STATO MAGGIORE DELVESERCITO UFFICIO STORICO FERRUCCIO BOTTI
IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE (1789-1915)
VOLUME III DALLA GUERRA FRANCO-PRUSSIANA ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE (1870-1915)
TOMO SECONDO GLI ASPETTI INTERFORZE, LA GUERRA MARIITIMA E I PROBLEMI DELLA MARINA
ROMA2010
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Ufficio Storico ISBN 978-88-96260-07-4 Cod. cat. 6756 Roma 2010
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PRESENTAZIONE Il compianto Colonnello Ferruccio Botti, scomparso quasi due anni orsono, è stato uno dei più prolifici ed apprezzati militari storici italiani, vantando un'invidiabile produzione editoriale di oltre 15.000 pagine di testo, attraverso le quali appaiono ancora plasticamente e sopravvivono il suo valore come ufficiale e i suoi esemplari principi etici. Nonostante avesse avuto l'opportunità di lavorare per importanti case editrici private, Botti ha sempre predi letto per le proprie pubblicazioni gli enti editoriali delle Forze Armate, dimostrando così il proprio sentimento di appartenenza all'Istituzione nella quale si è formato cd ha militato con passione per tanti anni. Le Forze Armate hanno avuto il merito di valorizzarlo per la sua attività di studioso pubblicando tutte le sue principali opere e facendolo intervenire in qualità di relatore a numerosi convegni, nonché invitandolo a tenere lezioni di storia militare presso i propri Istituti di formazione. È stata la "Rivista Militare" a scoprire le capacità di scrittore di Hotti, dandogli spazio per il suo primo articolo di una certa importanza sul numero I del 1976 cui ne sarebbe seguito, nello stesso anno, un altro incentrato sui problemi dell'Esercito dopo la ristrutturazione del 1975. All'epoca Botti, evidentemente, non si era ancorn indirizzato appieno allo studio della storia militare e pensava di fornire un contributo di idee per lo sviluppo dell'Esercito nel presente. In seguito il filo conduttore dell'intera sua opera sarebbe stato costituito dal tentativo di incidere ed influire sulle scelte del presente traendo spunto dall 'esperienza del passato. Dunque il suo non è stato uno studio della storia militare fine a se stesso, quanto un apprendimento per guidare ed orientare le scelte del futuro, studio dal quale non poteva non nascere la predilezione per l'analisi biografica dei pensatori militari italiani ed europei di epoca moderna e contemporanea, quale contributo per un dibattito volto a capire gli errori del passato e ad indirizzare le prospettive future. Altra modernità che risalta immediatamente nei lavori del Botti è il carattere interdisciplinare ed interforze delle sue riflessioni, che costituisce una chiave di lettura delle sue opere. L'analisi dei conflitti, delle organizzazioni militari e delle strategie di guerra è stata infatti sempre improntata ad un'interpretazione in ambito pluriarma ed interforze, avendo cura di approfondire le problematiche che condizionavano l'operato delle forze di terra, di mare e dell'aria alla luce di un impiego più o meno combinato e congiunto. Tornando alla sua voluminosa produzione editoriale, la sua indagine si è sempre focalizzata sugli aspetti di storia militare istituzionale, cioè delle attività, delle competenze e delle problematiche attinenti ai vertici delle Forze Armate. Entro questa visione verticistica, Botti si è interessato di arte militare, strategia, logistica, biografie di condottieri e pensatori, evitando, pure negli
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scritti minori, di particolareggiare la descrizione di battaglie, o l'andamento di operazioni, né si è attardato in prolisse ricostruzioni di organismi militari e della loro attività, preferendo problematiche più generali e di ampio respiro, afferenti alla sfera d'azione degli Organi cemtrali. L'ottima conoscenza della lingua francese gli ha consentito, inoltre, di ampliare le proprie conoscenze al pensiero militare europeo e di entrare in collaborazione col prestigioso lnstitut de Stratégie Comparée della Sorbona di Parigi. Le sue opere maggiori relative alla storia militare terrestre sono state: TI pensiero militare e navale italiano dalla rivoluzione francese alla prima gu.erra mondiale (1789-1915), la logistica dell 'Esercito ltaliano (1831-1981) in quattro volumi per sei tomi complessivi; L'arte militare del 2000 - uomini e strategie tra XIX e XX secolo e, unico lavoro che ha scritto insieme ad un altro autore (Virgilio Ilari), il libro dal titolo Il pensiero militare italiano dal primo al secondo dopoguerra. Da ricordare, infine, i suoi numerosi interventi su varie riviste della Difesa e di storia militare e in atti di convegni. In questa attività più pubblicistica, Botti ha spaziato un po' in tutti campi dello scibile militare: dalla mobilitazione alla sociologia militare, dall'addestramento alla regolamentazione tattica, dall 'analisi di cicli operativi dell'Esercito Italiano nelle guerre del Novecento alle biografie di comandanti ilIuslri, arrivando ad argomentare anche su temi di stretta attualità. La sua vasta cultura e profonda competenza in tutti i temi di storia militare lo avevano indotto a prospettare all'Ufficio Storico dell'Esercito, in collaborazione con altri storici, un'edizione aggiornata della prestigiosa Enciclopedia militare pubblicata alla fine degli anni Venti del secolo scorso da "Il Popolo d'Italia". Questo suo sogno resterà purtroppo tale a causa della sua scomparsa; ma è certo che il Colonnello Ferruccio Botti, grazie alla sua ponderosa e dotta produzione editoriale, sarà senza dubbio ricordato fra gli storici militari italiani . Venendo allo specifico, col presente tomo si completa la sua ponderosa opera che ha ripercorso la storia del pensiero militare e navale italiano dalla rivoluzione francese alla prima guerra mondiale. Meglio dirlo subito: anche se articolato e non breve, l'esame condotto 11011 è esaustivo ma esprime delle scelte - talvolta obbligate e sempre soggetti ve dell'autore, che si è trovato di fronte a una problematica assai complessa, ben descritta nell'ampia introduzione al volume I, alla quale rimando, perché ne vuole illustrare le finalità e i motivi traenti, ai quali nulla oggi abbiamo da aggiungere o togliere. Si è voluto dimostrare che esiste un pensiero militare e strategico, senza il quale - a parte ogni altra considerazione - non solo I' histoire-hataille sarebbe gravemente mutila e fuorviante, ma anche lo stesso pensiero poli1ico-socialc soffrirebbe di un difetto di prospettiva, perché - al di là di inlcrpn.:tm,io ni demagogiche, utopiche e buoniste - a chi voglia leggerla senza veli lr1 rl'altù odierna dei rapporti internazionali dice, come quella del passato, una cosa sola:
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che una politica estera senza lo strumento militare è come un'orchestra senza strumenti. Nonostante questa verità amara, ma oggettivamente difficile da ignorare, in sede storica è tuttora rrequente ignorare o trattare molto superficialmente i sottofondi militari e strategici dei problemi, come se fosse una dimostrazione di amore per la pace: amore per la pace - sia ben chiaro - che non può essere rivendicato come monopolio da alcuno, ma oggi è patrimonio comune dell' intero Occidente. Se ce ne fosse bisogno, questa è una ragione in più per dimostrare non tanto e non solo l'esistenza, ma anche la necessità e l'importanza di un pensiero militare e strategico, che colma un vuoto frequente nel pensiero politico e che ha innegabili e ben visibili specificità, perché altrimenti si potrebbe dire che il pensiero e la strategia si arrestano alla soglia della caserma, e che chiunque si occupi di problematiche militari non pensa, lasciando così inesplorato un campo vasto e estremamente importante. Né si può dimenticare, in proposito, che la strategia è nata come raccordo sempre più necessario tra il campo riservato alla politica e quello riservato alla tattica, che riguarda specifici problemi di organizzaz ione e condotta degli eserciti, a loro volta strettamente connessi con la realtà politico-sociale. Ricordiamo ancora, in merito, che il generale napoleonico Jomini - principale avversario di Clausewitz - nella prima metà del secolo XIX ha addirittura considerato la "politica della guerra " come parte dell'arte della guerra (Cfr. Voi. I, cap. II) e che a fine secolo XlX il nostro colonnello Barone, fra l'altro eminente economista, ha sostenuto che dalla realtà politico-sociale di una data Nazione è possibile dedurre le caratteristiche principali dei suoi ordinamenti militari (Cfr. Vol. ll1 Tomo J, cap. V). 1n sintesi: la realtà politica e quella militare sono largamente intercomunicanti, ma ciascun campo - appare ovvio - conserva una propria insostituibile specificità da parecchi secoli, più o meno da quando l'autorità politica e quella militare han cessato d'essere riunite nella stessa persona. Oggi non è, non può essere così: il Capo di un governo, democratico o meno, si avvale sempre di un Capo delle Forze Armate, con una propria autonomia, resa necessaria da una realtà tecnologica tale da imporre delle scelte che, pur essendo ispirate dalla politica, hanno a monte e a valle un retroterra culturale specifico. Dopo queste non inutili precisazioni sull'odierno ruolo del pensiero militare e della sua storia, ruolo che ha tuttora molto bisogno di essere riconosciuto e apprezzato anche dagli "addetti ai lavori"', ci sembra opportuno sottolineare brevemente taluni aspetti salienti della vasta materia affrontata, a cominciare dalla metodica seguita. l) Ciascun autore va inserito nel contesto della sua epoca. Va inoltre preso in esame anche il pensiero militare antecedente e successivo, in modo da individuare quali sono gli aspetti innovativi della sua opern, qual è la sua influenza
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e quali sono le critiche e i "diversi pareri" rispetto alle sue tesi di fondo, tenendo comunque ben presente che in genere le sue teorie sono di frequente soggette a evoluzioni, involuzioni e contraddizioni, quindi sarebbe errato prendere in esame solo l'opera principale, perché molto raramente un pensiero è monolitico e definitivo. 2) Nel titolo della presente opera ci si riferisce al pensiero militare e navale italiano: frase da interpretare cum grano sa/is, perché se non si gettasse anche uno sguardo oltr'Alpe o addirittura oltre oceano, si perderebbero molte, troppe interfacce di tale pensiero. Esempio classico sono le contrapposte teorie - la cui percezione è indispensabile anche per il pensiero italiano - di Clausewitz e Jomini, valide non solo in campo terrestre ma anche in campo navale e tuttora a ben guardare operanti (non può essere dimenticata, ad esempio, l'influenza di Jomini su Mahan e più in generale, sul pensiero terrestre e navale americano, fino ai nostri giorni). 3) T due precedenti punti sottolineano, senza bisogno di ulteriori amplificazioni, la necessità e l' importanza della metodica della storia comparata. 4) Sempre in aderenza al fondamentale concetto di storia comparata, è persino superfluo sottolineare la necessità di un approccio interforze, ivi comprendendo la presa di coscienza e il confronto dei principali problemi di ciascuna Forza Annata, delle sue scelte ordinative, degli aspetti finanziari, degli indirizzi rispettivamente seguiti nel campo dei materiali. Tale esigenza - va precisato - non si pone solo oggi, ma - come dimostra l'esame condotto - è nata in un lontano passato, fin dalle guerre d'Indipendenza. 5) Si è inteso compiere finalmente un ' indagine organica sul pensiero militare dei vari periodi, di ciascun autore indicando non solo le luci ma anche le inevitabili ombre, senza pretesa di fornire verità assolute ma curando di mettere a disposizione del lettore materiale sufficiente per interpretazioni che possono essere diverse; anche per questa ragione, la citazione di brani originali è utile e necessaria. 6) Un'acquisizione basilare sul piano teorico è che l'arte militare (concetto più vasto e più attuale dcli'arte della guerra, che fino al secolo XX si ri leriva principalmente alla guerra di eserciti regolari nel centro Europa, oppure allo scontro tra guerra tra flotte marittime e aeree) non è soggetta a evn/11:ioni o involuzioni (termine nei quali è insito un concetto di progresso/regresso), bensì a mutamenti (secondo Clausewitz la guerra è un camaleonte). Si potrebbe, con più ragione, affermare che sono le tecnologie, gli am,amenti ad evolversi; ma neppure questo è del tutto vero, visto che ad esempio gli armamenti e i mezzi e ordinamenti (specie terrestri) di oggi tendono (per la prima volta nella storia) a privilegiare non più la potenza ma la protezin11c, in relazione al nuovo imperativo categorico di evitare anzitutto le perdite, a loro volta dovuto a mutamenti di carattere politico-sociale, che rendono inacccllabile per l'Occidente ciò che è stato accettato fino a tempi recenti, cioè un copioso tributo collettivo di sangue per una causa, quale che ne sia la ragione.
PRESENTAZIONE
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7 ) Venendo, più nel concreto, agli aspetti di maggiore interesse della ri-
n·,<;u svolta, meritano la maggiore attenzione:
- l'eterna alternativa " l'Italia è una potenza terrestre o marittima?", che a maggior ragione nel periodo considerato non ha mai potuto ricevere risposte definitive e concordi, perché dipende dalla fisionomia geopolitica bivalente di un Paese che ha la testa nel continente e i piedi nel Mediterraneo, dunque non può permettersi di ignorare questi due fatti, dunque - qui è il difficile - dovrebbe (il condizionale è d'obbligo) essere forte sia in terra che in mare. Non potendo raggiungere da solo questo obiettivo, ha dovuto e deve rimediare alle sue carenze con idonee alleanze; - l' interesse per lo sviluppo delle forze marittime tipico del generale Ricotti (Ministro della guerra per lungo tempo e influente parlamentare) e dei principali scrittori militari "terrestri" del secolo XlX ( ci riferiamo soprattutto ai generali Ricci, Marselli, Perrucchetti e al colonnello Barone); - i principali dibattiti (anche in Parlamento) sull'ordinamento e i problemi dell'esercito da una parte, e sulle costmzioni navali e i problemi della marina dall'altrn; - un quadro finalmente organico e comparativo del pensiero militare dei principali esponenti del Risorgimento (non solo Mazzini, Garibaldi, Pisacane ma anche tanti altri finora poco studiati, come Balbo, Durando, Cantù, Filangieri, Zambelli, Cattaneo, Pepe, Sponzilli, La Masa, Forbes, senza trascurare, per la parte marittima, Rocco, Stratico, Borghi ecc.); - per il periodo 1870-1915, un esame sufficientemente completo delle opere di Ricci, Marselli, Perrucchetti, Barone, Marazzi e altri; - per la parte marittima dello stesso periodo, l' approfondimento delle teorie di Bonamico, Sechi, Mesturini, Molli, senza trascurare gli scritti di Saint Bon, Brio, Vecchj, Gavotti, Ronca, Laurenti; - sempre nel campo marittimo, un approfondimento del dibattito grandi navi/navi di dislocamento moderalo {che ha un' inaspettata e poco srudiata reviviscenza all'inizio del secolo XX proprio con il Cuniberti come protagonista) e in secondo luogo, l'esame delle circostanze nelle quali nasce quasi ali ' improvviso la Dreadnought e comincia a imporsi il sommergibile; - le argomentazioni pro o contro l' ammiraglio Persano dopo Lissa e le assai poco note conclusioni della Commissione d'Indagine nominata subito dopo tale sconfitta; gli attacchi dell' antimilitarismo e "antimarittimismo" alle Forze Armate al l'inizio del secolo XX, e le risposte degli esponenti del mondo militare; - la regolamentazione dottrinale dell'esercito italiano all'inizio della guerra 1915-1918 (ivi compreso il famoso "libretto rosso" di Cadorna) e il suo confronto con quelle dell'esercito francese e dell' esercito tedesco.
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Il ventaglio assai vasto di spunti e argomenti consente di stabilire che specie dopo il 1870 il pensiero terrestre e navale italiano visto nel suo complesso, ha ben poco da invidiare a quel lo delle principali nazioni europee con una tradizione militare più ragguardevole; se mai (qui vale il citato giudizio del Bastico) esso ha il difetto di rimanere circoscritto a un'élite apprezzata e conosciuta meno di quanto meriti, sia all'interno che all'esterno delle Forze Annate. Non si può fare a meno di sottolineare, infine, che il travaglio di idee del periodo 1870-1915 è stato in certo modo vanificato (ma non reso sterile) dall'abbandono della Triplice Alleanza da parte dell'Italia nella primavera 1915, seguito a breve distanza di tempo dall'entrata in guerra contro l'Austria e a fianco della Francia e dell'Inghilterra. Strategicamente ciò ha significato l'inizio di una sanguinosa guerra offensiva con pochi mezzi di fuoco e in terreno sfavorevole da parte dell'Esercito (guerra offensiva mai pensata e preparata da alcuno, per la semplice ragione che sia ad Ovest che a Est il probabile avversario era molto superiore, e per di più ad Est c ' era un alleato). In campo marittimo è scomparso il timore di sbarchi francesi nella penisola ma si è dovuta iniziare una guerra nell' Adriatico, mai preparata e con basi insufficienti, fortunatamente compensata da un sia pur problematico afflusso via mare di vitali rifornimenti che hanno consentito di alimentare la guerra, confermando così talune previsioni affiorate nella letteratura navale. Il tramonto della guerra rapida e offensiva di marca napoleonica, la stasi della guerra di squadra imperniata sulle grandi navi, la necessità assoluta per l' Italia di importare soprattutto via mare quanto le serviva per alimentare un grande esercito, sono novità in parte inattese del 1914-1915, che rimangono valide nel 19 I 8 e che avrebbero dovuto guidare anche nel secondo con nillo mondiale le scelte internazionali dell'Italia. Tutto ciò non significa, però, che gli studi, i dibattiti, le teorie del periodo esaminato siano da mettere in soffitta. In tanto materiale obsoleto affiorano spesso interfacce interessanti e problemi sempre vivi, messi in evidenza con la convinzione che mutatis mutandis, questa è comunque la necessaria base del pensiero e della strategia di oggi e un riferimento sempre utile per quelli di domani, se non a ltro perché aiuta a non ripetere gli errori e a distinguere ciò che è veramente nuovo da ciò che in vece è l'adattamento a nuove realtà di concetti strategici già affiorati in passato: "Nihil sub sole novi" è un vecchio detto latino, che nemmeno nell'era nucleare e post-nucleare ha perduto la sua aderenza alla realtà. Una realtà che è sempre stata l'unica guida della presente opera. Cercare la verità, non sfuggire a giudizi ragionati è più che mai necessario specie se si parla di cose militari, soggette al contrapposto pericolo della retorica e de lI' agiografia da una parte e della denigrazione preconcetta dall'altra; se questo obiettivo sia stato o meno da noi raggiunto, e in che misura, spetta al lcltorc giudicare. IL CAPO DELL' UFFICIO STORICO Colonnello Antonino ZARCONE
DETTI MEMORABILI "le difese verso il mare, in un paese conformato come il nostro, vanno evidentemente studiate in rapporto cogli interessi marittimi, coi bisogni della di.fesa costiera [terrestre] e con quelle della difesa interna ". GENERALE PERRUCCHETTI, La difesa dello Stato (1884) "In ltalia non vi possono essere due strategie, cioè quella dell'esercito e quella della marina; non ve ne può essere che una sola, come uno solo può essere il piano di guerra generale che risponda a una data condizione politica e militare". CONTRAMM. GONZALES (1895) "O noi saremo in guerra (speriamo che non awenga mai) con l 'Inghilterra, oppure no; nel secondo caso, avremo sempre c:arbone; nel primo ...... non andremo molto navig ando". COMANDANTE I .OVERA DE MARIA (cit. da P. Cottrau, R . Mar. 1880) "La letteratura militare di un Paese rispecchia le caratteristiche del suo esercito e della sua marina. Se si scrive poco, si lavora poco, e il livello spirituale dei Quadri non aumenta, perché gli uomini che hanno inc:urichi di vertice non si curano di diffondere le loro idee. Oggi che la Marina sta attraversando una crisi s enza precedenti, il Capo che non scrive non è un vero Capo, perché non fa conoscere a nessuno le idee che si suppone abbia, quindi si ha il diritto di dedurre dalla sua sterilità che, anche se egli avesse del coraggio in guerra, mancherebbe probabilmente di scienza e ancora di coscienza. Qualunque cosa egli p ensi fa p ensare, qualunque cosa scriva fa scrivere". AMMIRAGLIO AUBE
"li dominio del mare è una parola più che un fatto; esso non garantisce affatto la sicurezza del commercio [... ].La guerra marittima dell'avvenire sarà essenzialmente una guerra di corsa". AMMIRAGLIO AUBE "La discussione è fondamento di progresso militare non meno che di progresso scientifico ". COMANDANTEBONAMTCO "L'indole moderna delle nazioni e dei conflitti, l 'immedesimazione del popolo collo Stato, del cittadino col soldato escludono oggi la possibilità, così specifica delle passate autocrazie, di lottare ad oltranza e con vantaggio, senza il potente ausilio della pubblica opinione e della coscienza nazionale". COMANDANTE BONAMICO (1900)
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"Se l 'Jtalia non si risolve a diventare potenza marittima, non sarà mai rispettata, né temuta, né ricca ". GENERALE MARSELLI "La prima condizione per la futura Monarchia italiana sarà quella di essere potenza marittima, per difendere le sue coste e mantenere la supremazia sulle sue isole". NAPOLEONE "Il carbone è indispensabile alle flotte odierne, ancor più che non sia il pane al soldato. Questo non si batte bene, si dice volgarmente, se non ha la pancia piena. Una nave non può servire se non contiene nei suoi fianchi il combustibile necessario ".
COMANDANTE EUGENIO BOLLATI DI S.O. (1900) "Le navi sole non bastano per jòrmare una flotta combattente".
GENERALE C.E. CALLWELL (a proposito della battaglia di Lissa 1866) "Non si prevede nulla se si pretende di precisare quel che si farà dinnanz i al nemico; ciò è assurdo". TEN. VASCELLO BERNOTTI ( 190 1) "Già più di una volta la 'Rivista di Fanteria ' ha dimostrato quale urgente bisogno si abbia oggi di dire la verità sulle questioni militari, e di dirla ben forte e in pubblico[... ]. Invece di indugiarsi a inutilmente strolgare il modo di fare i tempi diversi da quello che sono, animosamente li piglia quali sono l---J. Poiché non giova dar di cozzo nella fata, la sola opera logica e pratica è quella che tende a illuminare il giudizio di coloro i quali, piaccia o non piac'cia. sono i giudici; a illuminarlo col lume della verità e non ad abbacinar/o collefosforescenti bugie". CAP. GUERRINI ( 1903) "Non vi è, a mio credere, umana corbelleria che non pos'.w, i1111ocorl! a sua g iustifìcazione l 'autorità di qualche sentenza proverbiale. EJi·o11t111to a1111iene che .spesso il volgare adagio passi in commercio, ed abbia corso lm i semplici, quasi fòsse di buona lega un assioma falsificato ".
C. MINONZJ, "Nuova A n1ologia" 1874 "L'Italia ha in breve volger d'anni costruito, armato ed eq11i11of.!:r..iut111111 'armata [navale] che giustamente sollecita il nostro Ot'f.!:Op./io f/(/: it111(1h· 1... 1. Or conviene coronare l'edificio col formare la dottrina m11•ol<' tic/la No:ione,dottrina che manca tuttavia. Lasciarne laformazio11C' i11 o.,·s11/11tu /111/ìa del/ 'armata stessa sarebbe errore grave; postoché ogni pndi,.,·.,·i,nw 11111r,· f.!:Closa-
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mente nella propria coscienza una somma di dogmi dei quali non sa spogliarsi; e talvolta ai dogmi fanno corona i pregiudizf che dei primi sono anche più tenaci". A. V. VECCHJ ( 1898) "Gli sbarchi sono più uno spauracchio che un pericolo serio, per un Paese popoloso e militarmente ben organizzato". GENERALE VON DER GOLZ ("La Nazione Armata", 1883) "Vi sono dei deputati [militari] in questa Camera, i quali pretendono la paga di generale, non comandano le truppe, e vengono qui a fare interpellanze ". ON. CAVALLOTII, Camera del 14 febbraio 1882 "lo vi posso garantire che con un sistema affatto nuovo, che non è conveniente di manifestare, il metodo di maneggio delle torpedini Whitehead diventa sicuro; quando il nostro porta-torpedini sarà completo, esso p otrà, se avrà 1111 po 'di fortuna, colare a fondo due o tre corazzate ". AMM. DI SAINT BON (MINISTRO DELLA MARINA), lettera agli elettori di La Spezia (1875) "Spero che in niuno sorgerà il dubbio che io ponga il dito su quelle piaghe ldella battaglia di Lissa- N.d.a.]per voglia crudele di esacerbar/e. lo sento pei caduti la pietà eh 'è loro dovuta da ogni animo cortese; ma sento in grado molto più alto quella eh 'è dovuta alla Patria, perciò stimo che dalle nostre sventure sia necessario trarre sempre tutti gli ammaestramenti che offrono, ad ogni costo e non lasciando sfuggire occasione propizia alcuna". AMMIRAGLIO FlNCATl (1882)
"Un nostro Italiano, il commendatore Miche/i, ha disegnato un nuovo materia/e che stima tetragono alle torpedini, riempiendo di sughero lo spazio fra le carene[ ...]. In.fine contro gimnoti e siluri vi ha gente ce scorge nella Talpa marina del Toselli, non qual è ora, ma modificata, e studiata e corretta, uno scudo contro i colpi tremendi degli apparecchi a esplosione sottomarina. Comunque sia, la torpedine ha alterato la strategia quale l'aveva modificata la navigazione a vapore, la corazzatura ed in.fine lo sperone. lmperrocché la nave in legno che guernisce il proprio tagliamare di un pettine munito di torpedini diventa atta all'urto come una corazzata. Nel medesimo tempo fiancheggiata, sia di torpedini in.fisse ad aste laterali (a guisa degli Americani), sia di lontre [cioè di torpedini a rimorchio tipo Harvey - N.d.a.,] essa allontana gli speroni nemici[ .. .]. I cannoni posti in batteria a terra [ ... ] criticati dal ora dal gimnoto e da un illimitato spessore di blindatura, hanno nuovamente il disopra ". A. V. VECCHJ, "NUOVAANTOLOGlA" 1875
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"Tra gli studi storico-scientifici, uno dei più faticosi e difficili è certamente quello della tattica navale. Questa difficoltà l 'abbiamo anche nella Storia dei tempi moderni, ma non aumenta gradatamente a misura che si rimonta nel passato. Si piomba qualche volta nel 'oscurità per poi ritrovare un poco di luce, e quindi ricader nelle tenebre, e non di rado un periodo remoto ci apparisce più chiaro di un altro più prossimo. Non vi ha confronto possibile tra le difficoltà di uno studio storico dell'arte militare navale e quello dell'arte della guerra terrestre. l grandi condottieri terrestri o scrissero essi stessi le loro campagne, o ebbero numerosi interpreti che professavano la loro stessa arte. In mare, e soprattutto nel periodo medioevale, sono rari gli storici intelligenti di cose di mare, e le battaglie navali[ ... ] raramente sono studiate dal punto di vista dell'arte strategica e meno ancora di quella tattica che cagionò la vittoria, né si ricercano gli errori che produssero la sconfitta". CONTRAMMIRAGLIO GAVOTTI ("Rivista Marittima" 1901) [All'Accademia Navale di Livorno di fine secolo XlX] "... era recente il passaggio dalla vela al vapore: quindi l'evoluzione dei concetti d'azione era poco compresa, essendo le idee ancora vincolate a/I 'eredità lasciata dal periodo velico e al preconcetto della battaglia di Lissa, che faceva attribuire importanza preminente ali 'impiego del rostro. La strategia navale era quanto mai vaga; la storia militare marittima non veniva presa in speciale considerazione[ ... ]. I concetti di tattica navale e di strategia mi sembravano estremamente nehulosi [ ... ]. Non si facevano esercizi di tiri notturni, di evoluzioni, né esercitazioni tattiche o strategiche di sorta". AMMlRAGLIO BERNOTTI ( 1971)
"L'arma sottomarina ha portato nella guerra marittima uno sconvolgimento certamente superiore a quello che non abbia portato nella guerra terrestre l'arma aerea; se tale sconvolgimento non è stato completo, lo si deve unicamente al fatto della limitata potenza sollomarina di cui dispongono I nostri avversari. Necessita convenire che i sottomarini austro-tedeschi hanno impedito e impediranno alle flotte preponderanti avversarie di raggiungere il completo dominio del mare. Dominare il mare non significa solo impedire a/l 'avversario di navigare, significa anche acquistare la capacità di liheramente navigare. Ora le flotte dell'Intesa sono bensì riuscite a spazzare il mare dai galleggianti nemici, ma non sono riuscite a rendere sicuro il mare a sé stesse e alle proprie marine[ ... ]. J colossi navali odierni sono impotenti o quasi contro le piccole armi insidiose sottomarine, e queste sono estremamente minacciose per tali colossi i quali hanno bisogno difàrsi largamente scortare. A che servono questi colossi oggi? La guerra attuale insegna [ .. .]. Solo 1111a nazione che possa avere la sicurezza di mantenere la preponderanz a di 11110.flolla galleggiante potrà costruirsi tale flotta, tutte le altre dovranno rinunciarvi per dare il massimo sviluppo alla flotta sottomarina ". GENERA LE DOUH ET (profeta dcli ' Acronaut ica, 191 7)
DllTTI MEMORABILI
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"L'impiego delle torpedini [fisse] esige la più seria attenzione; mezzo di guerra semplicissimo, e di poca spesa, è arma dei deboli contro i possenti. [Nella guerra di secessione americana 1861-1865] i Confederati, soprattutto, ne f ecero grand 'uso [...]. Costituiscono dunque le torpedini marine un pericolo impossibile a prevedersi minaccianti senza posa, esigenti ancor più eroismo che il.fo rzar passi, ['attaccar batterie e fortificazioni delle meglio intese e ben munite". TEN. COL. (ESERCITO) MARTIN! (1865) "Molti scrittori [navali] danno un 'importanza tanto grave ai terribili ef / etti dei cannoni a tiro rapido e delle mitragliere [instaJlati sulle navi maggiori], che non si parla mai delle torpediniere senza trovare 'questo leone sul cammino '". M.G. ("Rivista Marittima" 1899)
INTRODUZIONE Checché se ne dica, la questione militare è molto legata alla questione marittima[ ... ]. Noi [Capi dell'esercito] non possiamo fare un disegno di guerra senza tener conto delle condizioni della marina[ ... ]. Un grave difetto noi abbiamo nel nostro sistema governativo, quello della troppa indipendenza tra i diversi Ministri, sì che ciascuno cammina p er la sua via senza darsi pensiero degli altri. GENERALE CESA RE RJCOITJ (discorso alla Camera del 19 dicembre 1880)
Anche se a dt:lta degli storici navali la marina non ba avuto un molo di primaria importanza nella Restaurazione e nelle guerre del Risorgimento, nei voi. I e n della presente opera non abbiamo mancato di dare il dovuto rilievo alla problematica interforze e di interesse marittimo, più presente di quanto si possa credere nella letteratura di interesse strategico anche prima del 1870. La ripartizione dell'analisi del pensiero militare del periodo 1870-1915 in due tomi, dei quali il primo riguardante la guerra terrestre e il secondo dedicato al problema interforze e alla guerra marittima, è un ulteriore passo in avanti ma rimane un fatto insolito, se non altro perché con le debite eccezioni, anche oggi gli scrittori e storici militari continuano a dividersi in terrestri, navali e aeronautici. In questo contesto, quella che qui presentiamo è operazione culturale prima ancor che opportuna, necessaria e non nuova. Basti ricordare il nostro precedente volume - con respiro interforze - TI pensiero militare italiano dal primo al secondo dopoguerra (1919-1949), edito anch'esso dall'Ufficio Storico SME nel 1885. A ciò si aggiunga che la recente legge del 1997 sulla configurazione dei vertici militari postula anche nel campo degli studi storico-strategici (il legame tra storia e strategia non ha bisogno di sottolineature), un ' impostazione con criteri unitari e strette misure di coordinamento. Di questa nuova esigenza prende opportunamente atto un recente studio, nel quale si accenna al progetto di creazione di un Ufficio Storico dello Stato Maggiore Difesa con tutte le relative ricadute nella gestione del materiale, negli indirizzi di ricerca ecc., 1 progetto poi realizzato a fine 2006.
1 Giuliano Giannone, CISM: La storia e il mondn militare, in "Informazioni della Difesa" n. 2/2006, pp. 51 -55.
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IL PENSlhRO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. 111 (1870.191S) - TOMO Il
Per altro verso, un approccio interforze e un esame comparativo della problematica delle due forze armate di allora è tanto più necessario nel periodo considerato, quando dopo aver esaurita la ristretta prospettiva delle guerre d' indipendenza, il nuovo Regno d 'Italia in un quadro di notevoli difficoltà interne e di scarsità di risorse ha dovuto fare i conti con i problemi del Mediterraneo e al tempo stesso con quelli del continente europeo, percorso da tensioni delle quali la guerra franco-prussiana del 1870-1871 è stata la manifestazione principale e cronologicamente primaria, ancorché non l'unica. Per l'Italia ne sono derivate questioni di politica militare, di strategia, di ordinamenti ecc., che se studiate in un'ottica solo terrestre o solo marittima perderebbero molte, troppe interfacce. A ciò si aggiunga che la scarsità di risorse ha reso ancor più complessa, difficile, controversa una situazione geostrategica generale che rendeva oggettivamente difficile - se non impossibile - individuare soluzioni praticabili e soddisfacenti: difficile rimediare a una debolezza congenita, visto che il più probabile avversario fino alla primavera 1915 è stato la Francia. Non è necessario spendere altre parole per qualificare e inquadrare il nostro tentativo, che come sempre intende evitare unilaterismi e .giudizi categorici e assoluti, non corrispondenti aJla complessità dei problemi. A maggior ragione, pertanto, la nostra indagine sarà basata sulla ricerca di analogie e differenze che contribuiscano a mettere in giusta luce le differenti tesi. Ci conforta il fatto che da una parte taluni esponenti di rilievo dell'esercito sono assai sensibili ai problemi e alle esigenze della difesa marittima, e dall'altm parecchi scrittori navali non arrestano la loro indagine alle coste, ma ritengono necessario richiamarsi a un'ottica interforze. La complessità e varietà del quadro che deriva dalla materia così trattata induce a considerare che l'imperatoria brevitas non giova all'insieme, e che più che mai in questo caso si rende opportuno rifarsi senza intermediazioni sempre opinabili alle fonti originali, con la consueta metodica comparativa che è la via obbligata per far emergere tutte le interfacce dei problemi, nonostante le difficoltà oggi create dalla mancanza nelle biblioteche ed emeroteche di parecchi scritti del periodo, che sarebbero stati estremamente utili. FERRUCCIO BOTI' I Roma, aprile 2007
PARTE PRIMA
LE GRANDI FIGURE: BONAMICO E SECHI
CAPITOLO I
DOMENICO BONAMICO, "ALTER EGO" NAVALE DI NICOLA MARSELLI E PROFETA ITALIANO DEL POTERE MARITTIMO E DELLA GUERRA DI CROCIERA
Premessa Nato a Cavallemaggiore (Cuneo) il 1° gennaio 1846, Domenico Bonamico, ufficiale di marina che ha terminato la sua carriera con il modesto grado di capitano di corvetta, è il maggior esponente del pensiero navale italiano della seconda metà del secolo XIX. Scrittore estremamente fecondo e attivo dal 1870 al 1914, tecnico (è laureato in ingegneria civile) e studioso dai vasti interessi culturali, prima ancor che stratega e pensatore navale è pensatore politico e moralista, che non perde mai di vista il legame tra strategia navale, realtà politico-sociale e vincoli economici. Portato a delineare panoramiche ampie e a privilegiare analisi fin troppo complesse e articolate, il suo sguardo non è mai ristretto ad angusti confini nazionali, né egli appartiene alla vasta categoria degli aedi, dei sognatori, degli assolutisti, dei cultori del mito del mare e della flotta, dei "navalisti" sostenitori ad oltranza della necessità per l'Italia di dominare il Mediterraneo, senza tener conto dei dati oggettivi della situazione interna ed internazionale, delle risorse disponibili e delle esigenze della difesa globale della nazione. Il suo pensiero è la risultante, la confluenza di motivi, apporti, influssi diversi: questo ne determina l'originalità e il pregio. La riflessione storica non è in lui fine a sé stessa né rappresenta un puro interesse speculativo, ma - secondo i moduli crociani - è chiave indispensabile per interpretare il presente e intravedere l'avvenire. È stato - e rimane tuttora - il principale interprete e critico italiano di Mahan e della Jeune École Navale francese: ma quest'incontro con teorie nate per le esigenze di altri Paesi è spesso anche scontro e non si trasforma mai in acritiche esaltazioni, superficiali valutazioni o imitazioni, stroncature preconcette. Dal punto di vista puramente teorico, la matrice del suo pensiero - nel quale il materiale e la geoh,rafia hanno parte essenziale - come quella di Mahan rimane jominiana (vds. Voi. T, capitolo TTT): ma non trascura i fattori morali cd è il primo scrittore navale italiano - e tra i primi scrittori militari italiani - a citare Clausewitz e a integrare con elem5:mti clausewitziani le riflessioni su Mahan, al tempo stesso rivendicando - non del tutto a ragione -
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l' autonomia e anzi la primogenitura della corrente di pensiero da lui capeggiata rispetto alla Jeune École. 1 Analizzare il suo pensiero significa andare molto al di là degli elementi di interesse navale, pur fondamentali e insostituibili; significa ripercorrere quasi mezzo secolo di pensiero militare italiano ed europeo e individuare, al suo interno, i gradi filoni di pensiero strategico e i principali argomenti di dibattito, tenendo presente che Bonarnico (d' ora in poi D.B.) è tutt' altro che allineato con il pensiero navale ufficiale italiano coevo, specie in materia di strategia più conveniente per l'Italia e di costruzioni navali. Strategia e storia, passato e presente in lui si fondono annonicamente. È stato il primo scrittore navale italiano - e tra i pochi scrittori navali d'ogni tempo - a ricercare in modo organico l'inserimento del problema della difesa marittima dell' Italia nel più vasto ambito della difesa nazionale, fino a pervenire a formule originali e razionali in un quadro di compatibilità di risorse e tenendo sempre ben presente iI contesto geopolitico - marittimo e terrestre - del('Italia. Nemico dichiarato di ogni esclusivismo e tecnicismo navale, non si perde nell'esaltazione del facile principio della navyfor ever ma approfitta della frequenza della Scuola di Guerra dell ' esen.:ito di Torino e dell'insegnamento di tattica navale presso la predetta Scuola e le altre della marina per trame materiale teorico, esperienze, relazioni, conoscenze specifiche della guerra e strategia terrestre che servono a gettare un solido ponte tra due branche - l'arte marittima e quella terrestre - e due realtà - esercito e marina di quei tempi che si guardano con diffidenza alimentata dalla scarsa conoscenza reciproca e troppo spesso vivono - e intenderebbero operare - ignorandosi il più possibile e contendendosi le scarse risorse con argomentazioni non sempre serene (purtroppo non è cosa solo dei suoi tempi). Il suo apporto teorico, dunque, si confonde e spesso si identifica con un apostolato, che assai più e prima di quello di Maban negli Stati Uniti non è solo rivolto a promuovere un maggior interessamento della pubblica opinione per la marina e le sue esigenze, ma intende suscitare un dibattito e una rifless ione - anche tra gli ufficiali dell'esercito - intorno ai grandi terni della politica estera e di sicurezza nazionale, nei quali la marina non può non avere un suo posto. Ciò richiede un salto di qualità nella formazione, nella mentalità degli ufficiali di marina, i cui orizzonti sono al momento ristretti da un angusto tecnicismo navale che egli come Mahan dopo di lui condanna. Prima ancora che gli esponenti del pensiero militare e navale d'oltralpe e d 'oltre Oceano, i suoi principali interlocutori sono i maggiori scrittori militari italiani "terrestri" coevi, a cominciare dal Ricci, dal Marselli e dal Perrucchetti (Cfr. Tomo 1, cap. I-TV) e anche - non senza punte polemiche figure quasi
1 Sui rapponi tra Donamico e la Jeune École. Cfr. Il Nostro Contro la guerm di squadra e le grandi navi: le teorie controcorrente del comandante Bonamico e de/1 'ummiraglio jiw1c!'Se A11l>e nel Sl'COlo XIX, in "Bollettino d ' J\rchivio Jclla Marina Militare·· J\nno XV!l I - scllcmbrc 2004. pp. 13 1-157.
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mitiche della politica navale della seconda metà del secolo XIX come Benedetto Brin e Simone Pacoret di Saint Bon, che meglio prenderemo in esame in seguito. D.B. - e questo accresce l'interesse per il suo pensiero - vive e opera in un periodo di crisi e di radicali trasformazioni della strategia e della tattica navale, fino a quel momento dominate dall'esperienza delle guerre napoleoniche con le quali il periodo velico tocca il culmine. Nei suoi scritti ben rivive l'incertezza delle prospettive che apre il periodo del vapore appena iniziato, insieme con la mancanza di dati d' esperienza sui possibili riflessi di nuovi sistemi d'arma come il siluro, e sull'effettivo rendimento delle grandi corazze e dei cannoni giganti. Sintetizzare le molteplici interfacce del suo pensiero è impresa ardua. Ci soffermeremo, comunque, sui seguenti aspetti qualificanti: - le differenze tra periodo velico e periodo etico (o del vapore) e la conseguente, nuova esigenza generale di una stretta "correlazione terreslremarittima"; - la critica all'operato e alle proposte iniziali della Commissione permanente per la difesa del Regno costituita nel 1862, le cui proposte a suo parere trascurano il ruolo della marina e le nuove possibilità offerte dal vapore; - l' individuazione della minaccia più pericolosa per l'integrità territoriale dell'Italia (gli sbarchi francesi) e la chiara e concreta definizione, in questo ambito, dal ruolo rispettivo della marina e dell'esercito; - la critica alla "guerra di squadra", alla battaglia navale decisiva e alle grandi navi (cioè ai capisaldi della politica navale italiana del momento, mai venuti meno anche dopo) e l'opzione per la "guerra di crociera" e per costruzioni navali "ad hoc" in armonia con tale tipo di guerra e con le condizioni geografiche del più probabile teatro d'operazioni; - il dialogo costruttivo con il Marselli, il Ricci e il Pcrrucchetti sui grandi temi della difesa nazionale, aventi come base lo studio della situazione geopolitica e geostrategica italiana; - la polemica con la Jeune Éco/e navale francese e lo studio comparativo delle teorie di Mahan e Callwcll, dal quale scaturisce un concetto più organico, completo ed equilibrato di potere marittimo; - le riflessioni di fine secolo XIX sulla strategia e sulla tattica navale e sulla situazione geopolitica europea e italiana; - le riflessioni (non solo angustamente navali) sulla guerra cino-giapponese (1894), sulla guerra ispano-americana (1898) e sulla russo-giapponese (l 904-1905), delle quali per il momento diamo solo un breve cenno, riservandoci di prenderle più diffusamente in esame trattando tali specifici argomenti. L' interesse e la valenza teorica degli scritti di D.B. già risultano da questi temi, che tratta a cominciare dal 1878 in lunghi saggi sulla Rivista Marittima, dai quali poi trae il materiak per le opere maggiori; tali saggi sono, inoltre,
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IL PENS1ERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOI.. 1IJ (1 870- 1915) • TOMO Il
spesso pubblicati a parte dalla stessa rivista. Forse perché parecchie sue idee si discostano dagli orientamenti ufficiali e per di più sono espresse con una prosa involuta e di non facile lettura, è uno scrittore fino a poco tempo fa poco studiato e a volte male interpretato. Negli anni Trenta l'ammiraglio Giuseppe Fioravanzo e il comandante Guido Po hanno curato la ristampa di alcuni dei suoi principali scritti di fine secolo, con brevi introduzioni e poche note. 2 Ma tale rivisitazione, pur meritoria, oltre a non fornire al lettore una visione completa delle teorie del Nostro trascurandone aspetti fondamentali, per comprensibili ragioni legate alla politica estera e navale del tempo (le due ristampe avvengono subito dopo la guerra d'Etiopia 1935-1936), trascurano aspetti importanti del pensiero di D.B., che con tale ambizione politica non sono affatto in armonia; pertanto per una visione più completa della sua opera, rimandiamo al recente volume di Domenico Bonamico Scritti sul potere marittimo da noi curato. 3
SEZIONE I - Gli scritti dal 1878 ~• 1884: ragioni della dicotomia tra periodo velico e del vapore
Nuova importanza della "correlazione terrestre-marittima", critica alla " guerra di squadra" e ruolo fondamentale della geografia Per giungere alla definizione di un concetto unitario e interforze della difesa nazionale e del conseguente apporto della marina,4 D.B. parte dall' esame teorico dei nuovi caratteri impressi alla guerra marittima dalla comparsa della propulsione a vapore, che segna un ritorno a parecchi concetti d'impiego tipici del periodo remico. Ne deriva una forte dicotomia strategica rispetto al precedente periodo velico, le cui concezioni accentuano l'indipendenza della guerra marittima rispetto a quella terrestre e quindi non favoriscono un rapporto armonico e stretto tra operazioni marittime e terrestri. Al contrario di Mahan non ama il periodo velico, fino a dire che esso negli studi navali ha avuto una ''funesta importanza" la quale addirittura "ha corrotto la scienza navale". A suo giudizio l'introduzione del vapore ha provoca-
2 Cfr. Domenico Bonamico (d' ora in poi 0 .8.), Mahan e Callwell. Roma, Ed. Rivista Marittima 1899 (ristampa J938 a cura di G. Fioravanw, Roma. Ed. Roma); Id., Il problema mari/limo del 'Italia, La Spezia, Ed: Lega Navale 1899; Id., // potere marillimn, Roma, Ed: Rivista Marittima 1899 (i due ultimi saggi sono stati ristampati nel 1937 a cura del comandante Guido Po, Roma, Ed. Roma). Oa ricordare che Mahan e Callwell raccoglie otto lunghi articoli pubblicati da 0 .8 . sulla Rivista Mari/lima dall'ottobre 1897 al febbraio 1899. Gli ultimi due di tali articoli sono pubblicati dalla Rivista Marittima a parte, nel c italo opuscolo dal titolo li potere marittimo, ristampato a cura del Po. Vi è pertanto un' area di sovrapposizione Ira le ristampe del Po e quella del Fioravanzo, pur essendo contemporanee. ' Roma, Ufficio Storico Marina Militare 1988. • Si vedano soprallulto i numerosi articoli di D.U. sulla Rivista Marltctrna dal 11178 al 18ll4.
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to mutamenti radicali, fino a rendere possibile - come era già avvenuto nel periodo remico -1 ' inserimento dell' impiego degli eserciti e delle flotte in un concetto strategico unitario e nazionale. Nel periodo velico, infatti, i movimenti delle flotte dipendevano interamente dai capricci del vento, quindi non pote· vano essere preordinati e pianificati come quelli degli eserciti. Per contro la loro autonomia logistica era di gran lunga maggiore di quella delle navi a remi e di quella della navi a vapore, che la frequente necessità di rifornirsi di carbone e di riparazioni alle macchine rendeva specie a quel tempo assai legate alle basi. Sempre a causa dell'impossibilità di pianificare i movimenti delle flotte a vela, non era possibile utilizzarle efficacemente per la difesa delle coste. Di conseguenza la difesa delle frontiere marittime era affidata in esclusiva alla fortificazione costiera, così scindendo la problematica d'impiego delle forze marittime in due parti senza alcun raccordo tra di loro: l'azione offensiva di forze mobi Ii riservata alle flotte e l' azione difensiva riservata alle fortificazioni costiere. Sempre nel periodo velico l'azione offensiva delle flotte era quasi interamente navale, cioè si esercitava soprattutto contro altre navi, mentre la loro offesa costiera era solo "superficiale e momentanea". E mentre la strategia navale abbracciava larghi spazi, la tattica si riduceva alla ricerca degli accorgimenti tecnici per meglio manovrare sfruttando il vento ... Con l'avvento del vapore la situazione si è in sostanza capovolta. Infatti
" la guerra marittima non solo non ha nulla di comune con quella continentale, ma nello stato presente delle flotte essa non ha a che far nulla colla guerra marittima del periodo precedente". È finalmente possibile pianificare e dirigere i movimenti degli eserciti come quelli delle flotte, quindi si è resa possibile e necessaria una stretta correlazione tra operazioni terrestri e marittime, aprendo nuove prospettive alla strategia navale e consentendo di tracciarne i confini esatti rispetto alla tattica. Si può così mettere fine anche alla frequente confusione tra evoluzioni, grande e piccola tattica e strategia che aveva caratterizzato il periodo velico, aprendo in particolare alla strategia navale nuove frontiere. Ne risulta favorito- sempre a parere di D.B. - l' impiego delle forze navali nella difesa mobile delle coste e contro gli sbarchi, a loro volta diventati più agevoli , frequenti e pericolosi al pari dei bombardamenti costieri. Di più: tutto il tratto di mare rientrante nel raggio d'azione delle artiglierie navali ormai fa parte integrante del teatro di guerra di competenza della marina, mentre la guerra costiera "diverrà col tempo la/orma principale della guerra marittima [...]. Nessuno contesterà che il vapore abbia oggi trasformato qualsiasi bacino marittimo in un lago, purché la mobilità delle flotte sia tanta quanto si richiede per dominare sufficientemente una costa nei limiti di tempo delle operazioni militari''. In definitiva le conseguenze di questo nuovo stato di fatto, dovuto - va sottolineato - al progresso della tecnica, a parere di D.B. sono di grande portata, perché riguardano sia la strategia, la geografia e il loro rapporto, sia le forme
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della guerra marittima, il cui scopo unico e da tutti riconosciuto era - fino a quel momento - la conquista de l dominio del mare mediante battaglie decisive (grande guerra o guerra di squadra, contrapposta a quella che i francesi chiamano guerre de course).5 Secondo D.B., se al momento prevale ancora l'orientamento verso la "guerra d 'alto mare" o "grande guerra" è solo a causa dell'eredità del passato e delle "condizioni transitorie del presente". Grazie al vapore, la guerra costiera mette ormai le forze navali direttamente a contatto con gli obiettivi della guerra marittima, quindi è ormai il tipo di guerra che offre le maggiori probabilità di successo. È stata solo l' impossibilità di conseguire tali obiettivi che nel periodo velico "ha respinto i vascelli a una forma meno perfetta e meno decisiva di operazioni navali", cioè alla ricerca della conquista del dominio del mare mediante scontri a flotte riunite. Infatti tale dominio che nel periodo velico non ammetteva altra soluzione che la grande guerra, può oggi conseguirsi o contendersi da qualsiasiflotta o flottiglia, senza perdere il contatto tattico della costa e degli obiettivi. Tale modalità della guerra non esclude certo le grandi battaglie tra flotte dotate di uguale mobilità, perché in tal caso non è possibile conseguire grandi obiettivi senza essere costretti da forze superiori e ugualmente mobili ad impegnare un 'azione decisiva.
ln sostanza il netto e fin troppo categorico rifiuto dell'esperienza, del patrimonio del periodo velico appena tramontato porta D.B. a ritenere superata e non sempre conveniente "la guerra di squadra" o "grande guerra", e a prevedere un avvenire fin troppo roseo e esclusivo per la correlazione terrestre-marittima e per la guerra costiera. La propulsione a vapore diventa un elemento storicamente disgiuntivo, che costringe alla ricerca di nuove forme della guerra marittima, evitando le consuete formule strategiche e costruttive, che fino a quel momento hanno assegnato un ruolo predominante ai grandi vascelli. Infatti con una flotta dotata di mobilità superiore sarà possibile "evitare le decisioni funeste" [cioè accettare battaglia anche con forze inferiori - N.d.a.], condurre con successo la guerra costiera e contendere il dominio del mare a flotte costruite e organizzate "solo per la grande guerra, secondo la persistente ten-
' Nonostante la loro importan7.a, i numerosi vocabolari e dizionari marittimi e militari del sec . XIX e XX, ivi compreso quello as.~ai celebrato del Guglielmotti, non riportano questi due tcnnini. Per guerra di squadra (o guerra d 'alto mare) si intende l'insieme di operazioni offensive imperniate su battaglie navali possibilmente decisive e a flotte riunite, che hanno per posta la conquista del dominio del mare. Per guerra di crociera si intende l'insieme delle operazioni che hanno come scopo l' attacco e la difesa del traffico mercantile o l'attacco a i convogli di sbarco nemici, condotte da incrociatori militari veloci o da navi ausiliarie e - nel secolo XX - da sommergibili; tali navi agiscono isolate o frazionate per gruppi a composizione variabile. Una variante della guerra di crociera che ebbe largo sviluppo nei secoli XV 111 e XIX ma era già in decadenza a fine secolo XIX - è la guerra di corsa. condotta contro il traffico mercantile nemico da navi "corsare" annate da privati con apposita autorizzazione del Sovrano, per distinguerle dalle navi dei pirati (si vedano anche in merito, i tre Nostri articoli dedicati ai Dizionari di Marina ltalia11i in " Rivista Marittima", ge nnaio, febbraio e maggm 2002).
I - DOMENICO BONAMICO, "ALTER EG<Y' NAVALE DI NICOLA MARSELLI
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denza delle nazioni". Non va però escluso che con il tempo la battaglia navale "possa di nuovo divenire la sola ed esclusiva forma della contesa del dominio del mare". D.B. non dà grande importanza nemmeno alle grandi battaglie navali a notte riunite che hanno caratterizzato il periodo velico. L'epopea della Royal Navy e gli effetti strategici decisivi della battaglia di Trafalgar sono assai lontani da queste sue parole, anche se contradditoriamente si professa ammiratore di Nelson: il periodo velico aveva svincolato le flotte da ogni dipendenza continentale, le aveva trasformate in elementi autonomi, distinti, ma nello stesso tempo incapaci di grandi influenze, se si accentuano non rarissimi esempi, ad onta delle numerose carneficine navali; incapaci, come nota il Grivel, di condurre alla conclusione immediata della pace, come tali furono spesso certe insignificanti vittorie territoriali. Il vapore, senza togliere alle flotte tutta la loro individualità, le mette anche in grado di portare nella bilancia della guerra un 'influenza assai più vantaggiosa e decisiva che non sia quella di una vittoria che costa al paese tesori di denaro e di sangue...
In questo quadro, secondo D.B. nel campo navale l'importanza strategica del progresso delle armi e dei mezzi tecnici è assai maggiore di quanto avviene nel campo terrestre. Mentre l'artiglieria e le conseguenti difese banno già rivelato tutta la loro influenza, l 'introduzione delle armi subacquee e il probabile e largo impiego di nuovi ed eccezionali mezzi di attacco e difesa, lasciano una enorme indeterminazione strategica, che potrebbe essere minima come potrebbe essere causa di radicali trasformazioni. 6
Parole profetiche da sottolineare, se si pensa al ruolo che di li a pochi an-
ni avrebbero assunto il siluro abbinato al sommergibile. Strategia e tattica navale: nuovi contenuti e rapporto con La geografia Nelle parziali ristampe del 1937-1938 il Po e il Fioravanzo trascurano completamente gli scrittori di D.B. in materia di strategia e tattica navale, dai quali non si può assolutamente prescindere per ricostruire il percorso di queste due fondamentali branche nella seconda metà del secolo XIX, non solo in Italia ma anche in Europa. D.B. affronta l' argomento anzitutto nel primo capitolo dei
6 D.B., Considerazioni sugli studi di geografia militare e marittima Roma, Tip. G . Barbèra 1881, p. 87. Importante anche il commento (non sempre concorde con le idee del Bonamico) del contrammiraglio Francesco Vittorio J\rminyon dal titolo Consitlerazioni sugli studi di geografia e strategia marittima e appunti su un articolo del tenente di vascello Bonamico ("Rivista Marittima" settembre 1881 ), in " Rassegna Nazionale" Voi. vn - dicembre 1881 , pp. 502-523.
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Primi elementi della guerra marittima svolti alla Scuola Superiore di Guerra (1880),7 ove esamina il quadro generale di riferimento, e in seguito nelle Considerazioni sugli studi di geografia continentale e marittima (1881 ),8 nelle quali fornisce la definizione più appropriata di strategia navale. Seguono tre articoli sulla Rivista Marittima del 1894-18959 e due altri articoli del 1901, 10 che ci riserviamo di esaminare nel prosieguo della trattazione. Secondo il Nostro la propulsione a vapore apre prospettive del tutto nuove e diverse anche per il significato, i contenuti teorici, l'epistemologia della strategia e tattica navale, dando origine a un periodo di crisi e di prolungata incertezza. Poiché nel periodo velico ambedue le branche erano dipendenti da un elemento fortuito e variabile come il vento, prima dell'età del vapore non poteva esistere una scienza strategica navale, perché non può esservi scienza "colà ove non esiste un rapporto dejìnitivo e costante, essendo ancora la catena delle relazioni fra i fenomeni quella che[... ] costituisce la scienza". La differenza tra il periodo a vapore e il periodo passato è appunto quella tra scienza e arte. La chiave di volta è diventata la logistica (intesa in senso jominiano, cioè come scienza del movimento e stazionamento): vedremo come nel periodo velico e remico mancasse assolutamente la relazione logistica, che è base della scienza strategica, e che quindi fosse sempre fortuita l'azione navale; vedremo invece come nel p eriodo moderno [quello del vapore - N.d.a.] la costanza del rapporto logistico ci pennette di innalzare la strategia navale a/In dignità delle scienze.
Dal periodo velico - prosegue D.B. - si è ereditato un eccesso di tattica e un difetto di strategia. Al momento le questioni tattiche sono molto dibattute, mentre quelle strategiche sono ancora quasi sconosciute: i più ritengono tuttavia che il nom e strategia non abbia senso marittimo, e non ,çi curano di scoprire le cause di questa divergenza tra la gue"a continentale e la marittima. Altri rimase alla definizione dell 'ammirag lio Smith, secondo il quale la strategia navale è una scienza che nessuno ha mai conosciuto. 1 più progressisti accettano / 'opinione de/l 'ammiraglio Boiiet de Wi/laumez, secondo il quale il nome di strategia non ha quasi significato p er le flotte, specialmente dopo l'invenzione della bussola, limitandosi al più le flotte a vela a procurarsi il vantaggio del vento, ciò che prova quanto sia facile confondere la strategia con la tattica e quanto erronee sono le opinioni della gente di mare sulla natura della funzione strategica.
Tendendo a diventare scienza più che arte, con la propulsione a vapore la strategia navale si è avvicinata a quella terrestre e come quella terrestre ha ac-
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Torino, Tip. Operaia 1880. D.B., Considerazioni ... (Cit.). 9 "Rivista Marittima" 1894, Voi. Il Fase. Ve 1895, Voi. I Fase. lJI e Voi. II Fase. TV. 0 • «Rivista Marittima" 190 l , Voi. Il Fase. I e Il. ~
I - DOMENICO BONAM.ICO, "ALTER EGO" NAVALE 01 NIC.'OLA MARSELLI
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centuato i I suo rapporto con La geografia, fino a rendere quest' ultima ancor più importante per la guerra navale che per la guerra terrestre. Infatti in campo navale la mobilità delle forze "è radicalmente mutata tanto in quantità che in natura", conferendo alla geografia un ' importanza assai superiore a quel la che aveva nel periodo velico. Di conseguenza la geografia strategica (che oggi definiremmo geostrategia - N.d.a), che durante il periodo velico non poteva acquistare i caratteri di una scienza [... ] ha oggi fondamento assai più definito e sicuro nelle operazioni delle armate [navali] che in quelle degli eserciti. la strategia navale[ ... ] è oggi quellajùnzione della guerra navale dalla quale si possono conseguire dei vantaggi, che non avrebbero nemmeno riscontro in quelli ottenuti dag li eserciti moderni più sapientemente condotti. 11
Specie dopo i pregevoli studi di parecchi autori (tra i quali D .B . cita gli italiani M ezzacapo, Sironi e Perrucchetti), la geografia è diventata "un principalissimo ramo del! 'arte militare". Lo sviluppo degli studi geo!::,rrafici non è un fatto casuale, ma è conseguenza dell'importanza assunta dalla strategia scientifica, fino a far ritenere che "le due .w:ieflze siano funzioni reciproche". In tal modo quella di D.B. diventa una vera e propria geostrategia applicata all'arte militare marittima, della quale deve tener conto in primo luogo la filosofia delle costruzioni navali. Vi è un crescente terreno comune tra geografia "militare" (cioè terrestre) e geografia navale: infatti di mano in mano che lo studio della geografia militare si estenderà dalla zona continentale, nella quale maggiormente si compiace, alla zona marittima, che diviene ogni giorno di più una parte integrante dei vari teatri di guerra limitrofi, si metterà anche in evidenza la somiglianza militare delle due frontiere.12
In propos ito D.B. osserva che anche una frontiera marittima può presentare g li stessi caratteri geografici di quella terrestre, oscillando tra due estremi: frontiera chiusa e frontiera aperta. La prima presenta caratteristiche tali da consentire di per sè una difesa naturale, rendendo possibile "concentrare in poche posizioni la totalità della dffesa [attiva], che avrà dei caratteri tattici di quelle il suo principale e quasi intero valore". Al contrario una frontiera aperta è que lla che non offre sufficienti difese naturali e quindi richiede adeguate forze mobili terrestri o marittime: così è purtroppo l'estesa frontiera marittima italiana, che ha caratteristiche assai diverse, e meno favorevoli, rispetto a quella tedesca e francese. Se la strategia terrestre di matrice jominiana (Vol. I, cap. lll) intendeva ricavare dallo studio della geografia e della statistica le sue principali compo-
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D.B., Considerazioni sugli studi ... (Cit.), p. 43. D.B., / primi elemenli ... (Cit.), p. 176.
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IL Pl•NSIPRO Mli rrARE E NAVALE ITALIANO - VOL. m (1870..191S) - TOMO 11
111.:nti e la pianificazione iniziale delle operazioni, D.B. spinge la sua fiducia nl!lla geografia fino a affermare che nella definizione dei rapporti di forze "un
buon centro strategico rappresenta numericamente le metà di una flotta nemica", e che le caratteristiche geografiche della zona d 'azione sono il solo criterio valido per stabilire il valore di ciascun tipo di nave, "poiché è anche il solo che meglio caratterizza la natura organica delle forze mobili impegnate in azioni reciproche, e i sistemi offensivi e difensivi degli Stati marittimi" (ecco la ragione principale della sua opposizione al "tecnicismo navale"). Egli distingue perciò tre zone d'operazioni con diverse caratteristiche geografiche (oceaniche, medjterranee e costiere), alle quali corrispondono navi da guerra con diverse caratteristiche. Mentre le navi oceaniche privilegiano l' autonomia e la potenza delle artiglierie (cioè i fattori che assicurano la libertà d'azione e la prevalenza nella lotta tra due navi d'alto mare), le navi mediterranee hanno dislocamento più ridotto e mettono ai primi posti la velocità, la capacità evolutiva e la "efficacia, facilità e sicurezza dell'urto" (cioè i 'impiego del rostro). Per quanto riguarda la tattica, D.B. deplora che la fisionomia distorta da essa assunta nel periodo velico continui a far sentire la sua influenza nel periodo del vapore, con negativi riflessi: non sappiamo intendere altra guerra che quella tattica, non scorgiamo altri obiettivi che le squadre nemiche, non comprendiamo che un unico modo di contendere il dominio del mare: da c:iù deriva quella cocciuta persistenza di rintracciare la salvezza e la vittoria in una formazione, in un simbolo, quasi la guerrafosse una tavola pitagorica, in luogo di .~tudiare i teatri d'operazione, di preparare gli elementi per condurre una campagna di guerra fondandosi sul principio che in mare, nelle condizioni presenti e per molto tempo avvenire, possiamo e potremo conseguire quasi tutti gli obiettivi, girando le posizioni e le forze nemiche. 13
A suo giudizio dalle ultime guerre navali non è stato possibile trarre alcun valido insegnamento, e fino al 1866 - con negativi riflessi sulla nostra marina - sono state sostanzialmente applicate le prescrizioni del periodo velico: è ben vero che qualche prescrizione tattica era stata gettata giù alla cieca, e che anche qualche libro regolamentare era stato adottato dalle Marine straniere fin dal 1857 e per riflesso da noi; ma quelli erano ordinamenti non studiati, non coerenti alle condizioni complesse delle armate navali, quindi se venivano usati non erano compresi, o meglio non si potevano comprendere. Fu quello un intervallo di totale confusione, prodotto dalla non piena e cosciente trasformazione dei mezzi e dalla immutabilità dei sistemi, che per la gente di mare doveva parere il caos. come ne fa fede /'inchiesta sulle condizioni del!'armata dopo la battaglia di Lissa [... ]. Se per la tattica eravamo qua-
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D .B., Considerazioni sugli studi ... (CiL), p. 47.
I - OOMENJCO DONAMICO, "ALTER F.GO" NAVALE DI NICOLA MARSELLI
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si al caos, per la parte strategica eravamo ancora in pieno nel periodo precedente.
Prima del 1860, perciò, nessuna modifica era stata apportata ai sistemi di attacco e difesa delle coste, "nessuna idea organica, né strategica, né tattica veramente nuova fece capolino negli scritti, nessuna teoricafa propugnata che presentisse il rinnovamento navale". Fu solo dopo la guerra di secessione americana 1861-1865 - prosegue D.B. - "che penetrò il tarlo nei vecchi organismi". Da allora in poi, ''fu un correre da ogni parte all'assalto, un distruggere, un eliminare[ ... ] senza darsi pensiero di quel poco che potevasi e dovevasi salvare". Questo è il quadro sconsolante della teoria e prassi strategica e tattica che D.B. traccia nei suoi scritti dal 1878 al 1881. Egli non si limita, però, a constatare e criticare, magari limitandosi a enunciare nuovi concetti di carattere generale: entra anche nel vivo ed è il secondo in Italia (dopo il napoletano Giuseppe Parrilli - 1860) 14 a fornire una definizione di strategia navale, partendo dalla constatazione che se tutte le definizioni di strategia terrestre al momento disponibili indicano la battaglia come obiettivo principale e unico delle operazioni strategiche, ciò non vale per la strategia navale. Quest'ultima ''non è che un mezzo, finché rimane la possibilità di conseguire i più importanti obiettivi senza impegnare decisamente tutte le forze; per conseguenza evitare la battaglia rimane uno scopo strategico quanto quello di impegnarla vantaggiosamente".15 Postulato, quest'ultimo, non di poco conto e tale da racchiudere in buona parte la nuova e più flessibile impostazione che D.B. intende dare alla guerra marittima e alla sua condotta: fino a quel momento, infatti, la battaglia decisiva terrestre e marittima era considerata (non solo da Clausewitz) il culmine, la quintessenza, la calamita sia della strategia che della tattica, facendo dei "modelli" di Napoleone o di Nelson il riferimento costante per tutti, e non solo per le marine o gli Eserciti maggiori. Ciò premesso, per giungere alla miglior definizione di strategia navale D.B. si sente obbligato a prendere in esame anzitutto le già esistenti definizioni di strategia terrestre, visto che quest'ultima ormai ha circa un secolo di vita. Prende perciò in esame la definizione del Moltke (la strategia stabilisce dove e quando dare battaglia), quella del generale Sironi (la strategia indica i punti-chiave di ogni scacchiere e le linee per raggiungerli) e quella del Marselli (la strategia
14 Ezio Ferrante (in li pensiero strategico navale in Italia, Supplemento alla "Rivista Marittima" n. 11 / 1988, p. 22) attribuisce erroneamente al padre Alberto Guglielmotti il merito di aver fornito per primo una compiuta definizione ili strategia navale nel suo Vocabolario Marino e militare ( 1889), senza considerare le precedenti definizioni fornite dal Parrilli (1866) e da D.B., del quale, inoltre, non rimarca bene le nuove fondamenta che lo stesso D .B. intende dare alla stmtegia navale, anche in rapporto a quella terrestre. " D.11., Considerazioni sugli studi ... (Cit.), p. 76.
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11. P8NSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Ili (1870-1915) - TOMO Il
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è una scienza che pianifica le grandi operazioni militari). Tra le definizioni di strategia navale al momento già formulate ignora, invece, quelle del nostro Parrilli, del Douglas e del Boutakov, e ritenendo insufficiente il significato datogli dal Lewal ("la strategia marittima è l'arte di combinare le operazioni delle forze navali per farle concorrere a un determinato scopo, più o meno lontano ma non immediato") perviene alla seguente definizione: "la strategia navale è quel ramo della scienza militare marittima che studia nei vari bacini idrografici le operazioni tutte della guerra navale e la loro correlazione con quelle continentali per determinare, nello spazio e nel tempo, i mezzi e il modo di stabilire vantaggiosamente il contatto tattico con tutti gli obiettivi navali e costieri, tanto ojjènsivi quanto difensivi, che si vogliono conseguire". 16 Definizione non priva di ragioni di attualità, visto che considera il coordinamento con le operazioni terrestri e non indica come unica meta la debellatio dell'avversario in battaglie decisive di tipo nelsoniano, delineando invece la più ampia gamma di obiettivi e modalità per l'azione strategica. Tutlavia, anche se non fa riferimento alla concentrazione delle forze nel punto decisivo o a altri principì, essa rimane di matrice jominiana più che clausewitziana, sia perché considera la strategia come scienza e come studio (quindi: non come arte e azione), sia perché persegue ancora uno scopo esclusivamente militare: creare le premesse favorevoli per il contatto tattico con il nemico, senza quindi concorrere - come avviene per la strategia nel concetto di Clauscwitz - al conseguimento dello scopo politico della guerra. Per D.B. la strategia navale è "una scienza nuovissima, tanto nuova che dai più non se ne sospetta l 'esistenza": pertanto ritiene necessario e urgente definirne "i principi, i rapporti, le teorie .\pecialf". Questo dovrebbe essere fatto "da un centro intellettuale, un consiglio o comitato di difesa ed offesa specialmente rivolto allo studio della parte strategica e organica della guerra navale". Al momento nel Ministero della marina non esiste nessuna ripartizione o ufficio con competenze specifiche sugli studi strategici, perciò "non è raro vedere una questione di strategia passare dal gabinetto del Ministro alla direzione del personale, da questa alla direzione di artiglieria e torpedini, per fare poi capo a qualche specialità individuale che la risolve come può, quasi sempre con pochi mezzi e molta buona volontà". L' organizzazione del Ministero dovrebbe rispecchiare il principio della separazione delle varie funzioni (organica, strategica, tattica, tecnica e amministrativa). Al momento esistono solo le due ultime: perciò
ci occorre assolutamente un altro centro organico intellettuale, distinti in tre sezioni corrispondenti alla funzione organico, strategica e tattica. Questa divisione avrebbe per compito principale lo studio della guerra nelle sue modalità più ç/Jì.cienti. li consiglio superiore di Marina dovrebbe poi rappresentare la coordinazione ultima, sintetica di tutte le funzioni navali Marina do•• ivi, p . 77.
I - DOMENICO BONAMJC.'O, "AI.TER EGO" NAVALE 1)1 NICOLA MARSELLI
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vrebbe poi rappresentare la coordinazione ultima, sintetica di tutte le fanzioni navali, ed il Comitato supremo di difesa nazionale la coordinazione ultima tanto militare che politica. 17
La costituzione di questo nuovo organismo è tanto più necessaria, dal momento che - diversamente dal periodo velico - ormai "la maggiore perfettibilità strategica appartiene all'armata [navale)". Pur non vincolando le operazioni dell'esercito, essa "può soddisjàre a tutte le necessità, a tutte le esigenze di questo, tanto nello spazio che nel tempo e nel modo". Segue una profezia che purtroppo nel XX secolo non è stata confermata dagli eventi, specie in Italia: in avvenire la combinazione delle nostre operazioni con quelle de/l 'esercito assumerà proporzioni giganti, ed è imprevidente e colpevole quel paese che non sa crearsi un fattore di tanta perfezione e potenza, rinunciando con danno e vergogna ad esserne fermo sulla via del rinnovamento marittimo. Tale combinazione ci obbliga ad uno sh,dio esatto e minuto di hltte le necessità del1'esercito per essere in grado di eseguire, comprendere, prevedere, assumere, completare le operazioni probabili o concertate. 1s
Si tratta di nuove idee tali da esporre D.B. all'accusa di avere una visione troppo "continentalista". Egli ne è ben conscio e così contrattacca: "partendo da tale concetto [di correlazione terrestre-marittima - N.d.a.] nel quale sta il senso marittimo modenzo, e che è combattuto dai jàutori del Navy for evcr lcioè dai navalisti - N.d.a.], perché stimano sappia di continentalismo, io ho procurato di esporre la correlazione continentale e marittima nelle sue forme generali...". E precisa che la sua opera mira anche a diffondere il "senso marittimo moderno" nell'esercito, il quale a sua volta ha il dovere di comprendere e apprezzare nella giusta misura i mutamenti sopravvenuti nella guerra marit-
tima.. Più in generale, nelle "Avvertenze" che precedono il testo dei Primi elementi della guerra marittima D.B. indica il movente della sua opera, simile a quello che più tardi sarà anche di Mahan, sia pure nel molto diverso contesto strategico che caratterizza gli Stati Uniti: non è al tecnicismo o ali 'arte che io miro. Non è uno studio letterario [ .. .] o uno studio tecnico che mi sono proposto; ma bensì un lavoro che valga a diffondere quelle nozioni moderne che sono fondamento al criterio semplice e sano delle cose marittime, dal quale rutto si consegue, p erché evita i conflitti, le reazioni, le sconfidenze dannose e favorisce il lento e continuo progresso verso gli ordinamenti secolari. Questo buon senso è proprietà di quelle nazioni che conquistarono con lunghe lotte la supremazia dei mari, non può dalle altre essere acquistato che colla larga partecipazione economica alla vita del mare,
ivi, p 8 1. •• lvi, p 91.
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colla attiva espansione degli elementi navali cui !:>petta diffondere le loro esuberanti e naturali energie, attivando la correlazione interna e cutanea senza di che non è speranza di partecipazione nazionale alla esistenza marittima. È questa la vitalità che manca interamente all 'Italia; è questa immedesimazione che dobbiamo favorire, moltiplicando per conto nostro i punti di contatto, rendendoci meno esclusivi[ ... ), senza di che non è possibile che si diffonda ne/l'armata il palpito vivo e f econdo della nazione [... ], che un mito nazionale divenga il mito fecondo e rigeneratore che innalzi il paese e l'armata all'altezza dei loro futuri destini e renda loro il dominio del Mediterraneo, che fu e deve essere patrimonio italiano.
Accanto ai nuovi orizzonti della guerra marittima aperti dalla propulsione a vapore, sono questi i cardini di carattere strategico, tecnico e spirituale, ai quali il Nostro rimarrà fedele per l'intera sua vita e opera.
La difesa d'Italia e la marina: impossibilità di una strategia offensiva I concetti teorici prima esposti sono applicati da D.B. al caso concreto della difesa de.li 'Italia, problema che dal 1861 al 1880 è ali' ordine del giorno e vede susseguirsi gli interventi e le opinioni specie degli ufficiali dell'esercito (Cfr. Tomo 1 - cap. VII) partendo dalla necessità di affrontare un ben definito nemico: l' esercito e la flotta francesi , molto più forti. In proposito D.B. intende svolgere anzitutto una funzione di supplenza, riempiendo il vuoto al momento esistente per la parte marittima. Nella Difesa Marittima dell 'Ttalia del 1881, infatti, constata amaramente che alle varie teorie degli autori "terrestri", e alle conclusioni della Commissione per la difesa dello Stato, gli ufficiali di marina non hanno replicato con studi validi e approfonditi, ma " tutto quello che il Paese ebbe dagli scrittori sulla difesa marittima, fatte poche eccezioni, si riduce a qualche opuscoletto d 'occasione che ha tutta l 'impronta di quelle discussioni di bordo, in cui si conclude una controversia sopra le e voluzioni tattiche con un paragrafo dello Spencer sull'evoluzione sociale". D.B. indica anche, con precisione, le ragioni della loro perniciosa assenza dall'agone della letteratura navale e militare in genere: le esagerate nece~·sità degli armamenti in proporzione del personale disponibile, la mutabilità delle cariche e degli uffici, l'instabilità delle nostre occupazioni tanto a bordo quanto a terra, la impossibilità di avere i mezzi necessari, cioè tempo, pace, libri, materiale, spesso anche l'aria e la luce, e molte altre cause di scoramento, di fastidio, di sf iducia, ci tolgono l 'occasione, il desiderio, la possibilità di applicarci a quegli utili studi che fruttino al paese assai più di un sistema che concreta l'intelligenza d 'un ufficiale nel meccanismo d'un automa. 19
•• D.B., l a difesa marittima dt:ll 'ltalia, Roma, Tip. G. Barbera 188 1, pp. 20-21 .
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In particolare il peso eccessivo del passato (cioè del periodo velico) continua "a deviare gli studi, le tendenze, le occupazioni giornaliere verso bisogni l'he hanno fatto il loro tempo e che sono divenuti secondart", in tal modo sottraendo energie ai principali argomenti sul tappeto "per occuparsi di ritagliat11re, di inerzie o di inutili speculazioni scienti.fiche". È così avvenuto che gli scrittori navali hanno dato troppo rilievo ad argomenti tecnici, opponendo al progetto della Commissione per la difesa dello Stato "ragioni troppo esclusive, assolute, quasi teocratiche". Anziché studiare a fondo - prosegue D.B. - le condizioni geografiche delle nostre coste traendone gli elementi per meglio organizzare la difesa marittima e i lineamenti d'impiego più appropriati delle for/C navali, si è tentato di risolvere solo il problema offensivo, limitandosi aricercare la miglior nave da combattimento; manca anche uno studio difensivo, nel quale si definisca il compito della marina nelle future guerre contro una grande potenza marittima con jòrze superiori [com'era la Francia del momento, più probabile avversaria - N.d.a.]. Oltre a tener conto della posizione teorica prima riassunta, le idee di D .B. sulla difesa dell'Italia lo collocano in una posizione originale ma assai critica nei riguardi degli orientamenti prevalenti sia ncll ' esercito che nella marina. Come si è visto nel Tomo I - cap. VIII, la Commissione Permanente per la difesa del Regno nella sua Relazione a corredo del Piano Generale di Difesa del/ 'Italia del 187 l da una parte ritiene necessario fortificare tutti i porti e le rade nei quali è possibile uno sbarco nemico, dall'altra pur riconoscendo indispensabile il potenziamento della nulla ritiene che il confine terrestre sia quello esposto alle invasioni più pericolose. Dal canto suo, nel periodo dal 1870 al 1880 la marina sceglie una via che poi rimarrà una costante della politica e strategia navale italiana fino al 1940: quella della guerra di squadra e quindi della necessità di essere comunque in grado di contendere a qualsivoglia avversario il dominio definitivo del mare attraverso battaglie tra grandi navi corazzate il cui armamento principale è il cannone gigante, e che anzi nella filosofia costruttiva vincente del Saint Bon c del Brin ambiscono a superare qualsiasi altra capitai ship delle flotte maggiori, sia per potenza delle artiglierie che per velocità e corazzatura (nessuna marina segue tale filosofia). I primi articoli di D.B. sulla Rivista Marittima del 1878-1879 intendono opporsi senza successo ad ambedue questi concetti fondamentali. Com'è facile prevedere, le sue idee in proposito incontrano opposizioni e "diversi parert' - più o meno attenuati -sia nell'ambito dell'esercito che all'interno della marina. Per contro su parecchi punti il suo punto di vista si avvicina a quelli dei generali Mcµ-selli e Ricci e del colonnello Perrucchetti (Cfr. Tomo I), da lui conosciuti personalmente alla Scuola di Guerra di Torino e con i quali è lecito supporre l'esistenza di contatti e scambi d'idee che vanno al di là delle tesi sostenute nei rispettivi scritti, non sempre concordi ma con una larga base teorica comune e comunque tali da rendere possibile e necessario un confronto e un dialogo costruttivi quanto indispensabili. Un autore è anzitutto uomo, e non elabora mai le sue teorie in vacuo: non casualmt!nlt:: il "nocciolo duro" delle teorie di D.B. vede la luce sulla Rivista
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IL PENSIERO MILITARE Il NAVALE ITALIANO - VOL. rii (1870-1915) - 'lùMO li
Marittima nel periodo 1878-1881, coincidente con la permanenza al Ministero deJla marina dell'ammiraglio Ferdinando Acton, come lui contrario alla formula delle grandi navi del Brin e del Saint Bon oltre che fautore di un più stretto coordinamento tra difesa terrestre e marittima. In questo senso D.R può essere definito il più autorevole portavoce e divulgatore di concetti sostenuti o condivisi dall' Acton e il capo-scuola della corrente di pensiero italiana contraria alla guerra di squadra e alle grandi navi, quindi anche corrispondente a taluni concetti di base sviluppati, in Francia dopo il 1880 dalla Jeune École navale francese,20 con la quale - pur tenendo a rimarcare le differenze - D.B. ha in comune le principali fonti storiche e teoriche di riferimento (con particolare riguardo agli scritti del Grivel e del Jurien de La Gravière). 21 Da tali fonti, sovente citate, D.B. trae il concetto fondamentale dell'importanza della geografia e della necessità che la marina di ciascun paese scelga autonomamente una via strategica e un indirizzo per le costruzioni navali che non si appiattiscano su una pedissequa imitazione delle soluzioni delle marine maggiori, ma tengano realisticamente conto - oltre che della geografia delle risorse disponibili per la difesa e per la marina_ In linea teorica, anch'egli ammette che il miglior modo di difendersi sta nell'attaccare; ma per attaccare - giustamente osserva - occorre sicuramente disporre di forze superiori o almeno uguali a quelle dell'avversario, e se - come nel caso dell'Italia - le risorse disponibili non consentono di uguagliare le forze navali avversarie, si impone anzitutto la rinuncia a sfidare la flotta nemica in battaglie decisive che abbiano come posta la conquista definitiva del dominio del mare (conquista che comunque, per D_B., è una delle possibilità strategiche da valutare caso per caso, non l'unica strada da seguire e una necessità assoluta, come ritengono numerosi altri scrittori navali, o meglio "navalisti"). Così facendo egli si espone all'accusa (da parte dei potenti sostenitori del nary for ever, che non aspettano certo Mahan) di "difensivismo" preconcetto e di nociva riduzione del ruolo strategico della marina italiana alla difesa deJle coste: ma pur riconoscendo che l'offensiva è desiderabile, semplicemente constata che la marina più probabile avversaria - quella francese - ha una disponibilità di fondi - e quindi una consistenza complessiva - che oscilla tra il triplo e il quadruplo rispetto ai livelli raggiunti dalla marina italiana e al suo ridotto budget per nuove costruzioni_
20 La Jeune École navale francese era capeggiata dall 'Amm. Aube, le cui tesi, come spesso avviene, sono state spinte all'estremo dai suoi allievi comandanti Fontin (Comman<lant Z) e Vignot (H. Montechant). Cfr., in merito: T. Aube, La guerre maritime et !es ports militaires de la France, Paris, Berger Lévrault 1882; Id:, Jtalie et Levant - notes d 'un marù1, Paris, Berger Lévrault 1884; Commandant Z. et Il. Monlechanl, Essai de stratégie navale, Paris, Bcrgcr Lévrault 1893 e Id., Les g11erres navales de demain, Paris, Berger Lcvrault 1891 . 21 Del Grivcl (Luis Antoine Richild) vanno ricordate, tra l'altro, le opere De la guerre maritime avant et dep11is /es nouvelles invenlions . .. , Paris, A. Bertrnn<l 1869, e La guerre des cotes, attaque et déjimse des jrrmtteres manhmes, Paris, Charpcntier 1847.
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Affrontare la battaglia con forze così ridotte sarebbe certamente suicidio (non è un'opinione): ne consegue la via obbligata di ricercare soluzioni - e nuove e diverse filosofie delle costruzioni - che consentano alla marina italiana di rimediare nel modo migliore possibile a tale congenita e non colmabile inferiorità, e al tempo stesso, di svolgere un ruolo ben definito - assai maggiore di quello che taluni autori "terrestri'' vorrebbero assegnargli - nel contesto della difesa nazionale. In queste due esigenze fondamentali si riassume la feconda e varia opera di D.B. fino all'inizio del XX secolo, al di là dei progressi delle artiglierie, delle corazze e del siluro e della conseguente, forte evoluzione delle costruzioni navali, sboccata nella Dreadnought e nell'ulteriore aumento dei calibri delle artiglierie dopo il 305 mm imbarcato inizialmente da tali tipi di navi.
