, il Mariotti propone un ingegnoso sistema che riduca al minimo i trasferimenti periodici, mantenendoli solo per le "sedi cattive" e assicurando la gravitazione delle forze ai confini di Nord-Est e Nord-Ovest, senza più riguardo a interessi locali, pressioni di deputati ecc. che spesso inducono a scegliere le sedi all'interno degli abitati dove le esigenze militari passano in seconda linea. Il bilancio più attendibile dell'operato del Ricotti è quello dello scrittore coevo generale Carlo Corsi, 29 il quale fa un' osservazione fondamentale, pienamente condivisibile: " il ministro Ricotti non solo non avea le mani libere, ma le avea molto Legate". Infatti "si trovò stretto tra due contrarie correnti di necessità ed esigenze impostegli da una potenza superiore alla volontà sua, e per grandissima parte inconciliabili...". Avrebbe dovuto applicare il modello prussiano, ma senza ricorrere al reclutamento regionale e con la minor spesa possibile. Molto probabilmente non ha ritenuto sufficiente la modesta somma concessagli dal Parlamento (150 milioni all'anno, poi 165): forse sperava nelle assegnazioni straordinarie. Comunque sia, ha ripetutamente dichiarato di accettare la subordinazione delle esigenze militari all'equilibrio del bilancio dello Stato: "questo, a parer nostro, fu il maggiore degli errori o torti di lui. Ma se avesse parlato

29 Carlo Corsi, Dello svolgimento delle istituzioni militari nell'ultimo decennio , in "Rivista Militare Italiana" Anno XXV - Voi. I gennaio 1879. pp. 5-35 e febbraio 1879, pp. 145-1 72; ID .. Italia 1870-/895, Torino, Roux e Frassati 1896. pp. 116-166.


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altrimenti, come avrebbe potuto andar d'accordo coi colleghi e col Parlamento?". Quindi "non potendo fare ciò che gli pareva il meglio possibile, s'è adattato a fare il meno peggio possibile", lottando "contro la miseria (diciamo almeno contro la povertà)". li Corsi elenca poi una serie di benefiche riforme introdotte dal Ricotti nei vari campi, e - rara avis - concorda anche con i provvedimenti da lui adottati nei confronti dei bersaglieri. Ha preso atto della diminuzione della loro importanza come fanteria speciale e della diminuzione della loro qualità, a causa dell'eccessivo incremento numerico del corpo. Li ha conservati come fanteria scelta, anche perché se avesse proposto di scioglierli, tutti gli sarebbero stati contro. E' stata saggia anche la sua idea di trasformare i 5 enormi reggimenti bersaglieri di prima, che esistevano solo di nome, in 10 veri reggimenti su 4 battaglioni, con beneficio della disciplina e dell' amministrazione, e una base più larga di avanzamento per gli ufficiali dei bersaglieri e di fanteria. Al Ricotti, però, il Corsi addebita anche errori o omissioni non di poco conto. Tra di essi: - la concessione del grado militare - a parità di diritti e doveri con gli ufficiali d'Arma - ai medici, veterinari, commissari e contabili. Di fronte a questo provvedimento "l 'amor proprio degli ufficiali combattenti nefu profondamente colpito [... l, Veder messi alla pari i ser-

vigi di penna coi servigi di spada li ferì nel vivo"; - l'istituzione del volontariato di un anno, benefica in Prussia ma non in Italia, dove si concede il grado di sottotenente a un giovane che ha compiuto un solo anno di servizio militare assai blando e dopo un esame d'idoneità "necessariamente molto supe,jiciale ", mentre invece coloro che intraprendono la carriera militare regolare prima di raggiungere lo stesso grado devono compiere un lungo e severo ti rocinio. L' oggettiva necessità di Quadri per la milizia mobile avrebbe potuto essere soddisfatta ugualmente dando a questi volontari un grado intermedio tra quello di ufficiale e quello di sottufficiale, creato apposta per loro; - la difettosa organizzazione dei distretti, alla cui istituzione erano pur favorevoli gran parte degli esperti; ma il Ministro Ricotti "ha so-

vraccaricato d'attributi e faccende i Comandi dei distretti, fuor di misura col personale loro assegnato, sino a render quasi impossibile i/funzionamento regolare di taluni di essi nei momenti più gravi". Un altro errore del Ministro, ancor più grave, è stata l'assegnazione a tali enti - proprio nella delicata fase del loro primo impianto - di Quadri scadenti;


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- per la riduzione della durata della ferma a tre anni l'esempio prussiano non vale. Quello è un popolo omogeneo, dove ciascuno nasce e cresce soldato. Da noi invece, gli uftìciali hanno accettato la riduzione della ferma a tre anni come "una triste necessità", perchè non basta per l'educazione morale e disciplinare del soldato italiano; - per le stesse ragioni l'istruzione e l'educazione militare nelle università e nelle scuole da noi non servono affatto per formare buoni Quadri e ridurre la ferma: "siamo noi, per esempio, gente così concorde, virile, disciplinata, che la famiglia, la scuola, la città, possono tener luogo di caserma? Vedete che rispetto a sé, agli altri, alla legge negli uomini e nei giovinetti!". Il Corsi non omette nemmeno di fare alcuni importanti rilievi nel campo logistico-amministrativo. Egli fa carico al Ministro Ricotti di non aver fatto fronte al bisogno universalmente sentito di decentramento e semplificazione dell 'amministrazione militare, ripartendo anche tra i Comandi inferiori 1'azione direttiva che continua ad essere esercitala unicamente dal Ministero della guerra [eppure Napoleone III aveva indicato l'eccessivo accentramento delle attribuzioni del Ministero della guerra come una delle cause della sconfitta del !R70 - N.d.a. l. Anche dopo la ricostruzione dei Comandi generali - egli osserva - " l'Amministrazione rimase tuttavia accentrata nel Ministero e sopraccarica di carteggi, conteggi e lungaggini " . 30 Non sono possibili, a suo parere, mutamenti radicali nel sistema di contabilità militare senza che prima venga sostanzialmente modificato il sistema di contabilità generale dello Stato; "ma nessun vincolo di tale genere impediva di migliorare il procedimento burocratico in tutte le altre sue parti, con risparmio di persone, di tempo e di spesa". Un ultima critica del Corsi riguarda l'organizzazione e funzionamento dei Servizi di sanità e di commissariato in guerra e il coordinamento dei Servizi: il corpo sanilario e quello di commissariato hanno nelle istruzioni per la formazione e la mobilitazione dell'esercito una guida pei loro uffici di guerra, ma difettano di personale, di materiale e di preparazione per quelli ufficii,· talchè se dovessero mobilitarsi in pochi giorni si trove-

30 In effetti il R.D. 27 novembre 1873, n. 1706, c he modifica le competenze dei comandanti gene rali fissate in precedenza dallo stesso Ricotti e c riticate dal La Mannora. poco innova in proposito c non trasferisce ai Comandi generali poteri reali del Ministero e/o <le i Comandi divis ione territoriale.


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rebbero oggi imbarazzati forse più che nel JX66, a motivo delle tanto aumentate esigenze dei loro servizii di prima e seconda linea, in ragione della maggior vastità e complicatezza del nuovo assetto militare a paragone dell'antico. Qui pure troviamo dinanzi quei due grandi problemi del tempo e del denaro, quest'ultimo specialmente. Dobbiamo pur pensare che non dipende dalla volontà del Ministro L'avere e tenere in servizio in tempo di pace tanti medici e commissari, :.pecialmente nei gradi inferiori e mezzani, quanti ne chieg1:ono i quadri di guerra: ma insomma vediamo che rimane molto ancora da fare per que lle due partite, e singolannente per la seconda, che ci si presenta imperfetta sotto ogni aspetto. Ci domandiamo se il Ministro Ricotti abbia cercato e trovato quell'aiuto che a ciò gli abbisognava nel suo direttore generale dei servizi amministrativi, e se non avrebbe giovato al servizio e a sé medesimo, per la sua opera ordinatrice, istituendo in tempo di pace quella Intendenza generale che figura nel quadro di guerra dell 'esercito e mettendola a capo dei servizi di sanità e commissariato.

Questo accenno del Corsi tocca una questione essenziale, che il Ricotti trascura e che non compare bene nemmeno nel dibattito che precede, accompagna e segue le sue riforme: non solo L'eccessivo accentuamento delle procedure logistico-amministrative (con un robusto cordone ombelicale tra reggimenti e Ministero rimasto in gran parte invariato rispetto ai tempi del vecchio esercito piemontese), ma anche la mancanza di coordinamento tra i vari Servizi e l'eccessiva complicazione delle procedure logistico-amministrative. Sempre in tema di questioni amministrative ci limitiamo a citare altre due voci critiche: quella del generale e deputato Alessandro Nunziante duca di Mignano (ex-ufficiale barbarico e membro anch ' egli della Commissione del 1866), che precede di poco la gestione Ricotti ma alla quale il Ministro non presta alcuna attenzione, e quella del colonnello commissario e deputato Giacomo Sani. 3 1 Il Nunziante dà inizio a un filone di pensiero assai presente - e insistente - fino alla prima guerra mondiale, anche se non sempre di qualità e profondità corrispondente al1e buone intenzioni: come ottenere, con risparrnio di spesa, un esercito efficiente e abbastanza numeroso. intende in-

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Cfr. Economie senw riduzione - riforme amministrative dell'esercito italiano con gli appunti e le risposte del luogote11e11te generale Duca di Mignano, Napoli, Grande Stab. Tipogr. Dc Angelis 1870, e Giacomo Sani, Discorsi pro1tuncia1i alla Camera dei deputati ( 1882), Roma, Tip. Eredi Botta IRX2.


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fatti dimostrare che è possibile un risparmio di ben 30 milioni "senza diminuire l'Esercito di una sola bajonetta, sol che l'attuale sistema si informi ai principì di una sana amministrazione", e per giunta garantendo al soldato vestiario e vitto migliori. Egli non crede affatto - come tutti i Ministri de] tempo - che per realizzare delle economie, sia necessario ridurre le forze: a suo avviso "la causa principua del deficit.finanziario, anche per quanto è attinente all'Amministrazione della guerra, risiede unicamente nel sistema d'amministrazione"e non "nel fare economie fino all'osso". A supporto delle sue tesi il Nunziante si richiama soprattutto al model1o amministrativo dell'ex-esercito napoletano al quale ha appartenuto, che a suo dire sarebbe privo dei difetti che rivela il sistema in vigore nell'esercito unitario, ereditato dal vecchio esercito piemontese. Egli critica anzitutto il sistema vigente dei controlli amministrativi, sulla carta assai numerosi (Intendenza della divisione; Corte dei Conti; Ispezioni periodiche) ma poco efficaci, come dimostrano i numerosi rilievi della Corte dei Conti da lui citati. Per essere efficace, il controllo dovrebbe essere indipendente; ma ciò in pratica non avviene, perchè le note caratteristiche dei funzionari d ' Intendenza e del personale contabile delle divisioni sono compilate dai rispettivi comandanti militari, sì che "un Intendente militare conviene sia quasi remissivo al generale della divisione". Inoltre nelle riunioni dei consigli di amministrazione dei reggimenti/corpi non interviene, come avveniva nell'esercito napoletano, un funzionario d' Intendenza, che in tal modo oltre a controllare acquistava anche una buona conoscenza dei problemi interni del corpo. Prevedibilmente anche il Nunziante sostiene che occorre semplificare e decentrare i congegni burocratici, e inoltre riunire in nuovi e chiari regolamenti, facilmente consultabili, le disposizioni amministrative al momento "sperperate in più che 60 volumi" fdel "Giornale Militare Ufficiale" - N.d.a.), la cui consultazione richiede notevoli perdite di tempo. Egli propone perciò la nomina di una Commissione, che dovrebbe studiare una serie di provvedimenti, tra i quali: - la costituzione alle dipendenze del Ministero di un'Intendenza generale "a capo di tutta l'amministrazione militare " e con alle dirette dipendenze le Intendenze di divisione, che controllerebbero I ' operato amministrativo dei reggimenti/corpi prima di tutto con la presenza di un loro funzionario alle riunioni dei consigli di amministrazione dei corpi stessi; - l'assegnazione alla stessa Intendenza del compito di effettuare la revisione della contabilità e di formare il bilancio militare, al momento affidato al Ministero;


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- il decentramento delle attività esecutive, dal Ministero ai livelli inferiori, lasciando al Ministero stesso solo l'alta direzione e l'emanazione di direttive; - l'assegnazione all'Intendente di livello superiore - e non più ai comandanti militari - della compilazione delle note caratteristiche del personale d'Intendenza; - il riordinamento delle attività ispettive, da assegnare ad apposito organismo centrale. Con questi provvedimenti secondo il Nunziante già si potrebbe risparmiare un milione e ridurre alla metà il personale del Ministero della guerra, che al momento è proporzionalmente più numeroso di quello del Ministero francese; ma i risparmi più consistenti potrebbero essere ottenuti riorganizzando con criteri analoghi a quelli già in vigore nell'ex-esercito napoletano le varie branche logistico-amministrative. Non ci è possibile dare conto in modo dettagliato dei singoli argomenti trattati; ba-;ti dire che il generale exnapoletano dimostra che il costo del mantenimento di un soldato italiano del momento è superiore a quello del soldato dell'esercito francese e ancor più del soldato dell'ex-esercito napoletano, benché sia molto peggio vestito e alimentato. In particolare un reggimento napoletano di pari forza di quello italiano del momento costava 137.000 lire in meno, che moltiplicate per gli 80 reggimenti di fanteria darebbero circa 11 milioni di risparmio effettivo. Sulla base di questi orientamenti generali, il Nunziante indica una serie di provvedimenti specifici nei vari settori, ai quali più a torto che a ragione, e con troppo ottimismo, attribuisce il valore di veri e propri "toccasana". Li riepiloghiamo brevemente, perchè toccano i punti nodali dell'organizzazione militare di ogni tempo. SISTEMA DI CONTABILITA' DEI CORPI. Al momento prevede circa mille specchi, che oltre a comportare notevoli spese per stampati e a richiedere numerosissimo personale per la loro compilazione, già dimostrano che "l'amministrazione giace sotto il segno della confusione, non è semplice e non è organizzata con le buone regole economiche". Di conseguenza i corpi non hanno una benintesa libertà d'azione nel campo amministrativo, ma siccome manca un efficace controllo, ugualmente ''fanno ciò che non dovrebbero fare"; lo dimostra il debito delle masse, che è di quasi 6 milioni. Tutti questi inconvenienti potrebbero essere eliminati "se si abolissero Le tante masse e compensatamente si stabilissero due assegni - assegno d'uomini cioè e assegno di mantenimento uomini e quadrupedi, dando ai corpi ogni Latitudine nella propria gestione", con pagamento mensile di assegni, spettanze e competenze per uomini e quadrupedi ai consigli d'ammi-


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nistrazione dei corpi, che renderebbero i conti nel mese successivo. Così facendo basterebbero pochi registri e poche carte periodiche (in tutto 25) facili da compilare da parte delle compagnie e tali da rispecchiare chiaramente, in ogni momento, la situazione del reparto. VESTIARIO E CALZATURE. Per il vestiario che riceve all'atto del suo arrivo alle armi e per la sua manutenzione e sostituzione il soldato di leva italiano riceva un assegno (variabile a seconda deUe Armi) che costituisce la massa individuale detta di decanto. Il vestiario rimane di sua proprietà e all'atto del congedo lo porta con sé, dopo che gli è stato fatto il calcolo finale della sua massa individuale, che lo può rendere creditore verso la massa del reggimento (e in tal caso il suo credito gli viene subito liquidalo) o debitore. All' atto dell'eventuale richiamo alle armi dovrebbero presentarsi ancora con il suo corredo, ma ciò non avviene quasi mai obbligando l'Amministrazione a rivestirlo di nuovo. Così come non avviene quasi mai che il soldato congedante sia in credito, sia per la scarsa cura che ha in genere del corredo, sia per la scadente qualità degli oggetti di corredo, sia per il cattivo funzionamento del servizio riparazioni; ma il debito di solito non viene pagato dall'interessato, quindi il tutto si traduce in una perdita per l'amministrazione e in complicazioni contabili. Il vestiario del soldato francese costa molto meno del nostro, che è assai peggio vestito visto che, eccezion fatta per l'artiglieria e la cavalleria, ha solo "un cappotto insufficiente per il freddo, una sola maglia di lana che usa in 9 su 12 mesi in danno della nettezza e dell'igiene, senza divisa [quindi porta il cappotto estate e inverno - N.d.a.J , con un unico pantalone di panno per tutte le stagioni.. ". Questo inconveniente per il Nunziante dimostra che l'assegno che riceve il soldato è notoriamente insufficiente, e che il sistema della massa di deconto non funziona, specialmente per i militari con fem1a breve (tant'è vero che i Carabinieri risultano tutti in credito di massa). Bisognerebbe invece adottare il sistema in uso nell'esercito francese ed ex-napoletano, con il quale il vestiario rimane di esclusiva proprietà dello Stato e viene ceduto al soldato stabilendone la durata in giornate d'uso, con le riparazioni a carico dei consigli di amministrazione e dei comandanti di compagnia. 11 costo del vestiario è ulteriormente aumentato con l'antieconomica gestione da parte della stessa Amministrazione militare di magazzini generali che forniscono ai corpi gli effetti di vestiario, calzature, bardature ecc. prodotti dai magazzini stessi; con questo sistema gli oggetti prodotti e inunagazzinati costano molto di più che se fossero acquistati direttamente da appaltatori civili.


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VETTOVAGLIAMENTO. Al momento i corpi, diversamente da quanto si faceva in passato, acquistano sul posto i generi per il rancio stipulando contratti direttamente con i venditori, senza ingerenza da parte dell' Amministrazione militare. Con questo sistema le masse d'ordinario (cioè del rancio) dei corpi sono costantemente in passivo, con notevoli differenze di prezzo dei generi da una guarnigione all' altra e senza assicurare al soldato un vitto sufficiente e ben confezionato. Perciò il Nunziante propone di adottare il nuovo sistema austriaco degli appalti stipulati non dai corpi ma dai magazzini delle sussistenze militari, con la confezione di un solo pasto al giorno, più abbondante e di migliore qualità. SANJTA' MILITARE. La sua gestione comporta "immense spese", perchè gli ospedali militari a fronte del maggior costo di una giornata di ricovero rispetto a quella di un ospedale civile, sono troppo numerosi. Pertanto il Nunziante propone di ridurli da 46 a 27, ricoverando i soldati in servizio in località dove mancano ospedali militari in ospedali civili , come del resto si sta già facendo ; in tal modo sarebbe possibile risparmiare altri 2,5 milioni. Gli inconvenienti sulla disciplina dell'esercito e sulla disponibilità di letti per la popolazione civile lamentati da taluni, per il Nunziante non esistono. GJUS11ZJA MJL11'ARE. Per il Nunziante i reati comuni anche se commessi da militari dovrebbero essere giudicati da tribunali civili e le relative, eventuali pene scontate in carceri civili. Solo i reati militari dovrebbero essere giudicati da Consigli di guerra ai vari livelli e da un Tribunale Supremo Militare diversamente organizzato. Potrebbero così essere aboliti i Tribunali e i reclusori militari (le condanne al carcere militare verrebbero scontate nei forti), con un risparmio di oltre 1,4 milioni. A talune obiezioni della stampa, secondo la quale i Tribunali militari sarebbero "un'istituzione sacra" che forni sce maggiori garanzie costituzionali dell'antico sistema dai Consigli di disciplina "condannato dal progresso ", il Nunziante replica che le sue proposte sono appunto fondate sul diritto comune e sullo Statuto, tant'è vero che corrispondono ai risultati de11'8° Congresso giuridico tedesco; né si capisce perchè non dovrebbero rappresentare una garanzia i Consigli di guerra composti da "ufficiali competentissimi a giudicare i reati sotto l'imperio delle leggi che ad essi sono familiari ".

32 Botti, La logistica del 'esercito italiano ( 183 1- 198 1) - Voi. ficio Storico 1991 , Parte I e Parte 11.

n ( 186 1 - 19 18), Roma, SME - Uf-


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LAVORI DEL GENIO MILITARE. Richiedono anch'essi un più efficace controllo amministrativo, perchè "la ~pesa di progettazione, direzione e contabilizzazione dei lavori viene a costare più di 6/10 dei lavori stessi".

Il Nunziante conclude chiedendo al Ministro della guerra del tempo (Govone) la nomina di una Commissione che esamini le sue proposte e se necessario le modifichi. Propone inoltre al Ministro di affidare al suo comando un nucleo di truppe delle varie Anni, onde sperimentare le soluzioni da lui caldeggiate. Né queste proposte, né i contenuti del suo opuscolo sono seriamente presi in considerazione; eppure, come si evince più nel dettaglio anche dalla nostra recente opera sulla logistica militare,32 non c'è dubbio che i difetti e le lacune denunciati dal Nunziante esistevano e sarebbe stato necessario correggerli anche con una certa priorità, ciò che non è mai avvenuto. Anzi: il Ricotti con lo sciogl imento del corpo d 'Intendenza istituito dal La Marmora nel 1853 e con la militarizzazione dei Servizi (criticata, come si è visto, dal Corsi) segue una logica del tutto opposta a quella del Nunziante, che avrebbe voluto accrescere i poteri dell'Intendenza facendone piuttosto un corpo indipendente e parallelo alla catena di comando. E' doveroso riconoscere che i provvedimenti del Ricotti trovano ampio fondamento negli inconvenienti emersi nelle precedenti guerre a causa delle non chiare dipendenze e della scarsa disciplina degli organi dei Servizi, e nei frequenti contrasti tra organi di comando operativo e organi direttivi dei Servizi, solo assimilati al grado militare. Tuttavia il Ricotti fa del corpo di commissariato militare una sorta di Intendenza in nuce, riconoscendogli una non ben definita preminenza con l 'Art. 37 della legge ordinativa 1873, che recita: "il Corpo del Commissariato militare per delegazione dell'Amministrazione centrale della guerra e sotto l'autorità dei Comandanti Generali e di quelli delle Divisioni, sopraintende ai servizi delle sussistenze, dei foraggi, del casermaggio e di altri approvvigionamenti [quali? - N.d.a.] per l'Esercito". In un importante discorso del maggio 1882 alla Camera sul quale ritorneremo in seguito, il colonnello commissario e deputato Giacomo Sani, che date le sue conoscenze specifiche ed esperienze può dirsi la voce dei Servizi logistici fo Parlamento, riconosce che il Ricotti istituendo oltre al commissariato anche un corpo di ufficiali contabili con mansioni esecutive ha rispettato il principio amministrativo fondamentale della separazione tra direzione, esecuzione e controllo, e ha avuto anche il merito di non modificare troppo la secolare preminenza dell'Intendenza, il cui erede do-


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vrebbe essere appunto il nuovo corpo di comnùssariato. Ma per il resto non ritiene giustificata la diffusa ostilità contro il vecchio corpo d' Intendenza (abolito anche in Francia dopo la sconfitta del 1870-1871), né trova necessaria la militarizzazione dei Servizi: il 1873 fu l 'epoca, che io non esito a proclamare poco auspicata (sic) del militarisrtw amministrativo, sanitario e contabile [ ... ]. Lungi da me l'idea di voler affermare che questo ordinamento [cioè l'ordinamento Ricotti - N _d_a. l.fòsse perfetto. Anzitutto le attribuzioni dei vari enti amministrativi, o non erano definite, o lo erano poco nellamente. La funzione del commissariato era troppo circoscritta, a paragone di quanto esi~ono le buone norme amministrative e la necessità delle cose. Non rispondente alla pratica necessità era la militarizzazione (perdonatemi la parola) dei corpi amministrativi, e la creazione di un solo corpo di ufficiali [cioè il corpo contabile militare - N.d_a_J per La tenuta dei conti e per Le varie gestioni amministrative, le quali costituiscono altrettante specialità dei servizi, e richiedono quindi altitudini e cognizioni diverse. Troppo sparse, troppo slegate erano le varie aziende amministrative. mentre il carattere dominante dell 'amministrazione, come diceva Napoleone I, è l'unità, e quindi ne doveva derivare diminuzione di responsabilità, aumento di personale e di spesa, impossibilità di ricavare dal corpo di commissariato tutto l'utile che poteva dare. Troppo ardito infine era, a suo avviso, per un esercito di 2()()_()()() uomini il concetto di controllo centrale unico, senza l'aiuto di un controllo locale. Ma con tutto ciò quell'ordinamento 11011jeriva nessun principio, passatemi la frase, di rettitudine amministrativa_

Evidentemente il Sani vagheggia un corpo di l:Ommissarialo con compiti solo direttivi molto vicini a quelli previsti dal Nunziante per l' Intendenza, senza peraltro precisare quali erano i restanti rotismi_ Rimane estranea ad ambedue la visione di un solo corpo logistico, nel quale le mansioni esecutive siano svolte dai gradi inferiori e quelle direttive e di controllo dai gradi superiori: ad ogni modo sono assai pertinenti gli accenni dello stesso Sani allo scarso coordinamento tra le varie branche (ad esempio l'artiglieria, il genio e la sanità militare conservano, e conserveranno fino alla grande guerra, un' autonoma gestione logistico - amministrativa) e ali ' eccessivo accentramento dei controlli. Il Ricotti passa per il maggior riformatore dell'esercito italiano: un riformatore anche fortunato, perchè - fatto eccezionale, anzi unico - ha


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avuto a disposizione ben sei anni, dal 1870 al 1876, per tradurre in atto i suoi progetti. La communs opinio lo presenta come ammiratore e seguace del modello prussiano: giudizio non infondato ma tale da poter risultare inesatto e deformante. Ha certamente preso come riferimento il modello prussiano, ma soprattutto per quanto riguarda gli obiettivi. Sulle modalità da lui previste per raggiungerli, invece, ha pesato in modo decisivo tutta una serie di pesanti condizionamenti e fattori negativi, tipici della molto diversa realtà italiana e di carattere politico-sociale prima ancor che finanziario, tali da limitare fortemente - come affermato dal Corsi - la sua effettiva libertà d'azione. Fattori che né lui, né qualsiasi altro Ministro sarebbero stati in grado di ignorare in nome di esigenze puramente tecnicomilitari o di modificare rapidamente, come il reclutamento nazionale, l'eccessivo impiego di unità militari in compiti extra-militari a tutto danno dell'istruzione, i continui trasferimenti, il forte numero di analfabeti, le infelici e frazionate condizioni di accasermamento anche per pressioni clientelari, la mancanza di campi d 'istruzione ecc .. Questo contesto era tale, da impedire o limitare grandemente l'applicazione dei tre principali capisaldi del sistema prussiano (reclutamento territoriale, sedi fisse e ferma breve) la cui applicazione pur sarebbe stata anche finanziariamente meno onerosa. Ne conseguiva l'impossibilità di adottare nel settore del reclutamento, dell' istruzione e della mobilitazione le soluzioni più economiche, aggravando il problema della scarsità di risorse e impedendo così la piena applicazione di un quarto caposaldo del sistema prussiano: la ferma obbligatoria per tutti con minimo numero di esenzioni e la durata del servizio di leva uguale per tutti, con ovvi benefici di carattere morale. L'opera del Ricotti si è risolta così nella ricerca - non sempre felice di ingegnosi espedienti, per aggirare in qualche modo i troppi e troppo furti ostacoli prima descritti e porre rimedio alle indubbie carenze emerse nelle campagne del 1859, del 1866 e del 1870. Ma ha fatto sempre "il meno peggio possibile", come dice il Corsi? V'è da dubitarne. Sui distretti - lo confermano gli eventi successivi - ha ragione il La Marmora. Non si è presa gran che a cuore la necessaria - anche se difficile - riforma del sistema logistico-amministrativo. Ha conservato un irrazionale e antieconomico accentramento dei poteri nel Ministero della guerra e quindi in sè stesso, senza considerare - in questo caso - quanto ha pesato nel modello prussiano da lui prediletto l'opera di Moltke, Capo di Stato Maggiore ma non Ministro, che tra l'altro soleva notoriamente lasciare ai comandanti d 'armata dipendenti la più ampia autonomia. Il benessere morale e materiale dei Quadri non è stato da lui molto curato, né sembra aver colto appieno il


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benefico influsso sul morale - specie ma non solo della fanteria- di una buona vestizione, di un miglior rancio, di ben visibili contrassegni di reggimento, numeri distintivi di battaglione, ecc .. Infine, anche se si è lodevolmente preoccupato della rapidità della mobilitazione v'è molto da dubitare che nei tempi previsti sarebbe stato effettivamente possibile mettere in campo i 700.000 uomini ben inquadrati e addestrati che prevedevano i suoi calcoli, specie perché il "secondo esercito" da lui pianificato, pur essendo indispensabile e ormai imposto dai tempi, era istruito e inquadrato in modo palesemente insufficiente, perciò lontano le mille miglia dal modello prussiano; così come, per forza di cose, non poteva essere che lontano le mille miglia dal riuscito modello prussiano il sistema di mobilitazione da lui architettato, se non altro perché troppo complicato e sbilanciato verso i distretti. Senza contare che non si trattava di costituire "un secondo ersercito", ma un unico esercito omogeneo, ben preparalo e addestrato, come aveva dimostrato di essere quelle prussiano. Non ha potuto fare ciò che avrebbe voluto o saputo fare: ciò non toglie che anche nei campi dove avrebbe potuto esercitare maggiormente la sua discrezionalità, nonostante il lodevole impegno la sua opera non è stata esente da mende, errori, sottovalutazioni. Le lodi generalizzale alla sua opera non ci sembrano, quindi, giustificate, anche perchè nascondono la reale portata riformatrice di un'attività, certamente notevole ma lungi daJJ 'esserc adeguata ai problemi da risolvere, che rimangono in gran parte sul tappeto.

SEZIONE Il - U dibattito nel periodo tra la legge Ricotti e la legge l<'errero (1882)

Le soluzioni indicate dall'ex-Ministro Mezzacapo, dal futuro Ministro Pelloux e dal Baratieri

I Ministri successori del Ricotti fino al 1882 (sette in soli sei anni) apportano ben poche innovazioni di rilievo ai numerosi provvedimenti da lui adottati, e in particolar modo alla fondamentale legge ordinativa del 1873. Da ricordare la costituzione anche per il tempo di pace dei 10 corpi d'armata già previsti dal Ricotti solo per il tempo di guerra ad opera del suo successore Luigi Mezzacapo (marzo 1876-marzo 1878), che prelude a successivi ampliamenti, peraltro difficilmente conciliabili con i soliti limiti di bilancio. Lo stesso generale Mezzacapo nel 1879, cioè poco dopo aver lascia-


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to il Ministero, contesta su parecchi punti il recente, discusso opuscolo del colonnello di Stato Maggiore austriaco Haymerle (già addetto militare in Italia) Jtalicae res33 e sostiene la necessità di preparare un forte esercito e una forte marina, dichiarandosi inoltre favorevole alle imprese coloniali.34 A suo giudizio le considerazioni del Haymerle non sono né esatte né opportune, prima di tutto a causa di una cattiva scelta delle fonti (solo tra i giornali d' opposizione al governo e/o irredentisti). Non è vero che gli italiani vogliono fare la guerra all'Austria, come l'Haymerle scrive generalizzando indebitamente l'opinione di una esigua minoranza; al contrario, il suo scritto dimostra solo le diftidenze dell'Austria nei nostri confronti. Inoltre I' Haymerle combatte il principio della nazionalità solo in nome del principio della forza, e fornisce con compiacimenlo una serie di notizie inesatte sulla nostra debolezza militare, sui nostri problemi politico-sociali, ecc .. Da questi giudizi dell'ufficiale austriaco il Mezzacapo deduce che siamo poco stimati all'estero; anche per tale ragione sostiene la necessità di un forte armamento nazionale basato sull'esercì to permanente e non sulla nazione armata e/o il volontarismo. Parecchi esempi storici, e per ultimo la guerra del 1870- J871 nella quale le numerose milizie improvvisate della Repubblica francese sono state sconfitte dalle salde truppe prussiane, dimostrano lo scarso valore delle milizie improvvisate; in quanto ai volontari, è poesia basare su di essi La difesa di una grande nazione. Alcune migliaia di volontari si possono riunire, e possono essere utilissimi in qualche momento speciale, ma nella generalità dei casi occorrono alla difesa [degli Stati] dei larghi e saldi ordinamenti militari, e quanto più grandi diventano gli eserciti, tanto maggiore è la necessità della scienza di guerra nei Capi, e della intelligente ohhedienza di ognuno, secondo La propria cerchia di a zione.

Tultavia, nonostante la sua ostilità alle forme mi1itari sostenute dagli schieramenti politici più radicali in opposizione al "militarismo ", il Mezzacapo nega che esso possa esistere in Italia: vuota di senso è oggi la parola militarismo. Che cosa si intende dire con essa'! Cospirazione contro l'utile del Paese. Ciò sarebbe possibile, se la

33

Cfr. Alois Von Haymerle, ltalicae Res, Firenze. Tip. Editrice Gazzetta d' Italia 1880. Luig i Mczzacapo, Quid Jaciendum ? in "Nuova Antologia" Voi. XVII - rase. XIX I O ottobre 1879, pp. J 93-4 I5 e ID., Siamo pratici, in "Nuova Anto logia" Fase. XXI - I novembre 1879, pp. 15 1-201. 34


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corporazione militare fosse chiusa, ma gli eserciti invece si rinnovano ogni giorno, grazie a cittadini che vengono ed altri che se ne vanno; una legge votata dai cittadini li obbliga a tal servizio, quindi compiuto il proprio dovere, tornano alla sospirata famiglia. Solo gli ufficiali sono veramente in permanenza; e pochi sottufficiali stanno ..,pontaneamente in più sotto le armi. Costoro poi non escono esclusivamente da famiglie militari, ma da tutti gli ordini dei cittadini.

Sul preteso e fantomatico "militarismo" italiano, non e' era - e non c'è più stato da allora in poi - null'altro da dire. Dopo gli Studi topografici e strategia sull'Italia (Voi. II - cap. Xl), lo scritto più importante di Luigi Mezzacapo è però l'opuscolo del 1881 Armi e politica, che ba come scopo <li convincere Parlamento e governo ad allargare i cordoni della borsa, premessa indispensabile e rimedio unico per ottenere un esercito efficiente. 35 Per il Mezzacapo all'esercito sono stati assegnati fondi insufficienti non per indisponibilità di risorse maggiori, ma solo perché le esigenze militari, che dovrebbero essere al primo posto perché riguardano la vita e la sicurezza della Nazione, hanno ceduto il passo a tutte le altre. Non è vero che l' Italia è povera e quindi può dedicare alla difesa solo risorse esigue; la recente abolizione del corso forzoso della moneta dimostra che, "se non andiamo annoverati fra i popoli più ricchi della terra, certamente apparteniamo alla classe dei popoli affiati". La ricchezza nazionale è in aumento e le entrate dello Stato stanno superando il previsto; è perciò diffusa la convinzione che lo Stato può spendere di più. Premesso che la qualità di un esercito dipende essenzialmente dalla buona educazione e istruzione del soldato, da buone armi e buoni apprezzamenti logistici, per il Mezzocapo le esigenze da soddisfare sono molte. Anzitutto la forza dell 'esercito va aumentata, perché l'Italia con una popolazione di¾ rispeUo a quella della Francia ha i 3/ ~ dell'esercito francese di prima linea (19 corpi d'armata e 800.000 uomini, a fronte dei nostri IO corpi d 'armata e 300.000 uomini). Inoltre l'esercito francese ha una proporzione maggiore di artiglieria e cavalleria e i suoi reggimenti di fanteria sono su 4 battaglioni, non su 3 come i nostri. Bisogna aumentare e completare la fortificazione delle Alpi, delle coste e di Roma, perfezionando con l'assegnazione dei fondi necessari anche il sistema di mobilitazione, per il

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Cfr. Luig i Mezzacapo, Armi e polirirn, Roma, F. Capaccini I R8 I. Si veda anche la recensione di G. Falorsi in "Rassegna Nazionale" (Firenze) Fase. 1° luglio 1881 , pp. 196-199.


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quale "occorre una più ragionevole divisione del lavoro, la creazione di quegli organi che mancano, e proporzionare l'incombenza di ciascun capo di servizio in maniera che possa rispondere realmente del suo operato ... ". Occorre aumentare le armi e munizioni e costruire le infrastrutture necessarie per custodirle, perché al momento i depositi, anche senza tale auspicato aumento, "sono insu:fficienti, non bene collocati né distribuiti né assicurati". E se si vuole ottenere la libertà e facilità di manovra delle forze per la difesa del Paese, occorre predisporre in punti adatti del possibi1e teatro d'operazioni dei magazzini e depositi in quantità sufficiente. Sarebbe un errore se, a fronte di queste esigenze, si cercassero dei falsi risparmi - come spesso avviene - con ritardi della chiamata delle classi di leva e con congedi anticipatL Tre anni di ferma sono già pochi, perché "La forza delle truppe non dipende dalla sola istruzione, ma altresì dalla solidità degli ordini, cosa che si acquista con L'educazione militare, che è un 'abitudine figliola del tempo". Bisogna anche provvedere a una conveniente istruzione della forza in congedo e migliorare il trattamento economico e morale dei Quadri, la cui importanza è aumentata negli attuali ordinamenti. Al momento - prosegue il Mezzacapo - le domande di ammissione ,ùle scuole militari sono diminuite a tal punto, che per non rimanere privi di ufficiali si è stati costretti a "transigere sulle qualità intellettuali" degli aspiranti. La ragione è una sola: la causa militare non è più monopolio dei ricchi, ma offre condizioni di vita così poco allettanti, da renderla poco appetibile per i giovani validi; "epperò avviene che oggi concorrono agli istituti militari in massima parte solo coloro, che non possono fare diversamente". Il cattivo trattamento economico e normativo dei Quadri è dunque una falsa economia; così come è una falsa economia il concentramento delle risorse finanziarie in un dato settore, lasciando inevitabilmente in sofferenza gli altri; in tal modo la deficienza "cambia solo di posto e di proporzione". Per ultimo, il Mezzacapo contesta due diffuse opinioni: che il sistema di reclutamento tedesco sia un esempio di ferma breve, e che l'Italia sia la nazione europea dove la spesa militare assorbe la maggior aliquota di bilancio. ln Germania il contingente annuale di leva è chiamato pressoché interamente alle armi: ma di tale contingente solo una parte (circa il 65%) fa tre anni, mentre la restante fa due anni. Da noi , invece, il 65 % del contingente (!"categoria) fa tre anni come in Germania ma la restante parte (2" categoria) fa solo tre mesi; quindi per il Mezzacapo il sistema tedesco è un esempio della necessità di aumentare la ferma, non di abbreviarla. Non per nu11a - come ricorda anche il Corsi - il Mezzacapo è favorevole alla categoria unica, cioè alla chiamata alle armi del-


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l'intero contingenle, con ferma uguale per tutti. Il fatto che da Ministro non abbia potuto applicare questo principio, è però un'ennesima prova delle peculiarità della situazione italiana ... Suggestivo ma poco realistico anche il suo tentativo di dimostrare che nemmeno un paese povero può scendere al di sotto di un minimo vitale per la spesa militare, perché altrimenti sarebbe improduttiva. Il che è vero; ma che fare, se questo minimo vitale è a sua volta troppo alto in relazione alle effettive possibilità finanziarie dello Stato? Diametralmente opposte, più sfumate e meno innovatrici le idee del Pelloux, che in un opuscolo del 1879 considerato come programma da attuare nei futuri incarichi di Segretario generale e Ministro 36 espone la solita serie di espedienti, che in pratica tendono a ridurre la forza bilanciata dell'esercito di pace a beneficio dell 'ammodernamento delle armi e materiali. I provvedimenti da lui suggeriti si riassumono nella riduzione del contingente di l" categoria da 65.000 uomini a 60.000 circa con risparmio di 5 milioni, nella chiamata alle armi per una breve istruzione di 25.000 uomini di 2" categoria anziché 47 .000, nell 'esclusione di qualsiasi istruzione per la 3" categoria, ecc ... Nessuna economia dovrebbe essere fatta invece per quanto attiene ad armi , artiglierie, materiali ed equipaggiamenti; perciò anche con le economie proposte, per il Pelloux il bilancio della guerra dovrebbe aumentare da 165 a 190 milioni, per la semplice ragione che esso è insufficiente per attuare la legge Ricotti (dunque, si tratta sempre e solo di questo). In sostanza, si tratta di sacrificare all'acquisto di armi e materiali l'istruzione del contingente di leva: ma dalla prospettiva del Pelloux è in ogni caso esclusa la riduzione della ferma, perché l'istruzione della truppa risente di un complesso di condizioni sfavorevoli: le nostre truppe sono alloggiate male con detrimento dell'igiene e del1'istruzione. E ' dunque un altro bisogno urgente, pel quale manr.ano i mezzi di bilancio, quello di riparare le caserme antiche e fabbricarne di nuove. Numerosi sono i distaccamenti, continui i servizi estranei all'istruzione militare. Abbiamo truppe stanziate in posti, in cui durante quasi tutta la permanenza sotto le armi esse non hanno la possibilità di prendere mai parte alle manovre od anche semplicemente ai campi.

36 Cfr. Luigi Pe lloux, Appunti sulle nostre condizioni militari, Roma, Tip. S1ab. Mii. Pena 1879. Si veda anche la lunga recensione a firma M.N. in "Rivista Militare Italiana" Anno XXIV - Voi. IV dicembre 1879, pp. 405-421.


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Quest'ultimo argomento è trattato ancor prima de] Pelloux da un nome noto, l'a1lora ten. col. Gandolfi,37 il quale constata che l'esercito italiano è afflitto da un coefficiente di mortalità "non certo confortante" se lo si paragona a quello di altri eserciti europei. Per il Gandolfi è statisticamente dimostrato che sulla mortalità elevata non influiscono le pretese, eccessive fatiche che il nostro soldato dovrebbe sopportare; vi sono invece delle cause che non possono essere eliminate (come il reclutamento non regionale e le ferme brevi) e altre che in futuro potranno scomparire con una migliore alimentazione, una migliore vestizione e un più igienko accasermamento. Ciò premesso, il Gandolfi si sofferma soprattutto sull'operato, sull'organizzazione e il funzionamento dei consigli di leva. In proposito sottolinea che gli eserciti inglese, prussiano e francese, dove la mortalità è minore, hanno un numero di riformati per inidoneità fisica maggiore di quelli dell' esercito italiano, mentre da noi il numero dei riformati diminuisce ogni anno. Questo fenomeno viene da molti ritenuto "un segno di miglior funzionamento e progressiva moralità " dei consigli di leva; al contrario per il Gandolfi ciò avviene perché i consigli di leva non individuano bene i militari fisicamente poco idonei, che dovrebbero essere riformati in modo da diminuire il numero troppo elevato dei soldati ammalati o riformati dopo l'incorporazione. Ma se i nostri consigli di leva sono poco severi, ciò avviene a causa della loro composizione con medici e ufficiali inesperti e spesso comandati per la prima volta a svolgere tale servizio; inoltre ciascuno di essi deve esaminare un numero eccessivo di elementi in poco tempo. Ne consegue una carente selezione del contingente di leva, che va evitata con una serie di provvedimenti: modifica della ripartizione del numero fisso di reclute che ciascun circondario deve fornire, revisione dell'elenco delle infermità che danno luogo a riforma, nomina di una Commissione distrettuale a composizione fissa, che abbia a disposizione il tempo sufficiente per l'estrazione a sorte e la visita di leva. Anche il maggiore Baratieri tratta il problema della ferma e i contenuti delle nuove leggi militari in corso di discussione in Parlamento, in certo senso anticipando il dibattito sull'ordinamento Ferrero. 38 Con interessanti riferimenti a quanto si fa all'estero, e specialmente in Francia e in

37 Antonio Gandolfi, Uno sguardo alla 11os1ra legge di reclutamento, in "Rivista Militare Italiana" Anno XXIII - Voi. I marzo 1878, pp. 306-325. " Oreste Baratieri, La questione della f en11a i11 Italia, in "Nuova Antologia" Voi. XX Fase. VIII - 15 aprile 1880, pp. 716-737; ID., / tiri a segno e le istituzioni militari, in "Nuova Antologia" Voi. XXIV Fase. XXI - I novembre 1880, pp. I 36-157; ID., Le nuove leggi militari in Italia, in "Nuova Antologia" Voi. XXV Fase. li - 15 gennaio 188 1, pp. 3 13-327.


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Germania (dove Moltke ritiene indispensabile una ferma di tre anni) egli arriva alla stessa conclusione del Pelloux: non conviene ridurre la ferma, anche perché al momento "assai meno della metà della nostra forza bilanciata riceve nelle compagnie, nelle batterie, negli squadroni destinati ad affrontare il nemico, efficace istruzione militare". Affermazione grave, ma ben giustificata dal Baratieri con una serie di constatazioni di per sé tali da fare giustizia una volta per tutte di qualsivoglia discorso puramente teorico sulla ferma di leva in Italia: l'esercito sventuratamente non è soltanto chiamato ad addestrarsi per la guerra, ma eziandio a difendere le sostanze e La vita dei cittadini. Vediamo i battaglioni dei bersaglieri e della fanteria sminuzzati a piccoli gruppi negli alpestri villaggi o lungo le strade infeste correre dietro briganti o mafiosi o fare La guardia l'arme al braccio. Codesti distaccamenti durano un anno, nel quale è impossibile impartire, difficilissimo conservare l 'istruzione militare; è un miracolo da ascriversi alle mirahili qualità del soldato nostro, se si conserva la disciplina. Attualmente questo servizio, faticoso e snervante, assorbe più di 5.()()() individui. Altri 6.000 individui ricevono istruzione assai scarsa e incompleta, perché sparsi a compagnie ovvero a plotoni in guardie o piccoli presidi per tenere a freno i delinquenti o per guardare le ricchezze nazionali. E vi sono in Italia 6.000 uomini di sentinella esterna e 6.000 di sentinella ai quartieri, i quali 12.000 hanno da sottrarsi dalla cifra disponibile per l'istruzione utile....

Per il Baralieri è certamente possibile e necessario ridurre i servizi di sentinella alle casse, agli uffici pubblici, alle caserme ecc.; "ma per quanto si riduca e si stringa, rimarrà sempre necessario un gran numero di sentinelle per le tristi condizioni della pubblica sicurezza e per i miserabili alloggiamenti (sic) delle truppe nostre". Bisogna anche tener conto del gran numero di piantoni e attendenti sottratti alle attività quotidiane del reparto, che "perdono ogni istruzione e ogni contegno militare". Inoltre il 4 % della forza giornaliera (10.000 uomini circa, se si tiene conto delle licenze di convalescenza) è ricoverato nelle infermerie dei corpi e negli ospedali, "forse in parte per colpa della soverchia agevolezza di arruolamento e del rapido cambiamento di clima, di cibo e di vita cui vanno soggetti la maggior parte dei nostri soldati". Il danno maggiore di questo stato di cose è per la fanteria, alla quale tra l'altro si sottraggono anche 9.000 alpini a guardia della frontiera: "cosa resta alla fanteria, la cui istruzione per quella scioltezza d'ordini di


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combattimento imposta dalle armi moderne e dalla tattica spigliata individualizzata che ne dipende, esige molto maggiori cure per l'educazione e per l'addestramento di quando la guerra si faceva coi battaglioni serrati e cozzanti a massa?". Persino nel periodo di forza massima è possibile portare all'istruzione quotidiana solo una compagnia per battaglione, composta da uomini raggranellati qua e là e con ufficiali sempre diversi ... Per questo diversamente dal Pelloux il Baratieri giudica "una vera calamità" la riduzione della forza dell'esercito, che dovrebbe anzi essere aumentata da 190 a 200.000 uomini almeno fino a quando l'istituzione della "milizia comunale" consentirà I speranza fallace - N.d.a.] di liberare l'esercito dai gravosi compiti di pubblica sicurezza. Il Baratieri del tutto a torto crede molto nella milizia comunale, che è sempre rimasta sulla carta benchè inlrodotta dal Mezzacapo (insieme con la rrùlizia territoriale) con apposita legge del 30 giugno 1876; così come crede molto - sempre a torto - in un altro preteso espediente per abbreviare la ferma: il tiro a segno, istituito con apposita legge del 1882 contestualmente all'ordinamento Ferrero. Lo considera un efficace strumento per rimediare senza bisogno di onerosi richiami alla mancanza di istruzione delle classi in congedo, una vera "scuola militare della nazione". L'abilità nel tiro serve a completare le doti naturali del nostro soldato, che già apprende con facilità lo sfruttamento del terreno e la tattica della fanteria. Il volontariato di un anno "zoppica tristemente, specie per la mancanza di ~pirito militare negli aspiranti al beneficio o privilegio che voglia chiamarsi"; pertanto non dovrebbe essere ammesso al volontariato di un anno chi non ha dato prova di abilità nel tiro; inoltre il tiro a segno dovrebbe essere introdotto nelle università e nelle scuole. In passato - prosegue il Baratieri - le organizzazioni del tiro a segno non hanno dato buona prova, perchè non era ben chiaro il loro scopo e venivano spesso concepite come enti ricreativi; occorre perciò precisarne lo scopo militare, sottoporle al controllo del Ministero della guerra e organizzarle meglio in tutti i dettagli, assicurando concreti vantaggi ai frequentatori (esenzione dai richiami per istruzione, non ammissione al volontariato di un anno e/o al ritardo nella chiamata alle armi dei giovani universitari che non abbiano frequentato il tiro a segno); bisognerebbe inoltre rendere obbligatorio il tiro a segno anche nei licei. Tutte soluzioni illusorie, benchè in buona parte recepite dalla legge. La penna del Baratieri è più felice quando indica i negativi riflessi che avrebbero sul morale del soldato taluni espedienti studiati per abbreviare la ferma e quindi realizzare economie, che darebbero luogo a ingiustizie e disparità di trattamento in coloro che dovrebbero essere ugualmente soggetti al ser-


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vizio militare obbligatorio. Ciò avviene, ad esempio, per la proposta di congedare in anticipo di un anno dopo i campi estivi 1/3 della classe media (cioè quella compresa tra la classe anziana alle armi e quella più giovane), previa estrazione a sorte e/o esame e valutazione dei risultati raggiunti nel tiro. L'estrazione a sorte elimina qualsiasi incentivo ad addestrarsi e a mantenere buona condotta, sottoponendo il soldato al sorteggio per ben tre volte, con inevitabili confronti, lamentele ecc.; a sua volta l'esame è fallace, perché chi sa meglio rispondere non è certo il miglior soldato, e in questo modo verrebbero di fatto privilegiate le classi colle. Il Baratieri, però, è lungi dal fornire una soluzione immediata tale da evitare questi inconvenienti: afferma solo che anzichè ricorrere a congedi anticipati sarebbe mollo meglio "studiare " la ferma di due anni, che fornisce parecchi vantaggi: "semplifica il reclutamento,- ci somministra mag-

gior numero di soldati uniformemente istruiti; distribuisce meglio l' obbligo di servire la patria; è più utile, perchè più generale, all'educazione militare del Paese; ci dà mezzo di fare La chiamata delle reclute prima dei mesi invernali, con grande vantaggio della loro salute e dell'esercito che a primavera le può avere pronte per la guerra,- restringe ad un minimum il periodo di crisi tra il congedamento di una classe e l'arrivo di un'altra; è più conforme alle idee, ai gusti e alle aspirazioni nazionali". Ma bisognerebbe pur sempre prevedere per le Armi a cavallo il prolungamento della ferma fino a 3 anni, senza contare che anche per la fanteria al momento una ferma di tre anni è troppo breve, e richiede una preventiva preparazione militare delle reclute che al momento manca: "ora invece succede l'in-

verso_- i cittadini vengono ai reggimenti per imparare a leggere e a scrivere. E' bella cosa davvero, che accresce il prestigio dell'esercito per il bene che essa arreca alla nazione; ma dal punto di vista militare, quel tempo non serve a nulla". Anche il contingente unico, cioè l'estensione a tutti gli idonei allearmi di una ferma uguale per tutti, è da scartare: per ragioni economiche la ferma dovrebbe essere ridotta a meno di venti mesi. Ma questa soluzione, che pure estenderebbe l'addestramento militare in misura maggiore, comporterebbe una minore istruzione del personale, non consentirebbe di disporre di buoni graduati e sottufficiali e danneggerebbe la solidità dell ' esercito. Peggio ancora, il sistema di nazione armata sul modello svizzero provocherebbe la sparizione dell'esercito e fornirebbe uno scudo ma senza la spada, cioè senza un esercito offensivo. Di conseguenza "l'Italia do-

vrebbe chiudersi nel suo guscio, rinunciare a qualsivoglia legittima influenza all'estero, e pur trovandosi sulle vie degli eserciti e delle flotte, limitarsi alla pura e passiva difesa delle sue mal delineate frontiere. Per


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quanto valorosi siano i nostri armati, senza esercito atto ad offesa, non possiamo serenamente affrontare i torbidi eventi che si vanno maturando". C'è quindi bisogno di un buon esercito di 1• linea, per quanto piccolo sia. E anzichè accrescerlo creando notevoli problemi organizzativi e di Quadri, sarebbe meglio costituire una buona milizia mobiJe e una buona milizia territoriale. Comunque, per la ferma di due anni (con frequenti richiami) "non ci vorrà gran tempo, perchè con una opportuna e economica legge sui tiri a segno, con qualche modificazione alle leggi esistenti, con qualche acconcio e semplice ref!.olamento, con la buona volontà da parte di tutti, infine con una tassa militare graduale sugli individui di 3° categoria, si può fare assai. ..". Previsione rivelatasi infondata, così come la prospettiva della tassa o imposta militare adottata in alcune nazioni europee (cioè di una tassa su coloro che sono esentati dal servizio militare, a beneficio della Cassa militare per le rafferme dei sottufficiali e Carabinieri), della quale si discute a lungo in Parlamento e sulla stampa, senza alcun sbocco concreto anche se erano favorevoli eminenti personalità militari come Ricotti, Ferrero, Pelloux ecc ... 39 Come si è visto, il Baratieri, il Pelloux e la massima parte dcll ' establishment politico-militare non prospettano vere alternative, dando sempre per scontato il reclutamento nazionale, l'esteso impiego dell' esercito in compiti extra-miUtari, ecc., cioè esattamente i fattori che più ostacolano l'efficienza dell'esercito e l'attuazione della legge Ricotti, incidendo anche sui costi. Una delle pochissime eccezioni in proposito è il tenente Bianciardi, che sulla Rivista Militare - cosa da sottolineare - ha il coraggio di contestare la communis opinio dell'esercito come fattore di incivilimento, la cui alta missione educatrice dovrebbe infondere nel cittadino la virtù militare e formarlo moralmente.40 Per il Bianciardi l'esercito è fatto per la guerra, e in questo sta la sua unica ragione d'essere; coloro che ne esaltano la funzione educatrice non considerano che "se La vita militare fu educatrice, fu tempratrice di carattere, lo Ju appunto come tale nel suo costume m.pro e severo; e che facendo dell'esercito un istituto di educazione, si ammorbidisce quel costume, si guasta quella purezza, si toglie alla nostra vita la sua potenza educativa". L'esercito dovrebbe limitarsi a istruire il cittadino per la guerra; una volta stabilito il tempo occorrente per tale compito, "rimarrebbero

19 Sulla "tassa mi/ilare" si veda anche Virgi lio Ilari, Storia del servizio mi/ilare in Italia - Voi. II, Rurrut, Ed. Rivista Militare 1990, pp. 3 /4- 330. 40 Raffaello Bianciardi, Alcuni pensieri sulla riduzione della fernw, in "Rivista Militare Ita liana " Anno XXV - Tomo IV ottobre I f/79, pp. 56-67.


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le ragioni di governo e di finanza a rallentare lo svolgimento di tutte le conseguenze di quel criterio". Anche con quest'ultima osservazione egli ha il merito di richiamare indirettamente la contraddizione in cui cadono i sostenitori delle ferme lunghe e della missione educatrice dell'esercito. Tale missione educatrice trova evidentemente un terreno arido, diventa illusoria e velleitaria se l'organizzazione militare presenta carenze tali, da rendere di per sè diseducatrice l'attività (o la non-attività) quotidiana del soldato. In proposito varicordato un altro articolo del capitano di Stato Maggiore De Micheli, 41 il quale sempre sulJa Rivista Militare lamenta che "gli inconvenienti gravissimi e di varia natura derivanti senza tregua alla forza ragguardevole di più di 5.000 soldati impiegati costantemente in Sicilia alla tutela della pubblica sicurezza costituiscono tale genere di erosione per La disciplina e il prestigio delle truppe adibite a questo servizio, che io non so resistere alla tentazione di richiamare su quel fatto increscioso la benigna considerazione di coloro ai quali stanno a cuore la reputazione e il progresso dell'esercito". Poichè il banditismo è ormai debellato, il De Micheli propone senz'altro che nella lotta al malandinaggio nelle campagne i Carabinieri, sia pur in numero ridotto, sostituiscano l'esercito, che ormai sta ottenendo risultati molto modesti, perchè si tratta di puri compiti di polizia e informativi che i Carabineri sanno svolgere molto meglio.

Il "cahier de doléances" logistico-amministrativo del colonnello commissario Giacomo Sani in Parlamento e La risposta del Ricotti ( 1879) L'intervento alla Camera del già citato colonnello commissario Sani nella tornata del 18 febbraio 1879 merita di essere ricordato sia per la competenza dell'autore, sia perché - confermando molte delle critiche del Nunziante - vi si traccia una panoramica abbastanza rara di importanti problemi logistico - amministrativi non completamente risolti né prima né dopo, che pur non avendo carattere solo ordinativo sfociano in esigenze ordinative. Dopo un accenno anche allora un po' scontato all'importanza morale e materiale della parte logistica (la cui buona gestione è "sinonimo d'economia, di moralità, d'ordine e di disciplina in tempo di pace, [mentre] in tempo di guerra può giovare potentemente alla vittoria o contribui-

41 A. Dc Michcli, Svincolamento delle truppe del servizio di pubblica sicurezza in Sicilia, in "Rivista Militare Italiana" Anno XXIII Tomo lii - luglio 1878, pp. 30-45.


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re alla sconfitta"), il Sani lamenta che ben di rado si sono discussi problemi del genere e cita i più recenti interventi alla Camera sull'argomento. Tra di essi, l'onorevole Mazza "notava con biasimo la falange sterminata degli scritturali, le soverchie spese d 'amministrazione e di cancelleria"; l'onorevole Ungaro "faceva voti per il miglioramento del vestiario della fanteria"; l'onorevole Corte "in parecchie circostanze biasimava Le enormi spese di intendenze, di amministrazione, di contabilità; diceva che gli oggetti si distribuivano ai soldati a prezzo molto maggiori di quello che fossero costati"; l'onorevole MarselU dimostrava la necessità di rivedere in senso più favorevole ai Quadri la legge sugli stipendi, mentre il relatore del bilancio (Corvetto) riteneva necessario rivedere la legge sulle pensioni Anche l'onorevole Parini, presidente della Camera, lamentava "la forma troppo complessa e dannosamente sintetica di alcuni capitoli del bilancio [della guerra]", cmedeva di allegare al bilancio la situazione delle masse, e si occupava del sistema di gestione del vestiario (deconto) "che aveva dato Luogo ad uno stato di cose veramente eccezionale, poiché si trattava di parecchi milioni fra debiti e crediti che sarebbero stati perduti per Lo Stato". Inoltre il Parini nel 1872 criticava le modalità per l'approvvigionamento del vestiario, "che chiamava una grande incognita e un grande spettro, perché dopo aver speso per parecchi anni più di 300 milioni per l'esercito, l'amministrazione militare si scoprì impotente a fornire ali'esercito tutto quello di cui abbisognava, e fu mestieri ricorrere all'estero per compere affrettate, e pagare prezzi elevatissimi, ed avere merci pessime, molte delle quali si trovano ancora nei nostri magazzini". Il Sani concorda pienamente con lutti questi rilievi, tanto che nella sua lunga esposizione non si trova un solo settore logistico che funzioni in modo soddisfacente; lutto a suo parere va rivisto, a cominciare dalla catena direttiva, dal sistema delle masse con l'elevato ammontare di crediti dello Stato verso gli individui e i corpi ormai inesigibili, dalla ripartizione inesatta dell'assegno totale giornaliero dello Stato tra le varie masse, che penalizza specialmente la massa rancio, ecc ... 42 In proposito egli ricorda di aver chiesto al Ministro della guerra di presentare due disegni di legge da lui ritenuti particolarmente urgenti, l'uno per il condono dei debiti di massa diventati inesigibili, l'altro per regolare in modo equo e uniforme gli ob-

42 Mene conto precisare che i rilievi logistico-amministrativi del Sani, cosl come quelli di coloro che l'hanno preceduto e seguìto, sono confermati da quanto abbiamo rilevato nella nostra Logistica dell'Esercito Italiano - Voi. II, Roma, SME- Uf. Storico 1991.


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blighi logistici dei Comuni nei riguardi delle truppe in transito.43 Per il Sani questi sono tutti sintomi di un malessere dovuto al fatto che "la nostra amministrazione militare procede ancora in modo empirico, e aspetta il suo ordinamento razionale, e stabile, quale si conviene a un grande esercito". A suo parere il problema è così grave, da richiedere che gli sia data priorità assoluta da parte del vertice dell'esercito; però gli interventi non sono facili perché il sistema amministrativo militare è assai complesso, con circa 270 veri e propri centri di affari, che "aLl'infuori di quello che il Governo somministra loro in natura, devono provvedere a una varietà grandissima di bisogni, sia individuali, sia collettivt'. Gran parte della spesa di questi enti è sottratta al controllo del Parlamento e della Corte dei conti; eppure basterebbe risparmiare il 4-5 % del bilancio complessivo della guerra, per risolvere tutte le questioni vitali sul tappeto, a cominciare dagli stipendi e daJJe pensioni .... Se fino a questo momento non si è dato un ordinamento definitivo al la nostra amministrazione militare - prosegue il Sani - c'è una ragione : è stata data la precedenza alle questioni ordinative rma anche quelle amministrative hanno spesso carattere ordinativo - N.d.a. I, cosa giusta e razionale perché l'amministrazione doveva seguire, e non precedere [non era meglio dire ... accompagnare? - N.d.a.1 la trasformazione dell 'esercito piemontese in quello italiano. Sta di fatto, però, che "l'ordinamento amministrativo creato per un esercito di 50 o 60 mila uomini fu esteso ad un esercito [quello italiano dal 1861 in poi - N.d.a.J che ne doveva avere dieci volte tanto", con tutte le conseguenze negative a cominciare dall 'eccessivo accentramento, che assorbe troppo personale. Infatti, nonostante la recente istituzione di un ufficio staccato di revisione della contabilità dei corpi, "è rimasta al Ministero [cioè alla direzione generale dei servizi amministrativi - N.d.a.J tutta la parte direttiva, persino nei più minuti particolari", e questo è non solo un danno, ma un pericolo; imperrocché questa grande macchina, al menomo urto, alla più piccola oscillazione, .specialmente in tempo di guerra, minaccia di scomporsi, o per lo meno di arrestarsi". Trasferire dei compiti dal Mini stero agli e nti inferiori non è però così facile. Prima di decentrare "bisogna avere idee precise sul modo con

43 Vecchio problema ereditalo dagli eserciti dinastici pre-unitari, che erano quasi del tutto privi di propri organi e mezzi logistici e in particolare di mezzi di trasporto, quindi per il movimento e stazionamento dovevano appoggiarsi largamente ai Comuni . Lo stesso Sani lamenta che sono ancora in vigore tre diverse legislazioni pre-unitarie (quella piemontese del 1836, quella austriaca del 1851 e quella ponti fi cia del 1867), di fatto diventate "un 'imposla delle più gravose e lperequate", anche perché gravano esclusivamente sui Comuni il cui territorio è attraversato dalle linee di tappa militari.


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cui debbono funzionare la direzione e la esecuzione dei servizi e il controllo", cosa che risulta tutt'altro che chiara nella regolamentazione vigente; e bisogna anche stabilire con maggior precisione il rapporto tra Comando e amministrazione, che in passato funzionavano su due linee parallele. In proposito il Sani propone di rifarsi alle conclusioni di una Commissione per la riorganizzazione dell ' esercito nonùnata in Francia, che dopo lunghi studi ha stabilito che l'amministratore deve essere completamente subordinato al comandante e che l'attività di controllo deve funzionare in modo separato e indipendente. Un'altra esigenza da soddisfare prima di attuare il decentramento è la compilazione di regolamenti per il funzionamento dei vari Servizi logistici, che al momento mancano: "la sola amministrazione e contabilità dei corpi ha, non dirò un regolamento, ma un complesso di norme; tutti gli altri servizi, commissariato, sussistenza, vestiario, casermaggio, trasporti, si reggono per forza di consuetudine e colla guida costante del Ministero, che entra nei più piccoli atti della vita amministrativa ed economica" . E' anzitutto necessario disporre di un codice arruninistrativo improntato a semplicità, chiarezza e concisione; infatti l'attuale raccolta [cioè il regolamento di amministrazione vigente nel 1879 e le norme accessorie - N.d.a.] è imperfetta, perocché manca la parte relativa ai carabinieri reali, alle direzioni di sanità e al tempo di guerra; eppoi essa è provvisoria, perché la Corte dei Conti si è opposta alla sua registrazione. E ciò risulta da una relazione presentata alla Camera nel 1874, se ben ricordo. E risulta inoltre dall'atto con cui essa venne pubblicata, il quale così si esprime: "fino a che pertanto non sia possibile emanare un regolamento di amministrazione definitivo, ne terrà luogo la presente raccolta, le cui disposizioni saranno per l'avvenire osservate come testo obbligatorio" (1 ° luglio 1875).

Sta di fatto che al momento solo per tenere i conti di un reggimento sono necessari 4 ufficiali (5 per un distretto); "e davvero mi par troppo che per questa materia nel nostro esercito debbano occuparsi 1400 ufficiali, 1545 scrivani locali e 830 scrivani straordinari''. Vi è personale superfluo anche nel Ministero, dove si dovrebbe elinùnare l'ufficio di gabinetto del direttore generale dei servizi amnùnistrativi (che ha 12 impiegati, quando per l'entourage del direttore generale ne basterebbero 4) e si dovrebbero fondere in una sola le due ragionerie centrali esistenti. Al Ministero dovrebbe invece essere creato un ufficio statistica che al momento manca, e che sta per essere istituito su recente disposizione del Ministro. I 151 im-


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piegati (20 più dell'organico) della direzione generale dei servizi amministrativi sono comunque troppi, e sono troppi principalmente perché, fatte le debite eccezioni , "l'impiegato non dà allo Stato il frutto che dovrebbe", e tutto considerato "egli lavora poco più di due ore e mezza al giorno per conto dello Stato"; molto dunque c'è da fare per migliorare il livello morale e intellettuale deg]j impiegati. Su come attuare il decentramento una volta eliminate le lacune di base prima indicate il Sani è piuttosto vago: si limita ad affermare che "l'azione direlliva deve quanto più è possibile scendere integra dal Ministro ai comandanti generali, e da questi ripartirsi fra le autorità dipendenti". Quali debbano essere i settori da decentrare dal Ministero ai comandanti generali non lo dice; così come non precisa quale dovrebbe essere la fisionomia logistica delle divisioni, e se si debba o meno troncare il cordone ombelicale che ancora lega i reggimenti/corpi al Mini stero. Si sofferma invece sulle lacune del corpo di commissariato, lamentando che: - come in passato ha osservato lo stesso generale Ricotti, sarebbe necessario "una specie di comando o comitato" che coordini e controlli l'attività, al momento slegata, dei "personali d'intendenza, contabili e sussistenze"; - per il corpo di commissariato manca sia una legge per il reclutamento degli ufficiali sia - t:aso unico - una scuola per istruirU e formarli, benché occorra "ben altra scienza di quella di un tempo" per provvedere al sostegno logistico degli eserciti diventati ili massa. Il Sani si dichiara assai scettico anche sul buon funzionamento del vettovagHamento in guerra, t:he pure è il servizio più importante per il suo influsso diretto sul morale e sulla disciplina delle truppe. A suo avviso questo servizio mant:a sia di idoneo personale direttivo ed esecutivo, sia di procedure adatte allo stato di guerra. Per la direzione del servizio potrebbero essere utilizzati sia gli ufficiali contabiH (che però mancano di preparazione, d'esperienza e quindi anche di autorità morale) sia 150 contabili civili ancora disponibili per parecchi anni, i quali sono però demotivati, mancano dell ' autorità che verrebbe loro dal grado militare e non collaborerebbero volentieri con gli ufficiali contabili, né si potrebbe mettere quest'ultimi alle loro dipendenze. Il personale esecutivo dei paniiki a sua volta si compone pressoché esclusivamente di operai civili, con un certo numero di soldati che riescono a imparare solo i primi rudimenti del mestiere. E poiché sarebbe un problema molto serio mobilitare in caso di guerra ben 231 O abili panettieri e 1720 operai delle sussistenze, bisognerebbe formare fin dal tempo di pace le compagnie di sussistenza.


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Cosa ancor più importante, secondo il Sani al momento non si sta seguendo il saggio principio che le attività logistiche in guerra affidate esclusivamente a personale militare, in pace devono essere svolte allo stesso modo; invece da noi in pace quasi tutti i servizi, ad eccezione del pane, sono affidati a fornitori civili. Questo sistema a parere del Sani ritarda la mobilitazione, non consente di disporre di personale militare capace e istruito in guerra, cioè al momento del maggior bisogno, non rispetta il principio di evitare i contatti delle truppe con personale civile "che ha tutto l 'interesse di.farle deviare (non dico che lo .facciano) dalla retta linea del dove re". Egli propone perciò che in una divisione sia sperimentata ]a gestione interamente militare del rifornimento viveri, dichiarandosi certo che oltre ai vantaggi morali e disciplinari si potrebbero anche realizzare delle economie. Le critiche del Sani al vettovagliamento si estendono al sistema degli appalti per il grano, che favorisce gli speculatori. Non essendoci concorrenza, il venditore è sicuro di poter vendere la sua merce in qualsiasi momento al prezzo corrente; se ciononostante preferisce vendere iJ suo grano aJJ 'amministrazione militare, "che cosa vuol dire? Delle due l'una: o che il Ministero lo paga più caro, o che si contenta della merce più cattiva". Altro punctum dolens è l'insufficienza dell ' assegno per il rancio: benché la relativa massa sia in debito e abbia bisogno di continue sovvenzioni, i 200 gr giornalieri di carne, che tolto l' osso si riducono a non più di 75 - 80 gr di carne cotta non sempre di buona qualità, sono insufficienti fino a far ritenere al Sani che questa carenza alimentare va inclusa tra i fattori che determinano l'elevata mortalità della truppa (11,6 per mille). Anche la gestione del vestiario - basata sulla massa individuale detta di deconto sempre a parere del Sani non raggiunge, di fatto, Io scopo di incoraggiare la buona tenuta dei capi di corredo da parte del soldato. Su questo punto egli cita favorevolmente il Nunziante, arrivando alla conclusione che sarebbe meglio scegliere una soluzione intermedia tra i conservatori (che vorrebbero mantenere il sistema così com'è) e gli innovatori (che vorrebbero abolire la massa individuale vestiario): ''facciamo che al posto dell'individuo si metta il corpo invece che La massa individuale, facciamola collettiva". Anche le procedure per l'accettazione dei tessuti consegnati dai fornitori sono carenti e antieconomiche: bisognerebbe ridurre i magazzini centrali (ne è previsto uno per corpo d'armata) e prevedere possibilmente un solo centro per l'esame e l'accettazione dei tessuti, con economia di personale e uniformità di criteri e giudizi. Infine il Sani lamenta "l'infelice condizione degli ufficiali", i cui stipendi fissati con leggi del 1874 e 1876 rimangono assai inferiori a quelli degli impiegati dell'amministrazione centrale, "mentre poi l'instabilità


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della residenza, l'obbligo della divisa, le esigenze del decoro, e le maggiorifatiche si traducono in maggiori spese per vestiario, vitto e viaggio". I debiti sminuiscono il prestigio della divisa: ma proprio il Ministero, che dovrebbe punire l'ufficiale che contrae debiti, è costretto dalle circostanze a "favorire quello che dovrebbe reprimere", prestando o anticipando agli ufficiali somme che al momento ammontano a ben 2.346_()()() lire. Come Ministro dal 1870 al 1876, il generale Ricotti si sente direttamente toccato dalle critiche del Sani, ed è l'unico a contestare su molti punti le sue affermazioni, sia pur condividendole in parte. Sulle dipendenze degli organi direttivi dei Servizi il Ricotti trova inesatte le affermazioni del Sani. A suo parere l'esempio francese non vale, perché il Parlamento francese non ha ancora approvato alcuna legge per l'applicazione dei princip:i da lui citali. Invece da noi la questione delle dipendenze dei Servizi è stata già affrontata dall'Art. 37 della sua legge ordinativa 30 giugno 1873, che "risolve tutte le questioni, e le risolve nel senso che mette i servizi amministrativi che incombono al commissariato, sotto l'autorità e la disciplina dei comandanti di corpo d'armata e di divisione"; perciò l'onorevole Sani avrebbe dovuto se mai chiedere la modifica o il miglioramento di questa legge, ma non affermare che la questione non è stata risolta. Sempre secondo il Ricotti, per quanto riguarda la gestione del vestiario, l'acquisto del grano ecc. occorrerebbero nuove leggi da discutere in Parlamento. E se l'onorevole Sani ha ragione a lamentare la mancanza di molti regolamenti logistici, ha torto quando afferma che i Ministri precedenti, assorbiti dalla parte ordinativa e tattica, hanno trascurato la parte logistica: "uno degli scopi principali del Ministero della guerra è sempre stato quello di cercare di semplificare e regolarizzare i servizi amministrativi. Non ci siamo riusciti, questa è un 'altra questione ... " .lJ Ricotti g iudica poi esagerate le affermazioni del Sani sull'insufficienza del rancio; il vitto del nostro soldato è inferiore a quello del soldato francese e inglese, ma "è ben poco diverso" dal vitto prussiano e austriaco, mentre iI nostro pane militare è assai superiore. Bisogna anche considerare che i nostri soldati, in massima parte provenienti dalle campagne, a casa loro mangiavano molto peggio. Per la carne, va ricordato che dal 1850 al 1860 la razione era di 155 grammi anziché di 200 come ora: "eppure con quell'esercito cosi nutrito siamo stati in Crimea, abbiamo fatto la campagna del 1859, e le cose non sono poi andate tanto male". Il vitto può certamente essere migliorato: ma il solo aumento della carne da 200 a 250 gr richiederebbe ben 4 milioni, quindi si devono attendere maggiori disponibilità finanziarie per migliorare il settore.


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11 Ricotti non concorda nemmeno con la proposta del Sani di militarizzare completamente il Servizio di vettovagliamento anche in pace, incaricando le sussistenze militari stesse di approvvigionare e fornire i generi ai corpi. Questa soluzione non è stata adottata in nessun esercito, e presso di noi è stata già sperimentata suscitando lagnanze da parte dei corpi, con una spesa maggiore. Né vale l'affermazione che per essere efficienti in guerra, i Servizi devono funzionare allo stesso modo anche in pace: in occasione delle grandi manovre annuali i Servizi già funzionano come in tempo di guerra, e il personale ha modo di esercitarsi a sufficienza. Infondate anche le preoccupazioni del Sani per il funzionamento delle sussistenze in guerra: i già esistenti panifici si trasformano in panifici per il tempo di guerra, e per il resto "in /Jalia e nei Paesi.finitimi è così facile trovare la carne, che veramente io credo si potrebbe sancire una disposizione che un generale che lasciasse mancare per due giorni la carne ai suoi soldati dovesse venirfucilato" . Evidente amplificazione retorica: perché il

Ricotti non spiega come debba fare un comandante di divisione in operazioni , per cercare la carne in concorrenza con molle altre unità in una zona necessariamente ristretta di territorio; eppure il problema dei viveri non era dato certo ben risolto nelle precedenti campagne, ivi compresa l'ultima del 1870 combattuta sotto la sua gestione. Non si deve credere che il Sani, al momento colonnello commissario in servizio, stia approfittando della sua veste parlamentare per formulare critiche che in altre sedi "interne" sarebbero state sconvenienti. Già in una lettera del marzo 1878 "Sui servizi amministrativi militari" indirizzata al Ministro Mezzacapo (peraltro dimessosi nello stesso mese) e pubblicata significativamente dalla Rivista Militare44 egli aveva con pari se non maggiore crudezza elencato i molti difetti dell'amministrazione militare, giungendo ad affermare che "non vi sono parole sufficienti per descrivere e condannare un sistema che impedisce a un capo di studiare a fondo, di attuare il bene che vede, e lo affoga invece in un vortice di particolari, di noie, di brighe, che finiscono per oscurarne l'intelletto ed esaurirne le forze fisiche", mentre "il nostro soldato vive magramente, veste da povero e dorme sul pagliericcio, e i nostri uffiziali hanno uno stipendio che appena li salva dalla miseria" .

Segue un lungo e particolareggiato elenco di proposte, che si configura come un impegnativo programma di lavoro per chi, in futuro, dovrà tirare le fila dell'amministrazione militare:

44 Giacomo Sani, Sui servizi amministrativi militari - lettera a S.E. il Ministm della !(tterra, in "Rivista Militare Italiana" Anno XXIII - Tomo n giugno 1878, pp. 402-425.


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=IX,__-=DALL = '=ORDINAMENTO RIC:mT1 ALL'Ol{J)INAMENTO FERRERO

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- rivedere in senso più favorevole al personale, e in particolare ai gradi inferiori , la legislazione sugli stipendi e pensioni, che al momento penalizza gli ufficiali rispetto agli altri impiegati dello Stato; - "variare in alcune parti la legge sull'assegno della truppa", assegno al momento spesso insufficiente e con un sistema di pagamenti tale da creare complicazioni contabili, con eccessivo impiego di personale e disparità di trattamento tra i corpi; - modificare la legge Ricotti del 30 settembre 1873 per la parte che riguarda le attribuzioni e l'ordinamento del commissariato, con particolare riguardo alla necessità di prevederne un vertice (generale commissario), che costituirebbe "un centro potente e operoso che protegga, sorvegli, mantenga nella linea del dovere" gli ufficiali comnùssari, e che in guerra ricoprirebbe l'incarico di capo dei Servizi di un'armata; - creare una "scuola permanente di amministrazione militare", depositaria della scienza amministrativa e destinata a formare gli ufficiali commissari di carriera e di complemento. Alla mancanza di tale scuola si è fino a quel momento ovviato con l'istituzione in Roma di "una scuola temporanea di amministrazione ed economia" che ha dato buoni risultati ed è stata frequentata da più di 120 allievi; - creare, in vista delle esigenze del tempo di guerra, le compagnie di sussistenza, militarizzando il servizio di sussistenza e dei panifici, per il quale non è conveniente impiegare personale civile; - "sancire per legge la soppressione delle masse individuali, rimediando al cattivo fun zionamento .specie della massa vestiario" [in Parlamento il Sani non è giunto a tanto - N.d.a.J; - unificare come già si è visto, le nonne sulle diverse prestazioni dei Comuni a favore dell 'esercito. Il Sani si sofferma in modo particolare sulla necessità di modificare in alcune parti la legge di contabilità generale dello Stato (uguale per tutti i Ministeri), onde adattarla alle specifiche esigenze militari. In merito, riferisce che è stata costituita una Commissione con l'incarico di studiare le modifiche da apportare alla predetta legge, della quale fanno parte anche rappresentanti de] Ministero della guerra. Quest'ultimi hanno formulalo proposte per conciliare il diritto di controllo della Corte dei Conti con il dovere dell'amministrazione militare di raggiungere nel modo migliore le sue riconosciute, speciali finalità, ponendo così fine al clima di "pace armata ... fino ai denti'' che caratterizza al momento le relazioni tra i Ministeri della guerra e delle finanze.


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La descrizione della materia del contendere fa emergere tutta la complessità e Je contraddizioni di una situazione, destinata a protrarsi ancora per lungo tempo: la corte dei conti non volle riconoscere il regolamento d 'amministrazione compilato dal ministero della guerra, perché, al suo modo di vedere, è un eretico in faccia alla legge sulla contabilità generale_ D'altra parte questo regolamento è in vigore da parecchi anni e forma anzi il vangelo amministrativo dei corpi. E la stessa Corte ne accetta le conseguenze, approvando i conti_ Ma ciò non basta_ Dopo la legge 19 marzo 1873, che muta sostanzialmente il modo col quale si corrisponde l'assegno per la truppa, anzi ne varia la natura, creando tra i corpi e lo Stato una specie d'appalto; si può ancora ritenere eretico il regolamento di amministrazione? Dopo quella legge non è più lo Stato che somministra al soldato quanto gli abbisogna per il vitto, il vestito, l'allo,?gio ecc. E' il corpo che provvede da sé a tutto ciò; e se di nuovo c'entra lo Stato non è più come Stato, ma come un provveditore qualsiasi. Si dirà che tutto dà è un non senso_ E sia_· ma questa circostanza L-. _J porterebbe alla conseguenz.a che La corte dei conti dovrebbe esercitare il suo controllo giudiziale esclusivamente sulla giusta corresponsione dell'assegno [._.). Dunque dei 96 centesimi (prendendo l'assegno del soldato di fanteria) la Corte dei Conti ne riscontra 55, calcolando anche i letti e la le1:na; Rii altri 41 ven1:ono ero1:ati dai corpi e sfug1:ono per consef?uenza al riscontro giudiziale_ E ' egli logico e regolare, è possibile perdurare in questa condizione?

11 Sani precisa poi quali sono i regolamenti attinenti ai vari Servizi da compilare: anzitutto il regolamento sull'amministrazione e contabilità dei corpi, poi quello sul Servizio di commissariato in pace e in guerra e le istruzioni sul vestiario e il casermaggio_ Il nuovo regolamento di amministrazione a suo parere dovrebbe essere "sobrio, chiaro e preciso, semplice e ordinato nella forma, esplicito nel definire le attribuzioni e le responsabilità, semplice e alieno da dettagli inutili nella parte che riguarda la resa dei conti'': esattamente il contrario della "raccolta" in data 1° luglio 1875 al momento in vigore, la cui applicazione assorbe troppo personale. Sempre per il Sani il regolamento di commissariato dovrebbe mirare all'unità d'azione di tutti i Servizi, dando loro un indirizzo generale con la definizione dei limiti di direzione e di vigilanza su tutti i rami amministrativi, e lasciando alle istruzioni speciali la parte che si riferisce all'esecuzione. Per quanto attiene al commissariato, il nuovo regolamento dovrebbe fornire una risposta esauriente a una serie di interrogativi: se l'uftìciale


IX - DALl.' ORDINAMJ:iNTO RJCOTII ALL'ORDINAMP.NTO l'liKRERO

commissario deve esercitare la direzione, o solo la vigilanza dei Servizi logistici; se deve o meno esercitare anche il controllo; se la responsabilità dei Servizi in pace e in guerra deve essere solo sua, oppure risalire al Comando al quale è sottoposto. Dallo stesso lenore di questi interrogativi si coglie la perduranle predilezione (o nostalgia) del Sani per il modeJlo del vecchio corpo d'Intendenza, con compiti esclusivi di direzione e controllo di tutti i Servizi e magari anche autonomo rispetto alla catena di comando.

SEZIONE

m -Dieci corpi d'armata forti o dodici deboli? La soluzione quantitativa della legge Ferrero (1882) e le aspre critiche in Parlamento del Ricotti e di altri

Dopo quello del Ricotti l'ordinamento più importante è dovuto al Ministro generale Emilio Maurizio Fcrrero (legge 29 giugno 1882, n. 831 di

riordinamento dell 'esercito e dei servizi dipendenti dall'amministrazione della guerra), che come già traspare dal titolo è presentata esplicitamente come prosecuzione e completamento della legge Ricotti di circa dieci anni prima, in lai modo indirettamente dimostrandone l'importanza. Mantenendo fermo il bilancio a 201 milioni, il Ferrero intende aumentare la forza dell'esercito, dargli un carallere più offensivo e farlo pesare di più in Europa, nell' ambito della Triplice Alleanza firmata non casualmente in quello stesso anno. Fin dal tempo di pace i corpi d ' armala aumentano da 10 a 12, le divisioni da 20 a 24, i reggimenti di fanteria da 80 a 96. I bersaglieri passano da lO reggimenti su 4 battaglioni a 12 reggimenti su 3 battaglioni, quindi con una diminuzione di 4 battaglioni. Gli alpini raddoppiano il numero delle compagnie (da 36 a 72, inquadrate in 20 battaglioni e sei reggimenti), mantenendo peraltro la forza totale di pace invariata, perché le 36 compagnie già sul piede di guerra si sdoppiano in 72 compagnie sul piede di pace. Realizzando almeno in parte le proposte del Sani sono istituite per ciascun corpo d'armata una compagnia di sanità e una compagnia di sussistenza, che è al comando di ufficiali contabili a loro volta alle dipendenze del direttore di commissariato locale, e che ha il compito di "attendere al servizio dei panifici e in parte a quello dei viveri

in tempo di pace e a quello delle sussistenze militari in campagna". L' istruzione delle classi in congedo viene maggiormente curata; peraltro si ammette per la prima volta anche per legge la ferma biennale, sia pur ristretta a una piccola parte del contingenle di 13 categoria (17.10%). Per mi-


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gliorare l'istruzione militare e rendere possibile l'adozione di una ferma più breve viene istituito il Tiro a segno nazionale (legge 2 luglio 1882), con un' organizzazione e vantaggi per i frequentatori che rispecchiano quelli già proposti dal Baratieri. Grazie al nuovo ordinamento, secondo il Ministro l'esercito di ia linea in caso di guerra aumenterebbe da 330.000 a 430.000 uomini e la milizia mobile da 150.000 a 180.000 uomini, suddivisi in 10 divisioni. Pochi contestano l'opportunità che, in una situazione europea tutt'altro che priva di tensioni, e tenuto anche conto della firma della Triplice Alleanza, l'Italia rafforzi il suo dispositivo militare anche dal punto di vista quantitativo; ma i limiti del bilancio impongono senza rimedio la scelta tra la qualità subito, in attesa di aumenti dell'organico da adottare solo quando saranno disponibili maggiori risorse, oppure un aumento degli organici anche a scapito - che si spera temporaneo - della qualità e dell' istruzione, in attesa di colmare le lacune non appena il bilancio militare lo consentirà. Posto che, come sempre, il convitato di pietra sono le risorse disponibili, favorevole a quest' ultima soluzione è ovviamente il Ministro Ferrero, che ha pat1ita vinta; il fronte dei contrari è capeggiato dal Ricotti. Gli elementi di maggior interesse pro o contro le due tesi contrapposte emergono soprattutto dal dibattito alla Camera nell 'aprile - giugno 1882, che pertanto riassumiamo brevemente qui di seguito, senza necessariamente seguire l'ordine cronologico.

Gli orientamenti del Ministro Ferrero e il diverso parere del Ricotti TI Ministro Ferrero (tornata del I O maggio 1882) dopo aver preso atto che la necessità di aumentare [ma come? - N.d.a.] le nostre forze militari "è ormai penetrata nella coscienza universale", prende in esame anzitutto i vari modi di rafforzare l'esercito partendo da un bilancio di 200.700.000 lire. Sarebbe stato possibile mantenere gli attuali IO corpi d'armata, ma con la compagnia di 250 uomini sul piede di guerra, rafforzando l'artiglieria, il genio e tutti gli altri servizi e chiamando alle armi la classe di leva a novembre anziché in gennaio. Così facendo si sarebbero anche introdotte nell'esercito "tutte quelle migliorie, che col tempo, spero si potranno raggiungere"; per contro questo sistema "avrebbe prodotto soltanto un aumento di potenza tattica; non si sarebbe ottenuto cioè alcun aumento di potenza strategica". Con la costituzione di due nuovi corpi d' annata da lui proposta, invece, si aumenta non solo la potenza strategica ma anche quella tattica, sia pur con la forza di guerra delle compagnie di 225 uomini e mantenendo invariata la proporzione tra le varie Armi.


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Secondo il Ministro l'aumento a 12 dei corpi d'armata risponde prima di tutto alla necessità di difendere meglio l'Italia peninsulare e insulare, che, "esposta a sbarchi da parte di una potenza preponderante sul mare" Lcioè la Francia - N.d.a.J, può diventare "l'obiettivo di importanti diversioni, atte ad esercitare una grandissima influenza sulle operazioni dell'esercito principale", specie (ma non solo) se esse avvengono oltre confine. Da bocciare anche la proposta del relatore della Commissione bilancio (colonnello Corvetto) di costituire un solo corpo d'armata in più, lasciando l'organico di guerra delle compagnie a 250: "questo sistema avrebbe certamente prodotto un risultato migliore, ma l'aumento di potenza strategica sarebbe stato troppo limitato". Il Ferrero, infine, assicura che anche con i 12 corpi d'armata i fondi al momento djsponibili bastano: il bilancio di 200.700.000 lire è sufficiente sia per aumentare gli stipendj degli ufficiali (''impegno sacro" ,visto che sono stati aumentati gli stipendj dei funzionari civili), sia per gli aumenti di forza previsti, ai quali possono subito essere destinati 13 milioni. li Ricotti, presidente della Commissione per il bilancio, è di parere opposto a quello del Ministro, pur non essendo affatto contrario all'aumento della forza dell'esercito di I" linea e della mili zia mobile. Già nella tornata della Camera del 19 febbraio 1879 aveva lamentato che la legge del 1876 (da lui proposta anche se approvata quando già aveva lasciato la carica), che sopprimeva la guardia nazionale e istituiva la milizia comunale e la milizia territoriale, aveva avuto come unico risultato di abolire la stessa guardia nazionale, mentre mancavano ancora i regolamenti istitutivi della milizia comunale e territoriale. Di conseguenza, in caso di mobilitazione sarebbe stato inevitabile distogliere una parte cospicua dell'esercito di 1" linea per esigenze di difesa territoriale e di ordine pubblico. Era perciò necessario dare priorità all'aumento dei richiami di classi per istruzione, sia per l'esercito di l3 linea (in occasione delle grandi manovre annuali) sia per la milizia territoriale. In secondo luogo il Ricotti osserva che da quando egli ha lasciato la carica, l'istruzione delle truppe è peggiorata nonostante l'aumento del bilancio. Mentre ai suoi tempi con un bilancio di 165 milioni si istruivano sia pur per soli 45 giorni 45.000 uomini di 2a categoria, l'istruzione di tale categoria è stata sospesa nel 1877 e 1878, per poi riprenderla istruendone però solo 20.000, che dovrebbero essere trattenuti per tre mesi sotto le armi , ma di fatto vi rimangono solo 70 giorni. Inoltre, quand'egli era Ministro ogni anno alle grandi manovre partecipavano tre corpi d'armata e tutte le brigate; al momento invece vi partecipano solo due corpi d' armata e la metà delle brigate.


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Ormai - prosegue il Ricotti - si sta andando verso gli eserciti di massa, quindi è necessario istruire per il combattimento "tutti gli uomini che ne hanno l'attitudine, cioè gli uomini dai 20 ai 40 anni, e i volontari dai 40 ai 50"; per inquadrarli occorrono molti ufficiali di complemento che compiano la loro ferma di leva così come i soldati. Il suo decreto del 1876, che pur mirava a questi. obiettivi, non è stato applicato. Né tanto meno, a parere del Ricotti, tali obiettivi potranno essere raggiunti con la nuova legge proposta dal Ferrero, perché il bilancio preventivo di 200.700.000 lire contestualmente presentato dal Ministro per il 1885 (cioè quando sarà pienamente attuato il nuovo ordinamento di pace proposto) non lo consente per una serie di motivi, a cominciare da errori di calcolo sui vari capitoli per 3,7 milioni, e da maggiori spese richieste da aumenti di forza non calcolati per altri 3,7 milioni. Inoltre il Ministro Ferrero, per rimanere anche con 12 corpi d'armata nei limiti di bilancio, intende adottare "ripieghi tecnici militari veramente dannosissimi alla compattezza dell 'esercito stesso", come il larghissimo ricorso ai congedi anticipati e soprattutto la riduzione della forza di pace delle compagnie di fanteria da 100 uomini per otto mesi all'anno e 65 per gli altri mesi, a 90 uomini per 8 mesi e a soli 5254 per il restante periodo dell'anno, con grave pregiudizio per l'istruzione e il morale della truppa. Per mantenere invariata anche con 12 corpi d'armata la forza delle compagnie, occorrerebbero altri 7 milioni: totale 215 milioni circa. Cifra, quest'ultima, che a parere del Ricotti è a sua volta insufficiente, perché anche con 215 milioni non si potrebbe far fronte ad altre esigenze importantissime, come l'anticipo della chiamata della leva a novembre anziché a gennaio per rimediare agli inconvenienti del congedo anticipato, il cavallo per i capitani di fanteria così come già l'hanno quelli delle altre Armi, la formazione dei nuclei di milizia mobile presso i distretti, la pronta disponibilità dei cavalli necessari al momento della mobilitazione. Questi provvedimenti richiederebbero altri 10 milioni, facendo salire a 225 milioni il bilancio realmente necessario per rendere valido il nuovo ordinamento. ln conclusione il Ricotti si dichiara disposto a votare, sia pur "senza entusiasmo", il nuovo ordinamento solo se il bilancio corrispondente aumentasse almeno a 215 milioni; ma se il Ministero mantenesse f emzi i 201 milioni, quale limite massimo da non oltrepassarsi per diversi anni nel bilancio ordinario della guerra, io non voterà mai il nuovo ordinamento propostoci; il quale non potrebbe essere applicato se non in modo pernicioso alle nostre forze milita ri, al punto da indebolire anziché accrescere la nostra potenza mili-


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tare, e preferirei conservare lo attuale ordinamento in dieci corpi d'armata, applicando il piccolo aumento concesso nella spesa annua ad in{?rossare la forza di guerra dei corpi stessi, a migliorare l'ordinamento della milizia, a migliorare alcuni servizi di pace e di guerra [ivi compreso il miglioramento del rapporto tra artiglieria e gemo e fanteria, maggiore in altri Paesi - N.d.a.J.

Il Ricotti si trova in disaccordo con il Ministro Ferrero anche per la durata della ferma e le modalità di reclutamento. E' in linea di massima favorevole alla riduzione del1a ferma, ma ritiene che alla durata di due anni, già proposta da alcuni, si possa e si debba arrivare in modo graduale. Condivide anche l'articolo della nuova legge che stabilisce le modalità per i congedi anticipati prima lasciate alla discrezionalità del Ministro. Ritiene che il principio della ferma uguale per tutti (o del contingente unico) sia giusto in linea teorica e per le esigenze dell ' individuo, ma dannoso per l'esercito. Peraltro, la scelta a cura degli stessi comandanti dei soldati che devono essere inviati in congedo anticipato è opportuna solo se la percentuale di coloro che fruiscono di questo vantaggio è minima; ma se tale percentuale è - come si prevede - assai elevata , allora bisogna preventivamente ripartire il contingente di I" categoria in due parli, una che deve fare una ferma più breve e l'altra una ferma più lunga. Si deve infatti tener conto che se per la massa dei soldati di fanteria e per gran parte dell'artiglieria, del genio e del treno basta la ferma di due anni, per la cavalleria, per una parte dell'artiglieria da campagna, per i caporali e gli specialisti occorre una ferma più lunga (4 anni). Così facendo, anziché avere 1/3 del contingente con ferma di 3 anni, si avrebbe 1/4 con ferma di 4 anni e 3 /4 con ferma di 2 anni. Coloro che devono compiere la ferma più lunga sarebbero estratti a sorte e non scelti presso i distretti, evitando così anche i sospetti di favoritismi e di raccomandazioni: "si ha un bel gridare contro

l'ingiustizia della sorte, ma la società ora, come in passato, La preferisce sempre a tutte le altre. Ciascuno tira il suo numero e subisce più facilmente il giudizio della sorte, che il giudizio di qualunque altra specie, più o meno competente". Ma come mai il Ricotti, alcuni anni prima, da Ministro, ha sostenuto la ferma di 3 anni per tutte le Armi eccetto che per la cavalleria? Lo spiega egli stesso: "abbiamo commesso un errore, non perché

si sia stabilita una ferma troppo breve, ma perché non abbiamo tenuto conto che nell'esercito vi sono due bisogni affatto diversi quanto a durata del servizio sotto le armi". Il Ricotti ritiene infine prematuro riconoscere nella nuova legge ordinativa dei vantaggi a coloro che hanno fatto parte delle società di tiro a se-


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gno, la cui legge istitutiva al momento non è ancora stata approvata. Più in generale, nella discussione alla Camera della legge (tornata del 19 maggio 1882) diversamente dal Baratieri si dimostra piuttosto scettico sugli effettivi vantaggi militari che comporterebbe la partecipazione dei soldati chiamati alle armi agli esercizi di tiro a segno: a suo giudizio le società di tiro a segno sono in decadenza anche là ove - come in Svizzera - erano fiorenti, anche perché diversamente dal passato l'impiego tecnico del fucile moderno è assai semplice e consente anche alle reclute che non hanno mai visto un fucile di sparare abbastanza bene dopo brevissimo tempo. E anche se l'abilità nel tiro al bersaglio è cosa utile e serve a rialzare lo spirito militare della Nazione, "nell'esito del combattimento la differenza materiale fra gli abili tiratori e i mediocri è cosa di poco momento. Ben più importanti sono la disciplina, la fiducia nei comandanti, l'attitudine nel sopportare le fatiche della marcia e delle sofferenze". Di conseguenza il Ricotti prevede che le facilitazioni accordate dalla legge per i membri delle società di tiro a segno dovranno ben presto essere riviste, perciò si dichiara contrario a legare le mani all'esercito, facendo partecipare i Comuni e le Province alle spese d'impianto e funzionamento delle nuove società. Se, infatti, gli enti locali partecipassero a una spesa che riducendo gli obblighi militari andrebbe a vantaggio della cittadinanza, a buon diritto potrebbero rivendicare il mantenimento delle facilitazioni accordati ai frequentatori di un'attività da loro stessi finanziata, anche quando esse non fossero più ritenute opportune dall'autorità militare.

Altri interventi critici (Majocchi, Favale, Morana, Perrone di San Martino, Nicotera, Compans, Plutino)

Uno degli interventi più originali è quello del deputato Majocchi, colonnello garibaldino mutilato e reduce dalle guerre d'indipendenza, il quale nella tornata dell' 11 maggio 1882 osserva molto giustamente che "senza applicare il sistema territoriale ad una grande massa di forza nazionale è follia sperare economie nel Ministero della guerra, e l'aspettare un rapido passaggio dallo stato di pace allo stato di guerra". Come dimostrano le recenti guerre, il nostro sistema di mobilitazione - egli osserva - è lento e inefficiente, e non consente nemmeno la mobilitazione parziale di un corpo, di una divisione o di una qualunque unità dell'esercito in una sola parte dello Stato. Oltre che per facilitare una pronta mobilitazione, il Majocchi propone l'adozione del sistema territoriale anche per ragioni morali: dovrebbe essere previsto per battaglioni regionali come è avvenu-


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to nella difesa di Venezia nel 1848 - J849 contro gli austriaci, quando i vari battaglioni (lombardi, veneti, napoletani ecc.) gareggiavano tra di loro, con sana emulazione, per disciplina e valore. Al reclutamento territoriale egli prevede a torto - si dovrà andare per fort:a, nonostante la ritrosia dei vertici militari, che intanto hanno escogitato il peggio del sistema territoriale e del sistema nazionale, prevedendo che in caso di mobilitazione i reggimenti di 1• linea siano completati con soldati di I a categoria provenienti da tre diverse province, lontanissime tra di loro. Viene così violato il conclamato principio che, per elevare lo spirito militare, il soldato richiamato deve tornare nello stesso reggimento dove ha fatto il servizio di leva, ottenendo un esercito che "non è né permanente, né di prima linea, se occorrono 25 o 30 giorni prima che gli uomini che gli appartengono siensi riuniti in una proporzione di guerra". Non è quindi credibile l'obiettivo della legislazione del momento, che in caso di guerra vorrebbe un esercito pronto in dieci giorni. Per ovviare a questi inconvenienti , pur premettendo di non voler caldeggiare l'adozione del sistema di nazione armata, il Majocchi ne suggerisce parecchi principi: istruzione ed educazione militare della gioventù prima della chiamata alle armi, evitando la perdurante e nociva influenza del clero; non congedi anticipati ma ferma ridotta per tutti [senza precisarne la durata - N.d.a.]; reclutamento "quasi ad una categoria sola"; no all'esercito di caserma; massima cura per la milizia mobile e per il suo inquadramento. In particolare, 300 battaglioni di milizia mobile "sarebbero la vera forza di prima linea e permetterebbero di procedere alla riduzione della ferma anche per l'esercito permanente", proteggendone la mobilitazione e la radunata con l'immediato schieramento di 60 - 100.000 uomini in avanti sul tratto di confine minacciato. Questa, per il Majocchi, sarebbe anche l'unica soluzione per non eccedere nelle spese militari: gli Stati che spendono troppo per le Forze Armata "si trovano spesso obbligati a desiderare la guerra per sottrarsi a uno stato di quasi fallimento". Le frasi altisonanti, che misurano il patriottismo solo dai milioni che vota la Camera, sono inutili e intempestive; "la questione non istà nello spendere molto per essere forti, ma sta nella immediata prontezza alla lotta, nello .spiegamento simultaneo di ingenti forze, e per ottenere questo, non vi ha che adottare, parzialmente almeno, il sistema territoriale". L'onorevole Nicotera si sente personalmente toccato dagli accenni del Majocchi alla tendenza ad eccedere nelle spese militari e definisce "poesia" le sue idee, che sono ferme all'esperienza delle guerre d' indipendenza e non tengono conto dei progressi degli ordinamenti da allora in poi. Esse non sono perciò applicabili alla realtà italiana


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del momento: o si vuole un esercito ben organjzzato, e allora si deve concedere quanto è necessario; o non lo si ritiene necessario alla difesa nazionale, e allora si può economizzare finché si vuole, lasciando a poche migliaia di Carabinieri il compito di mantenere l'ordine pubblico. In merito, osserva che "si vuole fare un miracolo", perché non si spende quel che occorre e tuttavia si vuole aumentare il numero dei corpi d ' armata, senza accrescere veramente la forza dell'esercito; perciò annuncia che se non si assegneranno le risorse necessarie per aumentare a 12 i corpi d'armata, voterà contro la legge Ferrero. TI Majocchi replica brevemente che prima di votare nuove spese militari bisogna pensare alla miseria popolare, alle centinaia di migliaia di contadini che al momento stanno scioperando per avere un aumento della paga giornaliera da 80 centesimi a una lira, al peso insopportabile dell'imposta fondiaria che è la più alta in Europa. Anche l'onorevole Favale (tornata del 27 aprile 1882) si allinea alle posizioni del Ricotti, prevedendo che, se si costituiranno 12 corpi d' armata con soli 200 milioni, si otterrà un ordinamento "monco e imperfetlo", a meno di aumentare notevolmente il bilancio. La sua opposizione alla legge Ferrero è perciò senza appello, perché senza rafforzare e anzi peggiorando l' ordinamento dell'esercito, ha effetti rovinosi sulle finanze dello Stato e in prospettiva rende praticamente impossibile l'a11eggerimento o l'abolizione delle tasse, a cominciare da quella del macinato. inoltre tale legge non pone affatto rimedio all'antieconomicità, ai difetti di funzionamento, ai meccanismi troppo complicati e agli sprechi dell'amministrazione militare, della quale cita parecchi esempi (le fortificazioni di Roma; la costruzione di forti in posizioni sbagliate o con cannoniere troppo piccole, che è stato necessario ricostruire; l'ordinazione ali' estero di costose artiglierie pesanti, che avrebbero potuto essere fabbricate con molta minor spesa in Italia; l'acquisto all'estero di altri materiali, che avrebbero potuto essere ordinati anch' essi con minor spesa all ' industria nazionale, ecc.). Sempre secondo il Favale, in proporzione alla Germania abbiamo troppi ufficiali, e precisamente 2000 ufficiali in più di quelli che dovremmo avere, con eccedenza anche di ufficiali di Stato Maggiore. Ne consegue una maggiore spesa di 6 milioni; "ma la spesa è ancora il minor male, perché avendo quest'eccedenza di ufficiali, per collocarli si crea un'infinità di cariche e allribuzioni che li distolgono dal loro compito militare". Eppure i nostri ufficiali non sono certo meno validi degli ufficiali germanici ... Come esempio di cattivo impiego dei Quadri, il Favale cita alcune branche come gli stabilimenti militari e l'insegnamento nelle scuole. La fonderia di cannoni di Spandau, l'unica in tutta la Germania anche per la marina, prima del 1870 funzionava bene solo con un capitano e due uffi-


IX • DALL' ORDINAMENTO RICCYITI ALL'ORDINAMENTO FERRERO

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cia]i; noi invece abbiamo tre fonderie con 21 ufficiali. Inoltre, mentre in Germania gli ufficiali addetti agli stabilimenti o all'insegnamento trascorrono tutta la carriera con lo stesso incarico, noi pretendiamo che un ufficiale passi periodicamente dagli stabilimenti o dall' insegnamento a incarichi nell'esercito attivo: "un avvocato, un medico, un ingegnere che abbandonino La Loro professione, dite, vi potranno ritornare, quando vogliono riprenderla, con la stessa pratica, con gli stessi risultati di prima? Mai no. Eppure questo sciupìo di studi e di capacità avviene ogni giorno nell 'esercito". A fronte di questo cattivo impiego dei fondi e delle risorse umane prosegue il Favale - la situazione finanziaria del Paese è assai critica: la tassa sulla proprietà fondiaria e il debito pubblico sono i più alti in Europa e le inchieste dimostrano l'estrema miseria delle classi popolari. Partendo da questi dati, il Favale contesta la validità delle affermazioni di coloro che sostengono che la spesa militare italiana in proporzione al bilancio complessivo è minore di quella di altri Paesi, o che la forza dell'esercito italiano in proporzione alla popolazione è anch' essa inferiore a quella delle principali potenze europee. A suo parere, se si tiene conto - come è necessario - dell'enorme debito pubblico e dell'ammontare dei relativi interessi, la percentuale di spesa militare dell'Ilalia diventa assai maggiore; in secondo luogo la popolazione è certamente un dato del quale bisogna tener conto, ma "non basta avere soldati; bisogna pensare ai mezzi, dei quali si può disporre per mantenerli in pace e in guerra". Del resto, un sistema di difesa senza il consenso popolare sarebbe assai debole .... Dopo il Favale uno degli interventi più interessanti è quello dell'onorevole Morana (tornata del 23 maggio 1882), il quale prevede - a ragione - che il Ministro delle finanze non potrà mai concedere i 225 milioni ritenuti necessari dal Ricotti e dai suoi seguaci. Non crede però necessario rinunciare alla costituzione di 2 nuovi corpi d'armata; al contrario, propone l'aumento urgente delle forze mobili, che (è tra i pochissimi a sostenerlo) sono la base e il fondamento della forza militare, quindi devono avere la priorità rispetto alle fortificazioni. Con le modalità di reclutamento previste dalla legge, all'aumento di 2 corpi d'armata non corrisponde certo un aumento della forza; solo con una diminuzione della ferma si può ottenere, a parità di bilancio, una consistenza numerica sufficiente sia per l'esercito di 1• linea che per la milizia mobile e territoriale. Di qui la sua proposta di introdurre una ferma di due anni per tutti, con alcune eccezioni: io credo fermamente che con una .fenna di due anni, avremo un soldato sufficientemente istruito, e ciò che sarà me,:lio, i 'onorevole ministro de-


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ve riconoscerlo, avremo quasi tutte le classi uniformemente educate alla vita militare; perché io, onorevole ministro della guerra, cullocandumi dal suo punto di vista, annetto una grande importanza al fatto di avere tutto il contingente annuale uniformemente istruito per due anni, anziché averne una parte istruita per cinque mesi e una parte per tre anni [come avviene nel progetto di legge del Ministro - N.d.a. I. Dunque ci si guadagnerebbe, da un Lato perché si avrebbe l'uniformità dell'istruzione e il paese meglio militarizzato, dall'altro lato perché si starebbe nel limite di 200 milioni di spesa, e forse si avrebbe un avanw 1- .. I. Non si può negare poi che vi sarebbe economia grandissima per le famiglie, le quali anziché dissestate per tre anni, lo sarebbero per due.

Per il Morana non vi sono alternative : o si dispone di un bilancio assai largo che consenta di addestrare al meglio il maggior numero di soldati , oppure si dispone di un bilancio proporzionato alle nostre possibilità economiche, e allora ci si deve accontentare di un soldato sufficientemente istruito. Certamente sarebbe meglio un soldato con tre anni d'istruzione; ma su questa via, sarebbe ancor meglio un soldato con cinque o otto anni d'istruzione. Per i volontari di un anno si ritiene sufficiente una ferma così breve, anche perché hanno già avuto un'istruzione e un'educazione nelle famiglie da cui provengono; ma anche tra i soldati che compiono il normale servizio di leva ve ne sono parecchi che hanno già ricevuto la stessa educazione dei volontari di un anno; perciò, se un anno basta addirittura per formare un possibile ufficiale e sottufficiale, a maggior ragione

"deve essere possibile d'istruire nello stesso tempo un soldato, il quale forse ha maggiori studi del volontario di un anno, ma che non può fare il volontario di un anno per difeNo di mezzi .finanziari". Bisogna anche tener conto che, dato il progresso sociale e dell ' istruzione, al momento è possibile dare al contingente di leva in due anni quell'educazione, che in passato ne richiedeva tre . Per la cavalleria, per i sottufficiali e graduati il Maiorana ammette comunque la necessità di una ferma più lunga. Anche l'onorevole Perrone di San Martino (tornata del 30 aprile 1882) ritiene inutile e dannoso costituire due nuovi corpi d'armata: a parte il fatto che 200 milioni non basterebbero e ne occorrerebbero almeno 215, con la legge Ferrero si otterrebbe un aumento delJa fanteria assai modesto (12.000 uomini su 300.000), quindi l'istruzione sarebbe più difficoltosa, perché le unità tattiche aumenterebbero di numero, ma avre bbero forza minore. Per ben inquadrare le nuove unità tattiche occorrerebbe anche un maggior numero di ufficiali e sottufficiali che sarebbero sottratti alle esigenze di formazione della milizia mobile, perché il loro numero è ri-


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DALL'ORDINAMENTO RICOITI ALL'OlilllNAMl'.NTO f'F.RRF.RO

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stretto. Tanto più che secondo il progetto del Ministro, circa 800 subalterni e 700 sottufficiali dell'esercito permanente in caso di mobilitazione dovrebbero passare alla milizia mobile, lasciando le compagnie dell'esercito di 1• linea nella migliore delle ipotesi con 1 capitano e due subalterni effettivi [obiettivo molto raramente raggiunto nel XX secolo, durante la guerra fredda - N.d.a.]. Dopo i precedenti interventi il Ministro Ferrero non ritiene necessario replicare ai parlamentari contrari all'aumento dei corpi d'armata; nella tornata del 23 maggio 1882 ritorna invece sull'argomento dei congedi anticipati e/o delle ferme più brevi, sostenendo la combinazione del sistema di congedi anticipati per una parte del contingente annuale di 1• categoria (che conserva la ferma di 3 anni, esclusa la cavalleria che ne compie 4) con iJ sistema proposto dal Ricotti, cioè con l'estrazione a sorte fin dall'inizio di una parte del contingente di 1" categoria, che compirebbe la ferma ridotta di due anni. Meritano infine un breve cenno due altri argomenti dibattuti: la dislocazione delle unità al Sud e l' impiego dell'esercito in compiti extra-militari. Al momento l'industria è ancora poco sviluppata, perciò l'unica vera industria specie nelle regioni più povere è l'esercito (confezione di divise, forniture di viveri e foraggi , affitti per i Quadri , dazio ecc.). li deputato meridionale Nicotcra (tornata del l 7 maggio 1882) lamenta che solo 6 dei 12 corpi d'armata previsti sono dislocati a Sud di Ancona, mentre gli altri 6 gravitano nella pianura padana. E' vero - egli afferma - che si deve tener conto delle esigenze militari; "ma in tempo di pace l'esercito che pesa su

tutto il Paese, su tutti i contribuenti, deve riuscire ad essere in certo modo anche utile a tutti ed è innegabile che l'avere un certo numero di soldati in una città, contribuisce molto al suo miglioramento economico". L'onorevole piemontese Compans obietta che la <lislu<..:azione <lei le unità in pace deve corrispondere il più possibile alle esigenze di guerra; perciò la dislocazione al momento prevista (9 corpi d 'armata per la difesa della valle del Po e 3 per la difesa dell' Italia peninsulare e delle isole) risponde appunto a questo concetto. 11 Ministro Fcrrcro, dal canto suo, non ritiene possibile almeno per il momento prendere in considerazione la proposta del Nicotera, perché per la difesa delle frontiere terrestri gli alpini devono essere rinforzati da divisioni di fanteria, sicché è necessario gravitare nella valle del Po: "ma questa non è cosa che sia invariabile: è trop-

po f?iusto che, a misura che andrà svolgendosi La nostra rete ferroviaria, prevalga il criterio di dislocare i corpi in proporzione del prodotto di leva", che comunque nel Sud è minore che nel Nord, a causa delle numerose riforme per bassa statura specie in Calabria. Inoltre bisogna tener con-


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to che le possibilità di accasermamento per Comandi, reparti e servizi nel Sud sono assai precarie .... Un dialogo tra sordi: perché il Nicotera replica che il sistema ferroviario del momento è già tale, da consentire il rapido trasporto da Sud a Nord in 24-48 ore di grossi contingenti di truppa, né le condizioni dì accasermamento sono per lui quelle descritte dal Ministro. Quest'ultimo ribadisce l'insufficienza del sistema ferroviario, anche perché la ferrovia corre lungo la costa ed è facilmente interrompibile; e aggiunge che avendo comandato per due anni un corpo d'armata nel Sud, ha potuto constatare di persona che le possibilità di accasermamento sono colà insufficienti. Infine il deputato Plutino sostiene, come il Nicotera, che è necessario dislocare un maggior numero di reparti al Sud per un altro motivo: la difesa contro gli sbarchi, tanto più necessaria con truppe mobili perché mancano fortificazioni costiere, e anzi sono state demolite quelle che c'erano. Ad esempio lungo la linea Napoli-Reggio Calabria vi è solo un corpo d 'armata a Napoli e uno a Bari; basterebbe uno sbarco di 810.000 uomini per dividere e paralizzare queste forze, provocando la perdita del l'Italia meridionale. Come si è visto, uno dei problemi più pressanti dell 'esercito è il troppo frequente ricorso a reparti militari non solo nel mantenimento dell'ordine pubblico, ma anche per un'altra vasta gamma dì impieghi extra - militari, tra i quali la guardia alle carceri (anche in questo caso, in sostituzione o ad integrazione dei carcerieri troppo pochi) e la guardia ad altri immobili dello Stato. La Commissione del bilancio nella tornata del 24 maggio 1882 presenta perciò un ordine del giorno nel quale, riconfermando il principio che l'esercito non deve essere distolto "senza cagioni di assoluta necessità" dalla preparazione alla guerra, invita il Governo "a sopprimere ogni aggravio cagionato attualmente all'esercito dai servizi medesimi e da ogni altro che non fosse riconosciuto utile per l'istruzione militare". L'onorevole Compans condivide l'esigenza rappresentata dalla Commissione, rendendosi però conto che nella situazione del momento non è possibile raggiungere tale obiettivo, se non altro perché il Ministro del1' intemo ha esplicitamente dichiarato che non può fare a meno dell'esercito. Rivolge tuttavia una calda raccomandazione al Ministro della guerra perché, almeno, "sia vietata per l'avvenire ai comandanti di presidio o di corpo, l'invalsa consuetudine di concedere uomini e cavalli, nonché materiale militare ad uso di pubblici lpettacoli o di comparse, sia nei teatri che nelle circostanze del carnevale, od in altre consimili ricorrenze". Oltre a compromettere il prestigio e la dignità dei nostri soldati (che ha personalmente visti nelle vie e nei teatri "camuffati da pulcinella o da babilonese e vestiti nelle fogge più strane"), un siffatto impiego espone il mate-


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riale militare a danni che comportano costose riparazioni, e i preziosi cavalli a frequenti disgrazie; inoltre il Compans raccomanda "che non venga assolutamente concessa la facoltà ai superiori di assegnare soldati pel disimpegno di faccende domestiche (indipendenti dal servizio di ordinanza o di attendente) adoperandoli, come talora avvenne, nelle funzioni di cuochi, camerieri o cocchieri vestiti in livrea". La risposta del Ministro è stranamente evasiva e contraddittoria: ricorda che il regolamento di disciplina consente di accordare concorsi militari nei piccoli paesi Ima quali? - N.d.a.J e afferma che i soldati non partecipano più a spettacoli teatrali, mentre negli altri casi (come per le festa carnevalesche) partecipano volontariamente come cittadini; "certamente si usa e si userà la massima parsimonia in questi casi, ma non si possono stabilire dei termini assoluti, mentre la cosa è nelle consuetudini (sic)". Ad ogni modo "troppo gravi servizi pesano sull'esercito italiano, molto, ma molto più gravi di quello che non accada in nessun altro esercito"; in altri Paesi (Inghilterra, Francia, Germania) si ricorre all 'esercito solo in caso di vere e proprie sommosse. Da noi, invece, "per ogni piccolo timore" si chiama gran numero di truppa, e in modo tale che non è possibile aderire alle richieste, perché le autorità politiche non conoscono gli organici e oltre tutto "respingono le osservazioni giustissime" delle autorità militari. Sicché si perdono in totale 4.380.000 ore d'istruzione, e un soldato di fanteria ne perde 45 giorni ... L'onorevole colonnello Mocenni, relatore dell'ordine del giorno della Commissione, premette che, come del resto raccomandato dalla Camera nel 1971 e 1975, il Ministro Ricotti era riuscito a ridurre notevolmente gli impieghi extra - militari, ma ora "a poco a poco siamo tornati alle cose di prima e anche peggio". A suo parere non è necessaria una guardia d'onore all'ingresso della Camera [c'è ancora oggi - N.d.a.J, non sono necessarie guardie ai Comandi di divisione e corpo d'armata, alle tesorerie provinciali e persino agli archivi di Stato. Per ragioni finanziarie le guardie carcerarie sono troppo poche; ma in nome di queste esigenze finanziarie, si sacrifica il ben più importante principio dell'istruzione militare, correndo il rischio di essere battuti in guerra. Il Mocenni invita pertanto il Ministro della guerra a diminuire almeno per quanto dipende daJle autorità militari gli impieghi impropri, e il Ministro dell'interno a ridurre a sua volta le richieste di truppa per esigenze di P.S., ''frenando quanto è possibile questa lata autorità che un prefetto, od altre autorità politiche hanno di garantirsi sempre coli'esercito, di esagerare qualche volta i pericoli e qualche altra volta, bisogna pur dirlo, di pretendere di adoperare la truppa, in modo che è spesso contrario allo scopo cui mirano, e spessissimo


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poi offende il prestigio dell'esercito ... ". li Ministro dell'interno replica sottolineando che i concorsi dell'esercito sono sempre concordati tra autorità civili e militari, quindi non si possono verificare gli abusi ai quali accenna il Mocenni; bisogna anche tener conto che "la presenza di una forza rispettabile toglie qualunque velleità di far tumulti e disordini", quj ndi consente al governo di assolvere uno dei suoi principali obblighi. La prevalenza di esigenze extra - militari nella dislocazione e nell'accasermamento delle unità e le perdite dj ore d ' istruzione causate dai frequenti impieghi extra-militari non sono affatto problemi secondari: sono fattori negativi che incidono fortemente sull'efficienza dell'esercito, giocando a favore di coloro che, tenendo conto di questa realtà non modificabile a breve termine, non ritengono opportuno introdurre riforme veramente incisive, a cominciare dalla riduzione della ferma. E' questo il problema che assorbe la maggiore attenzione, con gli innovatori che si trovano in chiara difficoltà di fronte ai molti ostacoli per soluzioni radicali, sì che il dibattito si riduce alla ricerca del compromesso più favorevole, in un quadro generale che di per sé favorisce la prevalenza deUa quantità sulla qualità e anche per questo renderebbe necessario almeno per il momento consolidare - come sostenuto dal Ricotti - gli organici esistenti, anziché ampliarli con la speranza - che tale rimaneva - di futuri aumenti delle risorse.

La "questione amministrativa militare": la replica del Sani

alle critiche del Nervo e del Plebano, la sua difesa del ruolo direttivo del corpo di commissariato e il contrasto con il Ricotti li colonnello Sani, che nell 'articolo del 1878 e nel discorso del 1879 prima citati aveva richiamato con un lungo esame critico l'attenzione sulla "questione amministrativa militare" rimasta insoluta, viene nominato dal Ministro Ferrero direttore generale dei servizi amministrativi, ruventando così uno dei suoi principali collaboratori con una carica che ne fa una sorte di Capo dei Servizi logistici dell 'esercito e gli consentirebbe di realizzare finalmente le sue idee. In tale veste il suo atteggiamento muta, e da prevalentemente offensivo si fa prevalentemente difensivo. Già neJla tornata del 19 aprile 1882, poco prima che si discuta la legge Ferrero, il Sani richiamandosi alle "buone ed economiche tradizioni" ereditate dall'esercito piemontese ldove invece l'amministrazione la'>ciava molto a desiderare N.d.a.], respinge le critiche e le accuse dell'onorevole Nervo, che giudjca l'amministrazione delle finanze e l'amministrazione militare antieconomi-


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DALL'OROINAMENTO RJCCJITI ALL'ORDINAMfimD FERRER.--"'0' - - - - -- - -- ~9'-'-']3

che e mancanti di controlli efficaci. Questa volta manifesta l'opinione - non espressa in precedenza - che "l'amministrazione della guerra non sia quella gran colpevole che si è voluto far credere, che si debba quasi porre in stato d'accusa, e che faccia mestieri[. .. ] sottoporla ad una continua sorveglianza ed una continua inchiesta da parte del potere parlamentare". Non può pertanto essere accettata la proposta dello stesso Nervo di istituire una Commissione parlamentare con l'incarico di sorvegliare i lavori e le spese militari. Se, come assicura l'onorevole Nervo, questa proposta rientra nei normali controlli parlamentari e non ha nulla di ostile contro l'operato del Ministro della guerra, allora perché il Nervo non propone analoghi controlli anche per gli altri Ministeri, a cominciare da quello dei lavori pubblici? Il Parlamento non può trasformarsi in tanti sotto - Comitati, incaricati di sorvegliare le amministrazioni pubbliche; anzi, vi sono autorevoli scrittori che sostengono la tesi opposta a quella del Nervo, che cioè il potere legislativo ha già troppo invaso il campo del potere esecutivo. Perciò il controllo del Parlamento dovrebbe limitarsi, come in Inghilterra, a quelle spese che non sono definite dalla legge, in tal modo sottraendo il più possibile l'amministrazione alle intluenze politiche. Il Sani dimostra poi che i residui passivi del bilancio della guerra al momento non ammontano a 46 milioni come lamentato dal Nervo, ma il 1° gennaio 1882 erano scesi a circa 32 milioni I somma tuttavia ragguardevole - N.d.a.]. Né è vero che presso il Ministero della guerra non esiste un organo equivalente al Consiglio Superiore dei lavori pubblici, che esamina e approva i progetti: il Ministro della guerra si avvale di un organo con compiti analoghi a tale Consiglio come il Comitato di artiglieria e genio, mentre le spese avvengono in armonia con la legge di contabilità generale dello Stato. Da respingere anche la proposta del Nervo di obbligare i Ministeri ad avvalersi esclusivamente dell'industria nazionale per le loro commesse: l'immediata conseguenza di questa scelta sarebbe l'aumento dei prezzi di tutte le forniture allo Stato. Bisogna anche tener conto che alcuni materiali, come i cannoni, non possono essere ordinati in Italia perché l'industria nazionale non è ancora in grado di produrli; in ogni caso le statistiche dimostrano che solo 3 O 4 milioni del bilancio della guerra sono spesi all'estero. Nel corso della discussione della legge Ferrero (tornata del 29 aprile 1882) l'onorevole Plebano lamenta il danno economico e commerciale che arreca all'Europa l'eccesso di spese militari: mentre l 'America [cioè gli Stati Uniti - N.d.a.] profonde la maggiore attività e i mezzi d'ogni maniera per migliorare la sua produzione, ed


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arriva a tal punto da poter mandare qui da noi, attraverso l'Oceano, i suoi prodotti a far concorrenza con i nostri, noi della vecchia Europa profondiamo i nostri mezzi, i nostri tesori in armi e armati, salvo poi a difenderci con le tar(ffe dal buon mercato che ci verrebbe dal nuovo mondo.