Compiti della flotta, vantaggi della "guerra di crociera" e limiti delle grandi navi Nella concreta situazione dell'Italia D.B. ritiene che " il sistema difensivoojjènsivo è quello che. in una lotta contro forze superiori, può sortire più felice risultato, ed è quello nel quale si è risolto il problema territoriale, mentre quello marittimo persiste ancora in ognuno degli opposti sistemi [cioè criterio offensivo o criterio puramente difensivo - N.d.a.]". Ciò premesso, egli concorda con il generale Ricci (il quale come si è visto (Tomo I), sostiene la possibilità di "difendere con le forze di terra la frontiera continentale, ma solo quella [cioè, escludendo l'Italia peninsulare e le isole - N.d.a.]") e sostiene che è possibile difendere validamente le nostre frontiere marittime anche con forze navali che mantengano lo stesso rapporto di forze rispetto alla marina francese (1/3 o¼ a nostro sfavore). In particolare intende dimostrare al Paese che la flotta è il solo elemento difensivo possibile; che è di gran lunl{a il più economico; che è quello che si può avere nel tempo più breve; che è utile e sufficiente contro ogni specie di offe sa, ma soprattutto contro quella che più ci minaccia; che infine la flotta. appoggiata ai suoi centri strategici e difensivi, può trovarsi in tempo sulle ,çpiagge di sbarco, quando pure non avesse assalito il convoglio nella traversata, o di fronte alla flotta nemica che minaccia il bombardamento di una nostra città, costringendola a rimanere compatta e a sospendere l'offesa e riservandosi di attaccarla nel/'ora e nel/ 'occa~ione più opportuna.
Si tratta di obiettivi certamente ambi ziosi e ottimali, che D.B. in alcuni momenti della sua opera successiva è portato a modificare, sia pure in modo non sostanziale. Comunque non si nasconde i molti e forti ostacoli da superare, presentando l'Italia del momento come vittima di un "nichilismo navale", nel quale "manca la vita del mare". A suo avviso derivano da questa situazione prima di tutto morale molti altri fattori ritardanti di una coscienza marittima:
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- l' ideale politico del Risorgimento, che si è ispirato a fondamenta strategiche di carattere prevalentemente continentale; - la conseguente, diffusa opinione che i destini dell'Italia si decidono nella Valle del Po e non sul mare o a Sud; - l'eccessiva importanza accordata [da parte del Saint Bon e del Brio N .d.a.] alla ricerca del miglior tipo di nave a scapito di quella del miglior tipo di difesa; - la conseguente subordinazione delle questioni organiche a quelle tecniche, del problema difensivo a quello offensivo, e delle caratteristiche di una t1otta destinata solo a difendere il proprio paese a quelle di forze navali invece destinate all'offesa delle coste nemiche [come sono le marine maggiori, e in particolare la marina francese, con le quali quella italiana non può competere - N.d.a.]; - l'aver considerato la questione della difesa marittima partendo dalla corazza e dal cannone, invece di considerare "la sua vera natura di velocità e di tempo", e senza tener presente che le trasformazioni in atto del problema navale sono dovute all'avvento del vapore, non della corazza come molti credono. Questo approccio già dimostra la profonda dissociazione di D.B. dall'ambiziosa politica navale del Saint Bon e del Brin, incentrata sulla costruzione di modelli di " navi assolute" che dovrebbero essere in grado di superare da sole gli analoghi modelli delle marine maggiori, con i quali intendono confrontarsi prescindendo da quei fattori che per D.B. sono in prima linea. Al tempo stesso egli controbatte quegli scrittori terrestri che minimizzano la minaccia del mare, perché ritengono che eventuali sbarchi francesi a Sud avrebbero comunque consistenza limitata e sarebbero abbastanza facilmente respinti dalle forze terrestri prontamente accorse. Nel suo primo articolo di carattere strategico (significativamente pubblicato nel 1878 dalla Rivista Militare e non dalla Rivista Marittima), 22 D.B. dimostra invece che all'inizio della guerra la minaccia più pericolosa da parte francese avverrebbe attraverso il mare e sarebbe esercitata con lo sbarco di forze terrestri as:sai più numerose di quanto sostengono al tempo gli esponenti del! ' esercito ( I 00.000 uomini circa anziché 60.000). Poiché l'esercito da solo non potrebbe contrastare validamente tale minaccia, sono indispensabili adeguate forze navali ben inserite nel contesto generale della difesa nazionale. Il conseguente model lo di guerra da lui indicato come più conveniente per la flotta italiana non ha niente di nuovo. Esso è semplicemente quello da sempre tipico delle flotte più deboli contro le flotte più forti, fin dal principio velico e in particolar modo dalle t1otte francese e americana contro quella inglese: la "guerra di crociera", cioè l'insieme delle operazioni compiute da singole na-
22 O.Il., La potenzialità degli sbarc hi in correlazione con la difesa p er linee interne, in "Rivista Militare" 1878, Voi. IV f'asi.;. X.
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vi o piccoli gruppi di navi militari (incrociatori o navi ausiliarie) per attaccare il traffico mercantile del nemico o i suoi convogli di sbarco, operazioni completate dalla "guerra di corsa" condotta da navi mercantili armate da privati con l'autorizzazione scritta del Governo contro il traffico mercantile nemico ( vecchio sistema, già al tempo in disuso). Nel caso italiano, tale tipo di guerra sarebbe affidato a " navi staccate, piccole navi militari, col compimento di quelle di corsa", avrebbe come teatro di operazione principale il Mar Tirreno e dovrebbe appoggiarsi alle tre piazze mari ttime fortificate - o "centri difensivi strategici'' - di Messina, La Maddalena e La Spezia. 11 nemico, assai superiore, cercherebbe di bloccare la maggior parte della nostra flotta in queste tre basi: ma non sarebbe conveniente tentare il forzamento del blocco a forze riunite, perché con una flotta che è solo 1/4 "è illusione supporre di forzare il blocco senza accettare la battaglia e sacrificare l'armata". Di conseguenza la flotta da battaglia italiana dovrebbe rimanere in being in attesa degli eventi in un centro strategico vincolando la flot1a avversaria, mentre il forzamento del blocco e la guerra di crociera dovrebbero essere affidati a "una dozzina di navi militari con speciali caratteristiche, completate da quelle mercantili armate per la corsa". U .LI. non contesta l'utilità delle corazzate: ma a suo giudizio le navi fondamentali per la nostra flotta sono quelle da crociera, non quelle da battaglia. Infatti si spinge fino ad assicurare poco realisticamente che, se con una spesa massima di 50 milioni " l 'Ttalia possedesse una dozzina di navi capaci di 15 o 16 miglia [di velocità ali' ora N .d.a. ], qualunque ne fosse la loro potenza militare, purché fortemente rostrate, onde potere eventualmente impegnare un 'azione contro qualche nave nemica che attraversasse loro la via, ed armata di leggere artiglierie e numerose armi subacquee p er agire contro il convoglio, potrebbe avere la certezza di impedire le grandi invasiont''. 23 Pur privilegiando la velocità, le navi atte alla guerra di crociera "non devono avere nulla in comune con quelli oggi chiamati incrociatori e rappresentati da/1 'lnconstant, Shap, Volage, Duqucsne, Colombo ecc., per i quali si è troppo pagato, a scapito di altri caratteri, il vantaggio della velocità. Secondo me questi corridori del mare debbono appartenere allo s tesso tipo delle navi da battaglia, e formarne la seconda classe distinta dalla prima p er riduzione di tonnellaggio e di potenza militare; ma non da quelle separate p er incompatibilità di caratteri nautici". Si tratta di un tipo nuovo di nave leggera, "di robusta costruzione, di buona stabilità e forte per velocità, evoluibilità, economia, per forza di sprone, e metto per ultimo per utilità di siluri....". Al limite, si dovrebbe trattare addirittura di "una semplice nave rostrata d'alto mare che raggiunge il limite massimo della mobilità anche a sacrificio completo del cannone".
23
D.B., / primi elementi ... (Cii.), p. 182.
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In genere le flotte difensive come quella italiana dovrebbero raggiungere il limite massimo della mobilità sacrificando la potenza di fuoco; il contrario dovrebbe avvenire per le flotte offensive. Nelle flotte difensive, il cannone e gli altri mezzi difensivi che fanno sistema con esso, potrebbero addirittura essere in tutto o in parte eliminati. In ogni caso, l'eliminazione dovrebbe spingersi fino a quel punto che permette, collo sviluppo della mobilità, alle flottiglie difensive di accettare o rifiutare a volontà la battaglia, mantenendosi libere di attaccare nell'ora e nelle condizioni opportune. È questa una necessità assoluta delle flotte difensive, senza la quale della difesa esse non avrebbero che il nome, e non sarebbero mai altro che insufficienti forze offensive.
Con questi criteri D.B. si colloca agli antipodi dei concetti costruttivi al momento sviluppati dal Saint Bon e dal Brin. La guerra di crociera - egli osserva - "esclude i grandi tonnellaggi, le forti corazze, i portentosi cannoni'' e induce a auspicare che per l'avvenire ci si trovi più coscienti delle nostre reali esigenze difensive, perciò meno facili e11tusiasti di colossali costruzioni Lcome quelle della Duilio, Dafldolo, ecc. - N.d.a.], le quali come osserva saggiamente l'autore più volte citato della Guerre maritime [il Grivcl - N.d.a.], lusingano più l'amor proprio degli ingegneri di quello che tornino vantaggiose al Paese e/iniscono per trascinare fatalmente e irresistibilmente alla guerra di squadra [cioè alle battaglie tra flotte riunite, nelle quali la marina più debole come quella italiana avrebbe inevitabilmente la peggio - N.d.a.].
D.B. giudica di conseguenza "eccessivamente offensive" le navi tipo Duilio. Dandolo ecc. e critica giustamente la decisione di dotarle anche di rostro, perché "è una incoerenza di quel principio che ammette la possibilità di riunire sagacemente in una sola costruzione delle possibilità divergenti, in omaggio al quale concetto si costrussero delle flotte nelle quali tutto si è sacrificato al cannone, per compilare poi delle tattiche indirettamente jòndate sul rostro". Negli articoli sulla Rivista Marittima del 188024 egli fornisce ulteriori particolari sulle modalità d'azione della nostra flotta e sui caratteri delle nostre costruzioni navali. Le operazioni della flotta dovrebbero ispirarsi ai seguenti criteri: - "mantenere il grosso delle forze, poco atte alla guerra di crociera, concentrato nelle piazze [di La Maddalena o Messina - N.d.a.]; scorrere il mare con quel numero di navi difensive di cui si può prudentemente disporre onde distogliere dal blocco gli incrociatori nemici; mantenere atti ve comunicazioni con la p enisola; distruggere il commercio nemico; spingersi, approfittando di favorevoli occasioni, fin presso i porti mercantili e le piazze da guerra dell 'ojfensore; operare eccezionalmente per
24
In "Rivista Marittima" 1880, Vol. l fasi;. I, Il e III t: Vul. II Fasi;. IV t: V.
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gruppi di tre navi omogenee quando qualche opportunità lo consenta, o qualche imperiosità lo richiegga"; - anche se il bombardamento nemico delle nostre città costiere sarebbe più dannoso dell' attacco alle basi e piazze marittime, la nostra flotta non dovrebbe intervenire per difenderle. Infatti in questo caso per obbligare i I nemico a desistere dai bombardamenti non si potrebbe evitare la battaglia navale, battaglia che in nessun caso la nostra flotta, data la sua manifesta inferiorità, potrebbe vincere; - la nostra flotta dovrebbe essere invece impiegata per impedire o almeno ostacolare gli sbarchi nemici sulle nostre coste, che possono avvenire sia sulla Riviera ligure di Ponente che nell'Italia peninsulare; - essa dovrebbe, al limite, essere sacrificata solo in caso di sbarco nemico con il massimo delle forze (4 corpi d'armata) a Sud deU ' Appennino, sbarco che l'esercito non sarebbe in grado di impedire o fronteggiare da solo impegnandosi in battaglia. Mentre 1c forze terrestri si ritirerebbero a Nord dell'Appennino facendone un baluardo verso Sud, la flotta affronterebbe ugualmente quella nemica, perché in questo caso si tratterebbe di una questione di vita o di morte, e si dovrebbe salvare la dignità del Paese e l'onore delle armi. D.B. conclude, troppo ottimisticamente, che sei navi capaci di operare attivamente (anche senza grandi cannoni e senza corazze) equivalgono a quattro corpi d 'armata, salvano la penisola dallo sbarco nemico sulla Riviera Ligure di Ponente, compromettono seriamente lo sbarco più a Sud, e rappresentano comunque una continua minaccia per l'invasione costiera. Per far fronte a questi impegnativi compiti, le caratteristiche delle nostre navi da battaglia dovrebbero avvicinarsi a quelle delle navi da crociera, perché in una battaglia combattuta con sproporzione di forze "dobbiamo jàr tesoro degli insegnamenti ed imparare che la forza della vittoria del debole contro il forte è quasi intera nella superiorità morale ed organica di quello su questo". I criteri costruttivi corrispondenti alle impegnative esigenze strategiche e tattiche così indicate possono essere cosi riassunti: - le navi da crociera dovrebbero avere un dislocamento di 2200-2500 t e le navi da battaglia 4000-5000 t, però con 15 miglia all'ora di velocità (valore al tempo molto elevato) e con un'autonomia superiore di 1/J a quella delle navi da crociera (che, essendo destinate ad operare quasi esclusivamente nel bacino del Tirreno, non necessitano di elevate autonomie); - la capacità evolutiva delle navi da crociera e da battaglia dovrebbe essere la stessa, abbandonando "le eccessive lunghezze, le jòrme incassate, le p escagioni dannose" [come quelle - molto elevate - delle nostre grandi navi del momento - N.d.a.]; - le navi da crociera dovrebbero essere armate di due cannoni a lunga gittata su piattaforma girevole del calibro 20-24 cm (con gittata utile fino a 5 km dalla spiaggia), con armamento secondario composto da cannoni del calibro 12-8 cm e siluri laterali ;
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- le navi da battaglia dovrebbero avere artiglierie in grado di controbattere quelle di tutte le altre navi (4-6 cannoni "che avessero a 500 m la ca-
pacità perforante di 16 dinamodi per centimetro di circonjèrenza del proietto" con la massima gittata possibile, più un conveniente armamento secondario); - le predette navi dovrebbero essere costruite interamente in ferro, con corazze di spessore da 20 a 25 cm sufficienti per prevedere un ridotto centrale; - le navi da crociera dovrebbero avere le parti in legno limitate al fasciame esterno delle carene e non essere corazzate, affidando la loro protezione - come avviene per le parti non protette delle navi da battaglia esclusivamente a "un conveniente e perfezionato sistema cellulare". Nonostante le premesse di principio D.B. non può dunque fare a meno di riconoscere un ruolo fondamentale alle artiglierie, quindi anche alle corazze e alle corazzate, delineando una flotta imperniata su due tipi di navi di diverse caratteristiche (e non su un solo tipo di nave, la corazzata, come al tempo molti sostengono) e indicando per la corazzata una via opposta a quella del Brin e del Saint Ron: non aumento simultaneo dei calibri, delle corazze e dei dislocamenti ma tendenza a privilegiare nettamente la velocità, quindi ad avvicinarsi alle caratteristiche delle navi da crociera. A fronte di queste esigenze strategiche e costruttive, qual'è la situazione? Nei Primi elementi della guerra marittima del 1880 non mancano critiche di D.B. alla politica navale del momento, che - a parte le 1:,rrandi navi - non ha nulla di simile a quanto egli propone: 1° i nostri centri strategici non esistono, e i centri difensivi non possono assicurare l 'azione dell'armata; 2° la flotta non è costituita e organizzata per difèndere il paese dalle minacce più mortali; 3° nulla si è fatto per costruire la jloua di commercio, in modo che possa venire utilizzata in una guerra difensiva: 4° la tendenza del/ 'opinione predominantefalsifica la nostra difesa. colla preponderanza delle opere difensive disseminate lungo la costa, colla creazione di navi sommamente offensive; colla molteplicità dei tipi non corrispondenti alle necessità della difesa strategica; col fondare la difesa della penisola sovra un metodo di operazioni per linee interne [cioè sulla manovra di forze terrestri tra Nord e Sud, per concentrarle là ove si manifesta la minaccia maggiore - N.d.a.] che non soddi~fa ai determinanti del/ 'ojjèsa, che abitua il paese ad un sistema dal quale non possono che derivare disinganni e catastrofi. ..is
È facile supporre che queste critiche severe non giovano certo alla carriera di D.B.
» D.B., 1 primi elementi ... (Cit.), pp. 185- 186.
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li dialogo con il Perrucchetti nelle "Considerazioni sugli studi di geografia militare e marittima" ( 1881): geografìa politica e geostrategia Come si è visto (Tomo I, cap. IV), il tenente colonnello di Stato Maggiore (poi generale) Giuseppe Perrucchetti, eminente studioso di geografia e strategia militare e insegnante alla Scuola di Guerra di Torino (che D.B. ha molto probabilmente avuto modo di conoscere quando anch'egli insegna nello stesso Istituto) dal 1881 al 1884 pubblica due importanti opere, Il Tirolo - saggio di geografìa militare26 e La difesa dello Stato,27 che possono essere definite, più che di geografia o di strategia, di geostrategia. Dal canto suo D.B. non perde occasione per applicare in campo marittimo - mettendo in risalto analogie e differenze - le considerazioni che il Pcrrucchetti compie con l'occhio rivolto principalmente - anche se non esclusivamente - alla geografia militare terrestre. Egli fa specifico riferimento alle tesi del Pcrrucchctti in due saggi: le già citate Considerazioni sugli studi di geografia militare e marittima (raccolta di tre articoli pubblicati nel 1881 sulla Rivista Marittima) e la difesa dello Stato - considerazioni sull'opera del tenente colonnello Giuseppe Perrucchetti (1884)28 (raccolta di due articoli, sempre pubblicati ne llo stesso anno sulla predetta rivista). Nel primo di questi due saggi D.B. sviluppa e puntualizza le idee già esposte, soffermandosi particolarmente sulla nuova fisionomia della guerra marittima, sui contenuti e sulle definizioni di strategia navale e sull' importanza della geografia. Egli fa continuo riferimento alla citata opera del Perrucchetti Il Tirolo - saggio di geografia militare, perché lo studio concreto del problema di geografia militare nella sua applicazione al 1trolo permette di riassumere con chiarezza l'evoluzione dei criteri strategici, di stabilirne le condizioni presenti e quelle prossime, ed ieftne di segnare tutti i punti di contatto o di divergenza che hanno i problemi di geografia militare e marittima.29
Da notare, anzitutto, che richiamandosi al Saggio di geografia strategica del generale Sironi 30 - anch' egli da lui molto probabilmente conosciuto di persona - dà una definizione di geografia militare valida anche in campo marittimo: "quel ramo della geografia generale il quale descrive e discute le grandi accidentalità del suolo, dal punto di vista della loro importanza e azione, individuale e collettiva, rispetto alle grandi operazioni di guerra". 31 L'interesse
26 Torino,
Roux e Favale 1881. Torino, Roux e Favale 1884. 2 ' Roma, Forzani 1884. 29 D.B., Considerazioni ... (Cit.), p. 64. 30 Torino, Cassone 1873. 11 n .B., Considerazioni .. . (Cit.), pp. 31-32.
27
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del Nostro per la geografia non ha carattere puramente scientifico e teorico, ma risponde anche alla necessità di individuare un campo di interesse e di ricerca comune per gli studiosi dell'esercito e della Marina. Questo va a vantaggio della Marina stessa, perché allo sviluppo della marina da guerra è indispensabile l'appoggio dell'opinione militare [cioè degli ufficiali dell'esercito - N.d.a.], senza la quale è inutile ogni illusione, non si esce dal misticismo, non si dà corso a una vera realtà [.. .]. Finché l'esercito non si sarà formato un giusto o almeno approssimato criterio della capacità militare dell'armata [navale], questa persisterà nella sua indeterminazione, e il Paese continuerà a considerare la marina da guerra come un mito, del cui senso sono rivelatori soltanto i sacerdoti di Marte. Questa convinzione mi suggerì dapprima lo sviluppo della difesa marittima in correlazione con quella continentale,fa causa della pubblicità data al corso che ebbi l'onore di svolgere alla Scuola Superiore di Guerra (dell'esercito di Torino - N.d.a.], mi consigliava oggi questo studio parallelo di geografia strategica [cioè di geostratcgia - Nostra sottolineatura - N.d.a.] e mi detterà più tardi talune altre fantasie che prenderanno forma e sostanza. 32
Tra i fattori che influiscono sul ruolo della geografia militare, e quindi anche sulla strategia terrestre e marittima, D.B. indica i mutamenti della "geograjìa politica"; poiché siamo nel 1881 , egli usando questo termine e indicandone i contenuti precorre largamente il Ratzel, invece considerato dal Jean il padre della geografia politica, la cui nascila - come 4udla della geopolitica a parere di quest'ultimo sarebbe relativamente recente e databile al 1897.33 A giudizio di D.B., sia nella guerra terrestre che in quella marittima i mutamenti nella geografia politica non modificano la valenza militare intrinseca di un elemento geografico, ma piuttosto influiscono sul suo valore relativo rispetto a un altro elemento. Tn un bacino marittimo il possesso o meno da parte di uno Stato di una data posizione ha un ' influenza sulla strategia navale "incompatibilmente maggiore" di quella che può esercitare in campo terrestre. L'esempio pratico da lui citato è Biserta, punto-chiave della Tunisia la cui importanza in passato era ridotta ma che dopo l'occupazione francese del 1881 , una volta compiuti i lavori necessari per ospitare una grande flotta diventerà una base navale di primaria importanza che con condizioni naturali di sicurezza analoghe a quelle di Taranto consentirà alla Francia di dominare tutto il bacino occidentale del Mediterraneo (cosa che prima non era possibile con la sola, infelice base strategica di Tolone). In particolare egli prevede che da Biserta l'influenza francese potrà farsi sentire nel "teatro massimo delle operazioni mediterranee", cioè nel triangolo formato da Malta, Messina e Biserta; qucst'ultime sono "le tre massime basi d'operazione delle [tre] potenze marittime che dovranno in avvenire contendersi il dominio mediterraneo".
32
ivi, p. 64. " C fr. C. Jean, Geopolitica, Bari, Latcr7.a 1995.
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Fedele, come sempre, al suo encomiabile metodo di trarre dalle enunciazioni teoriche indicazioni pratiche e contingenti per risolvere il problema marittimo dell'Italia, D.B. trae dalla nuova situazione strategica creata da Biserta delle concrete indicazioni sui mutamenti che bisogna apportare alla nostra politica e strategia navale; che devono ri-orientarsi ancor più verso Sud: - la piazza di La Maddalena non è più in grado di proteggere le province meridionali d' Italia da una grande invasione francese via mare, che oggi può partire anche da Biserta, mentre prima poteva avere come punto d'imbarco solo Tolone; - assumono invece importanza maggiore Messina e Taranto. Già utile complemento della difesa del Tirreno, la prima diventa la base d'operazione principale, perché è l'unica che può estendere la sua influenza nel bacino mediterraneo meridionale. La seconda quale "piazza continentale" o di rifugio e arsenale marittimo diventa importante quasi quanto La Spezia, fermo restando che "sarebbe errore e colpa" considerarla come nostra base d 'operazione; - le nostre forze navali del momento dovrebbero essere maggioti di quelle che fino all'occupazione di Biserta erano ritenute sufficienti per neutralizzare una minaccia proveniente esclusivamente da Tolone; quindi il problema della difesa contro le invasioni marittime si aggrava; - nel complesso la nuova minaccia è tale da raddoppiare le diftìcoltà del già difficile problema della difesa nazionale e da "ritardare il nostro risorgimento marittimo di un tempo, che per la variabilità delle nostre condizioni politiche è difficile apprezzare, ma che certamente le generazioni venture troveranno assai lungo". In conclusione Jc Considerazioni sugli studi di geografia militare e marittima sono assai importanti, sia sotto l'aspetto teorico generale che nei riguardi del concreto problema della difesa marittima dell' Italia, quale si presenta alla vigilia della finna della Triplice Alleanza. Dal punto di vista teorico ricordiamo la <lelinizione di strategia navale e il suo raccordo organico con la geografia. Nemmeno D.B. può essere considerato il padre della geografia politica, così come non lo è il Ratzel: ma ha il grande merito di essere il primo in Italia e, forse, in Europa - ad esaminare i risvolti marittimi teorici e pratici di questa disciplina, fino a inserirla - come vedremo più avanti - tra le componenti del potere marittimo; né può essere trascurato che egli pur non parlando di geostrategia: usa come il Sironi il termine geografia strategica, che ne è un sinonimo. Le sue teorie hanno dunque una base gcostrategica, anzi si potrebbe affermare che i suoi scritti sono di geostrategia. A maggior ragione ciò vale per i concreti lineamenti della difesa marittima e per la fisionomia delle forze marittime da lui indicati, visto che intende subordinare soprattutto a criteri dettati dalla geografia il ruolo dell' esercito e dell 'armata navale e la filosofia delle costruzioni navali.
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"La difesa dello Stato - Considerazioni sull'opera del tenente colonnello Giuseppe Perrucchetti" (1884) Come dice lo stesso titolo, in quest'opera i riferimenti di D.B. alle tesi del Perrucchetti sono ancor più puntuali e frequenti di quanto avvenga nel caso precedente, fino a farne il contraltare marittimo dell'opera La Difesa dello Stato dello stesso Perrucchetti, con il quale D.B. ha molte idee in comune, anche se non mancano diverse valutazioni su argomenti di primaria importanza. Basti ancora ricordare che al pari di D.B. il Perrucchetti è portatore di un concetto interforze della difesa nazionale, quindi deplora la mancanza di un armonico indirizzo e di un unico Capo responsabile per l'esercito e la marina. È convinto anch'egli della necessità di un unico indirizzo interforze degli studi militari e lamenta (sempre come lo stesso D.B.) che la proficua frequenza da parte di ufficiali di marina della Scuola di Guerra dell'Esercito, iniziata con la sua fondazione nel 1867, sia stata sospesa nel 1872 a causa "di altre necessità di servizio e della scarsità di Quadri". Come si è visto, allo studio della strategia marittima più conveniente per l' Italia il Perrucchctti dedica un intero capitolo della Difesa dello Stato, il VI, nel quale ritiene che il compito essenziale del la marina è di evitare l'aggiramento delle Alpi da Sud: anzi, il suo concetto di difesa marittima è ancor più ampio di quello dello stesso D.B. A suo giudizio, poiché i nostri interessi marittimi si estendono ormai a tutto il Mediterraneo, "la dffesa dello Stato non è completa se si limita alla sola protezione della integrità territoriale; essa deve estendersi alla tutela di tuLLi gli interessi vitali della Nazione. E fra questi, quelli che ne toccano più sul vivo non sono al di là delle Alpi ma nel Mediterraneo ...". Ne deriva la necessità di rafforzare la marina e di eliminare l'eccessiva dipendenza della nostra industria navale dall'estero. E visto che il bilancio della marina francese è al momento quadruplo rispetto al nostro, anche per il Perrucchetti " in un razionale riparto dei nostri mezzi di difesa, la marina merita ben altra parte di quella che essa ha". Su questo punto fondamentale è estremamente chiaro e categorico: come per il Ricci, anche per lui l' esercito, che in quel momento si intende mantenere su 12 corpi d'armata, dovrebbe in futuro essere ridotto a 1O corpi, destinando le risorse così liberate alla marina. Più in generale, sempre a suo giudizio il bilancio della marina dovrebbe aumentare in misura tale, da consentire almeno il raggiungimento della parità complessiva tra le flotte della Triplice Alleanza e la flotta francese: al momento, infatti, anche la somma dei bilanci delle tre marine alleate (tedesca, austriaca e italiana) rimane inferiore di 46 milioni al bilancio della marina francese ... L'analisi del libro del Perrucchetti fornisce a D.B. l'occasione per due puntualizzazioni importanti, nelle quali fa esplicito riferimento a "diversi pareri" tanto all'interno dell'esercito che della marina. Il primo, di carattere teorico, riguarda l'impossi bilità di applicare in tutti i casi alla guerra navale il principiobase jominiano della concentrazione delle forze nel punto decisivo, applicato da Nelson a Trafalgar e sostenuto - oltre che da molti s<.:rittori navali (vds. Voi.
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I, capitoli XVI e XVII) - dallo stesso Perrucchetti. A giudizio di D.B., invece, la strategia terrestre non può comprendere tutte le forme dell'azione navale, "giacché per noi [come avviene nella guerra di crociera - N.d.a.J l'urto delle masse non è né unico o ultimo scopo della guerra, né quindi i 'essenza del principio generale che la governa". Le critiche di alcuni suoi avversari sono perciò fuori luogo: "poiché spesso, e non a ragione, mi s'incolpa ancora di eccessiva tendenza al continentalismo, mi si conc:eda fare voti perché altri faccia, in modo più completo del mio, uno studio c:ritico comparato del principio della guerra nelle sue applicazioni territoriali e marittime". La seconda puntualizzazione di D.B. riguarda la concreta linea d'azione da seguire nella ripartizione dei compiti tra esercito e marina in un quadro unitario della difesa nazionale: "a me importa mettere fin d 'ora in evidenza la necessità, oppugnata da altri [come il Ricci - N .d.a.] di dare alla cerchia delle Alpi iI completamento di tante forze di mare da assicurare i I libero impiego di tutto l'esercito sulle frontiere di terra. Questo concetto, ne sia o no possibile, prossima o lontana l'attuazione, mi pare il vero e sano criterio della nostra difesa ...". li punto di dissenso principale tra D.B. e il Pem1ccbetti riguarda sorprendentemente proprio la proposta di quest' ultimo di ridurre l'esercito a pro della marina e di raggiungere almeno a lunga scadenza la parità navale con la Francia. Su questo argomento ambedue gli autori combattono a fronte rovesciato, e in evidente contrasto con gli orientamenti ufficiali delle rispettive Forze Armate. Probabilmente temendo che se si creasse un più favorevole rapporto di fort:e con la marina francese la sua tesi sulla convenienza ed economicità della guerra di crociera e relative costruzioni navali perderebbe molta della sua efficacia, D.B. non condivide le idee del Perrucchetti sulla riduzione dell ' esercito a pro della marina e ritiene che le sue proposte stano troppo difficilmente realizzabili, quindi servirebbero solo a distrarre l'attenzione dalle possibili e concrete soluzioni, le quali vanno ricercate e tradotte in pratica hic et nunc con le risorse sicuramente disponjbili, senza prestar fede a vaghe promesse di futuri miglioramenti: il problema dife nsivo non deve, come quello oJJensivo di un giorno, ammettere un elemento imponderabile e incerto fra quelli dai quali dipende la nostra esistenza; se si ammette la sufficienza dell 'Esercilo, 11011 èpunto logico né giusto il non ammettere anche quella della flotta, entro limiti bastevoli per assicurare la penisola dalle grandi invasioni mari/lime. Non posso poi a5solutamente piegarmi a credere, nei limi/i dello scopo difensivo, che una eventuale situazione politica debba vincolare il nostro avvenire, e sconfesso il non possumus che si vorrebbe stampato su/la fronte del nostro destino. Chi non ha fede gridi pure all'eresia, ma ci sia concesso di credere, che cogli stessi rapporti numerici e quando sia pari la preparazione e la condotta della guerra, l'esercilo e l'annata sono sufficienti a pro leggere l'integrità del Paese.
Un secondo punto importante di dissenso di D.B. rispetto al Perrucchetti è la difesa dell'Italia peninsulare e delle isole, per la quale quest' ultimo non ri-
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tiene (a ragioni) sufficienti le forze navali, la cui azione deve perciò essere integrata da fortificazioni nei punti più sensibili delle coste e da consistenti forze terrestri mobili di 2a linea (cioè composte da richiamati all'atto dell'emergenza). D.B., invece, per tale difesa continua a ritenere sufficienti le sole forze navali, sia pure - in questo caso - con una proporzione di 2h rispetto alla flotta francese, così come sostiene il Marselli. Anche sul ruolo delle grandi navi il Perrucchetti è assai meno critico di D.B., e ha una fiducia sia pur ragionata e non assoluta nel loro rendimento e nella loro capacità di difesa passiva. Ritiene anch'egli utile e necessaria la guerra di crociera, ma non fino al punto di sostenere come lui, che con modesti stanziamenti e poche navi di idonee caratteristiche sarebbe possibile tener testa alle grandi potenze marittime; perciò (sembra sottinteso il riferimento alle invero ottimistiche tesi di D.B.) non dobbiamo farci illusioni e non dobbiamo ingannare il Paese col dirgli che dieci o quindici milioni di aumento nel bilancio della Marina bastano a rendere sicuro il nostro commercio, a garantire le città marittime da ogni pericolo di bombardamento, a scongiurare qualsiasi offesa marittima contro la penisola e le isole nostre. -14
Diverso da quello di D.B. anche il punto di vista del Pcrrucchetti sugli sbarchi e sulla gravità della minaccia da loro rappresentata in rapporto ai bombardamenti dal mare. Egli attribuisce aHa marina francese una capacità potenziale di trasporto persino superiore a quella stimata dallo stesso D.B., ma diversamente da lui non ritiene corretto dedurre automaticamente e matematicamente da questo calcolo la forza delle truppe che il nemico potrà eflèttivamente sbarcare, fino a fame un dato certo e costante da mettere al la base di tutti i problemi di difesa delle coste e della relativa pianificazione. Diversa anche la sua posizione sui bombardamenti dal mare: li ritiene meno probabili e meno dannosi di quanto mostrano di credere D.B. e molti altri scrittori navali, mentre sull'opportunità che la flotta non debba contrastarli si dimostra assai meno drastico di D.B. e non esclude tassativamente e in ogni caso - come fa quest'ultimo - il suo intervento.
SEZIONE II - Gli scritti del 1894-1895: la situazione geopolitica europea e il primo impatto con Mahan Il silenzio nel periodo 1885-1893: p erché? Nel periodo che va dal 1885 al 1893 l' attività pubblicistica di D.B. sulla Rivista Marittima, così intensa specie dal 1878 al 1881, subisce una brusca in-
"'G. Perrucchctti, Lu difesu de/fu Stato (Cii.), p. 368.
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terruzione: di questo periodo se ne conosce solo un articolo su un argomento tecnico, e un altro su un periodico tedesco del 1885 in materia di espansione coloniale (l'Italia si accingeva in quell'anno a compiere i primi sfortunati passi in Eritrea). Perché? Probabilmente tra il silenzio di D.B., la caduta nel 1883 del Ministro Acton (del quale può essere definito un sostenitore se non il portavoce) e il ritorno e la lunga permanenza di Benedetto Brio al Ministero (1884-1893) c'è una certa relazione. In ogni caso, non c'è dubbio che, come già visto, le idee di D.B. sono molto lontane da quelle del Brin (Ministro in carica durante il suo prolungato silenzio). Una velata spiegazione postuma la fornisce lo stesso D.B.: la questione delle navi, o meglio del miglior tipo di nave, finì per ridursi ad un conflitto di supremazia fra la nave avente caratteri tattici preponderanti [cioè la grande corazzata di Saint Bon e Brin - N.d.a.] e la nave avente preponderanza di caratteri strategici [la nave da crociera da D.B., che esaltava al massimo grado (anche a detrimento di altri requisiti, a cominciare dalla potenza di fuoco) la velocità e quindi la mobilità strategica - N.d.a.). Il,fondamento però di quella discussione.fu quasi esclusivamente tattico, essendo troppo evidente la superiorità strategica del tipo T.epanto, su quello che si affermò nel tipo Andrea Doria. A quella .fervente polemica, che appassionò la nazione e la Marina, rimanemmo completamente estranei perché avevamo precedentemente stabilito che il compito navale dell'Italia doveva essere completamente strategico nel primo decennio (I 880-1890), per divenire parzialmente tattico con fondamento strategico nel secondo decennio (/890-1900). Secondo il nostro modo di vedere, la questione avrebbe dovuto risolversi nella determinazione del tipo della nave da crociera, ma poiché era allora vano sperare di raggiungere questo scopo, così non prendemmo parte in alcun modo alla discussione, la quale si svolse in base a due opuscoli del Maldini che furono illustrazione ad un altro opuscolo, supposto ispirato dall 'Acton (ACUS NAUTJCUS La verità, tutta la verità), le cui idee trovarono molti fautori.fra i quali i più autorevoli il Cottrau, il Suni, il Turi, il De Luca, e fra gli altri oppositori il Saint Bon e il Brin [ .. .]. Ci interessa mettere in evidenza come l'indole della discussione per moltissime ragionifosse quasi esclusivamente tattica Lriguardante, cioè, il combattimento tra navi e le relative armi - N.d.a.], come l'importante quesito della nave da crociera non fosse da alcuno preso in considerazione [il che equivale a dire che l'establishment della marina non accettò mai le idee di D.B. - N.d.a.], e che solamente il Brin abbia ad esso accennato senza entrare in merito alla questione. 35
1n sostanza D.B. afferma che, una volta enunciate le sue diverse idee rispetto a quelle del Saint Bon e del Brin e una volta realisticamente constatato che esse non avevano alcuna possibilità di essere accolte, ha ritenuto inutili ulteriori interventi. Non si tratta, comunque, di un capitolo chiuso: a fine secolo
" O.H., Considerazioni sul primo tema delle manovre militari italiane, in "Rivista Marittima" 1894, Voi. ll l'asc. VI.
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- e fino alla svolta della Dreadnought che mette un punto fermo - i giochi sono tutt'altro che fatti, anche se nei primi anni del secolo XX sembra prevalere l'orientamento a conciliare i requisiti dei due contrapposti tipi di navi.
Rivalutazione della corazzata? La polemica con la "Jeune École"
Negli ultimi anni del secolo si sono create le condizioni favorevoli per un riavvicinamento tra i sostenitori delle grandi e piccole navi, del quale sono espressione gli articoli che nel 1894 D.B. ricomincia a pubblicare sulla Rivista Marittima, commentando le grandi manovre navali del 1894.36 Queste ultime avevano come tema la difesa delle nostre coste da parte della marina, cioè il suo principale cavallo da battaglia, così come il crescente successo della formula dell'incrociatore corazzato dimostrava la tendenza a conciliare i presupposti teorici del Brin e del Saint Bon con le esigenze della guerra di crociera, a cominciare dalla preminenza della velocità. Commentando le predette grandi manovre D.B. affronta due argomenti centrali: la validità o meno delle navi da battaglia e l' efficacia del naviglio torpedinicro. Su ambedue i temi rettifo;a alquanto le sue posizioni, sia pur senza rinnegarle. Riconosce anzitutto che nel nuovo contesto internazionale e tecnico la Marina diversamente dal passato potrà avere anche compiti offensivi, pur mantenendo la difesa delle coste come compito principale. I riflessi sulle costruzioni navali sono importanti: se [l' Italia] non può escludere i grandi incrociatori corazzati dalla sua flotta, non però deve considerarli il tipo fondamentale della sua difesa, bensì quello eccezionale della sua improbabile futura offensiva, limitandone il numero onde -esso non torni a danno della perfezione del tipo.
Rimane comunque confermata la validità della formula della nave da crociera, la quale "non correrà più delle navi minori pericolo di affondamento. e deve perciò considerarsi il tipo necessario e szef.fìciente alla costituzione delle flotte difensive". D'altro canto, dalle grandi manovre non è emersa affatto l'inutilità delle corazzate, che anzi hanno dimostrato di poter respingere almeno di giorno gli attacchi torpedinieri. Anche una flotta difensiva non può quindi rinunciare alle corazzate, purché siano capaci di conciliare l 'efficacia strategica con quella tattica di tutte le armi. Giustificano il mantenimento di una fonnula aggiornata della corazzata disparate ragioni: "il compito offensivo che spetta alle grandi potenze marittime; l 'insuffìcienza del determinante tattico; la preponderanza di quello strategico; il principio, non sempre inoppugnabile, che la superiorità del tipo sia, storicamente, elemento di vittoria; l 'autorevolezza che a questo principio hanno creduto accordare il Saint-Bon e il Brin,
" 1n "Rivista Marittima" 1894, Voi. II Fase. VI e Voi. 111 Fase. VII e VITI.
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il grande prestigio di queste due menti supreme, ed il fatto che nella lotta tra tipo e tipo di nave manca la sanzione della guerra". Come si vede, D.B. ora considera "menti supreme" di grande prestigio i padri di una formula da lui decisamente combattuta in passato. Ciò non gli impedisce di elencare quasi puntigliosamente i limiti e difetti della formula delle corazzate, fino a un punto tale da indurre il lettore a mettere in dubbio la convenienza di costruirne ancora e fino a chiedere comunque la radiazione di numerose vecchie unità ormai sorpassate. A suo parere vanno radiate le unità nelle quali la potenza di fuoco torni a danno delle altre caratteristiche, e anche quelle la cui velocità non si avvicini a quella delle torpediniere. Le corazzate vanno considerate come "tipi eccezionali, non jòndamentali delle flotte", per una serie di motivi: la loro costruzione con le caratteristiche indicate richiede ingenti risorse finanziarie; nel Mediterraneo sono particolarmente esposte a attacchi di torpediniere contro le quali non hanno speranza di salvezza se non nella fuga; sono più dannose che utili nella protezione dei convogli o nel loro attacco, perché esposte a attacchi torpedinieri; non sono sufficienti nell'attacco alle piazze marittime ben fortificate, per le quali occorre naviglio speciale; in quasi tutte le forme di guerra costiera "o non sono indispensabili, perché ultra potenti, o non possono che eccezionalmente impiegarsi, o non debbono esporsi a inevitabile disastro"; sono inutili e anzi dannose nell'azione notturna che va acquistando importanza, ecc. Riguardo alle torpediniere, D.B. questa volta ricorda che nel 1880 (e precisamente nei Primi elementi della guerra marittima) ne aveva escluso l'efficacia nella guerra di squadra e d' alto mare, limitandone i compiti alla difesa costiera. Ma grazie all'aumento della loro autonomia e delle loro qualità nautiche, a suo parere sono ormai diventate - come già si intravede nelle precedenti considerazioni sulle corazzate - "elementi di grande potenza tattica, quando non se ne esageri l 'impiego e il compito". Ne consegue l'efficacia di un nuovo tipo di nave, peraltro destinato ad avere scarsa fortuna anche all'estero: se il cunnone non può mai essere considerato come elemento di ejjìcace sorpresa notturna. se il rostro confe riva una sujjìciente, ma sempre pericolosa attitudine a queste sorprese, il siluro, associandosi al rostro ha reso l'ariete torpediniere di limitate dimensioni un elemento e,fficacissimo del combattimento notturno, tanto contro squadre corazzate che contro con vogli.. .
Anche quando caldeggia questo tipo di nave, dunque, D.B. rimane fedele alle sue vecchie idee: diffidenza pronunciata nei riguardi del cannone e della corazza, fiducia eccessiva nello sperone, fiducia ragionata nel siluro, esaltazione della velocità, della leggerezza e della sorpresa. Ne deriva la sua netta contrarietà ad ambedue le formule costruttive fondamentali delle flotte, che si affermano definitivamente e ovunque all'inizio del secolo XX: il cacciatorpediniere e la corazzata tipo Dreadnought (cioè con poche artiglierie dello stesso calibro 305 mm e della massima potenza, corazza in proporzione e velocità elevata).
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A suo avviso (un'altra idea smentita dalla realtà) non c'è spazio per un tipo di nave leggera armato sia con il cannone che con il siluro (quindi intermedio tra incrociatore e torpediniera), com'è il cacciatorpediniere: negli scontri tra flottiglie il cannone sarà meno efficace dello sperone, quindi l'evoluzione della torpediniera sarà quella di diventare anche un ariete, abbinando al siluro il rostro_ Al tempo stesso l'evoluzione della corazzata sarà caratterizzata da diminuzione dei grossi calibri a vantaggio dei medi e dei piccoli e delle armi subacquee (ennesima previsione errata)_ Diminuirà lo spessore delle corazzate e aumenterà la superficie protetta; si ricercherà "una 6rrande limitazione della superfìcie di bersaglio, ed una più larga e efficace protezione contro le oj: fese subacquee". Insomma: la formula della corazzata prediletta da D_B. a fine secolo è molto, troppo lontana da quella che di lì a qualche anno, intorno al 1905, sarà la Dreadnought, destinata a mantenere il primato fino alla seconda guerra mondiale con calibri fino al 381 e 406 mm, superiori al 305 della Dreadought. Sempre nel commento alle grandi manovre del 1894 D.B. tocca un altro argomento di grande interesse: il confronto tra le sue idee e quelle della coeva .!eune Fcole francese, il cui caposcuola (ammiraglio Théofile Aube) pubblica le sue opere principali nel 1882-1884, cioè quando il "nocciolo duro" delle teorie di D.B. è già stato da lui enunciato. Va ricordato, in proposito, che nel suo libro Italie et Levant l'ammiraglio francese fa esplicito riferimento a D_B_ e alle sue idee, definendolo "uno dei migliori ufficiali della flotta italiana, scrittore coraggioso e patriottico" e apprezzando in particolar modo - pour cause le sue idee circa l'eflìcacia dei bombardamenti delle città costiere e la necessità che la flotta italiana non intervenga per contrastarli (ciò rende più facili quei bombardamenti costieri, che sono anche uno dei capisaldi delle teorie della Jeune Éco/e). Sporadiche ma sit,,'llificative citazioni degli scritti di D_R si trovano anche nel Guerres navales de demain dei due più noti seguaci del1'amm. Aube (il Comandant Z.-Paul Fontin e H. Montéchant-Henry Vignot), nel quale essi sostengono come forma d'azione strategica più redditizia per la flotta francese il bombardamento delle città costiere italiane, che a loro discutibile giudizio dovrebbe senz'altro abbattere il fragile morale delle popolazioni italiane, facendo rapidamente sviluppare e diffondere i germi ancestrali della dissoluzione, del disordine e del livore antinazionale e antiunitario che già vi esistono_ Non vi è dubbio che tra le teorie di D.R e quelle della Jeune École vi sono parecchi punti in comune: oltre alle comuni fonti storiche di riferimento (il Grivel e il Jurien de La Gravière), le differenze strategiche radicali tra il periodo velico e quello del vapore, la rinuncia alla conquista del dominio del mare contro un avversario (nel caso francese, l' Inghilterra) la cui superiorità non potrà mai essere annullata, la conseguente avversione per la guerra di squadra, la polemica coi sostenitori della corazzata come "nave assoluta", la preferenza per il naviglio leggero e per la guerra di crociera, l' importanza attribuita ai bombardamenti costieri e alle torpediniere, la grande influenza attrihuita ai fat-
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tori geografici nazionali. Tuttavia per Aube gli sbarchi non sono cosa tanto facile (forse pensa alle coste tedesche), e diversamente da D.B. pensa che possono essere validamente contrastati da terra: se da una parte nessun punto del litorale è al sicuro da un assalto, dal/ 'altra non vi è neppure uno di questi punti che non possa essere potentemente e rapidamente difeso. Qualunque tentativo di sbarco sotto il fuoco d'una squadra padrona del mare sembra poter riuscire, ma un corpo d 'esercito che si avanzi così in pieno territorio nemico sembra invece dover essere ricacciato in mare, prima d'aver sicuramente stabilita La sua base d 'operazione e di approvvigionamento...
Su questo giudizio dell'ammiraglio francese pesa probabilmente anche l'esperienza della guerra 1870-1871, nella quale nonostante la forte superiorità del la Marine Nationale nessuno sbarco è stato ritenuto possibile sulle coste germaniche, per timore della reazione terrestre. Anche la visione riduttiva del ruolo delle grandi navi da parte di D.B. ha parecchi punti in comune con quella di Aube; tuttavia i citati allievi di quest'uJtimo Commandant Z. e H. Montechant, sostengono non il ruolo secondario mal 'assoluta inutilità della corazzata a causa della sua eccessiva vulnerabilità agli attacchi delle torpediniere, da loro sopravvalutate fino a farne lo strumento principe della strategia francese d' alto mare. Più in generale le critiche di D.B. alle tesi dei seguaci della .Jeune École sono le stesse - anche se di segno contrario - di quelle rivolte ai fautori delle grandi navi: estremizzazione di concetti accompagnata dalla tendenza a formulare giudizi perentori e drastici senza dimostrarne in modo esauriente la fondatezza e le ragioni. D.B. osserva anche, a ragione, che in Francia queste teorie non hanno avuto gran successo (lo stesso, peraltro, potrebbe dirsi per le sue idee in Italia) e che le costruzioni navali francesi deJ momento rispettano solo in parte i canoni estremistici della Jeune École. Infatti sono previsti incrociatori e cannoniere di dislocamento molto elevato (fino a 8000 t) e con potenza offensiva e difensiva assai maggiore di quella che era stata inizialmente prevista per le flottiglie di piccole unità, destinate a spazzar via dalla superficie del mare le flotte. Ciò che egli tiene a rimarcare di più è la scarsa originalità delle teorie della J eune École e la non dipendenza della corrente di pensiero da lui capeggiata dai concetti di quest'ultima (se mai, avviene il contrario). A taJ fine cita un articolo sull'attacco torpediniero di un utliciale di marina russo, O. Filisoff, pubblicato dal "Moscoi Sbornie" di Mosca nel 1876, nel quale l'autore giunge alle stesse conclusioni dell' ammiraglio Aube cinque anni dopo, pur non essendo ancora disponibili i più perfezionati siluri tipo White head. Per quanto attiene al pensiero navale italiano, escludendo la questione, insaissisable, dei bateau-canons, il programma della Jeune Écolc non ha nulla di veramente caratteristico e proprio. Da oltre dodici anni il problema della costituzione organica delle flotte era stato risolto in Italia, almeno da taluni scrittori [come lo stesso D.B. - N.d.a. l in fa-
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vore di un programma che escludeva i grandi spostamenti [cioè i grandi dislocamenti, le grandi navi - N.d.a.] e caldeggiava gli incrociatori - arieti e le .flottiglie. Tra le molte ragioni che spingevano a propugnare quel programma organico - quasi tutte di ordine strategico o morale - una sola se ne adduceva di carattere tattico,fra le molte che potevano addursi anche allora. Finché una più convincente esperienza.fu detto nel 1880, abbia diradate le esperienze che offuscano l'orizzonte della tattica [ ... ] affrettiamoci a costruire quelle navi che soddisfano alle esigenze strategiche della nostra difesa e che potranno tutelare se non l'incolumità delle nostre coste, almeno l'integrità della Patria. difendendola in modo efficace da quelle invasioni marittime che gravemente la minacciano [si tratta del programma dello stesso D.B. - N.d.a.). Molte ragioni impedirono che quel programma avesse svolgimento e.favore, e solamente da qualche anno, con intermittenza, esso viene più attivamente applicato; ma ciò che più importa mettere in evidenza, è che il programma della scuola.francese era quello degli scrittori italiani...
Con queste parole, dunque, D.B. rivendica un inesistente o almeno discutibile primato della sua corrente di pensiero rispetto a quella francese, e in certo senso ne riconosce il sia pur incompleto successo negli ultimi anni. L'unica differenza che rimane tra la scuola italiana e quella francese - egli conclude è quella relativa al dislocamento degli incrociatori italiani da lui previsti (4000 t), assai inferiore a quello degli incrociatori francesi (fino a 8000 t) perché l'Italia, paese mediterraneo, non deve far fronte - come la Francia - anche alle esigenze strategiche di una guerra oceanica. Merita, infine, di essere ricordato che egli è il primo scrittore navale italiano a citare ripetutamente Clausewitz, specie a proposito della possibilità di evitare la battaglia, dell' elevata valenza strategica del la sorpresa e del combattimento di notte, dei fattori che avvantaggiano l'azione difensiva rispetto a quella offensiva. Afferma, anzi, che "i precetti e le considerazioni militari che [per la guerra terrestre] il Clausewitz svolse nella parte strategica e il Jomini nella parte logistica delle loro opere magistrali, possono e devono applicarsi in gran parte anche alle armate [navali]". Da ricordare, infine, la sua insistenza sull'estrema utilità di un libero dibattito fra gli ufficiali sulla tematica strategica e tattica, e le sue critiche al tema delle ultime manovre navali, che - con negativi riflessi anche di carattere morale suppone già occupati dal nemico i porti e le città della Riviera Ligure di Ponente, e non dà il giusto valore strategico alla posizione di La Maddalena.
Geografia fisica, militare e politica: le dieci componenti della "potenzialità marittima" L'anno 1895 segna un salto di qualità fondamentale nel pensiero di D.B., ampliandone notevolmente gli orizzonti fino a quel momento ristretti a tutto ciò che riguarda la guerra marittima e terrestre nello specifico contesto geografico nazionale e ai conseguenti indirizzi della strategia marittima e delle co-
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struzioni navali, tenendo anche conto degli orientamenti della flotta francese. Oltre a venire per la prima volta a contatto con gli scritti del Mahan e con la problematica teorica del potere marittimo, in quest' anno egli estende l'indagine al contesto geopolitico europeo e mondiale, ricavandone concrete indicazioni sui problemi del Mediterraneo, sulla collocazione internazionale dell 'ltalia e sulle relative esigenze militari e navali. Va ben rimarcato che il Nostro rimane tuttora il magg1or interprete e studioso italiano del pensiero di A.T. Mahan, che viene da lui citato per la prima volta nel marzo 1895, con l'articolo "Strategia navale - criteri di potenzialità marittima".31 ln questa occasione, pur senza usare il termine potere marittimo (Sea power), egli individua e studia i fattori che hanno concorso e concorrono a determinare la ''potenzialità marittima" (termine equivalente a potere marittimo di uno Stato) e lo sviluppo o decadenza della sua marina. Anche se non lo precisa, tali fattori non sono altro che il risultato di personali e anche diverse riflessioni sugli elementi del potere marittimo individuati da Mahan, che li esamina nel celebre capitolo I del suo lnfluence of Sea power upon history (16601783), pubblicato nel 1890 e tradotto in italiano solo ne l 1994, c ioè oltre un secolo dopo. 3R L'altro grande interprete italiano coevo del Mahan è Camillo Manfroni, che però - per volontaria scelta - 1imita il suo esame alla parte storica e alla nuova metodologia introdotta dal grande scrittore americano, senza le considerazioni attualizzanti e a carattere tecnico-militare e navale che invece contraddistinguono la parallela e più approfondita indagine di D.B. Non sembra, peraltro, fondata la pretesa dello stesso D.B. di aver introdotto per primo lo studio di Mahan in Italia: già sulla "Rivista Marittima" del luglio 1894, infatti, compare un articolo del Manfroni che commenta The influence upon history. 39 Va anche tenuto conto che dal 1894 al 1896 viene pubblicata a puntate sulla Revue Maritime e Coloniale francese, a cura del comandante Boisse, una prima traduzione di The injluence upon history, che ne anticipa la traduzione integrale pubblicata nel 1899 a cura dello stesso Boisse,40 probabilmente avente loscopo di affossare definitivamente le teorie della Jeune École e della guerre de course alle quali l'ammiragliato francese del momento era contrario (e lo sarebbe stato anche in futuro). Gli anni dal 1894 al 1896 segnano, dunque, lo studio e la scoperta di Mahan in tutta Europa. Di questo contesto generale risentono gli scritti di D.B. dal 1894 a fine secolo, ruotanti appunto intorno all'interpretazione e alla critica di Mahan
In "Rivista Marittima" 1895, Voi. l Fase. TTT. Roma, Ufficio Storico Marina Militare 1994. 39 C. Manfroni, Una nuova storia critica della Marina Militare, "Rivista Marittima" 1894, Voi. li [ Fase. vrr, pp. 2 17-23 1. 40 Paris, L.H. May 1899. Sulle probabili finalità di questa traduzione. Cfr. M. Motte, l'injluence deMahan sur la Marinefmnçaise (in AA.VV., L 'évolution de la pensée navale IV - a cura di H. Coutau - Bégarie, Paris, Ceutn : d' A.nalyse Politique Comparcé 1994, pp. 155-1 56). 37
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in chiave europea e italiana. Nel citato articolo del marzo 1895 -e in quello seguente dell'aprile 1895 sullo stesso argomento - sotto l'evidente imput degli scritti di Mahan, ma senza darlo troppo a vedere, egli inizia l'esame delle componenti che influiscono sul potere marittimo, identificandone (invece dei celebri sei di Mahan)41 ben 10: nell'ordine la climatologia, la geografia militare (o geografia fisica militare marittima), la geografia politica, la topografia militare, la posizione della capitale, gli clementi dell' industria marittima, gli clementi della ricchezza, l'etnologia, l'ordinamento politico, la civiltà. Inoltre analizza tre altri argomenti di matrice clausewitziana che Mahan, ligio al sostanziale materialismo jominiano, trascura: l'influsso del genio del Capo, dell'invenzione e della sorte (ciò del caso) sulla strategia navale. Le riflessioni del 1895 saranno da D.B. riprese analizzando in forma organica, a qualche anno di distanza, le teorie di Mahan. Per il momento, ci preme mettere in evidenza che cosa egli intende per geografia militare, geografia politica e topografia militare. Nel citato articolo del marzo 1895 che segna il suo primo impatto con le teorie dell'ammiraglio americano include la geografia politica tra le componenti che determinano il potere marittimo di uno Stato, riprendendo l'analisi del ruolo e significato di tale disciplina iniziata, come si è visto, fin dal 1881. Sia pur senza dame una completa e definizione, in questo caso la differenzia nettamente sia dalla geografia fisica militare marittima, sia dalla topografia militare. Mentre la prima esamina le condizioni favorevoli o meno che le caratteristiche geografiche di una data ragione (con particolare riguardo a posizione e morfologia) pongono alla sua difesa terrestre e marittima e all'espansione marittima, la geografia politica viene da lui intesa come studio della ripartizione degli spazi geografici tra i vari Stati, dalle cui caratteristiche geografiche - in relazione ai confini, agli ordinamenti interni, ecc. - si ricavano indicazioni sulle diverse possibilità politiche, militari e economiche che fornisce in campo militare (terrestre e marittimo) la posizione di ciascun paese. Ciò che più gli interessa in questa occasione sono i riflessi del possesso o meno di spazi territoriali da parte degli Stati, che danno origine a una serie di condizionamenti della situazione politico-strategica, derivanti dalla vicinanza o meno dei confini; questo perché "il contatto politico territoriale é conditio sine qua non della espansione e dei conjliLLi''. Quindi la geografia militare e politica degli Stati con confini solo terrestri "si risolve nel determinare lefanzioni e gli equivalenti di potenzialità che trovansi quasi a contatto". 11 contatto o la contiguità, però, "hanno un 'importanza assai meno determinante di quel-
41 Uli clementi che secondo Mahan influenzano il potere marillimo sono: "/. la posizione geografica; 2. La cunformazionefisica, che comprende i prodolli naturali e il clima; 3. L 'ampiezza del territorio; 4. La quantità di popolazione; 5. Il carattere del popolo; 6. Il caraI/ere del Governo, incluse in questo le istituzioni naziunalf' (A.T. Mahan, L ·influenza del potere mari/limo sulla storia - Cii., r 64).
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la territoriale e perciò i rapporti di potenzialità non sono vincolati che dalla mobilità delle flotte". In conclusione, in campo terrestre "la geografia politica è territorialmente un sistema opposto ali 'espansione [... ]. Marittimamente invece [ 'inerzia è molto minore, la variabilità quasi l'essenza degli organismi, il vincolo di solidarietà meno efficace, ogni equilibrio molto più instabile, donde ne deriva che la geografì.a politica è un fattore di potenzialità assai più favorevole alla espansione marittima che a quella territoriale...". In breve: mentre in campo terrestre due Stati possono recarsi reciproca offesa solo se confinanti (tenendo tuttavia presente che si agisce offensivamente troverà sempre de~li ostacoli), in campo marittimo lo spazio non è affatto un ostacolo [come pensano molti strateghi "terrestri" non solo di quel tempo - N.d.a.] e favorisce l'offesa. Infine, la topografia militare consiste nella valutazione delle caratteristiche di singoli elementi topografici e/o idrografici sotto il profilo militare e/o navale. A parere di D.B., essa diversamente dalla geo1:,rrafia politica e militare esercita sulla potenzialità marittima una funzione essenzialmente difensiva. Si rimane perplessi per una siffatta, sottile distinzione di D.B. tra geografia militare e topografia militare, perché una valutazione sia pure a grandi linee delle caratteristiche dei singoli elementi orografici e idrografici non può non far parte della geografia militare. Probabilmente il Nostro ne fa una questione di diversi livelli: per lui la geografia militare (come già visto e come afferma anche il Sironi) riguarda lo studio del terreno solo ai fini delle grandi operazioni di guerra, cioè entra nel campo della strategia, mentre la topografia militare rientrerebbe piuttosto nel campo della tattica. Dalla sua analisi risulta inoltre difficile distinguere nettamente tra geografia politica e militare, essendo la seconda - più che una conseguenza - una componente del la prima. In ogni caso le sue riflessioni aiutano a meglio individuare i reali contenuti della geografia politica e gli elementi che la distinguono dalla geopolitica. Riprenderemo questo discorso nella parte a ciò dedicata: per il momento ci basti qui ribadire che sia D.B. che Mahan scrivono di geopolitica e geostrategia, perché non solo applicano fattori e principì di carattere geografico largamente costanti alla politica e alla strategia, ma li considerano come la base di ambedue. la situazione geopolitica europea e italiana e la valutazione delle forze terrestri e navali (1895): come neutralizzare il pericolo slavo e americano In sei ponderosi saggi pubblicati dalla "Rivista Marittima" nel 1895 con il titolo Situazione militare mediten·anea,42 D.B. esamina in chiave prima di tut-
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e Xli.
In "Rivista Marittima" 1895, Voi. TI fase. VI, Voi. W Fase, VII e VIII-IX, Voi. IV Fase. X, Xl
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111 l'III opca Il quadro geopolitico delle alleanze e gli ultimi avvenimenti. La stessa posizione dell ' ltalia nel Mediterraneo, le imprese coloniali (in Eritrea) che l'ILalia sta tentando, sono da lui viste in un'ottica europea e non nazionale, con netta sottovalutazione di problemi non strettamente geografici ed economici come quelli delle nazionalità e di conseguenza degli irredentismi - che pure avranno gran peso nel deterioramento della situazione nel 19 I4-19 l 5, deterioramento del quale pur si trovano le avvisaglie nelle sue riflessioni. Si trovano nei suoi scritti anche numerose citazioni dell'Influenza del potere marillimo nella storia di Mahan. Fanno perciò la loro prima comparsa nelle sue riflessioni termini come potere marillimo (il Sea power di Mahan) e potere navale, sul cui significato ritorneremo in seguito. Di Mahan rettamente intuisce la missione di interprete e apostolo delle tendenze espansionistiche - a connotazione prettamente marittima - della giovane e grande Repubblica stellata, tendenze che però non vede di buon occhio perché a suo giudizio rappresentano una nuova e crescente minaccia per il tradizionale predominio mondiale inglese e europeo. Come Mahan giudica inevitabile una guerra tra Stati Uniti e Spagna per il predominio definitivo nel Mar dei Caraibi, guerra nella quale prevede che la Spagna è destinata a soccombere se non aiutata - in nome del comune interesse - da altre potenze europee. Queste ultime a suo avviso dovrebbero stabilire di comune accordo una grande base terrestre e navale nel Mar dei Caraibi, per controllare quest'area che con la prossima apertura del Canale di Panama è destinata a diventare di interesse vitale per la tutela del predominio mondiale europeo. Di Mahan cita - ritenendola "reticente" - l'affermazione che " i difetti insiti nella incompleta geografia dell'Italia, combinata con altre cause ingiuriose (sic) al pieno e sicuro sviluppo del potere navale, rendono più che dubbiosa la possibilità che essa possa per alquanto tempo rimanere in the front [cioè in prima fila, in primo rango - N.d.a.].fra le nazioni marittime". La sua analisi giunge a conclusioni che ne fanno (come il generale Marselli) un convinto fautore della permanenza dell'Italia nella Triplice Alleanza e un sostenitore dei benefici che tale alleanza arrecherebbe all'intera Europa. Essa si compendia nei seguenti punti: - "l'ohiettivo supremo" della politica degli Stati dell'Europa Occidentale deve essere la difesa dalla futura, duplice minaccia dello slavismo e dell'americanismo; - la "certa e prossima", se non immediata, minaccia navale da parte degli Stati Uniti provoca la menomazione del predominio mondiale europeo e in particolar modo di quello britannico; - la consistenza di queste minacce è accresciuta dalla politica antieuropea della Francia, che alleandosi con la Russia costringe la Triplice a difendersi su due fronti e altera a tutto danno dell'Italia i rapporti di forze navali nel Mediterraneo; - la grave e incombente minaccia dello slavismo, prevalentemente continentale, può essere fronteggiata solo dall ' alleanza austro-tedesca. Di con-
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seguenza la Triplice Alleanza ha obiettivi che coincidono con l'interesse europeo e anzi rappresenta il primo nucleo dell'auspicabile unità politica e militare europea; - poiché la Triplice non dispone di forze navali sufficienti, la sua superiorità anche in questo campo potrebbe essere ottenuta solo con la piena adesione dell'Inghilterra all'alleanza, costituendo così la Tetrarchia europea (Germania, Austria, Italia e Inghilterra); - la Triplice ha obiettivi solamente europei, che non pregiudicano affatto gli interessi mondiali inglesi. Perciò l'Inghilterra è chiamata a rinunciare, anche nel suo interesse, al tradizionale isolazionismo; - se l'Inghilterra non aderisse alla Triplice la Germania sarebbe spinta ad allearsi con la Russia. Queste due grandi potenze, eminentemente continentali, oltre ad essere le più forti in campo terrestre sarebbero "invulnerabili navalmente, avendo nelle loro naturali energie i mezzi della loro esistenza e in gran parte quelli della loro potenza militare". In caso di contl itto europeo, quindi, esse realizzerebbero una superiorità schiacciante sulle altre potenze continentali, delle quali avrebbe facilmente ragione; - se l'Europa Occidentale fosse schiacciata sarebbe la fine anche per l' Inghilterra: "/'egoismo britannico sarebbe vulnerato nel/ 'India e nell 'Egilto, il potere marittimo sarebbe impotente a salvare l 'Inghilterra e sé stesso, ed agonizzerebbe fra le larve di quelle marinerie inefficienti nel conflitto, e colpite come quella inglese da sincope continentale". Queste parole già fanno di D.B. un autentico precursore dell'ideale europeo e della solidarietà europea e il primo scrittore militare italiano europeista. E in un periodo nel quale - non è il solo - sente avvicinarsi la tempesta provocata dalle rivalità nazionali, arriva a disegnare le principali strutture politiche della futura Confederazione europea da lui vagheggiata e la fisionomia essenziale dello strumento militare unitario, prevedendo per le forze di mare un' articolazione in cinque flotte corrispondenti ai cinque bacini principali di interesse europeo. Per altro verso erroneamente prevede che la Germania rimarrà anche per il futuro una potenza essenzialmente continentale, pur rafforzando la flotta e pur superando già - a suo giudizio - l' Italia come forza navale complessiva, tenendo conto che anche dei fattori morali, organici ecc .. Anche se in Germania nel 1895 si sta già affermando il movimento d ' opinione a favore di una grande flotta,43 gli sfuggono perciò completamente i fattori che di lì a pochi mesi avrebbero causato la rivalità navale anglo-germanica e con essa impresso agli avvenimenti europei un corso del tutto opposto a quello da lui sperato, auspicato e previsto.
43 Cfr. O. Hinze, Stato e Esercito, ( 1906) Palermo, Flaccovio 1991. Hinzc vi sostiene che lo sviluppo delle marine militari a discapito dell 'esercito è stato cd è sostenuto dalle tendenze più progressive e sembra democratiche della società (esempio l'lnghiltcrra) non descrive come nasce e si sviluppa
in Germauia, a prescindere da Mahan, il movimento dei Flotten profcssorcn.
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l'l·r quanto rig uarda l' Italia D.B. esclude, anzitutto, la convenienza di una alleanza bilaterale con l'Inghilterra, della quale al momento si sta discu11.:ndo e che trova anche da noi dei fautori. A suo avviso l 'ltalia dovrebbe ricercare l'alleanza britannica solo se fosse una potenza insulare, se non avesse confini terrestri vulnerabili e se possedesse forze marittime sufficienti per una sia pur limitata espansione coloniale. Al momento ciò non avviene: di conseguenza la nostra espansione coloniale in Eritrea, che nello stesso anno 1895 stariprendendo, viene da lui giudicata come corrispondente all'interesse generale europeo perché facilita il controllo inglese (e di conseguenza, europeo) sul Sudan e sull'Egitto e quindi anche sul Canale di Suez, ma al tempo stesso laritiene estranea al vero interesse presente efaturo dell'Italia. Egli è dell'avviso che con l'Inghilterra perciò non conviene andare più in là di accordi locali e limitati, perché oltre a peggiorare la situazione europea, una vera e propria alleanza con questa grande potenza mondiale spingerebbe l' Italia "ad espansi, 11.1
vità coloniali incompatibili colle sue condizioni politiche, economiche e militari'' e la metterebbe "in una posizione fittizia, priva di basi naturali. jìnanziariamente gravosa. militarmente soggetta, colonia/mente vulnerabilissima, nazionalmente e difensivamente inferiore a quella che la Triplice le consente". Parole sacrosante, ma naturalmente dimenticate nel XX secolo. Segue un esame e un confronto - unico nel suo genere - del potenziale militare (terrestre e navale) dei principali Stati europei a cominciare dall' Italia, esame nel quale D.B. non si fenna ai dati numerici ma scruta anche i fattori morali, storici, politico-sociali che stanno loro alle spalle, e in definitiva determinano l'effettiva forza di una nazione. Sia l'esercito che la marina italiani risentono, a suo giudizio, di cause perturbatrici anche di ordine morale legate al clima del Paese, che fortemente ne limitano l'efficienza al di là dei dati sulla carta. Le critiche all'esercito e i giudizi negativi sulla sua efficienza prima di tutto morale sono pertanto accompagnate dall'amara constatazione che la marina, a s ua volta, ha una efficienza reale inferiore a quella che corrisponderebbe alle forze navali mobilitabili - almeno sulla carta in caso di guerra. ln effetti L 'Italia, benché ahhia talune jimzioni propiz ie alla persistenza, e talune altre possa. prowedendo per tempo, apprestar/e in sufficiente misura, ciò non pertanto, versa in tali condizioni [morali e finanziarie - N.d.a.] che noi stimiamo necessario smascherare l'illusione che gli entus iasmo ingenui o colpevoli hanno radicato nella scienza nazionale.
L'opinione del Nostro sulle dieci navi di linea più potenti della flotta nazionale è ancora coerente con le idee espresse nel 1879-1881. Giudica il nucleo di cinque corazzate più moderne "un eccesso di potenzialità condensata,
non in armonia con le condizioni del nostro bilancio e con le esigenze dfensive, benché rafforzi grandemente la capacità offensiva della.flotta". Per il futuro sarà perciò opportuno limitare il loro numero perfezionandone le caratteristiche strategiche. In quanto alle altre nostre cinque "grandi navi tattiche" da 10-11.000 t, esse hanno una velocità, ormai insufficiente, di 14- 16 miglia al-
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l'ora; quindi difficilmente potranno sfruttare il loro armamento e dovranno essere utilizzate in modo da non menomare l'efficienza dell ' insieme delle navi di linea. A loro volta i sei incrociatori torpedinieri dovrebbero costituire "la massa preponderante della.flotta", ma il loro numero è troppo esiguo anche tenendo conto degli altri quattro in costruzione; dovrebbero comunque essere migliorate le loro caratteristiche difensive e la loro velocità. TI gruppo degli esploratori strategici, così come il gruppo degli esploratori e la flottiglia torpediniera, corrisponde bene al loro compito. La prospettiva strategica di D.B. rimane ben ferma al contrasto della flotta francese nel bacino del Tirreno, e per le esigenze difensive in questo bacino egli ritiene la nostra flotta nel complesso rispondente, almeno dal punto di vista qualitativo; comunque con l'incremento delle costruzioni del naviglio da crociera potrà essere equilibrata meglio la preponderanza eccessiva del gruppo di grandi navi. E attenuando le punte polemiche del passato, D .B . questa volta riconosce che l'indirizzo generale delle nostre costruzioni in questo scorso ventennio fu sapiente quanto economico, creando, in mezzo ud infìnite difficoltà e perturbazioni, una flotta non seconda, qualitativamente, a quelle delle prime nazioni navali [Inghilterra, Francia, Russia - N.d.a.l. mantenendo costantemente ilprimato delle fanzioni strategiche [cioè del naviglio atto alla guerra di crociera N.d.a.J che è considerabile venga a ogni costo conservato, e non maggiormente compromesso da interpolati progressi.
A I confronto con la nostra, a suo parere la flotta francese risulta almeno qualitativamente inferiore in fatto di grandi navi, ma assai superiore negli incrociatori e torpediniere d'alto mare. Ancora più marcata la superiorità francese nel naviglio di 2a e Y categoria ( corazzate di ridotta velocità, guardacoste, incrociatori non protetti, naviglio costiero). Preoccupante soprattutto il ritmo degli stanziamenti francesi per nuove costruzioni (80 milioni all'anno, contro i 35 dell ' Italia), che negli anni futuri accrescerà notevolmente la nostra inferiorità. Non manca un sia pur breve accenno di D.B. all'efficienza militare dcll'alleataAustria. L'esercito austriaco è superiore al nostro; non così avviene per la marina, le cui caratteristiche ne fanno una forza navale essenzialmente difensiva e "vincolata quasi integralmente alla tutela del bacino adriatico". Le caratteristiche geografiche di tale bacino, infatti, anche se consentono l' impiego di grandi navi "meglio corrispondono al naviglio di medio tonnellaggio, purché dotato di qualità strategiche sufficienti al compito difensivo". Comunque "la .flottiglia torpediniera [austriaca], benché scarsa pel compito difensivo cui deve quasi da sola soddisfare, ha però nelle condizioni della costiera dalmata e istriana un grande fattore di efficienza che manca al naviglio torpediniera italiano [lo stesso potrebbe dirsi per gli altri tipi di naviglio - N .d.a.]". Nel complesso, al confronto con le altre nazioni secondo D.B. lo svantaggio principale dell' Italia non sta nei pur carenti armamenti, ma in cau se di carattere morale:
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tutte le funzioni organiche sono infette di morbosità essenzialmente, se non esclusivamente italiane, poiché il male che logora la Marina e l'Esercito, quanto le altre istituzioni. e che il laid Clowes non comprese, è il male del paese; di un paese che non è ancora nazione, di una nazione che non è Stato, di uno Stato che da circa vent'anni è davvero "nave senza nocchiero in gran tempesta" con tutto quello che ne segue. 44
Ne consegue che il peso internazionale dell'Italia è inevitabilmente debole. Questa debolezza le deriva naturalmente dalla sua gracile e newvpatica esistenza, dalla mancanza di una forte e sana educazione civile e militare, dalla insufficienza di tutti i poteri dello Stato; da una deficienza generale di serietà; dal deprezzamento di qualsiasi merito vero e onesto; dal trionfò spudorato dell'affarismo, del fariseismo, del ciarlatanesimo e di tante altre doti plebiscitarie integranti le speranze della .futura civiltà. Molte e troppe cause intellettive e morali concorrono a menomare la potenzialità militare dell'Italia e tra queste gioverà forse ricordare il radicalismo, il vaticanesimo, la massoneria. la stampa irresponsabile, il parlamentarismo, il dualismo continentale-marittimo... 45
Naturalmente D.B. insiste molto sui mali che provoca all'Italia "il dualismo continentale-marittimo", la cui persistenza dimostra che le sue idee del 1879-1881 non hanno affatto trovato un terreno favorevole né nel l'esercito né nella marina, perciò non hanno neppure prodotto idonei strumenti di raccordo. In merito, egli osserva che l'unità di indirizzo nella preparazione della guerra non solo è menomata dalla coesistenza di divergenti obiettivi e dalla profònda perturbazione della coscienza nazionale, ma è ancora vulnerata dalla mancanza di qualsiasi istituzione che tenda ad attenuare le funeste conseguenze del dualismo continentale e marittimo. L'Italia non ha, come hanno l'Impero germanico e quello austriaco, unafimzione direttiva integrante tutte le vitalità militari [cioè un valido organismo centrale interforze - N.d.a.]. Il Comitato della difesa nazionale [organo consultivo e paritario del quale fanno parte alti esponenti dell 'Esercito e della Marina - N.d.a.], data l'indole della nostra costituzione politica, l'esclusivismo continentale e marittimo dell 'alta quanto della minore gerarchia dell'esercito e dell'armata; le infinite difficoltà, naturali o fomentate, che s 'oppongono allo .tviluppo delle affinità, provocando l'accentuazione delle tendenze repulsive, ecc ecc., non poteva riuscire che una istituzione superflua, quantunque consultiva, ed insufficiente al conseguimento dell'altissimo scopo. La possibilità di risolvere con vantaggio del paese, dell'esercito, dell'armata [navale] questa vitale questione non può escludersi, ma la probabilità di questa possibile quanto imperiosa soluzione è così microscopica da costringerci a concludere che il dualismo direttivo, è, sarà funesta dote d' infiniti
.. In "Rivista Marittima" 1895, Voi. II Fase. VI. 45 ivi.
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guai finché non piaccia alla Prowidenza, divina o umana, d 'illuminare la coscienza nazionale coi raggio "di quella fede che vince ogni errore".46
Il pessimismo di D.B. non è certo ingiustificato, visti gli "infiniti guai" che il mai risolto dualismo ha provocato nel secolo XX, specie nella guerra 19401943 e nel dopo-guerra vicino e lontano. T1 pregio maggiore della sua indagine, comunque, non deriva da considerazioni contingenti sulla situazione politico-militare europea italiana, ma da spunti teorici relativi alla geografia politica, termine da lui espressamente usato anche in questa occasione ( dandogli inconsapevolmente il significato che noi - diversamente da altri - siamo oggi propensi ad attribuire a geopolitica). In effetti il suo è ancora una volta un approccio eminentemente geopolitico, perché partendo dalla valutazione dei condizionamenti costanti del fattore geografico realizza una armonica fusione di tale fattore con quelli di carattere eminentemente politico-sociale, economico e militare, dando così un esempio forse insuperato di utilizzazione della geopolitica per giungere alla definizione della miglior linea d'azione politico-militare per l'ltalia e l'Europa. Un approccio, comunque, che non è mai anbrustamente tecnico-m ilitare o di real politik, ma tiene attento conto di contingenti fattori interni e in tal modo fa emergere anche il legame tra politica estera - e se si vuole, geopolitica - e politica interna, in un dato momento storico.
SEZIONE III - La teoria del potere marittimo e il confronto organico con Mahan e Callwell (1897-1899) Perché anche Callwell? Lineamenti generali dell'approccio L' esame particolareggiato delle due principali opere di Mahan, L'influenza del potere marittimo sul/a storia 1660-1783 (1890) e The injluenceofseapower upon French Revolution and Empire (1892 - mai tradotta in italiano), rappresenta il culmine della riflessione teorica di D.B. e meriterebbe maggior spazio di quello che possiamo dedicargli. Sotto questo profilo, i citati studi del 1895 sono solo il preludio di un impegno teorico ben maggiore e a carattere organico, al quale il Nostro come si è visto, dedica otto lunghi articoli sulla "Rivista Marittima" daU'ottobre 1897 al febbraio 1899 intitolandoli Mahan e Callwell, che segnano il culmine della sua riflessione teorica e per questo caso raro sono tradotti in tedesco dalla Marine Rundschau e in inglese (dal Journal of the U.S. Artillery di luglio-agosto 1901) proprio negli Stati Uniti, patria di Mahan. Come si deduce dal titolo, in questi articoli (poi raccolti dalla Rivista Marittima in un opuscolo dello stesso anno 1899) egli non si limita a una va-
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ivi.
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lutazione non esente da critiche delle idee di Mahan, ma le mette a confronto e le integra con quelle espresse in un altro libro coevo del maggiore d'artiglieria (poi generale) inglese Charles E. Callwell (The effects of maritime command since Waterloo, pubblicato nel 1897 e tradotto in italiano nel 1898 a cura del Comando del Corpo di Stato Maggiore dell'Esercito). 47 Amante - al contrario di D.B. - del periodo velico ma assai poco di quello del vapore, Mahan nei due libri citati conclude la sua analisi storica con la fine delle guerre napoleoniche (1815), mentre la materia trattata da Callwell invece inizia proprio là ove tcnnina il celebre americano, quindi tratta anche le guerre combattute nell 'età del vapore nella seconda metà del secolo XIX. Più in generale, così come Mahan è interprete dell'anima marittima americana Callwell rispecchia la mentalità inglese. Rimane perciò lontano da astrazioni teoriche o da interpretazioni troppo "navaliste", perché la grande strategia inglese fino a quel momento è stata basata su un'armonica, flessibile e empirica divisione dei ruoli tra esercito e flotta, nella quale il dominio dei mari sempre e ovunque mantenuto dalla Royal Navy le ha consentito di incrementare la mobilità delle forze terrestri, di sostenerle logisticamente e di supplire alla loro inferiorità. Con questi contenuti essenziali gli ammaestramenti che l' autore inglese trac dai contlitti del secolo XIX, più delle teorie di Mahan si attagliano alla tematica della correlazione terrestre-marittima che anche a fine secolo rimane al centro dell'attenzione di D.B., e in certo senso concorrono alla verifica in chiave europea e italiana di alcune affermazioni dello stesso Mahan. Va chiarito subito, infatti, che lo scrittore americano così scolpisce le finalità dei suoi scritti (che tendono a superare il concetto angustamente tecnico di histoire-bataille, al tempo ancor più in auge in campo marittimo che in campo terrestre): "obiettivo pratico di questo studio è di ricavare dalle lezioni della storia considerazioni applicabili al proprio paese e alla propria Marina". 48 Se l'obiettivo è questo, Mahan non può essere certo fautore - come D.B. - della guerra di crociera. Lo precisa egli stesso, che a ragione - ma solo per il proprio Paese - non vede alternative alla guerra di squadra: in caso di guerra quali forze possono essere spedite contro di noi? Forze navali soltanto, perché gli Stati Uniti non hanno punti esposti su cui possano essere dirette operazioni terrestri di carattere decisivo [ben diversa è la situazione dell'Italia prospettata dal Bonamico - N.d.a.). Questa è la natura della forza ostile che gli Stati Uniti devono temere: ma quanto grande può essere? Questa è la misura della forza di cui abbiamo bisogno...
Riguardo al rapporto tra Mahan e Callwcll D.B. riconosce subito che senza aver studiato Mahan non si può ben capire ciò che scrive Callwell ; quc-
47 Traduz. it. Torino, Casanova 1898. Si veda anche l 'entusiastica rece ns ione di D.B. a questo libro in "Rivista Militare Italiana" 1898, Voi. II Fase. I V. 48 A.T. Mahan, /, 'inflwm,a . . (Cii.), p . 116.
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st'ultimo "non consegue quasi mai la vasta e profonda ricettività del Mahan, e raramente indaga le fonti della potenza marittima e della situazione militare e politica delle nazioni belligeranti". Ciò non toglie che il libro del generale inglese è da lui giudicato come "il proseguimento e il compimento del!'opera del Mahan, benché ne differisca per il procedimento dimostrativo della influenza esercitata dal potere marittimo, e per l'applicazione speciale della teoria alle campagne di guerra continentali, ciò che il Mahan non fece che in modo indiretto e assai spesso troppo supetfìciale". Le dichiarate finalità dell'opera di D.B. derivano appunto da queste caratteristiche: uno studio critico parallelo delle due opere insigni riuscirehhe di grande interesse e utilità non solo agli U:fficiali di mare, ma specialmente agli ufficiali degli eserciti di nazioni marittime, i quali assai poco apprezzano l'importanza del potere navale ed anche meno conoscono la letteratura storica militare marittima [ ... ] difficilmente potrebbe offrirsi agli uomini di poca fède o di fariseismo marittimo una dimostrazione più teorica e una prova più sperimentale di quella che emergerehhe dalle due opere.fuse insieme da una critica sapiente e appassionata.
A questo punto è opportuno un breve chiarimento epistemologico e linguistico sul termine potere marittimo (Sea power), che come ricorda il Crowl - Mahan si vanta di aver usato per primo. 49 Evidentemente ha torto, visto che tale vocabolo è stato introdotto quasi ottant'anni prima dal napoletano Giulio Rocco, con le sue Riflessioni sul potere marittimo del 1818 (Vol. I, capitolo XVI) dandone una definizione compiuta ancoroggi accettabile, che invece manca sia in Mahan che nello stesso Bonamico. Callwell parla invece di maritime Command, dominion of waters, mari time preponderance, perché il suo interesse non è di carattere epistemologico ma è esclusivamente rivolto ai risultati, agli effetti militari, e in particolare sulle operazioni terrestri - di quello che a sua volta Giulio Rocco chiama "il prodotto [militare] del potere marittimo", cioè il dominio del mare. Mentre il potere marittimo è solo una possibilità, un insieme di fattori allo stato potenziale da utilizzare in vario modo, il dominio del mare lo traduce in atto e ne fa sentire gli effetti militari. Tale dominio rispecchia una situazione che ne deriva non automaticamente, ma va conquistata con accorta e opportuna utilizzazione dei suoi clementi; al tempo stesso, oltre a conquistarlo conserva il potere marittimo, lo mantiene o accresce, garantisce le condizioni per il suo sfruttamento, e - se perduto - causa anche la sua parallela riduzione e scomparsa. Si può anche dire che mentre il potere mariUimo è una categoria prevalentemente politico-sociale ed economica, dipendente in primis da fattori geografici, il dominio del mare ne è invece l'espressione militare.
49 P.A. Crowl, A.T. Mahan: lo storico navale (in AA.VV., Guerra e strategia nell'età conlemporanca - u curn di P. Parei} Genova, Marictti 1992, p. 160 e Nota 23 a p. 183.
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Va ancora aggiunto che, come si è visto (Voi. l, cap. V e XVII) un termine fondamentale come potere marittimo è ignorato non solo dai dizionari di marina del secolo XIX (ivi compreso quello del Gugltelmotti) ma anche da quelli del XX secolo (si veda, ad esempio, il Dizionario di Marina Medioevale e Moderno dell'Accademia d'Italia - 1937). Dominio del mare e potere marittimo sono cose ben distinte: è quindi un errore quello dcll 'Enciclopedia Militare 1933, che con la voce "potere marittimo (dominio del mare)" presenta questi due diversi termini come sinonimi. Sbaglia anche il Manfroni, il quale nelle sue traduzioni di Mahan rende "Sea power" come "dominio del mare" o (raramente) "preponderanza marittima", senza mai usare il termine "potere marittimo". TI Manfroni usa frequentemente anche la parola "potenza marittima", la quale non è altro che la traduzione italiana del francese puissance maritime, riportata, come si è visto, anche dai nostri dizionari del secolo XIX. Nessun autore francese antico o recente ha mai usato, infatti, il termine pouvoir maritime o suoi sinonimi; tutti hanno usato puissance rnaritime e rnaitrise de la mer (quest'ultimo termine equivale all'inglese command ()fsea o maritime command e all'italiano dominio del mare). D.B., dunque, ha il merito di essere il primo autore italiano ad approfondire i contenuti teorici dei termini potere marittimo e dominio del mare, che i I Manfroni e altri confondono; rimane, però, una sua non lieve colpa l'aver ignorato - come del resto hanno fatto i compilatori dei dizionari italiani- il libro di Giulio Rocco e il suo primo tentativo di analizzare il potere marittimo e alcuni suoi pratici risvolti, in una prospettiva mediterranea tra l'altro molto più adatta alle nostre esigenze nazionali di media potenza delle riflessioni storicistiche di Mahan, tagliate su misura per una grande marina oceanica che aspirava al dominio del mare, com'era quella degli Stati Uniti. In linea generale D.B. riconosce a Mahan il merito fondamentale di aver tracciato le situazioni generali politiche nelle quali si inquadrano gli avvenimenti militari e navali "alla napoleonica, con un 'ampiezza e profondità di vedute che raramente si incontrano nelle più pregevoli opere storiche degli anLù:hi e dei moderni scrittori". Il Callwell, invece, non si preoccupa di delineare i contorni degli avvenimenti militari, i quali così "campeggiano troppo isolati, e diffìcilmenle si armonizzano collo sfondo scarso di colore e luce sul quale vengono proiettati". In compenso lo storico inglese ben descrive le operazioni terrestri e marittime "e la correlazione che doveva derivare, anche se non è avvenuta, fra le operazioni degli eserciti e quelle delle.flotte". Questi aspetti furono assai poco curati dal Mahan, il quale ''poco o punto considera la situazione degli eserciti nei loro rapporti dinamici colle armate, limitandosi quasi sempre, esclusa forse la guerra della indipendenza americana, a mettere in evidenza gli efjètti storici e politici, anziché quelli strettamente militari, della talassocrazia". 50
5-0 Ciò è vero per l'Influenza del potere marittimo sulla storia ma non per gli si;ritti s uo.;ccssivi, nei quali Mahan non disconosce affatto il ruolo delle forze terrestri e la necessitù di un \ormonico com-
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Più che al Callwcll, comunque, le critiche di D.B. sono indirizzate a Mahan. A tal fine, egli riprende largamente i risultati di una precedente analisi di Camilla Manfroni, a torto imputando allo stesso Manfroni di aver trascurato l'opera del Mahan che riguarda la Rivoluzione Francese e l'Impero (da ambedue giudicata "di gran lunga superiore" all'Jnjluence upon history). D.B. omette, invece, di considerare che i rilievi del Manfroni sono limitati alla parte più propriamente storica e alla metodologia seguìta, trascurando la parte più propriamente teorica c navale per la quale non si ritiene competente. Le principali lacune riscontrate dal Manfroni sono le seguenti: 1°) incompleta fusione della parte storica con la parte strategica; 2°) aver troppo trascurato il periodo della preponderanza mediterranea su quella oceanica, e in special modo il conflitto turco-veneto; 3°) essersi avvalso quasi esclusivamente di fonti inglesi e francesi, trascurando le "importantissime" fonti italiane e spagnole; 4°) aver fatto un'eccessiva esaltazione dei sistemi politici e navali inglesi, "occultandone spesso i grandi errori e le violente tirannidi marittime"; 5°) aver considerato solo i conflitti deJle "quattro grandi nazioni nordiche coloniali", trascurando le vicende delle marine secondarie (la sveva, la danese, la portoghese), molto interessanti per la teoria del Sea power; 6°) scarsa conoscenza da parte del Mahan, che pure è anglofilo, dei più recenti orientamenti della pubblica opinione in Inghilterra; 7°) incompleta e imperfetta descrizione delle situazioni generali europee, specie queJle della metà del XVII secolo, 8°) "i/ capitolo riguardante gli elementi del potere marittimo, benché di grande valore, non può considerarsi completo, e la discussione non abbastanza esaurita"; 9°) nelI'lnjluenza del potere marittimo sulla storia manca una sia pur succinta conclusione, che riassuma i concetti "disseminati e quasi dispersi'' nell ' interaopera. D.B. condivide questi giudizi, giudicandoli peraltro troppo severi specie riguardo all 'armonia tra la parte storica e strategica (che "se non è perfetta, assai si approssima alla perjèzione") e al periodo mediterraneo e turco-veneto, per il quale lo scrittore americano a suo avviso ha fatto bene a non occuparsi del periodo rcmico, impelagandosi in questioni militari troppo divergenti da quelle del periodo velico, principale meta delle sue riflessioni. TI "diverso parere" di D.B. ci sembra condivisibile, visto che nell'Influenza del potere marittimo sulla storia Maban non attribuisce certo scarsa importanza al Mediterraneo, osservando anzi che questo mare "interno" dal punto di vista geostrategico rivela rispetto a quello dei Caraibi interessanti analogie, destinate ad accentuarsi con l' apertura del Canale di Panama. Di conseguenza secondo Mahan uno studio delle sue condizioni geostrategiche, che hanno una lunga storia, "sarà un 'eccellente premessa ad uno studio similare del Mar dei Caraibi". 51 Per inciso, da queste considerazioni del Mahan si può dedurre che il suo inte-
binazione <lelle loro operazioni con quelle <lelle forze navali (si veda, in particolare, l'opera Naval strategy compared and cm1tra~ted with the principie and practice ofmilitary operations on land, London, Sampson aod Co. 1911). "A.T. Mahan, L injl11enza ... (Cit.), p. 68. 0
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resse per i "mari ristrettt' non è dovuto, come oggi a torto taluni sostengono, a principi generali o a pregiudiziali teoriche, bensì a ben precisi e contingenti interessi strategici nazionali. Le riflessioni di D.B., comunque, non intendono eliminare tutte le lacune del Mahan ma si incentrano sulla parte teorica riguardante più strettamente il potere marittimo, insieme con gli elementi che lo determinano e ne rendono possibile l'esercizio. A tal fine intende fondere insieme gli apporti - integrantesi a vicenda - di Mahan e Callwell, in modo da unificare la teoria del Sea power esaminandone in successione - e con costante riferimento ali 'analisi già compiuta da Mahan - i seguenti aspetti: - la teorica elementare, cioè i fattori "concreti e commensurabili" che determinano il grado di efficienza del potere marittimo e ne condizionano le successive fasi "di sviluppo, di efficienza, di stazionarietà e di decadenza"; - il fondamento storico, cioè i conflitti che meglio si prestano a dimostrare la validità dei concetti teorici prima individuati; - la ragione politica, cioè il complesso dei fattori e delle condizioni di carattere politico-sociale ed economico che consentono il maggior incremento e la massima utilizzazione del potere marittimo e navale; - la ragione militare, cioè "quella parte della teorica del Sea power che considera l'utilizzazione e l'impiego degli elementi di potenzialità marittima allo scopo della più efficienza risoluzione del conflitto"; - la sintesi conclusiva <lei concetti prima enunciati (che, come si è visto, manca nell'Influenza del potere marittimo). Più che critiche, queste considerazioni sembrano una stroncatura poco compatibile con l'attenzione che D.B. dedica alle questioni teoriche di fondo che il Mahan ha pure il merito di aver affrontato prima di lui.
La critica ai sei "elementi potenziali del Sca Power" di Mahan
Lo studio di D.B. sul potere marittimo risulta suddiviso in cinque ben distinte parti, ciascuna corrispondente a uno degli argomenti prima indicati. Nella prima parte, corrispondente alla teorica del potere marittimo, D.B. sottopone a critica severa quanto afferma Mahan nel celebre capitolo l deHa sua Influenza del potere marittimo sulla storia, discutendo gli elementi potenziali del Sea power da lui indicati (Cfr. Nota 40). Secondo D.B., tuttavia, questa classifica non è completa perché trascura alcuni/attori importanti; 11011 è ordinata perché ajfàstella insieme, e ~p esso corifonde.fra loro, elementi di carattere e di effetto diverso; non è sufficientemente studiata poiché non distingue gli elementi della genesi da quelli dello sviluppo, della ~/7ìcie11za, del decadimento, gli elementi naturali da quelli complementari, i costanti dai variabili, gli statici dai dinamici.
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A proposito della posizione geografica D.B. rileva che Mahan, ritenendo la forma insulare ideale e tipica del l'Inghilterra, ha trascurato il "dualismo continentale e marittimo esterno" derivante dalla forma peninsulare, molto frequente in Europa perché tipica della Grecia, dell'Italia, della Spagna alla quale di avvicinano anche la Francia, l'Olanda e Venezia. Perciò la forma insulare alla quale lo scrittore americano dà rilievo è solo un caso eccezionale, "mentre le forme peninsulari e quelle affini si presentano assai più comuni e hanno ciò nondimeno esercitato una suprema influenza marittima sulla storia". L'Inghilterra secondo D.B. è lo Stato che riunisce in misura maggiore i vantaggi della posizione geografica, mentre "la Francia e la Spagna hanno geograficamente imperjèzioni assai grandi''. Contrariamente a quanto sostengono gli scrittori della Jeune École, infatti, la Francia non trae grandi vantaggi dalla sua posizione geografica, perché la sua frontiera orientale "a contatto di due grandi nazionalità [la Gennanica e la russa - N.d.a.], che tendono ad accrescere il loro potere marittimo, e che accentrano un grande potere continentale, sarà sempre un grande elemento di ostacolo alla sua potenza marittima". La Spagna come Venezia, la Danimarca e l'Olanda deve al "dualismo continentale e marittimo interno" (presenza del Portogallo e di Gibilterra) la sua cancellazione dal novero delle potenze marittime. L'Olanda infine, come Venezia, non deve la sua passata potenza marittima alla posizione geografica ma a eccezionali contingenze politiche e ad altri fattori del potere navale. Riguardo al secondo elemento, la conjòrmazione fisica, D.B. giudica l'analisi di Mahan "incompleta e imperfètta", perché mescola insieme fattori costanti e esattamente configurabili (come la climatologia, la geografia fisica e militare, ecc.) con altri (come gli ordinamenti politici, il carattere della popolazione, l'industria marittima ecc.) che sono mutevoli perché derivano dall'influenza dell' uomo, e andrebbero perciò distinti dai precedenti. Anche la trattazione del terzo elemento, l'estensione territoriale, non è esente dalle sue critiche, perché Mahan la considera soprattutto in rapporto alla densità della popolazione marinaresca: quindi questo argomento - egli scrive - avrebbe dovuto essere meglio sviluppato trattando del quarto elemento, riguardante appunto il numero della popolazione. D'altra parte, sempre secondo D.B. l'estensione territoriale è uno dei caratteri della conformazione fisica, quindi avrebbe dovuto essere trattata con il secondo elemento. A proposito del quarto elemento, il numero della popolazione, D.B. rileva che Mahan commette due errori: a) considera la quantità di popolazione, le risorse e la capacità industriale marittima tutte insieme come fattori che costituiscono la riserva utilizzabile per alimentare i conflitti. Invece bisogna distinguere, perché una nazione [come nel caso dell'Italia - N.d.a.] può benissimo avere una popolazione numerosa e poche risorse e industrie; b) considera esclusivamente la popolazione marinaresca, quando invece "la totalità della popolazione esercita non solo indirettamente, come lo prova l'emigrazione germanica e italiana, ma ben anche direttamente una considerevole influenza sul po-
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tere navale, quando non lo si circoscriva nel periodo velico ma si estenda, come è logico, a tutti i periodi storici''. Sempre secondo D.B. Mahan tratta il quinto elemento - il carattere della popolazione - in forma abbastanza completa, anche se la sua esposizione è "alquanto disordinata e saltuaria". Egli comunque non concorda del tutto con l'affermazione di Mahan che "la tendenza al commercio, comprendente necessariamente la produttività, è la caratteristica nazionale più importante per lo sviluppo del potere marittimo". A suo parere, occorre tener conto anche delle "attitudini militari e marinaresche" di una nazione, perché "per quanto favorita da istinti commercia/i, una razza se non possiede sufficienti attitudini militari non potrà conseguire un adeguato potere continentale e marittimo, come lo dimostra la storia del popolo ebreo". Mahan, poi, non accenna mai alla distinzione tra attitudine alla guerra terrestre e attitudine alla guerra marittima; sotto questo profilo "la Francia considerata marittimamente ha molte affinità colla Turchia. L'una e l'altra posseggono in altissimo grado la virtù guerriera continentale, non però quella marinaresca, e gli eccitamenti educativi del Colbert, del Choiseul e della Jcune École poco valsero e varranno a migliorare le istintivitò della razza". A proposito della.forma di governo D.B. ritiene che "è impossibile precisare a quale forma di governo Mahan accordi la maggiore efficienza nelle varie .fasi organiche del potere navale[ ... ] onde manca alla teorica una delle afJèrmazioni più importanti". Personalmente si dice convinto che, sulla base del1'esperienza storica (marineria romana, veneta e britannica, e fino a un certo punto anche le marinerie cartaginese e genovese) il sistema di governo migliore sia quello aristocratico (non quello dittatoriale), nel quale però "per aristocrazia s'intende non già una casta chiusa e intangibile come quella .feudale e quella di Roma dopo l'avvento dell'Impero, di Venezia dopo la chiusura del libro d'oro, ma bensì una solidarietà di ottimati aventi una larga base elettiva nel popolo ed una stabilitò di classe affermata per selezione dagli statutari diretti''. Questa forma di governo unisce i vantaggi delle forme di governo autocratico e democratico e riduce al minimo i loro vantaggi. Infatti i Governi assoluti e dittatoriali facilitano lo sprigionamento delle energie nazionali, sono quasi indispensabili per far nascere l'organismo marittimo, sono in grado di creare con rapidità gli elementi militari del potere navale, ecc., "ma sono troppo spesso instabili, discontinui, [ ... ] artificiosi ed ~[fimeri, arbitrari, capricciosi, vanitosi, ingiusti, immorali ed i loro difetti sono più gravi delle loro virtù, le conseguenze della loro autocriticità più funeste che benefiche". A loro volta i Governi rappresentativi e a larga base democratica hanno scarsa capacità di suscitare le energie nazionali, sono "corruttibili e corrompenti anche più dei regimi autocratici", lenti nella gestazione e capricciosi nei metodi. Anche se consentono, specie nei momenti di pericolo, una grande fusione di in lenti e di bisogni fra nazione e governo, "difficilmente pre vedono e più dif/ìcilmcntc prov
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vedono in tempo" e appena cessato il pericolo, lasciano dissolvere le energie e svanire ogni intrigo di governo.
I contenuti del potere marittimo e la critica al concetto di strategia del Mahan Nella seconda parte del lavoro D.B. procede a una scelta del materiale storico esaminato sia da Mahan che da Callwcll, osservando che Mahan ha limitato il suo esame a una sola parte del periodo velico, mentre l'opera del Callwell è riferita soprattutto alla breve durata del "periodo elica" (cioè del vapore). Di conseguenza "non potevano, né l'uno né l'altro, sviluppare in modo completo la teoria del potere marittimo" e il loro contributo si è limitato "a considerazioni alquanto indeterminate, per quanto utili e sapienti''. Ciò premesso, D.B. sceglie: - come esempio di dominio assoluto del mare da parte di uno dei contendenti, la guerra di Crimea 1853-1856 già commentata dal Callwell, appartenente ali' età del vapore; - come esempio di dominio fortemente contrastato e non conseguito durante l'intero periodo della guerra, il conflitto anglo-franco-olandese del 1652-1674, commentato da Mahan nei capitoli II e III dell'Influenza del potere marittimo sulla storia; - come esempio di dominio contrastato ma conseguito durante la guerra, il conflitto cino-giapponese del 1894-1895, anch'esso esaminato solo da Callwell. Queste di D.B. sono scelte che danno adito a parecchi dubbi: ad esempio non si sa perché preferisce il conflitto anglo-olandese del secolo XVll alla guerra d'indipendenza americana 1775-1783, da lui pur giudicata "importantissimo conflitto per il contrastato dominio, per la intensa correlazione costiera e navale in tutti i teatri di guerra". E anche se in un primo tempo si ripromette di trattare la guerra di secessione americana 1861-1865, perché "offre vastissimo campo di correlazione continentale-fluviale e marittima" dando solo un rapido sguardo alla guerra cino-giapponese, per motivi ignoti fa esattamente il contrario ... Desta, infine, meraviglia che uno scrittore navale italiano trascuri la guerra del 1866, tanto più che la battaglia di Lissa era la più importante del periodo del vapore combattuta in Europa, fino a quel momento: ma in questo caso D.B. si giustifica (male) scrivendo che tale guerra non presenta "come poteva e doveva presentare" alcun esempio di correlazione terrestre-marittima, perciò lo avrebbe condotto a una severa critica a causa "del non conseguito dominio del mare e della mancata correlazione tra eserciti e flotte". La critica era, forse, ancora un danno? Dai conflitti esaminati, comunque, D.B. trae la conclusione generale- piuttosto ovvia che i risultati effettivamente conseguiti quasi mai hanno corri-
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sposto a quelli che avrebbero potuto essere ottenuti se tutti i fattori della potenza militare degli Stati fossero stati sfruttati a fondo. In particolare la guerra di Crimea ha provato che l'influenza storica del potere navale può essere assai piccola. mentre l'efficienza di questo potere era grandissima e i suoi effetti sulla guerra territoriale vittoriosamente risolutivi. Le guerre anglo-franco-olandesi hanno provato che, ad onta di una grande preponderanza di potenzialità marittima, il dominio del mare può essere dal nemico efficacemente contrastato ed i risultati conseguiti non corrispondenti a quelli che I'oltrepotenza anglo-francese consentiva di conseguire. 11 conflitto cino-giapponese, come quello austro-italico, ha dimostrato che gli elementi concreti e commensurabili di potenzialità possono essere inefjìcienti anche quando la pubblica opinione li considera preponderanti. Il conflitto ispano-americano ha messo hene in evidenza l'inutilità di un efficiente potere navale quando esso non è avvalorato dagli elementi incommensurabili da cui ne dipende l'applicazione nel conflitto [non è vero che il potere navale spagnolo era efficiente - N.d.a.].
Trascuriamo le pur interessanti considerazioni di O.R. sulla "ragione politica" del potere marittimo, che esamina estendendo le considerazioni degli scritti precedenti e distinguendo tra cause politiche che influiscono sulla intensità del potere navale, cause politiche che influiscono sulla sua continuità, e cause politiche che determinano la gestione della energia marittima. Di rilievo, comunque, l'affermazione che la completa utilizzazione delle energie che costituiscono (o dovrebbero costituire) il potere marittimo, dipende sia dall'azione del Governo che dalla coscienza nazionale. Di questi due fattori il più importante è l'azione del Governo, la quale "è quasi sempre determinante genetica, impulsiva e direttiva della coscienza popolare". L'azione del governo è tanto più necessaria per l'Italia, perché si trova forse più di qualsiasi altro Stato nella necessità di vitalizzare la sua coscienza marittima: i° per la recente costituzione de lla sua unità; 2° per la mancanza di ben determinate obiettività nazionali; 3° per la preponderanza del potere continentale derivante dalle condizioni del risorgimento politico; 4° per la sua grande vulnerabilità marittima; 5° per la insujjìcienza di molti se non di tutti gli elementi naturali e commisurabili del potere navale, non ancora utilizzati.
Un' ultima critica di D.B. a Mahan in merito alla "ragione politica" è che tra gli elementi incommensurabili del potere navale non comprende la civiltà, forse perché i conflitti da lui studiati non sono avvenuti tra popoli di diverse civiltà. Invece "la civiltà costituisce uno degli elementi principali di potenzialità degli Stati"; lo dimostrano il recente conflitto cino-giapponese, che offre l'occasione di esaminare l'influenza di due diverse civiltà, e quello ispano-americano, nel quale è emersa "la diversa efficienza di due civiltà, se non sostanzia/mente distinte, abbastanza dissimili p er determinare una speciale influen-
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za militare". E anche i conflitti futuri che si preparano in Estremo Oriente (qui D.B. è buon profeta) "offriranno più largo campo alle dissimili influenze di diverse civiltà...". Per ragione militare D.B. intende "quella parte della teorica del Sea power che considera l'utilizzazione e l'impiego degli elementi di potenzialità marittima allo scopo della più efficiente risoluzione del conflitto". Il processo di utilizzazione degli elementi che compongono il Sea power si scinde in: I 0 ) la preparazione generale militare; 2°) la lotta per il dominio del mare; 3°) l'utilizzazione di tale dominio. Quattro gli aspetti da sottolineare in questa parte: a) la critica al concetto di strategia di Mahan; b) la conferma dell'antica diffidenza del Nostro per la battaglia decisiva a flotte riunite; e) al tempo stesso, un atteggiamento più critico nei riguardi della guerra di corsa; d) la conferma dei limiti dell'opera del Callwell, il quale "non esprime mai apprezzamenti sintetici di carattere esclusivamente navale, e perciò l'opera sua, se giova a confermare i concetti teorici espressi dal Mahan, non porge altro completamento alla teorica del Sea power, che quello riguardante la correlazione fra gli eserciti e le armate". Per D.B. una buona preparazione militare implica, a monte,
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buona pre-
parazione politica, ma non necessariamente vale il contrario (in tal modo egli si discosta da Clausewitz, il quale sostiene che una buona politica deve tener conto anche delle esigenze e possibilità militari). Questo perché se la scienza della guerra collima con quella politica, esse costituiscono due specialità della scienza dello Stato, che se in passato poterono compenetrarsi e anche unificarsi, per ragioni di civiltà e di scienza, in una medesima casta militare, dirigente ed operante, le attuali condizioni della civiltà e della scienza non lo consentono [... ]. Le nozioni generali della scienza dello Stato devono quindi essere comuni tanto alla gerarchia politica quanto a quella militare, ma una più ampia e intima immedesimazione nuocerebbe ad entrambe, impregnando di politica il senso militare e di militarismo quello politico e creando così quegli ermafroditismi che galleggiano spesso al sommo delle gerarchie amministrative.
A parte quest' ultima, trasparente critica al vertice politico-militare italiano del momento, par di capire che D.B. si preoccupa soprattutto che il politico e il militare facciano ciascuno il suo mestiere, senza nocive interferenze. In parziale contraddizione con quanto detto prima a proposito della preparazione politica e militare, infatti, egli ammette che la parte politica deve essere cosciente "dell'indole e dei bisogni" della parte militare (ma vale anche il contrario, come pensa Clausewitz?). Discende da queste premesse la sua critica al concetto di strategia di Mahan, secondo il quale "la strategia navale ha per scopo di jòndare, sostenere e accrescere, tanto in pace che in guerra, il potere navale di una nazione". Poiché la preparazione politica e quella militare si possono e debbono compenetrare, ma "non sono collegate da un vincolo indissolubile", D.D. giustamente osserva che
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questa dejìnizione non è solo troppo vasta, perché comprenderebbe tanto la politica, quanto l'amministrazione di Stato, ma ancora militarmente troppo vag a e indeterminata, poiché essa nulla specifica e nulla determina che distingua la strategia dalla tattica e dagli altri rami della scienza militare, i quali tutti concorrono a support and increasc thc sca power of a country. Né vale il dire che le defìnizioni usualmente date per la parola strategia [tra le quali, evidentemente, anche quella di D.B. nel 1881 - N.d.a.] sono too narrow for naval strategy,perché non insegnano a cogliere, in tempo di pace, tutte le opportunità di stabilirsi in alcuni prescelti points of a coast in diiTerent seas.11 pmcedimento diplomatico non è mai stato considerato un procedimento strategico. Avere una.finalità ultima comune non esclude la specializzazione delle scienze militari come non esclude quelle delle altre scienze; né la finalità dell'arte esclude la distinzione della pittura e della scultura. Se si dovesse adottare la dt;flnizione del Mahan, bisognerebbe anche generalizzare con una sola dejìnizione le scienze politico-militari, ritornando a quelle del Machiavelli che arte della guerra intende tutta la sua dottrina che alla guerra si riferisce.
Sulla base degli ammaestramenti di tre secoli di storia, comunque, D.B. ritiene che "l'impreparazione militare è la c aratteristica di quasi tutte le guerre
marittime, anche se precedute da un periodo di intensa tensione e di sufficiente preparazione politica" . I principali clementi cbe influiscono (negativamente) sulla preparazione militare sono la mancata individuazione di obiettivi chiari e condivisi dalla pubblica opinione, il dualismo continentale-marittimo e la conseguente conflittualità tra Stati Maggiori di Forza Armata, l'insufficiente preparazione qualitativa (intellettuale e morale) delle forze combattenti, che è sempre inferiore a quella quantitativa, la minore efficienza della preparazione interna (militare e civile) rispetto alla preparazione politica internazionale, la minore preparazione politico-militare rispetto a quella dei gradi inferiori. Esaminando i diversi metodi con i quali si consegue o si contrasta il dominio del mare D.B. distingue poi tra metodi usati in campo marittimo e metodi usati in campo terrestre. La nazione che ha l'esercito più forte assume sempre e in ogni caso l' offensiva; in campo marittimo, invece, anche la nazione più forte può adottare una strategia difensiva. Ciò avviene quando la sua esistenza dipende in massima parte dalle comunicazioni marittime, quindi la flotta deve anzitutto difendere tali comunicazioni e la sua strategia diventa difensiva e non offensiva. Al contrario, se uno Stato non dipende per la sua esistenza dalle comunicazioni marittime, può permettersi l'offensiva anche con una flotta inferiore [caso molto poco frequente - N.d.a.]. La causa principale di questa differenza tra i criteri fondamentali della guerra marittima e quelli della guerra terrestre "sta nella interposizione di un mezzo disgiuntivo [cioè il mare - N.d.a.] di carallere assolutamente dissimile da quello sul quale si trovano gli obiettivi vitali del conflitto [che sono in terra - N.d.a.]". Infatti le flotte militari o mercantili costituiscono "un obiellivo risolvente" solo quando sono "l 'unico collegamento tra gli obiettivi territoriali''. Ne consegue che
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/'offensiva navale, per essere teoricamente risolutiva, deve implicare la possibilità di un 'offensiva territoriale risolvente, o provocare /'esaurimento della nazione nemica. Le/orze mobili navali, per gli effetti risolutivi dei conflitti, possono paragonarsi alle forze mobili territoriali soltanto quando possono provocare L'esaurimento del nemico. Questo fatto è solamente possibile quando I 'insularità o peninsularità sia insufficiente a garantire l'esistenza materiale di uno dei belligeranti e perciò quando questa esistenza dipenda quasi interamente dalla sicurezza delle vie marittime[ ...]. l'offensiva navale[... ] assai spesso non è che la modalità attiva della difesa marittima.
Questo concetto non salvifico, non categorico e non assoluto dei vantaggi dell'offensiva e dei riflessi del dominio del mare compare anche nel successivo esame delle quattro modalità con le quali esso è stato conseguito, contrastato e preservato: a) occupazione con forze terrestri dei centri vitali marittimi del nemico; b) paralizzazione delle forze navali del nemico mediante il blocco, onde preservare il già conseguito dominio; c) guerra esclusivamente navale tendente all'annientamento della flotta nemjca; d) distruzione del commercio marittimo tendente all' esaurimento della nazione avversaria. Alla prima modalità, cioè all'occupazione delle basi nemiche pervia di terra, possono ricorrere solo le nazioni che oltre ad essere forti per mare, lo sono anche in campo terrestre. A causa dell'insufficiente autonomia delle flotte, il periodo rcmico è rimasto inesorabi lmente vincolato a questo metodo; ma anche al momento "il dominio navale non può essere conseguito e esercitato senza l'occupazione territoriale di stazioni militari che tolgano al n~mico o conferiscano alle flotte l'esercizio del dominio". Di conseguenza tale occupazione "è la modalità più efficiente, più risolutiva della lotta per il conseguimento del dominio. Essa consente nel modo più completo e più duraturo l'esclusione del nemico dal mare". Quando l' obiettivo principale è l'occupazione territoriale, i criteri principali da adottare sono: a) limitare al minimo l'occupazione di posizioni territoriali, perché il potere territoriale quando non è indispensabile per garantire una posizione-chiave diventa "ingombrante e dannoso"; b) scegliere le posizioni da occupare in relazione alle caratteristiche delle forze navali, alle condizioni geografiche del teatro della guerra, alla possibilità di difenderle via mare, mettendole in grado di resistere a lungo; e) considerare il potere navale come fattore risolutivo del dominio, utilizzando il potere terrestre "per accrescere l'influenza o equilibrare le inefficienze temporanee del potere navale". D.B. prosegue osservando che la paralizzazione delle forze navali del nemico, poco usata nel periodo remico, è stata largamente praticata nel periodo velico, ed è "il metodo più ejjìciente, più economico, più strategico per contendere il dominio navale già conseguito". La sua efficacia dipende dalla natura delle flotte, alle quali richiede grande capacità nautica per lottare contro le avverse condizioni meteo, grande autonomia e grande economia per non esaurire rapidamente e con scarso profitto le risorse della mobilità. Sul rendimento
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che questo metodo fornisce nell'età del vapore egli - come lo stesso Mahan non si pronuncia in modo categorico. Osserva, tuttavia, che l'esperienza del periodo velico insegna che il blocco è preferibile quando il teatro delle operazioni è molto esteso e vi è scarso raccordo tra l'impiego delle forze terrestri e marittime, mentre diventa indispensabile quando le forze navali nemiche sono in grado di provocare rilevanti danni con minime forze: in conclusione, "noi riteniamo che i sistemi di guerra [al momento] tendano a riavvicinarsi a quelli del periodo remico, il quale non ci offre che assai discutibili insegnamenti in proposito". Sull'annientamento delle forze navali del nemico e sui suoi riflessi D.B. mantiene l'antica diffidenza per la battaglia navale a forze riunite. Questo metodo parrebbe fra tutti quello più perjètto e risolutivo, mentre riesce in pratica assai meno efficace per la consolidazione del dominio. Eliminare colla battaglia le forze mobili del nemico è certo il sistema più spicciativo di riuscire preponderanti per mare, ed offre inoltre il vantaggio del grande prestigio morale; però quando questo risultato non consente la successiva occupazione dei centri vitali del nemico, esso è un metodo più chiassoso che reale e definitivo. La battaglia è quindi obiettivo principale della guerra solo quando la situazione militare non consenta di assumere come obiettivo i centri vitali del nemico.
D.B. tratta, infine, l'ultima modalità in ordine d'importanza per conservare il dominio del mare, la distruzione del commercio o "guerra di corsa". Da notare che, inspiegabilmente, non parla più di "guerra di crociera", cioè di attacchi da parte di veloci e leggere navi militari da crociera (incrociatori) non solo al traffico mercantile ma anche ai convogli di sbarco nemici o al traffico che alimenta gli sbarchi. E dimenticando gli antichi entusiasmi tipici anche della Jeune École francese riconosce - allineandosi con Mahan - che questo è indubbiamente il metodo meno efjìciente, poiché implica/ 'incapacità di contendere o conseguire il dominio del mare, al quale si rinuncia, per esplicare una aggressività poco nobile, militarmente inefficace, ma che, date le circostanze eccezionali, potrebbe riuscire, benché non sia mai riuscita, di qualche peso nella bilancia della guerra [ ... ]. La corsa non può essere considerata una modalità principale, ma solamente secondaria e subordinata della guerra marittima.
Le precedenti affermazioni sull'utilità per l'Italia di ricorrere alla guerra di corsa in caso di conflitto con la Francia sono da lui smentite, visto che 13° la nazione che ha grandi interessi e grandi vulnerabilità di carattere marittimo non può mai trarre beneficio dalla corsa; 14° La nazione che può considerarsi invulnerabile dal mare, in un determinato conflitto, può esercitare con vantaggio la corsa, in base ai precedenti criteri di efficienza.
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Comunque lascia la porta aperta a un aumento dell'importanza della corsa, tenendo presente che quella marina che intende ricorrervi "deve prepararsi materialmente ed organicamente ad esercitarla con efjìcienza risolvente". Infatti, se in passato la corsa come sistema di guerra non ha mai fornito risultati risolutivi, in futuro potrebbe divenire più ~fficace coll'accrescersi delle marinerie commerciali e colla maggiore vulnerabilità dell'esistenza di alcune nazioni, onde questo sistema di lotta navale deve comprendersi. almeno teoricamente,fra quelli esplicabili nel conflitto per il dominio del mare.
E le marine che non possono scegliere, perché essendo più deboli, non possono certo ricorrere alla guerra di squadra? Questa volta D.B. non ne parla.
Schema finale per la classificazione degli elementi che influiscono sul potere marittimo L'ultima parte dello studio su Mahan e Callwell è dedicata al riepilogo degli elementi caratterizzanti il potere marittimo secondo un nuovo e troppo complesso schema, nel quale D.B. distingue tra funzioni statiche e dinamiche del potere mariuimo. Le prime si dividono in: - funzioni trascendentali, cioè dovute a influssi e fattori che sfuggono completamente alla volontà dell'uomo (il genio del capo terrestre e navale, la fortuna, l'invenzione); - funzioni commensurabili, delle quali si possono valutare con sufficiente approssimazione i caratteri e gli effetti (la climatologia, la posizione geografica, la geografia fisica, la posizione della capitale, la densità della popolazione, l'industria marittima, la ricchezza; da notare che D.B. non parla più, come nel 1895, di geografia politica, geografia.fisica militare marittima, topografia militare); - funzioni incommensurabili (etnologia delle popolazioni, organismo dello Stato, civiltà). Le funzioni dinamiche sono da D.B. suddivise in funzione economica,funzione politica e funzione militare e riguardano sostanzialmente le modalità d'azione e gli strumenti con cui, rispettivamente nel campo economico, politico e militare, si può incrementare e sostenere il potere marittimo. Anche se non vanno sotto questo nome, ancora una volta le considerazioni di D.B. sui vari elementi (la climatologia, la posizione geografica, la geografia fisica, la posizione della capitale, l'industria marittima, la ricchezza, l'indole delle popolazioni ecc.) attengono sostanzialmente alla geopolitica, geostTategia e geoeconomia (o anche ali' attuale geografia umana) e al loro influsso sul potere marittimo. Riepiloghiamo gli aspetti più interessanti, della materia da lui trattata, a cominciare dall'influsso del genio, della fortuna e della "invenzione" sul potere marittimo, per invenzione intendo non solo l'introduzione
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in servizio di nuovi materiali, ma anche l' adozione improvvisa di nuovi procedimenti d'azione da parte di un Capo di genio, tali da rivoluzionare la tattica e la strategia. Si tratta di elementi tipicamente clausewitziani, che D.B. fa carico a Mahan e Callwell di aver trascurato. Premesso che "il genio la cui caratteristica è essenzialmente militare è un fenomeno dovuto a preponderanza di intellettualità con sufficiente correlazione di sentimento e di tempi [quest'ultimi concorrerebbero alla manifestazione del fenomeno - N.d.a.]", egli vorrebbe accreditare delle differenze tra il campo terrestre e il campo navale, e degli influssi dell'indole dei popoli, che non sempre sussistono almeno oggi. Infatti, a suo giudizio: - il genio militare (marittimo e terrestre) si rivela più facilmente in campo strategico che in campo tattico, anche se eccelle in ambedue; - tuttavia, dato che il sentimento e i tempi influiscono più sugli eserciti che sulle flotte [aflermazione discutibile - N.d.a.], il genio marittimo è più indipendente del genio terrestre dal sentimento e dai tempi; - "le nazioni [come quelle latine e mediterranee - N.d.a.]presso le quali il pensiero analitico, la dotJrina, l'organismo militare sono insufficienti, mentre prevalgono il sentimento, il.fanatismo, la fantasia, non hanno altitudine alla genialità marittima e poco da esse può sperare il Sca powcr". Di rilievo l'ammissione - tale da rendere il Nostro pensatore assai più moderno di Mahan - che " il potere militare, e in special modo il Sea power, sono suscettibili di subire intensamente e rapidamente gli effetti della invenzione", tenendo però presente che la capacità dei grandi capitani di introdurre nuovi sistemi di guerra ha avuto maggiore influsso dell'introduzione di nuovi materiali, presto compensata dall'avversario con mezzi analoghi. L'invenzione con maggiore peso è quella che ha riflessi sia nel campo strategico, che in quello tattico e organico: ma la situazione del momento è tale da rendere più probabili invenzioni con effetti limitati al campo tattico, benché "la subnautica [cioè la navigazione subacquea, al momento ai primi passi - N.d.a.] e l'aeronautica [anch'essa in embrione - N .d.a. l non escludano la probabilità di un esteso campo inventivo". In tutti i casi - e qui, se si pensa alla bomba atomica, D.B. è stato profeta - "L 'invenzione, qualunque sia la sua intensività ed estensività, non potrà mai escludere la guerra, come molti per arte rettorica asserirono, essendo unjènomeno essenzialmente sociale". Riguardo alla fortuna, D.B. a ragione afferma che la marina britannica, indipendentemente dalla sua pur notevole efficienza materiale, "ha la massima probabilità di essere, a parità di condizioni, la più fortunata, in virtù militare marittima". Ma a differenza di Clausewitz, non mette bene in luce il legame pur esistente tra genio militare - inteso come superiore capacità di prevedere e intravedere ciò che ad altri rimane oscuro - e fortuna, stabilendo invece delle distinzioni artificiose tra campo marittimo e terrestre. Infatti a suo giudizio il potere marittimo "è un campo più di ogni altro propizio ali 'intervento della fortuna". L'intellettualità tipica del genio marittimo a suo parere spesso non riesce ad afferrarla; e per dominarla nel campo marittimo occorrono "intellet-
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tualità, esperienza ed audacia a tensioni più elevate" di quelle sufficienti in campo terrestre. Pur non essendo sempre condivisibili, molti altri concetti enunciati da D.B. meriterebbero un'ampia disamina. Ci limitiamo ad indicarne alcuni tra quelli di maggiore interesse anche attuale: - il clima troppo mite, che favorisce l'inattività e la localizzazione dell'uomo, non stimola il sorgere delle energie che sono indispensabili al potere marittimo. Inoltre, la civiltà cattolica a causa della prevalenza dei fattori morali e religiosi, del dualismo tra Chiesa e Stato e tra sentimento e intellettualità, "è la meno efficiente di tutte", perché provoca "una più o meno grande menomazione della potenzialità nazionale" [e i fenici, i greci, i romani? - N.d.a.]; - le democrazie, pur storicamente incapaci (come del resto le autocrazie), di dare stabilità e continuità al potere marittimo, "dimostrano maggiore attitudine a sviluppare il potere marittimo anziché continentale, quando esista dualismo fra questi due potert'; 52 - una marina mercantile è "fittizia" o "artifìciosa" quando il commercio e le costmzioni navali non hanno un fondamento solido nella produzione industriale, e quando quest'ultima, a sua volta, non trova sul posto le materie prime. Una marina militare è fittizia o artificiosa (moralmente e materialmente), quando "non è un prodotto naturale della coscienza o della dotazione nazionale"; - l'artificiosità di quasi tutte le marine moderne impone la massima intensità e brevità dei conflitti. "Quanto più l 'artijìciosità dipende dalla mancanza dei mezzi atti ad assicurare la mobilità del naviglio, tanto più è imperioso il rapido conseguimento del dominio del mare od il temporeggiamento in stato potenziale"; - una strategia temporeggiante può essere consentita solo a quelle marinerie "le quali hanno posizioni che permettono di salvaguardare lungamente ed utilizzare opportunamente le riserve della mohilità che furono o che possono ancora essere accumulate". Comunque, potendo rendersi opportuno o necessario un prolungamento della guerra, "è indispensabile preparare allaflotta posizioni che consentano il concentramento e la persistenza in uno stato potenziale"; - "le eccessive artificiosità non possono essere migliorate che per mezzo di politiche solidarietà". Ciò significa che solo con le alleanze si può rimediare ai conferiti fattori di debolezza; - "la letteratura militare moderna considera quasi sempre la ricchezza come una condizionalità efficiente della guerra moderna, ma se noi consideriamo la maggior parte dei grandi rivolgimenti storici troviamo che
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Tesi ripresa oclla sostan7_.a da Otto I-li~e (vds Nota 42) oel 1906, quando stabilisce uo rappor-
to lrn potenza marittima e sistemi democratici.
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la ricchezza è stata piuttosto un fattore negativo anziché positivo[ ... ]. La ricchezza giova piuttosto a rendere efficiente l'espansione anziché a provocarla". La ricchezza che deriva dagli scambi è meno solida di quella che deriva dalla produzione, mentre la ricchezza che deriva dall'industria è meno solida di quella che deriva dall'agricoltura [tutte considerazioni superate - N.d.a.]; - le razze che hanno maggior attitudine marittima sono quasi tutte mancanti non di valore, ma di virtù guerriere. Questo avviene perché quest'ultime in campo marittimo sono differenti da quelle del soldato in campo terrestre "per le stesse ragioni che rendono dissimile il genio marittimo da quello continentale, poiché questo è principalmente funzione delle vigorie del sentimento, mentre il genio marittimo è essenzialmente costituito dalle energie organiche e intellettuali delle nazioni'" [affermazioni anch'esse oggi del tutto superate - N.d.a.]; - le alleanze devono essere scelte in modo da soddisfare il più vantaggiosamente possibile gli obiettivi da conseguire in campo marittimo, tenendo però presente che il potere marittimo è per sua natura poco stable, quindi esclude la fiducia nelle alleanze durature e "provoca, colla inevitabile vicenda delle guerre, l'esaurimento e lo spogliamento di quelle nazioni che non sanno o non possono costituire un grande potere militare"; - "le regioni costiere difficilmente possono essere salvaguardate dal potere marillimo [si noti la contraddizione rispetto alle precedenti tesi a proposito della difesa della penisola con la sola marina - N.d.a.]; onde costituiscono obiellività più complesse di quelle insulari ed esigono una maggiore garanzia di successo, che difficilmente si può ottenere da instabili solidarietà"; - benché si tratti di un concetto "momentaneamente oppugnato da un dottrinarismo farisaico", è sempre vero che (come avviene da secoli ecome sostiene anche Mahan) tanto il potere militare che quello marittimo "esercitano enorme i'!fluenza sulla dinamica interna ed esterna delle nazioni", fino a rappresentare "l'energia vitale del sistema internazionale". E poiché le alleanze hanno come base l'efficienza militare, le nazioni militarmente deboli hanno assai poca speranza di raggiungere i loro obiettivi e nessuna speranza di conservarli a lungo; - gli obiettivi politici tendono quasi sempre, per insufficiente coordinamento tra esigenze politiche e possibilità militari, a superare i limiti consentiti dall'efficienza del potere marittimo; - gli obiettivi della politica estera (e quindi anche militare e navale) si dividono in assoluti, relativi e complementari. Gli assoluti sono quelli che mirano ad assicurare l'esistenza nazionale, quando questa esistenza dipende dalla difesa marittima; i relativi derivano da situazioni che possono danneggiare gravemente - ma non compromettere - l'esistenza nazionale; i complementari "riguardano qualsiasi fòrma di obiettività ma-
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rittima che non possa essere conseguita senza il concorso del potere militare"; - mentre per l'lnghilterra l'obiettivo assoluto è la salvaguardia delle comunicazioni marittime, per l'Italia esso consiste nella difesa del territorio dalle olTcse del mare (cioè, soprattutto dagli sbarchi); - in ogni caso gli obiettivi assoluti di una nazione devono essere conseguiti con le sole for~ nazionali, a costo di qualunque sacrificio. Infatti "lanazione che non è capace di tutelare da sola, senz a solidarietà, la propria esistenza, non può essere considerala una grande potenza marittima e deve rassegnarsi ad una posizione secondaria e subordinata nel consesso internazionale"; - gli obiettivi assoluti possono essere conseguiti più agevolmente e con minori sacrifici quando derivano da vulnerabilità del territorio del mare, anziché da vulnerabilità delle comunicazioni marittime; - per rimediare alle vulnerabilità territoriali è necessario un potere navale anche sensibilmente inferiore a quanto è richiesto dalla protezione delle comunicazioni marittime. Quest'ultima richiede il doppio della flotta avversaria, mentre per la difesa del territorio contro offese provenienti dal mare basta una flotta oscillante tra 1/i e 2/J di quella nemica; - al momento "tutte le nazioni, quale più quale meno, hanno circoscritto il campo delle loro obiettività relative e complementari dalla oltrepotenza marittima inglese, la quale a sua volta è vincolata nelle sue espansioni dall 'influenza diretta o indiretta della continentalità della sua espansione coloniale" [cioè dalla tendenza a disperdere energie nel mantenimento di obiettivi territoriali non indispensabili, che alterano la sua natura di potenza eminentemente marittima - N.d.a.]; - "il conflitto economico-militare menoma specialmente il potere continentale [cioè le forze terrestri - N .d.a.] e il dualismo continentale e marittimo menoma specialmente il potere navale"; - la prevalenza dei fattori economici e commerciali ostacola lo sviluppo della funzione militare, ma la preponderanza militare è di ostacolo allo sviluppo delle energie che sono le fonti della sua efficienza; - il conflitto direttivo derivante dal dualismo continentale e marittimo esclude sia una buona preparazione militare che una buona preparazione politica; - la preparazione organica del potere militare (sia territoriale che marittimo) è sempre più lenta e imperfetta del la preparazione materiale. La preparaz1one dei teatri d' operazione è sempre inferiore alla preparazione delle forze mobili, mentre quest'ultima è sempre più carente della preparazione quantitativa; - "la selezione dell 'alta gerarchia militare è quasi sempre più difficile della corrispondente selezione della gerarchia inferiore". Molte delle considerazioni di D.B. sono " datate" o non condivisibili. Tra le "datate" vanno collocate, ad esempio, quelle sulla ricchezza, sulla posizio-
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ne della capitale, sulla capacità industriale e sul suo rapporto con quella a1:,rricola, sulle marine che meno degli eserciti risentono dei sentimenti e dei tempi, ecc. Tra quelle non condivisibili, collochiamo le differenze (artificiose) tra virtù guerriera terrestre e marittima e genio terrestre e marittimo, e, soprattutto, la sostanziale fede del Nostro (comune peraltro a molti scrittori del tempo) nella guerra breve, che lo porta anche alla netta sottovalutazione dell'importanza delle comunicazioni marittime per l'Italia. Giudizio, quest'ultimo, che costituisce uno dei più seri limiti della sua opera e che già affiora nei primi scritti. Di grande portata, invece, la sua previsione che l'aeronautica, l'Arma sottomarina e le "invenzioni'' in genere potranno avere grande influsso sul potere marittimo. Anche le considerazioni sul ruolo del potere militare nelle relazioni internazionali, sulle alleanze, sui nocivi effetti del dualismo continentalemarittimo, sulla preparazione militare meritano attento esame e sono ancora di attualità.
SEZIONE IV - Gli ultimi scritti (1899-1914): necessità di maggiori stanziamenti per la Marina "TI problema marittimo dcll'Ttalia" (1899) Si tratta di un opuscolo5 j che non raccoglie, come al solito, articoli in precedenza pubblicati dalla Rivista Marittima e che non è edito dalla stessa rivista, ma riporta sei articoli pubblicati sulla Gazzetta del Popolo di Torino dal 12 gennaio al 6 febbraio 1899. Poco vi si trova di nuovo; D.B. ripercorre la sua opera dai primi studi del 1879-1890 in poi, per soffermarsi su una ben concreta esigenza della Marina, al momento depauperata anche per finanziare il tentativo di espansione coloniale in Eritrea, conclusasi infelicemente con la sconfitta di Adua all'inizio del 1896. Tn questo caso, quindi, il suo obiettivo non ha carattere puramente teorico come in Mahan e Callwell, ma consiste nel sensibi lizzarc la pubblica opinione sulla necessità di aumentare i bilanci militari, e in particolar modo quello della marina. A tale scopo il Nostro dimostra con interessanti statistiche che la percentuale di ricchezza nazionale dedicata dall'Italia alle spese militari è inferiore a quella delle principali nazioni europee, perciò propone di aumentare la spesa militare a 300 milioni per l'esercito e 150 per la marina, più 300 milioni di spese straordinarie solo per la marina che peraltro (particolare di peso decisivo) non indica come reperire, tenendo conto del grave defì.cit del bilancio dello Stato. La proposta di D.B. va giudicata tenendo conto della spesa militare prevista per l'esercizio finanziario 1898/ 1899: 246 milioni per l'esercito (dei quali
" Spezia, Zappa 1899.
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circa 18 per spese straordinarie) e 105 milioni per la marina (dei quali solo I milione circa di spese straordinarie). 54 l maggiori aumenti che propone per la marina sono giustificati sia dal fatto che al momento le nostre costruzioni navali sono al livello di 1/4 rispetto a quelle francesi, sia dalla constatazione che le spese per la campagna coloniale dell'Eritrea a suo giudizio hanno comportato la sottrazione di circa 500 milioni al bilancio per la marina, che ora bisogna recuperare. Si scontrano due esigenze ugualmente urgenti: se la marina deve incrementare le costruzioni, l'esercito deve rinnovare l'armamento individuale (con una spesa prevedibile di l 00 milioni) e le artiglierie, con una spesa ancor maggiore. D.B. si sforza di contemperare le dure esigenze proponendo aumenti che comunque vanno in misura assai maggiore alla marina e, in pratica, richiedono un riequilibrio delle risorse a favore della marina stessa, riducendo le forze terrestri. Dedica infatti, un notevole spazio a un suo piano per migliorare la qualità e la prontezza operativa dei corpi d'armata dell'esercito al prezzo della riduzione del loro numero, riqualificando la spesa. Anche l'amministrazione della marina, per la verità, al momento ha molto bisogno di riforme riguardanti il personale, la gestione del materiale e degli immobili, l'addestramento ecc.: ma Egli sorvola su queste esigenze, occupandosi solo della riforma dell'esercito. È questo l'unico fatto nuovo: in precedenza, come si è visto, in disaccordo col Perrucchetti aveva escluso l'opportunità di ridurre l'esercito per spostare risorse a favore della marina, ritenendo che per costruire navi idonee alla guerra di crociera fossero sufficienti i fondi al momento disponibili. Altra novità solo parziale, ma importante è la sua netta avversione alle imprese coloniali, da lui viste come obiettivi complementari di assai dubbia utilità, che hanno fornito e forniranno un unico risultato certo: sottrarre risorse alla marina impedendole di reggere il ritmo con le costruzioni navali francesi. Prima di pensare alle colonie, quindi, a suo giudizio occorre salvaguardare l'esistenza nazionale e difendere l'integrità del territorio con idonee forze navali. Perciò in forza della teoria vera del potere marittimo, e non di quella elaborata ad uso e abuso delle società speculatrici, degli azionisti, degli avventurieri ecc... L 'Italia non potrebbe ancora accingersi ad imprese coloniali, e dovrebbe escludere il traffico e la colonizzazione dalle sue immediate obiettività,finché non avesse preparato gli elementi espansivi e provveduto a salvaguardare la sua esistenza.
D.B. chiarisce meglio anche il ruolo della notta nei confronti della minaccia francese (in pratica l'unica da considerare), partendo dalla consueta constatazione che il pericolo maggiore è un'invasione marittima mirante a impa-
54 I dati qui indicati sono tratti da L. De Rosa, Incidenza della .~pesa militare sullo sviluppo economico italiano (in L' Esercito italiano dall 'unità alla grande guerra, Roma, SME - Uf. Storico l 880,
pp. 508-511 ).
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dronirsi anzitutto della Riviera di Ponente (Cornice), per utilizzarla come base d'operazione per sbarchi nell'Italia Centrale, Meridionale o insulare. Peraltro, questa graduazione delle possibili offese lo porta a commettere il gravissimo errore di escludere ancor più recisamente che in passato l'importanza delle vie di comunicazione marittime e del traffico mercantile per l'Italia. Per lui le priorità sono altre: la graduazione delle ojjèse marittime è un problema che deve essere risolto caso per caso a seconda delle speciali condizioni degli Stati. Per l 'Jtalia potrebbe stabilirsi la seguente classifica: 0 / bombardamento delle grandi città indifese; 2° distruzione delle linee ferroviarie e delle grandi industrie scaglionate lungo la costiera; 3° attacco ed espugnazione delle piazze da guerra; 4° distruzione e para/izzazione del commercio. La distruzione del commercio, data la scarsa importanza di colonie o mercati soggetti a protezionismo italiano, si riduce a limitata menomazione del naviglio mercantile ed ai danni indiretti che ne risentirebbero temporaneamente molte nostre industrie, ma queste menomazioni e questi danni non potrebbero mai costituire un pericolo della nostra esistenza e, quando.fossero adottati provvedimenti riguardanti il carbone, il frumento e le stazioni di rifùgio per il naviglio incapace di rappresentare una qualsiasi utilità militare, le conseguenze della guerra non sarebbero per tale riguardo troppo deleterie. [Si tratta di provvedimenti non certo facili e molto costosi: e le altre materie prime, come i metalli, il cotone, la lana ecc.'! - N.d.a.J.
Anche all'espugnazione delle piazze da guerra D.B. non dà gran peso, sia perché, sul piano generale, "l'espugnazione di una piazza marittima decentemente armata è un compito lungo, difficile, pericoloso quando non sia conseguita di sorpresa", sia perché le condizioni delle nostre piazze marittime sono tali da consentire loro di resistere a lungo anche contro consistenti attacchi navali. Inoltre ''finché alla.flotta rimangono i mezzi di persistere nel compito difensivo, anche l 'espugnazione della Spezia o di Venezia non rappresenterebbe ancora minacce capaci di mettere in pericolo, sia contro la Francia che contro l 'Austria, la nostra esistenza" . Più dannosa, per l'influenza che potrebbe esercitare sulla mobilitazione, sarebbe la distruzione delle ferrovie e delle industrie scaglionate lungo la costa; ma anche queste offese costiere, quantunque gravi, "possono essere rese meno minacciose da provvedimenti futuri ed in ogni caso non costituiscono, o non dovrebbero costituire, una minaccia vitale e risolutiva del conflitto". Diverso è il caso del bombardamento terroristico dal mare delle città costiere indifese, per abbattere il morale delle popolazioni, provocare disordini e insurrezioni e costringere il Governo a chiedere la pace; questo obiettivo apertamente teorizzato dalla Jeune École francese come forma d' azione più efficace contro l'Italia, anche per D.B. "costituisce per l'Ttalia un 'offesa che, date le condizioni della coscienza nazionale, potrebbe gravemente compromettere la
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situazione militare e provocare la risoluzione del conflitto". Ciononostante la difesa contro tali bombardamenti rimane meno prioritaria di quella contro gli sbarchi, sia perché nemmeno con una flotta superiore a quella francese si potrebbe escludere in modo assoluto la possibilità di distruzioni costiere, sia perché solo impegnando battaglia si potrebbe scongiurarla: ma "considerando che la battaglia perduta lascia aperto il campo a tutte le offese più minacciose che compromettono l'integrità e l'esistenza nazionale, sarebbe grave colpa impegnarla a cuor leggero per salvare l'onore delle armi o per cedere a clamori incoscienti, quando non si abbiano maggiori probabilità di vittoria". In tal modo D.B. sembra annacquare alquanto i giudizi più categorici espressi in precedenza sulla non convenienza per la nostra flotta di intervenire per impedire i bombardamenti costieri da parte della squadra francese, rischiando di affrontare una battaglia che sarebbe sicuramente perduta. Infine egli conferma pienamente la sua giovanile opzione strategica per la guerra di crociera e per costruzioni navali in grado di condurla con efficacia. E forse per reagire ad accuse di difensivismo, tiene a precisare che il sistema di guerriglia o di crociera non implica passività, 110 11 esclude il combattimento, ma anzi esige una grande attività, secondo quanto scrivemmo cir-
ca l'impiego della flotta, nel servizio di vigilanza, di dijèsa e di controffensiva. Questo compito richiede di mantenere in costante attività di crociera almeno sei navi, riunite o divise, con un relativo complemento di vedette per la trasmissione degli avvisi ed il huon jùnzionamento del servizio di crociera. Non sarà questo certamente un facile compito e potrebbe anche generare gravi pericoli quando non si disponesse di navi più veloci e di basi di operazioni opportunamente situate, ma quando si posseggono due buoni centri strategici, come Maddalena e Messina, ed una huona piazza di rifugio come La Spezia nel bacino Tirreno, che è il più importante, si ha ragione di credere che, date le navi opportune, si può esercitare una efficiente vigilanza navale, ed anche una vigorosa controfjènsiva, specialmente nel primo periodo della guerra.
Le opere dal 1900 al 1914 Con li problema marittimo del 'Italia si conclude la parte di maggiore interesse anche attuale dell'opera di D.B. In una successiva serie di articoli sulla Gazzetta del Popolo dei primi mesi del 1900 non fa che ribadire la sua fede nelle navi relative o strategiche (cioè idonee alla guerra di crociera), che dovrebbero costituire i ¼ di una flotta difensiva come quella italiana, mentre alle navi assolute o tattiche (cioè alle corazzate) sarebbe riservato solo 1/ 4 del tonnellaggio totale. Questo vale solo per le nostre specifiche esigenze: per le grandi potenze che, come l'Inghilterra, devono mantenere o conquistare il dominio del mare e quindi abbisognano di flotte offensive, le suddette proporzioni sarebbero mutate a favore delle navi assolute o tattiche, che devono in ogni caso ganmtire la preponderanza sul nemico in scontri tattici.
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Le considerazioni del 190 l sulla teoria strategica e tattica navale,55 uniche del genere in Italia anche per la loro ottica europea, sanciscono un perdurante stato di incertezza, specie in campo tattico. Ci riserviamo di prenderle in esame quando necessario nel prosieguo dell' opera, là ove si tratta nel particolare di queste branche. Al conflitto russo-giapponese (1904-1905) conclusasi con la vittoria del Giappone, il Nostro dedica un esame56 che rimane esemplare per la metodica seguita e per la capacità di trarre concrete indicazioni operative e giungere a indovinate previsioni, partendo dall'esame di molteplici elementi anche attinenti all'etnologia, alla geografia umana e politica, alla situazione geopolitica ecc. dei due contendenti. 1n particolare dalle vicende della guerra navale culminata con la grande e decisiva battaglia di Tsushima, egli trae - come spesso accade - la conferma delle sue vecchie tesi a favore della velocità e delle torpediniere, in questo differenziandosi da Mahan che non crede né alla velocità né alle torpediniere. Come Mahan, invece, sostiene l'efficacia del cannone, ma di medio calibro e a tiro rapido, che ha avuto ragione dei grossi calibri russi. Accanto a questo, D.B. conserva una ingiustificata fiducia - smentita dagli eventi - nel rostro e nel siluro come armamento anche delle navi magg1on. Dall'ultima guerra che precede quella del 1914 - 1918 ed è contemporanea alla nascita della Dreadnought, quindi, egli trae ammaestramenti che non vanno certo a favore di questo modello di nave, che si accingeva a trionfare ovunque fino alla seconda guerra mondiale. Gli aspetti navali sono comunque magistralmente da lui inseriti nel quadro politico - strategico generale dalla guerra, per il quale osserva che le condizioni generali della guerra hanno favorito la direzione strategica giapponese più di quella russa, mentre la correlazione continentale marittima e le relazioni tra esercito e flotta sono state ottime e lodevoli, anche se da parte giapponese la direzione delle operazioni navali è sempre stata autonoma rispetto a quella delle operazioni terrestri, e "mancò ogni causa di conflitto d'attribuzioni e di reciproca soggezione dei due p oteri ciò che invece accadde necessariamente fra gli analoghi poteri militari della Russia". Nel campo navale i vantaggi giapponesi a suo parere derivano da un complesso di cause, che abbracciano anche la politica militare e navale: - 1° la popolarità della guerra; - 2° il patriottismo e le virtù etniche della razza giapponese; - 3° l'istinto marittimo e militare della popolazione; - 4° l'unità del sentimento nazionale; - 5° la migliore preparazione generale alla guerra; - 6° le più favorevoli condizioni dei teatri delle operazioni navali; - 7° i grandi mezzi navali di cui disponevano in patria i giapponesi in relazione a quelli limitatissimi di cui disponevano i russi;
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In "Rivista Marittima" 190 l, Voi. Il Fase. e IV. .,. I .e riflessioni cli n .R. sono pubblicate suUa "Rivista Marittima" del 1904 e 1905.
I - l)()MENlCO DONAMJCO, ".AL1l,:R EGO'' NAVALE DI NICOLA MARSELLI
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- 8° la superiorità qualitativa, tanto strategica che tattica, del naviglio militare; - 9° la grande preponderanza del naviglio silurante [la cui azione è stata molto facilitata dalla vicinanza delle basi - N.d.a.]; - 10° il grande istinto ed il giusto intendimento del potere navale; - 11 ° la solidità organica e la solidarietà di tutta la gerarchia marittima; - 12° la immutabilità del Comando Supremo. 57 Mutatis mutandis, molti di questi fattori strategici di successo hanno giocato a favore del Sol Levante anche nella precedente guerra cino-giapponese, senza contare che possono essere utili spunti di meditazione anche nello studio delle nostre sfortunate guerre del 1866 e 1940-1943. Nel 1908, poco dopo la pubblicazione degli scritti sulla guerra russo - giapponese, D.B. interrompe definitivamente, per ignote ragioni, una quarantennale collaborazione con la Rivista Marittima , iniziata fin dal 1870. Ci mancano perciò i suoi commenti alla guerra di Libia del 1911-1912 e alla prima guerra mondiale, guerre nelle quali peraltro la posizione dell'Italia e il concatenarsi degli eventi poco si accordano con le sue idee e le sue previsioni. Sui primi mesi della guerra momliale, nel periodo della neutralità italiana, possediamo solo un suo breve opuscolo di 22 pagine scritto a fine 1914, La missione dell 'llalia,58 nel quale mancano accenni specifici alle forze navali; non è perciò condivisibile quanto scrive il Ferrante, che dedica a quest'ultima opera tre righe scarse nelle quali si dice solo che "lo scrittore finisce per dare un preciso orientamento politico (sic) alla tematica marittima precedentemente esposta".59 Questo "preciso orientamento", come si è visto, lo troviamo se mai nella Situazione Militare Mediterranea del 1895, non in questa occasione dove il Nostro considera la guerra nel suo complesso e dove manca del tutto la tematica marittima. Uno scritto ben presto superato e smentito dagli eventi: anche in questa occasione egli mantiene la sua fede europeista e ritiene più vantaggiosa per l'Italia la neutralità, perché "nell'ora presente non urgono già le rivendicazioni irredentiste, nazionali o estere che siano, colle quali si mascherano volentieri altre politiche o settarie obiettività". Dopo questa velata accusa all'interventismo anti-austriaco, si dice deluso dalla Germania, diventata agli occhi delle altre potenze "strumento di so_ffocazione, di asservimento, di barbarie". Ma all'Italia non conviene schierarsi né a favore né contro la Germania, perché se dovesse prevalere uno dei due schieramenti contrapposti "non altra sorte potrebbe essere serbata al! 'Europa se non quella di soggiacere alla ultrapotenza teutonica o slava". L'Italia dovrebbe invece mettersi alla testa di un blocco
" Bonamico, Il conflitto russo-giapponese, in "Rivista Marittima" 1905, IV Trim. Fase. X, pp. 48-51. 58 Firenze, Tip. Fattori e Puggelli 1914. 59 Ezio Fermnle, Il potere marittimo - evoluzione ideologica in Jtalia 1861-/939 (Suppi. alla Rivista Marittima n. I 1/1983), p. 46.
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militare delle potenze rimaste neutrali per imporre anche con la forza la pace, facendosi così "iniziatrice e missionaria de/l 'apostolato europeo, per la conquista del diritto e per la salvezza della civiltà dell'Europa", che vede minacciata tanto dal gennanesimo che dallo slavismo. Con questa utopia tennina mestamente l'opera militare di D.B., che avrebbe meritato una conclusione più brillante e realistica, degna di questa grande mente così refrattaria ai miti. Conclusione A prima vista D.B. potrebbe essere ritenuto un perdente e (lo riconosce egli stesso) la sua una vox clamans in deserto. l capisaldi principali di un'opera durata mezzo secolo - dalla guerra di crociera e relative costruzioni, alla prevalenza dei cannoni di medio calibro, alla correlazione terrestre - marittima, alle differenze strategiche e tattiche radicali tra periodo velico e del vapore, al1' impostazione della difesa e della difesa marittima esclusivamente sul pericolo decisivo e immanente di sbarchi francesi, alla fede triplicista e europeista non sono stati accolti dall' establishment italiano c, comunque, sono stati smentiti dagli avvenimenti . Dietro l'apparente inconsistenza delle strutture che avrebbe voluto creare, e dietro la fallacia di parecchie sue previsioni (anche se non di tutte), si muove però un pensiero potente, multiforme, in parecchi casi ancor ricco di spunti interessanti e di utili riflessioni. Un'elencazione completa dei suoi meriti, delle interfacce di una attività incessante che in molti campi è pionieristica ancorché piuttosto solitaria, diventa persino difficoltosa, e rischia di essere impari. Fondatore degli studi di strategia e di geografia marittime in Italia, è tra i pochi che - sia nell'esercito che nell'armata - chiaramente intravedono la necessità di superare, nel comune interesse e in quello della nazione, ristretti limiti e tecnicismi di Forza Armata per portare all'attenzione della pubblica opinione i grandi obiettivi della politica militare nazionale, ai quali deve corrispondere una strategia unitaria e interforze commisurata - come deve essere alla collocazione dell'Italia nel quadro internazionale e alle sue effettive possibilità, non ad astratte teorie nate oltr'alpe e oltre oceano. Poco importano, a questo punto, le concrete soluzioni da lui indicate: il ponte era gettato, la strada era aperta, e il carico poteva aggiustarsi lungo la via. Gli studi di geografia politica, militare e navale ricevono dai suoi scritti un impulso decisivo: anche in questo campo è un pioniere che apre nuove vie, che per esempio oggi Pier Paolo Ramoino suggerisce di percorrere, anzi di ripercorrere. 6() Non sarà mai abbastanza ripetuto, a tal proposito, che dal complesso dei suoi scritti i lineamenti di una geopolitica e di una geostrategia (che egli
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1995.
Cfr. P.P. Ramoino, Una nuova strategia mariltima, in "Rivista Marittima" agosto-settembre
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chiama "geografia strategica") nazionale e mediterranea, tale da fondere insieme spinte continentaliste e marittime, individuandone rapporti, relazioni e influssi sulle forze terrestri e navali. Primo scrittore navale italiano a richiamarsi a Clausewitz, rimane tuttora il nostro maggior critico e studioso di Mahan e Callwell, precorrendo di decenni Julian Corbett - oggi di gran moda61 - nel sostenere un impiego operativo coordinato di esercito e flotta e nel non mitizzare la battaglia navale decisiva, accennando ad altre e più redditizie forme strategiche. Sotto questo profilo, la sua strategia difensiva e la sua avversione alla corazzata come nave fondamentale della flotta vanno ben inquadrate e valutate. Esse sono giustamente riferite a specifiche esigenze nazionali, a una data disponibilità di risorse, a un dato avversario - assai superiore - e a un dato teatro d'opcTazioni, del quale vanno attentamente considerate le caratteristiche geografiche. TI principio dell' offensiva e della ricerca di scontri decisivi è indiscutibile: ma come applicarlo, se ci si trova di fronte a una flotta più forte? La risposta di D.B. a questo interrogativo non è certo dogmatica, tant'è vero che nei suoi fuggevoli accenni a una guerra navale con l'Austria nell'Adriatico, nella quale il rapporto di forze sarebbe a nostro favore, suggerisce un impiego offensivo delle nostre forze navali. La sua formula strategica di base - guerra di crociera con naviglio Leggero e veloce (più tardi, con sommergibili e aerei) e corazzate in being nelle basi, in attesa di occasioni favorevoli - in tempo di pace è stata da altri autori "nava/isti" giudicata rinunciataria, non ha mai incontrato il favore dell'establishment ed è risultata soccombente di fronte ai fautori delle grandi navi, ma ali'atto pratico è stata sostanzialmente applicata dalla nostra marina in ambedue le guerre mondiali, nelle quali il ruolo principale e decisivo l'hanno avuto i sommergibili, il naviglio leggero, e se vogliamo (nel 1939-1945) le portaerei, non certo le nostre navi corazzate quasi sempre rimaste nei porti, che dunque a ragione D.B. si rifiuta di definire come navi fondamentali . Di fronte a questi meriti gli si perdonano volentieri lo stile involuto e pesante, l'uso frequente di espressioni inutilmente ricercate, l' imperdonabile omissione di glorie autentiche del pensiero navale italiano come Giulio Rocco, le molte cose che anche in materia di geografia e di impiego coordinato delle forze terrestri e navali sono state dette prima di lui da Cesare Balbo, Felice Orsini, Guglielmo Pepe (Cfr Voi. I). Così come gli si perdonano la sua fiducia nella guerra breve anche a poca distanza dalla grande guerra, la scarsa attenzione dedicata alla guerra di secessione americana, l' errata convinzione - quando ormai la rivoluzione industriale era in atto anche in Italia - che diversamente dall'Inghilterra l' economia del nostro Paese poco dipendeva dalle comunicazioni marittime, e infine - nel campo tecnico - navale - la troppo prolungata fiducia nello sperone come arma tipica delle navi da guerra a vapore.
• 1 L' opem di Julian S. Corbctt, Alcuni princip i di strategia marittima (19 11 ) è stata tmdotta in italiano solo di recente (Roma, Ufficio Storico Maò na 1995).
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IL PENSIF.RO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. TI! (1870-1915) - TOMO Il
La conoscenza dei suoi scritti è fondamentale per inquadrare correttamente le grandi correnti del pensiero navale italiano e europeo della seconda metà del secolo XIX. La sua polemica contro i sostenitori di un concetto teologico, assolutista, mitico e metafisico del dominio del mare e del potere marittimo, tale da far perdere di vista la realtà, merita anche oggi la dovuta attenzione, così come non è certo "datato" il concetto che nel campo delle costruzioni navali ogni marina - a maggior ragione se si tratta della marina di una media potenza mediterranea, come l'Italia - non può imitare o tentare di controbattere le soluzioni delle marine oceaniche dominanti, ma deve cercare una propria via originale che tenga conto delle esperienze altrui ma anche delle specificità nazionali, a cominciare da quelle geopolitiche e geostrategiche. Il "nocciolo duro" del suo pensiero si forma nel periodo dal 1878 al 1881 e ne fa il caposcuola teorico della corrente innovatrice capeggiata dall'ammiraglio Ferdinando Acton, destinata a ingiusta sconfitta. Va ancora sottolineato che sia D.B . che Acton non bocciano la formula della corazzata in sé, ma soprattutto le troppo ambiziose e costose soluzioni costruttive del Brine del Saint Bon. Anche se più a torto che a ragione rivendica l'autonomia delle sue idee da quelle della Jeune !::cole francese, non è cosa da poco constatare che rimane l'interlocutore e il critico italiano più attrezzato dei tre più grandi autori navali del secolo XIX, Aube, Mahan e Callwell. Di ogni teoria prende senza sudditanze ciò che gli sembra il meglio erifiuta ciò che non gli sembra teoricamente accettabile, o semplicemente non adatto alle nostre specifiche esigenze nazionali. Le sue riflessioni non avvengono in vitro; i contenuti dei suoi scritti ne fanno perciò le vere e proprie fondamenta di una dottrina militare e navale per l'Italia di fine secolo, di ispirazione fondamentalmente jominiana ma aperta anche a significativi apporti clausewitziani. Né ritiene la strategia navale immutabile, ma ammette che essa potrà subire mutamenti profondi in relazione al progresso dei materiali, facendo esplicito riferimento alla navigazione subacquea e aerea quando esse erano appena ai primi passi, e avevano ben pochi estimatori. Concludendo, accanto alle grandi figure di Aube, Mahan, Callwell e Corbett merita un posto d'onore anche il nostro Bonamico, che in taluni casi ne anticipa le idee. Va decisamente accantonata la vecchia abitudine di identificare il pensiero militare italiano con quello terrestre, dimenticando quello navale quasi come fosse un deserto, hic sunt leones. Sarebbe troppo poco riconoscere che accanto ai Blanch, ai Pisacane, ai De Cristoforis, ai Ricci, ai Marselli, va collocato anche Bonamico: ciò non gli renderebbe giustizia. Meglio dire, invece, che egli - come il Marsclli in campo terrestre - è il pilastro del pensiero navale italiano della seconda metà del secolo e tra i primi in Europa - se non il primo - a individuare il rapporto organico che dovrebbe intercorrere tra politica, strategia, geografia, economia e costruzioni navali, inserendo il pensiero navale italiano in quel lo europeo e mondiale e la strategia navale nella grande tematica politico sociale. Per tutte queste ragioni, parecchie sue idee avrebbero meritato maggior successo.
CAPITOLO II
TRA BONAMTCO E BERNOTTI: L'IMPORTANZA DELLA "CORRELAZIONE TERRESTRE-MARITTIMA", DELLA STRATEGIA DIFENSIVA E DEL NAVIGLIO LEGGERO NEL PENSIERO Dl GIOVANNI SECHl, AMMIRAGLIO E POI MINISTRO DELLA MARINA
Premessa Bonamico (XIX secolo), Bernotti, Fioravanzo e Di Giamberardini (XX secolo) sono generalmente considerati "i magniflà quattro" del pensiero navale italiano, per il quale non vanno ignorati i preziosi contributi dati anche dopo la 2a guerra mondiale dagli ultimi tre. 1 Un'élite assai ristretta, tuttavia sufficiente - questo va sottolineato con un certo orgoglio - per dare al nostro pensiero navale un posto ragguardevole anche in campo europeo. In questo contesto, il nome dell' ammiraglio e senatore Giovanni Sechi (1871-1948) è rimasto piuttosto in ombra; lo si ricorda soprattutto come Ministro della marina dal 1919 al 1921, non senza critiche per il suo operato da parte di taluni.2 Segno di tale scarsa considerazione è anche la mancata riedizione
' Si veda, in merito, la nostra voce ltaliens (I'héoriciens), in Tbicrry de Monlbrial - Jean Klein, Dictionnaire de Strat~ie, Paris, PUF 2000, pp. 321-323. 2 Giovanni Scchi, nato a Sassari il 17 gennaio 1R71. Allievo dell' Accademia Navale di Livorno nel 1883. Guardiamarina nel 1888. Sottotenente di vascello nel 1889, tenente di vascello nel 1892, capitano di corvetta nel 1905, capitano <li fregata nel 1910, capitano di vascello nel 1914, contrammirnglio nel 19 I 8, collocato a riposo d'autorità nel 1920, vice-ammiraglio ne lla riserva navale nel 1923 e ammiraglio di squadra nella riserva navale nel 1926. Senatore del Regno dal 3 1 luglio 1919, Ministro della marina dal 23 giugno 1919 al 4 luglio 1921. Inizia la sua collaborazione alla Rivista Marillimu da tenente di vascello nel 1897, con l' importante articolo Note di strategia navale ove sostiene principi e criteri di quelli rimarrà fedele per tutta la vita, a cominciare dall'importanza della correlazione terrestre-marittima e dalla priorità da dare al naviglio leggero. Fondamentali ai fini della sua opera di scrittore navale (ma non navalista), il lungo periodo trascorso al comando di torpediniere (1900-1910), nel quale insegna {1902-1906) arte militare marittima all'Accademia di Livorno. Frutto <li tale insegnamento è la sua opern più importante, gli Elementi di arte militare marittima (2 Voi., 1903-1906) nella quale sulle tracce del Bonamico e del Marsclli sostiene la necessità della difensiva strategica per la nostra flotta. Decorato di Medaglia di Bronw nella Campagna <li Libia del 1911- 191 2, durante la b'Tande guerra comanda le R. navi Pisani e Vittorio Emanuele. Destinato al Ministero della marina - ufficio di Stato Maggiore - il 5 giugno 1916, viene nominato Sottocapo di Stato Maggiore aggiunto il 17 aprile 1918 e Sottocapo di Staio Maggiore il 1° settembre 191 8, carica che mantiene fino alla nomina a Ministro. Per le capacità dimostrate quale Sottocnpo di Stulo Maggiore riceve l'Ordine Militare di Savoia.
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dei suoi scritti da parte del Forum di Relazioni Internazionali di Roma, che invece ha di recente ristampato e commentato le opere di Bemotti, Fioravanzo e Di Giamberardino, mentre a Bonamico l'Ufficio Storico Marina ha dedicato un ponderoso volume curato da chi scrive. 3 Eppure Giovanni Sechi è un autore importante, per tutta una serie di motivi, che emergono soprattutto dalla sua opera maggiore in due Volumi (anche se giovanile, perché scritta da tenente di vascello - Voi. l e da capitano di corvetta - Voi. Il): gli elementi di arte militare marittima (1903-1906). 4 Oltre tutto, tale opera è importante perché acquista praticamente il crisma dell'ufficialità, quale frutto e testo di base dell'insegnamento di arte militare marittima dell'autore presso l'Accademia Navale di Livorno (1902-1906). Ciò premesso, gli elementi caratterizzanti di tutti gli scritti del Sechi (d'ora in poi S.), possono essere così riassunti. I.
L'IMPORTANZA DELLA CORRELAZIONE TERRESTRE-MARITTIMA Essa traspare già dal frontespizio degli Elementi di arte militare marittima, nel quale si cita una frase di Enrico Barone (Voi. III Tomo I cap. V): "Per un paese come il nostro, il quale ha tanta parte di sé che si bagna nel mare, il quale ha tanti suoi interessi vitali nella penisola, nelle isole e lungo le coste, il problema militare non si può convenientemente risolvere che avendo l'occhio intento all'azione armonica, intelligentemente coordinata, della flotta e dell'esercito". Siamo alla vigilia dcllaDreadnought, in un periodo nel quale la prospettiva della guerra di squadra "indipendente" e della battaglia decisiva, con il conseguente culto delle grandi navi, domina più che mai la letteratura navale. TI S. ~ come prima di lui Bonamico ~ percorre una propria via diversa, senza però, con questo, ritenere la marina qualcosa di poco importante; tant'è vero che sul frontespizio del secondo volume dei citati Elementi di arte militare marittima campeggia il detto del generale Marselli (Voi. III Tomo I, cap. Il e lll) che "Se l'Italia non
Nel periodo da Ministro sviluppa le sue vecchie idee, sospendendo definitivamente i lavori di costruzione o di recupero di 5 moderne corazzate, sviluppando nei limiti del possibile il naviglio leggero e sforzandosi di ridurre la troppo pesante organizzazione a terra. Nei primi anni Venti dopo aver lasciato la carica da Ministro pubblica articoli che svalutano alquanto il ruolo operativo delle corazzate e attribuiscono la priorità alla costruzione di naviglio leggero e sommergibile, da impiegare nella difesa delle coste. Nei suoi interventi al Senato degli anni Trenta approva la costruzione di nuove corazzate, indicandole però come completamento del naviglio leggero e non viceversa. Al tempo stesso sottolinea l'importanza dell'aviazione, raccomanda di costruire torpediniere e non accetta la tesi ufficiale della "Marina Oceanica" e dell'efficacia delle nuove comzze anche contro il siluro. 3 Cfr. Domenico Bonamico, Scritti sul poter marittimo /878-1905 (a cura di F. Dotti), Roma, Ufficio Storico Marina Militare 1998. 4 Cfr. Giovanni Sechi, Elementi di arte militare mari/lima (Voi. I La guerra marittima e la grande guerra, Livorno, Giusti 1903; Voi. 11 Preparazione e condotta della guerra marittima, Livorno, Giusti 1906).
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si risolve a diventare una grande potenza marittima, non sarà né rispettata, né temuta, né fortificata, né ricca". II. LA RARA SALDATURA TRA LA TEORIA STRATEGICA E LAPRASSl STRATEGICA Gli aspetti puramente teorici e relativi all'arte militare - sia terrestre che marittima - dell'opera del S. non rimangono fine a sé stessi, ma sono applicati al caso concreto della strategia marittima più convenienti per l'Italia. III. LE DIFFERENZE DT BASE TRA UNA FLOTTA STRATEGICAMENTE OFFENSIVA E UNA FLOTTA DIFENSIVA Oltre che la strategia e la tattica, queste differenze riguardano in primis le costruzioni navali; anche in quest'ultimo campo, quindi, ogni marina deve cercare con coerenza la sua via. lV. LA SOSTANZIALE FEDELTÀ ALLE IDEE FONDAMENTALI DEL S. NEL XIX SECOLO ANCHE NEL XX SECOLO Non è scossa dall'esperienza della guerra 19 14-1 9 18, che anzi conferma parecchie sue idee (anche se non tutte), con particolare riguardo all'efficacia del siluro e del naviglio sottile in gcm:n:. La sua coerenza si manitèsta sia nella sua opera di Ministro del la marina dal 1919 a l 192 1, sia in altri importanti scritti pubblicati anche quando non ricopre più la carica di Ministro, sia in interventi al Senato fino alla guerra 1940- 194 3 compresa. V. lL "TRAIT D'UN/ON' TRA BONAMICO E BERNOTTT Quando S . scrive, il sommergibile e l'aereo - i due pilastri delle concezioni del Bemotti - sono ancora ai primi vagiti; tuttavia S. partendo da Bonamico prepara, per così dire, il terreno al Bemotti, se non altro mettendo in chiara luce l' importanza del naviglio leggero nel quadro di una concezione una volta tanto relativistica e antidogmatica della strategia marittima.
SEZIONE I - I primi scritti: l'importanza della "correlazione terrestre-marittima" e la priorità del naviglio leggero nell'ambito della strategia più conveniente per l'Italia TI S. è tra i pochi autori, navali e non, a rimanere ben fermo nelle sue idee fondamentali. Sotto questo profilo è assai significativo il suo primo scritto sulla Rivista Marittima, dal titolo - piuttosto ambizioso per un tenente di vascello - Note di strategia navale.5 Due le caratteristiche salienti della sua elaborazione teorica, per la quale esplicitamente si richiama al Bonamico: a) l'importanza che, con la propulsione a vapore, ba assunto la correlazione terrestre-marittima;
'Scchi, Note di strategia navale, in "Rivista Marittima" gennaio 1897. pp. S-'.'-9.