Il Plebano ricorda di aver votato la recente legge sulle spese straordinarie militari, perché l'Italia non può non tener conto del contesto europeo, e deve destinare il necessario alla sua sicurezza; tuttavia, seguendo gli ammonimenti del Times, date le nostre condizioni economiche dobbiamo evitare "il pericolo di lasciarci trascinare nel baratro delle eccessive spese militari"; perciò non ritiene affatto necessaria la spesa di 200 milioni prevista dalla legge Ferrero e indica come tetto massimo 190 milioni. Questa cifra a suo parere sarebbe sufficiente se fossero attuate le riforme e le economie necessarie e possibili, che invece (nonostante numerosi interventi in Parlamento) non sono mai state fatte. Su questo argomento il Plebano cita, oltre al discorso del 1879 del Sani di cui abbiamo dato conto, anche un altro discorso del 17 aprile 1880 dello stesso Sani, nel quale si descrivono le riforme che potrebbero essere falle per ollenere una gestione più economica della spesa. Ma questo - come affermava allora lo stesso Sani - non si è mai fatto, visto che egli stesso ricorda che si spende circa un milione per ogni mille uomini di forza bilanciata, mentre la Germania, pur pagando meglio gli ufficiali spende qualcosa di meno: "ma quale e quanta non è la d(-/ferenza tra le nostre condizioni militari e quelle della Germania'! l'avete sentito poco fa dall'onorevole Primerano". Il Plebano ricorda, inoltre, che rispetto a quelli dell'esercito tedesco, gli impiegati del nostro Ministero della guerra, i nostri ufficiali contabili e gli ufficiali dei nostri reggimenti e distretti sono assai più numerosi; attacca perciò il Sani , perché nell'incarico che al momento ricopre non si è dato da fare a sufficienza per eliminare gli inconvenienti da lui stesso rilevati, e si è limitato a dire che "all'economia della forza sarebbe delitto pensare; quanto alle economie che dipendono da una buona amministrazione, si fa quel che si può; sui congegni, sul meccanismo amministrativo si potrebbe fare sicuramente qualche cosa; ma bisogna andar molto adagio, perché è molto difficile il sostituire il bene al male e il meglio al bene". Anzi: sempre secondo il Plebano, l'unica cosa che si è fatta nella gestione Sani - e che non si sarebbe dovuta fare - è un forte aumento degli organici del corpo di commissariato, con l'istituzione del grado di generale per il Capo del corpo [poi naturalmente ricoperto dallo stesso Sani -


IX - DAI.L'ORDI NA MENTO KJCOITI ALL' ORDINAMENTO FERRERO

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N.d.a.]. Secondo Ja Commissione che ha redatto la legge - prosegue il Plebano - gli ufficiali di commissariato avevano poco da fare, quindi sono state giustamente assegnate Joro alcune attribuzioni che erano prima degli ufficiali contabili, aumentando un poco i commissari e diminuendo i contabili; ma all'atto pratico la Commissione ha dimenticato questo concetto, perché gli ufficiali commissari sono stati aumentati di ben 141 fra colonnelJi, tenenti colonnelli ecc., lasciando praticamente invariato iJ numero dei contabili: capisco che trattandosi di meltere alla testa del corpo di

commissariato un generale, bisognava crearci un esercito; e fu creato; e che esercito! Colonnelli, maggiori, capitani e via discorrendo". Il Plebano se la prende poi con il deputato colonnello Corvetto, il quale avrebbe dichiarato che "la migliore amministrazione è quella dove non c'è controllo", perciò "si fece bene a farne senza nell'amministrazione della guerra" ; invece, se c'è un'amministrazione che ha bisogno di controllo è proprio quella della guerra, visto che è così complicata da non dare ,ùcuna sicurezza sul modo con cui viene speso il denaro pubblico, e oltre tutto è in contrasto con la legge di contabilità generale dello Stato. Con critiche analoghe a quelle dello stesso Sani nel 1879 e a quelle del Nunziante (peraltro da lui non citato}, il Plebano si sofferma in particolar modo sulla contabilità dei reggimenti/ corpi e sul sistema delle masse, che ha potuto esaminare di persona recandosi presso un reggimento insieme con alcuni esperti di contabilità. In particolare: - il sistema delle masse è così complicato, da creare 1120 amministrazioni diverse e separate (280 corpi e le 4 masse: generale uomini, rancio, cavalli e masse individuali); - esso dà origine a un'infinita serie di movimenti contabili e conti correnti, fino a rendere impossibile un efficace controllo da parte dell'ufficio di revisione di contabilità dei corpi, mentre le ispezioni che sono tenuti a fare i generali possono essere solo formali: cosicché

"tutte le volte che si vuol rivedere sul serio le bucce a qualcuno, allora si fa un 'ispezione accurata, una revisione severa"; - seguendo un metodo di dubbia costituzionalità il governo assegna la gestione rancio in appalto a forfait ai corpi, spogliandosi delle sue attribuzioni; però diversamente da quanto avviene per i normali appalti non ha nessuna possibilità di controllo. Se la gestione è in attivo l' eccedenza rimane al reggimento, se è in passivo il governo ri piana automaticamente la perdita, anche se è dovuta a cattiva amministrazione; - il vestiario, che una volta rimaneva di proprietà del soldato tenuto a presentarsi in caso di richiamo con gli stessi capi di corredo, ora vie-


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ne restituito a] termine della ferma, quindi il relativo sistema non risponde più alo scopo di favorire la miglior conservazione del vestiario stesso, anche perché se la sua massa vestiario è in debito, di solito il soldato non lo paga e la prospettiva di un rimborso del credito di quaJche lira non è allettante. Inoltre le riparazioni costano troppo; - il sistema di approvvigionamento del grano e delle stoffe è anch'esso da rivedere; - la manutenzione delle caserme costa molto di più che in qualsiasi aJtro esercito d'Europa, "perché l'ingerenza del genio militare (sic)ja sì, che molte volte le spese si fanno e si rifanno perché fatte tardi o fatte male, e si spende cento dove potrebbe farsi con IO". Il Plebano conclude che il sistema, oltre ad assorbire troppo personale e a distrarre i comandanti di corpo dalle loro naturali attribuzioni di comando, fa sì che "noi non siamo sicuri se il soldato abbia sempre ciò che deve avere; e se quel che deve avere costi soltanto quel che deve costare". Perciò presenta un ordine del giorno, che invita il Ministro della guerra "a fare e presentare i provvedimenti necessari a r(formare l'amministrazione militare in guisa che sia resa meno complicata nei suoi congegni e sia possibile l'applicazione delle nonne che regolano la contabilità generale dello Stato e non escluda il controllo parlamentare" (1' ordine del giorno è respinto daJ Ministro e dalla Carnera all' unanimità, perché si asserisce che non riguarda la legge in discussione). Nella replica al Plebano il Sani conferma quanto ha dichiarato nel 1879 e 1880 con particolare riguardo al numero eccessivo di personale, "perché teniamo più al numero che alla qualità"; si domanda però perché l'onorevole Plebano ha a suo tempo votato l'organico del Ministero della guerra e quello delle altre amministrazioni. Conferma anche che l'amministrazione militare, come del resto le altre amministrazioni dello Stato, può essere organizzata molto meglio, ma per fare questo occorre tempo e fatica, e bisogna aver completato tutta la legislazione di carattere ordinativo. Tiene però a mettere in evidenza che non è vero che dopo il suo discorso del 1879 non si è fatto niente: come da lui proposto si è istituita una scuola anche per gli ufficiali di commissariato, si sta eliminando il personale contabile civile, si è presentato alle Camere il disegno di legge sulle prestazioni dei Comuni; sono stati compilati in massima parte i regolamenti per il servizio in guerra, il Ministero della guerra ha fatto la sua parte anche per una nuova disciplina deU 'appaJto del grano (che è di competenza del Ministero delle finanze), è stato ridotto il numero dei magazzini centrali e il relativo personale, sono previste nel disegno di legge le compagnie di sussistenza da lui auspicate.


LX • DALL'ORDINAMENTO RICOlTI ALL'ORDINAMl:iNTO FERKERO

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Una replica un po' evasiva: il problema principale era quello delle masse, che come da lui stesso proposto avrebbero dovuto essere abolite. Invece il Sani non vi accenna, anche se data la carica da lui occupata, era nella posizione migliore per affrontarlo e risolverlo. Non accenna nemmeno all'aumento dei compiti e degli organici del commissariato; lo fa nella successiva tornata del 15 maggio 1882, con argomentazioni che ao;sumono carattere scopertamente corporativo, specie quando pur essendo il principale collaboratore del Ministro nel campo logistico - amministrativo, arriva ad opporsi a quanto prevede il disegno di legge Ferrero in discussione, scontrandosi con il Ricotti. Nella predetta tornata del 15 maggio l'onorevole Cavalletto propone l'unificazione del corpo di commissariato con quello degli ufficiali contabili, creando un unico corpo omogeneo "con attribuzioni però diverse e distinte, secondo la specialità dei rispettivi servizi, ora in molte parti poco dissimilt'. Sarebbe ingiusto, a suo parere, favorire il commissariato nella proporzione dei gradi, come prevede la legge in discussione. E' previsto per l'avvenire che gli ufficiali contabili provengano dai sottufficiali; ma al momento ben 850 su 1241 di essi provengono dagli ufficiali delle varie Armi, mentre gli ufficiali commissari "non hanno nemmeno il servizio militare precedente, perché sono presi fuori dell'esercito". Se, poi , gli ufficiali contabili provengono anche dai sottufficiali, questo è un merito in più: perché hanno in tal modo maturato una precedente, lunga esperienza militare, oltre a contribuire a risolvere concretamente il problema della valorizzazione dei sottufficiali, del quale si parla tanto. Non c'è dunque ragione per fare dei contabili gli ufficiali meno favoriti di tutto l'esercito nelle promozioni. Nella sua risposta aJ Cavalletto il Sani premette di non voler difendere interessi corporativi, ma di parlare solo nell'interesse dell ' esercito e questa volta ammette che dal 1879 in poi si è fatto poco, perché i problemi logistico - amministrativi sono considerati l'ultima cosa della quale bisogna occuparsi. Ciò premesso, a suo avviso l'ordinamento del commissariato previsto dalla legge in discussione è tale da togliere ogni speranza di migliorare quanto prevede in proposito la legge Ricotti, perché non rispecchia il fondamentale principio della separazione tra le funzioni di direzione, esecuzione e controllo, che - questo è importante - vanno affidate a tre distinti corpi di funzionari, anche se legali tra di loro dalla dipendenza necessaria per l' assolvimento dei loro compiti. Ciò non avviene nella legge in discussione, che affida ai commissari anche mansioni esecutive, per contro affidando agli ufficiali superiori contabili anche mansioni direttive: così facendo, la curva discendente amministrativa segue il suo corso, e dopo aver visto lcon la legge Ricotti - N.d.a. I i contabili esercitare funzioni di am-


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ministratori, oggi vediamo gli amministratori fare quella dei contabili, con questo di aggravante, che si lasciano sussistere i due corpi, i quali d'ora in avanti avendo in questo o quel ramo di servizio funzioni quasi analoghe, vale a dire direttive ed esecutive, non avranno altra ragione di essere, tranne forse una sola, quella di vivere in continuo antagonismo ....

Tanto varrebbe, allora, istituire un corpo solo come in Spagna, che sarebbe "l'omnibus dell'amministrazione e della contabilità "e se non altro eliminerebbe i contrasti. Inutile dire che il Sani vuole riservate esclusivamente al commissariato le funzioni direttive e di controllo, lasciando ai contabili solo quelle esecutive. Dovrebbero perciò essere eliminati, a suo avviso, i posti di tenente colonnello e colonnello contabile, riservando se mai ai maggiori contabili una parte dei posti di tenente colonnello nel corpo di commissariato. Il Sani, propone, infine, di delimitare nettamente la sfera d'azione degli organi di comando (che creano la spesa) e degli organi logistici (che provvedono ai bisogni). Dovrebbero essere anche diminuite il più possibile Ima come? Se si mantiene il sistema delle masse, non si può fare N.d.a.J le attribuzioni amministrative dei reggimenti/corpi, "che oggi si possono dire, senza esagerazione, tante case di commercio", e impediscono ai colonnelli di curare a fondo la disciplina e l'istruzione. Dopo questi accenni piuttosto scontati e non si sa a chi rivolti [non è lui il direllore generale dei servizi amministrativi? - N.d.a.] , il Sani presenta degli emendamenti (non accolti) agli articoli della legge che trattano del corpo di commissariato e degli ufficiali contabili, "i quali non hanno altro scopo che di mantenere lo stato attuale". Dopo il Sani interviene ancora l'onorevole Plebano, al quale preme sottolineare due fatti: che una Commissione mista di funzionari del Ministero della guerra e delle finanze ha rilevato nell'amministrazione militare gli stessi difetti da lui già messi in evidenza; e che anche il Sani nel1' ultimo discorso implicitamente gli ha dato ragione, questa volta ammettendo che l'amministrazione militare è ancora e sempre in mano all'empirismo, che ad essa si pensa solo a tempo perduto e che dal 1879 a oggi si è fatto poco. Qui cessa la concordanza con il Sani: perché su tutto quanto concerne il corpo di commissariato e le sue attribuzioni il Plebano si coJloca agli antipodi del Sani e della Conunissione. In particolare, a suo avviso il grado di generale previsto dalla legge (già approvato) serve senza dubbio ad assicurare un maggior sbocco di carriera agli ufficiali commissari, ma nessuno ha spiegato per quale ragione funzionale questo gra-


IX DALL' ORDINAMENTO RICOTrl ALL'ORDINAMENTO FE.RRER =· =-=o ,,____ _ _ _ _ _9~ )'--"-9

do sia necessario. Inoltre se si prendono in esame le attribuzioni assegnate al Commissariato dal!' Art. 37 della legge Ricotti nel 1983 ( "sovraintende ai servizi delle sussistenze, dei foraggi, del casermaggio e di altri approvvigionamenti per l'esercito") si scopre che i 319 ufficiali commissari hanno ben poco da fare: al servizio delle sussistenze provvedono i corpi, i panifici provvedono alla confezione del pane, i foraggi e il casermaggio sono dati in appalto sotto la sorveglianza delle divisioni militari. La Commissione ha ora aggiunto che il Commissariato sovraintende "ai servizi di amministrazione generale", prima degl i altri: ma non si capisce che cosa siano questi "servizi di amministrazione generale", e quali nuovi impegni comportino. Per il Plebano, perciò, questi compili vecchi e nuovi non giustificano affatto il forte aumento dell'organico (da 319 a 460) del corpo, per di più con una percentuale di ufficiali superiori maggiore di quella di tutte le Armi dell'esercito. La Commissione, anch'essa convinta che iJ commissariato fa poco, gli ha assegnato anche la direzione dei panifici; ma questo provvedimento ollre a non giustificare un siffatto aumento dell'organico fa scomparire ogni differenza sostanziale tra gli ufficiali dei due corpi, giustificando ancor di meno il trattamento molto più favorevole accordato agli ufficiali commissari. Pertanto, anche il Plebano ritiene che sarebbe meglio fondere insieme il corpo contabile con quello di commissariato, realizzando qualche economia o, come minimo, un trattamento più giusto per tutti. Dopo il Plebano interviene il Ricotti, il quale afferma che la Commissione del bilancio ha studiato il problema dell'unificazione dei due corpi, arrivando alla conclusione che essa per il momento non era conveniente, a causa di "alcune [?ravi d~fficoltà" non meglio precisate. La Commissione ha quindi adottato una soluzione di compromesso, trasferendo una parte delle attribuzioni del corpo contabile a quello di commissariato, con il corrispondente numero di uftìciali. Ha anche migliorato nei limiti del possibile l'avanzamento degli ufticiali contabili, tenendo però presente che non si devono creare ufficiali superiori contabili anche se le esigenze funzionali non lo richiedono. Comunque - prosegue il Ricotti - non è sempre vero che gli ufficiali contabili sono i più penalizzati per l'avanzamento; questo vale per gli ufficiali superiori, ma non per i capitani. Rivolgendosi poi al Sani, il Ricotti concorda sul principio della separazione tra la parte direttiva, la parte esecutiva e l'attività di controllo, ma diversamente dal Sani, del tutto a ragione non ritiene affatto che queste tre attività debbano necessariamente essere svolte da impiegati di tre corpi o carriere separate di funzionari: esse possono essere esercitate anche da


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persone appartenenti alla stessa carriera o corpo. Meritano di essere citate le considerazioni del Ricotti su questo argomento - chiave: dunque la dijf'erenza sta in ciò: che il Sani vuole che giovani a 20 anni entrino L'uno nella carriera dei controllori, l'altro nella carriera dei direttori e un altro in quella degli esecutori; ed io ritengo invece che, come principio generale, convenga meglio che tutti entrino nella carriera degli esecutori; che dopo una certa e5perienza passino nelle funzioni direttive; e da questo alla carriera di controllo. Ciò non esclude che si possano istituire anche dei personali distinti,- ma quella è La massima generale di tutte le istituzioni militari, cominciando dalla hase fondamentale che è il reggimento[.. .]. Ammeuendo il principio oggi sostenuto dall'onorevole Sani, che cioè il corpo di commissariato debha essere di sua natura direttivo, e quello degli ufficiali contabili debba essere esclusivamente esecutivo, qualunque sia il grado degli ujjiciali, si commetterebbe un gravissimo errore contrario ai moderni principi della uguaglianza, e si verrebbe a ripristinare le diversità di casta, si verrebbero a ripristinare nell 'esercito i corpi privilegiati d 'una volta, ma che fortunatamente hanno fatto il loro tempo. Nell'ordinare un esercito bisogna avere ben presente il principio moderno che soltanto la diversità di grado deve stabilire la subordinazione militare e il prestigio della posizùme.

Parole sacrosante, ma ben poco tenute in considerazione fino al XX secolo. Comunque il dibattito prima esaminato ha uno sbocco pratico assai modesto: pochissime le differenze tra la proposta di legge Ferrero e la legge definitiva. L'ampliamento dell 'esercito viene confermato nei termini proposti dal Ministro. Le tesi del Ricotti non hanno seguito: viene (parzialmente) accolta, nei termini prima indicati dal Ministro, solo la sua proposta di sorteggiare nel contingente di I • categoria chi deve compiere una ferma di due anni anziché di tre. Anche le osservazioni del Favale, del Plebano e del Sani sulla questione amministrativa militare non hanno seguito. L'Art. 47 della legge nonostante le critiche del Plebano conserva all'inizio la frase "sovraintende per delegazione del Ministero della guerra ai servizi di amministrazione generale", continuando a sovraintendere sotto l'autorità dei comandanti territoriali ai rimanenti servizi. Rimane il grado di maggior generale commissario. Il massimo grado per gli ufficiali contabili è quello di colonnello, ma non si capisce bene né cosa faccia questo colonne11o, né quale sia esattamente il campo d ' azione dei commissari. Infatti gli ufficiali contabili, oltre ad altendere alla contabilità dei corpi, attendono pure alle sussistenze militari e comandano (ma solo se capitani)


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le compagnie di sussistenza (che in pace provvedono alle confezioni del pane e in parte al servizio dei viveri), "sotto l'autorità dell'ufficiale commissario direttore della località in cui hanno stanza". Nel 1937 il generale commissario Luigi Vincenzotti osserva che questa definizione dà luogo a frequenti discussioni, perché il sopraintendente, in un organismo unitario nella disciplina, è di spettanza esclusiva dell'autorità superiore e non ne è ammissibile la deleRazione: sarebbe come dire che la Corte di Cassazione o quella di appello delegassero le Preture a esplicare le loro funzioni. La distinzione poi fra i servizi in generale e quelli in particolare, i primi delegati dal Ministero e i secondi dipendenti dai Comandi territoriali, costituiva un imbarazzo sulla via da seguire; non di rado serviva da pretesto per eludere una procedura non desiderata. Vi si discuteva attorno, anche con una cert'aria d'importanza, a causa di quella tal delegazione e di quel/' amministrazione così detta Renerale. 45

In sostanza l'unica riforma logistico - amministrativo di rilievo del Ministro Ferrero rimane l'attribuzione al livel1o di corpo d'armata di funzioni logistiche prima riservate alla divisione territoriale: si hanno così direzioni o Comandi di artiglieria, del genio, di sanità e di commissariato al livello di corpo d'armata, con in più una compagnia di sussistenza, che si aggiunge alla compagnia di sanità già istituita dal Ricotti. Rimarchevole l'assegnazione alla Scuola Militare di Modena del compito di formare anche gli ufficiali commissari, che accoglie un'altra delle proposte del Sani.

Conclusione: da Ricotti a Ricotti? Come si è già accennato, la legge Ferrero si presenta come estensione e completamento della legge Ricotti, con la quale vuol mantenere una linea di stretta continuità. In effetti, di fronte al persistere di vecchi problemi che il Ricotti non aveva potuto o voluto risolvere e che condizionano pesantemente ]'efficienza dell'esercito, si sarebbe tentati di dire che con la legge Ferrero non si fa che passare da una prima impostazione degli ordinamenti nel 1873 al loro completamento e perfezionamento nel 1882, cioè da Ricotti I a Ricotti Il. 45 Luigi Vinccnzotti, l11tendellli e Cnmmi.uari de/l't:sercitn Italiano, in " Rivista di Commissariato" n. 3/1 937.


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Una siffatta interpretazione è però inesatta e non giunge aJ cuore <leJ problema; l'opposizione del Ricotti all'aumento di due corpi d'armata ne è il segno. Infatti , pur procedendo chiaramente e inevitabilmente verso un esercito con forte aumento degli effettivi e con largo spazio alla mobilitazione ("il secondo esercito"), la legge Ricotti del 1873 lasciava la porta aperta alla qualità, da ottenere sia con un migliore inquadramento e addestramento dell'esercito di 1" e 2• linea (per il quale il Ministro molto si è adoperato), sia con l'ammodernamento delJe armi e dei materiali. Il Corsi ha ragione ad accusare il Ricotti di essersi per iJ momento accontentato di fondi che sapeva insufficienti, sperando in maggiori assegnazioni nel futuro; ma è un fatto che aumentando ulteriormente gli organici, il problema della disponibilità di fon<li diventava ancor più pressante, a fronte di speranze di futuri aumenti che tali rimanevano e, in effetti, tali sono sempre rimaste. Se si valutano sotto questo prisma idee, programmi ed eventi del periodo, la legge Ferrero appare nella sua reale fi sionomia, fin o ad acquistare l'aspetto di una svolta verso un esercito di quantifa e non di qualità, dove si privilegia il numero anche per ragioni politiche interne (ordine pubblico) ed esterne (competitività, peraltro rimasta solo numerica, ri spetto ai principali eserciti europei). L'efficienza puramente tecnico - militare, pur continuamente richiamata, <li fatto rimane in seconda linea. E' vero che le esigenze di mobilitazione renderebbero consigliabile una larga intelaiatura delle unità di pace; ma esse devono evidentemente essere armonizzate con queJJe addestrative, d'inquadramento, di vita dei reparti in pace, che non dovrebbero essere in nessun modo accantonate o trascurate, perché la stessa mobilitazione deve avere base solida. I vantaggi e svantaggi delle soluzioni esaminate sono già stati messi in Juce; l'unica cosa che c'è ancora da dire è che gli eventi configurano un indubbio conservatorismo dei criteri - guida effettivamente adottati, in buona parte anch'esso riconducibile alla prevalenza di fattori estranei alla pura ragione tecnico - militare. In questa situazione le soluzioni puramente militari dei problemi, anche se emergono chiaramente daJ dibattito, senza meritarlo hanno influenza assai ridotta, anzi troppo ridotta.


CAPITOLO X

L'ESERCITO DALL'ORDINAMENTO FERRERO ALLA GRANDE GUERRA: I PROBLEMI ORGANICI (E I RELATIVI PROVVEDIMENTI) NON CAMBIANO

Premessa Abbiamo dato un certo risalto al dibattito finora ignorato sulla legge Ferrero, perché vi emerge tutta una serie di problemi ed esigenza di riforma, che raramente trovano sbocco completo e definitivo fino alla prima guerra mondiale; taluni di essi anzi si trascinano per tutto il XX secolo o quasi. Ciò premesso, per ben interpretare la letteratura militare del periodo 1882-1915 è necessario preventivamente inquadrarla in una situazione di fondo, nella quale i mutamenti di rilievo sono in numero relativamente esiguo. Questo vale anzitutto per la questione economica, che nonostante l'aumento tendenziale delle risorse disponibili I continua ad essere più che mai il convitato di pietra e il principale fattore condizionante a tutto danno della qualità, anche per effetto di tre fattori contingenti: 1) la necessità di condurre le onerose campagne coloniali di fine secolo XIX; 2) le pressanti esigenze di ammodernamento delle armi (a cominciare dalle artiglierie) e dei materiali del primo decennio del secolo XIX; 3) la guerra di Libia 191 1-1912 e la preparazione alla grande guerra europea. In questo quadro, smentendo le previsioni e le speranze di molti (tra i quali il Marselli e il Ricotti) il reclutamento di pace continua ad essere nazionale, peraltro con temperamenti relativi al completamento e alla mobilitazione per la fanteria, che diventano regionali. Anche i criteri di base per l'incorporazione del contingente di leva non mutano: la suddivisione a termini di legge in categorie, a ciascuna de1le quali corrisponde una diversa durata del servizio di leva, sarà abolita solo dopo la guerra, con

' Cfr. Luigi De Rosa, Incidenza delle spese militari su/in sviluppo ecnnnmico italiano (Cil.. p. 508).


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R.D. 20 aprile 1920, n. 452. 2 Sempre per ragioni economiche, i richiami per istruzione delle classi in congedo e la costituzione dei nuclei di milizia mobile presso i reparti in tempo di pace procedono a rilenlo. Conlinuano a pésare sull 'efficienza morale e materiale dei reparti anche vecchie remore pur continuamente lamentate dai militari, come il frequente impiego dei reparti in ordine pubblico, 3 le troppe guardie, il frazionamento dei reggimenti per carenze infrastrutturali, i contini trasferimenti dei reggimenti ecc .. Le esigenze di preparazione alla guerra di Libia 1911 - 1912 e, subito dopo, alla prima guerra mondiale incidono meno di quanto sarebbe necessario sulla fisionomia organica dell'esercito. La situazione internazionale richiederebbe un forte aumento della forza biJanciata;4 ma solo poco tempo prima della guerra di fatto ci si avvicina al vecchio, sano principio prussiano della ferma unica per tutti, con poche esenzioni e tendenzialmente breve. Anche l' introduzione nel 1910 della ferma biennale, che dovrebbe essere bilanciata dall'aumento del contingente di leva effettivamente incorporato, per le solite ragioni economiche continua ad essere accompagnala dal ricorso parziale alla ferma abbreviata e ai congedi anticipati. Questa situazione per nul1a soddisfacente, che spesso sfugge alle "storie" del1 'esercito finora pubblicate, è assai ben descrilla, alla vigilia della guerra, dal nuovo Capo di Stato Maggiore generale Luigi Cadoma, che nell'agosto 1914, un mese dopo l'assunzione della carica, oltre a forti deficienze nelle dotazioni, nei materiali d'armamento ecc. accenna a una serie di lacune come l'insufficiente consistenza numerica della forza bilanciata (dovuta all'eccessivo numero di esenzioni e alla mancata istruzione 2 Cfr. Anche, in merito, Piero Del Ne!,.'TO, La Leva militare dall 'unità alla grande guerra (in AA.VV, L'Esercì/o Italiano nella grande guerra, Cit., pp. 429-465). 3

Felice Dc Chaurand de Saint Eustache, Come l'esercito italiano entrò in 1:uerra (Cit.), pp. I 6 1-

162. • Secondo una statistica del periodico americano Scienlijìc Americ:an la Forai dei principali eserciti a line 1898 è la seguente (Cfr. Rivista Artiglieria e Genio n. 1/ 1899, p. 502): STATI

Germania Frnncia Austria-Ungheria Italia

FOR7A DELL'ESERCITO

NUMERO ABITANTI PER UN SOLDATO

NUMERO SOWATI PHR 1000 ABITANTI

PACE

GUERRA

PACE

GUERRA

PACJi

GUERRA

585.000 615.000 385.000 23 1.000

3.000.000 2.500.000

89 63 115 135

17 15 22 25

Il 16 9 7

57 65 44 41

1.827.000

1.268.000

Se ne deduce che, in proporLione alla popolazione, la fo17.a dell'esercito italiano è la piÌI ridotta sia in pace che in guerra.


______ X - DALL'ORDINAMENTO FERRERO ALLA GRAl'l_DE GUERRA

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delle terze categorie), la scarsità di Quadri sia in servizio attivo che di complemento per le unità da mobilitare, lo scarso numero e la forza numerica insufficiente dei nuclei di milizia mobile costituiti fin dal tempo di pace presso i reparti, l' insufficiente istruzione delle classi in congedo, gli "effetti non buoni" prodotti dalla campagna di Libia sulla compagine morale dei corpi e sull'istruzione.5 Come avrebbe potuto l' esercito italiano, con siffatte, gravi lacune non facilmente eliminabili, diventare quello strumento offensivo e potente che molti facili critici postumi hanno preteso? Nemmeno i numerosi problemi che. come si è visto, danno luogo alla "questione amministrativa militare" trovano una soluzione organica e definitiva; tuttavia l'abolizione del sistema delle masse con legge n. 51 I del 17 luglio 1910 pone un primo rimedio a vecchi inconvenienti che s i continua a lamentare da oltre mezzo secolo, anche se il problema della complicazione delle scritture contabili, del troppo personale che richiedono ccc. non viene mai risolto appieno. I distretti rimangono 88; ma per la mancala, piena adozione del sistema di reclutamento territoriale il cruciale meccani smo di mobilitazione rimane complesso, anche perché essi perdono gradualmente i troppi compiti loro assegnati dal Ricotti, il cui disegno iniziale d i alleggerire le incombenze dei reggimenti in caso di mobilitazione fa11i sce. l criteri di mobilitazione e i relativi compiti dei di stretti e depositi sono così soggetti a frequenti mutamenti , che non giovano all'efficienza del sistema e non possono raggiungere quella rapidità di mobilitazione che era già obiettivo primario del1e riforme del Ricotti. 6 A parte l'adozione della ferma biennale, l'ordinamento più importante dopo quello Ferrero del J882 è dovuto al Ministro Spingardi (legge 17 luglio 1910 n. 515, che apporta modificazioni ecc.). Con tale ordinamento, rispetto a quello del 1882: - le divisioni territoriali aumentano da 24 a 25; - rimangono invariati il numero e la composizione dei reggimenti di fanteria (94 + 2 di granatieri, quest'ultimi non citati dalla legge Ferrero) e dei bersaglieri ; - aumentano gli alpini (da 6 reggimenti e 72 compagnie a 8 reggimenti e 78 compagnie); - aumenta la cavalleria (da 2 divisioni con 22 reggimenti e 132 squadroni a 3 divisioni con 29 reggimenti e 145 squadroni);

' Ministero della guerra - Cdo Corpo SM Ufficio Storico, L'Esercito Italiano nella grande guerra, Voi. I (Cit.), pp. 67-68. 6 ivi, p. 50.


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- aumenta in misura esponenziale l'artiglieria (da 12 reggimenti da campagna, 5 da fortezza e due brigate d'artiglieria a cavallo con 4 batterie, a 36 reggimenti da campagna, 2 pesanti campali, I di artiglieria a cavallo con 8 batlerie); - aumenta anche il genio (da 4 a 6 reggimenti, più un battaglione specialisti di cinque compagnie). Nel campo dei Servizi un'importante riforma, sempre dovuta al Ministro Spingardi, riguarda i corpi di commissariato e contabili, che con legge 17 luglio 1910, n. 531 sono aboliti e sostituiti da: A) un corpo di commissariato, il quale sotto l'autorità dei comandanti di

corpo d'armata sovraintende ai servizi delle sussistenze, del casermaggio, del vestiario e ad altri approvvigionamenti per l'esercito; B) un corpo di amministrazione composto di ufficiali di amministrazione, per la tenuta dei conti presso determinati corpi, istituti e stabilimenli [quindi, non per tutti i corpi - N.d.a.l.

Il vertice del corpo di commissariato nel 19 IO non muta: maggior generale ispettore e 12 colonnelli direttori di commissariato di corpo d'armata. Gli ufficiali del corpo di commissariato si suddividiono in c:ummissari e di sussistenza, quest'ultimi con mansioni di livello inferiore rispetto ai commissari. Il grado massimo per gli ufficiali di sussistenza è di maggiore; il nuovo corpo di amministrazione ha 356 ufficiali, dei quali 1 colonnello. Va anche ricordato che il Ministro Mocenni con la serie di R.D. del 6 novembre 1894 7 aveva fortemente ridotto il numero degli ufficiali contabili presso i corpi e aveva assegnato alle compagnie di sussistenza gli ufficiali commissari al posto dei contabili, ritenendo giustamente necessario che i primi nei gradi inferiori si impratichissero della branca vettovagliamento che avrebbero dovuto dirigere nei gradi superiori, mentre - al contrario - il vettovagliamento non aveva nulla a che vedere con i compiti normalmente svolti dagli ufficiali contabili. Se si tiene conto anche della scomparsa dai compiti del commissariato della frase (tanto cara al Sani) "sovraintende per delegazione del Ministero della guerra ai servizi di amministrazione generale" e della dipendenza esclusiva degli organi di commissariato dai Comandi di corpi d'ar-

7 Cfr. Relazione introduttiva alla serie di R.D. del 6 novembre 1894 (Giornale Militare Ufficiale 1894, Parte l', pp. 809-827).


X - DALL'ORDINAMENTO FP.RRP.RO Al.I .,~A =G=RA~N=O=P. = GU ~E=R= RA ~ - - - - - - -9~ 2~7

mata (non si parla più delle divisioni), si arriva alla conclusione che il Ministro Spingardi compie parecchie riforme incisive nel campo logistico amministrativo, ove riceve definitiva consacrazione la fisionomia logistico - amministrativa dei corpi d'armata, ai quali nel 1894 il Ministro Mocenni aveva affidalo anche il compito di sorvegliare l'indirizzo amministrativo dei corpi, prima "impropriamente disimpegnato" dall'ufficio di revisione della contabilità a livello centrale. Peraltro si creano all'interno del commissariato due ruoli, uno con mansioni direttive e l'altro (ruolo sussistenza) con mansioni esecutive, più un terzo corpo di rango inferiore per la tenuta della contabilità. In tal modo, di fatto si applica la tesi del Sani di far svolgere ciascuna funzione (direttiva, esecutiva e di controllo) da un di verso corpo, dando torto al Ricotti con un assetto destinato a durare fino a fine secolo XX. Tra le riforme del Ministro Spingardi va infine ricordata l'istituzione di un servizio tecnico di artiglieria (legge LO luglio l 91 O, n. 443), con ruolo a patte per gli ufficiali addetti ai relativi studi e alla direzione degli stabilimenti. Sono questi i lineamenti essenziali di un periodo, la cui letteratura militare da fine secolo in poi è stata da noi sommariamente esaminata in tre saggi, ai quali rimandiamo. 8 Ne riprenderemo solo gli argomenti più importanti, con una scelta non indolore ma indispensabile dei contributi, come sempre fin troppo numerosi.

SEZIONE I - Dal 1882 a fine secolo XIX: "revivaf' di vecchi temi. Con l'adesione alla Triplice A11eanza l'Italia individua degli amici e dei possibili nemici nello scenario europeo, con conseguenti esigenze di orientamento strategico e di rafforzamento dello strumento militare. Non tutti sono d'accordo con queste scelte. Ad esempio nel 1898 il prof. Ercole Vidari giudica troppo ambiziosa la nostra politica estera e coloniale, adducendo ragioni (ed esagerazioni) poi largamente ricorrenti, fino ai nostri giorni, anche nelle file dell'opposizione: Così sorse la duplice e poi triplice alleanza, che doveva farci alleati, appunto, dell 'Austria, un dì aborrita, e che, per la smania nostra di non

• Cfr. le Nostre Note sul pemiero militare italiano dalla fine del secolo XIX all'inizio della prima guerra mondiale, Parte l. II e Ill, in Studi Storico-Militari 1985, 1986 e 1987, Roma, SME - Uf. Storico 1986, 1987 e 1988.


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parere da meno delle altre due potenze, ci costrinse a tenere un esercito di gran lunga superiore alle forze finanziarie del nostro Paese. Così, mentre queste maggiori spese contribuivano a dissanf?uare il Paese, a disseccare le fonti stesse della prosperità nazionale, a strouare le più promettenti industrie; d 'altra parte il bilancio della guerra, consolidato in 240 milioni circa (cifra ben più ,:rave per noi!) si mostrò e si mostra ogni di più insufficiente a mantenere il lusso di dodici corpi d'armata. Così abbiamo /'esercito di Dario, mentre sarebbe necessario avere quello di Alessandro; un esercito, sì, pieno di fede, di abnegazione, di coraggio, ma sprovvisto di troppe cose necessarie perché possa tenersi pronto ad affrontare il ,:ran cimento della guerra. Se il meuo miliardo che ci costò la ,:uerra d'Africa e i venti milioni circa che ci costa l 'occupazione di quello sterile paese, si fossero adoperati a migliorare l'istruzione pubblica, a soccorrere più largamente i lavori pubblici, a meglio retribuire i giudici, ad armare e provvedere meglio l'esercito (ridotto però a più ragionevoli proporzioni) e la marina; si può essere certi che la questione del pane e del lavoro si sarebbe fatta meno aspra e pungente, e sangue italiano non sarebbe corso per le vie delle nostre città ... 9

li Vidari non è certo il soJo a ritenere troppo ampia, in relazione alle risorse disponibili, l'intelaiatura di 12 corpi d'armata e a sostenere la non

convenienza delle imprese coloniali: ma dal suo scritto traspare anche la tendenza - tipica non solo dei socialisti - a "colpevolizzare" la spesa militare, fino a ritenerla l'origine primaria di tulli i mali della Nazione, facendo della sicurezza non la premessa di ogni progresso, ma il principale ostacolo allo sviluppo. Naturalmente i militari non possono essere d'accordo; tra le molte voci che si coJlocano all'estremo opposto del Vidari ricordiamo quella del maggiore di Stato Maggiore (poi generale) Felice di Chaurand de Saint Eustache, che nello stesso periodo con ricchezza di dati statistici sulla spesa militare dei principali Stati 10 dimostra che il tanto lamentato aumento della nostra spesa militare (fenomeno comune europeo) è dovuto da un lato all'aumento della spesa pubblica, e dall'altro al progresso scientifico e tecnico, il quale fa sì che "ogni giorno nuove invenzioni, nuovi ordigni di guerra [ ... ] obbligano gli Stati, per non rimanere compromessi in caso

• Ercole Vidari, Delle presenti condizioni d 'Italia, in "Nuova Antologia" Voi. LXXVI, Fase. 639 - I agosto J 898, p. 544. '° Cfr. Felice De Chaurand de Saint Eustache, Anni e Finanw -saggio economico-mililare, Città di Caste llo, Ed. Lapi 1893.


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di pericolo, ad incessanti sacrifici pecuniari. Ciò che oggi è ottimo, domani non sarà più conveniente, posdomani diverrà inutile" _ Sempre riferendosi ai principali Stati europei il De Chaurand osserva che la spesa militare ha raggiunto i livelli massimi nel periodo 1882 1887, per poi diminuire. Le numerose statistiche da lui citate non confortano certo la diffusa opinione che l'Italia spende troppo per la difesa. Infatti, nel predetto periodo 1882-1887 l'Italia ha destinato all'esercito e alla marina il 24% della spesa totale dello Stato, a fronte del 31 % dell'Inghilterra, del 30% della Francia, del 25% della Germania e del 18% dell'Austria. Nel 1892 l'Italia ha diminuito del 24% la spesa per l'esercito e del 7% quella per la marina, con un totale della spesa militare del 21,71 % rispetto alla spesa complessiva dello Stato, cifra superiore a quella delI' Austria ( 18,69%) ma inferiore a quella degli altri Stati (Francia 24,64%; Germania 23,64%; Inghilterra 34,93%). Peraltro la spesa per soldato dell' Italia (comprese armi, fortificazioni ecc.) rimane nettamente inferiore a quella di tutti gli altri Stati (977 lire all'anno, a fronte delle 1196 della Francia, delle 1404 della Germania, delle 1161 dell' Austria e delle 1981 dell' Inghilterra)_ Naturalmente se si tiene conto del reddito pro - capite dell'Italia - molto più basso di quello degli altri Paesi - lo squilibrio a tutto sfavore delJ'ltalia aumenta. In questo caso la percentuale di spesa militare italiana rispetto a] reddito medio per abitante è più elevata di quella degli altri Stati (4,90% a fronte del 3,81 % della Francia, del 4,18% della Germania, del 2 ,76% dell'Austria e del 2,56% dell'Inghilterra). Non è vero, secondo il De Chaurand, che il puro mantenimento del soldato italiano costa di più di quello francese, come sosteneva il Nunziante (365 ore annue, a fronte delle 405 per il soldato francese). TI De Chaurand contesta anche la ben nota e diffusa tesi dell'improduttività deJla spesa militare, sostenendo che: - se si mantengono sotto le armi in tempo di pace molte migliaia d ' uomini non si sottraggono braccia utili all'attività produttiva, ma al contrario si combatte la disoccupazione che provoca una crescente emigrazione e si impedisce l'eccessiva diminuzione dei salari, che sarebbe provocata dall'aumento dell'offerta di lavoro; - le opere pubbliche necessarie o anche solo utili sono compiute dagli Stati anche senza la manodopera e i fondi assorbiti dalle Forze Armate; - una diminuzione delle imposte in misura corrispondente alla spesa militare non apporterebbe benefici reali alla comunità nazionale ma favorirebbe solo i cittadini abbienti, mentre "tutti gli altri, i bisognosi, che dall'esercito e dall'armata traggono il loro sostentamento, o direttamente o indirettamente, ne sarebbero danneggiati";


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- specie con l'importanza che ha assunto la produzione di macchine e armi sempre più perfezionate, "i milioni di lire che ogni anno assorbono i bilanci militari servono ad alimentare numerose industrie, a dare pane a migliaia di operai che non troverebbero altrimenti come occuparsi"; - pertanto il disarmo aumenterebbe la disoccupazione e danneggerebbe l'agricoltura e l'industria; "non basterebbe da noi il dissodamento dell 'agro romano o di altre terre incolte, a compensare la cessazione delle spese militari. Dove rivolE:ereste, voi italiani, l'eccedenza dei vostri risparmi, che avete la metà delle ferrovie improduttive e un eccesso di popolazione costretto ad emigrare?" Queste considerazioni del De Chaurand non rendono più necessario prendere in esame altre tesi affini. La sua analisi della spesa militare europea - la più completa del genere - dimostra quel che già emerge subito dopo l'unità, che cioè la spesa militare italiana incide notevolme nte sul reddito medio individuale, ma non consente allo strumento militare di mantenere un livello qualitativo e quantitativo analogo a quello delle Forze Armate degli altri Stati, con le quali deve competere. Ne deriva, anche per ragioni di prestigio internazionale, la ormai costante tendenza a privilegiare come sempre il numero (cioè almeno l'apparenza) a scapito della qualità delle forze. La contestazione dell 'improduttività della spesa militare non è sempre convincente; il problema non ha risvolti solo economici, ma il bilancio militare non è una variabile indipendente e deve essere in armonia con gli altri capitoli del bilancio dello Stato, rendendo inutili dichiarazioni perentorie e di principio. D'altro canto, le argomentazioni del De Chaurand ben si prestano a far ritenere semplicistica la tesi della mera passività della spesa militare, cavallo di battaglia secolare dell 'antimilitarismo. Queste dispute a sfondo economico non sono nuove: ma anche gli altri scritti fino a fine XIX secolo non affrontano argomenti veramente nuovi. Ad esempio, proprio il deputato ex - garibaldino Giovanni Robecchi nel 1883 riprende il vecchio tema della nazione armata 11 , presentandola come una pericolosa sommatoria di "idee, illusioni, aspirazioni e principi vaporosi che importa oppugnare al loro primo manifestarsi" perché ci metterebbe in balìa dello straniero. Ciò premesso, il Robecchi intende dimostrare

11 G iovanni Robecchi, Esercito perrrumenle o nazione armata - considerazioni d'anualità, Torino, Roux e Favale 1883. Si veda anche la recensione (benevola) in "Rivista Militare Italiana" Anno XXVIII. Voi. II aprile 1893, pp. 201-205.


X - OAIJ,'OKUINAMENTO FERRERO AllA GRANDE GUE ,c:c,R=R.:.:. A _ __ __ ______,_. 93 J

che: 1°) le esigenze tecniche incontestabili (rapidità di mobilitazione, buona istruzione delle masse armate e reclutamento degli ufficiali) richiedono un forte esercito permanente; 2°) i vantaggi economici del sistema di nazione armata sono illusori. Infatti la guerra è diventata una questione di velocità, le prime battaglie saranno decisive e non è possibile armare, istruire, disciplinare e ordinare in pochissimi giorni le masse armate che affluirebbero alle armi; "l'entusiasmo fa arruolare, ma non marciare né soffrire in silenzio". Una moltitudine in armi può vincere una battaglia, ma non aver ragione in un'intera campagna di un esercito ben disciplinalo e addestrato, animato da pari spirito nazionale e da elevato spirito militare: e se gli altri non rinunciano ai vantaggi di un' accurata preparazione, perché dovremmo rinunciarvi noi? Né la nazione armata può consentire molti risparmi: la spesa maggiore è ormai richiesta dal materiale, dalle armi, dalle fortificazioni, dai cavalli ecc., e occorre oltre tutto addestrare i Quadri. Dopo queste premesse di carattere generale, il Robecchi indica come dovrebbe essere il nnstm esercito permanente. E' un fervente sostenitore del1' importanza della fanteria, che ritiene penalizzata dalla scelta degli elementi più validi per i corpi speciali . Per evitare questo inconveniente propone la categoria unica (cioè la chiamata alle armi dell'intera classe di leva, senza dividerla in categorie), in modo da rendere almeno possibile la scelta degli elementi per le truppe speciali su un contingente più numeroso. Alla categoria unica andrebbe abbinata la ferma di due anni per tutti. Deve essere abolito il volontariato di un anno; gli ufficiali di complemento vanno preparati introducendo nelle scuole l'insegnamento delle scienze militari. Nel 1892 il deputato Roberto Perrone di San Martino propone alla Camera (tornate del 26 e 27 febbraio) la nomina di una Commissione per studiare la possibilità di ottenere forti economie senza menomare l'efficienza dell'esercito. In sostanza il di San Martino vorrebbe ridurre l'esercito di pace, onde recuperare risorse che consentano l'aumento della milizia mobile da 48 a 72 reggimenti e il rinnovo dei materiali d'armamento. In particolare, mantenendo i 12 corpi d'armata e le 24 divisioni i reggimenti di fanteria di linea dovrebbero essere ridotti da 96 a 73 in tempo di pace, le batterie di artiglieria dei reggimenti da campagna da 8 a 6, gli alpini e bersaglieri a 43 battaglioni complessivamente, aumentando però i livelli di forza delle loro unità. La Rivista Militare accoglie molto male queste proposte 12, difendendo l'operato del Ministro del momento (Pelloux), la cui vasta azione riformatrice verrebbe svalutata senza motivo con la nomina di una Com-

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"Rivista Militare Italiana" Anno XXXVII - Voi. I mano 1892. pp. 470-473.


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---~ Il . PENSIERO MILITARE ENAVALEITALIANO-VOL.111 (1870-191 5) -ffiMO I

missione. E dopo aver osservato che il di San Martino stranamente ha cambiato idea, perché in precedenza "aveva già proposto di mettere sottosopra l'esercito" proponendo di ridurre i corpi d'armata a 9 e di formarne 6 di milizia mobile, la rivista riferisce la replica del Pelloux, secondo il quale una larga intelaiatura delle unità è necessaria per poter disporre subito, in caso di guerra, dei Quadri che servono per le unità mobilitate, i quali non si improvvisano. Per il Pelloux, perciò, se si seguissero le proposte del di San Martino si realizzerebbero economie insignificanti , al prezzo di una forte diminuzione dell'efficienza dell'esercito; comunque se per rinnovare l'armamento si dovesse ridurre la forza nella misura da lui proposta si pagherebbero troppo cari i miglioramenti nel campo dei materiali. Dopo aver letteralmente stroncato tali proposte, la Rivista Militare critica anche un progetto di legge di recente presentato alla Camera dall'on. Canzio dell'estrema sinistra parlamentare, che vorrebbe risparmiare 27 milioni con l'adozione per tutti della ferma biennale e un premio di rafferma di 200 lire per i graduati che accettino di prolungare di 8 mesi la ferma. Secondo la rivista in tal modo il risparmio non si otterrebbe, perché accanto alla ferma biennale se ne avrebbe un'altra quasi triennale, ma a pagamento; meglio il progetto ministeriale che al momento è allo studio, il quale " non solo ammette la ferma biennale ma anche la ferma annuale, e che appunto con una giudiziosa combinazione delle tre ferme, triennale (non a pagamento), biennale e annuale, rùponde a tutte le esigenze senza gravare il bilancio". Il modello tedesco viene come sempre citato con frequenza, ma vi è anche chi, pur apprezzandolo, non lo ritiene affatto adatto aJla specifica situazione italiana. Ad esempio, in un già citato articolo sulla Nuova Antologia del 1894 13 un non meglio identificato Y (certamente un militare) fa un' analisi a volte impietosa ma realistica delle forti differenze tra la realtà italiana e quella tedesca, che ovviamente incominciano dal mondo esterno alla caserma e si ripercuotono direttamente sui criteri per l'organizzazione miJitarc. Mentre in Germania nessuno, nemmeno i socialisti che pure là sono forti e sono nati, mette in discussione l'esercito che gode di largo prestigio, in Italia Il fatto, al quale oggi assistiamo, che uomini di indole e di manifestazioni le più moderate ed amanti dell'esercito, insistono nel volere La ri-

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Y., Esercito nazionale ed economico (Cii.).


X - UAU..'URDINAMENTO FERRERO ALLA GRANDE GUERR:..:. A _ _ __ _ _ _~9 =3=3

duzione del suo ordinamento e nuove economie sul suo strertwto bilancio, si deve, a parer nostro, attribuire, prima che ad ogni altra causa, alla sfiducia che ha invaso la ma,:gioranza degli italiani intorno alla opportunità del suo ordinamento militare [ .. _], La discussione, che si fa sui giornali intorno alla chiamata della classe del 1894 piuttosto a dicembre che a febbraio, dimostra le condizioni deplorevoli alle quali siamo stati condotti da un sistema nel quale l'abuso dell'espediente è divenuto il modo normale di amministrare l'esercito [. _. 1- Oggi che tutte le risorse materiali e spirituali della nazione entrano a formare la sua forza armata, la responsabilità della preparazione della guerra non risiede soltanto nei ministri [della guerra], nw ricade su tutti gli enti della nazione legalmente costituiti [ ... ], Non può essere un monopolio di pochi ritenuti competenti, ma deve essere un complesso di disposizioni Legislative alla portata del sentimento nazionale, il solo competente a giudicare l'indirizzo da darsi alla cosa pubblica L... ]. li mancato rispetto della ragione naturale delle cose ci ha portato alla conseguenza deleteria che, di tutti ,:li eserciti europei, l 'organizzazione del nostro è La più discussa ....

Solo con questo clima di sfiducia - prosegue Y - si può spiegare il tentativo di sanare la crisi finanziaria, prendendo di mira anzitutto il bilancio militare anche se i 226 milioni assegnati all'esercito sono insufficienti. Se infatti la Germania, il cui ordinamento militare noi vorremmo imitare, per 18 corpi d 'armata spende circa 700 milioni all'anno, noi per 12 corpi d'armata dovremmo spenderne circa 480, invece dei 226 attuali ... La Germania ha un'organizzazione militare eccellente, nella quale tutti hanno fede perché è fondata sull'ordine naturale del1e cose_ Bisogna conquistare ad ogni costo questa fede che a noi manca, ma per ottenere questo obiettivo dobbiamo a nostra volta creare un'organizzazione fondata sull'ordine naturale delle nostre cose, molto diverse da quelle tedesche. Invece in tutta Europa (questo è "un punto nero") gli orientamenti militari odierni imitano quelli tedeschi; e nell'imitarli noi fummo i più esagerati, mentre avremmo dovuto essere i più guardinghi. Può la nostra indole vivace, il nostro temperamento nervoso e, diciamolo pure, il nostro relativo amore dell'ordine e della disciplina, come la nostra ineguale educazione nazionale essere paragonata alla tedesca? Non è il caso di fare la stessa domanda per quanto riguarda La risorse e la fisica conformazione del territorio; La risposta sarebbe la stessa.


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IL PENSIERO MILITARc E NAVA I.F. ITALIANO - VOL. III ( 1870- 1915) - TOMO I

Segue un'analisi dei fattori di vario ordine che in Germania rendono naturali e convenienti le soluzioni organiche colà adottate, a cominciare dal largo decentramento di poteri dal Ministero della guerra ai corpi d'armala, dall'uniforme distribuzione della popolazione che rende possibile anche un'uniforme distribuzione sul territorio degli stessi corpi d' armata, dalla grande autonomia amministrativa concessa al livello di reggimento e dalle caratteristiche geografiche del territorio nazionale, che, abbinate alla naturale disciplina del popolo, rendono possibile un' uniforme e rigida formazione delle unità, con numero ridotto di corpi speciali: nell'esercito germanico "non vi sono alpini, non jager, non chasseurs, non bersaglieri veramente detti''. Da noi le esigenze difensive, le caratteristiche del terreno, la distribuzione della popolazione ecc. sono profondamente diverse; perciò insistendo nell'imitazione del modello germanico, che "ha portato alla degenerazione" delle riforme del Ricotti, "noi contiamo suforze morali e materiali che non abbiamo, e fors e violentiamo quelle che abbiamo e che sono proprie alla noslru natura, e sulle quali soltanto dovrebbero fondarsi le nostre istituzioni militari e anche civili". E poiché "un decentramento negli ordini mi/ilari non può essere che la conseguenza di una evoluzione completa dello spirito e della educazione nazionale", a parere di Y non è possibile, in Italia, assegnare ai nostri corpi d'armata le stesse allribuzioni dei corpi d'armata tedeschi (che equivalgono a quelle del nostro Ministero), né si può adottare - come a torto ha fatto il Ricotti - una composizione fissa e rigida delle Grandi Unità, a cominciare dai corpi d'armata su due divisioni [rimasti tali fin oltre la prima guerra mondiale - N.d.a.]. Le conseguenti soluzioni indkate da Y prevedono: - corpi d'armata più leggeri e a composizione variabile, non uniformemente dislocati sul territorio perché la difesa deve gravitare suJJe Alpi; - fisionomia autonoma pluriarma anche per le brigate, per meglio adattare la composizione delle Grandi Unità al terreno; - reclutamento dei reggimenti in un solo distretto, migliorando così la coesione e l'affiatamento del personale senza rinunciare alla mobilità degli stessi reggimenti; sarebbe però "una follia" abolire i distretti, unico raccordo tra esercito e paese. Al momento una brigata di fanteria (su 2 reggimenti) viene reclutata in ben cinque distretti, quindi la soluzione di Y è già molto avanzata; ad ogni modo egli osserva che "è una guerra poco cavalleresca quella che si è dichiarata in Italia al così detto sistema territoriale,- la discussione, se


X - DAU : ORDINAMEN'IU Hl RRERO ALLA GRANDE GUERRA

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pure vi fu, non è ~·tata sincera e non si mise in chiaro che non è necessario andare al sistema tedesco, per avere un eserciJo territoriale". La convenienza o meno del sistema di reclutamento territoriale (o regionale) e delle sedi fisse è continuamente dibattuta, insieme con i provveclimenti di carattere organico che intenderebbero rendere più efficiente e meno costoso l'esercito. Reclutamento regionale e sedi fisse sono fortemente sostenuti dal capitano (poi generale) Domenico Guerrini, in un suo volumetto del 1895 14 e soprattutto sulla Rivista di Fanteria da lui diretta, ove entra persino io polemica con la Rivista Militare 15 • La Rivista di Fanteria - voce dell'Arma indubbiamente più penalizzata dal sistema di reclutamento vigente e dai continui trasferimenti dei reparti - ha abba,;tanza buon gioco nel dimostrare che i vantaggi solitamente attribuiti ai frequenti cambi di guarnigione (facilitare l'affratellamento tra gli italiani delle varie province; evitare i danni che possono nascere da contatti troppo prolungati con la cittadinanza; educare gli ufficiali "alla spigliateu.a, all'indijj'erenza per le contrarietà e alla Jrascuranza per gli agi della vita"; alternare equamente i corpi nelle guarnigioni più gradhe e meno gradite) non sono tali da compensare i numerosi svantaggi del sistema, a f ronle dei molteplici vantaggi delle sedi fisse, a cominciare da quelli morali e di carattere economico, sia per l'intera organizzazione che per i Quadri e le loro famiglie. Gli stessi avversari del reclutamento regionale e delle sedi fisse, del resto, ne ammettono i vantaggi, ma spesso separano i due aspetti del problema e ne fanno una questione cli tempi e modi, un obiettivo a media o lunga scadenza da raggiungere gradualmente. Il più deciso e aperto avversario del sistema di reclutamento regionale è il deputalo meridionale e meridionalista Giustino Fortunato, 16 che nei suoi discorsi alla Camera dal 1893 al 190 l inserisce non senza contraddizioni una vera e propria guerra al sistema regionale in una più larga prospettiva di politica militare, nella quale: - si dichiara favorevole al potenziamento della marina anche a scapito dell'esercito, al tempo stesso opponendosi sia all'aumento della spesa militare, sia alle radicali diminuzioni della spesa stessa per sanare il bilancio dello Stato (nel quale "il vero cancro è il debiJo pubblico");

14

Domenico Gucrrini, /I criterio regionale nell 'ordinamento de/l 'esercitn, Roma 1895. " Cfr_, ad esempio, / cambi di guarnigione, in "Rivista di Fanteria" Anno IX - 1900, CDXXXIX. pp. 499-412 e GuamiRioni mobili e fisse, in " Rivista di Fanteria " Anno IX - 1900, CDLIX, pp. 8 11-832. Entrambi gli articoli, non firmati, sono attribuibili alla direzione e quindi allo stesso Guerrini. 16 Giustino Fortunato, Politica militare (discnrsi alla Camera dei Deputati del 4 rrwggio 1893, 5 dicembre IX95, 23 gennaio 190/), Roma, Soc. Ed_ Laziale 1901.


9~3'°"6.___ __ _____::c: IL-'-' Pl:'.N =· =Sl=EK =O'-'M = l= l .lTARE E NAVALE ITALIANO - VOL. lii (1870-1915) - '!UMO I

- ritiene a ragione che "un grande esercito a buon prezzo, come le stoffe di lana e cotone, è una invenzione esclusivamente italiana". Perciò come il Ricotti giudica il bilancio militare del momento insufficiente per 12 corpi d'annata, quindi propone la riduzione degli organici dell ' esercito e in particolare del numero delle compagnie, mantenendo però le rimanenti a un livello di forza elevato e paragonabile a quello degli altri eserciti. Sulla questione del reclutamento regionale il Fortunato non sembra aver tanto a cuore il fattore economico. Lo giudica addirittura" il mezzo più adatto, lasciate che lo dica io, meridionale, per dissolvere l 'unità d'Italia", visto che "le guarnigioni dell'alta Italia e dell'Italia centrale, nelle file dell'esercito nazionale, sono per i contadini della mia Basilicata una scuola di italianità e di civiltà ben più efficace dell'alfabeto obbligatorio". Ma invece di tener conto di questo vantaggio, secondo il Fortunato il governo e i Ministri della guerra del momento (Pelloux e Mocenni) stanno preparando un 'adozione tacita, strisciante e di fatto del reclutamento territoriale, proprio perché lo vedrebbero come unica soluzione per realizzare delle economie, a fronte di un bilancio insufficiente per mantenere 12 corpi d'armata. li Fortunato si schiera perciò con il Ricolti (al quale, chiamandolo "amico devoto" dedica la raccolta dei suoi discorsi), a sua volta favorevole a una riduzione dell'esercito. Si oppone recisamente anche al ridimensionamento del ruolo dei distretti e al trasferimento dei loro compiti in materia di mobilitazione, vestizione dei richiamati ecc. ai depositi reggimentali, che pertanto dovrebbero costituire magazzini fissi. Perciò "oggi, depositi e magazzini fissi di vestizione e di mobilitazione per ogni reggimento, in virtù di decreti reali; domani, guarnigioni stabili e corpi inamovibili, con bassa forza. e, a mano a mano, con ufficialità sempre più regionali, per sola efficacia di ordini ministeriali... " .17 Sono a suo avviso segno di questa inarrestabile linea di tendenza anche i recenti provvedimenti che prescrivono il reclutamento dei coscritti di ciascun reggimento di fanteria da soli tre distretti, dei quali uno, detto di base, ne fornisce già il maggior numero; e anche il reclutamento di ciascun reggimento bersaglieri nell'ambito del proprio corpo d'armata .... Di parere opposto al Fortunato è il generale Leandro Paoletti, che in un libro dal titolo già eloquente L 'Esercito Italiano quale è e quale dovrebbe essere con utili economie (1894) 18 fornisce un lungo elenco delle cose che bisogna cambiare nell'esercito:

17 18

ivi, p. 357. Milano. Oumolard 1894.


X - DA IJ.'ORJ)INAMENTO FERRERO ALLA GRAN DE GU!iRKA

- - ~937

- "grave ingiustizia sociale" causata dall'assegnazione fino al 1893, per motivi economici, di una parte della classe di leva a una seconda categoria con ferma ridotta o all' esenzione dalla ferma, rendendo così il dovere militare non uguale per tutti, tanto più che in caso di mobilitazione sarebbero chiamati a far parte deJr esercito di I a I inea anche elementi delle classi più anziane, mentre elementi delle classi più giovanj rimarrebbero nell ' esercito di 2a linea; - troppi servizi di guardia, troppi distaccamenti ecc., con conseguente "scempio di una enorme quantità di giornate" sottratte all'istruzione, specie per la fanteria; - gravi difficoltà nella mobilitazione dell 'esercito, derivanti sia dal meccanismo previsto che dalla mancanza di Quadri e soldati istruiti e dalle condizioni dei reggimenti e distretti ; - cattivo impiego e basso morale dei Quadri , per la molteplicità dei compiti che sono chiamati contemporaneame nte a svolgere, pe r l'impossibilità di sviluppare un razionale istruzione, ecc. ; inoltre loro insufficiente trattamento economico e loro avanzame nto troppo lento specie nei gradi inferiori; - nel complesso organi zzazione militare antieconomica, nella quale "la gra ve spesa sopportata dallo Stato non è in relazione col prodotto che è possibile ricavarne". Per eliminare questi inconvenienti il Paoletti indica soluzio ni non certo nuove: categoria unica; ferma di durata diversa a seconda delle Armi o specialità (21 mesi per la fanteria, 33 mesi per alpini, cavalleria, artig lieria, 2 anni per il treno); riduzione al minimo dei servizi di guardia; suddi visione a turno degli ufficiali di fanteria in due categorie, una c he provvede all'istruzione del personale della classe di leva alle armi e l' altra che dedica il suo tempo al miglioramento della propria istruzione e/o svolge incarichi particolari estranei al servizio del reggimento. Il Paoletti crede nel sistema di reclutamento regionale, che in guerra creere bbe una sana emulazione anche se in pace avrebbe deglj svantaggi; perciò come tappa significativa verso l'adozione ili tale reclutamento propone di reclutare i reggimenti di fanteria in due soli distretti diversi, con l' avvertenza di non inviare i soldati dell' Italia meridionale in sedi con clima molto diverso da quello delle loro contrade. Si oppone anche al disegno di legge presentato dal Ministro Pelloux il 7 luglio 1893 per l' abolizione dei distretti e il trasferimento dei loro compiti inerenti alla mobilitazione ai depositi di reggimento, mentre il servizio di arruolamento verrebbe affidato a 87 centri di arruolamento (quanti sono i distretti da sciog liere). In tal modo - osserva il Paoletti - non si farebbe che moltipJicare il nu-


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mero degli enti che di fatto funzionano come distretti, creando così 195 clistretti (108 depositi di reggimento fanteria e bersaglieri, più 87 centri di reclutamento). Meglio diminuire il numero dei distretti da 87 a 80 con persona]e ridotto, lasciando loro il compito dell'arruolamento, del richiamo per istruzione delle classi in congedo, della mobilitazione della milizia presidiaria e territoriale, e assegnando ai reggimenti stessi la mobilitazione e il completamento del loro personale in caso di guerra. L'intuizione più felice - e più origina]e - del Paoletti è però la necessità di abolire i Comandi cli brigata (da lui giudicati a ragione un inutile e dannoso anello intermedio tra Comandi divisione e Comandi di reggimento, tanto più che il Comandante di brigata farebbe più male che bene ad ingerirsi nell'azione di comando del livello inferiore) e di adottare l'ordinamento ternario dal livello di armata a quello di divisione (che dovrebbe essere su tre reggimenti di fanteria, e non più su due brigate composte da due reggimenti). Ne derivano i due vantaggi fondamentali del sistema ternario (semplificare la catena di comando, rendendo più rapida la trasmissione degli ordini; consentire a ciascun livello organico di disporre di una "terza schiera" come rincalzo): eppure le sue proposte sono rimaste senza seguito fino al 1925, forse perché comportano un minor numero di posti da generale. Per la verità il peso di tali proposte viene diminuito dallo stesso Paoletti, là ove propone di aumentare da 24 a 30 le divisioni e cli formare - oltre a divisioni di cavalleria - anche divisioni di bersaglieri e divisioni alpine, con i bersaglieri che potrebbero rafforzare sia la cavalleria in avanscoperta, sia le truppe alpine nella difesa dei confini. Ciononostante le riduzioni proposte dal Nostro sono pur sempre notevoli: 2 Comandi di corpo d'armata, 57 di brigata, 6 di reggimento fanteria, 3 di artiglieria da campagna, 2 di reggimento bersaglieri, 7 di distretto; 26 maggiori generali, 1200 ufficiali e 1000 sottufficiali, 19000 uomini e 1100 cavalli, con una possibile economia di 14 milioni. Il tutto - egli precisa con miglioramento dell'istruzione del personale, dell' avanzamento degli ufficiali e dell'efficienza generale dell'esercito, ottenuta anche con "la co-

stituzione completa dei due eserciti di prima e seconda linea con tutte le unità tattiche, avente ciascuna unità i rispettivi comandanti e ufficiali nominati e funzionanti nel rispettivo comando o carica sino dal tempo di pace, epperò ben noti all'esercito e al paese". 19 Oltre agli scritti prima citati vanno ricordati due articoli del generale Goiran che illustrano e appoggiano il nuovo disegno cli legge sul recluta-

19

ivi, p. 138.


X · DAU:ORDINAMENTO FERRERO ALLA GRA.,,. N:.e:: D::_ I:: :G ,,: ·u ,,.,i::,,,· RR ,_,,A " - - - - - - --

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mento presentato al Parlamento dal Ministro Mocenni, che, per così dire, non esce dal seminato20. Il Mocenni difende la larga intelaiatura di 12 corpi d'armata (18 in guerra) per esigenze di mobilitazione, per ragioni geografiche e per assicurare la difesa dell'Italia peninsulare contro possibili offese dal mare. Come il Paoletti, e in polemica con il generale Dal Verme, sostiene il principio della ferma differenziata, dell'ordinamento ternario e deJ reclutamento tendenzialmente territoriale; ma diversamente dal Paolelli propone l'abolizione dei distretti. A quanto ne dice il Goiran, il disegno di legge introduce due miglioramenti fondamentali: snellimento delle procedure per l'arruolamento, con due Commissioni delle quali una - interamenle composta da civili - che stabilisce se il giovane è soggetto o meno agli obblighi di leva, e l'altra - militare - che ne accerta l'idoneità fisica; ferma differenziata a seconda delle Armi e designazione dei soldati di leva che devono compiere la ferma di un anno non per estrazione a sorte, ma in base a precise disposizioni di legge. Criterio, per così dire, equo e moderno, però guastalo dalla facoltà concessa come sempre al Ministro di congedare in anticipo una parte dei contingenti di leva con estrazione a sorte. Questo antico espediente, cacciato dalla porta, rientra così dalla finestra per le solite ragioni economiche. Sempre per ragioni economiche, la prospettiva della tassa militare (per la quale nel novembre 1881 il Ministro Ferrero aveva presentato un apposito disegno di legge poi migliorato in accordo con il Ministro delle finanze) continua ad avere un successo, che tuttavia non trova mai sbocco concreto nell'approvazione di specifici provvedimenti. Lo studio più completo su questo argomento compare nel 1883 a firma di Carlo F. Ferraris, che fornisce un'interessante panoramica a live11o europeo di questo tipo d'imposta, al momento adottato solo in Austria e Svizzera. 2 1 Il Ferraris prescinde da ogni retorica: il servizio militare più che un onore o un vantaggio per il singolo, è un onere che ricade soprattutto sulle classi meno abbienti, mentre l'esenzione è un forte beneficio, che richiede una compensazione. Ne consegue che "dato lo scarso fondamento giuridico delle esenzioni generali e parziali, sarebbe errore gravissimo il non ammettere al servizio militare un surrogato che in qualche misura vi supplisca per gli esenti; il principio del servizio obbligatorio universale ne sarebbe ferito". In questo contesto, "non si facciano illusioni

20 Giovanni Goiran, Questioni militari - il reclutamentn, in "Nuova Antologia " Anno LXI, Fase. Il 15 gennaio 1896, pp. 263-286 Anno LXI , fosc. IV 15 febbraio 1896, pp. 6 18-649. 21 Carlo F. Fcrraris, l 'imposta militare, in "Nuova Antologia " Anno XXXVIll - 15 marzo 1893, pp. 32 1-352.


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gli avversari [ ... ]. L'imposta militare è opera di giustizia secondata da una potente attrattiva di un provento fiscale; figlia legittima delle condizioni sociali odierne, che vogliono l'uguaglianza, e della condizione politica, che la invoca per ragioni militari e finanziarie, essa sarà sconfitta oggi, ma domani trionferà". Non avrebbe mai trionfato, anche se il principio era indiscutibilmenle giusto. Così come non sarebbe mai stata presa in considerazione, nemmeno nel XX secolo, una sana proposta del maggiore di fanteria (poi generale) Bompiani, che una volta tanto suggerisce un rimedio pratico e possibile all'antica piaga della sottrazione a11' istruzione, per guardie interne ed esterne, servizi vari ecc. di un eccessivo numero di personale. 22 li rimedio da lui indicato è semplice: arruolare - anziché esentarli del tutto - anche alcune migliaia di uomini con idoneità fisica ridotta e non in grado di prestare servizio nei reparti operativi, ma tuttavia in grado di compiere servizi di guardia e di svolgere altri servizi interni non pesanti come scritturali, attendenti, addetti ai servizi ecc .. Questo personale, con ferma ridotta a 2 anni e istruzione preliminare di due mesi presso i distretti, sarebbe riunito in compagnie presidiarie amministrate dai distretti stessi, in tal modo sollevando completamente i reggimenti da incombenze non operative. ln effetti, il disegno di legge Pelloux sul reclutamento al momento in discussione, al quale il Bompiani fa riferimento, oltre a introdurre una tassa speciale per gli idonei aventi diritto all'esenzione istituisce un "servizio ausiliario" per i giovani di leva non pienamente idonei anche se non inabili al punto tale da essere riformati: ma il Ministro Mocenni, che succede al Pelloux, cancella questo spiraglio. Così anche il problema dell'alleggerimento di servizi impropri e nocivi per i reparti operativi si è trascinato per tutto il XX secolo, pur essendo di soluzione non particolarmente difficile. Forse, in questo come in altri problemi organici sono prevalse ragioni di "economia" solo apparenti, visto che comportavano una diminuzione dell'operatività dei reparti.

22

Giorgio Bompiani, Una riforma OfKltnica militare, in "Rivista Militare Italiana " Anno XXX-

VII, IV Voi. - 1° ollobre 1892. pp. 1079- 1098.


X - DALL'ORl>JNAMENTO FERR ERO ALLA GRANDE GUERRA

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SEZIONE U - Verso la grande guerra: dal Marazzi (1901) alla Commissione d'Inchiesta sull'Esercito (1907-1910)

Nel primo decennio del secolo XX, proprio quando all'orizzonte compaiono sempre più fitte le nubi che daranno origine alla prima guerra mondiale, esercito e armata navale toccano forse il punto più basso della loro efficienza morale e materiale, sotto il peso di una serie di fattori concomitanti tra i quali prevalgono la perdita di prestigio e le frustrazioni conseguenti alla sconfitta in Africa, la difficile situazione economica e sociale che porta l' autorità politica a impiegare sempre più massicciamente le truppe in ordine pubblico e a stringe re i cordoni della spesa militare, il disagio morale e materiale dei Quadri (specie inferiori e di fanteria). In sostanza permangono tutti i vecchi mali emersi in precedenza, resi anzi più acuti dalle pressanti esigenze di ammodernamento delle armi e dei materiali imposte dal pro gresso tecnico. In questo contesto la solita ricerca di riforme tali da rendere l'esercito più efficiente senza aumento di spesa raggiunge la punta massima, con un'infinita serie di interventi che ruotano intorno a due punti focali: il già citato libro del colonnello e de putato Fortunato Marazzi L 'esercito dei tempi nuovi (1901) e la voluminosa relazione della Commissione d'Inchiesta sull'esercito nominata da Giolitti nel 1907.

L'insolito connubio nazione armata - esercito di qualità nell' "Esercito dei tempi nuovi" ( 190l) del colonnello e deputato Ma razzi La parlt! più pregnante del citato volume del Marazzi L'Esercito nei tempi nuovi (1901) è di carattere ordinativo e rifle tte idee che l' autore va sostenendo da tempo, more solito miranti a migliorare l'effi cienza dell'esercito diminuendo (o almeno non aumentando) la spesa. L'ossatura delle soluzioni da lui proposte non fa che riproporre (senza ammetterlo) parecchie fondamenta del vecchio modello prussiano, come contingente unico, ferma breve, reclutamento territoriale e sedi fisse; peraltro il Nostro respinge il culto del numero a discapito della qualità e adotta quale accorgimenti per rendere poss ibile la riduzione della ferma vecchi cavalli di battaglia della nazione armata non applicati in Germania, come il tiro a segno c l'istruzione militare nelle scuole. Con questa impostazione di fondo L 'Esercito nei tempi nuovi è una sorta di summa di tesi non nuove e già sostenute dallo stesso Ma-


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL.

m (1870-1915) -TOMO I

razzi in Parlamento o in vari opuscoli. 23 In un discorso alla Camera del 1893, ad esempio, descrive in modo esaustivo i positivi riflessi del reclutamento territoriale, elencandone ben 28 vantaggi senza alcun svantaggio: I.

Il.

/TI. IV.

V. VI.

VII. VIII. IX. X.

Xl.

XII.

23

Facilita la mobilitazione coll'affidarla a 174 depositi di reggimento, anzichè a 87 Distretti che si possono sopprimere. Senza diminuire neppure d'un so/,dato il vero esercito di /" linea realizza una economia organica di 9 milioni. Tale economia si effettua naturalmente in pochi anni, perché, in quanto agli ufficiali dei Distretti, essi già toccano gli ultimi anni di carriera. Risparmio di 2 milioni all'anno pel viaggio dei coscritti e dei congedati. Risparmio di spese di viaggio per i richiamati dal congedo, che andrebbero direttamente ai Corpi locali, anziché transitare pei Distretti. Rif,parmio di circa 500_{)()() lire all'anno pei cambi di presidio, che sarebbero limitatissimi. Risparmio di molti locali che ora i Distretti occupano solo per qualche giorno dell'anno. quarulo cioè ajjlui.w:ono le reclute, od i richiamati. Economia in tutta la manutenzione dei locali, perché i medesimi verrebbero occupati ed amministrati sempre dagli stessi enti. Economia e semplificazione in tutti i depositi di materiale e nel1'amministrazione del casermaggio. Diminuzione negli incombenti del Genio militare e relativa soppressione di parte del personale d'ordine e di vari u:ffici. Possibilità di ridurre Le Jenne e di variare la forza bilanciata sia per La rapidità maggiore con la quale si potrà passare dal piede di pace al piede di guerra, sia per il pochissimo costo dei richiami, La cui durata può essere diminuita dei giorni che ora si consumano col transito pei Distretti de' riservisti. Po.vsibilità di interrompere le ferme e quindi di concedere le licenze per lavori agricoli, contemplate nel progetto per la nuova legge di reclutamento. Facile applicazione del sistema di forza massima d'estate e forza minima d'inverno.

Si vedano, ad esempio, Fortunato Macazzi, Riforme organiche militari - discorso pm11u11ciato alla Camera dei deputati nella 2"tornata del 16 giugno 1893, Crema, Rolleri 1893 e TD., Il contingente unico e le sue co11segue11ze, Roma, Civelli 1892.


X. DAU..'ORDINAMJ::N"JU M::KRERO Al.I.A GRANDE GUERRA.___

XIII.

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Possibilità di accrescere le piccole licenze ed anche i permessi giornalieri diminuendo Le spese generali del vitto. XN. Applicazione su vasta scala della cura e della convalescenza in famiglia in caso di malattia. XV. Minor numero di quelle malattie che ora si contraggono pei subitanei cambiamenti di clima. XVI. Miglioramento ed economia nel vitto potendolo adattare meglio al gusto dei consumatori ed alle offerte del mercato locale ( esempio austriaco). XVII. Facilità economica pel reclutamento dei graduati di truppa. che dopo un certo numero di anni potrebbero aver sede fissa. Possibilità di forti riduzioni nel personale amministrativo sia di XV/Il. concetto che di ordine, ricorrendo al personale locale civile (esempio germanico e svizzero). Economia generale su tutte le compere e sulle spese di manuXIX. tenzione degli oggetti per la conoscenza acquisita delle località e dei produttori. Soppressione in gran parte del carteggio. XX. Vantaggio economico per gli ufficiali, che avrebbero 1111 minor XXI. numero di traslochi pur non essendo come i soldati di truppa territoriali. Facile applicazione della legge sul tiro a segno, economia e seXXII. rietà nel suo sviluppo. Semplificazione nella requisizione dei quadrupedi e di quanto in XXlll. guerra può occorrere. Minor disagio dei soldati nel proseguire i loro studi e nei loro XXIV. rapporti famigliari. XXV. Eguaglianza fra le classi ricche, che mercè il volontariato di un anno già sono trattate col sistema territoriale, e le classi povere. Pregio morale grandissimo col far sì che in tempo di pace i solXXVI. dati conoscano personalmente i capi che li comanderanno in guerra. XXVII. Rapporti intimi e di affetto fra i reggimenti e le popolazioni dalle quali essi traggono vita. XXVl/1. Spirito tradizionale e di corpo esaltati in modo sublime. 24

24

Marazzi, Rifomw organiche... (Cit.), pp. 26-29.


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IL PENSltRO MILITARE E NAVALE ITALIANO- VOI.. 111 (I_R70-1915)- 'IUM0 -'1 _ _ __

Per il Marazzi nessuno ha mai detto che "fosse necessario soffocare nei giovani il ricordo del proprio tugurio per sviluppare la forza collettiva"; non si può riunire i giovani provenienti da varie regioni in una sola località sconosciuta a tutti loro, "onde improvvisare degli Italiani, quali non esisteranno mai e cioè uguali come bottoni di un cappotto". Così facendo "si giunge non alla.formazione di una patria, ma al dominio coatto". Nessuna difficoltà per l'eventuale impiego in ordine pubblico dei reparti, data l'efficacia dei moderni fucili; ad ogni modo, "circa le sommosse la miglior sicurezza è quella di non provocarle con atti inconsulti", fermo restando che l'ordine pubblico è di competenza delle forze di polizia e che l'esercito deve intervenire solo in casi eccezionali. Riguardo all'altro caposaldo prussiano, le sedi fi sse, il Marazzi osserva che i cambi di guarnigione avvengono in media ogni quattro anni, e in questo periodo, per promozioni o altro, la maggior parte degli ufficiali già cambia sede. Non si possono suddividere le sedi buone o cattive "in. pillole eguali per tulli"; comunque i reggimenti di artiglieria hanno già sedi fisse, senza che la loro efficienza militare ne risenta. I frequenti spostamenti provocano notevoli danni economici e sottraggono anch'essi tempo all' istruzione, mentre (altri argomenti non nuovi) con le sedi fi sse gli ufficiali con famiglia avrebbero notevoli vantaggi economici, la manutenzione degli immobili migliorerebbe con minori costi, e anche gli acquisti dei reggimenti sul posto sarebbero più vantaggiosi. Come già accennato, il Marazzi ritiene che il numero, se "scompaginato da altri elementi, può costituire una debolezza vera e condurre a disastri irreparabili". Polemizza perciò duramente con i sostenitori del modello svizzero di nazione armata, dimostrando che anche in Svizzera i suoi principi' teorici all'atto pratico sono applicati in modo incompleto, perché là come altrove il numero dei soldati da istruire ogni anno è subordinato al bilancio, mentre la percentuale di spesa statale che la Svizzera sollo varie forme dedica all'esercito, soprattutto per il costo delle armi e materiali è assai superiore a quella italiana, sì che se anche noi applicassimo il sistema svizzero, fatte le debite proporzioni l'Italia dovrebbe avere "40 corpi d'armata, 3 milioni di soldati, e spendere annualmente 290 milioni".25 i, Marazzi, l 'Esercito nei tempi nuovi (Cit.), pp. 87-92. Sul modello svizzero di nazione armata da ricordare anche l'esauriente studio del maggiure Ugo Brusati /,'ordinamento dell'esercito svizzero, in "Rivista Militare Italiana" Anno XXX - Voi. Ili agosto 1885, pp. 305-366. All'inizio del secolo, da una statistica citata dalla Rivista Militare (Anno LIII, Il sem. Luglio 1908, pp. 1501 - 1505) risulta che la Svizzera dedica al l'esercito il 30 ,06% de l bilancio federale. Si veda anche, in merito, Emilio Salaris, lo spirito delle istituzioni militari sviu.ere, in "Nuova Antologia " Voi. CXXTV - Fase. 831 I agosto 1906, pp.


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Al modello svizzero e a quello italiano del momento (con molte esenzioni e con soli 49.000 uomini - sui 100.000 soggetti annualmente al servizio di leva - che devono compiere una ferma di 3 anni) il Marazzi contrappone un esercito che potrebbe dirsi d'élite, con forza di pace oscillante da soli 130.000 uomini (per gran parte dell'anno) a 390.000 uomini (solo all'epoca delle istruzioni più importanti), mentre la forza in tempo di guerra non supererebbe i 600.(X)O uomini (cioè la metà della forza prevista al momento), appartenenti a sole 6-7 classi di leva. Anche il Marazzi critica la costituzione dei corpi d' armata su due divisioni , perché derivata da un'indebita applicazione del sistema tedesco ai nostri terreni e tale da considerare l'esercito "come se fosse una tavola pitagorica"; propone perciò di articolarlo in guerra in 18 corpi d'armata dei quali 8 speciali (3 alpini) e IO uniformi. Per la costituzione di un siffatto esercito "sistema territoriale, sedi.fisse, ferme brevi, contingente unico, frequenti richiami, compagnie piccole, Quadri ottimi, forza bilanciata minima, scuola primaria militare obblif(atoria, formano un complesso armonico che non si deve scindere, e che bisogna decidersi ad accettare, od a respingere in blocco".26 Sarebbero aholiti l'estrazione a sorte, retaggio dei tempi passati, e il volontariato di un anno; le esenzioni sarebbero ridotte da 80.000 a 30.000; la ferma sarebbe di circa 15 mesi per la fanteri a, con "speciali temperamenti", per alpin i, bersaglieri e cavalleria (stranamente propone di assegnare alla cavalleria gli ufficiali e le reclute di famiglia più agiata, con ferma di 4 anni). Il personale di leva farebbe un anno continuativo di servizio militare, più due richiami per istruzione (di 45 giorni cfascuno) nell'estate dei due anni successivi. Dato il nostro terreno montuoso e ricco di ostacoli, il Marazzi dà poca importanza sia alla cavalleria che all'artiglieria, e confida soprattutto nella fanteria, senza escludere - da buon ex-volontario garibaldino - l' apporto dei volontari. Della fanteria non vede con favore la forte scrematura provocata con l'assegnazione degli elementi migliori aJle Armi speciali, bersaglieri e alpini. Pur ammettendola in taluni casi per ragioni meramente tecnico - addestrative, anche il Marazzi diversamente da tanti altri non concepisce la ferma lunga come strumento-principe per elevare lo spirito militare e il livello disciplinare: "anno più, anno meno di esercizi in piazza d'armi, e di nutrizione alla gavetta, non muterà i conigli in leoni. Il sentimento del dovere, del sacrificio, lo si infonde con una grande cultura morale, coll 'e-

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Marazzi, L'Esercito nei tempi nuovi (Cii.), p. 131.


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sempio dei capi[ ... ]; e la forza cosciente, il pensiero calmo, la fiducia indiscussa, nascono dal modo col quale i capi stessi sanno condurre la guerra, e provvedere ai bisogni morali e materiali del soldato".21 Anzi, le ferme lunghe fanno sospirare sempre più al soldato la libertà e al tempo stesso rendono più difficile il suo reinserimento nella vita civile. Non per nulla i partiti sovversivi reclutano il maggior numero di aderenti tra i contadini ex-attendenti che diventano "degli spostati", perché "il soggiorno in città popolose ha ridestato né loro cervelli vieti appetiti". Perciò "l'educazione dell'animo si imparta nelle scuole; l'abito alla disciplina collettiva nelle caserme, ma, questa ottenuta, il soldato ritorni alla sua casa". A proposito dell'organizzazione dell'esercito in generale il Marazzi non fa questione di disponibilità di risorse, definendo "spiriti da biblioteca" coloro che sostengono che la questione militare deve avere priorità assoluta su tutte le altre. Per lui la frase "non bisogna discutere l'esercito" è solo "frase vuota di chi teme la luce e il progresso e di chi non ha solidi argomenti"; dissente perciò da coloro che lamentano l'ingerenza del Parlamento nelle cose militari. A suo parere in un regime parlamentare l'esercito non può essere sottratto al controllo politico; bisogna tener conto che il suo costo deve essere in armonia con la capacità contributiva del Paese e i1 suo ruolo è in stretta relazione con la politica interna ed estera. Ne consegue che "le istituzioni vigenti all'infuori del pubblico dibattito sono corrotte o deboli, e gli inconvenienti a cui l'esercito soggiace pel continuo controllo parlamentare, sono infinitamente minori dei vantaggi". 28 Nel campo più propriamente logistico - amministrativo il Marazzi non è certo il solo a lamentare vecchi mali come ]'eccessivo accentramento delle attività direttive presso il Ministero, i troppi livelli di controllo peraltro poco efficaci, la sfiducia preventiva nell'operato dei comandanti che conduce a un eccesso di burocrazia e non li educa all'iniziativa e alla responsabilità, ecc. ecc .. Egli ritiene che bisogna anzitutto valorizzare la figura dell'ufficiale combattente; "ciò vuol dire impiegati pochi, contabilità semplice, stipendi decorosi". Occorre anche snellire abitudini secolari con una migliore organizzazione del lavoro, evitando di creare enti che provvedono a una sola funzione e rendono così necessario armonizzarla con le altre; si deve invece creare "tanti enti simili fra loro, in modo che essi abbiano intrinsecamente tutti gli arti per agire, appena ricevuto l'impulso centrale". E anche rischiando di provocare inconvenienti, "occorre non

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ivi. p. 143. ÌVi, p. 160.


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colmare i vuoti che si verificano nel personale d'ordine, limitare gli assegni di cancelleria, togliere la franchigia postale, sostituendovi un assegno fisso per le :,pese di corri:,pondenza, rifondere leggi e regolamenti, concentrare il più che è possibile le fanzioni amministrative e di comando in una sola persona".29 Le varie amministrazioni devono avere la più larga autonomia, con impianto uniforme di documenti contabili e controllo dei rendiconti annuali da parte dei Comandi di corpo d'armata, in modo che al Ministero rimanga solo il compilo di riunire i conti annuali e giustificare le spese davanti al Parlamento. Per evitare abusi e/o identificarli in tempo, occorrerebbe distinguere tra reclamo disciplinare (da inoltrare per via gerarchica) e reclamo amministrativo, che "potrebbe essere fatto da tutti direttamente, a qualsiasi autorità, a voce e per iscritto, senza intermediario di sorta". Per raggiungere questi vecchi obiettivi il Marazzi propone soluzioni più radicali del solito, anche se in parte anticipate a nch'esse dal Nunziante. In sintesi, a suo avviso occorre smilitarizzare in massima parlc i Servizi logistici, decentrando il più possibile le attività e responsahilità. Pertanto il livello di reggimento diventerebbe il perno dell'organizzazione logistica, fino ad essere definito una sorta di "cooperativa di consumo" con piena autonomia e responsabilità per il suo comandante, che già di spone di personale sufficiente per far fronte alle varie esigenze logistiche senza alcuna ingerenza dei livelli superiori. Sarebbe perciò sufficiente assegnargli all'inizio dell 'anno una somma pari alle prevedjbili spese, per farlo giungere a fine anno con i registri in ordine e senza bisogno d.i particolari controlli. Ne deriva un'organizzazione logistica che si caratterizza come segue: UFFICIALI COMMISSARI E CONTABILI. Dovrebbero fondersi ricostituendo il corpo di Intendenza militare, composto da ufficiali provetti che uscendo dalle file dei combattenti, conoscerebbero a fondo i bisogni delle truppe. In perfetta analogia a quanto sostenuto da tempo dal Sani, il nuovo corpo di Intendenza, a organici ridotti, avrebbe compiti di studio, alta direzione, sorveglianza e controllo, consulenza per i reggimenti. Dovrebbe studiare, in particolare, le risorse, i prezzi, i possibili fornitori nelle zone di frontiera, in modo da essere in grado di approvvigionare in breve lempo l'esercito mobilitato in caso di guerra. Nessun organo esecutivo di commissariato sarebbe ne-

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ivi, p. 168.


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cessario in pace. Le forniture di pane, generi vari, foraggi, casermaggio sarebbero di competenza dei reggimenti. Per essere in grado di confezionare il pane in guerra non è necessario costituire in pace compagnie panellieri: in guerra sarebbe facilmente confezionato da richiamati con precedenti di mestiere. VESTIARIO. Con la riduzione della ferma e della forza bilanciata cessa la necessità di costituire grossi e costosi magazzini, con numeroso personale e oggetti che invecchiano perché custoditi troppo a lungo. Il soldato deve presentarsi alla leva con la biancheria personale e un paio di scarpe, in modo che sia sufficiente consegnargli un'uniforme e un altro paio di scarpe. Bisogna modificare il sistema delle aste, che al momento con inevitabile pregiudizio della quaJità del materiale sono vinte da chi offre i prezzi più bassi. "E' meglio pagar caro roba buona, che a buon prezzo oggetti scadenti"; perciò una volta fissato dall'Amministrazione militare un prezzo unitario, le forniture dovrebbero essere aggiudicate a chi per tale prezzo offre il campione di materiale migliore. SANITA' MILITARE. Dovrebbe essere pressoché azzerata la ponderosa e troppo costosa organizzazione del momento (Ispettorato, 12 direzioni, 32 ospedali militari ecc.). I militari ammalati o feriti dovrebbero essere curati presso gli ospedali civili e/o presso le loro famiglie, visto che vigerebbe il sistema territoriale. Tn pace basterebbero 200 ufficiali medici per studi, custodia del materiale, cura dell'igiene delle truppe, visite per ammissioni e riforme. Poiché le grandi battaglie sul nostro terreno non avverrebbero subito dopo l'inizio delle ostilità, ci sarebbe tempo sufficiente per organizzare il servizio sanitario in guerra; a tal fine tutti i medici civili dovrebbero essere obbligati a prestare all 'occorrenza servizio militare fino a 40 anni. Anche i farmacisti militari sono inutili. STABILlMENTI MILITARI. Ad eccezione di quelli per la fabbricazione delle polveri dovrebbero essere aboliti, rivolgendosi per le forniture all'industria privata. Essi "potevano sussistere in tempi di lento progresso e di eserciti piccoli, ma oggi sono una mostruosità economica", per una serie di ragioni: 1) non assicurano, come invece sa fare bene l'industria privata, la necessaria elasticità della produzione, perché sono costituzionalmente incapaci di far fronte sia alle esigenze di produzione massima e rapida, sia alle esigenze di produzione minima; 2) diversamente dalle industrie civili mancano del necessario personale specializzato per dirigerli, perché vi vengono assegnati ufficiali di artiglieria o del genio tratti dai reparti operativi, che


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proprio quando si sono fatti un'esperienza sono trasferiti; 3) non sentono lo stimolo della concorrenza; 4) sono antieconomici, perché anche quando rion c'è lavoro, occorre ugualmente mantenere in organico e pagare le maestranze. 11 Marazzi non ha alcun dubbio sull'efficienza dell'industria privata, visto che essa già costruisce "navi da guerra che non hanno rivali". Propone anche la separazione degli ufficiali d 'artiglieria in combattenti (la maggior parte) e tecnici; quest'ultimi avrebbero il compito del controllo delle commesse, direzione dei polverifici militari, studi ecc .. Dà molta importanza al rinnovamento dei materiali in tempi rapidi, e anche per questo è contrario agli stabi limenti militari. E sempre per evitare che le ultime serie di materiali prodotte siano già superate, propone di risparmiare sulla forza bilanciata per poter disporre dei fondi sufficienti per una produzione di armi e materiali in tempi brevi, senza bisogno di diluirne l'assegnazione nel tempo causando così dei ritardi. CASERME E SERVITU' MILITARI. Gran parte delle caserme non sono idonee, con negativi riflessi sull'istruzione, sul morale e sull'igiene della truppa. Ogni reggimento dovrebbe essere riunito in un'unica caserma vicina alle aree addestrative, con locali ampi per camerate e magazzini, porticati o tettoie che rendano possibili le istruzioni anche in caso di cattivo tempo, e consentano la riduzione del personale impiegato per guardie e servizi interni. La costruzione di nuove caserme va affidata a imprese private a prezzo fisso e non al genio militare. Per recuperare i fondi necessari dovrebbero essere alienati gli immobili militari inutili, che spesso sono al centro delle città e quindi hanno elevato valore commerciale. Ad eccezione delle fortificazioni di confine e costiere, le servitù militari andrebbero abolite, previo obbligo per i proprietari di pagare un riscatto che anch' esso andrebbe a beneficio delle nuove costruzioni. Inoltre i proprietari dovrebbero rinunciare a chiedere risarcimenti nel caso che in guerra si rendessero necessarie delle distruzioni. GIUSTIZIA MILITARE E LUOGHI DI PENA. I tribunali militari e il tribunale Supremo di guerra e marina dovrebbero essere aboliti. I reati militari dovrebbero essere istruiti e giudicati da tribunali civili, applicando le pene "in base ai responsi di un giurì di 5 ufficiali". Le pene sarebbero scontate in reclusori civili. Comunque, data la brevità della ferma i reati sarebbero pochi ; e poiché per la maggior parte sono commessi da soldati di leva con precedenti penali, quest'ultimi dovrebbero essere concentrati in spec iali reparti d'Africa.


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GENIO MILITARE. Anche il suo ruolo va drasticamente ridotto. l lavori sul campo di battaglia, a cominciare dai trinceramenti, possono essere compiuti dagli stessi reparti di fanteria; l'arte di costruire, difendere e assalire le piazzeforti non può essere monopolio solo del genio, come avveniva nel secolo XVlll. Nella nostra guerra solo difensiva e di confine, i pontieri sono poco utili. Essi dovrebbero tornare a far parte dell'artiglieria, con organici ridotti; il servizio delle mine dovrebbe essere affidato all'artiglieria da fortezza. Basterebbe istituire una cattedra universitaria di ingegneria militare per disporre di tutti i Quadri necessari in guerra. Anche l'organizzazione territoriale del]' Arma, con troppe direzioni, uffici ecc. andrebbe ridimensionata, insieme a quella dell'artiglieria. Solo con i provvedimenti prima indicati il Marazzi calcola di ottenere un risparmio di ben 60 milioni. Non c'è da meravigliarsi se siffatte proposte e dei calcoli così ottimistici, oltre che la decisa opposizione delle riviste di Forza Armata suscitano numerose critiche dirette e indirette, non solo tra i conservatori ma anche tra gli innovatori . Chi contrasta più a fondo le sue idee nel campo logistico - amministrativo è il capitano commissario dott. Luigi Gritti, .il più eminente scrittore di logistica e amministrazione dell'inizio del secolo.10 In linea generale il Gritti non nega affatto la necessità di riforme "ab imis Jundamentis" e si dichiara anch'egli favorevole alla semplificazione e al decentramento del meccanismo amministrativo, facendo del livello di corpo d'armata territoriale il vero "motore amministrativo militare". Ciononostante boccia senza remissione tutte le soluzioni proposte dal Marazzi, a cominciare dal suo criterio di suddivisione del lavoro che non rispetta i principi della moderna scienza economica, basati - al contrario - sulla "decomposizione del lavoro in una serie di operazioni panicellari diverse per La loro natura ed a ciascuna delle quali atJende una speciale categoria di persone" (oggi diremmo: sulla ripartizione dell'organizzazione per funzioni e sulla specializzazione). Per il Gritti i vari servizi vanno suddivisi in prevalentemente tecnici e prevalentemente amministrativi; entrambe le categorie richiedono cognizioni e attitudini molto diverse. Inoltre, ferma restando la preminenza delle funzioni di comando sarebbe dannoso riunire nella stessa persona l'esercizio delle predette funzioni e di quelle di amministrazione. In secondo luogo, se - come propone il Marazzi - si lasciasse a ogni reggimento la gravosa responsabilità di provvedere 10 Luigi Grilli, li motore amministrativo militare nel libro "L'esercito nei tempi nuovi", in " Rivista Militare Italiana " Anno L voi. II Disp. IV aprile 1905, pp. 722-740.


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in proprio a tutte le sue esjgenze logistiche, si addosserebbero alle stesse persone una svariatissima quantità ili compiti, ciascuno dei quali richiede speciali conoscenze e attitudini. Per ultimo un'unità tattica deve essere operativa e mobile al massimo grado, quindi non può essere appesantita con incombenze logistiche di vario genere, impedendo tra l'altro al colonnello di esercitare pienamente le sue preminenti funzioni operative e disciplinari. Secondo il Gritti non regge nemmeno il paragone del reggimento a una mera cooperativa di consumo: il suo ruolo logistico non va valutato solo in termini economici, ma bisogna tener conto anche delle speciali esigenze del tempo di guerra. E anche limitandosi al tempo di pace, i veri risparmi non si otterrebbero con i piccoli acquisti locali di una sola cooperativa di consumo, ma con i grandi acquisti che possono essere fatti , per tutti, solo a livello centrale e quindi alle migliori condizioni. Per gli oggetti di vestiario ed equipaggiamento, che hanno carattere speciale, il produttore ha bisogno di avere molti contratti che gli rendano possibile produrre a buon mercato. Per il collaudo occorre personale specializzato non disponibile a livello reggimento, mentre il magazzinaggio è molto più economico se accentrnto. Gli esperimenti di gestione diretta del casermaggio da parte dei corpi non hanno affatto dato esito soddisfacente. li vettovagliamento interamente decentrato significherebbe un funesto ritorno al passato, e anche la fornitura del pane da parte di produttori locali anziché dei panifici militari (come avveniva una volta) aumenterebbe le frodi. La riduzione al minimo del personale sanitario in tempo di pace e il ricovero dei militari ammalati presso ospedali civili non sono convenienti per molte ragioni: i medici civili non avrebbero alcun interesse ad accettare una presenza continuativa alle varie attività dei reparti; in campo militare hanno particolare rilievo i problemi medico-legali; infine l'esercito ha malattie speciali con decorso particolare che devono essere seguite da personale esperto. Come si è accennato, oltre a rivoltare da cima a fondo l'amministrazione militare il Marazzi vuol ridimensionare fortemente la cavalleria, ritenendo (previsione peraltro fondata) che non potrà essere molto utile nei nostri terreni di confine; anche da questa parte, perciò, vengono critiche e obiezioni severe. Sulla Rivista di Cavalleria del 1901 un altro grande nome, il colonnello di Stato Maggiore (poi Maresciallo d' Italia) Pecori Giraldi , non ritiene necessario né diminuire né aumentare la cavalleria; piuttosto essa dovrebbe essere addestrata meglio a combattere nei terreni difficili ove probabilmente sarà combattuta la prossima guerra.3 1 Per il resto, però, il Pecori 3 ' Guglielmo Pecori - Giraldi, Dobbiamo scemare la cavalleria? in "Rivista di Cavalleria" Voi. VUI - Fase. IX settembre 1901 , pp. 221-239.


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Giraldi sembra avvicinarsi al Marazzi, là ove afferma che se si vuol ottenere delle reali economie non si deve incidere nelle parti vitali del nostro organismo militare (cioè sui reparti operativi), ma piuttosto "in quei congegni (e purtroppo non ne mancano) che un erroneo attaccamento al passato ci fa ritenere utili e bisognevoli, mentre non sono né l'uno né l'altro". Sempre sulla Rivista di Cavalleria dello stesso anno il colonnello di cavalleria Pugi validamente contrasta il concetto di esercito difensivo del Marazzi , ritenendo invece che bisogna essere in grado di far fronte a qualsiasi esigenza strategica e non alla sola difensiva. 32 A suo parere le Alpi non sono così facili da difendere come vorrebbe dimostrare il Marazzi: le colonne nemiche procedenti nei fondivalle non saranno isolate, ma anch'esse fiancheggiate da altre forze che sfrutteranno sentieri e passaggi ben noti anche ali' invasore, onde tentare a loro volta di avvolgere le posizioni della difesa. La cavalleria, però, non può essere diminuita: la nostra frontiera non è tutta alpina e, come scrive lo stesso Marazzi, alla frontiera orientale i] terreno "permette il contemporaneo passa?,?,io di un fortissimo esercito schierato in battaglia", contro il quale un'avanguardia di truppe a cavallo [ anche nell'offensiva? - N.d.a.] è indispensabile. Il Pugi è ancor meno tenero con le altre proposte del Marazzi riguardanti la cavalleria: se, come da lui proposto, si riducessero gli squadroni a 50 cavalli in pace, se ne comprometterebbe la mobilitazione e l'efficienza, mentre anche il reclutamento per censo e a pagamento con ferma di quattro anni non darebbe alcun risultato e creerebbe inaccettabili disparità di trattamento tra la truppa, perché accanto ai volontari di un anno la massa della truppa pur pagando anch'essa sarebbe soggetta a ben quattro anni di ferma.

Il dibattito sul "problema militare": gli attacchi del Ghersi alle "Armi dotte", la difesa del Bennati e del Natale e il diverso parere del Cavaciocchi L'aspetto più rimarchevole del periodo in esame è un dibattito a più voci (ivi comprese quelle cli parte socialista) sul "problema militare", dove affiorano o riaffiorano tematiche antiche, spesso già affrontate dal Marazzi. Il suo iniziatore è il tenente colonnello di Stato Maggiore Luigi

32 Rodolfo Pugi, Sul libro dell'ari. Marau.i "L'Esercito riei tempi mOllerni", in "Rivista di Cavalleria" Voi. VTII - Fase. IX settembre 1901, pp. 240-260. S i veda anche, in merito, MBD (Marziale Bianchi d ' Adda, generale e scrittore di cavalleria), La cavalleria italiana secondo le idee dell'on. Marau.i. in "Rivista di cavalleria" Voi. VHI Fa,;c. X - ottobre 1901 , pp. 347-360.


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Ghersi, che diversamente dal Marazzi ritiene necessari una gravitazione strategica verso il Mediterraneo e un esercito offensivo.33 Crede nel numero, quindi tale esercito dovrebbe essere in grado di mobilitare in caso di guerra 1-500.000 uomini e di raggiungere livelli di forza pari a quello austriaco. E' contrario alle conquiste coloniali, perché l'Italia è ancora povera di energie, mentre tali conquiste sono convenienti solo se ve ne è esuberanza. Vede con favore accordi con la Francia e l'Inghilterra per il Mediterraneo, quindi è assai tiepido nei riguardi dell'alleanza con gli Imperi centrali. Premesso che gli obiettivi strategici da raggiungere sono essenzialmente territoriali, perciò l'esercito dovrebbe avere la priorità rispetto alla marina, il Ghersi giudica assai negativamente sia le condizioni materiali e morali del Paese sia quelle dell'esercito, vittima degli attacchi dei socialisti e della tendenza a "conciliare il parere con l'essere". In particolare accenna al problema non ancora risolto dei subalterni e dei sottufficiali, al cattivo inquadramento e all'insufficienza della forza di pace delle compagnie e batterie, alle precarie condizioni dell'artiglieria e delle fortificazioni di frontiera. A suo parere le proposte di riforma conosciute fino a quel momento a un più approfondito esame hanno rivelato inconvenienti non meno gravi di quelli che avrebbero voluto eliminare, mentre i tentativi del passato Ministro Ottolenghi di reaJizzare economie "apparvero come ingiust~ficatefalcidie, e non valsero ad aumentare di un solo uomo e di un solo quadrupede le unità dell'esercito". Perciò suggerisce "un piano di riforme basato sulla semplificazione degli organismi" niente affatto nuovo, visto che anch'esso sovente riprende (senza citarlo) 1e idee del Marazzi. Come il Marazzi vorrebbe applicare il principio della suddivisione e specializzazione del lavoro, quindi abolire gli stabilimenti e direzioni di artiglieria e del genio conservando solo alcuni stabilimenti di commissariato indispensabili per le esigenze del tempo di guerra; 1a produzione militare andrehhe affidata all'industria privata, il cui sviluppo va incoraggiato onde disporre di grandi stabilimenti con capacità produttive analoghe a quelle degli stabilimenti stranieri. Sempre come il Marazzi, vorrebbe semplificare i troppi controlli amministrativi, abolendo l'ufficio centrale di revisione della contabilità e rendendo più incisivi i controlli dei Comandi superiori suH'ope-

33 Luigi Ghersi, Il problema militare-economie e mi~liore or~anizzazione dell'Esercito, in "Nuova Antologia " Voi. CXIT - Fa~c. 784 16 agosto 1904, pp. 61 7-633. Tesi analoghe a quelle del Ghersi sono sostenute anche da Giovanni Robecchi, Essere o non essere della nostra f orza militare, Napoli, Stab. Tip. F.Sangiovanni 1907.


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rato dei consigli di arruninistrazione dei reggimenti; così facendo sarebbe possibile anche ridurre i troppi ufficiali contabili e commissari e fonderli in un unico corpo. Altre economie potrebbero essere ottenute abolendo i cambi di guarnigione, modificando il vestiario, abbreviando la ferma e dando priorità assoluta alla costituzione di un forte esercito di I" linea, perché le guerre saranno brevi e tutto verrà deciso fin dai primi scontri. Infine, sempre come il Marazzi propone la riduzione del numero dei reggimenti di cavalleria e artiglieria, de11e esenzioni dal servizio militare e della ferma di leva, rendendo obbligatoria per tutti i giovani prima del servizio militare la frequenza del tiro a segno. Le sue tesi non trovano prevedibilmente concordi né ambedue le riviste delle "Armi dotte", né la stessa Rivista Militare, che in una recensione non firmata, quindi redazionale 34, pur riconoscendo che l'abolizione degli stabilimenti militari consentirebbe notevoli economie, non ritiene possibile la sua approvazione da parte del Parlamento, ove prevalgono solo ragioni politico - sociali. La rivista boccia inoltre la riduzione della ferma (che non comporterebbe delle economie a meno di ridurre la forza bilanciata), la riduzione delle Armi di fanteria e cavalleria (già numericamente insufficienti) e il drastico ridimensionamento dell'esercito di 2" linea (per il quale già si spende assai poco) a favore dell'esercito di 1" linea. Sulla Rivista di Artiglieria e Genio il ten. col. di artiglieria Bennati35 condivide l'opportunità di semplificare i controlli amministrativi, ma non concorda né su11'utilità delle guarnigioni fisse, né (prevedibilmente) sulla convenienza di abolire gli stabilimenti di artiglieria e di ridurre i reggimenti di artiglieria e del genio. Secondo il Bennati le proposte dal Ghersi giungono quando si sta se mai pensando di rendere mobili anche le sedi dei reggimenti di artiglieria e genio, "in causa dei gravi inconvenienti d 'ordine morale e disciplinare, a tutti noti, che presentano le guarnigioni fisse". La completa eliminazione degli stabilimenti d'artiglieria almeno per il momento "sarebbe dannosa e pericolosa", perché non esiste ancora in Italia un'industria privata in grado di produrre materiali da guerra nella quantità necessaria e con sufficienti garanzie; inoltre lo sviluppo industriale è appena iniziato, e non sarebbe conveniente indirizzare gran parte della produzione privata verso il settore militare, con redditività dubbia.

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1n "Rivista Militare ltaJjana" Anno XLIX Voi. IV Disp. X - 16 ottohre 1904, pp. 1961 - 1964. Luigi Bennati, A propositu di una xo/11zio11e del problema militare, in "Rivista di Artiglie ria e

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Genio " novembre 1904, pp. 178- 196.


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L' unico stabilimento militare privato esistente in Italia è l' Amstrong, in mano a capitale straniero; quindi il provvedimento caldeggiato dal Ghersi ci metterebbe in balla dell'industria straniera, o, quanto meno, ci renderebbe dipendenti da una situazione dove esistono troppi elementi d ' incertezza. Del resto - prosegue il Bennati - nei limiti del possibile l'Amministrazione militare già favorisce con commesse a varie ditte lo sviluppo dell'industria privata nazionale e talora ricorre anche all'industria estera; né è vero che gli stabilimenti militari non sono in grado di assicurare la necessaria elasticità della produzione, perché possono anch'essi a5sumere o licenziare. a seconda del bisogno, una parte del personale. Comunque nessuno dei principali Stati d'Europa segue la via indicata dal Ghersi (e qui il Bennati elenca gli stabilimenti militari di tali Stati, comprendendovi anche il Giappone). A riprova delJ'opportunità e possibilità di ridurre l'artiglieria e il genio il Ghersi cita l'esperienza della guerra russa - giapponese; ma per il Bennati tale esperienza dimostra esattamente il contrario, cioè l'importanza del fuoco specie d'artiglieria e l'importanza del terreno, il quale solo in quella guerra ha ridotto il rendimento della cavalleria; ma ciò non vale per i nostri terreni. Il Ghersi replica alle critiche del Ben nati e di altri con un altro lungo articolo sulla Rivista Militare nel quale ribadisce le sue tesi36, ricordando tra l'altro che, come risulta da un'inchiesta condotta da una Commissione della marina e come dimostrano le eccellenti costruzioni navali affidate dal Brin alla nostra industria privata, la capacità produttiva di quest'ultima non è così ridotta come vorrebbe far credere il Bennati, e in ogni caso è possibile svilupparla e incoraggiarla anche con idonei strumenti finanziari. E' vero che anche negli altri Stati esistono degli stabilimenti militari, ma le produzioni più complesse e delicate, come quelle delle bocche da fuoco, sono anche colà affidate all'industria privata, di modo che "gli stabilimenti d'artiglieria si vedono già ridotti al più modesto ufficio di soccorritori del[ 'industria privata, e di produttori di minori industrie". Se l'artiglieria giapponese si è fatta tanto onore nella recente guerra, ciò è dovuto al valore del soldato e alle modernissime artiglierie delle quali disponeva, appunto fabbricate - per impulso di ufficiali italiani - da celebri case private europee come la Krupp, I' Armstrong e la nostra Ansaldo, alle quali i nostri ufficiali si sono dovuti rivolgere, trascurando gli stabilimenti militari locali. Questi ultimi, comunque, da noi non verrebbero soppressi sic et simpliciter, ma trasferiti all'industria privata con impianti e relative maestranze.

36 Ghersi , /I problema militare-consenso e urgenza dello studio, in " Rivista Militare Italiana " Anno L - I scm. Disp. I 16 gennaio 1905, pp. 5-82. Si veda anche, in merito, una lettera del Ghersi su lla "Rivista di Artig lieria e Genio" del dicembre 1904.


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Per l'occasione il Ghersi sottolinea che non si può e non si deve sfuggire a] dilemma ultimativo "o rinvigorire gli organismi con l'annullamento delle specie meno essenziali, o disgregarli per crescerne e rafforzarne le parti nel terreno a ciascuna di esse più propizio". In questo quadro occorre rafforzare anzitutto l'esercito di 1• linea e in particolare la fanteria, che pur essendo sempre "assoluta regina delle battaglie", per qualità e numero non è quella che dovrebbe essere, a cominciare dai Quadri, per i quali si verifica "una :,perequazione grave di stato, di carriera, di avvenire" rispetto agli ufficiali delle Armi dotte, "donde nascono il malessere, la sfiducia dell'ora presente". Peggio ancora, benché in Manciuria la fanteria sia stata l'elemento decisivo della vittoria giapponese, invero v'ha chi non sappia che gli uomini assegnati alla fanteria /da noi] costituiscono la parte più scadente dell'annuale contingente di Leva, e che quello migliore è prenotato e prescelto per tutte le altre Armi e corpi, nessuno eccettuato I ... l. Cosicché a quella fanteria - alla Regina delle battaglie - che oltre alla vigoria fisica, per perdurare nelle marce e nei combattimenti, per stabilirsi ed ajforzarsi sul terreno ed aprirvi dei varchi, deve anche possedere la migliore energia morale per affrontare e superare le più spossanti e micidiali situazioni di guerra, a quella.fanteria, ripeto, che in tempo di pace è chiamata a sedare le agitazioni dell'ordine pubblico e che per questo riguardo pure dovrebbe avere gli individui più imponenti, le si offrono, diciamolo pure francamente, gli scarti del contingente di leva.

Come rimedio, senza citare il Marazzi anche il Ghersi indica l'i stituzione di un' unica Università militare per gli ufficiali combattenti di tutte le Anni, mentre gli ufficiali non combattenti (cioè coloro che non conducono le truppe a] fuoco) "potranno avere varie provenienze dagli istituti di perfezionamento tecnico, a seconda del loro impiego tecnico amministrativo o legale, le c ui condizioni di stato si affermeranno con una assimilazione di grado nello stato militare". Per la truppa di fanteria, secondo il Ghersi non è necessario limitare o eliminare la scrematura del contingente di leva a tutto vantaggio delle altre Armi; basta ridurre le Armi a cavallo e speciali e aumentare il numero del contingente di leva da incorporare, accrescendone la qualità con il tiro a segno obbligatorio, il cui funzionamento va migliorato perché carente sotto molti aspetti. In proposito, il Ghersi riscontra che i poligoni costruiti in passato non sono più idonei per il fucile moderno e propone di costruirne di nuovi poco costosi e numerosi, ricordando che (già allora!) "in America


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si sono ideati degli apparecchi per l'istruzione delle truppe nel tiro, risparmiando così ingenti somme per il minor consumo delle munizioni. In Austria, si eseguisce tiro col fucile ridotto nelle caserme, che, a quanto pare, dà ottimi risultati". Il Bennati risponde a1 Ghersi con un altro articolo sulla Rivista di Artiglieria e Genio, con il quale la direzione della Rivista dichiara chiusa la discussione. 37 Si tratta di un vero dialogo tra sordi, visto che non fa che ribadire le sue idee sull'utilità degli stabilimenti, sull 'importanza dell'artiglieria nella guerra russo - giapponese (dimostrata dagli "inumani macelli" sopportati dalle eroiche fanterie giapponesi, quando la preparazione d'artiglieria è stata insufficiente), ccc .. Ha comunque qualche ragione nel non condividere i termini drastici, ultimativi, ineluttabili con i quali il Ghersi vorrebbe imporre una rapida attuazione di quanto propone, e nel giudicare troppo campate in aria c troppo indeterminate le sue tesi, la cui fattibilità non appare chiara e ben studiata. Le riforme proposte dal Ghersi toccano anche il genio, proponendo di affidare i lavori di fabbricati, poligoni ecc. a ingegneri civili anziché a ufficiali del genio, di sopprimere le direzioni del genio e l'officina di costruzioni del genio e di dividere i ruoli degli ufficiali in combattenti e tecnici. A queste proposte, già ventilate dal Marazzi, si oppone sulla Rivista di Artiglieria e Genio il tenente colonnello del genio Natale38 , secondo il quale in questo caso non conviene separare gli ufficiali in combattenti e tecnici, per una serie di ragioni: - i compiti che l'ufficiale del genio deve svolgere sia nei Comandi che nei reparti richiedono in ambedue i casi un patrimonio di cognizioni d'ingegneria civile; - lungi dall'essere un male, l'alternanza degli ufficiali del genio presso le direzioni o ai reparti è un vantaggio, perché consente loro di completare sia le cognizioni pratiche che quelle teoriche e scientifiche. Quest'uJtime possono essere acqui.site solo presso le direzioni; - il periodo che gli ufficiali del genio trascorrono presso i reparti nei gradi inferiori è sufficiente per farne anche dei comandanti e sviluppare in loro attitudini e capacità prettamente militari; - la riduzione del personale delle direzioni genio è possibile solo se contestualmente si riformano alla radice i regolamenti e le leggi di

37 Bcnnati, A proposito di una snluzfrme del problema militare, in "Rivista di Artiglieria e Genio " febbraio 1905, pp. 321-341. 38 Giuseppe Natale, A proposito del problema militare, i11 "Rivista di Artiglieria e Genio " del 16 apri le 1905, pp. 690-7 1 I e del 16 maggio 1905, pp. 894-61 2.


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amministrazione e contabilità, semplificando le procedure amministrative, dando loro maggiore fiducia e autonomia ecc.; - se la costruzione e gestione di immobili militari fosse affidata al genio civile, sorgerebbero parecchi inconvenienti e conflitti d'ordine amministrativo e tecnico, a causa della dipendenza da due Ministeri diversi, e dello status civile del personale; - non è vero che la gestione dei lavori da parte del genio militare è antieconomica e comporta maggiori spese di quelle dei lavori pubblici in genere. In conclusione, anche il Natale si scaglia contro i fautori di illusorie, forti economie, che da sole dovrebbero bastare a risolvere il problema militare: per lui, come per tanti altri, l'unico rimedio vero e efficace è l'aumento delle spese militari. Se non altro per la sede nella quale sono sviluppate, le tesi del Bennati e del Natale non possono sfuggire al sospetto di voler difendere interessi corporativi. Ma anche la Rivista di Cavalleria prende posizione contro il Ghersi, con un articolo dell'allora colonnello di artiglieria di Stato Maggiore Cavaciocchi, preceduto da un corsivo redazionale nel quale già si prendono nette distanze dalle sue idee. 39 Con stile sobrio, chiaro e molto efficace il Cavaciocchi controbatte una per una le principali idee del Ghersi, con l'intento di demolirle. ESERCITO DI PRIMA/ SECONDA LINEA. Il Cavaciocchi ha indubbiamente ragione quando lamenta che "una falsa tradizione attribuisce comunemente il nome di prima linea ali'esercito permanente, di seconda linea alla milizia mobile e di terza linea alla milizia territoriale; mentre in realtà l'esercito permanente e la milizia mobile costituiscono, uniti insieme, l 'esercito di campagna, e la milizia territoriale potrebbe denominarsi presidiaria, in vista della sua principale funzione". Di conseguenza, secondo il Cavaciocchi il Ghersi ha torto quando sostiene la necessità di curare soprattutto l'esercito di I" linea, anche a detrimento dell'esercito di 2a linea: ambedue costituiscono l'esercito di campagna destinato ad entrare unitariamente in azione, quindi "se s'intende con ciò sopprimere i quadri, le dotazioni e i richiami alle armi per la milizia mobile, ciò significherà altresì una diminuzione di circa 300.000 uomini nell'esercito di campa,?na, a de trimento di quel numero di cui l'Autore fa L'apolo,?ia". SCUOLA UNICA PER GLI UFFICIALI. Non esiste nemmeno in Germania; da noi "bisogna prendere quello che il paese può dare, la39

Alberto Cavacciocchi. J111omo al problema militare. in " Rivista di Cavalleria " Voi. XV Fase.

lii marzo 1905, pp. 213-223.


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sciando che in taluni casi la minore età compensi la minore istruzione, e in altri la maggiore istruzione compensi La maggiore età, senza sottili distinzioni in fatto di cultura". Bisogna anche tener presente che l'omogeneità della provenienza degli ufficiali ne rende più difficile la selezione e l'avanzamento. E' invece da condividere la ripartizione dei migliori, fin dall'inizio, fra tutte le Armi combattenti. Una forte selezione è peraltro inevitabile, così come è inevitabile un certo numero di scontenti_ DEPAUPERAMENTO ECCESSIVO DELLA FANTERIA: "non è più tale oggidì, e per convincersene basta leggere le prescrizioni per l'assegnazione degli iscritti, o meglio ancora, guardare il primo reggimento di fanteria che capita sotto gli occhi"_ Anche se la statura media della fanteria resta al disotto di quella delle altre Armi [ma perché? - N.d.a.], " il vantaggio che si avrebbe ripartendo i pochi colossi ivi assegnati tra i molti reggimenti di.fanteria non sarebbe paragonabile al danno arrecato a ciascuna specialità " Lragionamento reversibile, se sono pochi - N.d.a. I. E il Ghersi cade in contraddizione quando esalta il valore dei piccoli fanti giapponesi, più piccoli dei nostri [ma quella è una caratteristica generale della razza giapponese N.d.a.]. Perciò, anche per il Cavaciocchi l'unico mezzo per migliorare il reclutamento della fanteria è la diminuzione delle esenzioni per ragioni di famiglia dal servizio di prima categoria. TIRO A SEGNO. TI Cavaciocchi non concorda con il Ghersi sulla sua importanza come titolo per la riduzione della ferma, perché arreca danno al reclutamento degli ufficiali di complemento, mentre le agevolazioni per coloro che non appartengono alla fanteria sarebbero inutili e dannose. Al massimo, la frequenza del tiro a segno potrebbe essere un titolo in più per l'ammissione alla 3" categoria_ Bisogna anche considerare l'elevato costo dei poligoni e le eccessive distanze dei poligoni di mandamento per la massa degli utenti_ Il tiro a segno ha potuto avere successo solo nelle particolari condizioni della Svizzera; ma in Francia e in Germania una siffatta istituzione non esiste_ QUANTITÀ E QUALITÀ DELLE TRUPPE. L'eccessivo aumento della forza bilanciata e la riduzione della ferma proposti dal Ghersi compromettono la qualità e l'istruzione dell'esercito e sono inaccettabili dal punto di vista economico. Prima di portare le nostre forze combattenti al livello di quelle austriache, la nostra popolazione dovrebbe raggiungere quella austriaca; "del resto le differenti condizioni politiche interne concedono a noi di fare, senza pericolo, un apparecchio militare meno vasto".


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PRIVATIZZAZIONE DEGLI STABILIMENTI MILITARI. TI Ghersi la propone per realizzare forti economje a beneficio dell'aumento della forza bilanciata; ma le sue affermazioni non sono basate su dati precisi, quindi non è possibile stabiljre se e quanto l'Amministrazione militare risparmierebbe con l' acquisizione di armi e materiali dall'industria privata. SEDI FISSE, RECLUTAMENTO REGIONALE. Anche in questo caso i risparmi non sono ben quantificabili, comunque non possono essere ingenti. Il Cavaciocchi conclude che i rimproveri del Ghersi al Paese e al Parlamento, che non dedicherebbero sufficienti cure all'esercito, non sono giustificati, "perché non Rià fanno difetto le leggi, ma difettoso è soltanto

il coordinamento generale della legislazione e dei regolamenti che ne derivano". Basterebbero pochi ritocchi alle principali leggi già esistenti e la raccolta della legislazione militare in un testo unico, per mettere il nostro esercito in condizioni equivalenti al tedesco per qualità (sic). Per il Cavaciocchi, infatti, "lo studio dell'esercito tedesco è forse il piùfecondo che

si possa fare da chi cerca La soluzione del problema militare; soluzione che va cercata su basi concrete e numeriche, non su idee astratte".

La critica socialista alla spesa militare e all'ordinamento dell'esercito e le repliche del Pittaluga e del Mosso

Nel periodo in esame specie sulla Critica Sociale e in Parlamento non mancano critiche e proposte dell' opposizione socialista, che oscillano tra atteggiamenti utopistici e demagogici (il pacifismo, il disarmo, le spese militari improdullive, le asserite malefalle dei militari) e proposte serie, miranti a razionalizzare la spesa militare e pertanto a diminuirla. Specie quando si tratta di esercito difensivo, reclutamento territoriale e sedi fisse, diminuzione della ferma, aumento del contingente di leva da incorporare, tali proposte si avvicinano a quelle del Marazzi; in altri casi analizzano la spesa militare e ne cercano di dimostrare (fatto, anche questo, non nuovo) l'antieconornicità. 40 40

Sul punto di vista socialista a proposito di reclutamento territoriale e sedi fisse si veda, ad esempio, Erre, Sistema nazionale o territoriale? (Estrano da "Riforma Sociale"). Torino, Roux e Viarengo 1904. L'opuscolo è ampiamente recensito dalla Rivista Militare (Anno XLIX, I scm. Disp. IV 16 aprile 1904, pp. 754-757), che critica soprn.ttutto la forma troppo polemica delle tesi de ll' ignoto autore, definendo il problema del reclutame nto nazionale o territoriale "semplicemente una questione di opportunità e di tempo" Iinvece è durato per tulio il XX secolo! - N.d.a.J e mettendo in ril ievo i vantaggi del sistema in vigore (reclutamento nazionale ma mobilitazione territoriale).


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Il critico militare dj parte socialista più nolo e documentato è Gioacchino Martini (pseudonimo Sylva Viviani), già volontario nel 1866, poi ufficiale commissario insegnante alla Scuola Militare di Modena e dimissionario nel grado di tenente colonnello. Del Martini vanno ricordati due scritti del periodo 1901 - 1905. Nel primo41 intende dimostrare che: - la spesa militare italiana impegna il 29,18% delle entrate a fronte del 21 % destinato al progresso civile. 1n nessun altro Paese d'Europa la spesa civile è così penalizzata. Anche per effetto dell'eccessiva pressione tributaria, essa penalizza perciò gravemente l'economia; - il Ministero della guerra con vari artifizi contabili a consuntivo ha tentato di far credere che la spesa ufficiale per l'esercito è di mollo inferiore a quella reale (su questo argomento il Martini si sofferma molto); - la percenluale di spesa per la marina (9,2% a fronte del 20,6% per l'esercilo) dovrebbe aumentare, perché l' Italia "è un Paese essen-

zialmente marittimo"; - a fronte deU 'eccessiva quanlilà di risorse assorbite, l'esercito è inefficiente, abbonda solo di slrutture superflue e manca di armamentj e mezzi moderni, anche perché ad arte in passato si è risparmiato sul necessario e non sul superfluo, in modo da poter ottenere presto o tardj un aumento degli slanziamenti; - l'intreccio internazionale degli interessi economici, il prevalente sentimento pacifista dei popoli, lo stesso progresso degli armamenli (che favorisce la difensiva fino a rendere "quasi impossibile" l' offensiva per grandi masse e "impossibili" le guerre di coalizione), hanno reso molto più difficile e meno probabile la guerra. A parte quesl' ultima previsione totalmente smentita dagli eventi di lì a pochi anni, per il Martini la situazione strategica italiana è tale da non richiedere affatto il dispendio di risorse che si sta verificando, anche per effetto delle pressioni dell' establishment militare. A suo giudizio l'Ilalia possiede già frontiere terrestri sicure e "non può temere di sbarchi nemici

finché il cosiddetto equilibrio del Mediterraneo poggerà sopra tre potenze navali, una delle quali sarà sempre portala dalla necessità delle cose ad esserle amica".42 Di conseguenza senza indebolirci militarmente è possibile economizzare ben 70 milioni sul bilancio dell'esercito, "lasciando il

41

Cfr. Sylva Viviani (Gioacchino Martin i), La verità sulle spese mi/ilari (Eslrnllo da "Critica Sociale"), Milano, Ufficio della Critica Sociale 1901. 42 ivi, p. 48.


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bilancio della marina a 90 milioni e riducendo quattro corpi d'armata e La maggior parte della cavalleria, costosissima e inutilissima nei terreni come i nostri e nella difensiva; e si può dare maggior vigoria alle milizie mobili [cioè ai reparti da mobilitare solo all'emergenza - N.d.a.], specialmente alle alpine e alle altre fanterie". Anche nel secondo scritto del 190543 il Martini intende dimostrare l'antieconomicità dei provvedimenti militari del Ministero Zanardelli Giolitti e ancora una volta lo sforamento del bilancio consolidato della guerra, nascosto con artifizi contabili (a suo giudizio, in tre anni si sono spesi 27,3 milioni in più del bilancio ufficiale, si sono richiamati 35.000 uomini in meno di quelli conteggiati, ecc.). Segue un duro attacco al servizio di leva, che il Martini diversamente da Engels è ben lungi dal concepire come un passo importante verso la democrazia e verso un maggior peso politico del proletariato: a suo parere di fatto il servizio militare obbligatorio è riuscito più severamente un mezzo di asservimento del proletariato, un 'arma morale e materiale contro di esso.fucinata al momento stesso del prorompere nell'Europa continentale del sentimento di democrazia. Specialmente in tempi d 'industrialismo come questi, democrazia vuol dire, sempre meglio, cooperazione volontaria dei più nel movimento e nell'assetto sociale. La legge militare è invece una rigida cooperazione obbligatoria, è un freno al progresso sociale, è una delle forme più potenti della lotta di classe combattuta dai dirigenti contro Le altre classi. La legge di reclutamento e i regolamenti militari furono sempre blandi e quasi attraenti pei dirigenti [ ... ]. Per gli ufficiali la istruzione professionale gratuita o semigratuita, lo stipendio conseguito a 19 o 20 anni, la facilità professionale per tanti mediocri di conseguire gli alti stipendi e le situazioni elevate, sono vantaggi che non hanno riscontro alcuno nelle carriere e nelle professioni civili [ma come mai, proprio in quel periodo, il disagio specie dei Quadri inferiori raggiunge il massimo? - N.d.a. 1.44

Eppure egli riscontra "la trasformazione sempre più accentuata dell'esercito in nazione armata", vecchio mito socialista: ma persino questa linea di tendenza è da lui contradditoriamente vista come un ulteriore

43 Cfr. Sylva Viviani, l'Esercito~ il reclutamento (Estratto da "Critica Sociale"), Milano, Ufficio della Critica Sociale 1905. 44 ivi, p. 26.