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b) l'importanza della difensiva strategica per le flotte che, data la loro inferiorità di forze, non possono sfidare con successo la flotta nemica in una battaglia decisiva avente come posta il dominio assoluto del mare, che sarebbe la soluzione migliore, ma non è facilmente e rapidamente raggiungibile. Secondo S. in passato per raggiungere gli obiettivi della guerra non si riteneva necessaria un'azione concorde delle forze terrestri e marittime, sia perché le guerre di un tempo erano combattute da piccoli eserciti con obiettivi particolari, sia perché le forze navali del passato (chiaro il riferimento al periodo velico) erano poco adatte a raggiungere gli obiettivi che maggiormente concorrono a decidere l'esito di una guerra. Le navigazioni erano lente e di incerta durata, quindi difficile da coordinare con l'azione delle forze terrestri e tali da rendere ardui anche gli sbarchi. I cannoni erano poco potenti e di corta gittata, quindi occorreva molto fuoco per danneggiare seriamente una città marittima. Le batterie costiere uguagliavano o superavano in potenza quelle di bordo. Era assai più facile mantenere truppe a terra sotto il fuoco navale. Infine la guerra di corsa era più difficile e meno dannosa di quella del momento, perché le industrie da alimt:ntare erano poche e il commercio marittimo era limitato, quindi la sua interruzione ''non poteva produrre le terribili crisi industriali che subirebbero attualmente le nazioni manifatturiere", le quali hanno una densa popolazione, molte industrie e poche materie prime. Al momento tutte queste circostanze sfavorevoli fcome già aveva notato Bonamico - N.d.a.] sono venute meno: convogli veloci a vapore possono percorrere il mare con la esattezza di un treno ordinario, ed è quindi più facile eseguire sbarchi anche comhinati con operazioni terrestri; gli effetti del bomhardamento possono ora risultare più gravi per l'aumentata potenza delle artiglierie navali, sicché questo mezzo si presta assai più di prima per imporsi a popolazioni litoranee; l'aumentata potenza e precisione del tiro delle hocche da.fuoco permette del pari di hattere con successo le strade litoranee per distruggere opere d'arte e sgominare truppe; la corsa infine potrà recare assai più danni di un tempo a chi la dovrà subire senza mezzi per efficacemente ripararla.
In questo nuovo quadro strategico diventa possibile assegnare alla strategia terrestre e navale scopi in comune, quindi definire per le forze navali gli obiettivi che meglio corrispondano al conseguimento degli scopi supremi della guerra. La distruzione o il blocco delle forze navali nemiche con una strategia offensiva sarebbero la soluzione migliore per raggiungere gli obiettivi di cui sopra (sbarchi; bombardamenti di città marittime indifese, di piazzeforti marittime, di vie di comunicazione costiere, di stazioni di torpediniere; guerra di corsa). Bisogna però tener conto che per poter scegliere una siffatta strategia offensiva occorre disporre di forze superiori o uguali a quelle nemiche; ma poiché queste forze sono strettamente legate alle risorse finanziarie e agli altri oneri del paese, così non si può ammettere a priori di poter usare questo
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sistema in tutte le ipotesi di guerra [corsivo nostro; questo invece è stato fatto anche nella guerra 1940-1943 - N.d.a.] ... Converrà allora impedire in altro modo al nemico di raggiungere i suoi obiettivi sulle nostre coste; e, subordinatamente a questo scopo principale, e, meglio ancora, solo per ottenerlo con maggiore facilità e sicurezza, si dovrà cercare di raggiungere qualche obiettivo sulle coste nemiche. Questa è strategia difensiva, che però non esclude la più audace offensiva in campo tattico. L'azione strategica offensiva si riduce a portare le proprie forze mobili preponderanti a contatto del nemico obbligandolo a battaglia; l'azione difènsiva è assai più complessa; essa deve sfuggire la battaglia campale, avendo inferiorità complessiva di forze; deve attaccare il nemico solo in quelle condizioni che le possono assicurare un vantaggio; e tenendolo sotto l'incubo di questi attacchi, impedirgli di ottenere obiettivi costieri, profìttando delle condizioni sfavorevoli in cui si metterà se tenta di ottenerli, per attaccarlo con successo.
Anche la prassi strategica suggerita da S., per lungo tempo imbarcato su torpediniere, ricalca quella del Bonamico, alla quale esplicitamente rimanda. Essa si basa essenzialmente sull'attacco notturno dei convogli di sbarco nemici con torpediniere d'alto mare e/o con navi di piccolo e medjo tonnellaggio, che agiscono soprattutto con lo sperone e il siluro. TI S. dimostra una certa fiducia anche nell'attacco torpediniera diurno: ricorda infatti che nelle manovre del 1893 "con l'attacco diurno Jàtto dalle torpediniere della squadra di manovra (nazionale) contro le navi della squadra permanente (nemica). che homhardavano Civitavecchia, è opinione accreditatissima che le due navi di testa, Lepanto e Italia, sarebbero state per lo meno inutilizzate" [ erano le corazzate più potenti della nostra flotta - N.d.a.]. L'attacco torpedimero dovrebbe essere accompagnato dall'azione di "un nucleo di navi veloci e potentemente armate", con il compito di disturbare e possibilmente distogliere dai loro obiettivi costieri le forze navali nemiche, e di attaccare e distruggere i convogli di truppe nemiche. Si dovrebbe inoltre distaccare un'aliquota di forze per agire contro le coste neriche o condurre la guerra di corsa. Quest'ultima soluzione va adottata quando si ritenga che ciò sia utile per conseguire i supremi obiettivi della guerra, o per meglio impedire all'avversario (per esempio col timore ili rappresaglie) il raggiungimento dei suoi obiettivi costieri. li naviglio più adatto per la difensiva strategica è basato su torpediniere d'alto mare e unità di piccolo e medio tonnellaggio numerose almeno quanto quelle del nemico, ma più veloci e potenti. li tutto va completato con navi di grosso tonnellaggio che sacrifichino la protezione alla velocità, all'autonomia e all'armamento, aventi il compito di "disturbare grossefòrze che operassero sulle coste nazionali, e disputare al nemico il dominio del mare onde impedirgli di effettuare sbarchi". Da sottolineare più volte un concetto-base che la storia del XX secolo ha dimostrato esatto, ma che non è mai stato seguito: "il numero di queste navi [maggiori] dipenderà dalle risorse finanziarie, non sacrificando mai per queste il denaro occorrente per mantenere il naviglio delle altre classi [cioè il naviglio leggero - N.d.a.] nei limiti esposti''.
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Più nel dettaglio, dato per scontato che per carenza di risorse la nostra strategia navale (evidentemente contro il principale e più probabile nemico, la Francia) non potrà essere che difensiva, il S. indica il seguente dispositivo: - flottiglie di torpediniere dislocate lungo l'intero litorale, in basi distanti poche ore di navigazione tra di loro; - divisioni di crociera per la sorveglianza dei passi che danno accesso al litorale, ove dovrà anche essere dislocato "qualche potentissimo incrociatore" per inseguire e battere navi nemiche isolate che intendano operare sul litorale stesso ( che non potranno mai essere delle corazzate, a causa della loro scarsa velocità); - divisioni di crociera per la sorveglianza del litorale, tenendo presente che in prossimità delle basi di operazione questo compito potrà essere svolto anche da "navi antiquate di mediocre velocità, purché discretamente protette e armate"; - il grosso delle forze, "costituito da poche navi veloci, sufficientemente protette e potentemente armate di artiglieria" [quindi non da grandi corazzate - N.d.a.] dislocato a portata di segnale nei pressi di un semaforo costiero avanzato [al tempo non era ancora stata adottata la radio - N .d.a.], con un nucl.c o di navi leggere e velocissime per la trasmissione degli ordini e per l'esplorazione sui fianchi quando la forza navale è in cammino (l'esplorazione sul davanti verrebbe compiuta dagli arieti); - divisioni distaccate per la protezione dei punti più importanti del litorale, che "devono essere sufficientemente veloci per schivare il combattimento conjòrze preponderanti'' [anche in questo caso, sembrano escluse le corazzate - N.d.a.J, da costituire solo e se quando si sono costituite le precedenti aliquote di forze. Con una siffatta, complessa articolazione delle forze non si intende assicurare l'incolumità assoluta del litorale, ma evitare almeno le offese più temibili, in modo che "l'esercito sia libero di disporre di tutte le sue forze per la guerra continentale" [scopo, quest'ultimo, concordemente indicato dal Ricci e dal Bonamico - N.d.a.]. Evidentemente essa richiede un numero sufficiente di navi dei vari tipi, a cominciare dalle torpediniere che devono essere in grado di coprire tutto il litorale. TI S. se ne rende ben conto, e sottolinea che anche per le forze richieste dalla strategia difensiva da lui indicata occorre un minimo indispensabile di risorse: "oltre questo minimo non bisogna transigere, a meno di vincolarsi a una politica che affidi la difesa marittima alla marina di una nazione amica; ma se così si intendesse fare occorrerebbe dirlo francamente al paese, e spendere per la marina militare soltanto il poco occorrente per scopi scientifici e politici nei paesi d 'oltremare". Decisamente, il S. ha poca fiducia nelle grandi navi: osserva infatti in nota che "unaflottiglia di venti torpediniere attaccherà sempre con vantaggio una nave [corazzata] di prima classe del costo di 25 milioni circa con oltre 600 uomini d'equipaggio. Le torpediniere, calcolate a 400.000 lire l'una per abbondare. costeranno 8 mi/inni e porteranno complessivamente non oltre 440 uo-
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mini d'equipaggio". Alla sfiducia nelle navi corazzate il S. aggiunge la sfiducia nelle fortificazioni costiere destinate a difendere da sole le coste più esposte a sbarchi: le coste si difendono con le forze mobili; fortificazioni costiere e difese subacquee concorrono alla difesa con tali forze ma non le sostituiscono. Esse sono ammissibili solo per la difesa di stretti e ancoraggi d'importanza strategica (o anche di città marittime importanti, sempre che non richiedano grosse spese). Di conseguenza le risorse da destinare alle fortificazioni costiere, eccetto taluni casi particolari, possono più utilmente essere impiegate per rafforzare le forze mobili. TI successo di una siffatta strategia difensiva è condizionato dai risultati del!' esplorazione, il cui compito è di far conoscere con la massima rapidità e precisione le mosse del nemico, dislocando di conseguenza le proprie. Ai particolari di questa azione il S. dedica buona parte del lavoro, il quale non è altro che lo sviluppo e la messa a punto di concetti già esposti dal Bonamico. Inutile dire che, nel secolo XX, queste idee di fine secolo XJX hanno avuto ben poco successo. 1 rimanenti articoli fino al 1903 - abbastanza numerosi sono il completamento e l'approfondimento di questo primo, fondamentale studio, e al tempo stesso preludono a questioni trattate ~ senza strappi concettuali nei successivi Elementi di arte militare marittima. Di particolare interesse l'articolo Cannoni e corazze (1900),6 nel quale il S. non si dimostra non entusiasta per i grossi calibri, le forti ed estese corazzature e i grandi dislocamenti delle navi da battaglia. Esalta le prestazioni - specie in fatto di capacità di penetrazione del proietto e celerità di tiro - del nuovo pezzo di medio calibro italiano da 203, che è superiore ai minori calibri francesi ("le corazzate francesi ora progettate pare saranno armate con 18 cannoni da 164"). Giudica poco conveniente l'aumento di corazzatura per resistere al 203 , che imporrebbe di aumentare notevolmente la quota di dislocamento destinata alla protez;ione stessa, a discapito di altre caratteristiche ugualmente necessarie per le navi da battaglia. Al confronto, il cannone di grosso calibro fortemente protetto consente di controbattere sia i cannoni minori che quelli s imilari della flotta nemica, può concentrare il fuoco su taluni obiettivi e basta un colpo fortunato per mettere fuori combattimento una nave minore e/o danneggiare gravemente anche una nave da battaglia. Per contro, un cannone più potente [del 203]pesa assai di più, ed a parità di peso totale del complesso la nave ne porterà un numero notevolmente minore, inoltre avrà tiro assai più Lento: per queste ragioni concomitanti non è possibile ottenere da un complesso di maggior calibro la intensità di fuoco necessaria per rispondere con successo a/fuoco dei pezzi a caricamento rapido di navi similari, ed aver modo di smantellarne rapidamente l'opera morta quando se ne presenta l'occasione favorevole; come pure non sarebbe possibile respingere con successo navi minori che attacchino [ ... ]. Una notevole intensità di fuo-
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Sechi, Cannoni e Corazze, in "Rivista Marillima" febbraio 1900, pp. 205-217.
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co è anche necessaria in operazioni costiere; ed appunto per raggiungere in misura soddisfacente questi obiettivi [ ... ] si è successivamente aumentato l'armamento di medio calibro delle navi di linea che ha ora acquistato importanza pari, se non superiore, ali 'armamento di grosso calibro; contemporaneamente l'armamento di artiglierie delle navi da crociera ha acquistato sviluppo maggiore, talché ora compete con quello delle navi di linea per quanto riguarda l'armamento di medio calibro.
D'altro canto, poiché le grosse artiglierie assorbono una parte notevole della quota di dislocamento ad esse destinata, se si vuole dare un conveniente sviluppo anche alle artiglierie di medio calibro senza trascurare altre caratteristiche ugualmente necessarie, "si va incontro a dislocamenti enormi (sic) che si aggirano tra le 14000 e le 15000 tonnellate". Maggiori dislocamenti comportano maggiori costi, " il che obbliga a limitarne soverchiamente il numero, a meno che non si disponga di grandissime risorse.finanziarie". Tenendo conto di questi svantaggi, rimarranno le due coppie di grossi cannoni che armano le più recenti navi di linea delle principali marine? La risposta del S. a questo interrogativo è relativistica come sempre: chi vuole ottenere grandi successi tattici in battaglie campali e dispone dei fondi necessari al conveniente sviluppo delle proprie forze navali [non era certo il caso dcli' llalia - N .<.I.a.], farà bene ad armare le proprie navi di linea anche con grossi cannoni, rassegnandosi agli enormi dislocamenti: ma se più che al successo tattico, necessario a chi vuol condurre la guerra oj)ènsivamente, si mira al successo strategico nel! 'intendimento di contrastare al nemico il dominio del mare ed impedirgli di operare sul litorale nazionale e soprattutto di sbarcarvi truppe [è il caso dell'Italia - N.d.a.], non sembra necessario che le navi da battaglia siano armate con grossi cannoni.
La rinuncia ai pezzi di grosso calibro consentirebbe una notevole riduzione dei costi, quindi renderebbe possibile costruire un numero di navi da battaglia sufficiente per condurre una guerra strategicamente difensiva. Queste navi di minor dislocamento sono anche più adatte di quelle maggiori all'impiego del siluro e del rostro, "armi queste, che garantiscono assai meglio del grosso cannone il successo risolutivo". Decisamente, nel 1900 il S. è molto lontano dalla ormai vicinaDreadnought, specialmente per l'Italia. E chiude l'articolo affermando che la nuova nave da battaglia progettata per la nostra marina risponde alle caratteristiche da lui indicate per le navi adatte alla difensiva strategica. Tali caratteristiche "si sono conosciute con una certa esattezza quando questa monograjìa era già pensata e scritta in gran parte". Si tratta forse di una rivendicazione di paternità per le quattro corazzate tipo Vittorio Emanuele, impostate su progetto del Cuniberti dal 1901 al 1903 per impulso del Ministro Bettòlo protettore ed estimatore del S.? In realtà questi tipi di nave - gli ultimi prc-Dreadnought italiani, entrati in servizio nel 1907-1908, cioè dopo le prime Dreadnought inglesi - corrispondono solo in parte alla formula indicata dal S. Hanno velocità (21
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nodi) e autonomia (11.000 miglia a l O nodi) elevate, ma rispetto alle precedenti unità tipo Brin riducono da 4 a 2 i pezzi di grosso calibro (da 305) anziché eliminarli, sia pur con una riduzione che va a favore del numero di pezzi da 203 mm, aumentati da 4 a 12. Ne consegue che il dislocamento supera le 14000 t, cifra che il S. definisce, come si è visto, "enorme". 11 S. ribadisce con ancor maggiore forza le sue idee a favore della convenienza della difensiva strategica per l'Italia, contro la superiore flotta francese, in una successiva lettera dello stesso anno 1900 alla Rivista Marittima, 7 nella quale fa riferimento ali' articolo Cannoni e corazze del celebre Augusto Vittorio Vecchj (Jack La Bolina), che sulla Rivista Nautica critica la sua preferenza per le elevate velocità, definendola "la follia del cammino", e si pronunzia a favore della guerra di squadra. Secondo il Veccbj non è prudente fare assegnamento su velocità elevate, perché la cattiva qualità del carbone, le carene sporche e fuochisti inesperti la possono ridurre notevolmente. 11 S. obietta che la stessa cosa può avvenire per tutti gli altri fattori che determinano la potenza offensiva di una nave; e come si devono curare con grande attenzione questi fattori, onde ottenere la massima efficienza, così si devono curare quelli che possono provocare perdite di velocità, compreso il carbone, per il quale il Vecchj afferma che "jùori di casa il carbone è quello che danno i depositi e non sempre si hanno bacini disponibili'': ma secondo S. il Vecchj non tiene conto che le flotte che attuano la difensiva strategica agiscono sempre in mari non lontani dalle coste nazionali, quindi anche il combustibile può essere sempre della migliore qualità. 1n quanto alla preferenza del Vecchj per la guerra di squadra, il S. replica, come sempre, che se la flotta nemica [come nel caso della Francia - N.d.a.] è superiore, non c'è altra soluzione che rinunciare alla guerra di squadra e relativa battaglia decisiva; ma quando il litorale nazionale è esteso e.facilmente accessibile in molti punti, per cui ben si presta agli attacchi navali, si vorrà lasciarlo completamente in balìa del nemico, specialmente quando la buona riuscita di qualche operazione costiera può compromettere l'andamento e l'esito della guerra anche su/le.frontiere terrestri'! Questo è proprio il caso de/l'Italia: sono ormai trascorsi due lustri dacché la voce del Bonamico si levava, quasi isolata, per far notare agli italiani che il punto debole della difesa generale dello Stato è il mare: a poco a poco l'idea ha fatto strada e anche molti egregi ufficiali del1'esercito si sono preoccupati dell'importante questione, giungendo ad analoghe conclusioni.
A conforto delle sue tesi il S. cita il tenente colonnello Fazio, il Cottrau, il Perrucchetti (Voi. Il, cap. IV), il Bettòlo, naturalmente ancora il Bonamico. E aggiunge che persino il Saint Bon non parla mai della battaglia decisiva, e del-
7
Sechi, A proposito dt:llujùlliu del cummirw, in ·'Rivista Marittima" maggio 1900, pp. 302-307.
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TL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. !Il (1870.1915) - TOMO Il
la sua grande nave di linea dice che "dovrà a guisa di falco librarsi per lungo tempo sulle nostre coste, piombare improwisamente e rovinosamente sul nemico, seminare la distruzione in un convoglio di truppe destinate allo sbarco". Ha perciò torto il Vecchj, il quale asserisce che le forti velocità servono soltanto a scappare: si accerti Jack La Bolina e con esso tutti coloro che si fossero per caso impressionati della dura parola scappare, che se le nostre navi scappassero, allorché motivi strategici lo esigessero. saprebbero anche piombare sul nemico al momento opportuno e riportare successi che sarebbero certamente mancati se non fossero scappate a tempo.
Nello stesso anno 1900 il S. esprime il suo punto di vista anche in materia di tattica navale,8 con concetti che in buona parte non hanno tempo. Riassumendo: - le "armi corte" (siluro e sperone) sono la miglior risorsa di chi, trovandosi in inferiorità di forze, è tuttavia costretto ad accettare battaglia con forze superiori. In particolare le navi minori, veloci e maneggevoli possono e debbono tentare l' impiego del rostro contro navi maggiori, specie di notte e quanto quest'ultime sono già fiaccate dall'azione a distanza; - la squadra che nel combattimento a distanza è risultata soccombente deve cercare di correre addosso al nemico, unico mezzo per tentare di volgere a suo favore le sorti del combattimento o almeno far pagare cara la vittoria al nemico; - per catturare o distruggere il maggior numero di navi nemiche impegnate nell'azione, come ha sempre cercato di fare Nelson, non basta il fuoco a distanza; - la tesi che chi dispone di velocità maggiore può imporre all'avversario il modo di combattere che più gli conviene va accolta con molte riserve. Nella guerra di squadra le velocità non possono essere molto diverse: ciascuna flotta incorpora anche navi antiquate ma ancora utili, che sono meno veloci delle navi più recenti. Se il nemico serra le distanze, conviene accettare senz'altro il combattimento ravvicinato, perché prendere caccia avrebbe nocivi effetti sul morale degli equipaggi; - di conseguenza, l'affermazione che il più veloce impone la maniera di combattere andrebbe sostituita con quella che l'azione a distanza è possibile solo se è voluta da entrambi i contendenti; - le navi del momento consentono la più ampia scelta di formazioni e manovre; "le teorie sull'impiego dello sperone come arma predominante hanno fatto il loro tempo e non si può nemmeno pensare che esse possano influire nell 'ordinare e manovrare una forza navale per il combattimento";
• Sechi , Appunli di tattica navale, in '"Rivista Marittima" dicembre 1900, pp. 411-433.
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- oggi quindi è possibile e conveniente "dare il bando a vieti sistemi che impongono regolefìsse, formazioni e manovre speciali e non tengono in dovuto conto il principale fattore de/l'azione tattica, la formazione cioè e la manovra dell 'avversario il quale, generalmente, non farà quello che allo studioso di esse meglio converrebbe che facesse"; - formazioni e manovre devono ispirarsi al concetto fondamentale di concentrare le offese su una parte delle forze avversarie, concetto valevole sia in campo strategico che tattico; una formazione o manovra di combattimento è tanto più utile quanto meglio consente l'applicazione del predetto principio in relazione a/la formazione e alla manovra de/l'avversario. Di conseguenza, il valore delle singole manovre e formazioni non è mai assoluto ma relativo; anche la linea di fila, generalmente preferita dagli autori navali, non si sottrae alle predette condizioni di relatività. È utile adottarla, almeno per divisioni; come formazione iniziale di battaglia; ma durante l'azione sarà necessario "modificare automaticamente" detta formazione per meglio realizzare la concentrazione delle offese. Segue una critica agli scrittori navali coevi, i quali come ancor più hanno fatto quelli del passato - considerano soltanto il valore assoluto, e non quello relativo, di ciascuna formazione; "ne scelgono una, generalmente la linea di fila, che ritengono superiore alle altre, ma non si preoccupano di considerare se tale superiorità permane qualunque sia la formazione dell'avversario". Coerentemente con questi criteri il S., pur apprezzando gli studi matematici pubblicati dal Bemotti e altri onde dimostrare l'utilità delle "manovre avvolgenti", ritiene che esse favoriscano non il più veloce ma il meno veloce; comunque a suo parere si tratta dell'applicazione di formule matematiche che favoriscono gli ingegni mediocri, ma tarpano le ali ai più abili, vincolandone l'azione. Merita un breve cenno anche L'equipaggiamento dell'armata (1898 "equipaggiamento" nel senso di "costituzione e ordinamento degli equipaggi"),9 nel quale il S. sostiene la necessità del servizio di leva anche per la marina, sia pure con una forte aliquota di volontari a lunga ferma per gli incarichi più pregiati. Lo fa ancora una volta in polemica con il Vecchj, il quale invece giudica il servizio militare obbligatorio "un dispotico tributo del sangue, tributo in nome del quale un uomo, che natura abbia fatto assolutamente codardo, è obbligato, pena la morte, ad affrontare valorosamente p erjòrza, tanti p ericoli dai quali rifugge per sollecitazione invincibile della propria indole''. Ad argomenti analoghi a quelli dei sostenitori "terrestri'' della leva (Cfr. Voi. II e Tomo I Voi. lll) per la marina il S. aggiunge l'opportunità di limitare le spese, impiegando personale di leva - meno costoso del volontario - negli incarichi a terra e in quelli di bordo per svolgere mansioni che non richiedono conoscenze tecniche speciali o lunga pratica. Per ottenere il miglior rendimento del
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St:chi, L 'equipaggiamento del 'armata, in "Rivista Marittima" lebbraio 1898, pp. 279-289.
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IL PENSlllRO MlLITARE E NAVALP. ITALIANO - VOL. lii (1870-191S) - TOMO Il
personale bisogna però curare la stabilità degli equipaggi, cioè la loro permanenza sempre sulla stessa nave, e selezionare bene il personale volontario, eliminando gli elementi inadatti anche con il loro passaggio all'esercito (sic). Da ricordare, infine, la polemica con il comandante Roncagli sulla possibile mancanza di carbone in caso di guerra, 10 ben sostenuta dal Roncagli ma da lui negata, con argomentazioni troppo ottimistiche e previsioni errate, come quella della guerra breve e della possibilità di importare carbone - oltre che dalla parte di frontiera rimasta aperta - anche via mare e in caso di dominio del mare da parte del nemico. In sintesi gli articoli del S. prima degli Elementi di arte militare marittima ne fanno il più documentato e convinto sostenitore - sulle tracce del Bonamico - della necessità della difensiva strategica per le forze navali italiane, che devono avere come compito principale il contrasto degli sbarchi francesi, con scelte costruttive in armonia con il concetto strategico e tali da privilegiare il naviglio sottile e la velocità, senza seguire la tendenza delle principali marine all'aumento dei calibri, delle corazzature e quindi dei dislocamenti. Queste convinzioni già bastano per fare del S. un avversario in pectore della Dreadnuught, dunque un uomo contro corrente come è stato il suo progenitore Bonamico.
SEZIONE II - Il Volume I degli "Elementi di arte militare marittima" (1903)
Come già accennato, l'opera è spesso lo sviluppo e il perfezionamento di studi precedentemente pubblicati, con particolare riguardo a quelli sulla strategia, sulle costituzioni navali e sugli equipaggi. Ciò premesso, il Vol. I esamina il rapporto tra guerra marittima e "grande guerra" (nel senso di guerra classica tra gli eserciti delle principali potenze europee, sul modello napoleonico e della guerra 1870-1871 ). È dedicato dall'Autore, "memore e riconoscente degli incoraggiamenti avuti'', al contrammiraglio Bettòlo, una delle personalità maggiori della marina del tempo, più volte Ministro - non è un caso - anche nel periodo di elaborazione del libro (1899-1900; 1903; 1909-1910). Il Bettòlo viene dal S. frequentemente citato, e per una coincidenza che non si sa se casuale o meno, il Voi. T viene pubblicato proprio nell'anno (1903) nel quale il Bettòlo si dimette da Ministro per le accuse sugli asseriti illeciti nelle forniture militari della "Terni''. Nella prefazione l'Autore precisa che il libro intende trattare in forma elementare e riassuntiva le principali questioni di arte militari marittima, sfrut-
10
334.
Scchi, lettera su La carestia del carbone in "Rivista Marittima" agosto-settembre 190 l, pp. 330-
H - TRA BONAMJCO E BERNOITI L'IMPORTANZA DELLA "CORRELAZIONE TERRESTRE- MARlnlMA"
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tando le ricerche condotte per le esigenze di un corso di tale materia da lui tenuto presso l'Accademia navale. Indica in Bonamico e Mahan i principali autori navali di riferimento, mentre "nella trattazione delle questioni che concernono la guerra in generale, mi sono principalmente servito della classica opera di Nicola Marselli, La guerra e la sua storia". Dopo un accenno ai "rapporti strettissimi" che intercorrono specie al momento tra guerra marittima e terrestre, il S. mette in rilievo l'opportunità di trattare, all'inizio dell'opera, anche "l'importantissima funzione politico - economica che il potere marittimo esercita a beneficio dei popoli forti sul mare, e le svariate cause che riescono utili o nocive al suo sviluppo". L'Introduzione non è propriamente tale: l'autore entra subito nel vivo della trattazione del potere marittimo, cioè della parte teorica più importante. I successivi capitoli sono così intitolati: I. L'arte militare, II. Nozioni generali sulla guerra, III. Nozioni di geografia strategica marittima, IV. La marina e la grande guerra, V. La guerra di costa, VI. La difesa marittima dell ' Italia. Bastano questi titoli a dimostrare che il Voi. l è di gran lunga la parte di maggior interesse di un'opera che a sua volta è la più importante, anzi l'unica del S., e insieme tra le più importanti del secolo XX, che qui viene in certo senso introdotto.
Il discutibile concetto di potere marittimo e la sua importanza anche per l'Italia Francamente deludente, e non condivisibile, è l' esordio dell'Introduzione, nel quale il potere marittimo viene cosi definito: "è il mezzo col quale gli Stati esercitano il dominio del mare - talassocrazia - per scopi militari, commerciali e coloniali; esso pertanto esplica la sua azione non solo nel campo militare ma altresì in quello politico ed economico, ed è evidentemente costituito dall'armata militare, dalla flotta mercantile, dagli appoggi che ad esse offre il litorale nazionale e coloniale". 11 Qui va osservato che il potere marittimo non è semplicemente e semplicisticamente "un mezzo per esercitare il dominio del mare", ma ne è piuttosto una necessaria premessa, che rende possibile il contributo con le forze marittime possono dare - in vari modi - alla prosperità della nazione incapace, e/o alla vittoria insieme con le altre forze armate in guerra; in tale contributo si identifica lo scopo delle forze navali. Un certo grado di potere marittimo può essere raggiunto anche dalle nazioni che non possono contendere al dominio del mare alle flotte più forti, ma - come afferma lo stesso S. - sono pur sempre in grado di ostacolarlo. Il potere marittimo si raggiunge e mantiene anche (ma non solo) con il dominio del mare, stato di fatto militare che può essere temporaneo ed è reso possibile, appunto, dal possesso del potere marittimo il quale - inutile ripeterlo - non deriva solo dalla
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St:chi, Elementi ... (cit.), Voi. I p . 3.
IL PENSIERO MILITARE li NAVALE ITALIANO - VOL. lii (1870-1915)-TOMO TI
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flotta militare e mercantile e dai loro appoggi, ma anche da un complesso di elementi di carattere politico - sociale ed economico analizzati da Mahan e Bonamico, che poi determinano l'efficienza di tali flotte. A questi ultimi il S. avrebbe dovuto accennare subito anziché trattarli - come meglio si vedrà in seguito - a parte e in un secondo tempo. Né sembra che egli abbia chiara la differenza tra potere marittimo e dominio del mare, visto che afferma che il primo "esplica la sua azione" ecc. No: il potere marittimo rappresenta una capacità, una possibilità, e fa parte del potenziale militare complessivo di uno Stato: quindi non agisce, ma rende possibile e condiziona l'azione della flotta militare e mercantile (non casualmente Bonamico chiama elementi di potenzialità o potenziali le componenti del potere marittimo). D'altra parte, il dominio del mare (Command of Sea; non Sea Power) è condizione necessaria ma non sufficiente - per il pieno sfruttamento del potere marittimo: se mancano gli altri elementi componenti il potere marittimo, esso è sterile e a poco a poco viene meno, perché rappresenta la base, l'intelaiatura del potere marittimo, ma viene al tempo stesso alimentato e completato dagli stessi elementi che lo compongono. Dopo averlo sia pur imperfettamente definito, il S. con mano più felice dimostra la maggiore importanza politico - economica del potere marittimo rispetto al passato, quando le economie erano più autosufficienti, non era ancora iniziata la rivoluzione industriale e i commerci tra Paesi diversi erano scarsi. Al momento, invece, l'industria moderna abbisogna di una grande quantità di materie prime, che solo il commercio internazionale può provvedere, e la sua produzione è sovente esuberante ai bisogni delle province vicine, spesso dell'intero Stato, cosicché per smerciarla essa deve rivolgersi al mercato mondiale. Di qui uno straordinario incremento degli scambi, anche tra i paesi più lontani, reso possibile dalla maggior rapidità e sicurezza, dal minor costo e dallo sviluppo dei mezzi di trasporto.facilitato dagli accordi commercia/i che attenuano, quando non abbattono, le tariffe doganali, con reciproco vantaggio dei paesi contraenti. 12
A ciò si aggiunga il passaggio dai governi assoluti ai governi democratici, che ha reso possibile una maggiore cura per il benessere e l'igiene dei cittadini. Ne è conseguito un forte aumento della popolazione, che ha provocato (specie non solo per l'Italia) il fenomeno dell'emigrazione transoceanica su vasta scala, e la creazione di colonie oltremare dove indirizzare l'esubero di popolazione. Per effetto di questo fenomeno le questioni territoriali europee non assorbono più come un tempo l'attenzione esclusiva dei governi, che invece si rivolge sempre più alle questioni coloniali e commerciali, sicché i contrasti che ne derivano sono quelli che maggiormente turbano i rapporti internazionali.
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ivi, pp. 7-8.
TI - TRA BONAMJC,-0 E BERNOTTI L'IMPORTANZA DELLA "CORRELAZIONE TERRESTRE-MARl'lTIMA"
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In questo nuovo contesto si manifesta la tendenza dei governi a dedicare allo sviluppo della marina gran parte dell'attenzione che finora hanno rivolto alle forze terrestri; ed invero la lotta commerciale mal si sostiene, la protezione degli emigranti è impossibile, se la politica dello Stato non si appoggia ad un adeguato potere marittimo. Le vie mondiali della ricchezza sono le vie acquee, i mercati del traffico sono i continenti al di là degli oceani, e queste vie devono essere battute da un naviglio mercantile sufficiente a tutte le esigenze dell'emigrazione e del commercio nazionale[ ... ]. L'espansione commerciale, necessario complemento nello sviluppo industriale, è lenta e stentata se deve servirsi di linee di navigazione straniere, le quali hanno interesse di ostacolarla con tutti i mezzi[ ... ]. Ma non basta che numerose navi da commercio solchino i mari: è la potenza militare (e specie quella navale), che apre i mercati, che impone i trattati, che dà un 'idea tangibile a nazionali e stranieri della potenza, della forza dello Stato; che ne rende pregiata l 'amicizia e ne.fa temere le ire; che dà alla politica quel 'appoggio senza del quale l'uomo di Stato più avveduto non può conseguire successo di sorta. n
11 S. intravede un pericolo anche nella forte espansione commerciale e nell'aumento della potenza militare e navale degli Stati Uniti, che compromette il predominio europeo fino a imporre alle nazioni del vecchio continente un accordo per fare fronte comune contro la concorrenza americana. E citando il Bonamico, (che nel 1914 avrebbe voluto una forza navale comum: t:uropt:a in funzione antiamericana), il S. sostiene che soltanto il potere marittimo può porre un freno alla espansione americana, e tutelare il dominio coloniale e gli interessi europei nel nuovo continente, fra i quali importantissima la neutralizzazione del canale che in un prossimo avvenire unirà il Pacifico e l'Atlantico attraverso/ 'America Centrale [cioè il Canale di Panama, che sarà completato nel 1914 - N.d.a.]; soltanto il potere marittimo può impedire una esagerata applicazione della dottrina di Monroe riassunta dalla ben nota formula L'America agli americani. 14
Il S. ricorda poi che tutti gli Stati negli ultimi anni hanno aumentato (e in qualche caso raddoppiato) gli stanziamenti per la Marina: "tutti gli Stati eccetto l'Italia!". 15 Eppure l'Italia ha bisogno di una flotta potente non solo per ap-
n ivi, pp. 11 - 12 . ivi, p. 13. 15 In effetti i bilanci della marina hanno segnato un minimo dal 1891 al 1896, cioè nel periodo nel quale l 'esercito assorbiva maggiori fondi a causa della guerrn d'Africa, infelicemente conclusasi con la sconfitta di Adua (marzo 1896). Ma, come riconosce lo stesso S., "dopo /'esercizio 1896-1897 cominciò di nuovo il movimento ascendente del bilancio: nel 1900- /901 ta spesa per la marina è stata di 123 14
milioni, e p er il quinquennio successivo è stata consolidata in 121 milioni. restando però ancora inferiore a quella dell 'esercizio ll/88-1889 (158 milioni)". L'aspetto da sottolineare è però la forte inferiorità del bilancio della marina italiana del tempo rispetto a quello delle principali potenze maritti-
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JL PENSU::RO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL.
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poggiare una politica che curi l' interesse e la dignità nazionali e protegga i nostri emigrati, "ma altresì per difendere la sua frontiera mariltima, esposta, in caso di guerra, a facili e gravissime offese, che possono influire anche decisamente sull 'andamento e sul/ 'esito della guerra terrestre". 16 Per il Bonamico la difesa delle frontiere marittime è compito praticamente esclusivo per le nostre forze navali: S. perciò in questo caso tiene conto anche del concetto mahaniano di difesa del commercio e degli interessi nazionali, ( che peraltro può avvenire solo con un sufficiente numero di grandi navi, la cui costruzione non è da lui ritenuta prioritaria). L'ultima parte dell'Introduzione è dedicata all'esame dei ''fattori che influiscono sulla efficienza e sullo sviluppo del potere marittimo", cioè degli "elementi"' di Mahan e Bonamico, esplicitamente citati anche se - per quanto riguarda il Bonamico - in modo incompleto e imperfetto. Anche in questo caso, l'esordio non è brillante: "il potere marittimo è costituito dall 'armata militare, dalla flotta commerciale, e dagli appoggi che il littorale nazionale offre all'una e ali 'altra; però il suo sviluppo e la sua efficienza sono favoriti da diversi faltori, alcuni naturali, altri dipendenti dalla umana volontà, e contrastati da altrf'. 11 Dopo aver osservato che il S. non parla più di "littorale coloniale", e che gli appoggi possono essere forniti oltre che dai porti delle colonie dai porti di altri Stati amici e alleati, si deve dire che il S. avrebbe fatto meglio a scrivere che " il potere marittimo si manifesta ed esercita con ... ...... ecc.", anziché "è costituito da ... ". Egli trascura che Bonamico parla - oltre che di una "statica del potere marittimo" della quale fanno parte gli clementi (non strettamente militari) costituenti il potere marittimo - anche di una "dinamica esterna", che comprende le varie modalità d 'azione delle flotte. In tal modo per Bonamico i diversi elementi componenti il potere marittimo, ivi compresi quelli militari, sono inseriti in un concetto unitario esaminandone anche le relazioni e interconnessioni. Invece per S. il potere marittimo è costituito dalla sola flotta militare e mercantile. Se ne deve dedurre che gli altri "Jàttori" non entrnno nella costituzione del potere marittimo anche se influiscono sulla sua efficienza e sul suo sviluppo, come del resto fanno la f1otta militare e mercantile e i relativi porti, che se mai ne sono la risultante. Quale dei due approcci, diversi anche al di là delle apparenze, è più valido? La risposta ci sembra ovvia: quello del Bonamico, che del resto corrisponde a quello del Mahan.
me, a cominc iare dalla marina fumcese. Secondo lo stesso S., nel 1903 la Francia spendeva per la marina 3 I 3 milioni (più del doppio dell'Italia), l'Inghilterra 861 milioni, gli Stati Uniti 426, la Germania 27 1, la Russia 270, il Giappone 74 e l'Austria 52 (è pertanto quest'ultimo l'unico dato positivo per l'Italia, la cui marina non poteva certamente reggere il confronto con quella frnncese, nemmeno con l'appoggio austriaco: sarebbe stato necessario anche quello tedesco). 16 Sechi, Elementi ... (cit.), Voi. I , pp. 14-15. 17 ivi, p. 15.
li -TRA BONAMJCO E BERNOTTI L'IMPORTANZA DELLA "CORRELA7JONE TERRFSTRE-M.ARITrlMA"
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Poco da dire sui "fatton"' considerati dal S., che derivano da una contaminatio tra gli elementi di Mahan e quelli del Bonamico appartenenti alla "statica del potere marittimo", però con esclusione del le funzioni "trascendentalf' e "incommensurabili" e di quelle connesse con la "dinamica del potere marittimo". Essi sono: la posizione geografica (Mahan), la conformazione fisica (Mahan), il clima e i prodotti del suolo (Bonamico), le industrie (Bonamico), la ricchezza nazionale (Bonamico), la popolazione dello Stato (Mahan), la posizione della capitale (Bonamico), l'azione e la forma del governo (Mahan), il carattere nazionale (Mahan). Da notare che secondo S. (e diversamente da quanto ritengono sia Mahan che Bonamico) gli Stati Uniti "si trovano in una posizione geografica infelicissima" paragonabile a quella della Russia, il che è vero. Anche l'accenno alla grande utilità che avrà per loro la prossima apertura del Canale di Panama non è accompagnato dall'affermazione che, dopo tale apertura, gli Stati Uniti potranno essere una grande potenza marittima dal carattere praticamente insulare. Notevole l'importanza attribuita dal S. alle industrie [che però renderebbero necessario non interrompere il commercio marittimo di guerra - N.d.a.] e alla ricchezza nazionale. Sulla forma di governo il S. si allontana sia da Mahan che da Bonamico e dà per scontata l'esistenza di un governo democratico, pur riconoscendo che in tal caso è difficile ottenere dal Parlamento l'aumento delle spese militari, "bisogna pertanto che il potere esecutivo sia abbastanza energico, per ottenere a tempo l'approvazione delle spese militari necessarie, specie quando la popolazione ha carattere tranquillo, ed è aliena dalle avventure". Quest'ultimo accenno al "carattere tranquillo" è probabilmente riferito alla popolazione italiana: trattando del "carattere nazionale", infatti, non accenna all'indole del popolo italiano e si limita a magnificare l'azione delle nostre repubbliche marinare e del popolo inglese, criticando invece spagnoli, portoghesi e francesi. In sintesi la parte dedicata da S. alla teoria del potere marittimo non dice molto di nuovo; appare anzi troppo sommaria e incompleta, rispetto a quanto già ne ha detto il Bonamico. Apprezzabile, comunque, ciò che il S. afferma sul legame tra potere marittimo, economia e industria e sulla sua importanza a tutela del commercio marittimo e degli scambi, che sono molto aumentati. Questa interfaccia è stata trascurata dal Bonamico, che si è occupato soprattutto del ruolo militare del potere marittimo, specie nella difesa delle coste.
La guerra, l'arte militare terrestre e marittima e le sue parti componenti La definizione che il S. dà di guerra è tipica del suo tempo, e valida almeno fino alla seconda guerra mondiale. Essa riguarda esclusivamente gli Stati e Le Loro forze regolari: "guerra è l'insieme degli atti coi quali uno Stato fa rispettare i suoi diritti, lottando con le armi contro un altro Stato o un altro popolo: la guerra ha luogo fra gli Stati e non fra i cittadini: la guerra fra Stati civili si jà per mezzo delle forze militari di terra e di mare e le operazioni comp/cs-
IL PENSIERO MlLITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. nt ( 1870- 1915) -TOMO Il
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se, talvolta coordinate, eseguite dai maggiori reparti di tali forze costituiscono la grande guerra". Precisazione, quest'ultima, che esclude l'esercizio della violenza contro la popolazione civile e contro la proprietà civile, e l'aspetto ideologico mirante allo sterminio del nemico poi assunto dalla guerra nel corso del XX secolo e all'inizio del XXI secolo. Il S. così definisce l'arte militare: è costituita dall'insieme degli studi che determinano la preparazione e
l'impiego delle forze militari di terra e di mare di uno Stato. Tali studi hanno nel campo teorico già da tempo acquisito carattere scientifico, ma, come ogni altra scienza, anche la scienza della guerra diviene arte, quando dalla teoria si passa alla pratica applicazione: "quando si opera la guerra non potrebbe essere che arte" - dice il Marselli, e siccome l'azione, e non la teoria, è ciò che realmente interessa, e questa non è che un mezzo di preparare quella, molti danno il nome di arte anche agli studi teorici, pur riconoscendone il fondamento scientifico. 18
Una definizione per la verità confusa e contraddittoria. Anzitutto, se la sua finalità ultima è l'azione, l'arte militare non può essere solo "un insieme di studi''. In linea generale, un'arte non è mai semplice studio, ma consiste nel fare, nell'operare sulla realtà. Ciò avviene (come già visto ai precedenti Voi. l , Il e Ill - Tomo I) anche per 1'arte militare, che pertanto ha un fondamento scientifico (anche se non è - e bisogna dirlo - scienza compiuta), ma consiste essenzialmente, oltre che nello studio, nel 'adozione dei provvedimenti e delle predisposizioni per aver ragione del nemico, cioè nella condotta delle operazioni. ln altre parole, come lascia capire per altro verso lo stesso S., nell'arte militare prevale l'azione, non la teoria; la teoria va piuttosto riferita alla scienza militare. Al confronto, una definizione che può dirsi accettabile anche oggi, ben diversa da quella del S., è perciò data dal quasi coevo Lessico Militare Italiano: "Arte della guerra o arte militare. È/ 'applicazione dei principi sanciti dalla scienza militare (o scienza della guerra) ai casi concreti di guerra. La scienza militare è il complesso delle cognizioni necessarie per organizzare od impiegare gli eserciti [o le armate navali - N.d.a.]". 19 Come risulta dal grafico di pagina 103, il S. è l'unico del periodo che al di sotto dell 'arte militare considera il concetto di grande strategia, termine che finora si riteneva nato negli anni Venti, molto usato anche dopo il 1945. Tale termine deriva dalla preminenza della correlazione terrestre marittima, la cui importanza è da lui particolarmente sentita. 20 Lo scopo supremo della guerra egli afferma - è vincere, ed è comune alle forze di terra e di mare,
18
ivi, pp. 71-72. Vari, Lessico militare Italiano, Milano, Vallardi 1916, p. 168. 20 "Correlazione terrestre-marittima" è un termine militare abbastanza usato nella seconda metà del secolo XIX, ma oggi ubsulcto. 11 Dizionario Garzanti definisce la. correlazione come "relazione re19 Aulori
IJ - TRA BONAMIOO E BERNOTII L'IMPORTANZA DELLA "CORllELAZIONE TERRESTRE-MAR11TIMÀ"
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L'ARTE MILITARE Quadro sinottico degli studi mil.itari
ARTE MILITARE
Grande Strategia
Scienza politica Diritto internazionale Scienze morali, sociali, giuridiche ed economiche
ARTE MILITARE TERRESTRE - - - . . - - - - - ARTE MILITARE MARITTIMA -
I Statistica mi li tare
Geografia militare
I
Geografia desLTilti va
I
Geo1,,rafia strategica
ORGANICA
CONDO'ITA
Personale Materiale mobile (armata) Materiale fisso (costa)
Strategia
I
Scienza dell'amministrazione
Tattica
__l_ Logistica
TECNOLOGIA MILITARE MARITTIMA
I vigazione, manovra navale, evoluzioni navali, artiglierie navali e loro impiego, armi acquee e loro impiego, architettura navale, macchine marine, fortificazione costiera Scienze esatte, scienze sperimentali
le quali perciò devono coordinare le loro operazioni, sempre che la struttura geografica del territorio nel quale esse si svolgono lo consenta [in verità la posizione dell'Italia nel Mediterraneo non solo lo consente, ma la impone N.d.a.]. A tal uopo è necessario che le due arti sorelle fondano e confondano le loro più elevate funzioni in un insieme armonico ed inscindibile, il quale coordini la preparazione e l'impiego delle jòrze terrestri e marittime, in guisa che entrambe concorrano col massimo sforzo al conseguimento della vittoria. Tali funzioni sono evidentemente limitate al campo strategico, e perciò il nome di grande strategia ci sembra appropriato per designare gli studi ad esse relativi.
ciproca tra due termini o fenomeni"'. Pertanto, al predetto termine militare andrebbe attribuito il significato di "coordinamento, raccordo, strategico tra forze terrestri e navali'', naturalmente nell'ambito di un'unica strategia nazionale interforze (mai definita).
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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Ili (1870-1915) - TOMO li
Più propriamente, per il S. la grande strategia è " la parte superiore del[ 'arte militare". Essa in passato non ha avuto cultori teorici, ma tutti i grandi capitani l'hanno intuita e ben praticata, ancor prima che essa venisse teorizzata. Alessandro per assicurarsi le spalle ha occupato le città marittime dell' Asia Minore, Cesare si è avvalso spesso delle navi per espugnare le città marittime e spostare i suoi eserciti, Pompeo per distruggere i pirati ha assunto il comando in terra e in mare, Napoleone ha dettato istruzioni sia ai suoi generali che ai suoi ammiragli .. . Nel periodo velico, però, la guerra marittima si è distaccata da quella terrestre, e la parte più importante della professione militare marittima è diventata la navigazione, e più ancora la manovra con le vele, a discapito della preparazione militare. Di conseguenza, gli studi strategici marittimi sono stati completamente trascurati e le espressioni grande guerra e grande strategia sono state riferite esclusivamente all'azione deHe forze terrestri; ma oggidì L'azione degli eserciti mal si disgiunge da quella delle armate [navali]; sembra pertanto Logico ed opportuno dare a quelle espressioni un significato più vasto e completo che, almeno a nostro avviso, meglio si adatta alle esigenze e al carattere della guerra nel tempo presente, ed integra quella unità di preparazione e di impiego delle forze di terra e di mare, che in molti casi è fattore indispensabile di vittoria.2 1
Molto centrate le considerazioni del S. sui rapporti della grande strategia con la politica (per i quali si richiama spesso al Bonamico, con una visione che potrebbe dirsi clausewitziana, anche se in questa occasione Clausewitz non viene da lui mai citato) e sugli organi del la grande strategia (Ministeri e Stati Maggiori). Riguardo alla vexata quaestio se sia meglio che l' alta carica di Ministro della guerra o della Marina sia tenuta da un civile o da un militare, il S. non ha preclusioni in un senso o nell'altro: quel che vale è scegliere l'uomo adatto, sia esso civile o militare. Tuttavia la riunione in un solo Ministero della difesa, nazionale delle Amministrazioni dell' esercito e della marina, onde assicurarne l'unità di indirizzo nella preparazione e condotta delle forze, lo lascia scettico: La cosa in teoria offrirebbe qualche vantaggio, ma bisogna considerare che effettivamente l'unità di preparazione dipende non già da un accentramento - di necessità molto complesso - di tutti gli uffici militari e marittimi, ma bensì degli accordi degli uomini che vi sono preposti: orbene, questo accordo può sussistere completo [la storia dimostra che ciò è molto difficile - N.d.a.], anche se gli uffici sono divisi, col vantaggio di avere organismi più semplici e maneggevoli, e può d'altra parte mancare se gli uffici sono riuniti. 22
È invece necessario che i Comandi o Uffici di Stato Maggiore dell'esercito e dell'armata navale, che dipendono dai rispettivi Ministeri, siano in costan-
21
Scchi, Elementi ... (cit.), Voi. I p . 84.
22
ivi. p. 86.
li - TRA BONAMJCO E BERNOTll L'TMPORTANZA DELLA "CORRELAZIONE TERRESTRE-MARJTJ'JMA"
] 09
te collegamento; perciò gli ufficiali di terra e di mare, e specialmente quelli che li devono trattare, devono conoscere la preparazione e l'impiego anche dell'altra Forza Armata. Inoltre (affermazione mutuata alla lettera dal Cottau,23 certamente discutibile e condivisa da pochi) "mi sembra indispensabile che l'ufficio di Stato Maggiore della Marina sia non solo legato a quello del Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, ma che senza perdere la propria autonomia, in una certa misura da questo dipenda; tal quale in guerra il comando della flotta dipendeva dal Comando Supremo dell'Esercito".24 In proposito, il S. accenna alla costituzione di una Commissione Suprema per la Difesa dello Stato (R.D. n. 331 del 19 luglio 1899), che riunisce le più alte cariche dell'Esercito e della Marina e ha il compito di dare alla difesa nazionale unità di indirizzo e carattere di stabilità, mantenendo tra i vertici delle due Forze Armate il necessario affiatamento nella trattazione delle più importanti questioni che interessano la difesa nazionale. Nello schema di pagina 103 al di sotto della grande strategia il S. prevede l'arte militare, suddivisa in due branche: terrestre e marittima. Anche in questo caso, però, tende a concepirle piuttosto come scienze militari, visto che "sono rispettivamente costituite dal complesso dei principi, dei metodi e delle nor-
me, che servono a preparare in pace - preparazione - e a condurre in guerra - condotta - le forze militari di terra e di mare".25 Corretta 1'enunciazione della validità anche per la guerra marittima del principio della massa, che il S. mutua dal De Cristoforis e dal Marselli (avrebbe potuto citare Nelson, e Mahan): in mare non è necessario come a terra dividere le proprie forze per la marcia, e, nella generalità dei casi, non è possibile tagliare la ritirata al nemico [su quest'ultima affermazione, c'è da fare delle riserve - N.d.a.]; perciò la scelta delle linee di marcia e la direzione dell'urto interessano assai di meno, ed i principi relativi non hanno importanza generale come nella guerra terrestre. lnvece il principio della massa e del concentramento tutto domina l'arte della guena e - come ben dice il Bonamico sta saldo praticamente e scicnl{/ìcamente nei secoli al pari della legge di gravitazione.26
I principi dell'economia delle forze e della sorpresa, strettamente connessi con quelli della massa, non sono ugualmente validi anche per la guerra marittima? La massa vale o no allo stesso modo anche nella difensiva strategica, quando si tratta di evitare la battaglia a forze riunite? A questi legittimi interrogativi, per il momento il S. non fornisce una risposta.
23 Cfr. Paolo Cottrau, L'ordinamento strategico della nostra marina, in "Nuova Antologia" Voi. XXXXill - Fase., II 15 gennaio 1884, p. 298. 24 Scchi, Elementi ... (ci!.), Voi. I p. 86 (rit. 2). 25
ivi, p. 73.
26
lhidem.
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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. III ( 1870-1915) • TOMO Il
Dell'arte militare sia terrestre che marittima fanno invece parte, per il S., la statistica e la geografia militare. La statistica "raccoglie la massima copia di dati e notizie intorno alle risorse disponibili nelle regioni che possono diventare teatro di guerra, e alle forze militari degli Stati coi quali si può venire a contesa e a coriflitto". Per la geografia militare riprende la definizione del Sironi (Tomo I, cap. Vlll): "descrive e discute le grandi accidentalità del teatro di guerra, dal punto di vista della loro importanza ed azione, individuale e collettiva, rispetto alle grandi operazioni di guerra". 27 Sempre come il Sironi, ancb 'egli divide la geografia in una parte descrittiva e in una parte ragionata o geografia strategica. Alle "Nozioni di geografia strategica marittima" il S. (unico a farlo tra gli scrittori navali coevi e precedenti, escluso naturalmente il Bonamico) dedica un capitolo a parte, modificando, e adattando alle speciali caratteristiche della guerra marittima quanto scrive il Sironi sulla guerra terrestre. Distingue tra teatro delle operazioni terrestri, teatro delle operazioni marittime e teatro delle operazioni combinate di terra e di mare, costituito dal litorale. Nel teatro delle operazioni marittime anche con la propulsione a vapore è sempre importante lo studio approfondito delle condizioni meteo, perché se esse non sono favorevoli gli sbarchi diventano impossibili e le navi minori navigano con difficoltà, o addirittura non possono navigare e combattere. In alto mare non esistono, come nella guerra terrestre, punti strategici permanenti; tuttavia i luoghi dove sono dislocate le forze mobili possono essere considerati punti strategici eventuali. Le basi di operazione marittime hanno la stessa funzione di quelle terrestri, anche se le loro caratteristiche e il modo con cui esercitano la loro influenza sono diversi. Molto più ristrette di quelle terrestri, esse sono delle posizioni del litorale con speciali requisiti, e possono essere più di una nello stesso teatro di operazioni. Mentre l'esercito è in grado di difendere la sua base d'operazioni, l'armata navale non può assicurarne sempre la difesa, perché perderebbe la sua libertà di movimento e non potrebbe più svolgere la sua vera missione, che è l'azione in alto mare. Le basi marittime sono perciò difese da fortificazioni, anni subacquee e navi costiere; l'insieme delle loro difese costituisce una piazzaforte marittima o campo trincerato marittimo. ln mare non esistono linee di difesa principali e secondarie; tale distinzione non dipende dalla loro posizione reciproca, ma dal grado di efficienza con la quale possono far fronte alle esigenze delle forze mobili. Inoltre in mare le linee di operazione e di ritirata sono sempre virtuali e hanno capacità logistica indefinita, quindi la loro scelta è assai più semplice di quella delle terrestri. Questo stato di cose facilita l'offensiva e diminuisce l'efficienza dell'azione difensiva, perché - diversamente da quanto avviene in campo terrestre - chi conduce l'offensiva può facilmente aggirare le forze navali nemiche che difendono una zona costiera e portare l'offesa su un tratto di litorale indifeso, senza alcun rischio e senza compromettere la propria base d'operazioni.
27
ivi, pp. 74-75.
II - TRA BONAMICO E BERNOTII L'IMPORTANZA DliLLA "CORREUZJONE TERRESTRE-MARTmMA"
111
Se non si possiede il dominio del mare, il litorale limita il teatro delle operazioni terrestri; se invece lo si possiede esso può diventare un'eccellente base e linea d'operazioni per gli eserciti. A seconda delle sue caratteristiche, il litorale ha una funzione strategica che favorisce l'azione difensiva o offensiva. La difesa è più difficile quando esso (come quello italiano) è molto esteso, non è continuo ma spezzato da paesi neutrali, i bracci di mare attraverso i quali vi si accede sono molto ampi e quindi riesce impossibile specie di notte sorvegliarli, il tempo buono è frequente, la mancanza di vento è rara, le nebbie sono rare e di breve durata e le correnti sono deboli. Invece la difesa è facile e efficace quando le coste sono irte di bassifondi, il cattivo tempo e le nebbie sono frequenti, il litorale è montuoso e quindi favorisce l' esplorazione semaforica, le coste sono poco abitate e non offrono obiettivi importanti all'azione navale, le località costiere sono difendibili con poca spesa, le operazioni di sbarco sono difficili, l'avanzata delle truppe verso l'interno del Paese è resa difficile dal terreno, la rete stradale e ferroviaria che fa capo al litorale non consente il facile e rapido accesso dalla costa alle località più importanti del Paese. Sotto questo profilo le località situate su spiagge aperte sono praticamente indifendibili, perché una loro difesa realmente efficace costerebbe troppo. Le basi di operazione marittime sono luoghi della costa fortemente difesi nei quali si trovano i materiali di rifornimento e i mezzi di riparazione delle forze navali; a quest'ultime offrono inoltre un sicuro rifugio quando non è necessario che tengano il mare o vogliono evitare la battaglia. Rispetto ai campi trincerati terrestri presentano il vantaggio di non impedire alle navi che vi hanno trovato rifugio di uscire per riprendere l'offensiva, a causa della grande difficoltà di bloccarle efficacemente [ma anche dai campi trincerati terrestri si può uscire per condurre una controffensiva, anzi questo è il loro scopo principale N.d.a.]. Rispetto al passato le basi di operazione sono diventate più importanti, perché le navi moderne hanno frequente bisogno di rifornimenti di carbone e di riparazioni più complesse, che possono essere effettuate solo in arsenale. Sono inoltre necessarie, in punti di particolare importanza strategica, delle piazzeforti marittime secondarie o basi secondarie dove le flotte trovano temporaneo rifugio. Esse sono meno difese delle precedenti e talvolta dispongono anche di rifornimenti e di mezzi di riparazione: "La Maddalena, per quanto riguarda riparazioni, è base piuttosto secondaria che principale; Gaeta è base principale solo come mezzi di rifornimento; gli ancoraggi di Monte Argentario sono luoghi fortificati, ma non offrono mezzi di rifornimento e tanto meno di riparazione". Infine, per non allungare troppo le linee di operazione nel corso delle operazioni marittime può diventare necessario provvedere ai bisogni logistici delle forze navali in località non previste in tempo di pace, chiamate basi di operazione eventuali. Esse devono consentire un buon ancoraggio e sono difese come meglio si può. 11 Bonamico e il Saint-Pierre distinguono tra centri difensivi, località fortificate dove si trova un grande arsenale, e centri strategici, che sono le basi di operazione vere e proprie, dove normalmente staziona la flotta, il cui requisi-
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IL PENSlllRO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. UI (1870-1915) - TOMO li
to essenziale deve essere quello di facilitare il forzamento del blocco, mentre i centri difensivi sarebbero "piazze di rifugio, di estrema e, diciamolo pure, di quasi impossibile riscossa". Spezia, Taranto, Venezia sarebbero solo centri difensivi; La Maddalena e Messina sarebbero invece strategici. A parere del S. questa distinzione, valida in campo terrestre, non lo è altrettanto in campo marittimo, dove un'armata navale purché sia abbastanza veloce può sempre forzare il blocco, qualunque sia la struttura idrografica del porto bloccato, che pertanto non può fungere da elemento di distinzione, anche perché "le forze navali hanno troppo interesse di appoggiarsi al luogo più vicino, per subordinare la scelta dell'approdo alla facilità di riprendere il largo". Statistica e geografia militare sono naturalmente a fattor comune tra arte militare terrestre e marittima. È condivisibile anche la ripartizione dell'arte militare marittima in organica (che comprende la preparazione del personale, del materiale mobile, cioè delle navi, e del materiale fisso, cioè di tutto ciò che attiene a porti, basi, fortificazioni costiere ecc.) e condotta (de Ila quale fanno parte la strategia, la tattica c la logistica, che pertanto riguardano l 'azione. In particolare gli studi relativi alla p~parazùme degli uomini, delle navi e delle basi costituiscono altrettante parti dell'organica marittima; essa in quanto riguarda l'amministrazione del personale e del materiale si giova della scienza omonima. La condotta della guerra marittima definisce gli scopi delle operazioni navali, e determina il modo di conseguirli col minimo rischio, col minimo danno, col minimo tempo; a tal uopo bisogna determinare la dislocazione iniziale e i successivi spostamenti delle proprie forze mobili, stabilire quando esse devono combattere le forze mobili awersarie ed operare sul loro litorale. Questo ufficio essenzialmente direttivo sp etta alla strategia marittima: I 'esecuzione poi dei concetti strategici è affidata alla logistica, quando non si è in presenza del nemico, alla tattica quando deve tuonare il cannone; pertanto la logistica provvede ai rifornimenti, ai movimenti e alla sicurezza delle forze mobili navali, la tattica studia le modalità del combattimento in mare e delle operazioni costiere. 28
Le funzioni che la strategia deve svolgere sono ben delineate, anche se il S. non ne fornisce una vera e propria definizione. Se però si afferma - come fa il S. - che l 'esecuzione dei concetti strategici è affidata alla logistica e alla tattica, indirettamente ma chiaramente si indicano i contenuti della strategia come puramente concettuali, e non anche organizzativi ed esecutivi; ciò è sbagliato perché il Capo da sempre, dopo averla concepita e dopo aver impartito direttive per la sua organizzazione, dirige anche la manovra strategica, apportando alla pianificazione e/o al concetto strategico iniziale le modifiche rese necessarie dalla situazione. Riguardo alla logistica, vi è da osservare che essa non cessa la sua azione in vicinanza del nemico; pertanto solo le ultime righe
u ivi, p. 74.
li - TRA BONAMJCO E BERNOTil L'IMPORTANZA DELLA "CORREUZJONE TERREST'RE-MA/UITJMA"
] 13
riferite alla logistica e alla tattica sono corrette, nell'intesa che - come la strategia e la stessa logistica - anche la tattica ba una parte concettuale, una parte organizzativa e una parte esecutiva; solo che opera in un campo più ristretto della strategia, e anch'essa ha bisogno del sostegno ininterrotto della logistica. Particolare importante, il S. giustamente esclude dall'arte militare marittima la tecnologia militare marittima, "la quale è costituita dal complesso di
tutte le nozioni scientifiche, tecniche e nautiche necessarie p er condurre lenavi, ed avere esatta conoscenza delle armi di bordo e di come impiegarle, ed alla quale devesi anche ascrivere la scienza della fortificazione, in quanto riguarda le fortificazioni costiere". Appartengono alla tecnologia anche la manovra delle forze navali, cioè le loro evoluzioni: pertanto il S. non cade nel1'antico e diffuso errore di includere le evoluzioni nella tattica navale. Le ragioni di questa esclusione sono dovute al fatto che, ormai, le nozioni tecnologiche sono diventate "così svariate, complesse e dipendenti da tante scienze diverse, che il comprenderle nel/ 'arte militare, equivarrebbe a considerare questa come arte enciclopedica, non certo ben definita". In sintesi, anche se le definizioni di arte militare indicate dal S. non sono sempre soddisfacenti, la ripartizione da lui indicata appare sotto parecchi aspetti condivisibile, specie per I'intTOduzione del concetto di grande strategia al quale sono subordinate le strategie di Forza Armata, per l'importanza data alla geografia militare marittima e per l'opportuna distinzione tra preparazione delle forze e condotta dell'azione. Apprezzabile è anche l'insistenza sul raccordo che deve esistere tra le operazioni delle due Forze Annate, anche se la Commissione Suprema per la difesa dello Stato da lui indicata si è poi dimostrata del tutto impari ai propri compiti. Si può anche osservare che l'impiego armonico delle forze di terra e dì mare non era necessariamente tale da richiedere una vera e propria dipendenza operativa della Marina dall'esercito, ma piuttosto uno Stato Maggiore operativo interforze, del tipo di quello realizzato in Italia solo a fine secolo XX, cioè un secolo più tardi. Il nuovo rapporto tra operazioni marittime e terrestri, il ruolo delle forze navali e l 'importanza (relativa) del dominio del mare Per il S. è sempre necessario pianificare fin dal tempo di pace in modo coordinato le operazioni dell'esercito e della marina anche se poi i mutamenti del.la situazione molto frequentemente imporranno delle modifiche. Nel concreto, si tratta di compilare il piano di guerra e il piano di operazione. Il primo viene "studiato di comune accordo dalle supreme autorità de/l'esercito e delle ar-
mate, dopo che insieme agli uomini di Stato si sono designati gli obiettivi politici della guerra, ed i limiti fino ai quali conviene .~pingere l'azione militare" [cosa mai avvenuta nel XX secolo - N.d.a.]. 29 I piani di operazione, invece, so-
29
ivi, p . 104.
114
IL PENSIIlRO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. ITl (1870-1915) -TOMO
n
no compilati al livello di Forza Armata, tenendo naturalmente conto di quanto prevede il piano di guerra. Il piano di operazioni delle forze navali nel periodo velico lasciava ai comandanti in mare la massima libertà d'azione, che oggi invece non è più utile e opportuno concedere, perché potrebbe nuocere all'armonico impiego delle forze terrestri e navali. Quindi: è conveniente limitarla, e mantenere i comandanti delle forze navali alla dipendenza di un 'autorità superiore, subordinata a sua volta alla suprema autorità militare. Per avere facili rapporti con questa e con l'autorità politica, la suprema autorità marittima dovrà risiedere a terra, alla capitale, o meglio presso il gran quartier generale dell'esercito. Ben si intende che questa dipendenza non deve limitare la libertà d'azione dei comandanti di forze navali [in mare], quando le comunicazioni rapide siano interrotte o quando sia necessario operare immediatamente; in questi casi essi devono averla completa, con l'obbligo di informare al più presto possibile del loro operato la suprema autorità marittima. 30
Dopo aver esaminato l'offensiva e la difensiva in campo terrestre, il S. osserva che "/'offensiva è sempre da preferirsi quando si hanno forze sufficienti per condurla con razionali probabilità di successo; in caso diverso bisogna non già scegliere ma adattarsi alla difènsiva". Affermazione non nuova e banale solo in apparenza, perché nella storia navale del XX secolo si è proclamata (ma solo proclamata) la guerra di squadra e l'offensiva, anche in prevedibili condizioni <li inferiorità che poi hanno costretto ad adattarsi (male) alla difensiva strategica. Secondo il S. le forze che conducono tale difensiva strategica, anche se diversamente da quanto avviene con il terreno in campo terrestre - non possono trarne alcun vantaggio tattico dall'uniforme superficie del mare, "non avendo bisogno di allontanarsi molto dal litorale nazionale, hanno più jàcili i rifornimenti, più prossimi i luoghi di rifagio, quando incalzate da preponderanti forze nemiche e ciò che più importa - possono conseguire importanti successi con piccoli mezzi opportunamente e coraggiosamente impiegatf'. 31 In campo terrestre i rapporti di forze contano molto di più, ma in mare oggi navi piccolissime e relativamente poco costose [le torpediniere e i primi sommergibili; al momento solo costieri - N.d.a.] possono attaccare, con buone probabilità di successo perché in circostanze adeguate, le grandi navi molto costose e con numerosi equipaggi; peraltro, queste navicelle non possono allontanarsi molto dalla costa e tenere a lungo il mare, quindi "sono poco adatte ad operare al largo o sulle coste del nemico e nella guerra offensiva il loro impiego riesce assai più precario e meno efficace che nella guerra difensiva".32
"' ivi, p. 105. " ivi, p. 112- 113. 32 lbidem.
Il - TRA B0NAM1C0 E BERNOTTI L'IMPORTANZA DELLA "CORRELAZ,JONE TE.RRESTRE-MAR11TIMA"
I 15
Le precedenti affermazioni, così come l'articolo prima esaminato, già presuppongono che il S. abbia un concetto relativistico e non mitologico del dominio del mare, anche se non ne trascura l'importanza; "l'azione prima e preliminare della marina in guerra consiste naturalmente nell'acquistare il dominio militare del mare, per garantire il paese e il commercio dalle aggressioni marittime, e mettersi in condizione di aggredire colla massima energia il litorale, e di interrompere il commercio marittimo del nemico - guerra commerciale".33 Il dominio del mare deve essere assoluto, obiettivo peraltro eccezionale che si consegna solo dopo aver annientato completamente le forze navali nemiche; solo in tal caso la vittoria è decisiva. Infatti, forze navali anche poco numerose purché abbastanza veloci costituiscono una perenne minaccia che l'armata navale nazionale difficilmente riesce ad eliminare completamente. Esse possono ostacolare l'azione offensiva e "possono portare, col favore delle tenebre, lo scompiglio e la distruzione in una forza navale assai più poderosa, e recare gravissimi danni, anche di giorno, ad un convoglio di navi mercantili eventualmente impiegate per scopi militari, qualunque sia la potenza della squadra che lo scorta".34 Ne consegue che l'armata navale più debole deve impegnarsi al massimo per contendere all'avversario il più a lungo possibile il dominio del mare, e se vi riesce fino al termine delle ostilità. E siccome "è difficilissimo, p er non dire impossibile" catturare o distruggere tutte le navi nemiche, di solito il dominio del mare si consegue solo relativamente, e in misura più o meno grande a seconda del numero di navi che la parte più debole riesce a impiegare. Se l' annata nemica non prende il largo e si rifugia in un porto, bisogna condurre un regolare assedio, operazione difficile e tale da poter causare gravi perdite per le navi attaccanti. In genere si preferisce ricorrere al blocco, che però specie oggi non è mai inviolabile, perché le navi bloccate, purché veloci e dotate di spirito aggressivo, possono senza gravi rischi prendere il mare al momento opportuno, evitando la battaglia con l'avversario più forte. Da queste considerazioni del S. risulta che anche all'armata navale più debole rimangono buone carte da giocare, tanto che il dominio del mare da parte del più forte è in genere relativo e non assoluto (le battaglie decisive tipo Trafalgar sono dal S. ritenute poco probabili in futuro). Queste considerazioni sulla efficacia della difensiva sono accompagnate da valutazioni sull'importanza della guerra terrestre e della guerra al commercio che si discostano notevolmente dalla communis opinio dei navalisti del tempo. Scopo supremo della guerra, per il S. è imporre all'avversario la propria volontà; a tal fine bisogna annientarne le forze mobili, invaderne il territorio e deprimerne la ricchezza. Solo l'esercito può invadere il territorio nemico e/o difendere la frontiera terrestre. Inoltre può impedire gli sbarchi ed interrompe-
33 14
ivi, p. 145. ivi, p. 147.
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IL PENSlERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VO.L. Hl (1870-1915) - TOMO TI
re anche il commercio marittimo del nemico, occupandone i porti principali; ''perciò l'azione principale in guerra spetta agli eserciti; essi soli bastano per vincere purché il mare non separi i belligeranti, e la soluzione del conflitto dipende sempre dal!'esito della lotta terrestre".35 Peraltro, i I territorio nemico può essere invaso anche dal mare, e se il paese nemico è insulare, è questa l'unica possibilità. Inoltre dal mare si può appoggiare l'azione dell'esercito nazionale e ostacolare quella dell'esercito nemico, dal mare si possono colpire le popolazioni costiere, e le sconfitte sul mare deprimono il morale della nazione non meno di quelle terrestri. In ogni caso "il dominio del mare, necessario quando gli eserciti non possono operare direttamente per via terrestre, riesce sempre utile nella grande guerra; contribuisce in direttamente ma talora assai efficacemente al conseguimento della vittoria, e può anche essere fattore decisivo di essa". 36 Ma anche quando gli Stati belligeranti sono separati dal mare e non hanno una frontiera terrestre comune, esso è condizione necessaria, ma non sufficiente, per la vittoria. La semplice azione di una flotta lungo le coste di una grande nazione non basta per obbligarla a chiedere la pace; occorre anche un esercito capace di vincerla in terra: di conseguenza la vittoria in mare riesce utile solo in quanto facilita la vittoria terrestre, e a nulla serve se questa manca; invece la vittoria terrestre, anche da sola, è sempre decisiva. Sadowa, Metz e Sédan sono le pietre miliari del glorioso cammino, per il quale la Prussia è ascesa alla egemonia politica in Europa, pur essendo debolissima in mare, infinitamente più debole della sua ultima rivale [la Francia - N.d.a.] che nella guerra del 1870-187 / ne ebbe incontrastato il dominio. Non bisogna dunque esagerare l 'importanza guerresca del dominio marittimo. Il comandante Bonamico, che ne è un fervente ma illuminato apostolo, osserva che esso a nulla giovò nella guerra francoprussiana, e non manca di rilevare l'eccessivo entusiasmo che alcuni autori anglo-sassoni [Mahan e Callwell - N.d.a.] dimostrano per il Sea powcr. 37
Come il Bonamico, il S. mette in evidenza le nuove possibilità che la propulsione a vapore - con la quale le forze navali acquistano precisione e regolarità di movimenti - apre alla correlazione terrestre-marittima, che a sua volta è diventata più importante, perché "la guerra si combatte in teatri vastissimi, deve essere condotta con somma energia ed impiega eserciti numerosi, la cui mole rende lente le mosse e difficile l'approvvigionamento per vie terrestri''. 38 In conclusione, "le forze di terra e di mare sono del pari necessarie alla grandezza e prosperità degli Stati: esse devono avere armonico svi-
"ivi, p. 36 ivi, p. 37 ivi. p. '" ivi, p.
148. 150. 153. 152.
Il - TRA DONAMICO E BERNOTH L'IMPORTANZA DELLA "CORREUZJONE TeR/lESTRE-MAll/1TIMA"
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Zuppo, e mal si serve la Patria propugnando l'incremento delle une a spese delle altre". 39 Finora si è trattato del ruolo strettamente militare delle forze navali e dei loro rapporti con le forze terrestri. In effetti, il S. ritiene necessario conquistare il dominio del mare o almeno contenderlo ali' avversario anche perché le forze navali oltre allafanzione militare devono essere in grado di esercitare una funzione economica, cioè la guerra al commercio. Ma - come prima di lui il Bonamico - considera erroneamente quest'ultima funzione di importanza secondaria. Lo fa non senza contraddirsi; in un primo momento afferma infatti che la guerra commerciale marittima [ ... ) non solo nuoce agli armatori e ai commercianti [ ... ], ma deprime tutte le energie economiche delle popolazioni che la subiscono, energie che oggidì ahhisognano di continui ed interscambi; fa languire le industrie[ ... ]; accresce il costo delle derrate alimentari, che ormai tutti i paesi d'Europa, eccetto la Russia, importano in misura più o meno grande, ed in tal modo arreca un gravissimo colpo al benessere delle popolazioni, ed alla ricchezza pubblica e privata così necessaria in guerra; colpo la cui gravità cresce col prolungarsi della lotta. E siccome una cattiva situazione economica e finanziaria riesce sempre nociva alla potenza militare, ed induce le popolazioni che la subiscono a desistere dalla lotta, la guerra commerciale marittima esercita sempre una notevole influenza sulla decisione del cof!flitto; è poi rapidamente risolutiva, quando l 'intenzione del commercio cagiona la carestia a hreve scadenza, ed allora l'azione dell'esercito non è necessaria per imporre ali 'avversario la propria volontà. 40
Queste considerazioni, per altro verso profetiche, sono anzitutto in contraddizione con quanto il S. afferma a proposito della soluzione dei contlitti, "che dipende sempre dall'esito della lotta terrestre". Ma non si accordano nemmeno con quanto egli sostiene qualche pagina più avanti. Pur riconoscendo la particolare importanza del commercio marittimo per l'Inghilterra, che dipende dall'estero anche per il rifornimento di derrate alimentari, ricorda che essa nelle guerre napoleoniche ha usato il potere marittimo anzitutto per difendere dall'invasione il suo territorio e per portare la guerra sul suolo nemico quando ne aveva i mezzi. Dissente perciò dal Mahan e dagli inglesi Colomb e Freemontle, che giudicano preminente per le forze navali la difesa del commercio: a nostro avviso, questo criterio [dei predetti autori - N.d.a.] limita in confini troppo angusti lejimzioni dell'armata nella grande guerra. e ne trascura la più essenziale: proteggere il commercio marittimo nazionale ed interrompere quello nemico è certo ottima cosa, ma a nulla giova se lo straniero invade il territorio; il danno economico che tale intenzione cagiona riesce assai meno efficiente dell 'invasione territoriale assolutamente necessaria per fiaccare
39 40
ivi, p. 154. ivi, p. 149.
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IL PENSIERO MILITAIU:: E NAVALE ITALIANO - VOL. IIl (1870-1915) - TOMO li
rapidamente l'avversario. Perciò l'armata deve anzitutto sostenere l'esercito tanto nella sua azione difensiva quanto in quella ojfensiva".41
A ciò si aggiunga, sempre secondo il S., che la situazione geopolitica ed economica degli Stati deli 'Europa continentale (ciò vale, quindi, anche per l'Italia) è assai diversa da quella dell'Inghilterra, perché essi: a) possono rifornirsi per via terrestre, sia pure a costi maggiori, delle derrate di cui hanno assolutamente bisogno [hanno bisogno solo di derrate alimentari? - N.d.a.], b) comunque, le loro importazioni di derrate alimentari sono di molto inferiori a queJle inglesi; c) gli eserciti europei, a differenza dell'inglese inquadrano in caso di guerra la parte migliore deJla popolazione maschile; soprattutto per questa ragione oltre a non poter disporre delle materie prime necessarie e a non poter smerciare i loro prodotti per effetto deH'interruzione dei traffici marittimi, le industrie sono colpite da gravissima crisi, che la predetta interruzione può aggravare ben poco [ma l'alimentazione logistica dei grossi eserciti non richiede il buon funzionamento anche de Il 'industria? - N.d.a.]; d) anche se l'interruzione del commercio marittimo rende ancor più acuto il disagio economico, non sarà questa la causa, che determinerà un popolo forte a posare le armi, e l'invasione territoriale sarà assolutamente necessaria per imporre i propri valori all'avversario in limiti di tempo ragionevoli; tali che il futuro vincitore non debba anch'esso soffrire fortissimo e duraturo danno economico per l'eccessivo prolungarsi della guerra. Per queste ragioni. pur riconoscendo la notevole importanza della funzione economica dell'armata, devesi ritenere che, nelle guerre fra Stati dell'Europa continentale tale funzione è sempre meno importante della funzione militare, e questa deve avere lo scopo precipuo di facilitare ali 'esercito il conseguimento degli obiettivi decisivi, che esso solo può ottenere. 42
Queste considerazioni, smentite dalla prima guerra mondiale, possono essere almeno in parte giustificate solo facendo riferimento al quadro internazionale del periodo in cui il S. scrive: l'Italia alleata della Germania e dell 'Austria - nazioni continentali al momento senza una grande marina, e ciò vale anche per la Germania - e perciò schierata nel campo opposto a quello della Francia, la cui marina e il cui esercito sono superiori ai nostri. Si teme fortemente uno sbarco francese sulle coste liguri e/o nella penisola, per il cui contrasto è necessario l'apporto di ambedue le Forze Armate, con una strategia unitaria. In
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ivi, p. 157.
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ivi. p. I 59.
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secondo luogo, la sottovalutazione della guerra al commercio è compatibile solo con una guerra futura breve e decisiva, quale prevedono (a torto) in massima parte gli scrittori terrestri e navali del periodo, non escluso lo stesso S. Con queste idee il S. si dissocia dalle teorie della Jeune École navale francese e dagli autori italiani che - come il Roncagli - sostengono che con la sola interruzione del commercio marittimo la Francia potrebbe aver ragione del1'Ttalia, o che - come il Manfredi - sono convinti che in un conflitto futuro le sorti dell'Italia si deciderebbe sul mare. È invece d'accordo con il generale Goiran, secondo il quale in caso di guerra con la Francia non basterebbe vincere per mare, ma occorrerebbe vincere anche per terra, perché "per gli Stati continentali gli eserciti sono indiscutibilmente il principale e più valido propugnacolo di difesa territoriale". La strategia della Jeune École - concepita soprattutto in funzione antinglese - consiste nel trascurare la flotta militare nemica e la conquista del dominio del mare, per colpire il commercio marittimo del nemico e devastare le sue coste, prescindendo dai trattati internazionali che vietano la guerra di corsa e proteggono i neutri e il naviglio mercantile. Tn altre parole, secondo gli esponenti di questa scuola si deve fare tutto il male possibile al nemico, senza distinzione tra militari e civili e perciò affondando anche le navi passeggeri e distruggendo le città costiere (il bombardamento delle città costiere a scopo navale vale soprattutto per l'Italia, la cui popolazione viene ritenuta dai seguaci della Jeune École moralmente fragile e poco patriottica). A queste teorie, che nella stessa Francia hanno avuto poco successo, il S. obietta che: 1°) in guerra si ha sia il dovere morale che l'interesse materiale di rispettare i diritti dei neutrali, per evitare che si uniscano all'avversario; 2°) per concorde parere dei più stimati seri ttori di cose navali, l'interruzione del commercio è possibile solo dopo aver conquistato il dominio del mare; 3 °) solo in casi eccezionali, comunque, l'interruzione del commercio è sufficiente per costringere il nemico ad arrendersi; 4°) le devastazioni costiere costituiscono un'offesa secondaria, che non può influire in modo decisivo sull'esito del conflitto; 5°) a parte il fatto che la teoriadellaJeuneÉcole ha molti nemici nella stessa Francia, dove non è stata mai applicata, la miglior dimostrazione della sua inconsistenza è che nessuna flotta, in nessun paese, ha seguìto gli indirizzi strategici e costruttivi indicati dall'Ammiraglio Aube e dai suoi seguaci. Non si deve però credere che il S. sia un sostenitore ad oltranza della funzione militare delle flotte: critica infatti anche il Callwell (vds. Cap. T), che volendo dimostrare l'importanza del dominio del mare per le operazioni terrestri "si lascia troppo trascinare dal suo entusiasmo per l'importanza guerresca del potere marittimo, non sempre tiene conto di importantissimi fattori della situazione politico-militare e talvolta ':,forza i fatti in favore della sua tesi, e fa loro dire ciò che in realtà essi non dicono': perciò le sue conclusioni non sem-
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IL PENSIERO MILITARTI E NAVALE ITALIANO - VOI .• lll (1870-1915) - TOMO 11
pre sono accettabili, specialmente nel caso di Stati non insulari". A conforto della sua tesi il S. cita il colonnello Enrico Barone (Voi. TTT Tomo I, Cap. V) e anche il maggiore Domenico Guerrini (vds. il successivo cap. JV), la cui critica alle teorie del Callwell viene da lui ritenuta "in gran parte giustificata, arguta e sottile". 43 Egli inoltre cita - in nota e/o a parte - gran messe di exempla historica, tra i quali ci limitiamo a ricordare il duro giudizio strategico su Lissa: ma fosse pur caduta Lissa nelle nostre mani, quale vantaggio militare o politico se ne poteva attendere? All'armata [navale] nemica anzitutto, a Pola, a Fasana sue basi d'operazione, e poi a Venezia, all'Istria, alla Dalmazia, obiettivi politici della guerra, bisognava pensare; non a un isolotto di ben poca importanza militare e politica. la secondaria importanza di Lissa è provata dal fatto che Tegehoff, informato il 17 luglio de/l'assalto, dubitò che si trattasse di una jìnta per allontanare la squadra austriaca dalle coste venete e istriane, e solo il 19, dopo ripetute conjèrme della presenza a Lissa del! 'intera squadra italiana, si decise a partire. Lissa non fu perduta per un piano di navigli affondati e saltati in aria - osserva giustamente il Fabris - ma per lo strano indirizzo dato alle operazioni della flotta, senza tenere alcun conto di quello che avevano le operazioni di Lissa. 44
Verità sacrosanta: ma anche per l'intero XX secolo, può forse dirsi raggiunto il coordinamento e 1'unità di indirizzo strategico delle forze terrestri e navali?
Possibilità e limiti della "guerra di costa": bombardamenti, sbarchi e assedi Trascurando - come Bonamico - lo scontro decisivo tra fiotte, i I S. ritiene che "l'armata [navale] esercita la sua funzione militare a mezzo della guerra di costa", che è generalmente più importante della guerra commerciale. Ad essa dedica un intero capitolo, esaminando nel dettaglio vantaggi e svantaggi dei trasporti marittimi, delle difese costiere e delle operazioni costiere in genere (colpi di mano, bombardamenti di centri abitati o di piazze marittime, assedio o blocco di piazzeforti marittime, dominio permanenti di vie litoranee, sbarchi di grossi reparti dell'esercito). Il meno che si possa dire è che degli sbarchi e dei bombardamenti delle coste egli non ha quella visione mitologica e troppo ottimistica, che spesso porta gli scrittori navalisti coevi ad esagerarne le possibilità e l'efficacia risolutrice. Principio basilare è che per condurre operazioni costiere offensive è necessario conquistare il dominio almeno relativo del mare. L'efficacia dell'a-
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ivi, p. 166.
« ivi, p. 173.
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zione difensiva delle proprie coste, e di quella offensiva sul litorale nemico, dipende dall'intensità di tale dominio; invece "per fàre guerra di costa difensiva basta contrastare all'armata nemica il dominio del mare; l'efjìcienza della difesa e la possibilità di una certa offesa, sempre necessaria per evitare i gravissimi inconvenienti materiali e morali della paçsività, e per esercitare, se occorre, efficaci rappresaglie, dipendono dall'intensità di tale contrasto".45 Ttrasporti marittimi e gli sbarchi assicurano molti vantaggi, e in particolare: a) consentono di aggirare l'esercito avversario e, se esso opera a non grande distanza dal mare, ne minacciano i fianchi e le spalle; b) consentono la conquista di un obiettivo terrestre vicino al mare, senza bisogno di occupare la zona interposta tra di esso e il confine terrestre; e) sono perciò particolarmente utili per operazioni diversive con obiettivi molto distanti dal confine terrestre, oppure per assediare o bloccare dal lato di terra località costiere di grande importanza strategica, assediate o bloccate dal lato di mare dalle forze navali, dando in tal modo un contributo che potrebbe essere decisivo anche alla guerra marittima. Per contro essi presentano molteplici inconvenienti e difficoltà, che bisogna attentamente valutare prima di decidere di effettuarli: a) oltre al dominio almeno relativo del mare richiedono numerose truppe (2 corpi d ' armata) e la disponibilità del numeroso naviglio mercantile necessario; b) l'imbarco e lo sbarco delle truppe comportano una serie di operazioni delicate e complesse c richiedono perciò una notevole perdita di tempo, della quale bisogna tener conto; c) è assai difficile, per non dire impossibile, evitare che i I nemico abbia notizia della radunata, nei porti di partenza, delle truppe e delle navi che dovranno trasportarle; d) è anche relativamente facile prevedere le zone di sbarco, che devono essere estese e con particolari caratteristiche e quindi sono facilmente individuabili; e) pertanto i I difensore può difendere efficacemente tali zone senza distogliere troppe forze dallo scacchiere principale, e costruire senza eccessiva spesa opportune opere di fortificazione costiera o interna; f) in questo caso se il fuoco delle navi non riesce a allontanare le truppe di difesa dalla spiaggia, le difficoltà dello sbarco crescono a dismisura e possono anche provocarne il fallimento. Il fuoco della difesa è infatti estremamente efficace quando le imbarcazioni cariche di soldati che non possono quasi fare uso delle proprie armi, si avvicinano lentamente alla spiaggia; g) "per queste ragioni bisogna, almeno nella generalità dei casi, rinunziare ai trasporti marittimi, quando non si hanno razionali probabilità di effettuare lo sbarco in luoghi momentaneamente indifesi"; h) finché le truppe sbarcate non hanno occupato posizioni che consentono di cambiarla, il mare costituisce la loro base di operazione; ma il collegamento tra la linea di operazioni terrestre e quella marittima è assai vulnerabile, e per assicurarlo è necessario occupare un posto o un ancoraggio sicuro ben collegati con l'interno, costituendovi una base eventuale d' operazio-
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ivi, p . 178.
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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALlANO - VOL. Tn ( 1870-1915) - TOMO Il
ne; i) le operazioni di sbarco richiedono tempo buono; 1) le navi mercantili che formano il convoglio di sbarco, assai lente, sono facilmente attaccabili e distruggibili anche da naviglio leggero e veloce. Pur con questi limiti, il ricorso ai trasporti marittimi e agli sbarchi, sempre necessario quando i belligeranti non hanno un confine terrestre comune, può riuscire utile e talvolta persino necessario, sia nel caso che chi conduce l'offensiva terrestre non possa, per la natura del terreno, impiegare la totalità delle forze, sia nel caso che il difensore debba fronteggiare un'offensiva terrestre con la totalità delle sue forze: perciò l'affermazione del Guerrini che 'esso è utile in guerra non per compensare l'inferiorità ma per utilizzare la superiorità dei battaglioni; ossia è utile a chi ha esuberanti le forze terrestri, non a chi le ha deficienti', si deve, almeno a nostro awiso, completare aggiungendo che: quando le.forze terrestri manovrano d(/ensivamente al coperto di un massiccio montano, il dominio del mare, semplicemente conteso ali 'avversario, compensa entro cerli limiti l'inferiorità dei battaglioni; perché consente di impiegare sul confine terrestre, quelli che altrimenti bisognerebbe lasciare a guardia delle coste. 46
Diversamente da altri scrittori navali, il S. non si preoccupa gran che dei bombardamenti costieri, teorizzati dallaJeune École. A suo giudizio "il bombardamento di un grosso centro abitato o di una piazza marittima non può mai cagionare danni materiali di grande entità, perché nessuna armata, per quanto poderosa, dispone del munizionamento a tal uopo necessario". 47 Peraltro, il bombardamento delle città costiere può avere effetti morali di grande importanza specie "quando le popolazioni costiere non hanno il patriottismo e la fòrza d'animo di sopportare i danni di queste offese[ ... ] e lamentano /'apparente irazione dell'armata [navale] di difesa, o peggio ne reclamano l'intervento", magari costringendo la flotta ad accettare battaglia contro forze superiori, o condizionandone la dislocazione_ Per evitare questi gravissimi inconvenienti, anche per il S. - come per il Bonamico - bisogna educare le popolazioni costiere a patriottici e virili sentimenti, e "guardarsi bene dall 'esagerare g li effetti del bombardamento, come purtroppo si fa da alcuni scrittori, anche italiani". Quando le località costiere da bombardare sono difese, bisogna distinguere il caso in cui le batterie costiere sono abbastanza avanzate, rispetto alla località che devono difendere, da quello in cui esse sono vicine a detta località. Nel primo caso il bombardamento navale comporta gravi rischi, tanto che generalmente conviene rinunciarvi; nel secondo caso invece le navi, sfruttando la grande gettata delle artiglierie navali, possono mantenersi fuori tiro dalle batterie costiere, ed effettuare senza rischi l'azione di fuoco. Infatti le batterie costiere hanno scarsissime probabilità di colpire a grande distanza bersagli di li-
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ivi, p. I 88 ivi, p. 190.
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mitate dimensioni e mobili quali sono le navi, perché la zona battuta è troppo corta per compensare gli errori del tiro; inoltre anche i colpi messi a segno data la loro scarsa velocità residua sarebbero ben poco efficaci contro le moderne navi corazzate. Questo però non vuol dire che le difese costiere locali - organizzate oltre che con fortificazioni, con milizie impiegate anche a cordone, armi subacquee, navi non più idonee all'impiego in alto mare o costruite ad hoc - siano inutili. Anche se non è conveniente svilupparle oltre un certo limite, esse servono a svincolare dalla protezione diretta delle coste le forze navali mobili [tesi già di Mahan - N.d.a.]. Quest'ultime mantenendosi riunite possono contrastare al nemico il dominio del mare, almeno se le coste hanno caratteristiche geografiche tali da prestarsi agli sbarchi solo in pochi punti. Se invece le frontiere marittime da difendere sono accessibili in estese zone del litorale, allora le fortificazioni e gli apprestamenti difensivi possono solo appoggiare le forze mobili, che in questo caso sono necessarie per la difesa, quindi devono essere sottratte allo scacchiere strategico principale. Specie se lo sbarco è possibile in diversi luoghi queste forze devono essere numerose, perché i convogli in mare sono più veloci delle ferrovie. Ad ogni modo, dal punto di vista marittimo la più efficace difesa è quella affidata alle forze mobili: occorrono dunque navi, navi e ancora navi. Anche a proposito dell'assedio marittimo di una base navale fortificata il S. è piuttosto scettico. Se la piazzaforte assediata è discretamente munita, l'armata assediante, anche se potente, può riportare gravi perdite senza ottenere un successo risolutivo: lo dimostrano le guerre più recenti. ll S. pertanto si associa agli ammaestramenti tratti dalla guerra ispano-americana dal Bonamico, secondo il quale: 1°) le navi, anche se corazzate, non bastano per ottenere la resa di una piazzaforte sufficientemente armata e difesa, purché sottratta all'influenza della popolazione civile; 2°) solo quando la popolazione civile può imporre la sua volontà, la resa della piazza può essere ottenuta anche con il bombardamento a distanza; 3°) se manca un corpo di sbarco di forza sufficiente, non conviene impiegare a fondo le navi negli attacchi costieri; 4°) l'attacco navale a breve distanza e il forzamento dei passi difesi sono sempre da escludere, quando la situazione non impone di rischiare il tutto per tutto ... Il S. perciò conclude - sempre come Bonamico - che "non ci si deve limitare all'attacco del fronte marittimo, ma investire rigorosamente anche il fronte terrestre [come è stato fatto dai giapponesi a Porth Arthur - N .d.a.]; questo è sempre stato, ed è tuttora, il lato debole delle piazzeforti marittime, e perciò il concorso del[ 'esercito riesce prezioso in siffatte operazioni"48 [in effetti, questa verità è stata confermata anche nella seconda guerra mondiale, con la relativamente facile conquista della grande fortezza inglese di Singapore - lasciata quasi sguarnita dal lato terrestre - da parte dei giapponesi - N.d.a.].
" ivi, p. 200.
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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL.
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La difesa marittima dell'Italia È la parte meno originale del Volume I. Premesso che anche per lui il nemico principale è la Francia, S. vi applica le precedenti acquisizioni teoriche, richiamandosi continuamente al Bonamico, al Ricci, al Marselli, al Sironi e al Perrucchetti. Diverge sia dai navalisti, sia dai continentalisti: a ragione ritiene infatti che, avendo il capo che si addentra nelle terre della media Europa e il corpo in mezzo al Mediterraneo, l'Italia riunisce in grado eminente le condizioni di Stato continentale e marittimo: e ilproblema della sua difesa si presenta sotto aspetto diverso da quello degli Stati dell'Europa centrale e della stessa Francia. In questi il teatro principale della guerra terrestre e gli obiettivi strategici più importanti sono lontani dal mare; invece la valle del Po è bagnata dal Golfo di Venezia ed è a poche marce dal golfo ligure; la Capitale del Regno ed altri obiettivi strategici di prim 'ordine, quali la valle del 'Amo e la regione campana. sono assai più vicini al mare che al conjìne terrestre, e la loro difesa non può far sistema con la difesa di quello; le comunicazioni fra Nord e Sud corrono presso il mare, o a non grande distanza da esso; infine nessun Stato europeo possiede isole d 'importanza politica ed economica pari a quella della Sicilia e della Sardegna.49
A ciò si aggiunga che l'offesa marittima contro l'Italia è facile quanto pericolosa, a causa dell'estensione del litorale, della sua forma allungata, della struttura idrografica e topografica delle coste, delle condizioni meteo generalmente favorevoli e della ripartizione del teatro della guerra marittima in tre estesi bacini d'operazioni distinti e lontani l' uno dall' altro (tirreno, ionico e adriatico), per di più con i bracci di mare che danno accesso ai primi due troppo estesi per poterli vigilare bene. Così stando le cose, le difese locali dovrebbero avere uno sviluppo enorme e quindi richiederebbero una spesa ingente, non compatibile con le nostre modeste risorse finanziarie. per queste ragioni l 'offesa marittima ha per l 'Italia importanza pari all 'offesa terrestre e può in certe condizioni esercitare un 'influenza decisiva sull'esito della guerra; di tale offesa è assolutamente necessario tener conto nel1'apparecchio militare dello Stato, e l'armata [navale], che è il solo mezzo col quale si può efficacemente impedirla, non solo costituisce per l'Italia un necessario fattore di politica estera e di espansione economica, ma è altresì un indispensabile strumento della difesa nazionale. 50
In un conflitto fra l'Italia e uno Stato che non possa operare direttamente per via terrestre la sola offesa temibile è quella che proviene dal mare; quando invece l'avversario può operare direttamente anche per via terrestre - e questo
•• ivi, pp. 213-214. 50 i vi, p. 2 15.
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è il caso più temibile - "l'offesa marittima, per quanto grave, non è mai la prin-
cipale, e la decisione del conflitto dipende dall'esito delle operazioni della guerra terrestre, che hanno lo scopo di invadere per via di terra il territorio del nemico, o almeno di impedirne l'invasione". In queste condizioni, se l'esercito italiano è in grado di intraprendere un'offensiva e vince, il dominio del. mare, anche se è in possesso del nemico, ha importanza secondaria, e non può influire in misura importante sull'esito del conflitto. Basta escludere le ferrovie litoranee dal giorno di mobilitazione; i danni economici causati dai bombardamenti costieri e dal blocco commerciale, non sono preoccupanti e possono venire risarciti alla conclusione della pace. Ben diverso, e molto più importante, è il ruolo del dominio del mare nel caso che l'esercito sia costretto a mantenersi sulla difensiva dietro il massiccio alpino. In questo casa situazione l'offesa marittima può esercitare un 'influenza anche decisiva sull'esito della lotta, e bisogna ad ogni costo almeno contendere il dominio del mare al nemico per impedire l'invasione marittima e possibilmente anche litoranea: perché queste offese possono influire notevolmente sull'esito del conflitto e compromettere i 'esistenza nazionale; esse sono specialmente terribili da parte del
nostro vicino d'Occidente [cioè la Francia - N .d.a. ], stante le gravi dif]ìcoltà che la struttura terrestre [cioè il massiccio alpino - N.d.a.) oppone all'invasione territoriale.51
Anche S., dunque, giudica le Alpi un ostacolo di elevato valore impeditivo intrinseco, quindi difendibile con buone probabilità di successo dal nostro esercito. Ritiene però, come il Marselli, che non sia possibile e conveniente un'offensiva del nostro esercito attraverso le Alpi contro al Francia; quel che più importa, benché specie le nostre coste tirreniche si prestino a sbarchi ritiene che essi non possano mai rappresentare l'azione principale della Francia contro l'Italia, ma (come già detto da Bonamico), un' azione concorrente oppure un'azione diversiva. L'azione concorrente verrebbe svolta da truppe sbarcate sulla Riviera ligure di Ponente, che si presta a sbarchi più della Riviera di Levante. L'obiettivo strategico di tali truppe sarebbe di attaccare sul fianco sinistro e alle spalle l' esercito italiano schierato a difesa del confine alpino occidentale con la Francia, per facilitare l' avanzata e lo sbocco in piano delle colonne che tendono a forzare il passaggio delle Alpi, costringendo le forze della difesa a distogliere truppe dal confme alpino, per fronteggiare contemporaneamente l'attacco proveniente dal mare. L' invasione diversiva potrebbe essere compiuta da forze nemiche sbarcate in corrispondenza delle valli dcli' Amo, del Tevere e del Volturno, e sarebbe tanto più pericolosa, quanto più avverrebbe verso Nord. Queste forze avrebbero l'obiettivo strategico
"ivi, pp. 216-2 17.
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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. UI (1870-1915) - TOMO Il
di occupare città e regioni importanti, politicamente ed economicamente, ajfozarvisi, ed estendere a mano mano l'invasione; interrompere almeno parzialmente le comunicazioni del! 'esercito italiano con una parte del paese; occupare, se vi riesce, gli sbarchi degli Appennini e spezzare così [ 'Italia in due, offesa questa gravissima; indebolire infine l'esercito che occupa il corifìne terrestre (delle Alpi], inducendolo a distaccare reparti di truppe per respingere al mare le forze sbarcate. 52
In nessun caso, però, alle truppe nemiche sbarcate nell'Italia peninsulare converrebbe spingersi nella valle del Po, per concorrere direttamente all'invasione territoriale principale. Sempre in caso di conflitto con la Francia, se la flotta francese dominasse il mare l'esercito francese potrebbe utilizzare come buona via d'invasione la strada costiera ligure - e la ferrovia - da Ventimiglia a Genova, che sono facilmente battibili e interrompibili dal lato del mare, quindi agevolano chi ne possiede il dominio. Invece uno sbarco sulle coste del basso Tirreno, dello Jonio e del basso Adriatico non potrebbe conseguire obiettivi strategici importanti: l'azione più pericolosa sarebbe l'investimento dalla parte terrestTe della base di Taranto. Le caratteristiche geografiche e morfologiche delle coste dell'Adriatico non favoriscono gli sbarchi, particolarmente nell'alto Adriatico. Infine, il litorale delle nostre isole m aggiori si presta a sbarchi, ma la loro invasione "avrebbe carattere assolutamente diversivo con scopo più politico e morale che militare, e
consisterebbe nell'impadronirsi di un pegno importante, per avanzare maggiori pretese alla conclusione della pace se vittoriosi, mitigare le esigenze dell'avversario se vinti".53 In caso di sbarchi nemici in queste isole non è necessario inviare rinforzi; devono bastare le forze territoriali locali con l'appoggio "di quelle patriottiche popolazioni". Esse non contrasterebbero gli sbarchi ma si ritirerebbero in un ridotto centrale ben fortificato, per impedire che il nemico diventi padrone assoluto dell'isola. Bisogna inoltre conservare, per quanto possibile, le comunicazioni con le isole, obiettivo che nel caso della Sicilia si ottiene fortificando poderosamente ambedue le rive dello stretto di Messina. Per la difesa marittima la flotta italiana dovrebbe disporre almeno di una base di operazione e di un arsenale in ciascuno dei tre bacini marittimi che circondano la penisola. Due sole località del bacino tirrenico - il Golfo di Spezia e l'estuario di Maddalena - e soltanto Taranto nello Jonio e Venezia nel1' Adriatico offrono le condizioni topografiche e idrografiche sufficienti per fungere da base di operazione marittima, benché Taranto e Venezia, situate all'estremità del rispettivo bacino, lascino alquanto a desiderare dal punto di vista strategico. La piazza di Spezia consente il controllo delle comunicazioni fra la Liguria, la Toscana e l'Emilia ed è in posizione più favorevole della Madda-
Sl SJ
ivi, p. 222. ivi, p. 225.
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lena per appoggiare una flotta che operi nell'alto Tirreno, ma è troppo eccentrica rispetto al medio e basso Tirreno e inoltre non facilita il forzamento di un eventuale blocco. Oltre a non consentire il blocco a causa delle sue due uscite, la base della Maddalena ha una posizione più favorevole della Spezia, perché è collocata quasi al centro del bacino tirrenico, è più vicina della Spezia alle coste dell'alto e medio Tirreno, è il punto di appoggio più adatto per una forza navale che debba operare nel Tirreno e forse nel Mediterraneo occidentale, e infine assicura le comunicazioni della Sardegna con la penisola. Vi dovrebbero perciò essere collocati almeno copiosi rifornimenti, e forse, sarebbe stato più conveniente creare li un arsenale invece che alla Spezia, "nonostante Le maggiori d(f-
ficoltà topografiche, la scarsità d'acqua e di viveri freschi, l'insularità del sito e la maggiore difficoltà di impedire il bombardamento distanza e l'attacco torpediniera".54 A sua volta Taranto ha una posizione troppo eccentrica rispetto alle coste del basso Jonio e - quel che più importa - rispetto alla grande via di comunicazione Gibilterra - canale di Malta - Suez, e al Mediterraneo orientale in genere. Per questa ragione diventa preziosa la base di Messina, che è meglio situata di Taranto rispetto al basso Tirreno e al basso Jonio e vicina, per quanto possibile, al canale di Malta e al Mediterraneo Orientale. Essa però ha il grave difetto di non poter avere una difesa completamente efficace, altrimenti anziché a Taranto, vi si sarebbe costruito un arsenale. TI S. non prende nemmeno in considerazione il possibile ruolo della base di Taranto in una guerra nell 'Adriatico, dove Ancona "d(fetta di tutti i requisiti nautici e militari che si richiedono a una base eventuale", ed è stata perciò di recente radiata come piazzaforte. A Venezia, invece, attribuisce un 'importanza esagerata come trampolino di lancio per operazioni terrestri, perché rappresenterebbe una minaccia sia per la linea del Friuli, sia per quella da Padova a Ferrara, e inoltre per un invasore che, passato il Piave, operi contro Verona e Legnago, oppure contro Rovigo e Ferrara. Infine a proposito della fortificazione di Genova, che controlla le comunicazioni tra le due riviere liguri e sbarra l'importantissimo fascio stradale che la congiunge con la valle del Po, il S. non è dello stesso parere del Ricci, del Sironi, del Veroggio e del Bonamico, che hanno proposto di smantellare le fortificazioni a mare e di sbarrare, invece, il fascio stradale tra Genova e la pianura padana, fortificando i relativi passi appenninici. Anche se le fortificazioni del fronte a mare, oltre ad essere poco efficaci perché poco avanzate, giustificano il bombardamento della città per ottenere la resa della piazza, e possono solo attenuare i suoi effetti, per il S. bisogna conservare e se mai rafforzare tali fortificazioni, onde evitare che il nemico si impadronisca di una base d'operazioni adatta sia per l'avanzata verso il Po, sia per minacciare alle spalle La
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ivi, p. 237.
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Spezia. D'altro canto se si volesse sbarrare i passi appenninici occorrerebbe creare una vera e propria regione fortificata, che assorbirebbe troppo denaro e troppe truppe, mentre anche facendo di Genova una città aperta non se ne eviterebbe il bombardamento navale, che nessuna convenzione internazionale proibisce.
Politica militare e navale: critica alla letteratura navalista Le precedenti considerazioni del S., che tengono sempre conto del quadro strategico complessivo e tracciano un confine ben netto tra l'ideale e il possibile, tra il "volere" e il "potere", sono tali da far rimarcare l'importanza delle forze navali, senza più indulgere a forzature di concetti e a scoperti intenti propagandistici. Ritiene che "grande strategia, politica e finanza devono sempre procedere per vie parallele, devono formare un sistema perfe ttamente armonico". Pertanto, a suo avviso la spesa militare non è (come pensano non pochi autori navalisti e terrestri di ogni tempo) una variabile indipendente, ma deve tener conto dei limiti imposti dalle condizioni economiche e finanziarie della nazione, perché "salde e potenti istituzioni militari si sposano soltanto a.floride condizioni economiche". D'altro canto bisogna evitare un'eccessiva limitazione delle spese militari, che riesce dannosa anziché utile all' economia nazionale, sia perché una politica estera dignitosa e attiva giova indirettamente, ma in misura notevole all'incremento della ricchezza pubblica e privata, sia perché l'argomento fondamentale dell'uomo di Stato nelle controversie internazionali è sempre rappresentato dalle forze militari delle quali può disporre. Una volta determinata con i predetti criteri l'efficienza dello strumento militare, l'uomo di stato deve subordinare ad essa la politica estera, in modo da evitare avventure pericolose, e da tutelare al tempo stesso gli interessi del Paese. A tal fine può essere conveniente concludere delle alleanze, che però non esimono dal rafforzare nei limiti del possibile le forze militari, perché sono transitorie e quando scadono, si rinnovano più vantaggiosamente se si è in grado di parlare da uguali a uguali. Con un siffatto approccio realistico, equilibrato e possibilista il S. si mantiene ben lontano da quegli scrittori navalisti coevi, che negli ultimi anni hanno inizialo una campagna di stampa per promuovere, anche a spese dell'esercito, un aumento dei fondi per la marina [così ha fatto anche il Bonamico N.d.a.]. Con essi anzi polemizza apertamente, perché non si preoccupano minimamente dell'accoglienza che il Parlamento e il paese avrebbero fatto ad una eventuale domanda di nuove spese per la marina, e colle loro esagerazioni pessimiste sullo stato dell'armata, alla quale negano ogni e_fficienza, invece di giovare nuocciono alla causa abbracciata con molta fede ma anche con molta ingenuità. Assai opportunamente l 'ammiraglio Morini nel discorso sopra ricordato, domandava a costoro: 'contro quale nemico, e in qm1Ji condizioni rispetto alle alleanze volete che l'armata assicuri
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la difesa marittima d'Italia?' e soggiungeva: 'contro qualunque nemico e anche da soli? È un programma pure questo, ma da andare a sviluppare alla Lungara (il manicomio di Roma), non qui davanti a voi! Nessuna nazione al mondo può proporsi un programma siffatto: nessuna nazione può aspirare ad essere tanto forte, da poter seguire qualunque politica estera'. 55
In altra parte del testo il S. completa il suo pensiero sull'argomento, ribadendo che molte pubblicazioni di pretesi difensori ad oltranza degli interessi della marina riuscirono più nocive che utili per le ingiustificate ed erronee affermazioni in essa contenute sulla insufficienza della nostra marina, e sul cattivo impiego dei fondi ad essa assegnati, e per l'eccessiva importanza che in esse si attribuiva alla funzione guerresca dell'armata rispetto a quella dell'esercito. Era naturale che il paese sentendo lamentare l'assoluta impotenza dell'armata, sentendo affermare che essa non c'è, che i due miliardi spesi dopo il 1860 sono stati sciupati senza alcun profitto, trovasse logico, non già di concedere nuovi e vistosi assegni, ma piuttosto di ridurre anche i consueti, per evitare altro sperpero di pubblico denaro. Era naturale, che gli studiosi di cose militari si ribellassero alle nuovissime teorie sul/ 'importanza guerresca del sea power, per uno Stato fcome l'Italia - N.d.a.] che confina con due potenze militari di primo ordine [la Francia e l'Austria; qui militari sta per terrestri - N.d.a.]; e combattessero vivacemente le più e meno velate proposte di ridurre le spese per l'esercito a vantaggio di quelle dell'armata [navale], poiché avevano la profonda e, a nostro avviso. giusta convinzione, che l'esito di una guerra nell'Europa continentale sarà deciso dal cozzo degli eserciti, ed il nostro è ben lungi dall'avere raggiunto la forza massima in rapporto alla popolazione dello Stato. 56
Fortunatamente - aggiunge il S. - la parte sana e valida della propaganda intesa a dimostrare con l'equilibrio l'importanza politico-economica del potere marittimo ha trovato favorevole accoglienza: le migliorate condizioni economiche del paese hanno consentito di aumentare di nuovo i fondi per la marina. Si spera che in futuro sarà possibile accrescerli ancora, però "questi aumenti non dovranno in nessun caso ottenersi con detrimento del bilancio del Ministero della guerra; esercito e marina sono.fattori del pari importanti della difesa e della politica dello Stato, e devono entrambi prosperare rigogliosi: stolto e illuso chi qfferma il contrario!".57 Se ancora vi sono dubbi sull'efficienza difensiva delle forze navali, essi devono sparire: "non forti e milizie, ma navi, navi, navi si chieggono per la difesa dell'aperto e esteso nostro litorale". Le truppe di prima linea non devono essere sottratte all'azione nello scacchiere principale dove si gioca la parti-
" ivi, p. 92 (rii. l ). 56 ivi, p. 23 J. " ivi, p. 232.
_1_30_ __ _ _1L_P_EN _S _IE _·R_O MILITARE E
NAVALt ITALIANO - VOL.
m (IR70-1915) -TOMO Il
ta decisiva per impedire gli sbarchi. Le fortificazioni costiere non esercitano alcuna azione offensiva e anche la loro azione difensiva è incompleta, perché possono attenuare gli effetti del bombardamento navale, ma non riescono ad impedirlo; né tanto meno possono impedire il blocco commerciale. Invece le forze navali mobili, oltre ad essere prezioso strumento politico in pace, in guerra possono accorrere ovunque sia necessario per proteggere il litorale ad ogni offesa dal mare, e all'occorrenza possono esercitare una vigorosa azione offensiva; giova altresì e soprattutto sperare, che l'accordo fra soldati e marinai diventi sempre più intimo e completo, che gli uni apprendano sempre meglio a conoscere ed apprezzare i mezzi di azione degli altri; che di tali mezzi sia concorde la preparazione in pace e l'azione in guerra; poiché per l'Italia, assai più che per ogni altro Stato d'Europa, l'armata [navale] non è soltanto l'esclusivo mezzo di una certa guerra propria ad essa, ma è uno dei mezzi della grande guerra, e l'impiego economico delle forze di ten·a e di mare è fattore indispensabile della vittoria.58
Quest'ultime parole ben riassumono la condivisibi le impostazione di tutto il volume I, nel quale il principio navalista della guerra navale indipendente e decisiva è del tutto assente.
SEZIONE Hl - IJ Volume Il degli "Elementi di arte militare marittima" (1906) Premessa
È composto da cinque capitoli, dei quali i primi tre sono riferiti alla preparazione della guerra marittima (identificata essenzialmente con l'organica) e trattano del personale, dell'armata (caratteristiche e possibilità d'impiego dei vari tipi di naviglio da guerra) e della costa (nozioni particolareggiate sulle piazzeforti marittime e sugli altri mezzi tecnici di difesa delle coste), mentre gli altri due sono dedicati alla condotta della guerra marittima (strategia e logistica). Manca un sesto capitolo nel quale avrebbe dovuto essere esaminato un argomento fondamentale come la tattica; sulla mancata pubblicazione di tale capitolo il S. non dà spiegazioni, limitandosi ad accennare a sfavorevoli circostanze, che tra l'altro lo hanno costretto a scrivere i vari capitoli a intervalli molto lunghi, tanto che dovrebbero essere almeno in parte aggiornati. È una coincidenza? il volume viene pubblicato a un anno di distanza dalla battaglia di Tsushima, che ha costretto le principali marine a valutarne gli ammaestramenti tattici e a delineare le conseguenti modifiche da apportare alla
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Ibidem.
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regolamentazioni in uso, operazione che richiedeva un certo tempo. Probabilmente è questa la ragione che ha consigliato il S. a non inserire in un libro di testo per i corsi d'Accademia il capitolo riguardante una materia molto importante ma al momento in evoluzione, sulla quale lo Stato Maggiore non si era ancora pronunciato. TI capitolo I (dedicato al personale) è il più ampio, fino ad assorbire 1/ 3 dell'intera opera; l'autore ammonisce anche che è la parte del testo più abbisognevole di aggiornamenti. In ultima analisi le parti più nuove del volume sono quelle dedicate ai problemi del personale, alle caratteristiche del naviglio e alla logistica; il resto è solo un approfondimento di argomenti già trattati nel Voi. I. Ciò premesso, ci limiteremo ad accennare agli argomenti di maggiore interesse, tenendo presente che specie ciò che il S. scrive a proposito del personale e degli ordinamenti in genere risente spesso di analoghi studi già compiuti in campo terrestre, quindi almeno in parte già presi in esame nel Voi. TJ e nel Tomo Tdel presente Volume lii.
Tproblemi del pnsrmale e i loro aspetti negativi
TI S. fornisce la seguente definizione di organica militare: "la preparazione della guerra marittima consiste nel raccogliere, predispon·e e conservare tutti i mezzi necessari per guerreggiare sul mare, e coordinarli in modo che se ne possa.fare il più efficace impiego; questi mezzi sono il personale, l'armata e la costa, e l'insieme degli studi e degli atti relativi alla preparazione dei medesimi costituisce l'organica militare marittima". 59 In senso lato, l'organica riguarda dunque la preparazione. Il S. ammette la necessità che preparazione e condotta facciano capo a una stessa persona; ma poiché è raro trovare riunite le diverse doti che richiede la direzione di ambedue le branche, "in pratica il più delle volte accade altrimenti ed è opportuno che così sia". Istituzioni militari adatte a un paese possono non esserlo per un altro, o anche per lo stesso paese, una volta che sono cambiati i tempi o il contesto politico-sociale. Di conseguenza, per il S. un organismo militare non si deve mai giudicare prendendo come riferimento un modello astratto e assoluto; valgono piuttosto quei criteri di opportunità e convenienza, che sono i soli a poter indicare una corretta soluzione delle singole questioni. Inoltre le istituzioni militari devono essere in grado di trasformarsi parallelamente agli altri clementi sociali, con i quali devono mantenersi in perfetta armonia. Esse hanno anche bisogno di molto tempo per consolidarsi e dare i loro frutti; pertanto devono possedere una stabilità relativa, che non porta ad escludere i mutamenti e i miglioramenti, ma ad adottarli solo quando sono indispensabili, dando tempo al tempo:
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Sechi, Eleme11ti... (cit.), Vol. JT p. 3.
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non bisogna dimenticare che spesso iJ meglio è nemico del bene, e mutando criteri, revocando ordini e disposizioni, apportando variazioni anche io meglio, si genera confusione e incertezza. si oscurano le idee, non si fa che recare perturbamenti, i quali possono riuscire esiziali specialmente nelle circostanze difficili; inoltre si impedisce ai miglioramenti eventualmente realizzati di portare i loro fruttt'.''°
Riguardo al personale, con una profluvie di exempla historica, tra i quali non manca di citare Lissa, il S. mette in evidenza che "navi numerose e gagliarde, ma mediocremente equipaggiate [cioè con Capi e equipaggi mediocri, come erano quelle italiane di Lissa - N _d_a.] sono votate con certezza alla sconfitta; mentre navi bene equipaggiate, e condotte con ordine e sagacia, possono conseguire importanti risultati anche contro fòrze preponderanti, e infliggere alle medesime perdite molto gravi, prima di essere ridotte all'impotenza". Le navi moderne, ricche di congegni sofisticati e armi tecnicamente complesse, richiedono ancor più del passato equipaggi di qualità; inoltre come affenna l'ammiraglio Bettòlo, le prime operazioni, specialmente sul mare, possono essere decisive. In caso di guerra, se il nemico è una potente nazione marittima, la marina sarà la prima a sostenere il primo urto con il nemico. Diversamente da quanto avviene per gli eserciti, infatti: a) i movimenti delle armate navali sono rapidissimi e non trovano ostacoli di sorta sulla superficie del mare; b) le armate navali possono agire in qualsiasi punto dello scacchiere strategico [ non è vero - N .d_a.] immediatamente dopo l'apertura delle ostilità; c) mentre in campo terrestre le fortificazioni ostacolano ed arrestano almeno per qualche tempo le forze mobili nemiche, in mare l'unico modo per arrestare il nemico è la battaglia vittoriosa, mentre le fortificazioni servono solo a difendere determinati punti del litorale [ma anche in terra, le fortificazioni - in base a ciò che ne dice lo stesso S. - non bastano per arrestare il nemico; occorre sconfiggerlo o arrestar/o con una battaglia - N.d.a.]. Ne consegue la necessità che la mobilitazione delle forze navali in caso di guerra sia la più rapida possibile (esempio in negativo, la mobilitazione della nostra t1otta per la guerra del 1866). Questo obiettivo comporta però tutta una serie di non facili predisposizioni analizzate anche nei particolari dal S., che indica con chiarezza una vera e propria politica del personale. Anzitutto il personale della marina deve essere accuratamente preparato fin dal tempo di pace, mantenendo sotto le armi una forza numerica il più vicino possibile a quella richiesta dal tempo di guerra (criterio, quindi, contrario a quel lo del I ' esercito). Inoltre la differenza tra forza di pace e forza di guerra deve riguardare soprattutto il personale "di grossa fatica", cioè quello che ha le attribuzioni più semplici e meno importanti _
''° ivi. p. 5.
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Per la ripartizione del personale e nella composizione delle forze navali si deve tener conto della forza totale dell'armata, della situazione politica internazionale, che può essere più o meno tranquilla, e degli armamenti navali dei paesi con i quali sono meno improbabili le divergenze. Prendendo a modello la marina inglese, il S. indica pertanto i seguenti provvedimenti: - "un numero abbastanza considerevole di navi maggiori, scelte tra le più moderne, deve avere sempre l'equipaggio al completo, e costituire una o più forze navali, dislocate negli scacchieri strategici che hanno maggiore importanza politica, economica e militare, per sostenere efficacemente la politica estera, ed esercitare occorrendo una immediata azione militare abbastanza energica ed efficace"; 6 ' - le altre navi maggiori, riunite anch' esse in una o più forze navali, possono avere personale abbastanza ridotto ( 1/ 3 - 2/ 5 del totale, riguardante soprattutto il personale con incarichi meno pregiati). Tale riduzione non dovrebbe ostacolare troppo una rapida mobilitazione; - ambedue le categorie delle predette navi maggiori devono avere il necessario complemento di navi minori, anch'esse a seconda dei casi con equipaggio completo o ridotto. li rimanente personale delle navi minori non aggregate alle predette forze navali maggiori può essere ridotto senza pericolo; - le navi maggiori più antiquate, con efficienza militare notevolmente ridotta, possono avere solo il personale necessario per la manutenzione; "in massima però conviene radiarle, doppoiché la spesa cui danno luogo, per quanto limitata, non compensa l 'utile che eventualmente se ne potrebbe ritrarre"62 ; - il servizio semaforico [al momento molto importante per le comunicazioni, data l 'infanzia della telegrafia senza fili, che peraltro risulta già impiegata con profitto dai giapponesi a Tsushima - N.d.a.] deve avere in tempo di pace lo stesso personale del tempo di guerra. Anche le difese costiere "devono avere il personale necessario per mettersi in poco tempo in stato di difesa abbastanza ~[ficiente". Sulla base dei predetti criteri, le forze navali hanno diverse posizioni organiche, comuni a tutte le marine. Le principali sono: a) posizione di armamento, nella quale è presente a bordo tutto il personale; b) posizione di riserva, nella quale è presente a bordo una parte importante del personale previsto per il tempo di guerra. Anche con l'equipaggio parzialmente ridotto la nave è tuttavia in grado di addestrare il personale e di eseguire missioni importanti nelle acque dello Stato. In caso
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ivi, p. 23. ivi, p. 2 4.
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si mobilitazione "i più dirigeranno i meno", quindi la nave sarà in grado di raggiungere rapidamente la massima efficienza; c) posizione di disponibilità, nella quale il personale è notevolmente ridotto, però sempre più che sufficiente per la manutenzione, e per coadiuvare le maestranze dell'arsenale nei lavori eventualmente necessari; d) posizione di disarmo, nella quale la nave ha solo qualche uomo di custodia, mentre la manutenzione è affidata all'arsenale, con proprie maestranze. Per ultimo, nella nostra marina esistono le posizioni di armamento ridotto e allestimento, nelle quali le competenze di bordo sono rispettivamente uguali a quelle di riserva e di disponibilità. li S. si sofferma a lungo sulla necessità che il personale a bordo delle navi sia stabile (e questo riguarda prima di tutto gli ufficiali). I differenti tipi di naviglio sono molto più numerosi di quelli del passato, mentre i congegni di bordo sono più complessi, e - quel che più importa - diversi da nave a nave, anche dello stesso tipo. Ne consegue che non è più possibile e conveniente l'intercambiabilità del personale da nave a nave: ogni uomo rende servizi utili soltanto sulla nave dove è stato, e la stabilità del personale è assolutamente necessaria, per utilizzare convenientemente gli uomini che la marina tiene sotto le armi anche in tempo di pace: tanto necessaria che, senza stabilità, una forza di pace anche numerosa e la rilevante spesa cui dà luogo, riescono ben poco utili alla efficienza militare marittima.
Egli indica tutta una serie di accorgimenti per ridurre la mobilità del personale, ma le esigenze-chiave sono di due specie. Per gli ufficiali, occorre disporre il grosso dei movimenti durante l'inverno, e prescrivere che qualsiasi destinazione deve durare almeno un anno (due anni per i comandanti e i capi dei servizi tecnici delle navi maggiori). Per la truppa arruolata in marina occorre una ferma di leva più lunga di quella dell'esercito, sia pure "non troppo più lunga", sia per ragioni di equità, sia per evitare che anche il personale di marina acquisti i difetti tipici dei soldati dell'esercito che rimangono troppo a lungo sotto le armi. In tal modo, i criteri per il reclutamento del personale di marina sono opposti a quelli al momento adottati dall'esercito (ferme brevi e grosse riserve), anche perché " il principale determinante del potere militare marittimo non è la popolazione dello Stato [fattore importante per la costituzione organica dell'esercito - N.d.a.] ma la ricchezza nazionale", dati il costo e il numero sempre relativamente limitato delle navi. Anche se relativamente lunga, la ferma di leva in marina non ha durata sufficiente per affidare al personale così reclutato tutti gli incarichi. Tale personale può svolgere solo incarichi semplici e affmi al mestiere esercitato prima della chiamata alle armi, mentre quelli richiedenti maggiore specializzazione devono essere assolutamente affidati a personale volontario a lunga ferma. Dei volontari la marina deve fare un impiego assai più largo di quello dell'esercito, affidando loro anche gli incarichi riguardanti l'impiego e la manutenzione del personale da guerra.
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Il S. prende poi nettamente posizione contro l'opportunità di adottare anche per la marina italiana un reclutamento della truppa elusivamente volontario, che assicurerebbe senza dubbio al servizio sulle navi maggiore stabilità, e consentirebbe di sfruttare meglio l'istruzione impartita al personale di leva nel primo e nel secondo anno di ferma. Ciononostante, come si è già visto pur ammettendo questi svantaggi il S. è di parere diverso dal Vecchj, e non giudica valido per la marina italiana il modello di reclutamento volontario inglese. A suo parere l' lnghilterra è l'Inghilterra e l'Italia è l'Italia; il nostro carattere e le nostre leggi sono troppo diverse. Ciò che ci induce a mantenere il reclutamento misto è una superstizione costituzionale, come dice il Vecchj, ma la convenienza di limitare le spese dovute alle paghe più elevate del personale volontario, e alle.funzioni alle quali il medesimo acquista diritto con il tempo; e l'opportunità di conservare alla marina il carattere strettamente nazionale che perderebbe tra noi, data la costituzione dell'esercito, se jòsse equipaggiata esclusivamente con volontari; di renderla popolare e simpatica tra le masse, di creare tra marina e paese una corrente di stima e di [l;ffetto, alla quale indubbiamente giova il continuo passaggio nelle file de/l 'armata, di una parte della gi.oventù marinara. 63
Quel che più importa, con il ricorso a personale di leva è possibile creare senza alcuna spesa riserve buone e numerose; invece le marine che impiegano personale volontario non possono obbligare il personale congedato - che d'altra parte sarebbe troppo anziano per tornare sotto le armi - a riprendere servizio in caso di necessità. Per costituirsi una certa riserva, queste marine sono pertanto costrette a ricorrere a ripieghi costosi e insufficienti. Per contro bisogna considerare che il reclutamento di buoni volontari presenta gravissime difficoltà, dappoiché non giova il nasconderlo, molti fra i giovani che volontariamente prendono servizio nell 'esercito o nella marina si decidono a farlo perché non progrediscono negli studi, oppure non sono riusciti ad awiarsi in un 'arte o mestiere ed assicurarsi l 'awenire; e ciò non depone certamente in favore del Loro carattere, dell'amore che sentono per il lavoro, e della serietà e.fermezza dei loro propositi. 64
Molto meglio, quindi, il personale di leva che chiede la rafferma. Peraltro è sconsigliabile sostituire il personale volontario mancante con personale di le-
va: le economie così realizzate sarebbero fittizie, perché il minor costo del personale di leva sarebbe compensato dai maggiori costi di manutenzione del materiale e dai guasti più frequenti delle armi e materiali dovuti allo scarso addestramento e alla scarsa pratica di chi li impiega. 1n ogni caso, nel reclutamento del personale a lunga ferma la qualità deve essere il requisito prioritario.
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ivi, p. 57. ivi, p. 63.
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JL PENSIERO MTUTARE E NAVALE ITALIANO - VOL. IIl (1870-1915) -TOMO U
TI S. dedica un certo spazio anche all'educazione e istruzione del personale e al governo disciplinare della truppa. Di questa parte si può semplicemente dire, che i criteri da lui suggeriti sono affmi a quelli in uso in campo terrestre, particolarmente per il mantenimento della disciplina. Più interessanti i suoi punti di vista su determinate questioni di rilevante importanza per l'efficienza del personale. SVANTAGGI DELLA CONDIZIONE MILITARE IN CASO DI ECONOMIE DI BILANCIO- Secondo il S., nel caso che si renda necessario realizzare delle economie, benché in teoria tutti ammettono la grande importanza del personale, il personale militare è quello che più facilmente viene colpito dai "tagli''. Questo perché la grande industria ricava equi benefici dall'incremento del materiale navale, e molti dei perfezionamenti così frequenti nel medesimo dono dovuti alle iniziative di industriali: essi insistono con ogni mezzo, perché l'Amministrazione marittima prenda in considerazione le novità del giorno, e insieme agli uomini d'affari fanno la voce grossa, se le consuete commesse ritardano o sono ridotte minacciano la riduzione del lavoro nei cantieri privati. coll'inevitabile strascico di disoccupazione e malcontento della classe operaia; trovano appoggio autorevole nelle rappresentazione politiche e amministrative, e bisogna sempre finire col contentargli almeno in parte. Quanto al personale civile, esso ha diritto di associazione e di voto, che gli assicura numerosi e influenti patrocinatori, i quali ne sostengono con calore gli interessi, e si oppongono energicamente ad ogni provvedimento contrario ai medesimi. 65
Ben diverse sono le condizioni del personale militare, che non deve e non può discutere i suoi ordinamenti, né chiedere miglioramenti. In tal modo, la sua efficienza e il suo benessere dipendono esclusivamente dall'attività e dall'interessamento dell'Amministrazione militare marittima: se questa sbaglia, nessuno le addita l 'errore; se realizza economie ingiuste e dannose falcidando le competenze o limitando eccessivamente il numero degli uomini sotto le armi, nessuno protesta; e tutti fanno del loro meglio perché il servizio proceda il meno peggio possibile. In vece le economie, che eventualmente si tenti di fare sul personale civile o sul materiale, danno sempre luogo a proteste, a noi che è comodo evitare; ed è assai grande la tentazione di realizzarle principalmente sul personale militare. A tendere cosìjimesteper l'ejfìcienza militare marittima, l'amministrazione deve resistere esclusivamente per virtù propria ... 66
TROPPO PERSONALE CIVILE E TROPPI ARSENALI - La nostra marina ha un personale civile numerosissimo, e "diverse e importanti ragioni" consiglierebbero di ridurlo notevolmente. La marina inglese mantiene sotto le armi
•> ivi, pp. 11-1 2. ""ivi, p. 12.
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- solo per fonnare gli equipaggi delle sue navi - oltre centomila uomini, mentre gli operai dei suoi arsenali non arrivano a trentamila. Per contro la marina italiana a fronte di un personale militare di 23.000 uomini impiega oltre 18.000 operai fissi ("e fossero tutti operai per davvero"), disseminati in cinque arsenali: "non avrebbe per avventura l'Italia troppi operai o almeno arsenali, e troppo pochi marinai? Specialmente nocivo è il gran numero di operai permanenti, che non si possono licenziare quando il lavoro difetta, e acquistano diritto a pensione". Vero è, però, che una recente legge (11 giugno 1901) ne dispone la graduale riduzione a 12.000. TROPPI SOTTUFFICIALI- TI numero di sottufficiali e di sottocapi (caporali) corrisponde al 25% della forza totale, percentuale eccessiva non giustificata dalle esigenze di servizio e nociva alla disciplina. Inoltre, esistono differenze "molto forti e forse non del tutto giustijìcate" sia nel numero proporzionale di graduati assegnati alle diverse specializzazioni, sia nel loro avanzamento di grado. Bisogna tener presente che "il grado non conferisce di per sé s tesso capacità termica, e neppure autorevolezza militare: l'una e l 'altra dipendono principalmente dagli anni di servizio e dalle attitudini individuali''; d ' altra parte, occorre adottare provvedimenti per eliminare, nei limiti del possibile, le sperequazioni nell'avanzamento dei sottufficiali delle varie specializzazioni. ISTRUZIONE DEGLI UFFTC!ALJ NEL CORSO DELLA CARRIERA - Nelle scuole di formazione gli studi militari si iniziano appena; specialmente negli anni giovanili ogni ufficiale ha il dovere di coltivarli e completarli, approfittando di ogni occasione per perfezionare le sue conoscenze e capacità professionali. Anche le autorità superiori hanno il dovere di promuovere tale attività culturale. Ad esempio, con una razionale organizzazione dei servizi di bordo bisognerebbe limitare i servizi di guardia e di comandata, che al momento assorbono quasi tutto il tempo degli ufficiali subalterni, con ben scarso beneficio della loro istruzione; dovrebbero invece avere tempo e modo di studiare. Inoltre, richiamandosi a questo già si fa nelle marine inglese, francese, tedesca, americana e giapponese, dove sono stati istituiti corsi di alti studi navali, il S. propone che anche nella marina italiana, nonostante l'esiguo numero di ufficiali disponibili, "bisognerebbe fare almeno qualche cosa, specie in fatto di conferenze periodiche, che inducono gli ufficiali a pensare alla guerra e a porre le idee sulla carta, e diano modo ai migliori di emergere e di fare apprezzare il proprio valore individuale". Di conseguenza il S. non è d'accordo con il comandante Astuto, il quale sostiene l 'autoeducazione e autoistruzione dei Quadri ed è perciò contrario all'istituzione di una scuola di alti studi navali, non ritenendo che sia quello il modo migliore per formare i futuri comandanti e ammiragli.67 Egli cita più benevolmente il comandante Como, che pur essendo
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Giuseppe Astuto, Autoeducuà om.< e uulodislruziune, in "'Rivista Marillima" luglio 190 I, p. 48.
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Il. PENSIERO MILITARE Il NAVALE ITALIANO - VOL. IIJ (1870-191 5) - TOMO Il
anch'egli contrario alla scuola di alti studi, riconosce "il bisogno di un centro di coordinazione e di irradiazione del pensiero navale, di una istituzione che meriti i nostri maggiori uomini a manifestare le idee, sulle questioni che più affaticano il mondo navale, aprendo discussioni utili.fèconde di risultati".68 IL PROBLEMA DEGLI UFFICIALI MACCHINISTI - Al momento la marina degli Stati Uniti recluta tramite l'Accademia navale di Annapolis non solo gli ufficiali di vascello, ma anche gli ingegneri, i macchinisti e gli ufficiali delle truppe di marina (marines).Anche la marina inglese recluta tramite l'Accademia gli ufficiali di vascello e i macchinisti, ma poi fa compiere loro carriere separate. Recentemente (1892) la marina americana ha riunito in un solo corpo gli ufficiali di vascello e i macchinisti, quindi un ufficiale di vascello può fare anche il macchinista, e viceversa. La marina italiana recluta tramite l'Accademia solo gli ufficiali di vascello; gli ufficiali macchinisti e dei corpi logistici sono fonnati a parte. In particolare, gli ufficiali macchinisti escono sottufficiali dalla scuola di Venezia e sono successivamente nominati ufficiali con carriera a parte (massimo grado: maggior generale). 11 sistema americano ha dato luogo a molte discussioni, e negli stessi Stati Uniti molti ritengono necessario un ritorno all'antico, con la specializzazione e un proprio iter di carriera separato per gli ufficiali macchinisti. Il S. non approva il sistema americano, ma pur ammettendo che la fonnazione degli ufficiali macchinisti possa avvenire presso l'Accademia, ritiene indispensabile che i compiti e le carriere siano separati fin dal primo gradino della gerarchia; altrimenti si correrà il rischio di avere comandanti e direttori di macchina men che mediocri, oppure si dovrà attuare in pratica quel che si vorrebbe tacere in teoria, cioè chiudere la via del comando a chi, disgraziatamente per lui, si è specializzato nel servizio di macchina, e suscitare così malumori e attriti di un disastrosissimo effe tto morale, i quali non hanno assolutamente ragione di essere, quando ciascuno segue costantemente la via, che ha liberamente scelto.69
Bisogna però tener conto, secondo il S., che la carriera dell'ufficiale macchinista è meno gratificante di quella dell'ufficiale di vascello, anche perché al momento è troppo lento, con permanenza per un tempo eccessivo nel grado di sottufficiale: un grado tuttavia indispensabile all'inizio della carriera, per consentire al futuro ufficiale macchinista di acquistare la pratica necessaria nella manutenzione e condotta degli apparati motori. Ritiene perciò "assolutamente necessario" che gli ufficiali macchinisti siano abbastanza numerosi, ma che i sottufficiali siano in numero ridotto. Solo così sarà possibile che il personale macchinista raggiunga il grado di ufficiale in età relativamente giovane, non
611
Gennaro Como, L'uomo e la nave, in "Rivista Mar ittima" luglio 1901 , p. 87.
"'' Sechi, Elementi ... (l;il.), Voi. II p . 138.
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oltre i 31 anni. In taluni incarichi, infatti, i sottufficiali macchinisti potrebbero essere sostituiti dai sottufficiali fuochisti. LA DISCIPLINA - Sul modello della Royal Navy, dove ancora si usano le frustate, la disciplina in marina è tradizionalmente molto severa; tuttavia il S., come già detto, riprende tutti i concetti fondamentali che formano la base della disciplina nell ' esercito. A suo parere premi e castighi sono efficaci solo quando usati con molta moderazione, con assoluta imparzialità e con criteri sempre uniformi. Nell'applicarli i comandanti devono avere una certa libertà d'azione, per poter tenere conto del carattere degli individui, della loro condotta abituale e delle circostanze nelle quali l'azione meritevole di premio o castigo sarebbe stata compiuta: quindi niente tariffe fisse (istituite nella marina francese dal Ministro Pelleton). Quando si è costretti a punire, non bisogna lasciarsi vincere dall' ira, né mostrarsi contenti per la punizione che si infligge. Si deve anzi cercare di convincere l' inferiore della mancanza che ha commesso, e fargli capire che punendolo si compie solo uno spiacevole dovere, imposto dalla necessità di mantenere l'ordine e la disciplina assicurando così l'efficienza della nave. Occorre evitare anche i castighi di durata piuttosto lunga, perché - anche se sono blandi come la consegna - inaspriscono l'animo di chi li subisce e ne deprimono il morale, perdendo ogni efficacia educativa. Ad ogni modo "la severità eccessiva [ ... ] è jàtale alla buona organizzazione come la debolezza eccessiva. L 'uomo di alti sentimenti non sarlÌ mai eccessivamente severo; egli troverà sempre la giusta misura .. ."; inoltre, la giusta severità non è incompatibi lc con il buon cuore.
Le costruzioni navali: importanza della velocità delle "corazzate da crociera" e delle torpediniere
Il S. riconosce che ormai tutti gli studiosi di tattica navale sono concordi nel ritenere che " il cannone è il re delle battaglie navali". Ne consegue in prima istanza l'importanza del dislocamento, dal quale dipende l'attitudine a combattere col cannone e più in generale l'attitudine tattica complessiva dclJa nave. Una corazzata di grande dislocamento, infatti, utilizza meglio i pesi assegnati alla velocità, all'autonomia e alla protezione, specie se le forme restano simili, sente meno gravemente le offese delle armi subacquee; ha qualità nautiche migliori; maggiore attitudine a conservare velocità elevata anche con mare agitato; migliore abilità e maggiore stabilità di piattafonna [ ...], requisito importantissimo per navi che devono combattere principalmente con il cannone. 70
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ivi, p. 164.
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Detto questo, il S. si dimostra tutt'altro che un esaltatore ad ogni costo della grande nave. Premesso che "nessuna nave per quanto grande può avere protezione completa e assoluta contro le offese delle artiglierie nemiche", elenca una serie di inconvenienti dei grandi dislocamenti, che impongono di limitarli: a) costo elevato e crescente; b) diminuzione della capacità evolutiva e quindi dell'attitudine della nave a manovrare in formazioni serrate, a impiegare il siluro e lo sperone e a evitare le offese di queste armi; c) cresce l'immersione della nave, quindi diminuisce la sua attitudine ad operare in tutti gli scacchieri strategici e a condurre operazioni costiere; d) aumenta il tempo necessario per la costruzione e per la manutenzione della nave; e) cresce la complicazione del servizio a bordo e aumenta il tempo necessario per la preparazione organica e militare della nave; f) anche se la capacità difensiva contro le anni subacquee e il siluro cresce con il dislocamento, nessuna nave, per quanto grande, può dirsi invulnerabile; il solo rimedio efficace contro le predette armi consiste nell'evitarne i colpi; g) la grande nave ha meno attitudine delle piccole a ottenere velocità e autonomia; h) "infine la perdita di una unità riesce tanto più dannosa moralmente e materialmente, quanto più essa è grande e costosa. Questo criterio è assai bene espresso dal noto proverbio, che non bisogna mettere troppe uova nello stesso paniere; tanto più che, g iova ripeterlo, questo paniere per quanto grandissimo è sempre assai ma /difeso contro le sorprese del siluro, dello sperone e dei bassi jòndi''. 71 Le flotte che intendono contendere al nemico il dominio del mare devono avere un numero di grandi navi per qualità e quantità competitivo rispetto alla flotta avversaria; ma quando ciò non è possibile, si deve attuare una difensiva strategica. In questo caso " l'az ione tattica si esercita principalmente col naviglio torpediniera, il quale deve operare con la massima energia, ed è p er conseguenza suggello a gravi perdite" .72 Per poter svolgere efficacemente la sua azione, però, questo naviglio deve essere appoggiato da una forza navale abbastanza poderosa, in grado di prendere e mantenere il contatto col grosso nemico e impegnare con esso un combattimento a distanza, per ridurne al silenzio almeno le artiglierie minori, che sono le più efficaci contro le torpediniere. Poiché le navi sprovviste di corazza verticale non sono in grado di sostenere un combattimento con altre navi provviste di queste corazze, chiara apparisce la necessità del naviglio corazzato per la guerra di crociera non meno che per la f{Uerra di squadra; senonché l 'ujj ìcio principale del naviglio suddetto nella guerra di crociera ha carattere piuttosto strategico che tattico, ed è possibile esercitarlo in maniera soddisfacente, con squadre di contatto di ejjìcienza tattica limitata, e perciò meno numerose e meno costose delle grosse squadre da battaglia di cui possono provvedervi soltanto le marine molto ricche.73
ivi, p. 165. ivi, p. I82. 71 Ibidem . 71
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Requisito essenziale e irrinunciabile di questi tipi di nave è la velocità. La loro efficienza tattica deve essere almeno uguale a quella dei migliori incrociatori corazzati, perciò devono essere o incrociatori corazzati con minore autonomia - e quindi minori dislocamenti - di quelli oceanici dello stesso tipo, "oppure unità di tipo intermedio fra le corazzate di linea e l 'incrociatore corazzato; più veloci di quella e più forti di questo, che potrebbero denominarsi corazzate di crociera".74 Secondo alcuni queste navi dovrebbero essere armate di cannoni dello stesso calibro delle navi di linea, quindi essere più grandi, meno veloci e meno numerose; altri invece ritengono più convenienti navi di dislocamento alquanto inferiore, senza cannoni di calibro massimo e con qualche cambiamento in meno di corazza, però più veloci, più maneggevoli e perciò più adatte all'impiego del siluro o dello sperone, oltre a risultare meno costose e quindi a parità di spesa più numerose. ln ogni caso, è opportuno costruire insieme con le corazzate di crociera anche incrociatori corazzati, per missioni nelle quali non si richiede grande efficienza tattica. Per il S. sarebbe comunque un grandissimo errore rinunciare alla superiorità o almeno aU' uguaglianza nelle prestazioni dei tipi di navi, per costruire unità inferiori a quelle delle marine rivali sia pure in numero maggiore. Egli sottolinea anche l'importanza dell'omogeneità dei tipi di nave, almeno per quelle impostate contemporaneamente, perché senza omogeneità in una forza navale composta di navi di diverso tipo, le migliori non possono utilizzare completamente le loro qualità. L'omogeneità del grosso da battaglia può essere solo relativa, perché per ottenere un'omogeneità assoluta bisognerebbe riprodurre sempre lo stesso tipo di nave, rinunciando così ai miglioramenti e ad ottenere la superiorità o l'uguaglianza del tipo, rispetto alle marine che seguono criteri diversi. L'omogeneità relativa si ottiene mantenendo costanti i criteri che determinano i programmi delle costruzioni navali e con forti disponibilità finanziane: chi spende molto denaro, può impostare [contemporaneamente] diversamente [dello ste sso tipo], ed avere squadre omogenee; chi spende poco denaro, deve limitare il numero di navi impostate contemporaneamente, affinché non invecchino sullo scalo e durante l'allestimento, e può avere soltanto divisioni e talvolta teme e coppie omogenee. Il povero deve rassegnarsi ad avere un campionario di coppie, di terne o di divisioni, mentre il ricco può avere un campionario di squadre; né vi è rimedio possibile, a meno che si rinunzi ad avere l'uguaglianza e possibilmente la superiorità del tipo, il che sarebbe un gravissimo errore. 15
In conclusione un'armata navale è composta da: a) corazzate di linea, che devono affrontare e possibilmente distruggere le corazzate nemiche in battaglie decisive c attaccare il litorale nemico, mentre le marine che attuano una
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ivi, p. 183. ivi, p . 204.
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strategia difensiva costituiscono solo corazzate da crociera; b) incrociatori corazzati, che devono avere velocità superiore a quella delle corazzate di linea; c) esploratori o "scouts", di dislocamento limitato e con velocità superiore a quella degli incrociatori corazzati; d) naviglio torpediniero, il cui compito principale è attaccare col siluro le corazzate nemiche e opporsi agli attacchi delle torpediniere nemiche. Loro requisiti essenziali sono l'alta velocità e le piccole dimensioni dello scafo; e) navi sussidiarie o onerarie ( navi officina, navi ospedale, navi cisterna ecc.), t) navi ausiliarie (piroscafi mercantili addetti ai trasporti, alla guerra commerciale e altri servizi). I nomi di corazzata, incrociatore corazzato o protetto ecc. non sempre danno un'idea esatta dell'efficienza combattiva di una nave. Per evitare questi inconvenienti, sulla marina italiana si denominano navi da battaglia tutti i tipi di unità con valore bellico, ripartendole in 7 classi in base al dislocamento. Il naviglio torpediniero è diviso in cacciatorpediniere, torpediniere e battelli sottomarini; le torpediniere sono divise in tre classi a seconda del dislocamento (la classe con dislocamento superiore a 120 t, 2a tra 60 e 120, 3a tra 30 e 60; le torpediniere da 200 t. di recente costruzione si denominano torpediniere d'alto mare). Pur essendo stato per circa dieci anni al comando di torpediniere, il S. non dimostra molta lungimiranza per quanto riguarda il loro futuro sviluppo, pur apprezzandone il valore bellico e ritenendole indispensabili anche per le flotte offensive. Ritiene, infatti, "alquanto eccessivo" persino il modestissimo dislocamento delle più moderne torpediniere d'alto mare del momento (200 tonn.), e non lo riterrebbe opportuno "neppure se jàcesse conseguire velocità superiore a quella delle torpediniere più piccole, il che non è". Questo perché la maggiore autonomia e capacità nautica che si ottengono con l'aumento del dislocamento oltre le 150 t non compensano a sufficienza gli inconvenienti che derivano da tale aumento, a cominciare dalla loro maggiore vulnerabilità. La velocità necessaria per avvolgere il nemico è di 25 nodi; velocità superiori sono utili solo perché riducono il tempo dell'attacco e quindi le probabilità che la torpediniera sia colpita. Alla maggiore velocità delle torpediniere di più elevato dislocamento non corrisponde la minore probabilità che siano colpite, perché espongono al fuoco nemico un bersaglio notevolmente più grande, quindi le probabilità di essere colpite prima del lancio restano invariate e forse aumentano, nonostante la minor durata dell'attacco. Infine, il S. continua a ritenere le torpediniere poco adatte a operare in alto mare. Per questa ragione, a suo parere i cacciatorpediniere, che nell'impiego silurante hanno gli stessi limiti delle grosse torpediniere (bersaglio troppo grande), devono far parte in gran numero delle armate che vogliono essere in grado di operare qualunque mare e a grande distanza dalle proprie basi, perché "l'azione delle torpediniere non può spingersi così lontano dal litorale nazionale come quella di destroyers". Le armate che si preparano alla difensiva strategica, invece, hanno bisogno di molte torpediniere, sia pur accompagnate da un certo numero di cacciatorpediniere per proteggersi dalle torpediniere e dai cacciatorpediniere nemici.
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Anche a proposito del sommergibile/sottomarino le idee del S. non sono particolarmente lungimiranti. Dopo aver descritto le origini e lo sviluppo del nuovo mezzo, egli si sofferma nel considerare l'ultimo stadio di sviluppo raggiunto dal sommergibile francese Narval (1900), con motore elettrico per navigazione subacquea e motore a scoppio per navigazione in superficie e ricarica accumulatori. A suo parere, anche questo nuovo tipo di sommergibile ha velocità, qualità nautiche e abilità inferiori a quelle delle torpediniere. Inoltre in immersione è cieco, né è sufficiente il periscopio, che al momento non può sostituire la visione di superficie a occhio, né consente di determinare il momento del lancio del siluro, che deve essere fissato ad occhio. Queste deficienze, secondo il S., con il progresso della scienza, potranno ''jòrse" essere eliminate; ma altre ve ne sono e ancora più gravi le quali dipendono dalla natura stessa della navigazione subacquea, e consistono nella minore mobilità, abilità e capacità nautica dei sottomarini, rispetto a navi di pari dislocamento destinate alla navigazione sopracquea. Queste deficienze nessun progresso scientifico o industriale riuscirà mai ad eliminarle. perché qualunque progresso sarà del pari applicato alle navi sopracquee. e la diversità di ej)ìr.ùmza dr~i requisiti suddetti resterà sempre presso a p oco la stessa. 16
Come dire: le prestazioni del sottomarino/sommergibi le resteranno sempre inferiori a quelle delle torpediniere e del naviglio di superficie in genere. In particolare le predette deficienze ancor più delle torpediniere ne limitano l' impiego alle vicinanze del litorale, dove possono essere utili per impedire il blocco serrato, il forzamento di stretti e il bombardamento costiero a distanza. La deficienza di velocità e la insufficiente visibilità rendono invece il sommergibile e il sottomarino poco adatti ad attaccare navi in mare aperto, dove per impiegare utilmente il siluro occorrono velocità superiore a quella della nave attaccata e buon dominio d'orizzonte. Perciò "sarebbe grave e imperdonabile errore esagerare, come fanno taluni, l'importanza guerresca dei battelli sottomarini, e pretendere che si affidino ad essi servizi, pei quali sono completamente disadattf' .17
Aspetti particolari della strategia: l 'CJ[fensiva e difensiva strategica, l'efficacia delle torpediniere contro le corazzate e lo scarso rilievo della guerra al traffico mercantile Abbiamo già più volte accennato alla strategia e alla difensiva strategica. All 'approfondimento di questi argomenti il S. dedica un intero capitolo, il lV,
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ivi. p. 223. ivi, p. 224.
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dedicato, come si è visto, alla condotta strategica della guerra marittima e alle modalità che richiede ciascuna forma di condotta di tale guerra. Ci limitiamo a riepilogare le riflessioni del S. che meritano maggiore attenzione, premettendo che - di proposito - non dedica alcuna attenzione alla parte teorica, né definisce la strategia. 1. Premesso che si può sperare di ottenere una vittoria decisiva solo quando il grosso dell'armata nazionale ha efficienza tattica uguale (o almeno non troppo inferiore) a quella del grosso nemico, alla flotta inferiore non conviene impegnare battaglia nemmeno quando la situazione strategica renderebbe possibile attaccare una parte delle forze nemiche con forze preponderanti; "dappoiché anche le vittorie costano perdite gravi, e queste, per questo inferiori a quelle inflitte al nemico, accrescerebbero vieppiù l 'infèriorità tattica complessiva delle proprie forze: al successo tattico corrisponderebbe un insuccesso strategico, e la vittoria sarebbe, come quella di Pirro, nociva anziché utile"18 [ anticipazione, questa, della " teoria del rischio" in auge nella flotta tedesca prima del 1914-N.d.a.].
2. D'altro canto, non hisogna operare solo quando il raggiungimento del1' obiettivo appare facile e sicuro, dappoiché chi vuole agire soltanto in circostanze così propizie, riesce ben difficilmente ad ottenere vantaggi importanti e tanto meno decisivi, resta sovente a lunl{o inoperoso, e perde eccellenti occasioni di successo. Nelle operazioni di guerra bisogna sempre affrontare un certo rischio e sottoporsi a un certo danno, inevitabili anche in quelle meglio condotte e riuscite; e ricordare l'ammonimento di Clausewitz che i generali, i quali vogliono vincere senza versare il sangue, sono dei generali da burla.79
3. L'efficienza delle forze navali nemiche non si valuta solo in relazione al numero e alla qualità delle navi; bisogna tener conto anche dell 'istruzione degli equipaggi e dell'energia morale da cui sono animati . Elemento, questo, preziosissimo che i grandi capitani hanno sempre tenuto nel massimo conto [il S. non accenna ad altri fattori ugualmente importanti, come la personalità del Capo nemico, la dottrina prevalente, il sistema di comando ecc. - N.d.a.]. All'efficienza del nemico, comunque, bisogna subordinare la condotta della guerra marittima. 4. La difensiva strategica è più redditizia in mare che in terra. L'esercito che vuole evitare la battaglia, e perciò si ritira, deve abbandonare al nemico una parte sempre maggiore del territorio nazionale. Se il teatro di guerra non è molto vasto, il più forte riesce facilmente a costringere a battaglia il difensore che tentasse di minacciare le sue linee di comunicazione; " invece un 'annata, an-
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ivi, p. 295. ivi, p. 341.
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che fortissima, non può obbligare abbastanza facilmente a battaglia le forze che gli contendono il dominio del mare, o meglio gli impediscono l'uso ditale dominio, purché esse siano abbastanza veloci ed autonome; e il solo fatto che esistono, basta per impedire all'armata più.forte di vincere". 80 Questa forma di condotta della guerra marittima risulta specialmente efficace, quando l'avversario è costretto a dividere le sue forze, per proteggere cospicui interessi dispersi in mari diversi e lontani. 5. L' annata più debole può mantenersi in potenza (in being) sul mare, evitando la battaglia e effettuando "crociere ardite o prudenti secondo le circostanze" (guerra di crociera), oppure può rinunciare anche a contendere al nemico il dominio del mare; in tal caso rinchiude le sue navi in porti difesi, facendo uscire solo qualche nave adatta alla guerra di corsa. Infine, può condurre con tutte le sue forze una vigorosa offensiva contro il litorale e il commercio marittimo nemico, evitandone l'armata navale. Quest'ultima scelta strategica, però, presto o tardi espone la flotta più debole ad essere distrutta da quella nemica. Inoltre lascia il litorale nazionale indifeso, cosa che si possono permettere Paesi continentali come la Russia, ma non - come già si è visto - Paesi che, come l'Italia, hanno interessi cospicui sul mare e un litorale esteso e facilmente accessibile in molti punti, sicché non è possibile difenderlo dappertutto con forze terrestri, quindi la sua unica difesa è l'armata navale. 6. Ne consegue che nel caso italiano la perdita del dominio marittimo può influire anche in modo decisivo sull'esito del conflitto; l' armata navale deve perciò fare di tutto, per evitare che il nemico usi a danno nostro il dominio del mare. A tal fine deve evitare la battaglia e non lasciare le proprie navi inattive nei porti, ma mantenerle in potenza sul mare, pronte a impedire le maggiori offese marittime, e specialmente quelle che interessano la grande guerra, con particolare riguardo agli sbarchi. Infatti "l'armata in potenza costituisce un grave pericolo per i convogli di sbarco del nemico, e anche per le sue squadre, quando queste, imprudentemente, si accingono a certe operazioni costiere, oppure si dividono. Perciò essa difende il litorale nazionale, ed anche il commercio marittimo, se non da tutte le offese navali, almeno da quelle più gravi e p ericolose". 81 7. Come il Bettòlo e il Bonamico, anche il S. ritiene che l'obiettivo strategico fondamentale delle nostre forze navali deve essere quello di impedire a qualunque costo una invasione dal mare del territorio nazionale. Perciò l'armata deve evitare azioni - come ad esempio quella deU' intervento in caso di bombardamenti navali di centri costieri importanti - che comporterebbero forti perdite senza adeguato vantaggio strategico. I bombardamenti navali mirano a col-
"" ivi. p. 297. • 1 ivi, p. 302.
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pire gravemente il morale delle popolazioni; pertanto le popolazioni devono essere educate a sopportare con forte spirito di abnegazione gli effetti di tali bombardamenti, senza reazioni emotive inconsulte. 8. Ad ogni modo l'armata navale che attua la difensiva strategica deve essere animata da un fortissimo spirito aggressivo, e deve altresì disporre dei mezzi necessari per condurre a buon fine/ 'aggressione.L'armata che evita troppo wvente, o, peggio, sempre l'azione tattica, non esercita una minaccia reale ed ef]ìcace;forse salverà le navi, ma certamente abbandona al nemico il dominio del mare, e può dirsi sconfitta senza combattere. La guerra strategicamente difensiva [ ... ] non esclude, anzi esige la più audace offensiva tattica; esige altresì una vigorosa azione controffe nsiva sul litorale e sul commercio marittimo nemico, per sconcertarne i piani. e tenere alto con adeguate rappreçaglie il morale degli equipaggi e delle popolazioni costiere [quest'ultimo accenno agli attacchi al commercio marittimo e alle coste nemiche da parte del più debole è in contraddizione con altre affermazioni del S. - N.d.a.]. 82
9. Per contro l'armata più forte, non risultando conveniente, come già visto, l'assedio della flotta più debole nelle sue basi , "non potendo ottenere il sollecito annientamento delle forze nemiche, deve accontentarsi di paralizzarne l'azione, o almeno cercare di paralizzarla, mediante il blocco militare delle hasi alle quali esse si appoggiano, in attesa di annientarle non appena si presenti l'occasione propizia". Il S., in proposito, distingue tra blocco militare (blocco della flotta da guerra nemica) e blocco commerciale (blocco dei porti commerciali nemici e di zone costiere più o meno estese, che ha lo scopo di paralizzare il commercio nemico). 10. Il blocco non può mai essere assoluto; non si può ripromettere di togliere la libertà d'azione al nemico, bensl di limitarla, in modo da impedirgli di conseguire risultati importanti. Esso ha l'inconveniente di dipendere dalla volontà dell'avversario e di richiedere alle forze bloccanti il possesso di una serie di requisiti, a cominciare dalla mobilitazione molto sollecita, da una velocità e efficienza tattica almeno uguali a quelle delle forze bloccate, da riserve sufficienti e grande efficienza logistica per sostituire, riparare e rifornire le forze che mantengono il blocco. Il tempo gioca a sfavore di queste ultime forze: se il nemico rimane chiuso nelle sue basi magari per tutta la guerra, il bloccante è costretto a immobilizzare e logorare le sue forze senza alcun risultato, con il rischio che il bloccato riesca ad eluderne la vigilanza, e riacquisti la libertà d'azione. Per queste ragioni conviene costringere a battaglia le forze nemiche non appena hanno lasciato la propria base d'operazione, e possibilmente anni en tari e quando saranno costrette a ritornarvi. Questo risultata è però molto difficile da conseguire.
" ivi, pp. 302-303.
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11. Per evitare gli inconvenienti del blocco ravvicinato, in passato si è fatto ricorso - e ancor più, secondo il S., ciò avverrà per l'avvenire - al blocco a distanza o blocco strategico, cioè a un tipo di blocco meno ravvicinato, meno rischioso, meno efficace ma anche meno logorante. In questa forma di blocco la flotta bloccante rimane fuori dalla vista della flotta bloccata e mantiene in prossimità del porto bloccato solo unità da crociera e naviglio leggero, con il compito di "sorvegliare incessantemente le forze nemiche; opporsi, nei limiti del possibile, all'evasione di navi isolate o di reparti minori, e mantenere un efficace contatto strategico coi grossi reparti [nemici] che eventualmente prendono il largo". 83 12. La flotta bloccata combatterà con la massima energia le unità nemiche addette alla sorveglianza, per costringerle ad allontanarsi, mediante le proprie navi similari e di notte con le torpediniere. Per tale ragione le unità bloccanti devono essere non solo più veloci del nemico, ma anche abbastanza forti per mantener il blocco. Tnoltre devono avere a propria disposizione un sufficiente numero di torpediniere per esercitare di notte un'accurata vigilanza, che le unità di maggiore dislocamento potrebbero effettuare solo con rischio elevato. Comunque, anche se il nemico con questo tipo di blocco ha una maggiore libertà d'azione, non è facile nemmeno in questo caso costringerlo a battaglia. 13. Il metodo della paralizzazionc aumenta e sfibra una flotta forse di più del suo parziale annientamento in battaglia. Bisogna anche tener conto che la vittoria navale, a differenza di quel la terrestre che è sempre seguita dall 'occupazione del territorio nemico, assicura soltanto la preponderanza in campo marittimo; per ottenere una vittoria completa e definitiva è necessario procedere ali' occupazione dei centri vitali del nemico. Per contro, il metodo della paralizzazione non assicura affatto il dominio pieno e assoluto del mare, perché una flotta bloccata può dirsi neutralizzata, ma non distrutta. Quindi la paralizzazione delle forze nemiche non può costituire l'obiettivo decisivo della guerra marittima, ma è soltanto un mezzo di ripiego, al quale si ricorre con lo scopo principale di costringere il nemico a combattere, e limitarne nel contempo la libertà d 'azione, per acquistare almeno parzialmente il dominio del mare. Questo ripiego è peraltro preziosissimo, ed è giocoforza valersene in mancanza di meglio, ogni qual volta il nemico evita deliberatamente la battaglia, e non si ritiene conveniente porre l'assedio alle sue basi d 'operazione.84
14. La guerra commerciale si fa al largo, oppure bloccando i porti e le coste nemiche. Nel primo caso operano in gruppo o isolate navi da crociera che devono avere velocità e autonomia elevate, oppure i piroscafi armati iscritti nel
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ivi, p . 368.
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ivi, p. 362.
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naviglio ausiliario_ Le navi che incrociano al largo anche se sono molto numerose non possono certo catturare tutte le navi mercantili nemiche, e inoltre devono rispettare le navi e merci neutrali, eccetto il contrabbando di guerra_ Ne consegue che la loro azione non basta per interrompere del tutto il traffico mercantile del paese nemico, che tra l'altro, sia pure con costi maggiori, può avvalersi di naviglio neutrale. Ciò non avviene con il blocco commerciale, che oltre ad assicurare una più stretta vigilanza, dà diritto di catturare anche le navi neutrali, che tentano di raggiungere i porti nemici. Quel che più importa, anche se parecchi tentativi di violare il blocco dovessero riuscire, il danno economico inflitto al nemico sarà sempre gravissimo, non solo per la maggiore difficoltà del traffico marittimo, ma ancor di più per gli altissimi costi dei noli e delle assicurazioni, che obbliga a vendere a bassissimo prezzo le merci esportate e a pagare ad altissimo prezzo le merci importate. Per queste ragioni la guerra commerciale costiera è assai più redditizia di quella condotta al largo; "è la sola che può far conseguire risultati realmente importanti e decisivi, ed è sempre da prEferirsi, quando si di:>pone di forze sufficienti p er mantenere un blocco abbastanza ~fficace" [affermazione in contraddizione con il ribadito ruolo secondario della guerra al commercio - N.d.a.].85 15. Da sottolineare che tra gli svantaggi della guerra al commercio, specie al largo, il s_ indica la convenienza di non affondare le navi mercantili catturate, perché si sarebbe costretti a indennizzare i proprietari di eventuali merci neutrali imbarcate, si rinuncerebbe a un fotte guadagno e si dovrebbe prendere a bordo l'equipaggio e i passeggeri, "sì che si è presto costretti a prendere terra, per sbarazzarsi di questo carico ingombrante e forte consumatore di viveri''_ Infatti all'idea dellaJeune École navale di affondare insieme con lanave tutto il personale che è a bordo, "si oppongono tutti coloro i quali hanno un briciolo di buon senso". 86 [Di lì a qualche anno sarebbe avvenuto anche questo, in una guerra sottomarina ad oltranza - N.d.a.]. 16. Ad ogni costo, la dispersione delle forze richiesta dalla guerra commerciale e la possibilità di rifornirsi presso le basi, sono possibili solo sotto la protezione delle proprie squadre di naviglio maggiore, le uniche capaci di fronteggiare la minaccia delle squadre avversarie. Quindi, per condurre con efficacia la guerra commerciale è necessario conquistare prima il dominio assoluto, o quasi, del mare. La guerra commerciale non è dunque tale da consentire al debole, al povero di lottare vantaggiosamente con il forte, il ricco; perché quest'ultimo, padrone del mare, si sbarazzerebbe in breve tempo del debole aggressore. Essa non è che un mezzo per utilizzare il dominio del mare; e, come afferma anche Mahan, si sbaglierebbe chi la ritiene poco costosa [affermazioni valide solo fino a quando non si rivela l'efficacia del sommergibile - N .d.a. ].
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ivi, p. 309. ivi, pp. 3 10-311.
n -TRA BONAMICO F. BERNOrn L'IMPORTANZA nELLA "CORRELAZIONE TERRESTRF.-MARJ1TlMÀ"
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17. Riguardo all'impiego strategico delle torpediniere, il S. trova "inspiegabile" che dopo la battaglia di Tsushima, almeno 40 tra torpediniere e cacciatorpediniere giapponesi non siano riusciti ad affondare nemmeno lo Czarevich russo, che aveva subito gravissime avarie, e per tutta la notte aveva marciato a una velocità media di sole 4 miglia/ora; ammette perciò che in tale battaglia il naviglio torpediniera ha reso assai meno di quanto era lecito aspettarsi [ciò sarebbe avvenuto anche dopo - N.d.a.]. Detto questo, ribadisce che le torpediniere hanno il compito di assalire il naviglio da battaglia nemico a ragionevole distanza dal litorale nazionale e possibilmente di notte. Non devono essere disperse (come è stato fatto intorno al 1890) in molte località costiere, ma riunite in poche basi (e qui il S. concorda con il Bonamico, che indica come basi principali Spezia, Maddalena e Messina, più poche altre secondarie). Per esercitare un'azione realmente efficace esse devono operare- riunite - in un raggio di I 00 miglia dalla costa e devono coordinare la loro azione con quella generale dell'armata, e specialmente con la forza navale che opera nei paraggi. Non devono logorarsi nella ricerca del nemico, ma attenderlo nelle zone costiere dove hanno maggiore interesse ad operare. Sono adatte alle azioni a poca distanza dalle coste e in mari ristretti; non sono adatte ad impieghi oceanici, nei quali servirebbero solo a limitare la libertà di movimento delle navi maggiori. Sono molto utili anche alle squadre che attuano il blocco, per la vigilanza notturna della base nemica e per neutralizzare l'azione del naviglio similare nemico. Per raggiungere la base da bloccare, è opportuno che il naviglio torpediniero faccia la traversata per conto suo. È inoltre assolutamente necessario che esso disponga di una base eventuale, nelle vicinanze della base nemica bloccate. In tutti i casi il naviglio torpediniera non può essere tenuto in mare per molto tempo, sia perché ha bisogno di frequenti rifornimenti, sia soprattutto per non affaticare eccessivamente il personale, e specialmente il comandante. Perciò bisogna limitare il numero delle squadriglie in navigazione, e stabilire dei turni tra di esse e quelle da mantenere all'ancora (che potranno essere impiegate al momento opportuno, contro obiettivi tattici). Per essere certi che personale e materiale al momento opportuno renderanno tutto ciò che si attende da essi, ''è assolutamente necessario risparmiarli, finché il nemico si mantiene lontano dal litorale nazionale". 87
Cenni sulla logistica marittima 11 S. è l'unico autore che si conosca a dedicare un intero capitolo (il V e ultimo) alla logistica, del quale - ad integrazione di quanto già detto - ci limitiamo ad esaminare gli aspetti principali. Aspetti solo in parte "datati'', perché le sue riflessioni su taluni argomenti, come l' importanza di "navi specializza-
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ivi, p. 357.