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mezzo di asservimento de] pro]etariato. Dall'aumento del personale in congedo che, sia pur non istruito, è soggetto a obblighi militari (quindi anche a richiami a11e armi in tempo di pace) egli deduce, infatti, che alla classe dirigente non interessa l'istruzione alle armi del proletariato, ma piuttosto la possibi1ità di chiamarlo in ogni momento alle armi per neutralizzare eventua1i sommovimenti sociali, "e il militarizzamento lcioè il richiamo a11e armi per evitarne lo sciopero - N.d.a. l dei ferrovieri nel 1898 e nel 1902 lo dimostrò molto bene". Dopo queste critiche e a1tre più o meno dello stesso genere che si trovano sparse nel testo, ci si aspetterebbe che il Martini proponesse con coerenza soluzioni drastiche, con la riduzione al minimo dell'esercito e della spesa militare: invece espone i contenuti di due progetti di legge, presentati alla Camera da] deputato socialista Ciccotti, che ancora una volta su parecchi punti richiamano Je proposte del Marazzi: strategia solo difensiva, contingente unico, reclutamento regionale e sedi fi sse, aumento del contingente di leva incorporato e diminuzione delle esenzioni , ferma breve, istruzione pre-militare, tiro a segno ecc.. Come giustifica il Mattini una siffatta impostazione, che almeno dichiaratamente, vuol essere razionalizzante come le proposte dei militari innovatori, e non certo distruttiva? Con un certo imbarazzo e diverse contraddizioni. Ammette chiaramente che "noi pure aggraviamo con quei progetti i carichi militari", ma assicura che a1 tempo stesso che "noi diamo al proletariato dei compensi che superano di gran lunga gli aggravi, in confronto alla legge vigente e al progetto Ottolenghi [Ministro dal maggio 1902 al novembre 1903 - N.d.a.l ". 45 In particolare vuol dimostrare che con i progetti socialisti si agevola "l'evoluzione degli eserciti permanenti verso la nazione armata, incominciata per noi nel 1873 [con Ja legge Ricotti, dunque per lui positiva - N.d.a.l, il cui servizio è necessità consentita e cosciente della difesa nazionale, ed al tempo stesso elevamento del proletariato, cui l'obbligo militare viene a imporsi da sé quasi in modo automatico, e voglio dire non materialmente soltanto come accade al presente, ma prima di tutto moralmente quale vero dovere di solidarietà umana". Ne consegue che le proposte socialiste vanno considerate "come un contratto di do ut des" nel quale, "pur aspirando a cose maggion"', si concede al proletariato il massimo consentito dalla ragione militare del tempo, "e lo facciamo non soltanto allo scopo di giovare al proletariato, ma pure al fine di giovare alla difesa militare, della quale un proletariato cosciente è la salvaguardia maggiore e migliore" .

45

ivi, pp. 41-84.


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Al di là di queste dichiarazioni di principio, i veri o supposti vantaggi dei progetti socialisti non sono poi tanto nuovi e si inquadrano perfettamente in quello che potremmo definire lo spirito (con le connesse illusioni) dei tempi. In buona sostanza non si tratta che di uno sviluppo delle proposte dello stesso Martini del 1901 , il che induce a ritenerlo il vero autore o ispiratore dei progetti di legge. Oltre a11a riduzione dei corpi d'armata da 12 a 8, alle sedi fisse e al reclutamento regionale, ecc., con tale progetto si vorrebbe ottenere: - un risparmio di 60 milioni (e non più di 70) sulla spesa militare, con possibilità di ridurre le tasse e favorire i consumi, giovando anche al commercio e ai fornitori ("pei quali L'onorevole Marazzi ha il solito grido di commiserazione fuori di posto"). Si avrebbe anche il vantaggio di mettere fine "all'incubo di !>pese militari maf?giori'', alimentato "dallo sviluppo compresso degli attuali organici, pletorici e rachitici insieme, e dal malcontento di tanta gente, il pigolìo fastidioso def?li insaziabili". Tale risparmio, peraltro, non si sa hene da dove dovrebbe venire, visto anche che lo stesso Martini lamenta il mancato ammodernamento delle armi e dei materiali, ammodernamento che se effettuato seriamente, come minimo non consentirebbe alcun risparmio; - una forza bilanciata che non superi i 159.000 uomini e un contingente di leva annuale incorporato uguale a quello previsto dal Ministro Ottolenghi ( 110.000 uomini); - fenna anch'essa differenziata come quella prevista dal Ministro Ottolenghi, ma più breve (eliminazione de11a ferma di 3 anni o di un anno per akune parti del contingente; ferma di 2 anni per I0.000 uomini (cavalleria e artiglieria da campagna) anziché per 22.000 uomini; ferma di 18 mesi per 60.000 uomini; ferma di 6 mesi per 40.000 uomini anziché 20.000); - riduzione al minimo delle esenzioni per ragioni di famiglia ma più pronta riforma degli elementi che difettano di doti fisiche, onde rimediare all'elevata percentuale di mortalità e di ospedalizzazione dell'esercito di pace; - abolizione della facoltà per il Ministro di concedere congedi anticipati per ragioni di bilancio, che è "un immorale comodino di bilancio (e pe,?f?iO, che non dico) e un turbamento continuo dell'economia della vita interna dei reggimenti''. Come si vede nulla di nuovo o di rivoluzionario, anche perché - come ben dimostra il Martini - se si tiene conto dei congedi anticipati, le ferme di.fatto si avvicinano di molto a quelle da lui proposte. La nazione arma-


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ta, insomma, anche nelle concrete proposte per il reclutamento del Martini rimane solo una linea di tendenza, un obiettivo ideale a lungo termine da raggiungere non si sa come e quando. Così come sono analoghe a quelle del Marazzi e/o di altri militari le sue considerazioni sulla possibilità di istruire in pochi mesi il contingente di leva, ecc .. L'unica osservazione da fare, anche nel suo caso, è che non tiene conto a sufficienza della situazione infrastrutturale e di altre vecchie carenze anche finanziarie che continuano a ostacolare seriamente 1' istruzione quotidiana, il cui rendimento dipende da un complesso di presupposti organizzativi non facili da creare in nessun esercito. Insomma: è riscontrabile una certa linea di continuità tra le idee del Ricotti, quelle degli ufficiali innovatori a cominciare dal MarseJli, le proposte del Marazzi e quelle del Martini: più che sui principi e criteri, si differenziano tra di loro sul modo di attuarli . Sotto questo profilo il merito forse maggiore del Martin i è la sua sfiducia nelle possibilità dell' offensiva, che lo fa andare, a ragione, controcorrente. Mentre i critici militari più accreditati vedono nella guerra russo - giapponese la conferma della possibilità di aver ragione della difesa nonostante l' aumento dell 'efficacia del fuoco, egli nota che l'offensiva di Napoleone e Moltkc non è più possibile: dopo 11 mesi di guerra, e nonostante la capitolazione di Port Arthur, i giapponesi non hanno ancora raggiunto il loro vero obiettivo, c he era la distruzione dell'esercito nemico. Vi è stata invece una stasi di 11 mesi senza battaglie decisive, nella quale i due eserciti sono rimasti a guardarsi in faccia "nascosti nelle buche come talpe". Questo dimostra, perciò, che "la guerra logora organicamente l'esercito vitlorioso e lo obbliga a riposarsi e a rifarsi, più dello stesso vinto nemico che operò in difensiva".46 Senza contare che l'ex - ufficiale e massone Martini, pur non essendo tenero con il vertice militare, ammette che a riforme come le ferme brevi, il reclutamento regionale e le sedi fi sse si oppongono non tanto i militari , ma soprattutto i civili.47 Stando così le cose, è abbastanza prevedibile che le correnti d' idee più conservatrici accomunino le tesi del Marazzi, dei socialisti e di altri ufficiali innovatori. La più forte opposizione alle loro idee viene da un militare, il generale Pittaluga, e da un uomo di cultura e deputato, il prof. Mosso. 4x Do-

p. 87. ivi, p. 47. 48 Giovanni Pittaluga, La Jrasformazione dell 'esercito, in "Rivista Militare Italiana " Anno XLVIII - Il sem. 16 novembre 1903, pp. 1873-1901 e Angelo Mosso, Il socialismo italiano e la na zione armata, in " Nuova Antologia" Voi. CXV Fase. 795 I febbrnio 1905, pp. 457-474. 4<> j vi,

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po aver giustamente osservato che, nella sostanza, il nostro ordinamento militare è ancora quello del 1882, il Pittaluga commenta il progetto di legge del Ministro Ottolenghi, che a suo dire anche senza riforme radicali introduce numerosi miglioramenti, tali da consentire di far fronte in modo soddisfacente, mantenendo i 12 corpi d'armata, alle strettoie del bilancio consolidato (239 milioni). Tra di essi: la fusione dei distretti con i depositi [mai attuata - N.d.a.1, non meglio precisate modifiche ai cambi di guarnigione, la riduzione di "alcuni servizi contabili e tecnici e anche di alcuni elementi combattenti esuberanti o meno necessari all'azione delle truppe inquadrate nei corpi d'armata in guerra", la semplificazione delle operazioni di leva, la riduzione delle dispense per ragioni di fami glia, la concessione di benefici a chi si istruisce militarmente prima della leva, l'aumento del contingente di leva incorporalo. Dal commento del Pittaluga si deduce che il Ministro Ottolenghi cerca rimedi per così dire leggeri agli stessi problemi che il Marazzi e gli altri vorrebbero risolvere con misure radic;_ùi tutte fortemente osteggiate dal Pittaluga, il cui primo bersaglio è proprio il Marazzi, anche se gli rivolge complimenti di maniera. Il Pittaluga difende infatti il sistema di reclutamento nazionale, che a suo parere ha parecchi vantaggi e degli inconvenienti che peraltro il Ministro Ottolenghi sta eliminando con parecchie disposizioni. Difende l'estrazione a sorte, che secondo lui è un sistema "umano" ed è accettato dalla massa più facilmente di provvedimenti specifici, dietro i quali si sospetta l'arbitrio. Osserva, a ragione, che il contingente unico proposto dal Marazzi di fatto non è tale, visto che ammette "speciali temperamenti" per alpini, bersaglieri e cavalleria, e che l'assegnazione dei coscritti alla cavalleria in base al censo e con ferma di quattro anni è un anacronismo inammissibile nella moderna società. Naturalmente, per le ragioni già note il Pittaluga si oppone recisamente anche al concetto di esercito puramente difensivo del Marazzi, esasperato dal progetto socialista del Ciccotti/Martini, da lui respinto come "prematuro, inaccettabile, rovinoso per l' Italia". Gli riconosce tuttavia due lati positivi. Anzitutto, mirando a un assetto dell'esercito che dichiara migliore del1' attuale, implicitamente dimostra che uno dei pilastri dell 'antimilitarismo degli stessi socialisti, l'improduttività della spesa militare, è solo un argomento demagogico. In secondo luogo il progetto socialista rileva non a torto l'insufficienza del personale in congedo per formare le previste 12 divisioni di milizia mobile; tuttavia il progetto del Ministro Ouolenghi elimina anche questo inconveniente. Infine il Pittaluga prende in esame l'opera del colonnello (in congedo) Carlo Ludovico Malag uzzi Valeri, L'esercito italiano e le sue condi-


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zioni organiche49 , che su parecchi punti (ferma breve, contingente unico, istruzione militare prima della leva ecc.) si avvicina per l'ennesina volta al Marazzi, ma se ne discosta prima di tutto sul numero, ritenendo, più a ragione che a torto, che non si può affidare la difesa nazionale a poche truppe scelte; il Malaguzzi propone perciò un esercito di 1" linea (in caso di guerra) di 923.000 uomini, più le truppe di riserva, territoriali ecc .. Il Pittaluga concorda con questo orientamento del Malaguzzi: ma a ragione non concorda affatto con altre sue idee, come l' intento di dare al battaglione la più ampia autonomia tattica e amministrativa, rinforzandolo persino con artiglieria e treno e facendone in pratica un reggimento. Questa soluzione secondo il Pittaluga comporterebbe un eccessivo appesantimento di tale unità, il cui comandante deve invece concentrarsi sull'azione tattica; né possono essere condivise, a suo parere, la formazione binaria del battaglione e la formazione ternaria delle Grandi Unità (armata su lre corpi d' armata, corpo d 'armata su tre divisioni, divisione su tre brigate), che in tal modo non fa che provocare uno spostamento di nomi , rendendo il battaglione uguale al reggimento, la divisione (di ben 34.000 uomini secondo il Malaguzzi) uguale a un corpo d'armata, il corpo d' armata uguale a un'armata. V'è da osservare, a questo punto, che limitandosi a queste critiche il Pittaluga non considera altri vistosi difetti delle proposte del Malaguzzi, come la pesantezza anche del reggimento (su ben sei battaglioni), la scarsità di Quadri in servizio permanente previsti per una forza così imponente da mobilitare, le difficoltà che sorgerebbero per la mobilitazione, ecc .. Il Pittaluga ha invece il raro merito di gettare parecchia acqua sul fuoco, con una visione realistica, sulla questione del tiro a segno, ricca di proposte ma non di realizzazioni. Pur essendo convinto della sua importanza come gli altri autori prima citati, e pur riscontrando anch'egli il suo cattivo funzionamento, si sofferma anch 'egli sui costi, riscontrando l'impossibilità di creare un poligono per ogni Comune, mentre per costruirne uno almeno in ciascun mandamento occorrerebbero (per 1458 mandamenti) ben 17 milioni, cifra davanti alla quale i progetti dei Ministri della guerra si sono sempre fermati.

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Carlo Lodovico Malaguzzi Valeri, /,'esercito italiano t• le sue condizioni organiche, Torino, Società Tip. Editrice Nazionale 1907. La prima edizione ( 1900) è assai lodata sulla Rivista Militare dal colonne llo Temistocle Marioui (/1 problema Militare, Anno XLVlll , li sem. Disp. VII - 16 luglio 1903, pp. 12 14-1243), ma il libro viene stroncato in una successiva recensione direzionale del 1907 sulla stessa Rivista Mililllre (Anno Ln, rr sem. Disp. IX - 16 settembre 1907. pp. 1871-1877).


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La questione del tiro a segno50, e le altre più in voga nel periodo, sono affrontate in modo originale dal Prof. Mosso, che dopo aver polemizzato con il pacifismo antinazionale, utopico e barricadiero tipico solo dei socialisti italiani, pur essendo esperto di pedagogia e di educazione ginnica della gioventù attacca a fondo due capisaldi dell'organizzazione militare generalmente condivisi anche da coloro che non concordano con il Marazzi e i socialisti: l'istruzione militare scolastica prima della leva e il tiro a segno_ Ricorda di essersi già opposto, nel 1893, a un progetto del Ministro dell'istruzione Baccelli che avrebbe voluto dare un indirizzo militare all'educazione di tutta la gioventù. Alle argomentazioni del Marazzi contrappone una semplice frase: "Non secchiamo l'anima alla gioventù!''_ E si chiede: se secondo il Marazzi bastano poche settimane per istruire un fante o un artigliere, se lo stesso Marazzi esalta le gesta dei garibaldini, dei cittadini americani nella guerra di secessione, dei Boeri, che pure non possedevano alcuna istruzione militare, per quale ragione si dovrebbe costringere i nostri figli a imparare quello che il maresciallo Molt.ke chiama un "gioco dei soldatini", gioco dannoso perché non è altro che una parodia del vero addestramento militare? TI Mosso ricorda poi che nella seduta del 24 giugno 1904 alla Camera più di cento deputati hanno presentalo un ordine del giorno, con il quale si invita il governo a potenziare il tiro a segno "dandogli carattere eminentemente civile e popolare": ma anche in questo caso obietta che sia la Francia, che la Germania non danno alcuna importanza al tiro a segno e che i molti milioni che costerebbero i nuovi impianti andrebbero meglio spesi a favore dell'educazione fisica della gioventù. Infatti: - in Italia non vi è molta passione per le armi e i cacciatori sono pochi. Nonostante i vantaggi militari concessi a chi frequenta i poligoni, il tiro a segno rimane solo uno sport, uno svago per pochi. Ciononostante a coloro che praticano questo sport si concedono vantaggi eccessivi, senza curarsi della loro resistenza alle marce, che è la base dell'addestramento militare; ·50 [] tiro a segno è uno degli argomenti più dibattuti in Parlamento e sulla leueratura militare. In genere è visto favorevolmente, come mezzo importante per abbreviare. con sensibili economie, la ferma di leva e diffondere lo spirito e l'educazione militare nel Paese. Il fronte contrario è capeggiato dal Ricotti; il suo più convinto fautore è il Baratieri. In merito da ricordare: Oreste Baratieri, Il tiro a segno e le istituzioni militari, in "Nuova Antologia " Voi. XXIV - Fase. XXI I novembre 1880, pp. 136-157 (ne fa la storia e lo definisce "scuola militare della nazione"); ID., I tiri a segno nella difesa delle Alpi, in "Nuova Antologia " Vol. XXXIX - Fase. IX I maggio 1883, pp. 46-75; (XXX), La legge sul tiro a segno nazionale - la tassa mi/ilare, in " Rivista Militare Italiana" Anno XLVIII II sem. Disp. VII - 16 luglio 1903. pp. 1069- 1102; G. Fadda, Il tiro a segno e la difesa nazionale. in "Nuova Antologia" Voi. CXLVI - Fase. 919 I aprile 19IO, pp. 482-493.


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- come afferma il generale Ricotti fda sempre nemico del tiro a segno - N.d.a.J, per istruire il soldato al tiro basta una settimana, perché "nella battaglia manca il tempo e La calma per mirare: il bersaglio è una lunga linea di nemici nella quale si tira senza fissare il punto", quindi non è necessario essere buoni tiratori [ma questo vale anche con il combattimento in ordine sparso? - N.d.a.] ; - oltre ad essere molto costosi e inutili, i poligoni di tiro sono anche dannosi , perché l'occhio per abituarsi a misurare bene le distanze ha bisogno di un campo di tiro molto più vasto. lnoltre la distanza di tiro di 300 metri degli attuali poligoni è troppo breve; - "nessun governo, anche se lo Stato cadesse nelle mani dei socialisti, si deciderà mai a distribuire i fucili a tutto il popolo, perché impari a servirsene prima di essere chiamato alle armi". Si deve riconoscere che gli eventi successivi hanno dato ragione al Mosso: il tiro a segno non è mai decollato, non ha mai apportato sensibili e riconosciuti vantaggi all'addestramento militare. Perciò anche in questo caso, la montagna (fatta di infinite discussioni, proposte, pronunciamenti a favore, provvedimenti ecc.) ha partorito il topolino.

SEZIONE m

- Le principali questioni ordinative secondo la Commissione d'Inchiesta

La Commissione d'Inchiesta per l'esercito, costituita dopo quella per la marina con legge 7 giugno 1907 n. 28751, benché abbia finalità positive (individuare le principali lacune deU'organismo militare e proporre al Parlamento e Governo le relative soluzioni, a premessa dell'aumento dei bilanci militari richiesto anche dalla situazione internazionale) ha ampia facoltà di indagare sull'operato di tutti i livelli della gerarchia e degli stessi Ministri, interrogare personale di qualsiasi grado, promuovere veri e propri referendum tra gli ufficiali ecc .. Per queste ragioni non può essere vista di buon occhio da taluni esponenti del vertice militare, che vedono messo pubblicamente in discussione il loro operato; tuttavia va riconosciuto che compie un lavoro imponente, serio e abbastanza sereno e equilibrato, pubblicando otto voluminose relazioni che forniscono una rara,

51 Ne fanno parte deputati, senatori e membri nominati dal Governo. Tra di e.~si i generali e scritturi militari Dt:I Maynu, Sismumlu e Pt:ITU<.:d1elli, l'amm. lk llùlu, il genernle làvema.


IL PENSlERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOI,. lii 1870-1915 -TOMO I

completa e interessante radiografia dell'organizzazione militare del momento, in tutti i suoi aspetti.52 La Commissione si sofferma particolarmente sui problemi ordinativi e del reclutamento, con considerazioni che di per sé dimostrano, ancora una volta, che nonostante le infinite discussioni e proposte e i numerosi provvedimenti, i problemi fondamentali dell 'esercito non sono stati definitivamente risolti e non cambiano rispetto ai tempi del primo Minislero Ricotti: le sedi fisse, o meno, la durata della ferma, il decentramento ecc. ecc. sono sempre i temi ricorrenti, così come è sempre ricorrente l'esigenza di porre un rimedio efficace alle gravi lacune sempre esistenti nella difesa dei confini. Sulla necessità o meno di adottare finalmente le sedi fi sse - problema affrontato dalla I" relazione 1908 - la Commissione si spacca . La maggioranza considera le sedi fisse "un ideale da raggiungersi, desiderabile per tutti", se la dislocazione delle truppe dovesse ba~arsi unicamente su esigenze militari. Esse sono indispensabili quanto meno per le truppe di fanteria che devono rafforzare gli alpini nella difesa delle frontiere, allenarsi alla vita in montagna e ricevere per questo uno speciale equipaggiamento, idonei mezzi di trasporto ecc.: ma dopo queste premesse tale maggioranza giudica "prematura" la loro adozione per tutti i reggimenti, e senza indicare i motivi del compromesso propone di introdurle per tutta la cavalleria e per 36 reggimenti di fanteria (su 96) appartenenti alle divisioni più prossime ai confini, oppure appartenenti a presidi di piazze marittime. Tuttavia, onde evitare che i reggimenti con sede fissa acquisiscano "quel carattere di territorialità, che oggi ancora è da ritenersi non applicabile ai nostri ordinamenti militari", i reggimenti con sedi fisse non dovrebbero avere più della metà dei Quadri appartenenti alla stessa circoscrizione di corpo d'armata nella quale hanno sede. Per quanto riguarda la truppa, essi avrebbero reclutamento di leva nazionale e mobilitazione territoriale; per i reggimenti a sede mobile, invece, occorrerebbe combinare i turni di cambio di guarnigione con le tabelle di reclutamento e mobilitazione [operazione molto complicata! - N.d.a.l in modo che i richiamati affluiscano allo stesso reggimento, dove hanno prestato servizio da recluta. La maggioranza, infine, molto si preoccupa delle continue domande di trasferimento specie degli ufficiali appartenenti a reparti con sedi mobili e delle loro frequenti richieste di raccomandazione per ottenere sedi gradite53 :quindi raccomanda di limitare i trasferimenti a casi eccezionali, vagliare attentamente le domande ecc.. 52

Roma, Tipografia delle Mantellate 1908- 19 1O. s3 Si veda, in merito. anche la lettera del Ministro Casana in data 11 dicembre 1908, per scoraggiare le raccomandazioni alle quali ricorrono gli ufficiali onde ottenere il trasferimento (CIE. Re/az.. 6• p. 5).


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Dalle proposte della maggioranza dissente l' on. Fusinato, secondo il quale non sono stati studiati a sufficienza "i correttivi adatti a evitare i riconosciuti pericoli delle sedi fisse", la cui adozione o meno va comunque collegata al problema del reclutamento, non ancora preso in esame dalla Commissione. Al contrario, gli onorevoli Guicciardini e Sacchi si dichiarano favorevoli ali' adozione generai izzata delle sedi fisse e pertanto esprimono voto contrario, motivandolo con le ragioni da sempre addotte dai fautori delle sedi fisse. Essi osservano che in Germania, Francia e in Austria le sedi sono già fisse, mentre anche in Italia la linea di tendenza è questa, perché ormai solo fanteria, bersaglieri e cavalleria si trasferiscono periodicamente da una cillà all'altra. Inoltre la grande maggioranza degli ufficiali si sono dichiarali favorevoli alle sedi fisse, perciò adottandole solo per una parte dei reggimenti si creano disparità di trattamento, con i relativi riflessi morali e disciplinari e "una ressa" di ufficiali che cerca di ottenere anche con raccomandazioni l'assegnazione a reggimenti con sedi fi sse. Anche i due inconvenienti principali delle sedi fisse di solito citati da coloro che le avversano (troppi Quadri di provenienza locale; permanenza troppo a lungo in sedi disagiate) a parere dei due deputati non sussistono. A parte il fallo che gli clementi locali si possono trovare - dopo qualche anno di permanenza nella stessa sede - anche nei reggimenti mobili , questo primo inconveniente di per sé viene meno con i trasferimenti per promozione o per altre ragioni di servizio. Il giudizio sul gradimento o meno di una sede è sempre soggettivo; d'altro canto l'inconveniente delle sedi disagiate non riguarda nemmeno gli ufficiali superiori, perché non rimangono a lungo nel loro grado, mentre per gli ufficiali inferiori si può provvedere favorendone i trasferimenti dopo un cerlo periodo di permanenza. Da notare che, dopo questo primo esame del problema nella 1" relazione 1908, nella 4" relazione (1909) e nella 7a relazione (1910) la Commissione ritorna, per così dire, sui suoi passi a tutto favore delle sedi fi sse anche per la fanteria, questa volta ammettendo che i vantaggi delle sedi fi sse superano gli asseriti svantaggi e di fatto capovolgendo le precedenti proposte: non più sedi mobili almeno per una parte dei reggimenti e con relativi temperamenti, ma "criterio della relativa fissità delle guarnigioni accompagnato dagli opportuni correttivi per i Quadri di ufficiali e sottufficiali". Anche sul secondo problema - chiave, quello della durata deJla ferma, la Commissione si spacca. La maggioranza, inclusi tutti i membri militari, sposa la soluzione tradizionale e accetta il solito sistema della ferma differenziata, ritenendo indispensabile un aumento della forza bilanciata di pace fino a 250.000 uomini, con ferma più lunga (3 anni) per la cavalleria


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e l'artiglieria a cavallo, ferma di due anni per la maggior parte del contingente di leva e infine ferma di un anno per una parte residua del contingente, legata come sempre anche a esigenze di bilancio_ Eppure da un sondaggio condotto su 120 ufficiali risulta che solo per la cavalleria la maggioranza (21 ufficiali) è contraria alla ferma biennale, peraltro con ben 16 ufficiali di quest'Arma favorevoli magari a certe condizioni; per le altre Armi i favorevoli sono la grande maggioranza. Inoltre la maggioranza della Commissione accetta in pieno il vecchio principio della lunga durata della ferma come mezzo per sviluppare l'educazione e lo spirito militare, senza quindi accettare le opposte tesi del Marazzi e dei socialisti, secondo i quali la ferma lunga è se mai nociva e deprime, lungi dall'aumentarlo, lo spirito militare. A fronte delle proposte della maggioranza, tre deputati (Ferraris, Guicciardini, Sacchi) presentano una relazione di nùnoranza con la quale propongono l'adozione generalizzata della ferma biennale, avvalendosi largamente, per sostenere le loro tesi, del parere favorevole di ufficiali di vario grado e di varie Armi, compresa la cavalleria. Secondo i tre deputati l'adozione della ferma biennale si impone per una serie di ragioni: - una forza bilanciata di 225.000 uomini è più che sufficiente per assicurare una buona solidità all'esercito. Con i 250.000 uomini e la ferma differenziata proposta dalla Commissione, bisognerebbe assegnare al1a ferma di un anno non meno di 40.000 uomini del contingente di leva, e collocare in congedo prima dell'arrivo del nuovo contingente una parte dei militari di 1• categoria.Con la ferma di due anni, invece, questi inconvenienti non si verificherebbero; - tre anni di ferma rappresentano un danno eccessivo specie per le famiglie contadine, anche se riguardano solo una parte del contingente; - la ferma differenziata rende comunque ingiusta e iniqua la designazione di coloro che debbono compiere i tre tipi di ferma, sia che si ricorra al sorteggio, che ad altri criteri come quello del grado di istruzione del singolo; - lungi dall'essere utile, la ferma di tre anni è dannosa per il morale e la disciplina, perché crea malcontento e disparità di trattamento; - per l'istruzione del soldato sono sufficienti due anni e due classi sotto le armi. Non è necessario aumentare i sottufficiali delle compagnie; i graduati si possono scegliere - come di fatto già avviene - anche tra coloro che compiono una ferma di due anni; - solo per la cavalleria e per esigenze di governo quotidiano dei quadrupedi , si può studiare un breve prolungamento della ferma per non


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più di quattro mesi, corrispondenti al periodo che intercorre tra il congedamento della classe anziana e l'incorporazione delle reclute nelle unità insieme con gli anziani; - l'applicazione della ferma biennale non comporterebbe quel forte aumento degli oneri finanziari che sostengono taluni, ma comporterebbe una maggiore spesa di soli quattro milioni circa. Il punto di vista della Commissione sulla forza bilanciata (da aumentare) e sulla ferma (da mantenere almeno in parte a tre anni) già sottintende che essa non è favorevole a una riduzione delle unità in vita fin dal tempo di pace. Pertanto, essenzialmente per ragioni di mobilitazione la Commissione si dichiara favorevole al mantenimento dei 12 corpi d'armata, e per ragioni addestrative e di mobilitazione insieme (troppi richiamati in caso di guerra se la forza di pace è esigua) ritiene che la fon:a di pace de11a compagnia di fanteria, al momento assai inferiore a quella dei principali eserciti, debba aumentare da una media di 67 a 93 uomini, come per la compagnia di fanteria austriaca. Al raggiungimento di tale obiettivo deve essere subordinata anche la costituzione presso le unilà di pa1.:e di nuclei per le compagnie di fanteria della milizia mobile. La Commissione, inoltre, non è certo la sola a ritenere necessario che la fanteria, data la preminente importanza che vi ha l'elemento uomo e date le fatiche che deve sostenere sul campo di battaglia, non debba essere troppo depauperata degli elementi migliori a favore delle Armi a cavallo e delle Armi e fanterie speciali, come continua ad avvenire. Pertanto propone che: - alle Armi a cavallo e Armi speciali sia assegnato il personale scelto effettivamente indispensabile; - agli alpini siano assegnati - come in origine - solo gli elementi nati e cresciuti in montagna, richiedendo loro le doti richieste per il normale soldato di fanteria, senza pretendere che posseggano le stesse doti dei bersaglieri; - il numero dei battaglioni bersaglieri sia ridotto da 36 a 24, raggruppati in 8 reggimenti (dei quali 2 ciclisti) da assegnare alle armate; - i 12 battaglioni bersaglieri soppressi siano sostituiti da 4 reggimenti (2 brigate) di fanteria per il presidio de11a Sicilia e Sardegna, dove aJ momento si trovano solo battaglioni distaccati da reggimenti del continente; - il numero degli ufficiali inferiori di fanteria sia aumentato (400 capitani e 550 subalterni in più, dei quali 1/4 sottufficiali anziani promossi sottotenenti). Da queste conclusioni della Commissione si dissociano tre membri non militari (Bernardi, Guicciardini e Sacchi), i quali ritengono che


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l'aumento della forza di pace delle compagnie di fanteria e quindi della forza bilanciata sia troppo costoso (superiore ai 10 milioni), senza peraltro migliorare, come asserito dalla Commissione, l'addestramento dei Quadri e della truppa. L'istruzione del soldato, quale che sia la forza della compagnia, si svolge al livello di plotone; l'istruzione di pochi è più facile che I' istruzjone di molti. Per istruire bene i Quadri, oltre alle manovre con la carta e di campagna con i soli Quadri è sufficiente che le unità abbiano forza elevata solo per alcune settimane aH'anno. La loro istruzione, comunque, incontra difficoltà non per la forza esigua delle unità, ma per la crescente carenza di idonee aree addestrative, con i larghi spazi ormai richiesti dalle formazioni in ordine sparso. Ormai l'istruzione più efficace per i Quadri si ottiene solo con le manovre di campagna e i campi estivi; comunque è compito degli ufficiali superiori mantenere proficuamente occupati e istruire gli ufficiali inferiori senza quotidiano impiego, la cui depressione morale è dovuta a varie cau se e non ai livelli di forza, che se si riuscisse veramente a eliminare gli abusi e gli eccessi nell'impiego del personale di truppa, potrebbero subire un sensibile aumento. Diversamente dal Marazzi e altri la Commissione ritiene importante anche la cavalJeria, da dislocare per la maggior parte nella Val Padana. Propone pertanto di costituire fin dal tempo di pace 3 divisioni del!' Arma, con alcuni aumenti (portare gli squadroni da 144 a 145 con 130 cavalli ciascuno; aumentare anche il numero dei reggimenti, sia pur su 5 squadroni anziché su 6). Anche in questo caso i tre deputati prima citati si dissociano dalle proposte della Commissione, per due ragioni, che gli eventi successivi dimostreranno valide: - le caratteristiche del terreno dei nostri probabili scacchieri di guerra sono tali da non far prevedere "un impiego largo e decisivo" di truppe a cavallo; - la nuova tattica resa necessaria dalle moderne armi a tiro rapido ha ridotto la sua importanza; anche nell'esplorazione essa può almeno in parte essere sostituita dai moderni mezzi meccanici (ciclismo, automobilismo e aerostatica). Per l'artiglieria la Commissione, sempre per facilitare la mobilitazione e l'efficienza iniziale, ritiene necessario aumentare la forza di pace della specialità da campagna a 90 uomini e 60 cavalli. Altri perfezionamenti riguardano gli stabilimenti, le direzioni e il treno. La Commissione si preoccupa di mettere gH stabilimenti effettivamente in condizioni di studiare i perfezionamenti delle artiglierie e di produrle con il concorso del1' industria privata; pertanto propone anch'essa di specializzare i Quadri


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dell'Arma dividendoli in combattenti e tecnici; così facendo, i nostri stabilimenti potrebbero finalmente disporre di personale tecnico e direttivo specializzato così come avviene per gli stabilimenti civili. Il trattamento economico e di carriera di tale personale dovrebbe esser tale da renderlo competitivo anche rispetto alle offerte di impiego dell' industria privata. Le direzioni (con la sola eccezione di quella di Piacenza) dovrebbe essere soppresse, affidando i loro compiti agli stessi Comandi d'artiglieria da fortezza e da costa che in guerra dovrebbero assumere la responsabilità della difesa, in modo da favorire una maggiore conoscenza dei materiali. Infine il treno, unito dal Ricotti all'artiglieria, appesantisce notevolmente la mobilitazione dei reggimenti di arti glieria; pertanto secondo la Commissione va reso autonomo con proprio ruolo di uffic iali , mantenendo invariato il suo compito specifico di assicurare tutti i trasporti ippotrainati delJ 'esercito di campagna, oltre a quelli del1 'artig lieria da campag na. La separazione delle carriere degli ufficiali d'artiglieria e l'abolizione delle direzioni richiamano le proposte del Marazzi; no n così avviene per il genio, dove la Commissione non ritiene necessario formare ruoli distinti per gli ufficiali, sciogliere sic et simpliciter le direzioni, separare il treno. Ciò non le impedisce di criticare aspramente quest'Arma : l' nrgani :r,.:u.ione dei Comandi del genio è "confusa, inefficace e forse dannosa"; l' organizzazione del servizio lavori è troppo complicata, con troppa burocrazia, eccessivamente costosa; il servizio dei fabbricati "snatura il carattere dell 'Arma", assorbendo troppo personale a scapito de l servizio ben più importante delle fortificazioni; infine, anche l'ordinamento delle specialità interne non è omogeneo e perciò necessita di completa revisione. I rimedi principali proposti dalla Commissione sono i seguenti: - priorità al servizio delle truppe e delle fortificazioni ; servizio dei fabbricati mantenuto solo "per economia" e per non meglio precisate "ragioni di opportunità" (soluzione contradditoria, dati i giudiz i molto duri su questa branca); - specializzazione nei limiti del possibile dei Quadri, pur mante ne ndo il ruolo unico, nel servizio delle fortificazioni e delle truppe e anche in ciascuna specialità delle truppe; - eliminazione del doppio addestramento da zappatori e pontieri, che riesce scarsamente efficace in entrambi i rami, e costituzione di un nuovo reggimento pontieri separato dagli zappatori (su 12 compagnie, 4 brigate, 3 compagnie treno); - raddoppio delle compagnie ferrovieri, trasformando l' unica brigata del momento (su 6 compagnie) in un reggimento su 3 brigate di 4 compagnie e una sezione esercizio di linea;


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- separazione della sezione automobilistica dalla brigata ferrovieri (con la quale non ha nulla a che fare) e sua assegnazione alla più affine brigata specialisti, che a sua volta va resa autonoma dal reggimento telegrafisti, nel quale è impropriamente inserita; - separazione dei Comandi delle truppe dalle direzioni dei servizi e conseguente scioglimento dei 6 Comandi genio con dipendenze promiscue e delle 26 direzioni esistenti, sostituendoli con 2 Comandi truppe del genio e 4 direzioni generali dei servizi; - revisione, semplificazione, decentramento delle procedure burocratiche e delle attribuzioni ai vari livelli, con parallela riduzione del personale. Altre osservazioni e proposte di rilievo della Commissione riguardano la vexata quaestio logistico - amministrativa, sulla quale da mezzo secolo molto si è discusso ma assai poco si è concluso, visto che permangono, anche a suo parere, i due difetti principali di sempre: massimo e non necessario accentramento di fun zioni anche esecutive nel Ministero e Comandi di corpo d 'armata ridotti al ruolo di passacarte, con le direzioni di commissariato di corpo d 'armata che corrispondono direttamente con il Ministero. Oltre a lamentare questi inconvenienti di base e a ritenere necessario un efficace decentramento, la Commissione definisce il vigente Regolamento d'amministrazione e_contabilità "una raccolta di vecchie norme con cui tradizionalmente i corpi erano retti, a mano a mano modificata e ampliata"; tuttavia esso non è- come affermato dal Ministero - una semplice casistica per l'applicazione pratica in campo militare della legge di contabilità genenùe dello Stato, ma fornisce anche importanti indicazioni di carattere funzionale, a cominciare dall'istituto delle masse che g ià costituisce una deroga alla legge. Di conseguenza, secondo la Commissione "non può negarsi che esso abbia il carattere di un regolamento generale di pubblica amministrazione, il quale, secondo la legge, dopo sentito il Consiglio di Stato, doveva approvarsi con decreto reale e venire registrato alla Corte dei Conti, previo esame della sua regolarità". L'omissione di tali procedure ha prodotto un grave inconveniente anche nel terreno della pratica, poiché il regolamento è considerato come una materia suscettibile di ogni mod~ficazione a piacere dei singoli uffici dell'Amministrazione centrale f militare] e secondo le varie opportunità del momento. Da qui, un complesso di modificazioni non sempre armonizzanti fra loro e con i principifondamentali su cui riposa l'Amministrazione dell 'Esercito e la necessità. di mantenere un apposito corpo, quello de!(li uf-


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ficiali contabili, sin,?olarmente specializzato nella lettura e nella interpretazione di un regolamento che rimane inaccessibile invece a gran parte degli ufficiali combattenti, i quali devono pur assumersi la responsabilità di farlo eseguire Iattraverso i " Consi,?li di Amministrazione" che governano la vita amministrativa dei reggimenti/ corpi, da essi composti - N.d.a.].54

La Commjssione, pertanto, auspica la compilazione di un nuovo regolamento che s ia approvato e registrato con le modalità previste per tutte le amministrazioru e riassuma in forma semplice e chlara le norme amministrative da applicare, rimandando a apposite istruzioni ministeriali i minuti particolari di esecuzione. Dopo queste non nuove osservazioni, anche a proposito del sistema delle masse la Comrnissione riprende le critiche dello stesso Sani e di altri e si pronuncia per la sua abolizione, che avviene di li a poco con la citata legge n. 511 del 17 luglio 1910, alla quale fa seguito un nuovo Re{?olamento di amministrazione e contabilità, che eone ritenuto necessario dalla Commissione viene per la prima volta approvato con R.D. (del 6 agosto 191 I), rimanendo in vigore fino al 1926. La Commissione molto si sofferma sui vantaggi del decentramento, contestando le argomentazioni dei fautori dell'accentramento. Su questo argomento - chlave, però, viene accolta solo in minima parte la sua proposta di fondere le due direzioni amministrative del Ministero (dei servizi amministrativi e della revisione dei conti) in una sola direzione r:enerale delle Intendenze territoriali, alla quale farebbero capo Intendenze territoriali di corpo d'armata costituite per dare corso all'auspicato criterio del decentramento e facenti parte organica dei Comandi di corpo d ' armata, con ampi poteri e responsabili.tà in materia di controllo del buon andamento dei Servizi e delle operazioni amministrative e contabili delle unità dipendenti. La citata legge n. 53 J del 17 luglio 1910, che abolisce il vecchio corpo di commissariato e il corpo contabile e istituisce un corpo di commissariato con fisionomia diversa, sancisce la dipendenza degli organi direttivi di comrrussaiiato dal corpo d'armata; ma per il resto le loro attribuzioni mutano assai poco e il decentramento ritenuto necessario dalla Commissione trova solo in piccola parte uno sbocco concreto. Anche da quest'ultimo problema risultano chiari i limiti dell'operato della Commissione nel campo organico, con proposte ragionate e moderatamente innovatrici, che pur non denotando alcun "strappo" con gli orientamenti sono

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CIE, Relazione 4•. pp. 141 - 142.


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accolte solo in parte o magari con grande ritardo, lasciando così dei problemi insoluti che si trascinano a lungo anche nel XX secolo. Con i rilievi e le proposte della Commissione consideriamo chiuso il dibattito sugli ordinamenti, per il resto rimandando alle già citate Note sul pensiero militare italiano da fine secolo XIX alla prima guerra mondiale: in effetti, se esaminati alla luce dei contributi precedenti gli altri scritti dal 1907 fino alla prima guerra mondiale sono assai poveri di spunti veramente nuovi, anche perché la guerra di Libia 1911-1912, la preparazione alla guerra europea e l'aumento degli stanziamenti paradossalmente semplificano il problema militare, riducendolo a tre esigenze essenziali: migliorare l'inquadramento, la quantità e la qualità delle forze ammodernare le armi e i materiali, con particolare riguardo ad artiglierie, automobilismo e mitragliatrici; petfezionare il meccanismo di mobilitazione, senza peraltro introdurre le innovazioni emerse dal dibattito e, a fronte della centralità di questo problema, senza mai prendere atto di un dato di fallo indiscutibile: che con il reclutamento regionale e le sedi fisse esso è semplificato e facilitato.

SEZIONE IV - Fanteria di linea, bersaglieri e alpini: un problema ordinativo importante ma trascurato Abbiamo già occasionalmente accennato alla preoccupazione della Commissione d'Inchiesta e di altri per l'eccessivo depauperamento della fanteria: argomento finora assai trascurato, al quale è strettamente connessa l'evoluzione organica dei bersaglieri e degli alpini. Mette dunque conto riprendere in esame l'intera questione, anche perchè essa riguarda in primo luogo il modo di fare storia nùlitare, sul quale sono opportune alcune puntualizzazioni. Le storie parziali di una sola Forza Armata, di una sola Arma o specialità, di un solo corpo o servizio logistico, di un solo reggimento ecc. - sono utili e importanti, quanto molto frequenti: ma di solito non favoriscono analisi tecnico-militari in chiaroscuro e se non accompagnate da opportune comparazioni e da ben calibrati e tempestivi riferimenti al quadro d'insieme, possono indurre in errori di prospettiva, che lasciano inesplorate interfacce anche importanti. Questo lo abbiamo già constatato compilando la più volte citata Storia della logistica dell'Esercito Italiano I 83 1-1980; ma risalta ancor più chiaramente dal rapporto organico, finora assai trascurato, tra la fanteria di linea, i bersaglieri e gli alpini (e se vogliamo anche tra la fanteria di linea e i granatieri). In particolare


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l'indubbia, forte popolarità dei bersaglieri e degli alpini, il valore da loro dimostrato in tutte le guerre fino all'ultima 1940-1945 sono un dato storico da acquisire e meditare, ma hanno anche favorito interpretazioni eccessivamente retoriche degli eventi, dietro le quali sono rimasti piuttosto in ombra gli immancabili rovesci de1la medaglia. In qualsivoglia problema organico conservazione e innovazione vanno attentamente calibrate, nella ricerca assai difficile di soluzioni equilibrate, che rappresentino un passo in avanti, ma senza "gettare via il bambino con l'acqua sporca". [n secondo luogo un singolo rotismo va conservato solo se ha ben definite e indi spensabili funzioni , nell'intesa che ciò che ieri si rendeva necessario, nella situazione di oggi per vari motivi può non esserlo più, può anzi tradursi in un danno, in uno squilibrio e in una sottrazione di risorse. La storia comparata delle trasformazioni organiche della fanteria di linea e sue specialità è la dimostrazione più chiara di questo. Prendiamo ad esempio i granatieri , che già ne l periodo esaminalo si distinguevano dalla normale fanteria di linea solo per l'alta statura. Di essi il Grassi scrive, nel suo Dizionario Militare Italiano 1833: GRANATIERE. Soldato, che al tempo della sua istituzionr scnglinvn granate a mano. In Francia furono istituiti nel 1667. Oggi i granatieri sono soldati scelti, tratti dal fiore dei reggimenti, e vosti alla testa de · battaglioni per servire d'esempio e di guida ai gregari. Ogni ballaglione ne ha una compagnia: sono soldati prestanti di bravura, di costume, e di corpo; hanno soldo maggiore degli altri soldati; sono armali come gli altri, ma distinguonsi nelle vestimento... 55

Già nel prosieguo del secolo XIX questo tipo di impiego, a parte il lancio di granate, diventa completamente obsoleto; ma, come si è visto, almeno fino a quando le formazioni di combattimento rimangono serrale e i movimenti che vi si compiono sono geometrici, se ne giustifica la costituzione organica separata dalla normale fanteria con il passo troppo lungo dovuto alJ'alta statura, con la disarmonia nelle righe di combattenti, e con le difficoltà di rifornimento del vestiario. Tutte ragioni poco convincenti, che in ogni caso vengono meno già prima della fine del secolo XlX: e allora? AJJora i reggimenti granatieri sono stati mantenuti, anche nel XX secolo, esclusivamente per le loro gloriose e antiche tradizioni. Orientamento certo giustificato dal peso morale dell'elevato spirito di corpo, ecc.: ma

55

Giuseppe Grassi, Dizionario Militare Italiano (cit).


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si deve pur considerare, sull'altro piatto della bilancia, che quegli uomini prestanti, dj alta statura, in genere più acculturati degli altri perchè provenienti in maggioranza dalle regionj più progredite del Nord, hanno sempre ulteriormente depauperato di ottimi elementi la normale fanteria, senza alcuna reale necessità funzionale e/o operativa. Fino a che punto, e in che misura, è opportuno esaltare il morale e lo spirito di corpo di una parte dell'esercito, facendone una formazione scelta anche con vari privilegi, però a chiaro detrimento della restante parte delJ'esercito, e in particolare (come sempre è accaduto) della fanteria? E fino a che punto si deve incrementare un'Arma specialità, solo perchè essa si è particolarmente distinta nelle ultime guerre? Queste sono le due domande che a maggior ragione è doveroso porsi, in sede di consuntivo storico, soprattutto a proposito del reclutamento e ordinamento dei bersaglieri dal 1836 in poi e degli alpini dal 1872 in poi. L'esame dettagliato dell'evoluzione organica delle due specialità richiederebbe troppo spazio: sta di fatto che nel periodo considerato la forza di pace di ambedue tende costantemente ad aumentare, e che l' ultimo ordinamento di pace prima della guerra (legge Spingardi del 17 luglio 191 O, n_ 515) prevede 12 reggimenti bersaglieri (su 144 compagnie e 12 depositi), 8 reggimenti alpini (su 78 compagnie e 8 depositi) e 2 reggimenti granatieri (su 24 compagnie e 2 depositi). Con un siffatto ordinamento su 1375 compagnie di fanteria e sue specialità ben 246, cioè oltre 1/sdel totale, sono composte da elementi scelti; e come si è visto, a questa notevole scrematura si deve aggiungere quella ancor maggiore a favore di tutte le altre Armi. Per completare il quadro, in nessun altro esercito del tempo le fanterie speciali raggiungono dimensioni così ragguardevoli. Fin dai primi anni dell'unità nazionale, quando esistono solo i bersaglieri, una siffatta situazione trova ew sulla stampa e in Parlamento_ Garibaldi, che come si è visto (Cfr. Voi. II, Cap. UI) vorrebbe che tutta la fanteria fosse in grado di combattere come i bersaglieri, già mette il dito sulla piaga, là ove nota che " i bersaglieri sono corpi scelti, ma che deprivano gli altri corpi d'uomini scelti. Poi non mancano di suscitare la gelosia dei corpi non scelti - ciò che non giova a nessun esercito". 56 Ma anche sui bersaglieri, come è avvenuto per gli alpini, prevalgono "storie" di taglio agiografico che magari forniscono versioni inesatte sulle loro origini e sul loro vero ruolo, come quella (accreditata dopo il 1945 anche dai generali

56 Cfr. Consigli tattici di Garibaldi (a curn <li S. forlani) - Estrallo da Garibaldi irt Parlamento (a cura della Camera dei Deputati) Roma, E<l. Camera dei Deputati 1882.


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Scala e Giambartolomei)57 che i bersaglieri stessi sarebbero nati per porre rimedio all'insufficiente addestramento e alla scarsa soUdità e qualità della fanteria piemontese. Di qui il progetto del La Marmora di costituire una fanteria scelta "che potesse servir di modello all'altra, e venire impiegata nelle fazioni più difficili e rischiose", visto anche che i reparti di fanteria leggera pur esistenti nell' esercito piemontese erano tali solo di nome, e di fatto non si distinguevano dalla normale fanteria. Viene perciò spontaneo chiedersi: se è così, nel 1836 la creazione di qualche compagnia di elementi scelti bastava forse per porre rimedio ai difetti della massa dell'esercito piemontese? e perché il Ministro della guerra di allora anziché creare i bersaglieri non ha miglioralo la normale fanteria o almeno reso i reparti di fanteria leggera già esistenti idonei a svolgere i compiti tradizionali della loro specialità? Mantenere senza reali ragioni operative un corpo scelto esente dai difetti della fanteria, cioè della massa dell' esercito, è forse una soluzione logica e corretta, tanto più che così facendo se mai si accentuano tali deprecali difetti, togliendo alle fanterie proprio i rari elementi più dotati ? Va anche chiarito che il La Marmora - come il Perrucchetti - non ha inventato niente: secondo il dizionario enciclopedico Chesnel nel 181 1 per i Tirailleurs (soldati di fanteria leggera) francesi è stato introdotto il passo di corsa, e "aujourd'hui leurs maneuvres et Le pas de course sont enseignés à toutfantassin".58 1n realtà, come già detto, qua ndo i bersaglieri sono nati la normale fanteria soleva combattere ancora in formazioni chiuse, geometriche e con fuoco a comando, quindi per nulla adatte al combattimento in montagna e in terreni rotti e frastagli ati: di qui il ruolo dei bersaglieri, che sono nati principalmente come truppe da montagna e alte a operare in terreni difficili , grazie a un addestramento particolare che consentiva loro di combattere in ordine sparso con fuoco mirato e individuale, oltre che di spostarsi con la massima celerità anche in montagna: non per nulla le prime due compagnie avevano sede ad Aosta e Chambéry.... Sono nati anche come fanteria estremamente scelta: La Marmora li sceglieva uno per uno girando tra i reggimenti, e le sole due compagnie iniziali testimoniano questo fatto. Quel che più imporla, dopo le guerre d'indipendenza le ragioni che nel 1836 giustificano l'istituzione di quelle due compagnie vengono me-

7 ' Edoardo Scala. Storia delle fanterie italiane - Voi. Vll / bersaglieri. Roma. Tip. Regionale 1954, pp. 1-38 e A ldo Giambartolomei,/ bersaglieri, in "R ivista Militare " n. 6/198 1, pp. 102-11 2. Si veda anche. in merito, Pietro Fea. Storia dei ber.mglieri, Fircn1.c , Tip. Gazzetta d' Italia 1879. 58 Le Comte de C hesnel, Dictio1111aire t:ncydopédique des Armées de terre el de mer - Premiére Partie, Paris. Ch. GalleL 1862- 1864, p. 276.


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no, perchè anche la normale fanteria è costretta, per forza di cose, ad assorbire compiti e formazioni prima tipici dei soli bersaglieri_ Da allora in poi, fino alla guerra mondjale i bersaglieri rimangono soprattutto in forza delle loro tradizioni, della loro popolarità, delle guerre e benemerenze conquistate ovunque. La questione del loro impiego passa in seconda linea: pjù che di dimensionare un organo atto a una certa funzione ritenuta importante ma non ben assicurata, si tratta del contrario, cioè dj trovare una funzione importante e non ben assicurata per un organo che per diverse ragioni non si intende né abolire, né ridimensionare. Orientamento che del resto già compare in una recensione redazionale della Rivista Militare del 1873, quando pur riconoscendo che la fanteria deve essere in grado di svolgere da sé tutti gli atti del combattimento, si ritiene che in Italia più che altrove sia necessario conservare truppe scelte come i bersaglieri, "pel nobile patrimonio di gloriose tradizioni che ne moltiplica la forza, e non per altra considerazione rifiutata dalla ragione tattica". 59 Quest' ultima, cioè la prima ragione primaria dell'esistenza di un dato organismo militare, forse non vale? dunque i bersaglieri sono qualcosa di simile a un monumento? per ottenere spirito di corpo e spirito combattivo, bisogna necessariamente creare truppe scelte? La questione dei bersaglieri già trova ampia eco in Parlamento nel 1870, quando il nuovo Ministro Ricotti viene duramente attaccato e persino accusato di voler "distruggere" i bersaglieri, solo perchè ha sciolto 5 dei 45 battaglioni bersaglieri e anzichè mantenere i 5 reggimenti esistenti (ciascuno dei quali, con ovvi inconvenienti sull'uniformità dell'addestramento e della gestione amministrativa e disciplinare, veniva ad avere ben 9 battaglioni) ha suddiviso i 40 battaglioni rimasti in 10 reggimenti, con modjfiche alla numerazione, ai segni distintjvi ecc .. Ne sono derivate proteste (anche pubbliche e scritte) degli ufficiali di qualche battaglione e sembra - un malcontento generale in tutti gli altri. Malcontento attribuilo a questioni dj numerazione ecc. , ma comprensibile solo se si considera che con la riforma del Ricotti, i battaglioni (forse è un male?) perdono l'autonomia assoluta della quale godevano in precedenza, data la pratica impossibilità per un colonnello (tanto più con i mezzi di comunicazjone di allora) di esercitare la sua azione di comando e controllo su 9 battaglioni dislocati in sedi diverse. Secondo il Ministro questo difettoso assetto organico aveva dato origine a una situazione anomala, che ha avuto negativi ri-

Recensione al Tmua10 di 1a11ica applicata del generale pmssiano F.A. Paris, in "Rivista Militare Italiana " Anno XVIIJ - Voi. IV dice mbre 1873, p. 303. 59


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flessi anche sull'addestramento dei battaglioni, alcuni dei quali addestrati al tiro peggio della fanteria. Nella sua replica (tornata della Camera dei deputati del 16 dicembre 1870) il Ricotti premette che non bisogna confondere la fanteria scelta con la fanteria speciale. La prima è composta da soldati scelti per doti fisiche o per altre ragioni ; la seconda è un particolare tipo di fanteria che è armata, combatte e manovra in modo diverso dall'altra. Alla loro nascita i bersaglieri erano sia una fanteria scelta che una fanteria speciale, particolarmente addestrata a comhattere "in ordine spars<>, cioè in cacciatori", mentre la fanteria di linea, "quasi ignara nel combattere alla spicciolata, manovrava sempre in ordinanza chiusa, in linee contigue o per masse". Con questo tipo d'impiego - prosegue il Ricotti - i bersaglieri hanno acquistato grande fama; ma ormai con il progresso dell'armamento non è più possibile né conveniente fornire ai bersaglie ri un armamento speciale, mentre anche il modo di combattere della fanteria si è avvicinato a quello dei bersaglieri a un punto tale, che ormai da un anno fanleria di linea e bersagli eri hanno un unico regolamento d 'esercizio e di evoluzioni sul campo di battaglia. A fronte di questa situazione - afferma il Ricotti - "siccome io so che. cessata l'utilità di un 'istituzione, per ottima che.fosse, fessa·I deve cadere, e che volendolo mantenere con ripieghi artificiali si va nell 'assurdo, appunto perchè io avevo, e lo ripeto, una predilizione particolare per i bersaglieri, cercai di evitare che andassero a fine [... ], perciò ho voluto trasformarli, ho voluto dar loro quell'indirizzo tattico che ce li può conservare". Di qui la loro suddivisione in 10 reggimenti (uno per corpo d'armata in guerra), con il compito di svolgere missioni speciali di grande difficoltà, che richiedono appunto una fanteria scelta, perchè "come fanteria speciale i bersaglieri hanno fatto il loro tempo ". Qui va osservato che le soluzioni del Ricotti non sono del tutto in linea con le premesse: se come fanteria speciale i bersaglieri non hanno più un ruolo, perchè conservarli e trovare loro, appunto, un impiego in realtà anch'esso speciale che cometale serve più che altro da giustificazione alle soluzioni organiche adottate? L'oppositore più attrezzato a queste idee del Ricotti è Paulo Fambri , scrittore militare di buona fama le cui idee sui bersaglieri alla luce degli eventi successivi si rivelano tuttavia retrogade e infondate. 60 li Fambri comincia col difendere ciò che è indifendibile, cioè l'anomalo gigantismo dei reggimenti bersaglieri, facendone solo una questione di dislocazione:

'° Cfr. Paulo Farnbri. 1A questio11e dei bersa1dieri. Milano. G. Brigola 187 1.


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ma anche se vicini al colonnello, 9 bauaglioni sarebbero evidentemente troppi .... Seconda tesi scentrata: "l'intera fanteria non è, non sarà né sarebbe bene che fosse troppo leggera. Non è e non sarà perchè le attitudini fisiche a ciò non sono il patrimonio di tutti L---1- Importa che la cavalleria scopra e additi il nemico, ma importa altresì che partiti avanzati lo tastino e lo trattengano. Per questi uffici bisogna puntare più giusto, marciare più rapido e più a lungo". 61 E' quindi necessaria, per il Fambri, una fanteria speciale, anche perchè una fanteria scelta ma non speciale sarebbe un controsenso. Trattandosi di una necessità - egli aggiunge - si deve anche affrontare lo svantaggio di un depauperamento della fanteria, alla quale peraltro non servono né la marcia rapida, né il tiro preciso (segue una lunga dimostrazione di questo falso asserto, basato sul presupposto - errato - che la fanteria mantenga anche in futuro le formazioni chiuse e il fuoco a comando, al momento già sorpassati). 11 Fambri s i chiede anche che cosa avverrebbe se noi, privi di truppe speciali , in hattaglia ci trovassimo di fronte uno schermo di truppe speciali nemiche, con armamento e capacità di manovra superiori. Infine, a suo parere, "non si deve esagerare" con l'ordine sparso, che porta al disordine, alla mancanza di riserve e alla perdita di solidità della fanteria di linea. Dopo aver così ribadito la necessità di una fanteria scelta e al tempo stesso speciale, il Fambri attacca anche i criteri di impiego indicati dal Ricotti, che mantenendo i bersaglieri in riserva di corpo d'armata con non meglio definiti compiti speciali, da veliti quali devono sempre essere, vorrebbe trasformarli in triari; invece "l'eletta degli uomini non puù avere scopi di riserva ma d'iniziativa; la sua parte [... ] è quella della trivella che prepara il canale a quella gran canaglia che è La fanteria". Né ai bersaglieri si addice l'impiego a massa, che "offende la legittima suscettività dell'Arma veramente d'insieme che è la fanteria, mentre spreca i migliori elementi delle fazioni d'iniziativa". Anche per questo, per il Fambri l'unità-base dei bersaglieri deve essere il battaglione e non il reggimento. Di lì a poco tempo, nel 1872 la nascita degli alpini ad opera dello stesso Ricotti rimescola ancora le carte. Con gli alpini il Ricotti non vuol certo creare una nuova fanteria scelta; ma senza dubbio è ben consapevole di creare una nuova fanteria speciale. Non così avviene per la proposta del Perrucchetti, che chiama "bersaglieri delle Alpi", con la stessa uniforme dei bersaglieri, le truppe da montagna reclutate localmente da lui caldeg-

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ivi, pp. 56-57.


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giate nel 1872. Se ne deduce che anche con un'opportuna "territorializzazione" delle unità bersaglieri già esistenti (come del resto era avvenuto nella loro origine) lo spirito e la lettera della sua proposta sarebbero state seriamente rispettati. Nel caso degli alpini, quindi, come già detto vale quanto afferma alla relativa voce il Lessico Militare Italiano (1916), che dopo aver molto opportunamente precisato che non è esatto far risalire 1' origine delle nostre truppe da montagna all'epoca in cui sono stati istituiti gli alpini, perché esistevano già i bersaglieri appunto addestrati a combattere in montagna, aggiunge che "si sarebbe potuto fare a meno di creare gli alpini qualora per i bersaglieri fossero state rigorosamente ri~pettate [a tutto beneficio della fanteria - N.d.a.] le ragioni della loro origine: il che nonfu". 62 Ma perchè, allora, il Ricotti ha creato gli alpini? Non solo per una precisa e incontestabile esigenza difensiva, peraltro non nuova: ma, con ogni probabilità, anche perchè in quel momento probabilmente pensava alla graduale estensione del reclutamento regionale - al quale era di massima favorevole - a tutta la fanteria, facendo dello speciale reclutamento degli alpini un primo passo, una pietra di paragone utile per dimostrare la fattibilità di tutto il resto. In altre parole, almeno nel 1872 il Ricotti non pensa a fare differenza tra alpini e bersaglieri, e rii iene che .:1nche la differenza fondamentale tra alpini e fanteria di linea, cioè il reclutamento regionale, almeno in prospettiva sia destinata a venir meno, ferma restando la speciale attitudine a combattere nelle natìe montagne degli alpini, mentre fanteria e bersaglieri potrebbero essere impiegati in tutti gli altri compiti. Conferma la nostra interpretazione un articolo del 1972 che segue immediatamente quello del Perrucchetti, e che nessuno si è mai dato la pena di studiare contestualmente aJ precedente, come sarebbe stato necessario. L' autore è il già citato capitano di Stato Maggiore Lodrini,63 il quale dopo aver lodato lo studio del Perrucchetti, come il Fambri non ritiene possibile che la fanteria, nella realtà dell'esercito del momento. possa essere ben addestrata anche a combattere in ordine sparso, e come lui condanna " il dissolvente abuso degli ordini sparsi". Dissente però dal Fambri sulla necessità di truppe scelte che depaupererebbero senza ragione la fanteria di linea, ritenendo invece utile una fanteria speciale composta da montanari e particolarmente atta ad operare in montagna, mentre anche in pianura o collina essa sarebbe un'ottima riserva tattica. Peraltro a suo avviso tale ti-

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AA.VV., Lessico militare ita/ia11n, Milano, Vallardi 1916, p. 96. Emilio Loclrini, Art. cit..


Il. PENSIERO MII.ITAHE E NAVALE ITALIANO - VOL. 111 1870- 1915 - TOMO I

po dj fanteria può essere ottenuto non creando speciali compagnie presso i ilistretti alpini come fa il Ricotti, ma facendo tornare i bersaglieri alle loro origini, con una opportuna ridislocazione dei IO reggi menti esistenti in sedi alpine o appenniniche, e con un reclutamento locale basato suU' organizzazione dei distretti alpini già indicata dal Perrucchetti. Sarebbe questo, per il Lodrini, l'unico modo ili conservare i bersaglieri, che come fanteria scelta sono destinatj a sparire, anche perchè non reggono i due presupposti indicati dal Fambri, cioè l'abilità al tiro e l'ordinamento per battaglioni. L'abilità al tiro non può essere individuata a priori, cioè in sede di assegnazione delle reclute ai corpi; la proposta <li coprire, ad esempio, una hrigata di fanterja con un battaglione bersaglieri non è seria, e sia che li si voglia impiegare nell'esplorazione lontana che mantenere in riserva, i battaglioni bersaglieri hanno bisogno di un anello intermedio (il reggimento) tra loro e i Comandi di G.U .. Con queste interfacce il Lodrini diversamente dal Fambri delinea un giusto percorso evolutivo, nel quale è possibile disporre in misura ragionevolmente contenuta di una specialità della fanteria: le sue proposte indicano perciò un'alternativa che non è mai stata presa in considerazjone, anche se appare la più semplice e logica. L'intercambiabilità tra alpini e bersaglieri nella sostanza sostenuta dal Lodrini e la proporzione delle altre Armi rispetto alla fanteria sono ancora trattate nel dibattito sulla legge Ferrero_ In questa occasione (tornata dal IO maggio 1882) il Ricotti dissente dagli orientamenti del Ministro, che pur aumentando i corpi d'armata da IO a 12 (e quindi in proporzione anche la fanteria) vorrebbe ridurre i bersaglieri da 40 battaglioni (inquadrati in IO reggimenti) a 36 battaglioni (sia pur inquadrati in 12 reggimenti). 11 Ministro (non casualmente provcnjentc dalla fanteria) ritiene che si debba limitare la forza dei bersaglieri anche per non depauperare troppo la fanteria, il cui morale e la cui efficienza vanno salvaguardate, perchè è la massa delle fanterie che decide le battaglie, mentre i bersaglieri, "che nel passato s'impiegarono sempre separati, ebbero episodi brillantissimi, ma che contribuirono per nulla alla vittoria; erano conati parziali e quindi non sufficienti". Sempre secondo il Ministro bisogna anche tener conto che nessun esercito ha una proporzione così elevata di truppe speciali come il nostro. Nelle nostre condizioni di terreno conviene mantenerla, ma per fare questo, non è necessario aument,ue i bersaglieri; infatti gli alpini sono dei bersaglieri reclutati sul luogo, abituati alla RUerra di montagna e che operano allo stesso modo dei bersaRlieri. Cosicchè, fra


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i 36 battaglioni bersaglieri e i 20 alpini, abbiamo [già] 56 battaglioni che possiamo impiegare in parte come cavalleria. Dico di più che, anche in pianura, queste truppe leggere saranno utilissime per supplire al d(fetto di cavalleria, non già per agire insieme ad essa permanentemente, questa sarebbe un 'idea assurda, ma per prendere posizioni intermedie fra l'esercito e la cavalleria.

A questo punto l'onorevole Pelloux ricorda che il Ricotti, allora presidente della Commissione bilancio della Camera. nella tornata del 18 giugno 1878 aveva proposto con la minoranza del1a Commissione di sciogliere 10 battaglioni bersaglieri (uno per reggimento), sostituendoli con 54 compagnie di "bersaglie ri alpini " a reclutamento locale, inquadrati in 4 reggimenti. In tal modo si sare bbero ottenuti 14 reggimenti bersaglieri, dei quali 4 alpini, con un totale di 174 compagnie invece delle 184 al momento esistenti tra bersaglieri e alpini , senza aumentare la spesa di bilancio e senza depauperare la fanteria. 11 Ricolti replica che diversamente dal passato, al momento è necessario disporre di un esercito alto anche all'offensiva sia sui nostri terreni che al di fuori dei confini. Comunque anche nella difensiva, è necessario combattere in terreni montuosi, frastagliali e coperti nei quali l'artiglieria e la cavalleria non possono essere impiegate in grandi masse e la fanteria - specialmente i bersaglieri e gli alpini - diventano le armi più adatte. Si oppone perciò alla riduzione dei bersaglieri e al mantenimento degli alpini agli stessi livelli di forza, ricordando che la situazione del momento è ben diversa da quella del 1878, quando ha proposto di sciogliere I O battaglion i bersaglieri sostituendoli con gli alpini. Seguono considerazioni molto interessanti sul suo passato operato da Ministro, che illuminano bene in quali circostanze sono nati gli alpini: dunque nel 1871-1873 io ero molto lontano dal voler creare un esercito solo per La difensiva r... 1. Talmente io ero persuaso di quell'idea fin dal 187 1 che senza manifestarla, io davo il maggior sviluppo, che era allora possibile, ai bersaglieri e agli alpini [a tutti e due? - N .d.a.], con riserva di accrescere queste due specialità della fanteria tostochè le condizioni del bilancio e l'aumento del contingente anno di l " categoria me lo permettessero 1---1- Forse l'onorevole Pelloux non sapeva che fin da quando io ero Ministro pensavo sarebbe stato opportuno trasformare gli alpini in una specialità dell'Arma dei bersaglieri Lma perchè, allora, non l' ha fatto? - N.d.a.j; era questa cosa di semplice forma, ma che non mancava di una qualche importanza morale. Da ciò La Came-


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ra comprenderà facilmente come in, senza essere in contraddizione con quanto dissi nel 1878, appoggiassi allora la trasformazione di 40 compagnie bersaglieri in alpini, ed oggi abbia perorato perchè non fossero diminuiti i bersaglieri, senza aumentare gli alpini. Per me i bersaglieri e gli alpini si completano e si possono surrogare a vicenda, quindi posso accettare senza difficoltà qualunque proposta di sostituzione ed anche di completa unificazione delle due distinte specialità dell'Arma di fanteria, ma non quelle che diminuiscono l'una senza accrescer L'altra.

Il Ricotti aggiunge che j) suo mutato atteggiamento è dovuto sia ali' aumento del bilancio, sia al previsto aumento del contingente annuale di 1• categoria da 65.000 a 76.000 uomini, quindi il momento è favorevole anche a1l'aumento dei bersaglieri "senza danno nel reclutamento attuale della fanteria di linea, la quale si troverebbe nelle condizioni attuali di reclutamento, anche quando i bersaglieri fossero portati a 48 battaglioni ". Con questa tesi, però, egli dimostra di non tenere in gran conto appunto le condizioni del "reclutamento attuale", nel quale la fanteria è penalizzata come sempre non solo dalla scelta degli uomini per le fanterie speciali, ma soprattutto dall 'assegnazione di elementi scelti alle altre Armi. Di quest'ultimo inconveniente non si rende conto nemmeno il Ministro Ferrero, che pur si preoccupa del depauperamento della fanteria. Nella tornata del 23 maggio 1882, infatti, respinge le accuse ai comandanti dei distretti di arbitrio e sensibilità alle raccomandazioni nell'assegnazione alle varie Armi delle reclute e dichiara: l'attitudine fisica richiesta è tale da rendere indispensabile tale sistema; infatti per la cavalleria occorrono requisiti non tanto facili a riscontrarsi, come chiaramente appare dalle disposizioni regnlarmentari che ne regolano il reclutamento; così per l'artiglieria da campagna devonsi prendere uomini agili, atti a cavalcare, di giusta statura, possibilmente di professione cavallari; per L'artiglieria da fortezza occorrono uomini forti, nerboruti e di alta statura [quest'ultimi servono anche per i granatieri - N.d.a.]; per i pontieri le esigenze sui requisiti fisici sono ancora ma1:giori; per il genio si devono ricercare più specialmente i professionisti, gli artigiani.

Se è cosi, che cosa rimane per la fanteria? Eppure, come anunettc lo stesso Ministro Ferrero è l'Arma che deve sopportare 1e più dure fatiche e le più dure prove morali, che decide della vittoria e non va depauperata, perchè la forza di un organismo militare non deve essere frazionata in


X - DA1L"ORDINAMENTO FERRERO ALLA GRANDE GUE_!lRA

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gruppi; esso "è come una sbarra, se è debole in un dato punto si rompe, se è ugualmente forte in tutte le parti sue, resiste"_ Fino alla guerra mondiale all'eccessivo depauperamento della fanteria non si pone mai rimedjo; eppure, al di là dei dibattiti in Parlamento, le voci che deprecano il fenomeno sono tante: ne citiamo solo alcune tra le più significative. Nel 1873 il tenente Giovanni Robecchi , pur riconoscendo il valore e la grande popolarità del corpo dei bersaglieri, scrive a chiare note che "se si considera quale :-.poglio viene fallo nei contingenti di leva, sia

dal lato dell'intelligenza che de/fisico. a favore delle diverse Armi: e se a questo si aggiunge ancora lo spoglio ingente pei bersaglieri, è facile persuadersi del come deve essere immiserita la fanteria"_ Contradditoriamente, tuttavia, egli riconosce che la scrematura a favore delle altre Armi è "una necessità " e ammette anche l'utilità degli alpjni; solo i bersaglieri per lui non hanno più motivo di esistere, perchè "con la nuova tattica, La quale s'appoggia preferibilmente all'ordine sparso, tutta la fanteria deve avere gli stessi requisiti".64 Molto più veemente la protesta di un anonimo, A.Z. (certamente un vecchio ufficiale di fanteria in congedo di grado elevato) che in un volumetto polemico del 1895 critica con estrema durezza le "Armi doue" e in particolare l'artiglieria, i cui ufficiali sarebbero "la casta dominatrict> dell 'esercito". 65 Segue un attacco alla nostra legge di reclutamento, la più larga in fatto di esenzioni in Europa, che per ragioni di famiglia dispensa dal servizio militare un gran numero di giovani robusti, incorporando invece, per completare il contingente, un numero corrispondente di giovani gracili e malaticci che dovrebbero restare a casa. Per A.Z. il reclutamento della fanteria è vittima sia di questa legge di reclutamento distorta, sia del predominio dell'artiglieria, che "non paga di tutto ci<) che essa trae dall'esercito e dal paese per maggior sua gloria, volle puranco avere nelle sue file un contingente che facesse di sé bella mostra nelle parate, per l'alta statura e per l'ampio torace. E così i coscrilli più robusti sono assegnati a quell'Arma che meno di tutte ne ha bisogno e che cammina precisamente meno delle altre e nel modo più comodo e piacevole ". Dopo aver dato i più robusti ali' artiglieria, i secondi sono dati alla cavalleria; eppure, se si ammette il criterio dell 'assegnazione di elementi scelti alle Armi a cavallo, dovrebbe essere se mai la cavalleria ad avere il primo posto. Per la fanteria, che pure deve sopportare le fati64 Giovanni Robecchi, Op. cit.. "'A.Z., Verità i11teKrate sull'ordinamento militare italia110, Roma, 1ip. Casa Editrice Italiana 1895. pp. 127-1 3 1.


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che più dure, rimangono dunque i soldati meno robusti. Fanno eccezione gli alpini e i bersaglieri, "ma queste eccezioni sono appunto quelle che finiscono di rovinare la fanteria di linea", alla quale rimangono solo "i piccoli, i troppo lunghi e gracili, i malfatti, i rachitici", con disastrosi effetti morali e materiali. Oltre tutto - prosegue A.Z. - questo sistema di reclutamento "condanna alla morte un numero grandissimo di infelici, strappati alla famiglia e sacrificati, non già alla difesa della patria, ma all'ambizione di una classe". Per suffragare questa tesi estrema egli cita le dichiarazioni alla Camera (tornata del 13 maggio 1878) del generale Ricotti, secondo il quale le condizioni igieniche del nostro esercito sono assai peggiori di quelle degli eserciti francese e tedesco, che perciò hanno una mortalità notevolmente inferiore. Sempre secondo il Ricotti, se il nostro tasso di mortalità fosse uguale a quello francese e tedesco noi avremmo 300-500 morti in meno all'anno; quel che più importa, il Ricotti sottolinea che da noi la mortalità varia notevolmente da Arma ad Arma, con un massimo per la fanteria (11,7°°/oo) a fronte del 10,rloo deB'artiglieria, del 9 °%o circa per cavalleria e Carabinieri, fino al1'8° /oo degli alpini e al 6,3°/00 del genio. Da questi dati difformi egli deduce , appunto, che "la minor mortalità dei bersaglieri, i quali hanno un servizio poco diverso dalla fanteria, si deve esclusivamente alla miglior scelta degli uomini per robustezw e per forza, per cui se tutta la nostra fanteria fosse composta con uomini di costituzione fisica pari a quella dei bersaglieri, si guadagnerebbe il due e mezzo per mille della mortalità"_ Considerazioni naturalmente fatte sue da A.Z., secondo il quale anche per queste ragioni la nostra fanteria è la più bistrattata delle fanterie europee. C'è un fondo di verità nelle argomentazioni di A.Z., anche se ricorre ad espressioni eccessivamente polenùche nei riguardi dell'artiglieria e non indica rimedi concreti e praticabili , hic et nunc. Indirettamente gli dà ragione anche il Marazzi, che dopo aver messo in rilievo l'importanza della fanteria specialmente nei nostri terreni e le doti ormai richieste agli ufficiali che hanno il difficile compito di guidare i Fanti nel combattimento moderno, osserva: 0

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certe distinzioni che si potevano altre volte comprendere, oggi non hanno più alcuna ragion d'essere. Attualmente invece la tradizionale qualifica di Amù dotte ha ingenerato in molti l'idea che gli ufficiali non appartenenti all'Artiglieria o al Genio siano poca cosa_ Questo pregiudizio si è rafforzato, tristemente rafforzato, col tra.1ferire in fanteria tutti Rii inetti delle Armi speciali. Né ciò si è arrestato al corpo


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degli ufficiali, ma sino tra le punizioni dei Carabinieri vi è il passaggio nella fanteria, quasiché tale Arma fosse il luogo di espiazione di tutte le militari peccata!66 Nel 1908, quando (fatto non casuale) il Ministero della guerra è retto per la prima volta da un civile, il senatore Casana, il colonnello Vittorio Carpi, direttore della Nuova Rivista di Fanteria, scrive nel proemio al primo numero che "depauperare la fant eria vuol dire distruggere, avvilire l'istituzione militare,- vuol dire togliere il più possibile e imprescindibile ele mento di vittoria" e accenna ai più urgenti bisogni dell'Arma. Nel secondo numero compare un articolo finora ignorato a firma di un nome destinato a diventare illustre : il capitano di Stato Maggiore Pietro Badoglio, che pur essendo d ' artiglieria e per giunta piemontese, descrive con grande chiarezza e precisione tutti i mali c he fanno della fanteria l'Arma più trascurata e indica gli opportuni rimedi , riferendosi s ia pur senza inutili toni polemici a una situazione analoga a quella descritta in precedenza dal Ricotti, da A.Z. e da tanti altri.67 Badoglio va anzi più in là di A.Z., pre mette ndo che il depauperamento della fanteria ha origini antidemocratiche che risalgono al vecchio esercito dinastico piemontese, nel quale né la rivoluzione fra ncese né l'epopea napoleonica sono riuscite a fare breccia, tanto che " la malallia che noi esaminiamo ha dolorosamente avuto tutto il tempo di raggiungere lo stato c ronico, sì da richiedere l'opera del chirurgo anzichè quella del clinico". L'esercito piemontese, che ha impresso la sua fisionomia al nuovo eserci to italiano, "più di qualsiasi altro esercito europeo aveva mantenuta intatta la sua essenza feudale (sic). Era un esercito eminentemente aristocratico, che concedeva la maggior stima e considerazione alla cavalleria, l 'aristocrazia del censo, e alle Armi di artiglieria e genio, le Armi dotte, t ·aristocrazia dell'intelligenza". L'esercito italiano ha mantenuto queste caratteristiche in fondo; e me ntre l' artiglieria e la cavalleria grazie alla qualità dei Quadri e al reclutamento scelto hanno mantenuto il loro prestigio,

la fanteria andò sempre più deperendo. In primo luogo in essa all'atto della fusione si riversavano [tra i Quadri] mollissimi elementi mediocri,

MMarazzi, Op. cit.. p. 269. Pietro Badoglio, li reclutamento della .fanteria, in "Nuova Rivista di Fanteria " Anno I Fast:. II, pp. 97-112. 67


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in ispecie provenienti dai disciolti corpi di volontari, elementi che diedero è vero .\plendidi esempi di valore personale e di abnegazione, ma privi in massima di qualsiasi cullura, non alli assolutamente ·alla preparazione della truppa e di poco valore in una guerra metodica con nemico organizzato. E' noto che un provvedimento s'impose per epurare l'Arma di parte di questi elemenli, ma l 'epurazione fu ben lungi dall'essere completa.

Ha influito sulla decadenza della fanteria anche il suo "aumento tumultuoso" dopo l'unità, con formazione dei Quadri con metodi deleteri e in "un simulacro di scuola", che ha portato alla concessione delle spalline di ufficiale, in brevissimo tempo, "a moltissimi giovani che certo non primeggiavano negli studi, e per i quali Modena rappresentava un'ancora di salveua "; mentre per quanto riguarda la truppa, alla fanteria "sono stati riservati i rifiuti delle altre Armi". Il depauperamento e la diversa considerazione nella quale erano tenute l' artiglieria e la cavalleria hanno così causato "un vero senso di malessere" nell'Arma-base. I rimedi indicati da Badoglio non sono del tutto nuovi. Prende atto che negli ultimi tempi sono stati apportati positivi ritocchi al reclutamento dei Quadri di fanteria, elevando il titolo di studio richiesto per l'ammissione alla scuola militare di Modena e abolendo la norma che prevedeva il trasferimento come capi corso in fanteria degli allievi della scuola di applicazione di artiglieria e genio bocciati agli esami; tuttavia a suo parere questi provvedimenti non sono sufficienti. Per risolvere completamente il problema, egli - senza nominarlo - recepisce tutte le idee del Marazzi: ammissione degli allievi ufficiali di tutte le Armi, con uguale titolo di studio, a una scuola unica di base, che frequentano in comune; loro assegnazione alle varie Armi tenendo conto anche dei loro desiderata, ma principalmente delle attitudini; successiva specializzazione in scuole d'Arma; separazione dei Quadri in tecnici e combattenti. Per il reclutamento della truppa di fanteria, Badoglio non si perita di definire "penosa" l'impressione che fa la lettura della regolamentazione vigente, nella quale dopo aver fissato per le altre Armi degli speciali requisiti fi sici che non sono sempre necessari, ma automaticamente depauperano la fanteria, si raccomanda di assegnare all'Arma - base reclute che "abbiano previa attitudine alle marce", che siano in grado di sostenere il peso dello zaino ecc.; infine anche le 144 compagnie di bersaglieri e le 75 di alpini sottraggono ulteriormente elementi di valore alla fanteria di linea. Quali, nel concreto, i rimedi suggeriti da Badoglio? A suo parere non è più possibile abolire le fanterie speciali, "che considerate astrattamente


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in sé hanno tanta potenzialità di organizzazione, di tradizioni, di popolarità". E' però possibile: - ridurre i bersaglieri da 36 a 24 battaglioni, "da inviarsi pur essi a lato dei loro colleghi alpini, sulle Alpi, ripristinando in essi il carattere di truppe da montagna, seguendo il vero concetto di La Marmara "; - ridurre i requisiti fisici per i soldati di cavaJleria (che devono essere soprattutto leggeri e non "larghi di petto ", come si pretende al momento), per l'artiglieria da campagna (che non è necessario che siano particolarmente robusti) e per l'artiglieria da costa (che non è necessario siano "larghi di petto, robusti e ben sviluppati"), mentre per i soldati di artiglieria da montagna, che al momento hanno requisiti fisici superiori al bisogno, sare bbe sufficiente prevedere gli stessi requisiti fisici degli alpini. Come già detto per il Perrucchelli, non è pensabile che un semplice capitano di Stato Maggiore come Badoglio possa o voglia sostenere su una rivista militare idee sgradite ai superiori. Nell'agosto 1908 il Capo di Stato Maggiore è il generale napoletano Pollio, e il MinisLro è il senatore Casana; non è perciò escluso che certi suoi accenni ai difetti del vecchio esercito piemontese abbiano il sapore di una captatio benevolentiae, e che comunque il giovane e ambizioso capitano esponga - e lo fa in modo eccellente - idee condivise dai superiori. In effetti la voce di Badoglio non è affatto isolata, e le sue idee sono certamente in accordo con quelle del Ministro. A parte le conclusioni prima esaminate della Commissione d' Inchiesta, anche il disegno di legge presentato in Parlamento dallo stesso Ministro Casana il 20 marzo 1909 prevede, a modifica dell 'ordinamento vigente, di " ridurre da 4 a 3 le compagnie dei battaglioni bersaglieri e delle 36 compagnie rimaste disponibili sopprimerne 24, e ciò per elevare il valore medio di attitudine fisica e migliorare le condizioni numeriche della rimanente fanteria, mentre le altre 12 avrebbero costituito 4 battaglioni ciclisti autonomi". 68 La proposta non è accolta dal Parlamento ed è definitivame nte accantonata dal successivo Ministro Spingardi, secondo il quale il vantaggio di un siffallo provvedimento per la massa della fanteria sarebbe irrilevante, e, comunque, l'aumento del contingente di leva di I" categoria consentirebbe di per sé il miglioramento della qualità del reclutamento a nche per la fanteria. Non hanno perciò alcun successo le tesi degli oppositori coevi

"" Lessico Mi/ilare /talia110 (Cit.). p. 330.


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delle fanterie scelte, sintetizzabiJi in tre punti: 1) anche l'aumento del contingente di 1• categoria lascia invariato il rapporto quafaativo tra fanteria e Armi speciali; 2) a tale aumento corrisponde un aumento di altre Armi e servizi, che diminuisce ancora le effettive possibilità di scelta specie per la fanteria; 3) infine, "non si attenta alle tradizioni ma se ne condensa La forza sopprimendo Le sovrapposizioni venute di poi negli organici del corpo dei bersaglieri".69 Pur essendo votate all'insuccesso, le predette tesi incidono direttamente sull'efficienza della massa dell'esercito, senza comportare riforme di grande respiro o dei costi economici. Non si vede, pertanto, per quale ragione le varie "storie" della fanteria o sue specialità trascurino questo non secondario problema ordinativo. Un fatto è certo: che il non indispensabile sviluppo parallelo di due speciaJità con palpabile, vasta fascia di sovrapposizione (i bersaglieri, non solo perchè nati come truppe da montagna, sono senza dubbio atti più della fanteria a combattere suJJe Alpi) fini sce col favorire gli alpini , che pur essendo la specialità più giovane hanno un ruolo ben definito ormai da nessuno messo in dubbio, ma tale da penalizzare chiaramente i bersaglieri, che soffrono di una crisi d'identità finora ignorata. Lo spazio tecnico-tattico rimasto ai figli di La Marmora è oggettivamente ristretto. In montagna i protagonisti principali sono sempre più, per comune ammissione, gli alpini; in terreni di pianura e collinosi, dove la protagonista principale è la fanteria di linea, si tratta di individuare per i bersaglieri - e non è facile - degli spazi d'impiego diversi da quelli della stessa fanteria e tali da giustificare il ricorso a truppe scelte; come se ciò non bastasse, lo sviluppo del ciclismo militare e le aspettative anche eccessive che suscita introduce una terza variante nel rapporto dei bersaglieri con gli alpini e la fanteria di linea. La crisi d'identità dei bersaglieri, il loro rammarico per aver dovuto abbandonare agli alpini la montagna, il loro rapporto problematico anche con la fanteria è testimoniata da parecchi autori appartenenti agli stessi bersaglieri. Nell'agosto 1894 il capitano Menarini scrive che allorchè si orRanizzò stabilmente la difesa delle Alpi, i nostri avversari si guardavano bene dal destinarvi i bersaglieri, che dal La Marmora erano stati creati per l 'impiego "nelle montagne e nei paesi rotti". Ohibò! Si preferì creare un nuovo corpo speciale [cioè gli alpini N.d.a.], che senza passato, senza tradizioni, traesse con sé tutti gli in-

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convenienti di cui si accusavano i bersaglieri rispetto alla linea, considerevolmente aumentati dal fatto ch 'esso danneggiava anco il nostro corpo e che non contribuiva a raggiungere la fanteria unica, aumentando il numero dei corpi speciaii.10

Nella successiva puntata di settembre il Menarini, non si sa perché, cambia idea sugli alpini, questa volta ammettendo che "Alessandro Lamarmora ci creò per la montagna.· ma in ciò noi.fummo sostituiti dagli alpini e questa truppa. in oggi, non teme confronti pel sun personale, pel suo organamento; non ha passato, è vero, non ha tradizioni, ma nessuno può dubitare eh'ella abbia in sé gli elementi per crearsi una storia brillante in una guerrafutura".11 A dimostrazione della persistenza del problema, ambedue queste affermazioni si trovano anche in una successiva serie di articoli del Menari ni ( 1904) sullo stesso argomento; ciò che importa, comunque, è che egli vede con sospello e preoccupazione sia la decisione di istituire gli alpini, sia queJla di ac;segnare, da allora in poi, ai bersaglieri delle generiche "missioni speciali" mai definite e mai precisate con appositi regolamenti: " qui, forse, stava appunto la trovata dei nostri avversari: Lasciare i bersaglieri senza uno scopo, senza una missione chiara e precisa; ridotti per tal RUisa a un corpo senz'anima, avrebbero necessariamente finito col cooperare essi stessi alla propria consunzione".12 Ne consegue che per il Menarini la definizione con apposito regolamento dei compiti dei bersaglieri è conditio sine qua non per la loro sopravvivenza, perchè nessun corpo speciale o scelto ha ragione di esistere senza una funzione precisa. Nel 1904 il generale Pittaluga depreca che si sia conservata, anzi aumentata senza motivo la fanteria speciale leggera, fino a fare del nostro I' esercito che ha il maggior numero di truppe scelte, senza che sia veramente necessario disporre di tali truppe per missioni speciali.73 Infatti Il gran Federico precorrendo i tempi dichiarò che una sola dovesse essere la fanteria: e stabilì che una sola ne avesse il suo esercito, e pro-

70 Giuseppe Menarini. / bersaglieri - essere o non essere, in "Rivista Militare Italiana " /\nno XXXIX - Disp. vm 16 agosto 1894, pp. 1455- 1456. " ivi, Disp. IX 16 settembre 1894, p. 1667. 72 Menarini, IL dilemllUJ d 'Amleto per i bersaglieri, in "Rivista Militare Italiana " Anno XLIX I sem. Disp. IV 16 aprile 1904, pp. 631-646. 73 Giovanni Pittaluga, I Bersaglieri - Alpini, in "Nuova Antologia" Voi. XXXIX rase. 781 - I luglio 1904, pp. 85-95.


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muovendo in massimo grado l'abilità nel fuoco e la rapidità nei movimenti la rese impareggiabile. Oggi presso noi si vuol giustificare l'esistenza dei bersaglieri con l'utilità di avere truppe atte ad operazioni speciali. Ma nelle battaglie moderne è raro che si debbano compiere operazioni speciali; e per i rarissimi casi in cui occorrono, non vuol dire che siano necessarie truppe speciali. Tanto varrebbe organizzare altrettante truppe speciali quante possono essere le speciali operazioni. [... ]. L'aumento delle specialità dellafanleria equivale a creare complicazioni organiche ed amministrative &,ve la semplicità è la legge suprema, la massima delle occorrenze. Né devesi tacere che la specialità delle missioni fa nascere il pericolo di volerle compiere anche quando non se ne presenla l'utilità, fosse pure con la corsa in avanti. Pericolo gravissimo ...

Il Pittaluga si riferisce esclusivamente ai bersaglieri: a suo parere reclutando solo gli uomini nati tra le montagne gli alpini non tolgono alla fanteria gli elementi migliori ma solo quelli aventi una speciale attitudine, "assecondandola come se fossero una sua delegazione tattica". I bersaglieri invece oltre a deprimere fisicamente e moralmente la fanteria costano molto di più della fanteria, perché ad esempio - come del resto gli stessi alpini - hanno un assegno di primo corredo superiore. E a riprova delle "ragioni apparenti e fittizie" con le quali si tenta ancora di giustificarne l'esistenza cita quanto di recente hanno scritto due ufficiali appartenenti alla specialità, Roberto Morozzo della Rocca e Luigi Nasi. Secondo il Morozzo della Rocca (Pensiero militare n. 32 - 1903) non è più possibile sottoporre i bersaglieri "ali' allenamento esagerato di un tempo", allenamento che del resto risulterebbe assai ridotto e difficile per l'afflusso dei richiamati in caso di guerra. Così stando le cose, egli esclama, a che servono gli odierni reggimenti bersaglieri se sono armati dello stesso fucile, hanno identica abilità di tiro e vengono tatticamente impiegati come i reggimenti di fanteria di linea ? E a che serve la celerità del passo se non può dare che risultati minimi ? L 'evolversi dei tempi ha perciò tolta la Loro ragione di esistere così costituiti. Per salvare quindi il prezioso tesoro delle nostre gloriose tradizioni, dovremo necessariamente venire a una radicale trasforma zione.

La crisi d'identità dei bersaglieri risalta ancor chiaramente da quanto scrive nel 1903 il capitano del corpo Luigi Nasi:


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al giorno d'oggi è unfatto reale che i bersaglieri, nella gran.famiglia militare, vivono una vita artificiale, una vita che riesce loro grave e affannosa poichè sentono attorno a sé, la mancanza della purezza dell'aria e come una specie di germe deleterio che tende ad inquinare il bello e gagliardo sangue, ed a soffocarne tutte le intime manifestazioni non sempre comprese da chi non è nato nel corpo. Maggior rovina di questa, noi non sappiamo concepirla/74

Lo stesso Nasi nel 1908 aggiunge: "Parliamoci chiaro: dal giorno in cui furono istituiti gli alpini, noi, bersaglieri, non potemmo perdonare al generale RicotLi di non aver messo noi sulle Alpi. E non comprendemmo che noi potevamo benissimo sussistere, malgrado La creazione del nuovo corpo dalla penna d'aquila". 15 In questo contesto ove domina l'incertezza le proposte sono molteplici e oscillano tra due estremi: - fondere i bersaglieri con gli alpini nella difesa delle Alpi: - trasformarli interamente in cic listi e/o far loro sostituire in tutto o in parte la cavalleria. L'importante è differenziare i bersaglieri rispetto aJla fanteria; perciò le proposte intermedie si suddividono nei seguenti, possibili impieghi ( in genere principali ma non esclusivi): - in montagna (Nasi 1902; Pittaluga 1904; Vitali 1908); - con la cavalleria in avanscoperta e/o nell'esplorazione (Menarini 1894 e 1904; Nasi 1903); - in missioni speciali di corpo d'armata (Zoppi 1902); - polivalenti, in montagna e in pianura (Baratieri 1886; Zoppi 1902; Nasi 1902 e 1908). La punta più avanzata cieli ' impiego in montagna è rappresentata dagli scritti dello stesso generale Pittaluga e daJ capitano dei bersaglieri Vitali. 76 In aderenza alle idee prima esposte il Pittaluga respinge sia la possibilità di trasformare i bersaglieri in ciclisti, sia "l'alpinizzazione" (cioè il trasferimento nelle Alpi) dei bersaglieri attribuita al generale Ricotti, perchè "complicherebbe la difesa alpina; acuirebbe la deplorata gelosia che og-

74 Luigi Nasi, Cirro u11 'eve111uale lrmformazione dei bersaglieri in ciclisti, in "Rivista Militare Italiana" Anno XLVIII Il scm. - Disp. X 16 ottobre 1903, pp. 1732- 1742. 75 Na~i, Un pregiudizio circa l'impiego dei bersaglieri, in " Rivista Militare Ilaliana" Anno Lill Voi. II Disp. TV 16 a prile 1908, pp. I 021 - !024. 1 • Pittaluga, /Bersaglieri - Alpini (Cit.) e Vittorio Vitali,/ bersaglieri e il loro impiego in guerra, in "Rivista Militare Italiana " Anno LIII - Il scm. Di sp. X - 16 ottobre 1908, pp. 2085-2092.


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gi rode bersaglieri e fanteria; creerebbe un dualismo struggitore tra bersaglieri e alpini; moltiplicherebbe le difficoltà di reclutamento dei due corpi; lascerebbe in tutta la sua forza il depauperamento .fisico-morale della fante ria". Per il Pittaluga l'unica soluzione rimane perciò que11a di "fondere i due corpi dei bersaglieri e degli alpini in un corpo solo di Bersaglieri-Alpini, formandolo in guisa da conservare intatte, accomunate assieme e perciò moltiplicate, tutte Le qualità, tutte le risorse dei due ammirati corpi." Gli alpini conserverebbero tutto - sedi comprese - tranne il cappello

(sic); i bersaglieri conserverebbero a loro volta tutto, meno le sedi (avvicinate alle Alpi) c il numero delle compagnie (ridotte da 144 a 108). Da queste riforme organiche il Pittaluga si ripromette due importanti risultati: un notevole potenziamento della difesa alpina e al tempo stesso una cospicua economia di bilancio. 11 Vitali, anch'egli contrario alla trasformazione dei reggimenti bersaglieri in ciclisti, ritiene invece più opportuno impiegare i bersaglieri come avanguardie nella difesa delle Alpi, spostando le loro sedi nella Val Padana e ai piedi delle Alpi e addestrandoli a combattere nelle zone di frontiera. Le riforme organiche da lui proposte sono profonde: riduzione dei 12 reggimenti bersaglieri a 7 e trasformazione dei rimanenti 5 in battaglioni ciclisti; costituzione con i 7 reggimenti rimasti di "un corpo formidabile di truppa leggera scelta a piedi", articolato in divisioni o brigate rinforzate da reparti mitragliatrici e ciclisti. In conclusione Lasciamo agli alpini - quali naturali sentinelle delle Alpi - l 'incarico di guardare i passa1u~i obbligati, ai battaglioni ciclisti la specialità di agire con le truppe a cavallo nel servizio di avanscoperta. In quei terreni aperti di frontiera e meno difesi da opere fortificatorie, si affidi alla grande unità dei bersaglieri l'alta missione di grosse avanguardie in testa alle armate retrostanti.

Il Vitali ha ragione nel non ritenere conveniente l'impiego di reparti ciclisti sulle Alpi: ma perchè le avanguardie di frontiera dovrebbero essere costituite dalle sole truppe scelte a piedi, anzichè dagli alpini che sono già sul posto, visto che diversamente dai bersaglieri sono reclutati localmente? quali sarebbero i distinti compiti delle due specialità, che egli mal definisce? Infine, è razionale l'impiego degli alpini solo a guardia dei passaggi obbligati delle Alpi, senza consentire loro di manovrare sui fianchi del nemico e/o nelle alte quote, sfruttando quella conoscenza della montagna che senz'altro posseggono in misura maggiore dei bersaglieri?


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DALL"ORDINAMENTO FF.RRF.RO ALLA UKANDl:i UUl::.RRA

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AIl' impiego dei bersaglieri sulJe Alpi almeno nel I 902 è favorevole anche il capitano Nasi,77 che però non condivide né una recente proposta del maggiore Nasalli (Corriere della Sera) di trasformare interamente i bersaglieri in alpini dando a tutti il cappello da bersagliere, né le profonde trasformazioni organiche proposle dal Pittaluga e dal Vitali. A suo parere i battaglioni bersaglieri in operazioni- e solo in operazioni - dovrebbero far parte dei gruppi alpini, "costituendo un 'unità tattica indipendente dal fatto organico" e addestrandosi insieme con gli alpini per raggiungere il necessario affiatamento tattico. Così facendo ciascun corpo conserverebbe le proprie caratteristiche e la propria fisionomia organica, né i bersaglieri usurperebbero i compiti propri degli alpini: "agli alpini la specialilà unicamente della guerra manovrata in montagna; ai bersaglieri la capacità di poter anche concorrere a fare la guerra in montagna, ma capacissimi sempre di farla in pianura o collina qualora quel concorso non fosse necessario per speciali eventi ". Come per il Marazzi . a nche per il Nasi gli alpini dovrebbero manovrare sulle alte quote a difesa dei passi e sentieri difficili, lasciando ai bersaglieri la difesa frontale dei fondivalle; egli è perciò d ' accordo con la proposta del Marazzi di prevedere per i bersaglieri un reclutamento " ravvicinato il più possibile al confine ". Poichè 5 reggimenti bersaglieri già hanno sede in prossimità delle valli alpine, a suo avviso si potrebbe trasferire a Sai uzzo il reggimento di stanza ad Asti per disporre di sei reggimenti bersaglieri vicini al confine. Un reclutamento regionale non sarebbe conveniente, per due ragioni: i bersaglieri usurperebbero una caratteristica esclusiva degli alpini; il loro reclutamento perderebbe quel carattere nazionale che è opportuno conservare, anche perchè per ben manovrare nelle valli alpine e in montagna non sono necessarie truppe specializzale: vi si può impiegare "qualunque truppa, perchè composta da individui sani e convenientemente allenati". Affermazione, quest' ultima, senza dubbio discutibile, e tale da svalutare alquanto gli alpini: ma i deve riconoscere a posteriori che corrisponde a quanto avvenuto nelle due guerre mondiali, con l'esteso e redditizio impiego in montagna anche della normale fanteria e quindi con la pratica scomparsa di qualsiasi differenziazione nell'impiego delle varie specialità. Ad ogni modo le idee del Nasi non piacciono a un giovane ufficiale desti-

n Nasi, /.,a difesa delle Alpi col concorso dei bersai:lieri, in " Rivista Militare Italiana·· Anno XLVll - I sem. [)isp. VI 16 giugno 1902, pp. 94 1-947.


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nato ai più a]ti gradi: l'allora tenente di fanteria Ottavio Zoppi,78 secondo il quale se si impiegassero i bersaglieri in montagna essi avrebbero un compito meramente sussidiario rispetto a quello già svolto dagli alpini, facendo fremere di sdegno l'anima del La Marmora e rendendo "le agili penne dei bersaglieri le umili ancelle della giovane e diritta penna del nostro alpino"_ Per lo Zoppi il vero problema è invece di verificare se la nostra organizzazione per la difesa delle Alpi sia o no rispondente: ma se si dovesse constatare che gli alpini non sono un numero sufficiente, allora si dovrebbe semplicemente aumentarli. Per coadiuvarli, per "agire sul fronte " i bersaglieri non sono affatto necessari: basta impiegare le fanterie dei corpi d'armata di frontiera, che nelle esercitazioni sulle Alpi (qui lo Zoppi cita la sua esperienza personale) hanno sempre fornito ottimo rendimento fino a "toccare quasi, dico quasi, i confini della specialità". A maggior ragione - prosegue lo Zoppi - i bersaglieri, più scelti, in montagna farebbero ancor meglio della fanteria, fino a uguagliare il rendimento degli alpini, rendendo così quell'associazione organica, che il Nasi non vuole, inevitabile e tale da indurre presto o tardi a scioglierli. Per scongiurare questo pericolo ]o Zoppi (è l'unico) propone, semplicemente, di lasciare i reggimenti bersaglieri dove sono e come sono, cioè uno per corpo d'armata; i loro compiti rimarrebbero però assai vaghi, visto che si limita a asserire che non deve essere difficile trovare il modo di impiegare proficuamente truppe con così belle qualità. Sempre nel 1902 il Nasi replica annacquando la precedente prospettiva di un loro impiego preferenziale in montagna e questa volta mostrando di preferir~ un loro impiego polivalente. 79 A suo giudizio "è falsa l'idea di credere che i bersaglieri aspirino ad avere una specialità. La caratteristica del corpo dei bersaglieri [.._] consiste, tatticamente parlando, nel fatto di non avere ....... specialità". Essi devono avere tutte le caratteristiche dei corpi che combattono a piedi, ed essere in grado di manovrare tanto in montagna che in pianura,, "il che è precisamente il concetto che dominò nella mente del La Marmora ". Si deve osservare, a questo punto, che il Nasi è runico a sostenere che La Marmora non ha indicato per i bersaglieri un impiego preferenziale in montagna, cosa peraltro anche da lui implicitamente riconosciuta in precedenza: ma, dimentico di questo, egli si dichiara sorprendentemente d'accordo con lo Zoppi sul fatto che i bersa-

78 0ttavio Zoppi, H.uere o non essere: conlro wu, tendenza, in "Rivista Militare Italiana " Anno XLVII, 11 scm. Disp. Vili 16 agosto 1902, pp. 1325- 1329. 79 Nasi, Colltm una tendenza. in "Rivista Militare Italiana" Anno XLVTT - TT sem. Disp. IX - 16 settembre 1902. pp. 1602-1607.


X - DAIL' ORDINAMENTO FERRERO ALLA GRANDE GUERRA

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glieri non debbano essere impiegati per la guerra d'alta montagna a fianco degli alpini (veramente lo Zoppi ha parlato, genericamente, di impiego in montagna quale voleva anche il Nasi, sia pur lasciando agli alpini le alte quote)_ e precisa di aver solamente sostenuto l'utilità di addestrare i reggimenti bersaglieri a combattere sulle Alpi, visto che in caso di guerra combatterebbero molto probabilmente lassù. Sul versante opposto, nelle due citate serie di articoli del 1874 e del 1908 il Menarini sostiene per i bersaglieri un impiego alternativo alla montagna: tenendo conto delJa scarsità della nostra cavalleria e delle caratteristiche ad essa poco favorevoli del terreno sul quale dovrà presumibilmente agire, a suo parere "a Loro sarebbe riservato essenzialmente il servizio di esplorazione, epperò cesserebbero di essere truppe suppletive [di corpo d'armata]: eventualmente coi propri reparti ciclisti, potrebbero essere chiamati a rinforzare L'azione dell 'avanscoperta sul campo strategico". In generale le unità bersaglieri ciclisti "non solo potranno coadiuvare La cavalleria, ma dovranno in alcune zone supplire alla insufficienza forzata della cavalleria e talvolta transitoriamente sostituirla addirittura". Infatti, a parte i vincoli del terreno l'impiego della cavalleria appiedata non è conveniente, e spesso occorrerà arrestare la progressione della cavalleria avversaria difendendo posizioni-chiave. Anche per il Menarini, comunque, non deve sussistere tra bersaglieri - ciclisti e cavalleria "nessuna dipendenza, nessun rigido legame, nessun appoggio reciproco obbligato; si tratta di due truppe celeri che sfrutterebbero le Loro diverse caratteristiche per Liberamente (sic) completarsi a vicenda" (ma chi comanda? perchè l'appoggio reciproco, visto che è necessario, non dovrebbe essere "obbligato", cioè disposto da qualcuno? e perchè la reciproca integrazione dovrebbe essere "libera", cioè facoltativa, non regolata?) Riguardo al loro possibile impiego in montagna, il Menarini non ritiene né utile, né opportuno un ritorno dei bersaglieri alle loro origini e quindi il loro impiego quale rincalzo degli alpini, sia per ragioni morali (chi è stato il primo, mal si rassegna ad essere il secondo), sia perchè la difesa delle Alpi deve formare un tutto omogeneo e non essere la risultante di due parti differenti, più o meno bene coordinate allo scopo, ma che non riusciranno mai ad un perfetto e compiuto accordo [questo, allora, vale anche per l'impiego dei bersaglieri con la cavalleria N_d.a. I. Se si ritengono pochi, s'aumentino gli alpini, ma non si dia loro un rincalza di truppa diversa [perchè? nei corpi d'annata o divisioni


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO- VOL. U1 ( 1870-1915)-TOMO I

i bersaglieri non sono "truppa diversa"? - N.d.a.], per non correre il rischio di dover convenire che el lacon xe peso del buso. 80

Nel 1903 inaspettatamente anche il Nasi, che nel 1902 propendeva prima per l'impiego in montagna dei bersaglieri e poi per un loro impiego polivalente, vede con favore l'idea di trasfonnarli interamente in ciclisti e di farli collaborare con la cavalleria,81 dissentendo dalla Rivista di Fanteria, per la quale invece tale riforma "sarebbe la rovina della più bella fanteria nostra e del rrumdo, senza nessuna utilità". Al contrario per il Nasi la rovina non sarebbe morale, perché i bersaglieri anche con la bicicletta conserverebbero le loro trndizioni, né tanto meno tecnica, perché il ciclismo è solo un mezzo, che più che tra<;fonnare i bersaglieri ne facilita e potenzia l'azione. Anzi: la costituzione di reparti bersaglieri ciclisti sarebbe un fatto positivo, sia per il grande futuro del ciclismo militare, sia perchè con questa innovazione i bersaglieri acquisterebbero finalmente una fisionomia specifica, ponendo fine alla frequente accusa di inutilità a danno della fanteria di linea, dalla quale i bersaglieri una volta tanto si distinguerebbero nettamente diventando "un utile e potente complemento della cavalleria". Anche per questa ragione il Nasi si dichiara contrario alla trasformazione in ciclisti solo di una parte dei bersaglieri, che darebbe vita, in pratica, a due diverse specialità. A suo parere si deve conservare intatta l'unità dei battaglioni, senza scinderli in compagnie ciclisti e senza cambiare il nome di bersaglieri in quello di ciclisti. Propone perciò di sciogliere i 12 reggimenti bersaglieri e di conservare 24 battaglioni bersaglieri ciclisti su 3 compagnie; 12 di tali battaglioni sarebbero assegnati alla cavalleria e gli altri 12 ciascuno a un corpo d'armata. I componenti di tali battaglioni dovrebbero quindi essere a un tempo abilissimi marciatori, pedalatori e tiratori. Questo notevole cambiamento di rotta del Nasi rispetto a solo un anno prima fa oggettivamente pensare che ciò che veramente gli interessa è di trovare per il corpo un impiego specifico e ben delimitato, che valga a farlo ben distinguere dalla fanteria e a giustificare l'esistenza dei bersaglieri come truppe scelte. Il loro impiego polivalente da lui abbozzato nel 1902 per poi abbandonarlo un anno dopo non è comunque nuovo: già nel 1886 è sostenuto con argomentazioni ben più precise e coerenti dall'allora colonnello (anch'egli bersagliere) Oreste Baratieri,82 per il quale nono-

"° Menarini. Il dilemma d 'Amleto per i bersaglieri, in "Rivista Militare Italiana" Anno XLIX I sem. Disp. V I O maggio 1904, pp. 849-850. "' Nasi, Cin:c1 un'eventuale trasformazione dei bersaglieri in ciclisti (Cit.). • 2 Oreste Baratieri, L'origine dei bersaglieri, in "Nuova Antologia" Voi. m Fase. XI 16 giugno 1886, pp. 459-479.


X - DALL'ORDINAMENTO FERRERO ALLA GRANDE GUERRA _ __ _ _ __ ] 003

stante la costituzione degli alpini, ai bersaglieri rimangono larghi spazi di impiego in montagna: Lanciati per tempo durante il periodo critico della mobilitazione, nella regione di confine, essi devono concorrere cogli alpini a guardarla, rimediando alle lacune, ai difetti e alla debolezza che provengono dalla conformazione sua, dalle avanguardie che può avere il nemico sul versante delle acque nostre, dall'ordinamento militare nazionale, dal/a forma e natura della penisola, dall'incompleta rete ferroviaria [... ]. A mobilitazione compiuta il reggimento di bersaglieri forte di circa 3000 uomini, sotto le mani del comandante di corpo d'armata, potrebbe giovare assai formando avanguardia in regione classica per le fazioni della piccola guerra, specie quando si cercasse al di là della frontiera il segreto della vittoria.

Oltre che come avanguardia in montagna, per il Baraticri sono possibili altri due compiti. 1) a sostegno della cavalleria, che sarebbe sempre scarsa, "fino assai oltre il confine dello Stato, fino agli obiettivi principali

di operazione beninteso non in terreno scoperto, ed a condizione di impiegarli in modo da non impacciarne l'andatura"; 2) quale riserva sia nell'offensiva, per aggirare ai fianchi e alle spaHe le posizioni nemiche, sia nella difensiva, sul fianco del nemico arrestato frontalmente dalle altre forze. Nel 1908 pur confermandone la polivalenza il Nasi cambia ancora le carte in tavola, 83 accantonando la prospettiva della trasformazione integrale dei bersaglieri in ciclisti e anzi manifestando il timore che la ventilata costituzione di un solo battaglione bersaglieri ciclisti per ogni reggimento [poi prevista dalla legge Spingardi del 1910- N.d.a.] finisca con lo svalutare i rimanenti tre battaglioni a piedi per reggimento, fino a comprometterne l' esistenza. Invece " i bersaglieri senza bicicletta non solo possono

sussistere, ma sono essi pure destinati a compiere, e con utilissimo rendimento, i più importanti servizi", oltre che in montagna "ovunque sia necessario richiedere l'improvviso intervento di un nucleo di soldati rotti ad ogni sorta di fatiche e di esercizi ed avvivati da un potentissimo spirito di corpo". Per il Nasi perciò sbagliano coloro che credono che se i bersaglieri non saranno più impiegati nella difesa delle Alpi, la loro esistenza sarà compromessa; "errore, errore fatale anche questo! Pur constatando che il La Marmora ci voleva atti alla montagna [altra contraddizione rispetto al 1902 - N.d.a.], egli non si è mai sognato di localizzarci sulle Alpi, perchè

83

Nasi, Un pregiudizio circa l'impiego dei bersaglieri (Cii.).


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la localizzazione avrebbe avuto, ed avrebbe ora specialmente, per conseguenza la distruzione della nostra principalissima dote: la velocità " (qui il Nasi sbaglia: come già detto La Marmara ha dislocato significativamente le prime due compagnie ad Aosta e Chambèry). Con quest'ultime considerazioni del Nasi può essere considerato chiuso un dibattito, che dimostra una cosa sola: nessun dubbio sull'utilità degli alpini sia per un pronto presidio delle frontiere, sia come avanguardia e simbolo del reclutamento regionale; molti e fondati dubbi, invece, sull'effettiva utilità dei bersaglieri sia come truppe scelte che come truppe speciali, con impiego differenziato rispetto alla fanteria. La ricerca continua, quasi assillante e non sempre felice di un loro redditizio ruolo autonomo, così come le molte e divergenti proposte sui loro compiti - normalmente integratori - accanto agli alpini o, in alternativa, in collaborazione con la cavalleria, sono già di per sé stesse segno di una crisi e di un' incertezza che significativamente riguarda solo i bersaglieri: non le altre Armi e specialità della fanteria. Che poi, come sostenuto dal Nasi e da altri, la mancanza di una precisa fisionomia tattica sia una prerogativa, una caratteristica positiva e vincente del corpo, è tutto da dimostrare.

Conclusione Nel periodo in esame la questione ordinativa rispecchia e riassume l'aspirazione del giovane Stato italiano a inserirsi nel consesso delle nazioni europee possibilmente "alla pari". Tuttavia, nonostante la sua importanza essa è stata finora trattata in maniera piuttosto frammentaria, senza individuare momenti di continuità e di rottura e senza indagare a fondo su ciò che si nascondeva dietro il numero dei corpi d ' armata, delle divisioni e dei reggimenti. In effetti, gli ordinamenti del periodo sono il baricentro di una galassia di problemi non solo strategici o finanziari, che nonostante la loro (apparente) dimensione minimale condizionano pesantemente il tutto. Al di là dei fattori di base da noi stessi indicati in apertura del capitolo, alla fin fine è questa galassia a rivelarsi la più importante, anche sotto il profilo morale, addestrativo e logistico - amministrativo. L'ampio spazio da noi dedicato a queste interfacce è appunto dovuto all'opportunità di far emergere un patrimonio di idee e di riferimenti critici che altrimenti sarebbe rimasto nel retrobottega, anche se è tale da configurare in modo abbastanza netto la reale fisionomia organizzativa dell'esercito fino alla grande guerra. Specie dopo il 1945 è stata talvolta criticata la scarsa capacità offensiva dimostrata dalle nostre truppe nei primi mesi della grande guerra. Es-


X - UAU:ORDINAMENTO rERRERO ALLA GRANUii uUEKKA

sa era certamente dovuta al terreno sfavorevole all'offensiva, all'inaspettata efficacia del binomio mitragliatrice-reticolato, alla carenza di artiglierie speci.e medie e pesanti; ma una parte importante e non positiva nel determinare l'efficienza dell'insieme hanno senza dubbio avuto anche i limiti e problemi emersi nel dibauito ora esaminato, che nonostante le numerose proposte per eliminarli hanno dimostrato troppo lunga vita. Il modello tedesco, tante volte evocato, è rimasto solo un'aspirazione; ma anche l'ipotetico modello "nazionale" sostenuto da taluni si è rivelato evanescente, lasciando il posto ai consueti compromessi spesso adottati dai Ministri anche al di là delle loro personali opinioni. Più che i Ministri o lo Stato Maggiore, è stato il Parlamento, del quale facevano parte parecchi militari di alto grado, a esprimere idee e indicare soluzioni su questioni anche di dettaglio, come le compagnie grosse o piccole, il cavaJlo per i capitani ecc. ccc .. Anche gl i ordinamenti dell'esercito e le loro varianti, sempre approvali dal Parlamento, hanno limitalo assai la capacità decisionale del Ministro. Di fatto i provvedimenti adottati hanno consolidato e reso irreversibile la svolta quantitativa tipica dd1' ordinamento Ferrero; in questo contesto, va riconosciuto al Marazzi e al Ghersi il merito di aver smosso le acque, di aver ricercato la qualità richiamando l'attenzione su tutta una serie di complesse questioni che avrebbero richiesto provvedimenti più incisivi, anche se diversi da quelli da loro indicati. Non è questa la sede più adatta per distribuire a consuntivo tortieragioni, o cercare dei colpevoli ; a noi basta aver scavato e trovato cose meritevoli di essere ricordate. Un solo fatto è da sottolineare: dopo il 1870 si va ovunque verso eserciti di massa con armamenti sempre più perfezionati, che richiedono elevato spirito nazionale e militare, abbinato a capacità finanziarie, economiche, industriali sufficienti per alimentare in pace c in guerra le masse armate. L'Italia del tempo certamente possedeva questi requisiti in misura sensibi lmente minore di quella dei possibili alleati e nemici; forse anche per questo tante belle idee si sono arrestate di fronte a una realtà che difficilmente avrebbe potuto essere modificata in tempi ristretti e che solo la guerra ha rivelato appieno, facendo ancor più risaltare l'eroismo e l'abnegazione di tanti nostri combatlenti, che hanno supplito ai difetti dell'organismo. La guerra è stata vinta nonostante tali difetti ; non grazie a un'organizzazione, che ha rivelato tutti i suoi limiti.



PARTE QUARTA

L'"AMMAESTRAMENTO TATITCO" DELLE TRUPPE E L'EDUCAZIONE MORALE E SOCIALE DEL SOLDATO



CAPITOLO Xl

L'OFFENSIVA, LA DIFENSIVA E L'"AMMAESTRAMENTO TAIT/CO" DELLE TRUPPE DI FRONTE ALLE "NUOVE ARMI": ORDINE SPARSO O ORDINE CHIUSO?

Premessa Secondo la cu111111w1is opinio lutli gli eserciti d ' Europa all'inizio della prima guerra mondiale sono slali lelleralrnente sorpresi dall'efficacia del trinomio mitragliatrit:c - lrincca - reticolato, che ha dato una superiorità tattica apparsa incolmahile alla difensiva, aprendo lerribili vuoti nelle file degli attaccanti. Effcuivamcnte nel 1914 si sperava di ripetere la guerra rapida e offensiva sul mmlelln napoleonico, quale era stata - da parte prussiana - anche la guerra I 870 - l 871; ma ciò non significa che anche in Italia le ricadute tattiche del progresso delle armi da fuoco, già apparse nella predetta guerra, non siano state studiate e discusse a lungo, con uno spazio persino eccessivo dedicato alle formazioni e ai procedimenti tattici della fanteria. Scrive, in merito, il capitano Schiarini nel 1903:

subito dopo il I 870. sebbene avesse avuta la sanzione dei fatti e fosse accolto, più o meno sub conditione, da tutte Le fanterie d'Europa, L·ordine sparso fu fieramente discusso; e fiumi d 'inchiostro corsero per le letterature militari, per celebrarne ed esaltarne i meriti, o per metterne in luce i pericoli e Le insufficienze, a seconda delle particolari vedute di scuola. Gli uomini più segnalati per do/Irina e autorità presero parte a questa formidabile guerra che, più lunga di quella di Troia, dura ormai da oltre treni 'anni e 110 11 accenna ancora a .finire. 1 Un travaglio, un dibattito che prosegue fino alla grande guerra. Il tema di fondo è sempre lo stesso: l'incidenza delle "nuove armi'' sui proce1 Pompilio Schiarini. Ordine spar.w e ordine chiuso - proposte di modificazione al Re,:olamento di esercizi per la fimteria. in " Rivista Militare Italiana" Anno XLVlll, Voi. I Disp. I - 16 gennaio 1903, pp. 195-242.


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=IL~P=EN =S=IE~RO ~ MII.ITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. III 1870-1915) - TOMO I

dimenti tattici delJa fanleria. Con il termine "nuove armi" ci si riferisce dapprima al fucile a retrocarica rigato a colpo singolo, impiegato per la prima volta nella guerra del 1864 dalJ'esercito prussiano contro quelJo danese; poi al fucile a ripetizione ordinaria (mod. 1891 nell'esercito italiano). Dopo la guerra russo - giapponese 1904 - 1905 si dedica una certa altenzione anche alle future possibilità de11a mitragliatrice e ai riflessi dell' introduzfone del nuovo cannone da campagna a tiro rapido con affusto a deformazione. Fino al XX secolo, comunque, oltre alla mitragliatrice anche il reticolato rimane in sottordine. In sostanza si tratta di valutare i riflessi tattici dell'aumentata efficacia del fuoco, a fronte di formazioni e procedimenti che risentono ancora - fin troppo - dell'esperienza napoleonica, e che nelle guerre d' indipendenza italiane hanno già provocato l'emblematica strage di Solferino nel 1859. A queste valutazioni l'esperienza delle guerre del periodo fornisce certamente molti spunti, anche per l'accentualo sloricismo aJlora tipico del ragionare strategico e tattico. Ma tale esperienza oltre a convivere con quella napoleonica non sempre è predominante: hanno grande peso anche dati tecnici e elementi legati a specifiche esigenze nazionali, ollre che alle caratteristiche del terreno e delle formazioni. Fino al 1914 la guerra più frequentemente citata e studiala è quella franco-prussiana 1870-1871: dopo di essa, la guerra anglo-boera 1899-1902 e quella russo-giapponese 1904-1905. Fatto estremamenle positivo, gli autori italiani - e la slessa regolamentazione italiana - non peccano certo di provincialismo, ma fanno continuo riferimento a quanto si sludia all'estero e alle regolamentazioni dei principali eserciti, senza risparmiare critiche quando necessario. 2 Ciò non toglie che anche nel clibattito in Italia si notino più o meno gli stessi limiti riscontrati in Germania e Francia nel precedente cap. VIl: attribuzione di un caraltere troppo prescrittivo e categorico a exempla historica tratti da guerre passate combattute in diverse condizioni di ambiente naturale, con diverse armi, diversi rapporti di forze e da eserciti assai diversi da quello italiano; tendenza assolutista a attenuare o dimenticare

2 S i vedano, ad esempio, tre articoli di nomi illustri sulla " Rivista Militare Italiana" ; Ottavio Zoppi . A proposito di una nuova do/Irina tattica francese, in Anno XLVIII I Voi. Disp. I - 16 gennaio 1903, pp. 172- 194; Ugo Cavallero, L'addestramento tattico nel nuovo Regolamento d'esercizi per la fanteria tedesca, in Anno LII Il semestre Disp X - 16 ottobre 1907, pp. 2373 - 2394; ID., I preliminari dell'azio11e offensiva secondo gli studi la/lici più recenti (a proposito del Regolamento d'esercizi per la fameria tedesca del 29 maggio 1906), in Anno Llll, Voi. I.li Disp. VH - 16 luglio 1908, pp. 1765 - I 883.


Xl • L'OFFENSIVA. LA Dll'ENSIVA E L"'AMMAESTRAMENTO TATTICO.. DELLE TR '-'-'l'--'PP -J-'--'E"---:_ _ __:_: I 0"-'1....,_I

troppo gli svantaggi - ed a esaltare troppo i vantaggi - delle soluzioni prospettate; tentativi di fotografare, per poi trarne soluzioni vincolanti e schematiche, una realtà del combattimento sempre multiforme e complessa, che in quanto tale non si presta a interpretazioni esaustive e certezze matematiche; tendenza ad attribuire solo a fattori tattici le vittorie e attribuzione del successo esclusivamente a questo o quel fattore, che invece ne è solo una delle diverse componenti. A ragione, perciò, nel 190 l il capitano Ferraro scrive che dopo ogni campagna la maggior parte dei cultori di arte militare, ricercando nello studio di essa la soluzione del problema tattico del rapporto tra fuoco e urto, tra i com1>lessifattori della vittoria.finirono quasi sempre per dare un 'importanza eccezionale ai mezzi d'azione delle truppe, e specialmente a quello fra di essi che sembrò il determinante del successo. Perciò le nuove forme tattiche, trascurando in ,:enerale l'elemento più imporrante della guerra, L'uomo, sancirono una nuova proporzione fra ilji,om ,, l'urto, dando a quello ritenuto di maggiore eF ficacia una preponderam.a 111a1?xiore di quelle che effettivamente richiedessero Le co11di7.io11i di fatio ..1

Come del resto avviene nel pensiero militare e nelle dottrine di tutti i principali eserciti europei, in Italia si privilegia lo studio dell 'azione offensiva, anche perché essa è innegabilmente l'unica in grado di fornire quei risultati risolutivi che è necessario ricercare. Di per sé questa non è una colpa, né un errore: ma lo diventa se - come si verifica specie nel XIX secolo - ci si preoccupa troppo di trovare il modo di assicurare il successo al nostro attacco anche di fronte alle armi nuove, ma assai di meno - per asserite ragioni morali - di organizzare meglio la nostra difesa avvalcn<losi anche di tutte le risorse della fortificazione campale, in modo da respingere e/o rendere troppo gravoso l'attacco nemico. Ne deriva un accentuato sbilanciamento verso l'offensiva, che è il principale limite del pensiero militare europeo. In questo contesto, si tratta di vedere se anche in Italia si cade neg li stessi assolutismi . nella stessa mancanza di flessibilità che contraddistinguono autori e dottrine in Francia e Germania. In secondo luogo occorre verificare fino a che punto la regolamentazione tattica dell'esercito italia-

3 Lorenzo Fermro. Due quesiti di artP militare, in " Rivista Militare Italiana" Anno XLVI Voi. I Disp. I - 16 gennaio 1901 , p. 14.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOI •. nI ( IR70- 19 1S) TOMO I

no a11a vigilia della guerra è adeguata alla realtà, quale travaglio di idee essa ha a monte e se comunque merita le numerose critiche postume che le sono state rivolte, facendone la prima causa di perdite e insuccessi nella guerra. Infine, ci si potrebbe chiedere fino a che punto è giusto considerare come baricentro della guerra totale e di popoli che si affaccia all'orizzonte una questione che rimane meramente tattica, come è l'efficacia del trinomio mitragliatrice - trincea - reticolato. Di tale trinomio si è soprattutto parlato, per giustificare anche sul piano strategico il fallimento dalle offensive (ma quando e come? di tutte? ovunque?) e, comunque, per indicare la causa principale delle fortissime perdite. Occorre, quindi, stabilire fino a che punto esiste un rapporto tra questi fenomeni e le più accreditate concezioni teoriche e dottrinali del nostro esercito. Nel lontano 1960 l'allora Ispettore della fanteria generale Mario Torsiello, parlando a un gruppo di giovani tenenti in procinto di raggiungere i reggimenti ha indicato loro, senza la consueta retorica, la necessità di meditare, come professionisti, sui troppi nostri caduti della prima guerra mondiale, che sarehbero stati assai di meno con una migliore preparazione, un miglior addestramento, una dottrina più aderente alla realtà. La ricerca condotta in questo capitolo intende, appunto, onorare nel modo giusto quei Caduti e seguire l'alta e doverosa esortazione di quel generale.