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te" per taluni servizi logistici, la necessità di una buona riserva di naviglio mercantile ausiliario con velocità elevata, il problema del combustibile, l'organizzazione degli imbarchi e sbarchi ecc., alla luce dell'esperienza della seconda guerra mondiale sono tutt'altro che prive di interesse e si rivelano anzi profetiche. Per contro, come già avviene per il sommergibile il S. non tiene in gran conto la radiotelegrafia e non ne intravede la grande importanza e il rapido sviluppo. Per lui la logistica marittima provvede agli svariati bisogni delle forze navali che operano al largo delle proprie basi d'operazione [ma perché non anche quando sono in porto? - N.d.a.] e cura l'organizzazione dei Servizi logistici e l'organizzazione delle spedizioni marittime in accordo con la logistica terrestre. Infme, come avviene al momento anche in campo terrestre, fanno parte dei suoi compiti anche attività di carattere operativo come la definizione del1'ordine e formazione di marcia delle forze navali, l'organizzazione dell'esplorazione e l'organizzazione dei collegamento e trasmissioni. Ciò premesso, per il S. i Servizi logistici che interessano maggiormente le forze navali sono i rifornimenti, le riparazioni, il Servizio sanitario e la sollecita comunicazione degli ordini e notizie. SERVIZIO SANITARIO - Nonostante la riconosciuta importanza morale del Servizio, anche sulle navi maggiori non sono previsti locali adibiti esclusivamente ad infermeria. 1n combattimento si organizzano in locali il più possibile adatti dei posti di medicazione di composizione analoga a quella dell'esercito (un ufficiale medico e personale di truppa ausiliario, che apportano ai feriti solo le prime cure) presso i quali, però, i feriti sono trasportati solo nelle pause del combattimento, per essere poi trasferiti sulle navi-ospedale generalmente al termine del combattimento. Sotto questo profilo, secondo il S. c'è un arretramento rispetto al periodo velico, quando sulle navi maggiori si disponeva di locali spaziosi e facilmente accessibili per organizzarvi ospedali di combattimento; i locali delle navi a vapore, invece, non dispongono di questi requisiti. Le navi-ospedale sono navi mercantili - meglio se da passeggeri - designate fin dal tempo di pace e adattate alle specifiche esigenze, secondo appositi piani. Hanno anche il compito di raccogliere e soccorrere i naufraghi. Anche se la Convenzione dell' Aja (1899) ha esteso ad esse le stesse clausole della Convenzione di Guerra del 1864, non si è ancora definito uno speciale distintivo per il loro riconoscimento di notte. In colonia, nei primi tempi dello sbarco le navi-ospedale servono anche da ospedale galleggiante in porto, fino a quando non si sono organizzati i servizi sanitari a terra. SERVIZIO DI COMMISSARIATO- Bisognerebbe organizzare a mezzo dinavi-frigorifero il rifornimento di viveri freschi, molto graditi dagli equipaggi. Poiché l'acqua fornita dai distillatori delle navi non sempre è sufficiente per tutte le esigenze, è opportuno che le forze navali destinate ad operare a lunghe distanze dalle basi siano accompagnate da navi-cisterna o distillatrici , ottenute per trasformazione di navi mercantili con idonei requisiti. Queste navi ser-
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vono anche per rifornire le truppe terrestri, nelle spedizioni coloniali dove l'acqua manca.
RIFORNIMENTO MUNIZIONI - L'accresciuta celerità del tiro delle moderne artiglierie navali e il prevedibile elevato consumo di munizioni nei bombardamenti costieri ne hanno accentuato l'importanza. Ciononostante, al momento nessuna marina dispone di navi sussidiarie appositamente costruite per questo servizio, anche se i piroscafi mercantili non sono molto adatti, perché lestive sono troppo grandi e non dispongono né della sistemazioni necessarie per evitare gli spostamenti delle casse di munizioni per effetto del rollio e beccheggio, né di dispositivi per l'illuminazione elettrica e l'allagamento. RIPARAZIONI - Le navi maggiori e le navi appoggio torpediniere devono disporre di "officine abbastanza complete". Inoltre le forze navali destinate ad operare a grande distanza dalle basi devono essere provviste di navi officina e bacini galleggianti. I piroscafi mercantili mal si adattano ad essere trasformati in navi-officina, quindi bisogna costruirle ex-novo, oppure destinare a questo compito le navi-appoggio torpediniere, ampliando l'officina della quale sono già provviste. Per addestrare il personale addetto alla manutenzione, le naviofficina devono seguire le squadre anche in tempo di pace. l bacini galleggianti non devono ovviamente seguire l'armata navale in tutti i s uoi movimenti, ma devono essere rimorchiati nella base eventuale di operazioni dello scacchiere strategico. Il rimorchio è operazione assai delicata e rischiosa; per limitare i danni di un'eventuale cattura o distruzione, occorre dividere il bacino in sezioni indipendenti e in numero maggiore di quelle occorrenti, che possono essere rimorchiate per rotte e tempi diversi. TRASPORTT MARITTIMI - Diversamente dal passato, quando si usavano navi militari sussidiarie, al momento per i trasporti di truppe si ricorre generalmente a navi m ercantili. Queste ultime però non possono provvedere convenientemente a tutti i servizi logistici; pertanto tutte le marine si sono dotate, come si è visto, di navi specializzate, ivi compresi rimorchiatori d'alto mare, navi trasporto carbone, navi idrografiche, navi affonda-torpedini. Sarebbe desiderabile che le navi sussidiarie e le navi mercantili avessero velocità elevata, sia per raggiungere rapidamente le loro zone d'impiego e metterle in grado di navigare insieme con squadre veloci senza obbligare quest'ultime a ridurre la velocità, sia per sottrarsi con la fuga a sicura cattura e affondamento. Peraltro, velocità molto elevate richiedono forme di carena molto sottili, apparati motori molto pesanti e - dato il consumo maggiore - larga dotaz ione di combustibili. Tutte queste esigenze riducono la capacità di carico della nave; pertanto all'atto pratico ci si deve accontentare di velocità moderate, sempre inferiori a quelle dei grossi da battaglia e ancor più a quelle delle navi da crociera. Anche per questa ragione l'impiego di naviglio mercantile per l'attacco al commercio nemico è da ritenersi poco redditi zio.
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RIFORNIMENTO DI COMBUSTIBILE (CARBONE) - È il più importante, e specie per le marine - come quella italiana - che non dispongono nel Paese di miniere di carbone in esercizio, è anche quello che desta maggiori preoccupazioni. Esso comporta due operazioni ben distinte: l'approvvigionamento dei depositi organizzati nelle basi di operazione e l'approvvigionamento delle navi con il carbone prelevato dai predetti depositi. Per quanto riguarda l'approvvigionamento dei depositi, le marine - come quella italiana - che non dispongono di miniere sul territorio nazionale, devono risolvere un problema arduo, per non dire insolubile. Da una parte occorrerebbe accantonare - con notevole esborso finanziario - riserve sufficienti per un'eventuale guerra, dall'altra bisogna tener conto che il carbone specie se i depositi sono all'aperto si deteriora facilmente, quindi dovrebbe essere ruotato con frequenza: ma il consumo del tempo di pace non è sufficiente per una rotazione in misura adeguata a quanto sarebbe necessario. In proposito il S., oltre a non fornire ragionate e precise soluzioni, non sempre è convincente. Giudica "gravemente esagerate" le tesi del comandante Roncagli, che vorrebbe costituire grandi depositi anche per le esigenze delle ferrovie e dell'industria, "con spese assolutamente ingiustificate". Trova interessanti le idee dcll 'amm. Bettòlo, che in un discorso parlamentare afferma: "i nostri centri di rifornimento raccolgono in media una quantità di combustibile pari a 150. 000 tonnellate. Ora, da calcoli fatti, risulterebbe che non meno di 300.000 tonn ne sarebbero domandate pPr i soli bisogni delle nostre forze navali, nel periodo probabile di una guerra; e volendo altresì soddisfare le eventuali esigenze di navi alleate, lo stock dei depositi nazionali dovrebbe essere portato a oltre 500. 000 tonn. Ciò richiederebbe di immobilizzare un capitale di circa venti milioni, mentre d'altra parte sarebbe impossibile con le sole sottrazioni di pace, ottenere una regolare rotazione ... ". 88
Il Bettòlo giudica quindi il problema di difficile soluzione, tanto più se si considerano le esigenze delle ferrovie per i trasporti di mobilitazione [e i trasporti ferroviari guerra durante? e le esigenze dell'industria privata? - N.d.a.J e i rischi dei trasporti via mare durante la guerra. Dopo il Bettòlo il S. cita favorevolmente anche l 'on. A lliotta, il quale nella relazione al bi lancio della marina 1902-1903 afferma che il prevedibile consumo medio in tempo di guerra è di circa 3.300 tonn al giorno, quindi per soli 90 giorni di guerra occorrerebbero già 300.000 tonnellate. E siccome non conviene costituire depositi troppo grandi, "opportunamente [così dice il S. - N.d.a.] accenna alla possibilità di servirsi anche del carbone appartenente alle ferrovie e ai privati, del quale esiste una riserva media di 500.000 tonnellate". Non è evidentemente possibile consumare in tempo di guerra anche le riserve dei privati e delle ferrovie, specie se si tiene conto delle esigenze dei tra-
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ivi, p. 398.
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sporti militari, e della necessità che l'industria privata continui a funzionare; eppure il S., nonostante la sua insistenza sulla correlazione terrestre-marittima, avalla questa tesi, con argomentazioni troppo ottimistiche e perciò non realistiche. Indica infatti i seguenti termini del problema: a) il consumo medio giornaliero durante la guerra va calcolato senza esagerazioni e tenendo il dovuto conto della condotta strategica che si intende seguire [sempre che il nemico lo consenta! - N.d.A.]; b) la durata probabile della guerra almeno fra stati europei non raggiungerà certamente quella di alcune guerre del passato, perché oggidì interessa non solo di vincere, ma di vincere presto; c) la possibilità e facilità dei rifornimenti durante la guerra, che non potranno mai essere completamente interrotti (sic); d) le riserve di carbone esistenti in paese per conto delle ferrovie e delle industrie che potranno in buona parte essere sfruttate a fini militari.
Sulla breve durata della guerra, come molti altri autori coevi il S. si sbaglia in pieno. Ma anche sulla possibilità di rifornimento durante la guerra, e sulla possibilità di utilizzare le riserve di carbone delle ferrovie e industrie, le sue argomentazioni anche alla luce dell'esperienza storica non sono centrate. A suo avviso il rifornimento via terra può essere completamente impedito solo agli Stati ausiliari [ma sarà così facile reperirlo durante la guerra, presso amici o alleati? - N.d.a.]. In quanto al rifornimento via mare, il nemico può impedirlo completamente solo dopo aver distrutto o ridotto all'impotenza il grosso dell'armata nazionale, perché solo così può mantenere un efficace blocco commerciale su tutto il litorale; ma se la situazione delle nostre forze navali fosse questa, il rifornimento di carbone interesserebbe ormai ben poco. Infine, in tempo di guerra l' industria privata è costretta a ridurre la produzione per mancanza di braccia dopo la chiamata generale alle armi, e anche le ferrovie devono "ridurre i treni per non farli correre vuoti" ... Ne consegue, sempre secondo il S., che il consumo di carbone è assai inferiore rispetto al tempo di pace, anche perché i calcoli di coloro che hanno studiato i I consumo di carbone per i trasporti ferroviari militari sono assai esagerati. Evidentemente le esigenze della mobilitazione industriale della prossima guerra, che comporta se mai un aumento di braccia e materie prime (non solo carbone) richieste dall'industria, sono del tutto estranee al pensiero del S. Egli fornisce anche molti particolari sul rifornimento di carbone delle navi sia in porto che in navigazione, che per brevità omettiamo. Accenna anche al rifornimento del naviglio leggero, che in navigazione, per non creare confusione, non si rifornisce presso le navi ausiliarie prima menzionate ma presso apposite navi appoggio, che a loro volta fanno capo alle navi ausiliarie o direttamente alle basi. Le navi appoggio possono trasportare anche un certo numero di piccole torpediniere che mettono in mare nelle aree d'impiego, onde evitare l'affaticamento del personale e le possibili avarie di una lunga traversata. Questo sistema è particolarmente utile nell'organizzazione del blocco di località molto distanti dalle basi di operazione.
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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO -VOL.
m ( 1870-1915) - TOMO li
COLLEGAMENTI E TRASMISSIONI - Le navi comunicano tra di loro e con i punti strategici costieri per mezzo di segnali, radiotelegrammi, messaggi verbali e lettere. I punti strategici costieri comunicano tra di loro anche per mezzo del telegrafò ordinario e dei piccioni viaggiatori, i quali servono anche per mantenere le comunicazioni tra le navi e i punti suddetti, ma non l'inverso. A proposito della radiotelegrafia il S. afferma che: non ha finora raggiunto la rapidità e sicurezza di trasmissione necessarie per poter sostituire gli altri mezzi di comunicazione, ed è prudente considerarla come un utile complemento, ma non già un sostituto di questi. Giova peraltro riconoscere che anche nelle ndierne condizioni essa può rendere utilissimi servizi, perché dà mezzo di tener assai più efficacemente di prima il blocco a distanza, e facilita notevolmente la soluzione di problemi relativi alla ricerca del nemico e alla esplorazione in genere.89
Alla fin fine, i mezzi di collegamento ai quali il S. dà maggiore importanza sono quelli tradizionali, validi anche ai tempi della battaglia di Lissa di sessant'anni prima: i segnali a mezzo di bandiere o proiettori (di notte) e il telegrafo. Tsegnali sono usati nell'ambito di una flotta in mare e "in battaglia e durante le operazioni tattiche costiere costituiscono il principale, se non il solo mezzo di comunicazione".90 Devono essere brevi e poco numerosi. Servono essenzialmente per indicare il momento di esecuzione di ordini c istruzioni, che devono essere dati in modo ampio, chiaro e preciso prima del combattimento, in modo che tutti i comandanti conoscano bene le intenzioni dell'ammiraglio, siano preventivamente istruiti sulle modalità di attacco e difesa da lui stabilite e siano perfettamente in grado di concorrere all'azione comune, prendendo le decisioni più opportune. Sarebbe perciò "grave errore" e "la peggiore delle illusioni" pretendere di dirigere con essi una battaglia o la presa di un'isola, come ha fatto l'ammiraglio Pcrsano a Lissa (equi il S. cita le giuste critiche del Fincati al Persano, che meglio esamineremo in seguito). Per le comunicazioni di una nave o di una forza navale in mare con altre navi lontane o con Comandi e Enti a terra si usa il telegrafo ordinario, che "costituisce indubbiamente un importantissimo mezzo di comunicazione p er la condotta della guerra marittima, sebbene le navi non possano servirsene direttamente".91 Infatti il telegrafo collega fra di loro, anche per mezzo di cavi sottomarini, stazioni telegrafiche dislocate sulle coste, alle quali per poter portare i messaggi da spedire e ricevere fanno capo navi staffetta inviate dalle forze navali in mare, con tempi e modalità convenienti e a conoscenza di tutta l'armata navale. In tal modo, oltre a comunicare con Enti terrestri le parti della flotta
11'1 90
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ivi, p. 414. ivi, p. 412. ivi, p. 415.
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distanti tra di loro si mantengono in costante contatto a mezzo del telegrafo basato a terra. Il S. si diffonde molto sui problemi del collegamento telegrafico, a cominciare dalla necessità di integrare la rete telegrafica esistente per esigenze civili con cavi stesi all'occorrenza per esigenze militari da apposite navi posa-cavi, necessarie anche per ripristinare guerra durante le linee telegrafiche interrotte, usando cavi di tipo speciale da guerra, più maneggevoli e di stesura più facile e spedita rispetto ai cavi normali, in modo che la nave posacavi abbia maggiori probabilità di compiere l'operazione, senza essere sorprese da navi nemiche. In proposito il S. rileva che manca un cavo tra Maddalena e Spezia e tra la Sicilia e la Sardegna, tra Lampedusa, Linosa e la terraferma, e tra l'isola di Montecristo - che per la sua posizione avanzata costituisce un prezioso punto di osservazione - e la terraferma. Osserva anche che le nostre linee telegrafiche che si estendono lungo la costa, sono molto vulnerabili. A loro volta i cavi sottomarini nei nostri mari si possono tagliare con facilità, perché hanno uno sviluppo massimo di 120 miglia, sono stesi su fondali bassi e ben conosciuti, e i loro punti di approdo sono ben individuabili . Infine i cavi transoceanici hanno grandissima importanza militare, perché sono l'unico mezzo <li comunicazione. Essi sono in pratica controllati dall'Inghilterra, con società che posseggono 200.000 km di linee su 300.000 e sono obbligate dal Governo a tenere al loro servizio solo personale inglese. In tempi recenti, prima la Francia e poi la Gennania e gli Stati Uniti con la costruzione di proprie linee telegrafiche hanno cercato di sottrarsi almeno in parte al controllo inglese. MODALITÀ PER GLI IMBARCHI E SBARCHl - TI S. dedica parecchie pagine, ricche di particolari, anche a questo argomento tipicamente interforze. Accenna ai regolamenti interforze vigenti,92 ma giustamente sottolinea che per ottenere armonia di vedute per la parte direttiva, e unità d'azione nella parte esecutiva, "è assai più utile di qualunque prescrizione regolamentare, la cordialità delle relazioni personali, e la profonda convinzione che l'una e l 'altra sono assolutamente necessarie p er la buona riuscita de/l 'impresa". Per la compilazione del paragrafo dedicato a questo argomento il S. si avvale della recente opera del comandante Saint-Pierre sulle spedizioni marittime, ad essa anche rimandando. 93 La formazione e la radunata del corpo di spedizione sono di competenza dell'esercito. L' imbarco deve essere ovviamente effettuato in un porto di prim 'ordine, ben servito da lince ferroviarie. Vi presiede una Commissione di approntamento e imbarco composta da ufficiali della marina e dell'esercito.
92 Cfr. Ministero della guerrn e marina, Regolamento per la p reparazione ed esecuzione dei trasporti d 'alto mare, Roma 1900 e Ministero della guerra, Regolamento pel servizio dei trasporti, Roma 1904, Parte m. 9J Cfr. Eugenio Bollati di Saint Pierre, Le spedizioni marittimP., Torino, Ca~anova 1900.
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L'imbarco avviene su navi mercantili scelte dal Ministero della marina al momento del bisogno, utilizzando un registro tenuto aggiornato a cura dello stesso Ministero, che riporta i dati relativi alla capacità di trasporto dei piroscafi nazionali più adatti all'imbarco di truppe. Prima che inizino le operazioni di un imbarco delle truppe e dei materiali prende il comando di ciascuna nave un ufficiale di marina comandante militare, con alcuni marinai addetti ai segnali: la ripartizione delle truppe e del materialefra i singoli piroscafi risulta da apposito Quadro d'imbarco, nel quale essi sono designati col nome e con una lettera e numero distintivo, che deve essere dipinto in dimensioni abbastanza grandi sui due lati del fuoribordo a prua e a poppa; inoltre ciascun piroscafo deve avere su apposita tabella appesa fuoribordo l'indicazione dei reparti di truppa ad esso destinati. 94
Il grosso delle truppe a piedi viene imbarcato sui piroscafi per emigranti, o, in mancanza di questi, sui piroscafi per trasporto merci; su questi ultimi viene trasportata anche la cavalleria e l'artiglieria. Le navi passeggeri servono per il trasporto dei grandi Comandi e di una parte delle truppe a piedi, con l'avvertenza che il comandante delle truppe e una parte del suo Stato Maggiore deve imbarcarsi sulla stessa nave del Comandante della scorta navale. La ripartizione delle truppe fra i piroscafi si deve effettuare in modo che le unità elementari fino al livello di battaglione siano trasportate sullo stesso piroscafo. Insieme con le truppe completamente equipaggiate, ciascun piroscafo deve trasportare i viveri, foraggi e acqua dolce occorrenti per la traversata, più una riserva per i primi giorni dello sbarco, nei quali l'Intendenza non può ancora funzionare. Deve inoltre trasportare il carreggio dei reparti con relativi quadrupedi, i cavalli degli ufficiali e i materiali di impiego immediato [ivi comprese le munizioni? - N.d.a.]. Le truppe d'avanguardia e le truppe del genio destinate a costruire i ponti da sbarco sono destinate a sbarcare per prime, quindi devono essere imbarcate sui piroscafi di minor pescagione. Su ciascun piroscafo le operazioni di sbarco sono dirette dal comandante militare, il quale controlla in particolar modo che il carico delle imbarcazioni non sia eccessivo e che le operazioni rimorchio avvengano correttamente. Sulla spiaggia esse sono dirette da un ufficiale di marina, coadiuvato da adeguato numero di ufficiali inferiori. Per Io sbarco delle truppe vengono messe in mare tutte le imbarcazioni disponibili e quelle che è possibile requisire sul posto. Le navi da guerra, oltre alle altre imbarcazioni, mettono subito in mare le lance armate di cannoncini, mitragliere e fucilieri, per proteggere se occorre lo sbarco. Se si teme che le truppe nemiche possano giungere in tempo a contrastare lo sbarco, le navi da guerra ancorate inviano a terra al più presto le proprie forze di sbarco, onde occupare le posizioni più vicine alla spiaggia, che meglio si prestano a impedire l'avanzata nemica. Tali forze, per la loro legge-
94
Secbi, Elementi ... (cit.), Voi. li, p. 431.
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rezza e per la velocità dei mezzi di trasporto dei quali dispongono, sono in grado di entrare in azione sulla spiaggia prima dell'avanguardia dell'esercito. Specialmente utile è l'invio di artiglierie da sbarco trainate a braccia, perché l'artiglieria del corpo di spedizione deve attendere i quadrupedi, il cui sbarco è sempre molto lento e che, se hanno sofferto la traversata, devono essere lasciati in riposo per qualche tempo.
Giudizi conclusivi e collocazione storica del/'opera Nonostante la mancanza - non da poco - della parte dedicata alla tattica, gli Elementi di arte militare marittima rimangono - nel loro genere - una delle opere più organiche e esaustive del XX secolo, tale da meritare quell' analisi critica organica che tuttora manca. Intendiamo pertanto rimediare per quanto possibile a questa lacuna, cominciando due periodi delle reclusioni dei militari coevi più autorevoli, la Rivista Militare Italiana e la Rivista Marittima. Il Vol. I è recensito su quest'ultima dallo studioso più adatto: Domenico Bonamico.95 Dopo aver constatato che "il XIX secolo, come ebbi già occasione di dimostrare, non produsse nessun lavoro di Arte mililan: marittima che avesse, come quelli del Clausewitz e del Jomini, il carattere del trattato teorico", Bonamico riconosce che l'opera del Sechi ha la forma di un vero e proprio trattato, quindi segna un nuovo progresso; anzi, "nella struttura, nel metodo, nella forma, quando sia purgata del superfluo, è la migliore tra quelle che oggi si conoscano. e nella sostanza non ne teme il confronto". Tanto più che, fra tutti gli scrittori navali, il S. "è forse quello che ha il più largo e perfetto intendimento della Guerra nella sua correlazione terrestre e marittima, nella sua strategica unità". Questa linea di tendenza - prosegue il Bonamico - si rivela anche negli scritti del Baggio, del Bollati e del Bemotti; se ne devono perciò trarre favorevoli auspici per il progresso del pensiero navale italiano. Giudizio quindi più che favorevole, del quale non c'è da stupirsi dati i continui richiami del S. all'alto insegnamento del Bonamico, il quale peraltro alle lodi non manca di aggiungere qualche accento critico. A suo avviso il libro è frutto dell'insegnamento dell'autore all'Accademia di Livorno, ma proprio le esigenze didattiche in questo caso "menomano l 'unità scientifìca del trattato" , che dunque è imperfetto. In secondo luogo, anche se l'Autore dimostra di aver ben compreso la guerra marittima moderna, il Bonamico dissente da taluni suoi giudizi secondari riguardanti ad esempio " le fortificazioni di Genova, le caratteristiche differenziali dei centri difensivi e strategici, la sicurezza de/forzamento notturno di un passo in qualsiasi situazione idrografica". Com'è prevedibile, la recensione del la Rivista Militare (non firmata, quindi redazionale)96 al predetto Vol. I prende favorevolmente atto della tesi del S.
95 96
ln "Rivista Marittima" Fase. I - gennaio 1904, pp. 222-224. Jn "Rivista Militare Italiana" Anno Xl.IX l)isp. IV - 16 aprile 1904. pp. 757-761.
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che, nonostante l'importanza del potere marittimo, toccherà all'esercito decidere le guerre future, e che le forze di terra e di mare sono ugualmente necessarie alla difesa, nazionale, quindi non è conveniente propugnare lo sviluppo delle une a danno delle altre. Al tempo stesso la Rivista Militare riconosce che a causa della vulnerabilità del nostro litorale l'offesa marittima ha per l'Italia importanza pari all'offesa terrestre, anzi in taluni casi può essere decisiva. La Rivista approva, infine, la scarsa importanza attribuita dal S. alle fortificazioni costiere (che devono appoggiare l'azione difensiva della forze navali, non certo sostituirsi ad esse), la sua insistenza sulla correlazione terrestre-marittima e la sua tesi che ''per la difesa marittima occorrono soprattutto navi, navi, navi". Il Volume Il dell'opera è recensito sulla Rivista Marittima dal comandante Giuseppe Astuto, anch'egli scrittore navale di una certa fama. 97 L'Astuto loda senza alcuna critica l'intero volume e apprezza particolarmente le idee del S. sul personale, con particolare riguardo alla stabilità negli incarichi, al modo di amministrare la disciplina, alla necessità di un'accurata preparazione e di una rapida mobilitazione della flotta (mancate, ad esempio, nel 1866). Riguardo alla strategia, l'Astuto accenna solo al fatto che il S. ha trattato dell' armata navale "come fò-rza organica per fare guerra strategicamente nffensiva n di squadra ed acquistare il dominio del mare", trascurando o male interpretando ciò che l'Autore afferma a proposito della difficoltà di conquistare il dominio del mare assoluto, della battaglia, della difensiva strategica (e delle corazzate da crociera) per le flotte più deboli. Anche la recensione del Voi. TT - sempre anonima - della Rivista Militare abbonda di lodi, senza alcuna critica. 98 Sintetizza molto bene i contenuti del volume, e apprezza particolarmente la parte dedicata all'istruzione degli ufficiali, e alla necessità di ''fare qualcosa" per indurli, dopo un certo numero di anni di servizio, a ''pensare alla guerra e a porre le idee sulla carta". Da notare anche la conclusione, nella quale si segnala l'opera come necessaria anche per gli ufficiali dell'esercito e per ogni persona colta che desideri avere cognizioni precise intorno alla guerra marittima. In tempi molto recenti (giugno 2003) il contrammiraglio Pier Paolo Ramoino ha dedicato al S. un articolo, nel quale esalta la sua opera da Ministro (come "tagliatore di rami secchi'') e accenna anche alla sua carriera e ai suoi scritti. Degli Elementi di arte militare marittima il Rarnoino dice che "gli valgono la ben meritata 'Medaglia d ' argento di 1" classe per le scienze navali"' e che in questi Volumi, tra i più significativi della produzione strategico-marittima nazionale, il Sechi si rivela non solo un brillante scrittore, ma anche un sapiente maestro di vasta cultura, che ha meditato sulle opere appena pubblicate da Alfred T Mahan e sui commenti che tali opere hanno generato in Eu-
97 In "Rivista Marittima" luglio 1906, pp. 175- 177. "" In "Rivista Marittima" settembre 1906, pp. 1805-1808.
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rapa e soprattutto in Italia per merito del comandante Bonamico, suo predecessore nell 'insegnamento in Accademia.L'opera ha ancora oggi un suo valore intrinseco per la chiarezza con cui l'autore imposta il problema ·delle "talassocrazie", vale a dire degli Stati che fanno del Potere marittimo un loro punto diforza. 99
La decorazione ricevuta per gli Elementi di arte militare marittima è certamente ben meritata ed è incontestabile che - come già detto - quella del S. è tra le opere più significative del XX secolo in fatto di arte militare non solo marittima, con parti ancora di interesse attuale. Particolarmente apprezzabile - e assai rara - la sua capacità di riunire in un tutto armonico nozioni di arte militare e strategia teorica con l'indicazione della prassi strategica più conveniente per la marina italiana: in tal modo il quadro è completo, come raramente si trova. Ma bisogna pur dire che l'autore, più che al Mahan, a conforto delle sue tesi fa riferimento a scrittori navali inglesi e a scrittori italiani spesso anche terrestri, a cominciare dal Marselli che indica come un vero maestro. E più che diffondersi sul problema delle "talassocrazie", egli esamina la diversa situazione e le diverse esigenze (anche in fatto di costruzioni navali) delle grandi potenze geostrategicamente marittime che sono in grado di condurre la guerra di squadra e offensiva e di quelle, invece, che possono solo ostacolare, il dominio del mare altrui, con la difensiva strategica alla quale sono costrette aricorrere. Anzi: con il riconoscimento che la vittoria si decide generalmente in campo terrestre, e che è difficile ottenere il dominio del mare assoluto con una battaglia decisiva, con l'ammissione che lo Stato Maggiore della marina dovrebbe operativamente dipendere da quello dell'esercito, con l'importanza data alla difensiva strategica e quindi alla velocità, il S. percorre una rotta diametralmente opposta a quella del Mahan, la cui opera è notoriamente incentrata sul carattere decisivo del dominio del mare, sull'offensiva e sulla ricerca de lla battaglia decisiva a forze riunite, cioè su una strategia valida solo per gli Stati Uniti e per le grandi potenze marittime. In sintesi, si può dunque dire che il S. raccoglie l'eredità antimahaniana di Bonamico e la adatta al tempo presente. Lo fa in nome delle specifiche esigenze nazionali, ben diverse da quelle del Mahan; sotto questo aspetto, è assai più vicino a Callwell e soprattutto al Corbett, al quale lo unisce il "relativismo" e l'antidogmatismo di marca clauscwitziana. 100 Nella sua ottica nazionale, risulta pienamente centrata - e confermata dall'esperienza del l' intero XX secolo l'importanza da lui data al naviglio leggero, e la non convenienza per una marina di second'ordine (come è sempre stata quella italiana) di seguire le gran-
99 Pier Paolo Ramo ino, Tagliare i rami secchi - un tenlalivo di migliorare l 'assetto operativo della R. Marina nel 1920 ad opera del Ministro Giovanni Sechi, in "Rivista Marittima" gennaio 2002, pp'. 91-106. 100 S i veda, in merito, Scritti sul potere mari/limo {Cit.), PARTE SESTA.
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IL PENSIERO MlLITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Ili (1870-1915)- TOMO Il
di marine - che dispongono di ben altre risorse - nella corsa alle grandi navi corazzate e nella relativa strategia_ Con una siffatta impostazione, si spiega lo scarso peso dato dal S_ alla Dreadnought nel VoL II (della quale non coglie la rottura rispetto alle costruzioni precedenti) e in genere la sua diffidenza per i grandi dislocamenti e per i grossi cannoni, ai quali contrappone la preferenza per navi maggiori che privilegino la velocità e l'autonomia. Sempre tenendo presenti le specifiche esigenze nazionali, ha il merito di teorizzare e approfondire più di tutti la difensiva strategica, senza per questo ignorare l'importanza del potere marittimo e del dominio del mare, oltre che la necessità che l'Italia disponga di una forte marina. Sulla correlazione terrestre-marittima - che era già stato un cavallo da battaglia del Bonamico oltre vent'anni prima - arriva assai più in là del suo maestro, non solo ritenendo necessaria la già sottolineata dipendenza dello Stato Maggiore marina da quello dell'esercito, ma anche sostenendo - con una visione pienamente attuale - che l'efficienza militare di un Paese è data non dalla somma, ma dal prodotto delle sue componenti di ForzaArmata, quindi la solita lotta tra Forze Armate (accompagnata da una letteratura piuttosto distorta e partigiana in ambedue i campi) per accaparrarsi una fetta maggiore di bilancio a discapito di altre, è nociva e controproducente: ogni Forza Armata deve raggiungere, anche nell' interesse delle altre, il grado di sviluppo che corrisponde alle effettive e concrete esigenze della difesa nazionale, studiate con obiettività (invece il Bonamico intorno al 1900 si fa paladino della necessità di ridurre l'esercito a favore della marina). 101 Sull'altro piatto della bilancia, si deve constatare che come la massima parte degli scrittori militari e navali del tempo il S. crede nella guerra breve: la futura lunga guerra di masse, industriale e di logoramento con le sue implicazioni strategiche o anche marittime è perciò completamente fuori dalla sua prospettiva. Di qui la sottovalutazione dell'importanza della guerra al commercio e delle riserve energetiche particolarmente per l'Italia, limite che è anche del Bonamico. Riguardo alle costruzioni navali, inutile rilevare che con l'impostazione nel giugno 1909 (Ministro Mirabello) della prima Dreadnoughl italiana (la Dante Alighieri, con XII da 305, XX da 120, XVI da 76, velocità 23 nodi dislocamento 21.800 t) la marina italiana dal 1909 in poi non tiene alcun conto del le sue idee. Né si dimostrano preveggenti le sue tesi sull'efficacia contro le corazzate delle torpediniere (delle quali sopravvaluta i vantaggi del ridottissimo dislocamento), del sommergibile e della radiotelegrafia. Nonostante questi limiti, il messaggio degli Elementi di arte militare marittima rimane in buona parte valido, e avrebbe meritato miglior sorte e maggiore attenzione da parte dei vertici della marina del XX secolo.
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ivi. PARTE SECONDA.
Il - TRA BONAMICO E BERNOlTI L'IMPORTANZA DELLA "CORRELAZJONE TER11ESTRE-MARl111MA"
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SEZIONE IV - Gli scritti dal 1907 fino alla grande guerra: lo scarso entusiasmo per la corsa ai grandi dislocamenti e l'errata previsione sulla guerra al traffico mercantile
Dopo l'esame degli Elementi di arte militare marittima sorge spontaneo un interrogativo: da questo libro fino alla grande guerra il S. modifica oppure mantiene le sue idee? La risposta è semplice: benché gli indirizzi strategici e costruttivi delle principali marine, non esclusa quella italiana, si mantengano piuttosto lontani dalle sue tesi, egli non cambia sostanzialmente idea né a proposito delle torpediniere né a proposito dei grandi dislocamenti e dei grossi calibri. In una lettera del 1906 102 ritiene che le 42 nuove torpediniere da 200 t in programma possano essere impiegate anche per l'esplorazione e la trasmissione di ordini e notizie in sostituzione degli esploratori, che costano molto data la loro grande velocità, ma hanno efficienza tattica così limitata da non renderli idonei all'impiego insieme con il naviglio corazzato.A suo avviso, però, le maggiori dimensioni e la notevole altezza dell'opera morta rendono queste nuove costruzioni da 200 t meno idonee delle torpediniere più piccole al loro compito principale, che è l' attacco alle corazzate. Inoltre costano di più, quindi a parità di spesa è possibile costruirne di meno; inconveniente assai grave, perché il numero è un importantissimo fattore di successo negli attacchi torpedinieri. Le nuove unità dovrebbero essere in grado di mantenere per 6 ore una velocità di 24 nodi, che peraltro può essere raggiunta anche con unità di minor dislocamento, più o meno come quello delle vecchie Schic:hau, delle quali il S. si dimostra grande estimatore. E come le Schichau le nuove torpediniere dovrebbero avere un solo motore alimentato a petrolio greggio, con armamento però superiore (2 pezzi da 47, due lanciasiluri a rotazione di tipo leggero e un proiettore). A proposito di dislocamento, in una recensione del 1908 al Fighting Schips di Fred T. Jane (il più famoso almanacco navale del tempo) 103 il S. prende atto senza alcun compiacimento che ormai in tutte le marine si sta adottando l'armamento unico del calibro di 305 mm. Fanno per il momento eccezione le marine austriache e francese, che però anch'esse prevedibilmente seguiranno l'orientamento delle altre nelle nuove costruzioni. Secondo il Jane non sarebbe opportuna in futuro l'adozione di un calibro superiore ai 305 mm, perché anche le altre marine lo adotterebbero anch'esse sulle nuove navi, e la situazione ben presto tornerebbe quella di prima. TI S. obietta che, spingendo questo ragionamento al limite, nelle nuove costruzioni bisognerebbe rinunciare "all'affannosa ricerca" di qualche requisito che superi quelli delle navi della stessa classe in servizio. Sotto questo profilo, la marina inglese avrebbe dovuto mantenersi fedele al IV 305 mm e Xli 152, che ha costituito finora il nerbo della sua squadra corazzata; e avrebbe do-
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Scchi, Naviglio torpediniem, in "Rivista Marittima" novembre 1906, pp. 283-286. In "Rivista Marittima" ottobre 1908, pp. 198-204.
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vuto guardarsi bene da/l'aggiungere a questo classico armamento IV 238 mm sugli 8 K.ing Edward, e tanto meno costruire i Lord Nelson e i Dreadnoughts. Purtroppo la superiorità del tipo non può mantenersi indefinitamente ma è già un notevole vantaggio ottenerla anche per breve tempo.
Il S. non è nemmeno d'accordo con il Cuniberti, che in un articolo sullo stesso Fighting Ships 1908 dal titolo The future 20. 000 tons schips (" Le future navi da battaglia da 20.000 l") rileva l'esigenza prioritaria di meglio difendere le corazzate dall'offesa delle armi subacquee. E senza dire come si otterrebbe questo risultato, si limita ad affermare che delle 20.000 t di dislocamento disponibili, ben 10.000 dovrebbero essere destinate appunto alla protezione della nave dalle armi subacquee. A parere del S ., allo stato delle costruzioni navali del momento nelle strutture di protezione dalle armi subacquee non è possibile ottenere gli stessi risultati che si ottengono nella difesa contro il cannone. Con una corazzatura ben distribuita si può dire e si deve ottenere che una corazzata possa continuare a tenere il mare con sufficiente efficienza, anche dopo aver subìto il fuoco nemìco per qualche tempo; ma una nave silurata subisce sempre danni tali, da non poter più prestare un utile servizio, e da essere costretta a raggiungere al più presto la più vicina base d'operazione per ripararli. Pertanto l'unico possibile obiettivo della protezione subacquea è che la nave possa ancora navigare con sufficiente sicurezza per raggiungere una base d' operazione, possibilmente con propri mezzi. Da questi pur brevi scritti traspare un'accettazione ahtorto collo, da parte del S., della corsa in atto ai grandi dislocamenti e ai grossi calibri, della quale più che i vantaggi, intravede gli svantaggi. Prende atto che l' unica giustificazione delle nuove costruz ioni tipo Dreadnought, è il fatto che tutte le marine si stanno avviando per questa strada: ma le nuove costruzioni non sono più da lui giustificate dal punto di vista tattico e strategico in un ' ottica nazionale, come dovrebbe essere sempre fatto e come egli stesso aveva consigliato negli Elementi di arte militare marittima. Ad ogni modo, la corazzata da crociera scompare per sempre dall'orizzonte, anche se il S. si dichiara contrario a fondere gli incrociatori corazzati con le navi di linea: "a noi sembra arrischiato ritenerli superflui, perché per esplorare, non basta vedere, ma bisogna anche restare dove si può osservare ciò che interessa, e, a tal uopo, occorre essere in grado di respingere chi ne vuol mandare via". La visione strategica, per così dire, aggiornata dal S. risulta da una lunga ed esauriente recensione che nel 1912 egli fa dei Some principles ofmarittime strategy di Julian Corbett (1911), tradotti in italiano solo a fine secolo XX."14 In tale occasione il S.:
104 Cfr. Julian Corbctt, Alcuni principi, stratejfia marittima (/9/ /) , Roma, Ufficio Storico Marina Militare 1995. L' ampia recensione <lei Sechi, prima in Italia, si intitola la strategia marittima in una recente pubblicazione inglese (m "Kivista Marittima" febbraio I 912, pp. 203-226).
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BliRNOm L'IMPORTANZA DELLA "CORRF.I.A7,/0NE TERRESl'/IE-MARIITlMA"
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- ritiene, giustamente, che il titolo del libro dovrebbe essere Principi di strategia marittima inglese, perché il Corbett [ come del resto lo stesso Mahan o il Callwell - N.d.a.] considera i problemi della guerra marittima esclusivamente alla luce delle esigenze dell'Impero britannico (sottinteso: che non sono quelle delle nazioni continentali, e/o dell'Italia); - coerentemente con le idee precedentemente espresse non è d'accordo con il Corbett, il quale - pur ammettendo che le guerre si decidono in campo terrestre - ritiene per specifiche esigenze inglesi, che la guerra al commercio debba sempre avere la precedenza rispetto alla lotta per il dominio del mare. Quest'ultima per il S. rimane il compito essenziale, almeno quando si abbiano ragionevoli speranze di vincere la battaglia; - infatti "sarebbe grave errore" generalizzare le specifiche esigenze strategiche inglesi: "tanto è vero che in diverse guerre marittime, pur di notevole importanza, la guerra commerciale ebbe parte del tutto secondaria; anzi in quella italo-austriaca del 1866 non ebbe parte alcuna, perché i belligeranti rinunziarono di comune accordo al diritto di preda"; - rileva che il Corbett si è principalmente riferito alle guerre del periodo velico alle quali ha partecipato l' Inghilterra, trascurando completamente quelle dell' evo antico e medio che pur non essendo state combattute dagli inglesi, sono feconde di utili insegnamenti; - naturalmente condivide l'impostazione strategica interforze e clauscwitziane dell'opera del Corbett, che lo porta a combattere ogni dogmatismo e a sostenere un concetto "relativistico" dell'arte del la guerra e del dominio del mare analogo al suo. Rimprovera tuttavia al Corbett di non essersi soffermato abbastanza sulla difensiva strategica; - a torto non approva la distinzione del Corbett tra guerre illimitate (cioè quelle che hanno un obiettivo politico vitale per l'esistenza degli Stati in lizza) e guerre limitate, nelle quali non è opportuno, né necessario, impegnare tutte le energie; - a tale proposito dimostra di non conoscere bene Clausewitz, al quale invece il Corbett si ispira. Afferma infatti (a torto) che la predetta distinzione si poteva forse ammettere all'epoca del generale prussiano "il quale, d'altronde, nel determinarla ebbe il torto di dimenticare le campagne e ricordarsi troppo delle piccole guerre del periodo precedente" [invece le campagne napoleoniche sono state il clou delle teorie di Clausewitz, che, al contrario, ha sempre disprezzato le piccole guerre condotte "a colpi di fioretto", cioè non a fondo - N.d.a.]; - prevede (a torto, ma come tutti) che le guerre del futuro saranno brevi, totali e avranno come posta non conquiste territoriali, ma l'egemonia europea. Non è quindi il caso di parlare di guerre limitate; - non condivide la difesa del diritto di catturare in mare anche le proprietà private del nemico fatta dal Corbett, che lo definisce un mezzo di guerra utile e umanitario, perché consente di arrecare danni molto gravi al nemico senza perdite di vite umane. Al contrario, considera tale diritto di
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cattura un mezzo incivile di condurre la guerra, che oltre tutto aliena le simpatie degli Stati neutrali; - rileva che il Corbett dà grande importanza al naviglio da crociera (incrociatori), ma gli assegna (a torto) il compito principale di difendere le comunicazioni marittime e vuole perciò limitare il numero di incrociatori facenti parte delle squadre da battaglia. Inoltre sempre secondo il S. il Corbett considera come nave adatta alla guerra di crociera solo I' incrociatore corazzato, mentre invece possono partecipare validamente a tale guerra, in numero maggiore, anche "navi più piccole, prive di corazza verticale e di grosse artiglierie ed assolutamente inadatte a combattere in linea di battaglia" [il S. allude a torpediniere potenziate? accenna comunque a incrociatori leggeri in costruzione in Inghilterra (classe Towa, circa 5000 t e pezzi da 152), che potrebbero essere proficuamente impiegati in servizi di crociera - N.d.a.]; - condivide appieno le idee del Corbett sulla concentrazione delle forze, che non è necessario sia permanente precostruita ma deve e può essere realizzata all'occorrenza con idonea organizzazione di comando. Comunque essa non può essere un dogma, ma è affidata alla decisione <lei comandante in mare, al quale compete valutare i rischi e vantaggi della ripartizione delle forze, che in taluni casi può essere anche conveniente. In conclusione, le critiche del S. riguardano in massima parte questioni di dettaglio. Condivide però le idee del Corbett sugli argomenti più importanti: unica eccezione la guerra al commercio, che continua ad essere da lui sottovalutata per ragioni "italiane" valide solo in parte, esattamente come il Corbett tende a sopravvalutarla per ragioni al momento solo "inglesi'', che peraltro diventeranno comuni con le potenze dell'Intesa - e in special modo proprio con l'Italia - nell'ormai vicina guerra.
SEZIONE V - L'operato di Ministro nell'immediato primo dopoguerra e i successivi scritti e interventi in Senato fino alla seconda guerra mondiale La grande guerra provoca sensibili mutamenti (sarebbe esagerato e improprio chiamarli "rivoluzioni") sia nel campo terrestre che in quello navale. In prima approssimazione essa sembra dare almeno in parte ragione alle previsioni del S. nell'anteguerra, con particolare riguardo al l'accresciuto ruolo del naviglio leggero e dell'aviazione e alla diminutio caputis delle corazzate, troppo spesso rimaste nei porti ufficialmente in applicazione del principio dellafleet in being, ma - in realtà - soprattutto per timore di un' arma, che nell'anteguerra non aveva rivelato tutte le sue possibilità ed era stata, come si è visto, sottovalutata dallo stesso S.: il sommergibile, al quale vanno aggiunte l' insidia delle mine e l' importanza del traffico mercantile, a sua volta dimostratosi vul-
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nerabile nei confronti dello stesso sommergibile, che, potendo nascondersi sotto la superficie del mare, ha superato l'efficacia delle torpediniere. Negli anni Venti l'esperienza della guerra viene però valutata in maniera assai diversa: i fautori ad oltranza del ruolo dei nuovi mezzi bellici, a cominciare dal sommergibile e dall'aereo si scontrano con i conservatori, i quali ritengono che la corazzata non perderà affatto il suo ruolo di capitai ship, sia pure con una corazzatura più efficace che la metta al riparo dalla minaccia aerea e subacquea e quindi con un ulteriore, forte aumento dei dislocamenti (orientamento che prevale in tutte le marine maggiori, compresa quella italiana). In questo quadro, diventa estremamente interessante conoscere come valuta l'esperienza della guerra anche alla luce delle sue precedenti teorie, in che modo ne applica gli ammaestramenti nel periodo da Ministro della Marina, e infine quale è la sua posizione di fronte alla corsa alle corazzate degli anni Trenta. Si tratta, insomma, di stabilire in che modo le sue teorie anteguerra reggono il confronto con la realtà. E poiché solo tale confronto può stabilire la loro validità, si rende utile, se non indispensabile, conoscere quanto il S. scrive e/o dichiara in Senato (è nominato senatore nel 1919) non solo nell'immediato primo dopoguerra, ma anche nel periodo tra le due guerre e durante la seconda guerra mondiale. Riteniamo perciò opportuno - solo in questo caso- fare un' eccezione, superando il limite temporale del 1915 previsto dall'opera, per esaminare il pensiero del Nostro anche dopo tale data, tanto più che quanto ne dice il Ramoino non appare affatto esaustivo e a parer nostro non focalizza a sufficienza i punti salienti del pensiero e dell'azione del Nostro.
li difficile e discusso periodo al Ministero della Marina ( 1919-1921): rinuncia a nuove corazzate e "tagli" al naviglio antiquato e a/l'organizzazione a terra TI S. regge il Ministero della marina dal 23 giugno 1919 al 4 luglio 1921. Un periodo estremamente difficile per l'Italia e le Forze Armate, nel quale dal punto di vista militare le esigenze sono inevitabilmente due: l) liquidare I'eredità della guerra, a cominciare dalle pendenze finanziarie, a ricondurre senza troppi traumi l'organismo - ancora sovradimensionato - al lo stato di pace; 2) fare i conti con le ristrettezze del bilancio. L'aspetto più importante della sua gestione è la rinuncia definitiva al completamento delle quattro Dreadnought la cui costruzione era stata decisa nel 1913, senza essere completata durante la guerra (anche i lavori alla Caracciolo, che nel giugno 1920 era ancora in allestimento perché si era in un primo momento deciso di completarla, sono sospesi). Non viene rimessa in efficienza nemmeno la Leonardo Da Vinci, altra Dreadnought della classe Giulio Cesare entrata in servizio nel 1915, affondata nel 1916 in porto per probabile sabotaggio e rimessa a galla dal Genio navale. Inoltre il S. mette in vendita il naviglio da lui giudicato non più in grado di prestare utile servizio, limitandosi a mantenere in servizio solo le corazzate più moderne.
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Per queste decisioni viene aspramente e ripetutamente attaccato in Parlamento dai "navalisti"' sostenitori delle grandi navi ad oltranza, ad esempio dal senatore Adotta (tornata del Senato luglio 1920) e dall'ammiraglio Corsi (tornata del Senato del 13 luglio 1920). Il S. giustifica il suo operato, in risposta all'onorevole Arlotta, nella tornata del Senato del 7 luglio 1920. A proposito della vendita di navi non più utili, egli ricorda che la manutenzione di tali unità, anche se non in servizio attivo, richiede spese considerevoli (ad esempio, una vecchia corazzata per la sola produzione di energia elettrica in proprio, da impiegare per gli usi di bordo, costa un milione all'anno solo di carbone). E se la costruzione delle quattro Caracciolo è andata a rilento per tutta la guerra, ciò dipende soprattutto dall'impegno prioritario dell'industria per le esigenze dell'esercito "che si è largamente valso di stabilimenti industriali sorti e sostenuti in passato soltanto dalla Regia marina", grazie ai quali l'industria metallurgica italiana ha potuto far fronte in larga parte alle esigenze della guerra terrestre. Riguardo alla Caracciolo, ho considerato che [la nave], per quanto genialmente disegnata in relazione ali 'epoca del progetto, non corrispondeva più a tutte le esigenze e ai requisiti che gli insegnamenti della guerra fanno ritenere necessari per una nave di grande portata. Ho pure considerato che l'allestimento di essa non poteva essere molto sollecito, perché le industrie metallurgiche navali erano e sono fortemente impegnate nella costruzione di navi mercantili, tanto necessarie al Paese [- .. ]. Ho considerato infine la considerevole spesa ali 'uopo necessaria, non inferiore certo a I 00 milioni [a fronte di un bilancio della Marina di 404 milioni previsto per il 1920-1921 - N.<ia.]. Avremmo dunque avuto - chi sa quando e con spesa certo ingente- una nave indubbiamente buona.forse buonissima, ma non completamente rispondente alle attuali esigenze. Di più essa sarebbe stata l'unica del tipo, poiché evidentemente, se e quando si decidesse di costruire nuove grandi navi, sarebbe grossolano errore riprodurre il tipo Caracciolo, che non rappresenta quanto di meglio sia oggi ottenibile.
Questo - aggiunge il S. -vale anche per la mancata rimessa efficienza della Leonardo Da Vinci, tanto più che "vari ammiragli cuifa posto il questito [se rimetterla o meno in servizio] espressero tutti parere favorevole alla rinuncia", ad eccezione di uno favorevole all' allestimento, ma solo a condizione che fosse completato in soli diciotto mesi, cosa impossibile. Nella tornata del Senato del 29 marzo 1935 rispondendo a un Senatore che ritiene sarebbe stato meglio recuperarla, il S. fornisce una versione in parte modificata del mancato approntamento di tale nave. Dopo aver ricordato che quando venne decisa la rinuncia a completamento delle quattro nostre navi di linea un'altra grande potenza navale mediterranea [la Francia - N_d.a.] aveva rinunciato a ben 9 corazzate, il S. riferisce di aver nominato una Commissione con il compito di decidere sull 'opportunità o meno di ripristinare la Leonardo, Commissione che quando ha lasciato la carica di Ministro non aveva ancora dato il suo parere. Detto questo, "io mi sono molto compiac iuto, per il bene della marina, della
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decisione contraria al ripristino, ma tale decisione non la presi io, tutti sanno da quale altissima Personalità fa presa [Thaon di Revel, suo successore nel 1922? - N.d.a.], e non ho altro da dire". Nelle predette tornate del luglio 1920, a proposito della convenienza di costruire o meno grandi navi in futuro, il S. non si sbilancia: tutto dipende da ciò che faranno i nostri possibili avversari: se questi paesi non costruirono grandi navi, potrebbe essere utile costruirne, ma si può anche rinunziarvi senza compromettere eccessivamente /'efficienza bellica; se invece essi ne costruiscono, è a mio avviso necessario fare altrettanto, a meno che manchino i denari per costruime, tanto poderose almeno quanto quelle dei possibili avversari. per mantenerle in buona efficienza, e per averne un numero che potrà essere iriferiore a quello degli altri, ma non eccessivamente inferiore: altrimenti il grosso da battaglia non darebbe conveniente rendimento bellico, ed è meglio non averne. [Condizioni praticamente impossibili da soddisfare - N.d.a.].
Comunque, per la difensiva strategica "costituisce un mezzo di grande ejjìcienza" anche il solo naviglio leggero, "purché i vari tipi di questo siano giustamente proporzionati, e l'apparecchio mobile sia ben coordinato a mezzi di difesa costiera localizzata -cioè armi subacquee e batterie". D'altro canto il S. non condivide nemmeno l'opinione di coloro che ritengono ormai inutili le grandi navi, solo perché nella guerra passata non è avvenuta la battaglia decisiva. Tant'è vero che le principali marine (americana, giapponese e britannica) "continuano a costruire o si preparano a costruire grandi navt', superando nei nuovi programmi i dislocamenti e i calibri "già enormi'' raggiunti. Esse però insieme con le navi maggiori costruiscono anche gran copia di naviglio leggero, indispensabile per una flotta armonica. Per quanto riguarda l'Italia, il S. ritiene che il solo naviglio leggero, sufficiente per la difesa delle coste "non possa essere l'unico obiettivo militare della m arina di un grande paese che si stende nel mezzo del Mediterraneo". Pertanto, anche se al momento non ci conviene costruire grandi navi, bisogna preparare i piani per poterle costruire - se necessario - in futuro, in base a ciò che faranno i probabili avversari e alle disponibilità.finanziarie. Un'eventuale rinuncia potrà essere solo temporanea, per non compromettere l'efficienza del naviglio leggero, al quale il S. "ritiene indispensabile rivolgere.fin da ora cura e attenzione", proseguendo la costruzione di quello impostato durante la guerra, che fino a quel momento era andata avanti lentamente per le preminenti esigenze dell'esercito e della marina mercantile; ciononostante, si può prevedere che nel prossimo biennio entreranno in servizio parecchi cacciatorpediniere e alcuni incrociatori di tipo eccellente nonché altro naviglio minore pure utile.fra cui alcune unità affonda torpedini che ci sono pure necessarie. Studi speciali si rivolgono pure a/l'incremento dei Mas nei loro tipi migliori. Devo poi dichiarare al Senato, che in fatto di naviglio minore avremo un raffor.t.umento non importantissimo ma notevole, col
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passaggio nella nostra flotta di 5 esploratori e 1Ocacciatorpediniere da scegliersi tra il naviglio nemico.
Da queste dichiarazioni del 1920 si deduce che, con la decisa rinuncia a proseguire la costruzione di 5 grandi navi, con l'atteggiamento molto problematico e relativistico sulla convenienza di costruirne in futuro, e con l'altrettanta decisa priorità data alla costruzione e al potenziamento del naviglio leggero, anche da Ministro e dopo la guerra il S. conferma, nella sostanza, gli orientamenti del 1897. Inoltre il suo vecchio interesse per il personale - che per sua ammissione al momento ha il morale assai basso - è confermato dall 'attenzione che vi dedica sempre nella tornata del 7 luglio 1920, nella quale ne esamina uno per uno i vari, ardui problemi sorti nell'immediato dopoguerra e indica assennati provvedimenti per avviarli a soluzione. Infine, esprime il suo apprezzamento per le nuove possibilità dell'aviazione navale, che si impegna a potenziare perché si tratta "di una componente indispensabile della marina". Sarà pertanto necessario "dare a tale importantissimo servizio nei riguardi finanziari la precedenza su altri meno essenziali". A tal fine, in ogni importante base navale è costituito un Comando Aeronautica e la Scuola Aeronautica di Taranto, istituita durante la guerra, ha assunto un carattere permanente che dovrà mantenere, per la formazione dei piloti, degli osservatori e degli specialisti. Nella stessa occasione il S. annuncia il suo intento di ridurre il più possibile gli impianti a terra ivi compresi gli arsenali, anche se si dichiara contrario "alla soppressione in massa degli arsenali di Stato" caldeggiato da taluni. Li giudica anche necessari per una serie di ragioni: fungono da calmiere per i prezzi delle forniture, sono utile termine di riferimento per la determinazione dei giusti prezzi per l'industria privata, rendono possibile l'autonomia nell' assegnazione delle commesse e infine possono svolgere dei lavori (produzione di munizionamento; riparazioni di minore entità) che non è conveniente affidare all'industria privata. TI problema è però quanti arsenali vanno conservati, visto che già prima della guerra "era opinione di molti competenti" che il loro numero fosse eccessivo; tanto più che vi si è aggiunto, dopo la guerra vittoriosa, l'arsenale di Pola a brevissima distanza da quello di Venezia ... li S., comunque, non precisa quali e quanti arsenali vuole abolire; annuncia solo "la trasformazione" dell'arsenale di Venezia. L'orientamento ad attuare queste riduzioni fa esclamare al Senatore Della Noce "E così si distrugge la marina militaref'. Tra i più accesi fautori del ruolo delle grandi navi, che dissentono dagli intendimenti del S., va ricordata una personalità di grande prestigio come l' ammiraglio Cagni, che nella tornata del Senato de11'8 luglio 1920 si dichiara convinto che l' insidia sottomarina non va sopravvalutata e che "il cannone fa, è, sarà sempre il dominatore". A suo dire, anche rimanendo in porto, nella guerra passata le nostre corazzate hanno avuto un ruolo essenziale: senza la loro presenza a Taranto "il nemico ci avrebbe forse tagliata l'Italia in due"; perciò "è indispensabile che si continui ad avere le grandi navi; è indùpen:subile provvedere subito a d esegnarle, a discuter-
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le e ad approvarle senza attenderle oltre". E le ingenti risorse necessarie? Il Cagni, bontà sua, non ritiene necessario aumenti di bilancio; molto ottimisticamente per lui è sufficiente "che esso non sia assorbito da arsenali inutili e da servizi non indispensabili". Tesi, queste, del tutto discutibili, che accreditano un inesistente e importante ruolo di jleet in being alle corazzate ferme in porto a Taranto per non esporsi alla minaccia dei sommergibili e delle mine in Adriatico (gli austriaci non hanno mai pensato a sbarchi) e ritengono possibile costruire grandi navi senza quegli aumenti di bilancio che almeno negli anni Venti anche con il nuovo regime, non sarebbero stati ritenuti possibili. Da ricordare anche l'intervento alla Camera (tornata del 9 dicembre 1924) dell'on. Zimolo il quale afferma che da Ministro il S. ha fatto il possibile per distruggere il prestigio della marina; il suo è stato "un disgraziato periodo, nel quale alla nostra marina sono state inflitte le umiliazioni più dolorose" (e qui il deputato cita l'omicidio del comandante Gulli e del marinaio Rossi avvenuto a Spalato il 17 luglio 1920, ignorato dal Governo che non ha neppure ritenuto opportuno esprimere alla marina il compianto della nazione). A parte i discorsi in Parlamento, non è casuale che nel 1920, durante la gestione del S., il t.:apitano di fregata Bernotti (che era stato alle dipendenze del S., al primo imbarco sulla corazzata Ruggero di Lauria e o può dirsi il suo miglior allievo e seguace, con parecchi articoli e opuscoli altamente apprezzati) pubblichi un libro, ll potere marittimo nella grande guerra, 105 che è frutto delle conferenze da lui tenute al Corso Superiore 1919-1920 per tenenti di vascello e rispecchia molte idee e orientamenti del S. anche nella sua opera di Ministro, citando esplicitamente - come riferimento- il capitolo VI del Vol. I degli Elementi di arte militare marittima, dedicato al problema della difesa marittima dell'Italia.
Gli articoli sui forti limiti della corazzata e a Jàvore del "sommergibile silurante", del naviglio leggero e del! 'aviazione marittima (1922-1924) Subito dopo aver lasciato la carica di Ministro, il S. riprende un'attività pubblicistica abbastanza intensa. Lo fa anzitutto con due lettere alla Rivista Marittima in difesa del suo operato. Nella prima (1921) ben illustra le finalità certamente apprezzabili dcli' Istituto di Guerra Marittima creato nello stesso anno dal suo allievo prediletto Bemotti, che finalmente corrisponde a una necessità da lui rilevata, come si è visto, già negli Elementi di arte militare marittima. 106
10 ' Cfr. Romeo Bemotti, Il potere marittimo nella grande guerra, Livorno, Giusti 1920, e inoltre il Nostro La guerra marittima e aerea secondo Romeo Bernotti, Roma, Ed. Forum di Relazioni Internazionali 2000, pp. 20-26. 106 Scchi, Per/ 'l,titutu di Guerra Mari/lima, in " Rivista Marittima" ottobre 1921, pp. 225-229.
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Nell'altra del 1922, invece, in polemica con un nome destinato a diventare illustre (l'allora comandante Jachino) espone il suo punto di vista sul delicato problema dell'avanzamento del personale, che avviene in base a principi da lui applicati quando era Ministro. 107 Gli articoli di maggior peso sono però da lui pubblicati, sempre sulla Rivista Marittima, nel periodo 1922-1924, e riguardano tre argomenti-chiave: i riflessi della guerra mondiale sullo studio dell'arte militare marittima, il ruolo bellico della corazzata e del naviglio leggero, il passato e futuro del sommergibile. Tra di essi, lo studio più importante esamina Le capacità belliche della squadra da battaglia, ed è anche il primo in ordine cronologico. 108 Si tratta della più autorevole svalutazione del ruolo della corazzata pubblicata dopo I' esperienza della prima guerra mondiale, che tra l' altro porta il S. su una rotta ben diversa da quella del nuovo Ministro Thaon di Rcvel, che pur non avendole in pratica impiegate nella grande guerra, crede ancora nel preminente ruolo operativo delle corazzate. Una svalutazione peraltro non del tutto nuova, perché l'articolo riprende in buona parte quanto già affermato dal S. nel Voi. TI degli Elementi di arte militare marittima, cioè quasi vent'anni prima. In particolare, non cn:<l~ alla possibilità di rendere lo scafo poco vulnerabile di fronte alle nuove minacce, e ritiene sempre valido il vecchio concetto che la lotta tra corazza e cannone non è paragonabile alla lotta tra siluro e struttura di carena. I colpi di cannone hanno efficacia variabile, e la corazza riesce sempre ad annullare o attenuare gli effetti di una rilevante aliquota di tali colpi. Per di più essa impone l' impiego di proietti perforanti, che limita i danni prodotti da granate non perforanti. Invece l' arma subacquea causa sempre estese lacerazioni del fasciame esterno e delle strutture ad esso più vicine, provocando sempre un allagamento, che può essere solo circoscritto ma non eliminato, e comunque costringe la nave a rientrare al più presto alla base, per riparazioni che richiedono sempre mezzi cospicui e tempo considerevole. Il S. profeticamente ne deduce che "lo scafò della nave da battaglia sarà sempre soggetto a danni rilevanti ogni qualvolta sia colpita da qualsiasi arma subacquea [ ... ]. lo credo che nonostante questo irrimediabile stato di cose. la nave da battaglia continuerà ad esistere; ma credo pure g iammai si riuscirà a difenderla dall 'off esa subacquea con risultati simili a quelli che la corazza ottiene nei riguardi del cannone". Perciò la difesa più efficace sarà sempre quel-
lo "Rivista Marillima" mar7.o 1922, pp. 839-843. Sechi, Le capacità belliche della squadra da battaglia, in ''Rivista Marittima" novembre 1922, pp. 351-370. Una sintesi dell' articolo (con un commento molto favorevole) viene pubblicala anche su "Echi e Commentt' n. 2 - 15 gennaio 1923, ove si sollolinea che "brevi e succose considerazioni mos trano la scarsissima importanza della squadra da battaglia, cosi per la caccia al Ira/fico marillimo nemico, come per la difesa di quello nazionale", mentre anche la prospettiva della battaglia navale è resa aleatoria dai nuovi mezzi. Secondo l'autorevole periodico, inoltre, "il dibattito sulla convenienza o meno di ripristinare la grande corazzata Leonardo da Vinci , che ebbe così vasta eco nel Parlamento e sulla stampa, è forse la causa determinante dello studio del nostro collaboratore contrammiraglio Secht'. 107 108
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la di evitare che siluri e torpedini colpiscano lo scafo, ricorrendo alle restrizioni e le misure protettive già adottate nella grande guerra "dopo le dure e~perienze di primo tempo". Tn particolare, l' efficienza dell'arma subacquea impone alla squadra da battaglia di mantenere sempre velocità molto elevata, con conseguente maggior consumo di combustibile e quindi necessità di frequenti rifornimenti, che però sempre a causa della minaccia subacquea non possono essere effettuati in mare. Quel che è peggio, tale minaccia obbliga la squadra da battaglia a farsi scortare da numeroso naviglio sottile, che il cattivo tempo può disperdere. o rimandare in porto, o costlingere a rotta e velocità diverse da quelle che converrebbero alla squadra: inoltre la sua minore autonomia diventa in realtà quella della squadra, e riduce vieppiù la capacità di azione di questa nel tempo e nello spazio. Tale capacità di azione è poi nulla, quando faccia difetto il naviglio sottile necessario per la scorta. che non deve essere racimolato qua e là, come avveniva di frequente in Mediterraneo durante la grande guerra, ma occorre sia organicamente assegnato a tale servizio.
A ciò si aggiunga che in avvenire l'impiego delle mine sarà molto più esteso di quanto è avvenuto nella guerra mondiale, e riguarderà tutte le zone con bassi fondali dove è possibile ancorarle, quindi non solo la difesa delle basi navali, ma l' intera difesa costiera. Contro questa insidia non sempre sarà sufficiente i I dragaggio dei cacciatorpediniere in testa alla formazione; pertanto l'estensione delle zone mfoate "sarà sempre tale, da costituire una rilevante restrizione alla capacità bellica della squadra". Un altro suo nuovo nemico è l'aviazione, che durante la grande guerra ebbe il grandioso sviluppo che tutti sanno, e il cui avvenire nel campo militare si presenta molto promettente per l'importanza dei risultati conseguibili con essa: tale indubbiamente sarà, purché si lavori seriamente e organicamente lasciando da parte poesie e fantasie [evidente riferimento al le teorie di Douhet N.d.a.] e si esiga dal personale di volo ordine e disciplina. Il bombardamento aereo di una squadra in porto "costituisce un rischio, ma soprattutto un tormento morale e organico" che porta a scegliere basi navali lontane dai campi di aviazione nemici, anche se poco rispondenti per le esigenze strategiche. In ogni caso, è indispensabile che le basi navali siano sempre ben protette dall'aviazione da caccia, che è il mezzo di difesa più efficace. In mare il bombardamento aereo è meno temibile, ma le squadriglie da caccia di scorta se non indispensabili sono sempre molto utili, almeno quando le basi aeree nemiche sono relativamente vicine. Inoltre "velivoli di tipo adatto" impiegati in cooperazione con naviglio di superficie portano "un poderoso contributo" alla difesa della squadra contro i sommergibili. E qui compare il discusso e discutibile principio - ufficialmente in auge fino alla seconda guerra mondiale - della portaerei indispensabile solo nelle grandi estensioni oceaniche, quindi non in Mediterraneo:
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Quando lo scacchiere strategico è di rilevante estensione, queste molteplici necessità, alle quali altre si aggiungono, come rapidi servizi d'esplorazione ed eventualmente l'osservazione del tiro, richiedono l'impiego di apposite navi portavelivoli [idrovolanti o a ruote? - N.d.a.], che si alzeranno al momento opportuno. In scacchieri relativamente ristretti anche su una sola dimensione [come il Mediterraneo - N.d.a.], può risultare preferibile di provvedere con squadriglie dei campi d'aviazione costieri, che si avvicenderanno in aria, ed eventualmente anche in mare, pel servizio della squadra quando naviga; ma comunque non v 'ha dubbio, che questa ha assoluto bisogno di servizi aviatori ejjìcienti e bene organizzati, ed ove questi.facciano difetto, la sua capacità bellica risulta assai menomata.
Concetto ancor più chiaramente ribadito in un articolo sul "Telegrafo" di Livorno del 1932 ( n. 208), nel quale il S. commentando le esercitazioni aeronavali organizzate in quell'anno, rileva la tempestività degli interventi aerei in concorso con le forze navali, e ne deduce che Sarebbe così confermato il criterio della non indi~pensabilità di grandi navi portaerei per le flotte destinate a operare in mari interni; della convenienza di assegnare piuttosto all'incremento delle forze aeree e delle loro basi costiere il molto denaro occorrente per la costruzione di sijjàtte navi.
Si potrebbe obiettare che egli aveva sempre sostenuto la necessità di un impiego unitario delle Forze Annate e in particolare della cooperazione tra aerei, naviglio leggero e sommergibili: si tratta, dunque, di una contraddizione? Solo in parte: perché è pur vero che nonne realistiche e miranti solo all'efficienza operativa per la cooperazione tra forze aeree e navali - nella guerra t 9401943 sempre mancate - anche senza portaerei avrebbero assicurato un rendimento molto maggiore ad ambedue le Forze Armate. Del resto, nel campo opposto dopo il 1941 è stata l'aviazione basata a terra la protagonista. Un altro aspetto sul quale il S. richiama l'attenzione è l'efficienza -superiore alle previsioni - dimostrata dalle batterie della difesa costiera, anche in barbetta (Dardanelli; treni armati italiani lungo la nostra costa adriatica, che hanno dato ottima prova). Ne deriva la possibilità per la difesa costiera di fare a meno di torri corazzate, installando con risparmio di spesa numerose batterie in barbetta. Unitamente ai sommergibili, ai MAS, al naviglio silurante, alle mine e all'aviazione da bombardamento - che ha un avvenire molto promettente - esse per il S. costituiscono un sistema di elevata efficienza per la difesa del litorale nazionale, che deve essere organizzata in modo che sia sempre possibile radunare questi ultimi "in tempo utile e in conveniente effìcienza presso qualsiasi zona minacciata di attacco". A tale fine, è sempre indispensabile che la quantità e qualità del naviglio da crociera leggero di superficie sia almeno uguale a quello dell'avversario, e anzi con un margine di superiorità proporzionato all'estensione del litorale da difendere [altra esigenza, questa, sempre sostenuta dal S. - N.d.a.].
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E la squadra da battaglia, che prima della guerra era ritenuta fondamentale anche per la difesa costiera? Su questo punto, se si pensa al bombardamento di Genova del febbraio 1941 le parole del S. acquistano valore profetico: essa non giunge in tempo per impedire attacchi della squadra nemica, quando questi non richiedono una lunga permanenza sulla costa; e neppure riesce sempre a imporle battaglia dopo l'attacco, mentre sta ritornando alla base, per punirla della sua audacia, e incuterle un salutare timore per l'avvenire[ ... ]. Certo si è che in molto scacchieri la difesa non ha nessuna sicurezza di giungere sempre e dappertutto in tempo, ed esempio tipico ne è il Tirreno.
Inoltre la squadra da battaglia può esercitare utile azione di difesa solo contro la squadra similare nemica, non contro la flotta nemica; infatti "la sua azione è nulla" contro le scorrerie di incrociatori e naviglio leggero, ai quali è più conveniente opporre difese fisse e naviglio similare. In conclusione, se la difesa costiera è ben organizzata con altri mezzi, diversamente dal passato "la squadra da battaglia non è indispensabile per la difesa, e il più delle volte deve astenersi dall 'attucco, che la esporrebbe a rischi eccessivi rispetto al/ 'importanza degli obiettivi conseguibilt'. ln ambedue i casi, dunque, al momento la s ua capacità bellica "risulta notevolmente svalutata dagli altri mezzi di azione bellica marittima, di cui la grande guerra ha rivelato I 'ejjìcienza e promosso lo sviluppo". Senza contare che, per l'offesa costiera. specie quando gli obiettivi "hanno caraUere di devastazione materiali in massa e di intimidazione morale" conviene impiegare in sostituzione del naviglio l'aviazione da bombardamento, sempre che la sua autonomia lo consenta. Un ultimo settore dove la squadra da battaglia non è necessaria è la guerra dei convogli, la quale richiede "uno sparpagliamento del/e jòrze assurdo per le unità che la costituiscono". In taluni casi, e per tragitti relativamente brevi, può essere conveniente impiegare tale squadra per la scorta diretta dei convogli : "ma deve evidenlemente escludersi, che la nostra squadra possa a tal uopo operare fin nei paraggi di Gibilterra, di Suez e dei Dardanelli, che sono luoghi pericolosi di strozzamento del traffico marittimo a noi più necessario in tempo di guerra". In quanto alla protezione indiretta dei convogli, la sua utilità è difficile da dimostrare. È vero che le marine preponderanti in fatto dinaviglio da battaglia finglese, francese e americana - N.d.a.] nella guerra mondiale hanno vinto anche la guerra al traffico; "ma questo avvenne non già per l'azione diretta o indirelta delle loro preponderanti squadre [da battaglia], bensi perché quelle marine erano preponderanti anche nel naviglio necessario per la guerra dei convogli; e disponevano di basi di operazioni e punti di appoggio più numerosi e meglio situati di quelli de/l'avversario". Rimane la battaglia, che è compito precipuo della squadra e deve avere come scopo la distruzione del nemico; però la squadra che vuole evitarla, diversamente da quanto avviene in campo terrestre può sempre riuscirvi. L'attacco alla flotta nemica chiusa nella sua base ben difficilmente ha successo, a meno
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che non vi sia un concorso di forze terrestri che non è facile ottenere; anche il blocco ravvicinato a una base navale non è più possibile. La battaglia potrebbe essere imposta dalla squadra superiore con l'invasione marittima, che però se la difesa costiera è ben organizzata presenta numerosi rischi. Inoltre la squadra di difesa, anche se inferiore, può assalire con successo il convoglio di sbarco e, anche se lo sbarco è riuscito, può sempre attaccare l'intenso traffico per l'alimentazione dello sbarco (su questo argomento, il S. riprende in buona parte le idee del Bonamico intorno al I 880, da lui fatte proprie da tempo). Ai numerosi e forti limiti prima elencati il S. contrappone solo vantaggi morali, addestrativi e politici: la squadra da battaglia conserva le tradizioni della marina, è ottima scuola per il personale, rappresenta la potenza marittima e quindi conferisce prestigio politico e militare alla nazione, e il suo apporto anche se di modesta efficienza - aumenta il peso della marina nelle alleanze fino a farle ottenere superiorità di comando e di azione direttiva nello scacchiere che più le interessa. In tal modo nella visione del S. la corazzata assume un ruolo più politico che operativo, analogo a quello dell'arma nucleare nella guerra fredda. Egli aggiunge che se la marina italiana dovesse nascere in quel momento, per qualche tempo non le converrebbe pensare alla squadra da battaglia; ma dal momento che questa già esiste, sarebbe grave errore metterla da parte. Conviene piuttosto "alleggerirla ancora di qualche unità troppo scadente", e fare in modo che le rimanenti non gravino troppo sul modesto bilancio: "soprattutto non bisogna credere di aver fatto tutto e molto, quando questo naviglio [cioè le corazzate - N .d.a.] sia in buone condizioni di efficienza e allenamento. Alla marina occorre ben altro!" . Quel che più importa è organizzare per tempo una difesa costiera di sicura efficienza, senza sperare di allestirla rapidamente al momento del bisogno. Questo si può fare rimanendo in limiti di spesa compatibili anche con le modeste disponibilità finanziarie del momento. Ed è il modo più opportuno e redditizio di provvedere non solo ad eventualità belliche probabilmente lontane, ma anche alle esigenze di una politica estera sempre vigile custode della dignità e degli interessi nazionali. Per valutare appieno il diverso e anticonformistico approccio del S. al problema delle navi da battaglia, basta confrontare le suddette idee con le dichiarazioni alla Camera (30 maggio 1925) del Grande Ammiraglio Thaon di Revel, ormai prossimo a lasciare la carica di Ministro della marina109 (ma, anche dopo, massima e riconosciuta autorità della marina stessa sì che si può dire che, nella marina 1919-1940, non si muove flotta che Thaon di Revel non voglia). In questa occasione il Grande Ammiraglio esprime il parere che la nave di linea rimane come sempre la spina dorsale delle flotte, tanto più che "il progresso tecnico ormai consente di proteggerla efficacemente anche dagli attacchi''. Dopo questo attestato di fiducia nelle nuove grandi navi egli (concordando con
109
Cfr. Discorso di S.E. il Ministro della Marina Paolo Thaon di R evel alla Camera dei deputati
il 30 maggio 1925, Roma, Tip. Camera de i Deputati 1'>25.
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il Maresciallo Badoglio) giudica solo un bluffi recenti affondamenti di corazzate e altre unità da parte del generale americano Mitchell con bombe lanciate da aerei (forse perché le navi erano ovviamente ferme, senza equipaggio e senza difese antiaeree). Inoltre a giudizio del Grande Ammiraglio, " il problema
tecnico della nave portaerei non ha ancora trovato una soluzione nettamente soddisfacente" anche perché in tutti i casi tale tipo di nave porterebbe un numero di aerei così ridotto, da poter sviluppare solo "un 'offe sa aerea minima" e sarebbe troppo vulnerabile (sono gli argomenti fondamentali sempre usati, fino ai nostri giorni, dagli avversari delle portaerei). Riguardo al nuovo protagonista della guerra sul mare, il sommergibile, il S. mette anzitutto in evidenza la differenza di fondo che esiste tra i criteri costruttivi del naviglio di superficie e quello subacquco. 110 Per il naviglio di superficie si presenta sempre la necessità di essere competitivo per potenza di artiglierie, velocità e protezione rispetto al naviglio di pari classe nemico, ricercando la superiorità nel campo tattico (se si tratta de ll'armamento oppure della protezione) e nel campo strategico (se si tratta della velocità). Questo ha portato al continuo aumento dei dislocamenti, ai quali solo il Trattato di Washington - che ha fissato a 35.000 t il limite di dislocamento del le corazzate - ha posto un freno. Ciò non avviene per il naviglio subacqueo, che può svolgere la sua funzione essenziale - il siluramento in immersione - anche senza cannoni e corazze e con ridotta velocità di superficie, mentre la sua capacità silurante assorbe un'aliquota molto modesta del dislocamento, dal quale quindi non dipende in proporzione diretta la sua eflìcienza bellica. Ne consegue un notevole vantaggio per le marine meno ricche, che con dislocamenti relativamente ridotti - e quindi con contenuti costi di costruzione - possono ottenere per la flotta subacquea una capacità bellica suflìciente, mentre per il naviglio di superficie è indispensabile almeno l'equivalenza dei mezzi finanz iari wn le marine probabili avversarie [mai raggiunta dal t 861 in poi - N.d.a.]. Nella guerra mondiale per attaccare il traffico - azione alla quale nessuno aveva pensato - la marina tedesca ha appositamente creato l 'incrociatore sommergibile, il quale normalmente agiva con il cannone e stando in superficie contro il naviglio mercantile e le unità di scorta, onde risparmiare i siluri che costringevano a frequenti ritorni alle lontane basi per rifornirsene. Di tali unità vennero accresciuti il calibro dei cannoni, l'autonomia e la velocità di superficie, per poter competere meglio con i mercantili veloci e la loro scorta. Ne è conseguito anche per gli incrociatori sommergibili un aumento del loro dislocamento, che però non giovava affatto alla loro capacità di agire in immersione con il siluro contro navi da guerra, anzi la diminuiva. Va però tenuto conto - prosegue il Sechi - che i successi dei battelli tedeschi nella guerra commerciale sono dovuti non solo e non tanto ai metodi barbarici usati ma soprattutto ali 'impreparazione dell ' Intcsa, specie ali 'inizio della guerra, alla lotta antisom.
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Sechi, Riflessioni sui sommergibili, in " Rivista Murittimu" aprile 1924, pp. 5-27.
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Questa lacuna è stata però gradualmente eliminata fin tanto che nella primavera del 1918 la minaccia poteva ormai ritenersi debellata. Hanno avuto il loro peso anche il carattere mondiale del conflitto e la rinuncia degli Imperi Centrali al traffico marittimo. Queste circostanze favorevoli secondo il S. non si ripeteranno nei futuri conflitti, tanto più che nel Trattato di Washington per la protezione della vita dei neutri e dei non combattenti in mare in tempo di guerra (firmato il 6 febbraio 1922) si esclude in modo assoluto l'impiego dei sommergibili per la guerra al traffico. Poiché gli incrociatori sommergibili sono idonei soprattutto a tale tipo di guerra e il loro costo è assai cresciuto insieme con il dislocamento, alle marine meno ricche [come era quella italiana - N.d.a.] conviene costruire solo sommergibili specialmente atti all'impiego del siluro in immersione contro navi da guerra, che possono essere chiamati sommergibili siluranti ed essere proficuamente impiegati nella difesa strategica del litorale nazionale, la quale è cosa diversa dalla difesa localizzata lungo il litorale nazionale, "ma non esclude, anzi esige audaci offensive tattiche in alto mare", per le quali l'apporto dei sommergibili siluranti sarebbe preziosissimo. Gli incrociatori sommergibili di rilevanti dimensioni, annati di poderosi cannoni e provvisti di corazze, saranno senz'altro terribili distributori del commercio negli Oceani; "ma sono convinto, che in mari ristretti e ne/l'intero bacino del Mediterraneo uguale risultato possa ottenersi con unità ben più piccole". Essi, inoltre, hanno bisogno di un buon sistema di basi, quindi le potenze che non dispongono di tali basi [come la Germania - N.d.a.] non possono ottenere buoni risultati e farebbero meglio a risparmiare le risorse per la loro costruzione. In conclusione, secondo il S. per le marine che [come quella italiana- N .d.a.] dispongono di mezzi finanziari modesti, la difesa del litorale nazionale e del traffico marittimo è prioritaria. Difendendo il litorale nazionale si difende anche il traffico, perché quando il nemico domina la costa ha la possibilità di interdire in modo assoluto anche il traffico mercantile, mentre se attacca soltanto al largo il naviglio mercantile ha qualche probabilità di giungere almeno in parte a destinazione. TI nemico va dunque tenuto lontano il più possibile dalle nostre coste, e per fare questo occorre: 1°) sviluppare il naviglio sommergibile silurante, con alcuni battelli posamine anch'essi provvisti di capacità silurante, rinunciando almeno per il momento alla costruzione di incrociatori sommergibili; 2°) costruire sommergibili siluranti con dislocamento "piuttosto modesto", capacità di rapida immersione, velocità di superficie non troppo elevata, "congrua efficienza nei riguardi del! 'autonomia, abitabilità, qualità nautiche, in relazione alle caratteristiche dello scacchiere strategico"; 3°) con questi criteri potrebbero anche coesistere due classi, una più grande principalmente destinata alle operazioni d'altura, l'altra - più piccola - per la difesa permanente e localizzata di località costiere di particolare importanza;
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4°) allo scopo di ottenere dalla flottiglia sommergibili il massimo rendimento, occorre "rivolgere massima cura ed attenzione alla efficienza della flottiglia di superficie nonché della forza aerea", che dovrebbero ambedue essere almeno equivalenti a quelle della più forte marina antagonista. In caso diverso la flottiglia sommergibili, per quanto poderosa essa sia, darebbe un rendimento assai inferiore a quello che altrimenti dovrebbe dare. Oltre a prendere in esame le possibilità e i limiti futuri dei due mezzi che più hanno pesato nella passata guerra sul mare - la corazzata e il sommergibile - il S. esamina anche i riflessi di tale guerra sullo studio dell'arte militare marittima. 111 Dopo aver permesso che l'azione delle marine militari - "e del loro necessario completamento, l'aviazione marittima", benché meno appariscente, è stata non meno grandiosa e decisiva di quella deg li eserciti, il S. prevede che l'analisi degli eventi della passata guerra sarà senza dubbio un fattore di perfezionamento e di progresso dell'arte militare marittima, perché sulla base di elementi concreti sarà possibile stabilire "razionali criteri di massima per la costituzione e l'impiego delle flotte del mare e dell 'aria". Tuttavia tali criteri non possono avere applicazione coslante e unifo rme, sia perché ciascuna guerra è sempre diversa dalle altre, sia perché gli studi di ciascuna marina devono essere orientati in base alle specifiche esigenze di politica esterne e di difesa del proprio Paese e alla struttura geografico-strategica degli scacchieri ove prevedibilmente la flotta dovrà svolgere la sua azione principale: ne dovrebbe risultare un utile sfrondamento delle esagerazioni di talune scuole e tendenze ispirate a criteri troppo unilatera/i [quella di Douhet, e magari anche di Mahan? - N.d.a.]; un opportuno coordinamenlo dei criteri meJ{lio confortati dalla logica e da/l'effettiva esperienza di guerra; un graduale avviamento, se non proprio all'Unità della dottrina e del metodo, almeno alla formulazione di Dottrina e Metodi nella cui orbita gli studiosi si raduneranno via via numerosi, lmlando sempre più passatisti e futurisli; una magJ{ior somma di consensi verso le Tendenze medie ...