SEZIONE I -Gli ammaestramenti della guerra franco - prussiana e i loro riflessi sulle modalità e formazioni di attacco Specie nei primi decenni del periodo in esame il fuoco, l'urto e l'offensiva tattica sono spesso visti come termini antitetici; attribuire più importanza al fuoco significa automaticamente svalutare l'offensiva e l'urto o viceversa. Questo rapporto non sempre valido nasce ancor prima della guerra 1870 - 187 l. Come scrive il capitano Ferraro, le vittorie di Federico Il, anzi che al genio del capitano ed alla disciplina, all'attitudine manovriera e alla coesione morale delle sue truppe, sono attribuite alla forma lineare, ossia alla preponderanza del fuoco; e dopo la guerra dei sette anni lutti gli Stati in Europa adottano quella forma di combattimento. Chi più sagace o meno impressionato dal successo, come il Meni/ Durand, ne pone in mostra i grandi e pericolosi difetti, non è ascoltato; e i vecchi eserciti si sfasciano dinnanzi al fante


Xl - L'OFFENSIVA, LA DIFENSIVA li L"'AMMA!iSTRAMENTO TAITICON DELLE TRUPPE

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della rivoluzione francese; il quale non copiando, come alcuni vogliono, dalla lontana America, ma seguendo il proprio istinto, il proprio slancio individuale, trova la formazione tanica più opportuna [cioè l'ordine sparso, peraltro tipico solo degli eserciti frnncesi improvvisati dei primi anni della Rivoluzione - N.d.a.l. Dopo la campagna del 1859 [ ... ] risorse in onore l'urto. Da ciò furono indotti gli Austriaci nel 1866 a cadere ne/l'esagerazione opposta, agli assalti di profonde colonne con poca o nessuna preparazione di fuoco. Dopo Sadowa [sconfitta decisiva austriaca nel 1866 di fronte ai prussiani annati di fucile ad ago N.d.a.] in Francia gli scacchi dell'offensiva [tattica] irriflessiva austriaca furono completa111e11te allribuiti alla potenza del fucile ad ago. 4

Si comincia quindi molto presto, molto prima della guerra del 1870 1871, a ridurre le cause della vittoria o della sconfitta non solo e non tanto a questioni strategiche e tattiche, ma a un'unico fenomeno: la preponderanza del fuoco di fucileria sull ' urto, o viceversa.

Il dibattito del 1873 su Vffchio ordine chiuso e nuovo ordine !!>parso

Conseguentemente agli ammaestramenti tratti dalla guerra del 1866, l'Istruzione per il combattimento francese del 1867 stabilisce che "assalire difronte e allo scoperto fanteria non scossa, e !!>pecie se coperta,fu sempre pericoloso; oggi sopralluttu con Le armi nuove ["armi nuove", già allora! - N.d.a.] il vantaggio è per La difesa. Chi percorre 300 o 400 metri sotto il fuoco, per quanto sia valoroso, si espone ad essere distrutto prima di arrivare al punto decisivo". Nel 1870 - 1871 l'esercito francese impiega anche le prime mitragliatrici; ciononostante la sua tattica difensiva, già allora basata sul fuoco, evidentemente per ragioni che esulano dal campo tattico non ha successo. Ciò non significa, dunque, che la citata affermazione dell'Istruzione francese 1867 risulti fallace. A parte il fatto che essa riceve chiara conferma molto tempo dopo, a fine 1914, anche nella guerra 1870 - 1871 per l'esercit o prussiano (il cui regolamento dichiara che "scopo principale della taflica è quello di dare La vittoria a un attacco di fanteria") non sempre sono rose e fiori: come ricorda anche il Moltke, le vittorie dovute al suo mirabile spirito offensivo sono state non di rado pagate a caro prezzo, cioè con perdite mo.Ilo elevate e con un grande, imprevi-

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ivi. pp. 14- 15.


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sto consumo di munizioni; eppure l'esercito prussiano dopo i primi insuccessi tattici , per meglio neutralizzare l' efficacia del fuoco francese ha adottato l'ordine sparso. Nei precedenti capitoU si è già visto quanto i riferimenti alla guerra 1870-1871 siano numerosi e investano soprattutto questioni di comando, strategiche e ordinative, le quali di per sé dimostrano che la chiave della vittoria prussiana non va cercata unicamente in questioni tattiche, e/o nell' ordine sparso. Meritano comunque di essere qui citate le considerazioni del generale Gerolamo Ulloa, che in una serie di articoli sul giornale Il Diritto del 1870, poi raccolti in un opuscolo tradotto anche in Francia,5 attribuisce le cause della sconfitta dell' esercito francese a una serie di ragioni, lra le quali però non casualmente manca la sua organizzazione tattica e il ricorso da parte prussiana all'ordine rado. In buona sostanza, secondo l'UJJoa i prussiani non hanno " inventato" niente di nuovo: non hanno fatto che seg uire [come se ciò fosse cosa semplice, facile, alla portata di tutti i generali! - N.d.a. I gli insegnamenti classici dell' arte militare napoleonica. In particolare i prussiani non devono punto le loro strepitose vittorie alla loro or1:aniz,zazione tattica, ché quella francese è eccellente; non alla loro bravura, ché non v 'ha soldato al mondo più bravo del _francese; non alla superiorità delle loro armi, ché se la loro artiglieria è preferibile a quella francese, i loro fucili ad ago sono molto inferiori agli chassepots; essi debbono invece i loro trofei all'abilità dei loro generali ed all'imperizia del duce supremo dei francesi [Napoleone III - N.d.a.), alla loro superiorità numerica, all 'impareggiabile loro Stato Maggiore composto di dotti ed esperti ufficiali, all'eccellente disciplina del loro esercito, alla loro prudenza ed alla perfe tta istruzione militare dij]usa tra i loro uF fi.ziali e bassi - uffiziali di tutti i gradi. 6

Dunque l'UJJoa non crede affatto che le loro vittorie siano dovute anche all ' ordine sparso, anzi: è detto che la fanteria prussiana si muove incontro al nemico quasi sempre in ordine spiegato, mantenendo una certa distanza tra i plotoni. Noi

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Cfr. Ge rolamo Ulloa, La nuova strategia e la nuova tattica prussiana, Firenze Civelli 1870 e ID., n u caractére belliqueux des Français et des leurs derniers désastres, Paris, Sandoz et Fischhacher 1872. • Ulloa, La nuova strategia .... (Cit.), pp. 25-26.


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faremmo torto ai prussiani credendo ciò; imperrucché L'ordine .\piegato è quasi sempre esclusivo alla difesa. 7

Solo in certi casi, secondo l'Ulloa, è consigliabile ricorrere all'ordine sparso: quando la fanteria "deve correre grandi spazi battuti dal fuoco dell'avversario" rma non è un caso molto frequente? - N.d.a.]; quando si vuole combattere la cavalleria con i fianchi ben protetti; "quando debbasi attaccare un 'infanteria ben portata, che sia però al coperto dal fuoco" [anche questo, non è forse un caso normale? - N.d.a.]: però anche in tutti questi casi "non si marcia con una fronte molto estesa, altrimenti la marcia sarà Lenta, perché ondeggiante e sempre pericolosa". Dopo queste indirette allusioni ai vantaggi dell 'ordine chiuso l'Ulloa sembra correggere il tiro, osservando che i prussiani certamente non ignorano che "in generale è L'uso delle diverse armi e La natura del terreno che debbono mai sempre regolare l'ordinanza dellafanteria". 8 Appunto: la fanteria prussiana avreb-

be forse dovuto attaccare in ordine chiuso? Nel suo libro tradouo in francese l'Ulloa dimentica molte critiche (giustificate) all'organizzazione militare, ai generali , allo Stato Maggiore francese, ecc., per attribuire tutte le responsabilità della sconfitta a Napoleone 111 : cosa non vera ma evidentemente molto gradita all ' establishment repubblicano francese del tempo in cu i compare in Francia il libro. Anche le "cause secondarie" da lui indicate possono alla fin fine essere ricondotte al clima dell'Impero: fiducia esagerata nel valore francese e ingiustificata sottovalutazione dell 'avversario; corruzione e favoritismi, che hanno finito col minare la nazione e l'esercito [che evidentemente non era efficiente - N.d.a.]. Con questi discutibili giudizi, l'Ulloa percorre una rotta contraria a quella comunemente seguita a suo tempo: sopravvalutazione delle ragioni politico-sociali della sconfitta francese; sottovalutazione delle ragioni tattkhe, perché è nella condotta tattica delle battaglie e dei combattimenti che si è rivelata la superiorità prussiana. Dimostrazione del fatto che raramente a una buona strategia corrisponde una cattiva tattica, o viceversa. L'Ulloa non è certo l' unico a gettare acqua sul fuoco dell'ordine sparso. Nel 1873 con argomentazioni di ben altro spessore storico e tecnico il maggiore di Stato Maggiore Orero si sforza di demolire una per una tutte le argomentazioni dei sostenitori di questo modo di combattere, polemiz-

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ivi, p. 24. IBIDEM.


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zando direttamente con il celebre Carlo Corsi,9 e negando che "la rapidità di tiro accumulata con la maggiore potenza delle nuove armi, debba necessariamente apportare, non diremo come molti pensano, una radicale modificazione del modo di combattere della fanteria, ma solo una modificazione sensibile". w In particolare, dopo aver lamentato che l'ordine sparso da questione ancora da discutere e approfondire è ben presto diventato un principio assoluto, l'Orero sostiene che nelle ultime guerre le nuove armi non hanno affatto deciso delle vittorie e sconfitte e non hanno affatto causato un maggior numero di perdite rispetto alle guerre precedenti. A suo parere dalla guerra del 1864 tra Prussia e Danimarca non è emerso che la vittoria prussiana era dovuta ai fucili a retrocarica da loro impiegati per la prima volta, mentre anche nella guerra del 1866 secondo gli scrittori più rinomati la vittoria prussiana è dovuta solo in piccola parte ai fucili ad ago. In quanto alla guerra del 1870-1871, "il vinto questa volta fu appunto chi possedeva l'arma incontestabilmente migliore in tutto e anche nella rapidità del tiro". Non è nemmeno vero che in seguito all'aumento della celerità di tiro il soldato abbia bisogno di una maggiore dotazione di munizioni: più che la celerità di tiro teorica del fucile a retrocarica si deve considerare che l'atto di puntare e sparare con il fucile richiede uno sforzo materiale, sensibilissimo, quindi nella realtà del combattimento e in condizioni psicofisiche necessariamente non ideali, il soldato può sparare al massimo 80 colpi al giorno, cifra corrispondente al munizionamento individuale di un soldato prussiano di fanteria. Sempre secondo l'Orero non è accettabile nemmeno la tesi che le perdite straordinariamente elevate della guerra 1870 - 1871 abbiano imposto un cambiamento nel modo di combattere, o che abbiano abbreviato la durata delle battaglie. Dai dati statistici sulle guerre del 1859 e del 1870 1871 risulta infatti che: - le perdite della campagna del 1859, che tenendo conto delle forze in campo avrebbero dovuto essere la metà di quelle del 1870 - 1871 , sono state invece i '/s; - le perdite del 1870 fino alla battaglia di Sedan sono state percentualmente assai inferiori a quelle delle due battaglie di Magenta e

9 Nel suo libro Tattica (Firenze, Casa Ed. Minerva 1873) e in una serie di articoli sull'Italia Militare, il generale Corsi scrive che non è più il ca~o di parlare di combinazione dell'ordine sparso con l'ordine chiuso, bensì solo dell' uso dell'ordine sparso. 10 Balda~sarre Orero, Pregiudizi tattici, in "Rivista Militare Italiana" Anno XVITT Voi. III - agosto 1873, pp. 177-2 16.


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Solferino [ma queste due battaglie molto sanguinose non dimostrano forse la necessità di cambiare tattica e formazioni? - N.d.a.]; - ciononostante, mentre la guerra del 1859 conta solo due battaglie e quattro combattimenti, nella guerra del 1870 - 1871 si contano ben 16 battaglie e 9 combattimenti; - la durata degli scontri del 1870 - 1871 non è stata minore di quella degli scontri precedenti, ivi comprese le guerre napoleoniche. Poiché l'efficacia del fuoco non è maggiore di quella di una volta, per l'Orero non vi è ragione di incoraggiare "lo Jpa,pagliamento istintivo fche si è verificato anche da parte tedesca nel 1870 - 1871 - N.d.a.l che La tattica di tutti i tempi ha sempre considerato come l'equivalente di sbandamento, in altri termini, di sconfitta". A ciò si aggiunga che vi sono anche ragioni morali che sconsigliano l' adozione deU 'ordine sparso: lo stesso Corsi accetta con parecchie riserve l' ordine sparso, ritenendolo una necessità dei tempi più che una necessità dell ' aite militare Ifrase senza senso: la necessità dei tempi si traduce automaticamente in una necessità dell'arte militare - N.d.a.]. E qui l'Orcro cita questo intcn-ogativo del Corsi: "affinché una truppa si batta è necessario o il contatto di gomiti, o quello degli spiriti. La nuova tattica fdell'ordine rado] sopprimendo il primo, avrà il potere di mantenere il secondo?". La risposta da lui data a questo interrogativo è semplice: "all'atto pratico, davanti al nemico non vi è contatto degli spiriti senza quello della materia". E quando il maggiore prnssiano Tellenbach in una memoria molto diffusa nell'esercito italiano definisce la nuova tattica come "arte di operare nelle regioni del fuoco nemico colle minori perdite possibili'', secondo l'Orero sbaglia: "questa arte di operare colle minori perdite, che è, diremmo, L'antitesi della vera arte del combattere, è generalmente oggidì scambiata con quest'ultima; da ciò i molti equivoci in mezzo ai quali ci troviamo". Segue un'esaltazione dell ' ordine chiuso che ne riassume molto efticacemente i vantaggi, mentre l' ordine sparso "non è la soluzione del miglior modo di condurre gli eserciti al.fuoco ma quello di scioglierli prima di andare a/fuoco". L'elencazione dei vantaggi dell'ordine chiuso è lunga, ma ferma restando la sua discutibile tesi dell'analogia tra efticacia delle nuove armi e quella delle armi precedenti, !'Orero non risponde a talune semplici domande: è più vulnerabile, in tutti i casi, l'ordine chiuso o l'ordine rado? come mai si è verificato nelle guerre passate il fenomeno dello "sparpagliamento istintivo?" non potrebbe essere stato tale sparpagliamento naturale ad aver ridotto le perdite nel 1870- 1871? che garanzie dà l'ordine chiuso di evitare tale sparpagliamento, visto che non l'ha evi tato in passato? in definitiva, quale dei due ordini è preferibile in vista degli sviluppi futuri delle armi, dei materiali, degli ordinamenti? anche le


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formazioni di combattimento non vanno forse valutale guardando - oltre che al presente - al futuro, più che a1 passato? Con questi limiti, i vantaggi dell' ordine chiuso indicati dall'Orero sono, in sintesi, i seguenti: - l'ordine sparso adottato dagli eserciti francesi nei primi tempi della Rivoluzione non serviva, come affermato da taluni, a preparare l'assalto alle truppe in ordine chiuso e non era un perfezionamento dell'arte di combattere. Le truppe francesi combattevano in ordine sparso perché solo in tal modo sanno combattere le formazioni improvvisate di gente armata senza disciplina; d' altro canto questa nuova tattica non ha fornito risultati tali da dover essere presa come esempio; - l'ordine chiuso va mantenuto non tanto "per amore di simmetria e di ordine", ma perché "l'esperienza di tutti i secoli ha dimostrato che senza contil(uità, senza coesione, l'istinto individuale della conservazione della vita subentra alla spinta del dovere e della disciplina, il movimento di volgere le spalle al nemico o il nascondersi riesce meccanicamente più.facile, non si è visti o si spera di non essere visti dal superiore, e salvo pochissime eccezioni L... ] L'uomo diventa di una pusillanimità straordinaria"; - diversamente dall'ordine sparso, l'ordine chiuso favorisce la comandabilità dei reparti e consente agli ufficiali di seguire anche l'azione delle unità contigue, facilitando il coordinamento e l' unità d'azione; - mentre non è possibile fissare delle regole precise per l' ordine sparso [non è sempre vero; comunque questo può essere un vantaggio N.d.a.], nel quale hanno larga parte i diversi apprezzamenti personali dei comandanti ai vari livelli, per l'ordine chiuso esistono "regole fisse e unità di direzione e di concetto"; - se - come lascia capire il Corsi - gli uomini di oggi valgono moralmente meno di quelli di una volta, anche con l'ordine sparso l' uomo compie ugualmente uno sforzo contro il suo istinto naturale. A maggior ragione, quindi, oggi risulta necessario mantenere la coesione già richiesta in passato ad elementi migliori, senza favorire la nociva tendenza allo sparpagliamento; - affermare che l'ordine sparso è una necessità dei tempi equivale a dire che lo spirito dei tempi impedisce ai nostri soldati di andare al fuoco. Se si è decisi a combattere occorre adottare non il sistema che dà minori perdite, ma quello che più probabilmente può dare la vittoria fe gli effetti morali delle maggiori perdite? N.d.a.l;


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- molti recenti scritti dimostrano che l'ordine sparso come ordine normale di combattimento è un'utopia. Gli scrittori prussiani Boguslawski e Scherff, sostenitori dell'ordine sparso, prevedono man mano che ci si avvicina al nemico il continuo rinforzo della linea iniziale di cacciatori fino a creare un addensamento tale, da essere più soggetto alle perdite di un reparto in ordine chiuso su due o tre righe. In particolare, secondo lo Scherff solo il 13% della fanteria sarebbe, a ll ' atto pratico, inizialmente spiegato in ordine sparso; - i sostenitori dell 'ordine sparso sbagliano a ritenere indispensabile per tale nuova tattica un' istruzione e un'intelligenza del soldato superiori a quelle finora richieste. In passato, quando gli eserciti erano meno numerosi e quindi più scelti moralmente e fisicamente, si chiedeva al soldato solo il coraggio e la forza. Questo vale anche oggi ; - il saper leggere e scrivere ecc. non è un requisito tale da condizionare gli alti del soldato: "è opinione generale, confermata dalla storia, che l 'azione di una massa d'uomini tolta dalla maggioranza d'una nazione 11011 1mà essere d'ordine intelleLtuale [ .. . ]. IL credere ciò possibile al fuoco ove soppiamo che anche le menti più colte perdono la gran porle dl'I loro l'Olore, pare a noi un 'utopia che fa meraviglia non si sio q/Jal'<'iata olla mente dei sostenitori dell'ordine sparso per i quali il mestiere delle armi non è cosa nuova". Queste tesi dell'Orcro sono contrastate dal capitano di Stato Maggiore Aymonino, che in un articolo pubblicalo un mese dopo dalla Rivista Militare 11, citando fonti francesi di mostra anzitutto che fin dalle guerre napoleoniche l'ordine sparso è stato di fatto la formazione normale con la quale si è iniziato il combattime nto, quindi la guerra 1870-1871 ne ha solo sancito definitivamente l'adozio ne. D'altro canto, dal 1859 al 1866 non ci sono stati fatti d'armi nei quali non s' iniziasse il combattimento con una catena di cacciatori; così è avvenuto anche nelle manovre di pace. L' Aymonino mette poi in rilievo che, come indirettamente dimostra !'Orero citando lo Scherff, la nuova tattica tende se mai a Limitare l' impiego dell'ordine sparso, che nel fratte mpo si è diffuso in tutti gli eserciti. Comunque, già nel 1853 il generale francese Rémond ha previsto l'adozione di anni a retrocarica con maggiore potenza di fuoco, che avrebbero imposto una tattica appropriata, basata su una catena avanzata di tiratori. Tesi confermata nel 1869 dallo scriuore fra ncese Maldan, secondo il quale " la guerra di cacciatori tende a diventare la modalità d 'azione normale della 11 Carlo Aymonino. l'1m11/o,Hi //Illiri, in " Rivisla Mi litare Italiana" Anno XVIII , Voi. lii • set· tembre 1873. pp. 38 1-4 I 8.


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fanteria; più di tutte le altre forme di combattimento essa consente di sfruttare il terreno e risponde petfettamente allo scopo che ci si propone, quello cioè di colpire efficacemente il nemico esponendosi il meno possibile al suo fuoco". Ne risulta dimostrato, per I' Aymonino, che "la nuova tattica prussiana, non è né molto nuova, né esclusivamente prussiana". Secondo l' Aymonino alle argomentazioni dell'Orero sulla scarsa influenza del fucile ad ago nella guerra del 1864 se ne possono opporre molte altre; ma anche se fosse vero che il fucile ad ago non ha avuto un ruolo decisivo nelle successive guerre del 1866 e del 1870-1871, questo non infirmerebbe affatto l'asserto che la maggiore intensità del fuoco esige formazioni più rade di combattimento. Infatti il valore dell'accresciuta celerità di tiro del fucile a retrocarica non è dato tanto dal numero di colpi poco aumentato - che in media spara il soldato ogni giorno, "bensì da quello stragrande che getta sopra un dato punto e in un dato momento una frazione di truppa". Questo fatto, che si desume da tutti gli studi sulla guerra franco - prussiana, "costituisce il massimo pregio della retrocarica, che ne aumenta da 1 a 5 l'efficacia, che obbliga ad adottare ordini tattici capaci di neutralizzare effetti così micidiali". D'altro canto, ciò che decide della durata delle battaglie, del loro esito e delle perdite non è l'intensità dei tiri utili (che non è una costante, ma si fa sentire solo in alcuni momenti), ma piuttosto l 'ardimento dell'attaccante e il grado di resistenza che gli oppone il difensore: "il voler dunque giudicare dell'efficacia di un fu cile dalla durata dei combattimenti non ci parrebbe un argomento calzante". L' Aymonino contesta poi la validità delle numerose statistiche sulle perdite nelle guerre passate citate dall' Orero, per dimostrare che le nuove armi non hanno affatto prodotto maggiori perdite; ma anche se questo fosse vero, proverebbe solo che "al di fuori della minore potenza distruttrice nelle armi, v 'ha un limite massimo nelle perdite, toccato il quale ogni qualsiasi truppa o si ritira o depone le armi". Con il progresso delle arnù di offesa è cresciuta anche l'efficacia dei mezzi di difesa: perciò al perfezionamento delle armi di fuoco si è cercato di rispondere con ordini di combattimento sempre più sottili, proprio per evitare di dover cedere le armi quando si raggiunge il tasso massimo di perdite; "ed è appunto per ritardare questo momento doloroso, che i sostenitori dell'ordine sparso cercano il modo di combattere colle minori perdite possibili". Del resto - prosegue J' Aymonino - gli scrittori tedeschi sono concordi nel riferire che nei primi tempi della guerra 1870 - I 871, di fronte alle forti perdite subìte per effetto degli chassepots l'esercito prussiano è stato co-


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stretto a cambiare tattica, subendo così perdite minori nel prosieguo della guerra. Ne è risultata una media generale delle perdite inferiore a quella delle più sanguinose battaglie napoleoniche: ma questo prova esattamente il contrario di quanto sostiene l'Orero, cioè che "è diventato oggidì strettamente, urgentemente necessario di adottare forme di combattimento più sciolte e meglio adatte a giovarsi dei ripari del terreno". Perciò l'affermazione dell'Orero che "la celerità di tiro influisce in proporzioni piccolissime sul consumo di cartucce e molto meno sulle perdite" va completata aggiungendo "sempreché i soldati siano istruiti a dovere nel non 3precare le munizioni e nel coprirsi dietro i ripari del terreno". Non è nemmeno vera, per I' Aymonino, l'affermazione dell'Orero che il nuovo armamento perde gran parte del suo valore se viene adottato da ambedue i contendenti. Se mai , lo stesso armamento spinge le due parti a combattere nello stesso modo: perciò sarà inevitabile l'adozione da parte di tutti gli eserciti dell'ordine rado. Le perdite non sono cresciute, solo perché gli eserciti hanno adottato delle tattiche che tengono conto dell'aumento dell'efficacia del fuoco: ma se questo non è vero, come mai i governi sono stati così ciechi da spendere milioni per dotare i loro soldati di nuovi e più costosi fucili, che a dire dell ' Orero sarebbero ancor meno efficaci dei vecchi? Va anche precisato che diversamente da quanto afferma !'Orero la nuova tattica non sopprime affatto il contatto di gomiti; le linee di cacciatori previste rimangono assai dense e tali da "impedire che lo sparpagliamento diventi l'equivalente di sbandamento". E' vero che l'ordine chiuso sviluppa tra i combattenti il coraggio dell'emulazione e facilita la comandabilità: ma tutti questi vantaggi vengono meno quando il reparto in ordine chiuso viene decimato dalle pallottole nemiche. Nessuno comunque pensa di tornare aJl 'ordine chiuso; voler sopprimere l'ordine sparso, solo perché qualche comandante non lo sa ben applicare al suo reparto, equivale a sopprimere le strade ferrate solo perché qualche volta un vagone esce dai binari. Non è nemmeno vero che mentre l'ordine chiuso si presta ad essere opportunamente regolamentato, l'ordine sparso non lo consente: in tutti gli eserciti vige un ' istruzione sulla scuola dei cacciatori, che fa parte della regolamentazione per la fanteria. Anzi, l'ordine sparso è assai semplice da teorizzare e applicare, perché si tratta pur sempre di formare una catena con i suoi sostegni: per l'ordine chiuso, invece, la regolamentazione distingue tra un ' infinità di casi e sottocasi, che poi all'atto pratico non si verificano mai. Infine l' Aymonino contesta la tesi dell'Orero che i soldati del momento sarebbero moralmente e fisicamente inferiori a quelli del passato.


IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO- VOL.111 ( 1870- 19 15)- TOMO I

Una maggior durata della ferma (oltre i tre anni) non renderebbe il soldato migliore, ma peggiore; le attuali ferme brevi sono dunque un vantaggio. La coscrizione obbligatoria fa affluire nell'esercito elementi ottimi per intelligenza e istruzione, consentendo una maggior scelta anche per le doti fisiche; per il resto, è operazione oziosa tentare di stabilire se la società passata era più virtuosa di quella presente. Una cosa è certa: "la tattica, assolutamente inevitabile, del combattimento in cacciatori, esige nella massa un addestramento assai più accurato che per il passato, nel modo di condursi al.fuoco". Per mandare al fuoco sufficientemente preparati i battaglioni di oggi, bisogna bandire le istruzioni che in guerra non servono e curare lutto ciò che sviluppa la personalità del soldato, perché l'azione individuale ha acquistato sul campo di battaglia un ' importanza pressoché pari a quella collettiva della massa. Dopo quello dell' Aymonino la Rivista Militare pubblica un articolo a firma P., 12 nel quale se ne contestano le conclusioni, "trovando strano" che ufficiali di merito e stimati sostengano "una generalizzazione dell'ordine rado, con uno !lparpagliamento eccessivo, dannoso in pratica, e che non a torto potrebbe quasi qualificarsi l 'Arte di nascondersi". D'altro canto P. pur lodando !'Orero è ben lungi dall 'ammetterne le conclusioni, a cominciare dalla scarsa influenza del nuovo armamento. La sua è una linea intermedia, nella quale l'ordine rado ha un ruolo marginale: l'ordine rado non potrà mai essere l'ordine normale di combattimento della fanteria; esso è sempre stato e sempre sarà l'ordine di ~tfrontamento iniziale della lotta e direi quasi preparatorio al vero combattimento, il quale si effettua in ordine sottile, chiuso o contiguo che dir si voglia, piegato ben inteso al terreno; l'ordine rado è ordine di sicurezza e d 'esplorazione delle colonne e Linee che stanno dietro, le quali per combattere a tempo debito si disporranno in ordine sottile piegato al terreno.

ln sostanza, per P. il "vero combattimento" si effettua in formazioni chiuse, anche se poco profonde e "a forma di bande o stormi". Non appare chiaro, però, come si possa tener conto del terreno con siffatte formazioni; né come sia possibile evitare perdite eccessive, visto che "l'ordine rado non è una necessità dei tempi ma è la buona tattica del passato, re-

12

P., Ordini della fanteria nel campo dell'azione /atlica, in "Rivista Militare llaliana" Anno pp. 43-6 I.

XVTTT Vo i. fV - ottohre 1873,


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sa obbligatoria al presente dal fu cile a retrocarica; questo da vicino cagiona delle perdite triple o quadruple di quelle che in un medesimo tempo produceva i/fucile a retrocarica ... ". Par di capire c he adottando all'inizio del combattimento l'ordine rado P. inlcnda cvi1arc p •rditc 1roppo gravosl', guadagnando il tempo necessario pe r complclarl' gli aggiraml'11li, 1u:11l1 a lizzare il più possibile con l' arli glieria le dil'1.·M' 1w111irlw 1wl p111110 o 111·1 punti decisivi e concc111rarc conlro di 1.·ssl' tt1/1111•11t1· ·' "''1•1r·lii111,1i, che nonostante le nwP,giori ,,orlite c11i si w, i11n mf,r1, du11111 1w1 1111(/11 ,,,,. no guarentigia di vittoria". Queste fo111.· 1i1111111d1hn11 111 111dllh' ( l11w,u, perché anche P., come l'Orcro. ri1i1.·111.· imlisp1·11,u h1k dw lu 1111pp11 , 11111111 ga sotto lo stretto controllo degli uffil· iali . 1.·os11 r hr 111111 " pun 011 r 1w1r ", fl/ soverchio ~parpagliamenlo in lerre11i 1·01><·rti ,('(11/u g1•111·11,/1,, 11;ifl111' ,/,•/ l'ordine rado, colle famose catene di cm·,·it110, i. 11/'gn. im11• ,ll'I 1•,·m 1·0111 battimento". Inoltre con l' appl icazionc cccc:ssiva dl'I 1· 01 ditw rado i hai Iu glioni si diradano su aree e fronti troppo cslc~i. 111rn pw.sono 11i.11111.: 111:1l'. ri serve sufficienti e non dispongono deJle forze n1:,1:ss:iru.: per L'O tnptcrc 1111) vimenti aggiranti_ Riguardo alla guerra 1870-1 87 1, P. am1m:llc che I p1 ussia11i hanno di mostrato di essere superiori ai frances i nella "gtal/ /attira" ; c inì" 11clla manovra di grandi masse sul campo di battaglia; ma nel campo della " tJil'rnla tattica" è tra i pochi a ritenere che i francesi si sonu dimoslrnti superiori ai prussiani. A quest'ultimi addebita piuttosto

·:t,,, :,·

la insistenza nel voler procedere offensivamente e di Jirmt,• rn11tm JJO.l'izioni in terreno collinoso, senza prima preparare l 'allacco m l Jim,·o delle artiglierie, la sconnessione negli assalti fatti dalle r·o111pag11ie di troppo abbandonate all'iniziativa dei loro comandanti, il 11011 voler attendere il compimento e gli ej}etti delle mosse aggiranti, prima di pa.l'sare dai semplici affrontamenti ai veri attacchi.

Pertanto, questa tattica per P. non merita di essere tanto decantata e di essere imitata in Italia. In un successivo articolo anch'esso a distanza di un mese il capitano Moreno in certo senso chiude il dibattito, dando ragione più ali' Aymonino che all'Orero e a P.'3 All'Orero riconosce il merito di aver ricordato il peso della tradizione e del passato, la necessità di tener conto del grado di educazione generale e militare del nostro soldato in relazione alla brevità della "Gennaro Moreno. Ancora sulla que.~rione de/l'ordine rado come online di comballimenro, in "Rivista Militare Italiana" Anno XVIII Vo i. IV - novembre 1873, pp. 227-241.


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ferma, gli inconvenienti derivanti dalJ'eccessiva tendenza al frazionamento e alla responsabilità individuale. Gli contesta, però, il carattere troppo assoluto delle sue tesi, che ha dato modo ali' Aymonino di confutarle e ritorcerle contro di lui. Il dibattito tra questi due autori, comunque, "ha messo in evidenza due scuole, la prima che ha maggior numero d'adepti di quello che ne mostrino gli scritti, l'altra che conta nelle sue file ingegni più giovani e più operosi; l'una perde terreno ogni giorno ed è perciò destinata a perire, l'altra ne guadagna sempre ed ha per sé l'avvenire". A quale delle due scuole intenda aderire il Moreno lo dimostrano quest'ultime parole e anche le argomentazioni con le quali ribatte alle critiche di P. all'ordine rado, partendo da due premesse generali. 1. L'efficacia, la rapidità di tiro e la gittata delle armi al momento in uso non consentono più a un reparto di attraversare senza gravi perdite la zona battuta dal fuoco nemico. L'unica formazione che evita questo, e al tempo stesso consente di sviluppare la massima azione di fuoco lontana per preparare l'attacco, è l'ordine rado. 2. L'efficacia del fuoco è tale, da impedire a un reparto che già si trovi ne!la zona battuta di manovrare, pena la disorganizzazione. Quindi all'inizio del combattimento bisogna impiegare il minor numero possibile di forze, rafforzandole successivamente ove sarà necessario e tenendo alla mano un buon numero di riserve per farle entrare in azione là ove si intende esercitare lo sforzo decisivo o opporsi a quello nemico. Solo l'ordine rado, scaglionato in profondità in successivi nuclei, fornisce questi vantaggi. Orientamenti, come si vede, antitetici rispetto a quelli di P. e sotto certi aspetti ancor più decisamente favorevoli all'ordine sparso di quelli del1' Aymonino. Il Moreno, perciò, critica aspramente le idee di P., che vorrebbe far attraversare ai battaglioni in gran parte in ordine chiuso proprio gli ultirrù 500 metri dell'attacco più soggetti al fuoco nemico (che pur chiama "dominio della morte", senza spiegare bene come si possa sfruttare il terreno con le predette formazioni in ordine chiuso). Non è nemmeno accettabile, per il Moreno, che in attacco la linea avanzata di cacciatori prevista da P. debba subordinare la sua azione a quella del grosso, il cui impiego può avvenire solo quando e dove la predetta linea di cacciatori lo ha reso necessario; né è vero che le formazioni in ordine rado previste non consentano ai capitani di controllare la compagnie, o che i battaglioni occupino spazi eccessivi. Come sempre accade, al di là di queste opposte idee finisce con il prevalere una linea intermedia, che ad esempio si trova in un testo del 1873 del maggiore Ottolenghi per gli allievi della Scuola Militare di


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Modcna.14 Come si nota anche nella recensione dell 'opera sulla Rivista Militare 15 , [l'Otlolenghi] è trascinato ad ammette re come inevitabile il combattimento in ordine sparso; ci sembra tuttavia che attribuisca soverchia importanza alle masse e af?li alti in ordine chiuso. Gli dà non Lieve pensiero il pericolo che si nasconde nello sparpagliamento, nell'azione individuale troppo pronunciata, nello scioglimento dei legami tattici. E siffatta ap11rensione, sotto un certo punto di vista, è ben ragionevole, ed è condivisa da quasi tutti gli odierni scriuori di tattica.

Anche a proposito della difensiva e dello sfruttamento del terreno le idee dell ' Ottolenghi sono assai prudenti e dominate dalla necessità che le truppe non perdano mai lo spirito, l'atteggiamento offensivo. Scrive perciò il recensore che il terreno è l'elemento del quale così l'attacco come La difesa devono trar consiglio. Esso ha grande importanza, ma non conviene attribuirgliene soverchia, giacché anche la difesa deve essere sempre attiva. 1:; diciamo sempre , sebbene l'autore dica in un punto neUa maggior parte dei ca i, perocché in a ltri punti e perfino dove parla della fortificazione campale considerata quale correzione del terreno, spicca ben chiaro codesto concello offensivo, onnai liberato dalle nubi nelle quali L'avevano a vvolto i teorici, onnai adottato come principio fondamentale della tattica e della strategia.

In sintesi, nel 1873 in Italia l'ordine rado, i cui vantaggi risultano ben chiari dall'applicazione che ne hanno fatto i prussiani nel 1870 - 187 L tarda a decollare, ad essere da tutti accettato; molti lo accettano con riserva e con molti distinguo. Un modo come un altro per non accettarlo, anzi per favorire soluzioni confuse, perciò assai poco utili.

Prime idee sul ruolo e L'avvenire delle mitragliatrici: e il reticolato? Come si è visto, il fucile rigato a retrocarica è stato protagonista assoluto della guerra 1870- 1871. Gli viene attribuita una grande potenza di 14

Cfr. Giuseppe Onolenghi, 'làttica e op erazioni speciali (2 Voi.), Mode na, Tip. Sociale 1873. ln "Rivista Militare Italiana" Anno XVIII Voi. Il . aprile 1873 (pp. 156-60) e giugno 1873 (pp. 478-480). 15


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fuoco: eppure in questa guerra i francesi disponevano anche di un buon numero di mitragliatrici, già impiegate nella guerra di secessione americana. 16 Essi sostituivano addirittura una delle tre batterie divisionali di artiglieria con una batteria di mitragliatrici, ma i risultati ottenuti non sono stati affatto confortanti; nonostante la loro elevata celerità di tiro, le nuove armi automatiche non hanno giovato molto alla tattica francese, pur basata sul fuoco e sulle posizioni. 11 loro modesto rendimento è del resto ampiamente prevedibile: si tratta di armi allo stadio iniziale del loro sviluppo e soggette a frequenti guasti, che i Quadri devono ancora imparare a conoscere e impiegare_ Comunque, fin dal 1871 compaiono in Italia degli studi che ne valutano le caratteristiche, le modalità d'impiego più appropriate e le possibilità future. Il Giornale d'Artiglieria 1871 (Parte Il" - Puntata 6") riporta I' Istruzione sul servizio delle mitragliere francese applicata durante la guerra, che è stata rinvenuta dai prussiani nel cofano d' avantreno di una mitragliatrice francese catturata. Secondo tale istruzione le mitragliatrici debbono hattere bersagli in zone che non possono essere raggiunte né dal fuoco della fanteria né dal tiro a mitraglia dell ' artiglieria. La distanza di tiro più favorevole è compresa tra 1400 e 2000 metri, tenendo presente che " l'impiego delle mitragliere non consiste nell 'aumentare senza risultato utile le perdite del nemico, bensì nel produrre mediante effetti decisivi e immediati, una influenza pronta e viva sul morale delle truppe" . Per ottenere i1 massimo rendimento del fuoco bisogna impiegarle a massa. La batteria di mitragliatrici divisionale ha i1 compito di intervenire contro truppe allo scoperto, mentre le altre due batterie d' artiglieria devono distruggere gli ostacoli materiali dietro i quali si ripara il nemico. In ogni caso le mitragliatrici devono prendere posizione al di fuori del tiro di fucileria; " il portarle sotto il fuoco della fanteria sarebbe cambiare affatto il loro compito, porle in condizioni difficili e farle andare incontro a una fine certa". Non appena prendono posizione, le mitragliatrici devono essere interrate e opportunamente mascherate. Particolarmente vantaggioso è il loro impiego nelle opere di fortificazione campale, dove l'arma e i serventi sono al riparo. L'Istruzione francese esclude recisamente la convenienza di farne una sorta di artiglieria reggimentale: "grazie alle nuove armi portatili il fuoco

Cfr. anche, in merito, il Nostro u, 11uerra civile americana del 1861- 1865 e la guerra ilpano - americana del 1898: valutazioni e ammaestramenti nel pensiero m ilitare italiano coevo (in Atti del XVlll Congresso internazionale di storia militare, Roma, Ufficio Storico Marina Militare 1993, pp. 473-501 ). 16


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della jànteria, entro i limiti del suo tiro utile, è molto più micidiale di quello dell'artiglieria. In questi limiti, poco aggiungerebbe l'artiglieria [reggimentale] alla potenza della fanteria". Bisogna anche tener conto che le mitragliatrici non hanno lo stesso grado di mobilità della fanteria, quindi la loro assegnazione alla fanteria stessa ne ostacolerebbe la qualità più importante, che è appunto la mobilità. Inoltre, se le mitragliatrici fossero assegnate alla fanteria sarebbero obbligate a sparare più da vicino, con i relativi inconvenienti. La chiusa dell'Istruzione francese è alquanto ottimistica, anche se precorre il grande rendimento della nuova arma nella guerra 1914 - 1918, a questo punto non inaspettato: un compito importante è assegnato alle batterie [mitragliatrici] di riserva. Più batterie dirette in un determinato istante sul punto principale del campo di battaglia, possono en un tour de main rompere qualsiasi resistenza. e decidere della sorte di una giornata campale. Nessuna truppa scoperta può in alcun modo resistere alla enorme quantità di proiettili coi quali può essere coperto lo spazio entro 2000 metri. Ed è verosimile che le truppe, le quali abbiano provato su sé stesse la potenza della nuova artiglieria [ ... ] non cercheranno di proseguire un inutile combattimento, e deporranno le armi.

Segue un' esagerata valutazione delle future possibilità dell'arma, peraltro frequente per tutti i nuovi sistemi d'arma: "la mitragliatrice farà perciò più facilmente dei prigionieri che delle vittime, e nonostante la sua apparenza micidiale, avrà per risultato di por termine a una guerra con minor spargimento di sangue". Fatto da rilevare, subito dopo questa Istruzione il Giornale di artiglieria riporta una descrizione della mitragliatrice bavarese Feldl, adottata per la guerra 1870 - 1871 e poi abbandonata, evidentemente perché non ha dato buona prova. Colpiscono i pesi assai elevati dell'arma: la mitragliatrice con affusto pesa 437 Kg, completa con due serventi sul cofano 1250 Kg, con tutte le munizioni e 5 serventi sul cofano 1995 Kg. Anche l'esercito russo, secondo lo stesso Giornale, ha adottato un tipo di mitragliatrice Gatling perfezionato dal generale Orloff, che per il suo trasporto richiede un attacco a 4 cavalli. Nello stesso anno 1871 compare il primo articolo originale di un autore italiano sulle mitragliatrici, dovuto al capitano d'artiglieria Dolci.17 17 C. Dolci, Co11.siderazioni sull'adozione e impiego delle mitragliere, in "Rivista Militare Ilaliana" Anno XVI Voi. II - giut,'TIO 187 1 - pp. 393-400.


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Dissente dall'Istruzione francese soprattutto sul loro ordinamento tattico, né accenna al loro impiego fuori dal raggio d'azione del tiro di fucileria. Definisce la mitragliatrice" un nuovo strumento di guerra che compendia in sé tutti i progressi della meccanica applicata alle armi e ha lo scopo di gettare una grande quantità di proiettili di piombo ad una distanza superiore a quella a cui giungono la mitra,?lia lanciata dai cannoni e le pallottole dei fucili". Deve esercitare la sua azione principalmente " contro truppe che fossero così distribuite da dar poca presa alle granate dell 'artiglieria e sostituire e moltiplicare i fuochi di fucileria nelle fasi più vive e più decisive dei combattimenti". Si pensa inoltre di impiegarla "nella difesa di passaggi, di fossi, di fortificazioni, delle breccie, e nel coronamento di una posizione che interessasse conservare e contrastare, e tutte le volte infine che non vi sia d'uopo di tiri aggiustati all'indirizzo di piccoli obiettivi o di bersagli resistenti". Ciò premesso, il Dolci accenna al forte divario tra le brillanti prestazioni in poligono dell'arma e quelle in combattimento, assai minori. Il suo rendimento in guerra è inoltre ostacolato dai troppo frequenti guasti dovuti a11a complessità dei suoi meccanismj, Ja cui costruzione richiede estrema precisione; comunque, è un fatto che i principali eserciti stanno sperimentando la nuova arma e molti l'hanno già adottata. In definitiva, anche se le mitragliatrici non sono riuscite ad impedire la sconfitta francese godono tuttora di molta fiducia: ciò significa "che esse hanno qualità reali che la guerra non ha smentite e che può essere vero fino a un certo punto e sotto un certo aspetto che esse riempiono una lacuna che esiste fra il cannone e il fucile e che tolgono quella soluzione di continuità che distacca l'uno dall'altro." Il Dolci compie poi un confronto tra i due principali tipi di mitragliatrice disponibili (l'americana Gatling a ripetizione automatica ma con meccanismi più delicati, e la francese Montigny - Cristophe a 37 canne con fuoco a salve, arma più rustica), senza però pronunciarsi in forma definitiva a favore di una delle due. Auspica comunque che l'arma prescelt a sia prodotta con le relative munizioni in Italia, onde evitare gli inconvenienti derivanti dall' acquisizione di materiali d'armamento all'estero (costo presumibilmente maggiore, pericolo di rimanerne sprovvisti propri o nei momenti di maggior bisogno, ecc.). Secondo il Dolci la soluzione ordinativa francese va scartata, perché ha portato alla diminuzione del numero di bocche da fuoco delle batterie a tutto vantaggio dell'artiglieria prussiana, risultata superiore anche per questo motivo. Ritiene sconsigliabile anche riunire le mitragliatrici in batterie di 4 o 6 armi, che potrebbero essere ben utilizzate solo .n circo-


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stanze eccezionali, e se non riuscissero subito a distruggere l'artiglieria nemi ca, sarebbero troppo esposte al suo fuoco. L' unica soluzione è aggiungere due armi alle batterie di artiglieria, però senza diminuire il numero dei cannoni come hanno fatto i francesi. Un'arma sarebbe in prima linea pronta all'azione, l'altra in riserva e in grado di sostituirla subito in caso di inconvenienti. Oltre ai vantaggi dell' appoggio reciproco, le mitragli atri ci affidate ali' artiglieria troverebbero nelr organizzazione delle batterie tutto il supporto logistico necessario, a cominciare dalle riparazioni, dai trasporti ecc ... Nulla da dire sulle soluzioni prospettate dal Dolci; i tempi non erano ancora maturi (basti pensare al loro peso) per dare le mitragliatrici in dotazione alla fanteria, oppure per riunirle in reparti autonomi . L' unica cosa da osservare è che esse, tanto più con le modeste prestazioni del tempo, non erano certo in grado di dividersi i bersagli con l'artiglieria, di coordinare il loro impiego con l'artiglieria stessa ecc .. Con il continuo aumento della gittata e potenza dell'artiglieria, poi, tale impiego sarebbe diventato sempre meno praticabile, mentre la riduzione progressiva del peso dell'arma l'avrebbe avvicinata alla fanteria. Ancor più interessante e originale di quello del Dolci è un articolo del tenente austriaco Kefer con annotazioni del capitano Brunner, direttore della rivista militare austriaca, riportato dalla successiva puntata 10• Parte II del Giornale di Artiglieria. Anche il Kefer, come il Dolci, disapprova l'ordinamento tatLico previsto dalla citata Istruzione francese e non ritiene conveniente assegnare le mitragliatrici alla fanteria. Colpisce la composizione di una batteria mitragliatrici su 4 armi da lui indicata: 2 ufficiali, 7 sottufficiali, 66 militari di truppa, 4 carri per le mitragliatrici, 5 per munizioni elogistica, 9 cavalli da sella e 40 da tiro e riserva. La batteria di 4 armi viene ritenuta dal Kefer più che sufficiente per realizzare la massa di fuoco. L' impiego delle armi nell 'attacco da lui previsto è molto più spregiudicato e moderno di quello dell' istruzione francese: "la batteria mitrag liatrici tenta dapprima di togliere al nemico le sue posizioni più avanzate; quindi, dopo che l 'Artiglieria abbia indebolito l'efficacia del fuoco avversario, si slancia con energia, il più delle volte contro un fianco, ovvero contro il centro, per cacciare definitivamente il nemico anche dalla posizione più importante". U loro ruolo è importante soprattutto nella difesa di trinceramenti e particolannente presso il corpo di truppe principale, per dominare gli accessi alla posizione, sopratlutto sui fianchi delle linee di fanteria, [amicaJ. e colà dove questa dovrà rompere il nemico col suo fuoco in


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massa al fine di passare in seguito all'offensiva. Un_fuoco ese,?uito con calma alla distanza di 800 passi arrecherà il più delle volte tali perdite al nemico eh'esso dovrà rinunciare ad avanzarsi.

Gli obiettivi alle maggiori distanze sono battuti dall'artiglieria; le mitragliatrici intervengono "solo quando viene affievolendosi l'efficacia dei cannoni innanzi al fuoco di fanteria". Il loro compito è "di riparare a questo difetto, e di subentrare ai cannoni nel tiro a mitraglia". Una norma da seguire costantemente, infine, è di mantenere le mitragliatrici occultate e mascherate fino al momento di entrare in azione. Dal canto suo il capitano Brunner sottolinea che il fuoco di una mitragliatrice può sostituire quello di 96 soldati di fanteria, quindi essa "rappresenta fuoco d'insieme di fanteria da uno spazio ristretto". In secondo luogo, più a torlo che a ragione ne esalta oltremodo la mobilità, che a suo giudizio eguaglierebbe addirittura quella della caval1eria, fino a farle assumere "le proprietà di una fanteria a cavallo nel miglior senso della parola". Di conseguenza essa verrà impiegata "ogni qual volta si abbia bisogno di fuoco d'insieme di fanteria in posizioni di spazio limitato (come piccole località, strette, trinceramenti, piccole alture ecc.), ovvero si debba eseguire lo stesso fuoco contro masse di fanteria che si avanzano improvvise e rapide". Molto fruttuoso anche il suo impiego nell' attacco e difesa di fortificazioni; sul piano generale, dunque, quest'arma consente di "trasportare colla celerità della Cavalleria in parte Lontana del campo di battaglia un fuoco in massa di fanteria improvviso e concentrato su uno spazio ristretto". La sua mobilità può inoltre essere aumentata rendendola semovente, cioè " in grado di venire impiegata anche senza che i serventi ne scendano e stacchino l'avantreno, ossia rhe questi siano in grado di caricare, puntare e far.fuoco colla mitragliera riunita all 'avantreno, e rimanendo seduti''. Se una divisione dispone di una sola batteria mitragli atric i, conviene mantenerla accentrata nelle mani del comandante divisione; se le batterie sono due o più, possono essere mantenute ugualmente accentrate o anche decentrate alle brigate. Segue un altro concetto innovativo, accompagnato però da una valutazione errata dell 'efficacia del fuoco di artiglieria: il massimo pericolo per le mitragliatrici è rappresentato dal fuoco di fucileria, "giacché esse non sono fatte per essere impiegate sotto il fuoco dell 'artiglieria". Il Brunner, perciò, propone che "siano adaltate anche alle mitragliere delle piastre d 'acciaio della grossezza di due linee (millimetri 4,4) come riparo dai tiri di fucileria, collocandole fra le ruote, in corri~pondenza dei pit:t:oli cofani di sala, e t:ià al fine di rendere per quanto possi-


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bile sicuri i serventi che agiscono rimanendo seduti, e coprire relativamente meglio anche i cavalli''. Un altro articolo di fine 1871 , dovuto al tenente d'artiglieria Veratti, è interessante solo per l'accurata descrizione dei tipi di mitragliatrice adottati dai principali eserciti. 18 Riguardo al loro impiego tattico il Veratti non dice niente di nuovo, anzi cade in contraddizione. Riconosce che sono molto efficaci specie nella difensiva e contro masse di truppe allo scoperto, quindi "i loro vantaggi uniti a quelli delle altre armi rendono formidabile l'azione", fino a far prevedere che "nelle guerre future il loro ragionato impiego porterà peso nella bilancia della vittoria". Peraltro osserva che "la loro applicazione è limitata, specialmente nella tattica attuale, in cui si combaue molto in ordine sparso e si utilizzeranno tutti gli accidenti del terreno per farsi schermo ai colpi nemici" [se è così, come potranno le mitragliatrici "portare peso sulla bilancia della vittoria?" - N.d.a.]. Oltre a non fornire il rendimento sperato dalla patte francese, nella guerra 1970 - 1871 l'esercito bavarese vittorioso impiega le mitragliatrici, per poi radiarle: è questo il fatto saliente sul quale meditare, mettendolo a confronto con le opinioni prima esaminate. La constatazione che ne deriva è semplice: già nel 1871 la gamma d'impiego della nuova arma viene pressoché per intero esplorata, ivi compreso il suo rendimento - unanimamente ritenuto elevato - nella difesa e in trincea. Si potrebbe anzi dire che le caratteristiche negative dei primi modelli - il peso elevato, la scarsa mobilità (su carri trainati da cavalli), la forte vulnerabilità, la scarsa rusticità, sono sottostimate. E il reticolato? Nella sua Storia politica del filo :.pinato 19 Oliver Razac descrive molto bene il largo ricorso al filo spinato (brevettato nel 1874) per recintare proprietà e pascoli nella conquista del West tra il 1860 e il 1870, ma non accenna al suo impiego in campo rnilitarc nella guerra di secessione americana 1861 - 1865. Cosa che di primo acchito sembra un po' strana, perché normalmente si sfruttano in campo militare tutti i ritrovati civili di qualche utilità, e il filo spinato aveva appunto dimostrato il suo valore impeditivo. Il Razac è comunque indirettamente smentito dal Marselli, che fin dal 1868 a proposito del futuro impiego della cavalleria sul campo di battaglia prevede che la protezione delJe fortezze assediate contro le 18 Gualtiero Verani, Le mitragliatrici, in "Rivista Militare Italiana" Anno XVI Voi. IV - dicemhre 187 1, pp. 412-431. 1 • Cfr. Olivier Razac, Storia politica del filo spinalo, Veron:i, Omhre Corte I 87 1.


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avanguardie nemiche, anziché con la cavalleria "sarà incomparabilmente meglio conseguita col filo elettrico, del quale è a fare come gli Americani un uso grandissimo negli assedi''.w Nella guerra di secessione, dunque, risultano già impiegali non solo dei semplici reticolati, ma anche dei reticolati elettrici. Il Razac afferma che "l'uso della rete di fil di ferro come difesa accessoria è menzionato fin dalla guerra franco - prussiana del 1870. Rapidamente se ne parla nelle opere di tattica e nei bollettini pubblicati dal Ministero della guerra. Tuttavia non si tratta ancora di filo spinato, ma di un semplice filo liscio... ". 2 1 Salvo errore, nelle opere di tattica italiana da noi consultate e negli articoli delle riviste non abbiamo trovato alcun accenno al filo spinato: da ricordare comunque che il generale belga Brialmont, citato dal Razac, nel 1878 afferma che l'importanza delle difese accessorie, lungi dall'essere diminuita, è fortemente aumentata. E' per questo che la fanteria deve essere munita degli strumenti necessari per creare questi tipi di difese; e poiché Le reti di fil di ferro sono una delle più efficaci e facili da approntare, sarà utile che i battaglioni carichino sui loro carri qualche rotolo di queste difese.

La mancata o insufficiente valutazione delle possibilità del reticolato contrasta con la precoce importanza attribuita alla mitragliatrice: c'è una spiegazione? L'unica ipotesi che si può formulare, è che il reticolato in campo aperto significa difesa fissa e passiva, e ostacola anche il contrattacco. Negli autori fin qui esaminati, invece, prevale il concetto della "difesa attiva", della difesa intesa solo come atteggiamento tattico temporaneo, in attesa del contrattacco. Diverso è il caso de11a mitragliatrice, ritenuta molto utile anche nell 'attacco. Si può quindi ritenere che il reticolato è un mezzo non in armonia con il concetto di difesa più in auge subito dopo la guerra franco-prussiana; forse questo spiega anche l'accenno del Marse11i all'utilità de] reticolato, ma solo per Ja difesa delle piazzeforti, non per guarnire le trincee in campo aperto.

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Botti. La guerra civile americana 1861-1865 e la guerra ispano-americana (Cit.). pp. 476-

21

Ra7--8.C,

477. Op. cii .• l'· 29.


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SEZIONE II -Dalla guerra franco-prussiana a fine secolo XIX: l'ancor troppo discussa importanza della trincea e dell'ordine sparso a fronte dell'introduzione delle armi a ripetizione ordinaria e automatica

Pro e contro la trincea e la vanghetta Il valore delle posizioni, la convenienza di rafforzarle, i lavori di fortificazione campale non escono certo vincenti dalla guerra franco - prussiana. Tuttavia, per proteggersi dall'accresciuta efficacia del fuoco oltre all'adozione di idonee formazioni non vi sono - da sempre - che altri due mezzi, uno naturale (l'interramento parziale o totale e lo sfruttamento e/o il potenziamento degli ostacoli naturali) e l'altro artificiale (vari sistemi di corazzatura delle armi e/o dei singoli soldati). E' quindi prevedibile che a distanza di alcuni anni dalla guerra franco-prussiana, e anche dopo l'esperienza della guerra russo-turca del I 8771878, si cominci a discutere dell'utilità o meno delle trincee e del modo di costmirle, magari con attrezzi individuali. Per altro verso, l'importanza della trincea e della vanghetta individuale non si rivela certo dopo il 1870; a parte il molo fondamentale dei trinceramenti nella guerra d'assedio dei secoli precedenti, Napoleone tra gli oggetti di equipaggiamento dai quali non deve mai separarsi il fante ha indicato appunto "l'attrezzo da pioniere". Anche ne11a guerra di secessione americana 1861-1865 si ricorre largamente allo scavo di trincee e alla predisposizione di ostacoli di vario genere per l'attaccante, dando origine a una guerra di trincea in anteprima, nella quale uno dei corollari dell'organizzazione difensiva è stata l'adozione della vanghetta individuale Bentham, quale strumento che, al bisogno, facilitava il rapido interramento della fanteria. In Europa il Marselli fin dal 1868 trae da tale guerra l'ammaestramento che "uno degli elementi che crescerà per importanza sarà per fermo la fortificazione passeggera". Anche il generale belga Brialmont, riconosciuto maestro della fortificazione, nella sua citata opera del 1878 La fortification du champ de bataille ritiene necessario un largo ricorso della fanteria ad ostacoli artificiali, perciò a suo parere il fantaccino dovrebbe essere armato, oltre che di fucile, di un badile o zappa. Tra il 1870 e il 1880 i principali eserciti d ' Europa (Francia, Germania, Russia, Austria, Belgio, Danimarca) adottano uno strumento portatile da zappatore (vanghetta Linneman); ma nell'esercito italiano intorno al 1982 non si è ancora deciso nulla, anche se l'adozione della vanghetta viene definita "una questione ur,?ente".


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Riconoscere l'importanza della trincea non significa, però, riconoscere automaticamente anche l'utilità della vanghetta individuale: la vanghetta aiuta, ma per lo scavo rapido di trincee vere e proprie occorrono dei badili e delle gravine, che in quei tempi solo i reparti del genio hanno in dotazione. In un articolo del 1878 il colonnello del genio Massari dimostra che con le nuove am1i la trincea rende la difesa di gran lunga superiore ali' attacco: infatti l'attaccante è costretto a percorrere 500 metri in terreno scoperto con perdite di circa il 50%, mentre la difesa subisce perdite molto minori. 22 Tesi improntata a una logica semplice, confermata nel 1914 - 1918: ma per il resto il Massari risente dei pregiudizi del tempo e non è particolarmente acuto. A suo parere le trincee vanno scavate solo per rafforzare una posizione già forte per natura, perché non possono dare carattere difensivo a una posizione che non ne possiede i requisiti [ma è sempre possibile scegliere una posizione? - N.d.a.l. Servono per collegare tra di loro altre posizioni già ben difese del campo di battaglia, e solo eccezionalmente per proteggere dal tiro nemico Je seconde linee (al contrario, il Marselli ritiene che è proprio questo il compito preferenziale della trincea). Per lo scavo di una trincea taluni ritengono sufficienti 25-30 minuti, ma il Massari è più realista e indica un tempo di 7-8 ore, ivi comprese le operazioni preliminari di preparazione del lavoro (definizione del tracciato ecc.). Il tempo dipende anche dagli attrezzi disponibili; ma iJ Massari non ritiene conveniente gravare ulteriormente il già pesante equipaggiamento del fante (26 Kg) con una vanghetta del peso di 2 o 3 Kg, oltre tutto inutile per trincee e lavori di qualche rilievo e al momento adottata solo dall'esercito danese e dai cacciatori prussiani. Premesso che non si può contare sugli zappatori del genio, per lo scavo di trincee a suo parere bisogna utilizzare gli attrezzi del parco del genio di corpo d'armata, che però nell'ordine di marcia normale al momento in vigore segue le divisioni e quindi può mettere a disposizione dei reparti più avanzati il suo materia le con eccessivo ritardo. La discutibile soluzione da lui indicata non consiste nel dare in dotazione per esempio ai battaglioni o ai reggimenti un certo numero di badili e gravine, ma nello spostare più avanti nell' ordine di marcia i carri del parco del genio, tra le due divisioni o tra le due brigate di testa; in tal modo i reparti avanzati avrebbero più prontamente a disposizione gli attrezzi. Anche così, con gli attrezzi disponibili è possibile far lavorare contempora-

22 Michele Massari, Le trincee di ba11aglia, in "Rivi, 1a Mili1u1 .: l1 uli111111" i\11110 XX III Voi. II aprile I 878, pp. 65-83.


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neamente solo 386 coppie di lavoratori per uno sviluppo frontale di 1140 m (la metà della fronte normale di un corpo d'armata), quindi - con le complicazioni e le perdite di tempo che è facile immaginare - egli propone che a metà lavoro, i reparti che si trincerano passino gli attrezzi ad altri, con un ritardo ottimisticamente calcolato in un' ora e mezza. Quattro anni dopo il problema della trincea e della vanghetta individuale torna in campo persino in Parlamento. Nella tornata dell' 11 maggio 1882 del dibattito alla Camera sull'ordinamento Ferrero l'onorevole Pandolfi, già ufficiale del genio nelle guerre d'indipendenza, trae spunto dall'accresciuta potenza del fuoco di fucileria (e solo di questo) per sostenere l'opportunità di portare da 10 a 12 i corpi d'armata, però senza aumentare l'artiglieria e senza aumentare la forza di pace delle compagnie a 250 uomini, come sostenevano alcuni. Per il Pandolfi, addirittura "il primo effetto del fucile a retrocarica è stato quello di aumentare, al di là di ogni previsione, l'importanza della fanteria e diminuire di altrettanto l'importanza dell'artiglieria (sic). La qual cosa ci deve essere di conforto. Ed in.fatti l'artiglieria è l'arma più costosa ... ". I fuochi rapidi e lontani della difesa hanno reso necessario adottare l'ordine sparso già a due chilometri di distanza dal nemico; e poiché con questa formazione diventa più difficile mantenere la coesione e la regolarità dei movimenti dei reparti, non è possibile aumentare il numero dei soldati nelle compagnie, senza aumentare il numero degli ufficiali . Al tempo stesso, "dalla efficacia dei tiri a grande distanza deriva la necessità dei trinceramenti, quindi la necessità di eseguirli Lnell'attacco? - N.d.a. I. Pertanto diviene indispensabile che la fanteria sia munita di pale se si vuole che possa resistere al fuoco nemico". La pala Linnemann, derivata dalla pala Bentham distribuita alla fanteria nella guerra di secessione, "equivale alo scudo degli antichi guerrieri, scudo ben leggero del resto, perché non oltrepassa gli 800 grammi". A conforto di siffatte tesi estremiste il Pandolfi cita un rapporto sulla guerra russo - turca del generale russo del genio Totleben, secondo il quale di fronte al fuoco a grande distanza della fanteria turca .r,:li sforzi più eroici delle nostre truppe [sprovviste di pale], restavano senza risultato, e divisioni di più di 10.()()() uomini si trovavano ridotte a un effettivo di 4 o 5000. Le trincee [turche! erano stabilite a più piani, e i ridotti avevano sui punti più importanti tre linee di fuoco. IL fuo co della fanteria turca produceva così l 'effetto di una macchina girante che getti incessantemente masse di piombo a grarule distanza, e giammai era stato prodotto sino ad ora da nessuna amwta d 'Europa.


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Riguardo alla diminuita importanza dell'artiglieria il Pandolfi ricorre alla testimonianza del generale russo Skobeleff, secondo il quale in quella guerra il solo fuoco della fanteria è riuscito a neutralizzare in brevissimo tempo l'artiglieria nemica mettendo fuori combattimento cannonieri e cavalli; cosa che "apre un'era nuova nell'arte della guerra", nella quale "La zappa e la carabina a tiro rapido hanno tutto cambiato. L'artiglieria non conta più nulla! L'assalto della fanteria è il solo mezzo di successo, benché sia il più precario". Da sottolineare quest'ultima valutazione che contraddice le precedenti, ma rispecchia la realtà di quella guerra e il suo esito. La guerra russo - turca infatti è stata vinta abbastanza rapidamente dalla Russia, e lo stesso generale Skobeleff, comandante di un' armata, dopo aver conquistato Plevna, Plovdiv e Adrianopoli ali' inizio del l 878 era ormai alle porte di Costantinopoli. Segno che l'offensiva russa nonostante le difficoltà, le perdite, la prolungata resistenza delle piazzeforti aveva avuto successo, né - come egli ammette - v'era altro modo per vincere una guerra. Nello stesso anno 1882 compare un articolo del già noto maggiore di Stato Maggiore Moreno, le cui opinioni sono del tutto divergenti da quelle del Massari e del Gandolfi. 23 Il Moreno non fa alcun riferimento alla pur recentissima guerra russo - turca, ma si preoccupa solo di trarre dalle guerre del 1866 e 1870-1871 ammaestramenti sulla perdurante superiorità dell' offensiva e sullo scarso rendimento delle fortificazioni campali. Contesta perciò le conc1usioni del generale Brialmont, il quale a suo dire non fa che riprendere i principi di quella tattica difensiva, che a parere anche del nostro generale Cosenz ''fu una delle principali cagioni della sconfitta francese". Al tempo stesso non condivide le critiche alla tattica offensiva prussiana e la sopravvalutazione del ruolo della fortificazione permanente e campale, mentre invece i grandi capitani della storia, ivi compreso Napoleone, "hanno accentuata sempre più la guerra campeggiata, ardila, insistente, poderosa, facendo sempre minor uso delle fortificazioni in genere e di quelle campali in i!!.pecie". A maggior ragione il Moreno critica il concetto - alla moda a quei tempi - di difese e fortificazioni "offensive", tali cioè da consentire a tempo opportuno il contrattacco: tutta la pretesa azione offensiva delle fortificazioni si riduce, nell 'ipotesi più favorevole, ad aspettare che il nemico faccia il comodo suo, e so-

l l Gem1aro Moreno, lLI vanghetta U1111emann e la lattica moderna, in "Rivista Militare ltaljana" Anno XXYll - Voi. I- febbrnio 1882, pp. 2 18-244.


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Lamenle quando sta per irrompere sulla posizione contrattaccarlo con violenza.

Le fortificazioni possono essere utili solo ai fini della difesa locale; non certo "per rinserrarvisi od attaccarvisi ad w,pettare il comodo del nemico". Ma questo genere di fortificazioni non si costruisce sotto il fuoco nemico, non richiede l'uso della vanghetta Linnemann e "non farà mai parte integrante della tattica della moderna fanteria". Per il Moreno non è nemmeno vero che, come sostiene il Massari, le nuove armi giovano soprattutto alla difesa: proprio le guerre del 1866 e 1870 - 1871 hanno dimostrato che l'attacco può trarre dal nuovo armamento tutti i vantaggi del tiro rapido, preciso e lontano, purché sappia opportunamente modificare le sue modalità d ' azione. A sua volta la difesa può ottenere gli stessi vantaggi non disponendo una filla linea di tiratori dentro una trincea per aspettare l'iniziativa del nemico, ma alla condizione di presentare prima una catena rarissima e farla poi man mano avanzare per striniere La distanza e raffittirla e accelerare il fuoco in ragione della diminuita distanza,· alla condizione di fare tutto ciò non quando convenga all 'assalitore, ma quando l'e.ffetto del proprio fuoco sarà per consentirlo e quando la condizione del momento sarà per consigliarlo [ ... ]. E come impedimento al libero [ma può essere sempre libero? - N.d.a.], successivo progredire delle catene in relazione con gli effetti del.fuoco, i trinceramenti sono tanto poco opportuni alla difesa quanto f?eneralmente si opina che lo siano per l'attacco.

ldee strane. Come se chi assume atteggiamento difensivo non fosse in crisi o inferiore di forze, ma avesse libera scelta. Come se i ripari naturali o artificiali non servissero a niente. Come se la difesa avesse sempre possibilità di manovrare e operasse in assenza di reazioni e controreazioni avversarie. Come se per l'attacco non fosse mai conveniente, a sua volta, sostare, sfruttare il terreno, creare qualche riparo speditivo. Come se non esistesse l' eterno dualismo potenza di fuoco - ricerca di protezioni naturali e artificiali ... Il Moreno nega anzi esplicitamente che la difesa sia conveniente almeno per chi è inferiore di forze. A suo parere, come ha dimostrato Napoleone nella campagna d'Italia [ma in quali eccezionali circostanze? Ed era Napoleone - N.d.a.] "l'esercito inferiore in numero [ma anche in qualità, ivi compreso l'aspetto morale? oppure di qualità equivalente o superiore? N.d.a.] è quello che più dell'altro è costretto dalla stessa sua inferiorità a


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servirsi dei vantaggi che presenta l'offensiva tattica", mentre invece chi si difende è costretto a spargere le sue forze per essere ovunque pronto a combattere [ma chi l'ha detto? allora è un cattivo difensore - N.d.a.]. E' vero - prosegue il Moreno - che con le trincee si può tener testa all'attaccante con un minor numero di uomini, tenendo alla mano buone riserve per il contrattacco: ma così facendo non si impiega l'intera forza disponibile per 1' azione di fuoco nella quale le armi moderne hanno la prevalenza, e quel che più importa, un siffatto sistema oltre a lasciare l'iniziativa al nemico lega in modo eccessivo le truppe alla trincea. Naturalmente egli non è d'accordo nemmeno con coloro che negano che le trincee deprimono il morale delle truppe e ostacolano la loro Iibertà di manovra: è certo che l'educazione opportunamente diretta può, sino a un certo punto, eliminare l'inconveniente della dannosa influenza che in generale Le fortificazioni esercitano sul morale delle truppe; ma non so in alcun modo spiegarmi come essa potrebbe anche riuscire a non far trovare nelle fort(ficazioni un impedimento assai pericoloso alla iniziativa taUica e alla libertà d'azione; essendo che l'influenza de/le fortificazioni è indipendente dalla qualità, dalla volontà stessa delle truppe, ed agirà in ogni caso nel senso di far volgere a difesa passiva l'azione che mediante il loro appoggio si sviluppa.

Di qui la critica al1o schematismo fortificatorio del generale Brialmont, che coprendo il terreno di ridotte, opere aperte alla gola, batterie, trincee, per ciò stesso limita la libertà d 'azione delle truppe, con una determinazione aprioristica della chiave del campo di battaglia che non è fondata su basi sicure. Inoltre, per costruire le fortificazioni da lui previste non bastano certo i 15-20 minuti necessari per scavare un riparo individuale con la vanghetta, ma sono indispensabili alcuni giorni e truppe tecniche; non c'è quindi ragione di "sopraccaricare il soldato di fanteria di uno strumento imperfetto e inutile". Il fatto che gli altri eserciti l'abbiano adottata non è una ragione sufficientemente valida: infatti "la vanghetta è l'arma della tattica difensiva, temporeggiante, indecisa, che pensa alla ritirata prima che all'aggressione". Il Moreno aggiunge che la mitragliatrice, inizialmente ritenuta un'arma in grado di assicurare la superiorità tattica, aJl'atto pratico ha già dimostrato Ja sua scarsa utilità: "non credo atteggiarmi a profeta per prevedere che l'attuale ressa intorno alla più leggera e più maneggevole vanghetta subirà la stessa sorte". E anche ammesso che la vanghetta possa essere utile per il freddo soldato tedesco, nel caso di un soldato, come J'ita-


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liana, impressionabile e facile tanto all'entusiasmo che alla depressione, "opino fermamente che sarà causa di depressione morale, come lo fu nel 1870 pel soldato francese". Vale perciò per il Moreno, l'opinione del generale del genio Cerroti, che in un precedente articolo si era dichiarato anch'egli contrario alla vanghetta, sostenendo che anziché attaccare il nemico con una compagnia sopraccarica di un quintale di ferro per dare ad esso il meschino spettacolo di raspar terra f ... l, non sarà el{li più conveniente avere disponibile un quintale di piombo, per soverchiarlo col fuoco?

Detto fatto; gli effetti del fuoco del nemico, la sua capacità di contromanovra per il Cerroti e il Moreno non esistono, non possono entrare nel calcolo. Così una citazione, che dovrebbe avvalorare la tesi non tanto del!' inutilità della fortificazione campale e della vanghetta (accostamento per altro verso non del tutto corretto), ma addirittura della loro pericolosità, va piuttosto a suo sfavore. Inutile sottolineare che il Moreno è stato cattivo profeta; si deve dire, piuttosto, che raramente si trova in un articolo un siffatto concentrato di affermazioni estremiste e illogiche o solo apparentemente logiche. Sfugge l'elementare concetto che l'interramento - anche parziale, rapido, provvisorio ecc. - più che una scelta, è il modo più naturale e più semplice per sfuggire a quell'aumentata potenza di fuoco, che è ammessa anche dallo stesso Moreno. E che c'entra la vanghetta individuale con il sistema Brialmont? riesce o no a creare un riparo individuale provvisorio in poco tempo o a migliorare un riparo naturale, a prescindere dalle varie situazioni? che senso ha la tesi dell'equivalenza della difesa e dell ' attacco? infine, perché non distinguere tra offensiva (o difensiva) strategica e offensiva (o difensiva) tattica?

La nuova tattica, il fucile a ripetizione e la corazzatura della fanteria e artiglieria (1884 - 1887)

Nel 1884 il tenente colonnello Cesare Airaghi (insegnante alla Scuola di Guerra, poi caduto nella battaglia di Adua) esamina in due lunghi articoli tutti gli elementi relativi alla nuova tattica,24 cercando non senza

24 Cesare Airaghi, Sulla tattica per le nuove fanterie, in "Rivista Militare Italiana" Anno XXIX Voi. IV - ottobre 1884 (pp. 52-96) e novembre 1884 (pp. 243-288).


IL PENSIERO MII.JTAllli J::NAVALE ITAJ.IANQ..:_VOL. lii (1870- J91S)- TOMO I

spunti originali una via di mezzo, che consenta di affronlare il nuovo senza gettar via il vecchio. Non è affatto sostenitore dell'ordine sparso, ma propone una formazione "a masse profonde e veloci, per fianco in linea o per colonne di.file", che agevola notevolmente anche il mantenimento dell'ordine mantenendo i plotoni più riuniti. A suo parere per attaccare con successo ci vuole la massa; catene sottili, ordini radi, sani accorgimenti per l'accostata, per scemar le perdite durante l'avanzata; ma è tanto poco offensivo il diradare Le nostre schiere che il nemico in questa bisogna ci aiuta molto volentieri col suo fuoco. Questo è del resto tanto sentito che pure a rischio delle maggiori perdite si prescrive la riunione dei sostegni e dei grossi al momento dell'ultimo assalto. Risulta evideflte pure che l'unico modo di scemare le perdite a questa massa senza diradarla è quella di aprirvi molti intervalli sul frollfe [in lai modo frazionando il dispositivo in masse più piccole, che Lutlavia tali rimangono - N.d.a.j, così che molti dei colpi nemici, che in quel momento saranno più.fitti che puntati, vadano persi negli i11tervaffi stessi le gl i altri? quali perdite provocheranno? in che proporzione saranno? - N.d.a.].

A conforto della sua preferenza per le formazioni "in fila" e "di fianco" l' Airaghi indica persino la protezione naturale assicurata al soldato dai due commilitoni che lo precedono nella fila, perché una pallottola non può trapassarli ambedue. E accanto a queste discutibili considerazioni, anzi in parziale contraddizione con esse, formula due proposte di grande peso: l' adozione del fucile a ripetizione e la corazzatura con varie forme della fanteria. Per I' Airaghi il fucile a ripetizione "è l 'arma più formidabile che si possa dare alla fanteria; [in essai la leggerezza e la rapidità possono compensare la precisione e la multiplicità". Le sue caratteristiche positive sono esaltate anche dal confronto con l'artiglieria, che I' Airaghi non è il solo a sottovalutare insieme con le mitragliatrici (delle quali non parla mai). A suo parere il fucile a ripetizione allontana persino la distanza di tiro utile dell 'artiglieria, perché difronte alle armi a ripetizione, i proiettili multipli dell'artiglieria alle minori distanze, i tiri a mitraglia compresi, non sono più ormai a considerarsi che come ripieghi per La propria difesa quando la scorta sia insufficiente e la fanteria riesca ad accostarsi 1- ._]. La precisione non influirà molto, perché una batteria è pure uno di quei bersagli che difficilmente si falliscono.


Xl - L'OFFENSIVA. LA D!FENSIVA E L"'AMMAESTRAMENTO 'lì\'ITICO" llELI..E TRUPPE

Le ancor brevi gittate del tempo e il puntamento diretto costringono l'artiglieria ad assumere schieramenti avanzati, esponendosi così al fuoco anche della fucileria nemica. Tuttavia l' Airaghi omette di considerare che la maggior potenza di fuoco della difesa richiede da parte dell'artiglieria un preventivo, forte ammorbidimento - fino alle minori distanze possibili - delle difese nemiche, o viceversa deU'attacco nemico. Più convincenti altri vantaggi indicati dall' Airaghi per le armi a ripetizione, a cominciare dalla capacità di sviluppare un grande volume di fuoco in tempi ristretti, in tal modo aumentando l'effetto morale delle perdite inflitte all'avversario; in un secondo luogo viene la possibilità di contrarre i tempi dell'attacco, evitando i ritardi prodotti dalla più frequente necessità di ricaricare le armi a colpo singolo. L'altro problema, la "corazzatura della fanteria" per l' Airaghi deriva dalla riconosciuta necessità di trovare tutti i mezzi e gli accorgimenti possibili per proteggersi dal fuoco della fucileria, ancor più che in difesa, in attacco. Egli propone, perciò, di addestrare il soldato a scavare trincee, costruire ostacoli artificiali e sfruttare qualsiasi tipo di riparo mobile (fascine, carri carichi di terra, persino materassi e suppellettili). Ma questo non basta; occorre anche studiare anche un sistema di protezione artificiale. Al momento si tende ad alleggerire sempre più il carico del soldato; ma anche se la corazza pesa circa 5 Kg, per I' Airaghi all' alleggerimento c'è un limite, perché si rischia di privare il soldato, al momento del maggior bisogno, di generi e materiali indispensabiLi per vivere e combattere, come ad esempio viveri e munizioni. In secondo luogo, si tratta di vedere se è più conveniente dare in dotazione al soldato uno strumento protettivo, oppure se è meglio fargli portare al seguito un peso equivalente di munizioni. Su quest' ultimo punto I' Airaghi dimostra che: - non ci deve preoccupare troppo del consumo di munizioni, che non dipende solo dalla celerità di tiro ma da molti altri fattori anche di carattere morale; - il timore che l'aumento di peso provocato dalla corazzatura ostacoli la velocità tattica è infondato. Sia pur entro limiti ristretti, se l'aumento di peso è dovuto a maggior protezione il compenso può essere ritenuto soddisfacente; - l'adozione della corazzatura è "meno paradossale" di altri ripieghi ammessi con minor riluttanza, anche se tutti si risolvono "in carico, in lentezza dell 'assalto" (trinceramenti, vanghette ecc.). Detto questo, egli esamina i tre possibili sistemi di corazzatura (corazza ed elmo; scudo; sistema di protezione collettiva, testuggine o man-


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telletto) per concludere che lo scudo è preferibile alla corazza, perché diversamente da quest'ultima si adatta a tutte le posizioni e a tutte le fasi del combattimento e pur essendo di peso inferiore alla corazza risulta più resistente. Inoltre lo scudo "può anche costruirsi senza grave aumento di peso combinandolo collo zaino, sostituendolo, utilizz.andovi la cartucciera, la vanghetta o la piccozza e formando un insieme di dimensioni sufficienti, di peso discreto, in tutto abbastanza maneggevole". Invece i ripari collettivi non sono molto convenienti, perché ostacolerebbero il cammino delle colonne in marcia e i terreni in cui potrebbero servire sono rari. Per l' Airaghi, comunque, si dice che la tattica è l'arte di arrecare alle truppe nemiche i maggiori danni possibili, esponendosi alle minori perdite. Questa definizione è tolta dalla scherma, ma non è esattamente applicabile alla tattica. Scopo della scherma è mettere materialmente L'avversario fuori combaltimento; scopo della lattica è farlo desistere, e a tale risultato si arriva arrecando al nemico più perdite ch'egli non si senta di sopportare. Egli è perciò appunto che si vince quasi sempre sopportando perdite superiori a quelle del nemico (il che vuol dire quando si ha più coraggio di lui).

Affermazioni molto discutibili, almeno per il lettore di oggi. Questo concetto di tattica non può essere accettato: la tattica non serve a "far desistere il nemico", ma a ottenere la vittoria sul campo di ballaglia con i minori costi per noi e con i massimi costi per il nemico. Né è vero che la vittoria viene ottenuta "quasi sempre sopportando perdite superiori a quelle del nemico"; se così fosse, non sarebbe vera vittoria; i grandi capitani sono stati tali, proprio perché hanno riportato grandi vittorie a poco prezzo. Ad ogni modo l' Airaghi tempera questa sorta di rassegnazione di fronte alle maggiori perdite con l'affermazione che "non cessa mai di entrare nt>lle cure della tattica l'economia degli uomini. Sulle grandi virtù non si può sempre contare, bisogna aiutarle, non bisogna abusarne, il generale non deve in cuor suo troppo facilmente supporre che il nemico ne abbia a mancare". Sulle posizioni nemiche - egli afferma - bisogna portare la massa delle forze; per questo non bastano l'educazione, l'istruzione, le armi e la formazione migliore; "quando il nemico non sia per questo al di sotto, non ci resterà che dare a questi uomini un riparo che diminuisca l'efficacia del fuoco nemico". Meritano un breve cenno altre sue considerazioni, spesso opinabili ma sempre interessanti:


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- le distanze di tiro tendono a crescere, e con esse, la difficoltà di scorgere il nemico. Ne consegue che l'abilità nel tiro di ciascun tiratore sta perdendo d' importanza, perché "non si tira più agli individui, ma alle masse"; - le truppe devono essere addestrate ad agire correttamente anche in mancanza di ufficiali, fatto che si può verificare proprio nei momenti cruciali del combattimento; - gli aspetti formali dell'istruzione del soldato (esattezza di allineamenti, distanze e intervalli, fuoco a comando ecc.) perdono importanza a fronte della necessità di curare l'educazione morale, l'addestramento tattico dei singoli e dei gruppi, lo sfruttamento del terreno e il corretto impiego delle armi; - di conseguenza l'addestramento delle truppe deve essere realistico e svolgersi su terreni adatti, dove i reparti possano muoversi liberamente senza timore di provocare danni alla proprietà privata; - il fuoco alle piccole distanze tornerà ad avere il carattere decisivo che aveva prima l'attacco alla baionetta e la sostituirà. Per contro, si verificherà un crescente allontanamento dei fronti contrapposti; - i contrattacchi dovranno essere aboliti completamente, perché per quanto sia possibile usare le armi a ripetizione anche correndo, sarà sempre più conveniente usarle da fermo; - non ci deve essere inseguimento del nemico respinto; " i 'inseguimento dovrà farsi col fuoco stesso, e così il fuoco ora sarà tutto, meno alcuni casi eccezionali"; - i framrnischiamenti di reparti diversi nel corso del combattimento sono sempre avvenuti, ma è sbagliato rinunciare completamente ali' antico culto del proprio posto, all'ordine delle formazioni ecc .. Essi sono ··un male capitale" , quindi nei limiti del possibile vanno prevenuti; - nella compagnia, dove tutti si conoscono personalmente, la coesione è favorita. I frammischiamenti nel suo ambito sono poco nocivi ; essa è "il primo elemento dell'ordine". Ma questa preziosa qualità può aumentare o diminuire a seconda dei casi. L'aspetto più felice delle lesi dell' Airaghi è la necessità di adottare il fucile a ripetizione ordinaria, che già nel decennio 1880-1890 è stato introdotto o è in corso di introduzione nei principali eserciti (hanno preceduto il nostro mod. 1891 ad esempio il fucile francese Lebel (mod. 1886) e il fucile austriaco Mannlicher (mod. 1888, ma inventato dieci anni prima). Non si può dire lo stesso di altri argomenti come le formazioni, la corazzatura, l'opportunità di rinunciare all'attacco alla baionetta, al conlral-


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tacco e all'inseguimento, l'efficacia dell'arma a ripetizione anche al paragone con l'artiglieria ecc .. Le sue tesi, dunque, ben rispecchiano la complessità dei problemi lattici del tempo. Le idee dell' Airaghi sulla corazzatura della fanteria trovano un interessante riscontro anche nel campo dell'artiglieria, dove il tenente colonnello Biancardi nel 1883-1884 ritiene necessario proteggere i serventi "munendo ogni affusto da campo di una corazza d 'acciaio grossa 4 mm, quanto basta cioè per arrestare le pallottole dei fucili e degli shrapirels , nonché le schegge minute delle granate scoppianti". 25 Questa soluzione è da lui giustificata con la necessità di restituire al1'artiglieria l'indipendenza dal terreno e la libertà di manovra delle quali godeva quando la gittata utile dei fucili era più ridotta, quindi non o ltrepassava quella del suo tiro a mitraglia. Al momento, invece, per proteggersi dal tiro di fucileria l'artiglieria è costretta a schierarsi su posizioni che le garantiscano una certa protezione, anche a discapito dell'efficacia del tiro e delle possibilità di osservazione, che richiederebbero distanze di tiro ridotte. infatti la necessità di accostare sempre più l'artiglieria alle posizioni nemiche e di proteggere il personale, va crescendo in ragione della maggiore potenza difensiva che tali posizioni acquistano coll'impiego delle fortificazioni di battaglia e col tiro accelerato della fucileria [... ] complica e compromette l'azione dell'artiglieria che la induce a preoccuparsi di cercare qua e là un rifugio nelle pieghe del terreno.

U Biancardi polemizza pertanto con il capitano Pedrazzoli, il quale sulla Rivista di Artiglieria e Genio dello stesso anno 1884 (puntata V) sostiene, tra l'altro, che il peso della corazza sarebbe meglio impiegato per accrescere la mobilità e la potenza balistica dei pezzi, consentendo loro eh prendere posizione più lontano. L' Airaghi non può dirsi certo sostenitore dell'ordine sparso; ciononostante le sue idee sono contrastate direttamente o indirettamente da una corrente di pensiero ultraconservatrice, che avanza dubbi sull 'effettiva necessità e efficacia del fucile a ripetizione e vagheggia persino un ritorno al vecchio ordine chiuso. Sul primo argomento in un articolo del 1887 un non

25

Giuseppe Biancardi, L'a,tiglieria da campo corazzata. in " Rivista Militare Italiana" Anno

XXIX Voi. ili - agosto 1884, pp. 277-29 1. Il tenente colonnello d'artiglieria Hiancardi, poi generale,

è stato ideatore fin dal 1874 di un affusto a deformazione per l'artiglieria da campagna e sostenitore nei primi anni del secolo XX della necessità di adottare il nuovo cannone da campagna a dcfonnazione a tiro rapido, opponendosi alle idee conservatrici del generale Allason.


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meglio identificato O.O. combatte "la febbre del fucile a ripetizione", 26 la cui adozione anche da parte del nostro esercito a suo parere non è una necessità tecnica vera e propria: lo stiamo adottando solo perchè altri eserciti lo hanno già adottato e per ragioni essenzialmente morali, cioè per evitare che il nostro soldato si senta in condizioni di inferiorità di fronte a fanterie armate di un fucile più moderno. Se si tratta di colpire il nemico con la maggior celerità di tiro possibile a distanza ravvicinata - prosegue D.O. - il fucile Vetterly mod. 70 è già sufficiente. visto che "nelle esercitazioni della scuola di puntamento noi abituiamo il soldato ad eseguire esercizi di tiro accelerato con La rapidità di 8 spari per minuto, in tutte le posizioni, mirando sempre con precisione ". Con il nuovo fucile a ripetizione non si otterrà altro risultato che un eccessivo consumo di munizioni; infatti in combattimento quando (come sempre avviene) i reparti non mantengono più l'ordine chiuso, viene meno ogni possibilità per gli ufficiali di disciplinare il fuoco. Perciò nell 'orgasmo del combattimento il soldato, privo di controllo, è portato a sparare più che può, fino a finire ben presto le munizioni in dotazione (al massimo 100 colpi), rimanendone privo proprio a distanza ravvicinata dal nemico, cioè quando ce n'è più bisogno. Per le stesse ragioni secondo O.O. non va bene nemmeno il fucile Vetterly modificato a ripetizione ordinaria sistema Vitali, con serbatoio da 4 cartucce.

Ritornare all'ordine chiuso? Alle critiche al nuovo fucile a ripetizione, certamente antistoriche, si aggiungono le idee ancor più antistoriche dei tenaci nostalgici delle formazioni passate. 1n particolare nel 1887 compare un articolo anonimo ma presumibilmente dovuto a un 'alta personalità militare, nel quale si propone né più né meno che il ritorno alle vecchie formazioni pre-guerra 18701871.27 Ha un titolo emblematico (Viribus Unitis) e il suo autore ricorda di essere stato sostenitore dei vecchi ordini di combattimento già negli anni passati, quando cioè "pensando in tal modo si andava a rischio di passare per eretico, e di essere lapidato".

21> D.O., Il fucile a ripetizione, in "Rivista Militare Italiana" Anno XXX II Voi. Jll - settembre 1887, pp. 4 10-446. 27 (xxx), Viribus U11itis, in "Rivista Militare Italiana" Anno xxxn Voi. IV - otlobre 1887, pp. 5- 11 e ID., Ancora Viribus U11itis, in "Rivista Militare Italiana" Anno XXlil Voi. U - aprile 1888, pp. 5- 18.


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Va subito precisato che l'ignoto autore non ha idee del tutto originali, visto che al tempo analoga tendenza emerge addirittura a livello ufficiale in Francia (Istruzione per il combattimento del 1887) e in Germania. Ad ogni modo egli si compiace di veder ritornare in auge anche nel nostro esercito l'ordine chiuso, rilevando che l'onore fatto ali'ordine sparso di elevarlo ad ordine di combattimento, proviene anzitutto da un equivoco. L'equivoco sarebbe quesJo, di considerare le minori perdite di una catena, rispetto a una linea di due, tre, quattro righe a.file serrate, non come provenienti da ciò che esponendo al fuoco nemico un numero minore di uomini le perdite sono necessariamente minori, ma bensì da minore vulnerabililù intrinseca della catena stessa.

In quest'ultimo caso per ottenere minori perdite si consentirebbe ai soldati di non fare il loro dovere, privilegiando le esigenze di conservazione della vita. Così fa l'ordine sparso, che per questa ragione è la peggiore formazione possibile. Comunque, nel caso che la genie faccia il suo dovere io non dubito di asserire che una linea di fanteria su più righe a file serrate è, nel caso concreto di una battaglia, soggetto a un percento di perdite minore di una catena. A spiegare ciò bastano due semplici considerazioni: la prima è che il fuoco nemico controbattuto da un fuoco nostro più intenso riuscirà meno efficace [ma perché il fuoco in ordine chiuso dovrebbe essere più intenso ed efficace del fuoco in ordine sparso? - N.d.A.1; la seconda è che, nell'ordine lineare compatto su due o più righe, gli uomini che non sono in prima riga, mentre possono fare fuoco come gli altri hanno negli abiti, nello zaino, negli oggetti d 'armamento, nelle carni ed ossa dei compagni che stanno avanti !stessa idea dell' Airaghi - N.d.A.] uno scudo che nessuno ha quando la linea del fuoco è una catena.

Oltre a non favorire il fuoco come l'ordine lineare e l'urto come l'ordine chiuso, l'ordine sparso "è una contraddizione collo stato reale delle cose, in cui se si vuole utilizzare al meglio le ingenti forze delle quali dispone oggidì un comandante in capo, è assolutamente necessario fare La massima economia di spazio frontale". Invece, anziché 12- 15 uomini per metro (come prevede l'ordine lineare), con l'ordine sparso si schiera all'inizio solo un uomo per metro, con gli altri che, scaglionati in profondità, dovrebbero progressivamente rafforzare la catena in ordi ne sparso: ma


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questa manovra, già difficile in tempo di pace, lo sarebbe ancor più in guerra. Ne consegue che la miglior formazione di combattimento della fanteria "sta nell'ordine lineare compatto con quel massimo numero di righe che consente ancora a tutti i soldati di puntare e sparare". Oltre tutto la formazione in ordine sparso, per il solo fatto che non ha lo scopo di far danno al nemico, ma di diminuire le perdite, instilla nel soldato un pernicioso, sentimento di timidità. Non serve a nulla parlare al soldato di coraggio, offensiva, aggressività, se poi nell'addestramento quotidiano, l'unico che vale, "noi gli insegnamo a coltivare ciò che nell'uomo è purtroppo già di per sè stesso istintivo, cioè a sparpagliarsi, valersi degli ostacoli del terreno per coprirsi, andare cauti e prudenti". Alle idee dell'autore di Viribus Unitis e anche dell' Airaghi si oppone tra gli altri il colonnello di Stato Maggiore Sismondo, che oltre a condurre un ragionamento chiaro e basato su una logica elementare, ha anche il merito - raro a quei tempi - di tenere una buona volta conto del sempre più potente fuoco di artiglieria. 28 Secondo il Sismondo la minore vulnerabilità di una catena rispetto all'ordine chiuso non deriva solo dal minor numero di uomini che presenta come bersaglio a parità di estensione frontale, ma anche dalla maggiore facilità di sfruttare gli ostacoli del terreno e dalla grande fluidità con cui la catena si muove da un ostacolo all'altro, presentando al nemico bersagli più mobili e più difficili da individuare. In quanto al fuoco di artiglieria, è indiscutibile che la sua efficacia è superiore se colpisce un formazione compatta, e inferiore se colpisce una formazione diradata. Né ha reale valore la protezione che, a detta dell'autore di Viribus Unitis, sarebbe assicurata a ciascun soldato dalle carni, dalle ossa, dallo zaino ecc. di coloro che lo precedono nella formazione: bisogna anche tener conto della resistenza nervosa di chi sta dietro, perché la sconfitta non è tanto determinata dal numero dei caduti, ma piuttosto dallo sgomento di coloro che li vedono cadere. Anche l'asserita, maggiore intensità del fuoco di una formazione compatta nella realtà del combattimento non esiste, perché sul tiro individuale ha grande influenza 1' orgasmo prodotto nel soldato dal frastuono del fuoco di chi gli sta davanti e di chi gli stadietro e dalle carni e ossa sfracellate dei compagni colpiti; ma anche se tale intensità di fuoco esistesse, la precisione del fuoco di una formazione in ordine chiuso anche a causa del fumo sarebbe inferiore a quella di una formazione in catena, nella quale il soldato può scegliersi un riparo e puntare con maggior comodità.

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Felice Sismondo, Ancora sul Virihus Unitis, in "Rivista Militare Italiana" pp. 403-419_


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All'affermazione dell'autore di Viribus Unitis che i sostenitori dell'ordine sparso pretendono di "fare la frittata senza rompere le uova " (cioè di raggiungere l'obiettivo con perdite trascurabili), il Sismondo replica che con l'ordine chiuso si corre piuttosto il pericolo di "rompere le uova senza fare la frittata"_ Se così è, desta meraviglia la sua precisazione finale di non voler abolire del tutto l'ordine chiuso, ma di ritenerne ancora conveniente l'applicazione a breve distanza dal nemico, quando anche il fuoco non mirato è efficace e l'assalto è imminente. Come se non fosse proprio quella la fase in cui anche il fuoco nemico (non considerato per nulla nemmeno dal Sismondo) raggiunge la massima efficacia... Più realistica la sua affermazione che, diversamente dal passato, l'artiglieria moderna "produce effetti terribili" a più di 2000 metri di distanza. Se, perciò, si tiene conto anche della gittata e della celerità di tiro dei fucili , è molto difficile che una formazione in ordine chiuso riesca a giungere in buona efficienza a distanza d'assalto. Il Sismondo conclude osservando che mentre l'a utore del Viribus Unitis intende ottenere la coesione facendo del soldato "una macchina cieco strumento nelle mani dei capi e materialmente compressa in una massa compatta", coloro che propendono per l'ordine sparso "mirano al soldato collaboratore, col quale la coesione significa non solo materiale contatto di gomiti, ma cospirazione di tutte Le volontà a un unico scopo". Nello stesso anno 1888 l 'ordine chiuso ha un ultimo ritorno di fiamma con il generale Caccialupi, che critica il vigente Regolamento di esercizio per la fanteria perchè prevede una parziale (e noi diremmo ancora assai prudente) applicazione dell'ordine sparso. 29 Pur senza riferirsi a tesi precedenti, anche il Caccialupi propone l'abolizione della catena e il ritorno all'ordine chiuso. Non ignora affatto l'introduzione in servizio del le armi a ripetizione: anzi, proprio per questo ritiene indispensabile evitare un consumo eccessivo di munizioni con una stretta disciplina del fuoco. Però tale disciplina si può ottenere, a suo parere, solo con formazioni nelle quali il soldato sia a portata non solo dell'occhio, ma anche della voce dell'ufficiale: cosa che è possibile ottenere solo con l'ordine chiuso, non con la catena di tiratori nella quale il plotone occupa una fronte da 120 a l 80 metri. In secondo luogo per il Caccialupi bisogna tener conto che i reparti in ordine chiuso resistono meglio agli attacchi di cavalleria, e in generale si

29 Gaetano Caccialupi, Note su/l'ordine sparso della fanteria, in "Rivisla Militare Italiana" Anno XXIII Voi. lii - luglio 1888, pp. 5-1l.


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trovano in condizioni molto migliori di quando sono sparpagliati in una catena, "dove ogni uomo, visto poco o nulla, agisce a suo talento, e dove ogni movimento riesce lungo e difficile". L'obiezione che una siffatta formazione è più vulnerabile al fuoco della fanteria e artiglieria del nemico "è più speciosa che altro", perchè bisogna tener conto dell'estrema mobilità di questi reparti e della loro facilità di proteggersi convenientemente, anche perché "sono bersagli che si vedono e non si vedono" (sic).

La rivalutazione dell 'artiglieria, il cannone a tiro rapido e il combattimento moderno negli scritti del maggiore Alla.son (1893) e del maggiore Carpi (1898)

Dal 1888 a fine secolo XIX le novità, le idee originali sono poche. Si assiste a una rivalutazione dell' artiglieria e si comincia a discutere sull' opportunità di adottare - sull'esempio francese - artiglierie da campagna a tiro rapido con affusto a deformazione. Gli studi più interessanti del periodo sono due: quello del maggiore di artiglieria Allason, noto anche per i suoi scritti di geografia militare, e quello del maggiore degli alpini Carpi. 30 Come ci si aspetta da un artigliere quale egli è, r Allason definisce "errore colossale " la diffusa tesi che l'aumento della potenza di fuoco si è verificato soprattutto a vantaggio del fucile, sminuendo il ruolo dell'artiglieria; ma sorprendentemente sui futuri progressi della sua Arma l' Allason si dimostra, più che conservatore, retrogrado. A suo avviso il fucile e il cannone hanno tecnicamente progredito in ugual misura; ma questo non vuol dire che ciò sia vero anche per l'efficacia delle due Armi. Infatti sarà sempre privilegio del cannone la possibilità di sfruttare, non interamente, ma nwlto più del fucile, qualsiasi pe,fezionamento tecnico per il semplice - ma troppo trascurato - motivo che il cannone ~para su di un affusto., cioè appoggiato a qualcosa di immobile, di saldamente fisso e di inaccessibile all'enwzione, all'orgasmo che sul campo di bauaglia, quando f erve propriamente la mischia, si impadronisce degli animi meglio temprati.

Si deve anche tener conto - prosegue l' Allason - che il fuoco di artiglieria è cosa ben diversa da quello di fucileria, non solo perchè consente 30 Cfr Ugo Allason, La polvere senza fumo , le mwve armi e la /altica, Torino, Ca~anova 1893, "Vittorio Carpi, Pe,uieri sul combaltimelllo modemo. Bergamo. Bolis 1898.


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di lanciare a distanze maggiori proietti più pesanti e potenti, ma soprattutto perché può essere regolato e corretto sulla base dei suoi stessi risultati, "e conservandosi disciplinato anche nelle circostanze più difficili, può essere concentrato verso quei punti che è necessario battere in quel determinato momento tattico"_ In tal modo esso prepara e asseconda validamente "anche senza spaventose ecatombe umane" gli sforzi de11a fanteria, che grazie appunto all'a11iglieria possono essere meno sanguinosi e più decisivi. Ma anche ammettendo che la potenza di fuoco di fucileria sia cresciuta in modo tale da compensare abbondantemente le predette cause della superiorità dell'artiglieria, ciò non vuol dire che sia effellivamente cresciuta l'efficacia pratica del fucile sul campo di battaglia. I progressi tccnki, infatti, "non esprimono più gran cosa nel combattimento, perchè Là tutto è eliminato, tutto è paralizzato dalle condizioni dell'uomo che maneggia il fucile". L'esperienza delle ultime guerre dimostra che di fronte al pericolo viene ben presto meno la disciplina del fuoco, e i I soldato spara senza puntare. Perciò, anche se le armi portatili hanno indiscutibilme nte accresciuto la loro efficacia, non è di questo fatto che Ja tattica deve soprattutto preoccuparsi. L'introduzione delle armi a ripetizione non potrà produrre molti cambiamenti, sia perchè - all'atto pratico - l'aumento di celerità di tiro ottenuto non è così rilevante come sembrerebbe in teoria, sia perchè le difficoltà di rifornimento delle munizioni induce i regolamenti a limitarla. Anche gli aumenti di gittata del fucile oltre i 1500 m non potranno mai essere utilizzati, perchè "succede qui per il fucile quello che succede per il cannone (sic): non credo che in pratica il fuoco si eseguirà mai a distanze che davvero si potrebbero dire strepitose". Sbagliano perciò coloro che sostengono che in futuro la fanteria potrà preparare essa stessa i suoi attacchi con il fuoco di fucileria lontano, e completarli con il fuoco vicino; "al di là dei 1000 metri l'effetto della fucileria è troppo incerto, per poterla considerare come un mezzo sicuro; e la fanteria opererà molto saggiamente, conservando Le sue non abbondanti munizioni per adoperarle alle piccole distanze, alle quali il suo fuoco può veramente produrre notevoli effetti" . Lo stesso vale per la difesa. L' Allason contesta poi le affermazioni di coloro che daJla guerra 1870-1871 hanno dedotto che l'azione dell'artiglieria è inefficace contro la fanteria, tant'è vero che in quella guerra 1'80% delle perdite prussiane sarebbe stato provocato dal fucile, menlre solo il I0-18 % andrebbe attribuito all'artiglieria. Il colonnello francese Paqué cita la battaglia di Gra-


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velotte - Saint Prival, nella quale la Guardia Prussiana, confidando nella preparazione del l'artiglieria, ha ugual mente subìto gravissime perdite; ma l' Allason obietta che in realtà, in quel caso la preparazione d'artiglieria non c'è proprio stata, mentre dalla relazione ufficiale della guerra risulta che "quasi sempre gli attacchi riuscirono o fallirono, secondo che erano o non erano stati preparati dal fuoco del/'artiglieria, e che in qualche caso [...] bastò quasi l'azione dell'artiglieria a risolvere il problema tattico". Molto opportunamente egli precisa, poi, che i danni provocati da un'arma non possono essere dedotti solo da dati statistici, ma derivano anche da molti altri fattori contingenti. Né ci si deve stupire se, nel complesso, le perdite che infligge l'artiglieria sono minori: essa non può agire sempre e ovunque come la fanteria, anche se - questo è l'importante- è in grado di produrre effetti più intensi in minor tempo. La conclusione dell' Allason è che in futuro l'artiglieria sarà sempre più importante, e che in particolare un attacco condotto allo scoperto senza preparazione d'artiglieria costerà gravissime perdite. Ma pur registrando i recenti miglioramenti tecnici, non ritiene possibili forti aumenti di gittata rispetto al 1870-1871 , quando la gittata di tiro utile non superava i 2000 metri. Oltre tutto, a suo parere tali aumenti non sono necessari, pcrchè la distanza massima alla quale è ancora possibile osservare il tiro a occhio nudo si aggira sui 3000 metri, né è conveniente usare gli strumenti ottici, voluminosi e troppo complicati. Quel che più importa, il suo giudizio sul cannone a tiro rapido con affusto a deformazione, che di lì a pochi anni armerà anche l'artiglieria da campagna italiana, è totalmente negativo. Si augura che questo nuovo pezzo "non abbia mai ad armare l'artiglieria da campagna",- e ne elenca un gran numero di difetti e inconvenienti, senza riconoscergli alcun vantaggio o alcuna possibilità di miglioramento_ ln particolare: - per ottenere la totale soppressione del rinculo si è dovuto diminuire notevolmente il calibro, aumentando per compensazione la velocità iniziale. Ne è derivato un aumento di peso del pezzo pregiudizievole per la sua necessaria mobilità; - la maggiore velocità iniziale e la maggiore celerità di tiro non hanno compensato la diminuzione del calibro, perchè hanno diminuito la possibilità di osservare e apprezzare il tiro; - dalle esperienze fatte risulta che la precisione del tiro del cannone a tiro rapido è minore di queJla del vecchio materiale; - anche in fatto di gittata il cannone a tiro rapido è inferiore; - le schegge nelle quali si frammenta la sua granala sono più numerose di quelle della vecchia granata, ma hanno molto minor peso e per-


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ciò producono un effetto sul bersaglio scarso o nullo. Lo stesso avviene per il tiro a tempo; - la celerità di tiro del nuovo pezzo all'atto pratico è molto inferiore a quella teorica; - esso è poco rustico, con congegni troppo delicati e non conciliabili con le esigenze della guerra campale. L' Allason conclude drasticamente che la sostituzione delle vecchie artiglierie con il nuovo tipo di cannone "costituirebbe uno dei più gravi errori che si possano commettere nell'annamentn dell'artiglieria da campagna, e non offrirebbe nemmeno quel vantaggio economico, che secondo alcuni è il pregin maggiore delle nuove bocche da fuoco". Invece il Carpi, pur non essendo artigliere, diversamente da11' AJlason ha grande fiducia nel cannone a tiro rapido e più in generale nell 'artiglieria, i cui compiti a sostegno della fanteria sono eia lui ben delineati, mettendo l'accento sulla necessità che essa raggiunga maggiore efficacia alle distanze alle quali non può giungere il fuoco di fucileria. Anche per lui l'artiglieria andrà sempre più acquistando valore; peraltro il suo impiego non può diventare legge generale e assoluta come taluni vorrebbero, quasi che l'artiglieria fosse la panacea universale del combattimento modemo. L 'arti~lieria non fu e non può restare che anna ausiliaria/ .. .]. L'artiglieria inoltre non combatte da sola perchè è impotente a proteggersi sulle ali, incapace di ogni azione quando non sia in batteria, priva di ogni potenza d 'urto.

Il Carpi si dichiara certo della futura introduzione in servizio del cannone a tiro rapido, il cui sviluppo è stato ostacolato da mere ragioni economiche e da dettagli tecnici. Sono segno del progresso dell'Arma, sempre per il Carpi, anche altri materiali come il cannone Stanhope (col quale si spara senza disunire i treni), gli affusti corazzati "conseguenza delle batterie corav,ate mobili usate in Francia nel 1870-187 l e del treno corazzato usato dagl'inglesi in Egitto nel 1882 ", le granate a mclinite (Francia), le granate dirompenti. Tuttavia la soluzione ideale per l' artiglieria - egli osserva - non è ancora ben definita; e tra gli altri cita le previsioni del generale tedesco Wil le, sorprendentemente vicine alle prestazioni del cannone da campagna nel XX secolo: "shrapnel proietto unico o almeno prevalente, gittata jino a 7500 metri per lo shrapnel e 10000 per la granata, calibro 7 cm, velocità iniziale 300 metri, pallette di Wolfranio in numero di 250, otturatore rapido, carica, innesco e proiettile riuniti in bos.wln metallico, a_ffùsto a defor-


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,nazione e robustamente frenato". In definitiva, dopo aver individuato due Lcndenze principali (ricerca della maggior gittata conservando la massima efficacia, preferita dagli artiglieri, oppure massima celerità di tiro ottenuta anche al prezzo di una minore esattezza e gittata), il Carpi si pronuncia per una soluzione intermedia. Anche a proposito delle formazioni della fanteria, senza correre troppo avanti egli indica soluzioni abbastanza equilibrate, anche se non molto origioaJi. Prevede uno spiegamento graduale della fanteria in attacco compresi i rincalzi - man mano che si avvicina aJl'avversario. Accenna all'importanza dei fattori morali, della cooperazione, dell'affiatamento tra le varie Armi in vista del raggiungimento di uno scopo comune. Più nel dettaglio prevede che "l'A rma che più delle altre è destinata a conservare l'indirizzo voluto e rannodare le.fila perse è l'artiglieria, sempre ditiponibile nelle mani del Comandante, e che agendo in massa rincalza e smpinge la battaglia quando e dove si vuole raggiungere l'obiettivo più importante". Per il resto il tiro di fanteria e artiglieria sarà più Lungo, più esatto, più rapido, più efficace; le batterie sentiranno necessaria una maggiore stabilità e interverranno più tardi, specialmente se i cannoni a tiro rapido potranno se1:uire dovunque la fanteria; La cavalleria troverà impie,?o illimitato nel campo strategico sempre più ristretto nel campo tattico; tutte le armi dovranno sfruttare meglio le condizioni del suolo per rendere meno visibile le posizioni e i movimenti; La direzione e il comando saranno più difficili per il bisogno di formazioni sciolte, Leggere. a larghi fronti.

L'azione offensiva e l'ordine rado nella regolamentazione dottrinale: e la difensiva? A fronte del precedente dibattito, quali sono le linee di tendenza della regolamentazione italiana del tempo? In proposito il Bastico ha scritto pagine critiche illuminanti. 31 Senza dubbio la nostra regolamentazione tiene il passo con quella dei principali eserciti, e anzi qualche volta la precede. Senza dubbio essa non recepisce gli estremismi concettuali dell'autore di Viribus Unitis; ma ciò non toglie che denota una sia pur morbida, quasi dissimulata resistenza all'ordine sparso, a mmesso con molte circo-

" Ettore Baslico. L 'evoluzione de/l'ar1e della guerra Voi. Il, l-'ircn7.e, Ca~a Editrice Italiana

1930. pp. 182-201.


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spezioni, esitazioni e limitazioni e soprattutto con molti residui formalismi e particolari superflui da piazza d'armi e non da campo di battaglia_ Insomma: c'è il nuovo, ma spesso viene come soffocato e contraddetto dal vecchio; oltre tutto, secondo il Baslico manca unità d'indirizzo nella regolamentazione, vi sono continue divergenze e in pratica ciascun comandante si regola come vuole. Ciò non toglie che il Regolamento di esercizi per la fanteria del 1869, lodato dal Bastico, dia una certa importanza all'ordine rado e rappresenti un sensibile progresso rispetto ai precedenti regolamenti. Tuttavia a suo avviso rimane legato al passalo e in esso il combattimento in ordine chiuso rimane quello normale, anche se vi si ammette che i movimenti in ordine chiuso, a seconda delle circostanze, possono anche assecondare quelli in ordine sparso. Subilo dopo la guerra franco-prussiana a tale regolamento vengono apporlale importanti modifiche, che sanciscono definitivamente il passaggio all'ordine misto (cioè con la truppa in parte in formazione sparsa per preparare e sostenere l' attacco, e in parle in formaz ione densa per sostenere e decidere l'assalto). Secondo il commento anonimo (probabilmente dovuto a un ufficiale di alto grado) della Rivista Militare (1873), tali modifiche hanno lo scopo di stabilire me1:lio le regole al fine di scemare il più possibile a1:Li inconvenienti del disordine inseparabile dalla formazione in ordine sparso; normalizzare, per così dire, questo disordine, e fare sì che le unità tattiche non si sconnettano troppo, e che gli u.fficiali possano avere sempre nella mano i loro uomini; particolarmente nell'offensiva, fare normalmente una più larga parte alla truppa in ordine sparso, perchè è ormai incontestabile che gli attacchi non si possono eseguire o quanto meno preparare bene senza l'impiego di forti Linee di cacciatori; finalmente combinare anche più intimamente l'ordine sparso con l 'ordine chiuso, posto che l'ordine misto sia divenuto l'unica forma odierna di combattimento per La fante ria. 32

La necessità di adottare l'ordine sparso è dunque sempre tcmpcrnta dalla preoccupazione assillante di regolamentare il disordine, dalo per scontato con tale formazione (il che non è). Va comunque tenuto hcn pre-

32 (x.x.x). Modificazioni de/le fnmw zioni di combattimento in o nline .,·, u,r,111111·1 /11 11t1.11r11jm1teria, in "Rivista Militare Italiana" Anno XVIII Vo i. Il - maggio 1871, pp. 27 1 }110


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sente che - come ricorda il Bastico - siffatte modifiche sono ben lontane da un ' Istruzione provvisoria precedentemente compilata dal Comitato delle Armi di linea e mai entrata in vigore, che ne sancisce decisamente e senza equivoci l'adozione, così giustificata: nessun reparto di truppe può stare in ordine chiuso nella wna del f uoco efficace della fanteria nemica senza esporsi a perdite gravissime. Tale wna può considerarsi cominciare a 500 metri circa dalla linea dei cacciatori nemici. L'ordine sparso o diradato, che permette di avanzare in quella wna con perdite relativamente minori, ha acquistato oggi una tale importanza, da doversi ormai considerare non già come un meu.o per preparare il combattimento in ordine chiuso, ma come modo normale ed unico di combattere, tanto nell'offensiva che nella difesa.

li successivo Regolamento di esercizi e di evoluzioni per la fanteria del 1876 (ancora in vigore nel 1888) indica i più minuti particolari per far agire in ordine sparso il plotone e la compagnia, prevedendo per il battaglione un ordine misto quale "vero ordine di combaJtimento per la massima parte dei casi ". Nel 1883 compaiono le Norme generali per la divisione di fanteria nel combattimento, le prime che sanciscono dei criteri d'impiego per le Grandi Unità. Forse sotto l'impressione degli eventi della guerra russo-turca, vi si tende a mettere la difensiva sullo stesso piano dell'offensiva; tendenza subito corretta con le successive Norme generali per l'impiego delle tre Armi nel combattimento del 1885-1887, che tornano a ribadire la superiorità dell'offensiva, more solito come se difensiva e offensiva fossero una libera scelta e una decisione indipendente dal terreno e dalla situazione. Tali Nonne infatti (para. 25) affermano: l'azione offensiva è quella che permette di ottenere i risultati più decisivi; un comandante di truppe dovrà porla sempre [e se non è possibile? - N.d.a. I come scopo da raggiungere. Soltanto in circostanze eccezionali e transitoriamente egli si rassegnerà a subire la difensiva [ma non può essere anche un vantaggio ? - N.d.a.). Certamente nella condotta delle unità in combattimento è necessario tener conto delle condizioni topografiche del terreno; ma sarebbe dannoso esagerarne l'importanza e perdere di vista che gli elementi principali del campo di battaglia sono le truppe proprie e quelle dell'avversario [e se le "truppe proprie" non consentono l'offensiva, e consigliano invece di sfruttare i vantaggi della difensiva? - N.d.a.J. Difronte ad un 'energica decisione il morale delle proprie truppe si eleva ranche se esse non sono più in


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grado di attaccare? - N.d.a.l e quello del nemico si abbassa [non è dello - N.d.a. 1- Se preparato e condotto con energia, un attacco su terreno completamente scopeno può riuscire anche se ci si esponga a gravi perdite Ima può anche non riuscire, con probabilità che a priori non possono essere che pari - N.d.a. J.

Le stesse Norme prescrivono l'impiego degli ordini radi per i battaglioni di prima linea, mentre le truppe di seconda e terza linea devono adottare le linee di colonna di compagnia rancora! - N.d.a.]. oppure altre formazioni meno vulnerabili e più adatte allo sfruttamento del terreno. Il quadro di riferimento, comunque, è sempre e solo quello dell'offensiva; di come realizzare una proficua difensiva non si parla. Le lodi del Bastico alle predette Norme del 1885- 1887 non ci sembrano g iustificate ; in tali Norme appare infatti evidente lo scopo morale di sv iluppare lo spirito offensivo di Quadri e truppe, ampliando i vantaggi e troppo attenuando gli svantaggi dell 'offensiva. Il successivo Regolamento di esercizi per la fanteria del 1889-1892 rimane in vigore fino al 1907 (quindi vale anche dopo l'introduzione del fucile mod. 91), sopravvive alla guerra anglo-boera 1899-1902 e viene abrogato solo dopo la guerra russo-giapponese. Si ispira all 'analogo regolamento tedesco e indica nell 'ordine sparso la normale formazione di combattimento, ritenendo però indispensabile che, per una suo corretta applicazione, i Quadri siano dotati di iniziativa e il soldato sia agile, ardilo, fiducioso nel proprio valore e capace di sfruttare il terreno. Senza questi presupposti - ammonisce il regolamento - diventerebbe una formazione priva di coesione, nella quale gli ufficiali non sarebbero in grado di guidare la truppa durante l'azione. Senza dubbio tale regolamento semplifica ulteriormente i movimenti sul campo di battaglia e abolisce altre formule rigide e altri inutili formalismi. Ma, di fatto, l'ordine sparso è come sempre parziale e si continua a pretendere un ammassamento eccessivo a distanza ravvicinata dal nemico, con fronti assai ristretti (per una brigata, 800-1000 passi nel1' offensiva e 1200-1500 nella difensiva). In particolare nei battaglioni di prima schiera Le compagnie avanzate fanno inizialmente parte della forza in sostegno I... 1- Nella catena l' intervallo normale fra gli uomini è fissato a 15 cm [nostro corsivo - N.d.a.l. La formazione delle compagnie del grosso deve essere tale da trarre dal terreno la più efficace protezione e nel tempo stesso averle sottomano, per accorrere ove sia richiesto dall'andamento del combattimento. Per la


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seconda e terza schiera il regolamento sconsiglia le colonne nella wna del fuoco di fanteria. 33

In conclusione, a fine secolo XIX è già stato adottato anche in Italia il fucile a ripetizione ordinaria, ci sono le mitragliatrici, ci sono i cannoni con affusto a deformazione a tiro rapido: ma nelJe formazioni della fanteria non solo in Italia sopravvivono ancora troppe forme residue delle battaglie napoleoniche e non è affatto scomparso il culto dell'uomo in piedi a contatto di gomito.

La tattica in Africa secondo il col. Baratieri ( 1888) e il ten. col. Luciano ( 1890): come si è combattuto ad Adua?

In precedenti studi abbiamo già esaminato il quadro generale nel quale matura la sconfitta di Adua e le ragioni di tale sconfitta, da attribuire principalmente - anche se non esclusivamente - a fattori di carattere strategico e logistico che investono la responsabilità primaria del generale Raraticri, per essersi spinto troppo in profondità con forze insufficienti, senza ben valutare le forze nemiche e soprattutto senza una preparazione logistica e un'organizzazione dei trasporti adeguate alle presumibili difficoltà. 34 Ricordiamo anche che, come il Ricci e il Marselli, altri due illustri e già citati scrittori militari, il generale Corsi e l'allora colonnello Marazzi, si sono dichiarati contrari alla politica di espansione coloniale in Africa e hanno duramente criticato sia la politica del governo nel 1895- 1896, sia la preparazione e condotta delle operazioni da parte del Baratieri ad Adua. Quindici giorni prima della battaglia il Corsi scrive che in Eritrea "ci eravamo cacciati addentro, con due lunghe punte, nella parte meno felice, o meglio più infelice, del tristo continente nero [... ] in virtù di un diritto di un genere alquanto diverso da quello in nome del quale avevamo costituito questa ltalia, una libera ecc. non molti anni prima [... ]. Una colonia

33 Cit. in Felice De Chaurand, le formazioni della.fanteria difronte a/fucile odiemo. in "R ivista Militare Italiana" Anno XLVIIl Voi. m Disp. Vll - 16 luglio 1903, pp. 1168-1190. 34 Botti, /11 .ttoria della logistica dell'Esercito Italiano (Voi. Il), Roma. SME . Uf. Storico 1991, pp. 447 -504 e ID., Aspetti logistici<! amministrativi delle campagne coloniali italiane (in Alti del Convegno "Fot11i e problemi della politica coloniale italiana", Roma, Ministero dei Beni Culturali e Ambientali 1996, pp. 1124 - 1149). Si veda anche Francesco Birardi, Della riabilitazione ,li Baratieri. in "L1 vita italiana" Anno XXII · Voi. XLm maggio 1934, pp. 596-611 e g iugno 1934, pp. 72 1-736.


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come quella non era buona per nessuno, tanto meno per l'Ttalia". 35 E dopo la sconfitta parla telegraficamente di eroismo, ma ermre grave all'Amba Alagi, compensato in parte a Macallé. Inerzia intorno ad Adigrat [... ].Improvvida ostinazione nel voler rimanere nell'Agamè a fronte di un nemico tanto soverchiante di forze [...]. Imprudenza gravissima nel voler avanzare verso Adua, su quel terreno, contro quel nemico, con tanti impedimenti a tergo e nelle colonne, senza vettovaglie assicurate. Eccesso di ardimento e di iniziativa in alcuni Comandi di secondo ordine, manchevolezza nel Comando Supremo[... ]. Ritiratafatale, disordinatissima, deplorevolessima. 36

Un altro nome illustre, Luigi Einaudi, dopo Adua scrive che i poteri colonizzatori non sono quelli che colla forza delle armi si impadroniscono di un territorio barbaro e semi-barbaro, e ~precano sangue e denaro in pro di una folta schiera di parassiti: ma sono invece le nazioni che sanno sfruttare col commercio e con l'industria le sorgenti di ricchezza, neglette dalla barharie e dall'ignoranza degli indigeni. 37

Facendo eco all'Einaudi, il Marazzi afferma che "le colonie ottenute con la forza brutale ed avvinte col dominio politico, non ingagliardiscono la madrepatria"; sono vantaggiose solo le colonie "sorte naturalmente colla emigrazione in lontane regioni e i commerci attivati liberamente", che risolvono il problema della esuberanza di braccia e al tempo stesso creano ricchezza. Sotto questo profilo, per il Marazzi è stato un errore andare in Eritrea; si tratta di una colonia che non assicura alcun vantaggio materiale o morale, quindi è "un pessimo affare". Bisogna invece preparare, organizzare, dirigere l'enùgrazione in territori adatti, e soprallulto guardare al Mediterraneo dove l'Italia "è geograficamente chiusa, e politicamente prigioniera". Perciò più che alle colonie nel Mar Rosso, dobbiamo provvedere a una potente flolla militare e mercantile nel Mediterraneo. Attualmente i nostri in-

35 Carlo Corsi, Questioni del governo: le cose d 'Africa, in "Riforma Sociale" Anno 111 ( 1896), Voi. V pp. 272-273. 36 ivi, pp. 904-905. J7 Luigi Einaudi, Gli interes.~i italiani nel Levante, in " Riforma Sociale"'" Anno lii (1896), Voi. V p. 656.


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teressi - almeno così si dice - collimano con quelli inglesi, ma .... e se non collimassero più? Sarebbe agevole per noi il recarci in Eritrea, col Canale di Suez e Gibilterra in mani nemiche? L 'Eritrea, dunque, più che allearci ci sottomette al Gabinetto di Londra; più una tal colonia potesse diventare prospera e più il suo possesso diventerebbe precario e pericoloso. Noi siamo entrati troppo tardi nelle avventure coloniali ed anche se fossero un bene dovremmo astenercene, ricordando che La miglior colonia è una potente marina. 38

I maggiori nomi della letteratura militare, dunque, già a distanza di pochi mesi da Adua non mancano di pronunciarsi con chiarezza sulle responsabilità politiche e militari. Rimane da stabilire quali sono i principi tattici con i quali si è combattuta da parte nostra la battaglia, se essi erano o meno rispondenti alle esigenze del particolare ambiente africano e qual'è stato il loro peso reale. In proposito sono stati finora ingiustamente ignorati tre lunghi articoli del 1888 dall' allora colonnello Baratieri, importanti perchè il futuro generale di Adua dopo aver descritto il modo di combattere degli abissini vi indica con chiarezza la tattica che le truppe italiane dovrebbero usare. 39 li numero di 100.000 armati del Negus Neghesti ricorre frequentemente nelle valutazioni del Baratieri, che si rende ben conto anche che "gli abissini d 'ordinario non attaccano se non si sentono in numero di gran lunga superiore, essendo presso di loro disdoro l'arrischiare, non il ritirarsi". Non gli sfugge nemmeno l'effetto morale - su truppe europee della tendenza degli abissini ad avvolgere l'avversario, e l'efficacia del loro modo sia pur primitivo di attaccare: tutto si svolge per iniziativa individuale e senza segnali od ordini dei capi. I fucilieri risparmiano le loro cartucce e cercano di farne sparare molte al nemico, incoraggiati dal poco danno che cagionano, in terreno così frastagliato e coperto, i fuochi a Lunga gittata. Data la posizione ristretta del difensore europeo, i fuochi incrociati sopra una sua ala o anche su tutte e due producono perdite rilevanti, cui l'europeo risponde o col nwltiplicare febbrilmente gli spari che poco colpiscono,

"' Fortunato MardZZi, Que.ftioni del giorno - la nostra l·ituazione e la co/011ia eritrea, in "Riforma Sociale" Anno IV (1897), Voi. VII pp. 257-267. 39 Oreste Baratieri, Di fronte agli abissini, in "Nuova Antologia" Voi. XV Fase. Xl - I giogno 1888, pp. 404-433; ID.• Voi. XVI Fase. Xl 11 - 1 luglio 1888, pp. 37-69 e Fase. XV - I agosto 1888, pp. 407-444.


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ovvero con riprese offensive, le quali vanno a infrangersi contro l'enorme superiorità numerica abissina che ormai afferra e sta per restringere le zanne.

Segue la descrizione del terrificante assalto finale abissino... Fin qui non si vede perchè una siffatta tattica dovrebbe essere inferiore a quella europea: ma contradditoriamente il Baratieri afferma che, anche con le armi da fuoco, la tattica abissina "è rimasta sempre bambina né d(tf'erisce gran fatto dalla tattica usata dalle moltitudini selvagge"; essa perciò "non merita il nome di arte". Inoltre gli abissini non hanno artiglierie, e nessuno tra di loro "ha la più vaga idea di manovre ed evoluzioni anche elementari"; tutto si basa sull'individuo. Hanno poche munizioni e non sanno impiegare l'alzo, quindi non possono sfruttare la lunga gittata dei fucili e fanno solo fuoco individuale e a breve distanze; "e così questo fuoco individuale se fatto da molti contro pochissimi, come per esempio a Dogali, può bensì massacrarli; ma usato in scala maggiore, specie contro nemico in posizione, disciplinato e munito d 'artiglieria, se può ca1:ionare perdite anche gravi, non può essere signore del campo di batta1:lia ". L'inferiorità del fuoco abissino è ancor più evidente, se si considera che esso per mam:anza di disciplina non può essere diretto verso un comune obiettivo, non può preparare l'attacco, non è effettuato nell'ambito di una manovra e non è appoggiato dal]' artiglieri a. In definitiva, a parere del Baratieri questo modo di combattere degli abissini fa risaltare ancor di più la grande superiorità della tattica europea: siamo lontani dalla graduale distribuzione delle patti, dalla flessibilità di esse, dall'articolazione sul campo di baltaf?lia, dalla disciplina gerarchica, che le rende manovrabili in qualsivoglia circostanza, verso qualunque obiettivo. Ri.\petto agli Abissini, le truppe europee sono anche oggidì come la falange greca era difronte alle truppe asiatiche. e come era la legione romana di fronte alle truppe Rerrnaniche, galle. africane e asiatiche.

La netta, ingiustificata sottovalutazione delJ' avversario e l'altrettanto netta sopravvalutazione del modo di combattere europeo si fanno sentire anche quando egli indica nel dettaglio la tattica da usare per le truppe italiane. Dice parecchie cose interessanti e appropriate, sull ' importanza del servizio informazioni c sulla difficoltà di sceverare le informazioni vere da quelle false, sull'esplorazione, sulla sicurezza in marcia e stazione, sui convogli, sulla logistica ccc., ma assai meno convincenti sono le sue af-


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fermazioni sul modo di affrontare il combattimento. Ritiene particolarmente utile, in Africa, l'offensiva, anche se non avventata; ma, senza necessità, cerca di far emergere soprattutto gli svantaggi della difensiva tattica, che pure per sua stessa ammissione, nel particolare ambiente consentirebbe di meglio sfruttare la superiorità di fuoco e rimediare all'inferiorità di forze: purtroppo molte volte il numero esiguo, la bontà della posizione occupala, il vantaggio di ,çpiegare tutta la potenza del fuoco, l'incertezza .. _. indurranno gli ufficiali europei al combattimento difensivo_ Ma stiamo sulle guardie perchè la difesa rincuora il nemico, scema l'ardore in soldati giovani e caldi, mette loro sotto gli occhi il deprimente sp ettacolo dei compagni morti e feriti, li eccita pel bisogno nervoso di movimento al tiro ogn.or più accelerato e quindi ognora più disordinato, toglie a noi l'iniziativa ed il vantaggio della manovra disciplinata.....

In Africa le ordinanze sempre più rade e sottili che si usano in Europa non servono, perchè "il fuoco di cacciatori ad uso europeo nei casi ordinari spenderebbe forze e tempo e scemerebbe l'effetto morale della simultaneità, senza rischiarare la situazione, senza giovare alla manovra". Gli abissini si sottraggono al fuoco strisciando a terra e sparando ben protetti dagli ostacoli del terreno, ma per le nostre truppe il Baratieri non vede di buon occhio nemmeno la posizione a terra: La truppa fenna può porsi in ginocchio oppure a terra, purchè non scemi il valore del suo tiro; ma ricordati sempre che lo stare impavidamente dritti (sic) impone al selvaggio, che L'azione da dritti può svolgersi più Libera e pronta, che i tiri abissini non sono in generale gran che micidiali specie a una certa distanza____ Insomma ricorda che le posizioni in ginocchio e a terra sono qui assai meno utili che sui campi di battaglia europei.

Affermazioni totalmente sbagliate; eppure un pò più sotto il Baratieri ricorda che il terreno rotto e ricco di cespugli agevola l'attaccante, consentendogli di portarsi senza essere individuato mollo vicino al difensore per poi aprire improvvisamente il fuoco. Ci si deve chiedere: ma questo non consiglierebbe al difensore di ripararsi a sua volta, per non offrire facili bersagli al tiro ravvicinato del nemico? Perchè in Africa la posizione a terra dovrebbe essere meno conveniente che in Europa?


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Nelle ultime guerre coloniali gli inglesi hanno spesso usato la formazione in quadrato, che consente di parare le offese da ogni parte; ma il Baratieri osserva, questa volta giustamente, che le esperienze di guerra altrui non possono fornire regole sicure data la molto diversa situazione e altrettanto giustamente consiglia di andare cauti nel ricorrere alla formazione in quadrato, per quattro motivi: primo perchè sce11UJ di soverchio le due qualità essenziali movimento e fuoco; secondo perchè marciando si scompone, si allunga, si imbroglia [ ... ]; terzo perchè scaglionandoci avremo spesso agevolezza di coprire il convoglio e .\piegheremmo maggiore potenza di tiro; infine, quarto perchè iuardandoci ai fianchi e in coda potremo prevenire le sorprese che costringono al subitaneo e spesso tumultuoso piegamento in quadrato.

Nonostante le precedenli perplessità egli indica con sufficie nte precisione anche come deve essere preparato e condotto un combattimento difensivo. Dietro un'abbattuta di cespugli spinosi, detta zeriha, per coprirsi dai tiri "i quali potrebbero essere micidiali contro bersagli addensati e contro quadrupedi [e allora? - N.d.a]", è necessario "profittare di tutto per

erigere unfermapalle; in caso di fretta da prima coi basti, coi carichi e via dicendo, poi colla terra e coi sassi". Mancano, per questo, attrezzi da zappatore. La vanghetta Linnemann e gli attrezzi al momento in dotazione, non sono adatti al terreno e alle esigenze della colonia: ogni compagnia dovrebbe averne un numero maggiore e di qualità migliore. La maggior parte della fanteria va schierata sul fronte principale, dietro ripari e su due righe; le restanti forze guardano i fianchi e il tergo e/o stanno in riserva. Solo i tiratori scelti aprono il fuoco a lunga distanza; le restanti truppe aprono i] fuoco a breve distanza, a comando e a salve. Quando il nemico, dopo aver subìto gravi perdite, è arrestato davanti alla zeriba, scatta il contrattacco risolutivo. L'attacco deve essere preceduto da "un fuo co di preparazione [coi fucili] a comando, ben mirato su due righe, in ordine chiuso". Quando il nemico risulta scosso si deve iniziare l'avanzata per l'assalto, con una parte del battaglione (due - tre compagnie) che fa fuoco da fermo per appoggiare il movimento in avanti, di corsa, delle restanti compagnie anche perchè essi consentono di conservare meglio i legami tattici, senza molte perdite perchè i] fuoco nemico "è poco pericoloso" (ma a che distanza?). A breve distanza dal nemico "le compagnie si raccolgono in linea, prendono il fiato necessario, fanno un fuoco infernale, a ripetizione sulle masse

nemiche e irrompono ardenti e unite tutto travolgendo nella corsa loro ";


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comunque il comandante deve sempre mantenere alla mano una riserva e tenersi pronto a sfruttare il successo. Come si vede, pur dando poco peso al fuoco nemico il Baratieri dà grande importanza al fuoco amico, o meglio al fuoco di fucileria amico. Per questo apprezza particolarmente il fucile a ripetizione, fino a esagerarne il ruolo in colonia: nel momento opportuno può menare tale strage da evitarci un disastro, da darci la vittoria, da imprimersi come marchio infuocalo nell'immaginazione del nemico e da determinarne l'assoluta sommissione l...]. Sopra nessun campo di batta1:lia il.fucile a ripetizione può cogliere allori più sanguinosi che contro le tribù selvagge che si affollano e pressano sotto e intorno alle posizioni......

Ritiene perciò che sia stato conveniente dare in dotazione il fucile aripetizione (Vetterli modificato Vitali) alle truppe in colonia, "malgrado gli inconvenienti [di funzionamento - N.d.a.J troppo noti". Vale tuttavia la pena "di dare al corpo coloniale il migliore facile a ripetizione nuovo [cioè il futuro mod. 1891 - N.d.a.], perchè esso potrà raddoppiarne il valore morale e materiale". A tal proposito il Baratieri accenna ai frequenti guasti dell'arma di vecchio modello, che in colonia si ripardllo tardi e male. A fronte di questa sorta di culto per il fucile a ripetizione, risulta più sfumata l'importanza dell'artiglieria, mentre quella delle mitragliatrici è negata senza perifrasi. L'artiglieria - afferma il Baratieri - è assai utile, ma deve evitare di aprire il fuoco troppo presto e a troppa distanza. Il terreno molto rotto ne limita il campo d'azione e la rende vulnerabile, rende ndo necessarie per le batterie forti scorte di fanteria; inoltre richiede numerosi quadrupedi , che diminuiscono la mobilità delle colonne e aumentano le difficoltà del rifornimento idrico. Le mitragliatrici , per il Baraticri , non hanno il pregio morale dei cannoni e ai loro inconvenienti aggiungono quello di incepparsi troppo facilmente proprio nei momenti decisivi, come è avvenuto a Dogali (anche le mitragliatrici inglesi nella campagna del 1885 contro i mahdisti sono state ancor meno utili di quelle italiane). Ad esse, perciò, il Baratieri dichiara esplicitamente di preferire i fucili. Egli chiude il lungo esame con lodi alle qualità dimostrate dal soldato italfano in colonia; eppure a distanza di alcuni anni (si veda anche ciò che ne dice Enrico Barone) condannerà duramente il panico e la fuga prematura di una parte delle truppe ad Adua. Gli articoli del Baratieri, tra l'altro pubblicati sulla NuovaAntolo{?ia e non su una rivista militare, sono rara a vis; la stampa militare dedica la sua


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attenzione soprattutto ai problemi della guerra europea. Una delle poche eccezioni sono due articoli sulla Rivista Militare ( 1890) del colonnello Luciano, che però rispetto al Baratieri - da lui citato - non dice nulla di nuovo, anzi su parecchie questioni mostra cli avere una visione ancor più arretrata, a cominciare dalle formazioni di combattimento. 40 A parere del Luciano, nel movimento in terreno aperto si deve adottare esclusivamente l'ordine chiuso o la sua forma più compatta, che è il quadrato di battaglione adottato spesso dagli inglesi nella loro ultima campagna coloniale. L'ordine sparso va adottato solo in terreno rotto, boschivo ecc. Ima è questo il terreno prevalente in colonia - N.d.a.]; in tale terreno si manovra a manipoli, o a gruppi. Nella prospettiva del Baratieri, e ancor più in quella del Luciano, il modo di combattere abissino, assimilabile a quello dei "cacciatori" europei e basato sul fuoco libero e sullo sfruttamento spontaneo del terreno, sembra dunque spingere ad affrontarlo con formazioni più serrate, anche a scapito cli un aumento della vulnerabilità. Ambedue gli autori puntano sulla superiorità di fuoco, ma mostrano un'ingiustjficata ritrosia quando si tratta di riconoscere i vantaggi del combattimento difensivo su posizioni ben organizzate, che consente appunto cli sfruttare al massimo tale superiorità di fronte a forze superiori, curando la protezione di tiratori. Rimane ora da esaminare qual'è stata la tattica effettivamente applicata ad Adua e fino a che punto essa ha pesato sull'infausto esito della battaglia. Consentono di dare una prima risposta a questa domanda due articoli (non firmati, ma dovuti "a uno che c 'è stato") sulla Rivista di Fanteria del 1898.41 E' presto detto: mentre gli abissini combattevano esattamente come descritto dal Baratieri e perciò erano scarsamente visibili ("non li vedemmo quasi mai, o solo malamente e ad intervalli"), le truppe italiane della brigata Dabormida, distese fin dal principio del combattimento in lunghe linee di tiratori, come usiamo alle tattiche o in piau.a d'arme, offrivano una regolarità meravigliosa, ma - specialmente sulle alture di sinistra - in pochi minuti soffrivano perdite enonni di soldati e più di ufficiali [ ...]. La lezione, però, non andò perduta, ché tosto i veri reparti si fecero ritirare in una posizione più arretrata d'un centinaio di metri, la quale venne oc-

40 G.B. Luciano, La tattirn in Africa, in "Rivista Militare Italiana" Anno XXXV Vol. I - gennaio 1890, pp. 55-87 e febbraio 1890, pp. 261 -295. 4 1 (Senza Autore), La guerra eri/reo-abissina del /X96, in "Rivista di Fanteria" Anno VII - 1898, CCI. pp. 112-143 e CCIV, pp. 172- 195.


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cupata per gruppi e in modo che i soldati, così disposti, poterono meglio approfittare d'of?ni minimo ostacolo, senza che per ciò nascesse slegamento alcuno sulla fronte di battaglia.

Quest'ultima formazione, secondo la rivista, "condanna una tendenza dannosa che si manifesta durante la pace e fa desiderare un ritorno intelligente all'antico". Ma più avanti si lamenta che, malgrado il nutrilo fuoco nemico e le forti perdite, "nessun uomo delle nostre catene aveva presa la posizione di a terra; i nostri soldati seguendo le abitudini del tempo di pace, stavano tranquillamente in ginocchio e gli ufficiali anch'essi in piedi, offrendo al nemico un bersaglio inutilmente maggiore e raddoppiando per lo meno l'efficacia del suo fuoco ". Secondo l'ignoto autore occorrerebbe prevedere un ordine sparso basato su gruppi di quattro uomini con un sol soldato anziano capo-quadriglia, come avveniva in passato per i bersaglieri. Tali quadriglie sarebbero poi raggruppate in squadriglie, squadre, plotoni ecc.; in tal modo si otterrebbe "una catena flessibilissima, più snodata, più adattabile e resistente". Invece noi, ultimamente in Africa, vogliamo combattere quasi con formazione lineare, vogliamo le catene a stretto contatto di gomiti, vogliamo quasi esclusivamente il tiro a salve [su ordine degli ufficiali - N.d.a.], e appena adottato un fucile a picrnlo calibro lii fucile 91 - N.d.a. I, che affermiamo ottimo, lo sostituiamo col vecchio Iil fucile Ycttcrli con il quale erano ancora annate le nostre truppe ad Adua - N.d.a.l, quando si deve marciare contro il nemico.

Ad Adua il nostro soldato ha dimostrato di saper scegliere i bersagli e fare fuoco intelligentemente, anche senza ordini. Non ci si deve quindi preoccupare troppo della disciplina del fuoco e del rifornimento munizioni: il fuoco libero può sempre essere fatto cessare "dall'ufficiale che vuole e sa". La tattica migliore è impiegare all'inizio poche forze, che però sviluppano un intenso volume di fuoco sostituendo forze più numerose, che sparano lentamente; e la fase iniziale è quella che meglio si presta al rifornimento munizioni. Peraltro, ad Adua l'alzo "si è rivelato quasi sempre un congegno inutile": sarebbe perciò più pratico e utile "abituare i nostri soldati a puntare bene, ma non con l'alzo e con l'occhio, bensì con le braccia, abituandoli a puntare con un dato angolo di tiro, di primo getto, senza tanti inciampi di visuali attraverso tacche diritti e sommità di mirini".


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Segue una dura critica al carente addestramento di pace e alle cattive abitudini fatte acquistare alla truppa dagli artificiosi e inutili esercizi di piazza d'armi, i cui inconvenienti sono stati dimostrati da parecchi altri episodi della battaglia che la rivista descrive_ 1noltre essa, del tutto a ragione, boccia la costituzione eterogenea di reparti di formazione tratti da tutti i reggimenti della madrepatria, nei quali i soldati non si conoscevano bene tra di loro e soprattutto non conoscevano gli ufficiali loro comandanti. E' così avvenuto che, durante la ritirata, sono rimaste salde e sempre unite solo le compagnie già inquadrate e costituite in Italia. con i loro ufficiali ben conosciuti. Gli inconvenienti della costituzione improvvisata delle altre compagnie forniscono inoltre alla rivista l'occasione per spezzare una lancia a favore del reclutamento regionale : "il fatale modo tenuto nel comporre inorganicamente le truppe d 'Africa (sic) non è stato altro che un reclutamento nazionale: i bei risultati che ne abbiamo tratto non

sono però stati sufficienti a stenebrare certe teste politiche le quali sono rimaste al buio. Dovremo perciò rimanervi in eterno noi che non siamo cechi, noi militari?"_ Altre osservazioni riguardano questioni elementari che dovrebbe ro essere scontate e superate ma c he evidentemente non lo sono affatto, come il modo di redigere e trasmettere gli ordini, la necessità di inquadrare preventivamente gli ufficiali sullo scopo e modalità dell'azione da svolgere, ecc .. Non mancano fondate critiche anche all ' uniforme degli ufficiali, che ormai - per non esporli inutilmente al tiro nemico - dovrebbero essere il più possibile simile a quella della truppa: quindi niente sciarpa azzurra e niente velo celeste sull'elmetto, che li rendono troppo visibili. Anche il loro armamento è superato: la sciabola è inutile, la pistola a tamburo richiede troppo tempo per essere ricaricala nell'orgasmo del combattimento e andrebbe sostituita da una pistola automatica più leggera e maneggevole; infine l'ufficiale non sa dove me ttere le munizioni per la pistola: in tasca? Riassumendo, il meno che si possa dire della battaglia di Adua è che essa non dimostra affatto quanto hanno sostenuto, prima, il Baratieri e il Luciano. Nessuna superiorità della tattica europea, ma, se mai, superiorità della tattica abissina nel particolare ambiente; impossibilità per il fuoco di fucileria di svolgere il ruolo troppo ambizioso assegnatogli specie dal Baratieri; disciplina del fuoco poco redditizia e impossibile da mantenere nel vivo della battaglia; formazioni troppo vulnerabili specie per il fuoco nemico a brevi distanze, senza fornire gli sperati vantaggi. li fatto che parecchi caduti siano stati trovati ancora allineati depone a favore del valore delle truppe, ma non della rispondenza delle formazioni adottate, né dei pretesi vantaggi della formazione in piedi ai quali accenna il Baratieri.


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L'orif?inale commento della "Rivista di Fanteria" alle tesi di Jean Bloch sulla guerra futura

Come si è visto, Enrico Barone ha contestalo - a torto - le tesi (allarmanti ma purtroppo realistiche) dello studioso russo Bloch sulle conseguenze economiche della futura guerra.42 Ben diversa l'opinione della Rivista di Fanteria, in un articolo del 1898 non firmato e quindi attribuibile allo stesso direttore cap. Guerrini, 43 che dopo aver efficacemente riassunto quanto scrive il Bloch si dichiara d'accordo con lui, ma aJ tempo stesso ne trae un messaggio ben diverso dalla semplice rinuncia alla guerra e/o dal disarmo, come hanno sempre fatto i pacifisti e gli antimilitaristi d'ogni latitudine e d'ogni tempo. La rivista così riassume le tesi del Bloch: - "la guerra futura sarà fonte di un grande perturbamento economico e sociale, così grande come non fu mai"; - essa sarà combattuta con eserciti di massa; ne risulteranno turbati molti interessi e sentimenti prima non toccali. L'economia normale sarà paralizzata per mancanza di braccia; - queste braccia non torneranno più al lavoro. perchè a fine guerra saranno morte o inabili. A causa dell'aumentata potenza delle armi, infatti, le perdite saranno molto maggiori; - il danno economico della guerra sarà maggiore per le nazioni più industrializzate; - aumenteranno i prezzi dei generi di prima necessità, diminuirà il valore della carta-moneta, il denaro si farà più scarso, crescerà il tasso di sconto, aumenteranno i fallimenti, i titoli di Stato perderanno valore; - diversamente da quanto è accaduto nelle ultime guerre, i trasporti marittimi e terrestri saranno soffocati e il teatro delle operazioni diventalo mollo più vasto rispetto al passato - sarà un mercato perduto. Per queste ragioni anche coloro che non sono chiamati allearmi difficilmente troveranno lavoro, perchè le fabbriche e officine chiuderanno; - "dal 70 in qua c'è il nuovo importantissimo fatto dell'influenza economica che l'America del Nord esercita sull'Europa e contro la quale l'Europa volge oramai tutta la propria attività per difendersi. Che cosa accadrà mai, quando l'Europa paralizzata dalla guerra non

42 43

Cfr. Jean Bloch, w guerre (6 Voi.), Paris. Duponl I 898 (traduzione francese dal russo). Conseguenze economiche della guerra, in "Rivista di Fanteria" Anno VI - I 898pp. I00-11 I .


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potrà più difendersi? Questa considerazione è straordinariamenJe importante"; - poichè la produzione agricola è quella che meno risente de1le perturbazioni della guerra, le nazioni molto industrializzate (prima di tutto la Germania e poi la Francia) si troveranno nelle peggiori condizioni, mentre l'Italia e la Russia si troveranno nelle migliori condizioni; - "la guerra futura non potrà essere molto breve; estesa a fondo, essa divenJerà una vera e propria lolla suprema per alcune nazioni e per molte dinastie". Buona parte di queste previsioni del Bloch si sono rivelate esatle. Ma ci sarebbe parecchio da obiettare su altre, a cominciare dall'asserito ristagno economico e industiiale del tempo di guerra. Bloch trascura ad esempio il fatto elementare - ma decisivo - che masse dotate delle armi più potenti e moderne richiedono, a monte, maggiore disponibilitit di materie prime e un forte aumento della produzione industriale, quindi della forza lavoro, sia pur limitatamente alle esigenze beJliche. E trascura anche l'altro fatto elementare - ma ugualmente decisivo - che l'Italia non potrà certo trovarsi nelle migliori condizioni, prima di tutto per carenza di materie prime e per arretratezza industliale. La Rivista di Fanteria, comunque, non contesta alcunché; anzi osserva che il Bloch ha parlato solo delle conseguenze immediate e visibili, e afferma che anche se i danni della guerra fossero il doppio di quelli che egli ha indicati, non si farebbe altro che dimostrare in una maniera nuova che la guerra non è il capriccio d'un re o la follia d'un popolo, ma è la grandissima legge dell 'umanilà. Poichè la guerra è una così grande rovina e nondimeno la si fa, ciò vuol dire che essa dipende da un qualche cosa che la volontà d'un uomo, o di un popolo, o di tutta l'umanità non possono modificare.

Ne consegue che tutte le considerazioni che ha fatto allo scopo di distogliere le menti dalla guerra, di dimostrarne le funeste conseguenze economiche ecc., non sono un ragionamento completo, ma sono puramente e semplicemente una (e neanche completa) delle premesse di un sillogismo che può essere formulato così: 0 ] ) la guerra è una tremenda cosa (specie a chi ne esce vinto).


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2°) Ma la guerra è fatale, inevitabile. 3°) Dunque, bisogna apparecchiarsi con ogni cura e poterla e saperla fare bene.

Le due guerre mondiali del XX secolo hanno dato ragione anche alla Rivista di Fanteria; si potrebbe solo dire che la guerra, più che inevitabile, è difficilmente evitabile, e questo vale anche per il XXI secolo. Per altro verso, le considerazioni del Bloch si prestano a fungere da utile schermo, attraverso il quale giudicare in tutte le interfacce il dibattito prima esaminato, facendo emergere la vera posta in gioco, che dipende da due fattori principali: eserciti di massa e armi più potenti. Sotto questo profilo, non c'è affatto bisogno di aspettare il XX secolo per constatare le molte, troppe esitazioni, i ripensamenti, i ragionamenti improntati a una logica solo apparente, i timori, i formalismi e le nostalgie che impediscono a una parte significativa degli autori prima esaminati di prendere atto di una realtà elementare: che arnù più potenti provocano perdite maggiori specie in formazioni chiuse, e che se un tiratore è protetto da una trincea, spara meglio ed è meno vulnerabile. Non c'è dubbio che, come le armi moderne, l'ordine rado comporta anche dei problemi e richiede Quadri più preparati, capaci di agire d' iniziativa; ma si tratta di prendere atto che necessità fa legge, e che comunque il rimedio non è ceno il ritorno all'ordine chiuso, sempre abbandonato nel vivo del combattimento. Infatti - come scrive fu dal 1873 il generale prussiano Bogulawski dopo l'esperienza della guerra 1870-1871 la scuola d'esercizio in ordine chiuso - anche fatta nel mvdo più severo, non riuscirà mai a inculcare la disciplina necessaria per i grandi combattimenti di cucc:iuluri del giumu d 'oggi l... J. I mezzi per ollenere quella disciplina non risiedono che nell 'educazione personale del soldato e nello esercizio ancor più esteso e ripetuto del combattimento in ordine :,parso. 44

Non è una novità: le armate della Rivoluzione Francese di oltre un secolo prima, non contavano forse più sui fattori morali che sulla disciplina? Si deve piuttosto constatare che il secolo XIX si apre con le brillanti ed economiche intuizioni strategiche e tattiche napoleoniche, ma si chiude in

44 Cfr. A. Bogulawski, Deduzioni tattiche della guerra 1870 · 1871 (traduz. del gcn. F.gidio Osio), Roma, Voghera 1873.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. lii (1870-1915) - TOMO I

campo tattico con uno scenario sempre meno favorevole a rapide vittorie, e in campo politico-strategico ed economico con il fosco quadro della guerra totale tracciato dal Bloch, sostanzialmente esatto, perché annuncia la fine della guerra solo di eserciti, come era stata anche quella del 1870 1871, che si vorrebbe ripetere_

SEZIONE m - Verso la guerra di trincea: il fuoco, l'offensiva e la difensiva nel dibattito da fine secolo XIX al 1915 Nei più volte citati "Studi Storico-Militari" 1985, 1986 e 1987 abbiamo già esaminato la problematica relativa ali' influsso delle nuove armi sulla realtà del combattimento nel periodo 1900-1915. Rimandiamo a tali scritti, sottolineando l'importanza del dibattito sul futuro ruolo delle varie Armi, sull' opportunità di adottare o meno le nuove artiglierie da campagna a tiro rapido con affusto a deformazione e sulla necessità di migliorare in tutti i settori la qualità della fanteria. In questa sede riteniamo tuttavia utili taluni approfondimenti, che consentono di stabilire, in prima approssimazione, fino a che punto la guerra di trincea e di logoramento è una sorpresa e se le fortissime perdite subìte nelle "spallate" sull'Isonzo siano o meno dovute a carenze teoriche e dottrinali.

Gli ammaestramenti della guerra anglo-boera 1899-1902 e la nascita del concetto moderno di carro armato 11 secolo XX si apre con la guerra anglo-boera. Al suo inizio le truppe inglesi, che combattono in piedi e in formazioni serrate più o meno come prevedono le regolamentazioni tattiche degli eserciti europei dell'epoca, subiscono gravi sconfitte con forti perdite da parte dei boeri, ottimi cacciatori e tiratori armati di moderni fucili Mauser a ripetizione, che (come gli abissini) combattono individualmente in ordine rado per così dire spontaneo e sfruttano con grande abilità il terreno, senza altra regola che quella di fare fuoco ben mirato quando credono e come meglio credono. Pertanto proprio come era accaduto ai Tedeschi trenta anni innanzi, dopo i combattimenti del 13.febbraio 1900 contro Cronje, gli Inglesi si persuasero


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della enorme differenza che corre tra la teoria e la pratica; abbandonarono per ordine di Lord Roberts i procedimenti e le formazioni-macello; sacrificarono l'ordine chiuso della guerra in tempo di pace, improvvisando ordini e forme più rispondenti alle necessità reali. Le quali si possono riassumere in batta1<lioni colle compagnie spiegate, in una catena rada a 3, 4 e fino a 8 passi di intervallo [da un soldato all'altro I, a 200 metri e più di distanza l'una dall'altra, durante la marcia di avvicinamento; dai 2000 ai 600 metri [dal nemico] metà dei battaglioni (4 compagnie) nella stessa catena rada, senza sostegni; e l'altra metà 500 metri indietro, formando una linea spiegala su una riga, con un fronte uguale alla prima linea di combattimento. 45

Le modalità d'azione delle truppe inglesi introdotte da Lord Roberts possono essere estese, o meno, alle guerre in Europa tra eserciti regolari? I pare ri non sono concordi. Ancora una volta gli autori si dividono in innovatori (che fanno dell'esperienza della guerra anglo-boera una pietra miliare anche per i conflitti europei) e conservatori (che gettano acqua sul fuoco e minimizzano i vantaggi del modo di combattere dei. boeri ). Ai primi appartiene il colonnello di fanteria Dc Chaurand, secondo il quale nei combattimenti [della guerra anglo-boera], I>pecialmenle in quelli sul Tugela e sulla Modder, si è dimostrata la necessità per l'avvenire di scartare ognj attacco frontal e [nostra sottolineatura - N.d.a.], di avere linee del fuoco molto rade, con individui in media a quattro passi di intervallo e di tenere i sostegni, anzichè in formazioni compatte che sarebbero presto distrutte anche dietro ostacoli Iquesto no, se l'ostacolo è tale - N.d.a.], in ordine aperto [ ... J. Al munizionamento si dimostrò indispensabile di sacr(ficare ogni altra necessità dell 'equipaggiamento per renderlo il più larf<O possibile. 46

Di conseguenza il Dc Chaurand critica il regolamento italiano vigente specie per le limitazioni del fuoco che impone, ma respinge ogni esagerazione in un senso o nell'altro. In particolare, a suo parere bisogna: - eliminare per truppe allo scoperto e sotto il fuoco avversario la formazione con plotoni affiancati;

45 46

Pompilio Schiarini, Art. c ii... De Chaurn.n<l, Lefomwzioni dellufanteria ..... (Cit.).


IL PENSIERO MILITARE E NAVA LE ffALIANO- VOL. lll ( 18 70- 19 15) . TOMO I

- adottare catene più rade, con intervalli maggiori tra uomo e uomo (almeno due passi), prendendo posizione a terra o in ginocchio e sfruttando gli ostacoli del terreno; - compensare la minore densità di tiratori della catena con una maggiore intensità del fuoco, utilizzando appieno le possibilità del fucile a ripetizione e perciò consentendo al soldato il fuoco libero. In genere gli autori coevi sono concordi con le deduzioni del De Chaurand, ma vi è anche chi sottolinea che quella guerra si è svolta in condizioni del lutto particolari e diverse da quelle di un teatro d' operazioni europeo, e che alla fin fine i boeri nonostante il loro valore sono stati sconfitti, soprattutto per mancanza di disciplina. TI capitano Campolieti scrive: il generale de Wett, sin dalle prime pagine delle sue memorie di guerra, dice che dal generale al semplice Burgher, nessuno godeva di uno speciale benessere o diritto, e che tutti indistintamente prendevano parte alla discussione delle operazioni da farsi il giorno dopo. Osserva, quindi, che questa singolare organizzazione, così lontana dalla gerarchia degli eserciti europei, valse Loro qualche vantaggio, e in special modo soldati riempiti di coraggio e iniziativa, che davano quello che potevano dare infilllo di energia e di abilità. Ma, soggiun,?e poi, "ci valse pure grandi disastri, perchè ognuno sa come nessun esercito sia possibile senza la più rigorosa disciplina".47

All'opposto del De Chaurand, il capitano di fanteria Ferraro ritiene che la guerra anglo-boera "per Le condizioni ~peciali del suo teatro e p er la qualità dei combattenti, non potrà dare molte norme applicabili ai nostri eserciti". 4 x Le nostre truppe non potranno mai applicare una tattica come quella dei boeri; "del resto se i boeri avessero adottato la nostra condotta tattica, e cercato di arrestare il nemico fin dalle medie distanze, avrebbero forse ottenuto gli stessi risultati e con minori perdite ". E se le loro vittorie non hanno dato il frutto che avrebbero potuto dare, ciò è ap-

punto dovuto alla loro tattica difensiva poco attiva, e forse anche alla mancanza di baionette per i loro fucili. Hanno perciò torto, per il Ferraro, coloro che [come fa il De Chaurand _ N.d.a.] dall'esperienza di questa guerra sono stati indotti a dare troppa importanza al fuoco, a svalutare l'assai-

47 Nicola Maria Carnpolieti, Principì d i psicoloKia militare desunti dalla guerra anglo-boera, in " Rivista Militare Italiana" Anno XLIX Voi. I Disp. ID - 16 marzo 1904, p. 67 1. 48 Lorenzo Ferraro, Due questioni ,li arte m ilitare, in "Rivista Militare Italiana" Anno XLVI Voi. I Disp. I - 16 gennaio 1901 , pp. 14-3 1.


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lo aUa baionetta e "non solo a dichiarare un errore l 'offensiva ad oltranza, il che del resto era già stato riconosciuto antecedentemente, ma anche a ritenere erronee le norme fin qui sancite da tutti i regolamento riguardo la condotta tattica della difensiva", basata sull'apertura del fuoco contro il nemico alle massime distanze. Per il Ferraro si rischia di ricadere neJl'onnipotenza del fuoco e nell'eccesso di difensivismo, che nel 1870-71 sono costati alla Francia la sconfitta. A suo parere in futuro l'urto conserverà tutta la sua importanza e le occasioni per assalti alla baionetta saranno frequenti, mentre nelle azioni notturne, alle quali si ricorrerà spesso, "la baionetta sarà sovrana". Una truppa di forte coesione morale giunta in vicinanza del nemico difficilmente si ritirerà, quindi avrà come unica scelta quella di ricorrere all'attacco alla baionetta. Egli non indica, comunque, formazioni alternative all'ordine rado, ma si limita a criticare la formazione con squadre in linea di fila proposta da taluni e approva le prescrizioni vigenti in materia di rincalzi nell'attacco, che devono entrare in azione in ordine chiuso "per evitare la passata tendenza a tutto distendere ed ottenere la potente influenza morale della massa". Anche il capitano Zoppi commentando nel 1903 la nuova dottrina tattica francese ne critica l'affermazione che, per effetto del fucile a ripetizione, "i terreni scoperti sono ormai da considerare come impraticabili alla fanteria", attribuendola all' esperienza della guerra anglo-boera.49 A suo parere, se in Sud Africa tali terreni si sono rivelati così micidiali, non è tanto merito dei boeri ma demerito della fanteria inglese, i cui metodi d'attacco erano gravemente inadeguati alla situazione e non tenevano alcun conto della cooperazione con l'artiglieria. Del resto, nella stessa guerra del Sud-Africa vi sono stati combattimenti, nei quali anche avanzando su terreno scoperto le truppe inglesi hanno avuto la meglio, sia pure al prezzo di gravi perdite. Inoltre lo Zoppi osserva giustamente che un reparto inquadrato non può sempre evitare le zone di terreno scoperto e che comunque non è sempre possibile condurre un attacco al coperto fino alla fine, senza che il nemico reagisca contrattaccando. Le soluzioni da lui suggerite non sembrano però molto geniali. Da una parte indica la necessità di una stretta cooperazione di tutti con tutti, cosa senza dubbio importante ma non sufficiente. Dall'altra sostiene che i reparti che attaccano in terreno scoperto devono fissare frontalmente con il fuoco il nemico, la'>ciando l'azione principale ai reparti collaterali. Benissimo: e se tali reparti collaterali, a loro volta, fossero costretti ad attaccare in ter-

49

0ttavio Zoppi, Art. Cit..


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reno scoperto? Qui evidentemente entrerebbe in gioco il fuoco d'artiglieria, per l'ennesima volta trascurato anche dallo Zoppi, anche se si sforza di dimostrare che i terreni scoperti sono difficili da superare, ma non insuperabili_ Più convincenti le sue affermazioni sulla necessità di effettuare sbalzi brevi e veloci dalla posizione a terra sfruttando gli ostacoli, e soprattutto sui sani criteri da adottare per un realistico addestramento di pace, nel quale le truppe "anzichè studiarsi di avanzare sempre e a qualunque costo allo scoperto, dovranno studiarsi di avanzare possibilmente al coperto, e in caso di non possibilità, dovranno .~fruttare terreni scoperti con sagacia e abilità". Degne di nota anche le sue critiche al frazionamento dell'esercito in troppi distaccamenti, che ostacola l'addestramento e la cooperazione. In materia di tattica, mentre la guerra anglo-boera si sta concludendo compare sulla Rivista di Fanteria (non firmato) uno degli articoli migliori dell ' intero periodo 1900-1915.50 L'ignoto autore vi illustra finalmente con sane e realistiche argomentazioni i vantaggi della difesa e le difficoltà del1' attacco. A suo parere: - le "inelullabili necessità " derivanti dalla potenza delle armi impongono di rinunciare alle manovre compassate e alla ricerca dell' ordine ad ogni costo; - il difensore può eseguire un tiro ininterrotto da una posizione comoda e vantaggiosa. Per contro l'attaccante è costretto a interrompere spesso il suo fuoco e a sparare come e da dove può; - di conseguenza, come prova anche la guerra anglo-boera, specie in terreno scoperto "a meno di ammettere una soverchiante superiorità di forze o una preponderanza morale grandissima, una fanteria non potrà attaccare con successo altra fanteria in posizione"; - tra fanteria e artiglieria occorre un'intima cooperazione e una reciproca, profonda conoscenza; - per la fanteria il miglior modo di proteggersi dal fuoco dell 'artiglieria nemica è la rapidità dell'avanzala, che peraltro potrà avvenire solo con il costante appoggio dell'artiglieria amica; - "l'attacco di fianco è di competenza della manovra, della grande tattica o tattica strategica che dir si voglia, non del combattimento o della piccola tattica". Esso è possibile solo quando chi lo compie abbia tale superiorità di forze, da riuscire ad avvolgere il nemico e obbligarlo a distendersi su una fronte maggiore di quella che gli sarebbe conveniente;

50

Tattir.a .... e sempre tattir.a, in "Rivi sia di Fanteria" Anno XI - 30 aprile 1902. pp. 224-282.


Xl· L'OFFENSIVA, LA DIFENSIVA E 1:"AMMAESTKAMENTO TATnCO" DELLE TRUPPE

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- "il combattimento della fanteria anche nella guerra moderna è adunque combattimento frontale L... ]. Una volta che il tiro della di.fesa ci ha per così dire afferrati L... ], ci segue nel terreno scoperto, fruga il terreno coperto ove noi potremmo avanzare, ogni altra manovra sparisce, si combatte di.fronte"; - anche il regolamento tedesco prevede che i tentativi d'avvolgimento fatti dalla linea avanzata normalmente non possono avere successo e provocano sparpagliamento di forze; - "non si deve col movimento scoprire la fanteria[ ... ], se prima non s'è ottenuto effetto delle batterie d'artiglieria " ; - come insegna la guerra anglo-boera, quando l'attacco giunge a distanze inferiori ai 600 metri non è più possibile, pena perdite rilevanti, rinforzare la catena avanzata di tiratori f provvedimento invece previsto dalla dottrina e dagli autori coevi - N.d.a.]. L'esame dei precedenti scritti dimostra che, se ben interpretata, la guerra anglo-boera dice molte cose utili anche per la futura. grande guerra europea. Ma a parte la tattica della fanteria, un'altra delle sue ricadute - finora trascurata - è la nascita del moderno concetto di carro armato, sostanzialmente anch'esso derivato dalla necessità di proteggersi dall'accresciuta efficacia del fuoco, che abbinata al progresso della metallurgia e alla disponibilità del motore a scoppio spinge a riconsiderare in una nuova prospettiva il problema non solo della corazzatura ma anche del movimento. Fin dal 1900 il colonnello di artiglieria Lang, seguendo lo stesso filone di pensiero dell' Airaghi e del Biancardi, afferma che

se il giudizioso impiego delle truppe e l'abilità nel sapersi valere degli ostacoli offerti dal terreno, mitiRheranno notevolmente - specie nelle prime fasi del combattimento - gli efjètti disastrosi delle nuove armi, tali mezzi non saranno sufficienti a porre riparo alle perdite grandissime che andranno verificandosi nelle schiere assalitrici allorquando queste penetreranno nell'ultima zana che intercederà del nemico. 5 1 Di qui la necessità di munire il fante di uno scudo portatile e leggero, in acciaio speciale, capace di resistere alla penetrazione dei proiettili, che gli consentirebbe di giungere a distanza d'assalto senza subire quelle forti perdite che lo demoralizzerebbero. Quattro anni dopo, nel 1904, il Lang ricorda che nella guerra anglo-boera gli inglesi hanno impiegato, con risul51 Guglielmo Lang, Di alcune questioni di tattica mndema, in "Rivista Militare Italiana" Anno XLV Il semestre Oisp. Xl - 16 novembre 1900, pp. 1958-1963.


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tali non esaltanti, una corazza portatile per fanteria e che anche in Italia un certo De Benedetti ha inventato una corazza molto leggera dello spessore di 3 mm, sperimentata con esito positivo nel 1902 a Villa Daria a Roma, alla presenza del Ministro della guerra e degli addetti militari esteri. 52 Per quanto riguarda l'artiglieria, il Lang è deciso fautore del nuovo cannone da campagna francese a tiro rapido, a deformazione e scudato tipo Déport (1897) e polemizza duramente sia con i conservatori che ritengono lo scudo del nuovo pezzo inutile e dannoso, sia con taluni ultra-innovatori per i qualj lo scudo frontale francese è insufficiente, perciò ne dovrebbe essere previsto l'ampliamento fino a terra e ai lati. L'aspetto più interessante delle sue teorie riguarda però i treni blindati, usati dagli inglesi nella guerra contro i boeri_ Hanno il vantaggio di poter essere corazzati senza badare al peso, di poter trasportare artiglierie di calibro molto maggiore di quello delle normali artiglierie da campagna e di spostarsi con grande celerità: ma sono legati alla strada ferrata, che può essere interrotta con facilità e quindi ricrncde di essere controllata e difesa; per questa ragione essi non hanno fornito un rendimento del tutto soddisfacente. Dal treno blindato al mezzo a motore a scoppio blindato il passo è quasi naturale, e il Lang scrive: se fosse lecito essere profeti, si potrebbe profetizzare che quanto non possono conseguire i treni blindati potranno invece conseguire !(li automobili, presentandosi per essi men gravi gli inconvenienti derivanti dalla roUura della strada [ferrata]. Una tale opinione è tanto più fondata, perchè la potenza sempre crescente dei motori [a scoppio] non solo potrà estendere la mobilità dei veicoli all'infuori delle strade [ferrate], ma permetterà anche che a un armamento considerevole si accoppi una corazzatura sufficiente a costituire una valida difesa. Una tale idea, sia pure anche da altri condivisa, non è stata perù a nostra saputa ancora attuata presso nessun esercito: forse fra i nostri Lettori vi sarà chi [... ] riuscirà a dotare gli eserciti, e primo fra tutti il nostro, d'un congegno di guerra così poderoso da cambiare completamente l'arte del combattere_ Dopo la scoperta della polvere sarebbe questa La più grande e la più importante invenzione che nel campo delle scienze militari possa essere fatta, veramente tale da sconvolgere di sana pianta i principi che finora hanno presieduto alle battaglie.

52 Lang, La corazza e l'arte della KUerra, in ' 'Rivista Militare Italiana" Anno XLIX T sem. Disp. Ili 16 marzo 1904, pp. 647-670.


Xl - l.' OFFENSI VA . LA UWENS I VA E L"'AMMAESTRAMENTO TAITICO" DELLE TRUPPE

Alla fin fine il carro armato non ha sconvolto i principì delle battaglie nemmeno nella seconda guerra mondiale: ma non c'è dubbio che, nella prima guerra mondiale, l'idea del Lang si è rivelata precorritrice, perché le perdite della fanteria prima di giungere a distanza d'assalto erano troppe e, per evitarle, non c'era altro mezzo che cominciare ad usare il carro armato, impiegato dagli inglesi sul Fronte Occidentale a partire dal 1916 appunto per rompere le difese avversarie risparmiando la fanteria e al tempo stesso aprendole la strada. L' ulteriore salto di qualità, avvenuto nel 1939 (bliz-krieg) è stato appunto l' impiego dei corazzati non più in ausilio o ad integrazione del1a fanteria appiedata, ma in sua sostituzione, con il binomio carro-aereo e la fanteria - anch'essa su cingoli - questa volta ridotta ad Arma integratrice di tale binomio.

La guerra russo-giapponese 1904-1905 e /'"attacco alla zappa"

La guerra russo - giapponese è molto diversa da quella anglo - boera. Vi si sono confrontati due eserciti regolari sul modello europeo. Vi hanno trovato esteso impiego le mitragliatrici , i reticolati , le bombe a mano e le mine. Potrebbe quindi prestarsi a vedere finalmente sotto una nuova luce le possibilità della difesa, ma vi sono emersi due elementi di disturbo, che vanno fin troppo a vantaggio dei fautori dell'offensiva. Primo, la tenacia, il valore, lo spirito di sacrificio, lo spirito offensivo, la spontanea disciplina del fante giapponese, che ha acquistato un'immagine leggendaria, continuamente indicata ad esempio da allora in poi. Secondo, la sua abilità nell'usare la vanghetta di cui è dotato durante l'attacco, scavandosi ripari speditivi onde proteggersi dall'efficacia del fuoco nemico, per poi riprendere l'azione in avanti. In tal modo la sempre crescente potenza del fuoco passa in seconda linea, mentre la fortificazione campale fini sce con l'essere vista prevalentemente in funzione dell'offensiva e non della difensiva. Quest'ultima ancora una volta rimane un atteggiamento tattico da evitare, mentre in realtà ha acquistato ulteriore peso nel combattimento. Sotto questo profilo uno degli studi che meglio esprime il comune sentire del periodo è quello (1910) del capitano di fanteria Ferraro,53 il quale sulla scorta dell'esperienza delle due ultime guerre dimostra che anche un attacco frontale può riuscire grazie alla superiorità di fuoco, al le-

53 Lorenzo Ferrarn, La lattica della fanteria nelle 11/time due guerre, in "Rivista Militare Italiana" Anno LV Voi. I Disp. I - 16 gennaio 1910, pp. 187-200.


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game intimo della fanteria con l'artiglieria e soprattutto alla ferma volontà di vincere nonostante le perdite anche pesanti. Pertanto il Ferrara concorda con quanto ha scritto in proposito il generale francese Langlois: "invece di deprimere il morale della nostra fanteria con tutto ciò che si scrive sulla impossibilità dell'offensiva, converrebbe scrivere a lettere d'oro in tutte le camerate_· 'una fanteria brava ed energicamente comandata può avanzare sotto il fuoco più violento, anche contro trincee ben difese, e impadronirsene". Seguono deduzioni in parte non nuove, in parte discutibili: 1° J perfezionamenti delle armi rendono quasi sempre L'attacco difronte più dffficile, più costmw e quindi più aleatorio; donde La necessità

per la fanteria attaccante di prendere forma zioni meno vulnerabili, meno dense, più flessibili; 2° I perfezionamenti delle armi facilitano l 'azione avviluppante o di fianco; 3° L'aumento progres.vivo della potenza dell'artiglieria facilita sempre l'attacco, sia di fronte che di fianco; 4° I fronti di combattimento prendono una estensione sempre maggiore. Ma siccome Le azioni su vasta fronte non daranno mai un risultato decisivo, si sentirà sempre più La necessità di terminare la battaglia con un atto vigoroso su di una sola parte del fronte; 5° La difesa ha sempre più La possibilità ed il dovere di manovrare in profondità; 6° L'assalitore deve perfezionare e fortificare sempre più gli organi destinati alla presa di contatto; 1° I progressi dell'armamento diminuiscono costantemente la forza di resistenza della fortificazione permanente e delle opere di forte rilievo; aumentano al contrario il valore della fortificazione leggera da campo disposta in profondità. Quali sono Le conseguenze di queste Leggi? 1° L'importanza della manovra e La sua facilità vanno crescendo, donde necessità crescente della mobilità; 2° La guerra moderna reclama una solidarietà sempre più crescente tra Le varie Armi, quindi anche una organizzazione più solida; 3° La guerra moderna esige da tutti i combattenti un morale sempre più temprato; 4° Ogni progresso dell 'armamento diminuisce L'importanza del numero.


_ ____.Xl • L.Ol'FENS IVA, LA DIFENSIVA F. L"'AMMAt:STRAMENTO TAITICO" DELLE TRUPPE

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Sia pur in parziale contraddizione con quanto egli stesso afferma, il Ferrara ha anche il merito di indicare i limiti del dibattito da tempo in corso, troppo incentrato su aspetti tecnici e tendente a trarre dalle guerre precedenti precetti di valore troppo assoluto: i risultati di una guerra dipendono da tanti complessi fattori tecnici e

morali, che uno studioso, per quanto colto e intelligente, difficilmente può riuscire ad assegnare con esatteua a ciascuno di essi il dovuto coefficiente d 'importanza, sceverando tutto ciò che è occasionale e caduco da ciò che è permanente e Renerale. A ciò si aggiunge che, fino agli ultimi tempi, L'indirizza degli studi militari fu tale da attribuire La massima importanza ai fattori tecnici, come quelli che più facilmente cadono sotto i sensi e quindi sono più facilmente ponderabili. AL contrario, i fattori morali hanno radici profonde ed estese ramificazioni in tutta la vita di un popolo ....

Notevole anche uno studio del tenente di fanteria Boccaccia (1908), che commenta, a volte dissentendo, un opuscolo del capitano austriaco Otto Ferjentsik molto apprezzato in Austria. 54 Il Boccaccia si dichiara molto ammirato per il coraggio e la fede dimostrati dal soldato giapponese, che gli vengono dall 'educazione ricevuta fin dall'infanzia. Un coraggio e una fede assai poco europei e italiani; da noi, in particolare, ogni bambino che cresce vede intenti a sé familiari e estranei, così che finisce per credersi centro dell'universo e Lale cui tutto sia dovuto senza nulla dovere. E' un vero pervertimento educativo che cresce i giovani insofferenti di freno, ribelli all'autorità dei parenti prima, dei maestri poi, incapaci di intendere il valore delle Rerarchie e di sottoporsi al lavoro severo che fruita il bene proprio e il bene sociale. Soprattutto, la falsa educazione eccita enormemente il sentimento eRoistico della paura nella generica sua estensione sino al limite della viltà. 55

Ecco perché nel nostro esercito "manca la fibra"; occorre invece un'educazione più virile che imiti lo stoicismo e lo sprezzo del pericolo di-

54

Cfr. Epimede Boccaccia, Di alcuni insegnamenti della guerra russo-giapponese. Rocca San Casciano. Stab. Tip. Cappelli /908. ss ivi, pp. 58-59.


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mostrati dal soldato giapponese, anche se forse nessun popolo occidentale può sperare di uguagliarli: dovremmo por termine a una sentimentalità morbosa, che ci fa nevrastenici tra le pareti domestiche, imbelli fuori di casa, vili di fronte alla morte. La vita umana ha un alto valore, si, ma non tale da doversi accettare per essa tutte le transazioni e tulle le imposizioni che natura e gli uomini con feroce diletto tirannicamente impongono ai deboli.

Nel campo tattico, a parere del Boccaccia i successi ottenuti dai giapponesi vanno attribuiti prima di tutto al Joro spirito guerriero e solo in secondo luogo alJe formazionj e altre modalità d'azione adottate. Ciò premesso, dalla guerra egli trae una serie di insegnamenti sintetizzabili come segue: - va bandito dai procedimenti d'azione e dalle formazioru ogni formalismo schematico, che distrugge nei Quadri il senso di responsabilità, l'iniziativa, la facoltà di pensare e l'energia, tutte doti indispensabili nel combattimento moderno; - l'affermazione che l'esercito giapponese deve i suoi successi alla fanteria è troppo categorica. Quel che veramente vale, sul campo di battaglia, è l' armoruco coordinamento delle varie componenti che i giapponesi hanno saputo realizzare; - non più il fuoco a salve, ma il fuoco individuale mirato, già sancito ffin dal 1909] dalla nostra regolamentazione, "costituisce la parte principale del comballimento". A questo si è giunti non tanto per gli ammaestramenti dell'ultima guerra, "quanto per il triste insegnamento venutoci dalle nostre disgrazie africane del 1896" [che dunque hanno smentito le teorie del Baratieri e di altri sull'importanza del fuoco a comando a salve - N.d.a.]; - il fuoco individuale mirato è efficace solo alle brevi distanze; pertanto il combattimento ha lo scopo di portare tale fuoco sempre più vicino al nemico; - i giapponesi prima del combattimento lasciavano indietro lo zaino, portando con sé solo l'indispensabile e molte cartucce. Non è possibile che il soldato combatta e si muova bene se porta con sé anche lo zaino; - come si legge anche sulla Rivista di Fanteria (30 novembre 1903), "nessuna forma tattica è più possibile[ ... ]; bisogna che la fanteria marci come il terreno vuole [ ... ]. Nella zona battuta dal fuoco nemico non vi è più tattica di fanteria[ ... ] la vera e sola tattica è il seguitemi dato dai comandanti e seguìto dai gregari". Tocca all'uffi-


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ciale decidere di volta in volta il modo di avanzare più opportuno, dando l'esempio; - "noi non dobbiamo dimenticare che il fuoco principalmente ci cacciò di posizione ad Adua, e che a nulla contr'esso valse, o sarebbe valsa la nostra baionetta"; - oggi si combatte "non soltanto col fuoco ma anche (se non più e soprattutto) con la terra". La vanghetta, frequentemente usata dalla fanteria giapponese quando l'attacco subiva un tempo d'arresto, è "un alleato valido e sicuro" del fucile assai più della baionetta, perché facilita l'adattamento al terreno; - il timore che fiacchi lo spirito offensivo delle truppe è infondato: "in ogni tempo i migliori soldati, i più capaci della vittoria, furono quelli che seppero meglio servirsi di tutti i mezzi a Loro disposizione, offensivi e difensivi". Per il Boccaccia l'impiego della vanghetta non va confuso con quello della zappa, che è altra cosa e ricorda i vecchi metodi della guerra d 'assedio, mentre la vanghetta è strumento del presente, che aiuta a migliorare la protezione offerta dal terreno per qualsiasi azione tattica. Al contrario il colonnello del genio Rocchi, maestro deJla fortificazione, dopo il conflitto russo - giapponese ritiene ormai necessario il cosiddetto "attacco alla zappa", definendo questo attrezzo addirittura "la nuova arma offensiva, la quale, per chi aLLacca, prende il posto del fucile". Infatti l'introduzione di questa nuova arma deve apportare notevoli modificazioni nel modo di combattere[ ... ]. Ora si combatte più con la zappa che con i/fucile, e si può avanzare soltanto scavando trincee [ ... ]. E' tutto un nuovo indirizzo di ammaestramento tattico delle truppe che deve rinnovare le fonti dell'arte della guerra, ora che si dovrà combattere non soltanto col fuoco, ma più e soprattutto colla terra. 56

Anche se provengono da un pulpito assai autorevole, queste idee del Rocchi sono giudicate esagerate, assolutiste e inesatte dal tenente di artiglieria Guillet,57 per il quale la guerra russo - giapponese, così come la precedente guerra anglo - boera, ha avuto caratteristiche molto diverse da quelle che potrebbe avere una guerra europea, quindi non se ne devono trarre erronei ammaestramenti. È stata spesso una guerra di posizione, nella quale il terreno e "' In "Rivista <li Artiglieria e Genio" seLLembre I 907. " A. GuilleL, La zappa e il terreno nuove armi offensive - nota, in " Rivista Militare Italiana" Anno LII Voi. IV Disp. XIl - 16 dicembre I 907, pp. 2271-2274.


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la zappa hanno avuto una parte certamente importante, anche se non preponderante e decisiva come afferma il colonnello Rocchi. Di conseguenza, per il Guillet gli insegnamenti da trarne sono assai diversi da quelli del Rocchi. Le lunghe soste su determinate posizioni e il loro rafforzamento con lavori di fortificazione campale sono da attribuirsi soprattutto alla necessità di subordinare le operazioni alle esigenze logistiche, con rifornimenti che giungevano quasi unicamente da tergo e attraverso comunicazioni insufficienti. Questo però non avverrebbe in una guerra combattuta nell'Europa centrale, dove i possibili teatri d'operazione sono tutti (o quasi tutti) così ricchi di risorse e così dotali di una fitta rete stradale e ferroviaria "(cui soccorrerà largamente il servizio delle automobili)", da far ritenere che "la preoccupazione logistica I ... I non sarà tale da obbligare ad agire con una lentezza la quale giustifichi e quasi imponga l'impiego su vasta scala della fortifìcazione passeggera e semipermanente". Previsioni risultate completamente scentrate, anche perché il fuoco e la trincea sono gli stessi in qualsiasi parte del mondo; nemmeno "l'attacco alla zappa" del colonnello Rocchi si è rivelato possibile e conveniente, anche se la sua affermazione che si combatte con il fuoco e con la terra si rivelerà tutt'altro che infondata. Gli altri articoli sulla guerra russo - giapponese aggiungono ben poco al pur sommario quadro tracciato. L'azione de1l'artiglieria è spesso sottovalutata; una delle poche eccezioni è il tenente colonnello di fanteria Stroppa, che nel 1912 ne illustra l'importanza anche per la preparazione dell'attacco58 . Per quanto attiene alle mitragliatrici e al reticolato rimandiamo a quanto già da noi scritto nella Parte II delle citate Note sul pensiero militare italiano da fine secolo XIX all'inizio della prima guerra mondiale, ricordando solo che accanto a concezioni avanzate e rivelatesi esatte, come quella del Rocchi, ve ne sono altre più conservatrici ("Fante", Rivista Militare 191 2; Pocobelli, Rivista Militare 1911), le quali non credono nelle possibilità della nuova arma. E le bombe a mano? Nel 191 I il maggiore Leone scrive che nella guerra russo - giapponese la loro utilità si è rivelata sia nell ' offensiva che nella difensiva, nella quale hanno dato maggiore sicurezza al fante. 59 Secondo il Leone gli esempi di tale guerra provano che in molti casi sono addirittura le granate a mano a decidere la lotta, consentendo all'attaccante

58 Stroppa (senza nome). Principali deduzioni 1at1iche che si possono Jrarre dalla i:uerra russogiapponese e rapidi confronti con le disposizioni dei noslri rei:ulamellli. in "Rivista Militare Italiana" Anno LVU Voi. I Disp. I - 16 gennaio 1912, pp. 19 1-2 10. 59 Luigi Leone, Le granate a mano, in " Rivista Militare Italiana" Anno LVI Voi. I Disp. I - 16 gennaio 1911 , pp. 122- 140.


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di conquistare posizioni prima giudicate imprendibili; pertanto esse "costituiranno per l'avvenire un importantissimo ed essenziale arnese di guerra". Dopo aver descritto la loro sperimentazione presso altri eserciti, il Leone rileva che nel nostro esercito esse non sono ancora state adottate; non è comunque giustificato - a suo parere - mettere in dubbio che il nostro soldato abbia la forza morale sufficiente per il loro impiego. In sintesi, più che la fortificazione campale vera e propria, nella guerra russo - giapponese acquista importanza quella che il maggiore Cardano ( 1906) definisce "fortificazione improvvisata", distinguendola dalla "passeggera" o campale, perché ha carattere più speditivo, è di costruzione più facile e pronta e si adatta a tutte le fasi del combattimento e segnatamente all'attacco, fino a poter essere definita "fortificazione di manovra".60 Di fatto, al di là di poche voci isolate (tra le quali quella del Rocchi) rimane così trascurato l'insegnamento del generale Brialmonl, che nella sua citata opera del 1878 Lafortification du champ de bataille, sempre sulla base dell'esperienza della guerra russo - turca afferma che una posizione ben scelta e fortificata può compensare l'inferiorità numerica e assicurare la vittoria anche a un esercito che altrimenti sarebbe battuto. Né la fortificazione, per il Brialmont, può nuocere allo spirito offensivo delle truppe: tutto dipende dall 'educazione che si dà al soldato, dalle idee che gli si inculcano fin dal tempo di pace nella preparazione alla guerra. Quando egli sia ben penetrato che i ripari naturali e artificiali non sono che schermi momentanei contro perdite inutili, e che nel momento decisivo egli dovrà Lasciarli senza rincrescimento per trasportare altrove il combattimento, egli non sarà né timido nel presentarsi all'offensiva, né demoralizzato nella ritirata, né inchiodato al suolo per timore di presentarsi al nemico a petto scoperto. 61

Si deve constatare che con queste parole il generale belga si avvicina alla realtà più di molti teorici militari italiani e stranieri coevi.

Il problema tattico e il materiale: superiorità del cannone? Fino all ' entrata in guerra dell'Italia le idee originali sono assai po"° Luigi Corciano, l,afn rtificazinne improvvisata nelle guerre modem e, in " Rivista Militare Ita liana" Anno LI Voi. I Disp. Il - I 6 fehbraio I 906, pp. 468-48 I. "' Cit. in Coniano. Art. cii., p. 475.


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che; anche la guerra di Libia ha limitata influenza. In aggiunta a quanto già riportato nelle più volte citate nostre Note sul pensiero militare ecc. vanno comunque ricordati gli scritti del capitano d'artiglieria Pisciscelli Taeggi, che anticipando il Morasso si dichiara seguace in campo militare del materialismo storico marxista, mettendo in evidenza l'importanza della tecnica, de11'artiglieria e della logistica sia nella guerra russo giapponese che in quella di Libia. 62 In proposito il Pisiscelli polemizza con gli spiritualisti duri e puri, secondo i quali il culto esagerato della macchina be11ica coincide sempre con la decadenza delle istituzioni militari e dello spirito marziale presso i popoli. Assicura di aver sempre ammesso la grandissima importanza dei fattori morali come postulato così evidente, da far ritenere superfluo metterli in discussione, tanto più che per ben manovrare le macchine belliche sono pur sempre necessarie elevate doti morali. Detto questo, a proposito della guerra russo - giapponese si discosta dalle consuete interpretazioni a sfondo morale, per sottolineare invece che la vittoria dell 'eserc ito giapponese è dovuta anzitutto a cinque fattori tecnico - militari fondamentali, che gli hanno assicurato un vantaggio decisivo: - un servizio di trasporti organizzalo in modo eccellente, che ha reso possibile rifornire le truppe con una larghezza e una celerità senza precedenti; - una tlotta numerosa, manovriera, armata con artiglierie potenti e con equipaggi impareggiabili, che con la conquista del dominio del mare ha reso possibili gli sbarchi e il sostegno di fuoco e logistico alle forze terrestri; - un 'artiglieria terrestre numerosa e ultrapotente, che ha reso meno cruenti gli attacchi della fanteria giapponese contro posizi.oni ben organizzate a difesa, dimostrando "l'importanza tattica principalissima" assunta dall'Arma nelle guerre moderne; - truppe del genio di eccezionale abilità e ben fornite di attrezzi e parchi; - la radiotelegrafia, che secondo il Von Meckel ha contribuito per il 35% alle vittorie giapponesi.

62 Cfr. Giacomo Pisciscelli Taeggi, L'egemn11ia del cannone nella campagna libica, Napoli, Stab. Tip. G iannini 1912. Dello stesso autore da ricordare: /..a funzione della n111cchi11n nell'apparecchio guerresco e Per Ullll nuova ripartizione della nostra energia militare (ambedue edite a Napoli, Trani 1906).


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A proposito della guerra di Libia il Pisciscelli dà grande risalto al ruolo della flotta, e in particolare del fuoco delle artiglierie navali e terrestri, fornendo molli particolari poco noti anche sui trasporti marittimi e sull'impiego della radiotelegrafia. Riguardo all'artiglieria, riferisce che in totale sono state inviate in Libia un centinaio di batterie con oltre 400 bocche da fuoco (per la maggior parte cannoni da campagna a deformazione a tiro rapido da 75/27 mod. 1906). Con questa consistenza, l'artiglieria "si è dimostrata il fattore morale per eccellenza, oltreché il più poderoso strumento materiale della conquista". Più in generale, il tecnicismo ha ovunque fatto sentire la propria benefica influenza, suggerendo i procedimenti tattici più idonei a sfruttare la nostra vera, immensa superiorità, che è quella del fuoco, e del fuoco di artiglieria in particolar modo. Al pari di quanto erasi verificato all 'epoca del conflitto russo - giapponese, la lotta assunse - dappertutto - la fisionomia di attacco e difesa di posizioni fortificate ... 63

Infine l'impiego di tutte le risorse della tecnica, lungi dall'affievolire il coraggio e lo spirito offensivo delle truppe li ha rafforzati, infondendo nel soldato la coscienza della nostra superiorità; "pertanto i fattori morali, così cari agli ideologi della guerra, escono corroborati dall'avvento del[' egemonia artiglieresca". Meritano un breve cenno anche tre lunghi articoli del capitano di fanteria Scolli Berni,64 che è l'unico a non avere alcuna fiducia nell'attrezzo leggero, sia perché esso consente di migliorare un riparo naturale, ma non di costruirne uno ex - novo in terreno scoperto e battuto dal fuoco nemico, sia perché se il fante inizia a scavare a breve distanza dal nemico non fa che creare un triplice danno: venire individuato dal nemico e quindi essere più facilmente colpito; non poter impiegare il fucile per diversi minuti ; costruire un riparo inconsistente, che oltre tutto lo rende "restìo ad avanzare". Che fare, dunque, per proteggersi dal fuoco nemico? Premesso che non esistono ricette di valore assoluto, e che la regolamentazione vigente spesso dimentica che c'è il nemico, anche lo Scotti Bemi si dichiara favorevole all 'adozione di un elmetto e di uno scudo individuale in lega mc-

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Pisciscclli Tacggi,, L'egemonia ,lei nm,wne..... (Cit.), p. 54. Ugo Scotti Bcmi, Dopo i comba11ime111i Ira ,:li 110111i11i e i cnmhattime11ti tra le cose, in "Rivista Militare Tta liana" A nno LVIII, Voi. lii Disp. Vll - 16 agosto 191 3, pp. 1624- 164 1; Disp. IX - 16 settembre 191 3. pp. 1777-1 800; Voi. IV Disp. X 16 ottobre 1913. pp. 1953-1964. 64


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tallica leggera (opportunamente sagomato per facilitare i rimbalzi), che il fante dovrebbe portare al posto dello zaino. Dandogli fiducia nella propria incolumità, lo scudo "sarà un nuovo coefficiente di forza morale e permetterà di portare con tali trincee semoventi alle minime distanze, il massimo numero difucili e baionette", perché senza di esso molti durante l'attacco non uscirebbero dai ripari. Secondo lo Scotti Berni coloro che sono contrari a questa soluzione, perché provocherebbe un ulteriore aumento del già forte peso trasportato dal fante, dimenticano che lo scudo va portato in sostituzione dello zaino e della vanghetta, e che sarebbe un peso gradito, perché dà visibilmente sicurezza a chi lo porta. Hanno torto anche coloro che propongono di dare in dotazione al fante un maggior numero di cartucce di peso equivalenle, perché "se il soldato è mantenuto nell'attuale [elevata] vulnerabilità, sarà vano, anzi dannoso sovraccaricarlo di altre cartucce", che dati i numerosi feriti e caduti non potranno poi essere utilizzate. La proposta dello scudo, peraltro condivisa da molli autori coevi, è l'unico punto di caduta degli scritti del lo Scotti Berni, il quale sostiene giustamente che l'unico rimedio per neutralizzare il sempre più temibile fuoco della difesa consiste "nel preparare bene e fortissimamente e decisamente l'avanzata delle fanterie con un ben nutrito fuoco di artiglierie di medio e di piccolo calibro"; infatti "le artiglierie oggi hanno il sopravvento fino ali 'ultimo e si può dire che le fanterie debbano muovere soltanto a colpo sicuro". Particolare importanza avranno le artiglierie di medio calibro; esse "prepareranno il terreno all 'azione successiva delle batterie leggere; queste a loro volta spazzeranno il terreno alle fanterie". Ecco comparire di fatto, già nel 1913, il celebre detto "l'artiglieria conquista, la fanteria occupa". Per questa ragione lo Scotti Bemi sostiene la necessità di aumentare, e di molto, il numero di artiglierie, senza tenere in gran conto, una volta tanto, il fuoco di fucileria. Non parla deUe mitragliatrici, ma la lacuna è compensata da considerazioni molto centrate sulla necessità che l'attacco possa contare su una forte superiorità numerica, sul1' utilità dei ricoveri a prova di bomba blindati anche superiormente e sulla necessità di proteggere anche la testa del combattente con l'elmetto.

La regolamentazione dottrinale del 1913 e la superiorità dell'offensiva

Viene ora da chiedersi fino a che punto la regolamentazione tattica recepisce le idee degli autori citati, e fino a che punto tale regolamentazione


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è assimilata e correttamente applicata nell'esercito. Nel periodo 1913 -

1914 (cioè ancora sotto la gestione del generale Pollio, che precede il generale Cadoma nella carica di Capo di Stato Maggiore) sono emanate tre fondamentali pubblicazioni: le Norme per l'impiego delle Grandi Unità in guerra e le Norme per il combattimento ambedue del 1913 (che sostituiscono le analoghe norme del 1910) e il Regolamento di esercizi per la fanteria (30 giugno 1914), che sostituisce l'analogo regolamento del 1907. Secondo il Bastico "i Ire regolamenti costituivano un tutto non privo certo di mende, ma armonico e nel complesso veramente buono". grazie a tre caratteristiche fondamentali: a) J' assenza di prescrizioni tassative e tali da limitare la libertà d'azione dei comandanti ; b) il continuo richiamo alla cooperazione tra le Armi e tra i comandanti; c) "il giusto equilibrio fra Lo lpirito aggressivo che deve presiedere a ogni operazione di guerra, e la serena valutazione delle circostanze del momento" .65 Si tratta pertanto, per iJ Bastico, di una "dottrina del buon senso", tale giudicata anche all'estero perché rifugge da certi estremismi concettuali tipici della dottrina francese e tedesca, per realizzare "un prudente equilibrio fra la teoria e la pratica, fra l'offensiva e la difensiva, fra i mezzi e gli scopi". In effetti non compare più, in tali regolamenti, la citata frase delle Norme generali per l'impiego delle tre Armi nel combattimento del 1885 - 1887: "se preparato e condotto con energia, un attacco su terreno completamente scoperto può riuscire, anche se ci si esponga a gravi perdite" . Riguardo al pratico impatto di tale regolamentazione sull'organismo militare, però, il giudizio del Bastico è decisamente critico. A suo parere, anche se il dogmatismo era sulla carta proscritto, la mancanza [nei Quadri] di una salda cultura professioTU1le 1- .. I aveva continuato a produrre un dogmatismo pratico, sì che tutta la preparazione dei Quadri, resa di per sé stessa dijjicile dalla deficienza dei mezzi e dalla scarsezz.a degli effettivi, si era costretta in poche norme altrettanto rigide, per quanto erano elastiche quelle analoghe contenute nei va ri regolamenti[ ... ].Ma ancor più grave di questo rigidismo didattico, fu senza dubbio quel disagio intellettuale che fin dal tempo di pace si era manifestato presso più di un grande Comando, a causa del contrasto esistente fra lo spirito eminentemente offensivo al quale si ispirava la no-

65 Bastico, Op. cit., Voi. 1T pp. 204-2 11. C fr. anche, in merito, Alessandro Blo ise, Alcune considerazioni sulle vigenti nostre istnizinni taltiche, in " Rivista Militare Italiana"' Anno LVlll Voi. 1T Dis p. IV - 16 aprile 19 13, pp. 682-712.


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stra regolamentazione e i concetti essenzialmente difensivi che presiedevano a tutti gli studi relativi alla nostra mobilitazione ed al primo impiego delle maggiori unità, e che all'atto della guerra assurse perfino a vera crisi morale, per effetto della necessità. improvvisamenle sorta. di alluare la più audace offensiva [nostra sottolineatura - N.d.a.].

Per evitare questi inconvenienti - prosegue il Bastico - sarebbe stata necessaria una vera e ben assimilata dottrina di guerra adatta alla mentalità italiana e tale da mettere in grado le menti di prescindere all'occorrenza dalle prescrizioni regolamentari per applicare i principi fondamentali della condotta della guerra; ma essa "esisteva solo allo stato potenziale [ ... ] era quindi verbo senza adepti o più esattamente con pochi apostoli e pochissimi seguaci; e perciò, in realtà, era come se non esistesse". Più della mancanza di una dottrina, però, "faceva a noi difetto la disciplina delle intelligenze e degli animi: proprio quella disciplina alla quale faceva appello la nostra regolamentazione". L'analisi delle tre pubblicazioni alle quali ra ril"erimento il Bastico conferma il suo giudizio positivo, anche se non si capisce bene che cosa voglia intendere per dottrina: le Norme per l'impiego delle grandi unità, e in parte anche le Norme per il combattimento, non sono regolamenti ma pubblicazioni dottrinali, che come tali contengono indicazioni sufficienti per delineare una dottrina, senza bisogno di altre specifiche pubblicazioni. In particolare le Norme per l 'impiego delle Grandi Unità prima di trattare della difensiva ribadiscono "l'assoluta, costante superiorità dell'offensiva". E per giunta si preoccupano di sottolineare, a torto, che i recenti progressi delle armi da fuoco e dell'artiglieria "lungi dal diminuire i vantaggi dell 'offensiva, li hanno ancor più accentuati". Infatti: - la possibilità per l'attaccante di aprire il fuoco da distanze assai maggiori e da posizioni più defilate che in passato, ha tolto alla difesa il grosso vantaggio di battere da posizioni preparate le artiglierie dell'attaccante, costrette ad avvicinarsi e quindi a scoprirsi [questo poteva avvenire, in passalo, anche con fucili; ma il vantaggio delle nuove artiglierie ora è quanto meno reciproco , se non solo della difesa - N.d.a.]; - l'efficacia delle armi moderne può provocare "terribili perdite" all'attaccante, ma "assicura all'attaccante un ben più decisivo mezzo di distruzione", tanto più prezioso quando il nemico si ritira [ma prima? perché il fuoco dell'attaccante dovrebbe essere più redditizio di quello di chi spara ben protetto da una trincea? - N.d.a.];


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- con gli eserciti di massa odierni, che si schierano a difesa su fronti assai estese, è difficile trovare posizioni difensive che non presentino ampi lratti deboli o larghe soluzioni di continuità [ma individuarle per l'attaccante non sarà facile, e potranno sempre essere rafforzate in poco tempo - N.d.a.]. Le Norme ammettono la difensiva solo se il comandante di Grande Unità che la decide vi è costretto. In questo caso l'atteggiamento difensivo potrà. senza dubbio, assicurare vantaggi notevoli, quali p.e. la più libera scelta del terreno di combattimento, la possibilità di tenersi meglio al coperto e di subire perciò minori perdite fino alla fase del combattimento vicino, l'impie,?o del fuoco più sicuro e meglio preparato; vantaggi tulli che potranno essere resi ancora più sensibili quando chi si difende abbia tempo e sappia valersi abilmente del grande aiuto che può offrire l'arte.fortificaloria.

Se i vantaggi della difensiva sono di tal natura, non si capisce bene perché l'offensiva conservi l'aprioristica superiorità della quale parlano prima le Nonne. Invece, subito dopo aver illustrato i predetti vantaggi, ammoniscono che essi "su1:li animi meno forti"' possono apparire più grandi di quanto siano in realtà; comunque non devono soffocare il fermo e deliberato proposito di passare "ad una vigorosa azione controffensiva, dalla quale soltanto è lecito sperare risultati decisivi" [ma basta il proposito? - N.d.a.]. Contro posizioni preparate non si può fare grande affidamento sulle operazioni notturne; bisogna però impedire che le nostre truppe "si /rovino improvvisamente fermate davanti a ostacoli artificiali, allo scoperto, sotto il fuoco efficacissimo della d~fesa", che può essere concentrato là ove il nemico si è arrestato: difficile è quindi la condotta delle truppe che non siano ben inquadrate e ben comandate. E' probabile che si debba fare una più larga parte (appunto per effetto dei rafforzamenti che il nemico ha avuto il tempo di fare) ai lavori di costruzione di trincee o di altri ripari, dietro i quali non si esclude che le truppe attaccanti debbano sostare Lungamente. Bisogna quindi predisporre ogni cosa affinché le truppe siano munite degli strumenti e dei mezzi adatti a tali lavori.

Nell'azione difensiva su posizioni preparate i requisiti principali di una buona posizione sono due: buon campo di vista e tiro e faciljtà di manovra. I lavori di fortificazione campale devono favorire il contrattacco ed


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essere mascherati_ Vanno compiuti con la ma~sima alacrità, di giorno e di notte, fino a trasformare se possibile il terreno "in un vero e proprio campo trincerato". Inoltre: - occorre prevedere depositi ben protetti per almeno una parte del munizionamento, ricoveri per le truppe (specie per quelle di riserva) e postazioni multiple per le artiglierie; - le mitragliatrici vanno impiegate di preferenza per battere i passaggi obbligati per il nemico, oppure gli ostacoli artificiali. Quest'ultimi possono essere utilmente predisposti là ove il terreno si presta ad essere battuto con fuochi incrociati. Da sottolineare che le Nonne dedicano una certa attenzione al combattimento in montagna, nel quale la fanteria è l'Arma che meno risente del particolare ambiente, mentre l'impiego dell'artiglieria incontra parecchie difficoltà, per la penuria di idonee zone di schieramento e perché si trova maggiormente esposta ad essere individuata e battuta dal fuoco di fucileria. Riguardo ali' azione offensiva, quanto più il terreno sarà rotto, accidentato, difficile, tanto maggiore importanza avrà la manovra, che in montagna è da ritenersi fattore essenziale di buon successo. Essa sarà 5pecialmente necessaria in vista della difficoltà degli attacchi frontali, i quali in montagna, non riescono generalmente se non a prezzo dei più gravi sacrifici, e che perciò occorre opportunamente secorulare con attacchi rivolti contro i fianchi e contro le spalle del nemico.

Peraltro, le maggiori difficoltà degli attacchi frontali "non dispensano dall'operare anche frontalmente, quando ciò sia imposto dalla situazione, come spesso si verificherà per i reparti inquadrati" . D'altra parte, il terreno scosceso e dirupato può talvolta consentire alla fanteria di sfruttare i numerosi angoli morti per arrivare senza gravi perdite a ridosso del nemico, che altri reparti rimasti in posizione potranno fissare con il fuoco. Le Norme sembrano infine presagire Caporetto, là ove avvertono che la protezione dei fianchi e delle retrovie acquista in montagna particolare importanza, mentre la scarsità delle strade, le difficoltà del terreno, la stanchezza e il disordine in montagna più che altrove possono trasformare in rotta completa una ritirata eseguita sotto la pressione avversaria. Inoltre le posizioni dominanti e specie i nodi orografici "debbono essere solidamente difesi, perché il loro possesso assicura la padronanza dell'intera posizione e, in generale, da essi è più agevole l 'azione controffensiva". E anche la difesa di una valle e/o di una stretta gravita sulle alture laterali...


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In sintesi, da questi pochi cenni emergono chiaramente le difficoltà dell'azione offensiva in montagna. Poiché i nostri confini sono in massima parte montani, anzi alpini, tali difficoltà smentiscono le affermazioni delle predelle Norme sulla superiorità aprioristica dell'offensiva, ancor più inconsistenle se si considera quanto esse affermano a proposito dell'azione difensiva, prescrivendo che il difensore prepari il terreno in modo da costringere l'avversario a condurre un 'azione frontale, che gli consentirà di impiegare poche truppe per fronteggiarla, tenendo invece alla mano la maggior parte delle forze per condurre la controffensiva. Le Norme per il combattimento, più dettagliate, non possono che ripetere molti concetti che già si trovano nelle Norme generali. Da notare l'elencazione delle ragioni che per effetto della crescente efficacia delle armi moderne differenziano il combattimento del momento da quello del passato: - maggiore difficoltà di orientarsi sulla situazione e quindi maggiore importanza dell 'attività informativa; - necessità di un maggiore scaglionamento in profondi là, ma al tempo stesso di fronti più estese e di formazioni aperte e distese con intervalli molto larghi; - "lentezza dell'avanzata nella zona del fuoco, determinata dal bisogno di sfruttare accuratamente ed anche di rafforzare con frequenza il terreno, sia per ottenere maggiore efficacia di tiro, sia per diminuire le perdite"; - maggiore difficoltà di dirigere il combattimento, quindi necessità di una continua e costanle cooperazione tra le varie Armi; - maggiore celerità di tiro del fucile, quindi necessità per i Quadri di esercitare continua sorveglianza per evitare sprechi di munizioni e di organizzare accuratamente il rifornimento delle munizioni; - "vasto impiego di congegni nelle comunicazioni e di mezzi meccanici nei trasporti", che agevola l'esplorazione, i collegamenti, il rifornimento delle munizioni e dei viveri. Naturalmente anche le Norme per il combattimento assicurano che l'aumento della potenza di fuoco favorisce l'offensiva: a parte i già previsti vantaggi dell'artiglieria, "la fante ria attaccante - giacché le armi portatili moderne appunto perché più precise delle precedenti risentono in grado assai maggiore delle condizioni d'animo di chi le adopera - potrà meglio che in passato far valere, sul difensore, la propria [supposta, aprioristica - N.d.a.] superiorità materiale e morale". Inoltre potrà aprire il fuoco da lontano [lo poteva fare anche prima - N.d.a.] e concentrarlo con efficacia sui tratti della posizione nemica sui quali conviene dirigere l'attac-


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co [questo è il vecchio concetto della preparazione dell'attacco con il fuoco di fucileria; comunque il concentramento del fuoco è più agevole per la difesa - N.d.a.]. Anche le Norme per il combattimento sottolineano che l'attacco frontale in montagna è "dij]ìcilissimo", quindi per l'attaccante sarà quasi sempre necessario ricorrere alla manovra. Particolare importanza in montagna hanno le mitragliatrici, che "ad una grande mobilità uniscono l'attitudine a sviluppare anche da breve spazio di fronte intensa azione di fuoco". Esse devono seguire sempre le truppe alpine, anche quando sono costrette a lasciare indietro le salmerie. Il Regolamento di esercizi per la fanteria del 1914 taglia finalmente la testa a un vecchio nodo, prescrivendo che l'ordine sparso venga assunto anche dai rincalzi, e da qualsivoglia reparto soggetto al fuoco nemico. Dà la dovuta importanza al fuoco delle mitragliatrici e al fuoco in genere, precisando però che esso è un mezzo che serve ad agevolare il movimento, non viceversa. Nel complesso, pur sottolineando che le norme fornite non sono tassative il regolamento ha due limiti, entrambi da attribuire a una nociva eredità del passato: - l'eccessivo schematismo e l'eccessiva cura del particolare, specie là ove descrive l' azione offensiva e difensiva; - la prescrizione (para.250) che il comandante di hattaglione dirige il fuoco, mentre al comandante di compagnia compete la sua condotta e ai comandanti di plotone la sua disciplina. Prescrizione in contrasto con l'istruzione sul tiro, che nel 1909 ha previsto il fuoco mirato individuale. Il comandante di battaglione dovrebbe anche dare ordine di aprire il fuoco, mentre i bersagli da battere sarebbero stabiliti dai comandanti di reparto. Bisogna ora chiedersi, in riferimento anche a quanto afferma il Bastico, quale sia l'impatto della regolamentazione sull 'attività pratica dei reparti, specialmente per quanto attiene all'organjzzazione e condotta dell'azione offensiva, la cui preminenza è una costante della nostra dottrina da sempre. Consente di dare qualche elemento di risposta un articolo del 191 O anch'esso dovuto a un nome illustre: l'allora capitano di Stato Maggiore Pietro Badoglio. 66 Pur dicendosi ottimista sulla qualità del nostro esercito e sul futuro dell'Italia, il giovane ufficiale coglie l'occasione di un commento poco favorevole dell'allora Capo di Stato Maggiore generale Pollio alle grandi manovre dell'agosto - settembre 1910 per criticare in modo assai severo il modo di condurre l'offensiva da parte del partito az66 Pietro Badoglio, Riflessioni di un ottimisla, in " Rivista di Cavalleria" Anno XIJI Voi. XXV Fase. TV - I9 IO, pp. 383-400.


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zurro contro il partito rosso, che aveva organizzato a difesa con trincee e appostamenti, fronte a Sud, le colline dell'anfiteatro morenico del Lago di Garda comprese tra Volta e Solferino. I lavori di difesa sono durati solo due giorni, e tali colline, digradanti verso la pianura con pendii assai ripidi, hanno pur sempre una quota non superiore a 150 m; ma questo basta al capitano Badoglio per giudicarle "fonnidabilt' e di "una potenza davvero impressionante" (che dire, allora, delle future posizioni austriache sull'Isonzo?), tanto più che l'attaccante era costretto a procedere in terreno di pianura quasi scoperto, dove "un' avanzata sembra impresa ardua, per non dire altro". Sulla condotta dell' attacco nel caso in esame Badoglio fa tre osservazioni fondamentali: - se si considera il modo con il quale i giapponesi hanno condotto i loro attacchi nella guerra russo - giapponese, l' avanzata delle truppe del partito azzurro, senza tenere minimamente conto del fuoco nemico e senza curarsi di nascondere la loro presenza, "potrebbe essere considerata come un anacronismo. I rossi avrebbero dovuto non avere artiglierie, ed essere armati di fucile a pietra, perché l'attacco, fatto così allegramente alla scoperta contro di essi, avesse avuto probabilità di riuscita"; - "nessun motivo plausibile impediva ai battaglioni azzurri di dare una vasta applicazione ai lavori da zappatore, di obbligare i soldati ad avanzare infila indiana, di scavare trincee nella posizione di coricati"; - fanteria e artiglieria durante l'attacco hanno agito ciascuna per proprio conto, ignorando la cooperazione. Come prima di lui il generale Pollio, il capitano Badoglio attribuisce questi errori all'insufficiente preparazione tecnico - professionale degli ufficiali, che a suo parere non significa deficienza di cultura generale, né carenza di preparazione teorica. Occorre invece migliorare l'addestramento pratico dei Quadri, con particolare riguardo alla cooperazione fanteria - artiglieria. A tal fine bisognerebbe, ad esempio, far partecipare agli ufficiali di fanteria alle scuole tiro di artiglieria e reintrodurre i campi estivi in comune per le tre Armi, per periodi relativamente lunghi. Per quanto attiene all'addestramento della truppa, un articolo del 1902 sulla Rivista di Fanteria condanna aspramente i molti mali che derivano dall'addestramento di piazza d ' armi (che è il più frequente) e dall'eccessiva importanza data all' addestramento formale e alle parate, a scapito dell'addestramento di campagna in ordine sparso, che è il più fruttifero. 67 Se-

67

Le piazze d 'armi, in "Rivista di Fanteria" Anno XI, DLXXVIII - 3 1 onobre 1902, pp. 695-7 15.


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condo la rivista, se li si sa trovare e utilizzare bene non mancano terreni più adatti a un proficuo addestramento, né è vero che l'ordine chiuso di piazza d'armi infonde nel soldato la disciplina: in piazza d'armi si ottiene molto poiché quello che si esige è facile: tanto è vero, che in piau.a d'armi lo si ottiene e fuori della piazza d 'armi, dagli stessi uomini, non lo si ottiene. La disciplina trae invece alimento dalle esercitazioni fatte fuori della piazza d'armi, appunto perché le difficoltà contro le quali essa si alimenta sono maggiori. Sei anni dopo la situazione non è certo rrùgliorata. Il capitano Campolieti nel 1908 denuncia i danni che derivano "dall'abuso della piazza d 'armi", criticando anche il vigente regolamento d 'esercizi perché "risente e conserva troppo a lungo i danni dell 'abuso di piazza d'atmi". 68 Ad esempio: - "l'intervallo normale tra uomo e uomo [prev isto dal regolamento] nell'ordine sparso è di appena mezzo passo. Quest'intervallo invece sarà eccezionalissimo in f?uerra"_ Ne consegue che in tutte le esercitazioni di campagna i soldati sono sempre troppo addensati; - " la posizione normale del soldato in piazza d'armi è quella d 'in ginocchio, ed il soldato non si prende nessuna cura del terreno, e di coprirsi. Invece la posizione normale di guerra è quella di a terra (e quasi di sottoterra, nelle trincee o addossato agli ostacoli)". Ne consegue che il soldato non sa sfruttare il terreno, e anche a causa dell'equipaggiamento inadatto non assume volentieri la posizione a terra, che pure dovrebbe essere quella più comoda per i1 tiratore. Il Campolieti constata che la regolamentazione vigente non si cura di queste cose, e anzi sembra pretendere che gli uomini e le esigenze de bbano adattarsi alle prescrizioni regolamentari, non viceversa. E conclude che "le compagnie dell'esercito italiano meglio educate sono quelle delle truppe alpine. Una delle ragioni ne è il minor uso che fanno della piazza d'armi ... ". Non si ha motivo di credere che, fino al 1915, la situazione di fondo criticata dalla Rivista di Fanteria e dal Campolieti sia profondamente mutata, visto anche che, dopo iJ 1918, l'esercito continua a rivelare difetti analoghi_ Il problema pertanto si sposta dai contenuti della regolamenta-

68 Nicola Maria Campolieti, La psicologia militare applicata all'educazione militare. Firenze. Tip. G. Ramclla 1908, pp. 237-242.


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zione dottrinale in sé e per sé, alla loro concreta e problematica applicazione in un organismo che, come risulta anche dagli accenni del Bastico, è tutt'altro che flessibile e aperto alle nuove esigenze.

I reali contenuti del "Libretto rosso" ( /915) del generale Cadorna: bibbia della guerra di logoramento? Come si è visto, il Bastico parla di una "crisi nwrale" dei Comandi italiani alla vigilia della guerra, "per effetto della necessità, improvvisamente sorta [nostra sottolineatura - N.d.a.], di attuare la più audace offensiva". Improvvisamente sorta? Non ci sembra. L'audace offensiva, sia pur in modo assai meno tassativo che all'estero, era già prescritta dalle Norme. Del resto le predisposizioni adottate per la difesa nazionale non avevano mai escluso una decisa controffensiva, mentre gli obblighi della Triplice avevano imposto lo schieramento di una parte dell 'esercito sul fronte occidentale contro la Francia. Senza contare che da un annoso dibattito sulle riviste era sempre emerso un dato di fatto indiscutibile e tuttavia indiscusso, che cioè solo l'offensiva può essere risolutiva e che la difensiva, per riuscire, non deve mai essere passiva. TI Bastico aggiunge che, all'inizio della guerra, "oltre l'improvvisa-

zione o quasi dei mezz.i si dovette perciò improvvisare lo stato d'animo dei Comandi più elevati; e come avviene in quasi tutte le crisi improvvise e violente, non tutti seppero farsi di un tratto un 'anima nuova, una mente nuova... ecc.". A parer nostro, invece, non si può parlare di improvvisazione dei mezzi, per due ragioni: come tutti gli eserciti europei, l'esercito italiano all'inizio della guerra era organizzato e preparato, anche logisticamenle, all'offensiva, quindi se mai è la difensiva che ha dovuto essere preparata. In secondo luogo l'esercito italiano aveva avuto parecchi mesi di tempo, dall'agosto 1914 al maggio 1915, per preparare la guerra, quindi se mai si può parlare di deficienza dei mezzi, e specie di mitragliatrici e artiglierie, idonee pinze tagliatili ecc .. Nemmeno si può parlare di improvvisazione degli animi, per altre due ragioni. Primo, perché ciò significherebbe ammettere che gli alti gradi dell'esercito non credevano nella regolamentazione o che questa non aveva avuto su di essi alcuna influenza, il che sarebbe almeno singolare. Secondo, perché tutti - non solo gli alti gradi erano a conoscenza degli impegni della Triplice. Detto questo, il Bastico cita in nota il celebre opuscolo emanato dal generale Cadorna tre mesi prima della guerra, in data 25 febbraio 1915, con il titolo Attacco frontale e ammaestramento tattico. Definito anche Li-


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bretto rosso, tale opuscolo è stato da molti indicato, specie dopo il 1945, come la giustificazione teorica dei successivi massacri sul fronte dell' Isonzo. Lo stesso Bastico, senza prendere posizione, accenna alle "ben note critiche - alcune assai aspre - mosse a detto opuscolo sia rispetto alle prescrizioni in esso contenute, sia soprattutto al concetto cui si informava". Se il Bastico avesse giudicato positivamente questo documento, lo avrebbe accomunato, nella lode, aJla regolamentazione del 1913-1914. La sua mancata presa di posizione, giustificata con un certo imbarazzo, equivale perciò a un giudizio poco favorevole: cionondimeno egli ricorda giustamente "la perfetta analogia" tra quanto affermano in merito all 'attacco frontale le Norme del 1913 (dovute, lo ricordiamo ancora, al generale Pollio) e quanto prescrive il Cadoma. Diventa pertanto indispensabile condurre un' analisi dei punti di vista del Cadoma, onde stabilire se essi segnano o meno una rottura con concezioni dottrinali precedenti e se sono giustificate le critiche alle quali allude anche il Bastico. Va anzitutto precisalo che il Libretto rosso non è un documento a carattere strategico, ma a carattere tattico - addestrativo e per di più rivolto ai minori livelli, ai quali non spetta certo la scelta tra difensiva e offensiva.69 Compilato in forma semplice, piana e discorsiva, si divide in tre parti. La prima, di gran lunga la più importante, contiene criteri generali e modalità per l'offensiva, la seconda tratta del terreno e la terza dell'addestramento. Non compare la difensiva: ma tale omissione va attribuita a ragioni psicologiche, perché non c 'è dubbio che, nell'ormai vicina guerra, l'esercito italiano avrebbe dovuto prendere l'offensiva, che proprio perché nella guerra in corso si era rivelata difficile, andava molto curata. Buona parte delle prescrizioni e raccomandazioni non hanno tempo, perché rispondono a un sano realismo; ci soffermiamo solo sulle più iinportanti. Si è frequentemente accusato il Libretto di aver voluto instillare nei Quadri una perniciosa tendenza all'attacco frontale; questa accusa non è del tutto condivisibile. Il para. 9 recita: ci si riferisce all'azione frontale come quella che in pratica più viene impiegata - e ne danno prova tangibile Le guerre che si stanno combattendo - perché ad essa si riducono anche Le altre[ ... ]. Le maggiori probabilità di risultati decisivi si hanno, è vero, combinando - quando sia possibile - l'azione frontale con un 'altra diretta contro una od entram-

69 C fr. anche la presentazione de l Ubretto rosso nella " Rivista Militare", dovuta al maggiore (poi generale) Pietro Ago (Attacco frontale e ammaestramemo tattico, Anno LX Voi. I Disp. III - 16 marzo 1915, pp. 425-433).


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bi i fianchi del nemico, ma non è tuttavia da escludere che l'azione frontale possa diventare principale o la sola imposta dalle circostanze, specie quando - come nell'attuale conflitto - le fronti vanno assumendo dimensioni enormi.

Ai minori livelli e di fronte a un sistema continuo di trincee, come poteva essere evitato 1'attacco frontale? A Riga e Caporetto, nel 1917, si è riusciti a compiere un aggiramento strategico, preceduto però da uno sfondamento in campo tattico (a Caporetto con azione frontale sul fondo - valle, quasi sguarnito). Dopo aver sottolineato la necessità di preparare l'attacco in tutti i suoi particolari, il Libretto raccomanda di mantenere le truppe il più possibile coperte alla vista e al tiro del nemico, anche se "coprirsi non deve si1:n~ficare immobilizzarsi nei ripari". Questo si può ottenere "con L'abile .~frut-

tamento di tutte le coperture; con l'attraversare i tratti scoperti in formazioni aperte; alternando nella zona dell'attacco - sbalzi celeri a brevi soste nella posizione di a terra". Cadorna non fa questioni di tempo: l'importante è vincere, non fare presto. Pertanto ammette che l'attacco possa durare più giorni e che, attacco durante, la fanteria possa proteggersi con lavori speditivi o sacchetti di terra. Anche l'assalto non va eseguito da masse d 'uomini che "sarebbero votate alla certa distruzione" per effetto del fuoco concentrato di artiglieria e fanteria nella zona dell'irruzione; "va dato, invece, da linee successive non dense d'uominf'. Cadoma si guarda bene dal dare più importanza al fucile che al cannone; anche per lui, artigliere, un aderente e potente fuoco di artiglieria è conditio sine qua non per il successo dell'azione della fanteria. Si sofferma molto, perciò, sulla necessità di raggiungere una completa cooperazione fanteria - artiglieria, nell'intesa che spetta a quest'ultima Arma plasmare la propria azione su quella della fanteria. Ancor più importante un'altra precisazione, che esclude recisamente attacchi avventati contro difese nemiche non sufficientemente neutralizzate (ai quali, invece, si è fatto spesso ricorso durante la guerra, contro queste sue prescrizioni): tranne casi eccezionalissimi la fanteria non può arrivare a distanza d'assalto se prima l'artiglieria non le abbia spianata la via spezzando, coll'impeto e la massa del suo fuoco, ORni resistenza avversaria nella zona d'irruzione[ ... ]. Diventa indispensabile per l'attacco di assicurare l'assoluta superiorità del fuoco nella zona prescelta per l'irruzione.

Poco convincenti, invece, le sue idee sul rapporto tra fuoco e movimento. Per ottenere la vittoria i mezzi sono due, la superiorità di fuoco e


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"l'irresistibile movimento in avanti". Ma per Cadorna il mezzo principale è quest'ultimo, perché serve anche a ottenere la superiorità di fuoco; infatti "la persistenza nell'avanzare da parte dell'attaccante induce il difensore ad appiattarsi e a tirare alto", mentre l'avanzata della nostra fanteria costringe l'artiglieria nemica ad abbandonare le sue posizioni defilate, svelandosi e rendendo possibile alla nostra artiglieria di neutralizzarla. E pur ammettendo che se la fanteria nemica è protetta da ripari gli effetti del nostro fuoco di artiglieria "saranno abbastanza limitati", il Cadoma sostiene che le armi moderne hanno procurato a chi attacca tre vantaggi, invero inesistenti: - possibilità per l'artiglieria dell'attaccante di rimanere in posizioni defilate più a lungo di quella del difensore, costretta a smascherarsi a causa dell'avanzata della fanteria; - mentre l'artiglieria dell' attaccante può scegliere i suoi obiettivi e concentrare su di essi il fuoco , quella della difesa è costretta a disperdere il suo fuoco sugli ohiettivi che ma n mano le si presentano; - possibilità, date le lunghe gittate ormai raggiunte, di far convergere sul punto decisivo dell'attacco "il fuoco di estese linee di fanteria e artiglieria" lma anche la difesa ha analoghe possibilità - N.d.a.]. Il Cadorna conclude perciò (a torto) che "l'offensiva presenta oggi più favorevoli condizioni di buona riuscita che in passato". Questo fatto - egli precisa - è solo apparentemente contraddetto dalla guerra di trincea in corso sul fronte occidentale, dove sembra che una tenace difensiva possa prevalere sull'offensiva. A suo parere questa forma di guerra è dovuta alla mancanza di una decisa prevalenza di forze di una delle due parti, ai perfezionamenti delle armi da fuoco e "alla potenza assunta dalla fortifica zione improvvisata", ma non risolve nulla; anche il reciproco logoramento tende ad equilibrarsi. Perciò "allorché uno dei partiti si sentirà veramente più forte dell'altro, sferrerà l'offensiva, che sola è capace di conseguire risultati decisivi; sarà pur sempre la manovra che deciderà le sorti della guerra". Comunque, per il Cadoma a livello tattico è più facile conquistare una posizione che mantenerla; pertanto il terreno conquistato va subito sistemato a difesa. A questo punto è facile osservare che il movimento in avanti della fanteria non serve a ottenere la superiorità di fuoco, ma se mai - come si deduce da altre affermazioni del Cadoma - è quest'ultima a rendere possibile, e non troppo oneroso, tale movimento . E a parte ogni altra considerazione, la guerra allora in corso dimostrava proprio la superiorità della difesa, se non altro perché - anche a parità di forze - se l'attacco avesse for-


Xl - 1.'0FFF.NSIVA, I.A DIFENSIVA E L"'AMMAESTRAMENffi TATflCO" DELLE TRUPPE

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nito di per sé dei vantaggi, chi aveva il coraggio di attaccare avrebbe senz'altro avuto successo, cosa che nel 1914 - 1918 non è certo avvenuta, specie sul fronte dell'Isonzo. Molto probabilmente Cadorna enfatizza i vantaggi e le possibilità di riuscita dell'attacco per ragioni psicologiche e morali: se la prospettiva strategica nel marzo 1915 era di condurre una guerra offensiva (e non poteva che essere tale), che sarebbe avvenuto se il Capo dell'esercito avesse lasciato capire di dubitare della riuscita degli attacchi? Ciò non toglie che i riferimenti del Cadoma alla mancanza di una decisa preponderanza di forze da parte di uno dei due contendenti, alla situazione di stallo e alla capacità risolutrice della sola offensiva siano centrati; si deve solo dire che tra ciò che sarebbe necessario e ciò che è possibile c'è sempre stata notevole differenza. La preferenza del Cadoma per l'offensiva, comunque, non è mai assoluta; né si trova traccia, nel Libretto rosso, di una citazione del 1912 del colonnello Be,totti, secondo il quale il generale Cadorna, trallando dei mezzi per denwralizzare l'avversario, scrive: " il mezzo principale è il continuo avanzare a costo delle più gravi perdite, e questo concorre ad ottenere anche la superiorità di fuoco, poiché nel difensore che non riesce ad arrestare l' attaccante, viene meno la fiducia nelle armi e in sé stesso, la demoralizzazione cresce ed allora egli si appiaUa e tira in alto."70

Il "continuo avanzare a costo delle più gravi perdite" nel Libretto rosso (TV, pag.23) viene sostituito dall' "irresistibile movimento in avanti", presentato come mezzo principale per ottenere la vittoria, che fa premio anche sulla superiorità di fuoco. Evoluzione del pensiero di Cadoma? Forse anche questa affermazione è suggerita da ragioni psicologiche. Accennare alla necessità di avanzare anche al prezzo di gravi perdite non predispone certo favorevolmente per l'attacco lo spirito delle truppe, subito portate a chiedersi se, stando così le cose, il gioco vale la candela. Oltre tutto, una siffatta visione è in contraddizione con l'asserita superiorità dell'offensiva, che se è veramente tale dovrebbe consentire, appunto, di avanzare economicamente, cioè con perdite relativamente lievi: se no, dove sta il vantaggio?

111 Emilio Bertoui,. Alcune considerazioni sulla tallica della fanteria, in "Rivista Militare Italiana" Anno LVIl Voi. IV Disp. XI - 16 novembre 1912, p. 2223.


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ln sintesi, un'attenta analisi del Libretto rosso porta a concludere che non vi è alcuna ragione per ritenerlo la base teorica di una guerra di logoramento - quale è stata quella sull'Isonzo - peraltro condotta su altri fronti in misura ancor più dispendiosa. Non vi si trova alcun strappo dottrinale: riprende, come si è visto, concezioni tattiche tutte sostanzialmente già presenti nella regolamentazione in vigore e nella pubblicistica militare, insistendo più che altro sulla necessità di attuarle. Questo vale anche per il troppo esecrato attacco frontale, per il quale è fuor di dubbio vero quanto afferma il citato articolo sulla Rivista di Fanteria del 1902: l'attacco di fianco non riguarda la tattica ma la strategia; nel campo tattico, l'attacco normalmente si risolve in un'azione frontale. Se, poi, tale tipo di attacco sul fronte dell' Isonzo si è rivelato troppo dispendioso e spesso è fallito e/o ha fornito modesti risultati, questo fatto non deve indurre sic et simpliciter a condannarlo, ma a chiedersi se, in quelle circostanze, era possibile sostituirlo con altre forme di attacco o con attacchi di fianco di maggior rendimento, e quali sono state le vere ragioni dei limiti che ha rivelato. La risposta al primo interrogativo non può essere che negativa. In un fronte trincerato continuo e in un terreno assai favorevole alla difesa austriaca come quello dell'Isonzo, qualsivoglia manovra di avvolgimento, tattico o strategico che fosse, non poteva che avere come premessa la riuscita di una rottura frontale. In secondo luogo, negli attacchi condotti dal nostro esercito fino aH' ottobre 1917 sono state forse sempre rispettate le vive raccomandazioni del Libretto rosso, a cominciare dallo stretto coordinamento tra fanteria e artiglieria e dal sostegno dell'artiglieria fino ali' ultimo? quando e come l'attacco è stato accuratamente preparato, come suggerisce il Cadoma? quando e come, per evitare perdite, è stato condotto almeno in parte di notte, è durato parecchi giorni con trinceramenti improvvisati intermedi, ecc.? Soprattutto, quante volte si è tenuta ben presente la citata raccomandazione del Cadoma (p. 17), secondo la quale "tranne casi eccezionalissimi La fanteria non può arrivare a sferrare l'assalto se prima l'artiglieria non Le abbia spianato la via, spezzando ogni resistenza avversaria nella zona dell'irruzione"? Se le resistenze avversarie fossero state veramente spezzate, 1' attacco sarebbe stato assai poco cruento e sarebbe riuscito ... Siamo giunti al punto nodale: non c'è dubbio che - non solo sul fronte italiano - l'organizzazione e condotta degli attacchi nella nuova e brutale logica della guerra di logoramento prescinde largamente, se non totalmente, non solo dal Libretto, ma anche da ogni sana norma tattica intesa a ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo, quindi anche dall'im-


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postazione concettuale del Libretto rosso, che per la verità nulla concede a tale guerra di logoramento_ Non risponde a verità nemmeno l'asserito legame delle norme contenute nel Libretto rosso con precedenti scritti del Cadorna sulla Rivista Militare, e in particolare con uno scritto giovanile del 1885 sulle Forme di combattimento della fanteria, seguito da un altro del 1887 sullo stesso argomento_71 Come nota anche il Bastico, 72 in questi articoli, pubblicati nel periodo in cui riprendono quota i fautori di un ritorno all ' ordine chiuso, il Cadorna si schiera piuttosto con quest'ultimi, mostrandosi favorevole a formazioni che, oltre a garantire la comandabilità, assicurino anche il massimo sviluppo del fuoco a distanze inferiori ai 600 metri, esigenza che a suo parere dovrebbe fare premio sulla riconosciuta necessità di evitare perdite_ TI Cadorna precisa, in proposito, di voler sostenere un ritorno all ' ordine chiuso, ma in linea spiegata e non più in colonna; per il resto, "se taluno osservasse che l'attuazione delle fatte proposte, conducendo in parie ad un ritorno all'ordine chiuso, anziché un progresso sarebbe da considerarsi un regresso, si potrebbe rispondere che il progresso in ogni cosa consiste appunto nel retrocedere quando si è varcata la giusta misura"_ Quale nesso esiste tra queste discutibili considerazioni e que1le del Libretto rosso, che sancisce una larga adozione dell'ordine sparso e uno stretto coordinamento con il fuoco d ' artiglieria? Piuttosto, hanno grande importanza tre lunghi articoli scritti dal Cadorna nel 1902, nei quali esamina la condotta strategica delle operazioni della guerra franco - prussiana fino a Sedan.73 In questa occasione espone dei princip'ì strategici che poi applica durante la guerra, e in particolare: - l'iniziativa dei comandanti in sottordine non può essere illimitata, ma va subordinata al concetto d'azione del Comandante in Capo; - il Comandante in Capo deve intromettersi anche nelle operazioni dei Comandi dipendenti, quando esse si riferiscono all'andamento generale delle operazioni, la cui condotta deve sempre essere unitaria e ben coordinata;

71 Luigi Cadorna, Le forme di combattimento de/la fanteria, in " Rivista Militare Italiana" Anno XXX Vo i. IV - dicembre 1885, pp. 426-471 e ID., Nuovi appunti sulle/onne di ,·ombauimento della fanteria, in "Rivista Militare Italiana" Anno XXXII Voi. lli - agosto 1887. pp. 19 1-205. L'articolo del 1888 citato dal Giorgio Rochat nella sua hiogralia di Cadorna non esiste (Cfr. la voce Co<loma in Dizionario HioKraftco deKli ltaliwii - Vol. 16°. Roma, Istituto Encicloped.ia Italiana 1873, pp. 104- 109). n Bastico, Op. cii., Voi. Il p. 195. 71 Cadoma. Da Weissemburg" Seda,1 - studio sulla condotta delle tru/>pe, in " Rivista Militare Italiana" Anno XLVII li sem. Disp. X - 16 ottobre 1902, pp. 1783-1835; Disp. Xl - I6 novembre 1902. pp. 1931-1970; Disp. Xli - 16 dicembre 1902, pp. 2 13 1-2 18 1.


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IL PENSIP.RO MILITAKE E NAVALE ITALIANO· VOL. lii (1870-1915) • TOMO I

- una delle cause principali della sconfitta francese nel 1870-1871 è stata l'ingerenza politica nelJe operazioni, "terribile lezione per quei paesi dove l'impeto incosciente delle masse soverchia i deboli governi e l'interesse dinastico non si trova all'unisono con quello della nazione". L'aspetto più importante e sorprendente - finora ignorato - di questi articoli è però ciò che il Cadorna in questo momento pensa delJ'attacco frontale, ben diverso dalle certezze del Libretto rosso. 1. Nella guerra del 1870-1871 ciò che ha veramente contato è la superiorità dell'artiglieria prussiana; anche se il fucile chassepot era superiore al fucile ad ago tedesco, alle piccole distanze i due fucili si equivalevano. Grazie a tale superiorità, nella difensiva i tedeschi anche con forze inferiori sono riuscili a tener testa agli attacchi francesi. Tuttavia i loro auacchi frontali, malgrado questo vantaggio delle migliori e più

numerose artiglierie, sempre fallirono, meno pochi casi nei quali altre particolari circostanze tornarono a loro favore. E questo si spiega, oltreché colla difficoltà di assaltare difronte truppe ben coperte su otlime posizioni difensive (siano pur esse state battute da fuochi efficaci d 'artiglieria), colla sconnessione degli attacchi.

2. In altra parte il Cadoma indica la potenza delle armi a retrocarica come causa dell'insuccesso degli attacchi frontali; anzi, stante la difficoltà degli attacchi frontali che è conseguenza dei terribili effetti delle armi moderne, si renderà per lo più necessario di eseguire un attacco avvolgente contro un'ala della posizione nemica. 74

3. In ultima analisi, in futuro vi sarà "una marcata preferenza" degli attacchi avvolgenti rispetto a quelli frontali. Va però considerato che per quanto si debbano preferire gli attacchi avvolgenti agli attacchi frontali, accadrà spesso che questi non si possano evitare. In tal caso converrà approfittare delle ore notturne per compiere le operazioni pre-

74

Cadorna, Art. dt. (Disp. XII - 16 dicembre 1902), p. 2 175.


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liminari e avvicinarsi al nemico a buona portata della fucileria - scegliere per obiettivi principali i salienti della posizione nemica che possono essere battuti con fuochi convergenti, oppure quei tratti della medesima contro i quali, dopo di essersi avvicinati al coperto, sia possibile sviluppare diversi ordini di fuoco in modo da avere una decisa soverchianza sul fuoco nemico - e se occorre procedere come si usa fare nell'attacco di una posizione fortificata, ossia impiegando più di un giorno, ed approfittando della notte per avanzare fino a distanza decisiva e costruire dei trinceramenti.

Anche se il Cadorna si riferisce principalmente al livello strategico e non a quello tattico, il divario tra il Librello rosso e queste osservazioni rimane indubbiamente forte, tanto più che nel 1915 i mezzi di fuoco erano ulteriormente progrediti. In particolare, nel 1915 iI Cado ma sostiene una decisa superiorità dell'attacco sulla difesa della quale non si trova traccia nel 1902. Come mai? A parer nostro, la spiegazione potrebbe essere duplice. Primo: nel 1902 si prevede unanimamente un aumento dell'ampiezza delle fronti , che però rimane molto lontano da quello che si verifica nel 1915. Nel 1902, quindi, rimangono ancora degli spazi vuoti e manca del tutto la prospettiva del fronte trincerato continuo, tipico già dell'inizio del 1915. Di conseguenza 1' attacco frontale nel 1902 può essere meno frequente, e l'attacco avvolgente più conveniente e più frequente (ciò non toglie che anche nel 1902, ai minori livelli - in questo caso, non studiati a fondo dal Cadoma - l'attacco frontale è praticamente d ' obbligo). Secondo: nel 1915 le solite e concrete ragioni psicologiche impongono al Cadoma, al momento Comandante in Capo e non più (quasi) libero pensatore, di instillare nei Quadri la fiducia nell'attacco frontale. Rimane da esaminare la genesi del Libretto rosso. Secondo un non meglio identificato biografo del 1915, E. Miles, nel 1898, da Comandante di brigata, il Cadoma ha scritto per i suoi ufficiali "un aureo opuscoletto" con i princip'ì fondamentali per l'impiego tattico della fanteria. 75 Diffuso anche fuori daJla brigata e successivamente perfezionato, que/l 'opuscoletto è andato durante molti anni per le mani di tutti gli ufficiali studiosi[ ... ]. Da esso molto trassero i compilatori delle "Norme per l'impiego delle Grandi Unità" e delle "Nonne per il combattimen-

Miles, // generale Lu.igi Cadoma, in "La Lettura" (periodico del "Corriere della Sera") aprile 1915, pp. 303-310. 75 E.


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Lo" [ ... ].Questo studio del Cadornn, sebbene scritto sedici anni addie-

tro, costituisce ancor oggi il miglior vangelo tattico.

Secondo il più feroce critico postumo del Libretto rosso, Carlo De Biase, l'opuscolo del Cadorna è stato "rammodernato" dal colonnello di Stato Maggiore Giuseppe Pennella76• Sta di fatto che non risponde a verità l'affermazione del De Biase che questo opuscolo detta per l'esercito italiano prossimo all'entrata in guerra norme "vecchie di trent'anni" . A parte il fatto che una norma può essere vecchia e nondimeno rimanere valida, nel caso specifico prima di giudicare bisognerebbe conoscere le successive edizioni del Libretto rosso, che sono andate perdute. Due fatti però sono certi: che nell'edizione 1915, come si è visto, Cadorna fa esplicito riferimento anche alla guerra in corso, e in secondo luogo, che abbandona del tutto le vecchie idee del 1885 sull'importanza dell'ordine chiuso. Per tutte queste ragioni, non può essere condiviso questo recente giudizio del Rochat: l'opuscolo univa ottimi principf a una visione dei combattimenti ormai superata, teneva insufficiente conto della guerra in corso (ma non era facile afferrarne la novità anche per gli stessi combattenti) e incoraggiava, oltre le intenzioni dell'autore, un certo schematismo di nwsse, che avrebbe giustificato in ufficiali impreparati l'assunzione a dogma del principio dell'attacco frontale anche dopo sanguinosi insuccessi. li libretto fu molto criticato nel dopoguerra; in realtà, era tutta la dottrina prebellica che si rivelava superata dalla guerra di trincea. 77

Al Libretto rosso possono certamente essere rimproverate la sottolineatura di inesistenti vantaggi per l'offensiva, e - in un solo punto, a pag. 23 - la preminenza altrettanto inesistente che dovrebbe avere il movimento sul fuoco. Ma nelle linee essenziali la visione del combattimento offensivo di Cadorna non era affatto superata; se durante la guerra lo è stata, lo si è fatto in peggio. Cadorna tiene conto, sia pure a suo modo, della guerra in corso: avrebbe forse dovuto dedurne che non era più possibile attaccare? Nelle sue esortazioni non si trova alcun incoraggiamento allo schematismo delle mosse, anzi si trova il contrario. Gli "ufficiali impreparati'"

76

Carlo De Biase. L'Aquila d'oro - storia dello Stato Maggiore Italiano 1861 - 1945, Milano, Ed. Il Borghese 1970, pp. 284-287. n Cfr. Giorgio Rochat, Ari. cit..


Xl - L'OFFENS IVA, LA Dlff.NSIVA I:: L"'AMMAESTRAMENTO TATTICO" DELLE TRUPPE

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non potevano trarne la spinta a condurre attacchi frontali, sia perché in quelle circostanze erano gli unici possibili, sia perché non competeva certo agli ufficiali al livello di reggimento decidere la forma dell'attacco. Si deve anzi riconoscere che il Libretto rosso lascia ai Quadri sufficiente libertà d'azione, prescrivendo fin dai primi paragrafi che:

- "sola è feconda in manovra quella libertà d'azione che si esplica nell'ambito degli ordini superiori assecondandoli"; - i comandanti devono essere guidati dalla "praticità semplice" e specie ai livelli più bassi - l'arte militare, prescindendo da complicazioni e vincoli dottrinari, "deve i.spirarsi al puro e semplice buon

senso"; - "la manovra sia priva d'ogni rigida compassatezza". Così stando le cose, se fossero state seguite, assimilate, applicate appieno - prima di tutto ai livelli superiori a quello di reggimento - le prescrizioni del Libretto rosso, le perdite nelle "spallate" dell'Isonzo sarebbero state certamente inferiori. 11 troppo sangue versato in quelle circostanze non è colpa del Libretto rosso; se mai, troviamo l'applicazione di parecchi suoi concetti - e delle Norme del 1913 - anche nella vittoriosa battaglia offensiva di Vittorio Veneto. Tutta la dottrina prebellica era superata? Poiché gli Stati Maggiori, per quanto preparati, non possono essere i soli ad avere il dono della preveggenza, ogni guerra porta inevitabilmente al superamento parziale o totale delle dottrine preesistenti: ma, nella fattispecie, i concetti - base della nuova guerra di logoramento si sono rivelati peggiori di quelli della dottrina prebellica (se mai accantonata, non superata). In quanto ai concetti tattici più avanzati introdotti dal 1917 in poi dai tedeschi a Riga e Caporetto, neppure essi alla fin fine hanno portato a risultati risolutivi, né si può dire che fossero incompatibili con talune parti della nostra dottrina prebellica e dello stesso Libretto rosso. Ma lo strumento militare italiano di aJlora era veramente in grado di compiere operazioni analoghe, e più in generale di soddisfare le esigenze poste dallo stesso Libretto rosso? Infine, quale alternativa avrebbero suggerito i numerosi e facili critici del Libretto rosso, che non fosse quella di non attaccare e basta?

Conclusione Tutto si può dire del periodo 1870-19 14, meno che - a cominciare dalla guerra franco - prussiana - siano stati dimenticati, o sottovalutati, i riflessi dell'aumento della potenza di fuoco; tali riflessi dominano anzi l'in-


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IL PENSIERO MILITARE ENAVAIB ITALIANO - VOL. 111 ( 1870-1915) -~TO =M ~O ~ I~ - --

tero periodo. Sono state certamente sopravvalutate, per lungo tempo, le possibilità del fucile; ma per quanto attiene al fuoco di artiglieria e delle mitragliatrici, si può affermare che le intuizioni precorritrici sono numerose e che la stessa dottrina italiana dell 'anteguerra traccia un quadro del combattimento sicuramente compatibile con il futuro ruolo assunto da queste due armi, che dunque non può essere una sorpresa. E' vero che si insiste troppo sul carattere temporaneo e sui supposti limiti morali della djtensiva; ma solo esigenze psicologiche possono spiegare la frequente attenuazione dei vantaggi - elementari ma fondamentali - dei quali può fruire la fanteria interrata, a cominciare dal maggior rendimento del suo fuoco rispetto a quella che avanza allo scoperto, quindi è assai meno protetta e coadiuvata dal proprio fuoco. In altre parole, fino all'entrata in guerra la regolamentazione dottrinale risente del vecchio pregiudizio che l'interramento nuoce allo spirito offensivo delle truppe; eppure la regolamentazione del 1913 veniva dopo la guerra di Libia, dove la fortificazione campale o semiperrnanente da parte nostra aveva trovato estesa applicazione_ Alla prova dei fatti, i limiti maggiori del dibattito e della dottrina non solo in Italia vanno riferiti a un elemento di rigidità fondamentale: l' esigenza anche politico - sociale, anzi la pretesa, di ripetere - in circostanze molto diverse, con diverso strumento e con maggiori vantaggi acquisiti dalla difesa - la guerra breve, economica, decisiva di matrice napoleonica, cioè la guerra franco - prussiana_ Ma era ripetibile la netta superiorità prima di tutto morale, addestrativa e di leadership allora dimostrata dal mirabile esercito prussiano? Una cosa è certa: che, nel 1914 - 1915 e specie nel campo avverso agli Imperi Centrali , le caratteristiche di massa degli eserciti, poco addestrati , poco coesi e frutto di una mobilitazione affrettata quando non improvvisata, erano le meno adatte a condurre una guerra di movimento sul modello napoleonico e poi moltkiano, la cui riuscita era subordinata a un divario qualitativo tra attaccante e difensore rivelatosi irraggiungibile, almeno tino al 1917 - 1918. Anche per questo si può affermare che il prevalente carattere di guerra di trincea e di logoramento assunto dal conflitto specie sul fronte occidentale e italiano prescinde da elementi di carattere dottrinale e non è dovuto né a inadeguatezza delle dottrine precedenti, né a fattori di carattere esclusivamente militare_ L'esame condotto dimostra, infatti, che una leadership intelligente e preparata, così come gli stessi Quadri intermedi e inferiori, avrebbero potuto trarre dal dibattito e da1le dottrine pre-1914 quanto era necessario per ben condurre la guerra, affrontandone gli aspetti imprevisti in modo corretto e tempestivo_ Lo dimostra anche la vexata quaestio dell'alternativa tra ordine chiuso e ordine sparso, nella quale i vecchi


Xl - 1."0FFF.NSIVA. LA DIFENSIVA li L"""AMMAliSTRAMENTO TATTICO" DELLE TRUPPE

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pregiudizi sulla comandabilità dei reparti, che hanno portato per lungo tempo a una pervicace e dannosa resistenza ad adottare l'ordine sparso, almeno nel 1914 appaiono del tutto superati. Ha certamente ragione il tenente Zoppi, quando nel citato articolo del 1903 scrive che "Le dottrine tattiche sono tutte buone o cattive, a seconda del valore intellettuale e militare di coloro che sono destinati ad applicarle". In effetti nel dibattito, al di là di considerazioni a sfondo puramente tattico, nitidamente affiorano le nuove esigenze di carattere prima di tutto morale e spirituale, che rendono possibile anche nel nuovo e più difficile contesto l'offensiva. Ma è tanto facile disporre di Quadri e truppe ben preparati e motivati, con elevato spirito offensivo? Le caratteristiche dello strumento italiano del 1915, anche sulla base di quanto hanno affermato il Bastico e il Cadorna, non erano certo tali da favorire una condotta spregiudicata, dinamica, offensiva delle operazioni. Se, perciò, la spinta offensiva iniz iale del maggio - giugno 1915 non ha dato i risultati sperati dallo stesso Cadorna, le ragioni non possono essere di carattere dottrinale. Specie in campo strategico volere non è potere; ogni pianificazione vale, in tanto in quanto tiene conto del quadro reale della situazione, a cominciare dalle possibilità delle proprie forze e di quelle nemiche. In questo senso, non sarà mai ripetuto abbastanza che la condotta delle operazioni della guerra, e la stessa logica della guerra di logoramento, segnano un dannoso strappo rispetto alla vecchia e sempre valida logica strategica e tattica, secondo la quale qualsivoglia operazione che si intraprende deve essere basata sulla possibilità di ottenere il massimo risultalo al minor prezzo possibile, specie in vite umane. Si deve, perciò, riilimensionarc l'importanza da taluni attribuita a meri fattori tattici, come la superiorità delJa difesa grazie al trinomio mitragliatrice - trincea - reticolato. Sta di fatto che nel 1918 dopo quattro anni di guerra ha vinto non chi era in possesso della tattica migliore, ma chi disponeva in maggior copia di risorse umane e materiali, quindi ha potuto creare gradualmente quella differenza di potenziale (anche morale), che in ogni tempo è la premessa inilispensabile per la villoria. Per questo nel 1918 lo stallo della guerra di trincea è stato superato anche in Europa e anche a prescindere dalla fisionomia di movimento assunta dalla guerra sul fronte orientale e nei fronti extra - europei. La battaglia di Vittorio Veneto è la dimostrazione più illuminante dei reali faltori politico - strategici in gioco durante tutta la guerra, grazie ai quali è stata realizzata anche la superiorità tattica. Nel 1907 il De Chaurnnd, pur privilegiando anch'egli l'offensiva e ritenendo impossibile - come il Von Schlieffen - guerre di lunga durata, scrive che


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALlANO - VOL. 111 ( 1870-1915) - TOMO I

la preparazione militare di un grande Stato moderno ha assunto ai tempi nostri un doppio carattere, materiale ed etico: abbraccia uno dei più impellenti, va.\·ti e complessi problemi che si impaniano a un governo. Essa implica una serie di questioni, non solo tecniche, ma politiche, economiche e finanziarie, da richiedere il più assiduo studio. L'argomento, allargando.çi, è emigrato dal campo professionista, per divenire oggetto di appassionate discussioni in tutti gli ordini sociali. 18

Non aver subito compreso questo, e aver creduto che, anche nel 1914 - 1915, gli eserciti potessero risolvere - da soli e alla vecchia maniera - la guerra in pochi mesi e in modo relativamente economico, rimane la principale colpa dei vertici politico - militari, rispetto alla quale perdono non poco smalto gli aspetti tattici; se mai la vera rottura è rappresentata dalla tendenza a combattere "a colpi di uomini", troppo spesso tipica degli Stati Maggiori.

'" Felice De Chaurand de Saint Eustache, la preparazione militare, Roma, Voghera 1907.