A questo punto, riferendosi alla Guerra e la sua storia del Marselli (1875 - vds. Tomo 1, cap. lll), della quale "raccomanda vivamente la lettura e la meditazione", il S. sottolinea che gli avvenimenti della guerra ultima "non possono costituire il fondamento esclusivo, e neppur principale, degli studi di arte militare marittima": le basi di tali studi, ben più vaste e complesse, vanno ricercate nella storia, razionalmente considerata in tutte le sue luci e ombre. 1 principì teorici della strategia e tattica navale sono relativamente semplici e occupano poche pagine: quel che vale, e che è molto difficile, è la loro corret-
111 Scchi, La guerra mari/lima sello studio de/l'arte militare mari/lima in "Rivista Marittima" luglio-agosto 1923, pp. 5-17.
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ta applicazione alle circostanze del momento. Per raggiungere questo obiettivo occorre una mentalità strategica o bellica, che è cosa ben diversa dal possesso di un livello di intelligenza normale e magari eccellente in altri campi dello scibile civile e dello stesso scibile militare, e che si forma e sviluppa gradualmente con lo studio della strategia. Quest'ultima "si concreta nella storia militare e nella geografia strategicamente intesa" e comprende l'analisi delle operazioni dei maggiori condottieri in rapporto alle situazioni storiche e geografiche in cui si sono svolte (idee poi pienamente riprese dal Bemotti). Per quanto attiene alla tattica, un esame superficiale potrebbe portare alla conclusione che, nel tempo dei velivoli e delle grosse artiglierie, a ben poco servono gli studi storici applicati a questo livello: ma bisogna tener presente che i mezzi bellici non sono l'unico elemento da considerare per definire le modalità del combattimento; su di essa influiscono molti altri importantissimi elementi come il terreno (o, in mare, i fondali, le condizioni meteo, ecc.), la situazione, gli obiettivi stTatcgici di maggior interesse, la persona umana e la sua psicologia, che poco cambiano nei secoli, ccc .. Quindi, anche in questo caso come scrive il Marselli - bisogna rivolgersi alla storia, e sul piano generale vale quanto afferma il Fincati [vds. il prossimo cap. IV - N.d.a.]: "un 'arte. e soprattutto la nostra, non può essere nobilmente esercitata senza conoscerne la storia, cioè le origini, i progressi, Le vicende e gli errori stessi, in cui caddero coloro che la esercitarono prima di noi". A dimostrazione dell'asserto fondamentale che nessuna guerra marittima, e neppure la guerra mondiale non può essere un riferimento unico e per tutti valido, i I S. cita il piano di guerra tedesco del J914 e la guerra nel mare del Nord e nell'Adriatico. TI piano tedesco era di escludere - almeno in un primo tempo - la lotta per il dominio del mare per cercare una rapida decisione sul fronte terrestre, prima che il Paese si esaurisse per l'insufficienza o la mancanza di rifornimenti via mare. Un piano che andava bene per la Germania, le cui coste avevano caratteristiche tali, da escludere l'offesa nemica: "ma potrebbe ad esempio considerarlo il nostro Stato Maggiore specie nei riguardi del Tirreno, ove la difesa della costa, ovunque aperta e vulnerabile, ed il previo possesso della Sicilia, della Sardegna e dell'Elba costituiscono /'obiettivo più essenziale?". Dopo la distruzione dei corsari tedeschi, il naviglio di superficie dell'Tntesa ha operato essenzialmente nel Mare del Nord e nell'Adriatico. Si tratta di due mari le cui peculiari caratteristiche hanno imposto nella condotta delle operazioni criteri e modalità che "sarebbe grave errore" generalizzare: ricorderò sommariamente i limitati fondali che rendevano possibile l'impiego delle torpedini ancorate in zone molto estese di quei mari, mentre in altri - ad esempio il Tirreno - esso sarebbe assai più circoscritto; la difficile accessibilità e la enorme capacità difensiva locale del litorale tedesco e austriaco, che rese vana la superiorità navale dell'Intesa nei riguardi degli attacchi costieri; e in contrapposto la grande vulnerabilità della sponda occidentale adriatica, che impose alla nostra marina una speciale. grave responsabilità e con-
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tinuo duro travaglio. Ricorderò pure la specialissima configurazione di questo mare [ ... ] ove l'impiego combinato di torpedini, sommergibili, p iccolo naviglio, squadriglie aeree risulta di efficienza ben superiore a quella conseguibile in scacchieri altrimenti conformati. È dunque logico ritenere, che i criteri applicati con successo in Adriatico non darebbero uguali fru.tti nel Tzrreno [ .. .]; che quelli ritenuti opportuni nel Mare del Nord, non lo sarebbero ugualmente quando - ad esempio - uno degli obiettivi essenziali fosse il dominio di superficie nel Mediterraneo, e quando le parti avverse fossero separate da/l'Oceano.
Indiretta giustificazione del mancato impiego delle nostre navi maggiori in Adriatico, che peraltro toglie ogni valore alle argomentazioni del Cagni - e dello stesso Thaon di Rivel - sul preteso ruolo delle nostre corazzate "in being" a Taranto. 112
Gli interventi in Senato fino alla seconda guerra mondiale e il contradditorio atteggiamento a proposito del ruolo delle nuove corazzate
In estrema sintesi, per tutti gli anni Venti il S. rimane fedele alle sue idee di sempre, cosa che in verità gli costa poca fatica perché non si pensa ancora alla costruzione di corazzate. Negli anni Trenta, invece, di fronte al sempre più chiaro orientamento verso la "grande marina" (offensiva e persino oceanica) imperniata sulla ricerca della battaglia decisiva tra grandi navi e sulla preminenza del cannone, 113 il suo atteggiamento è bi fronte: pur continuando a sostenere la priorità del naviglio leggero, l'importanza dell'aviazione marittima, l'efficacia del siluro anche contro le corazzate e la necessità della collaborazione tra Forze Armate, approva senza riserve l' oneroso programma di costruzione delle grandi navi, ivi compresa la poco condivisibile decisione di rimodernare le quattro vecchie corazzate della prima guerra mondiale (Cesare, Cavour, Doria, Duilio) dotandole tra l'altro di artiglierie di calibro insufficiente (320 mm), mentre le principali marine già avevano o stavano installando sulle nuove costruzioni il 381 mm. Naturalmente negli anni Venti, quando la costruzione di corazzate è ancora lontana non solo per ragioni di bilancio, egli anche in Senato rimane fedele alle vecchie idee e difende il suo operato da Ministro. In particolare, nelle tor-
112 Si veda, in merito, il Nostro La Marina italiana nel XX secolo, in "Rivista Marittima" luglio 2001 , pp. 33-50. Di particolare rilievo le dichiarazioni del Capo della Marina austriaca (ammiraglio Haus) s ulla pericolosità dell'Adriatico per le corazzate, da contrapporre alle discutibili e ottimistiche dichiamzione de l Thaon di Rcvcl sul ruolo delle nostre corazzate. 113 Si veda, in merito, il Nostro Da Jlolla secondaria a grande marina: la strategia marittima italiana negli anni Trenta, in "Bollettino d'Archivio dell'Ufficio Storico Marina Militare" Anno Il - n. 4 di dicembre 1988, pp. 135 157.
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nate del 17 e 20 dicembre 1924, nelle quali si discute il bilancio 1924-1925 114 inizia il suo intervento contestando le implicite accuse del relatore ( che accenna al 'torpore' della Marina dopo la fine della guerra e alla 'stasi' dell'aviazione, quindi anche dell'aviazione marittima) e invitandolo a dimostrare con dati di fatto le sue affermazioni. Detto questo, dopo aver sottolineato l'importanza in passato e in futuro del Mediterraneo e il conseguente fondamentale ruolo della nostra Marina, dichiara che la vittoria nella guerra passata "ci ha posto nei riguardi del Mediterraneo in situazione molto più delicata e grave di quella d'anteguerra". Premesso che il nostro problema marittimo si compendia nell'equilibrio tra le flotte mediterranee, nel periodo prebellico le flotte in questo mare erano in pratica cinque: tre di potenze rivierasche (italiana, francese, austriaca) più la flotta inglese, la cui presenza era però bilanciata dalla potenza raggiunta dalla flotta tedesca, il cui peso, pur essendo più potenziale che reale, ne faceva di fatto una quinta potenza mediterranea. Nel dopoguerra, invece, sono rimaste solo tre potenze marittime (la Francia e l' Italia rivierasche, più l'Inghilterra non rivierasca); e a parte il fatto che l'equilibrio si mantiene più facilmente in cinque che in tre, la flotta inglese, ormai libera da preoccupazioni nel Mare del Nord, può esercitare nel Mediterraneo una pressione molto maggiore, fino ariprendere la vecchia politica di mantenere in questo mare forze navali superiori a quelle di qualsiasi potenza rivierasca: insomma, lasciando da parte la flotta inglese, [leit-motiv della nostra strategia marittima fino alla vigilia della seconda guerra mondiale - N.d.a.], oggi possiamo trovarci di fronte senza aiuti di sorta l'intera flotta francese; nel/ 'anteguerra un 'azione combinata di questa e dell'austriaca contro di noi sortiva owiamente dal novero delle possibilità ragionevoli, ed era invece ragionevolmente probabile il concorso della.flotta austriaca alla nostra.
Di conseguenza, secondo il S. non c'è da preoccuparsi gran che dello sviluppo delle flotte degli Stati Uniti, del Giappone e della stessa Inghilterra, i cui interessi consistono essenzialmente nella libertà e sicurezza del transito in questo mare, quindi non possono trovarsi in conflitto con i nostri. Si può quindi continuare la tradizionale politica di amicizia con la Gran Bretagna; ben diverso è il caso della Francia, i cui interessi mediterranei sono in conflitto con i nostri, e oltre tutto, può esercitare contro di noi - diversamente dalle altre potenze non rivierasche - un'azione sia navale che terrestre e aerea. Senza specificarne le ragioni, il S. dichiara poi di non essere del tutto d 'accordo su alcune parti del programma del Ministro in carica (Thaon di Revel) e della relazione; questo però non gli impedisce di essere firmatario, con altri senatori, di un ordine del giorno nel quale si approva il bilancio 1924-1925 e -
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Cfr. Sechi, Sul bilancio della Marina e sul Minis lero unico della Difesa Nazionale - discorsi
pronunciati nelle tornate del Senato del 17 e 20 dicembre 1924, Roma, Tip. Senato 1925.
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in pieno accordo con la posizione del Ministro - si fa voto ''perché sia conservata alla R. Marina l'attuale autonomia di organizzazione, che le consente di esplicare rapida ed efficace azione". Ciò equivale ad opporsi all'organizzazione unitaria delle Forze Annate, che è negli intendimenti del nuovo regime. In particolare, il S. si oppone alla ventilata istituzione di un unico Ministero della difesa nazionale, che dovrebbe "conglobare in un immenso calderone" le tre diverse organizzazioni di Forza Annata. Infatti " quando pesci di diversa specie vivono nella stessa vasca, non vanno mai d'accordo"; occorre invece che i tre diversi organismi abbiano "vita prosperosa e gagliarda, nel più perfetto accordo, nella più completa armonia di intenti, di preparazione, di azione". Tesi dimostratasi ovviamente infondata, perché l'accordo è ancor più difficile se i ministeri sono separati, quindi diventa più difficile stabilire anche quei forti legami operativi tra Forze Annate, dal S. sempre auspicati. Di maggior spessore, invece, l'altra sua affermazione che i Ministeri militari non dovrebbero essere affidati a civili, perché essi dovrebbero anche in Parlamento rimettersi ai pareri dei tecnici, senza essere in grado di esprimere personali opinioni. Peraltro, se si dovesse istituire un Ministero unico sarebbe gravissimo errore affidarlo a un tecnico, come tale appartenente a una delle tre Forze Armate: "le due branche rimaste fuori non sarebbero certo soddisfatte, mentre quando il Ministro jòsse una personalità politica il malcontento sarebbe equamente diviso". Ma se il Ministro fosse un politico, anche se lo affiancassero tre sottosegretari "tecnici'', le responsabilità di fronte al Parlamento rimarrebbero pur sempre solo al Ministro stesso; senza contare che un solo uomo, anche se in possesso di doti emergenti, non potrebbe assumere una responsabilità così vasta, e acquisire sufficiente conoscenza di problemi cosl diversi. L'equilibrio tra Forze Annate auspicato negli Elementi rimane tuttavia sempre al primo posto nelle idee del S., che nella tornata del Senato del 2 aprile 192711 5 ne fa - non senza contraddizioni con le precedenti tesi - una questione di responsabilità politica (attribuendo quindi ai politici, e non ai tecnici , un fondamentale ruolo di arbitrato tra le contrapposte e interessate spinte dei tecnici di Forza Armata). In proposito, osserva che i concetti di "sujjìcienza" o "insufficienza" di una flotta sono relativi, perché bisogna tener conto dei probabili alleati e avversari, e al tempo stesso salvaguardare l'equilibrio tra Forze Annate. Si discosta perciò dai "navalisti" puri e duri, ricordando che quel che conta è l' efficienza complessiva e che la marina militare è un fattore importantissimo, sì, dell'efficienza bellica nazionale, ma non è un fattore unico: ci vuole l'esercito, ci vuole l 'aviazione. A che cosa servirebbe una flotta poderosissima, quando esercito od aviazione, o l'uno o l'altra, non avessero efficienza sufficiente? La questione si presenta così complessa [... ] che bisogna lasciare alla responsabilità del Governo
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Cfr. Sechi, QL<estìo11i di Marina Militare al Se11alo - Primavera 1927, Roma, Tip. Senato 1927.
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di trovare il compromesso migliore, quello cioè che fa realizzare al massimo di efficienza bellica complessiva ...
La prospettiva della costruzione di corazzate è ancora lontana. Nella stessa tornata del 2 aprile 1927 perciò il S. non può che approvare il programma di costruzione di naviglio leggero (12 grossi cacciatorpediniere, 4 esploratori di 5000 te 9 sommergibili), con talune osservazioni: si dovrebbero costruire molti incrociatori, il dislocamento dei sommergibili dovrebbe essere più ridotto, il calibro dei pezzi degli esploratori dovrebbe essere al massimo di 152 mm, e la prora del nuovo naviglio di superficie "dovrebbe essere eccezionalmente robusta, e.foggiata per sfondare sott'acqua non oltre il bagnasciuga: così da consentire quelle azioni di supremo ordinamento e insieme di supremo sacrificio che vanno condotte a fondo". Nella tornata del 21 maggio 1932116 prcmcttc di non volcrdifcndcrc le grandi navi, perché "sono già difèse dai fatti" (ingenti stanziamenti americani per questo tipo di nave; costruzioni post-bellica della Nelson e della Rodney da parte inglese; costruzione delle "cravatte tascabili" da parte tedesca, alle quali i francesi hanno contrapposto nuove corazzate più grandi e poderose); ma al tempo stesso riprende il vecchio concetto che l'obiettivo al quale la marina italiana deve tendere innanzi a ogni altro; e suhordinandolo, se necessario ad ogni altro [quindi anche alla costruzione di corazzate - N.d.a.], è quello de/l'equivalenza rispetto ad ogni possibile eventuale avversario [ma sempre e solo rispetto alla Francia! - N.d.a.], in fatto di incrociatori grandi e piccoli, esploratori, cacciatorpediniere, naviglio silurante di superficie in genere [e i sommergibili?- N.d.a.]. L'inferiorità in qualsiasi categoria di queste navi ci porrebbe, credo, in situazioni molto più gravi e diffìcili. della diffìcoltà. per non dire anche della mancanza, di naviglio corazzato.
Di piena attualità- se si considera l'indirizzo di studi seguìto nelle tre Accademie di Forza Annata anche dopo il 1945 e fino a fine secolo XX - sono le critiche del S. ai programmi di studi dcli' Accademia navale del momento. Tali programmi - egli osserva - sono stati compilati con il criterio di consentire agli allievi del primo e secondo anno che debbano lasciare l'istituto, di laurearsi in talune facoltà universitarie a carattere scientifico. Ne consegue che i programmi del primo e secondo anno d 'Accademia debbono necessariamente essere analoghi a quelli del biennio propedeutico universitario, sì che nei primi due anni d'Accademia: 1) le materie militari sono trascurate per consentire lo studio di quelle scientifiche; 2) a tutto danno della capacità di assimilazione degli allievi, sono previste ben sette ore di lezioni giornaliere di materie diverse,
116 Cfr. Sechi, Le grandi navi, il servizio degli apparati motori, gli studi della R. Accademia Navale - brevi rilievi nella tornata del 21 maggio 1932, discutendosi il bilancio della Marina. Roma, Tip. Sennto 1932.
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cosa che non avviene in nessuna università; 3) la maggior parte del tempo è assorbita dallo studio della matematica superiore, materia che non è affatto necessaria per l'ufficiale di vascello, al quale basta sapere bene la trigonometria; 4) alla storia navale fondamentale per lo studio dell'arte militare marittima, sono dedicati solo due periodi settimanali e solo nel primo caso, mentre sempre nel primo corso è previsto un solo periodo di geografia economica; 5) nessun insegnamento di etica militare, di amministrazione, ecc. Secondo il S., bisognerebbe invece preoccuparsi di più degli allievi che restano (e formeranno l'ossatura della marina) e meno di quelli che lasceranno l'Accademia, abolendo materie inutili come disegno di architettura (che oltre tutto non riguarda l'architettura navale) e la geometria descrittiva, e aumentando i periodi dedicati a materia militari. Nei primi anni Trenta al S. non sfugge nemmeno una lacuna che si farà pesantemente sentire per tutta la guerra 1940-1943: quella della scarsità di naviglio mercantile e speciale adatto a impieghi militari. Nella tornata del Senato del 24 marzo 1936 profeticamente raccomanda di aumentare il numero dinavi cisterna che scarseggiano, e di promuovere la costruzione di navi mercantili veloci, perché altrimenti poco servirebbero a necessità di ordine bellico: e indica come esempio il Giappone, che ha costruito per conto degli Stati Uniti dei cargo con velocità di 17-18 miglia, mentre noi siamo ancora fermi ai 10-11. Altra idea preziosa, mai seguita ... A questo punto, nel prosieguo degli anni Trenta ci si aspetterebbe quanto meno una velata critica del S. alla destinazione della maggior aliquota di risorse alle corazzate; invece egli cerca di conciliare le sue tesi di sempre con la frenetica politica delle corazzate del Ministro Cavagnari. In particolare, nella tornata del Senato del 29 marzo 1935 si dichiara favorevole senza riserve alla costruzione di nuove grandi navi, perché nel decennio precedente è stata sviluppata "una jloua da crociera silurante e sommergibile" sufficiente in rapporto a quella dello stesso tipo del più probabile avversario [non considera affatto l'Inghilterra, ma solo la Francia - N.d.a.]. Le corazzate servono appunto a completare il rendimento del naviglio leggero e dei sommergibili (si noti: non viceversa, come al tempo veniva ufficialmente già sostenuto). li suo pensiero a proposito delle nuove costruzioni navali viene ancor più compiutamente espresso nella discussione del bilancio deJla marina 1938- 1939, cioè alla vigilia della guerra. 117 Oltre che da un altro poco convincente tentativo di conciliare i nuovi indirizzi costruttivi con le sue idee di sempre, l'intervento del S. è condizionato anche dal tradizionale (e ormai anacronistico e illusorio) rifiuto di considerare come probabile nemico la Gran Bretagna, condivisibile in passato ma non alla vigilia della guerra. Questo atteggiamento, che somiglia a quello dello struzzo, rende inattendibili le considerazioni sui rapporti di forze, an-
11 7 Cfr. Sechi, Brevi parole essendo in discussione il bilancio della Marina - adunanza del Senato del 28 marzo 1938. Romn, Tip. Senato 1938.
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che se altre sue osservazioni sono assai centrate, a cominciare dalla critica al poco realistico concetto allora in auge di "Marina oceanica": "Marina oceanica" è una bella frase, ma non so che cosa di realistico significhi per la preparazione e l'impiego della nostra flotta [ ... ]. Nelle grandi guerre marittime in cui forano impiegate potenze europee, andando molto in là nella storia, le grandi decisioni .w no sempre avvenute nel Mediterraneo. 11 S. prevede tuttavia che con l'impostazione di quattro nuove corazzate "la flotta sarà rafforzata da una superba divisione di quattro poderosissime e omogenee unità", alle quali si aggiunge il rimodernamento, o meglio "larimessa a nuovo" delle altre quattro vecchie corazzate, la cui entrata in servizio "arreca un apporto notevolissimo alla nostra capacità bellica sul mare". Peraltro, "il maggiore apporto a tale capacità lo reca, a mio avviso, la parità [con la Francia - N.d.a.] a cui siamo pervenuti - e che io oso sperare ad ogni costo manterremo - in fatto di naviglio da crociera e silurante da superfìcie, la appena soddisfacente efficienza della flottiglia sommergibili, un 'adeguata efficienza delle forze aeree destinate ad operare di conserva con quelle navali". Dopo aver precisato che parlando di parità "non allude alla Gran Bretagna", il S. continua a ritenere che questi diversi mezzi "non sono affatto una specie di contorno al piatto jòrte che sarebbe il grosso corazzato da battaglia, come avviene di sentire e di leggere da quando si è ripresa la costruzione delle grandi unità che la costituiscono". È infatti certo che la loro insufficienza esporrebbe il grosso da battaglia a rischi eccessivi, "e lo obbligherebbe probabilmente a desolante passività" [come effettivamente è avvenuto per le corazzate nella guerra 1940-1943, specie dal 1942 in poi - N.d.a.]. Bisogna inoltre tener presente che "fattore essenziale delle forze sul mare è l'ejjìcienza delle Jòrze aeree cooperantt'. Non si deve peraltro sopravvalutare l'efficacia delle bombe, che specie in mare aperto hanno scarsa probabilità di colpire [questo è vero; ma gli aerosiluranti? - N.d.a.], anche se una cornzzata colpita da una bomba pesante riporterà sempre gravi danni, che nessuna protezione riuscirà ad evitare. 11 S. continua dunque a non credere ai nuovi sistemi di protezione dello scafo, che secondo le tesi ufficiali dovrebbero rendere la corazzata in grado di resistere validamente sia ai siluri che agli attacchi aerei con bombe. Vecchio comandante di torpediniere, ha come sempre grande fiducia nel siluro, ma pur valutando correttamente l'apporto dell'arma aerea, per il momento non accenna alla necessità di aerosiluranti, dei quali la marina è priva. Nonostante il suo antico scetticismo per la battaglia navale (alla quale sono soprattutto adatte le corazzate, che in questo caso - checché egli ne dica - sarebbero la spina dorsale delle flotte), non parla nemmeno della carenza, o meglio mancanza di idoneo naviglio leggero adatto a compiti di scorta convogli: significativo comunque un suo fugace accenno alla necessità di impiegare i futuri stanziamenti per la costruzione di torpediniere, che giudica preziose specie nel Mediterraneo. Va però riconosciuto che il S. ha sempre insistito sul ruolo fondamentale dell'aviazione marittima cooperante, anche quando i sostenitori ad oltranza
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della corazzata (e quindi del cannone) tendevano a sottovalutarla, insieme con la portaerei. Sotto questo profilo è assai interessante il suo intervento nella riunione della Commissione Finanza del 20 novembre 1941 (cioè dopo la "notte di Taranto", funesta specie per le nostre nuove corazzate, e subito dopo - vedi caso - Pearl Harbour), nella quale si discute l' assegnazione suppletiva di 3 miliardi ali' Aeronautica, da lui pienamente approvata. 118 In questa occasione esordisce ricordando (la lingua batte là ove il dente duole) il suo impegno e i suoi interventi a favore dell'aviazione marittima quando era Ministro, citando con estrema soddisfazione - per la prima volta - una frase di Mussolini poco dopo la marcia su Roma: "constato che l'Aeronautica italiana salvo quella della Marina è in sfacelo". Afferma poi che l'esperienza della guerra ha confermato le sue vecchie idee, "mostrando che i binomi esercito-aviazione, marinaaviazione sono fattori inscindibili della vittoria". Pertanto "non è immaginabile la condotta della guerra né in terra né in mare se uno dei termini di ciascun binomio sia in difetto, difetto che nessuna eventuale esuberanza dell 'altro termine può compensare". Quel che veramente occorre - egli prosegue - è un perfetto affiatamento spirituale e operativo di tutti i mezzi e la reciproca, comple ta conoscenza delle rispettive modalità d ' impiego. È giusto che l'Aeronautica come Forza Ar-
mata abbia la dovuta autonomia, ma va bandito il termine [tipico delle teorie douhetiane - N.d.a.] "indipendenza". Esercito e marina, data la diversa natura dell'elemento in cui operano, devono avere "ragionevole libertà d ·azione strategica", mentre la loro collaborazione nel campo tattico è limitata alle operazioni costiere; ma così non è per i rapporti tra forze di superficie e aviazione, che hanno bisogno anche di stretta collaborazione in campo tattico. Di conseguenza Adeguate aliquote della flotta aerea determinate piuttosto con l'occhio del prodigo che del 'avaro, devono di continuo operare insieme alla flotta così nel campo strategico come nel campo lattico. Tanlo più indispensabile risulta questa continua collaborazione quando la flotta non dispone di navi portaerei, promettente di hen grandiosi risultati essa apparisce nel Mediterraneo nostro per ragioni intuitive.
Un altro punto fondamentale, sul quale il S. ritorna più volte fino a far apparire le sue affermazioni come un ' indiretta ma chiara critica al le difettose procedure in corso, è la necessità che l'impiego operativo delle forze aeree a favore della flotta in mare non sia subordinato ad autorizzazioni degli alti Comandi aeronautici; occorre invece lasciare ai Comandi inferiori la dovuta libertà d'azione, che sola consente il reciproco concorso. Idee centrate, peraltro
118 Cfr. Sechi, Per laflol/a ,le/l'aria - brevi parole durante la riunione della Commissione Finanza /del Senato/ essendo in discussione il disegno di legge "Autorizzazione al Ministero dell' Aeronautica di assumere impegni per opere dipendenti dallo stato di guerrn" - riunione del 20 novembre 1941 XX, Roma, Tip. Senato 1941.
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con la rilevante eccezione dei rapporti esercito-marina. Pare ovvio che la guerra nel Mediterraneo allora in corso, che secondo le previsioni dello stesso S. era per la marina soprattutto guerra dei convogli, richiedeva anche tra esercito e marina una stretta e continua collaborazione, tale da condizionare fortemente anche l'effettiva autonomia strategica di ambedue le Forze Armate. L'esercito oltremare perché doveva subordinare anche i suoi obiettivi strategici alle possibilità logistiche, quindi all'attività dei convogli; la marina perché doveva in primis organizzare (anche in questo caso, in collaborazione con l'esercito) i convogli e garantirne la sicurezza, oltre che interdire i rifornimenti nemici via mare. TI S. riconosce finalmente anche l'importanza degli aerosiluranti, a suo parer maggiore di quella dei bombardieri per le ragioni che gli hanno sempre fatto ritenere il siluro più pericoloso della bomba specie per le grandi navi (per la verità, il già citato affondamento della corazzata Roma con una bomba speciale nel 1943 avrebbe in parte smentito la sua radicata convinzione che è difficile raggiungere le parti vitali dello scafo di una nave con una bomba). A suo parere, per proteggere dagli aerosiluranti specialmente le navi maggiori la flotta in mare ha bisogno continuo del concorso tempestivo sia di aerei da caccia dotati della necessaria autonomia, sia di aerei da ricognizione in grado di vigilare con continuità - nelle ore diurne - l' intero scacchiere mediterraneo, segnalando immediatamente tutti i movimenti di naviglio nemico [allusione alla sorpresa aerosilurante di Taranto? - N.d.a.]. Il S. conclude quindi raccomandando di "provvedere con larghezza di mezzi" alla costruzione di aerei da ricognizione, da caccia e aerosiluranti di idonee caratteristiche, a costo di rinunciare in parte alla costruzione di bombardieri.
Conclusione Come tutti gli uomini, il S. non è sempre profeta e come quella di tutti gli autori militari, la sua opera di scrittore, di Ministro e di parlamentare non è esente da punti di caduta e aspetti criticabili. In proposito dato il clima retorico e conformista dell'epoca, non si sa fino a che punto, negli anni Trenta, il S. sia effettivamente convinto dell'opportunità di dedicare la maggior parte delle risorse alla costruzione o ricostruzione di ben 8 corazzate (delle quali 4 di assai dubbia efficienza). Questa posizione in Senato mal si concilia con la sua insistenza - persino nel 1938, cioè quando era ormai chiara e innegabile la possibilità di uno scontro anche con l'Inghilterra - sulla priorità del naviglio leggero, sua idea di sempre: se tale naviglio rimaneva la parte fondamentale di una flotta, che senso aveva imperniare la politica delle costruzioni navali sulle corazzate, tanto più che il contrasto con l'Inghilterra - da lui sempre ignorato dal t 935 in poi appariva evidente? e che senso aveva approvare la politica delle corazzate, visto che esse servivano soprattutto per la guerra di squadra e la battaglia navale, prospettiva strategica da lui sempre negata?
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Tuttavia il suo più serio limite è quello di non aver ritenuto possibile laripetizione della guerra dei convogli e dell'offesa subacquea nel l 939-1945, questa volta con un danno infinitamente maggiore per l'Italia, la cui flotta - imperniata sulla prospettiva strategica della battaglia - nel 1940 era notoriamente impreparata alla guerra dei convogli e per tutto il conflitto ha duramente pagato la carenza di naviglio leggero e di scorta, così come la sottovalutazione dell'offesa aerea. Con il suo vecchio concetto di una flotta prioritariamente orientata per la difesa strategica e in particolar modo per la difesa delle coste, il S. potrebbe anche essere tacciato di eccessivo difensivismo, di una strategia rinunciataria. Non è in linea con i I ruolo internazionale del! 'Italia ma è un fatto che la "grandi marina" impostata sulle corazzate degli anni Trenta, con ambizioni oceaniche e una dichiarata strategia offensiva, all'atto pratico nella guerra 1940-1943 purtroppo ha dimostrato - come aveva sostenuto il S. negli anni Venti - che la squadra da battaglia non era in grado né di difendere il litorale nazionale da bombardamenti e sbarchi, né di attaccare il traffico marittimo nemico, né tanto meno di imporre al nemico una battaglia decisiva. Ed è un fatto che la mancata cooperazione con le forze aeree ha gravemente danneggiato e ristretto la libertà d'azione della flotta, costringendo spesso le navi maggiori a quell"'inerte passività" condannata dallo stesso Sechi. Pur essendosi dimostrate pienamente valide, le sue concezioni fondamentali (marina mediterranea, coordinamento strategico e tattico tra le Forze Armate, importanza anche sul mare dell'aviazione, convenienza della difensiva strategica per una marina inferiore, scarsa probabilità che si ripetano battaglie decisive tipo Trafalgar e Tsushima anche per l'impossibilità di imporre la battaglia al nemico più debole, perdurante vulnerabilità delle corazzate, importanza di un'efficace difesa costiera, ecc.) non sono state mai prese in considerazione, così come quelle del suo allievo Bemotti a favore della portaerei. A queste radicate concezioni corrisponde già il suo programma di Ministro, di cui alla Circolare B 313 del 4 marzo 1920 descritta dal Ramoino. Due cose però vanno precisate: la prima è che tale programma rispecchia idee già esposte prima del 1915, quindi non è il frutto di una situazione contingente difficile, con notevoli ristrettezze finanziarie. La seconda è che il gruppo da battaglia da lui costituito quando era Ministro con le quattro corazzate più moderne, di base alla Spezia con la relativa scorta, non dimostra affatto che il S. - come afferma il Ramoino - è stato un "navalista", cioè un fautore della guerra di squadra, nell'offensiva strategica e nella battaglia decisiva: dimostra solo che ha saputo dislocare e sfi-uttare nel modo migliore le corazzate allora a sua disposizione. Le sue idee di sempre sono agli antipodi <li un "navalismo", che in verità non è mai stato proporzionato alle effettive possibilità della nostra flotta. Esse avrebbero senza dubbio meritato miglior sorte, perché si sono mantenute costantemente più vicine degli orientamenti ufficiali alla realtà della guerra marittima. Probabilmente senza volerlo, ha reso indiretto ma chiaro omaggio alle
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sue concezioni di fondo - rimaste immutate quasi per mezzo secolo - l'ammiraglio Di Giamberardino, il quale nel suo celebre libro del 1937 L'arte della guerra in mare (che pure rispecchia gli entusiasmi ufficiali del tempo per le grandi navi e la battaglia risolutiva) riconosce che, prima della guerra 19141918, si persisteva a costruire le navi in vista del solo duello di artiglieria, e perché il loro impiego in un mezzo ormai infestato da pericoli subacquei fosse possibile, si escogitava una nuova teoria strategica [quella della fleet in being N.d.a.] opportunisticamente ingegnosa, ma non risolutiva, e così carica di compromessi e di precauzioni, da far dubitare che fosse ancora informata da troppe incognite [... ]. Organismi navali poderosissimi creati per la rapida azione di massa a carattere risolutivo, non sono stati impiegati secondo i concetti informatori della loro costituzione [... ].Mala ragione principale della mancanza di azioni risolutive in mare durante il grande co,iflitto deve ricercarsi nella costituzione organica delle grandi navi, a cui abbiamo prima accennato. Nella Marina britannica, in quella francese, nell'italiana e ne/1'austro-ungarica le corazzate non sopportavano in genere lo scoppio di un siluro ... 119
Questo del Di Giamberardino è un chiaro contributo anche alla definizione del vero ruolo delle nostre corazzate nell'Adriatico durante la grande guerra. La distanza tra queste sue ammissioni, che confermano i vecchi orientamenti del S., le citate dichiarazioni dell'ammiraglio Cagni in Senato nella tornata del1'8 luglio 1920, è abissale, anche dal punto di vista storico. Anche per la seconda guerra mondiale, un fatto comunque è certo: che è stato decisamente poco utile, per la nostra pur gloriosa marina, essersi trovata agli antipodi degli indirizzi strategici costruttivi sempre propugnati dal Sechi.
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Oscar Di Giamberardino, L 'arte della guerra in mare, Roma, Ed. Ministero della Marina I 937,
J)Jl. RR-R9.
PARTE SECONDA
LA TEORIA DELLA GUERRA MARITTIMA IN ITALIA E IN EUROPA
CAPITOLO III
IL LINGUAGGIO MARINARESCO, LA COLLOCAZIONE TEORICA E LA RIPARTIZIONE DELL'ARTE MILITARE MARITTIMA
Per arrivare a intendersi bisogna chiamare le cose con il loro nome e accettare le definizioni fornite dagli autori più competenti. La strategia è una cosa, la tattica è un 'altra, e le evoluzioni sono delle modalità impiegate dall 'una o dall'altra per raggiungere i loro scopi. Comandante LEWAL (citato da Bonamico)
Gran cosa è il concetto; ma a nulla approda senza una conveniente esecuzione. in questa risiede o il piedistallo dei grandi capitani, o lo
scoglio su cui s 'infrangono gli uomini puramente teorici. Senza bussola non si viaggia, ma con la sola bussola nemmeno. gcn. Nicola MARSELLT (citato dal Bemotti nel 1902)
SEZIONE I - Il lento, difficile e incompleto passaggio dal linguaggio della vela a quello della corazza, del vapore e delle nuove armi In ogni tempo l'importanza del linguaggio è stata riconosciuta anche in Marina. Ad esempio in una lettera del 1924 alla Rivista Marittima l'ammiraglio Simion, dopo aver premesso che "la lingua è la più alta e concreta manifestazione delle caratteristiche di un popolo [e quindi anche delle sue Forze Armate - N.d.a.] e il difenderne l'integrità equivale a salvaguardare uno dei principali patrimoni della nazionalità", ancora riscontrava la necessità di dedicare maggiore attenzione alla nomenclatura tecnica navalc. 1 A cominciare almeno dall'avvento del vapore e dalla concomitante necessità di legami più stretti tra le due Forze Annate, la terminologia concernente l'impiego strategico e tattico delle forze navali e in genere il potere marittimo non va intesa come qualcosa di speciale a sé stante: se si vuol coglierne appieno il significato autentico, occorre inserirla nel problema generale del linguaggio militare, con quest'ultimo che a sua volta è un aspetto particolare non solo del problema del linguaggio nazionale in un dato momento storico,
1 Ernesto
Simion, Per la nostra nomenclatura tecnica navale, in "Rivista Marittima" maggio I 924.
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ma più ampiamente del contesto politico-sociale e del livello tecnologico della nazione. Ciò premesso, nel Tomo I (cap. VI, sz. I) abbiamo già constatato che, in linea generale, gli studi sul linguaggio militare, già poco curati nel periodo delle guerre d'indipendenza, dopo il 1870 "decadono ulteriormente, con un panorama piuttosto ristretto, nel quale l'opera dominante è il Vocabolario marino e militare del Padre Alberto Guglie/motti". Questo naturalmente vale anche in campo marittimo; eppure dal 1870 al 1914 l'arte militare marittima, che muove i primi passi intorno a metà secolo XIX, anche in Italia comincia a decollare, con una serie di autori abbastanza numerosi. Senza contare che il progresso tecnico in campo marittimo è molto più accelerato e intenso di quanto avviene in campo terrestre, dunque richiederebbe una puntuale e costante attenzione non solo da parte degli studiosi e specialisti del linguaggio, ma anche e soprattutto da parte degli organi ai quali compete la regolamentazione tecnica e d'impiego ... Come spiegare questa anomalia? Almeno per la marina, ha senza dubbio una forte influenza il troppo rapido passaggio dalla vela al vapore, con i Quadri superiori ancora legati almeno fino a fine secolo XIX all'esperienza velica della gioventù, e gli stessi costruttori che per troppo tempo continuano a pensare alla vela come sistema di propulsione ausiliario. La stessa arte militare marittima, con particolare riguardo alla strategia e alla tattica, risente di questa situazione. A maggior ragione in questo contesto non favorevole, diventa necessario chiarire bene, in via preliminare, il significato e i contenuti teorici dei termini più usati, studiando e sottoponendo, se del caso, a una sintetica analisi critica le definizioni di arte militare marittima reperibili nei vocabolari o dizionari e nella letteratura navale in genere, il cui asse è rappresentato dalla Rivista Marittima. Soprattutto per la parte navale, il Vocabolario marino e militare (1889) del Guglielmotti funge da motivo centrale e da spartiacque.2 Nonostante l'apporto fondamentale dello stesso Guglielmotti, il purismo perde terreno: il vero problema è di conciliare purismo e antipurismo in un approccio equilibrato e pragmatico, nel quale purismo significa semplicemente rinuncia a ricorrere a parole straniere, là ove sono già disponibili - e calzanti - parole italiane (sarebbe già molto, anche nel XXI secolo). Il predominio tecnologico e lo sviluppo industriale delle maggiori potenze europee - Inghilterra, Francia, Germania - è un dato di fatto, che ha inevitabili ricadute in particolar modo sul nostro linguaggio navale, che oltre ad essere ancora fin troppo legato al periodo remico e velico rispecchia l'ancor modesto sviluppo industriale, e in particolare della metallurgia. Molto probabilmente per questa ragione i dizionari e vocabolari tecnici o riguardanti la traduzione in italiano di terminologie straniere (e viceversa) so-
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Roma, Voghera 1889 (ristampa 1967 Milano, Mursia).
In - IL LINGUAGGIO MAJUNARESCO, LA COLLOCAZIONE TEORICA E LA RIPARTIZIONE
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no più numerosi dei vocabolari o dizionari generali a carattere militare. Quest'ultimi, a loro volta, dedicano normalmente scarsa attenzione alla terminologia riguardante l'arte militare marittima, benché in questo campo non manchino articoli e studi; lo stesso si dica dei principali termini relativi al nuovo naviglio da guerra a vapore, che non hanno alcun aggancio con il passato. Le prime opere: Fincati (1877), Piquè (1878) e Settembrini (1879)3 Va registrato in primis il punto di vista di uno dei più eminenti e noti protagonisti del progresso navale italiano del secolo XIX, l'ammiraglio Di Saint Bon, che come ricorda il Bustico, fin dalla gioventù prende posizione anche in materia di linguaggio.4 Contrario a ogni purismo esagerato, ritiene inevitabile usare anche parole straniere, purché siano riferite a nuove invenzioni d'oltralpe e non siano dovute solo al tradizionale, frequente servilismo italiano verso tutto ciò che viene dall'estero. Ciò premesso, egli indica due diversi metodi per l' uso corretto di parole straniere: quello dell' assonanza e quello della traduzione. Dei due giudica preferibile il primo, "perché, ne/fatto specifico, si accetta una voce straniera per non averne una nostra [cioè: solo perché manca una voce nostra - N.d.a.]; nel secondo, invece, si accetta /'idea o [ 'immagine creata da un altro popolo". Appare, però, non condivisibile e arretrata la sua idea di compilare anzitutto dei dizionari di marina locali (cioè riferiti al linguaggio delle principali marine preunitarie), "per poi trarne gli elementi per un dizionario nazionale" . In effetti, dopo il 1870 diversamente dal passato il problema principale non è più quello di creare un linguaggio nazionale, che per forza di cose guadagna ogni giorno terreno, anche perché i travasi tra le lingue pre-unitarie erano numerosi, quindi subito dopo l'unità - come testimonia per esperienza diretta il Fincati - nel1'attività quotidiana non è affatto difficile intendersi. Si tratta invece di accettare o meno ciascun termine straniero, nell'intesa che l'influsso straniero è ormai inevitabile, anche se controllabile caso per caso. Tale influsso riguarda principalmente la terminologia tecnica, non quella tattica o strategica. Non casualmente, perciò, la prima opera della quale si abbia notizia ha carattere tecnico: ci riferiamo al breve Vocabolario (inglese e italiano) di termini tecnici d 'ingegneria estratto dal/' "Engineer" di gennaio 1873, riveduto, corretto e accresciuto di più di 230 vocaboli (1873).5 Nulla da dire sull ' orientamento di questo opuscolo, se non che esso è riferito alla terminologia tecnica per cosi dire minuta: basti citare i primi vocaboli della lettera A : Abutment coscia, spalla,
3 In mancanza di altri studi più esaustivi suli ' argomento nell' intero periodo 1870-1915, ci riferiamo, con opportuni ampliamenti, ai Nostri due articoli sui Dizionari di marina ita/ia11i (1870-1900 e 1900-200/) in " Rivista Marittima" febbraio 2002, pp. 13-22, e maggio 2002, pp. 13-29. • Guido Bustico, Dizionario del mare - Marina da gue"a, Marina mercantile, Marina da pesca, meteorologia nautica, idrografia nautica, Torino, Cantore 1932, p. vm. < Supplemento alla " Rivi.sta Marittima" gennaio 1873, Roma, Tip. Senato 1873.
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IL PENSIERO MU..ITARE E NAVALE ITALIANO - VOL In (1870-191S) -TOMO Il
testata, piedritto, Adjustment raccordo; Air escape fuga d'aria; Adze ascia; Air pump macchina pneumatica; Angle iron ferro ad angolo. Ha carattere tecnico anche un' altra opera linguistica del Fincati, il Vocabolario nautico inglese-italiano e italiano-inglese ( 1877),6 che indirettamente rispecchia il primato inglese specie nella tecnologia delle artiglierie, delle corazze e delle macchine e tratta la vasta materia in modo piuttosto sommario (solo 206 pagine). La prima opera a carattere generale, perciò di una certa ampiezza - si potrebbe dire, il primo vero e proprio dizionario - rimane perciò il Dizionario di marina coll'aggiunta dei termini tecnici nelle lingue italiana, inglese, francese e tedesca di Francesco Piquè da Livomo. 7 È un tentativo di conciliare purismo e anti purismo, nel quale le voci relative alla navigazione a vela occupano ancora lo spazio maggiore; ciononostante l'approccio dell'autore intende essere modernista e tecnico. Nella prefazione egli si prefigge l' ambizioso obiettivo di compilare un'opera che rifletta i più recenti progressi delle costruzioni navali e della nautica in genere, prendendo atto della grande diffusione ormai raggiunta dalla propulsione a vapore, che "ha portato alla costruzione delle sterminate moli di }erro, conosciute col nome di corazzate" e sta portando all'eliminazione della v<.:la - d.1e pure a sua volta ha subìto molti miglioramenti - dalle flotte militari. Il dizionario del Piquè viene pubblicato nel 1878, cioè nell'anno che segue la già citata legge 1° luglio 1877 promossa dal Ministro Benedetto Brin, con la quale la Marina italiana si orienta definitivamente verso la costruzione di grandi navi a vapore. Quando la predetta legge entra in vigore, il dizionario è già in dirittura d ' arrivo: il Piquè pertanto vi aggiunge una corposa e interessante nota compilata, come egli stesso scrive, "quando questo dizionario era sotto il Torchio". Interessante il commento alla recentissima invenzione da parte del comandante svedese Ericsson "di un nuovo conduttore-torpedine [cioè di una torpediniera armata di siluro - N .d.a.], che, si dice, renderà di nessun valore tutte le corazzate del mondo" [tipica esagerazione che accompagna sempre la comparsa di nuove armi e di nuovi strumenti di guerra, ivi compresa - in precedenza - la stessa corazzata, poi in ordine di tempo il sommergibile, il dirigibile e l' aeroplano - N.d.a.]. TI Piquè esprime l' ottimistica quanto infondata speranza che la corsa ad armamenti sempre più potenti e micidiali, capaci di distruggere quelli adottati in precedenza, possa avere anche risvolti positivi. Infatti ci darà per ultimo risultato - dopo che si sarà compresa l'inutilità di tante enormi spese che servono solo ad accrescere la miseria dei popoli [ ... ] - di vedere realizzata una volta tanto l'aspirazione umanitaria per l'abolizione della guerra, oppure ci sarà nuova conferma che l'ultimo appello, nell'urto perpetuo degli interessi sociali e politici, sarà sempre fatto alla forza materiale! Ai posteri l'ardua risposta.
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Roma, Barbèra IR77.
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Dopo questa vana speranza pacifista, la parte aggiunta all'ultimo momento dedica ben 15 pagine alle caratteristiche delle corazzate costruite dalla Marina italiana e dalle principali Marine. Naturalmente, il Piquè si diffonde su una minuta descrizione della Duilio, alla quale avrebbe dovuto pensare prima, visto che questa vera e propria supercorazzata (senza vele) era stata impostata fin dall'aprile 1873 e varata nel maggio 1876. L'ultima parte della nota è dedicata ai nuovi nemici della corazzata (mine o torpedini e siluri). Qui il Piquè non si schiera tra i già numerosi nemici coevi delle grandi navi, anzi fornisce un quadro del tutto irrealistico delle loro possibilità future. A suo giudizio, con le loro impenetrabili corazze e con le loro artiglierie di grosso calibro, esse renderanno pressoché inutili anche fortificazioni costiere fino a quel momento giudicate imprendibili (come quelle delle grandi basi navali di Cronstadt, Malta e persino quelle di Gibilterra). Per resistere al fuoco delle corazzate e poter restituire loro pan per focaccia, bisognerebbe dotare anche le fortificazioni costiere delle stesse torri corazzate che armano le grandi navi. Soluzione, quest'ultima, poco utile e troppo costosa, perché le flotte potrebbero colpire qualsiasi punto del litorale. L'unico rimedio valido rimane perciò la costrnzionc di batterie galleggianti mobili, come lali in grado di intervenire tempestivamente in qualsiasi punto della costa minacciato. Il Piquè non ha del tutto torto: le "navi-ariete" - cioè un tipo di nave che combatte solo con lo sperone - e le corazzate costiere avranno una certa diffusione nel prosieguo del secolo XIX, venendo peraltro gradualmente accantonate per concentrare le risorse sulle flotte d'alto mare, con torri corazzate fisse solo nei punti più importanti delle coste. Più a torto che a ragione, il Piquè prevede inoltre che gli incrociatori e il naviglio leggero del futuro saranno facile preda delle corazzate, perciò saranno a loro volta costretti a proteggersi con corazze, alle quali accredita un' efficacia esagerata, fino a prevedere che esse potranno neutralizzare anche il fuoco delle più potenti artiglierie, rendendo "inutili, nulli, lunghi e inconcludenti" gli scontri tra navi corazzate in mare aperto, come ha già dimostrato la lotta tra il Monitor e il Merrimac nel 1862, durante la guerra di secessione americana. Accanto alla sua tendenza a fare valutazioni e previsioni scentrate, si deve anche fargli carico della scarsa attenzione che dedica alle voci riguardanti l'arte militare marittima e ai criteri d'impiego delle forze navali. Oltre che una citazione e definizione della stessa arte militare marittima, mancano ad esempio le voci guerra, guerra marittima, potere marittimo, dominio del mare ,ecc. Manca anche la voce strategia, della quale, evidentemente, il Piquè non coglie la novità e l'importanza in campo navale, anche se i principali autori coevi si sono già pronunciati sulla necessità di studiarla. In definitiva il Piquè si limita a recepire - come gli altri autori della prima metà del secolo - solo le voci tattica e battaglia. Le definizioni da lui date risentono ancora della vecchia tendenza - tipica del periodo velico e delle prime teorie nell'età del vapore - a identificare la tattica con la scienza delle evoluzioni. Non vi manca, tuttavia, un accenno per così dire nelsoniano, che le ren-
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de migliori di parecchie altre antecedenti, coeve e successive. Una definizione, insomma, nella quale al vecchio si sovrappone il nuovo, visto che essa è l'arte di disporre i vascelli di un 'armata secondo l'ordine voluto, di farli passare da un ordine all'altro, di far fare loro evoluzioni e di trame tutto il partito possibile davanti al nemico [ ... ]. Un buon tattico, cioè un ufficiale distinto per i suoi talenti in tattica, conosce non solamente tutte le regole della tattica, ma all'uopo vi sa supplire, e non ne è mai sprovvisto.
Per il Piquè non vi sono schemi o formazioni di validità costante da adottare di fronte al nemico: l'importante è ottenere il miglior rendimento possibile delle proprie forze in combattimento. Condivisibile, e pienamente valida anche per il periodo del vapore, la definizione di battaglia, che è una lotta sanguinosa tra due armate navali complete e nemiche, nella quale gli ammiragli spiegano tutto il loro talento, la loro audacia, il loro genio, e che ha un risultato importante.
Un "risultato importante" non necessariamente è decisivo, quindi anche in questa sfumatura va colto un positivo antidogmatismo; si potrebbe solo osservare che, per essere perfetta, a questa definjzione manca solo il riconoscimento che, accanto al genio del! 'ammiraglio, occorre il valore e il buon livello quantitativo e qualitativo dell'armata alle sue dipendenze, a cominciar dai comandanti in sott'ordine. Queste definizioni tutto sommato promettono molto: ma, a parte la mancanza di altri termini-chiave dell' arte militare marittima, ad esse non si aggiunge affatto un esame corretto e sufficientemente approfondito delle concrete incidenze della propulsione a vapore, dei grossi calibri e delle corazze nella composizione delle flotte e sulle formazioni di combattimento. Come si è visto, nella definizione di tattica il Piquè parla ancora di vascelli, cioè delle capitai ships tipiche del periodo della vela. Per lui le fregate sono sempre e solo quelle classiche, a vela; e nonostante le considerazioni sul predominio assoluto delle corazze e delle corazzate aggiunte all'ultimo momento, nelle rimanenti voci del vocabolario il ruolo delle navi da guerra corazzate e a vapore appare ancora - contradditoriamente - marginale, quindi fermo a considerazioni non più valide neppure per la battaglia di Lissa del 1866, nella quale i vascelli in legno erano stati da ambedue le parti un peso, o almeno una componente secondaria quando non inutile. Una grave menda che si nota in particolar modo alla voce armata navale, nella quale, proprio come avviene nei primi vocabolari del secolo XIX, si parla solo di vascelli o velieri e si indica ancora la suddivisione della flotta in tre squadre tipica del periodo velico. Ancor più fuori tempo quanto il Piquè afferma a proposito delle navi da guerra a valore, che sembrano (sic) destinate ad avere, d 'ora innanzi, una parte importante fra le forze navali delle nazioni, non solo come rimorchiatori [del naviglio maggio-
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re a vela, in assenza di vento - N.d.a.], ma sembrano chiamate a far parte integrante del corpo di armata e del naviglio leggero. Tuttavia è impossibileprecisare, oggi, in qual rapporto e secondo quali disposizioni la loro cooperazione [con le navi a vela! - N.d.a.] verrà stabilita.
Siamo nel 1878, ma nonostante le battaglie di Hampton Roads e di Lissa e il già avvenuto varo della Duilio, il Piqué conserva la prospettiva - vecchia di circa vent'anni - delle flotte miste a vela e vapore, per di più con prevalenza dell'aliquota a vela. Evidentemente, a parte le aggiunte finali all'ultimo momento non si è preoccupato di aggiornare le rimanenti voci del dizionario. Questo vale anche quando fornisce una lunga descrizione delle modalità per organizzare l'arrembaggio, dimostrando indirettamente di ritenerlo ancora importante, mentre in altra parte dello stesso vocabolario lo giudica "innaturale". E pur ammettendo l'importanza dello sperone, si sofferma molto sulle formazioni in linea e in colonna (non adatte al suo uso), ma non accenna alla formazione a cuneo che lo sfrutta a fondo, già adottata con successo a Lissa dalla flotta austriaca. Nonostante questi severi limiti, che peraltro non sono tipici solo del suo dizionario, il Piqué fa opera utile, soprattutto per gli esaurienti accenni finali al la storia della propulsione a vapore e delle corazzate, e per il linguaggio del tardo periodo velico. Va da sé che questi sprazzi di luce non gli consentono affatto di raggiungere il dichiarato scopo di fornire un' opera che tenga conto dei più recenti progressi tecnici, ai quali accenna in modo incompleto e contraddittorio, come se si trattasse di un'appendice e non della parte principale dell'opera. Un anno dopo quello del Piquè compare il Dizionario tecnico-marinaresco inglese-italiano e italiano-inglese del capitano di fregata Raffaele Settembrini. 8 Come quello precedente - anonimo - del 1873, anche questo dizionario indirettamente sancisce il predominio inglese nella tecnica delle costruzioni navali (i grossi cannoni da 450 mm del Duilio sono della ditta Armstrong; le macchine della ditta Perry). E come nel dizionario del Piquè - anzi ancor più di più - vi brillano per la loro assenza i termini più usati nell'arte militare marittima, ad eccezione di strategia e tattica, le cui definizioni forse per un benefico influsso del pragmatismo inglese, sono troppo sommarie ma almeno corrette. La strategia (strategy) è infatti ''parte dell 'arte militare marittima e terrestre che si applica alle grandi operazioni di guerra". La Tattica (tactics) è "l'arte di disporre le navi [ma anche di guidarle - N.d.a.] per combattere il nemico". Un rimasuglio del passato è tuttavia la distinzione tra tattica a vapore (steam tactics) e tattica a vela (sailing taclics ): non servono forse, tutte e due, per combattere il nemico? come si possono usare, in una sola flotta, due tattiche diverse? Ma qui il Settembrini va scusato: non fa che prendere atto della
• Milano, Battezzati I 878.
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realtà del momento, che, indubbiamente pone problemi gravi, e forse insolubili, per l'impiego di flotte miste, cioè a vela e vapore.
Pregi e limiti del troppo celebralo "Vocabolario marino e militare" del Guglie/motti (1889) A parte il suo carattere interforze (Cfr. Tomo I, cap. VI) ci si aspetterebbe che, per la parte navale, il celebre e molto lodato Vocabolario marino e militare del Padre Alberto Guglielmotti (nel quale l'aggettivo "marino" - si noti: non navale e/o marittimo - precede quello "militare") se non altro perché pubblicato oltre dieci anni dopo quello del Piquè, ponesse rimedio alle sue lacune, saltasse defmitivamente il fosso della modernità e della propulsione a vapore e fornisse un' immagine per quanto possibile completa della realtà navale del tempo, dei nuovi ritrovati, della tattica e strategia navale, dei nuovi orientamenti sulle costruzioni navali ecc.: non è così, anche se a distanza di quasi trent'anni dalla pubblicazione di un'opera che aveva destato tante speranze e aspettative, Alberto Lumbroso non certo un cspetto - scrive ancora che "il vocabolario tecnico [che non è tale - N.d.a.] del Guglielmutti ha seppellito tutti gli altri".9 Eminente storico anzitutto del periodo rcmico e poi di quello velico (per il quale non nasconde, anzi, le sue antipatie), appassionato navigatore, instancabile rovistatore di biblioteche e archivi, patriota d'istinto, intransigente purista, il Guglielmotti trasfonde i risultati di quarant'anni di studi, ricerche e polemiche nel vocabolario, con giudizi spesso secchi, categorici, polemici che rispecchiano il carattere schietto, battagliero, orgoglioso di questo frate che è piuttosto un guerriero della penna. Di conseguenza, più che a un'opera meramente linguistica ci si trova di fronte alla summa degli studi storici di un' intera vita, o più propriamente a un dizionario storico-enciclopedico, nel quale le forzature puriste non sono né poche né insignificanti, perché il principale testo di riferimento rimane il vocabolario della Crusca, che a sua volta per la parte marinaresca si ispira agli studi dello stesso Guglielmotti, secondo i I quale ( è un evidente errore) tutto può e deve ancora derivare dall'antico linguaggio marinaresco italiano. Il riferimento privilegiato del Guglielmotti è non casualmente il periodo remico, che segna il massimo fulgore delle repubbliche marinare italiane, quindi del loro linguaggio. Anche per questa ragione le vere e proprie crociate puriste dell'autore diventano il motivo centrale dell'opera. Dati i tempi, si tratta di un pregio altamente patriottico che giova all'immagine della nuova marina italiana presentandola come erede di un glorioso passato, neutralizzando la sua frequente esterofilia e cancellando il più possibile i riflessi linguistici di tale esterofilia; ma con il Guglielmotti si passa da un estremo all'altro. Il suo puri-
• Napoli, Antonio Morano 1879.
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smo fuori tempo e fuori misura è anche il più forte limite dell'opera, che rimane spesso poco aderente alla realtà del tempo presente e non prende atto che il linguaggio marinaresco - e ancor più quello della seconda metà del secolo XIX - è inevitabilmente il più permeabile di tutti, non solo perché il marinaio conosce porti, navi ed equipaggi di altri Paesi, ma anche perché le marine del tempo sono quelle che assorbono più rapidamente l'incessante progresso tecnico, nel quale la marina italiana non può non essere tributaria delle marine maggiori. Anche questo vocabolario dedica, di conseguenza, uno spazio marginale e tutto sommato residuale - agli argomenti teorici e tecnici che più dovrebbero interessare gli ufficiali di marina. Per giunta, molte definizioni e previsioni del Guglielmotti in campo militare e navale sono poco calzanti, incomplete o errate. Limite che gli va perdonato, perché si tratta di materie nelle quali gli stessi ufficiali di marina del tempo sono, in genere, poco versati: ma perché il Guglielmotti non si è rivolto, per esempio, al Bonamico, al Vecchj o ad altri scrittori coevi navali del tempo? perché, almeno non ha letto i loro scritti? Interrogativo che spesso andrebbe ripetuto, anche per altri casi, il che non toglie che sia legittimo e important~ soprattutto in questo caso. Nemmeno dal punto di vista storico il vocabolario è esente da approcci distorti; non vi si trova alcuna traccia, alcun riflesso linguistico della decadenza delle repubbliche marinare italiane e, in genere, della marginalità delle marine degli Stati mediterranei nei secoli XVIII e XIX, alle quali si contrappone la crescente, soverchiante importanza anche tecnologica delle grandi marine. Con un siffatto approccio distorto e ristretto, il purismo del Guglielmotti diventa un freno, e non uno stimolo, per la conoscenza della problematica marittima del momento, della quale pur c'è gran bisogno in Italia. E poiché egli intende riferirsi pressoché esclusivamente ad autori della Crusca (e comunque del periodo remico e solo in secondo luogo velico), ignora i principali autori italiani e stranieri coevi e del secolo XIX (Clausewitz, Jomini, Arciduca Carlo, Marselli, Ricci, Perrucchctti, e - per la parte strettamente navale - oltre ai già citati autori italiani - i numerosi, importanti autori francesi e inglesi del periodo velico, come Padre Hoste e Clerck, ad eccezione dello Jal). È vero che cita sia pur sporadicamente, e non senza alcune critiche, i precedenti autori italiani di dizionari o vocabolari del secolo XIX come lo Stratico, il Grassi, il Parrilli, il Fincati; ma per dare un'immagine sufficientemente organica e aggiornata del patrimonio linguistico in un dato momento storico evidentemente non basta richiamarsi agli autori e linguisti del passato; occorre riferirsi prima di tutto alla letteratura coeva. Tutto ciò è provato dai termini presi in esame amò di esempio nel Tomo I (cap. VI), i quali dimostrano che il Guglielmotti: - non ha un concetto chiaro e accettabile di arte militare marittima, strategia e tattica navale; - pur diffondendosi anche sul la terminologia relativa al periodo velico, non lo vede di buon occhio e come parecchi altri prima di lui (ma siamo nel
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1889!) afferma semplicisticamente che con la propulsione a vapore strategica e tattica sono tornate le modalità tattiche già adottate nel suo prediletto periodo remico; - in anni in cui la propulsione a vapore si è ormai affermata come unico sistema di movimento, afferma più volte che la vela sarà sempre un utile sistema ausiliario del vapore; - crede ancora - e troppo - nello sperone, anche quando le artiglierie navali e le corazze sono ormai protagoniste del combattimento; il Duilio è già in mare, eppure presenta !"'ariete" armato solo di rostro come "arma invincibile"; - non crede all'avvenire del siluro, e descrive ancora la torpediniera come armata di un'asta con torpedine alla sommità, da inserire sotto la carena del naviglio nemico per poi fuggire. Evidentemente si tratta di una voce antiquata, mai aggiornata fino al 1889; - trascura l'argomento-chiave delle formazioni di combattimento più adatte alla propulsione a vapore, già affrontato, per esempio, dal Parrilli; - è contnuiu alla sistemazione delle artiglierie in torri corazzate centrali girevoli che si è ormai affermata ovunque, suggerendo comt: sistema alternativo la costruzione a prua di un ridotto armato di artiglierie ( che dunque non possono ruotare di 360°), ad imitazione di quanto si faceva nel periodo rernico con le "rembate" delle più perfezionate galee e delle galeazze. A questo quadro, già abbastanza eloquente, aggiungiamo ora altre sfumature non secondarie, che emergono da una più particolareggiata analisi dei principali termini marinareschi del vocabolario.
Armata [navale). È definita, in modo troppo generico, "moltitudine di navi da guerra". Riferendosi esclusivamente alle marine maggiori del periodo velico, si afferma che "deve avere tre squadre, e ciascuna squadra tre divisioni. oltre alla riserva". TI termine Armata, riferito alla notta militare, all'inizio del secolo XX cade in disuso. L'armata diventa una Grande Unità complessa dell'esercito, che raggruppa alcuni corpi d'armata (ciò vale fino alla seconda metà del sec. XX). Ma, per il vocabolario, "particolarmente tra noi, che siamo stati i restauratori e maestri della marineria. dovrebbesi lasciare agli stranieri Flotta per Armata. ed Armata per esercito". Arrembare. A questa voce si attribuisce il significato di "saltare a viva forza col/'arme in mano sull'alto del bastimento nemico per impadronirsene". Essa è ovviamente riferita al periodo rcmico e al periodo velico; peraltro nell'ultimo paragrafo si afferma che "il combattimento singolare o generale dei navigli non può dar la vittoria se il nemico non sia distrutto o sottomesso. La vittoria per cattura, più utile, più nobile e più morale, non si è conseguita mai, né potrai mai conseguirsi senza l'Arrembare" . Ma anche nel primo periodo del vapore, la crescente potenza delle artiglierie e il culto dello sperone avevano già reso chiaramente anacronistico l'arrembag-
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gio. Stranamente il Guglielmotti non ricorda che già nella battaglia di Lepanto (I 571 ), che chiude il periodo remico, furono protagoniste le artiglierie e non il rostro; mentre già nella battaglia di Navarino ( 1827), l'ultima importante del periodo velico, le forze navali franco-anglo-russe avevano letteralmente demolito la flotta turca con le loro moderne artiglierie, senza bisogno di ricorrere all'arrembaggio.
Cannone. Dopo aver descritto i vari sistemi di chiusura della culatta nei moderni pezzi a retrocarica, si osserva che "tutti questi sistemi hanno il radicale difetto difar più debole proprio quella parte che vorrebbe essere più forte". Si elogiano perciò i grandi cannoni da 100 tonnellate ancora ad avancarica del Duilio (visti dal Guglielmotti alla Spezia), nei quali "con savio consiglio, ogni chiusura artificiale è stata eliminata, e tutto solido si è costruito l'enorme fondo". Eppure, il Guglielmotti apprezza molto i vantaggi della retrocarica per i fucili .... Contrammiraglio. Citando lo Stratico, il Parrilli, il Carena, il Fanfani , viene definito "quell 'ufficiale generale dell 'armata marittima, che comanda la terza squadra in battaglia". Questo va bene per l'origine storica del grado: ma al momento, evidentemente il suo ruolo non è più quello. Convoglio: "scorta dei bastimenti da guerra ai mercantili''. Ma ne fanno evidentemente parte i mercantili stessi, non solo la scorta. Anc he qui, si tratta del significato originario del vocabolo: non di quello già in vigore da secoli. Corsa, crociera, corsaro. Quest'ultimo vocabolo è rettamente definito, ben distinguendolo dal pirata; ma per gli altri si ignorano completamente i significati più propriamente militari, anche se corsaro deriva evidentemente da corsa. E così, tra i numerosi significati attribuiti a guerra mancano proprio quelli di maggior interesse navale (guerra di corsa o di crociera, contrapposti a guerra di squadra) ricorrenti nella letteratura coeva (tant'è vero che nel 1856 una Convenzione internazionale aveva abolito la guerra di corsa, che ovviamente dava fastidio soprattutto all'Inghilterra). L'unico significato di interesse navale attribuito dal vocabolario a corsa è "via per la quale il bastimento cammina a suo viaggio con determinata direzione, velocità e distanza", mentre crociera è "navigazione fatta su e giù, sopra un tratto di mare determinato, incrociandone per ogni verso". Divisione. Per quanto detto prima, non è sempre " la terza parte di una squadra". Ferriero. Questo termine, coniato senza fortuna dallo stesso Guglielmotti, significa "nave con scajò in ferro". Altri strani termini da lui - e solo da lui - introdotti sono tavoliero (nave con scafo in legno), corazziero (nave con scafo corazzato, cioè corazzata, remiero (nave propulsa a remi), veliero (nave a vela), vaporiero (nave a vapore). Tutte voci entrate in uso, ad eccezione ( chissà perché) di veliero. Fregata recentissima (sic). Viene definita "quel naviglio di prim 'ordine che, fornito di poderosa corazza e di grossa artiglieria, entru nella prima linea
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delle armate navali". Anche le corazzate del tempo avevano "poderosa corazza e grossa artiglieria": allora, qual' era la differenza? Marinaro. Si afferma che "il marinaro, oltre alla meccanica e ingegneria del suo mestiere, maneggia ogni sorta di armi da fuoco, da punta e da taglio, trasporta cavalli, sbarca in terra, attacca e difende le piazze; entra in somma e primeggia in tutte le partile dell'arte militare". E alla voce Fanteria di marina si afferma che dal secolo XV e XVI venne sempre crescendo il numero dei marinai e diminuendo il numero dei soldati a bordo, piuttosto malvisti, sì che "oggidì il marinaro fa per tutti". C'è da obiettare che fa per tutti fino a un certo punto, e non in tutte le marine: perché non è vero, e non è mai stato vero, che il marinaio "entra e primeggia [addirittura! - N.d.a.] in tutte Le partite del 'arte militare". Anche nel periodo velico gli sbarchi, e/o l'attacco e difesa delle piazzeforti marittime sia pur sfruttando l'apporto di fuoco delle navi, competevano normalmente all'esercito. Solo fino a quando, sempre nel periodo velico, si è fatto ricorso all'arrembaggio, al marinaio veniva richiesto anche di "maneggiare ogni sorta di armi dafùoco, da punta e da taglio". Già da tempo gli equipaggi delle navi erano sempre più specializzati c non andavano più all'arrembaggio; se mai taluni compiti (ad esempio, gli sbarchi) erano affidati - se esisteva - alla fanteria di marina, mentre i Iconcorso degli equipaggi a operazioni "terrestri'' era eccezionale e comunque sussidiario. Palesemente esagerata, infine, l'affermazione che il marinaio primeggiava in tutte le operazioni belliche, sapeva fare tutto meglio degli altri. Nave. Dopo aver descritto il significato anticamente attribuito a questo vocabolo, per l'attualità la si definisce "i/ più grosso dei nostri bastimenti mercanti/i, attrezzato a tre alberi quadri, e capace da trecento a duemila tonnellate di carico". E le imbarcazioni con capacità di trasporto al di sotto delle trecento tonnellate di carico, come si definiscono? Si fa rifeòmento solo ai tipi di nave mercantile (a vela) previsti nel 1872 dalla Gazzetta Uj: ficiale; ma si trascura che, nel 1889, il naviglio maggiore mercantile è ormai in gran parte a vapore. Soprattutto, non si considera che il termine nave va riferito anche al naviglio da guerra. Eppure, lo stesso Guglielmotti alla voce Bastimenti italiani del nostro tempo parla di "nave di fila o di linea", mentre già da tempo tra Ferdinando Acton, il Brine il Saint-Bon si dibatteva l'alternativa navi (da guerra] piccole / navi [da guerra] giganti, espressione che tra l'altro fa parte di studi pubblicati dal Maldini (importante autore del tempo anch' esso ignorato dal Guglielmotti , che pure cita abbastanza spesso la Rivista Marittima). Squadra. Non è sempre vero che " in genere, si può dire una terza parte dell'armata". Viene invece concepita, al tempo, come una parte consistente dell ' armata stessa, di composizione variabile. Manca anche la frase guerra di squadra, che il Bonamico e altri, come già visto, contrappongono a guerra di corsa.
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Sommergere. A questa voce si descrive - con entusiasmo rivelatosi ingiustificato - il Costerdam, "sostanza cellulosa, amorfa, leggera, elastica, incombustibile" ricavata dalla "stoppia delle noci di cocco", che secondo il Comandante Pallu-de la Barrière "rende insommergibili i navigli, quando un proiettile qualunque vi fa breccia e lascia l'acqua penetrarvi''. Ingiustificata e quasi comica la critica finale all'impiego delle corazze in acciaio: nonostante la disponibilità di questo nuovo materiale, "alla Spezia [cioè ali' arsenale di La Spezia, dove si costruiscono le navi da guerra - N .d.a.] non lasciano le corazze ternane [cioè provenienti dalle acciaierie di Temi N.d.a.]". Alla voce Rimbalzo si raccomanda molto opportunamente agli ingegneri navali di favorire il rimbalzo rendendo oblique le pareti dei parapetti, delle casematte, delle torri corazzate ecc.; però si pretende che anche gli ufficiali di vascello governino di persona il timone "a piccole riprese, anche correndo a tutto vapore, perché il naviglio possa scuotersi dai fianchi palle e si/ud". Evitare i siluri va bene; ma come è possibile schivare con accorta navigazione anche le palle? Sottomarino. " Ora tutti quelli che attendono alle torpediniere va~heggiano viaggi sottomarini, come si può vedere dalla Rivista Marittima, ottobre 1885, pag. 152. Problema difficilissimo: perché là sotto manca tutto, infine alla luce e all'aria: perciò siamo ancora ai progetti, alle prove, e sotto agli stenti parziali della durata e sicurezza, checché se ne dica il contrario, sì nelle conferenze, sì pei giornali". Se ne deduce che il Guglielmotti, oltre a non credere nell' avvenire del siluro, è assai scettico anche sulle possibilità del sottomarino. Torpedine. "Quella nuova specie di petardo dinamico che, messo sotto la carena del bastimento nemico, e acceso da innescatura elettrica, meccanica, o fulminante, detona con terribilissimo scoppio e mette in pezzi il naviglio" (per Petardo si intende "quella sorta di artiglieria minore a guisa di mortajo, la quale. carica di polvere, si attacca colla bocca rivolta al muro o alla porta che si voglia atterrare"). Si distinguono due tipi di torpedine: il Ginnoto, "che affonda, perché esploda, nelle posizioni volute difendere, sulla base dei porti, sulla foce dei fiumi, nei luoghi di sbarco", e il Siluro, "che per.forza esplosiva o aria compressa corre da sé stesso a cercare il nemico fino a quattrocento metri di distanza". Qui va osservato che il vocabolo "ginnoto" non è mai entrato nell'uso comune, sostituito da mina, al quale però il Guglielmotti, anche in campo navale, attribuisce un significato diverso. Né è vero che il siluro al momento "corre da sé stesso a cercare il nemico": viene lanciato da un tubo ad aria compressa che gli imprime una certa traiettoria per così dire obbligata (i siluri a testata autocercante sono ancora molto al di là da venire). Per di più il Guglielmotti, clamorosamente smentito dalla storia, prevede che "la torpedine.finirà alla maniera stessa del petardo, dopo percorsa tutta la curva ascendente di spavento, e calante d'incertezza". Giudizio confermato
-204- - - -- IL-PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. III (1870-1915) - TOMO Il anche alla voce Siluro, dove si afferma, che "cotesto novissimo petardo navale (sic), che perturba La fantasia dei moderni, percorrerà tutta la traiettoria delle armi simiglianti: voga, stanchezza, abbandono. Intanto ciascuno studia, e tutti tacciono". Condanna netta, dunque, anche se annacquata nella frase finale: "l'esperienza marziale, anziché non i raziocinf peripatetici, diranno il torto ed il diritto de' nuovi sistemi attorno alle torpediniere, e silurismi''.
Torpediniera. "Piccola navicella [si noti il banale errore grammaticale- N.d_a.] vaporiera, assegnata a cacciare le torpedini nel corpo ai maggiori nemici. Macchina poderosa, poca gente, vicinanza al lido"_ Benché si parli di torpedini (quindi, sia di ginnoti che di siluri), il Guglielmotti esclude proprio l'impiego di quest' arma più moderna da parte della torpediniera, che (come si è visto), è armata solo di "un 'asta lunghissima a prua con che possa cacciare sotlo la carena nemica la rovina [cioè la carica, il ginnoto - N_d.a.] e fuggire"_ E dopo averla definita una nave costiera, più sotto si parla anche di torpediniera d 'alto mare, "naviglio difbrti dimensioni, che può lanciarsi a qualunque viaggio lontano" (sempre armato dell'asta?)"_ Peggio ancora, il Guglielmolti - come il Mahan - non crede nemmeno a questa nave: ''jà le veci degli antichi brulotti, e trajùrelli; ne seguirà la sorte". Non si prevede, però, la stessa fine per l'ariete torpediniero . .. Vela. Si afferma che "sarà sempre indispensabile ausiliario di qualunque naviglio d 'alto mare". Per provare quest'asserto storicamente infondato e obsoleto già allora, si fa riferimento a un episodio recente, trascurato dagli storici: anche ai grandi vaporieri il carbone finisce, la macchina si rompe, e non resta altro che il proprio giuoco di velatura ausiliaria, o lo abbietto e dispendioso strascico straniero [cioè il rimorchio da parte di navi straniere - N.d.a.]; come in questi giorni ha dimostrato a tutti l'esperienza del grande piroscafo la Venezia, portando a Massaua la spedizione del generale Asinari di San Marzano [nel 1887-1888; uno dei rarissimi accenni alla storia più recente - N .d.a.].
Le predette voci, derivanti da una prima scrematura del vocabolario, non richiedono particolari commenti. Ad esse andrebbero aggiunte numerose e importanti omissioni, causate dal mancato studio approfondito della letteratura navale coeva e antecedente, come - potere marittimo, dominio del mare, correlazione terrestre-marittima, difesa dello Stato, difesa marittima o costiera, ecc. Si parla solo di Difesa navale, riferendola a una sola nave: "quella resistenza che un bastimento fa per non essere preso dai nemico". A sua volta, la Difesa nazionale è stranamente concepita solo come difesa terrestre, alla quale si preferisce l'offensiva, senza chiedersi se essa sia possibile. Si tratta infatti di " quella energica resistenza, che un popolo tutto oppone alla invasione straniera. Giovano abbarramenti e guardie ai confini, ai monti, ai fiumi, alle strade [e le coste? - N.d.a.]; ma il più sicurv ed economico metodo di tale as-
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sunto, insegnato da Scipione ad ogni altro gran capitano, sino a noi, consiste nel portar la guerra in casa al nemico". A parte quest'ultima banalità fuori luogo, proprio il Guglielmotti ignora che 1'invasione nemica potrebbe venire anche (se non soprattutto) dal mare, come temono gli scrittori navali coevi fino a fame il motivo degli studi strategici navali. Per ultimo, a ulteriore dimostrazione del carattere e dei limiti dell'intera opera del Guglielmotti - e non solo del vocabolario - merita una breve citazione il suo dotto studio del 1866 su un bassorilievo raffigurante due navi romane, scoperto nel 1863 nell'area dell'antico porto romano di Ostia.Io Dal minuto esame delle due navi egli deduce che i Romani erano stati maestri anche nella navigazione a vela, la cui arte avevano ereditato non dai cartaginesi o dai greci, ma dal "ceppo Pelasgo" italico, cioè dagli antichi Tirreni e Etruschi: per questa ragione "il volgare dei marinari si incontra col latino dei classici". Gli insegnamenti degli antichi romani sono senz'altro tornati di attualità; infatti col vapore la forza libera è tornata in vigore sulle navi militari, e il movimento volontario si è sostituito per tutto alla forza dispotica del vento [ ... ]. Un 'altra volta vediamo le navi lunghe, un 'altra volta i rostri, un 'altra volta la potenza maggiore rimessa sulla testa, più che sui fianchi dei bastimenti. Tornano le torTi, i plutei, le catafratte, le corazze; e l 'ordinanza dei piroscafi in battaglia sarà simile a quella delle triremi. In pochi anni abbiamo veduto alla M11rina quattro tra~formazioni: la vela, la ruota, l'elica, la corazza. Siamo in punto di veder la quinta. Nondimeno la vela non è stata mai, né sarà mai, totalmente abbandonata: e ciò per le ragioni dell'economia de/l'esercizio, dell'aiuto e della sicurezza.
L'insostituibile ruolo ausiliario della velatura, sostenuto anche nel vocabolario, è ancora attuale nel 1866 (anche le corazzate di Lissa erano dotate di velatura ausiliaria): ma non lo è più - almeno per le navi da guerra - oltre vent'anni dopo, quando viene pubblicato il vocabolario. Per di più, il Gugliclmotti insiste sulla perdurante utilità dell'antica abitudine romana, rimasta in auge nel periodo remico, di abbassare e mettere sotto coperta gli alberi e le vele prima del combattimento: altrettanto dovrà essere il maneggio del 'alberatura nei piroscafi corazzati, se pur si vorrà che escano dalla rada, che lascino la costa e che si avventurino a largo mare per navigare e per combattere dovunque occorra. Già è dimostrato che essi 11011 potranno affrontare il nemico cogli alberi ordinari ritti in piedi ed al posto. li giuoco tra i corazzati è ridotto a poche tavole: tutto ciò che non è difeso dalle piastre della corazza sarà prestamente distrutto dal1'artiglieria del nemico[ ... ]. Perciò i monitori americani hanno preso /'estre-
10 Alberto Lumbroso, Carteggio di un vinto (lettere inedite del/ ·ammiraglio Persano), Roma, Ed. "Rivista di Roma" 1917, p. 46).
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mo partito di levar via tutto il corredo degli alberi e delle vele, per essere pronti a cozzare (senza pericolo di avarie ne/l 'armamento nautico) contro il corpo del bastimento nemico, menati a furia dalla sola forza del vapore. Potevano farlo nei laghi, sui fiumi, vicino a terra. Ma a largo mare bisogna essere presti ad ogni esigenza non solo del 'arte militare, ma anéhe dell'arte nautica.
A questa ennesima forzatura purista nel campo delle costruzioni navali e del la tattica del vapore - che deve ritornare sic et simpliciter a quella delle triremi romane - corrisponde dunque una forzatura anche nel campo del linguaggio. La pretesa di far derivare esclusivamente dall ' antico linguaggio degli Etruschi, dei Tirreni, dei Romani il linguaggio marinaresco del momento non ba alcun serio fondamento scientifico: pare evidente che il linguaggio dei naviganti del tempo assorbiva più di tutti gli altri voci dell'intero bacino mediterraneo e non solo nostrane. Pur essendo riscontrabili senza troppe difficoltà, i predetti limiti molto raramente emergono dalla critica storica, nella quale a tutt' oggi non si trova un'analisi sufficientemente approfondita e obiettiva degli eCTettivi contenuti del vocabolario.11 Manca anzitutto una recensione della Rivista Marittima, che inspiegabilmente nel t 889, quando viene pubblicato, non usa ancora recensire le opere di interesse navale italiane e straniere; comunque dopo la morte del Guglielmotti (1893) la Rivista pubblica una sobria commemorazione del Salvati (un esperto in materia), nella quale il vocabolario viene liquidato con le solite generiche frasi di elogio. 12 Altro breve ricordo nel 1912, nel centenario della nascita, nel quale si afferma che i I vocabolario " tramanda purissimo alle future generazioni il prezioso patrimonio della nostrana tecnologia marinaresca, in cui il Guglie/motti riassume, piacevolmente ammaestrando, le più minute nozioni dell'arte navale". 13 L'analisi coeva più ampia - ma anche più lusinghiera - del vocabolario compare proprio nella recensione (insolitamente ampia) che gli dedica la Rivista Militare. 14 L'autore è uno scrittore militare coevo di una certa fama, il colonnello Temistocle Mariotti, che apprezza particolarmente la reazione del Guglielmotti contro il pronunciato imbastardimento della lingua mi li tare italiana a opera soprattutto del francese, così come il suo intento cli superare, con un
•°
Cfr. Alberto Guglielmolli, Delle due navi del Principe di Torlonia, in "Giornale Arcadio di lettere, scienze e arti navali", novembre-dicembre 1864 (pubblicato nel 1866). Si ve<la anche, in merito il commento de l Randaccio in " Rivista Marittima" 1870, Voi. II pp. 1373-1376. 11 Il lavoro più accurato su vita e opere del Gugliclmotti è quello di Mario Tosi, la vita e le opere di A. Guglie/motti. in "Nuova Antologia" Vol. CLXVI, Fase. 1000 - 16 agosto 1913, pp. 605-628. Anche il Tosi, però, trattando brevemente del vocabolario non fa eccezione e si unisce al consueto coro delle lodi incondizionate. 12 Ferdinando Salvati, Padre M. Alberto Guglie/motti, in "Rivista Marittima" dicembre 1893, pp. 553-557. n 1/ Padre Alberto Gugliemotti nel centenario della sua nascita (direzionale), in "Rivista Marittima" febbraio 19 12. 1 • In "Rivista Militare Italiana" Anno XXXIV Vul. li maggio 1889, pp. 3 19-329.