CAPITOLO XII

L' ESERCITO TRA ANTIMILITARISMO E " MODERNISMO MILITARE' : I RIFLESSI DELL'EVOLUZIONE DELLA SOCJET À, LA NUOVA DISCIPLINA E IL NUOVO RUOLO SOCIALE DELL'UFFICIALE Sorga perciò una letteratura che ecciti Lo spirito militare negli italiani, che faccia loro conoscere e apprezzare I' esercito: sorga e si meriterà la riconoscenza della Patria, che La società in cui Lo spirito militare fu debole, o monopolio di una casta, andò in rovina, e divenne in breve dominio degli stranieri. Esempio: l'Italia del cinquecento. ("RIVISTA DI FANTERIA" 1899) Le nuove fanterie sono masse numerosissime di soldati na-

turalmente più intelligenti, civilmente più istruiti ed educati, sensibili di carattere, ma militarmente poco istruiti, meno disciplinati [ ... l La educazione militare, la disciplina non possono contare tanto sulla educazione militare inculcata colla routine e dovranno invece indirizzarsi di preferenza alle forze morali, ai sentimenti: amor di Patria, affetto e fiducia nei superiori, solidarietà. COL. CESARE AIRAGHI (1884)

Premessa

Come si è visto, specie nella Vita del reggimento (1889) il Marselli auspica per l'esercito un periodo di rinnovamento prima di tutto spirituale e disciplinare, che lo metta aJ passo con i nuovi tempi e renda i suoi obiettivi in armonia con quelli della società nel suo insieme. Purtroppo gli auspici, le speranze del grande scrittore non trovano alcun riscontro nella realtà: il ventennio che va dal 1890 al 1910 segna anzi il periodo di massima crisi per l'Istituzione militare, costretta alla difensiva di fronte a una serie di problemi che creano un disagio, un malessere militare corrispondente del resto alla crisi morale della Nazione: i postumi ancor vivi, anche se lontani, della sconfitta del 1866, alla quale si aggiungono quelli - ancor


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IL PENSIERO MILITARE E NAVA LE ITA LIANO - VOI.. lii ( IR70-191 5) -TOMO I

più pesanti - di Adua 1896; il trauamenlo economico, normativo e di carriera - oggettivamente insufficiente - degli ufficiali (specie di grado inferiore di fanteria), dei sottufficiali e dei Carabinieri, il cui diffuso malcontento degenera persino in pubbliche manifestazioni incompatibili con la disciplina; la diffusione non solo tra le masse lavoratrici deH'antimilitarismo e del pacifismo; la difficile situazione sociale, che - lungi daH'abolirlo, come più volte auspicato dai vertici militari - rende sempre più frequente l'impiego di reparti dell'esercito in ordine pubblico, con i ben noti inconvenienti; i riflessi, anch'essi nocivi per la disciplina, dell'adesione di non pochi ufficiali alla massoneria, che crea gerarchie occulte diverse da quelle militari e a torto o a ragione fa nascere sospetti di favoritismi nelle carriere e negli impieghi, di camarille dominanti ecc ... ; i disagi derivanti dall'infelice situazione infrastrutturale (caserme fatiscenti e spesso carenti dal punto di vista igienico e del benessere del personale, che costringono i reparti a irrazionali frazionamenti; assenza di vasti campi d'addestramento; ristrettezze di bilancio, con tendenza a risparmiare su tutto ciò che riguarda il personale). 1 Si crea, insomma, una situazione che da una parte fornisce buoni argomenti all'antimilitarismo, dall'altra non rafforza certo le difese interne proprio in un momento critico, in cui dovrebbero essere al massimo della loro capacità reattiva. Militarismo e Antimilitarismo sono termini assai ricorrenti, e usati non sempre a proposito in ambedue i fronti contrapposti; giova pertanto soffermarsi sul loro esatto significato. Militarismo significa presenza di una casta militare e/o di un coagulo di interessi militari che ha eccessivo e nocivo peso nella vita di una nazione; significa "esasperato spirito militare [... ] tendenza a favorire e incrementare lo sviluppo delle Forze Armate e degli armamenti, specialmente in vista di una politica estera di forza e di aggressione" (Diz. Garzanti). L' aggettivo militare significa semplicemente "relativo alle forze armate o ai soldati". Il verbo militarizwre, a sua volta, non ha di per sé nulla a che fare con il militarismo, visto che significa "assoggettare temporaneamente, in caso di guerra di emergenza, alla disciplina o legge militare", oppure "organizzare secondo schemi, principf militari" (Diz. Garzanti). Se ne deduce che: 1) un esercito regolare proporzionato aJle risorse di un Paese e tale da corrispondere alle sue legittime esigenze di sicurezza non è certo espressione

1 Sulla situazione assai difficile del periodo Cfr. Eugenio De Rossi (gen.), La vita di un ufficiale italiano fino alla guerm, Milano, Mondadori 1928, e Felice De Chaurand de Sailll Eustache, Come l 'esercito italiano entrò in guerm, Milano, Mondadori /929, pp. 129-178.


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L'ESERCITO TRA ANTIMILITARISMO E "MODERNISMO MILITARE"

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di militarismo; 2) si può essere antimilitaristi, ma non antimilitari. Va, infine, ricordato che l'autentico militarismo non è nato e non si è sviluppato in Italia, ma piuttosto in Prussia, nella Germania unificata dopo il 1871 , in Francia, in Russia, in parte anche in Austria - Ungheria; né in Italia vi è mai stata una casta militare omogenea e con regole interne ferree - anche non scritte - come in Germania. Come accennato, queste pur basilari distinzioni spesso sfuggono ai protagonisti del dibattilo nel periodo considerato. Ne conseguono le numerose ambiguità e i diversi significati attribuiti al termine antimilitarismo, che può significare, a seconda dei casi, avversione aJl'esercito permanente in nome deJla nazione armata, oppure avversione all'esercito del momento perché non corrispondente a un proprio modello, o ancora avversione pura e semplice alle guerre e agli eserciti comunque organizzati, perché le prime non sono ritenute inevitabili e i secondi non sarebbero necessari, anzi sarebbero nocivi per una serie di ragioni politico - sociali, economiche e morali. Quest'ultima posizione coincide con il pacifismo utopico ed assoluto, sempre vivo specie in ltalia. ln questo quadro, è un fatto certo che il movimento socialista italiano - insieme con talune correnti d'idee repubblicane e radicali - sia pur con motivazioni diverse e non tutte, per la verità, distruttive, fin dalle sue origini prende nettamente posizione contro l' Istituzione militare. Parecchi scritti, tra i quali basti citare i libri dell'Oliva e del Giacomini, danno sufficiente conto delle vicende e dei temi del movimento antimiJjtarista e pacifista fino alla grande guerra, per il quale non nascondono le loro simpatie.2 Un'indagine interessante ma unilaterale, perché considera una sola faccia del problema. Manca tuttora uno studio sufficientemente approfondito sulle ragioni della parte opposta, e in particolare sulla reazione del mondo militare a questa concreta minaccia dall'esterno, su ciò che pensano e propongono gli ufficiali di fronte a questo, nuovo, insidioso e forte nemico sui generis, che di fatto ha dichiarato loro guerra per primo, in nome della pace. A tale indagine noi intendiamo ora dare un primo contributo, ampliando e arricchendo le poche pagine già dedicate all'argomento in una precedente opera. 3

2

Cfr. Gianni Oliva, Esercito, Paese e movimento operaio, Milano, Frnnco Angeli 1986 e Ruggero Giacomini. Antimilitarismo e pacifismo nel primo novecento, Milano, Frnnco Angeli 1990. 3 Botti, L'Arle mili/are del 2()()() (Cit.), pp. 245 - 272.


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IL PENSIERO MILITARE F. NAVALI; ITALIANO· VOL. li (1 870-1915) mMO I

SEZIONE I - Distruggere o riformare l'esercito? Utopie, ambiguità e reticenze del movimento antimilitarista

Proprio quando gli eserciti, diventati di massa, chiedono molto di più alla nazione sotto ogni aspetto, nasce e si diffonde l'antimilitarismo, dato costante del quale chiunque voglia trattare di questioni militari del periodo 1870-1914 deve tener conto, quindi tale da renderne opportuno un esame preliminare. Nelle sue prime manifestazioni, l'antimilitarismo concede molto alla vecchia e persistente utopia pacifista ("le guerre tra popolo e popolo sono sempre infami, perché conducono al macello degli innocenti e dei fratelli" - Decalogo dei contadini socialisti mantovani, 1885) e al massimo riprende il vecchio miraggio della nazione armata, vista come vaga e liberatoria alternativa all'esercito permanente, rispetto al quale - si sostiene - costerebbe di meno e renderebbe di più, senza peraltro mai dimostrarne a fondo gli asseriti vantaggi. La prima delibera specifica contro "il militarismo" è diffusa dal Congresso operaio di Genova (agosto 1891) e ha carattere non tanto antimilitarista - come dichiara di essere - ma piuttosto antimilitare. Il Congresso, infatti, stigmatizza il mero carattere di c1asse di ciò che chiama militarismo, indicato come "applicazione della forza e della violenza alla difesa e conservazione delle classi e delle istituzioni privilegiate", al cui servizio sono anche gli stessi ideali ai quali si ispira l'Istituzione militare. Posto che "una società di liberi e uguali'', le cui relazioni internazionali sono necessariamente fondate sul principio della solidarietà tra i popoli, "non ha bisogno dell'opera di difesa violenta e anti - umana del militarismo", il Congresso invita la classe operaia a "schierarsi contro il militarismo come contro un nemico del suo progresso e della sua emancipazione" e definisce un programma di azione contro l'esercito che si ispira ai seguenti principi: 1. fare una continua ed attiva propaganda contro i dannosi effetti del

militarismo e contro i sentimenti patriottici e nazionali che ne formano il pretesto, nonché contro l 'insegnamento morale della ,?loria e dell'onor militare; 2. rifiutarsi di partecipare a qualunque manifestazione che possa giovare a mantenere nella popolazione i pregiudizi e le influenze militari; 3. educare la gioventù operaia ai sentimenti della fratellanza e della solidarietà, affinché sotto le armi i giovani possano resistere all'influenza demoralizzatrice dello spirito militare e non siano più un cieco strumento della disciplina e della tirannia;


Xli - L' ESERCITO TRA A NTIMILJTARISMO E "MOUERNISMO MILITARI,'

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4. transitoriamente, finché durano le presenti condizioni sociali, il congresso riconosce il dovere di agitarsi per la riduzione e l'abolizione degli eserciti permanenti, accettando il principio della nazione armata e dell'arbitrato internazionale. 4

Una vera e propria dichiarazione di guerra alle Istituzioni militari_ Un documento di grande importanza, che riassume in gran parte obiettivi, contraddizioni e limiti del movimento antimilitarista di ogni tempo, fino ai nostri giorni li complesso problema della guerra, della pace e della sicurezza viene liquidato con l'affermazione, rivelatasi storicamente infondata, che una "società di liberi e uguali", cioè organizzata secondo gli ideali del Congresso, non ha bisogno di strutture di sicurezza. Da questa affermazione quindi, già traspare indirettamente ma chiaramente la vecchia tesi che la guerra è prodotto tipico delle società a base capitalistica, quindi una volta abolito il capitalismo, spariranno anche le guerre: tesi in auge anche dopo il 1945, fino a quando si è dimostrata infondata con i conflitti tra Stati comunisti. Senza contare che, fino a quando (e non è facile) la vagheggiata e mai raggiunta "società di Liberi e uguali" non viene costruita, bisogna pur affrontare il problema della sicurezza, "transitoriamente" affidato (ma per un tempo indefinito) alla nazione armata e all'arbitrato internazionale (due soluzioni che la storia, purtroppo, ha rivelato suggestive ma inefficaci)_ Ma anche ammesso - e non concesso - che la nazione armata fosse effettivamente la soluzione migliore, per essere tale non richiedeva forse di fare i conti con esigenze di efficienza prima di tutto morale dell'Istituzione militare? ammettere la nazione armata non significa forse ammettere che, per aver bisogno di essere difesa, la Patria esiste e se si vuol difenderla, bisogna pur sentirne l'importanza? un'organizzazione militare tipo nazione armata non ha forse bisogno, se mai più di quella tradizionale, di quei valori che - come lo spirito miUtare e l'onor militare - il documento del Congresso in altra parte esplicitamente rifiuta? Testimoniano queste contraddizioni di fondo le teorie di Carlo Pisacane (Voi. II, cap_ V), frequentemente citato nel campo antimilitarista come profeta della nazione armata e nemico dell'esercito permanente e di tutto ciò che proteggeva. Il concetto di nazione armata delJ' ufficiale socialista napoletano è ben lontano da ogni materialismo, visto che ha alla base gli ideali di Patria e di un'Italia libera e una, dai quali derivano anche quelli socialisti. Motivare le truppe che combattono per l' unità nazionale

4

Oliva, Op. cit., pp. 119 - 123.


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_clL,,.,Pc,cE=NSc,-IE=RO,e..M=ILITARE E NAVA LE ITALIANO - VOI.. lii 1870-1915 - TOMO I

è, per Pisacane, il primo imperativo. Tant'è vero che non esita a richiamare alla memoria, come esempi da eseguire, le virtù militari degli antichi romani , e nulla trascura per far risorgere un sano e alto spirito nazionale. Riguardo al problema della guerra e della pace, il documento del Congresso trascura ciò che più tardi (1905) affermerà Lenin: "la rivoluzione è guerra, è l'unica guerra legale, giusta, legittima". Anche mettendosi nei panni dei partecipanti al Congresso del 1891, quindi, non avrebbe dovuto essere posto tanto il problema della pace, ma piuttosto quello di ostacolare le guerre ritenute estranee agli interessi delJa classe operaia, favorendo e anzi promuovendo le altre, che tali interessi si riteneva favorissero. Il problema dell' indesiderato peso sociale ed economico dell'Istituzione militare avrebbe dovuto essere posto molto più chiaramente: ma per eliminare gli inconvenienti interni legati all'esistenza di un esercito, occorreva distruggerlo, eliminarlo, combatterlo, o era piuttosto più conveniente conquistarlo alla causa? Il Congresso di fatto opta per la prima soluzione, essendo la nazione armata non una prospettiva ben configurata ma un vago e indistinto artifizio dialettico e demagogico per evitare di fare i conti con la costituzione di un esercito permanente, o meglio una scorciatoia indicata come soluzione per oggettive esigenze ammesse a denti stretti, che non potevano essere negate del tutto. In ogni caso, il Congresso non tiene affatto presente quanto si afferma in un numero del 1900 del quotidiano antimilitarista genovese La Pace, secondo il quale scatenando una guerra i borghesi rischiano di provocare una rivolta proletaria, mentre i lavoratori dovrebbero tener presente che le rivoluzioni, oggi non sono più possibili contro 1:li eserciti ma cogli eserciti; che ogni tentativo d 'insurrezione senza la solidarietà dei soldati è destinato a un sicuro insuccesso; che, indipendentemente dalle considerazioni d'indole pratica, una sommossa operaia favorita dai soldati porterebbe con sé quella economia di sangue, eh' è per lo meno un vantaggio di classe per i lavoratori, i quali han formato sempre le file dei combattenti al di qua e al di là delle frontiere e delle barricate. 5

Abbiamo fornito questi parametri di giudizio in anticipo, perché servono a valutare le vicende successive del movimento antimilitarista, che nonostante i mutamenti della vita interna e internazionale e le sue vistose

'Giacomini, Op.di., p. 58.


Xli - l.' f$F.RCITOTRA ANTIMll .l'IARISMO e " MOL>EKNISMO MIUTARe"

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contraddizioni ruota sempre intorno a tematiche largamente analoghe, alle quali si aggiungono: - l'opposizione preconcetta, per ragioni sociali, a qualsiasi aumento delle spese militari e anzi le continue proposte per la loro riduzione, giustificate col fatto che sarebbero antieconomiche e improduttive; - la strumentalizzazione delle sconfitte africane; - la critica alla gestione della spesa militare da parte dell' Amministrazione militare, che sarebbe antieconomica e viziata da interessi interni (vds anche cap X): - gli attacchi all'esercito in seguito alle vittime civili della repressione militare nei frequenti disordini e moti sociali; - l'enfatizzazione di episodi interni all'esercito (suicidi, mortalità per malattie o incidenti elevata, reati militari interpretati come conseguenza di una disciplina troppo rigida, soprusi della gerarchia, insufficiente tutela della salute e del benessere del soldato ecc.). L'evento veramente nuovo, da collocare storicamente alla fine del secolo XIX è l'alleanza - di fatto, anche se, com'è naturale, spesso formalmente respinta da ambedue le parti - tra l'antimilitarismo socialista e taluni settori della borghesia industriale e commerciale. Un'alleanza dovuta non a ragioni ideologiche o ideali ma economiche, che trova un terreno comune nelle ricadute negative che la spesa militare avrebbe sullo sviluppo industriale e sull'economia, se non altro perché non favorisce certo l'alleggerimento del carico fiscale sopportato dalla borghesia stessa. Un'alleanza che, ovviamente, erode ancora il margine di consenso non esaltante del quale gode l'Istituzione militare nella società e non favorisce i suoi rapporti con il mondo esterno. In particolare l'esponente socialista Claudio Treves scrive nel l892 - 1893: questi enormi eserciti permanenti [ veramente il nostro, in proporzione a quelli di altri Slali, non era affatto enorme - N.d.a.] costano alla borghesia in linea di danno emergente - per dirla coi giuristi - tanti miliardi strappati ai lavori pubblici, ai commerci, alle industrie, alle cartelle di rendita, e in linea di lucro cessante tanti miliardi per mancato sfruttamento di milioni di lavoratori attivi.forti e intelligenti[ ... ]. La borghesia è, per le sue origini e la sua costituzione, antimilitarista [ ... ]; la grande industria, che rappresenta l 'apice, la sublimazione del sistema capitalistico, è quella che ha il maggior interesse a rimandare a casa i parecchi milioni di soldati che rappresentano per lei un continuo lucro cessante e un danno emergente.6 6

Oliva, Op. cit., p. 124.


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_ _ ____._. IL,._,_PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOI.. 111 ( 1870-19 15) -TOMO I

Pertanto per Treves l'antimilitarismo, il disarmo e l'arbitrato internazionale sono obiettivi che tanto più facilmente possono essere conseguiti dalla borghesia, quanto più i socialisti si agiteranno per la stessa causa, che corrisponde ai loro interessi. Sì alla pace, no alla spesa militare, no all'esercito permanente diventano dunque dei facili slogan condivisi anche da una parte della borghesia, che considera parassitarie le strutture militari. E quando si affacciano esigenze di sicurezza, di difesa nazionale, la risposta è facile quanto generica, è sempre la stessa da molto tempo. Da un giornale del 1867: non più guerre, né per falsa gloria, né per interessi falsi, ma la pace [ ... ]. Epperò non militarismo ed eserciti stanziali tanto rovinosi alla pubblica finan za quanto pericolosi per la libertà, ma bensi milizie ed armamento nazionale, che costando cento volte meno (sic) che al presente della finanza, e varranno sempre ceflto volte più alla difesa della Libertà e della Patria. 7

Dunque si ammette la Patria, e la guerra giusta; ma, circa lo strumento militare, invano si attende una seria dimostrazione dei pretesi minori costi e dei grandi vantaggi del sistema tipo nazione armata. Dimostrazione troppo difficile, a fronte del continuo incremento dei costi dei materiali e armamenti, molto maggiore di quello dei costi del personale. Il mancato approfondimento della tematica della nazione armata, per altro verso, è segno delle contraddizioni e dei limiti del movimento antimilitarista, che fino all'entrata in guerra dell'Italia nel 1915 tende a evitare l'approfondimento della tematica militare, oscillando tra una posizione per così dire moderata e riformista e la vecchia, sterile posizione antimilitare delle correnti massimaliste. Senza curarsi troppo di questioni teoriche, i riformisti si battono soprattutto per limitare la spesa militare, proponendo la riduzione dell'esercito e l'eliminazione delle sue strutture ritenute a torto o ragione superflue, con qualche generico accenno compensativo a istituti tipici della nazione armata; le tesi di Sylva Viviani (cap. X) derivano appunto da questa posizione di fondo. Da ricordare anche l'ordine del giorno presentato alla Carnera (tornata del 30 marzo 1901) dai deputati socialisti Ciccotti e Ferri, così formulato: la Camera, persuasa che ra1:ioni d'ordine economico, civile e morale impongono all' Italia di ridurre al minimo le spese militari e so-

1

ivi, p. 114.


Xli • L' ESERCITO TRA ANTIM ILITAR ISMO E "MODERNISMO MTLITARF."

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stituire ali' esercito permanente il sistema delle milizie cittadine, invita il Governo a preparare tale trasformazione con la riduzione ad otto dei Corpi d'esercito, la ferma di un anno, il reclutamento territoriale ed adeguate istiluzioni scolastiche; e respinge intanto, finché questo indirizza non venga accolto, le domande di spese straordinarie militari.

Un ordine del giorno certamente antimilitarista ma non antimilitare. Vi si lasciano degli spiragli per quell'esame organico e in comune del problema militare, che continua a mancare. Come ammesso anche da Filippo Turati, la questione militare scade così nel piccolo cabotaggio parlamentare: un conto è non volere il militarismo e un altro è fare i conti con La borghesia. Voi sapete come molta parte della borghesia non accetti di discutere sul patriottismo, che sarà un pregiudizio, ma quando il pregiudizio è un ostacolo, debbo preoccuparmene, perché mi preoccupo soprattutto del risultato pratico. E praticamente noi non possiamo illuderci [ . .. ]. Noi abbiamo tentato di impedire l'aumento delle spese militari e tentiamo di introdurre un controllo più vigile di esse, tanto per La guerra che per La marina, ma il nostro difetto è di non avere una politica estera. Diciamo piano, perché là c'è la stampa; facciamoci questa riflessione in famiglia; il partito socialista non ha una politica estera e quindi non ha una vera politica militare. E' chiaro. Secondo che noi vogliamo, si o no, pesare nel complesso degli Stati, avere sì o no La mira su Trento e Trieste, o magari sui Balcani, curare la protezione dei nostri emigrati in America, noi dovremmo avere un esercito più o meno forte. 8

La guerra greco - turca del 1897, che vede la mobilitazione popolare ellenica - specialmente nelle città - per portare a compimento la liberazione dal dominio turco, è inizialmente vista da molti socialisti come un'efficace dimostrazione della necessità e convenienza della nazione armata. Vi partecipa - con scarsa fortuna - anche una legione italiana al comando di Amilcare Cipriani; ma ben presto la leg ione rientra in Italia, e di fronte alla realtà quotidiana del combattimento e alle esigenze pratiche di vita di un'unità militare in guerra, le illusioni tramontano. Ben presto ci si rende conto che l'entusiasmo (temporaneo) e il valore individuale non bastano,

' ivi, p. 165.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. lii ( 1870- 191 5) - TOMO ~ '~ - - - -

ma occorrono organizzazione, buon addestramento e armamento e soprattutto la tanto esecrata disciplina. Al V Congresso socialista del 1897, pertanto, persino Turati si chiede se il terzo punto del programma minimo compilato nel 1895 dal Consiglio Nazionale del partito, la sostituzione della nazione armata all'esercito permanente, non assuma un carattere antiquato dopo La guerra greco turca in cui apparve l'enorme superiorità di un esercito burocraticamente e professionalmente or,:anizzato [quello turco - N.d.a.] su milizie che quasi potevan dirsi cittadine e sui corpi volontari, in conseguenza della strategia e delle armi moderne. 9

Dopo questa rassegnata e chiara giubilazione della fommla della nazione armata fatta da una delle più autorevoli personalità del socialismo, ci si aspetterebbe un atteggiamento critico ma costruttivo nei riguardi delle forze armate. Invece il movimento socialista, o almeno la sua ala massimalista, continua a patrocinare le iniziative di propaganda (detta "antimilitarista" ma, come sempre, schiettamente antimilitare) rivolte ai coscritti e ai soldati di leva. Le relative vicende sono ben descritte dall'Oliva e dal Giacomini; importa qui sottolineare solo i temi più ricorrenti, che sono in netta antitesi con le imbarazzate concessioni e ammissioni del Turati e di altri. Una tematica semplice, ma che non lascia scampo a soluzioni attendiste o di compromesso: rifiuto del concetto di Patria, visto come mito delle classi dirigenti per avallare lo sfruttamento delle classi subalterne; no alla formula dell'esercito permanente ad esso connesso; in caso di dichiarazione di guerra, diserzione dei soldati alle armi e sciopero dei richiamati. Inequivocabile anche il programma del citato periodico antimilitarista La Pace, nato a Genova nell'estate 1903: combattere lo spirito di caserma e rompere l'opera ehetizzante e corrompitrice della disciplina militare; aiutare, con solidarietà morale e con l'organizzazione di gruppi antimilitaristi, ogni movimento che si man!festi in Italia contro l'esercito; curare l'edizione di opuscoli di propa,?anda antimilitarista da vendersi a mite prezza a circoli, gruppi, rivenditori e da regalarsi ai soldati; tenere gli interessati al corrente del movimento antimilitarista internazionale. 10

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ivi, p. 145. ivi, p. 192.

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Xli - 1.' F.SF..RCITOTRA ANTIMILITARISMO li '"MODliRNISMO=MIU = l'.~~ ="--

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~l = 11~9

Prevedibilmente il frequente impiego dell'esercito in ordine pubblico dà origine a un altro filone della propaganda antimilitare, che si riassume in un programma mirante a ottenere il non intervento della forza armata nei conflitti sociali, il diritto del soldato a disobbedire al comando di sparare quando ritiene tale ordine non necessario, la rapida punizione dei responsabili diretti o indiretti degli eccessi nel mantenimento dell'ordine pubblico, il rifiuto da parte dei soldati del "crumiraggio militare", e per contro, con l'obiettivo di convincere i lavoratori scioperanti a non usare violenze contro la truppa. Fin dai tempi ( 1885-1887) della prima impresa africana, l'antimilitarismo apre un altro fronte, che trova facile alimento nelle spese per le imprese coloniali e nelle sconfitte militari, da Dogali 1887 ad Adua 1896. I socialisti si oppongono alle conquiste coloniali e chiedono il ritiro immediato delle truppe inviate oltremare. Le ragioni addotte a giustificazione di tale atteggiamento sono molteplici e si ripetono fino alla guerra di Libia compresa: si tratta di una rottura con la tradizione risorgimentale, di uno spreco di capitali utili alla "colonizzazione interna", di un'avventura non necessaria nemmeno per ristabilire il nostro prestigio militare, che va a beneficio di pochi affaristi, di una conquista inutile e costosa di terre improduttive, ecc .. Dopo Dogali, il 3 febbraio 1887 l'onorevole socialista Costa presenta alla Camera un ordine del giorno che invita il governo a ritirare immediatamente le truppe dati' Africa e annuncia che, comunque, non si concederà "né un uomo, né un soldo" per la prosecuzione dell'impresa. Dopo Adua Pompeo Bettini scrive: l 'esercito, sopravvivenza storica riscaldata nella sua agonìa da tradizioni di gloria, non solo è inetto a creare la prosperitàfuor di patria, ma non difende neppure la ricchezza del paese che lo mantiene ... J. Dove poi il suolo aspetta ancor tutto dal lavoro dell' uomo, l 'esercito è incurabilmente incapace. Basti a noi l 'esempio della colonia eritrea. Strana colonia! Migliaia di soldati in dieci anni non vi seppero cavare dai solchi una spiga di grano e pesarono sul bilancio come altrettanti invalidi, con questa sola differenza, che mangiarono di più, e di quando in quando per giustificare la loro presenza in paese, uscivano dai fortilizi a uccidere o farsi uccidere [ ... l. Se l 'Italia anela a possedere nuove terre e a governare nuove genti, il suo orgoglioso sogno è male affidato agli uomini di .\pada. Essi, quando non si Limitano allo ~port sanguinario ed hanno una reale missione da compiere, scelgono


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO VOL. lii (I R70-19-"' 15:,__)·-'-T=OM=O e.cl,____

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sempre l'azione violenta, che è la più inutile, la più costosa e la più infame. 11

Sempre dopo Adua Guglielmo Ferrero, uomo di punta dell ' antimilitarismo sul quale ritorneremo, attacca più direttamente la politica estera e militare del Governo e la condotta delle operazioni militari, invitando il popolo italiano a fare un esame di coscienza, per una serie di ragioni: I 0 ) senza trovare nel Paese alcun segno di resistenza fino alla sconfitta, il governo ha potuto impegnarsi "per motivi mal noti, in una f?uerra pericolosissima, che il paese anzi riteneva ingiusta e odiosa"; 2°) l'organizzazione militare, costata miliardi di spesa, si è dimostrata incapace di mandare 40.000 uomini in Africa con il relativo sostegno logistico; 3°) la direzione politica e militare di un'impresa così difficile è stata affidata a uomini dimostratisi talmente inetti , "che solo per uno scetticismo e una leggerezza inaudita del paese" hanno potuto conservare così a lungo le loro cariche; 4 °) non si è trovato un solo responsabile da punire per tante ricchezze sciupate, tanti uomini perduti, tanto lavoro gettato; non si è trovato nemmeno un capro espiatorio, per salvare almeno le apparenze della giustizia; 5°) dopo la fine della guerra nessuno si è più interessato dei prigionieri rimasti in mano al Negus. Il governo si è occupato di loro fiaccamente e a tempo perso; chi li avrebbe voluto aiutare è stato scoraggiato; per loro è stata raccolta in tutta Italia una somma miserabile. 12 Data la sua natura, è la campagna culminata con Adua a portare l' acqua più abbondante al mulino dell 'antimilitarismo e dell 'anticolonialismo. Non così avviene per quella di Libia, neJla quale lo sciopero generale di protesta contro la nuova guerra fallisce, e per di più si registra la defezione dal partito socialista di un gruppo favorevole alla guerra, perché la ritiene vantaggiosa per il proletariato. In sintesi, forse perché le conquiste coloniali italiane dal 1885 al 1912 non hanno certo giovato a] prestigio militare e all'economia della Nazione, e al tempo stesso hanno comportato un forte aumento della spesa militare, l'opposizione del movimento socialista italiano al colonialismo è stata assai più drastica e ferma di quella che 11

Pompeo Bettini, Le gibeme in colonia (in "Giù le amii - Almanacco mu:.lrato per la pace", Milano, Tip. Bemardoni di C. Rcbeschini 1897. pp. 47 - 48). 12 Guglielmo Ferrero, L'esame di coscienw. (in "Giù le armi ...." . Cit., pp. 54 - 55).


Xli - 1,"f..SEKCITU TRA ANrlMILITARISMO E "MODERNISMO MILITARE"

si è riscontrata ad esempio in Germania, dove l'analisi marxista del fenomeno ha portato a individuare anche delle convergenze tra l' interesse dei lavoratori e taluni aspetti economici dell'espansione oltremare. 13 Queste differenze tra l'Italia e altri Paesi dove lo spirito nazionale è assai più radicato nel popolo emergono ancor di più man mano che ci si avvicina alla guerra mondiale_ Con il suo celebre libro L'Armeé nouvelle (1910) 14 il socialista e pacifista francese Jcan Jaurés è l'unico a dare alla prospettiva della nazione armata una base militare e efficientistica concreta, senza nulla concedere all'antipatriottismo e al disfattismo e ai soliti slogan antimilitari; afferma, anzi, che solo con lo spirito militare diffuso in tutto il popolo sarà possibile realizzare il progetto da lui proposto. li Congresso internazionale di Stoccarda (1907) approva all ' unanimità una mozione nella quale si afferma, come sempre, che l' azione contro il capitalismo non può essere separata dall' azione contro il militarismo, perché le guerre tra gli Stati capitalisti sono in ,?enerale la conseguenza della loro concorrenza sul mercato del mondo [.. .]. Queste guerre sono il risultato della <·onrorrenza incessante provocata dagli armamenti del militarisnw, che è uno de,?li strumenti principali del dominio della borghesia I.. -1- Le guerre sono.favorite dai pregiudizi nazionalisti che vengono coltivati sistematicamente nell 'interesse delle classi dominanti. 15

Pregiudizi nazionalistici? Sta di fatto che nell'estate 1914 i partiti socialisti dei principali Stati europei - Germania, Francia, Gran Bretagna votano i crediti di guerra e appoggiano la guerra nazionale, mentre il partito socialista italiano sceglie la neutralità, poi sfociata nel celebre e pilatesco motto "né aderire né sabotare". Eppure, al di là della posizione ufficiale del partito l'onorevole Turali in un discorso del 30 ottobre 1914 indirettamente nega le fondamenta teoriche e storiche del pacifismo, affermando che non è vero, come si è sempre dello, che le guerre sono tutte uguali[ ... ]. Una ,?uerra per l'indipendenza nazionale può preparare le condizioni

11 Cfr. Franco Andre ucci, Socia/ democrazia e imperialismo - i marxisti tedeschi e la politica mondiale 1884 - 1914, Roma, Ed. Riuniti 19 88. 14 Ristampa 1978 Paris, E<litions Soc iales. 15 Documen/o della Rivoluzione n. I O - Dalla Seconda alla Terza /111ernazio11ale, Milano, Soc. l·il. L' Avanti! 1920.


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IL PENSIERO MIUTARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Ili ( 1870-1915) - TOMO I

essenziali per lo sviluppo della lotta di classe prioritaria_ E ancor oggi si possono concepire guerre reazionarie e guerre rivoluzionarie [ ... ]. La questione si pone così: la vittoria dell'imperialismo tedesco significherebbe un passo indietro nella storia [ ... ]. Il torto di una parte del partito socialista italiano fu appunto di aver accettato [ ... ] la tesi neutralista col riflesso che la guerra crea troppe vittime - quasiché non sia dimostrato che, in dati casi, un intervento può risparmiar/e a centinaia di migliaia nel presente e nel 'avvenire. 16

Anche un altro noto esponente socialista, l' on. Rigola segretario della Confederazione Generale del Lavoro, afferma che la neutralità, è vero, può essere una grande e bella e utile cosa, ma può anche essere una viltà, può anche mascherare una complicità. Se la neutralità I ... I dovesse significare il Trionfo della tirannia imperialista e militaresca a spese della democrazia, se dovesse significare la villoria della forza bruta sul diritto [ . .. ] la neutralità sarebbe una immoralità, costituirebbe una vile complicità. 17

Persino uno dei più accesi fautori dell'antimilitarismo anteguerra, l'on. Enrico Ferri (che negli anni Venti aderirà al fascismo), riconosce che la neutralità non può essere superiore al principio di nazionalità. La guerra attuale non sarà stata un immane sacrificio senza qualche vantaggio, se darà modo di ordinare una nuova Europa coll'autonomia e L'integrazione delle varie nazionalità I ... l il determinante più prossimo della guerra è stato Lo spirito militarista di egemonia europea, onde L'impero germanico moderno si è saturato ... 1~

Dalle ammissioni di Turati, Rigola, Ferri all'interventismo dei socialisti massimalisti capeggiati da Benito Mussolini il passo è breve: per gli interventisti la guerra ha, appunto, lo scopo rivoluzionario del quale parla anche Turati. Se si legge il famoso articolo di Mussolini - ancora direttore dell' "Avanti! " - Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante (18 ottobre 1914), che apre il capitolo dell'interventismo, non vi si tro-

1 •

Unione Generale Insegnanti Italiani - Comitato lombardo, / socialisti italiani e la guerra di ,uizioni (ristampa di un articolo del "Corriere de lla Sera"), Milano 1915, p. 8. 17 ivi, p. 12. 18 ivi, p. 13.


Xli - l.' l'.5ERCITO TRA ANTIMILrlARJSMO E "MODERNISMO MllifARE"

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va nulla di incoerente rispetto alle citate, ultime dichiarazioni dei predetti deputati. Vi si attacca, anzitutto, la formula ufficiale della "neuJraliJà assoluta", che pretende assoggettare a dogma fisso lo sviluppo degli avvenimenti, imbottiglia il partito e gli toglie ogni futura libertà di manovra, favorendo di fatto gli Imperi Centrali e la nostra monarchia che non vuole muovere loro guerra. Vi si prende atto che di fronte al problema della guerra il partito socialista è diviso in varie correnti. Vi si osserva che, di fatto, già in passato la neutralità non è mai stata assoluta, ma "parziale, spiccatamente austrotedescofoba e, per converso, francofila". I1 partito socialista, pur condannando la guerra sul piano generale, ha di fatto distinto tra guerra e guerra, simpatizzando per la parte aggredita, cioè per la Triplice Intesa. Ciò premesso, si ammette che "i problemi nazionali esistono anche per i socialisti", e che oltre i confini esiste il problema di popolazioni italiane soggette ali' Austria: perciò se il governo borghese italiano dovesse dichiarare guerra all'Austria, "noi - opponendoci - non faremmo che sacr(ficare il Trentino e giovare all'Austria - Ungheria, la quale - ciò va ricordato ai socialisti - è il baluardo vero e maggiore della reazione europea. Preti e gesuiti sono appunto 'neutralisti' per amore dell'Austria vaticanesca e temporalista!". Perciò - prosegue l'articolo - bene ha fatto il partito socialista a non opporsi alla mobilitazione di due classi nell'agosto 1914, per garantire l'Italia da possibili rappresaglie di un'Austria vittoriosa. E nella prima quindicina di agosto, il partito socialista avrebbe accettato anche la mobilitazione generale dell'esercito. Tn tal modo "noi abbiamo fatto la prima importante concessione alla realtà storica nazionale[ ... ]. Questa ammissione può condurci lontano: a vedere, cioè, se convenga di opporci praticamente a quella guerra che ci liberasse 'in preventivo e per sempre' datali possibili rappresaglie Juture". L'interventismo del 1914 - 1915 non è stato certo un fenomeno nuovo: i primi veri interventisti sono stati Mazzini e Garibaldi, fautori per lunghi anni di una guerra a fondo all'Austria - militarmente più forte - che sdegnava i calcoli prudenti della diplomazia e degli Stati Maggiori, i quali in questo caso non potevano essere certo tacciati di militarismo. Una cosa è certa: che dall'inizio del secolo XX alla grande guerra in Italia è largamente diffuso il desiderio di pace, ma al tempo stesso perdono sempre più smalto e peso sociale quegli slogan di piazza grossolanamente anthnilitari, che peraltro non hanno mai avuto tra le masse popolari e tra la truppa quel successo che speravano i loro propagandisti, sempre meno numerosi e sempre più isolati anche nel loro schieramento politico.


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SEZIONE II - Dalla guerra franco-prussiana (1870-1871) a fine secolo XIX: i riflessi interni dell'evoluzione della società e le prime difese contro l'antimilitarismo

I riflessi morali delle sconfitte e dei dissidi tra alti gradi negli scritti di "Jtalicus" e di A. V. Vecchj Nell'Istituzione militare. al di là di regolamenti e ordinamenti ha sempre avuto grande importanza iJ costume quotidiano, il modo con cui i Quadri reagiscono agli avvenimenti. Sotto questo profilo, il contesto oggettivamente difficile nel quale si svolge la vita delle Forze Armate è ulteriormente aggravato dalle troppe frequenti e pubbliche polemiche tra gli alti gradi e dai processi intentati ai Capi militari ritenuti responsabili delle sconfitte (Persano 1867; Baratieri 1897). Di questo clima morale, che semina sfiducia nei vertici delle Forze Armate, si trova traccia anche negli scritti dell'epoca. Nel 1889, sulla prestigiosa Nuova Antologia, un anonimo (Italicus) depreca una serie di fatti con gravi conseguenze sulla credibilità delle Forze Armale, 19 tra i quali: - oltre alle pubbliche polemiche La Marmora / Cialdini del 1866, quelle del 1870 tra il generale Raffaele Cadorna e il Ministro Ricotti e quelle più recenti tra taluni deputati militari (il generale Ricci, il contrammiraglio Turi, il generale Maltei) e i Ministri della guerra in carica, che hanno avuto anche conseguenze disciplinari per i deputati stessi; - le divisioni all'interno della marina derivanti dall'aspro scontro in Senato tra il deputato ammiraglio Saint Bon e il Ministro Brin, che pure avevano a lungo lavorato insieme (ne sono seguite contrapposte campagne di stampa); - le vicende della recente campagna d'Africa, nella quale secondo ltal icus, a parte Adua sono stati commessi degli errori da parte del generale Gené e del capitano Cornacchia (a Saganeiti) che il Ministero avrebbe dovuto rendere noti e condannare, e invece non lo ha fatto. Secondo Ttalicus la causa principale della sconfitta di Custoza "è ormai incontestabilmente attribuita all'esserne state affidate le sorti a due

19 ltalicus, Le polemiche militari e le preoccupazioni del Paese, in " Nuova Antologia" Vo i. XXIV Fa~c. 18 - 16 dicemhre 1889, pp. 690 - 705.


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comandanti quasi indipendenti l'uno dall'altro, anziché ad una mente unica, direttrice di tutte le operazioni militart' (parole sacrosante: ma a chi competeva la nomina di un Capo unico con chiari poteri, se non a Vittorio Emanuele II per Statuto Comandante Supremo, visto che il La Marmora era parte in causa, perché comandante dell'esercito del Mincio?)_ Ad ogni modo le polemiche scoppiate allora non si possono dire composte, perché sono rimasti "quei massimi vizi della insufficiente disciplina nei Capi e della mancanza di una mente direttrice" . A proposito della liberazione di Roma nel 1870 Italicus disapprova le continue ingerenze deJ Ministro Ricotti nelle operazioni e nelle competenze del generale Raffaele Cadoma, constatando che la pubblicazione dei documenti relativi alla breve campagna e la polemica tra i due generali "destano penosa impressione", visto che "non è possibile fare la più modesta campagna italiana senza lagnanze più o meno aperte di generali, senza ingerenze pretenziose di Ministri, senza discordie su tutta la linea e che non hanno mai fine". E se le ingerenze del Ministro Ricotti erano in parte giustificate nel caso particolare della liberazione di Roma, dove le esigenze politiche avevano gran parte, in linea generale esse "creano un funesto dualismo, togliendo la riconosciuta necessità di un comando unico, rendendo illusoria la responsabilità del generale in capo, per sostituirvi quella di un Ministro della guerra, che ha poi sempre pronto il capro espiatorio in caso d 'insuccesso"_Anche nella recente campagna d'Africa si sono visti i funesti risultati della pretesa del Ministro di dirigere da molto lontano le operazioni, e della "poca disciplina dei comandanti in capo, che ne è quasi naturale conseguenza"; perciò quei lontani avvenimenti a loro volta "hanno lasciato nell'animo di tutti la più funesta impressione". Infatti si era riusciti a -"piegare Custoza ed a comprendere le ragioni politiche che avevano così condotta la campagna di Roma; ma che proprio ci dovessero toccare siffatti disastri anche a Dogali, anche a Saganeiti, e sempre con Lo stesso valore di soldati e ufficiali, e sempre per effetto delle medesime imperizie e, oserei dire, degli stessi errori dei Capi, era tale fatto che nessuno avrebbe osato presagire. Eppure anche questo avvenne.

L'autore, infine, si sofferma sui "pericoli'' della presenza di ufficiali in servizio in Parlamento, dimostrati anche dalla rece nte polemica tra il Saint Bon e il Brin che ha turbato la marina. A suo giudizio la posizione degli ufficiali - parlamentari è moralmente più disagiata di quella di altri


Il. PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO · VOL.111 (1870-1915) • TOMO I

dipendenti pubblici eletti in Parlamento. Il magistrato è inamovibile, il professore può essere tradotto solo davanti a] Consiglio Superiore; "ma

nulla vieta al Ministro della guerra o della marina di mandare, se me,?Lio crede, un ufficiale deputato a fare un giro di circumnavigazione o di affidargli un comando in Africa". Questo mette il deputato - militare in una posizione assai singolare. Inoltre quelle ragioni di competenza tecnica, di controllo efficace, che si adducono per giustificare la presenza degli uffiòali alla Camera, perdono ogni valore, dappoiché ragioni di disciplina non comportano che quella competenza si nwstri appieno o che quel controllo si manifesti. E fa sempre una penosa impressione il vedere uno di quei Ministri assalito (sic) da un ufficiale in attività di servizio, mentre un discorso dell 'onorevole De Zerhi, del senatore Corte e d'altri uomini politici di cose militari e navali competentissimi, sollevano il più vivo interesse.

l tre casi di contestazione del Ministro da parte dei deputati generale Agostino Ricci (che pur avendo mosso osservazioni giuste e misurate, non è più intervenuto in Parlamento) contrammiraglio Turi (che "dovette subire in pace la sua punizione" ) e del generale Mattei (dfrettore d ' artiglieria, che non è più in servizio), per ltalicus "dimostrano che l'ufficiale deputato non è sciolto dai vincoli di disciplina se non in quanto è strettamente indispensabile per compiere il suo mandato, e per lo meno non dovrebbe mai avere nelle amministrazioni in cui è parte un ufficio esecutivo". Un Ministro può essere criticato da un deputato - militare in Parlamento ma non fuori, come invece ha fatto il contrammiraglio Turi. E il generale Mattei, in quanto direttore d'artiglieria ed esecutore della volontà del Ministro, avrebbe dovuto dichiararsi necessariamente d'accordo con lui. Sia il Turi che il Mattei sono stati puniti ed è stato un bene, visto che "diedero prova di non comprende-

re la convenienza dell'ufficio loro, e perciò la prerogativa parlamentare non bastò a salvarli, mentre i Ministri, loro superiori, ebbero facile ragione di coloro che la trassero in campo". Se non fossero stati puniti, sarebbe stato un esempio dannoso per i Quadri, perché avrebbe fatto credere che la prerogativa parlamentare era un privilegio dannoso per la disciplina. Da tutti questi fatti Ita1icus trae una diagnosi estremamente pessimistica dello stato morale delle Forze Armate, nel quale emerge lo scarso prestigio dei vertici militari prima dj tutto all'interno, tra i loro stessj dipendenti: tutti hanno occasione di parlare con ufficiali e tutti sanno la grave, permanente, incorref,?f,?ibile sfiducia che domina in alcuni di essi ri-


Xli - L' t'S EKCITO TRA ANTIMlLHARISMO E "'MODERNISMO MlLITARE"

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spetto ai Loro capi. Parecchi parlano con sgomento, insorgono contro eguali e superiori, narrano fatti precisi, fom1ulano accuse cate,?oriche, le quali riflettono l'imperizia, L'attitudine al comando. Le unità lattiche dell'esercito e della flotta non hanno nessuna stabilità, sicché può riprodursi in tempo di guerra il rimescolìò che avvenne nel 1866, come si riprodusse nella bizzarra conformazione dei corpi che si mandavano in Africa, scompaginando tutto l'esercito. 1l ,?enerale di divisione non vive perciò con le sue truppe, non se ne occupa quasi, non segue gli studi dei suoi ufficiali: vive per lo più in ozio completo. Persino nelle grandi manovre i corpi si formano ali 'improvviso, i generali si assegnano alle divisioni pochi ,?iorni prima che ne assumano il comando. Infine, o piuttosto per tacer di tanti e tanti altri inconvenienti, abbiamo gli sciagurati attriti della marina, dei quali tutto e tutti, materiale e personale, ufficiali e soldati si discutono profondamente, e tutta una serie di malumori, di divergenze tra Le due amministrazioni della ,?uerra e della marina, tale da farle credere in certi momenti due potenze rivali.

Il Paese - aggiunge Ttalicus - ha il diritto e il dovere di essere certo che alla preparazione materiale delle sue forze militari, compiuta al prezzo di duri e pesanti sacrifici finanziari, si aggiunga una buona preparazione morale, più che mai necessaria nonostante il progresso degli armamenti. L'Italia potrebbe affrontare una guerra solo con la sicurezza di vincere; e di vincere essa ha biso,?no non solo per il suo esercito e per L'armata, pei sacrifici sostenuti, per la.fiducia per tanto tempo alimentata, ma per le sue condizioni politiche, per coloro che sono pentiti di aver cooperato alla sua unità o di averla consentita, per il Papato che ne augura e ne spia la ruina, per La libertà, per la civiltà e per L'equilibrio d'Europa. Né vale illudersi ripetendo che altri non la Lascerà perire, e non le basterà riporre una cieca sicurezza nelle alleanze, perché mal sicuro è in casa propria, chi la casa non è disposto a difendere ad ogni costo da sé medesimo.

Occorre perciò restaurare la disciplina negli alti gradi e designare per tempo i Capi delle Forze Armate, in modo che essi possano essere conosciuti e rispettati e siano in grado di lavorare proficuamente e insieme per i comuni obiettivi, risolvendo i numerosi problemi. Nel caso che questi provvedimenti non siano sufficienti, si dovrebbe ricorere all'alta autorità


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IL PENSIERO MILITARE Il NAVALE. ITALIANO - VOL. lii (1 870-1915) - TOMO I

del Re Capo Supremo delle Forze Armate, che nel pieno rispetto della Costituzione dovrebbe convocare i Capi dell'esercito e della marina, dirigerne le discussioni e vagliarne le deliberazioni. Invece, al momento, che cosa sifa per togliere di mezzo gli errori che ci valsero i precedenti disastri militari, per disciplinare meglio l'esercito e l'annata, per far cessare gli attriti che, deplorevoli in tempo di pace, sarebbero fatali in tempo di guerra'! Nulla, ché anzi troppi indizi ci dimostrano che il male si aggrava, aumentano le apprensioni del paese e più si allontana il rimedio, più diventa difficile e potrà riuscire perfino impossibile_

ltalicus lamenta infine l'atteggiamento dei Ministri della guerra, che "non devono credersi esseri superiori, la cui opera non possa essere giudicata dai profani"_ Dai parlamentari tecnici, cioè militari, non accettano critiche, mentre quando prende la parola su cose rnililari o navali un deputalo non tecnico, si chiudono in un altezzoso silenzio e considerano le critiche quasi un reato di lesa maestà. Ed egli conclude che, se non si assicura il Paese che nel giorno della prova suprema lo strumento militare corrisponderà appieno al suo scopo, "tutto è vano, peggio che vano_ Meglio allora sarebbe porfreno alle spese, confessare la nostra debolezza ed affidarci alla suprema risorsa dei deboli, alla buona stella, al buon diritto, alle alleanze, alle vaghe e vane forme d'equilibrio, di civiltà, di libertà, vane e vaghe fisime, intendo, quando non le soccorre la forza". Dopo di lui il celebre scrittore navale A. V. Vecchj prende spunto dai processi all'ammiraglio Pers·a no e al generale Baratieri per sostenere la necessità di una magistratura militare separata da quella civile e proveniente dai ranghi stessi delle Forze Armate, che pertanto sarebbe in grado di giudicare molto meglio responsabilità come quelle dei due predetti Capi militari.20 Il Vecchj ritjene che là ove - come presso i popoli nordici - le virtù militari sono diffuse, "la custodia delle leggi atte a mantenerle può andare affidata senza pericolo ai giuristi in genere"; ma dove - come nei popoli latini, quindi anche in Italia - "codeste virtù non dominano, occorre una magistratura tratta sostanzialmente dal corpo della milizia e non dalle università". A suo giudizio, i due processi in questione dimostrano proprio questo. Il Persano, messo sotto accusa davanti al Senato, "fu f?iudicato da assem-

20 A.V. Vecchj, Alcune considerazioni sul processo Baratieri, in "La Rassegna Nazionale" Voi. XCI -Anno XVlli Fase. 1°. I settembre 18%, pp. 33 - 37.


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blea numerosissima (troppo numerosa per formulare giusto giudizio) dietro accusa decretata da pubblici accusatori che della storia navale chiarironsi ignari''. La storia, perciò, rivedrà quel processo; anzi, è già injziata in recenti opere storiche la riabilitazione dell'ammiraglio. Nel caso del processo Baratieri il pubblico accusatore, privo di conoscenze tecniche, si è avvalso di un perito, il colonnello Corticelli; io non esamino la perizia in sé stessa, né intendo a nalizzarla. Mi preme solamente osservare che un pubblico accusatore militare dev'essere sì pratico della scienza strate,:ica e dell'arte tattica da non aver bisogno dell'ausilio altrui. Nemmeno discuto il grado intellettuale del Corticelli: piuttosto mifermo al suo grado nella milizia. Esso era inferiore al ,:rado dei giudici, superiore al grado del difensore. Per di più il Corticelli non aveva mai esercitato le mansioni del grado supremo; e per questo riguardo I.a sua opera di perito doveva essere monca.

Se al posto di un pubblico accusatore civile ci fosse stato un vecchio soldato che aveva partecipato alle guerre passate, non ci sarebbe stato bisogno del parere di un perito e nessuno avrebbe messo in discussione le sue opinioni. Pertanto "le irregolarità naturali" emerse in ambedue i processi negheranno valore ad ambedue le sentenze. La sentenza assolutoria per il Baratieri è stata giusta; ma un processo ha valore anche per il modo con cui viene condotto, "ed è appunto nel modo che risiede, a mio credere, l 'errore fondamentale". A fronte di queste osservazioni del Vecchi, si può osservare che, in linea generale, il tempestivo chiarimento delle responsabilità delle sconfitte è premessa necessaria per il sano sviluppo e la salute morale di un organismo militare; ma nel caso specifico i due processi, lungi dal rasserenare gli animi, hanno senza dubbio aggravato il disagio morale interno e il prestigio dell'Istituzione militare di fronte alla società.

Gli alti contenuti spirituali della condizione militare e "l'esercito scuola della nazione" nel nuovo Regolamento di disciplina 1872 A fronte degli attacchi dell'antimilitarismo, la prima esigenza è di conoscere nel concreto qual è l'impostazione morale e disciplinare dell'esercito e quali sono i concetti ufficialmente riconosciuti di disciplina, onor militare ecc .. A tal fine è necessaria una breve analisi del Regolamento di disciplina 1872 emanato dal Ministro Ricotti, destinato a rimanere in vi-


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gore, nelle sue parti principali, per quasi un secolo (fino al 1965). Una siffatta longevità deve pur avere una ragion d'essere, che va ricercata nelle origini di tale regolamento. Nel 1871 il tenente Tancredi Fogliani, insegnante alla Scuola Militare di Modena e scrittore di buona fama, viene incaricato dal Ministro Ricotti di rivedere dal punto di vista lessicale e formale la bozza del nuovo regolamento. 21 Ultimato il lavoro di revisione, il Fogliani lo restituisce osservando che mentre la "parte esteriore" è ben curata, vi manca "un 'essenza interiore", cioè non sono stati formulati i principi che sono alla base delle norme e prescrizioni. Il Ministro, allora, lo autorizza a fare le aggiunte da lui ritenute più opportune. Con queste aggiunte, più volte modificate, viene emanato il regolamento in questione, che - come osserva il Campolieti - "ha un d~fètto che non era nella mente dell'autore, specialmente perché fu l'opera di due Logiche molto lontane nei principi e nelle conseguenze" [quella del Fogliani e quella della parte prescrittiva ed esecutiva - N.d.a.]. In un articolo del 1873 sulla Rivista Militare lo stesso Fogliani espone i concetti - guida che ha tenuto presenti. 22 Il meno che si possa dire è che dal loro esame non emerge alcunché che giustifichi l'armamentario ideologico antimilitarista. Secondo lui a disciplina risponde al solo scopo di rendere l'esercito idoneo a svolgere i compiti che gli sono affidati (la difesa sociale e la guerra), garantendogli unità di forza e di azione. Ne consegue che "le obbligazioni imposte al militare, le quali talvolta impongono una gravissima limitazione della libertà e dei diritti comuni a tutto il resto dei cittadini, non sono giustificate se non in quanto conducono allo scopo supremo della difesa sociale: ondeché qualunque obbligazione non necessaria a questo scopo, è inutile e perciò ingiusta". Concetto molto moderno, alla base anche delle "Norme di principio sulla disciplina militare" del 1978. L'abitudine di adempiere tutti gli obblighi dello stato militare costituisce la disciplina militare. Primo dovere del militare è l'obbedienza, cioè "l'unificazione di tutte le volontà individuali sotto la volontà suprema di chi comanda", [che dunque non può esistere senza una corrente di fiducia reciproca - N.d.a.]. L'obbedienza non va confusa con la subordinazione, che è cosa diversa:

21 Nicola Maria Campo lieti, Pensieri sulla disciplina militare del ma,:giore Tancredi Fo,:lia11i. in "Rivista Militare Italiana" Anno LXIX - Voi. TV Disp. XII - 16 dicembre 1914, pp. 332 1 - 3347. 22 Tancredi Fogliani, Del nuovo Re,:olamento di disciplina 10 dicembre 1872, in "Rivista Militare Italiana" Anno XVill Voi. I gennaio 1873. pp. 155 - 175.


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i 'obbedienza è l'accettazione della volontà suprema per parte di tutte le volontà individuali componenti l'esercito; la subordinazione è la ripartizione e l'ordinamento organico dato all'esercito, per lo scopo della più pronta trasmissione ed esecuzione degli ordini del comandante supremo.

L'obbligo dell'obbedienza e della subordinazione trae origine esclusivamente dalle necessità di guerra e rimane tale, a prescindere dalle qualità personali di chi comanda. Gò non toglie, però, che l'autorità a qualsiasi livello deve essere conferita a chi più si dimostra capace di esercitarla, anche perché "la saldezza, compattezza, forza di coesione di un esercito, consta per la maggior parte del sentimento generale di .fiducia e di sicurezza in sé e negli altri che anima le parti e il tutto", e nasce soprattutto dalla conoscenza e slima della capacità dei propri compagni e superiori. Riguardo al modo di emanare e di eseguire gli ordini, il Fogliani si tiene ben lontano dall'assolutismo: "Gran bella cosa il comandare! il parlar solo noi e gli altri obbedire! [ ... ] Chi è quel minchione che a questo modo non sappia comandare? Quel che importa è vedere giusto e di saper far fare agli altri ciò che è giusto". Sul campo di battaglia è necessario dare ordini calegorici, ma taluni trovano comodo usare questo metodo anche fuori dal campo di battaglia; anzi, coloro che più lo apprezzano "sono poi di solito quelli che sul campo non sanno far altro che accettar consigli dagli altri". Invece, quando possibile si dovrebbe chiedere consiglio a chi ne sa come noi, e fors ' anche più di noi; "ma ili ignoranti, per tema di dimostrare la propria ignoranza, preferiscono parlar soli". Per il Fogli ani non devono esistere soluzioni di continuità tra basi morali della società civile e basi morali della società militare. Vi è perfetta equivalenza tra virtù civili e virtù militari; quesle ultime, anzi, sono la sublimazione delle virtù civili. Se non solo i doveri civili, ma anche doveri esclusivamente morali come la temperanza, la sobrietà, il disinteresse, la vita morigerata, ecc., sono considerati doveri militari prescritti e sanciti con punizionj disciplinari , vi è una ragione profonda: essi aumentano le forze dell'homo militaris, e "sono in certo qual modo strumenti per combattere". Ne discende l'elevatezza morale della carriera delle armi, la quale "è di natura tale che ricerca in chi la professa non solo un 'abitudine costante del corpo alle fatiche che vanno ad esso congiunte, ma altresì un 'abituale disposizione dell'animo al sacrificio di tutto ciò che all 'umana natura è più caramente diletto".


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Nella sua visione, lo spirito di corpo non favorisce la separatezza militare e non ha nulla di esclusivo, visto che "lo spirito di corpo nell'esercito dovrebbe essere, per gli ufficiali, la gara di sollevarsi sopra tutto il corpo sociale per intelligenza e per cuore, per spirito di gentilezza e di sacrificio (maestri, giurati, mantenitori dell'ordine, regolatori di epidemie)". Anche da quest'ultima interfaccia risulta che, se mai l'Istituzione militare - composta da uomini in carne ed ossa - è vista come depositaria di una spiritualità forse eccessiva, che chiede molto ai Quadri e alle truppe di un esercito sempre più di massa, per il quale tuttavia si ritiene indispensabile l'esercizio continuo di virtù assai rare. Il nuovo Regolamento di disciplina rispecchia in gran parte queste idee. Esso indica anzitutto lo scopo dell'esercito e definisce la disciplina: due parti che mancano nel precedente regolamento. L'esercito "è istituito per sorreggere il trono, tutelare Le leggi e Le istituzioni nazionali, far guerra ovunque venga dal sovrano ordinato, difendere fino all'estremo L'onore e L'indipendenza della Patria". Fin dalle prime righe traspare la preoccupazione di chiarire bene perché la disciplina è una necessità comune e non una fonte di arbitrio o di vessazioni: l'azione di tutti i corpi che compongono l'esercito deve essere pronta e concorde, e perciò le attribuzioni e doveri di ciascun membro della militar gerarchia vogliono essere definiti con regole certe e inviolabili. Nell'osservanza di queste regole consiste La disciplina militare. Essa è la principale virtù dell'esercito, e primo dovere del militare d'ogni grado. La storia di tutti i tempi e di tutte le nazioni prova che nella disciplina, assai più che nel numero, sta La forza degli eserciti. La disciplina s'infonde in tempo di pace, e si mantiene salda in tempo di guerra, mercè la diligente e costante abitudine di osservarne i precetti.

Ciascun militare deve adempiere scrupolosamente ai propri doveri "non per timore di pena o speranza di ricompensa, ma per intima persuasione della loro necessità", tenendo presente che gli obblighi comuni ad altri cittadini per il militare "acquistano un valore particolare, perché egli deve essere di modello a tutti nel rispetto delle Leggi, nell'osservanza dei doveri civili"; anzi, "si rassegna volenterosamente a vedersi privato di certi diritti, per meglio garantirne L'esercizio a tutti gli altri cittadini''. Il suo principale dovere è l'obbedienza, che deve essere "pronta, rùpettosa e assoluta" ed è dovuta dall'inferiore al superiore "nelle cose di servizio, e in tutto ciò che si appartiene ali'autorità a lui conferita dai regolamenti" [si noti la limitazione dell' autorità, significativa e assai moderna; si noti anche che non si parla di disciplina "cieca" - N.d.a.].


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Chi ha un grado deve concorrere al mantenimento della disciplina "non solo colla pratica rigorosa dei doveri tutti inerenti al proprio stato, ma anche collo spie1tarne le ragioni ai propri dipendenti; essendoché meglio si adempie ciò di cui si conosce la ragione". Una norma aurea, senza tempo così come quest'altra: il superiore deve tenere per norma del suo operare che il grado e il comando gli sono dati per essere impiegati ed esercitati unicamente a servizio e a vantaggio dell'esercito e del Paese, e per far osservare ai suoi dipendenti le leggi, i regolamenti e gli ordini militari. Quindi a lui per primo spetta di dare ai suoi subordinati L'esempio del rispetto della disciplina, e della rigorosa osservanza dei regolamenti; e questo dovere cresce, quanto più elevato è il suo grado".

11 superiore deve sviluppare le qualità degli inferiori, conoscerne e utilizzarne le capacità, mantenere una severa disciplina "conquistandosi la loro stima e il loro affetto: ciò otterrà adoperando verso tutti egualmente fermezza e bontà, giustizia pronta e imparziale, comandare chiaro, breve e preciso, contegno dignitoso insieme e affabile, alieno dall'alterigia non meno che dalla dimestichezza". Soprattutto, si conquista il rispetto e la stima dei dipendenti con una condotta esemplare sotto ogni aspetto, l'intrepidezza e bravura di fronte al pericolo, "l'umanità del tratto e delle parole, e la premura sincera, costante ed efficace per il loro benessere morale e materiale". Fa osservare tutte le norme igieniche non solo nell'interesse del servizio, ma per affetto verso i suoi soldati. Lascia a ciascun livello gerarchico l'autorità, la responsabilità e la libertà d'azione che gli competono, "astenendosi dall'esercitare egli stesso, per un eccessivo amore del bene del servizio, le attribuzioni proprie dei gradi superiori''. Ha il dovere di curare l'istruzione propria e dei dipendenti, non limitandola alle rispettive attribuzioni, ma estendendola "a tutto ciò che può in qualunque modo contribuire allo svolgimento sempre maggiore delle forze intellettuali e morali, e alla più perfetta cognizione dei propri doveri, non solo militari, ma sociali"; in questo modo "l'esercito viene ad essere la vera scuola della nazione". Deve esigere dagli inferiori lo scrupoloso adempimento di tutte le prescrizioni; solo così essi acquistano quell 'abitudine all'ordine, che fa sentire la sua benefica azione anche quando il soldato torna alla vita civile, "diffondendo in tutta la nazione le abitudini del vivere assestato, e il profondo sentimento del rispetto delle leggi". Con questa fisionomia il nuovo Regolamenlo ben lumeggia i contenuti, le basi spirituali di una moderna Istituzione militare, con una disci-


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plina che è essenzialmente convinzione, condivisione, spirito di solidarietà tra gradi diversi, e l'autorità conferita dal grado che non è privilegio ma comporta maggiori oneri, doveri e capacità. Non vi è traccia, per 1'obbedienza, dell'aggettivo "cieca" del quale parlano taluni critici. Anche oggi essa non può che essere, in nome dell' efficienza, "pronta" e "rispettosa". L'aggettivo "assoluto" va letto nel contesto dei tempi, con il quale è ancora compatibile: demonizzarlo è antistorico. Evidente che un secolo dopo i tempi sono cambiati, senza che con questo si rinunci a esigere, in linea generale, che gli ordini siano eseguiti presto e bene, come richiede I' efficienza dell'insieme. Riguardo ai rapporti con la società, risulta chiaro dal Regolamento che le virtù militari non sono che la sublimazione delle virtù civili, quindi non può esistere nessuna barriera tra società civile e società militare. Quest'ultima, anzi, chiedendo alle virtù del singolo più di quanto faccia la società civile, intende migliorarlo e diventare "scuola della nazione" , qualcosa quindi che non si contrappone alla nazione ma la migliora e ne esalta le virtù. Nello stesso anno 1873 un articolo ufficioso sulla Rivista Militare23 ricorda che il Regolamento è accompagnato da due circolari del Ministro Ricotti: una che tratta della libertà d'azione da lasciare ai Quadri evidentemente sul modello tedesco, e l'altra che esclude dall'invio in congedo illimitato i soldati completamente analfabeti, prescrivendo che ogni due mesi siano sottoposti a uno speciale esame, per accertare se abbiano o meno raggiunto il grado di istruzione richiesto per il ritorno alla vita civile. Il predetto articolo del 1873 accenna inoltre a serie difficoltà di reclutamento per i Quadri, dovuti principalmente "allo spostamento nei rapporti tra le diverse classi sociali, e nelle loro condizioni economiche". Di conseguenza le possibili, future riforme, e in particolare il miglioramento delle condizioni economiche e morali degli ufficiali, non avranno gli effetti sperati, se prima non si sarà ristabilito l'equilibrio sociale sconvolto da un lungo periodo di guerre e mutamenti politici, fatto che ha provocato l' allontanamento dei giovani delle classi colte e agiate dalle file del l'esercito. Intanto ci limitiamo a esprimere i più caldi voti perché la vamigna della gente nova e dei sùbiti ,:uada,?ni non estenda le sue radici per tutto il paese e in tutte le classi della società, in modo che le stesse istituzioni mi-

23 D., L ·esercito italiano nel 1872, in " Rivista Militare Italiana" Anno XVID VoL I gennaio 1873, pp. 127 - 154.


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litari non ne abbiano a ricevere ferita irreparabile. Ma vuole giustizia che si dica come non sia questo un male particolare d'Italia [ ... ]. Esso non è stato circoscritto a piccole proporzioni se non dove [evidentemente in Germania - N.d.a.] ha trovato resistenza nel fermo carattere e nel sentimento militare delle popolazioni, il quale non dipende solo dalle buone o cattive leggi[ ... ], ma trae la sua origine da una buona e morale educazione che incomincia nel seno stesso delle famiglie e va afort(ficarsi sui banchi delle scuole e in un tirocinio molle volte assai breve nelle file dell'esercito.

La critica al tipo di società civile e militare sulla quale si innesta il nuovo Regolamento risulta chiara, anche là ove si fa il paragone con il livello di educazione civile che riceve il futuro soldato tedesco. Sorge pertanto spontaneo un interrogativo: fino a che punto gli alti contenuti spirituali sui quali ci siamo prima soffermati, trovano e troveranno un terreno favorevole nella realtà quotidiana della nazione, e quindi dell'esercito?

Il ruolo dell'esercito e la disciplina "d i persuasione" difronte alle sfide dei nuovi tempi Lo stretto rapporto esercito- nazione, sul quale si diffonde anche il Marselli, risulta implicito ma già nitido nel Regolamento di disciplina 1872, che indica l'esercito come scuola prima di tutto morale della nazione. Sarebbe interessante conoscere qual'è il pensiero degli ufficiali su tale rapporto; ma non si è lontani dal vero se si ritiene che la massa degli ufficiali - così come la classe dirigente in genere - sia convinta del ruolo sociale, dell' utilità anche in tempo di pace dell'esercito, della sua funzione civilizzatrice nei riguardi dei giovani, che affluiscono sotto le bandiere per la maggior parte analfabeti e privi di una qualsivoglia educazione civica e di un vero spirito nazionale. Dimostra questo orientamento generale anche un'iniziativa culturale della Società Pedagogica di Milano, che nel 1870 indice un concorso a premi per opere che trattino il seguente tema: ''l' esercito italiano nello stato di pace, considerato in ordine all'educazione delle masse e all'unificazione del sentimento nazionale". Vincitore del concorso è risultato il colonnello Mariani, mentre il capitano Ballatore ha avuto una menzione onorevole.24 24 Cfr. Carlo Mariani, /,'esercito italiano nel passato e nell'avvenire, Milano, Salvi 187 1 e Carlo Rallatore, L ·esercito italiano nello stato di pace, Piacenza. Tagliaferri 1871.


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Ambedue gli autori danno il massimo risalto alla missione civilizzatrice dell 'esercito. Il Ballatore ne ricorda i meriti nel creare una coscienza nazionale e sostiene che l'educazione militare è superiore a quella civile, perché meglio infonde nel popolo le virtù dell'uomo e del cittadino. Il Marianj defimsce l'esercito "educatore, benefattore, salvatore dell 'umanità" e vorrebbe trasformarlo in una specie di scuola di arti e mestieri e in un centro di lavoro. Quando il soldato non è impegnato nell ' addestramento militare, dovrebbe essere occupato in lavori di costruzione militari e civili e imparare un mestiere. La truppa, composta per la maggior parte di conladim, dovrebbe ricevere un' istruzione agraria elementare, nozioni sul governo dei quadrupedi ecc .. Il soldato dovrebbe essere addestralo anche a fare ali' occorrenza il pompiere, per sostituire i pompieri civili che almeno nei piccoli centri mancano, perché troppo costosi. Utili per la truppa dovrebbero essere anche le buone letture di storia e geografia, la musica e persino il teatro. Le scuole analfabeti, infine, dovrebbero essere riformate, "sicché la milizia possa diventare una grande scuola alla quale il popolo nostro verrà ad istruirsi". Una cosa è certa: che nell ' esercito vi è anche chi non condivide affatto queste idee. Ad esempio, in un articolo del 1871 il sottotenente dei bersaglieri Bianciardi le presenta come frullo della ricerca dei nuovi compiti (che oggi diremmo "di pace") per giustificare l'esistenza dell'esercito permanente anche dopo il periodo delle guerre d'indipendenza che si è appena concluso. 25 Per il Bianciardi tali nuovi compiti sono però "una deviazione che parmi non si possa fare impuneamente", perché "avendo considerato l'esercito da un punto di vista troppo civile, e a forza di ammirarne le virtù in tempo di pace, si dimentica che è uno strumento di guerra; talché invece di volerne il perfezionamento in ordine alla sua essenza, lo si cerchi nel senso dell 'educazione civile" . Per il Bianciardi lo sviluppo dei nuovi principi di libertà favorisce certamente il progresso sociale, ma allo stesso tempo contribuisce a scalzare dalle fondamenta le basi morali dell ' esercito. Tra condizione civile e condizione militare non vi può dunque essere armonia; l'esercito almeno per il momento deve vivere una sua vita artificiale, separata dalla società. Può darsi che in futuro, i due tipi di educazione possano beneficamente fondersi ; ma intanto, solo quelle società che prima delle altre hanno imparato a conciliare la libertà con l'ordine, con il dovere e

25 Raffaello Bianciardi, L'esercito illlliano e la società moderna , in "Rivista Militare Italiana" Anno XVI Voi. lii agosto 1871 , pp. 129 - 161.


Xli L'ESERCITO TRA ANTIMILITARISMO E "MOOEKNISMO MIUTA!lli"

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lo studio potranno avere un esercito valido. Questo purtroppo non è il caso dell'Italia: "da noi in Italia, si può dire, non abbiamo acquistato né quella saggeua, né quella abitudine, né quella società: sembra perciò che qualunque penetrazione civile possa riuscire dannosa nel militare". Oltre tutto l'educazione del popolo, facendo della famiglia la pietra angolare della società e aumentando il benessere morale e materiale, spinge sempre più a desiderare la pace a detrimento dello spirito militare. Già è molto difficile, in campo civile, convincere il popolo che l'interesse particolare deve essere subordinato a quello generale; così stando le cose, specialmente in Italia per fare sì che il soldato rinunci non solo alla libertà ma anche alla vita, costringendolo a una vita ''fuor di natura, contraria all'indole umana", non basta fare appello aJ suo amor di patria: occorrono "leggi tutte speciali" e una disciplina molto rigida. Passerà molto tempo prima che i principi della vita civile siano assimilati dalla vita militare senza danno; nel frattempo, " io credo che sarebbe giudizioso portare in tutto quello che si fa o si dice per l 'esercito un principio molto conservatore". A parere del Bianciardi, con il suo metodo educativo il Mariani trasporta nel mondo militare dei principì della vita civile (come la mitezza di sentimenti, i gusti della vita normale ecc.) che sono dannosi, perché togliendo al militare di quel suo particolare carattere, ne imbastardiscono La vita, La quale perde così la sua ingenita e schietta potenza educativa. Poiché la vita militare deve non solo sviluppare ma dare vigore a quelle virtù che per avventura fossero nell'animo del popolo, ma spesso eziandio e quasi sempre creare di sana pianta l 'idea di quelle virtù militari sconosciute ad esso e farne sentire tutta l 'asprezza e nudità della pratica: talché qualunque miscela abbia in sé quella vita, distraendo l'animo da quell'idea, disgusta da quella pratica.

Ne consegue che i riformatori [quindi, in prima fila anche il Marselli - N.d.a.] ottengono l'effetto contrario a quello che vorrebbero. Ciò che essi condannano, è solo una caratteristica necessaria e ineliminabile della vita militare, nella quale "La forzata penetrazione Lcivile] falsa il carattere e scema il valore dell'organismo". E poiché è impossibile segregare del tutto l'esercito dalla vita civile, bisogna almeno chiedere un limite per quella penetrazione e per questa cooperazione; un limite dico fra l 'istrumento di guerra e L'istrumento civilizzatore. Il quale limite noi lo potremo avere, quando la nazione avrà


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capito le esigenze di un esercito stabile e saprà così perciò rispettarne l'esistenza, e si vorrà da tutti ammettere che l'educazione civile nell'esercito è accidentale, e il bene che ne riceve il popolo è indiretto e mediato.

Come nella Francia sconfitta nel 1870, anche in Italia il Bianciardi vede ormai "discussi e spesso fatti vani" valori come la gloria, l'onor militare, la devozione, che per tanto tempo sono stati il cardine dello spirito militare. Ritiene perciò prioritario ristabilire il principio dell' autorità, obiettivo che si potrà ottenere a condizione che "nella gerarchia il superiore lo sia non solo di diritto ma di fatto; che sotto il grado vi sia l'uomo che ad esso si conviene; che l'autorità sia sentita e riconosciuta dai sottoposti". Questi principi, per la verità, coincidono con quelli indicati dai riformatori ; lo stesso avviene per la figura dell'ufficiale, il quale ora che l'esercito nostro si arroga una missione civilizzatrice, ora che la disciplina deve essere educazione che modifica il pensiero, il sentimento, le abitudini di un uomo, ora è l'anima della disciplina. J:,,'g[i è il custode, direi la vestale di quella fiamma di spirito nazionale militare che prende diverso e sempre nuovo e giudizioso alimento dal progresso. Egli è quel sapiente educatore che aborrendo da qualunque rettorica, sa quanto si educhi col contegno e con L'esempio, colle parole e col silenzio, e di tutto sa l'opportunità, la misura. Egli sa che al di sopra di qualunque metodo, di qualunque opinione, vi sono poche virtù che fanno l'uomo, sia esso soldato o no, nobile o plebeo, istruito od ignorante: dinanzi a lui comincia la vera obbedienza, perché egli rappresenta la vera autorità.

Per formare questa nobile figura di ufficiale - educatore, il Bianciardi ritiene necessario l'insegnamento nelle scuole militari della storia, della letteratura, dell'economia politica. In particolare la storia "è il fondamento di ogni vero sapere". Essa non dovrebbe limitarsi alla parte militare, "ma seguendo lo svolgersi e il progresso della civiltà generale, dovrebbe veramente .fermarsi su quei fatti che ebbero una influenza complessiva nei tempi; su quegli uomini veramente grandi che in sé riassumono lo spirito di una intiera generazione". L'utilità e necessità dell 'esercito ristretto al suo ruolo puramente militare, il carattere speciale e separato della disciplina militare, la necessità che gli ufficiali concentrino la loro attività su tutto ciò che riguarda la trup-


X.U • L' ESERCITO TRA ANTIMILITARISMO E "MODERNISMO MILITARE''

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pa, o meglio la trasformazione del cittadino in soldato, sono ribacliti dal Bianciardi in due successivi articoli.26 A suo parere l'ufficiale educa i dipendenti soprattutto con l' esempio, con i fatti , mentre le ricadute dell'educazione militare in campo civile possono e devono essere solo indirette. Non si deve, dunque, "considerare nell'uomo sollo le bandiere assai di più il cittadino da educare che il soldato da formare", né si deve estendere all'infinito, ad argomenti non strettamente militari, l'educazione morale del soldato. La brevità della ferma impone di concentrare le energie sulla formazione del soldato come combattente; invece, al momento i soldati prima dell' invio in congedo devono sostenere un esame non su quello che hanno imparato in campo militare, ma solo sulla loro capacità di leggere e scrivere. Più in generale, all'esercito si deve solo chiedere di non ostacolare, di non mortificare il normale svolgimento della vita civile; ma per il resto, come afferma il Macaulay, "laddove uno Stato vuol essere maggiormente libero, più interamente speciale deve essere la legge militare". Ordine e libertà sono ambedue mezzi per assicurare la civiltà, che si muove tra que sti due poli; così l'esercito che è creato per garantire l'ordine e la libertà, garantisce altresì la civiltà. Ora io vedo che il carattere proprio di questa azione è il negativo; garantire vuol dire difendere; e penso che alterando quel carattere se ne affievolisca a.ltresì la particolare energia; a questo effetto condurrebbe appunto il considerare l'esercito come fattore di civiltà; e se ne potrebbe concludere che un esercito tanto meno si prepara a custodire la civiltà, quanto più direttamente l'aiuta.27

L' esercito, dunque, tanto più serve la civiltà e il progresso, tanto più corrisponde al suo compilo vero (che è di fare la guerra), quanto più rimane chiuso e impermeabile a influenze esterne; siamo su un polo opposto a quello del Marselli. Con queste idee il Bianciardi rimane però isolato: g li scrittori militari del periodo, sia pure in misura e con modalità diverse, percorrono la strada difficile ma inevitabile della ricerca di un 'armonia tra esercito e società, di un adeguamento della disciplina ai nuovi tempi e di un concetto dell'educazione del soldato che non s ia ristretto alla sola par-

26

Bianciardi, Alcune riflessioni sull'esercito considerato ir1 ordine all'incivilime1110 11azio11ale, in "Rivista Militare Italiana" Anno XX Voi. lii lug lio 1875, pp. 5 - 17 e ID., l 'esercito come istiu,.zione nazionale (saggio), in "Rivista Militare Italiana" Anno XXV Voi. I marzo 1890, pp. 402 - 420. " Bianciardi, Alcune riflessioni ... Cit., p. I 6.


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te militare, ma curi l'elevazione morale sia del soldato, che del cittadino. Prevale anche in questo il vittorioso modello prussiano già evocato dal Marselli. 28 Secondo la communis opinio, il valore e la disciplina dimostrati nel 1870-1871 da tale esercito prussiano sono frutto di un'educazione civile che nel caso italiano è assai meno curala, quindi rendono necessario che l'esercito svolga una difficile funzione di supplenza, dando al soldato quel1e basi morali che non ha ricevuto dalla società, e che peraltro corrispondono non solo alle nuove esigenze militari, ma anche a quelle di un'ordinata società civile. L'ambizioso ruolo educativo dell'esercito si scontra con difficoltà oggettive, che gli vengono non solo dal sempre più virulento movimento pacifista e antimilitarista militante, ma anche dal modo distorto con cui la classe dirigente borghese concepisce il suo ruolo. Fatto che già traspare dall'opuscolo dell'ex ufficiale garibaldino e deputato Giuseppe Guerzoni L'esercito in Italia (1 879)2'>, nel quale si riconosce che gli italiani mancano di quelle qualità che possono farne dei buoni soldati (come la costanza, la disciplina, l'abnegazione) e si critica il concetto puramente utilitaristico che la classe dirigente ha del ruolo dell 'esercito: "il borghese non aborre l'esercito e molto meno lo vorrebbe disfare e distruggere; ma lo apprezza solamente in quanto utile alla società per garantire la pubblica pace e sicurezza, e ridotto al puro necessario, mantenuto con la maggiore economia possibile e limitato appunto a ufficio interni di sicurezza [ ... ]. L'ideale militare del borghese si ferma al carabiniere [ ... ]. Tutto ciò che va al di là [ ... ] è per lui un'astrattezza, un 'incognita, un enigma". 30 Peraltro, il nostro esercito non è la creazione artificiale di un sistema politico e di una dottrina militare, ma "è il prodotto della nostra storia, delle nostre tradizioni, del nostro carattere, di tutti gli elementi civili e militari, dinastici e rivoluzionari che cooperarono alla vita dell 'Jtalia" .3 1 Stando così le cose, risulta evidente la difficoltà pratica di ottenere un'Istituzione militare italiana con basi, soprattutto morali, salde e sicure; tuttavia i contributi su ciò che l'esercito dovrebbe fare per far fronte alle sfide dei tempi sono numerosi e di spessore elevato. Ad esempio nel 1884 il capitano Samminiatelli Tizzi sintetizza con rara efficacia il concetto di

28 Cfr. ad esempio Pietro Valle, Basi di educazione e dùciplina militare in Prmsia, in " Rivis ta Militare Italiana" Anno XV 11 Voi. U giugno 1872, pp. 398 - 411.

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Padova, Tip. F. Sacchetto 1879.

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ivi, pp. 14 - 15. ivi, p. 33.

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disciplina richiesto dai nuovi tempi , 32 molto diverso (come già notava il Marselli) dalla "disciplina tetra e incosciente [dei vecchi eserciti dinastici], che modellata sui chiostri fu trasportata nelle caserme per ridurre il morale del soldato ad una cieca obbedienza" . In particolare, secondo il Samminiatelli la condizione sine qua non dell'esistenza storica di un esercito al giorno d'oggi, è che questo sia scuola di guerra, scuola di dovere e di spirito di sacrifizio, volenteroso, ispirato ad un ,?rande ideale, per i Kiovani di quella nazione della quale è emanazione e dev'essere tutela[ ... ]. La disciplina per essere, come la definisce il Foscolo, la ragione intrinseca ed universale della virtù degli eserciti, deve oggi aver per base il convincimento nell 'inferiore di essere degnamente, rettamente, giustamente, competentemente comandato. E dato pure, ma non concesso, che il grado, mercé una ferrea disciplina fosse ragione ali 'autorità, sarebbe allora L'esercito ove questo avvenisse emanazione e parte vitale della nazione'! L'esercito di Federigo [Il di Prussia] sarebbe possibile in uno Stato retto con libere istituzioni? Darebbe, se lo fosse, arra oggigiorno di vittoria? Se vuolsi avere vitale il ramo conviene che il succo vi venga a circolare dal tronco dell'albero, e così un esercito dev 'essere ravvivato, nelle debite modalità, dallo spirito che regola tutte le altre istituzioni dello Stato del quale è pur parte, e precipua. Oggigiorno la superiorità di coltura e di carattere può solo affermare il legittimo esercizio dell'autorità del grado, sia in faccia alla società che rispetto agli inferiori.

Così stando le cose, diversamente dal passato l'ufficiale deve occuparsi personalmente - specie al livello di compagnia - dell'istruzione ed educazione dei propri dipendenti, con "un metodo di istruzione che basato sulla persuasione, senza cessare di essere severo tenga però conto del diverso grado di cultura, di intelligenza, di volontà dei giovani soldati per poterne trarre il massimo frutto possibile". Questo tipo di educazione deve dare alla truppa la forza morale che è indispensabile per gli eserciti di oggi; e la forza morale si infonde solo con mezzi morali. E' vero che, con una ferrea disciplina, durante il periodo di leva il soldato di oggi può essere ridotto a una macchina; "ma sarà compressione, dissimulazione, non attitudine alla milizia che avrà appreso mentre fu sotto le armi" . Una voi-

31 C. Marco Samminiate/li T,z.zi, Gli eserciti nei loro rapporti colla civiltà · compito degli ufficiali, in " Rivista Militare ltaliana"Anno XXIX Voi. I gennaio 1884, pp. 99 - 122.


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ta congedato ricorderà con orrore il periodo passato nell'esercito, e il suo spirito di ribellione aumenterà: "noi abbiamo [invece] bisogno che i congedati del! 'esercito si riversino nella nazione come elemento d 'ordine, depurato dalla bassezza delle passioni, ispirato a rettitudine e moralità, animato daLlo spirito di sacrificio al bisogno, per far argine agli apostoli di teorie malsane che purtroppo come mali necessari affliggono le società rette a liberi sistemi". L'importanza capitale assunta dall'educazione morale del soldato anche per neutralizzare la propaganda sovversiva risalta ancor di più da un altro articolo dello stesso anno 1804 a firma G.B.L., lodato dal Cisotti che ne riporta larglù brani nella bibliografia da lui pubblicata in occasione del cinquantesimo anniversario della nascita della Rivista Militare ltaliana.33 Per G.P.L., diversamente da quanto pensa il Bianciardi l'esercito non può sottrarsi a11e tendenze della società, e presto o tardi deve seguirne gli impulsi. Per questa ragione occorre rivalutare l' educazione morale della truppa, al momento trascurala a favore dell ' istruzione tecnica. Anche per G.B.L. lo scopo dell'educazione morale è duplice: da una parte "creare una forza morale succedanea e superiore alla sanzione penale, che ci dia stabile predominio morale sulla truppa, anche nei più gravi frangenti, in cui la disciplina perde ogni valore"; dall'altra "preservare dai pericoli delle seduzioni [sovversive] l'elemento dell 'esercito che più vi è esposto ed è più facilmente suscettibile di esserne vittima". Le seduzioni sono quelle dei movimenti sovversivi, la cui azione è così descritta dall'autore: è noto quanto lavorìo si faccia da sette anarchiche, politiche e socialistiche, per acquistare proseliti nelle file nostre. I mezzi di cui si valgono sono molti e svariati: lo scopo è di insinuare nella truppa lo spirito di indisciplina e di ribellione, e di minare le attuali istituzioni dipingendole a1:Rressive ed ingiuste. Forse oggidì il pericolo non è ancora grave né minaccioso; non vuolsi tuttavia spezzarlo con affettazione di indifferenza.

Trai i due metodi per arginare il pericolo, la prevenzione o la repressione, per G.P.L. è più conveniente il primo: alle idee devunsi contrapporre idee, il che non esclude che aRRravandosi e manifestandosi i sintomi del male, non si debba poi far ricorso

n G_B_L, Del/'istruzin11e morale dell'esercito, in " Rivista Militare Italiana" Anno XXIX Voi. I rnarLO 1884. PP- 401 - 436_ Si veda anche il commento di Ludovico C isotti in CifUJuwu'anni della Rivista Militare Italiam1, Roma, Voghera 1906, PP- 197 - 202.


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alla repressione. Alle teorie politiche sovversive è dover nostro opporre la propaganda della fedeltà alla monarchia ed alle attuali istituzioni, dimostrandole conciliabili con qualsiasi ragionevole libertà. Contro Le tendenze bestiali e feroci dell'anarchia dobbiamo tener desto il senso morale delle masse, facendone loro comprendere tutte le orrende conseguenze. E' dover nostro presentare e sviscerare alla truppa tutte le questioni che i partiti sovversivi discutono pubblicamente e risolvono a seconda dei loro fini, mettendo in evidenza i loro errori e specialmente La malafede. La discussione ra!(ionata è il miglior mez.z.o per disperdere molti pregiudizi e molti errori che certamente getterebbero radici nelle file se noi non vi opponessimo che l'indifferenza. Ecco adunque un ramo importantissimo dell'istruzione morale da svolgersi alla truppa.

Naturalmente questi nuovi compiti richiedono all'ufficiale un elevato livello culturale e le doti di carattere tipiche di un vero comandante, oltre che un'efficace metodica di insegnamento; solo in questo modo gli sarà possibile stabilire, al di là del rapporto gerarchico, un dialogo con i dipendenti. Sul modo di svolgere proficuamente l'istruzione morale G.B.L. è prodigo di consigli e indicazioni che non hanno tempo e formano anche oggi i principi elementari di una moderna didattica. Bisogna tener conto egli afferma - che i moventi principali delle azioni dell'uomo sono tre: la vanità, l' interesse e, almeno per le masse, il sentimento religioso, che se inteso in modo corretto, potrebbe essere sommamente benefico per il morale dell'esercito. Bisogna considerare anche il livello intellettuale e morale della truppa, per il quale G.B.L. fornisce preziosi dati statistici: il 49% è totalmente analfabeta, il 48% sa più o meno leggere e scrivere, il 2% solo leggere , solo I/4 di coloro che sanno leggere e scrivere è in grado di compilare un rapporto grammaticalmente corretto; solo la metà di essi è fornito di qualche cultura. L' 1-2 % della truppa aderisce a sette politiche o anarchiche; il 2% ha precedenti penali. G.B.L. descrive molto bene anche la differenza di comportamento tra contadini (il 60%) e coloro che provengono dalle città. Il contadino è buono, per indole e costumi, rispettoso dell'autorità per timidezza o abitudine, ma poco pulito. Considera il servizio militare come un peso, al quale si piega rassegnato. Per lui Patria, libertà, gloria sono parole che non hanno molto significato; il suo mondo non va più in là del villaggio, al massimo della sua provincia o regione. Geloso difensore dei suoi piccoli interessi materiali, ha io sé radicato il sentimento religioso, che in caserma cela per timore del dileggio. I soldati provenienti dalle città, pur non superando di


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molto il livello culturale del contadino è di lui più sveglio e disinvolto e non ha lo stesso rispetto per l'autorità. Si atteggia a spregiudicato in fatto di religione e costumi; in genere, fornisce gli adepti ai movimenti sovversivi, che pertanto hanno scarsissimo seguito tra i contadini. Di fronte a un siffatto uditorio G_B_L_ consiglia di usar parole semplici e di rifuggire da espressioni retoriche, dando all'istruzione morale "il carattere di una riunione, di una conversazione di famiglia". TI capo di questa famiglia è il capitano comandante di compagnia, che dunque ha il dovere primario di tenere di persona le conversazioni di carattere morale_ Infine, G-B.L. suggerisce gli argomenti principali da trattare, e il modo di trattarli: "esercito; società,- Stato,- Paese e sue istituzioni; cose naturali in genere, igiene in ispecie". La conclusione è che cooperatori nell'opera dell'educazione delle masse dovremmo avere Stato, Chiesa e Scuola. Se e in qual modo questa cooperazione sia prestata sarebbe troppo lungo esaminare. Noi dobbiamo esaurire il nostro compito: L'altrui trascuranza non varrebbe a giustificare la nostra inerzia: le condizioni odierne della società, del paese, dell'esercito e nostre difronte allo spirito pubblico ci creano doveri imprescindibili a cui non mancheremmo impuneamente, e che si compiono solo con opera positiva, energica e costante.

Il Samminiatelli già parla di disciplina di persuasione; ma più nel concreto, come dev'essere questa disciplina in accordo con i nuovi tempi? Su questo argomento - chiave dà un certo contributo A.C., trattando del rapporto tra disciplina ed evoluzione sociale.34 Anche per A.C. è inutile e dannoso erigere barriere tra esercito e società; società e organismo militare sono così intimamente legati tra di loro, che i rispettivi mutamenti sono ''fatali", procedono di pari passo e si influenzano reciprocamente. L' unica cosa che si può fare, è "riconoscere la giusta via, non perdere di vista la meta, e fare in modo che ogni trasformazione abbia ad operarsi nel giusto senso e grado, in un periodo più o men.o lungo, senza intaccare le basi fondamentali, la vera essenza, ma le forme soltanto degli organismi militari"'. A.C. è il solo a indicare come fattore trainante delle riforme degli organismi militari non le vittorie germaniche del 1866 e 1870, ma la tattica dell'esercito francese nel 1859, quella delle "armate improvvisate" della

34 A.C., Evoluzione sociale e disciplina, in "Rivista Militare Italiana" Anno XXXIX Voi. IV Disp. IV 30 novembre l 894, pp. 2051 - 2067.


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guerra cli secessione americana 1861-1865, e, per noi, quella dei volontari di Garibaldi. L'esercito francese del 1859 già portava in sé il germe dell'indisciplina, dovuta al contrasto tra le forme tattiche antiche, mantenute nella loro pienezza, e lo spirito moderno, al quale di fatto, si è lasciato libero corso. E così nella campagna d'Italia e in quella del Messico lo slancio e il valore individuale hanno neutralizzato in parte la mancanza di disciplina, mentre in combattimento le vecchie forme e i vecchi metodi sono stati accantonati, per lasciare spazio ali' azione individuale e spontanea, che pertanto ha assunto l'aspetto di indisciplina. A loro volta le armate americane, i volontari cli Garibaldi, che apparvero quasi contemporaneamente, sfatarono ancora più le vecchie forme, i vecchi metodi; e nel porre più palesemente alla Luce, anzi nell'ostentare, il nuovo spirito da cui erano mossi, dimostrarono come que!>·to non pregiudicasse in nulla ad una azione energica ed ejjìcace.

La disciplina si manifesta nella subordinazione, che è "La sottomissione di ciascun grado al grado superiore"; ma la subordinazione non è tutta la disciplina, che è "L'orientamento e il coordinamento di volontà diverse ad uno scopo unico prefisso da una volontà direttrice, od anche dalla natura". Comunque agiscano le diverse volontà, purché non perdano di vista lo scopo finale, esse sono da ritenersi disciplinate. In altre parole, nella disciplina, bisogna distinguere la forma (che è mutevole) dall'essenza (che è immutabile). Sotto questo profilo, in quanto a forme disciplinari gli Americani, francesi, i garibaldini si può dire che poco di meno offrivano di un vero scandalo; ma essi della disciplina avevano in.vece l'essenza; quel quid che dà la massima efficacia, il massimo vigore all'azione di un organismo militare.

Secondo A.C. è dunque la sostanza della disciplina che importa, non le forme; quest'ultime, anzi, "possono non di rado coprire un pericolo imminente, per cui è talvolta utile, necessario far getto di esse". Le rigide forme disciplinari del passato non potrebbero più essere mantenute in una società come la nostra; "la disciplina a base di bottoni lucidi ha fatto il suo tempo". Deve però essere mantenuta la sostanza della disciplina, che non è solo fondamento degli ordinamenti militari, ma principio basilare di qualunque società e organizzazione. Nel 1891 il capitano Domenico Guerrini, direttore della Rivista di Fanteria, fonda una "Biblioteca Minima popolare" che si ripromette (ce


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n'è effettivamente gran bisogno) di diffondere nel popolo l'educazione mi litare e un giusto concetlo del ruolo dell'esercito. Il primo volume pubblicato, La guerra e lo stato sociale, è dovuto allo stesso Guerrini, che - non si sa perché - usa lo pseudonimo Ar. 35 Non si trovano concetti o argomenti particolarmente nuovi, bensì ulteriori dimostrazioni, semplici ed efficaci, di quanto già affermano gli autori militari precedenti. L'inevitabilità della guerra, che "non è un episodio brutale della vita, ma la conseguenza logica di essa. Non è una bella cosa né desiderabile, ma poiché senz 'essa non si dà vita sociale, biso,?na subirla e tollerarla". Se si vuole la pace, perciò, non bisogna eliminare gli eserciti, ma ciò che li rende necessari negli animi. La scienza della guerra ha stretto rapporto con la vita sociale, la funzione civile e quella militare sono in rapporto così stretto, che si influenzano a vicenda. Tanto che "a voler ben comandare bisogna sapere come si governa, a voler bene governare come si comanda" . U disarmo fa sentire le sue ricadute economiche solo a lunga scadenza; a breve scadenza provoca diversi inconvenienti, e non è comunque da adottare in periodi di crisi. Anche il Guerrini sposa la disciplina di persuasione: "quando il superiore è giunto a persuadere gli inferiori che tutto quello che esige da loro ha uno scopo d'interesse comune, gli inferiori eseguono tutto con lieto animo e allora sono veramente disciplinati". La disciplina così intesa è "l'igiene morale dell'esercito"; chi vuol mantenersi sano cura l'igiene, e ricorre alle medicine (cioè alle punizioni) solo quando malgrado l'igiene si ammala. Rimangono da citare, del libro del Guerrini, due concetti importanti e abbastanza originali, che non vanno ristretti a una sola branca. Il primo è relativo al corretto modo di intendere la scienza militare, che non deve essere settoriale: la scienza della guerra che merita di essere spregiata e quindi non è degna del glorioso nome di scienza, è quella che chiudendosi nella picciolezza angusta di un 'idea gretta e particolare, proclama postulati empirici: non è scienza della guerra quella che dice oggi la guerra essere affare di fuoco, e aveva detto ieri la guerra essere affare di morale, e aveva detto avantieri la guerra essere affare di gambe, e si ricorda ancora d'aver detto poco tempo fa che la guerra era affare di stomaco pie-

J$ Roma, Biblioteca Minima Popolare 1891. Si veda anche la benevola recensione in "Rivista Mili1are Italiana" Anno XXXVII Voi. I Disp. Tgennaio 1892, pp. 148 - 152.


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no. La guerra è affare di tulle queste cose e di molte altre prese insieme, e vera scienza della guerra è quella che dopo analizzati acutamente i diversi elementi della lotta sa gagliardamente assurgere a una sintesi gagliarda, in cui tutti li raccoglie, ed assegna ad ognuno il posto che gli spetta, e li mette tutti in giusta proporzione cogli altri. 36

1n secondo luogo, per il Guerrini aver fallo la guerra non significa saperla fare, e non vale nemmeno averla fatta con successo: "infatti nessuno ha fatto mai la guerra e chi più volte vi si è trovato non ha fatto altro che

una parte più o meno grande degli atti guerreschi, infiniti e infinitamente diversi". 37 Buona parte degli attacchi all'esercito, anche in Parlamento, proviene dal peso della spesa militare sul bilancio dello Stato, ritenuto eccessivo e tale da compromettere il necessario risanamento finanziario e/o da ostacolare la più necessaria spesa sociale. Uno degli argomenti più ricorrenti è che "l'esercito permanente consuma e non produce" . il Guerrini obietta come tanti altri - che l'esercito produce sicurezz.a, cioè una delle principali condizioni di produzione, che lo rende un produttore di ricchezza almeno indirello; ma vi è anche chi, come certo Emilio Camous, per sfatare questa accusa, sceglie una via decisamente più originale. Nel suo opuscolo L 'esercito e il problema economico - sociale in Italia (1892) il Camous sostiene una tesi almeno ali' apparenza assurda: "aumentando il contingente dell'esercito in tempo di pace, si può ottenere la redenzione economica dell'ltalia". 38 Per il Camous la forza dell'esercito va aumentala anche prolungando la ferma, perché l'Italia non deve aver bisogno, per la sua difesa, dell'aiuto di altre potenze, e deve essere in grado, all'occorrenza, di completare più agevolmente la mobilitazione; ma come ottenere questo, senza gravami eccessivi per il bilancio deJlo Stato, anzi con vantaggio per la comunità nazionale? La ricetta è semplice, anzi semplicistica, anche se adottata nel XX secolo, almeno in parte, da taluni eserciti. In sostanza, l'esercito deve provvedere da sé stesso ai propri bisogni logistici, "senza ricorrere ali'opera sfruttatrice di fornitori ed appaltatori". Sotto la direzione di esperti ufficiali agronomi, i numerosi soldati contadini devono coltivare quanto occorre per il vitto e allevare il bestiame occorrente. I soldati di mestiere, cuochi e addetti a lla preparazione e allo 36 lJ

ivi, p. 73. ivi, p. 75.

38 Fircn7.e, Tip. ÙK>perntiva 1892.


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spaccio di commestibili confezionerebbero il rancio, gli artigiani gli oggetti d'equipaggiamento, i muratori provvederebbero alla costruzione e manutenzione degli immobili_ In questo modo l'esercito costerebbe assai di meno, senza contare che potrebbe anche "compiere quei dissodamenti di terreni incolti, costruire quelle vie di comunicazione, eseguire quei lavori idraulici di gran mole, e tulle quelle altre opere, difronte alle quali si arresta, o manca del tutto, l'iniziativa privata". 39 Un vantaggio accessorio, ma non trascurabile, sarebbe infine il perfezionamento nei rispettivi mestieri dei soldati durante la ferma di leva, a beneficio dell'economia delle rispettive famiglie, e della collettività. A questa soluzione si potrebbe obiettare che non è possibile distrarre il soldato dall'attività addestrativa in una siffatta misura, e che comunque questo sistema di autosufficienza economica provocherebbe la disoccupazione della numerosa forza lavoro impiegata dagli appaltatori per produrre e fornire all'esercito quanto gli abbisogna_ Secondo il Camous è possibile evitare ambedue questi inconvenienti con il prolungamento della ferma e l'ampliamento degli organici, che consentirebbero di impiegare solo la parte già istruita del contingente di leva per i lavori, al tempo stesso alleviando la disoccupazione e consentendo al contingente più giovane di istruirsi. I motivi che già emergono negli scritti precedenti sono ben ripresi e ampliati dal tenente colonnello di Stato Maggiore (poi generale) Felice De Chaurand de Saint Eustache, con un'opera del 1895 dal titolo già pregnante: Le Istituzioni militari odierne e il loro avvenire. 40 Ne abbiamo già descritto i principali contenuti in altri scritti, ai quali rimandiamo41 : in questa sede ne metteremo in evidenza solo alcuni aspetti meno scontati_ Il De Chaurand rileva, anzitutto, che lo spirito guerriero, alimentato dalla leggenda, è stato sostituito ,fallo spirito militare, cioè da un insieme di doveri e sentimenti che è il prodotto dei tempi e dei costumi di ciascun popolo, è posseduto nella stessa misura dall'esercito e dalla nazione ed è legato, tra l'altro, alla considerazione di cui godono tra i cittadini coloro che indossano la divisa. Lo spirito dei tempi, il materialismo dilagante, la mollezza dei costumi ecc. non aiutano certo lo spirito militare, mentre le teorie sovversive

39

ivi, p. 17. Roma, Voghera 1895. 41 Botti, La professione militare a/L'inizio del secolo XX - problemi e spunti ,li attualità ne,:li scrilfi del generale Felice de Chaura11d de Sai111 Hustache, in "Informazioni della Difesa" n. 5/ 1991 , pp. 30 - 40. 40


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"mirano a scalzare qualsiasi principio di autorità, a discutere tutto", fino a negare il sentimenlo di patria e di nazionaUtà. Non potendo ottenere il disarmo materiale il movimento antimilitarista mira ad ottenere il disarmo morale, assai più pericoloso perché ha effetti che "ammorbano il fondo del carattere nazionale" e minacciano la prosperità e la vita stessa della nazione. Per compensare i riflessi non positivi delle brevi ferme si dovrebbe provvedere per tempo, nella società civile, all'educazione morale del cittadino; al contrario, purtroppo si Lavora sordamente e lentamente alla demolizione di tutto quanto vale a formare il carattere dell'individuo ed a mantenere e rialzare il prestigio dell'esercito. Il suo .!>pirito, che è la più importante manifestazione del valore intrinseco, si affievolisce giornalmente. La così detta democratizzazione dell'esercito [il De Chaurand è il primo a usare questa parola, tornata in auge dopo il 1945 - N.d.a.] non è, infondo, che l'adito aperto alla smilitarizzazione, per il timore, non giustificalo, che il militarismo prenda il sopravvento nello Stato. Per evitare un male problematico, si va incontro a un danno sicuro!. .. 42

Tuttavia, anche per il De Chaurand è vano tentar di impedire che lo spirito dei tempi penetri nelle caserme: le correnti della società moderna premono e irrompono da tutte le parti; lo sviluppo dell'istruzione, la razionalità del comando, il rispetto all'opinione dei comandati, il campo aperto alle discussioni e al merito, la completa distruzione di qualunque sorta di privilegi, l 'individualismo che prende il nome di iniziativa e di responsabilità - dijjuse in tutti i gradi della gerarchia -, la tendenza a distruggere qualunque cosa possa separare pmfnndamente il soldato dal cittadino e formare dell'esercito una casta nel paese: sono indizi evidenti che l 'ambiente morale degli eserciti va trasfomzandosi con la società. Tutto quanto eleva l'uomo non può sfibrare il soldato, a patto che si studino sempre i caratteri particolari della società milita re e che, allargando i limiti della Libertà, non si restringano quelli della razionale autorità. 43

42

De Chaurand, fr istituzioni militari odierne .... Cit, p. 166.

43

ivi,p. 161.


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Non è più possibile ottenere l'obbedienza cieca, pronta e assoluta di un tempo: sia pur con diverse forme la disciplina militare va comunque salvaguardata, così come va salvaguardato lo spirito militare, la cui scomparsa - come dimostrato dalla storia - segna anche la decadenza di un popolo. Non vi è vero contrasto tra Istituzione militare e regime democratico - parlamentare; ciò non toglie che "le assemblee politiche sono le meno adatte a risolvere le questioni tecniche", quindi non vi devono essere intromissioni politiche nelle questioni tecnico - militari. La classe dirigente dovrebbe promuovere lo spirito militare, evitando che la pubblica istruzione diventi "uno strumento di propaganda in mano alle opposizioni di tutti i generi". Il livello di spirito militare di un popolo si rivela dalla passione per il mestiere delle armi e dipende dal prestigio che la professione militare riscuote presso la pubblica opinione: se questo prestigio non esiste la carriera militare non è più ambìta, e "gli ufficiali cadono al livello degli ultimi.funzionari pubblici. Si stimano poco e si capiscono di meno".44 Le teorie internazionaliste e pacifiste sono giudicate dal De Chaurand utopiche, contrarie alla vera natura dei popoli e ingiuste verso il nostro esercito, la cui situazione è particolarmente difficile: mentre il caratLere e il sentimento nazionale dopo trentacinque anni di unità non sono ancora formati e subiscono le insidie dell'affarismo, delle uLopie e delle mene antipatriolliche, L'esercito è continuamente oggetto di discussioni e attacchi e viene designato come causa prima del nostro dissesto economico. 45

A dimostrazione che lo spirito militare e nazionale non si può sopprimere tanto facilmente il De Chaurand cita l'atteggiamento dei capi socialisti tedeschi e francesi, ben diverso da quello dei nostri: Behel e Liehknecht dichiararono al Reichstag che i loro partigiani socialisti adempirebbero in caso di guerra al proprio dovere di soldati. A questa affermazione rispondeva, dalla tribuna parlamentare francese, un 'analoga dichiarazione di Jaurès e dei suoi corregionari. .. 46

Mentre le altre professioni hanno progressivamente migliorato la loro condizione, gli ufficiali l'hanno peggiorata: a loro si chiede molto, si chie44

ivi, pp. 250 - 251. s ivi, p. 140. 46 ivi, pp. 247 - 248. 4


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dono particolari e rare virtù, con un impegno sempre più gravoso, offrendo in cambio molto meno di quanto meriterebbero. Tuttavia l'esercito ha ancora un suo ruolo; il panorama europeo è assai oscuro e non consente di escludere, per il futuro, grandi guerre europee. Le guerre sono diventate più rare solo a causa delle sempre più frequenti relazioni tra i popoli e del materialismo: non per merito dei congressi per la pace ecc .. Anzi: proprio "il militarismo", indicato da taluni come causa delle guerre, in realtà contribuisce ad allontanarle esercitando una reciproca dissuasione. Questo perché "gli enormi eserciti in conflitto e i potentissimi mezzi di distruzione renderebbero la lotta più crudele e più disastrosa di qualunque altra abbia.finora funestato il genere umano, tale da metlere in causa l'esistenza stessa delle nazioni" .47 D'altro canto il De Chaurand (forse pensando alle teorie del Bloch) contesta le affermazioni dei pacifisti, secondo i quali una futura guerra provocherebbe rovine e perdite tali, "da far sembrare battaglie di fanciulli quelle di Alessandro, di Cesare e di Napoleone" , sarebbe una sospensione totale della vita delle nazioni, non lascerebbe né vincitori né vinti ecc .. A suo parere un solo fatto distrugge tutto l'edificio: senza la guerra, l'esuberanza di braccia e di capitale avrebbe fatto rinvilire le une e l'altro; e, dato pure posto ed alimento per tutti sul globo, non crediamo che vi si starebbe, con una maggiore popolazione e più moneta in tasca, meglio di adesso. Per quanto sanguinose, si può dire che le guerre non hanno avuto un'influenza ritardatrice sull'incremento della popolazione, anzi lo hanno accelerato. 48

l suicidi, la criminalità militare, i fatti eclatanti di insubordinazione con uso delle armi conlro un superiore ecc. sono un allro cavallo di battaglia dell'antimilitarismo, che sbrigativamente li attribuisce agli arbitri e soprusi della gerarchia e all'ambiente oppressivo della caserma. Su questo argomento ci limitiamo a citare alcuni studi che rispecchiano la complessità del problema, come queHi - pubblicato dalla Rivista Militare - del ten. col. medico Fiori (che avvalendosi di numerosi dati statisti ci nega la maggior frequenza dei suicidi militari rispetto a que1li che avvengono in campo civile) e dell'avvocato Setti (sulla criminalità milita-

47 ivi, pp. 180 - 18 I. "" ivi, p. I03.


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re, sul modo di prevenirla e sul modo di far scontare le pene). 49 Il contributo più interessante è però quello del capitano Nasi,50 che trae spuinto da taluni recenti omicidi avvenuti in caserma per controbattere la tesi che si tratta di "fenomeni morbosi dell'esercito", quando invece non sono altro che fenomeni morbosi che avvengono nell'esercito, ma hanno le loro vere radici nella società, dalla quale provengono i componenti del1' esercito stesso: secondo noi, il fatto di un soldato che si arma di notte e lpara contro tutti senza causa determinata o proporzionale è un fatto identico a quello d'un marito che tutt'a un tratto diventa carnefice della moglie o dei figli! [ ... ]. Fenomeno è il primo caso, fenomeno è il secondo caso perché tanto nell'un caso come nell'altro manca la cosiddetta proporzionale. E la causa? Non la sanno dire gli psicologi e pretendono che La sappiamo dire noi soldati! Forse i Misdea, con tutta La triste sequela dei suoi imitatori, non portavano in sé i germi della pazzia fulminea e della delinquenza?

E' fuor di dubbio che i protagonisti dei "drammi delle casemie" prima di venire arruolati erano già cattivi soggetti, con precedenti penali. L' esercito è bensì scuola della nazione, ma più che altro è scuola di perfezionamento; prima di entrare nel1'esercito, i giovani devono essere formati dalla scuola e dalla famiglia: " pensi la società a rimuovere le cause dei fenomeni morbosi e a combaLLere quello spirito di rivolta che s'infiltra fin dai primi anni contro tullo ciò che è principio d'autorità". Per prevenire gli atti di delinquenza nei reparti, l'unico rimedio è di separare fin dall'inizio i cattivi soggetti, con precedenti penali, dagli altri: "non mandiamo noi alle compagnie di disciplina i militari che riteniamo pericolosi? Perché adunque non vi mandiamo fin dal principio coloro che siamo certi che

lo sono?". Si ha un bel dire che il capitano deve sorvegliare i cattivi soggetti anche fuori dalla caserma: "ma dove e quando può sorvegliarli? i pregiudi-

cati r... I venendo sotto le armi sfuggono precisamente dagli artigli della polizia, e come può un capitano sostituirsi all'agente di pubblica sicurezza e sapere dove bazzicano codesti tipi durante la libera uscita?". Per una

49

Cesare Fiori, S11/l"i11creme11to del suicidio nel ReKio Eserdto Italiano - sltulio comparativo, Roma, Voghera 1879 e Augusto Selli, L'esercito e la sua criminalità - ~·tudio, Milano, Brigola 1886. 50 Luigi Nasi, Jfenomeni morbosi nell'eserc:ito. in " Rivisla Militare Italiana" Anno XLI - Voi. IV Disp. X - 16 maggio 1896, pp. 891 - 898.


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delle tante, piccole questioni che sorgono nelle caserme, i1 delinquente comune non tarda a rivelare la sua natura, insofferente d'ogni disciplina e autorità: ecco allora che scoppiano i dramnù delle caserme, per i quali viene inevitabilmente ma ingiustamente attribuita al capitano la sua parte di responsabilità. Infine, per prevenire reati e fatti di sangue occorrerebbero altre due misure: la custodia delle armi in armeria quando non sono usate [fino agli anni 60 del XX secolo, sono rimaste invece su apposite rastrelliere nelle camerate - N.d_a_J e una scelta molto accurata dei caporali, contro i quali si verifica la maggior parte dei reati di rifiuto d'obbedienza e insubordinazione, perché devono comandare commilitoni con i quali sono a stretto e costante contatto; per imporre ai soldati un rispetto maggiore per i caporali stessi, bisognerebbe ripristinare l'obbligo di salutarli .. ...

SEZIONE m - L'attacco di Guglielmo Ferrero all'esercito e la reazione degli scrittori militari

L'anacronismo della f?uerra e l'immoralità degli eserciti nell'opera di Guglielmo Ferrero "Il militarismo" ( 1898) Anche per effetto della sconfitta di Adua, la polemica tra antimilitaristi e difensori dell ' Istituzione militare e dei suoi valori si intensifica a tine secolo XIX, con il relativo successo di un filone antimilitarista questa volta di matrice borghese e intellettuale, rappresentato principalmente dallo storico e sociologo positivista Guglielmo Ferrero, che nel 1897 per incarico dell'unione Lombarda per la Pace tiene a Milano dieci applaudite conferenze, raccolte nel 1898 in un libro dal titolo Il militarismo.51 Ancora una volta il libro del Ferrero è antimilitare, più che antimilitarista. Con argomentazioni storico - scientifiche la cui validità è stata smentita dalla storia, intende dimostrare che la guerra in passato è stata figlia dei peggiori vizi umani e non madre delle più belle virtù, e che "nel

" Cfr. Guglielmo Ferrero, Il Militarismo, Milano, Trcvcs 1898. Sulla fi gura e l' opera di Gug lielmo Ferrero si veda Anna Maria lsastia, GuKlie/mo Ferrem: dalf'a111imi/itarismo a/l'i11terve11ti.1mo democratico (in Quaderno 1993 della Società di Storia Militare, !{orna, GEI, pp. 59 - 84). L' lsastia no n analizza né // Miliwrismo,né le argomentazioni dei contestatori de l Ferrcro, senza dedicare una sola parola di critica alle tesi dell' autore.


IL PENSIERO MILITARE i; NAVALE ITALIANO - VOL. lii (1870-1915)-TOMO l

presente, tra i popoli civili di Europa, la guerra non ha più alcuna funzione da compiere, e anzi va sparendo, anzi è già morta e sopravvive solo nella immaginazione degli uomini, troppo lenta a seguire i rapidi rivolgimenti delle cose. " 52 Contribuiscono a mantenerla in vita artificiale solo le casle militari e le camarille burocratiche e affaristiche che alla guerra hanno interesse, a tutto danno della grande maggioranza dei popo1i che la guerra devono sostenere anche a prezzo del proprio sangue, inutilmente versato. Una siffatta. categorica diagnosi, analoga a quella socialista, è giustificata dal Ferrero con semplicistiche argomentazioni di carattere storico e sociologico, miranti a sottolineare che la guerra ormai è un anacronismo, perché ad essa non hanno più interesse nemmeno i ceti dirigenti. In passato derivava solo dalla cupidigia di minoranze aristocratiche o di singoli Capi, che nella conquista di nuovi territori e nell'assoggettamento di altri popoli vedevano l'unico mezzo per aumentare le proprie ricchezze, quindi si dedicavano solo alla guerra limitandosi, ali' interno, a sfruttare il lavoro dei contadini, degli artigiani e dei commercianti. Successivamente, con la rivoluzione industriale specie in Inghilterra e Germania le classi dirigenti sono diventate protagoniste attive della produzione e hanno diretto il lavoro delle clac;si subalterne, ricavando da tale attività le ricchezze che prima ottenevano solo con la guerra. Al momento l'espansione commerciale ha sostituito l'espansione territoriale e la conquista militare; i capitalisti inglesi e tedeschi per aumentare la vendita dei loro prodotti hanno suscitato negli altri popoli bisogni nuovi, artificiali, "hanno mandato ovunque apostoli non per propagare un nuovo verbo di verità, ma per allettare gli uomini di tutti i colori, lingue e costumi, a consumare i prodotti dei loro opifici''.53 Per effetto di questa trasformazione dell'attività delle classi dominanti è stato possibile che, tra società le quali da trenta secoli non avevano interrotto un istante di lacerarsi in guerre, ad un tratto e quasi improvvisamente nascesse un gran bisogno di pace: un bisogno di cui molti hanno riso, perché non l'hanno capito, e non l'hanno capito, perché è nato da troppo poco tempo ed è cresciuto con troppa rapidità. Ma esso è nato principalmente da questo: che da quando le classi dominatrici non cercarono più la ricchezza nel brigantaggio a mano armata a dan-

52

SJ

Ferrero, Il Milita rismo, p. IX. ivi, p. 4(9.


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Xli - L' ESERCITO TRA ANTIMILJTARJSMO E "MODERNISMO M:.::1:l.l:._::TAc,:R-"' ,e ·E:___-_ _ __

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no di altri popoli e di altre classi, la guerra non ebbe più alcuna fun zione essenziale e cominciò a parer ripugnante. 54

A sua volla questa espansione capitalistica, pur sempre dovuta a cupidigia, per il Ferrero non è certo esente da inconvenienti, che sono più o meno quelli oggi (2005) indicati da taluni come effetti perversi della globalizzazione. Infatti i commerci mondiali dei grandi paesi industriali ed esportatori (voi sapete che questo nome conviene Of(gi in Europa soprattutto all'Inghilterra e alla Germania) sono in parte razzie depredatrici, compiute da un popolo nelle ricchezze di altri [ ... ]. Quanto dello spirito di rapina proprio della guerra resti in questi commerci, apparirà quando si osservi come l 'industria moderna non si contenti di essere l'umile serva degli umani bisogni, ai quali tenga dietro per soddisfarli; ma come si faccia avanti a questi biso1:ni arditamente, per farsene padrona , modffìcandoli e moltiplicandoli a suo piacere.... 55

L' Italia è tra le vittime di questa nuova forma di cupidigia: dopo il 1860 prima dalla Francia e dall'Inghilterra, poi dalla Germania, "noi prendemmo il modello di una nuova maniera di vivere, e della passione cieca e inconsiderata per questo modello facemmo la virtù massima dell'uomo e del popolo .... ".56 Ma a causa dell' impreparazione delle classi dirigenti, e della spensieratezza e mancanza di scrupoli morali che prevalgono in tempi di rivoluzione, "questa passione per il progresso servì più che altro ad arricchire dei nostri risparmi i popoli esponatori di beni industriali, con piccolissimo bene nostro e con vantaggio troppo poco durevole".57 E così il governo in trent'anni ha triplicato le nostre imposte e i nostri debiti, dando un cattivo esempio alla nazione e arricchendo soprattutto i fabbricanti e lavoralori stranieri, mentre "un piccolo numero di famiglie italiane ha accumulato grandi ricchezze,fornwte dall'impoverimento di tutte le altre." 58 Il Ferrero, dunque, diverge completamente dall' analisi marxista della guerra, che sarebbe appunlo provocata dalla tendenza delle società capitaliste ad espandersi, né tiene conto della successione di guerre coloniali,

54

ivi, p. 414. '' ivi, pp. 41 6 - 417. 56 ivi, p. 424. 57

IBIDEM.

'" ivi, p. 429.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALI:: ITA LI ANO - VOL. lii 1870-191 5 • TOMO I

con le quali nella seconda metà del secolo XIX la Francia, l'Inghilterra, il Belgio ecc. si sono impadronite di vasti territori in Africa e Asia, o mirano a mantenerli. AJ contrario sostiene - a torto - che la maggior parte delle guerre europee fino al 1870 "ebbe ragione politica e fu necessaria per modificare una condizione di cose, che rendeva quasi impossibile il vivere a troppi popoli europei; compiuta con la guerra del 1870 questa opera, l'era della pace ha cominciato di nuovo, dura da 27 anni e accenna a durare ancora per molto tempo" .59 Con le guerre del 1866 e del 1870 sono infatti venute menu le due cause principali di guerra in Europa: la politica austriaca prima del 1866 e "lo spirito turbolento del napoleonismo" francese, impersonato da Napoleone TTI sconfitto a Sedan. L' Austria ha accantonato le sue ambizioni, la Francia "ha convertito la politica di avventure bellicose in Europa in politica di avventure coloniali in Asia e in Africa". La guerra del 1870 - 1871 non ha fatto rivivere il militarismo in Europa, come pensano taluni; in realtà - per merito della Germania - lo ha ucciso distruggendo il "napo/eonismo" ; sì che "se l'Europa non fu mai così piena di armi come dopo il 1870, sono scemate le occasioni e la voglia di metterci mano: ora le armi sono la materia del militarismo, mentre la voglia di usarle ne è l'anima".60 Per il secolo XX, perciò, ottimisticamente il Ferrero prevede la fine della guerra, e anche la fine del sistema sociale iniquo al momento in auge, per lasciare spazio a una non meglio precisata società migliore. A questa analisi generale egli aggiunge considerazioni particolari - rivelatesi in gran parte arbitrarie e scentrate - sui sistemi militari delle varie nazioni europee e degli Stati Uniti. Le sue bestie nere, le culle del più efferato militarismo sono la Francia e la Spagna; dal militarismo francese deriva quello italiano. Giudica erroneamente in decadenza il militarismo tedesco. Presenta un quadro idilliaco dell'esercito inglese, e ritiene perciò l'Inghilterra del tutto immune dalla tabe del militarismo, così come gli Stati Uniti. La Francia è dominata da 500.000 funzionari, quasi tutti usciti dalla classe media, che "formano la casta depositaria delle tradizioni militari della nazione", e insieme con le altre gerarchie militari hanno imposto e impongono al paese dispendiose imprese coloniali e militari compiute solo per amore della gloria militare e in nome della grandezza e supremazia dell a Francia, che il popolo paga con il suo sangue e con le

'° ivi, 60

p. 444. ivi. pp. 44X - 449.


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tasse. Peggio ancora è la Spagna, ove predomina un'oligarchia e una casta militare, la cui morale "si riassume intera così nella spaventosa corruzione politica e amministrativa come nel regime del terrore sanguinario, esercitato nelle colonie e in Spagna", così come la guerra di Cuba in corso sta dimostrando. Mentre la Spagna ha un esercito, una tlotta, legioni di generali e ammiragli ecc., gli Stati Uniti non hanno nulla: ma, per il Ferrero, non se ne deve dedurre che " il popolo americano debba considerare con terrore il caso di una prossima guerra, con sicure:u,a invece la Spagna". Infatti, "tutte le volte che gli Stati Uniti si sono creduti minacciati, seriamente o non, di una guerra, si è veduto uno strano fennento agitare tutto quel popolo di mercanti e lavoratori". Nel 1895, quando i rapporti con l'Inghilterra divennero tesi per la questione del Venezuela fdovuta al desiderio degli Stati Uniti di rendere "indipendente" - ma in pratica sotto il loro controllo - la zona del canale di Panama - N.d.a.l, " ben lungi da spaventarsi della sua inferiorità militare, il popolo americano fu preso da uno slancio bellicoso", 61 e ovunque si cominciò a discutere di come prepararsi in poco tempo alla guerra. E anche al momento, con la guerra di Cuba in corso, gli americani parteggiano pubblicamente per gli insorti contro la Spagna e mandano loro pubblicamente soccorsi, senza considerare che da questo loro atteggiamento potrebbe nascere una guerra. TI Ferrero ritiene che "in questa specie di coraggio comune, di petulanza pubblica c'è molta legge re:u,a e incoscienza di gente che non si rappresenta bene che cosa una guerra sia"; d'altro canto l'esperienza della guerra di secessione 1861 - 1865 dimostra che "questa petulanza un po' spavalda [... ]può trasformarsi nel grande e reale valore di un esercito impareggiabile, che impara presto a battersi bene e a condurre vigorosamente una guerra veramente nazionale". 62 Segue un 'esaltazione invero eccessiva, e in totale contrasto con quella dei maggiori critici militari europei, del reclutamento tipo nazione armata che ha portato sotto le bandiere della vittoriosa Confederazione americana del Nord [ma anche di quella del Sud - N.d.a.J i ceti più intelligenti, evoluti e istruiti. A suo parere, per ragioni morali nelle quali credevano profondamente gli uomini così reclutati si sono ben presto trasformati in ottimi soldati, dimostrando la superiorità di questo sistema su tutti gli altri tre (cioè sul sistema romano e napoleonico di abituare i soldati al pericolo, sull'esaltazione "con qualche

1

62

ivi. p. 38. ivi, pp. 38 - 39.


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOI.. 111 ( 1870-1915)- TOMO _ I_ _

selvaggia passione" dello spirito dei soldati o sul mantenimento della disciplina con il terrore delle pene, come sta facendo l'esercito spagnolo a Cuba). Nella conclusione dell'opera il Ferrero si contraddice, presentando gli Stati Uniti come nazione democratica e pacifica, nella quale non esiste militarismo, ragione per cui "nonostante l'appassionamento di parte del popolo per la questione cubana, si può predire [previsione sbagliata N.d.a.] che il governo degli Stati Uniti, nonostante la sua potenza tanto maggiore, verrà ben d~fjicilmente alle mani con la Spagna, e si contenterà solo di favorire di nascosto [prima aveva detto 'pubblicamente' N.d.a.] i ribelli". I grandi conflitti sociali degli Stati Uniti riguardano invece questioni economiche interne; e da questo fatto il Ferrero trae la strana conclusione che le guerre condotte da potenze democratiche e non militariste, diversamente da quelle rette da regimi oligarchici, dittatoriali e militaristi non sono mai dettate da spirito cli sopraffazione e cli rapina e producono danni economici magari ingenti ma fac ilmente riparati, come dimostra la stessa guerra di secessione. Le potenze democratiche, insomma, sono pacifiche e tendono a risolvere i conflitti con la trattativa, come è avvenuto nel 1895 con l' accordo tra Stati Uniti e Inghilterra sulla questione del Venezuela. Coerentemente con questa discutibile interpretazione loda grandemente il sistema militare inglese, del quale dà un'immagine distorta, senza dare importanza al fatto che gli ufficiali inglesi sono reclutati esclusivamente tra gli aristocratici e le classi abbienti, che fino al 1870 si compravano i gradi, e che la truppa inglese, composta da volontari professionisti, non rappresenta certo la società nel suo insieme o il suo meglio. Persino la pena corporale della frusta, abolita nell 'esercito italiano fin dall'unità, viene da lui benevolmente giudicata come "un castigo che sa a un tempo di barbaro e di familiare" , nell'ambito di un rapporto disciplinare Lra uffici ali e truppa che - chissà perché - a suo di scutibile parere nell 'esercito inglese non sarebbe tra servo e padrone come negli altri eserciti europei, ma piuttosto impostato sulla superiorità della cultura come avviene nella vita civile, e non "dalle minacce draconiane di un codice prodigo della morte in ogni pagina". Così anche se l'lnghilterra è militarmente assai forte e spende per le Forze Armate il doppio dell 'Italia, gli ufficiali a suo parere non formano una casta chiusa ma vivono in piena sintonia con la società civile, la quale dal canto suo condivide la passione per le cose militari e non è aliena dalla g uerra. Lo stesso avviene per la truppa, che vive molto bene nelle caserme, secondo gli usi civili. Segue un elogio del servizio militare volon-


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tario che non si accorda certo con le precedenti esaltazioni del sistema americano tipo nazione armata: in Inghilterra i reclutamenti essendo volontari, la maggior parte di coloro che vanno soldati si sentono già una certa disposizione per quella vita Ie se lo fanno solo perché disoccupati ? - N.d.a.]. Se è vero che ognuno può essere cora,?gioso purché voglia, è anche vero che volere ad alcuni è più.facile che ad altri[ ... ]. Onde l 'esercito inglese si compone di soldati che all'occasione non fuggono. Cià che non è senza importanza.63

L'Inghilterra, pur essendo la prima potenza militare del mondo, ha una politica estera "sempre più prudente, remissiva e pacifica", perché nessun ceto sociale ha più interesse per la guerra e da tempo vi si è costituita una classe borghese produttiva che è la prima forza politica della società. Lo stesso avviene in Germania, dove il militarismo è in decadenza, perché vi acquista ogni giorno più forza e prosperità la classe borghese. Persino la Russia, Stato militare dominato dall'autocrazia, sta conducendo da venti anni una politica pacifica, e lo zar "si è ascritto tra i guardiani della pace"; ciò è dovuto, anche colà, alla crescente forza acquistata da una borghesia dedita ai commerci e all'industria. E l'Italia? Il Ferrero parla di "militarismo" italiano, presentandolo come una cattiva copia del militarismo francese. La sua diagnosi è spietata: l'Italia ha voluto imitare la Francia senza che vi esista, come in Francia, una classe borghese patriottica e amante della gloria militare, del prestigio della nazione e delle conquiste territoriali. E così si sono spesi invano miliardi su miliardi per un grande esercito e una grande flotta, senza che si fossero diffusi nella nostra società "quei sentimenti e pregiudizi, che abbiamo veduto essere l'anima del militarismo francese". Dalle guerre del risorgimento, infatti, il popolo italiano ha ereditato il rispetto per il principio della nazionalità, secondo il quale è ingiusto "far violenza alla volontà di un popolo e cercar di forzarlo a subire, sotto qualunque forma, un dominio straniero". A questo bisogna aggiungere l'impoverimento e la rovina della classe media, la miseria della classe lavoratrice, la mancanza nel nostro passato di convincenti vittorie militari, la corruzione e l'immoralità pubblica, l'avversione per l'esercito e il servizio militare dei giovani borghesi. Mancano, insomma, in Italia "gli elementi sociali necessari a comporre un vigoroso militarismo; e cioè una classe media agiata, istruita, in buone condizioni morali e imbevuta di idee militari; una classe lavoratrice non stremata all'estremo". •• ivi, p. 39 1.


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La guerra di Abissinia e le vicende politiche dopo Adua sono efficace dimostrazione di queste carenze: essa è stata un'avventura del militarismo, decisa non per veri interessi nazionali "ma per fini di prestigio militare e di speculazioni ladre, per dar lavoro cioè agli ufficiali disoccupati o ai finanzieri in cerca di affari loschi e lucrosi". 64 E così, dopo la sconfitta di Adua il paese non ha appoggiato il governo per ottenere una rivincita. In Francia tale sconfitta "avrebbe esaltato fino al delirio" almeno una parte del popolo, spingendo il governo ad adottare misure eccezionali; in Italia invece "determinò un sentimento di disgusto per quella guerra così ingenerosa, e di collera contro i suoi autori", spingendo il governo a rinunciare alla rivincita: "non si fonda un militarismo accumulando sconfitte, nemmeno alla.fine del secolo XTX!". 65 Questa mancanza di patriottismo, questa fiacchezza dello spirito militare, corrispondente ai vizi e difetti dello Stato, secondo il Ferrero dovrebbe spingere l'Italia a tenersi lontana dalle guerre, dalle quali rischierebbe sempre di uscire male. La mancanza di spirito militare non è però un male, perché è compensata dalla passione per gli studi economici della nostra gioventù. Da questa analisi, spesso arbitraria, indirettamente ma chiaramente risulta che la forza militare non è qualcosa di inutile e negativo, e che di per sé essa non è segno di spirito aggressivo e di conquista, mentre la debolezza militare - specie nel caso dell'Italia - non è certo un fatto positivo, perché deriva da debolezza politico - sociale cd economica. Così stando le cose, non si capisce bene perché egli parli di un "militarismo" italiano, visto che tale militarismo non avrebbe alcuna radice nena nazione. L'Italia ha condotto - tardi e male - delle guerre coloniali che invece nazioni a suo parere non militariste, come l'lnghilterra - stavano conducendo da secoli; perché l'Italia dovrebbe essere militarista, e l'Inghilterra no? Se avesse prevalso in Italia - come egli sostiene - l'influenza di una inesistente casta militare, ecc., alJora dopo Adua sarebbe stata preparata e condotta con ogni mezzo la rivincita, onde restaurare quel prestigio militare della nazione, che invece è stato tenuto in non cale, con le negative conseguenze che lo stesso Ferrero mette in luce. Dice un vecchio proverbio: "tanto tuonò che piovve". Se la guerra è anacronistica, se gli eserciti sono una sentina di vizi, il Ferrero al di là delle sue errate previsioni avrebbe dovuto stigmatizzare, ritenere comunque inutili le elevate spese militari e capacità militari delle principali nazioni,

64 65

ivi, p. 337. ivi, p. 342.


XII · L'ESERCITO TRA ANTIMILITARISMO E "M0DERN1SMO MJLIT~ "

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fino a proporre lo scioglimento degli eserciti. Invece a conclusione della sua indagine inaspettatamente sconfessa l'affermazione - chiave che la guerra è un anacronismo figlio dei peggiori vizi umani, riconoscendo che l'Europa avrà ancora, per molti secoli (sic) bisogno di soldati, perché essa non vive da sola, ma ha bisogno di avere aperte a sé le vie dell'Asia e dell'Africa, che la civiltà bianca sfrutta a proprio vantaggio, con non poco egoismo [dunque la penetrazione commerciale ed economica ha bisogno anche della forza delle armi - N.d.a.); di cui grandi regioni sono occupate da genti barbare, le quali non hanno egual bisogno di aver aperta a sé l'Europa e che la presenza europea a casa loro annoia, talora anche danneggia. Terribili inimicizie contro la civiltà europea americana sonnecchiano in Asia e Africa: chi può dire quali formidabili sorprese, ad esempio, possa prepararci l'islamismo'! 66

Con queste parole il Ferrero non propone certo la rinuncia al colonialismo, ma anzi riconosce la necessità di mantenere anche con le armi il controllo deU' Asia e dell'Africa. A tal fine, nonostante l'esaltazione del modeJlo di reclutamento improvvisato della guerra di secessione americana egli propone il suo esatto contrario, cioè il modello inglese: quando la vana e sterile tradizione della gloria militare sarà sparita per sempre dalla civiltà nostra, basterà che ogni paese tenga un esercito non molto numeroso di soldati, come gli inglesi, di professione, i quali vivano secondo le abitudini, la morale e Le idee di tutta la società 1-. -1- L'esempio inglese ci dimostra che, grazie alla serietà di disciplina che gli Stati bene ordinati sanno mettere in ogni corpo pubblico, questi eserciti possono essere così solidi, così coraggiosi e fermi come le legioni più celebri dei grandi popoli militari, dell'antichità e del presente. 67

Smentendo non solo tutte le idee precedenti, ma anche quest' ultima tesi, nel 1914 - 1915 il Ferrero, tra l'altro dimenticando la sua precedente, benevola interpretazione del militarismo tedesco, sarà interventista e violentemente antitedesco: 68 nessuna prova migliore dei vistosi limiti e dell'errata prospettiva della sua opera più famosa.

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ivi, p. 398. ivi, pp. 398 - 399. 68 Cfr. Guglielmo Ferrero, La guerra europea - s/udi e discorsi, Milano, Rava e C. 19 I 5. 67


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IL PENSIERO MILITARE E NAVAL& ITALIANO - VOL. lii ( 1870-1~15) - TOMO I

La reazione del mondo militare alle idee del Ferrero: Corsi, Sala, Ranzi, Brancaccio di Carpino

Tra i contestatori delle tesi del Ferrero va anzitutto citato - ma solo per rispetto all'anzianità, alla fama e al grado - il generale Carlo Corsi, il quale nel 1876 già polemizza con gli antimilitaristi, indirettamente dimostrando che talune parti dell'opera del Ferrero non sono cosa nuova.69 In questo primo articolo, peraltro, anche il Corsi non ritiene che la Prussia o la Germania siano depositarie del militarismo vero e proprio, né fa chiara distinzione tra abnorme peso degli armamenti e della casta militare nella vita di una nazione, e legittime misure per la sicurezza di uno Stato. A suo parere lo sviluppo degli armamenti non è altro che il riflesso dello sviluppo dell'industria e dei commerci e del progresso politico, sociale ed economico. La stessa fisionomia di massa assunta dagli eserciti, con numerosi Quadri di varia provenienza sociale, è garanzia che l'orgoglio militare non può degenerare in prepotenza di casta. Per il resto ogni nazione ha esigenze diverse: la Germania continuerà a tenersi armata fino a quando avrà da temere una rivincita francese, né la Francia o altre potenze vorranno per prime dar l'esempio del disarmo, temendo che le altre non le imitino. La milizia, che è il gravame più pesante e più barbaro, si mantiene negli Stati liberi perché può essere necessario fare la guerra, che il popolo certamente non ama. Se il popolo non la vorrà più dovrà sparire anch'essa, mentre la risoluzione delle contese potrebbe essere affidata a un arbitrato internazionale. Ma a tale progetto si oppongono passioni e interessi molto vivaci, che lo fanno respingere anche dai governi, timorosi di esporre il loro Paese a fare da pecora in un mondo di lupi: perciò "coltiviamo pure la sacra pianta, ma come i coloni in paese mal sicuro, colle armi accanto". Per altro verso, il "militarismo" non induce certo a barbarie: la milizia non è seconda a qualsiasi altra professione nel coltivare lo studio e la civiltà, e specie in Italia le scuole militari hanno meritata reputazione di alti e profondi studi anche eccedenti alle esigenze militari, mentre la caserma "ha fino a un certo punto supplito, e supplisce tuttavia alla manchevole virtù della famiglia e della scuola per la educazione e istruzione popolare". Nel campo economico, per il Corsi l'affermazione che la milizia consuma e non produce è superficiale e erronea. In realtà essa ha una forza

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Carlo Corsi, Del militari.mw ai dì nostri, in "Rivista Mililare Italiana" Anno XXI Voi. Il.


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produttiva infinitamente superiore, per la natura dei suoi possibili effetti, a quella delle varie industrie. Se mai potevano essere definiti parassitari gli eserciti di un tempo, che vivevano di rapine e non avevano bisogno di grandi rifornimenti; oggi l'esercito " s 'è fatto un carico di bisogni diversi, raffinati, colm,sali, e dà gran lavoro a molte industrie, alcune delle quali hanno vita da esso soltanto, e accresce moto al commercio e paga quello che prende", rivolgendosi per la massima parte delle sue esigenze alle attività economiche nazionali. Anche l'argomentazione che il denaro destinato alle spese militari potrebbe essere speso meglio è fallace: una volta ammessa la necessità di avere un esercito, occorre destinarvi ciò che è necessario per mantenerlo in buona efficienza; né vi è garanzia che lo Stato spenderebbe meglio i fondi prima destinati a esigenze militari, mentre la sparizione dell'esercito potrebbe anche causare una recessione economica. Coloro che sbraitano contro il militarismo quando un Ministro chiede un aumento di fondi per poter dare all'esercito maggiore solidità e efficienza, o per migliorare le condizioni ccononùche dei Quadri, se non ritengono impossibile la guerra nello spazio di parecchi anni (cosa che pochi credono), mostrano di non sapere che cosa sia la logica, e che una guerra alla quale fossimo costretti potrehhe essere una questione di vita e di morte per la nostra patria. Anche l'argomentazione che la pietra angolare dello Stato è un buon assetto delJe finanze potrebbe essere accettata, "a patto che ci si conceda che tra le principali condizioni per assicurare allo Stato quel credito ch 'è il cardine del buon assetto finan ziario debbasi annoverare la effettiva potenza d 'anne come guarentigia di stabilità e di saldo avvenire". A questo scritto del 1876, che raccoglie opinioni già abbastanza diffuse nel mondo rnilitare, fa seguito nel 1898 un esame critico dell'opera del Ferrero, nel quale il Corsi appare talvolta poco incisivo e molto indulgente, con parecchie lodi poco meritate. 70 In questa occasione egli non accenna più all' esercito depositario di virtù, scuola della nazione ecc., ma si limita ad osservare che la guerra non sempre è frutto di insane passioni: può essere di legittima difesa, e almeno uno dei contendenti crederà di avere delle buone ragioni e entrerà in guerra solo perché gli mancherà un al tro modo per far valere le sue ragioni. Né è sempre vero che le società più portate alla guerra sono quelle peggio ordinate: tutto dipende dalle circostanze; può anche avvenire che le società meglio ordinate siano soccombenti. Dopo aver registrato - ma senza un opportuno commento - che il

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7 Carlo Corsi, /I militarismo - dieci conferenze di Gu,:/ie/1110 Ferrero, in " Rivisla Mili1are Italiana" Anno XLIII Voi. Il Disp. VII] 16 aprile 1898, pp. 649 - 673.


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TI. PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOI.. lii ( 1870-191 ~) - ffiMO I

Ferrero vede tutto il sole dalla parte degli Stati Uniti, e tutte le tenebre dalla parte della Spagna, il Corsi osserva che il sistema cti reclutamento americano della guerra di secessione potrebbe essere applicato solo "a una materia umana elettissima che noi non abbiamo", dunque è inutile parlarne. Sui mali della società italiana egli concorda con il Ferrero, ma nega che gli aspri giudizi sul "militarismo" possano attagliarsi in qualche modo alla nostra realtà, e che ci sia stato da parte del Piemonte un disegno premeditato di "conquistare tutti gli Stati italiani e applicar loro il cesarismo napoleonico". Sull'unificazione italiana hanno influito soprattutto le circostanze e le rivoluzioni spontanee o annessioni. Il regime esteso a tutta l' Italia non è stato il cesarismo napoleonico, ma la monarchia costituzionale piemontese, con qualche piccola modifica di stampo più lombardo che francese; e le decisioni le ha prese il Parlamento italiano, con criterio "né cesareo, né francese". Riguardo ai nostri armamenti, il Corsi obietta che essi non sono stati aumentati per esigenze clientelari e di bassa politica, ma "a misura del crescere della nuova Jtalia, per necessità di difesa interna ed esterna e per quelle ragioni o esigenze di politica internazionale a cui nessuno dei grandi Stati europei ha voluto o saputo - e potremmo forse anche dire potuto sottrarsi sino a oggi". Non è nemmeno vero che le nostre classi dirigenti abbiano tentato di suscitare nella società il culto della gloria militare nella concezione francese, che giustificherebbe qualsiasi guerra, purché la si vinca. E' vero che non abbiamo nel nostro passato militare grandi vittorie, ma non le avevano nemmeno i tedeschi nel 1870, e tutti gli Stati hanno nel loro passato anche grosse sconfitte: "noi mettiamo insieme quel poco che abbiamo di tradizioni per alimentare, non la gloriosità - che non avremmo materia bastante per questo - ma quello spirito militare che deve mantenerci vivi... ". Inutile, dunque, fare il paragone con la Francia. Il Corsi aggiunge che l'impoverimento e la rovina della classe media non possono essere causa dello scarso vigore del militarismo italiano: basti citare l'esempio della Turchia, dell'Austria, della Spagna, della stessa Francia dei secoli scorsi, che hanno dimostrato che il cosiddetto militarismo può svilupparsi anche senza una borghesia prospera. Non è condivisibile nemmeno l'affermazione del Ferrero che il nostro esercito non sarebbe efficiente, perché vi manca l'apporto delle classi colte e agiate. Lo stesso Ferrero [per esempio a proposito dell'esercito inglese - N.d.a.] ha affermato che si possono avere ottime truppe, anche se reclutate tra gente povera e rozza. Nel nostro esercito sono soprattutto i Quadri a rappresentare le classi colle e agiate, formando quel piccolo gruppo destinato ad animare gli altri, che il Ferrero ritiene necessario.


Xli - 1: ~SEIKlffi TRA ANTIMILITARISMO E "MODERNISMO MlUTAllli"

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Molte delle critiche del Ferrero al nostro stato militare sono attribuite dal Corsi ai riflessi della sconfitta di Adua. Indirettamente dimostrando di non essere favorevole alle imprese coloniali, il Corsi afferma che se una parte degli ufficiali "si lasciarono sedurre dai miraggi coloniali", e se l'esercito dopo Adua avrebbe voluto la rivincita, ciò non è segno di militarismo; è solo segno di " un poco di quello spirito militare ch'è l 'anima di qualunque esercito". E' vero - aggiunge - che le truppe inviate in Africa non erano preparate per affrontare gli abissini con forze così inferiori; ma quando il Ferrero scrive che ad Adua i nostri soldati "al primo lampeggiare del fuoco" sono fuggiti travolgendo anche gli ufficiali , "usa un linguaggio che può essere anche moderni ssimo, ma che non è italiano". Su Adua il Corsi pone " una volta per sempre" questo interrogativo piuttosto ozioso: '"' che cosa sarebbe avvenuto, che cosa avrebbe potuto avvenire, se il 1 ° marzo 1896 il generale Baratieri, invece di avvicinarsi ad Adua, fosse rimasto fermo o avesse fatto un passo indietro [due cose che non poteva più fare - N.d.a.], e se qualche giorno dopo il generale Baldissera si fosse avanzato dall'Asmara [ma per fare che cosa? - N.d.a.]?". A questo punto, non si sa perché il Corsi definisce "stupendi'' i capitoli nei quali il Ferrero, tra l'altro, consiglia all'Italia di evitare le guerre perché le perderebbe, per dedicarsi solo allo sviluppo dell ' economia. E replica in questo modo un po' vago: " mi ronza agli orecchi quella breve frase del cantore di Va/chiusa 'Chi mi assicura?' ed odo un minaccioso brontolìo dall'Estremo Oriente, al quale risponde al di là dell'Atlantico, dal paese della democrazia pura [cioè gli Stati Uniti, in occasione della guerra di Cuba - N.d.a.], il grido 'Guerra! guerra! a voce di popolo". Molto opportunamente, però, il Corsi sottolinea che "ciò che il Ferrero chiama il militarismo italiano è l'esercito del suo paese" , per dipingere il quale " il solito spettro gli dà i pennelli e i colori e gli guida la mano". Ugualmente a ragione non crede a ciò che quest'ultimo sostiene sulla mancanza di militarismo io Inghilterra, e sulla sua decadenza in Germania: "Alla prova! Tenti la Russia di mettere un piede nella Cina, o accenni la Francia verso il Reno, e vedremo se gli inglesi o i Tedeschi lasceranno fare". La conclusione del Corsi, condivisibile, è che il Ferrero non conosce bene l'argomento che vuol trattare, quindi il suo libro è "immaturo": ma allora perché lo stesso Corsi sparge neJla sua recensione tante lodi, per un'analisi delle tesi che rimangono senza serie fondamenta, con interpretazioni arbitrarie della realtà passata e presente? Quanto meno incompleta, e qualche volta scentrata, è anche la recensione del Militarismo pubblicata daJla Nuova Antologia, pur dovuta a uno


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Il. PF.NSIEKU MILITARii t:NAVALE ITALIANO· VOL. lii (1870- 1915) - TOMO I

scrittore militare assai noto: il colonnello Cecilio Fabris. 71 Del ventaglio degli argomenti toccati dal Ferrero il Fabris ne affronta uno solo: le effettive cause della guerra e la convenienza per l'Italia di evitarne i rischi. Come il Corsi, anzi meglio del Corsi , il Fabris riafferma una verità che non solo oggi ha dell'ovvio: che cioè la guerra da sempre ha cause complesse, non riconducibili a un solo motivo, ali' ambizione o protervia o cupidigia di un solo uomo o di un'oligarchia. Già nell'antichità essa veniva concepita solo come l'estremo me:a,o (e non il primo mezzo, come afferma il Ferrero) per risolvere conflitti non altrimenti risolvibili. Perciò la guerra non è scoppio improvviso di selvagge passioni; è meditato sforzo per raggiungere una meta, cui con nessun altro mezw sarebbe possibile arrivare [ ... ]. E' un atto collettivo di un intero popolo, assai più che non lo si crede. Non parrebbe possibile che colle tendenze odierne della scienza, la quale spiega gli eventi umani come prodotto della volontà collettiva, piegata anch 'essa da fatali leggi nel mondo in cui si manifesta, il sociologo creda la sola f?uerra un fenomeno esclusivamente individuale.

Così stando le cose, non si riesce a capire come e perché le guerre, "misteriosa legge della vita cosmica", possano cessare. Si può solo ritenere che, con il progresso della civiltà, le guerre diventino più rare: ma solo più rare. Tn effetti, almeno da vent'anni la tendenza dei governi europei a ricorrere alle armi per risolvere i loro dissidi sembra diminuita: ma chi può garantire che tali governi per una qualche ragione cambino politica? Quel che più importa, vanno aumentando i dissidi e le occasioni di guerra nei territori oltremare, sicché "come segno dei tempi nuovi, si manifesta la tendenza di volgere allo sviluppo della marina gran parte dell'interesse che finora hanno accaparrato gli eserciti terrestri: oltremare si intravedono i teatri su cui si decideranno i futuri dissidi europei ... ". E' segno di questi nuovi sviluppi anche la "serie di collisioni, cui l'Inghilterra è fatta segno" nel suo Impero, fino a far pensare che anche il conflitto di Cuba "appartenga a un ciclo storico il quale, cominciato collo stacco delle colonie americane dalla Madrepatria, va ormai compiendo la sua regolare evolu. " zwne. E l'Italia? 11 Fabris stranamente non contesta gli attacchi del Ferrero aHe nostre Istituzioni militari, i suoi giudizi su Adua ecc.: osserva solo che " Cecilio Fabris, La guerra ili una recetlte pubblicazione, in " Nuova Antologia" Voi. LXXV Serie IV I maggio 1898. pp. 58 - 71.


Xli - L"ESERCITO TRA ANTIMILITARISMO E " MODERNISMO MILITARE"'

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la vita di un popolo - che lo voglia o no - è strettamente legala a quella degli altri, con i quali ha in comune la civiltà. Di conseguenza, "se la sua situazione rispetto alla corrente della storia Lo chiama alla guerra, vi sarà travolto; ripugnante o impreparato non potrà .rfuggire al suo flagello". Questo vale anche per l'Italia, che deve prendere atto che il Mediterraneo ha riacquistato l'antica importanza, quindi non può "disinteressarsi interamente degli avvenimenti che si disegnano sull'orizzonte della storia". Perciò non è conveniente "illudersi sull'avvenire nascondendo ogni pensiero di futura guerra, dipingendo la guerra come un prodotto del capriccio umano, rimuovendo ogni cura per prepararvisi, allontanando gli animi dai grandi sacrifici che essa esige". Di ben altra profondità e di molto maggior peso teorico le obiezioni del capitano Fabio Ranzi, capofila del "modernismo militare" sul quale ritorneremo in seguito, che almeno in questa occasione fa opera assai utile per l'Istituzione militare, e dà senza dubbio il meglio di sé stesso. 72 TI Ranzi premette che la sua difesa del ruolo e della natura delle Istituzioni militari non significa affatto spregio per l'ideale della pace e rinuncia agli sforzi per perseguirlo; "e però io penso che w.pirare e operare attivamente per la cessazione della gue rra e la instaurazione della pace fra i popoli, non possa deprimere in alcun modo la fierezza e la potenza dello spirito militare finché questo sia necessario a presidio delle supreme ragioni nazionali", tant'è vero che spera di scrivere addirittura "un libro di studio e di propaganda a favore della pace";73 ma al tempo stesso "mai non vorremmo[ ... ] umiliare la realtà viva della Patria in omaggio ad un ideale nobilissimo, ma ancora lontano" . Detto questo, la replica del Ranzi a quella che giustamente definisce "sedicente teoria scientifica del militarismo" una volta tanto non trascura alcun aspetto importante e può essere sintetizzata nei punti seguenti. 1. A Milano le conferenze e il libro del Ferrero hanno ricevuto vivi applausi anche da coloro che avrebbero dovuto essere di opinioni molto diverse dalle sue. E così quella città dove fiorivano industrie e commerci si è esaltata ascoltando la buona novella, che "preconizzava l'avvento di un tipo di società industriale definitivamente

n Fabio Ranzi, L'esercito e la teoria del militarismo (estratto dalla "Rivista d' Italia"), Roma, Soc. Ed. Dante Alighieri 1898; ID., l 'esen:ilo e lu /eoria del militarismo (da un articolo della "Rivista d'Italia"}, in "Armi e progresso" Anno III (1898), n. I agosto 1898, pp. 385 1; ID., Critici e nemici delle Istituzioni militari - una replica a Guglielmo Ferrero (estratto da "Armi e progresso"), Roma, Ed. "Am1i e progresso" 1899. 71 Prefazione all' "esen:ito e la teoria del militarismo" (Cil.).


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vittorioso sull'aborrito tipo di società militare". Dopo pochi mesj, però, sono scoppiali i moti milanesi del I 898, che l'esercito è stato clùamato a reprimere; e allora vi sono state "le più calde dimostrazioni all'esercito, che aveva salvato la città, e le sottoscrizioni generose, e gli osanna senza fine!". 2. Il Ferrero, dunque, ha dimenticato che l'esercito oltre che assicurare la difesa esterna può anche garantire la vita e gli averi dei cittadini, reprimendo i disordini; ma si deve anche constatare che le più atroci ingiurie lanciate all'esercito durante tali djsordini avevano parecchie analogie con le teorie a sfondo scientifico del Ferrero, che avevano avuto tanto successo. 3. Gli applausi alle tesi del Ferrero sono un'offesa per l'esercito; ma neppure gli applausi alla sua opera di repressione possono essere graditi dai soldati d'Italia, perché la più alta funzione dell'esercito è quella di affratellare sotto la bandiera nazionale cilladini provenienti da tutti i ceti sociali. Dal)' "angoscioso dovere" di reprimere i disordini "non può altro sorgere se non il compianto del comune dolore". Esaltando l'esercito per queste ragioni, si offrono solo nuovi argomenti alla tesi che esso è strumento delle classi dominanti e che la caserma è sentina di vizi. 4.11 sentimento morale, forza viva dell'organismo militare, non si crea facilmente e al momento del bisogno; d'altro canto ''l'esercito, oggi, non altra virtù morale può alimentare nel suo seno, se non quella che la nazione, che il popolo gi avrà saputo ispirare". Questa è una conseguenza inevitabile del regime democratico; purtroppo, anche se l'anima dell'esercito dovrebbe essere in piena sintonia con quella della nazione, le moderne democrazie "tendono ad alienarsi dai sentimenti di un vigoroso .lpirito militare", limitandosi ad affermare che l'esercito non deve più essere una casta asservita a sentimenti esclusivamente dinastici, cosa superflua nel caso dell'esercito italiano, nato tra i fremiti della libertà e della lotta alla tirannide della guerra d'indipendenza. S. Non una parola dovrebbe essere lanciata contro l'Istituzione militare senza che tutto un popolo si sollevi a difesa del massimo bene comune; e alla sua testa dovrebbero esserci gli uomini di pensiero, che ad argomentazioni con pretese scientifiche come quelle del Ferrero dovrebbero rispondere con altre e più valide argomentazioni scientifiche. 6. Ciò non sta avvenendo, anche se il patrimonio morale dell'esercito non è indistruttibile e ha bisogno di essere rinnovato e rafforzato, perché si basa ancora su valori antichi. Bisogna rendersi conto che


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una nazione scettica e un esercito generoso, un popolo che ha obliato ogni idea di dovere ed un esercito infiammato da un ardente spirito di sacrificio sono termini inconciliabili l... ]. A lungo andare la differenza deve sparire; o il paese si solleverà all'altezza morale dell 'esercito, o l 'esercito degraderà nelle condizioni morali del paese.

7. In questa situazione, e in assenza cli interventi qualificati in campo civile, il Ranzi si dichiara costretto a difendere come meglio può l'esercito "dinanzi a un tribunale che ha già accolto l'accusa contro di noi" e a rifare una teoria scientifica per dimostrare la necessità della preparazione nùlitare, con argomentazioni che già avrebbero dovuto essere "patrimonio intatto del comune buon senso e dello schietto sentimento del popolo". 8. TI giudizio del Ranzi sulla pretesa valenza scientifica della teoria del militarismo è drastico: essa "può considerarsi come un saggio di quel sistema di esagerazioni arbitrarie che sono derivate dalla degenerazione del positivismo scientifico, il quale, sorto per ordinare la legittima libertà della scienza, finì per essere pretesto alla licenza sfrenata degli scienziati". Una delle vittime di questa impostazione sono state le scienze sociali , alla cui fenomenologia sono sfuggite sia la psiche collettiva, che quella individuale. Ne è derivata la contrapposizione tra la teoria dell'industrialismo e quella del militarismo, con la prima che era espressione del carattere materiale, prevalente sul carattere ideale della seconda. 9. I seguaci del positivismo hanno spinto tale teoria alle sue estreme conseguenze, fino alla lotta a fondo contro ogni sentimento patriottico e militare. Invece "l'indole industriale è indispensabile alla società per provvedere ai mezzi della propria esistenza; l'indole militare è pur necessaria per difendere l'integrità di cotesta esistenza, non escluso quel bene morale intorno a cui si va diffondendo tanto cinico scetticismo: la dignità nazionale". Infatti la dignità, l'onore nazionale sono valori morali, che però hanno riflessi pratici ben precisi, perché, ambedue servono a stabilire la valenza complessiva di una nazione in campo internazionale. La teoria del militarismo del Ferrero è perciò un'idea astratta, lontana dalla realtà delle cose. 10. Anche la teoria del Ferrero sulle origini della guerra è "miseramente gretta e puerile". La guerra fin dai tempi più antichi


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IL 1'1'.NSlliKOMILl1Allli E NAVA LE ITAI.IANO - VOI.. lll (1870-1915) - TOMO I

è stata lotta per l'esistenza; la sua ferocia "non era l'origine della lotta, non era la causa; era il modo come naturalmente doveva compiersi l 'ineluttabile necessità f ... ]. Non possiamo ammettere che vi sia vizio umano là dove impera la necessità fatale". Non è vero nemmeno che essa non è slala madre di virtù, non ha mai prodotto nulla di sano e durevole. Dall'uomo, protagonista delle più antiche lotte, si è passati all'Eroe, esaltato da poeti e artisti. L'esempio di Roma dimostra che nonostante i suoi eccessi e le sue degenerazioni, la guerra è stata fattore di civiltà e di progresso, con una funzione sociale fondamentale. 11. Lo stesso Ferrero, del resto, contraddicendo le sue stesse tesi dimostra il ruolo positivo della guerra, indicandola come "una prima e più rozza esaltazione della volontà di vivere", diventata "passione violenta" in gruppi di uomini che si sono imposti agli altri e hanno fatto la storia. Il Fcrrero, inoltre, afferma che i popo1i retti da un governo democratico "se sono da qualche crisi sociale trascinati in guerra, ne escono più forti, più sani di prima", quindi se ne può dedurre che la tanto calunniata guerra può apportare più forza e più salute. Sempre secondo il Ferrero, almeno fino al 1870 ci sono state guerre necessarie: e allora, perché calunniare trenta secoli di storia, presentando la guerra solo come frullo di cupidigia? 12. Se è così, il Ferrero avrebbe dovuto scagliare i suoi anatemi non contro la guerra in genere, ma contro le guerre ingiuste, contro quelle decise solo nell'interesse di pochi. Per l'avvenire egli prevede che le guerre tra popoli civili sono ormai un fenomeno sorpassato: ma è stato già smentilo dalla recentissima guerra di Cuba tra Stati Uniti e Spagna, per la quale a torto aveva previsto che gli Stati Uniti non sarebbero intervenuti, perché a suo parere rappresentano "una società che contiene in sé soltanto ciò che è essenziale alla civiltà moderna, privo di ogni sopravvivenza del passato". 13. Al contrario, ''furono proprio gli Stati Uniti che vollero e provocarono a ogni costo la più ingiustificabile, la più aggressiva, la più mercantile guerra di questo secolo", in violazione delle norme di diritto internazionale. Questo fatto potrebbe almeno essere "un preavviso salutare" del pericolo che potrebbe venire aH'Europa dagli stessi Stati Uniti, i quali "nonostante le loro vergini condizioni di civillà, hanno dunque voluto e han fatto la guerra né


Xli • L' ESEROTO TRA ANTIMILITARJSMO Il '·MODllRNISMO MILITARE"

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più né meno di come l'han voluta e l 'han fatta le vecchie nazioni del mondo civile". 14. Lo scienziato non è necessariamente profeta, e l'errata previsione del Ferrero potrebbe essere scusata; ma egli stesso annette molta importanza all'esperienza americana, da lui vista come esempio dei riflessi positivi sulla pace della modernità democratica. E lo stesso Ferrero ha auspicato che l'intervento delle truppe anglo egiziane ponesse fine - come è avvenuto - ai soprusi e violenze dei dervisci nel Sudan, dimostrando che anche in questo caso la guerra serve a restaurare la giustizia ... 15. Le considerazioni del Ferrero sull' asserita viltà degli italiani, sull'avversione alla vita militare dei giovani provenienti dalla classe borghese cui egli stesso appartiene, su Adua ecc. devono essere provate; comunque "ci limitiamo a rispondere che noi crediamo di avere almeno quanto lui il diritto e forse più di lui la competenza, per dire ben alto: non è vero! E basta su ciò ... ". Evide nte mente s u Adua è stato male informato da qualche reduce, "il quale com'era cattivo cittadino che ha calunniato i cittadini, dev 'essere stato cattivo soldato che ha calunniato i soldati''. Eg li offre solo ai nemici dell'Italia degli argomenti, per affermare che Les ltaliens ne

se battent pas ...

16. Il Ferrero afferma che la guerra fra popoli civili è finita : ma se è così, se ne deve dedurre che è inutile fare propaganda per la pace. Afferma anche che, quando si sarà giunti a formare una c iviltà e uropeo - americana, in Asia e Africa nasceranno nuovi pe ricoli di guerra, perciò per molti secoli ancora l'Europa avrà bisog no di soldati: " strano modo invero per aprire l'animo dei popoli alla pace!" . Ma ancor più dannoso di queste contraddizioni , è il modo con cui esalta il nobile ideale di pace, che invece "ha bisogno di poggiare su più alti e nobili sentimenti dell 'umanità" . Pe rciò libri come il suo "sono un veleno perniciosissimo per il morale dell 'e-

sercito, quando essi trovino non dico già l 'approvazione, ma anche la sola tolleranza benevola del paese". Al Ranzi si affianca, frequentemente citandolo, l' ufficiale superiore in ritiro Gerolamo Sala, con una serie di articoli sulla "Perseveranza" poi raccolti in volume con il titolo Esercito e militarismo (a proposito del "Militarismo" di Guglielmo Ferrero). 74 Tutto sommato, il Sala dice ben poco di

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Milano, Treves 1899.


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nuovo rispetto a quanto già scritto dal Ranzi. A suo giudizio coloro che hanno applaudito le conferenze del Ferrero non rappresenlavano Milano, ma erano solo degli appartenenti a settori ideologici già prevenuti contro le Istituzioni militari. TI Sala ammette anche di essere stato tra i promotori di quelle lodi per la repressione dei moti milanesi, che il Ranzi ha ben poco gradito. Rivendica, infatti, all' esercito il merito di aver protelto la società soffocando rapidamente nelle diverse parti d' Italia moti assai pericolosi, scoppiati contemporaneamente_ Bisognerebbe perciò "chiedere ai più tiepidi amici degli ordini militari che cosa mai sarebbe avvenuto in Italia se, negli anni precedenti a questo infausto che corre Ll 899 - N .d.a_ I, l' esercito fosse stato, in tutto o in parte, sacrificato alle ubbie dottrinarie che da tempo lo insidiano". Il Sala sottolinea particolarmente che la guerra è da sempre depositaria di alti ideali. La poesia e l'arte si sono sempre ispirate all'idealità guerresca, associandola ai sentimenti più alti e gentili. Non solo le società guerriere, ma anche quelle intellettualmente più progredite hanno gareggiato nel tenere alta l'importan7,a del valore guerresco e nell'onorare i caduti per la Patria. E che dire delle capacità galvanizzatrici di Napoleone e Garibaldi? La morte sul campo di battaglia è stata almeno in parte nobililata dal concetto di dovere, che ha un valore altamente educativo per il popolo, nel quale infonde rispetto di sé, spirito di abnegazione, sentimenti di mutua assistenza, disciplina, i cardini insomma della vita sociale_ In definitiva, l'intimo convincimento della elevatezza del proprio mandato, la fede devota alle istituzioni nazionali ecc. sono le sole forze morali nelle quali un esercito può trovare l'impulso e la forza di resistenza che gli sono necessari nei momenti supremi. Il Sala dimostra molto bene anche che il Ferrero confonde spirito militare e militarismo. Il militarismo è la perversione dello spirito militare, perché significa sopraffazione delle altre classi da parte della casta militare, mentre lo spirito militare corrisponde - fin che la guerra non sarà sparita - alla necessità della difesa esterna e interna, disciplinata dalle leggi ed esercitata come le altre Istituzioni nel pubblico interesse. Tra il vero concetto di spirito militare e le violenze, gli arbitri, le corruttele militaresche che il Ferrero descrive vi è un abisso, che con la confusione che egli fa sparisce. Da tale confusione ne deriva un'altra ben più funesta, che è il nocciolo del libro e "consiste nel ritenere che la verificazione storica di quelle infamie militaresche, di tempi andati e di luoghi barbari, sia un argomento decisivo per l'abolizione degli eserciti nei paesi civili". Per il Sala, dimostra l'infondatezza delle tesi del Ferrero anche l' esempio della Svizzera e della Germania, che il Ranzi non cita. La Svizze-


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ra, le cui virtù casalinghe e borghesi sono ogni giorno contrapposte dai nemici degli eserciti permanenti "ai vizi fastosi degli Imperi militari", ha conquistato l'indipendenza con le anni. Per secoli gli svizzeri sono stati mercenari; ma anche al momento essi coltivano l'amore per le armi "con riti militareschi che possono far sorridere lo scetticismo latino, ma che al popolo svizzero sono profondamente cari". Un altro esempio è proprio la Germania, dove secondo il Ferrero il militarismo sarebbe in decadenza. Per il Sala invece essa è un esempio della costante equivalenza tra virtù civiche e militari: infatti quel popolo, che non è afjàtto militarista, possiede in altissimo grado tutte le qualità militari: il valore, la calma, la pertinacia, lo spirito di abnegazione, il sentimento del dovere; e sì fatte virtù manifesta in un esercito che è, e sarà a lungo, il più agguerrito del mondo. Che altro prova ciò, se non che la sozzura di vizi, di impulsi perversi e di cupidigie, postavi innanzi dal Ferrero siccome essenza immutabile della guerra, non è punto condizione necessaria della grandezz.a militare di uno Stato, e che, per contro, un popolo in alto grado virtuoso e civile può mostrarsi altissimo a creare un congegno militare perfetto ?15

Il Ferrero replica al Corsi, al Sala e al Ranzi con una serie di articoli del 1898 sulla Vita internazionale e sul Secolo, nei quali esplicitamente sconfessa il fondamento storico e scientifico delle sue tesi, concordando con il Corsi che ha definito "immaturo", il suo libro, e riconoscendo che "quella teoria generale della guerra non è adeguala all'immensità del problema". Propone perciò ai suoi avversari di concentr~si sulla "parte politica", che a suo parere ha conservato piena validità, e sulla discussione delle istituzioni militari contemporanee, che è "la parte sostanziale del libro", mentre la parte storica "è solo un momento" [non è vero; è dalla storia che il Ferrero trae le sue tesi infondate sulla guerra - N.d.a.]. Ancora una volta contraddicendosi, il Ferrero afferma che la recente vittoria degli Stati Uniti sulla Spagna dimostra che uno Stato male ordinato non può possedere Istituzioni militari sane e forti, perché la forza militare di una nazione discende dalla sua forza morale; per questo un esercito con grandi tradizioni come quello spagnolo èstato sconfitto daJle forze militari improvvisate degli Stati Unili. Tesi - noi osserviamo - ancora una volta semplicistica: e il ruolo determinante della moderna flotta america-

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ivi, p. 76.


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na? e la forza economica e industriale di quella nazione? Al contrario, l'esercito americano era rimasto volontario, cosa che aveva dato luogo a diversi inconvenienti. 76 Oltre tutto viene da chiedersi; se la guerra è quella dipinta dal Ferrero, come possono gli eserciti essere anche forti, moralmente validi ecc.? Il Ferrero afferma anche che, in Italia, non può esistere un sentimento di vero patriottismo, perché vi manca un buon governo, che sappia andare incontro alle legittime esigenze del popolo: ma, anche qui sorge spontaneo l'interrogativo; il patriottismo è una tabe coltivata ad arte tra il popolo dalle classi dirigenti nel loro esclusivo interesse, oppure un sentimento valido, positivo, necessario per un popolo, le cui virtù militari, dunque rispecchiano quelle civiche? se è così, egli dà ragione al Ranzi ! Il Ranzi ha buon gioco nel contestare a sua volta l'imbarazzata difesa del Ferrero, con il citato opuscolo Critici e nemici delle Istituzioni militari ( 1899) nel quale constata che il Ferrero ha di fatto ritrattato le sue tesi e sottolinea che nel suo libro "si raccoglievano, più o meno abilmente velate da una sottil trama di geniali paradossi, le più umilianti accuse non già contro un 'astratta ji,?ura di militarismo, ma precisamente, crudamente contro le istituzioni militari, contro l'esercito, contro La divisa del soldato" e contro tutti i principì fondamentali dell'educazione militare, a cominciare dall'amor patrio e dal sentimento dell'onore: tutte idee che trovavano unico alimento in quelle argomentazioni storico - scientifiche, ora abbandonate dal Ferrero. Il Ranzi, perciò, invita il Ferrero a uscire dalle sue contraddizioni: la guerra è "organicamente in sé stessa un 'assurdità" o è stata e può essere necessaria come estrema ratio per molti popoli? come si concilia l' affermazione sull'assurdità delle guerre, con quella che loro riconosce anche un ruolo positivo, definendole "un gran fuoco centrale sotterraneo della società umana, Le cui eruzioni per tanti crateri grandi e piccini hanno agitato la storia"'! E se il Ferrero - prosegue il Ranzi - vuol dibattere i problemi delle Istituzioni militari del momento, "bisogna prima che ci intendiamo ben chiaramente su questo punto: abbiamo noi in animo di far l' analisi delle istituzioni militari, per cercare il modo migliore di indirizzarne il progresso, secondo lo spirito dei tempi e le esiienze della civiltà? oppure vogliamo tendere alla demolizione ad ogni costo di quelle istituzioni'![. .. / Nel primo caso noi faremmo opera scient~fica, nel secondo opera partigiana; nel primo caso saremmo lieti di discutere con chicchessia, lietissimi col Ferrero; nel secondo caso, diviene per lo meno dubbia l'utilità e la convenienza di tenergli bordone in così strano cammino".

1•

Cfr. Arthur T. Mahan, Lezioni della guerra ispano • americana ( 1899). Spezia. Zappa 1900.


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Il Ferrero, perciò, deve una buona volta chiarire qual è 1'esatto significato della mal definita espressione militarismo: se con essa vuol indicare ciò che gli sembra eccessivo nella preparazione militare del Paese, "allora dovrebbe prima definirci, con tutta chiarezza e precisione, quale, secondo lui, dovrebbe essere l'esatta misura, in ordine ai fini che oggi sono prefissi ad una buona milizia nazionale". Intanto, una cosa è certa: che il fine del libro Il Militarismo "non è di correggere, cioè di migliorare; ma di deprimere e di demolire". Lo dimostra anche quanto scrive su Adua; una critica infondata e demolitrice, che con i suoi "desolanti apprezz.amenti" offende non tanto l'esercito, ma l'intera nazione. Se si desse retta alle sue accuse e alla sua diagnosi sulla viltà del popolo italiano, verrebbe meno ogni speranza di costituire un esercito nazionale efficiente, quindi la sua critica è solo distruttiva. La ferita che il Fcrrero ha inferto al corpo dell 'esercito è evidentemente profonda, e fa male per un certo tempo. A distanza di due anni dalla polemica tra il Ferrero e i suoi avversari esce un altro lihro dovuto anch'esso a un vecchio ufficiale in ritiro, F. Brancaccio di Carpino. 77 Naturalmente anche il Brancaccio intende dimostrare quanto velenosi siano i principi tendenti a distruggere lo spirito militare; quanto fatale sarebbe all'Italia se il suo esercito sol/osta.ue alle trasfonnazioni ideate dagli innovatori, o, per meglio dire, distruttori di questo fine secolo; e quanto orribile cosa sia insinuare massime che mirano ad aumentare quegli ideali che hanno costituito, costituiscono e costituiranno sempre il decoro, l'orgoglio e la grandezz.a delle nazioni.

Il Brancaccio vola più basso del Ranzi e del Sala; ma non per questo si può dire che le sue argomentazioni siano meno efficaci, anzi in certi punti almeno, dà un suo contributo originale per discernere utopie e speranze dalla realtà, e per impostare su basi solide la ricerca della miglior formula militare per l'Italia. Le sue considerazioni sulla guerra poco aggiungono a quelle degli altri autori. Discutibile la sua tesi che "un largo salasso, fatto di tempo in tempo, giova alla pletora delle popolazioni crescenti" e che i " lunghi anni di pace infiacchiscono gli uomini moralmente e fisicamente", come ben sa l'Italia rimasta sotto dominio straniero nei 142 anni di pace dal trattato di Cateau - Carnbresis (1559) alla guerra di secessione di Spagna ( 170 I). 77 Cfr. F. Brancaccio di Carpino, i l militarismo di Guglielmo Fe rrero giudicato da un vecchio soldatu. Napoli, R. Marghieri di Giuseppe 1900.


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Ciò non significa, comunque, che il Brancaccio non ami la pace: semplicemente afferma che, in attesa che la guerra sparisca, bisogna prepararsi a farla se dovesse essere necessario. Infatti la storia dimostra che non può allignare civiltà ove lo spirito militare langue; né puossi chiamare popolo civile quello che rifugge dalle armi. L'odio per le istituzioni militari è se,:no di corruzione e non di civiltà; la corruzione è madre della vi,:liaccheria, e questa trascina le Nazioni alla decadenza, da cui ne deriva inevitabilmente la schiavitù. Polk, presidente degli Stati Uniti nel 1848, inneggiava al valore dei suoi cittadini soldati per così mantenerne vivo lo spirito militare. Anche gli Americani dunque, citati dal Ferrero come privi di spirito militare, hanno sentito e sentono il bisogno di tenerlo vivo; non c'è che i cosiddetti restauratori della civiltà moderna capaci di fare l'infausta propaganda al fine di spegnerlo in Italia. 78

Di per sé il commercio, l'industria, l'agricoltura non hanno mai reso una nazione grande, temuta e rispettata. I Fenici, ottimi commercianti ma privi di spirito c forza militare, sono caduti sotto il dominio di altri popoli. Venezia ha conquistalo e conservato le sue ricchezze grazie alla forza delle armi; venuta meno quest'ultima, con il trattato di Campoformio è stata condannata alla miseria e alla schiavitù. Al momento l'Inghilterra, commerciante per eccellenza, protegge i suoi traffici e le sue colonie con una formidabile flotta e con un esercito disciplinato e forte. Il punto centrale dell'opera del Brancaccio è la difesa dell 'esercito permanente e dell'educazione militare che vi viene impartita, contro il preteso modello americano sostenuto dal Ferrero e contro il mito della guerra di secessione. Per lui gli eserciti raccogliticci, quali erano quelli americani delJa guerra di secessione, nel corso di una lunga guerra diventano più addestrati ed efficienti, ma è difficile ottenere da loro quella disciplina, che è la forza degli eserciti permanenti. In America non sono mai esistiti eserciti stanziali, quindi tutti si sono trovati nelle stesse condizioni; ma in Europa, dove tutte le principali Nazioni hanno eserciti stanziali, se una di esse adottasse il modello americano di nazione armata sarebbe sopraffatta dalle altre. D'altro canto un esercito permanente e ben disciplinato sul tipo di quelli europei "non sarebbe capace di commettere gli atti selvaggi che

TI<

ivi, pp. 92 - 93.


Xll - L' ESERCITO TRA ANTIMILITARISMO E "MODC:RNISMO Mll.ITARE'"

Lill

commisero gli Americani nella guerra di secessione", né si capisce perché iJ Ferrero benevolmente giudichi un'inerzia i due miliardi di danni provocati dal generale americano Sherman nella sua marcia attraverso la Georgia, che - sempre a parere del Ferrero - sarebbero stati molti di più se gli Stati del Nord avessero portato nel conflitto lo spirito di sopraffazione e rapina. Ciononostante, il Ferrero e gli innovatori " vorrebbero modellare il nostro esercito su quelli americani [della guerra di secessione1, i quali sono presso a poco la copia delle bande armate del Medio Evo, dimenticando che gli eserciti permanenti furono creati appunto per dùfarsi delle bande medioevali che avevano fatto cattivissima prova", e che con le loro devastazioni "facevano quello che gli eserciti americani fecero nella guerra di secessione ". Dopo questo duro giudizio, esagerato in senso contrario rispetto a quello - idilliaco - del Ferrero, iJ Brancaccio critica con pari acribia la formula americana dell'esercito professionale volontario: la guerra che si è fatta nelle Filippine !nel 1898 contro la Spagna N.d.a.] dai volontari americani, ci ha rivelato la loro poca solidità e ci ha fallo conoscere quanto poco valgono gli ordinamenti mi/ilari degli Stati Uniti. Questi ordinamenti tanto decantati, che secondo i nostri illustri sociologi, racchiudevano la formula militare democratica del['avvenire, oramai sono sfatati e hanno fatto un tonfo. Il Ministro della guerra americano per reclutare i nuovi reggimenti - cosa non facile a farsi - è stato costretto a ricorrere agli ufficiali dell'esercito permanente [ ... ]. In seguito a questi fatti, gli Americani stessi hanno riconosciuto La necessità di cambiare il loro sistema. 79

A suo giudizio gli innovatori sono tutti d 'accordo nell 'abolire l'esercito permanente, ma sono divisi quando si tratta di costituirne uno nuovo. Vi è chi propone di adottare il sistema americano, chi vorrebbe un esercito di élite (cl.asse eletta e ristretta) come propone Gaetano Mosca, e chi vorrebbe la nazione armata. l fautori dei primi due sistemi possono essere in buona fede; non si può dire altrettanto di quelli dell ' ultimo, "perché la nazione armata esiste di fatto; essa è immedesimata nell'esercito, ed è sottoposta all'ordine e alla disciplina; ma è appunto l'ordine e la disciplina che non garbano ai distruttori di questa fin di secolo". Senza ordine e senza disciplina la nazione armata diventerebbe come la Guardia Nazionale,

79

ivi, pp. 116 - 117.


11. PliNSJERO MlUTARE E NAVALE ITALIANO- VOL. JlJ ( 1870~1915) mMO I

che in passato si è dimostrata incapace di compiere anche servizi interni di guardia (e qui il Brancaccio cita alcuni gustosi episodi avvenuti a Napoli, che dimostrano l'inaffidabilità militare di tale Guardia). La campagna contro la guerra è un falso obiettivo, per mascherare l' intento di distruggere gli ordinamenti militari. 11 disarmo non è possibile, perché le situazioni dei vari popoli sono differenti e gli armamenti non potranno mai essere allo stesso livello. Nemmeno la fratellanza tra i popoli può essere realizzata; il più bell'esempio di fratellanza è proprio la società militare. La concordia è difficile da mantenere in famiglia, tra le famiglie, nei Comuni, nelle Province, tra le regioni di una stessa nazione, e ovunque prevalgono interessi individuali e particolaristici: stando così le cose, come si può ottenere la concordia tra i vari Stati? Anche le alleanze tra Stati durano tino a quando vi è convergenza di interessi. Stando così le cose, "gli uomini onesti

dei vari partiti esistenti in Jtalia, invece di pensare ad affratellare tutti i popoli, farebbero opera molto più savia e molto più onesta se rivolgessero le loro cure a consolidare l'affratellamento tra gli italiant', visto che, al di là dell' unità politica, mancano ancora l'unità di sentimenti e la fratellanza reale, vera e profonda tra le varie regioni italiane. Segue la difesa dell ' esercito italiano, del suo sistema di reclutamento, del suo ruolo insostituibile, delJ ' utilità dell'educazione militare. Custoza, Lissa, Adua onorano il valore italiano; invece il Ferrero ne trae spunto solo per ingiuste e infondate accuse, fino a tacciare il popolo italiano di viltà. In particolare il Brancaccio dedica ad Adua parecchie pagine, che smentiscono le accuse del Ferrero. Il sistema di reclutamento italiano, basato sulla leva come quello dei principali eserciti del continente, diffonde lo spirito militare in tutta la nazione ed educa i cittadini. E' perciò migliore di quelJo inglese, pe rché recluta i cittadini in forza di una legge, mentre l'esercito inglese recluta i suoi soldati nelle beuole, lasciando solo in apparenza ai cittadini la scelta se arruolarsi o meno; comunque, è un fatto che anche quello inglese è un esercito permanente a lunga ferma. Il Ferrero - prosegue il Brancaccio - dimentica ad arte di parlare del sistema di reclutamento italiano. In Italia il soldato viene educato "ai sentimenti dell'onore, del coraggio accoppiato alla moderazione, dell'onestà, del dovere e della patria". Questi sentimenti gli sono inculcati senza atterrirlo con la minaccia delle pene, facendogli anzi intendere che non per evitare le punizioni, ma per intimo convincimento derivante da un elevato spirito militare e patriottico egli deve compiere il proprio dovere. Invece il Ferrcro nasconde questa verità e afferma il contrario, insinuando il disprezzo contro l'educazione di caserma. L' educazione militare invece (meglio chiamarla così) "è la più morale, la più sobria, la più utile che si possa dare a un popolo sia


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nelle alte che nelle infime classi sociali". Essa educa i giovani alla scuola del dovere, dell'onore, dell'abnegazione e della disciplina. Chi è stato buon soldato sarà anche buon cittadino, perché i principi dell ' ordine e del dovere, il rispetto delle leggi sono indispensabili in ogni professione. E' stata la mancanza di una vera scuola militare a fare sì che l'Italia sia rimasta per secoli sotto il dominio straniero. I nemici dell'esercito chiamano questa scuola barbara e incivile, e vorrebbero sostituirla con una nuova scuola, che sarebbe "quella di menare una vita molle, effeminata e corrotta; non mpirare che alle comodità e al beato vivere; inneggiare la viltà, e abbassare il valore; rinunziare, insomma, a tutti gli ideali che innalzano l'uomo al di sopra delle bestie". TI Brancaccio conclude perciò associandosi al Ranzi nel chiedere agli italiani di circondare di stima e di ogni cura l'esercito. Oggi (2005) si legge su un importante quotidiano nazionale: "perché la maggioranza degli europei non voleva la guerra faJL'IraqJ? Rfaposta: perché la ritiene un metodo anacronistico di affrontare i problemi del mondo[ ... ]. Perché abbiamo sviluppato una repulsione di massa cont,v la guerra modema". 80 Risulta evidente, dunque, l'attualità - c anche l'età - dei problemi della guerra, della pace e del ruolo delle nostre Istituzioni militari, problemi complessi che molti ritengono tipici della nostra epoca, quando invece sono dibattuti già a fine secolo XIX. Le contrapposizioni di aJlora sono tuttora ben vive, senza che siano emerse verità assolute e soluzioni definitive. Accanto all'amore per la pace e alla ricerca della solidarietà tra i popoli, dovrebbe comunque prevalere un giusto concetto del ruolo delle Istituzioni militari, insostituibile anche a distanza di oltre un secolo dalla polemica qui esaminata.

SEZIONE IV - Da fine secolo XIX alla grande guerra: la nuova sfida interna del "modernismo militare" e l'educazione del soldato

Nascita, diffusione, degenerazione e tramonto del "modernismo militare" del capitano Ranzi 11 cosidetto "modernismo militare", movimento di opinione interno

80 Beppe Severgnini. Lii democrazia divisa dall'idea delle anni. in "Corriere della Sera" del 3 aprile 2003.


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all 'esercito facente capo al già citato capitano Ranzi,8 1 è il fenomeno saliente di un periodo nel quale, proprio alla vigilia dell'impegno totale della guerra, l'esercito incontra la massima crisi anche morale. Scrittore militare di rara qualità, seguace dichiarato del Marselli che cita frequentemente e con ammirazione nei suoi scritti, il Ranzi ha l'ambizioso ma pericoloso obiettivo di promuovere dall' interno un dibattito per il rinnovamento dell'esercito e l'eliminazione dei suoi più conclamati difetti, in pari tempo impostando un nuovo e più corretto rapporto con la società, della quale l' esercito è l'emanazione. Fonda nel 1896 il periodico Armi e Progresso - Rivista Militare Sociale, e nel l 903 Il Pensiero militare. Due riviste senza dubbio interessanti e anticonformiste che dicono molto sull' esercito del tempo e corrispondono, grosso modo, a due ben distinti periodi dell'attività del Ranzi. Nel primo periodo, dal 1896 al 1903, il pensiero del Ranzi ha senza dubbio molti lati positivi e un'elevata valenza teorica, che lo rendono almeno all' inizio ben accetto ali' establishment militare, anche per l'efficace difesa dei valori militari da lui compiuta in polemica con il Ferrero. Nel secondo periodo, invece, gli scritti del Ranzi sul Pensiero militare tralasciano alquanto gli argomenti di carattere teorico, si volgono al quotidiano militare, diventano di parte, si volgono anche alla politica, esasperano i concetti e degenerano in polemiche quotidiane con lo Stato Maggiore e gli alti gradi, provocando il suo allontanamento dall'esercito. Si occupa anche, con atteggiamenti e iniziative parasindacali in contrasto con la disciplina, della difesa degli interessi degli ufficiali di grado inferiore e in particolare dei subalterni di fanteria, invero ingiustamente penalizzati nell 'avanzamento e nel trattamento economjco e morale. Coltiva ambizioni politiche peraltro rimaste senza successo, seguendo giornalmente l'attività del Ministero della guerra e approvando o criticando nomine di Ministri e singoli provvedimenti. Un ingegno così versatile, una penna così feconda e brillante non hanno così dato tutto ciò che avrebbero potuto dare per ben impostare quelle sane riforme, delle quali tutti al tempo sentivano la necessità. Ciò non toglie che buona parte dei suoi scritti risultano ancor oggi tutt'altro che sorpassati, specie là ove tratteggia con mano magistrale un corretto rapporto tra esercito e società e combatte pregiudizi antimilitari da una parte, e chiusure corporative e conservatrici dall'altra. Buona parte dei suoi scritti

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Sulla figura e l'opera di Fabio Ranzi Cfr. Antonino Di Giorgio, /I caso Ranzi e il modernismo nell 'esercito, Firenze, Bemporad 1908; Eugenio De Rossi, La vita di un ufficiale italiano fino alla guerra (cit.), pp. 181 - 182; Pelice Dc Chaurand de Saint Eustachc, Come l'esercito italiano entrò in guerra (Cit.), pp. 167 - 171; Ferruccio Botti, L'arte militare del 2()()() (Cit.), pp. 249 - 261 .


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hanno carattere sociologico; egli è anzi il primo in Italia - e fors'anche in Europa - a introdurre e definire il termine sociologia militare, fatto ignorato dai sociologi militari italiani di oggi che riallacciano le origini di questa "nuova" branca delle scienze sociali al pensiero americano della seconda guerra mondiale, quando il piccolo esercito volontario degli Stati Uniti si trasforma in brevissimo tempo in un grande esercito di cittadini soldati, del quale si indagano le motivazioni morali, il legame con la società, lo spirito combattivo. L' opera del Ranzi inizia nel gennaio 1896 (cioè tre mesi prima del grave trauma di Adua) con un lungo saggio sul primo numero del nuovo periodico Armi e progresso, nel quale tratta dello ".!ipirito moderno delle istituzioni militari" ed enuncia un programma chiaramente ispirato alle idee del Marse11i: / ° Compiere il rinnovamento delle idee e delle istituzioni militari - 1:ià felicemente iniziato - alla stregua delle nuove esigenze dello spirito moderno_ 2° Elevare la cultura degli ufficiali, affinchè questa classe ascenda sempre meglio all'altezza del suo compito sociale. 3° Presentare al Paese L'Esercito sotto la nuova luce, onde lo irradia la moderna civiltà, affinchè si compia, al culto d'un ideale comune, il congiungimento dell'anima dell'Esercito con L'anima della Nazione.si

Lo studio si apre con una citazione di Carlo Corsi, eminente storico e scrittore militare, secondo il qual bisogna "mettersi a petto a petto col socialismo, che non è un vano spauracchio, né un mostro infernale" e che, se si guarda bene, "vi si scorge quel che v 'è di ragionevole, di necessario, di buono, da dover tenerne conto pel presente e l 'avvenire"_ Segue una citazione della Vila del reggimento del Marselli, e un' altra della Tntmduzione allo studio dell'arte militare del Ricci, secondo il quale "un Capo non può creare il principio d'a zione del soldato poiché questo lo po,ta in sé stesso,- ciò che egli può fare è di persuadere, è di dirige re, è di trascinare; ecco la differenza che passa fra l'autorità che è il motore morale e la forza che è il motore fisico"_ Per il Ranzi, nella nuova realtà politico-sociale lo spirito militare deve identificarsi con lo spirito nazionale, traendo da quest' ultimo i nuovi

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Cfr. Ranzi, Lo spirito modemn delle istituzioni militari, Roma, Tip. della Pace di F. Cuggioni 1896.


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concetti di diritto, di autorità, di libertà, di disciplina sociale e apportandovi solo le restrizioni richieste da specifiche e ben definite esigenze dello stato militare; per il resto, "è sacro anche pel militare il godimento intero di ciò che è patrimonio civile di qualsiasi citJadino". Si impone una nuova pratica disciplinare fondata sulla persua<;ione. La classe degli ufficiali "ascende a classe dirigente per eccellenza", perchè, oltre che gli strali popolari, deve educare le future classi dirigenti, cioè gli ufficiali di complemento. Ma non può fare questo, senza rendersi conto delle nuove aspirazioni che agitano le masse; "oggi non è più permesso chiamar sovversiva l'idea propugnatrice di nuova equità sociale, poichè - quasi promessa di buona novella - essa viene bandita a gara dal trono e dall 'altare, dalla cattedra e dall'antù:attedra"; si deve piuttosto studiare seriamente il fenomeno, in modo da coglierne anche i lati meno sani. Premesso che lo spirito nazionale è la prima fonte dell'educazione militare, tale particolare tipo di educazione si riassume nella capacità di distinguere, nello spirito nazionale, ciò che "contribuisce a illuminare i nostri ideali", a tener salda la disciplina, e ciò che invece sarebbe dannoso alla disciplina stessa. Ne consegue la necessità di una nuova scienza, la sociologia militare: e nella stessa guisa che una sociologia, come scienza positiva dei feno meni sociali, non potè sorgere a dignità di scienza se non quando quei fenomeni poterono compiersi ed essere spiegati liberamente fuori dalle pastoie imposte in nome di vantati diritti ultrasociali, così può sorgere una sociologia militare soltanto oggi che la vita dell'esercito è affrancata anch'essa da ogni costrizione, che non sia nella natura della sua esistenza e dei fini sociali cui è destinato[. .. }. In altri termini poichè La vita militare, oggi, si manifesta come una specializzazione della convivenza sociale, così la sociologia militare, ossia lo studio sociologico dell'esercito, diviene uno speciale aspetto di quella scienza che ha appunto officio di studiare nell'organismo sociale il differenziamento delle parti e la specializzazione delle funzioni.

TI Ranzi non si limita a definire la sociologia militare: nel 1897 annuncia di voler dedicare a questa nuova disciplina un'opera, che peraltro non vede mai la luce. 83 Un'opera che ha intenti difensivi, perchè fino a

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Ranzi, Il socialismo e la guerra - una pagina di sociologia militare, in "Anni e Progresso" Anno Il Voi. in. I - giugno 1897, pp. 5 - 18.


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quel momento gli studi di sociologia militare sono stati piuttosto rivolti contro l'Istituzione militare: in nome della sociologia si condanna il culto della nostra fede, si irride alla poesia de' nostri ideali, si tenta di inaridire le fonti d'ogni alta e nobile ispirazione, si tende insomma a distruggere ogni ragione per cui sia oggi, come sempre, al vertice di tutti i doveri civili, dare il sangue e la vita per il bene di tutti, sacrificarsi per l 'onore della Patria. E così [...] una molto celebrata sociolo,?ia modema giunge alla conclusione che gli eserciti sono scuola di delinquenza, sono il vile strumento di un vile gioco di interessi. [ ... ] Restare indifferenti non è più possibile.[ ... ] In nome di una scienza nova si stanno maturando le più.fiere, ingegnose, immeritate accuse contro di noi, e noi domandiamo alla nova scienza gli argomenti per difenderci con le stesse armi onde siamo a/taccati_

Ricorrendo alla sociologia il Ranzi combatte anzitutto il concetto socialista di guerra, che la giudica conseguenza degli antagonismi econo mici - generati dal modo di produzione - fra le classi dominanti, miranti aJ aumentare i loro profitti con la conquista di nuovi sbocchi commerciali. Ammette che la guerra è un flagello e che (come ha affermato di recente anche il Pelloux) la spesa per gli armamenti dei vari Stati è eccessiva e andrebbe meglio impiegata; ma al tempo stesso nega che possa essere marxianamente attribuita solo a cause economiche, che comportano necessariamente lo sfruttamento delle classi lavoratrici: i socialisti considerando la guerra incorrono - se in buona fede - in un grosso equivoco. Essi considerano la guerra come una turpe causa di mali sociali, mentre invece la guerra è semplicemente un fenomeno sociale. ossia una delle tante manifestazioni prodotte - per ora necessariamente - dall'umana convivenza. E ' un risultato del modo che le dive rse società umane, o se meglio piace Le varie società politiche, sono organizzate all'interno, e più ancora del modo come sono stabilite, o come si svolgono anche senza essere stabilite, Le relazioni fra le varie società politiche, ossia le relazioni internazionali. E quindi non sappiamo comprendere come si p ossa considerare in astratto il fenomeno guerra e attribuirle tanta copia di mali senza riconoscere che la guerra stessa è un effetto, non è una causa; non è la guerra che produce uno stato sociale ma uno stato sociale che produce la guerra.


IL PliNSlERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. JII ( 1870- 1915) - TOMO I _ __

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D' altro canlo - ricorda anche il Ranzi - il Ferrero ammette, contraddittoriamente, che per molti secoli ancora l'Europa avrà bisogno di soldati, perchè "terribili inimicizie contro la civiltà europeo-americana sonnecchiano in Asia e Africa"; e che i Paesi democratici e liberi "se sono da qualche crisi sociale trascinati in guerra, ne escono più forti e sani di prima". Inoltre non è vero ciò che il Ferrero, con sinistra compiacenza, dice della battaglia di Adua, che cioè le truppe italiane sono scappate; e non è nemmeno vero che, in una eventuale guerra, i nostri soldati non si batterebbero perchè sono vili. Da tali contraddizioni, e dall'impostazione generale delle tesi del Ferrero, il Ranzi deduce che è falso che le guerre del passato siano state solo frutto di ignominie per l' umanità, è falso che le guerre dell'avvenire siano solo un fantasma nazionale agilato dai militari ed è inaccettabile l'affermazione che gli italiani, essendo vili, per il futuro dovrebbero evitare di combattere delle guerre. Tn realtà, per il Ranzi non vale nemmeno la pena di discutere col Ferrero: le sue teorie e interpretazioni storiche mirano non tanto a migliorare l'istituzione militare, ma a demolirla: è questo il chiaro intento che traspare dall'opera Il Militarismo. Solo con la pratica realizzazione della fratellanza universale - finora solo auspicata - la guerra sparirebbe: ma questa è una trasformazione che gli stessi socialisti non sanno fare, e non hanno neppure la speranza di compiere; "e allora lasciateci, di grazia, pensare che cosa sia realmente oggi la guerra". E' un atto di protezione della prosperità economica e del patrimonio morale di una nazione, che se non è facilmente misurabile in cifre, ha conseguenze materiali tangibili per tutti. Né è vero che essa va a vantaggio delle classi dominanti: comporta distruzioni di capitali, ristagno di lavoro e commercio, caduta di profitti ecc. che danneggiano soprattutto le classi abbienti. La classe lavoratrice può perdervi anche il pane, ma non è colpa della guerra se essa non realizza la giustizia distributiva, anche se tende piuttosto ad attenuare i più stridenti contrasti sociali. Se la guerra è un fenomeno generato dallo stato sociale, non è vero afferma il Ranzi - che l' esercito è "una società artificiale", per la quale non valgono i princìpi della società civile. Nessun diverso principio è stalo introdotto nell'esercito, perchè esso corrisponde alla più naturale delle necessità sociali, quella della difesa. Se da esso venissero banditi i princìpi della società civile, lo priveremmo delle fondamenta, e abbandoneremmo all'arbitrio la cura di un organismo, che deve raccogliere tutte le energie nazionali e deve esprimere le più alte manifestazioni della coscienza nazionale. Né può essere accettata l'affermazione che l'esercito è un servizio pubblico come gli altri, per il quale i depositari del potere devono stabilire norme che abbiano come unico scopo di ottenerne il massimo ren-


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dimento: norme che vanno accettate, non discusse, dai cittadini quando scelgono liberamente la professione militare. Il Ranzi obietta che con quest'ultima affermazione, troppo autoritaria, viene negato all'esercito "ogni carattere di spontaneità sociale": l' esercito non è un servizio pubblico come gli altri, perchè nasce da una necessità generale, alla quale corrisponde un obbligo esteso a tutti i cittadini Non serve a gestire questo o quel ramo dell'amministrazione dello Stato, ma a garantire beni supremi come la sicurezza e l'onore nazionale; "e poichè su tutti egualmente pesano gli obblighi, a tutti egualmente competono i diritti derivanti dalla miglior costituzione dello strumento militare". I fini ai quali è destinato l'esercito, perciò, "trascendono di lor natura non solo la responsabilità personale di un Ministro, ma altresì l'ambito di qualsiasi potere, poichè han radice nella coscienza stessa del 'popolo che sifa esercito"'. Accanto alla sociologia militare è necessario un diritto militare, che contemperi la necessità di evitare che "una troppo estesa sottomissione" soffochi nel militare le migliori energie morali, insieme con quella di fare sì che, dati i fini dell'esercito e le modalità per conseguirli, ''ad ogni momento la somma di tutte le volnntà siano racrolte nelle mani di uno solo e mosse da un solo comando". Compromesso difficile da raggiungere, ma non impossibile: basta tener presente che "tutto può essere comandato quando si reputa indispensabile al conseguimento dei fini militari; nulla, quando non sia assolutamente necessario". Tmilitari, e in particolare quelli di grado più elevato, devono identificare la propria volontà con gli scopi da raggiungere: "in una parola è necessario che tutta intiera la vita militare sia e~pressione non già del lasciarsi comandare ma del voler obbedire". Il Ranzi ammette che questi princìpi (che anche al lettore di un secolo dopo sembrano assai difficili da calare nella realtà dei reparti) corrono il pericolo di creare malintesi, ma nega che possano compromettere il principio deU 'obbedienza:

taluno ci ha attribuito il pensiero che noi volessinw introdurre nella vita militare un elemento inesauribile di discussione, così che non fosse possibile oflenere obbedienza senza prima discutere intorrw alla più o meno imprescindibile necessità d'una esigenza militare. Dissipiamo gli equivoci: noi non solo non vagheggiamo un regime di disciplina alla mercé della discussione quotidiana, ma, al contrario, ci muove appunto il desiderio di porre La pratica disciplinare fuor di qualunque possibile discussione. Noi, come già scrivemmo altra volta, "se vogliamo che anche in materia di disciplina militare l'ambito dell'autorità si riduca


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nei più ristretti limiti possibili, ciò vogliamo appunto perchè in quel ridotto le basi della disciplina posino incrollabili e la pratica ne emani inesorabile".

Insieme con l'autorità trascendente i limiti della ragione umana, è ormai passato il tempo dei princìpi indiscutibili; adeguarsi ai tempi non è per l'Istituzione militare una scelta, ma una necessità. "Neanche la legge militare può sottrarsi alla discussione e alla critica, ma deve anche essa nutrirsi del pensiero di tutti gli interessati; il sentimento del dovere, oggi, non può impedire l'analisi sul diritto di comandare e sui limiti del comando". Sull'altro piatto della bilancia, rimane indispensabile che la prassi disciplinare escluda qualsiasi discussione ritardatrice. Queste due esigenze contrapposte possono essere conciliate con il seguente principio: "ampia libertà di discussione in quanto si riferisce alla formazione della legge, alla definizione della norma disciplinare; obbedienza risoluta e precisa alle norme sancite, agli ordini emanati''. l Quadri devono perciò bandire, secondo il Ranzi, la tendenza (dovuta a una malintesa concessione allo spirito dei tempi) ad essere meno rigidi nell'esigere dai dipendenti il rispetto assoluto delle norme, per poi diffidare delle libere manifestazioni del pensiero per timore di troppo rigide innovazioni: " così abbiamo il regno delle mezze idee e delle mezze misure, le quali ci portano alla somma di due mali: la legge avvizzisce, mentre la disciplina decade". TI Ranzi affronta, infine, la ve.xata quaestio della concreta applicazione dei nuovi princìpi democratici alla vita dell'Istituzione militare. Una vera democrazia politica - egli precisa - deve concretamente tradurre in atto la sovranità e partecipazione popolare, senza degenerare in "mera astrazione metafisica" o, peggio, in subdolo mezzo per assicurare il potere "ai più facinorosi e ai più cospicui detentori dei mezzi di corruzione". Per fare questo, è indispensabile che la società esprima delle élites moralmente e intellettualmente all'altezza dei loro compiti direttivi. Il vero principio dell'eguaglianza che ne deriva consiste nella pari dignità di tutti i cittadini e nella loro eguaglianza di fronte a leggi che esprimono veramente la volontà di tutti, e nel proporzionare le inevitabili diseguaglianze a seconda del grado e dell'importanza della funzione sociale che ciascuno rappresenta, esclusivamente in base alle sue capacità. In tal modo una democrazia si caratterizza esclusivamente per "il rispetto profondo al principio e al fun zionamento dell'autorità, necessità imperiosa delle gerarchie, designate dalle virtù dell'intelletto e dell'animo". Questi princìpi, egli osserva, valgono anche per la vita militare, dove l'autorità deve essere rigorosamente distribuita a seconda dei vari gradi di


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attitudine e di capacità, e dove la gloria o la rovina della Patria dipendono dalle doli della leadership: quindi le norme, che preparano la gerarchia militare, devono mirare rigorosamente a questo fine, senza pregiudizi di classe o altro. Tale obiettivo può essere raggiunto solo con un nuovo Corpus iuris che renda possibile il rinnovamento applicando moderni princìpi, perchè al momento esistono solo "poche leggi, varie di età e di estensione, sommerse, soffocate talvolta da una congerie immane di regolamenti, di istruzioni, di decreti, che spesso tentano invano di mantenere in vita pezzi di codici che cadono a brandelli". Ma la parola scritta non basta; per tradursi nella realtà, deve trovare una conveniente educazione e predisposizione degli animi, grazie a un'opera continua nella quale, secondo il Ranzi, si identifica il ruolo del suo nuovo periodico. La Rivista Militare Italiana accoglie i primi scritti del Ranzi favorevolmente, osservando che "ha un posto ben designato", perchè "anche in altri paesi, conforma varia, pullula questo desiderio di comprendere nettamente quali siano le condizioni reciproche dell 'esercito e della società".84 Va apprezzato in particolar modo, secondo la rivista, il suo tentativo di discernere le correnti d'idee positive e negative che salgono dalla società all'esercito arginando qucst'ultimc, e combattendo le tendenze interne che si oppongono al rinnovamento. Anche il generale Alberto Cerruti, comandante della Scuola di Guerra, gli scrive che "sarebbe utilissimo per l'Esercito che la sua Rivista fosse molto letta dai borghesi". In un altro saggio, Modernità militare,85 il Ranzi torna sul probl ema dell 'educazione nazionale, per il quale la scuola non è preparata, mentre il popolo non ha ancora ben compreso il ruolo dell'esercito. Ciò dimostra che "non si può né in un giorno, né in un lustro, né forse in un secolo f ormare lo spirito di questo popolo, onde acquisti coscienza di tul/.i gli uffici che in virtù della sua dignità nova gli sono conferiti". Un esercito nazionale moderno, per il Ranzi, si caratterizza per tre aspetti: assorbe tutte le risorse materiali e morali di un popolo, è composto, senza privilegi, da tutte le classi sociali, e, di conseguenza, ha relazioni gerarchiche e disciplinari che tengono conto della sua composizione e dunque vanno impostate con nuovi criteri. E' perciò necessario che la scienza militare si diffonda anche all'esterno dell'esercito: sarebbe un assurdo se a un così forte ampliamento delle Istituzioni militari non corrispondesse nel Paese la diffusione delle idee e dei sentimenti militari.

.. In "Rivista Militare Italiana" Anno XLI Voi. Il Disp. VU - I aprile 1896, pp. 549 - 550. 85 Estratto da " Rivista Politica e Letteraria" novemhrc I 897, Roma, Sta h. Tip. " Trihun11" 1897. O


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A tal fine propone che vengano istituite nelle Università cattedre di scienze militari, con il compito di "insegnare i doveri che rispetto all'Esercito sovrastano a una democrazia, onde una coscienza militare si venga solidamente formando nel Paese". Da una parte le classi dirigenti, secondo i] Ranzi, devono occuparsi con più serietà e competenza delle questioni militari, pera]tro bandendo ogni forma di dilettantismo e ogni pretesa di occuparsi di cose tecniche per le quali devono ascoltare con maggiore attenzione i militari ; dall 'altra, i militari stessi devono approfondire la conoscenza delle scienze socia]i e svolgere quell'azione educativa che al momento non fa la scuola, tenendo presente che bisogna sfatare un vieto ma diffuso pregiudizio, secondo il quale la disciplina e l'educazione militare deprimono le forze morali , che dovrebbero solo governare: la disciplina dell'esercito, invece, si fonda sugli stessi princìpi della disciplina sociale, che è ugualmente necessaria in una democrazia. Il Ranzi tocca, poi, tre argomenti di grande interesse, non solo a quel tempo: la questione delle risorse da destinare all'esercito, i rapporti tra esercito e politica, le cause della sconfitta di Adua del marzo 1896. Premesso che la corsa agi i armamenti in Europa sta assorbendo risorse sproporzionate rispetto alle pure esigenze di sicurezza, egli ironizza sul proliferare di studi che vorrehhero ottenere una diminuzione della spesa militare senza intaccare la nostra potenza militare, facendo notare che se si sommassero insieme le varie economie proposte, si otterrebbe un esercito a costo zero, anzi un esercito che costituirebbe un provento per lo Stato. Le spese militari vanno dimensionate prendendo come riferimento non la situazione interna, ma la situazione internazionale e gli obblighi assunti : non si può caldeggiare un programma di politica estera da grande nazione, e contemporaneamente sostenere la necessità di economie nelle spese militari; né si può fare "tagli", senza rendersi conto delle loro conseguenze sull'efficienza militare. Egli accetta l'affermazione che "l'esercito non deve immischiarsi di politica" solo se con essa si intende che i militari devono tenersi lontani da operazioni di bassa politica, manovre di partiti ecc.; ma, per il resto, si associa all'affermazione del Marselli che "la partecipazione dei militari alla vita pubblica, beninteso nei dovuti limiti, costituisce la più bella fra Le conquiste della moderna Libertà". La soluzione del delicato problema sta, perciò, in una formula che contemperi le esigenze della disciplina con i diritti del militare come cittadino, formula che peraltro risulta un pò vaga e generica: "lasciare ampia facoltà al militare di prendere parte ali'esercizio della vita pubblica fino a che ciò non comprometta la saldezza della diw:iplina militare, la dignità della divisa ,:he, non bisogna mai dimenti-


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cario, rappresenta il simbolo solenne della pubblica dignità", fermo restando che l'esercizio dei diritti politici da parte dei singoli militari può essere impedito soltanto dalla oggettiva necessità di tutelare l'esistenza del1' esercito e il suo funzionamento. Comunque riconosce che, in questo settore, la legislazione italiana è assai più liberale di quella francese, garantendo ai militari sia la possibilità di manifestare pubblicamente il loro pensiero, sia la possibilità di candidarsi alle elezioni e al Parlamento; ma tanto nel campo militare che nel campo civile - egli nota - vi è chi vorrebbe limitare tali diritti. I gradi più elevali dell'esercito temono che la libertà per i militari di esprimere le loro opinioni nuoccia alla disciplina; nel campo civile, la pretesa che il militare resti in tutto e per tutto indifferente alla vita politica e che non si occupi di politica, è un pregiudizio, un residuo dei vecchi tempi, quando l'esercito era una casta chiusa all'esclusivo servizio del sovrano. Il vero pericolo non è questo, "ma è che i politicanti si occupino dell'Esercito per ragioni di favoritismo o altro l... J di tutte Le forme, onde il parlamentarismo ammorba la vita pubblica. que lla che si riferisce all 'Esercito è certamente la più perniciosa". In merito, sorge spontanea unariflessione: se un ardore anche eccessivo nel caldeggiare opinioni politiche in coloro che vivono nei gradi inferiori della gerarchia può essere cosa censurabile, il danno che deriva da questi fatti sarà sempre un danno passeggero; mentre il danno gravissimo è L'esempio che viene dall'alto, quando si vedono altissimi offici tolti e ridonati secondo che spiri un vento [politico] favorevole o ostile. Cotesti dolorosi avvenimenti tolgono all'Esercito la fiducia che la vita milita re sia re~olata con criteri esclusivamente ispirati dal bene dell'esercito. Ecco il p ericolo grave: gli eccessi del nostro parlamentarismo attentano così in modo decisivo al .ventimento più intimo d ella disciplina militare.

I suoi accenni ai "dolorosi avvenimenti", alle alte cariche militari date e tolte esclusivamente per influenze politiche e non per meriti militari, si riferiscono specialmente alla campagna d'Eritrea e ad Adua. La sconfitta di Adua è solo una delle cause le quali fanno sì che, a suo parere, l'esercito al momento non sia circondato in ltalia - come dovrebbe avvenire - da un clima di alto rispetto, di sollecitudine affettuosa. Il pessimo trattamento economico degli ufficiali più giovani intacca il loro pane quotidiano e 1i costringe a ricorrere fin dall'inizio della carriera ai debiti, con tutti i riflessi anche morali che ne conseg uono. Gli insulli e attacchi all'esercì-


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to non sono tipici dei partiti sovversivi; vi si associa spesso anche una "larga schiera" di conservatori: ma mentre i primi sono lo,:ici, perchè, tentando di minare le istituzioni militari, tendono a sopprimere il soste,:no più valido al mantenimento di tutti gli ordini costituiti, gli altri invece rispondono a non so qual fatale destinazione, cooperando essi stessi a combattere quello spirito di conservazione, che portano in gloria nei loro vessilli. [... ] Comunque sia. è certo che ne,:li ultimi tempi le discussioni militari avvenute in Parlamento hanno avuto un significato così poco grato all'Esercito, che il morale non ha potuto non risentirne.

Sulle responsabilità della sconfitta il Ranzi non ha dubbi: fu il Paese - nessuno ha il dirillo di escludersi - il gran colpevole 1---l Il morale del/'esercito ha subito colpi fierissimi non per soverchiar di nemici, ma per l'iniiustificabile attegiiarnento che ha preso il Paese verso di lui: ci si pensi seriamente. Il capitale morale si accumula nei secoli, ma si mina.fin nelle sue basi in un momento di oblìo.

Se il Paese ha bisogno di un capro espiatorio, "scelga un Bazaine o un Napoleone qualunque, ma per carità non attenti a quella forza nazionale che sola si mostrò all'altezza della sua opera e da cui solo ora potrebbe sperare un risorgimento: non attenti all'Esercito". Questi drastici giudizi sono dal Ranzi troppo sbrigativamente giustificati con la nomina a comandante della spedizione del generale Baratieri, facendo così prevalere ragioni politiche e non le ragioni militari, e con la sua troppo tardiva sostituzione con il generale Baldissera_ In tutto questo avessimo almeno imparato a cotesta scuola del dolore che è la scuola dei popoli forti,- avessimo imparato a considerare le cose militari anzitutto con criteri d'indole militare_ ma che non avvenga che oggi, una intransigente reazione contro tutto quanto è stato finora compiuto, ci conduca ad eccessi non meno disastrosi di quelli che si sono compiuti sotto imperio di una fiducia senza fondamento, di uno spirito avventuriem senza adeguata preparazione.

Gli " eccessi" che il Ranzi teme sono quelli che si commetterebbero con un'affrettata liquidazione dell'impresa africana, di segno opposto rispetto al precedente ".spirito avventuriero senza adeguata preparazione"_


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A suo parere l'onta di Adua deve essere lavata, anche al prezzo di gravi sacrifici finanziari: ne va dell'onore non solo dell'esercito, ma della nazione. Si tratta di ricostruire subito un patrimonio morale prezioso, che è alla base di ogni futuro progresso: un esercito che ha mostrato al paese di saper compiere intero il proprio dovere non ha diritto di esigere che il paese faccia pur qualche sacrificio per consentirgli di vendicare i suoi poveri morti, i suoi mille oscenamente mutilati? j... ] Rassegnarci, per accorgimenti mercantili, ad essere definitivamente i vinti da Menelik [...] a noi sembra vi/là [ ... ]. La storia è il patrimonio intangibile d'una nazione, e la giovinezza della Patria mostra che s 'apre con le scia[?ure di Novara, di Lissa, di Custoza, non può chiudersi col triste epilogo di Amba A/agi, Makallé. Adua! Sulla nostra Bandiera l'onta africana dev 'essere ad ogni cosro ca11cellata!~6

Accanto a queste rivendicazioni del Ranzi il periodico Armi e progresso, sempre a poca distanza di tempo da A<lua, pubblica il diverso parere del vecchio generale Corsi, che in un lungo articolo, ne l quale non è certo tenero con gli "africanisti", si dichiara soslanzialim:1111.: d'accordo con coloro che non intendono cercare la rivincila, tanto che "l'idea di meltere l'Italia a pericolo di rovina in Ruropa, per tentare di farla grandeg~iare in Africa, è stata questa volta condannata a vera e viva voce di popolo".87 Le argomentazioni del Corsi non fanno cambiare idea al Ranzi, il quale afferma che, se proprio risultasse dimostrata l'imposs ibilità di un 'az ione energica in Africa, a maggior ragione si imporre bbe la necessità di studiare con ogni cura nelle condizioni intem e dell 'or{?anismo militare O[?ni mezzo morale e materiale atto a rialzare gli spiriti depressi, e a infondere moralmente negli animi quella piena fiducia nella propria forza, che è condizione indi.1pensabile perchè un <'.Vt'IÒIO possa prepararsi degnamente ad affrontare i cimenti che son nel lihm del destino.

La "disciplina di persuasione" già auspicata dal Marselli , la di fesa degli interessi dei subalterni specie di fanteria contro quelli degli alti gradi ,

"" Ranzi. Adua!. .. in "Armi e Progresso" Anno In. 2 febbra io 1896, pp. 3 5 e ID.. le 1ri..-1i l'l'rilà africane, in "Anni e Progresso" Anno In. 3 - 4 marzo - apri le 1896, pp. 5 - 23. "' Carlo Corsi, La opinione pubblica nella guerra d'Africa, in "Anni e Progresso" Amw I 11. 5 mfl?,?,in

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gli allacchi allo Stato Maggiore e all'operato dei Ministri sono, come già accennato, i tre cavalli di battaglia con i quali il Pensiero Militare del Ranzi si batte per promuovere il rinnovamento interno dell'esercito. Un'attività che gli guadagna consensi (3000 ufficiali abbonati al Pensiero Militare) ma anche una crescente ostilità dell' establishment militare e una progressiva emarginazione, perchè molle sue posizioni finiscono con il tradursi - contro le sue stesse intenzioni - in attentati alla disciplina e alla coesione dell'esercito, senza alcun riscontro positivo e con progressiva perdita dei suoi seguaci. Il concetto di "disciplina di persuasione" del Ranzi è, nella sostanza, analogo a quello del Marselli e del Fogliani, tradotto in parte nel Regolamento di disciplina 1872. 11 Ranzi lo spinge solo più in là, fino a domandarsi: che avviene se il superiore ha torto? In proposito non condivide l'opportunità di salvare ad ogni costo e con tutti i mezzi la dignità e il prestigio del grado, facendo in modo che il superiore agli occhi dell'inferiore abbia comunque ragione, anche quando ha torto, in base alla ben nota massima " il superiore ha sempre ragione, specialmente quando ha torto ".88 Per il Ranzi, al contrario, ogni qualvolta si manifesti dissidio fra La ragione del superiore e quella dell'inferiore, giova partire dalla presunzione che il superiore abbia torto, jinchè non abbia dimostralo d'aver ragione; e quando il superiore abbia torto, l'unico essenziale interesse della disciplina è di dimostrare che al di sopra dell'arbitrio del superiore v'è sempre, non soltanto la lettera e lo spirito della Legge, ma anche il principio eminente della ragione e del sentimento umano t... J. Secondo Lo spirito dei nostri tempi, il perfetto comando dovrebbe essere somma ragionevolezza, e quindi somma persuasione. Per conseguenza, in tutti quei casi in cui sorga dissidio tra il superiore e l'inferiore, lafanzione del comando ha mancato al suo fine ultimo che è di persuadere, ossia di ottenere ohhedienza per via di persuasione.

Quando il comando non ha effetto per colpa esclusiva dell'inferiore, spelta al superiore dimostrare che tale effetto - da ritenersi "anormale" - è avvenuto nonostante che il comando abbia compiuto ogni sforzo per evitarlo. Il Ranzi si rende ben conto che è difficile comandare una massa di armati con la sola forza della persuasione: "sono le anime più gagliarde, K8 Ranzi, E se il superiore ha torto? Cura e difesa contro l'antimilirarismo, in "Il Pensiero Militare" 4 aprile 1906.


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tra i gregari, che trascinano le incerte, le timide; sono i superiori in grado che con L'esempio trascinano gli inferiori". Ma questo non significa che si debba rinunciare ad ogni azione morale possibile; solo dopo aver esaurito l'opera di persuasione si può e si deve ricorrere alla repressione, che "solo allora sarà efficace, perchè solo allora sarà legittima". Viene da dire: che non si debba rinunciare ad ogni azione morale possibile è giusto, ma specie in guerra, quando per il soldato si tratta di mettere a rischio la propria vita soffocando l'istinto di autoconservazione, è così facile che l'azione morale abbia un successo, da far ritenere anormali (così li definisce il Ranzi) i casi in cui essa non sia sufficiente, e debba perciò essere accompagnata dalla coercizione, dell'effetto dissuasivo che esercitano le possibili misure disciplinari e penali nei confronti di chi non ottempera agli ordini? Il concetto non esclusivo e non autoritario di disciplina militare e obbedienza, e la permeabilità da lui riscontrata lra Istituzioni militari e civili nel 1898 portano il Ranzi a sostenere una stretta collaborazione tra esercito e scuola anche nell'educazione della gioventù, plaudendo ai recenti accordi tra il Ministro della guerra generale di San Marzano e il Ministro della pubblica istruzione Baccelli. 89 Sarebbe meglio, a suo parere, che ciascuna Istituzione svolgesse il compito da sola, e che la scuola preparasse a dovere, soprattutto dal punto di vista morale, i futuri soldati ; ma ciò non avviene, perchè di fatto l'educazione della gioventù "è stata Lasciata in balìa dei più ostinati nemici della patria italiana, dei più estremi agitatori di sconvolgimenti sociali, degli iconoclasti d'ogni specie". Per questa ragione occorre un intervento dell'esercito anche nell'educazione scolastica; il Ranzi polemizza perciò con il prof. Angelo Mosso, che pur professando tutta la sua simpatia per l'esercito, è contrario all'ingerenza dei militari nell 'educazione scolastica, pe rchè "per loro natura sono troppo conservatori". Egli obietta che i timori del Mosso vanno se mai riferiti all'esercito del passato; a] momento l'esercito per istruire le reclute applica i più moderni metodi ginnico-militari, se mai precedendo in questo la scuola; e anche la disciplina è ormai quella consapevole e di persuasione - che può benissimo essere valida anche in campo civile. Per il Ranzi un siffatto ruolo dell'esercito richiede che l'ufficiale svolga un'alta funzione sociale, resa indispensabile dallo stato morale

89 Ranzi, La disciplina militare e l'educazione nazionale, in "Armi e Progresso" Anno III n. I ~goslo 1898, pp. S - 27


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deJJa società, dove i concetti di dovere, di sacrificio, di autorità sono in rovina. 90 L'ufficiale svolgerebbe i suoi nuovi compiti sia nell'interesse dell'esercito, che della società. Le guerre vanno facendosi sempre più rare, ma la biologia insegna che quando una funzione si attenua, l'organo corrispondente si indebolisce, fino ad atrofizzarsi; quindi , se noi vogliamo che l'organismo militare non decada, "dobbiamo per necessità assoluta fare in modo che altre forme di attività sociale vadano ad avvivare la funzione militare". D'altro canto, la funzione militare in questo momento sta assorbendo, per necessità storica, una quantità di energie nazionali "veramente eccessive": di conseguenza, è un nuovo dovere sociale fare sì che "la somma di queste energie, pur corrispondendosi alla miglior preparazione dell'allo guerresco, procurino almeno in certa misura a non essere forza assolutamente passiva nella economia generale della nazione e concorrano al conseguimento dei fini sociali generali". La difesa da parte del Ranzi dei diritti e degli interessi degli ufficiali inferiori e dei sottufficiali specie di fanteria, che contrappone polemicamente alla situazione ben più favorevole dei Quadri superiori, richiederebbe una trattazione a parte.91 Essa è ben descritta dal maggiore di fanteria (poi generale) Antonino di Giorgio in un opuscolo92 nel quale, pur ammettendo i molti motivi di disagio dell'esercito, la stagnazione delle carriere dei gradi inferiori ecc., accusa il Ranzi di aver promosso agitazioni collettive tra i subalterni, in aperta violazione del Regolamento di disciplina e del Codice penale militare e con grave danno dell 'esercito, perchè "un esercito dove per qualsiasi motivo, in qualsiasi circostanza, sotto qualsiasi pretesto, siano tollerate comunque manifestazioni collettive, è un esercito votato indeprecabilmente alla dùfatta". E il Di Giorgio aggiunge che in nessun altro esercito europeo si è verificalo un fenomeno analogo a quello del modernismo del Ranzi, al quale hanno aderito ben 3000 dei 14000 ufficiali in servizio. Va ricordato che tali ufficiali erano in gran parte subalterni di fanteria; assai meno successo hanno le sue idee nelle altre Armi, ove peraltro il disagio è minore. Il Ranzi si rivolge anche alla mari-

90 Ranzi, Il nostro 11rogramma • compito sociale ,lell'uffic:ia/e, in "Armi e Progresso" Anno I n. 2 febbraio 1896, pp. 6 • 2 I . 91 Si veda in merito, ad esempio, Ranzi, Per il morale dell'esercito (risposta all'opuscolo di U. Pright su/I' "eterna questione dei subalterni"), Roma, Ed. " li Pensiero Militare·· 16 novembre 1906 (Ugo Pright è lo pseudonimo di un ufficiale che dife nde il punto di vista del Ministro sulla questione dei subalterni). 92 Di Giorgio, Op. cit..


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na, interessandosi in particolar modo del disagio dei macchinisti,93 ma non risulta che la sua opera abbia successo. Secondo il Di Giorgio gli attacchi del Ranzi allo Stato Maggiore incominciano nel 1904, quando, in un' assemblea elettorale dell ' Unione Militare nella quale egli rappresenta i subalterni, viene accusato a torto da un tenente colonnello di Stato Maggiore, suo avversario nella competizione elettorale, di aver offerto i voti dei giovani ufficiali suoi seguaci a1 comandante del corpo d'armata. Dopo questo episodio il Ranzi - sempre secondo Di Giorg io - interpreta abitrariamente l'accusa come un attacco dello Stato Maggiore nei suoi riguardi. 94 Comunque sia, il 29 marzo 1904, quando la vertenza con il tenente colonnello è ancora in corso, il Ranzi scrive sul Pensiero Militare un articolo da l titolo "Lo Stato Maggiore, ecco il nemico" e in un libro del 19 1O include due capitoli così intitolati : " Lo Stato Maggiore_- ecco La prima causa della sconjìua!" e ··vero plebiscito contro il corpo di Stato Maggiore".95 A suo parere esistono ed agiscono indislurbule nel/'orJ;cmi.rnw 111iliwre italiano cause evidenti, innegabili di sconfilta sicura: disgrazialamente queste cause continuano ad agire in tutta la loro deleleria e.fficienza perchè una casta [appunto que lla de ll o Slalo Maggiore - N_d.a.] ha interesse a mantenere inalterate quelle cause di sconjiua, in cui è L'essenza dei privilegi eh ' essa gode a danno del 'esercito; più disgraziatamente ancora queste cause seguitano ad agire indisturbate, perchè tutte le energie sane e malsane, elette e volgari della pubblica opinione si sono dimostrate, in pratica, affatto incuranti di rimuoverle. 96

La causa determinante delle sconfitte italiane - prosegue il Ranzi - è stata "eroismo di soldati, inellitudine di capi". Questi capi hanno dimostrato anche la loro miseria morale, perchè - come scrive il Perrucchetti le sconfitte de l 1848, del 1849, de l 1866 e del 1896 sono dovute alle loro discordie, alla loro incapacità di far prevalere sulle beghe personali il superiore interesse de lla Patria. I futuri generali dell'esercito vengono selezionati in massima parte attraverso la frequenza della Scuola di Guerra e il successivo passaggio nel corpo dj Stato Maggiore. Essi trascorrono Ja 9 'Cfr., in merito, l'opuscnln ciel Ram.i , Le aRilazioni nei corpi della R. Marina e la nuova legge di ordi11amem o del Ministro Leo11ardi - Cattolica.Roma. Tip. Ulpiano 19 13 e ID., Per il personale della Regia Marina. in " li Pensiero militare" <lei 21 gennaio 1906. 94 Di Giorgio. Op. cit., pp. 13 - 2 1. 9' Ranzi, li nazionalismo e il problema miliIli re italiano, Ro ma, Ed. " li Pensiero Militare" I 910. "" ivi, p. 76.


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loro carriera in gran parte nelle scuole e negli uffici, con privilegi e avanzamenti di grado più rapidi rispetto ai colleghi che rimangono nei reggimenti al comando di truppe. Ma siffatti criteri di scelta sono completamente errati, perchè trascurano proprio gli elementi di giudizio che implicano la vera virtù del comando, e si fondano soltanto su criteri che a quella virtù sono estranei, quando pure con Le doti vere del comando non sono in aperta contraddizione f...1. Le prove date su quei banchi e su quelle poltrone non sono afjàtto Le prove che occorrono a riconoscere le vere doti del comando, le quali esclusivamente si rivelano a contatto delle truppe e difronte alla realtà del terreno.91

TI Ranzi ammette che negli ultimi anni i privilegi per l'avanzamento degli ufficiali di Stato Maggiore sono stati notevolmente ridotti ; ciononostante, nella letteratura nùlitare più recente abbondano le critiche al sistema, anche da parte di ufficiali di Stato Maggiore e di eminenti scrittori militari. E qui cita il tenente colonnello Domenico Guerrini che espone le sue idee sulla Rivista di Fanteria, il colonnello Enrico Barone, il maggiore di Stato Maggiore Emilio Balzarini, il capitano di Stato Maggiore Luigi Ambrosini (sospeso dall'impiego per aver pubblicamente sol idarizzato con il Ranzi) e - oltre al Pensiero Militare - periodici come L'Esercito Italiano e La Preparazione diretta dallo stesso Barone. E riferisce anche che il Ministro generale Ricotti avrebbe esclamato "sono stato un vile a non decretare la soppressione dello Stato Maggiore". 98 A siffatti attacchi, che sconfinano nell'ingiuria, il maggiore Di Giorgio reagisce osservando che al momento gli antichi privilegi si sono di molto ridotti: i (.;apitani di Stato Maggiore hanno un'età media di 40 anru, qualcuno finirà la carriera da capitano, la massa da maggiore, pochi arriveranno al comando di reggimento. Per contro essi "sono condannati condannati è la vera parola - a un servizio pesantissimo che richiede tesori di abnegazione ed energia". E sono così poco una casta, da essere stati esclusi dagli avanzamenti a scelta eccezionale previsti dall'Art. 25 della legge d'avanzamento. Eppure, a parte qualche inevitabile eccezione, "gli ufficiali di Stato Maggiore rappresentano effettivamente, rispetto alla massa [...luna vera èlite, per la cultura, per l'intelligenza, per la capacità

07 ivi. p. 88. .. ivi, p. 94 e 115.


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professionale, per l'integrità della vita privata". E' ridicolo parlare cli casta e di privilegi, quando il concorso per la Scuola di Guerra è aperto a tutti, e per gli ufficiali di fanteria non è nemmeno un concorso, perchè il numero dei posto per loro disponibili è normalmente superiore a quello dei concorrenti. I nemici dello Stato Maggiore sono solo coloro che hanno fallito il concorso per la Scuola di Guerra, i giovani che non conoscono la situazione e non hanno mai avuto l'occasione di avvicinare un ufficiale di Stato Maggiore, e "coloro che considerano l'esercito come una società di mutuo soccorso, nella quale la carriera deve costituire un utile che va equamente diviso fra i suoi membri" .99 Del Ranzi resta da dire che, all 'opposto del Ferrero, nella guerra ispano-americana del 1898 prende decisa posizione a favore della Spagna, accusando gli Stati Uniti di aver violalo il diritto internazionale ingerendosi nell'insurrezione di Cuba, isola che apparteneva legittimamente alla Spagna. Anche se era in atto una sollevazione dei cubani contro la Spagna, "noi non possianw accettare come atto di giustizia intema::.ionale l'intervento degli Stati Uniti, i qua.li rum ud uli.:un sentimento di umanità cedevano, ma a semplice cupidigia di vantaggi economici, a sola ambizione di espansionismo americano". L'Europa ha avuto torlo a non intervenire: "il regno dei dollari e delle sterline prevarrà nel mondo. E non sarà un progresso - diciamo noi - né di cultura, né di migliurun,ento sociolt' ". 11 ~1 Nel 1898 il Ranzi appoggia fin troppo entusiasticamente le proposte dello zar per la pace e il disarmo, con un lungo opuscolo che riporta anche i pareri dei generali Corsi, Pelloux, Moreno, Pittalunga, Biancardi, Goiran e del colonnello Marazzi.101 Nel 1899 plaude aJla conferenza dell ' Aja. 102 Sul numero del " Pensiero Militare" del 25 febbraio I 906 riporta per esteso, con ampie lodi, il programma della massoneria per la riforma delle Istituzioni militari in senso liberale e dcmocratico, 103 rcn<len<lo così ipotizzabile una sua adesione a tale associazione, peraltro non provata. Infine, saluta favorevolmente la nomina del generale Cadoma a Capo di Stato Maggiore dell'Esercito... Tn sintesi l'opera del Ranzi merita di essere studiata senza respingerla o accettarla in blocco. Al di là <lcgli evidenti errori dell'uomo e della sua

Di Giorgio , Op. cit.. pp. 2 1 - 25. Ranzi. Pel ,tiri/lo e per l'onore. in "Armi e Progresso" Anno III Voi. I giugno 1898, pp. 59 - 64. 1111 Ranzi, La p roposta dello Cwr e /'i11chieslll sulla pace e il disan 110, Roma, Ed. "Anni e Progresso" 1898. 10 2 Ranzi, lo co11fe rt'IIZO dell'Aja, in "Armi e Progresso" Anno IV n. 2 e )- febbrnio/ maggio 1899. 103 Ranzi , l 'i11izia1im dl'lla masso11erill pe r Ili riforma delle istituzio11i militari, in " li Pensiero Militare" del 25 febbraio 1906. !I'>

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censurabile condotta disciplinare, molte parti dei suoi scritti meritano tuttora apprezzamento, perchè anticipano i tempi. Un suo forte limite, comunque, è di aver volato troppo alto, con concetti, idee-;--proposte che non tenevano conto della realtà dell'esercito del tempo, e che per essere applicali richiedevano que11'e1evato livello generale dei Quadri e del1a truppa, che non era raggiungibile in un esercito di massa. Sempre più solo, il Ranzi è morto nel 1922. Su questo scrittore d'avanguardia, di rottura ci sembra condivisibile il giudizio dello Sticca: "si può dissentire da lui pel modo adottato nel reclamar giustizia, epurazione, rinnovamento dell'esercito, ma non disconoscere il forte ingegno, la cultura sociale, la logica stringente, la vigoria polemica, che, nel campo ortodosso, gli avrebbero assicuralo i gradi più elevati". 104

Allre voci sulla difesa dell'esercito e sul ruolo sociale dell'ufficiale

Nei primi anni del secolo XX gli attacchi all'esercito e la propaganda antimilitarista continuano più che mai. Sono pertanto ancor più numerosi, sulla stampa militare e specialmente sulla Rivista Militare, gli articoli che ruotano tutti intorno alla stessa esigenza, non nuova: individuare i modi e i mezzi più idonei per difendersi dall'antimilitarismo e per meglio educare il soldato, mettendolo in grado di resistere a11e lusinghe e utopie della propaganda sovversiva. Molto pochi gli spunti nuovi; si ritiene comunque che tale propaganda all'interno delle caserme vada arginata non con la repressione, ma contrapponendo argomento ad argomento. Nessuno più propone - come il Bianciardi - la chiusura della caserma agli influssi esterni. È opinione concorde, anzi, che i nuovi principi democratici e liberali se ben applicati all'interno della caserma non siano di per sè un impedimento alla disciplina, ma servano a renderla più consapevole. Ci limiteremo pertanto a citare alcuni dei contributi più interessanti. Nel 1902 un nome destinato a diventare famoso, il capitano Francesco Grazioli, esamina l'influsso delle nuove tendenze sociali sulla disciplina, e vuol dimostrare che "dato il carattere intrinseco delle moderne isliluzioni militari, come inevitabile è che esse si trasformino coi tempi, così nessun pericolo, v 'ha che, trasformandosi razionalmente e pacatamente, possano esse andare incontro a dissoluzione o rovina". 105 L'esercito, per il "" Giuseppe Sticca, Gli seri/lori mi/ilari ilaliani (CiL), pp. 323 - 324. '°' Francesco Grazioli , l 'esercilo nel p resenle momenlo sociale, in " Rivista Militare Italiana" Anno XLVII - Voi. m Dispix 16 settembre 1902, pp. 1517 - 1535.


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Grazioli, non deve arrocciarsi a difesa di vecchi sistemi ormai superati che lo isolerebbero della società, ma deve adattare i suoi metodi allo spirito dei tempi nuovi, onde ottenere ugualmente, anzi meglio, il rispetto dei suoi valori di base. Ad esempio né la violenza, né l'eccessivo rigore, né La popolarità possono og,?idì legittimare l'autorità di un capo, ove esso non possegga invece il vero, il solo mezw oggidì indispensabile per imporsi ai subordinali: la competenza. Il comando tende quindi a diventare ogni giorno più geloso ossequiante della logica, del buon senso, della razionalità; più curante fin dove è possibile e compatihile colle speriali esigenze dell 'ambiente militare - de/l'opinione stessa dei comandati.

Le forme della disciplina sono diventale meno rigide e assolute: ma non per questo essa può dirsi decaduta e scossa, pe rchè coll'elevarsi del livello intel/ettua/r, rl<•l/a 111ateria prima da mi traggonsi i soldati, si possono ottenere co11 11wzzi assai più bla11di, razionali e persuasivi, effetti r:lw prima rirhil•deva110 compressione d'og11i libera e.\pansione negli animi dei subordinati, cecità assoluta nell'obbedienza e rigore spietato nell'esi~ere l 'esernzione degli ordini.

Peraltro, a tanto ottimismo fa da contrappeso la constatazione che, in tempi nonnali, lo spirito militare del nostro paese è assai "languido", quindi vi hanno facile presa le teorie antimilitariste; "ed è in mezzo a questo ambiente così refrattario ad ogni idea di ordine, di disciplina, di rispetto dell'autorità, che all'educatore militare si chiede di forgiar soldati con pochi mesi di lavoro. Ognun vede come questo sia chiedere l'assurdo!". ff perciò indi spensabile che la famiglia e la scuola educhino il giovane prima che entri nell ' esercito. Quanto sia al momento insufficiente l' apporto educativo della famiglia e della scuola, il Grazioli lo lascia intendere chiaramc!1tc; perciò appare alquanto contradditoria la sua esortazione finale a non spaventarsi se le nuove idee varcano la soglia della caserma, "quando queste idee rispondono sinceramente e lealmente ai nuovi ideali umani di fratellanza, di amore per gli oppressi, di più alta giustizia sociale", ideali che si accordano con lo spirito dell'esercito. E se la società del momento è quella da lui prima descritta, non si comprende bene su quali basi egli esorti a "confidare pienamente nel sicuro buon senso delle masse popolari donde tragghiamo i nostri bravi soldati, e fra le quali è vivo il retaggio dei nostri buoni padri latini".


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Dopo tutto il Grazioli dice cose sagge e, diremmo, molto moderne sul comando e sulla disciplina. Su quest'ultimo argomento nel 1904 anche il colonnello Gerolamo Sala indica dei principi, degli accorgimenti pratici, delle metodiche che non sono affatto "datate", nè risentono del cliché autoritario e assolutista che taluni vogliono per forza applicare alla disciplina del tempo; pertanto, lutto il suo lavoro è pienamente attuale. 106 Basti ricordare l'aurea pagina seguente: le sanzioni penali e disciplinari, che imprimano un carattere d'inimitabile necessità alla disciplina, ci devono essere [ ... ]. Non si dev'essere però solo proclivi a punire, ma anche a premiare, e i due mezzi di disciplina devensi adoperare in quel modo razionale, che consigliano L'indole dei tempi e dei popoli, la giustizia, l'imparzialità e la perfetta conoscenza dei dipendenti. Ma, pur così operando, non si otterrà ancora quella disciplina, che genera le 1:randi cose. Occorre all'uopo una benintesa educazione morale della truppa e, da parte di tutti i superiori, prestigio ed esempio. Conferiscono il prestigio: 1° l'esercizio razionale della facoltà di punire e di premiare; 2° la solida istruzione, onde traggono ori1:ine preziose qualilà di mente, di cuore e di carotiere; 3° fa per/ella educazione, che fa rifuggire da parole e da alti che possono umiliare o inll.\prire; 4° la dignità personale, che fa guardinghi i superiori da quanto può nuocere al loro decoro; 5° la sollecitudine benevola e affabile per il benessere morale e materiale dei dipendenti. Per dare il buon esempio occorrono da parte dei superiori: 1 ° scrupolosa puntualità nell 'adempimento di tutti i doveri; 2° pronta e volonterosa esecuzione degli ordini ricevut.i; 3 ° intelligenza e instancabilità nel compiere, sempre ed ovunque, le missioni loro affidate; 4° assoluta astensione dalle critiche e mormorazioni.

Anche il colonnello Pascale nel 1904 suggerisce sani criteri per l'istituzione e educazione delle reclute, prendendo atto del fallimento "del me-

106 Gerolamo Sala, I..n disciplina, in "Rivista Militare Italiana" Anno XLIX . Voi. il Disp. IV 16 aprile 1904, pp. 605 - 630.


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todo ~innastico militare escogitato dalla scuola centrale di tiro di fanteria, la quale pretendeva di dare in 35 giorni un soldato svelto, disciplinato, istruito in tulio e buon tiratore". 107 A parere del Pascale, una volta fis-

sati gli obiettivi da raggiungere bisogna lasciare agli istruttori stessi la scelta del miglior metodo per raggiungerli, sotto la piena responsabilità del comandante di compagnia, al quale deve essere lasciato anche il compito di preparare i graduati istruttori. Le minute prescrizioni che seguono si prefiggono di ottenere tre obiettivi: - facilitare 1' inserimento delJe reclute nel reparto, con un'accoglienza premurosa che venga subito incontro alle loro esigenze elementari, prescinda da ogni trattamento vessatorio e li aiuti ad ambientarsi subito; - porre aJJa base dell'istruzione l'addestramento per imitazione; - dare il dovuto rilievo all ' istruzione morale. Lo scrittore militare che più si impegna nel combattere l' antimilitarismo e nelJ'indicare le riforme necessarie per rendere il soldato allergico alla propaganda sovversiva è il capitano Ferraro, con una serie di articoli nei quali dimostra, per così dire, un 'ottima conoscenza del nemico, analizzando minutamente i vari tipi di socialismo e le altre forze interne che svolgono anch'esse un'azione demolitrice dei valori di base dello Stato e dell'esercito. '°8 Attacca duramente, perciò, anche i clericali: purtroppo la propaganda socialista non è la sola a minare la patria. Un'altra, e ben più terribile, agisce nell'ombra, la propaganda clericale. Essa come una piovra immane ha ormai esteso i suoi tentacoli in tutta La vita sociale. Colle numerosissime scuole guida la mente e il cuore di gran parte del/,a gioventù; colle numerose istituzioni filantropiche si impadronisce del cuore del popolo; eludendo le leggi fabbrica conventi, acquista beni, e la manomorta è ora più ricca che mai. L'audacia clericale è tale dn proibire ai f edeli di compiere il proprio dovere di cittadino accorrendo alle urne, da vietare l 'entrata in chiesa alle bandiere

101 N.Pascale, Educazione e istruzione delle reclute, in "Rivista Militare Italiana" Anno XLIX Voi. IV Disp. XI - 16 novembre 1904, pp. 2045 - 2075. '"" Lorenzo Ferr.uo, La questione sociale - suoi effetti sulla rUlZ.iorze e su.ll'esercito, in "Rivista Militare Italiana" Anno XLV Voi. Il Disp. VI 16 giugno 1900, pp. 961 - 992; ID., La questione morale nella storia, nella nazione e nell'esercito (3 puntate), in "Rivista Militare Italiana" Anno XLV I Voi. lii Disp. VII 16 luglio 1901, pp. 1249 - 1258; Disp. Vlll 16 agosto 1901, pp. 1370 - 1383; Disp. IX 16 settembre 1901 , pp. 1594 - 16 12; LD:, / partiti sovversivi e l 'esercito, in "Rivista Militare Italiana" Anno XLVII Voi. I Disp. U 16 febbraio 1902, pp. 208 - 225; ID., L 'azione educatrice de/l'esen·ito, in "Rivista Militare Italiana" Anno XLVII Voi. li Disp. V 16 maggio 1902, pp. 753 - 770.


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nazionali, tale da offendere volgannente ill sacra persona dell'assassinato ReJJ<YJ

Spinge lo sguardo anche all'estero e alla nostra storia passata, constatando che, al confronto con i movimenti socialisti di altri Paesi, il nostro è il più internazionalista e quello che più respinge il concetto di Patria. Sempre al confronto con altre nazioni, a suo parere lo spirito militare del nostro popolo è particolarmente debole e i mali della nostra Società sono molteplici. La propaganda sovversiva e antimilitarista trova così un terreno fertile nei giovani che entrano nell'esercito, rendendo ancor più indispensabile l'intervento dei Quadri dell'esercito per la formazione anche del cittadino: L'esercito è fatto per la guerra, si ripete; e colle ferme attuali non è possibile sperare, anche volendo, in una efficace educazione morale del soldato_ Già altra volta avemmo occasione di dimostrarlo, oggidì l'esercito è fatto non solo per la guerra ma anche per la pace, e più che mai per la pace sociale. Solo opponendo alla propaganda d'odio dei sovversivi, la nostra propaganda d'ordine e di disciplina civile e militare, potremo ~perare di diradare le tristi nubi che oscurano il bel cielo della patria. Occorre che nell'esercito entri la convinzione della necessità di questa missione sociale dell'ufficiale, necessità ormai riconosciuta dovunque; la convinzione che tutte le nostre istruzioni a nulla varranno, se non sapremo conquistare il cuore dei nostri inferiori.

Bisogna dimostrare ai soldati che la proprietà non è un furto, ma è quasi sempre frutto del lavoro e del risparmio; che il lavoro senza capitale non potrebbe produrre ricchezza, e che quindi è giusto che una parte del profitto vada al proprietario che rischia il capitale; che l'operaio, comunque, "gode di una condizione di vita che solo pochi anni fa sarebbe sembrata un sogno"; che gli uomini non nascono tutti uguali, e che quindi disuguale è anche il frutto del loro lavoro, il quale non può essere livellato per legge, ecc .. Gli altri capisaldi della propaganda antimilitarista sono così contestati dal Ferraro: essi dicono che l'amor di patria è falso e dannoso, perchè spinge gli uomini ad ammazzarsi; che la guerra mena la sua falce distruggitrice so-

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Ferraro, La questione morale.... 2• puntata p. 1378.


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lo fra le masse dei proletari; che l'esercito è la rovina della nazione, ed è creato appunto per impedire che il popolo si faccia giustizia; che l'educazione della caserma opprime la gioventù, distogliendola dai lavori utili, dall'industria, dal commercio, dall'agricoltura, fonti della ricchezza nazionale. Ebbene dimostriamo loro come l'anwr di patria sia stato in tutti i tempi il sentimento più nobile dell'umanità, sentimento prescritto da tutte le religioni; quanto esso sia stato sentito dalla generazione che ci risollevò dalle misere condizioni in cui eravamo caduti nei lunghi secoli di servitù, le quali ben presto ritornerebbero se si seguissero quelle false teorie. Proviamo loro che non è questo sal!to aj: /etto che promuove la guerra, la quale è coeva coll'umanità, e cesserà solo quando gli uomini saranno diventati angeli; che cogli eserciti attuali tutte Le classi sociali ne corrono le glorie ed i pericoli; rhe appunto perciò essi sono più che mai necessari, e non una spesa inutile, come non sono inutili i chiavistelli che assicurano le porte delle case, i carabinieri e gli agenti di pubblica sicurezza che tutelano la proprietà e la vita dei cittadini; e che quindi è una dura necessità distogliere i gim•ani dalle fonti della ricchezza nazionale, per poter difendere questa .1·1essa ric<·hezza dalle insidie es/eme ed interne. Del resto la nostra emigrazione permanente e temporanea mostra che 11m1 sono le braccia che mancano, bensì il lavoro. E siccome il salario dipende dalla legge della domanda e dell'offerta, Le migliaia di lavoratori che l'esercito accoglie, Lanciati sul mercato, dovrebbero di necessità cau.1·w·e un abbassamento di esso, e rendere quindi ancora più difficile la proprio vita. Inoltre L'esercito non serve per la sola difesa. Dalla potenza mi/ilare dipende la potenza politica degli Stati, e questa oggidì, più che per il passato, si risolve in potenza economica, giacd1è tutti i trattati internazio11ali, ed in special modo quelli di commercio, sono sempre fatti a favore del più forte. Di più, come possono chiamarsi improduttivi i bilanci mi/ilari, quando gran parte dei loro milioni resta nello Stato, essendo preso in esso quasi tulio ciò che occorre all'esercito ed alla marina?110

Anche le accuse alla morale militare, alla discip]jna militare, alla vita di caserma ecc. possono essere facilmente rintuzzate: noi vediamo venire sotto le armi giovani per lo più rozzi, ignoranti, colla mente povera, talora non conoscendo di nome neppure i princi-

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ivi, pp. 1382 - 1383.


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pali doveri sociali; ed andarsene poi, dopo il breve servizio, forti, agili, coll'intelligenza aperta, colla conoscenza, sia pure embrionale, della sobrietà, della temperanza, dell'ordine, dei sentimenti d'onore e di disciplina civile e militare. Noi vediamo il nostro contadino, egoista per natura, divenuto soldato slanciarsi tra i pericoli di un incendio, di una inondazione, di un terremoto, di una epidemia per portare il suo fraterno aiuto 1---1- Non abbiamo quindi il diritto di chiedere quale altra istituzione sociale possa dare simili risultati in sì breve tempo?'"

Gli altri provvedimenti per rendere efficace l'azione morale suggeriti dal Ferrara non sono nuovi e indirettamente dimostrano che fino a quel momento (1900), nonostante !'universalmente riconosciuta importanza dell'educazione morale del soldato, si è fatto assai poco: sì, è tempo di porre da parte la routine del nostro mestiere e di aprire ben bene gli occhi. Occorre riformare tulio il nostro sistema di preparazione del soldato, se vogliamo avere la coscienza di aver adempiuto al nostro dovere. In testa a tutti i nostri reparti, a tutti i nostri orari, bisogna scrivere a lettere cubitali quella istruzione che finora, meno rarissime eccezioni, fu trascurata quanto mai, anzi in alcune Armi non se ne conosce neppure la parola, l'Istruzione morale. 11 2

Nel 1900 bisogna, dunque, cominciare ab imo. li Ferrara suggerisce di curare il benessere morale e materiale del soldato, di distribuire alle compagnie qualche copia del Giornale del soldato, che riesce di grande utilità per insegnare al soldato i suoi doveri e le nostre tradizioni, e soprattutto <li cw-are il conifort delle caserme: diamo uno sguardo alle nostre più belle caserme. A primo a.\pelto sembra che nulla vi manchi di ciò che richiedono l'igiene e un relativo benessere. Le pareti delle camerate sono squallide e nude, come quelle dei reclusori, senza neppure un ritratto del Re, un quadro che allieti la vista e nello stesso tempo ricordi qualche glorioso fatto d'armi dell 'epopea nazionale. Nel tempo di forza massima quei locali diventano talvolta oltremodo affollati, e Le compagnie non hanno il più piccolo spa-

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Ferraro, / partiti .wwversivi .... (Cit.), pp. 222 - 223. Fcrraro, La questione sociale ... (Cit.), p. 989.


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zio per riunire gli uomini per le istruzioni, per permettere loro di consumare il rancio seduti su una panca, al riparo dal sole e dalle intemperie della stagione. come usa sempre fare il più misero degli uomini. Quale grata impressione può ispirare simile vita?11 3

I clericali hanno istituito nelle città ricreatori militari cattolici che offrono gratis ai soldati rappresentazioni teatrali, libri di lettura, tombole, carte da gioco e carta da lettera. Lo stesso hanno fatto i protestanti e - da poco - anche i partiti liberali: perchè non istituire strutture analoghe anche nelle caserme, che oltre a eliminare la causa principale per cui i nostri soldati accorrono ai ricreatori cattolici, darebbero ottimi risultati per la loro buona educazione? Nelle caserme ove ciò è poss ibile potrebbero essere anche delimitati degli appezzamenti di terreno, "ove i soldati nei momenti di ozio, e specialmente i consegnati, potrebbero coltiva re cose utili per il miglioramento del rancio, continuando cosi da parte nostra l'o11era altamente educativa delle conferenze agrarie"_ Il ruolo sociale dell ' ufficiale, il contributo dell' esercito all 'educazione del cittadino nel 1904 ricevono una sanzione ufficiale con una circolare del Ministro della guerra generale Pedotti, che invita gli ufficiali a istruire i soldati sui loro doveri di cittadini, facendo loro comprendere che, per il bene comune, sono necessarie delle leggi che governino il vivere civi le, e che la democrazia consiste anzitutto nel rispettarle. Debbono ino ltre convincerli che le differenze di capacità - e quindi le differenze di stato sociale - tra uomo e uomo sono naturali e inevitabili , e che i miglioramenti per le classi più umili si possono e si debbono ottenere gradualmente, non con la violenza, ma con un lento e perseverante lavoro. Circa la preparazione dei Quadri, in relazione alla circolare del Ministro Pedotti il capitano De Domenico nel 1905 sostiene che gli ufficiali ti' Anna oltre alla cultura strettamente militare, devono acquisire una cultura economica, sociologica e tecnologica: il Ministero pertanto dovrebbe comandare alcuni ufficiali dei reggimenti alla frequenza presso le Università di corsi su tali discipline. Solo in questo modo i comandanti di reparto "potranno senza tema di errare, affrontare una discussione. sfatare dei pregiudizi, ed operare colla coscienza convinta del vero nell'apostolato educativo", neutralizzando " le partigiane insinuazioni dei settari e dei mestatori ". 114 Il capitano Dal lari

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Ferraro, La q11es1io11e morale ... (Cit.), 3' puntala p. 1600. Pietro De Domenico, L'importanza degli s111di soci11li negli ufficiali delle Armi comba11e111i, in "Rivista Militare Italiana " Anno L Voi. lll Disp. VUI 16 agosto 1905, pp. 1525 - 1537. 114


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indica invece il metodo che gli ufficiali dovrebbero seguire nella loro azione educativa, i testi ai quali attingere gli argomenti da tratlare e come trattarli ecc ... 115 Egli non nasconde che è fonte di viva preoccupazione per le autorità militari e di debolezza per l'esercito il fatto che "l'Jtalia occupa fra le nazioni più progrediJe il primo posto nella scala della criminalità, l 'ultimo posto nella scala dell'istruzione, della ricchezza, del benessere popolare e degli scambi". Tuttavia anche se lo Stato in rapporto ad altri Paesi spende troppo poco per l' istruzione, e nonostante il nostro primato nell'analfabetismo, il soldato italiano è intelligente. impara in poco tempo e si dimostra molto ricettivo al1' azione educativa, se essa è ben condotta. Nel 1905 anche il capitano Cavaciocchi contesta la teoria dell ' impossibilità della guerra sostenuta dal Bloch,116 con particolare riguardo ai seguenti punti: 1) l'accresciuta potenza delle armi da fuoco le rende troppo micidiali e dà troppa prevalenza alla difensiva sull'offensiva; 2) dal punto di vista economico e finanziario, gli eserciti sul piede di guerra assorbono somme enormi e danneggiano gravemente tutte le attività; 3) alme no nei paesi dove il socialismo è più diffuso, i cittadini sono indotti a rifiutare di correre in massa alJe armi in caso di guerra. Il Cavaciocchi obietta che ogni volta che vi è stato un perfezionamento tecnico delle armi sono sempre state ripetute tesi come queste, poi regolarmente smentite dai fatti: alla fine l'offensiva ha sempre avuto la prevalenza sulla difensiva. li grave danno dal punto di vista finanziario ed economico vale, sia pur con qualche dubbio, in caso di una guerra generale europea; ma sono sempre possibili , ovunque, lotte parziali o campagne coloniali. Anche i progetti di pace perpetua, i trattati per stabilire arbitrati internazionali ecc. sono sempre falliti ; è fallita ben presto la Santa Alleanza tra i Sovrani del 1815, mentre la recente Conferenza dell' Aja ha ottenuto qualche risultato, ma non quello di stabilire la pace perpetua e il disarmo. Sulla "nazione armata" sostenuta dai socialisti in alternativa all'esercito permanente, il Cavaciocchi si limita a osservare che, realisticamente, essa si ri assume nell a tendenza, già ovunque in atto, a ridurre gli effettivi in tempo di pace e aumentare quelli previsti in caso si guerra: per il resto le soluzioni pratiche non possono che variare da Paese a Paese. Su di esse influiscono, oltre delle condizioni sociali, a quelle polit.iche e a quelle geo-

115 P. Dallari, l 'educazione civile del w ldatu. in " Rivista Militare Italiana" Anno LII Voi. I Disp. I - 16 gennaio 1907, pp. 59 - 81. 116 Alberto Cavaciocchi, l'esercito e il Paese, in " Rivista Militare Italiana" Anno L Voi. 111 Disp. VIII - 16 agosto 1905, pp. 14 19 - 1447.


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grafiche, le istituzioni militari dei Paesi vicini, delle quali bisogna tener conto: cia<;cun Paese quindi deve adottare un proprio modello. Il Cavaciocchi, poi, controbatte la diffusa tesi dell'improduttività delle spese militari. Le istituzioni militari - egli afferma - appartengono alla categoria delle industrie "educative e protettrici ", che sono economicamente produttive sia in forma diretta che indiretta. In forma diretta, sia perché l'esercito migliora l'educazione morale e intellettuale di gran parte della nazione, sia perché incentiva molte industrie e attività economiche, che altrimenti non potrebbero prosperare. In forma indiretta. perchè in pace assicurano l'ordine pubblico e il pacifico svolgimento delle att ività produttive, mentre in tempo di guerra evitano le rovine e i danni anche economici della sconfitta e assicurano alla nazione i vantaggi della vittoria. Non è vero - prosegue il Cavaciocchi - che il servizio militare è dannoso dal punto di vista morale, perchè sottrae i cittadini al lavoro utile e alla procreazione proprio nel periodo più favorevole. La brevità della ferma attuale costringe a un lavoro intenso, e con il servizio militare si evitano dannosi matrimoni precoci. E' provato che il servizio militare migliora lo sviluppo fisico dei giovani; e anche se la vita di ca<;erma non è perfctla, la caserma è sempre migliore dei suoi dintorni. Non è nemmeno vero che l'Istituzione militare è la culla del militarismo, inteso come degenerazione dello stato militare, come sopraffazione dei civili ecc .. Parlare di militarismo è anacronistico: gli ufficiali italiani non sono una casta privilegiata, non sono superiori alla legge, e l' unico loro privilegio è di essere soggetti a una legislazione assai più dura di quella dei comuni cittadini e a una seria limitazione dei loro diritti; né il nostro esercito ha assunto una forma non corrispondente alle condizioni sociali, o alla potenzialità econom ica del Paese. Riguardo al ruolo interno dell 'esercito, il Cavaciocchi ritiene che, nelle condizioni del momento, sia giusto affidargli anche la tutela dell'ordine pubblico: in tempi normali ciò non dovrebbe avvenire, ma lo impongono ragioni di finanza. Con questo tipo d 'interventi a suo giudizio l'esercito tutela la legge, data la sua composizione nazionale garantisce che la forza non sia usata per fini estranei alla legge stessa, impedisce eccessi e violenze, fa rispettare ugualmente la libertà di sciopero e quella di lavoro, evita i danni - e le limitazioni della libertà - che deriverebbero ai cittadini dall ' interruzione di pubblici servizi. Il Cavaciocchi non concorda invece con coloro che, vista la rarità delle guerre, vorrebbero che l'esercito svolgesse principalmente funzioni civili: educazione sociale, lotta all' analfabetismo, protezione civile e, addirittura, quelle di principale e nte scolasti co per l' istruzione elementare. Posto che l'esercito è sempre intervenuto,


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e deve intervenire, per soccorrere i concittadini in caso di calamità, "il soldato non è chiamato alle anni per far il pompiere, né il becchino, né la suora di carità, né il maestro di scuola, funzioni tutte della società civile" . Se l'ufficiale non deve sostituire il maestro di scuola, vale anche il contrario: non si può, non si deve pretendere che il Paese rtanto più con le scuole che ha! - N.d.a.J mandi alle armi giovani già almeno in parte addestrati: li mandi sani di mente e di corpo e già educati alla disciplina civile e al rispetto delle leggi, e al resto penseranno, dopo, gli istruttori militari, com'è loro compito. Non mancano pregevoli indagini sociologiche. 11 capitano Zincane, che è rientrato da un periodo di permanenza all'estero, ricorre a interessanti confronti con quanto avviene nelle nazioni più progredite per spiegare le condizioni e i precedenti storici che hanno causato nel nostro Paese un profondo disagio sociale, favorendo la diffusione del socialismo nelle sue forme estreme e ostacolando la nascita di uno spirito nazionale e militare. 117 Cita perciò l'esempio della Germania, nella cui storia " non vi ha traccia di eroi popolari, né di società segrete o di congiure. L ' impulso all'azione collettiva viene sempre dall'alto e si propaga in basso anche sotto forma di imposizione forzata", che però dopo genera consenso. La famiglia imperiale tedesca ha per motto "Tutto per il popolo e nulla con il popolo"; e poichè non c 'è niente di meglio che una vittoria mi-

litare per rinsaldare l'unità nazionale, dal 1813 al 1815 a Lipsia e Waterloo e con le vittorie del 1870-1871 contro la Francia, la Germania l'ha cementata per sempre. Il contrario, per lo Zincane, è avvenuto nel processo di formazione dell'unità italiana, dove sono mancate convincenti vittorie militari che legittimassero agli occhi del popolo la monarchia e la classe dirigente innalzandone il prestigio, dove c'è sempre stato il culto della rivoluzione e delle congiure contro l'autorità costituita, e dove s'è data al popolo l'impressione che esso è tutto e può tutto, e che quanto si è fatto di buono in Italia nel Risorgimento è dovuto quasi esclusivamente ai suoi sacrifici e ai suoi gesti di ribellione. Di qui la tendenza esagerata del popolo italiano all' individualismo, allo scarso rispetto e all'avversione per l'autorità, a "considerare le leggi quasi come una imposizione tirannica, fastidiosa per tutti, anzichè considerarle come una norma necessaria regolatrice della vita sociale".

117

Auilio Zincone, Tra il paese e l 'esercito, in "Rivista Militare Italiana" Anno LI Voi. I Disp.

Il - 16 fehhrnio I()06, pp. ?.1() - 270.


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Il fenomeno del socialismo ha assunto ben altre forme in Germania e in Inghilterra, dove la coscienza della vita sociale e cittadina è maggiormente sviluppata: in Inghilterra il popolo accoglie a fischi gli anarchici, ed in Germania, pur essendovi teorie estreme, governo e popolo concorrono con reciproca fiducia ad attuare quel socialismo di Stato, mercé le cui riforme si è già in gran parte riusciti a risolvere il gran problema di economia politica di salari alti in confronto di prezzi di consumo bassi. Ne è derivata la pace sociale: Bebel, capo del socialismo tedesco, tiene al Reichstag discorsi moderati ben diversi dai nostri rappresentanti deU'estrema sinistra, "e sovratutto prima di essere cosmopolita e umanitario è tedesco, ama cioè La patria e in caso di pericolo saprà compiere il suo dovere, adoperandosi sinceramente a che il popolo accorra a mettersi agli ordini dei suoi tradizionali comandanti". Con queste parole lo Zincone prevede, molto in anticipo, l'atteggiamento dei socialisti tedeschi nel 1914 all ' entrata in guerra della Germania, ben diverso da quello della maggioranza dei socialisti italiani. Al tempo stesso, ben si comprende dai suoi giudizi l'atteggiamento dei Quadri dell'esercito, contrari al socialismo non tanto per il suo programma sociale e per la sua meritoria difesa dei diritti delle classi più umili, ma per le sue posizioni nelle quali la naturale aspirazione alla pace degenera ne ll'antimilitarismo, nella negazione dei valori nazionali. Il rimedio proposto dallo Zincone non è nuovo, è sempre quello de l Marselli: opporre alla propaganda antinazionale una propaganda ugualmente attiva e più efficace, cominciando a educare il cittadino dalla scuola, che dovrebbe insegnare "tutto quello che abbiamo di buono, di nobile, di eternamente sacro nella storia della nostra risurrezione politica". Questo patrimonio - egli osserva - è stato già dimenticato, o male insegnato; i giovani arruolati come allievi ufficiali, pur avendo la licenza liceale, "sanno raccontare di Pericle e di Augusto, ma ignorano i f atti più salienti del nostro Risorgimento e poco più conoscono del nome di Carlo Alberto, di Vittorio Emanuele e di Cavour". Purtroppo la scuo la non è adatta per svolgere questa alta missione nazionale: " oltre degli innurnerevoli seminari dove non si legge né Seltembrini, né Dante e dove la nostra gioventù va a impallidire, noi abbiamo scuole tenute da preti o da sovversivi o da malcontenti, e pochi sono i professori e i maestri che fa cciano palpitare di italianità i cuori giovanili elevando La sc uola al concetto di un tempio di patriottismo ". L' educazione nazionale va improntata a princìpi di disciplina, non a indisciplina; e bisogna anche eliminare l'abitudine ad aspettare tutto da uomini provvidenziali. Non vi è avvenimento in cui non si senta ripetere


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che manca l'uomo: "ma l'uomo è in noi stessi, deve essere dato dallo sfordi tutti [... ]_ La forza, oggi più di prima, è rappresentata soltanto dal valore complessivo di tutti i cittadini. .. ". Lo Zincone accenna anche a due altre fonti di debolezza tipiche della nostra nazione: la divisione di fatto tra Nord e Sud e i rapporli Stato-Chiesa: "la divisione tra Nord e Sud, ereditata dalla storia, è causa anche oggi di squilibrio nella nostra vita politica, economica e morale, e sembra, com'è rappresentata da taluni, che debba durare eterna e debha segnare veramente due diversi destini a un popolo che fu grande e potente solo allorquando fu unito". Secondo lo Zincone, i problemi del Sud sono dovuti alla ancor forte sopravvivenza degli aspetti negativi della dominazione spagnola, che in Lombardia fattori storici, geografici e economici hanno invece contribuito a cancellare. Nel Sud il progresso sociale e economico è difficile, perchè ostacolato da numerosi e forti interessi locali. Ad ogni modo le prospettive per lo sviluppo so:10 favorevoli: "or chi può negare che la trwformazione industriale avvenuta tanto felù:emente nel Nord dell'Italia, non debba anche avvenire nel Sud, se arditi capitalisti vogliono ~fjrontare il problema?". Anche il contrasto tra Stato e Chiesa, il quale fa sì che chi sia fedele cattolico non possa desiderare l' integrità e l'unità della sua Patria, è una delle più gravi debolezze della nostra nazione: "mentre presso gli altri popoli i concetti di Patria e di religione si confondono in una idealità sacra formata di affetti e di fede e l'uno soccorre l'altro, in Italia i due concetti sono in contraddizione e in lotta continua". Quel che l'esercito dovrebbe fare è chiaro da molto tempo: ma lo può fare? L'atmosfera e le difficoltà anche interne nelle quali è costretto a operare sono ben descritte in un articolo del 1908 dal titolo L'Antimilitarismo e l'ufficiale italiano, dovuto non a un noto scrittore ma a un certo capitano Perolo non altrimenti noto, fino a far sospettare che si tralti di uno pseudonimo.118 1l Pernio osserva, anzitutto, che antimilitaristi non sono solo coloro che combattono le istituzioni e quindi anche l'esercito, ma anche coloro che, con le parole e con le azioni, assumono un atteggiamento di fatto sfavorevole alla preparazione morale e materiale delJa guerra e delJa difesa nazionale: sono anzi quest'ultimi i veri padri dclJ'antimilitarismo, che hanno fornito agli antimilitaristi militanti diversi argomenti. E qui egli fa riferimento alla politica di lesina finanziaria degli ultimi vent'anni deJ secolo XIX, che ha provocato molti guasti morali e materiali nella vita dell'esercito. Infatti Zo

118 Pcrolo (cap.), L'muimiliturismu e l '11fficiule italiww, in "Rivisw Militare haliana" Anno LII Vo i. IV Disp. Xli - 16 dicembre 1907, pp. 2403 - 2412.


Xll - L' ESERCITO TRA ANTIMJ LITARISMO E '·MODERNISMO MILITARF'

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lo spirito di feroce economia che infuriava su tutta la nazione si mutò nella vita militare in ispirito di timidezza: timideu.a nelle discussioni parlamentari riflettenti la nostra forza armata, timidezza nella stampa militare paurosa di urtare i sentimenti pacifici del paese, timidezza persino nelle manifestazioni della vita cittadina nella quale il militare di professione doveva tenersi riservato e prudentemente in disparte.

A questo atteggiamento del Paese nei riguardi delJ'esercito l' autore per la verità non del tutto a ragione - attribuisce la responsabilità esclusiva della mancala realizzazione delle riforme proposte dal Marselli: chi ha pensato a tener desto fra noi il sentimento militare che il Marselli, con intelletto veramente sovrano, ha trasfuso in opere che onorano una nazione? [... ]. Se fosse stata possibile, in Italia, la costituzione d'un esercito come lo voleva il Marselli, nel quale Le inizimive più ardite si fossero attuate in armonia alle esigenze della cultura scientifica moderna, ed inspirate ai sentimenti più elevati della patria e dell'umanità, io credo che le teorie antimilitariste avrebbero avulo ben poca presa sul nostro popolo. Forse neanche sarebbe stato possibile a G. Ferrero di scrivere il libro "Militarismo" che ha fatto talllo rumore, se si fossero conosciute Le poche innovazioni che già i tempi avevano introdotto nella nostra società militare, :,pecialmente in riguardo alla disciplina. Questo non era certamente più La disciplina degli eserciti di Wallenstein per i quali sembra scrivesse il Ferrero [... ]. Ma, come ripeto, un esercì/o siffatto non era già più il nostro; ed il paese l 'avrebbe saputo ed avrebbe condannato il Libro del Ferrero se fossero state possibili Le riforme ideate dal gen. Marselli dopo la campagna del I 870- 187 I.

Quando il Ferrero - aggiunge il Pernio - ha scritto che ad Adua i nostri soldati si sono sbandati spauriti davanti alle orde abissine, avrebbe dovuto aggiungere che davanti a quelle orde si era sbandata l'intera nazione italiana: "Lo spirito militare d'un esercito non si fiacca in una giornata campale, se dietro ai combattenti vi è tutto un popolo che vuol vincere ad o,:ni costo"; invece dopo Adua il Parlamento italiano ha decretato la cessazione immediata della guerra d 'Africa. Da questo comportamento il Perolo deduce, a ragione, che "il nostro paese doveva passare per altre fa s i prima di arrivare all'espansione coloniale; e fu torto degli uomini politici di allora, se non hanno compreso l 'influenza perniciosa che la vita ane mica del Paese aveva esercitalo sulla potenza militare ".


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IL PtNSltKO MIUTAJUiliNAVALE ITALIANO- VOL. 111 ( 1870-1915) - TOMO I

In secondo luogo, il Perolo osserva che il socialismo marxista, basato su ricette semplici con le quali attraverso la lotta di c]a<;se - la sola da combattere - sarebbe possibile alle classi subalterne conquistare immediatamente il benessere e l'emancipazione sociale distruggendo il capitalismo egoistico, non è una dottrina politica: è una fede, una religione, i cui dogmi sono stati diffusi "da veri apostoli i quali sono andati a predicarli di tugurio in tugurio, di campagna in campagna, più coll'esempio che con la parola"; questo sentimento non può, dunque, essere sostituito che da un aJtro sentimento "più forte, più vero e predicato con maggior fede". Ma, al momento, questa fede io non La vedo nei nostri ufficiali. Date loro colla scienza del passato La poesia del divenire; ed essi dimentichi di tutto, vittoriosi dello scetticismo che ora li invade, dimostreranno coi fatti, più che a parole, l'assurdità della tendenza antimilitarista. E prima la caserma nostra, troppo forestiera in Italia, dovrà cambiarsi in un piccolo tempio di italianità. Tutto in essa parlerà della patria nostra e delle sue leggi: tutto in essa sarà indirizzato a un unico fine: L'educazione degli ufficiali e della truppa. La caserma ideale, che un'infinita serie di cause a tutti note ldunque: non solamentela carenza di risorse - N.d.a.l impedirono finora di attuare; ma che dovrà sempre arridere al pensiero di ogni buon ufficiale f ... l. Fu grave danno allo spirito militare del Paese, di non aver potuto diffondere nei reggimenti lo studio della guerra, perchè egli è dai reggimenti che dovrebbe andare al popolo la rassicurante parola che gli ufficiali si preparano con diuturni sforzi al più complesso e difficile dei fatti sociali".

Per il Pernio, il progresso sociale ed economico degli ultinù anni, l'aumento della ricchezza sono stati notevoli , ma non bastano ad arrestare le tendenze antimilitariste. Se si vuole dare una base solida all'azione degli ufficiali contro l'antimilitarismo, occorre tornare al sentimento patriottico, non con una vana retorica, ma con uno studio profondo della nostra storia e del nostro pensiero nazionaJe. Occorre far rifiorire "una cultura eminentemente nazionale che, impartita severamente e intensamente alle classi dirigenti, si dijjondesse armonicamente in tutti gli strati sociali, anche ai più bassi", superando il dissidio di fondo delle generazioni venute dopo il 1870, oscillanti tra la retorica usata ad ogni minuto dai protagonisti del Risorgimento, e "il dispregio ostentato e basso per tutto ciò che ricordava i momenti della nostra rivoluzione ". In sintesi, daJl'articolo del Perolo emergono tre esigenze: mettere la caserma, la sua organizzazione effettivamente in grado di agevolare, di favorire l'azione educatrice degli ufficiali per combattere i germi dell'anti-


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L.llSllRCITO TRA ANTIMILITARISMO Il ..MODERNISMO MILITARE"

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militarismo; dare ad essi una cultura più approfondita; diffondere nel Paese una cultura e una cultura storica nazionale. Ma né la caserma del tempo, né la scuola sono in grado di svolgere bene questi compiti; questi limiti ricorrono anche in altri studi.

Conclusione

L'excursus compiuto prende in esame solo taluni studi ritenuti significativi. In realtà nell ' intero periodo considerato vengono continuamente alla luce opere e articoli che riguardano la disciplina, il morale, la psicologia, l'educazione del soldato; ne citiamo solo alcuni esempi in nota. 119 Anche da questa profluvic di studi si può dedurre che la problematica morale viene affrontata a fondo in tutti i suoi aspetti , e con sorprendente modernità di vedute. E' lecito però porsi due interrogativi: fino a che punto la realtà della nazione e dell 'esercito del tempo, in lutti i suoi aspetti quotidiani, era in grado di recepire e applicare appieno le tante buone idee che la letteratura militare metteva a di sposizione dei comandanti di repa,10? In secondo luogo, fino a che punto gli nvan7.ati concetti di . ciplinari discendenti dalla "disciplina di persuasione " sarebbero stati applicabiLi all'esercito di massa del 1915, destinato a comhattcrc una sanguinosa guerra di trincea e di logoramento? Ogni tipo di guerra ha la sua disciplina: non c'è dubbio che la disciplina del Marsclli e dei suoi seguaci corrispondeva a un modello ideale di guerra, di nazione ed esercito, assai lontano della realtà di una lunga guerra di logoramento. Si potrebbe quindi dire che i tanti spunti validi emersi, da una parte sono il risultato di un'esperienza storica secolare e dall'altra sono talvolta in anticipo sui tempi, fino a rimanere attuali anche nel secolo XXI.

11 9 Cfr. ad esempio (in ordine alfobctico) F. Abignentc, / ,a parola del capitano, Chieti 1905; IO., Della educazione morale e civile del soldmo i1alia110, Firenze 1900; G.Haccelli, Educazione nazionale ed esercito, Roma., Voghera 1876; E. Boccaccia, Scuola e casemw (sale di ritrovo e scuole), Verona, Libr. Braidense 1907; N.M. Campolieti, La psicologia mi/ilare applicata a/l'educazione mi/ilare, Firenze, Ramella 1908: ID., Patria e disci11li11a, Fire nze, Ramella 1909; E. Gaiani, La disciplina mi/ilare (con lei/era del gen. Corsi). C ittà di Castello Arti Grafiche 191 2; P. Gramantieri, Educazione nazionale mi/ilare, Forll 1905; C. Maggi. L'ulucaziofle morale del soldato, Mantova 1880; T. Mariotti , Alcu11i rriteri i11tomo al 1111'/odo di i11spg1wmento morale da impartirsi ai soldato italiano, Roma 1880; ID., /Jel/'educazio11e e delf'i.1·1rnzimre militare in Italia, Roma 1887; L. Nasi, L'educazione del soldato nei tempi nuovi · appunti di p.l'icolo!{ia militare. Torino. Casanova 1907; G. Robecchi, /I ci11adi110-soldato, Napoli. Sm1giovanni 1905; P. Valle, Di.l'corso di un capitano ai suoi soldati, Pirenze 188 1; T. Visioli, Fisiologia tlel comando disciplinare. Parma 1878: A. Zaccone. Istmzioni morali d,,f .mldatn, Torino I RR?.



Qualche considerazione finale: perché una storia delle idee?

Questo Tomo primo può dirsi conclusivo - limitatamente alla guerra terrestre - di un periodo di studi sulla teoria della guerra moderna e contemporanea iniziato fin dal L985 con il volume Il pensiero militare italiano dal primo al secondo dopoguerra - 1919/1949 (co-autore Virgilio Ilari) e poi proseguito nel 1989 con La teoria della guerra aerea dalle origini alla seconda guerra mondiale 1884-1939 (edito da SMA), nel 1991-1995 con La storia della logistica dell'esercito italiano 1831-1981 (4 volumi) e infine nel 1995-2000 con i primi due volumi (fino al 1870) del Pensiero militare e na vale italiano dalla Rivoluzione Francese alla prima guerra mondiale (1789-1915). 1 Non ci pare possibile, né conveniente separare l'esperienza del presente Tomo da quelle precedenti. Tutte ci inducono a trarre dal lavoro compiuto tre grandi categorie di ammaestramenti, rispettivamente concernenti: I il modo di fare storia e di fare storia militare; Il il livello di cultura militare - e di conseguenza, della pubblicistica militare - specie dalla nascila del nuovo esercito italiano (1861) in poi; III i problemi e il grado di efficienza del nuovo esercito italiano, quali si possono desumere dalla letteratura militare. Dalle pubblicazioni prima citate emerge chiaramente che abbiamo dedicato i nostri sforzi principalmente a due grandi campi: gli aspetti logistico-amministrativi della preparazione militare e della condotta delle operazioni; la storia delle idee, che si desume dall'esame sia delle pubblicazioni ufficiali c he della lelleratura politico - militare. Letteratura politico militare - va precisato - e non solo militare: perché, in campo politico, affiorano spesso idee, orientamenti, programmi, giudizi anche di grande interesse riguardanti le Istituzioni militari, cosa che tra l'altro induce a interpretare in senso alquanto elastico, e non troppo specialistico, l'espressione "scrittore militare". Con la scelta di questi campi di lavoro - vastissimi, molte volte inesplorati o poco approfonditi, poco frequentati, poco presenti nei Convegni 1 Meno quello sulla Teoria della RUerra aerea, tutti gli altri volumi sono editi dall'Ufficio Storico SME.


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QUALCHE CONSIDERAZIONE FINALE: PF.HCHÉ UNA "STORIA OELLE l=OEE =· ~--·!_ _ __

e Seminari di studio, e comunque mancanti di un'analisi organica - abbiamo voluto compiere un lavoro di supplenza, riempire un vuoto. E' ad esempio assioma noto, e da tutti ripetuto, che le esigenze e possibilità logistiche condizionano - da sempre - le operazioni, e viceversa; sta di fatto che ne1le innumerevoli "storie", quale che sia il loro principale movente, raramente si tiene conto del legame tra logistica e operazioni, e si tende a privilegiare quest'ultime: "l'Intendance suivra". In secondo luogo pare evidente che a monte di ogni azione, ogni decisione, ogni scelta, ogni provvedimento, ogni dottrina esiste un travaglio di idee, un orientamento prevalente, un modo di trarre degli ammaestramenti da episodi o guerre precedenti, spesso anche un dibattito non solo sulle riviste militari. Questo patrimonio di idee e sentimenti non è un belJ' ornamento che lo storico coscienzioso può trascurare; al contrario è l'autentica base di partenza, la fonte di a limentazione di qualsivoglia tipo di storia; va da sé che ciò accade anche a valle di eventi, decisioni, provvedimenti ecc .. Ecco dunque il ruolo pratico primario della storia della logistica e/o della storia delle idee. Ed ecco anche uno degli obiettivi che abbiamo voluto raggiungere, specie ma non solo con questo Tomo primo: dimostrare che non può esistere una "storia" vera.mente tale, che non affronti a sufficienza anche questi due temi e non li confronti con tutto il resto. Per fare un esempio pratico e molto attuale, come si può dare alle stampe una storia dell 'esercito italiano, trascurando o addirittura ignorando la storia della logistica e quindi dell'organizzazione militare e la storia delle idee, il che equivale a trascurare la fotografia o radiografia del corpo e della mente? e parlando del morale, dello spirito delle truppe si può forse ignorare che su di esso hanno sempre profonda influenza la qualità dell'armamento, dell'equipaggiamento, del rancio, insomma la qualità della logislii.:a, i.:he rende mollo più wnvincenti anche le esortazioni, gli insegnamenti di carattere morale cd esalta il prestigio della gerarchia? Al tempo stesso la storia degli eventi, delle idee, della logistica, degli ordinamenti ecc. dell'esercito italiano perde molte interfacce e diventa che lo si voglia o no - deformata e deformante, se non si compiono gli indispensabili raffronti con quanto si pensa, si prepara, si teorizza, si organizza negli altri principali eserciti, a cominciare proprio da quelli al momento contrapposti o alleati. Di qui l'importanza del metodo comparativo, che a maggior ragione è d'obbligo per un'arte, come quella militare, dove tutto si misura e si prepara - e presto o tardi viene soppesato suJl' inesorabile bilancia dei conflitti, delle operazioni attive - per il confronto con l'altro, o dal confronto con l'altro. Metodo comparativo che peraltro vale an-


Xli - L' ESJ:;RCITO TRA ANTIMILITARISMO E IL "MODERNISMO MILffARE..

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che per ben inquadrare il pensiero di un autore, i cui caratteri emergono solo dal confronto con altri; o per ben inquadrare un'opera, attraverso il confronlo con le altre dello stesso autore. Sia ben chiaro: con la storia delle idee e della logistica non si tratta di stabilire delle gerarchie, di mettere in un canto l' histoire - bataille o evenementielle per sostituirla con altre storie. Al contrario si tratta di arricchirla, di migliorarla, di farle dire tutto ciò che può dire, di impedire che si trasformi in un'arida impersonale descrizione degli avvenimenti, magari ad arte incompleta o lacunosa. o in quelle che Benedetto Croce chiama "storia - oratoria" o "storia filologica". Forme di storia senza dubbio utili, ma che secondo Croce non sono la " vera storia" nella quale, come già si è dello, "il presente rischiara il passato e il passato il presente, reciprocamente convertendosi e identificandosi". 2

Le parole del grande filosofo si attagliano alla perfezione al caso della storia militare "per i militari". Non dolla e sterile rievocazione del passato, ma chiave interpretativa del presente (che dunque, per essere tale, non deve proprio essere retorica o sfuggente o partigiana, ma deve ricercare l'obiettivo e i caratteri della preparazione all' azione). Viene però da chiedersi: almeno dal punto di vista militare è ancora va lida una siffatta concezione della storia, risalente al lontano 1935? E' un fatto che la seconda guerra mondiale e l'avvento della bomba atomica hanno segnato un momento di autentica rottura, facendo dalla storia militare non più la primaria materia professionale del passato, dalla quale i Quadri traevano principi e criteri per la condotta della guerra futura, ma piuttosto una sempre più stanca appendice di materie tecnico - scientifiche "civili" ritenute assai più importanti. Un'appendice, per di più, rimasta senza i grandi maestri e autori militari del passato. Proponendosi di evitare, di prevenire una guerra atomica che non avrebbe avuto né vinti né vincitori, la guerra fredda sembra aver inferto un colpo mortale e definitivo alla guerra napoleonica, quindi alla sua storia e ai principi derivati da delta storia, che pur variamente interpretali dopo l'eclissi della prima guerra mondiale, avevano dominato il campo fino al 1940 ed erano riferiti alle guerre convenzionali tra eserciti de lle nazioni sviluppate, nelle quali ciascuno tendeva ad arrecare il massimo danno possibile all'avversario, con sistemi d'arma sempre più perfezionati.

2

Benedetto Croce, Gli studi storici nelle varietà delle loro forme e i loro doveri presenti (Cit. ).


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QUALCHE CONSIDERAZIONE FINALE: PERCHÉ UNA "STORlA 01'.LUi IDcE"?

Per contro, nessun esercito anche durante la guerra fredda ha rinunciato ad avere dei principi derivati evidentemente dall'esperienza storica classica, e ritenuti validi almeno nel campo convenzionale; peraltro nel periodo post-guerra fredda è stata accantonata del tutto la logica strategica del confronto tra eserciti di nazioni industrialmente sviluppate, costringendo le forze regolari dell'Occidente a fare fronte a una panoplia estremamente variegata di rischi e minacce, a conflitti "asimmetrici", al terrorismo ecc .. In un siffatto contesto, pare evidente che il vecchio concetto di storia militare dogmatico, prescrittivo, troppo legato alla storia degli eventi e delle battaglie, mirante a trarne principi, massime, exempla per la condotta della guerra tra eserciti regolari è definitivamente sorpassato. Ma la guerra rimane fenomeno eminentemente sociale e spirituale, la guerra è fatta da uomini, e, appunto, è dominata da idee e sentimenti che non hanno età, perché appartengono all ' uomo nel senso più lato del termine. Se ne deduce che l'esperienza storica, è in tutti i casi non cancellabile, è anzi una ricchezza che anche ma non solo i militari di professione devono ricercare, studiare e meditare. E ' senza dubbio in questa nuova direzione che va ricercata la validità professionale di una storia militare rinnovata e modernamente intesa. Non per nulla nel 1961 , in piena guerra fredda, Alere Flammam (rivista della Scuola di Guerra) ha pubblicato un articolo tratto dal periodico francese Perspectives nel quale si contestano validamente le affermazioni di Paul Valéry su11'inutilità e il danno della storia e si deplora che la storia non venga più insegnata nelle scuole militari francesi, nelle quali al momento domina l'insegnamento tecnico - scientifico. Infatti secondo taluni Capi militari francesi questo indirizzo di studi "spesso soffoca troppo in certi giovani le qualità cosiddette militari, quali il sentimento del dovere, lo spirito di sacrificio e di disciplina, l 'ardente amore di Patria: quelle che cioè che costituiscono la grandezza e la servitù militare". 3 Ebbene, ecco scoperto il nuovo ruolo della storia militare: una storia rivolta ali' homo militaris, al suo rapporto con la società, alle idee e ai sentimenti che lo dominano. Una storia rivolta ali' organizzazione, a1 suo rapporto con le restanti Istituzioni e con la politica, ai problemi e anche ai contrasti di idee che l'hanno percorsa e al modo con cui sono stati risolti, o non risolti. Una storia, insomma, che più che alla scena guarda al proscenio, alle quinte, a ciò che prepara e segue gli eventi, per inquadrarli e capirli meglio, per far emergere il rapporto di continuità che lega l'Istituzione militare al suo passato.

' La storia e la forma zione militare, in "Alcrc Flammam" n. 5/ 1961. pp. 880-892 .


_ __ __,,Xli L' ESEROTO TRA ANTIMILITARISMO E IL "MODERNISMO M1LITARE"

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Dopo la prima guerra mondiale il colonnello Oete Blatto ha lamentato che in genere le nostre storie militari si volgono ai Capi e alle loro decisioni, ma tacciono dell 'uomo gregario, della massa che ha operato e tacciono, soprattutto, dei motivi interiori che l 'hanno spinta ad operare [... ].Le migliaia, i milioni di uomini combattenti sono l'istrumento, obbediente per natura, nelle mani dei Capi. Ma quante volte questo "strumento" non ha risposto. oppure ha rispnstn imperfettamente, alla volontà direttrice? Perché? Non lo sappiamo. 4

A ciò si aggiunga che negli anni Venti l' ammiraglio Bemotti ha scritto che, se non bisogna irrigidirsi nella visione della guerra di ieri , tuttavia a tale guerra è necessario riferirsi , quando si vuol stabilire sia l'esalta portata dei mutamenti che essa ha provocato rispetto alle dottrine precedenti, sia le possibili forme strategiche e tattiche delle guerre del presente e dell' avvenire.5 Le guerre e gli eventi del passato non sono dunque da accantonare, ma da studiare quale riferimento e misura per definire a ragion veduta i mutamenti. per misurarne la portata, per caratterizzare meglio la realtà presente e individuarne gli elementi di novità nel1a loro esatta natura. Il nuovo modo di fare storia che scaturisce da questi spunti non è certo facile, e tra l'altro richiede nuovi metodi d ' insegnamento: ma è l'unico possibile se si vuol rendere viva e puramente operante una materia, che può e deve tornare ad essere l' anima della cultura militare. Che questo oltre che auspicabile sia possibile, lo dimostra il Tomo ora giunto a1 tennine. Figure di grande interesse, le cui idee offrono spesso utili spunti di meditazione anche oggi. Problemi , come quelli ordinativi, del rapporto quantità/qualità, delle risorse e della loro allocazione, tuttora ben vivi e con basi analoghe. Questioni logistico - amministrative, di forza giornaliera disponibile, di addestramento, di infrastrutture, di campi d'istruzione presenti anche nel XX secolo. Esigenze di educazione morale del soldato, rapporti con la società, sfide dell'antimilitarismo e del pacifismo ben vive anche nel contesto dell'intero XX secolo. E si potrebbe continuare ... Sempre da questo Tomo primo si trae definitiva conferma della qualità della pubblicistica militare italiana, che non c ' è proprio nessuna ra-

4

Oetc Blatto, Breviario del/ 'educarnre militare, Torino, Schioppo 1926, p. 147. ' Romeo Bcmotli, La guerra mari/lima. Livorno, Giusti 1923. pp. 301 -303.


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QUALCHE CONSIOP.RAZIONE ANALE: PERCHÉ UNA "STORIA DEI.I.E IDEE" ?

gione di giudicare inferiore a quella delle principali nazioni europee. Anzi: non si trova, in campo europeo, una figura dalla statura multiforme del Marselli, né chi meglio di lui abbia tentato il superamento di Clauscwitz e Jomini, intravedendone anche i limiti. Un Ricci, un Perrucchetti, un Barone, un De Chaurand, un Ranzi e tanti altri sono quanto meno all'altezza dei migliori autori europei. Da notare anche l'estrema attenzione delle nostre riviste a quanto viene pubblicato all'estero, alle correnti di pensiero d'oltralpe con le quali continuamente si confrontano. Cosa ancor più rimarchevole, ci si trova di fronte a una profluvie di idee, di proposte di riforma espresse con sorprendente libertà e spesso anche se non sempre - valide e praticabili. Il problema sta piuttosto nel grado di diffusione, di assimilazione di tali idee anche al di fuori delle caserme e nell'interesse effettivo che suscitano nella massa dei Quadri. Il problema sta anche nella loro mancata o incompleta applicazione nella realtà dell'esercito del momento. Per un complesso di ragioni, che emergono dalla pubblicistica militare anche (ma non solo) tra le righe, la realtà interna ed esterna è difficile e tale da non recepire facilmente le innovazioni. Pesano molto la carente situazione infrastrutturale, la mancanza di campi d'istruzione, la mancanza di una buona intelaiatura di sottufficiali, la macchinosità e complicatezza del meccanismo amministrativo e contabile che grava sui reparti (e in particolare sui capitani e colonnelli) occupando troppo del loro tempo, la situazione infelice dei Quadri inferiori e in particolare dei subalterni, l'elevata percentuale di soldati analfabeti e semianalfabeti che non favorisce l'attività addestrativa, le carenze nel trattamento del soldato (rancio e vestiario specialmente). Né si può dire che il mondo esterno si sia rivelato molto sensibile ai problemi militari, si sia molto preoccupato del miglioramento dell' Istituzione militare. Di conseguenza la politica non ha certo aiutato l'esercito ad essere più efficiente. Sono state principalmente remore politiche a non rendere possibile l'applicazione degli aspetti più vantaggiosi del modello prussiano. In particolare le esigenze di ordine pubblico e di distribuzione dei reparti sul territorio nazionale (anche per incentivare le attività economiche locali con la presenza di un presidio militare, che equivaleva a una piccola industria), di fatto hanno sempre condizionato o impedito l'adozione dei modelli di reclutamento e ordinativi, perseguiti e desiderati dai militari da Ricotti in poi, costringendo i Ministri a compromessi, aggiustamenti, espedienti che non hanno mai consentito la chiamata dell'intera classe di leva (contingente unico), le sedi fisse e la scelta delle modalità più semplici e razionali per addestrarla, inserirla nell'esercito e mobilitarla ali' occorrenza.


X U • L"ESERCITO TRA ANTIMILITARISMO F. li. "'MOL>EKNISMO MILITARE"

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Per tutte queste ragioni - è una constatazione - le tante proposte migliorative, i tanti tentativi di riforma hanno avuto esito modesto e hanno elevato meno di quanto sarebbe stato necessario e possibile il livello addestrativo e morale delle unità. Così stando le cose, appare chiaro che il Libretto rosso del generale Cadoma non può che aver avuto modesta influenza. Non conosce bene le cose militari chi crede che una pubblicazione o una circolare possano ipso facto mutare radicalmente - in meglio o in peggio - una data situazione. Pubblicazioni e circolari hanno certamente un' influenza, che però è variahile e dipende dalla realtà: se questa realtà è troppo dista nte dai dati di base assunti come riferimento, allora tale influenza già aJl ' inizio è ridolla e comunque inferio re a quanto sarebbe necessario, per poi azzerarsi con il tempo. Historia nonfacit saltus; la storia insegna che, in un dato momento, un organismo affonda sempre radici profonde nel suo passato, è la risultante di infinite componenti, che anch'esse trova no riferimento in un passato più o meno recente. Per quesla ragione l'esercito italiano che nel maggio 19 I 5 passa il confine e inizia operazioni offensive contro l'Austria non è altro che quello che si è venuto delineando nelle pagine del presente Tomo. E si deve anche tener conto dell a mobilitazione e costituzione affrettata delle Grandi Unità secondo il classico sistema francese, che non possono essere coese, ben affiatale, ben addestrate come richiederebbe un'ardita offensiva iniziale. L'esercito del 1915 aveva certamente dei difetti e lacune, che poi ha pagato nel corso della guerra e ha corretto in buona parte dopo Caporetto. Erano i difetti tipici e in certa misura immancabili di un esercito di massa, assai lontani dall'ambizioso quadro addestrativo, disciplinare e spirituale ritenuto necessario dagti scrittori più illuminati . Ne è stata conseguenza la dura disciplina della guerra di trincea, che di fatto ha accantonato i concetti di di sciplina illuminati e moderni , portati avanti dal Marselli, dal De Chaurand e dai loro seguaci, adatti a un soldato già di per sè disciplinato, fiducioso, consapevole, motivato che al momento si trova troppo raramente nelle trincee. La guerra di masse ha anche favorito la tattica, la filosofia della guerra di trincea e logoramento, la quale ben poco tiene conto delle concezioni strategiche e tattiche che abbiamo esaminato. In proposito va ancora sottolineato che la tattica e la strategia offensive dell'anteguerra non sono state affatto superate, nelle lince essenziali, dalla logica della guena di logoramento: se mai è stata quest' ultima a rappresentare, per ragioni sociali ed economiche, una degenerazione, una stasi e un arretramento della tattica e strategia dell 'anteguerra, ritornate in auge specie a partire dal 1917-1918, non appena si è creata per ragioni anche


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QUALCHE CONSIDERAZIONE ~1NALE: l'F.RCHÉ IJNA " STORIA DE=•LLE = !D=E=E"-''! _

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politico-sociali una differenza di potenziale tra i due contendenti , sufficiente per consentire finalmente la prevalenza di uno dei due. E non è un caso se, quando si è finalmente creata tale differenza di potenziale, il reticolato, la trincea, la mitragliatrice, ecc. si sono rivelati superabili e hanno perso quel ruolo anche strategico, che aveva fatto apparire - a torto - questi mezzi di lotta come artefici esclusivi della superiorità della difesa. Una cosa però è certa: che nel patrimonio di idee fin qui esaminato, e nello stesso Libretto rosso del generale Cadoma, anche un ufficiale di grado inferiore avrebbe potuto trovare quanto bastava per condurre saggiamente i suoi uomini all'attacco, senza trasformare detto attacco in un'ecatombe, in un massacro. Le teorie, le dottrine possono dunque essere assolte, per la semplice ragione che, alla prova dei fatti, hanno contato poco o nulla in una strategia e in una tattica che spesso si sono risolte nell'ottenimento del minimo risultato con il massimo sforzo: l'esatto contrario, cioè, di ogni strategia e di ogni tattica classiche. Bisogna perciò chiedersi quale strategia e quale tattica sono state usale quando la guerra specie sul nostro fronte è ridiventata di movime nto, e in particolare nella battaglia di Vittorio Veneto. Questa strategia e questa tattica somigliano di più a quelle della guerra di logoramento e di trincea, oppure a quelle che configurano le pubblicazioni del 1913 prima esaminate, e se vogliamo anche il" Libretto rosso"? La risposta ci pare ovvia. A Vittorio Veneto nella rottura finale del punto di saldatura tra lo schieramento austriaco del settore montano e que11o del piano riappare Napoleone: un fatto sul quale bisogna meditare, così come bisogna meditare sulla guerra lunga, sanguinosa, economicamente rovinosa della quale Vittorio Veneto è stato l'epilogo italiano. La risposta agli interrogativi contraddittori che sorgono va cercata, e trovata, in una grande incognita che gli autori esaminati, tutti teorici della guerra breve, non colgono o colgono solo in minima parte: il peso economico, industriale, morale delle masse armate, e, di conseguenza, la capacità di resistenza morale e materiale dei popoli che lavorano e le alimentano. Di fronte a questi fattori, quelli puramente militari e tattici perdono molto del loro peso. Non per nulla la superiorità tattica tedesca e la migliore qualità della sua leadership, diversamente dal 1870-1871 questa volta non bastano. La ragione principale è la lunghezza della guerra: in altre parole, la mobilitazione assai vicina al modello di nazione armata e l'economia degli Imperi centrali si dimostrano due dati disaggregati, contrastanti e non armonici, che funzionano solo in caso di guerra breve; tutto il resto passa in second'ordine. Ecco dove hanno portato lo squilibrio verso l'offensiva e la tendenza fin dall'inizio alla nazione armata della dottrina tedesca. Ne risulta chiaro il difetto esizia-


Xli - L' ESERCHO TKA ANTIMILITARISMO E IL "MOnPRNISMO MIUTARE"

le della nazione armata: fonnula organica a parte tutto adatta solo a una guerra breve, ché una guerra lunga, con tutti o quasi gli uomini validi alle armi, significherebbe la paralisi delle attività dell'intera nazione, cioè l'impossibilità di alimentare non solo l'esercito, ma anche la popolazione... Qualcosa di molto simile è avvenuto in Germania e Austria, appunto, nel 1918, provocandone il crollo, che non è stato solo militare. Dire che i tedeschi nel l9J4 avrebbero potuto senz'altro giungere a Parigi, e che gli italiani all'inizio della guerra con maggiore slancio avrebhero potuto impadronirsi subito di posizioni la cui conquista è poi costata loro tanto sangue, è antistorico: ciò non è avvenuto, e questo basta. Si deve invece dire che là ove g li Stati Maggiori hanno insistito in attacchi che costavano troppo sangue, senza ollenere risultati corrispondenti agli sforzi compiuti, hanno trascurato ciò che emerge chiaramente dagli scritti prima esaminati, ove i punti di vista sono diversi, ma concordi nel configurare un attacco che in nessun modo ammeue le forti ssime perdite che saranno invece sopportate, per anni , nella futura guerra. La differenza di potenziale necessaria per la vittoria si trova, implicitamente, nei predetti scritti, e nelle fi gure ideali del comandante e del soldato combattente che ne derivano. Figure alle quali sono rid,iesle alle virtL1 , inevitabilmente molto rare in eserciti di massa. Tali eserciti di massa ne sono rimasti più o meno lontani già all'inizio della guerra: successivamente il divario è aumentato. E sono parallelamente aumentate, in misura esponenziale, le esigenze di armi, munizioni, materiali, rifornimenti di ogni genere, che hanno richiesto Ja mobilitazione industriale e creato già allora una dipendenza economica e finan ziaria dell'Europa dagli Stati Uniti. Questa fenomenologia si è rivelata ben più importante delle questioni delle quali ci siamo occupati; perché ne è derivato quell'equivalenza di potenziale morale e materiale de lle contrapposte forze combattenti, che più della mitragliatrice e del reticolalo ha creato la paralisi della guerra di logoramento, dovuta non tanto alla superiorità della difesa sull'attacco, ma piuttosto all'equilibrio tra difesa e attacco, che per il successo di quest'ultimo ha reso necessaria una differenza di potenziale difficile da ottenere. Noi non concordiamo con coloro che, come Giuseppe Prezzolini,6 hanno voluto presentare la villoria di Vittorio Veneto come il colpo di grazia a un nemico già in dissoluzione, già sconfitto: è un 'offesa ai tanti Caduti italiani anche in quest' ultima, grande battaglia offensiva. Sta di fatto, però, che - al contrario di Caporetto - questa volta il potenziale morale e materiale 6 Giuscppe Prezzolini. Vittorio Veneto. in " Il meglio di Giuseppe Pren olini", Milano, Longanesi 197 1, pp. 306--324.


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QUALOIE CONSU>ERAZIONE A NALE: PERCHÉ UNA "STORIA DE1LI! IUEE"?

dell'esercito italiano, rinfrancato dalla vittoria difensiva nella precedente battaglia del Piave, era di molto superiore a quello del nemico. Ne è conseguita una vittoria di sapore napoleonico, che ha ridato fiato e credibilità alla dottrina offensiva dell' anteguerra. In sostanza nel 1919 ci si trova, dal punto di vista dottrinale, più o meno allo stesso punto del 1915. L'esame condotto porta dunque a concludere che, più che le dottrine offensive del 1915, avrebbe dovuto essere sottoposto a revisione profonda tutto ciò che le rendeva credibili e realistiche: la catena di comando, gli ordinamenti, i sistemi d'arma, la dottrina e gli organi e mezzi logistici, i sistemi di trasporto, insomma: l'organizzazione necessaria per attuare principi dottrinali in buona parte ancora validi. 1n questo senso, è sintomatico che buona parte dei difetti rilevati nell' excursus compiuto, a cominciare dalla pletoricità e scarsa economicità dell'organizzazione logistico - amministrativa, dalle carenze infrastrutturali e addestrative ecc., sia immeritatamente sopravvissuto alla guerra e negli anni Venti sia rimasto un problema sul tappeto, come dimostra nel 1924 una relazione dell'onorevole ing. Belluzzo, relatore di una Sottocommissione parlamentare.7 Anche per questa ragione auspichiamo che la nostra indagine sia utile a chi voglia conoscere veramente i problemi vecchi e nuovi non solo dell' esercito ma delle forze armate, onde individuarne le profonde radici. Per superarlo il passato va prima studiato, se non altro per non ripetere vecchi errori e per cogliere tutte le interfacce di problemi complessi, che come tali hanno un profondo e talvolta insospettato retroterra storico.

7 Carlo

Jcan, La relazio ne Belluzzn, in " Rivista Militare.. n. 6/ 1978, pp. 13-16.


INDICE DEI NOMI DI PERSONA



INDICI DEI NO MI DI PERSONA

A.C., 1144 e nt. 34, 1144. ABIGNENTE, A. (cap.), 1213 (nl. I 19). A.F.J., 433 (nt. 82). AGO, Pietro (mag.}, I096 (nt. 69). AIRAGHI, Cesare (col.), 1l 5 e nt. 148,334 (nt. I 36), 477 e nt. I 9,478, 1039 e nl. 24, 1040, 1041 , 1042, 1043, 1044, 1046, 1047, 1075, 1109. ALBERINI, R. (cte), 359 (nt. 147),662 e 111. 36. ALBERTONE, Matteo (gen.), 49 1. ALBINI, Giovan Battista (amm.), 45 1. ALESSANDRO MAGNO, 302, 485, 5CXl, 582, 707 ,928, 11 5 1. ALFANI Augusto (prot.). 577 (nt. 14). 579. ALLASON, Ugo (col.}, 639, 642 e nt. 48, 750, 756 e nt. 20. 766, 1044 (nt. 25). 1049 e nt. 30, 1050, 105 1, 1052. AMADASI , Luigi (col.), 36.'i (nt. I .'i I ). AMBERT (gen.}, 168. AMBROSINI, Luigi (cap.), I 196. ANDRUCCI, Franco, 11 21 (nt. 13). ANGELL, Norman, 552 e nt. 10 1. ANGELUCCI, Angelo (magg.), 56 1. 562. e nt. 4, 565, 566, 643. ANGIOLETTI, Diego (gen.), 860, 865. ANNIBALE, 2 11 ,485,7 18,7 19. ARALDI, Antonio (gen.}, 89, 90, 96. 100, 1()1 , 792, e nt, 53, 793, 794 e nt. 54, 795, 796, 797, 808 e nl. 39, 809, 8 1O, 8 11 e nl. 60,812 e nt. 6 1, 62, e 63,81 3,8 17,8 19. ARCIDUCA CARLO DI LORENA. 32. 36, 40 e nt. 23, 42, 59, 60, 117, 11 8, 165, 177, 179, 180. 237, 248, 275, 276. 290, 29 1, 292, 343, 358, 406, 423, 464, 605, 636, 638, 648, 649, 650, 654, 659, 660, 665. ARDANT DU PICQ, Charles (col.). 629,67 1 e nt. 36, 672, 673, 674. ARISTOTELE, 142. ARM INJON, Francesco Vittorio (amm .), 42 1. ASTI, Domenico (cap.), 378. A'fl'LMAYR (VON}, Ferd inand R. (cap. Vasc.), 451 (nt. 107). AUBE, Théophile (amm., mini stro della marina frane.), 107, 828.

1227

AUGEREAU, Pierre (gen.), 603. AUGUSTO (II mp.), 1209. AYMONINO, Carlo (cap.) 1019 e nt. 11, I020, I02 1, I022, I023, I024. A.Z. 989 E NT. 65, 990. BACCELLI G. (ministro istrz.puhb.), 968, 1193, 12 13 (nt. 119). BADOGLIO, Pietro (cap.}, 991 e nt. 67,992, 993, I092 e nt. 66, I093. BALBO, Cesare, 28, 175,291,319. BALDINI, Antonio (gen.), 3 1,369. BALDISSERA, Antonio (gen.), 372, 491 , 1190. BALLATORE, Carlo (cap.), 11 35 e nt. 24, 11 36. BALZARINI, Emilio (magg.). I 196. Bi\RATCERI, Oreste (gen.}, 394 e nt. 38, 407,488 (nt. 29), 489,490, 884 e nt. 38, 885, 668, 887, 888, 900, 904, 968 (nt. 50), 1003 e nt. 82, 1057, 1059 e nt. 39, 1060, 1061. 1062, 1063, 1064, 1066, 1080, 1124, 1128 (nt. 20), 11 29, 1165. BARIOLA, Pompeo (gcn.), 772 (nt. 33). BARONE. Enrico (col.}, 25, 442, 457- 557, 629, 685,736, 737,737,756,817, 1063, 1067, 1196, 1220. Bi\STICO, Ettore (col.), 116, 117 e nt. 152, 11 8, 119, 123 e nt. 4, 124,228,649 (nt. 6), 670 e nt. 35, 67 1, 672 (nt. 37), 680 e nl. 45, 686 e nt. 51, 687, 688, 693 e nt. 64, 704,707 e nt 87,708,7 14,717 e nt. 100, 7 18c nt. 102, 719, 733 e nt. 122. 734, 738, I053 e nt. 3 I, 1054, 1056, 1087 e nt. 65, 1088, 1095, I096, 1101 e nt. 72, 1107. BAVA, Eusebio (gen.), 486. BAVA - BECCARIS, Fiorenzo (gen., ministro della g uerra), 373, 378, 379 e nl. 25, 383, 846, 847 e nt. 8, 848. BAZAINE, François A. (mar.}, 670, 11 90. BEAU HAKNA1S, Eugenio, 402,413. BEAUMONT (DE), E'lic. 744 e nt. 2. BEBEL, 1209. RELLUZZO (on. ing.), 1224 e nt. 7. BENEDEK. Luigi (mar.), 16 1. BENNATI, Luigi (ten. Col.), 952, 954 e nt. 25, 955, 957 e nt. 37


1228

IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. lii (1870 1915)

BERENHORST (von), Georg H., 603. BERNARDI (on.), 974. BERNOITI, Romeo (amm.), 1219 e nt. 5. BERTOLE VIALE, Ettore (gen. , ministro della guerra), 102, 106, 107, 108, 109, 11 l, 375. BERTONI, Giulio (linguista), 592,593,594. BERTOITI, Emilio (col.), 1099 e nl. 70. BETTINI, Pompeo, l 119, 1120 (nt. 11). BETTLÒLO, Giovanni (amm.), 969 (nt. 51). BUERNONVILLE (ministro della guerra), 216. BIANCARDI, Giuseppe (gen.), 1044 e nt, 25, 1075, 1197. BIANCHI D'ADDA, Marziale (gen.), 952 (nt. 32). BIANCIARDI, Raffaello (ten.), 888 e nt. 40, I 136 e nt. 25, 1137, 1138, 1139 e nt. 26 e 27, 1142, 1198. BIANCO DI SAN JORIOZ, Alessandro (cap.), 616. BIRARDl, Francesco, 1057 (nt. 34). BISSOLATl, Leonida (on.), 521,522. BISMARK, Otto, 188, 199,260, 528. BLANCH, Luigi, 122, 125, 235. 240, 245, 248,249,301,352, 353,361,457,501 , 529, 649, 666. BLAlTO, Oete, (col.), 1219 e nt. 4. BLOCH (DE), Jean, 494 e nt. 38, 495, 508, 509, 552, 1067 e nt. 42, 1068, 1069, 1070, 1151, 1206. BLOISE, Alessandro, 1087 (nt. 65)_ BLUCHER, G. L. (mar.), 260. BLUME (von), Wichelm (col.), 688 e nt. 55, 689, 690,691 , 692,693, 694, 700, 701, 705,706,7 18,720. BOBBIO, Emilio (gen.), 649 (nt. 6), 683 (nt. 48). BOCCACCIA, Epimede (col.), 30 e nt. 8, 118, 122, 123 e nt. 4,303 e nt. 97,337, 1079 e nt. 54, 1080, 1081, 121 3 (nt. 119)_ BOGUS LAWSKI, A. (gen.), 281 e nt. 65, I019, 1069 e nt. 44. BOLLATI, Ambrogio (gen.), 346 (nt. 140). BOLLATI DI SAIN PIERRE, Eugenio (cte), 506 e nt. 51,514 (nt. 62), 535. BOMPIANI, Giorgio (magg.), 940 e nt. 22.

BONAMICO, Domenico (cte), 27, 73, 75, 76, 78,100,105,300,322,323,324,325 e nt. 132, 332, 366 e nt. 152, 367, 404, 408 e nt. 54,411 , 418, 419,42 1,429 e nt. 77 e 78, 430, 431 e nt. 80, 432, 442 e nt. 95, 443, 446 e nt. 101 ,447,451 e nt. 107,455,495, 506,514,515,516,517,e nt. 63, 580 e nt. 16, 636 e nt. 45, 755 e nt. 19, 756, 768, 787. BONCOMPAGNl, Carlo (principe), 227 e nt. 124,318. BONNAL, Guillaume (gen.), 653,681. BONOMI, lvanoe (ministro della guerra), 459. BOS1, Pier Emilio (ten.), 567 e nt. IO, 568, 569. BOSI, Pio, 576,577,595. BOTfA, Carlo, 580. BOITI, rerruccio, 15 (nt. 5), 72 (nt. 77), 101 (nt. 141), 124 e nl. 7, 127 (nl. 9), 208 (nl. 92), 213 (nt. 101), 254 (nt. 29) 277 (nt. 56), 301 (nt. 93), 325 (nt. 132), 358 (nt. 146), 359 (nt. 148), 362 (nt. 150), 370 (nt. 12), 435 (nl.83), 450 (nt. 104), 532 (nt. 70), 525 (nt. 72), 528 (nt. 78), 543 (nt. 92), 589 (nt. IX), 644 (nt. 50), 649 (nt. 5), 662 (nt. 24), 684 (nt. 49), 875 (nt. 32), l032 (nt. 20), 1057 (nt. 34), 11 l (nt. 3), 1148 (nt. 41), 1180 (nt. 81). BOULANGER, Philippe ((prof.), 745 (nt. 2). BOVlO, Oreste (gen.), 461 e nt. 5 BRANCACCIO DI CARPINO, F. I 162, 1175ent. 77, 1176, 1177, 1178, 1179. BRANDT, Heinrich (gen.), 274, 612 e nt. 30. BRENTARI, Ottone, 368, 370. BRIALMONT, Henry (gen.), 169, 170, 79 1, 795, 1033, 1036, 1038, 1083. BRJGNONE, Antonio (gen.), 759 e nt. 27, 772 8nt. 33), 782 e nt. 46, 783, 784, 785, 789, 790, 791, 792. BRIGNONE, Filippo (gen.), 759 (nt.27), 772 (nt. 33). BRIN, Benedetto (ministro della marina), 104, 105, 106, 108,8 16, 11 24, 11 25. BRUNNER (cap.), 1029, 1030. BRUSATI, Ugo (col.), 489, 944 (nt.25). BRUZZO, Giovan Battista (gen.), 787 e nt. 48, 788 e nt. 49, 789, 797,802, 804, 806, 807,834.


lNl)ICJ Ulil NOMI l)I l'lil<SONA

BUACHE, Philippe (geografo), 748. BUCKLE, Henry T., 142 e nt. 35, 149, 150, 239, 364, 366. BUGEAUD, Thomas R. (mar.), 337, 656, 676,678. BUI ,OW (von), I lei nrich D. (ge11.), 258, 358, 583,605,657,659,685,718,723. BURN (col.), 567. CACCIALUPI, Gaetano (gcn.) 1048 e nt. 29. CADORNA, Luigi (gen.), 6, 492 e nt. 33. 533, 534, 535, 536, 537, 538, 539, 540, 549, 834, 924, 1087, 1095, 1096, 1097, 1098, 1099, 1100, 1101 e 111. 71 e 73. 1102 e nl. 74, 1103 e nl. 75, 1104, 1107, 1197, 1221 , 1222. CADORNA, Raffaele (gen.), 2 14, 1124. CALLWELL, Charles E. (gen.), 445, 507 e nt. 53. CAMOUS, Emilio, 1147, 1148. CJ\MPOUETI, Nicola M. (cap.), 1072 e 111. 47, I094 e nl. 68, 11 30 e nt.21 , 1213 (n1. 119). CAMPBELL (ten.), 567. CANEVARI, Emilio (ten.col.), 123 ( nt.4), 346 e nt. 140, 347, 348, 349, 350, 35 I, 353, 354, 358,359,461. CANGRANDE DELLA SCALA, 452. CANZIO (on.), 932. CAPELLO, Luigi (gen.), 537, 540. CARBONE, Gregorio (col.), 580, 594. CARBONI, Giacomo (gen.), 32 (nt. 11 ). 630 (11t. 39). CARLO ALBERTO, 214,486, 1209. CARLO EMANUELE ill, 11 2. CARLYLE, Thomas, 481. CARNOT, Lazzaro (gen.), 605. CARRION - N1SAS, 235, 248. CARPI, Vittorio (col.), 991, 1049 e 111.30, 1052, I053. CASANA, Severino (ministro della guerra), 520, 970 (nt.53), 991, 993. CATIA NEO, Carlo, 149,353,473, SO I, 840. CAVACIOCCHI,Albcrto(col.), l 16cnt. 149, 592 e nt. 20, 630, 636 e nt. 46, 637, 638, 639, 952, 958 e nl. 39, 959, 960, 1206 e nt. 116, 1207.

1229

CAVALLERO, Ugo (ten.), 1010 (nt.2). CAVALLETIO (on.), 917. CAVOU R, Camillo, 1209. CERMELLI, Mario, 450 (nL 104), 525 (nt. 72). CERONI, Riccardo, 376 e nt.20. CERQUE'ITI, Alfonso (prof.), 562. CERROTl, Filippo (gen.), 772 (nt. 33), 801, 802 e nt. 57, 803, 804, 805, 806, 807, 808, 810, 811, 1039. CERRUTI, Alberto (gen.), 1187. CESARE. 141 , 183,246,485,602, 1151. CESAR I, Cesare (col.), 368, 369 (nt. 5), 375, 394 (nt.38). CEVA, Lucio. 124 e nt. 6. CHI ALA, Luigi (gen.), 405. CI-IESNEL (Le comte de), 981 e nt. 58. CIALDINI , Enrico (gen.). 87, 155, 777, 779. 11 24. C ICCOITI (on.). 943. 966. C IPRIA NI. Amilcare, 111 7. CISOTTI, Lodovico (col.), 153 e 111. 49, 159, 368 e nt. I. 385 e nt. 32, 387, 420 (nt. 69), 471 (nt.1 1), 566 e nt. 8,567,593, 830(11t.81\. 11 42c11t.33. C'LAUSEW ITZ VON , Cari (ge11.), 8, 13, 15 e 111. 5. 16, 32. 33. 34,, 36, 37, 47, 59, 115, I 16, 123 (111. 4), 124,126, 127, 148,165, 176, 177, 178, 179, 180,237,238, 240, 243. 245, 246, 248, 249, 250, 251, 253, 256, 257. 258, 259, 260, 26 1, 263, 264, 267, 273, 275. 277, 284, 287, 289, 290, 292, 346 e nt. J 40, 347, 348, 349, 350, 35 1, 353, 354, 355, 356, 357, 358, 359, 36 1, 367,376,4 19,423,462,464 , 471, 475,484,485,545,598,600,602,603, 605, 606, 613, 616, 621, 622, 627, 628, 629, 636, 638, 644, 647, 648, 649, 650, 651 , 652, 655,656,657,658,671,674, 676, 677, 684, 685 e nt. 50, 687, 688, 689,690, 693,694, 696, 701,704,705, 706,708,7 11 , 712,718,720,722,723, 724, 725, 726, 727, 728, 730, 732, 734 (nt. 124), 735, 1220. CLEMENCEAU, Georges (presidente del consiglio), 735. C LERC, Charles (geografo), 744, 745 (nt. 2). COLlN, J. (tcn. col.), 722 (nt. 106).


1230

IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. IU (1870- 1915)

COLLETTA, Pietro (gen.), 580, 582, 583,

609. COLONNA, Egidio, 584. COLSON, Bruno (prof.), 357. COMPANS (on.), 904,909, 910, 911. COR DANO, Luigi ( magg.), 1083 e nt. 60, 61. CORSELLI, Rodolfo (col.), 647 e nt. 1, 648. CORSI, Carlo (gen.), 135, 301 , 374 (nl. 17), 392 (nt. 35), 630,631 e nt. 41 ,636,649 e nt. 4, 838, 839 e nt. I, 860, 868 e nt. 29, 869, 870, 871, 878, 922, 1016 e nl. 9, 1017, 1018, 1057, 1058 (nt. 35), 1162 e nt. 69, 1163 e nt. 70, 1164, 1165, 1166, 1173, 11 81, 1191 e nl. 87, 1197, 1213 (nt.119). CORTE, C lemente (gen. dep.), 375, 890. CORTICELLJ, Carlo (gen.), 630, 632 e nt. 43, 633,634 e nt. 44,636, 1129. CORVETTO, Giovanni (col. dep.), 405, 890, 901,915. COSENTINO, Enrico (magg.). 812 (nt. 62). COSENZ, Enrico (gcn. primo Ca. SME), 126, 341 e nt. 139, 342, 343, 344, 362, 465 , 772 (nt. 33), 833, 1036. COSTA, Andrea (on.), 1119. COUSIN , 142, 221 , 280. COUTAU - BÈGARIE, Hervé (prof.), 409 e nt. 58, 649 (nt. 6), 745 (nt. 2). CRAVERO, Giulio (ten.), 624, 625 e nt. 38, 626, 627,629,630. CRISPI, Francesco (pres. cons.), 489, 491. CROCE, Benedetto, 13 e nt. 2, 2 1, 22 e nl. 14, 23 e nt. 16, 123 e nt. 4,249,338,339 e nt. 137, 350, 364, 476, 478 e nt. 2 1, 492, 1217. CUCCHlARI, Domenico (gen.), 487. CUOIA, Efisio (gen., ministro della guerra), 844. CUVIER, 255. DABORMIDIA, Vitto rio E. (gen.), 421 , 797 e nt. 55, 798, 799, 800, 801, 8 18, 819, 1064. DALLARI, P. (cap.), 1205, 1206 ( nt. 11 5). DAL VERME, Luchino (gen.), 334 (nt. 136), 1939.

D ' AMICO, E. (cte), IOI. DANTE ALIGHIERI, 575, 622. DARIO, 928. DARWIN, Charles R., 239, 285, 483. D' AYALA, Mariano (gen. dep.). 30 1, 457, 636. DE BENEDETTI (inventore), 1076. DE BIASE Carlo, 1104 e nt. 76. DE BlASE, Luigi (ten. col.), 648 e nt. 3, 649. DE CHAURAND DE SAINT EUSTACHE, Felice (gen.), 840 e nl. 3,841 (nt.4), 924 (nt. 3), 928 e nt.10, 929, 930, 1057 (nt.33), 1071 e nt. 46, 1072, 1107, 1108 (nt. 78), 1110 (nt. 1), 1148 e nt. 41, 1149 e nt. 42, 11 50, 11 51, 1180(nt.81), 1220, 1222. DE CRISTOFORIS, Carlo, 27, 29, 32, J 15, I 16, 11 9, 284, 609, 624, 667, 756 (nt. 20). DE DOMENICO, Pietro (cap.), 1205 e nt. 114. DE LA GORCE, Paul Marie, 738 e nt. 127. DEL MAY NO, Luchino (gen.), 726 (nt. I 12), 969 (nt. 5 1). DELLA ROCCA (MOROZZO). Enrico (gen.), 772 (nt. 33). DEL NEGRO, Piero, 924 (nt. 2). DE MICHELI, A. (cap.), 889 e nt. 41. DE MONTBRlAL, Thierry, 612 (nt. 30), 649 (nt. 6). DE NEGRIER (gcn.), 681. DE ROSA, Luig i, R29 (nt. 80), 923 (nt. I). DE ROSSI. Eugenio (gen.), 459 e nt. 2, 11 10 (nt. J), 1180 (nt. 81). DE SANCTIS, Francesco, 125, 338. DE TULLIO, Giovanni, 6, 7. DE WETI (gen.), 1072. DIAZ, Armando (gen.), 535, 536. DI GIORGIO, Antonino (magg.), 11 80 (nt.81), 11 94 (nt.92), 1195 e nt.94, 11 96, 1197 (nt. 99). DI SAN MARZANO (ASINARI), Alessandro (gen., ministro della guerra), 1193. DOLCI, C. (cap.), 1028 e nt. 17, 1029. D.O., I 045 e nt.26. D' ODORICO, Odorico, 450 e nt. 104.


IN111CI DEI NOMI f)J PERSONA

D0GLT01Tl, Orazio, 383 (nt. 30). DORIA, Gian Andrea (amm.), 585. DOUHET, Giulio, (gen.), 358, 359, 450, 471 , 525, 545. DRAGOMIROFF, Micail (gen.), 329 e nt. 135. DRAKE, Francis (amm.), 586. DUFOUR, Guillaume H. (gcn.), 165, 659. DUMOURIEZ, Charles F. (gen.), 216. DURANDO, Giacomo (gen.), 264, 288, 292. EINAUDI, Luigi, 458, 506 (nt. 50), 1058 e nt. 37. ELIANO, 582. ELISABETTA D' INGHILTERRA, 246. ELLENA, Giuseppe (gen.), 489 EMANUELE FILIBERTO DI SAVOIA (gen.), 372, 537. ENGELS, Friedrich, 839, 840 e nl. 2, 962. ERODITTO, 127. EUGENIO DI SAVOIA, 484. FABIO MASSSIMO, 582. FABRTS, Cecilio (col.), 21 e nt. 13, 377 (nt. 21), 752 (nt. 12), 863 e nt. 27, 864, 865, 866, 1166 e nt. 71. FADDA, Giuseppe (gen.), 968 (nt. 50). FAMBRI, Paulo, 215, 983 e nt. 60, 984, 985, 986. FANFANI, Pietro (prof.), 562, 571 , 581, 582, 583, 590, 594, 595. FANIN (on.), 375.

FANTI, Manfredo (gen., ministro della guerra), 58, 7 1 e nt. 76, 72, 87, 11 3, 238, 258, 484, 529, 776, 771. FARINI, Domenico, 890. FASOLO, F.M., 827 (nt. 79). FAVALE (on.), 904,906, 907, 920. FAVRE, Paolo (col.), 630,632 e nt. 42, 636. FAZIO, Giacomo (col. dep.), 821 e nt. 75, 823. FEDERICO II DI PRUSSIA, 22, 117, 161 , 167, 169, 182, 183, 246, 251 , 252, 256, 260, 502,503,603, 605, 678, 691, 71 8, 995, 1012. FEDERICO CARLO (principe), 203. FERJENTSIK, Otto (cap.), 1079.

123 1

FERRARIS, Carlo F. (on.), 939 e nt. 21, 972. FERRARO, Lorenzo (cap.), 101 l e nl. 3, 101 2, 1072 e nt. 48, 1073, 1077 e nt. 53, 1078, 1079, 1201 e nt. LOS, 1202 e nt. 109, 1204 e nt. 111 e II2, 1205 (nt. 113). FERRERO, Emilio M. (gen., ministro della guerra), 332, 837, 879, 884, 886, 888, 899,900, 901 , 902, 903, 906, 908,909, 91 2, 920,921, 922, 923, 925, 939, 986, 988, 1035, 12 11. FERRERO, Guglielmo, 11 20 e nt. 12, JJ53 e nt. 5 1, 11 54 e nt. 52, 1155, 1156, 1157, 11 58, 11 59, 1160, 1161 , e nt. 68, 1162, 1163 (nt. 70), 11 64, 1165, 1166, 1167, 11 68, 11 69, 11 70, 11 7 1, 1172, 11 73, 1174, 11 75 e nt. 77, 1176, 1177, 1178, 11 80, 11 84, I 197. FERRI, Enrico (on.), 495. FICHTE, Johann G .. 629. FlLANGlERI, Gaclano, 125,457. FINCATI, Luigi (amm.), 562, 565, 580. FIORI , Cesare (ten. col. medico), 11 5 1, 1152 e nt. 49. FOCH, Ferdinand (mar.), 6.'i3, 6.'i4, 674 e nt. 38, 675,676,677,678,679,680 e nt. 46, 683,69 1. FOGLIANI, Tancredi (cap.), 8. 9, 75 1 e nt. 10, 752, 11 30 e nt. 22, 11 3 1, I 192. FORCELLINO, 583. FORNI, Filippo, 636. FORTUNATO, Giustino (on.), 837. 935 e nt. 16, 936. FRANCESCO G IUSEPPE (impcralorc d' Austria), 404. FRANCHI, Bruno, 495 e 111. 39. FRANZINI, Antonio (gcn., ministro della guerra), 486. FRANZOSI, Pier Giorgio (gcn.), 111 (nl. 145), 369 e nt. 8 e 9, 370 e nt. 12, 376, 381 ,383,384,385,387,396. FROBENIUS (ten. col.), 567. FRONTINO, 582. FULTON, Robert, 586. FUSlNATO (on.), 97 1. GAIANI, E., 12 13 (nt. I 19). GALILEO G ALILEI, 145.


1232

IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. lii (IK70-1915 )

GALLETII, Arturo, 827 (nt. 79). GAMBETTA, Lèon, 13. GANDOLF!, Antonio (gen.), 49, 83, 766, 772, 773 e nt. 34, 774, 775, 776 e nt. 38, 777, 778 e nt. 39, 779, 785, 792, 794, 884 e nt. 37, 1036. GARIBALDI. Giuseppe (gcn.), 28, 47, 48, 49, 113, 168, 225, 341 , 397, 472, 486, 583, 980 e nt. 567, 1145. GARIONI, Vincenzo (col.), 634 e nt. 44, 636. GASTINELLI (col.), 30. G.B.L., 1142 e nt. 33, l 143, 1144. GENTILE, Giovanni, 123 e nt. 4, 339, 340 (nt. 138), 350, 356. GENTILUCCI, Catia E., 461 e nt. 6. GHERSI, Luigi (ten. col.), 519, 952, 953 e nt. 33,954 ,955 e nt. 36,956,957,958, 959, 960, 1005. GIACCHI, Nicolò (gen.), 123 e nt. 5, 224, 225, 301, 447 (nt.103), 461 (nt. 3). GIACOMINI, Ruggero, 1111 e nt. 2, 1114 (nt. 5). GIAMBARTOLOMEI, Aldo (gen.), 981 e nt. 57. GIANOITI, Luigi, 827 (nt. 79). GILBERT, 653. GINI, Corrado, 550 e nt. 95, 551, 552. GIOLITTI, Antonio (prcs. del consiglio), 941,962. GOIRAN, Giovanni (gen.), 421, 754 e nt. 16, 755, 758, 765, 939 e nt. 20, 1197. GOOCH, fohn, 827 e nt. 78, 83 I e nt. 72. GOVONE, Giuseppe (gen., ministro della guerra), 861. GRAMANTIERI, Pietro (magg.), 1213 (nt. 119). GRANDMAISON (DE), Louis (col.), 674, 681 ,683. GRANT, Ulysses (gen.), 160, 162, 166_ GRASSI, Giuseppe, 291, 395, 523 (nt. 70), 569, 579, 580, 582, 583, 589, 591, 594, 595, 979 e nt. 55. GRASSI, I. P. Pio (padre), 561 (nt. I). GRAZIOLI, Francesco S. (cap.), 1198 e nt. 105, I 199, 1200. GRITTI, Luigi (magg. Comm.), 597, 950 e nt. 30,951.

GUERRINI, Domenico (tcn. col.), 131 (nt. 17), 566 e nt. 7,567,636,935 e nt. 14 e 15, 1067, ll45, 1146, 1147, 1196. GUERZONI, Giuseppe (on.), 1140. GUGLIELMOTI'I, Alberto (Padre), 561 e nt. I, 562, 567, 577 e nt. 14, 578 e nt. 15, 579,580, 581,582,583,585,586, 587, 588, 589, 590, 591, 592, 593 e nt. 21, 594,595,596,609,643. GUIBERT (DE), Jacques A., 235, 248. GUICCIARDI, Enrico (col. e dep.), 374 (nt. 17). GUICCIARDINI, Francesco, 11, 12. GUICCIARDINI (on.), 971,972,974. GUIDETTI, Angelo (magg.), 597. GUILLET, A. Sten.), 1081 e nt. 57, l082. GUIZOf, François P., 149. GUMPLOWITZ, Ludwig, 365. GUSTAVO ADOLFO DI SVEZIA, 288,484, 485. HEGEL, Georg W., 125, 126, 135, 138, 139, 142, 144, 146, (81, 225, 239, 255, 364, 629. HERDER, Johann G., 142. HAYMERLE (VON), Alois (col.), 399 e nt. 44, 405,407,421, 749, 880 e nt. 33. HINDENBURG (VON), Paul (mar.), 531. HOBBES, Thomas, 599. HOBSON, John A., 552 e nt. 102,553,555. HOCHE, Louis L. (gen.), 603. ILARI, Virgilio (prof.), 369 e nt. 9, 375 e nt. 19, 387, 399 (nt. 42), 543 (nt. 92), 888 (nt. 40), 1215. " ITALICUS", 1124 e nt. 19, 11 26, 1127, 1128. JAL, Auguste, 561. JAURES, Jean, 1121. JEAN, Carlo (gen.), 1224 (nt. 7). JOMINI, Antoine H. (gen.), 13, 27, 33, 34, 36,37,40,41,43,44,45,46,47,60, 72, 116, 118, 126, 127, 165, 166, 176 e nL 66, 177, 178, 179, 180, 235, 237, 246, 247,248,249,250,255,256,257,258, 259, 266, 267, 273 , 274, 275, 277 e nt.


INDICI DEI NOMI DI PERSONA

56, 278, 279, 281, 284, 285, 286, 287, 343,351,356,357,358,359,362,423, 464,583,596,603,605,609,6 11 ,6 12, 616, 636, 637, 638, 641, 647, 649, 650, 652,653,655, 657,658,659,660, 661, 665,674,675,676,684,704,722, 723, 724,726,727,728,755, 1220. JOURDAN, Jean B. (mar.), 11 2 1. KEFER (ten.), 1029. KlRCKER (Padre), 748. KLEIN, Jean, 612 e nl. 30, 649 (nl. 6). KNOLLS (cap.), 567. KUCHINKA (magg.), 835. KUHN, Franz (gen.), 383 e nt. 30. LA BARRE DUPARQ, 248. LA MARMORA, Alessandro (gen.), 368 e nt. 3, 369, 394 e nt. 36, 870, 995, 1000. 1004. LA MARMORA, Alfonso (gen., ministro della guerra), 54, 55, 58, 45 1,779, 848, 849, 850, 85 1, 852, 853, 854, 855, 856 e nt. 15, 857, 858, 859,860, 862,863,864. 870 (nt. 30), 876, 878, 981, 994, 11 24, 1125. LAMARTINE, Alphonse, 201. LAMBRUSCHINI (sen.), 571. LAME, Augusto (comunardo), 223. LANG, Guglielmo (col.), 218, 1075 e nt. 5 1, 1076 e nl. 52, 1077. LANGENOORF, Jean-Jacques, 612 (nt. 30), 688 e nt. 54. LANGLOIS, Hippolyle (gen.), 653, 834, 835 e nt. 86, 1078. LAVALLÉE, Théophile, 217, 288, 400, 744, 745, 746, 748. LE COMTE, Ferdinand (col.), 176 (nt. 66). LENI N, 1114. LEONARDI CATIOLICA, Pasquale (amm. Ministro della marina), 1195 (nt. 93). LEONE IMPERATORE, 583. LEONE, Luigi, 1082 e nt. 59, 1083. LEVASSEUR, 648, 649. LEWAL, Jules (gen.), 6, 7, 650, 654, 655 e nt. 17,656, 657, 658,659,660,661,662 e nt. 26, 663, 664, 665, 666, 667, 668,

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669, 670, 673, 676, 678, 679, 685, 691, 738. LINNEO, 255. LIUZZI, Guido (gcn.), 19 e nt. 11. LLOYD, Humphrey E. (gen.), 358,605,640, 676. LODI, Filippo (tcn.), 750, 75 1 e nt. 9, 752. LODRINI, Emilio (cap.), 394 (nt. 38), 985 e nl. 63, 986. LO FORTE, Francesco (cap.), 432 (nt. 81). LONGO, Giacomo A. (gen.), 772 (nt. 33). LORD ROBERTS, 1071. LUCIANO, G. B. (col.), 1064 e nt. 40, 1066. LUDENDORFF, Eric (gen.), 665. MAC DOUGALL, Patrick L. (col.), 179 e nt. 67, 282 e nt. 67, 283, 284, 285,343. MACHIAVELLI, Nicolò, 142, 166, 169, 244, 245,566,583,584,636. MAC MAHON, Mauricc (mar.), 209. MAGGI, C., 1213 (nt. 11 9). MAH AN, Arthur T. (amm.), 358, 359, 429, 506, 507, 508, 516, 635., 636 (nt. 45), 752 e nt. 11 , 1174 (nt. 76). MAILLARD, 653. MAJOCCHI, Achille (col. dep.), 904, 905 e 906. MALAGUZZI - VALER!, Carlo L. (col.), 966, 967 e nt. 46. MALDAN, 1019. MAU'HUS, Thomas R., 239. MANTEGAZZA, Vico, 576 e nt. 76, 532 e nt. 79. MANUZZI, Gi useppe, 583. MARAVIGNA, Pietro (gen.), 15 e nt. 4. MARAZZI, Fortunato (gen.), 817 e nt. 66, 818, 819, 820, 821 e nt. 75, 822, 825, 827, 94 1, 942 (nt. 23), 943 (nt. 24), 944 e nt. 25,945 e nt. 26,946, 947, 949,950, 951, 952 e nt. 32, 953, 954, 956, 957, 960,963,964,965,966,968,972,974, 975, 990, 991 (nt. 66), 999, 1005, 1057, 1058, 1059 (nt. 38), 11 97. MARGA, Anato le, 744, 745 (nt. 2). MARIANI, Carlo (col.), 1135 e nt. 24, 11 36, 1137. MARIOTTI, Temistocle (col.), 122 (nl. l ), 224 e nt. 119, 593 e nt. 22,, 594, 860,


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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Ili (1 870-1915)

866, 867 e nt. 28,868,967 (nt. 49), 1213 (nt. 119). MARMONT, Auguste (mar.), 32 e al. Il, 35, 60, 61 e nt. 57, 67, 115,630 e nt. 39, 651, 659, 665. MARSELLI, Nicola (gen.), 9, 25, 111 , 115, lì6, 117, 121- 231, 233-366, 367, 370, 404,407, 411 , 415,419, 421 , 423,424, 426, 428, 432, 438, 443, 447 (nt. J03), 448, 454, 457, 458, 459, 460, 462, 465, 466, 469, 471 , 473, 475, 478, 479, 480, 482, 483 e nt. 23, 484,485,487, 488, 494, 495, 501, 503, 514, 517, 518, 545, 549, 551 , 554, 574 e nt. 11,575,599, 611 , 621 , 623, 624, 626, 627, 629, 630, 636, 637, 638, 654, 661, 685, 704, 710, 725, 727, 736, 755, 761, 767, 768, 779, 797, 799, 817,834,868,890,923,965, 1032, 1033, 1034, 1109, 1140, 1141, 1180, 1192, 1209, 1211, 1213, 1220, 1222. MARTINEZ, Gabriele, 461 (nt. 3), 480 e nt. 22. MARTINI, Felice (col.), 373, 378, 379 e nt. 26, 380 e nt. 27, 381 , 382, 393, 782, 78.:'i e nt. 47, 786, 787, 792. MARTINI, Gioacchino (pseudonimo SYLVA VIVIANI), 961 e nt. 41 , 962 e nt. 43, 963, 964,965,966. MASSARI, Michele (gen.), 373, 827 (nt. 79), 1034 ( nt. 22), I036, 1037. MASSOBRIO, Giulio, 833 e nt. 84. MATTEI, Emilio (gen. dep.), 1124. MAURIZIO DI SASSONIA, 358. MAYER, Giuseppe (gen. prof.), 461 (nt. 3). MAZZA (on.), 890. MAZÉ DE LA ROCHE, Gustavo (gen. ministro della guerra), 17. MAZZETTI, Massimo, 827 e nt. 78. MAZZINI, Giuseppe, 472. MECOZZI, Amedeo (gen.), 360, 361 e nt. 149. MEYNART (linguista), 567. MELZI (linguista), 595. MENABREA, Luigi F. (gen. ministro), 772 (nt. 33), 864. MENARINI, Giuseppe (cap.), 994, 995 e nt. 70 e 72, 1001 , 1002 (nt. 80).

MENELIK, 1191 . MENIL DURANO, 1012. MEOMARTINO, Pasquale (cap.), 699 (nt. 74). MEZZACAPO, Carlo (gen.), 421 , 861 e nt. 26, 862, 863, 864, 879. MEZZACAPO, Carlo e Luigi (gen.), 174, 175, 284, 288, 377, 421, 422, 454, 457, 621 , 754, 755, 758, 761 , 771 , 775, 816. MEZZACAPO, Luigi (gen. ministro della guerra), 802, 826, 879, 880 e nt. 34, 881 e nt. 35, 882, 886, 896. MICHELET, Jules, 142. MINGHETTI, Marco (pres. del consiglio), 200, 451 . MINNITI, Fortunato (prof.), 817 e nt. 65, 827 e nt. 78, 830. MINONZI, C. (col.), 17 e nt. 8, 827 (nt. 79), 832 c nt. 83. MOCENNI, Stanislao (gen. ministro della guerra), I IO, 911,912, 926, 936, 940. MOLINARI, Vincenzo, 598, 599, 600, 602, 603, 604, 605, 606,608,609,610, 611, 61 2 e nt. 3, 613, 615, 616, 617, 619, 621. MOLLARD, Filiberto (gen.), 487. MOLTKE (VON), Helrnuth (mar.) , 161 , 188, 192, 2 IO, 211, 227, 238, 260, 263, 267, 276, 277, 278, 284,341,347, 445, 475 e nt. 17,488,493,494, 529,530, 554,577, 656, 684, 685, 686, 688, 708, 7 18, 720, 724,738,761 , 878, 885, 965, 1013. MOLTKE (VON), Wilhelm - junior (gen.), 717, 719, 720. MOMMSEN, Teodor, 224, 225. MONTAIGNE, F. (tea. col.), 674, 683 e nt. 47. MONTALEMBERT, 171 . MONTECUCCOLI, Raimondo, 590, 60 I, 636. MONTESQUIEU, Charles L., 142. MORANA (on.), 904, 907, 908. MORDACQ, Jean (gen.), 649, 650 e nt. 7, 651,652, 653, 654, 655,681. MOREAU, Jcan V. (gcn.), 603. MORENO, Gennaro (gen.), 630, 631 (nt. 40), 633, 643, 1023 e nt. 13, 1024, 1036 e nt. 23, 1037, 1038, 1039, 1197.


INDICI l>EI NUMI [)I PliRSONA

MORICI, Antonio, 827 (nt. 79). MOROZZO DELLA ROCCA, Roberto, 996. MOSCA, Gaetano, 1177. MOSSo, Angelo (on. Prof.), 965 e nt. 48, 968, 969, 1193. MURA'f, Gioacchino (mar.), 169. MUSSOLINI, Benito, 1122. MYLES, E., 1103 e nt. 75. NAGLIATT, Tancredi , 827 (nt. 79). NAPOLEONE I, 12, 15, 41 , 16 1, 165, 166, 167, 170, 171 , 173, 178, 183, 189, 192, 199, 246, 248, 250, 25 1, 252, 256. 262, 267,279,285.286, 29 1,356, 36 1. 377, 402, 471 ,473,474,482. 484, 485,502, 503, 530, 531 , 557, 580, 582, 583, 601, 605, 606, 607, 621. 622, 623, 624, 626, 648, 649, 650, 653, 654, 676, 685, 718, 724,734 (nt. 124), 965. 1033, 1151. NAPOLEONE III, 188, 189, 192, 200, 2 10, 223, 474, 528, 602, 666, 841 , 842, 870, 11 56, 1190. NASALLI, Saverio (magg.), 999. NASI, Luigi (cap.}, 996, 997 e nt. 74-75, 999 e nt. 77. 1000 e nt. 79, HIOI , l(X)2 e nt. 8 1, 1003 e nt. 83, 1004, 1152 e nl. 50, 1213 (nt. 119). NATALE, G iuseppe (ten. col.), 952, 957 e nt. 38,958. NELSON, Horatio (amm.}, 580, 582, 583, 586. NERVO (on.), 912,913. NICOTERA (on.}, 904, 905, 909,9 10. NIBMAN (linguista), 567. NIGHTINGALE, Florence, 6 19. NIOX, Gustave Lèon (cap.}, 744, 745 e nl 23. NOCKERN DE SCHORN (col.), 358 e nt. 146, 645 e nt. 5 I. NUCCIO, Oscar, 461 (nt. 3). NUNZIANTE (Duca di Mignano), Alessandro (gen.), 860, 87 1 e nt. 3 1, 872, 873,875 ,876,877,894, 9 15, 947. OLIVA, Gianni (prof.}, 1111 e nt. 2, 111 3 (nt. 4), 111 5 (nt. 6). OMAR, 112 (nt. 147).

1235

ORERO, Baldassare (magg.), 1015, 1016 e nt. 10, 1017, 1018, 1019, 1020, 1021 , 1022, 1023. ORLOFF (gen.), 1027. ORSINI, Felice, 377. OSIO, Egidio (cap.), 28 1 (nt. 65), 827 (nt. 79). OTTOLENGHI, Giuseppe (gen., ministro della guerra), 953, 963, 964, 966, 1024, 1025cnt. 14. P.. I022 e nt. 12, I023, 1024. PAGAN I, Carlo Osvaldo (col.), 122 (nt. 1), 137 e nt. 29, 197 e nt. 81,226 e nt. 123, 227. PA(ìANO, Emi lio (col.), 827 (nt. 79). PAGANO. Mario. 142. PAGN/\MENTA , Fi lippo (gen.), 827 (nt. 79). PA IS (on.). I()(), I IO. PANDOLFI (on.), 1035, 1036. PAOI .Ern, I .candro (gen.), 936, 937, 938,

939. PAR IS (r,,·11. ), 694, 699, 982. PARODI. Enrico (gcn.). 374. PARRILLI. Giuseppe. 56 1, 580,586,587. PA'fELLI , 568. PASCALE, N. (rnl.). 1200. 1201 e nt. 107. PASTORE. Giuseppe (gcn.). 860, 866. PECOR I - G IR/\LD I, Guglie lmo (col.}, 95 1 e 111. 31. PEDOTTI. Ettore (p.en., ministro della guerra), 1205. PELLOUX. Luigi (gc11., 111i11is1ro J clla gui.:rra), 879. 883 e nl. 36. 884, 885, 886, 888, 931. 932, 936. 937, 940, 987, I 183, 11 97. PENNELLA. Gim,cppc (col.). 11()4_ PENTIMALLI. Natale (len. col.), 543 e 111. 92,544. PEPE, Guglielmo (gen.), 125. 200, 288, 29 I. 30 1, 3 19, 34 1, 404,42 1. PERICLE, 1209. PEROLO (cap.), 1210 e nt. I 18, 12 11 , 12 12, 12 13. PERRONE DI SAN MARTINO, Roberto, 904,908, 931 , 932.


=12=3~ 6 _ _ _ _ _~

IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL.111 ( 1870-1915)

PERRUCCHETII, Giuseppe (gen.), 22 e nl. 15,25,207,288,322,332,367-455,5 14, 515,517,545,747,748,752,754,755, 758,765,766,768,782,795,808,812, 817, 818, 825,827,833,969, 981, 985, 986, 993, 1195, 1220. PERSANO (PELLION DI), Carlo (amm.), 451, 1124, 1128. PETITTI DI RORETO, Agostino (gen., ministro della guerra), 71, 772 (nl. 33). PETTINENGO (DE GENOVA DI), Ignazio (gen., ministro della guerra), 772 (nt. 33), 864. PEUKER (VON), Edward (gen.), 253, 694, 699,984. PIANELL, Giuseppe S. (gen.), 772 (nl. 33). PIAZZONI, Sandro (ten. col.), 485 (nt. 25). PICQUART, Georges (gen.), 653,681. PIERI, Piero (prof.), 119, 123 c nt. 4, 124, 228 e nt. 126, 238, 349 e nl. 142, 350, 351, 352, 354, 355, 356, 357, 358, 359, 362. PIERRON, Edouard (gen.), 652. PIFFERI, Ercole. 624 e nt. 37. PIRRONE DI ELIDE, 238. PISACANE, Carlo, 125, 352, 353,457, 1113. PISISCELLI TAEGGI, Giacomo (cap.), 1084 e nt. 62, 1085. PTTTALUGA, Giovanni (gen.), 965 e nl. 48, 966, 995 e nt. 73, 996, 997 e nt. 76, 998, 1197. PIZZOCCARO, Vincenzo, 827 (nt. 79). PLATONE, 142. PLEBJ\NO (on.), 912, 913, 914, 915, 916, 918,919,920. PLUTINO (on.), 904. POLIENO, 583. POLLIO, Alberto (gen., Ca. SME), 536, 1087, 1092, 1093, 1096. POMPADOUR, 246. PORRO, Carlo (gen.), 566 e nt. 8, 597, 748 e nt. 7, 749, 750, 751, 752, 757 e nt. 21 e 22, 758. POTEN (linguista), 567. PREZZOLINI, Giuseppe, 461 (nt. 3), 1223 e nt. 6. PRIGHT, Ugo, 1194 (nl. 91).

PRIMERANO, Domenico (gen., Ca SME), 817. PROUDHON, Pierre j , 201,220,221. PUGI, Rodolfo (col.), 952 e nt. 32. QUARENGIII, Cesare (prof.), 561,562 e nt. 5,565. QUETELET, Adolphe, 243. RADETZKY, Joscph V. (mar.), 446, 485. RANDACCIO, Carlo, 56 l e nt. 2, 562, 594. RANZI, Fabio (eap.), 629, 1162, 1167 e nl. 72. 1169, 11 7 1, 1172, 1173, Jl74, 11 75, 1179, l 180 e nt. 41 , 1181 e nt. 82, 1182 e nt. 83, 1183, 1184, 1185, 1186, 1187, 1188, 1190, 1191 e nl. 86, I l 92 e nt. 88, Il 93 e nt. 89, I I94 e nt. 90 e 91, 1195 e nl. 93 e 95, 1196, 1197 e nt. 100-103, 1197, 1198, 1120. RASERO, Aldo (gen.), 369 e nt. IO, 370 e nt. 11 , 371 (nt. 13), 374 e nt. 17,385. RAZAC, Oliver, 1031 e nl. 19, 1032 e nl. 21. REISOLI, Gustavo (col.), 67 l (nt. 36). REMOND (gen.), 1019. RENARD (gen.), 279. RIBBENTROP (linguista), 565. RICCI, Agostino (gen.), 25, 27-119, 156, 175, 207, 297, 298, 300, 321, 323, 332, 367,369, 370, 371, 372, 378, 381, 382, 383 e nt. 29 e 31, 384, 385, 386, 387, 388,389,399, 406, 415,417,418,419, 421,422,423, 424., 431,443,447, 453, 462, 463, 514,516, 545, 549,608, 636, 637, 638, 661 , 736, 1124, 1126, 1129, 1130, 1134, 1181 , 1220. RICOEUR, Paul, 363. RICOTTI MAGNANI, Cesare (gen. ministro della g uerra), 16, 70, 81 (nt. 95), 85, 102, 104, 125, 131 , 205,206,208,212, 214, 234,369,374, 376,385, 386,387,390, 394 (nt. 38), 397, 398, 404, 405, 440, 589,804, 816, 817, 831 , 834, 841 , 843, 844, 845, 846, 847, 850, 85 1, 853, 854, 855, 856, 857, 858, 859, 860, 861 , 862, 863, 864, 865, 866, 868, 869, 870 e nt. 30, 871, 876, 877, 878, 879, 883, 888, 889,893,895,896, 897,899,900, 901 ,


INDICI DEI NOMI DI PERSONA

902, 903, 904, 906, 907, 909, 91 I, 912, 917, 918, 919, 920, 921 , 922 , 923, 925, 927, 934, 936, 963, 965, 968 (nL 50), 969, 970, 982, 983, 984, 985, 986, 987, 988, 990, 997, 11 24, 1125, I 196. RlCOTfl, Ercole, 48 e nt. 37. RlGOLA (on.), 1122. RIVA- PALAZZI, Giovanni (gen.), 746 e nt. 5 , 747 e nl. 6 , 749, 758 e nt. 26. ROBILANT (DI), ambascialorc a Vienna, 404,405. ROBECCI Il, Giovanni (on.), 930 e nt. 11 , 931,953 (nt. 33), 989 e nt. 64. 12 13 (nt. 119). ROCHAT, Giorgio, 833 e nt. 84, 1101 (nl. 7 1), 1104 e nt. 77. ROCCHI, Enrico (gen.), 122 (nt. 2), I 39 e nt. 33, 756 (nt. 20), 827 (nt. 79), 1081 , 1082. ROCCO, Giulio. 580. ROCQUANCOURT, 248. ROGNlAT, Joseph (gen.), 171. ROLUTI , Francesco (ten.), 823 e nt. 76, 824, 827. ROMAGNOSI, Gian Domenico, 599. ROON (VON), Albert (mar.), 188. ROOSEVELT, Theodore (presidenlc U.S.A.), 442. ROSMINI , A. (ten. Col.), 44, 45 e nt. 30, 599. ROSSI, Paolo, 622 (nt. 35). RUSCONI , Gian Enrico, 124 e nt. 8. RUELLE, Carlo (ten. col.), 431. RUFFO, Maurizio (gen.), 834 (nt. 85). RUSTOW, Wilhelm (col.), 274, 567. SACCHI (on.), 97 1, 972, 974. SAINT BON (PACORET DI), Simone (amm.), 1124, I 125. SAINT-CYR (gen.), 603. SALA (prof.), 570. SALA, Gerolamo (Ufficiale superiore), 1162, 1171, 1172, 11 73, 1175, 1200 e nt. 106. SALAR1S, Emilio (col.), 944 (nt. 25). SALASCO (DI), Carlo (gen.), 486. SALETTA, Tancredi (gen., Ca. SME), 459, 833.

1237

SALVATI, Ferdinando (etc), 471 (nt. 11 ), 593 e nt. 2 1. SAMMINIATELLI TIZZI, C. Marco (cap.), 1140, 1141 e nt. 32, 1144. SAN I, Giacomo (gen. comm. On.), 860, 87 1 e nt. 3 1, 877, 889, 890 e nt. 42, 891 e nt. 43, 892,893,894,895,896 e nt. 44,897, 898, 899, 912, 91 3, 914, 915, 916, 917, 918, 919, 920. SANTANGELO, Felice (col.), 597. SANTORO (ten. vasc.), 5 17 (nt. 63). SANUTO, Mariano, 582, 584. SASSU, Cristoforo (cap.). 750, 755 e nt. 18, 765 e nt. 29, 766. SCALA, Edoardo (gen.), 981 e nt. 57. SCHERFF, 686, 687, 1019. SCHIARINI, Pompilio (cap.), 1009 e nt. I, 107 1 (111. 45). SCIILICHTl NG. 686. SCIPIONE L'AFRICANO, 582. SCO'rrl BERN I. Ugo (cap.), 1085 e nt. 64, 1086. SELLA, Quinti no (ministro), 376, 861. SF.TTF.MRRINI , I .11igi . RI 3. SETrl . Augusto (avv.). I 152 e nt. 49. SEVERGN INI, Beppe, 1179 (nt. 80). SEYDLIZ, Fricdrich G. (gen.), 169. S HER MAN, William T. (gen.), 166, 1177. S IRON I, Giov,111ni (gcn.). 37 1, 399, 408, 42 1, 750 , 752 e nt. 12, 753 e nt. 13 e 14, 754, 755, 756, 758, 76 1, 762 e nt. 28, 764, 765. S ISMONDO, Felice tgcn.), :rn. 969, 1047 e nt. 28, 1048. SKO BELEFF (gen.), 1036. SMITH , Adam, 366. SOSSO, Carlo (magg.), 122. 123 (nt. I), 225 e nl. 122, 226. 227. SPENCER, Hcrbcrt, 145, 146, 149, 150,239, 346, 347, 364. SPINGARDI, Carlo (magg.), 750 e 111. 8. SPINGA RDI, Pao lo (gen. mini stro dell a guerra), 750, 925, 926, 927, 980, 993, 1003. SPONZILLI, Giuseppe, 562, 569. SPRATT (amm .), 320. STEVANI, Francesco (gen.), 489.


1238

IL PENSll::RO MILITARI:: c NAVALI:: ITALIANO - VOL. lii 1870-1915

STICCA, Giuseppe (cap.), l8 e nt. 9, 116 e nt. 151, 122 e nt. 2,368 e nt. 2-3, 421 , 577 (nt. 13), 592 (nt. 19), 595, 1198 e nt. 104. STOFFEL (col.), 5, 216, 843. STRATICO, Simone, 580. STROPPA (ten. col.), 1082 e nt. 58. VIVIANI (vds MARTINI, SYLVA Gioacchino). TACITO, 217. TAURISANO, Innocenzo (Padre), 577 (nt. l4), 578 (nL 15). TAVERNA, Rinaldo (gen.), 969 (nt. 51 ). TEGETTHOF, Wilhelm (amm.), 451 (nt. 107). TERENZIO VARRONE, Publio (console), 719. THIERS , Luuis A., 201,217,235,484. TOCQUEVILLE (DE), Alexis, 305 e nt. IOL 350. TORSIELLO, Mario (gen.), 101 2. TOTLEBEN (gcn.), I035. TREVES, Claudio, 1115, 1116. TUCIDIDE, 127. TURATI, Filippu(un.), 1117, 1118, 11 2 1. TURENRE, Henry (mar.), 484. TURI, Carlo (amm.), 1124. ULLOA, Girolamo (gen.), 766, 773, 779 e nt. 40, 780, 781, 782, 1014 e nt. 5-6, 1015. UNGARO (un.), 890. URANGIA, Roberto, 595,596,597,643. VALENZANO, Gioacchino (cui.), 489. VALFRÉ DI BONZO, Leopoldo (gen.), 772 (nt. 33). VALLE, Pietro (col.). 639, 640, 641. 642, 753 (nt. 13), 1140 (nt. 28), 1213 (nt. 119). VANZO, Augusto (magg.), 743, 821 e nt. 75, 822, 823, 825. VECCHJ, Augusto Vittorio, 11 28 e nt. 20, 1129. VEGEZIO, 582. VERATTI , Gualtiero, 1031 e nt. 18. VERDY DE VERNOIS , Giulio (gen.), 238.

VEROGGIO, Benedetto (col.), 90, 787, 789 e nt. 52, 790, 791, 792 e nt. 53, 793, 797, 810,817. VIAL, 248. VICO, Giambattista, 142,249. VIDARI, Ercole (prof.), 927, 928 e nl. 9. VIESSEUX (aiutante gcn.), 215,2 16. VINCENZOnl, Luigi (gen. comm.), 921 e nt. 45. VIRIBUS UNITIS, 1045 e nt. 27, 1047, 1048. VISCONTI VENOSTA, Emilio (ministro degli esteri), 404, 405. VISIOLI, T., 1213 (nt. 119). VITALI, Vittorio (cap.), 997 e nt. 76, 998, 999. VITTORIO AMEDEO Il, 377. VITTORIO EMANUELE 11,2 14,326,404, 1125. 1209. VOLTAIRE, François M., 142. VON BERNHARDI, Friedrich (gen.), 8, 722 e nt. 106, 723, 724, 725, 726, 727 e nt. 113,728,729,730,731,732,733 e nt. 121, 734, 735, 718. VON DER GOLZ, Colmar (gen.), 5, 4 87, 688, 699 e nt. 74, 700 e nt. 75, 70 I, 702, 703, 704 (nt. 81 ), 705, 706 e nt. 84, 707, 708, 709 e nl. 88-89, 71 O, 71 1 e nt. 91,712,714, 715, 717, 7 18, 720, 732. VON MECKEL, 1084. VON SCHLlEFFEN, Alfred (gen.), 12 e nt. 1, 527, 717, 718, 719, 720, 72 1, 722, 729, 732, 733, 734, 1108. VOYLE (gen.), 567. WALLENSTEIN (VON), Albreeht (generalissimo), 1211. WALTER, Guglielmina, 200,229. WEBSTER, Richar<l A., 461 (nl. 3), 546 e nt. 93. WELLINGTON, Arthur W. (gen.), 173. WILLE (gcn.), 1052. WILLISEN (VON), Wilhelm (gen.), 605, 609,648,676,685, 718, 723. X+ Y, 804, 805 (nt. 58), 806.


INDICI UP.I NOMI DI PR~SONA

Y., 438 (nt. 89), 932 e nt. 13, 933,934. ZACCONE, Annibale, 1213 (nt. 11 9). ZAMBELLI, Andrea, 149, 352, 353, 473, 501. ZANARDELLI, Giuseppe (pres. del consiglio), 962. ZANELLI, Severino (col.), 475.

- - - _____!lli

ZAVATIARI, G. (ten.), 112 e nt 146,827 (nt. 79). ZAVATIARJ, Oreste (col.), 386 c nt. 33,387. Z INCONE, Atti lio (cap.), 835 e nt. 86, 1208 e nt. 11 7, 1209, 1210. ZOPPI, Ottavio (cap.), 1000 e nt. 78, 1001, 1010 (nt. 2), 1073 (nt. 49), 1074, 1107. ZUCCARI, Luigi (gen.), 636. ZUGARO, Fulvio (cap.), 597.



INDICE GENERALE


,


INDICE GENERALE

Presentazione ............................. .

Pag.

Detti memorabili .......................... . Introduzione ............................. .

» »

3 5 11

CAPITOLO I - lL PREVALENTE lNFLUSSO DI JOMINI E LE POLEMIC HE SUL RAPPORTO ESERCITO - MARlNA PER UNA DIFESA UNITARIA DELLO STATO NEGLI SCRITTI DI AGOSTINO RICCI ... . ........ . ................... .

»

27

Premessa .... .. .. ........................ .

»

27

SEZIONE I - Gli studi del 1863 sull'arte militare e sulla fante ria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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30

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30 59

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71

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73

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73

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87

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95

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111

PARTE PRIMA

I GRANDI MAESTRI DI PENSIERO: RICCI, MARSELLI, PERRUCCHETTI, BARONE

L' "Introduzione allo studio dell'arte militare" ..... . "Dell'insegnamento dell'arte militare" ... ....... . Gli scritti polemici contro il generale Fanti sull'ordinamento della fanteria .......... . ......... . . . SEZIONE U - Le opere e gli interventi in Parlamento sulla difesa terrestre e marittima d'Italia .. Gli "Appunti sulla difesa d'Italia in generale e della sua Frontiera Nord - Ovest in particolare" ........... . "La Piazza di Piacenza - Stradella nella difesa della frontiera Nord - Est dell ' Italia" ( 1872) e "La difesa interna della Valle del Po" ( 1873) ................ . Il ruolo fondamentale delle forze navali nella difesa dell'Italia e le polemiche alla Camera ........... . Conclusione .............................. .


1244

IL PENSIERO MILITARE E NAVAI.F. n'AUANO- VOL.111 ( 187~1915) - TOMO I

CAPITOLO II - IL PENSIERO DI NICOLA MARSELLI: ASPEITI FILOSOFICO - STORICI E PRIMI SCRITTI MILITARI (1858-1871) . . . . . . . . . . . . . . .

. .. Pag.

121

Generalità sull'uomo, suUa vita e sull'opera: un caso unico di "maitre à penser'' . . . . . . . . . . . . . . . . .

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122

SEZIONE I - Il MarseUi filosofo, filosofo della storia e sociologo generale ..................... .

»

127

SEZIONE Il - Le prime opere militari (1863-1869) ..

»

152

Il linguaggio militare ......... . .............. . L'arte militare: definizioni e influsso delle nuove armi Fortificazione permanente e campale: applicazioni alla difesa d'Italia ................ .... .... ... . L'approfondimento del concetto di strategia e il giudizio su }omini ........ ... ........ .. ......... . li rapporto tra storia e cultura generale e storia e cultura militare .. .... . .......... . ............ .

»

163

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169

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176

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180

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185

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186

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209

)}

233

Premessa ................................ .

»

234

SEZIONE I - "La Guerra e la sua storia" (1875) .

»

234

L'evoluzione parallela della civiltà e della guerra e il problema della pace . ... ............. . ...... .

»

239

SEZIONE III - Le fondamentali riflessioni sulla guerra franco-prussiana (1870-1871) .......... . "Gli avvenimenti del 1870 - Studio politico e militare" (1870-1871) .... .......................... . "Gli avvenimenti del 1870 -1871 - Studio politico e militare" ( 187 1) .............. .. ........ .... .

CAPITOLO Ili - LA SECONDA FASE DEL PENSIERO DI NICOLA MARSELLI ( 1872-1892): TEORIA DELLA GUERRA, ASPETTI SOCIOLOGICI, POLITICA DI SICUREZZA E NAVALE DELL' TTALIA ...


1245

INDICE GENERALE

Storia militare e critica storica: loro rapporto con l' arte militare e loro ruolo nella formaz ione dei Quadri . Arte e scienza militare: perché è possibile una teoria della guerra . . .... .. ...... ... ..... ... .. .. . . Politica e strategia: la scienza militare e la sua ripartizione ..... . ...... .... ............. ... . . . . I tre principf della strategia: perché non della guerra ? ...... ... ............................ . Tl rapporto tra geografia militare, statistica e strategia ............. .... ........ . .......... . . Applicazioni alla difesa d'Italia .... ........... . .

Pag.

244

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254

»

264

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282

» >>

287 294

SEZIONE li - La sociologia e la pedagogia militari: "La Vita del reggimento" (1889) ........ ... ... .

»

30 1

SEZIONE III - La politica estera, di sicurezza e coloniale dell'Italia: ruolo delle forze navali . . .. .. .

»

316

Conclusione .... ............. . . ........... .

»

338

CAPITOLO IV - LA MULTIFORME OPERA DI GIUSEPPE PERRUCCHETTl: HA IDEATO PER PRIMO (O FONDATO) GLI ALPINI? .... ... .. . .

»

367

Generalità

»

367

SEZIONE I - Dai bersaglieri (1836) agli alpini (1872): perché? Il vero ruolo del Perrucchetti ....

»

371

»

371

»

372

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388 393

»

398

Cenni sulla vita e sulla carriera militare . .. ... ... . Perrucchelli non è stato anticipato dal Ricci: circostanze nelle quali avviene La pubblicazione delle sue proposte e altri precursori ... .... ............. . Contenuti essenziali ed effettiva portata innovatrice del celebre articolo del maggio 1872 sugli alpini .. . Perché dopo i bersaglieri anche gli alpini? ....... . SEZIONE Il - Gli studi di geografia militare sul confine alpino (1873-1878) ..... ..... ........ .


1246

IL PENSIERO MILITARE E NAVALI! ITALIANO- VOL. 111 ( I R?0-19 15) -TOMO I

TI discusso saggio sul Tirolo (1874): una minaccia sopravvalutata? ............................. . Gli altri studi monografici sulla catena delle Alpi e sulle coste adriatiche .......................... .

Pag.

398

»

408

SEZIONE m - Dalla geografia ai criteri per una strategia unitaria: l'importanza della fortificazione e delle forze navali nella "Difesa dello Stato" (1884) . . . . .

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420

SEZIONE IV - Gli ultimi scritti: ''Guerra alla guerra?" (1907) e "Questioni militari d'attualità" (1910) ..

»

434

Conclusione .... . ......................... .

»

453

CAPITOLO V - IL PIÙ ILLUSTRE EMULO DEL MARSELLI: ENRICO BARONE COLONNELLO, STRATEGA, STORICO, SOCIOLOGO, ECONOMISTA MILITARE ........................... .

»

457

Premessa: generalità sull'uomo e sull'opera .....

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457

SEZIONE I - Le opere giovanili di arte militare (1884-1893): contiguità con Clausewitz ........ .

»

462

SEZIONE II - Il concetto di storia, fondamento dell'arte militare, dell'economia e della sociologia ...

»

478

SEZIONE III - li rapporto tra economia, società e guerra .................................. .

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492

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496

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503

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508

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514

TI preminente fattore economico e l'evoluzione della società e della guerra nell'opuscolo "Le Istituzioni militari e le condizioni politico-sociali" (1898) .....

TI ruolo delle due Forze Armale e i presupposti economici della spesa militare ..................... . La polemica con Jean Bloch sulla guerra futura, gli svantaggi della pace e i vantaggi delle colonie ..... SEZIONE IV - La difesa terrestre e marittima dell'Italia all'inizio del secolo XX e i problemi del bilancio ....


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INDICE GENERALE

I principali nodi del problema militare negli scritti del periodo 1900-1908 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Verso la guerra: gli articoli sulla "Preparazione" nel 1909-1910. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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SEZIONE VI - Politica, economia e preparazione della guerra futura negli ultimi scritti del dopoguerra_. .

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Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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CAPITOLO VI - L'ARTE MILITARE E/O DELLA GUERRA: LINGUAGGIO, CONTROVERSI CONTENUTI TEORICI, PROPOSTE DI RIPARTIZIONE

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SEZIONE I - Gli studi generali sul linguaggio militare e le critiche alla Crusca del Randaccio e del1'Angelucci .......................... ... .. .

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SEZIONE V - I commenti alle operazioni della prima guerra mondiale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le operazioni iniziali del 1914: perché la Germania non può vincere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le operazioni di.fine 1914 - inizio 1915: è possibile ridare fiato ali'offensiva? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La guerra marittima z l'efficacia del sommergibile . . Le operazioni sul fronte italiano fino a Capo retto: non è colpa di Cadorna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

PARTE SECONDA ASPETTI TEORICI DELL'ARTE MILITARE IN ITALIA E IN EUROPA

SEZIONE Il - l pochi dizionari e vocabolari interforze e terrestri . ........... ........... .. . Il "Vocabolario marino e militare" del Guglie/motti (1889 ), ultima frontiera del purismo e ultima opera a carattere interforze flno al secolo XX compreso .....


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IL PENSIERO MILITARE E NAVA LE ITALIANO- VOL. 111 ( 1870-1915) - TOMO I

Cenni sul " Vocabolario militare italiano" dell'Urangia (1893) e sul Voi. I del "Lessico militare italiano" (]916) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . SEZIONE Ili - Il primo libro clausewitziano: "L'arte militare libri sei'' di Vincenzo Molinari (1871) . . . Il ruolo degli eserciti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La guerra: natura, cause, rapporti con la politica, aspetti umanitari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L'arte militare: ripartizione, leggi e principf,strategia, tattica e logistica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L'incerta fisionomia della "machetica" . . . . . . . . . . . Guerra di montagna, guerriglia e controguerriglia . . Le Istituzioni militari: definizione, vantaggi della "nazione armata" e importanza dei Servizi logistici . . . . La Difesa dello Stato e il ruolo preminente della marina . .

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Parametri di giudizio preliminari . . . . . . . . . . . . . . . L'arte militare e il progresso politico - sociale e scienti.fico: due studi significativi del Pifferi (1895) e del Cravero ( 1907) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La crisi dei concetti di logistica e di strategia negli scritti del Corsi, del Favre, del Corticelli e del Cavaciocchi ....... .. ......................... . I contributi teorici più equilibrati: Valle ( 1883), Allason ( 1891) e "Piccola Enciclopedia Hoepli" (1895) ..

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Conclusione ............ . . ..... ........... .

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INDISPENSABILE: RIFLESSI TEORICI E DOTTRINALI DELL'ACCRESCIUTA EFFICACIA DEL FUOCO E DEGLI ESERCITI DI MASSA SECONDO I PRINCIPALI AUTORI FRANCESI E TEDESCHI .

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Premessa: modelli da non seguire ..... ...... . . .

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SEZIONE IV - Gli altri studi sugli aspetti teorici dell'arte militare/della guerra e sulla sua ripartizione . .

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CAPITOLO VII - UN QUADRO DI RIFERIMENTO


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INOICl::GF.NERALE

SEZIONE I - Da Lewal a Foch: la sostanziale impostazione dogmatica e anticlausewitziana del pensiero militare e della dottrina francese ........... .

Pag.

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I giudizi del Mordacq e le sue conclusioni jominiane .

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Lo scientismo estremo e la prevalenza del fuoco nella tattica del generale Lewal ( 1875) .............. .

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Il radicale spiritualismo del colonnello Ardant du Picq, contrapposto alle idee del Lewal (1880) ..... . Da Foch a Grandmaison e Montaigne (1900-1914): la definitiva vittoria dell'estremismo o_ffensivo ....... .

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SEZIONE ll - La scuola tedesca e la sua dottrina: i moderati (ma s ~ infedeli) seguaci di Clausewitz ..

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Il contrasto tra " individualisti"<' " formalisti" e la dottrina tedesca dal 1870 al 1914 ..... ........... . Il contradditorio ma raro "relativ ismo" del Blume e le sue parziali intuizioni sulla ~uerra futura ( 1882) .... L'eredità strategica e tattica della guerra 1870-1871 nel libro del Peuker/Paris ( 1880) ............... . I caratteri della futura guerra ··tedesca" di nazioni e le crescenti difficoltà dell'offensiva nelle opere del Von der Golz ( 1883-1895) ...................... . . Da Canne alla battaglia della Marna: limiti (ma anche pregi) della strategia classica d'avvolgimento del Von Schlieffen ( 1909-1913) ...... .... ............ . La critica a Clausewitz e }omini e gli aspetti della guerra moderna nell'opera del Von Bernhardi "La guerra di oggi" (/912) .. .. .... ..... .......... . Conclusione . . ................ ..... ....... .


IL PENSIERO MTT.ITARF. F. NAVALE ITALIANO- VOL. lll (1~70-191 5)-TOMO I

PARTE TERZA QUALE DIFESA NAZIONALE? LE CONTROVERSE IDEE SULLE FORTIFICAZIONI E SULL'ORDINAMENTO DELLE FORZE

CAPITOLO VIII - LA MINACCIA VIENE DALLE ALPI O DAL MARE? IL CULMINE DEGLI STUDI DI GEOGRAFIA MILITARE E DEL DIBAITITO SULLA DIFESA DELLO STATO .... .. .... .... .

Pag.

743

Premessa ...................... .. ........ .

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743

SEZIONE I - Gli studi di geografia militare ..... Dalla teoria idrografica (Lavallée) alla teoria geologica (Niox): il dibattito teorico .................. . Le principali opere di geografia militare: Lodi (1872), Fogliani (1871), Sironi (1873), Goiran (1880), Sassu (1881 ), Aliason (1891 ), Porro (1898) ...... ...... .

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SEZIONE II - Fortezze o forze mobili? Le controverse possibilità della fortificazione e della difesa delle Alpi ................................ . Le considerazioni sulla difesa dello Stato del Sironi e degli altri autori di geografia militare ........... . Le scelte (o non - scelte) della Commissione per la difesa dello Stato (1871) e le critiche del Gandolfi e dell' Ulloa .............................. .. .. . Bologna chiave della difesa d'Italia: Brignone (18711873) e Martini (1871) ...................... . Contro Bologna e per Piacenza e Roma: Bruzzo (18701871) e Veroggio (1871-1875) ................. . Dal campo trincerato alla regionefortificata: l 'attacco al Ricci e al Veroggio e il nuovo concetto di difesa di Bologna dell'Ara/di (1873-1876) ... .. ........ .. . Difendere a oltranza le Alpi: fa svolta del Dabormida sulle orme del Perrucchetti ( 1878) . ............. .


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- - - - -~ •N=OICE C.ENERALE

Le forti critiche del Cerroti ai Lavori di fortificazione di Roma e La replica anonima a difesa dell'operalo del Ministro Mezzacapo (1882) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Come fortificare le Alpi e Roma: La notevole metamorfosi delle idee dell"Araldi e i suoi attacchi alle soluzioni adoLJale (/ 881 - 1884) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L"'incubo delle fortifi cazioni " del Marazzi (1901) e la contestazione delle sue idee d!fè11siviste da parte del Fazio (1901), del VanZo ( 1901) e del Roluti (1907) . . "Difesa dei confini" e non " Difesa dello Stato": i rilievi critici e le proposte della ( ·0111111issione di Inchiesta per l 'esercito (1908) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . Pag.

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Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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CAPITOLO IX - VERSO Li\ " NAZIONE ARMATA" POSSIBILE: L' ESERCITO DALL' ORDINAMENTO RICOITI (1870 - 1873 ) ALL'ORDINAMENTO FERRERO ( 1882) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Premessa: tramonto o sviluppo clclb1 m~Jonc armata? . .

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SEZIONE I - La lunga opcrn riformatrice del Ministro Ricotti (1870 - 1876): motivi ispiratori, obiettivi e critiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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SEZIONE II - Il dibattito nel periodo tra la legge Ricotti (1873) e la lcg~c Fcrrero (1882) . . . . . . . . .

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Le soluzioni indirnt<' dall 'ex-Ministro Mezzacapo, dal futuro Ministro Pelloux e dal Baratieri . . . . . . . . . . .

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879

Le cause ordinative della sco1i/ìtta .fm11cese nel 1870 1871 secondo Napoleone li I . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La molto parziale applica zio11e dl'I modello prussiano da parte del Ricotti: un n11111nw1lf•sso in<'vitahile? . . . Le anticipazioni del Bava - /Jt•ccoris ( 1869) e La dura polemicatraiLLaMar111ora t! ilRicorti(J871) ..... Altre voci impotanti del dibortito: C M. , C.F., Angioletti, Fabris, Pastore, Marioffi. Corsi, Nunziante, Sani . .


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IL PENSIERO MII.ITARF. E NAVALE ITALIANU-VUL. LII ( 1870-1915)- TOMO I

Il "cahier de dolèances" logistico - amministrativo del colonnello commissario Giacomo Sani in Parlamento e la replica del Ricotti (1879) . . . . . . . . . . . . . . . . . .

SEZIONE Ill - Dieci corpi d'armata forti o dodici deboli? La soluzione quantitativa della legge Ferrero (1882) e le aspre critiche in Parlamento del Ricotti e di altri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. .. Pag.

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Conclusione: da Ricotti a Ricotti'? . . . . . . . . . . . . .

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CAPITOLO X - L'ESERCITO DALL'ORDINAMENTO FERRERO ALLA GRANDE GUERRA: I PROBLEMI ORGANICI (E I RELATIVI PROVVEDIMENTI) NON CAMBIANO . . . . . . . . . . . . . . . .

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Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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SEZIONE I - Dal 1882 a fine secolo XIX: ''revivaf' di vecchi temi .. ..... .... . .... ..... .... . ... .

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Gli orientamenti del Ministro Ferrero e il diverso parere del Ricotti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Altri interventi critici (Majocchi, Fava/e, Marana, Perrore di San Martino, Nicotera, Compans, Plutino) . . . La "questione amministrativa militare": la replica del Sani alle critiche del Nervo e del Plebano, la sua difesa del ruolo direltivo del corpo di Commissariato e il contrasto con Ricotti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

SEZIONE II - Verso la grande guerra: dal Marazzi (1901) alla Commissione d'Inchiesta sull'Esercito (1907-1910) ....... . ...................... . L'insolito connubio nazione armata - esercito di qualità nell"'Esercito dei tempi nuovi" (1901) del Marazzi . .. Il dibattito sul "problema militare": gli attacchi del Ghersi alle "Armi dotte", la difesa del Bennati e del Vitale e il diverso parere del Cavaciocchi ....... . . . .


1253

INDICE GENERALE

La critica socialista alla spesa militare e all'ordinamento dell'esercito e le repliche del Pittaluga e del Mosso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . Pag.

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SEZIONE Ili - Le principali queslioni ordinative secondo la Commissione d' Inchiesta . . . . . . . . . . . . . .

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969

SEZIONE IV - Fanteria di linea, bersaglieri e alpini: un prohlema ordinativo importante ma trascurato . . .

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Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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1004

PARTE QUARTA

L' "AMMAESTRAMENTO TATTICO" DELLE TRUPPE E L'EDUCAZIONE MORALE E SOCIALE DEL SOLDATO CAPITOLO XI - L'OFFENSIVA, LA DIFENSIVA E L' "AMMAESTRAMENTO TA ITICO" DELLE TRUPPE DI FRONTE ALLE " NUOVF; ARMI": ORDINE SPARSO O ORDINE CHIUSO? . . .... . ....... . .

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Premessa ............. .. ................. .

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SEZIONE I - Gli ammaes tramenti della guerra franco - prussiana e i loro ritlessi sulle modalità e formazioni di attacco ................... . ... .

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SEZIONE ll - Dalla guerra franco-prussiana a fine secolo XIX: l'ancor discussa importanza della trincea e dell'ordine sparso a fronte dell'introduzione del fucile a ripetizione ordinaria ........ .. .... .

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Pro e contro la trincea e la vanghetta ....... . ... .

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1033

Il dibattito del 1873 su vecchio ordine chiuso e nuovo ordine sparso ... .. .. ..... ............. ... . . Prime idee sul ruolo e l'avvenire delle mitragliatrici: e il reticolato? ..... . . . .............. . ... . ... .


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IL Pl'.NSIBRO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. llJ ( 1870 1915) - TOMO I

La nuova tattica, il fucile a ripetizione e la corazzatura della fanteria e artiglieria (l 884-1887) ........ . Ritornare all'ordine chiuso? (1887-1888) ........ . La rivalutazione dell'artiglieria, il cannone a tiro rapido e il combattimento moderno negli scritti del maggiore Allason (1893) e del maggiore Carpi (1898) ... L 'azione offensiva e l'ordine rado nella regolamentazione dottrinale: e la difensiva? . ............... . La tattica in Africa secondo il col. Baratieri (1888) e il ten. col. Luciano ( 1890): si è combattuto ad Adua? .. L'originale commento della "Rivista di Fanteria" (1898) alle tesi di Jean Bloch sulla guerra futura ......... .

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Conclusione ..... ....... . ......... ........ .

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CAPITOLO XII - L'ESERCITO TRA ANTIMILITARISMO E "MODERNISMO MIUTARE': I RIFLESSI DELLA EVOLUZIONE DELLA SOCIETÀ, LA NUOVA DISCIPLINA E IL NUOVO RUOLO SOCIALE DELL'UFFICIALE ................... .

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Premessa .... ... ................. .... ... . .

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1109

SEZIONE I-Distruggere o rifonnare l'esercito? Utopie, ambiguità e reticeme del movimento antimilitarista ...

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SEZIONE IO - Verso la guerra di trincea: il fuoco, l'offensiva e la difensiva nel dibattito da fine secolo XIX al 1915 ............... ............. .. . Gli ammaestramenti della guerra anglo - boera 1899 - 1902 e la na.çcita del concetto moderno di carro armalo ..... . La guerra russo-giapponese 1904 - 1905 e "l'attacco al]a zappa" ....... ......... ...... .... .... . . Il problema tattico e il materiale: superiorità del cannone? ................. ...... ............ . La regolamentazione dottrinale del 1913 e l'asserita . . ' de ll'OJJenstva ,I+. . supenonta ... ....... ........... . I rea li contenuti del "Libretto rosso" ( 1915) del generale Cadorna: bibbia della guerra di logoramento? ... .


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INDICE GEN ERALE

SEZIONE n - Dalla guerra franco - prussiana a fine secolo XIX: il nuovo rapporto esercito/società e la nuova disciplina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I riflessi morali delle sconfitte e dei dissidi tra alti gradi negli scritti di "ItaJicus" e di A. V.Vecchj . ....... . Gli alti contenuti spirituali della condizione mili/are e "l'esercito scuola della nazione" nel nuovo Regolamento di disciplina 1872 ......... ... ......... . Il ruolo dell'esercito e la disciplina " di persuasione" di fronte alle sfide dei nuovi tempi ......... ....... .

SEZIONE m - L'attacco di Guglielmo Ferrero all'esercito e la reazione degli scrittori militari .. ...

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L'anacronismo della guerra e l'i111111oralità degli eserciti nella contradditoria opera d i Guglielmo Ferrero " Il Militarismo" (1898) ...................... . La reazione del mondo militare alle teorie del Ferrero: Corsi, Sala, Ranzi, Brancaccio di Carpino .... . .. .

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SEZIONE IV - Da fine secolo XIX alla grande guerra: la nuova sfida interna del " modernismo militare" e l'educazione del soldato .............. .

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Conclusione

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Qualche considerazione finale: perché una storia delle idee? ......... ....... ............. . . .

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Indice dei nomi di persona ... ............. .. .

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Indice generale . ......... ................. .

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1243

Nascita, diffusione, degenerazione e tramonto del "modernismo militare" del capitano Hanzi ... . ....... . Altre voci sulla difesa dell'esercito e sul ruolo sociale dell'ufficiale . ... .................. ... ..... .


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