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lavoro a dichiarato sfondo interforze, la tradizionale separatezza della cultura militare (cioè dell'esercito) da quella navale. Il Mariotti è buon profeta quando osserva che tale separatezza "mantiene nell'Italia odierna un così deplorevole e pericoloso stato di debolezza, che non rimediandovi in tempo, potrà essere fecondo di tremende sventure nazionalt' (come in effetti è avvenuto nel XX secolo). Sulle voci riguardanti la guerra terrestre, peraltro, il Mariotti non ha nulla da dire; e il suo giudizio rivela un debole spessore teorico specie quando riporta integralmente nella recensione proprio la voce tauica, a dimostrazione di una supposta competenza teorica che il Guglielmotti, tanto più nel campo terrestre, non aveva e non poteva avere. Nel 1892 Francesco Corazzini di Bulciano, a sua volta autore di un vocabolario che esamineremo in seguito, pubblica un opuscolo dal titolo Inquisizione sul Vocabolario marino e militare del Padre Maestro Alberto Guglielmotti, 15 che, come già lascia capire il titolo stesso, è una vera e propria requisitoria (acrimoniosa e esagerata) contro il vocabolario del Gugliclmotti. Dopo averne esaminato molto criticamente parecchie voci, il Corazzini riscontra la necessità di pubblicare una nuova opera che ne elimini i molti difetti e lacune; infatti almeno La quarta parte del libro [cioè del vocabolario del Guglie Imotti - N .d.a. J è inutile ingombro e inoltre le etimologie spesso sono strane, bislacche, ridicole (sic). Le inesattezze, il d!fetto di varii significati de· vocaboli e gli errori non sono pochi[ . .. ]. L 'autore non mai o di rado ricorre a fonti manoscritte [ ... ]. Grave lacuna è quella del linguaggio dialettale. Certo noi dobbiamo dire italiane anco le marine delle repubbliche del Medioevo, ma il linguaggio di quelle non fu nazionale, comune a tutta Italia. Da questi particolari linguaggi, quanta ricchezza c'è da portare al vocabolario nautico della Nazione!
L'anno dopo - quello della morte del Guglielmotti - un 'autorità come Carlo Randaccio pubblica (sulla Nuova Antologia e non sulla Rivista Marittima, come gli altri suoi già citati studi) un saggio sulla vita e sull'opera del Guglielmotti, 16 nel quale accanto alle solite lodi all'intera opera del frate e in particolare al vocabolario, non manca di rilevare anch'egli manchevolezze e errori analoghi a quelli indicati dal Corazzini, sia pure senza l'acrimonia, la vis polemica e le esagerazioni di quest'ultimo. Il Randaccio loda il metodo del Guglielmotti, nota che il vocabolario più che tale è un'utile enciclopedia marittima, apprezza la chiarezza e precisione delle definizioni, la "profonda scienza archeologica e storica" e "il possesso pieno delle materie tecniche, specialmente marinaresche" che l'opera rivela. Al tempo stesso, contradditoriamente la definisce" imperjètta", perché
" Catania, Tip. Martinez 1892. Carlo Randaccio, // P. Alberto Giglielmolti, in "Nuova Antologia" Fase. XXIII - I dicembre 1893, pp. 399-409. 16
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il Guglie/motti, infatuato della sua Italia, volle ignorare che non poche voci militari e marinaresche italiane non hanno radice latina o greca, bensì germanica; non attribuì la dovuta parte alla marina a vela dei secoli XVII, XVIJJ e del principio del secolo XIX, ed al linguaggio tecnico dei marinari settentrionali che quella marina crearono e fecero grande: non conobbe i,ifìne i dialetti italiani, soprattutto il genovese, il quale informò, assai più degli altri dialetti, il linguaggio marinaresco non solo d 'Italia, ma di Francia e di Spagna; onde errori ed omissioni nel vocabolario del Guglie/motti, che si potevano facilmente evitare. Per le stesse ragioni egli, scrittore sovrano di cose nautiche, riuscì nel suo vocabolario etimologo spesso infelice.
Questi difetti secondo il Randaccio non infirmano il valore dell'opera: cosa della quale v'è da dubitare, visto che essi mal si conciliano con precedenti lodi, nelle quali il dotto frate è presentato come pienamente padrone della materia. Anche in precedenza, recensendo sulla Rivista Marittima le opere del Nostro pubblicate fino a quel momento, il Randaccio afferma che "nei libri del Guglie/motti è pr<?fonda l'erudizione, pura la lingua, vigoroso lo stile; e inoltre, cosa rarissima in un lavoro letterario italiano, vi è dimostrata la più precisa cognizione di tutta l'arte nautica di quei tempi, ed usato. ogni qual volta occorra, con la maggiore proprietà e giustezza, il linguaggio marinaresco italiano"' 1. Come si conciliano questi giudizi lusinghieri senza riserve con quelli della Nuova Antologia, visto che il linguaggio del vocabolario è lo stesso di
tutte le sue opere precedenti? Alle contraddittorie critiche del Randaccio vanno aggiunte quelle - relativamente recenti e ancor più aspre - del linguista prof. Giulio Bcrtoni, che nella sua Prefazione al Dizionario di Marina medioevale e Moderno edito dal1'Accademia d'Italia (1937) 18 riscontra a ragione nel vocabolario "uno spirito polemico poco atto alla oggettività sc:ientifica", al quale si aggiungono altri e ben più pesanti difetti: le informazioni storiche sono numerose, ma spesso inesatte; forme e significati non appaiono molte volte sufficientemente giustificati; 11011 è fatta di solito distinzione tra termini antichi e moderni; le etimologie sono spesso fantastiche, e su di esse disgraziatamente sono fondate qualche volta definizioni inesatte.
La conclusione del Bertoni non è certo tenera: "all'entusiasmo e alla passione non si accompagnava in lui altrettanto discernimento critico. Molte definizioni hanno un valore più retorico, che scientifico". Le critiche del Bertoni investono gli aspetti puramente linguistici ed etimologici, senza occuparsi - come dovrebbero - dell'aderenza o meno del vo-
17 Carlo Randaccio (R), P. Alberto Giglie/motti, opere varie, in "Rivista Marittima" 1870 - Voi. ll, p. 1371. 18 Giulio Bertoni, Prefazione al Dizionario di Marina medioevale e moderno, Roma, Reale Accade Hua d' Jlal Ìa J 937.
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cabolario alla realtà militare e navale coeva. A quanto ci risulta, l'unico a sfiorare questa non secondaria interfaccia è il colonnello Cavaciocchi, il quale nel 1908 giustamente nota che le definizioni del vocabolario attinenti all'arte della guerra sono confuse, perché "l'una e l'altra sono denominate ora scienza e ora arte; la strategia comprende anche quella che comunemente dicesi tattica e la tattica si può scambiare con l'ordinamento". 19 Lasciamo volentieri al Randaccio, al Corazzini e al Bertoni la responsabilità delle loro critiche. Dal punto di vista linguistico ci limitiamo a concordare con il Randaccio, il quale critica la pretesa della Crusca di attenersi esclusivamente all'autorità dei classici italiani, pretesa tanto più nociva in un periodo di rapide trasformazioni. Gli stessi limiti della Crusca si riscontrano nel Guglielmotti, il cui vocabolario, troppo ambizioso, è un dizionario storico -enciclopedico più che un' opera linguistica di attualità, un vocabolario marinaresco più che navale (cioè riferito alla marina da guerra) e un'opera che, smentendo il titolo, tratta solo marginalmente - e non senza errori - la parte relativa alla guerra terrestre e alle sue relazioni con la guerra marittima. Il tutto in una prospettiva mediterranea e si direbbe quasi antieuropea, la quale trascura il molo e l'esempio delle grandi potenze marittime del tempo - che non casualmente si affacciano tutte all'Oceano - e quindi si rivela angusta, quando non fuorviante.
Il ristretto panorama - dominato dal Corazzini - delle opere linguistiche da fine secolo XIX alla guerra mondiale Fino all'inizio del secolo XX non compaiono altre opere di importanza pari a quella del Guglielmotti. Eppure il Ministero della pubblica istruzione (si
noti: non quello della marina) con R.D. 5 febbraio 1891, n. 220 indice un concorso per un vocabolario di marina, andato a vuoto anche se prorogato al 31 dicembre 1900 con R.D. 31 gennaio 1897, n. 67. 11 nuovo vocabolario dovrebbe essere evidentemente dedicato alle scuole professionali di marina: tuttavia I ' intento del Ministero dimostra indirettamente che quello del Guglielmotti come opera linguistica non ha avuto grande risonanza, né viene ritenuto adatto per usi scolastici, anche se ha l'ambizione di affrontare, tra l'altro, il linguaggio marinaresco prevalentemente non militare (o non solo militare) del momento. Sono comunque abbastanza numerosi i lavori riguardanti la terminologia tecnica e relativa ad anni e materiali, tra i quali va anzitutto ricordato il Manuale di marina militare e mercantile ( 1891) del capitano di vascello Carlo de Amezaga,20 che riporta anche un'interessante nomenclatura relativa ad armi
19
Alberto Cavaciocchi, Della partizione teorica dell 'arte militare, in "Rivista Militare Italiana"
Anno LI Il - Voi. I V disp. 11 • - novembre 190R, p. 2304. 20 Milano, Hocpli 1891.
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portatili, artiglierie e materiali vari, nonché cenni sulle formazioni e sulle principali modalità relative agli sbarchi. Nonostante le sue finalità pratiche, quindi, questo manuale serve pur sempre a completare le nozioni fomite dal Guglielmotti su argomenti tecnici e d'attualità. Contribuisce a ricoprire un vuoto nel l'opera del Guglielmotti anche il Vocabolario di polveri ed e.!>plosivi del capitano di corvetta Ferdinando Salvati, che compare a puntate sulla Rivista Marittima a partire dal giugno 1891 fino al 1892, per poi essere pubblicata in seconda edizione nel 1893.21 Nel Proemio il Salvati così ne indica lo scopo: la grande varietà delle polveri da guerra e il numero ognor crescente degli esplosivi hanno reso malagevoli lo studio e le ricerche di questi composti, i quali per la maggior parte sono stati trattati in monografie speciali od in appendici di riviste e periodici tecnici. D'altra parte non sempre le informazioni date sono complete ed esatte, mentre quasi tutte poi mancano degli opportuni schiarimenti sulla costituzione chimica dei diversi composti, e sulle proprietà caratteristiche dei loro ingredienti.
Dopo aver indicato tra gli autori di riferimento i francesi Berthclot c Chalon e l'inglese maggiore CundiH, il Salvati avverte che per taluni composti ancora tenuti segreti (cordite, lyddite, melioite ... ) ha dovuto basarsi su induzioni, ritenendo però di non essere andato lontano dal vero. Nella conclusione della seconda edizione sono affrontati argomenti di grande respiro, come il contributo che gli esplosivi possono dare al progresso civile e militare e il loro grado di pericolosità se dovessero essere impi1.:gati da chi vuole sovvertire lo Stato. La descrizione dei vantaggi che le varie attività civili hanno ricavato dall'uso di esplosivi è accompagnata dalla meno banale tesi che il sempre più esteso sfruttamento in campo militare non solo delle polveri ed esplosivi più potenti, ma anche di tutti i ritrovati della scienza è diventato "uno dei mezzi più efficaci per assicurare la selezione delle razze più intelligenti e più civilizzate". Inoltre i progressi degli esplosivi e degli armamenti destinati a utilizzarli hanno "completamente eliminato" il pericolo delle invasioni barbariche, e hanno tolto paradossalmente a1la guerra "gran parte delle sue efferatezze". infatti le orde barbariche "non possono più trovare nel sovraccitamento delle loro energie individuali il compenso al loro difetto di armamento", come una volta accadeva. È a tali progressi che la razza bianca deve la sua prevalenza; "e se queste invenzioni non fossero esistite al tempo dell'insurrezione del Mahdi, chi può asserire che quelle turbe fanatizzate dall 'islamismo si sarebbero fermate in Egitto senza tentare di dilagare in Europa, come già jècero i loro antenati?". La guerra è diventata meno sanguinosa - prosegue il Salvati - perché ormai conta assai di meno la forza degli individui (e quindi la loro distruzione in battaglie senza quartiere), mentre invece "le macchine, gli strumenti, i mezzi di
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Roma, Forzani 1893.
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locomozione e difesa, i depositi di munizionamento e gli opifici vanno acquistando maggiore importanza", indirizzando le offese in parte contro questi obiettivi. Se ne deduce che forse in avvenire le gue"e saranno meno frequenti, appunto perché richiederanno tale una collettività di mezzi e di opere che sarà semprepiù difficile concretare, mentre sarà necessario mettere in gioco tali e tanti interessi che ben di rado si troverà una nazione che voglia irriflessivamente correre l'alea di un disastro; gli uomini si possono fino a un certo punto rimpiazzare facendo un supremo sforzo di patriottismo, ma per il materiale occorrono tempo, fatica, intelligenza e mezzi di varia natura, che ordinatamente in quelle circostanze fanno difetto.
D'altro canto, a parere del Salvati non esiste il pericolo che la divulgazione degli studi sugli esplosivi possa servire a chi intende attentare alla sicurezza dello Stato. È praticamente impossibile che una persona, senza destare sospetti, possa procurarsi le numerose materie prime occorrenti e i mezzi per impiegarle. La loro fabbricazione è pericolosa e molto complessa; comunque, potrebbero al massimo servire per vendette personali, non per sconvolgere l'ordinamento di uno Stato. Per raggiungere quest'ultimo scopo occorrerebbero "meccanismi lenti, costosi e d!fficili a costruirsi, manovrati da un personale numeroso, addestrato e disciplinato, cioè un 'organizzazione sapiente e complicata che solo un Governo può coordinare e far fanzionare". Al di là di considerazioni e previsioni delle quali la storia del XX secolo ha fatto giustizia dimostrando se mai il contrario, non si può contestare al lavoro del Salvati una grande utilità, non solo per i militari e per quanti si occupano del settore. Le numerose voci straniere da lui citate sono inevitabili: pertanto, almeno nel campo più strettamente tecnico-scientifico egli dimostra che il contrasto frontale tra purismo e antipurismo è superato e ininfluente, trattandosi solo di prendere atto della realtà dei tempi. Per il XIX secolo non sapremmo citare altro, se non un'Antologia Marinaresca di Angelo Russo (1897), con copiose note grammaticali e linguistichc.22 Dall'inizio del XX secolo fino alla guerra mondiale il panorama delle opere generiche, in grado di fare seguito a quella del Guglielmotti, si riduce a una sola: il voluminoso e pretenzioso Vocabolario nautico italiano [si noti: nautico e non navale o marittimo - N.d.a.] con le voci corrispondenti infranc:ese, spagnolo, portoghese, latino, greco, inglese, tedesco, compilato per commissione del Ministero della Marina (1900-1907; in sette Tomi) a cura di Francesco Corazzini di Bulciano, della marina antica, già insegnante ali' Accademia Navale di Livomo. 23
22 Roma, Fornmi 1897 (3 volumi). Si veda anche la recensione di Camillo Manfroni in "Rivista Marittima" novembre I 897, pp. 429-434. 21 Oltre ad essere pubblicati in anni diversi, i sette Tomi dell' opera sono editi da case editrici e/o tipografie diverse, probabile segno di difficoltà economiche: Tomo I (1900), Torino, Tip. Artigianelli;
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È prima e ultima opera del genere a ricevere il crisma dell'ufficialità dallo stesso Ministero della Marina, visto che è commissionato all'autore dal Ministro Brio ( 1896-1898) e che il Corazzini ha ricevuto incoraggiamenti, e elogi dalle più alte autorità della marina del tempo (oltre al Brin, i Ministri Palumbo, Bettòlo e Morin, che ordinano anche di fornirgli materiale di studio, di prestargli i libri della biblioteca del Ministero, ecc ..). Alla descrizione di questi autorevoli appoggi e dei suoi meriti scientifici il Corazzini dedica con ostentazione gran numero di pagine, ricordando tra l'altro che tra il materiale fornitogli dal Ministero si trova "un vocabolario messo in folio nelle lingue italiana, francese e inglese, di pag. 4 7 I e assai ricco, che vi è ragione di credere che sia del Cav. Salvati, uno dei più grandi lavoratori e di jàma ben inferiore al merito, perché oscurata dalla sua eccessiva modestia". Sulle circostanze della commissione dell'opera, tuttavia, il Corazzini - che pure non pecca certo di modestia come il Salvati-riporta anche una lettera del gennaio 1898 che non fa certo onore alle sue competenze linguistiche, nella quale il vice-ammiraglio Bettòlo, poi a sua volta Ministro, scrive che "il Ministro Brin, desideroso di potere in qualche modo e in qualche misura venire in aiuto al prof Corazzini, mi disse che avrebbe ben volentieri studialo se gli era possibile di farlo sotto una delle jòrme proposte dal Corazzini stesso, cioè offrendogli la compilazione di un vocabolario ... ". 24 Se ne deduce che, prima ancora che per un'oggettiva esigenza linguistica e per la particolare competenza dell'autore (anch'egli civile ed esperto della marina antica e basta), il Brin gli affida la compilazione di un vocabolario per venire incontro alle sue difficoltà economiche: gli viene infatti concesso un assegno di lire 2400 annue (poi ridotte a 2000 dal Ministro Bettòlo). Un maligno potrebbe osservare che, forse, il risvolto economico non è estraneo nemmeno al decennio circa dedicato dall'autore alla compilazione dell'opera. Sta di fatto che secondo l'autore essa avrebbe dovuto risultare ancor più ampia e ambiziosa di quanto è stata, visto che in un primo momento avrebbe voluto includervi anche "un portolano universale e la flora e fauna marina", dare maggior risalto a lla parte storica e per giunta fondervi il Vocabolario di polveri ed esplosivi del Salvati, che era stato già tradotto in francese e spagnolo. Evidentemente per contenere le spese di pubblicazione, questo programma non ha seguito. Ciò non toglie che, come già lascia capire il suo citato giudizio negativo del 1892 sul vocabolario del Guglielmotti, anche il Corazzini intende "colmare una lacuna". Obiettivo evidentemente condiviso - a soli die-
Tomo Il (1901) presso la stessa Tipografia; Tomo m (1903) "A 5pese dell 'autore", Firenze, Tip. Cooperativa; Tomo IV {1905), Firenze, Stab. Tip. Aldino; Tomo V (1906) " Vendibile presso l'Autore", Bologna, Stab. Tip. P. Neri; TomoVl come per Tomo V; Tomo VII {1907) "Vendibile presso l'Autore", Bologna, Tip. P. Cappuccini. Su vita e opere del Corazzini CfT. soprattutto il Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, 1st. Enc. lt. 1983, Voi. 28° pp. 704-706 (a cura di P. Pctroni). " Francesco Corazz ini, Op. cit., Tomo VT pp. ID-V.
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ci anni dalla pubblicazione dell'opera del Guglielmotti - anche dalle più alte autorità della marina del tempo, che lodano fin troppo il nuovo tentativo, nel quale, peraltro, sotto alcuni aspetti il Corazzini si contraddice rispetto alle precedenti affermazioni. Intende infatti eliminare dalla nostra lingua marinaresca i barbarismi e proprio quelle forme dialettali delle marine pre-unitarie che in precedenza aveva accusato il Guglielmotti di aver trascurato. Constata, infatti, che un 'altra difficoltà non piccola è quella dei dialetti venuti ad avvinghiarsi (sic) alla lingua nazionale. Questi bisogna recidere e buttar via [ perché, se sono entrati, già da molto tempo, nell'uso? - N.d.a.]. Ma l'impresa è tuff 'altro che agevole poiché spesso le voci nazionali non solo andettero in disuso. ma non sono registrate nei vocabolari, perché nei Dizionari generali sinora (çino alla Crusca in corso) non si registrava la lingua nautica [è vero solo in parte: la Crusca, come già si è visto, ha registrato non poche voci marinaresche del Gugliehnotti, che a sua volta ha attinto, come purista totale, dalla Crusca stessa - N.d.a.), e i vocabolari speciali della Marina italiana sono di data molto recente, onde la necessità di ricercarli nei vecchi manoscritti, e negli seri/tori che trattano o toccano di marina. 25
Con una tale impostazione, la nuova opera si avvicina a quella del Guglielmotti per il suo tendenziale purismo e per il tentativo di imporre un linguaggio in parte nuovo, anche se le singole voci, come sempre, dimostrano quanto sia difficile eliminare dal linguaggio parlato, solo per iniziativa <li qualche dotto, i riflessi della travagliata storia nazionale, della frammentazione in piccoli Stati e/o in repubbliche marinare in lotta tra loro e del conseguente, secolare predominio straniero. Tuttavia il Corazzini ba il non piccolo merito di volgersi in prevalenza all' attualità e di dare molto maggior spazio del Guglielmotti alle moderne tecnologie. Per contro, proprio come il predecessore da lui tanto criticato riporta parecchi particolari riguardanti le marine antiche, sulle quali ha pubblicato parecchi studi. Sempre come il frate, non è ufficiale di marina e non ha specifiche competenze nel vasto campo dell'arte militare marittima. Ne consegue che come sempre gli aspetti più propriamente militari del nuovo vocabolario lasciano spesso a desiderare, anche se la trattazione di talune voci riguardanti la tecnica delle costruzioni navali, le artiglierie ecc. - per le quali vi collaborano degli esperti della materia - è più soddisfacente di quella del Guglielmotti. Tra i pregi del vocabolario, si trova un esame approfondito - e una volta tanto riferito in prevalenza all'attualità- di importanti argomenti come: le Accademie Navali italiane e straniere (ivi compresi i programmi e - per l'Accademia di Livorno - persino i nomi dei comandanti), gli Organi Centrali della marina (voci Amministrazione Centrale e Amministrazione della Marina, le
2s Corazzini, Op. cii., Tomo li pp. V-Vl.
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Circoscrizioni Marittime, le voci acciaio, affusto, arsenale, Armstrong (ditta costruttrice inglese), cannone, corazza (vari tipi), elica, mitragliera, mitragliatrice, torpedine, torpediniera, cacciatorpediniere, siluro, torre (delle navi antiche e moderne) ecc. Per la prima volta compaiono anche vocaboli come aeronave, Marconi, telegrafo senza.fili. Sull'avvenire dei battelli sottomarini, pur accennando anch'egli alle difficoltà tecniche rimaste da superare, il Corazzini non è scettico come il Guglielmotti; lo stesso si può dire delle torpediniere. Infine, è il primo a fornire una sintetica ma utile biografia di parecchi personaggi antichi e moderni. Sull'altro piatto della bilancia, alla voce Guerra navale troviamo la discutibile affermazione (analoga a quella del Sechi) che "le guerre navali sono il più delle volte congiunte alle operazioni dell 'esercito terrestre. In questo caso le forze marittime sono sotto la direzione del comandante delle forze terrestri". E anche il Corazzini, come il Guglielmotti, omette di citare e descrivere i vari tipi di guerra navale che pur sono da molto tempo il pane quotidiano della pubblicistica coeva, né esamina la questione degli sbarchi, altro cavallo di battaglia di molti scrittori terrestri e navali del tempo. Per lui l'arte militare è solo terrestre: si limita a parlare di arte nautica, correttamente definendola "arte e scienza del navigare, e urte e scienza che somministra i mezzi e facilita la navigazione". Fa inoltre coincidere l'arte militare marittima con la strategia, che - un po' meglio del Guglielmotti - definisce "arte di fare piani di guerra terrestre o navale e dirigere le forze su punti opportuni, superiori a quelli del nemico, cercando di ottenere i vantaggi del luogo, delle possibili variazioni atmosferiche, dei possibili ostacoli; in conclusione è l'arte e scienza della guerra". Una definizione duale che vuol essere terrestre e marittima insieme, ma di fatto è più terrestre che marittima. È vero che sul mare acquistano rilevanza anche col vapore le condizioni atmosferiche: ma vi mancano i vantaggi del luogo e i possibili ostacoli, differenza che non è da poco. Senza contare che un siffatto approccio teorico risente del dogmatismo jominiano (cfr. Vol. I, cap. TT), dunque si attaglia unicamente alla guerra di squadra e offensiva, che solo le marine preponderanti possono condurre. E le marine inferiori, quale strategia dovrebbero adottare? Discutibile anche l'affermazione - oggi diventata di moda - che la strategia si identifica sic et simpliciter con l'arte e scienza della guerra. Se tutto è strategia, questo vocabolo perde qualsivoglia specificità, mentre la tendenza a identificarla esclusivamente con un solo aspetto, cioè il concentramento delle forze (sul punto decisivo, più che "su punti opportuni, superiori a quelli del nemico") diventa ancor più contraddittoria. Oltre tutto, anche la tattica fa più o meno ciò che la precedente definizione atribuisce alla strategia; perciò ancor meno convincente di quella di strategia è la definizione di tattica, "arte di porre in opera il disegno di una campagna navale". Altro approccio jominiano, che artificiosamente limita la strategia a scienza, studio, pianificazione, preparazione, riservando solo alla lattica (che pertanto è arte) la condotta effettiva delle operazioni. In realtà la stra-
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tegia non è solo concezione, progetto o piano, ma essa stessa già "pone in opera il disegno di una campagna navale", mentre è affare della tattica-anche secondo l' approccio clauwsewitziano - la ricerca della vittoria nelle battaglie e nei combattimenti. Decisamente inaccettabile (anche nelle definizioni allora ricorrenti) il concetto di battaglia, "fatto d'arme di terra o di mare, o l'affrontarsi di due eserciti o due armate, due divisioni, due squadre, due navi''. Se è così anche la battaglia - come la tattica - realizza il disegno di una campagna navale: e allora, qual è la differenza tra i due termini? Inoltre la definizione non è riferita, come dovrebbe essere, solo a uno scontro tra due annate navali o almeno tra importanti aliquote delle forze navali, ma persino a uno scontro tra due navi. Ciò è manifestamente assurdo, perché in tal modo si attribuisce alla battaglia anche il ben diverso e più ridotto significato di combattimento, a sua volta troppo genericamente definito ''pugna navale", cosa che va bene sia per la battaglia che per qualsiasi altro tipo di scontro o scaramuccia. Per armata (sottinteso navale, come all'epoca si usa) il Corazz ini intende
"l'esercito di mare, e per estensione lutto il naviglio da guerra di una nazione". Nulla da dire; ma subito dopo imbroglia le carte, proponendo di dividere le forze navali, come facevano gli antichi, in "armala= exercilus navali:/ ' e in naviglio o navi/e = classis". Distinzione non chiara o superflua, somigliante a una tautologia; appare infatti chiaro che l'armata sottintende un ins ieme complesso (Comandi, equipaggi, navi, infrastrutture terrestri ecc.), mentre il naviglio è solo tale. Il Corazzini vorrebbe poi che la divisione navale, anziché essere parte di una squadra navale (come tale, corrispondente almeno a un corpo d'armata - se non un'annata - dell'esercito), corrispondesse a un non meglio identificato "corpo di navi maggiore", mentre la squadra dovrebbe corrispondere a una brigata dell'esercito (che è sempre parte di una divisione). Insomma: i continui e non necessari confronti con la guerra terrestre e l'esercito servono solo a confondere le idee, fino a produrre un coacervo di spropositi come quest'ultimo, evidentemente da attribuire a pura e semplice superficialità dell'autore, che oltre a dimostrarsi totalmente profano di cose terrestri, non ha assimilato nemmeno il concetto di squadra come prima suddivisione di un ' armata navale. Sempre come il Gugliclmotti, egli non approfondisce affatto il problema delle formazioni; per giunta, le sue definizioni in merito ancora una volta creano confusione. Afferma, infatti, che "il navi/e in battaglia si ordina in una o più linee [ si noti: non file - N .d.a.]: la prima che va innanzi nell 'ordine di marcia, dicesi avanguardia la linea o le linee al mezzo dicesi corpo o battaglia; l'ultima, retroguardia. Se marciasi in ordine di jìla le 1re parti prendono lo stesso nome". Definizione evidentemente mutuata dagli ordini di battaglia frontali tipici del periodo remico, che all'epoca della Dreadnought, e con la prevalenza ormai netta del cannone sullo sperone, sono ormai obsoleti e comunque non possono essere indicati come unica soluzione. Crea ulteriori perplessità anche l' accenno a una "linea di velocità", che dovrebbe essere una sorta di li-
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nea di fili,.: "linea di combattimento formata, sul primo naviglio avanzato, senza guardare al posto che ciascun naviglio ha segnalato preventivamente". Dunque tale formazione sarebbe assunta come vien viene: il che ci pare strano, perché proprio in una formazione del genere c'è bisogno del posto prefissato per ciascuna nave, pena disordine e ritardi all'atto della sua assunzione e anche dopo. Del dibattito sulla preferenza da dare al cannone o allo sperone, e dell'ormai chiara affermazione del cannone, il Corazzini non dà alcun cenno. Le voci rostro e sperone sono trattate esclusivamente dal punto di vista della storia antica; solo nelle aggiunte al Tomo VI si precisa che "nelle navi moderne la ruota di prora (?) sostituisce, in molte navi da guerra, lo sperone, sporgente in avanti sotto la linea di galleggiamento, e prende perciò una configurazione speciale, ben diversa dalla primitiva, perché termina a punta. In tal caso è necessario dare alla prora una struttura solidissima, acciò che la nave non risenta alcun danno dell'urto che essa dà nell'investire la nave nemica". Desta perplessità anche la voce generica nave da guerra, nella quale si indica come suo primo requisito la velocità. Concetto di gran moda nelle costruzioni navali italiane del tempo, ma non per tutti i tipi di navi e tutte le marine: la stessa Dreadnought del tempo, ad esempio, colloca la velocità sullo stesso piano del1'armamento e della protezione. Quella del Corazzini è dunque un'opera voluminosa, che il vocabolario del Guglielmotti assume piuttosto la veste di un dizionario enciclopedico. Un dizionario che specie per la parte militare appare raffazzonato, confuso, poco affidabile, frutto di una materia che l'autore ha mal digerito, assimilato, capito. Le lodi di taluni alti esponenti della marina del tempo, sulle cui conoscenze in materia c'è da dubitare, appaiono di circostanza e certamente non sono frutto di uno studio comparativo e approfondito dell'opera, che avrebbe loro richiesto troppo tempo, in relazione ai loro impegni. L'opera è tuttavia lodata dal celebre scrittore coevo A.V. Vecchj, che recensendo sulla "Rivista Marittima" il Dictionnaire tecnique et nautique de la lvf.arine (1905) in quattro lingue (francese, inglese, tedesco e italiano)26 loda il Corazzini perché diversamente datale dizionario ha preso in esame anche gli importanti termini usati da due marine ricche di storia e imprese come quelle spagnola e portoghese. Al tempo stesso, però, con un indiretto ma chiaro riferimento all'incompetenza del Corazzini lo stesso Vecchj conclude, del tutto a ragione, che un lavoro di tale importanza avrebbe dovuto essere compilato da una commissione di esperti, con il Corazzini come presidente. La Rivista Marittima recensisce - chissà perché - solo i primi tre Tomi del vocabolario.27 Il recensore prof. Cornetti ne apprezza soprattutto la grande rie-
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La recensione del Vecehj è in "Rivista Marittima" agosto-settembre 1905, pp. 502-503. La recensione dei primi due Tomi del vocabolario del Corazzini è rispeltivamente in "Rivista Marittima" febbraio 1902, pp. 414-416 e marzo 1903, pp. 429-430 ivi, p . 170. 27
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chezza - e talvolta la sovrabbondanza - di dati e notizie che potrebbe consentire di trarne in futuro degli utili manuali. Pertanto a suo avviso l'opera del Corazzini supera quella del Guglielmotti, che tiene tuttora il campo. Ma oltre che il materiale scientifico siasi accresciuto in modo considerevole in questi ultimi anni, è da ricordare anche che il Guglie/motti volle fare opera circoscritta in determinati confini, e perciò limitato è il campo delle ricerche che egli offre. Il Corazzini lo avanza per una più larga (forse troppo larga) base d'investigazioni, sì che il suo lavoro sta a quello del Guglielmotti, come il vocabolario sta a/l'enciclopedia.
Giudizio non condivisibile, anche se solo quantitativo: va precisato che il Guglielmotti non ha voluto fare opera circoscritta ma i 'ha fatta, anche se le sue ambizioni, oltre a voler abbracciare - senza riuscirci - l'attualità marinaresca e navale, erano se mai più maggiori di quelle del Corazzini, perché estendevano la materia del vocabolario persino al campo terrestre. È vero che il lavoro del Corazzini è più voluminoso e quindi più ricco di dati: ma questa ricchezza non serve e non basta a colmare le carenze militari. Senza contare che il Corazzini (questo è un suo merito), non pretende di estendere la sua indagine alla parte militare terrestre, quindi è se mai lui ad aver voluto fare opera circoscritta, evitando di sconfinare in campi nei quali è ancor più incompetente del Guglielmotti. Per trovare giudizi anche molto severi bisogna aspettare gli anni Trenta del XX secolo, nei quali il già citato prof. Guido Bustico (insegnante di lettere in un Istituto commerciale ma convinto antipurista) nella prefazione al suo dizionario presenta il lavoro del Corazzini come "utile sì, ma caotico, pletorico, ingombrante, non equilibrato nelle varie voci, molte delle quali superflue, che nulla hanno a vedere con la marineria e altre che per la loro vetustà conveniva meglio lasciar senz'altro da parte". 28 Nel 1937 anche il filosofo e linguista prof. Guido Bertoni, che come si è visto aveva criticato duramente il Guglielmotti, ritiene che "l'opera voluminosa del Corazzini (1900-1907) 11011 può servire che come raccolta di materiale e, piena com 'è di scorrezioni e ripetizioni, va consultata con molta ocu/atezza". 29 Infine dopo la seconda guerra mondiale il Petroni, autore della biografia del Corazzini sul Dizionario Biografico degli Italiani, definisce in genere "dilettantesco" il suo metodo di lavoro. Si deve ammettere che specialmente l'approccio del Corazzini alla parte militare e navale non si sottrae all'impietosa accusa di dilettantismo. Pertanto l'excursus compiuto sia nel campo terrestre (Tomo I, cap. VI) sia nel campo navale dimostra una cosa sola: che ha ragione il Vecchj accennando alla necessità che lavori del genere siano affidati a una commissione di esperti, nella quale al filologo e al linguista civile - che crea, per così dire, la base scientifi-
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Guido Bustico, Op. cii. (Prefazione), p. VII. Giulio Bertoni, Op. cit, (Prcfaziom:), p. X.
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ca e letteraria - si affianchi sia lo storico militare e/o navale, sia lo scrittore di arte militare. Invece, anche in questo caso nessun scrittore militare o navale del tempo di qualche fama si occupa della pur importante parte linguistica generale, con particolare riferimento all'arte militare marittima. Sotto questo profilo, il lavoro del Corazzini è esemplare. Ciononostante non merita il completo oblìo nel quale è caduto e le stroncature del Bustico e del Bertoni, se non altro perché, tutto sommato, rispecchia il progresso navale meglio del Guglielmotti; e anche per questo rimane un interessante documento sulla cultura marinaresca del tempo. L'esistenza di un solo vocabolario marinaresco generale nei primi quindici anni del secolo XX non è che l'ennesima dimostrazione del progressivo impoverimento degli studi linguistici concernenti specialmente l'arte militare marittima. Per contro, come già a fine secolo XIX anche in quest'ultimo periodo compare un certo numero di opere per così dire specializzate spesso tradotte dall'inglese, concernenti il linguaggio tecnico- scientifico e la conoscenza dei termini anche stranieri. A un Dizionario di ingegneria civile, meccanica, militare e navale ( 1887-1888)30 e al già citato Dizionario tecnico-nautico in quattro lingue (1905) recensito dal Vecchj, se ne aggiungono diversi altri, dei quali ci limitiamo a citare qui di seguito - in ordine cronologico - più importanti. Il Dizionario Tecnico e nautico in quattro lingue (supplemento al 1° volume del Dabovich), pubblicato in Austria, per la lingua italiana ha - more solito - come collaboratore non un ufficiale di marina, ma il commendator Dante Parenti, direttore di commissariato. TI recensore per la Rivista Marittima, capitano di vascello Filippo Salvati, presenta quest'opera come un modello di concisione, chiarezza e precisione, nella quale "nulla manca di tutto ciò che concerne le colombaie militari, l'aerostatica, la fotografìa, ecc., come pure i progressi fatti nella costruzione navale, nelle macchine marine, nell'artiglieria, nelle armi in genere, nell'elettronica", mentre la parte riguardante le polveri e gli esplosivi è stata riassunta appunto nel suo Vocabolario delle polveri e esp/osivi. 3 1 11 Salvati fornisce anche un breve elenco dei termini italiani del dizionario da correggere, cogliendo l'occasione per lamentare il disinteresse del Ministero della pubblica istruzione e delle accademie letterarie italiane (e perché non del Ministero della Marina?), colpevoli di "aver lasciato che la folla dei neologismi si trapiantasse tumultuariamente" nella nostra lingua. Forse questo sistema va bene "in quei Paesi dove vi è un poco più di solidarietà letteraria, di rispetto ai maestri, e di deferenza per il pubblico per il quale si scrive", ma non da noi. In Italia "ognuno fa per conto proprio, ed anche alla svelta, infischiandosi dei precedenti". E così "neologismi brutali ed idiotismi inutilf' sono usati ovunque, anche negli atti parlamentari (dove ad esempio si
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Milano, Vallardi 1887-1888. In "Rivista Marittima" agosto-settembre 1900, pp. 55'1-558.
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usa trust invece di monopolio) e in circolari e pubblicazioni ufficiali civili e militari; "eppure nelle opere scritte or sono due secoli, questi errori non si trovano!". Ciò non significa che il Salvati si schieri in questa occasione con i puristi: al contrario ammette anche i neologismi, purché siano necessari. E siccome "un popolo vivo non può progredire con una lingua morta", consiglia ai puristi di leggere l'introduzione del Petrocchi al suo nuovo Dizionario universale della lingua italiana. E aggiunge che sarebbe una gran bella cosa se tutti, tutti gli uffici della pubblica amministrazione nazionale, risparmiassero qualche pagina di quelle pubblicazioni, che nessuno legge, perché a nessuno giovano, per poter pubblicare ogni dieci anni un nuovo dizionario come quello del Petrocchi, con tutte le nuove voci. intanto l'amministrazione della Marina ha cominciato a dare il buon esempio, sollecitando ilprof Corazzini a pubblicare il suo Vocabolario nautico con precedenza sugli altri lavori di storia e archeologia navale da questo illustre scienziato ideati.
A parte l'ultimo discutibile accenno al Corazzini, la recensione del Salvati è importante almeno quanto l'opera del Dabovich, perché testimonia il permanente stato del linguaggio marinaresco all'inizio del secolo XX, al quale il Corazzini non pone certo rimedio. Il successivo Frasario marinaresco inglese-italiano ( l 904) dell'anglista prof. P. De Franciscis, che nel frontespizio lo presenta come "dichiarato di utilità pratica dal Ministero della Marina", riguarda le più importanti voci tecniche inerenti a svariati settori: la nave e la sua attrezzatura, le macchine, le ancore e catene, bussola e timone, servizio di guardia, artiglieria e armi subacquee, segnali, telegrafia senza fili, il personale ecc.32 Nella prefazione il comandante G. Roncagli, scrittore navale abbastanza noto all'epoca, sottolinea l'utilità di un'opera che volgarizzi il linguaggio tecnico della marina e ne segua l'evoluzione, corrispondente al frenetico progresso delle costruzioni navali e delle armi di bordo. A suo avviso, un'opera - come questa- che al pregio della divulgazione unisca la versione in lingua straniera dei termini può dirsi cosa nuova, dato che i pochi esempi che la letteratura marinaresca nazionale ci offre, o sono antiquati per sostanza e per forma, come il pregevolissimo Vocabolario militare e marino del Padre Guglie/motti [veramente è marino e militare - N.d.a.] o sono, come quello del Settembrini, privi di tutto quanto nei tempi più recenti si è venuto accumulando di voci nuove e di nuovejònne del dire, nell'ambiente marinaro.
32 Cfr. P. De Franciscis, Frasario marinaresco inglese-italiano ad uso degli ufficiali di marina con gli estratti del Regolamento di disciplina, Roma, presso l'Autore Deposito Ditta Albrighi Segati e C., 1904.
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La recensione della Rivista Marittima non si può dire entusiasta.33 Apprezza il lodevole intento dell'autore e l'utilità del lavoro, ma al tempo stesso riscontra delle "inesattezze e superficialità" che dovrebbero essere eliminate in una nuova edizione. D'altro canto, secondo il recensore (R.P.) i difetti sono giustificati sia dal gran numero di voci nuove che devono essere continuamente introdotte, sia dalla confusione derivante dalla tendenza dei nostri autori a tradurre in italiano, ciascuno in modo diverso, vocaboli ed espressioni corrispondenti a quelli stranieri. I tecnici della marina che per ragioni di lavoro debbono consultare pubblicazioni straniere e/o mantenere contatti, stipulare contratti ecc. con l'estero, hanno invece bisogno di capire e farsi capire chiaramente, mediante un dizionario tecnico di riferimento comune, con il crisma dell'ufficialità, completo e aggiornato: "sarebbe tempo, quindi, di porre riparo a quella specie di anarchia, che si va producendo a cagione della mancanza di un 'autorità filologica che, senza attendere lunghi anni, segua i bisogni del linguaggio tecnico, studi e provveda immediatamente". Per fare questo, il recensore propone che, sia pur senza rinunciare a questo manuale che potrebbe essere opportunamente aggiornato in successive edizioni, si faccia fronte alle esigenze immediate costituendo un'apposita commissione di esperti, "alla quale verrebbe affidato l'incarico di studiare, stabilire e pubblicare mediante un bollettino ebdomadario, illustrato se occorre da apposite incisioni, le nuove voci tecniche generate in Italia e quelle estere volte in italiano". A parte l'accenno, non nuovo, alla necessità di una commissione, il preparatore e il recensore esprimono quella " voglia di modernità", quella necessità di seguire le continue innovazioni tecniche, delle armi e dei materiali, alle quali certamente non danno una risposta soddisfacente e completa - sia pur per i loro tempi - né il Guglielmotti né il Corazzini. Probabilmente tenendo conto dei suggerimenti del Vecchj e di altri, nel 1906-1908 l'Editore Hoepli di Milano pubblica un Vocabolario Tecnico Illustrato in tre volumi e in sei lingue (italiana, francese, tedesca, inglese, spagnola, russa), finalmente redatto da una commissione di esperti. Nella recensione della Rivista Marittima al Volume ID si giudica perciò molto positivamente il fatto che "la compilazione del vocabolario continua, come p er i due precedenti volumi, ad essere affidata non a lessicografi [come è anche il De Franciscis, studioso della lingua inglese sulla quale ha scritto parecchie opere - N.d.a.], ma a una schiera numerosa di specialisti [... ] che occupano posti importanti neg li l<:tituti e negli Stabilimenti rinomatt'. 34 L'Italia fino al 1915 è stata alleata della Germania e del!' Austria: questa realtà internazionale favorisce certamente la pubblicazione di un dizionario tecnico-militare italiano-tedesco e tedesco-italiano per l'Esercito e la Marina in
33 14
In "Rivista Marittima" maggio 1904, pp. 511-513. Cfr. recensione in "Riv ista Marittima" settembre 1908, p. 432.
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due volumi (1907-1909). 35 Per la parte navale il suo autore (Vittorio Faitini, forse un ufficiale dell'esercito insegnante alla Scuola Militare di Modena) citando il Sechi crede anch'egli nelle torpediniere di dimensioni modeste, giudica i sommergibili (che devono avere anch'essi dimensioni ridotte), idonei solo per la difesa costiera, e si compiace che l'Annuario 1909-191 O della Naval League inglese apprezzi la nostra corazzata Regina Elena (ultima pre-dreadnought, varata nel 1904), che ha notevole velocità (21 nodi) per combattere i grossi incrociatori corazzati francesi , ma con dislocamento relativamente modesto (14000 t) e un armamento ancora misto (solo 2 cannoni da 305, con 12 cannoni da 203 e numerosi altri calibri minori da 76 e 47 mm). Secondo il recensore della Rivista Marittima al I volume, sostanzialmente benevolo, il lavoro del Faitini è "in gran parte scevro" dai frequenti difetti dei dizionari tecnici, che non sempre contengono termini di uso veramente comune e spesso mancano di espressioni appropriate. Queste lacune sono dovute al fatto che i loro compilatori non sono dei tecnici, anche se si rivolgono ai tecnici; inoltre bisogna anche tener conto che nella compilazione di opere del genere si incontrano molte difficoltà. Egli indica tuttavia alcuni errori di traduzione e consiglia di consultare il vocabolario del Guglielmotti, che pur non essendo aggiornato con la nuova terminologia, "resta tuttavia un buon testo quanto alla pura italianità dei vocaboli marinareschi''. A sua volta, il recensore del II volume osserva che un dizionario tecnico-militare non può dirsi completo se non contiene oltre ai vocaboli la spiegazione di ognuno di questi e le indicazioni sul loro uso. Sotto questo profilo, a suo parere un dizionario come quello del Faitini, che ha l'ambizione di affrontare tutti i rami tecnici di terra e di mare, la meccanica e le altre scienze che loro interessano, dovrebbe essere necessariamente più ampio. Auspica perciò la pubblicazione di una seconda edizione, nella quale, tra l'altro, dovrebbero essere corrette parecchie voci da lui indicate.
* * * L'analisi condotta porta a conclusioni largamente univoche - e valevoli per tutto il secolo XIX - sia per il linguaggio della guerra terrestre (Tomo T, cap. VI) che per quello della guerra marittima. Costante disinteresse dei compilatori - e loro frequente incompetenza - per I a I etteratura coeva concernente l'arte militare; forti lacune nel campo delle armi e materiali; mancanza pressoché totale di quella che potremmo chiamare terminologia di saldatura tra guerra terrestre e marittima; mancanza di interesse per gli studi linguistici - o per la collaborazione a dizionari e vocabolari - da parte dei principali scrittori terrestri
"Voi. I (tedesco-italiano) 1907; Voi. II (italiano-tedesco) 1908, ambedue editi a Modena, Società Tip. Modenese. Essi sono recensiti rispettivamente dalla "Rivista Marittima" aprile 1908, pp. 198-199 e giugno 1909, pp. 574-576.
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IL PENSIBRO MILITARE E NAVAL E ITALIANO - VOL. lii (1870-1915) - TOMO Il
e navali, che anche in questo campo avrebbero potuto dare molto, anzi dare più di tutti. Di fronte alla monotona ripetizione di una serie di limiti e lacune (che peraltro non scompaiono certo dopo la prima guerra mondiale), acquistano ancor più rilievo le proposte del Vecchj e di altri di costituire una commissione di esperti, onde pervenire una buona volta a un linguaggio uniforme, privo di lacune importanti e di comune riferimento. Solo i Ministeri della guerra e marina, in collaborazione tra di loro, avrebbero potuto nominare e far funzionare tale commissione; se non l'hanno fatto, ciò è avvenuto molto probabilmente per una sottovalutazione del problema, le cui cause sono assai difficili da individuare.
SEZIONE li - La teoria della guerra marittima tra arte e scienza: analisi critica e confronto delle diverse definizioni e interpretazioni
Uno sguardo a talune opere teoriche europee di arte militare marittima: De Gueydon (1870), Pellew (1871), Makarov (/900), Commandant 2. F, H. Montéchant (1893) Come dimostrano due articoli comparsi sul la Revue Maritime francese e tradotti e pubblicati anche dalla nostra Rivista Marittima,36 intorno al 1870 il problema principale, in tutte le marine, è ancora quello della condotta di una nave a vapore nell'ambito di un gruppo composta da più bastimenti, in modo che sia possibile a una flotta compiere con regolarità, rapidità e tempestività i movimenti d'insieme, evitando le frequenti collisioni anche in pace. Problema elementare e già da molto tempo risolto nelle marine a vela, che però con il vapore a causa del le macchine ancor poco perfezionate e del la scarsa esperienza dei Quadri e degli equipaggi diventa assai più difficile da risolvere nella pratica quotidiana di quanto possano immaginare i teorizzatori di una semplicistica equivalenza tra la propulsione a vapore e quella a remi, che dovrebbero essere ambedue capaci di sottrarre la nave ai capricci del vento, rendendola in pari misura più manovrabile. In proposito l'ammiraglio francese De Gueydon, sulla base della sua esperienza diretta di comando delle più potenti navi da guerra a vapore, e così scrive nel 1870: allorquando si sostituì all 'apparecchio a vela il motore a vapore, molti credettero che i comandanti potessero tenere più facilmente i loro vascelli ai lo-
36 La traduzione dei due articoli della "Revue Maritime" (autori G.H. e Dc Gueydon) compare sulla nostra "Rivista Marittima" di mnrm e novembre 1870 e marzo 1871.
III - IL LINGUAC,GIO MARINARESCO, LA COLLOCAZIONE TEORICA E LA RJPARTIZIONE
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ro posti rispettivi: era un errore che l'esperienza ben presto rivelò! - Difatti, sia per mancanza di isocronismo nel movimento dei pistoni della macchina del vascello ammiraglio, sia per mancanza d'altra parte di accordo possibile fra macchinisti isolati al fondo della stiva; sia infine per mancanza della possibilità per i comandanti di arrestare a loro piacere con immediatezza i movimenti, cioè moderando o accelerando la marcia della loro nave [ ... ] si è prodotta una situazione analoga a quella descritta dal Maresciallo di Sassonia ...
L'inconveniente principale di questa situazione è la polarizzazione delle menti, quindi anche degli studi e delle discussioni, sul miglior modo di governare la nave a vapore. In tal modo si cade in ragionamenti astratti, che prescindono dalla due componenti principali di qualsivoglia tattica, cioè le manovre di combattimento e l'atteggiamento del nemico. Con il vapore Nelson è messo in soffitta; la disciplina del movimento delle flotte, ecco il nuovo idolo. Secondo il De Gueydon, così come il Maresciallo di Sassonia per rimediare al disordine e alla mancata uniformità di movimento dei battaglioni nelle marce aveva suggerito il passo cadenzato, sul mare bisogna raggiungere la regolarità di movimento delle navi a vapore con "la marcia parallela ed equilibrata, base della navigazione in squadra e conseguentemente di ogni tattica navale". Questo si ottiene sia applicando alle macchine a vapore un regolatore che permetta di far eseguire loro un numero costante di colpi di stantuffo nell'unità di tempo, sia con metodi, strumenti e procedure che "servono a formare comandanti sperimentati, e capaci all'occorrenza di far fronte al loro compito mediante il solo colpo d'occhio". 11 De Gueydon dichiara di non appartenere a nessuna delle due correnti di pensiero dominanti in Europa: né a quella che ritiene possibile compiere in ogni circostanza le evoluzioni senza bisogno di tavole o strumenti complicati o e basandosi solo su comandanti sperimentati né a quella che - al contrario - ritiene indispensabili indicazioni precise di manovra valevoli nelle circostanze normali di navigazione, quindi in senso stretto è tale da dispensare i comandanti da ogni abi lità personale. In eflètti il De Gueydon si avvicina di più a quest'ultima, perché non ritiene affatto sufficiente il solo colpo d 'occhio del comandante, che comunque anche imponendogli di seguire delle regole o l'uso di strumenti e formule, conserverà sempre una larga libertà d'azione. È anzi necessario, a suo avviso, estendere i limiti del campo nel quale può muoversi ciascun grado gerarchico, perché l' imprevisto ha una larga parte principalmente nella manovra delle navi; e come insegnano le vittorie di Nelson, bisogna aver osservato le regole per molto tempo, per potersene allontanare in un dato momento. Ciononostante il concetto di tattica del De Gueydon ha molte analogie con quello di padre Roste (Voi. I cap. XV), rimasto un modello di schematismo e dogmatismo, nel quale le esigenze impreviste del combattimento sono oscurate da norme e regole matematiche per le evoluzioni a vela, che diventano il ve-
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ro scopo della tattica, perché condizione sempre necessaria per la vittoria è il mantenimento a ogni costo della linea di fila. Allo stesso modo, anche per i I De Gueydon con la propulsione a vapore lo scopo delle norme tattiche è di aiutare i comandanti a mantenere la posizione della loro nave nella squadra. L'ideale, "il vero oggetto della tattica", è di renderli capaci di far fronte ai loro compiti con il solo colpo d'occhio, ma per raggiungere questo obiettivo non basta l'esperienza: bisogna fornire ai comandanti tutte le indicazioni necessarie per poter manovrare con sicurezza, e far loro acquistare, mediante l'applicazione delle norme, la pratica necessaria per compiere le non facili evoluzioni della tattica navale: dappertutto, nel mio libro domina l'idea di aiutare i Comandanti, questo è l'oggetto di tutti i miei sforzi; e lo dico in termini precisi nel mio preambolo: la tattica sistematica deve essere modesta e la sua unica missione di utilità incontestabile e reale è compiuta, quando essa riunisce tutte quelle norme, le quali non solo possono rendere meno difficili il compito dei comandanti [delle navi] nel mantenimento dei loro posti; ma permettono eziandio di poterli raggruppare a un dato momento intorno al loro Capo [cioè all'ammiraglio N.d.a.]-
A macchine a vapore ancora imperfette e a comandanti e equipaggi poco sperimentati non può che corrispondere un insieme di regole e formazioni complicato e di difficile applicazione, oltre che carente in taluni punti fondamentali. Ciò avviene anche nella marina-guida, quella inglese. Secondo il comandante Pellew, che ha studiato un nuovo libro di segnali di imminente pubblicazione nel 1871, la situazione della tattica della Royal Navy, nel 1867 è la seguente: l'attuale organizzazione divide la flotta in due divisioni e ciascuna divisione in due sottodivisioni; owero la flotta si divide in tre squadre e ciascuna squadra in tre altre sotto-squadre. [ ... ] È ben difficile, come spesso se ne ebbe la prova, di combinare fra loro queste due disposizioni. È del resto uno svantaggio, e si può dire anche un errore, dividere la metà di una flotta in due parti, mentre che il terzo lo è in tre_Attualmente gli ordini in una, due o tre colonne, senza alcun mezzo per passare dall'una all 'altra; una serie di segnali per le trasformazioni in quattro o nove colonne, che mais 'adoprano non esistendo alcuna istruzione per eseguirle, tali sono le formazioni che possediamo in linea di fila. Aggiungiamoci una semplice linea di fronte, una linea di rilevamento semplice o doppia, e se la memoria non mi tradisce in ciò si compendierà tutto.
E gli aspetti teorici dell'arte militare marittima organicamente considerata, cioè con particolare riguardo alla sua ripartizione e al rapporto tra strategia e tattica? Non si tratta certo di una questione secondaria, eppure questo importante argomento ci sembra assai trascurato anche all'estero. Uno dei pochi ad affrontarlo è l'ammiraglio russo Serghei Makarov (caduto al comando della
Ili - IL I..INGUAOGIO MARINARESCO, LA COLLOCAZIONE TEORICA E LA RJPARTIZJON!l
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flotta russa durante la guerra russo-giapponese 1904-1905), nel suo libro Ricordati della guerra! Questioni di tattica navale ( 1897?), tradotto in italiano dal capitano di corvetta- e valido scrittore navale, seguace del Bonamico - Eugenio Bollati di Saint Pierre.37 Il Makarov ben riassume i nodi teorici e tecnici della guerra marittima, che il XIX secolo lascia in eredità al XX secolo. Questo autore merita perciò la dovuta attenzione, anche se il titolo del suo libro è ingannevole. Seguendo la moda ovunque imperante, egli dà certamente importanza fondamentale alla tattica, ma è tra i pochi a rendersi conto che non è corretto trattare una parte dell'arte militare di per sé stessa, senza considerarne i rapporti con le altre e - nel caso specifico - anche con la tattica e strategia terrestre. Inoltre, a suo parere, un trattato completo di tattica dovrebbe comprendere "non solo il governo delle navi, ma le costruzioni, l 'istruzione al comando, l 'artiglieria, i siluri, ecc. ecc.". 38 Con un siffatto approccio "allargato", il libro di Makarov diventa più che altro un testo di arte militare marittima, o meglio, una piccola enciclopedia dove sono trattati i principali argomenti relativi alla guerra navale. Il Makarov non usa, peraltro, il termine "arte militare marittima" , ma quello molto più ristretto di "scienze navalt'. Così facendo, considera erroneamente sinonimi "scienza" e "teoria", che non lo sono affatto, perché una teoria non necessariamente è una scienza, o una scienza compiuta. Nel suo libro Della guerra, opera teorica tuttora in auge, Clausewitz nega la possibilità di formulare una teoria compiuta della guerra, che solo così darebbe luogo a una vera e propria scienza. Secondo il generale prussiano, " il concetto di trattazione scientifica non esige né esclusivamente, né principalmente che la trattazione si costruisca nell'edificio di un sistema conchiuso [. . .]. Invece di una dottrina compiuta non abbiamo da offrire che frammenti''. 39 In secondo luogo, l'ammiraglio russo affronta il "parag one fra la scienza della guerra in terra e in mare", con ciò stesso ammettendo che anche in campo terrestre la guerra è una scienza. Su questo argomento-chiave giunge però a conclusioni opposte a quelle del Bonamico, secondo il quale con l'età del vapore la guerra marittima è destinata ad avvicinarsi sempre più a quella terrestre. A suo avviso, invece, l'identità tra scienza della guerra navale e terrestre potrebbe sussistere, solo se esistessero un unico comando e un unico Ministero per le forze di terra e di mare, nei quali fossero accentrate tutte le riserve offensive e difensive della nazione; nessun paese però ha fatto fino a oggi un simile passo, perché esiste una grande differenza tra i metodi della guerra in mare e in terra. La vita stessa è diversa.
37 Torino, Casanova 1900. Recensione de l capitano di vascello G. Astuto in "Rivista Marittima" novembre 1900, pp. 395-407 -229. 30 ivi, p. 8. 39 Karl Von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano 1870, Voi. l p. 14.
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È bensì vero, per il Makarov, che la guerra terrestre e navale hanno uno scopo unico (sconfiggere il nemico e obbligarlo a concedere ciò che noi vogliamo) e alcuni principi identici (direzione centralizzata; concentrazione delle forze su un unico punto). E se anche per il marinaio è utile lo studio della storia, della strategia e della tattica terrestre, i metodi con i quali si raggiunge la vittoria sul mare sono assai diversi. Anzitutto nel combattimento navale il reciproco appoggio tra navi non ha la stessa importanza del reciproco appoggio tra le unità dell'esercito: questo perché il principio dell'appoggio reciproco deve essere ricordato dai marinai soltanto per ciò che riguarda l 'attacco simultaneo al nemico. Il miglior aiuto che in mare ci si può dare reciprocamente, è quello di attaccare tutti nel contempo i nostri avversari [ ... ]. Villeneuve, prima della battaglia di Trajàlgar, dichiarava che l'obiettivo principale era il reciproco appoggio tra le navi, ma fu battuto da un nemico [Nelson - N.d.a.] che agì sempre col principio che è necessario affidare alla sorte una parte della flotta, nel correre l'alea della battaglia navale.
Tesi discutibile. Non sempre è possibile condurre un'azione offensiva, mentre l'azione offensiva simultanea di ciascuna nave alla fin fint: non esclude, ma realizza nel modo migliore il reciproco appoggio tra navi, nel quale consiste appunto l'azione necessariamente unitaria di una formazione navale. Altrettanto discutibile è la seconda fondamentale differenza alla quale il Makarov accenna, cioè la necessità di una riserva nella battaglia terrestre e la sua inutilità nella battaglia navale. A suo parere non si deve cominciare una battaglia solo con una metà delle forze, dando cosi al nemico l'occasione di battere separatamente le due parti nelle quali sarebbero così suddivise. Ma questo vale anche in campo terrestre: e chi ha detto che una riserva deve comprendere addirittura metà delle forze? Ciò normalmente non è mai avvenuto. Anche l'esempio di Nelson a Trafalgar citato dal Makarov a conforto della sua tesi dimostra se mai il contrario. Secondo Makarov nei suoi ordini prima della battaglia [che non erano propriamente tali, ma solo direttive - N.d.a.] Nelson jòrmava una terza colonna di navi più veloci, da unirsi con una delle più importanti, per attaccare il nemico; ma il piano nonfu eseguito, perché al momento decisivo egli ebbe meno bastimenti di che si aspettasse; l 'assegnamento però alla terza colonna di navi più veloci, dimostra che non intendeva tenerle lontane per lungo tempo, sebbene che voleva impiegar/e per rinforzare l'una o l'altra delle principali colonne il più prestamente possibile.
Ma non è appunto quest'ultimo uno degli impieghi più frequenti della riserva, anche nel campo terrestre? Quel che più importa, è che Nelson ha pensato a una riserva, che poi non gli è stato possibile costituire per mancanza di navi: non per altre ragioni. Su questa questione, dunque, il Makarov accenna a differenze in massima parte inesistenti: quel che non dice, e che dovrebbe dire, è che la costituzione di una riserva non è un dogma né in campo marittimo né in campo terrestre, e che, comunque, la sua consistenza e le modalità del suo
111 - IL LINGUAGGIO MARINARF.SC.'O, LA COLLOCAZIONE TEORICA E LA RIPARllZIONI::
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impiego sono estremamente variabili. Non è infatti sempre vero ciò che egli afferma, cioè che nel combattimento terrestre la riserva viene costituita per impiegarla nel punto e nel momento decisivo, onde costringere il nemico a cedere: e nella difensiva? Comunque sia impiegata e denominata, la riserva serve per parare gli imprevisti, sia in campo terrestre che marittimo; ne consegue che una riserva se ben costituita e impiegata non è mai inutile, o sottratta al combattimento. Anche ciò che il Makarov afferma a proposito dell'inseguimento non è del tutto vero. Per lui in campo terrestre la ritirata viene decisa solo come ultima ratio (il che non è sempre vero) ed è piuttosto una rotta rovinosa (il che non è sempre vero). In campo navale, invece, "una nave che si ritira, per es. con vento fresco di prora, di fronte a un suo nemico, è in condizioni più favorevoli per l'uso dei suoi cannoni, che non la nave che l'insegue". Si può obiettare che questo vale - anche se non sempre - solo con la propulsione a vela, ormai obsoleta a fine secolo XIX; certamente non vale più con le corazzate del tempo, che se mai, hanno l'armamento principale concentrato a prora. E anche in campo navale, la ritirata può essere decisa quando si è in eccessiva inferiorità di forze, con l'unico scopo di sfuggire alla caccia del nemico ... Per altro verso, queste pretese differenze sono indirettamente smentite dallo stesso Makarov, là ove enumera i vantaggi della linea di fila,40 indicandola come unica formazione valida anche con il vapore, perché in essa "ogni nave protegge la sua prodiera dallo sperone nemico", speronando facilmente, a sua volta, la nave nemica che ha investito quella che la precede. Ln tal modo diventa molto arduo anche il taglio della linea di fila, perché la ridotta distanza tra le navi (400 m circa) rende assai pericolosa la manovra di passaggio nell'intervallo. Anche ciò che il Makarov afferma a proposito di strategia e tattica contrasta con le differenze tra guerra terrestre e marittima da lui indicate. Come si è visto, parla di "scienze navali" o di "scienza della guerra terrestre e marittima"; se ne deduce che a loro volta la strategia e la tattica, che ne sono parte primaria, sono scienze. Non è così: su questo argomento il Nostro cade in frequenti contraddizioni, prima ammettendo che sono anche arte e poi chiamandole senz'altro scienze, mentre non lo sono o lo sono solo in parte. Riconosce che "i nostri compagni d'arme in terra ridussero la loro projèssione a scienza ben più presto di noi", per diverse ragioni: tra gli ufficiali di terra vi erano più studiosi che tra gli ufficiali di marina, assorbiti dalla pratica più che dalla teoria; le guerre terrestri sono state condotte su scala più larga che non quelle di mare [il che non è sempre stato vero: Mahan docet - N.d.a.] ; infine, "il metodo di condurre la guerra in terra fu più soggetto alla generalizzazione che non quando èfatto su un elemento così capriccioso come l'acqua". Partendo da quest'ultima premessa, per individuare i caratteri della strategia navale fa riferimento ai due celebri autori terrestri, Jomini e Clausewitz
40
Makarov, Op. cii., pp. 280-28 1.
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(Cfr. Voi. I, cap. TI e JTT), e per fissare anzitutto " la posizione della tattica navale nell 'ambito delle scienze navalt'' fa dei richiami tecnici e delle osservazioni almeno in parte discutibili: due alte autorità in fatto di scienze militari, Jomini e Clausewitz, definiscono la tattica quasi identicamente. Jomini chiama la tattica "l'arte di combattere"; Clausewitz definisce la tattica "la scienza di combattere". Entrambe le definizioni sono corrette, e sarebbe bene unirle, perché quantunque non esista una differenza essenziale fra scienza e arte, [ non è vero - N.d.a.] nondimeno sono intimamente collegate fra di loro. Così, per esempio, la matematica è la scienza delle dimensioni, e nessuna la considera un 'arte; però essa racchiude in sé stessa un'arte, quella cioè di aggiungere numeri, e formare con essi varie altre combinazioni.41
Meglio avrebbe fatto, il Makarov, a parlare di arte militare anziché di tattica; ad ogni modo si deve constatare che sbaglia affermando che per Clausewitz la tattica è una scienza. Questo Clausewitz non l'ha mai scritto; ha solo riconosciuto che "la tattica è la parte della condotta della guerra in cui la teoria meglio riesce a prendere forma dottrinale"42 ( cioè nella quale meglio si applicano principi e regole) e che, comunque, quella della guerra è più arte che scienza, senza che possa esistere una dicotomia netta tra questi due poli. Questo vale anche per il Makarov, e l'esempio della m atematica è calzante: ma fa subito dopo un passo indietro, dichiarandosi d'accordo con Clausewitz nel considerare la tattica come scienza del combattimento, perché "le regole per con-
durre una battaglia possono soltanto essere determinate dallo studio coscienzioso di tutti gli elementi che fruttano il successo in guerra, e questo studio è materia di teoria" [ma quel che vale è la sua applicazione pratica, che ha necessariamente carattere artistico - N.d.a.]. In base a queste considerazioni il Makarov afferma che la flotta esiste per la guerra e per la battaglia navale, e che in questo contesto la tattica, come "scienza della battaglia navale" [e perché non del combattimento? - N.d.a.] comprende qualunque cosa è a bordo di una nave e insegna come vincere la battaglia, raccordando tra di loro tutte le scienze navali incluse nella sua sfera. Perciò "essa studia gli elementi che costituiscono la potenzialità combattente delle navi e i mezzi di impiegarli nel modo più favorevole in guerra, nelle differenti circostanze"43 [ che non potranno mai essere scientificamente determinate al completo - N .d.a.]. Al di sopra della tattica vi è la strategia, "scienza di più alta levatura che la tattica" che- a quanto pare - ha, su scala più ampia, parecchi contenuti della tattica. Infatti essa "scruta tutti gli elementi della guerra; determina la gran-
41 42 43
ivi, p. 7. C lausewitz, Op. cit., Voi. I p. 140. Makarov, Op. dt., p. 2X.
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dezza delle risorse richieste per la gu.erra e il modo migliore di procedere contro il nemico; decide il genere di azione militare meglio rispondente per ottenere ilfine proposto", che è la vittoria. A sua volta la strategia è sovrastata dalla politica militare "che determina se il fine che si vuol consegu.ire può essere ottenuto con o senza guerra, se una dimostrazione è sufficiente, e se debbono incominciarsi le operazioni militari". Il conseguente grafico riassuntivo secondo il Makarov è il seguente:44 POLITICA NAZIONALE
STRATEGIA NAVALE
TATrlCA NAVALE I) Psicologia navale 2) Pedagogia navale 3) O,ganica 4)Comando 5) Pratica navale
6) Evoluzioni 7) Costruzioni navali 8) Macchine navali 9) Artiglieria I O) Torpedini
Questo grafico si presta a parecchie osservazioni: I) la mancanza della voce "scienze navali", che dovrebbe essere inserita tra "politica nazionale" (che ovviamente riguarda il campo terrestre e marittimo insieme) e "strategia navale"; 2) la mancanza di un qualche preciso riferimento a branche basilari come la logistica o amministrazione che dir si voglia; 3) l' abnorme estensione del campo d'azione della tattica, che include ben 10 diverse branche, un po' come avviene oggi - secondo alcuni - per la strategia; 3) la bivalenza delle definizioni e del grafico, che possono essere riferiti anche al campo terrestre se si sostituiscono al mare la terra e alle navi le unità organiche lem:slri; 4) la necessità che anche la strategia e in parte, la stessa politica nazionale - si occupino di materie come ad esempio l'organica, il comando, le costruzioni navali, che con la strategia hanno un rapporto molto stretto, sia nel caso che dovrebbe essere normale (organico, comando, costruzioni navali ecc. discendenti dalla strategia che si intende adottare) sia nel caso - illogico ma frequente - che la strategia sia costretta a prendere atto della realtà dello strumento disponibile, senza avere la possibilità di modificarlo a sua immagine, se non altro per ragioni di fondi e/o di tempo. Va inoltre ricordato che il Makarov intende "presentare uno schema che indica l'ordine delle scienze navali'' il quale diversamente da quanto affenna egli stesso nelle definizioni, tale "schema" comprende in primo luogo la poli-
.. ivi, pp. 25-26.
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tica nazionale, che non fa certo parte delle scienze navali ma è solo il loro riferimento. Da queste contraddizioni e da questi errori, comunque, il Makarov almeno in parte si riscatta ammettendo che "non basta conoscere le regole, bisogna capirle, cioè come impiegar/e e utilizzarle" e che vi sono persone che sanno molte cose ma capiscono poco, e altre che, al contrario, capiscono molto e sanno poco. I risultati migliori li forniscono quest'ultimi, quindi "noi non dobbiamo mettere le nostre speranze in un libro, ma pensare soltanto con la nostra testa, che non può essere sostituita da qualsiasi libro. Non vi sono regole fisse in guerra, poiché per ogni nuovo caso si deve jòrmare una nuova regola, sotto l'imperio del momento". 45 Questo equivale ad affermare che le scienze navali, come quelle terrestri, sono anche arte, anzi come sostiene Clausewitz più che essere tali sono arte. Peraltro, il Makarov opportunamente chiarisce che non bisogna dedurre da questi caratteri dell'arte o scienza navale che la teoria serve a poco o niente: è vero il contrario. A suo parere, infatti, anche nella navigazione e nella manovra della nave, non basta la sola esperienza pratica "come si è creduto fino a poco tempo.fa", tant'è vero che solo nel 1827 è stata fondata un'Accademia navale russa, mentre l'opera del Padre francese Roste [cfr. Vol. I, cap. XV - N.d.a.], compilata a fine secolo XVII, è stata tradotta in russo per la prima volta sotto Pietro il Grande, che l'ha trovata oscura. Nel 1736 è comparsa in Russia un' altra traduzione, e un 'altra nel 1764. A parere del Makarov, questo ritardo dimostra che "si prestava ben poca attenzione a simili libri" (ma, che dire, allora, del fatto che l'opera di Padre Hoste non è mai stata tradotta in italiano'!). Molto opportunamente il Makarov sottolinea anche che dopo la battaglia di Lissa, tutti hanno categoricamente affermato che la migliore formazione di una squadra era ad angolo come quella adottata dall'ammiraglio austriaco Tegetthofvincitore, e che l'ammiraglio Persano è stato invece da lui battuto, per aver adottato la formazione in linea di fila; ma nella successiva battaglia dello Yalu [guerra cino-giapponese, 1894] ha vinto la flotta giapponese al comando dell'ammiraglio Ito, che - al contrario - aveva adottato la linea di fila, mentre la flotta cinese si era disposta ad angolo. Ne consegue che la vittoriafit perduta nel primo caso e guadagnata nell'altro, non a cagione di una formazione più che dell 'altra, ma per altre cause. Non si possono fondare conclusioni tattiche sulla formazione con gli esempi prima citati; essi servono soltanto a confermare la verità, che il partito che ha meno audacia perderà sempre.
Come risulta anche dal grafico, il Makarov non è nemmeno d'accordo nel fare della tattica sic et simpliciter la scienza delle evoluzioni navali, il che ai suoi tempi non è un merito da poco; dissente perciò dal l'ammiraglio Boutakov (Cfr. Vol. Il, cap. Xlii) che, come lo stesso Padre Roste e la scuola francese, di
•s ivi, p. 3 1.
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fatto con tali evoluzioni la identifica,46 e non si stanca mai di insistere sulla necessità che essa, da lui considerata la parte principale delle scienze navali, abbia uno scopo ben definito, cioè la vittoria. Queste giuste intuizioni sono però in palese contrasto sia con la sua alta considerazione per Padre Roste (che è anche padre del dogmatismo navale basato sulla linea di fila), sia con la sua preferenza per la stessa linea di fila. I frequenti spunti teorici condivisibili del Makarov, così come con le sue altrettanto frequenti contraddizioni, ben rispecchiano la problematica sul tappeto da Lissa alla prima guerra mondiale. Pertanto è utile prenderli come termine di confronto, anche perché le sue considerazioni, unite a quelle del De Gueydon, e del Pellew, dimostrano più che a sufficienza la base teorica incerta e malferma - non solo e non tanto a livello nazionale, ma a livello europeo - sulla quale può contare il dibattito sull'arte militare marittima dal 1870 in poi. A ciò si aggiunga che è da sempre vero quanto scriveva - nel 190 I il contrammiraglio Gavotti, a indiretta conferma delle tesi del Bonamico: non vi ha confronto possibile tra le difficoltà di uno studio storico del/ ·arte militare ,wvale e quello del/ 'arte della guerra terrestre. I grandi condottieri degli eserciti o scrissero essi stessi le loro campagne, o ebbero numerosi interpreti che professavano la loro stessa arte. In mare, soprattutto nel periodo medioevale sono rari gli storici intelligenti di cose di mare, e le hattaglie navali sono considerate sotto l'aspetto delle cause politiche che le provocarono o sotto quello delle conseguenze politiche del loro esito, qualche volta descritte con lusso di particolari circa i danni e le perdite materiali dei combattenti; ma raramente sono studiate dal punto di vista dell 'arte strategica e meno ancora di quella tattica che cagionò la vittoria, né si ricercano g li errori che produssero la sconfitta.41
Lasciamo per ultimo (proprio perché tratta nodi teorici di grande attualità e di grande importanza nei secoli successivi) l'Essai de stratégie navale (1893) dei due principali esponenti dellaJeune École navale francese dopo l'ammiraglio Aube (Commandant Z - Paul Fontin e H. Montéchant - comandante Mathieu J.N. Vignot).48 Dopo aver criticato duramente la politica navale francese del momento, priva di criteri-guida costanti e "trionfo dell 'incoerenza e dell'arbitrio", i due autori sostengono che: 1) la Francia deve avere una strategia che tenga conto delle sue peculiarità geografiche e strategiche; 2) senza una strategia ben definita non vi può essere un'organizzazione razionale delle forze. ln particolare "noi vogliamo dedurre dallo studio della strategia navale sia
46 •7
ivi, p. 318. Giuseppe Gavotti, La tattica navale nei libri di storia. in "Rivista Marittima" febbraio 1901, p.
379. " Commandant Z .. . e H. Montéchant, Essai de straté?;ie navale. Paris, Bergcr - T.évrnult 1893, p. XV, 1-7 e 72-81!.
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le operazioni da condurre in caso di guerra, sia le caratteristiche e il numero del naviglio occorrente per tali operazioni". Ciò premesso, i due autori parlano della "scienza della guerra sul mare", che bisogna studiare a fondo perché "l'azione è funzione del sapere". In questo contesto, oggi la strategia è la parte più generale e, di conseguenza, la più esatta della guerra navale. li campo d'azione della strategia riguarda per intero quello della guerra. Se vuoi la pace, prepara la guerra. Se vuoi La vittoria, poni rimedio alle disfatte. E a tutti i detti risponde questo: studia. Bisogna sapere tutto quello che occorre per conoscere tutto quello che si può fare; sapere bene ciò che si può fare, significa conoscere come si deve fare, ed averlo già fatto a metà. Nel dominio dello spirito, Laforza è La proiezione della scienza. La buona tattica dipende unicamente dalla buona strategia. La lattica, quale che sia il Livello di addestramento alla guerra navale, è e sarà sempre una fisica, mentre la strategia è una geometria. La strategia comanda: la tattica esegue. La tattica è lo stile della guerra, La strategia il pensiero. Ma la migliore tattica diventa cattiva, se la strategia non è ben calcolata. Nulla è ben eseguito dalla tattica, che non sia stato ben pensato dalla strategia. In strategia come in politica, e probabilmente in ogni campo di attività, coloro che suggeriscono dei nuovi mezzi per vincere sono sempre stati accusati di tradimento o d'imprudenza da coloro che hanno solo l'abilità di portare alla disfatta[ ... ] .invece, tutte le grandi vittorie sono dovute a una novità nel 'armamento, nella tattica e nello spirito dei combattenti.
In strategia o tattica non possono esistere segreti: il vero segreto è di saper utilizzare meglio dell'avversario ciò che tutti sanno. La strategia si sottrae a qualsivoglia principio di carattere morale, perché "tutti i problemi della guerra derivano dal principio dell'egoismo nazionale e della distruzione de/l'avversario. Non si guarda ad altro, se non al proprio vantaggio; l'unico principio è distruggere il nemico, senza che ci possa distruggere". Sotto questo aspetto, in Francia ci si preoccupa troppo di imitare gli avversari [l'Italia e I'Inghilterra - N.d.a.], senza tener conto che ciò che essi fanno non è ciò che dicono. Va da sé che gli obiettivi dell'attacco e della difesa variano attraverso i secoli: 150 o 100 anni fa, un combattimento navale era l'azione di guerra più importante che si potesse condurre, nella quale la vittoria aveva i riflessi più importanti. Singapore, 50 anni fa, non aveva affatto l'importanza di oggi. Chi pensava alla Tunisia un secolo fa, anche in Italia?
Segue un veemente attacco alla pretesa immutabilità e importanza dei vecchi principi della guerra, ereditati dall'età della vela ma al momento ancora in auge: poiché la strategia è ilfondamento generale della guerra, alcuni suoi principi hanno una validità assoluta, come gli assiomi d'aritmetica. Tali sono, ad esem-
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pio, il concetto di "concentrare le forze sul punto più debole del nemico", oppure l'esortazione di Nelson a "fare ciascuno il suo dovere". li carattere estremamente generico di questi principi favorisce la paralizzazione delle menti. Esse credono che queste verità evidenti, e in qualche caso eterne, possano fornire buoni risultati tutte le volte che sono applicate. È un approccio errato, che dà come primo risultato quello di non fornire alcun vantaggio pratico. Al contrario, occorre applicare in modo rigorosamente esatto queste verità a dei casi ben definiti, individuando di volta in volta il limite pratico al quale la verità di questi principi è più vicina.
Ne consegue che, per la flotta francese, colpire in forze il punlo più debole dell'Italia non è la stessa cosa che colpire il punto più debole dell'Inghilterra. Se si riuscisse ad affondare solo dieci navi italiane si otterrebbero grandi vantaggi; ma affondando dieci navi inglesi non se ne otterrebbe nessuno. Di più: per aver ragione della flotta inglese non bisognerà mai affrontarla in una grande battaglia navale, perché "l'Inghilterra, con i suoi cantieri e le sue grandi risorse fìnanziarie, riuscirebbe a costruire nuove corazzale prima che le nostre fossero pronte". Infatti la strategia può fornire delle leggi solo p er L'impiego di forze ben calcolate e conosciute in tipo, qualità e numero. Come tutte le scienze, la strategia ammette dei principi solo per i casi hen definiti attraverso l 'esperienza; può esistere una strategia solo per le flotte la cui organizzazione raggiunge il livello più vicino alla perfe zione. La strategia del p eriodo velico non è p iù valida; dopo La scomparsa della marina a vela, per lungo tempo 110 11 è stato possibile p ensare alla strategia per la nuova marina a vapore. Essa si è appena formata, a poco a poco. Tutto ciò che si è potuto fare è sp erimentare, p er ciascun tipo di nave, una tattica particolare; ma non sono state ancora studiate modalità tattiche razionali vale voli per la maggior parte dei casi. In quanto alla strategia , il suo studio esigeva troppa riflessione. Non se 11 'èf atto 11ulla. Essa 11asce da un lavoro speciale. Essa richiede l 'uomo di guerra.
Da queste idee generali deriva l' opposizione al concetto di strateg ia navale che si insegna alla Scuola di Guerra dell'esercito, dal quale i due autori deducono gli orientamenti ufficiali dell' ammiragliato francese. li bersaglio delle loro critiche è una confèrenza del tenente di vascello Degouy, professore alla predella Scuola di Guerra. Egli sostiene tra l'altro che nella realtà della guerra del momento gli arditi colpi di mano, le sorprese, i movimenti abilmente dissimulati che non possono più essere previsti nella strategia degli enormi e pesanti eserciti moderni "diventano dei/attori importanti di successo p er le.flotte di oggi'' e che "a tal riguardo un progresso essenziale, e tutto favorevole all'offensiva, avverrà nel giorno probabilmente vicino, in cui le macchine navali potranno utilizzare un combustibile che emana poco fumo [cioè un combustibile liquido come la nafta, e non il carbone - N.d.a.]". Gli autori condividono anche l'affermazione con la quale il Degouy esordisce ('·Esiste una strategia navale"), supponendo che l'abbia ritenuta necessaria perché nell' esercito vi è ancora chi non la pensa così.
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La concordanza dei due seguaci di Aube con il Degouy finisce qui: per il resto lo accusano di sostenere principi teorici che potevano essere veri o ritenuti tali in passato, ma non lo sono più al momento. Sono perciò in totale disaccordo con il concetto di strategia navale prevalente in quel momento non solo in Francia ma in Europa, che prescinde dal progresso delle costruzioni e dalle condizioni particolari di ogni paese, specie nell'Europa continentale. I principi strategici sostenuti dal Degouy, infatti, rimangono sostanzialmente legati sia all'esperienza del periodo velico, sia a quelli tipici della guerra terrestre. A suo giudizio, dopo le grandi lotte dell 'inizio del secolo [XIX] non vi sono più state guerre esclusivamente marittime, le operazioni delle.flotte sono sempre state legate a quelle terrestri e, a quanto pare, la loro strategia particolare è rimasta in un ingiusto oblìo: ma almeno le rivoluzioni che sono avvenute nel materiale navale potrebbero far credere che i principi sui quali è basata la guerra marittima hanno subìto profondi mutamenti. Questo non è ajjàtto vero: la strategia è immutabile perché dipende solo dalla natura delle cose, ed è fperciò] ben diversa dalla tattica, che varia a seconda del progresso degli armamenti. Le flotte avrunno sempre, cnmP. gli eserciti, delle basi e delle linee d 'operazione, un obiettivo principale, delle linee di comunicazione e di rifornimento. Ma ciò che è nuovo, è la rapidità della guerra, è il bisogno di ottenere in poco tempo dei risultati decisivi[ ... ). Ne consegue questo principio strategico: bisogna, anzitutto ricercare e distruggere la massa principale del nemico, e il suo inevitabile corollario; bisogna attaccarlo con forze superiori. Le combinazioni strategiche, anche se saranno meno ampie e attuate in tempi più brevi, non saranno meno decisive di quelle del passato; solo che, sia per le flotte che per gli eserciti, la rapidità della mobilitazione, l'azione vigorosa delle squadre, il loro supporto logistico diventeranno fattori essenziali di successo.
li Degouy non nega l'importanza della guerra al commercio dell'Inghilterra e i buoni risultati che essa può ottenere; ritiene tuttavia che si tratti di un obiettivo secondario, anche perché la Royal Navy ha un numero superiore di incrociatori che non mancheranno di dare la caccia a quelli francesi che conducono la guerra di corsa, trasformando così quest'ultima in guerra di squadra; a suo parere, all'inferiorità di forze in questo tipo di guerra si può rimediare concentrando la flotta nella Manica, il cui possesso per la Francia è vitale. Dal canto loro i due autori della Jeune Ècole contestano principalmente la sua affermazione che la strategia è immutabile, e che scopo della strategia navale è distruggere il nemico attaccandolo con forze superiori. A loro giudizio gli esempi storici, riferiti al periodo velico, non sono più validi, o sono contestabili. Essi "sono tutti anteriori al progresso scient(fì,co, la cui applicazione alla marina da guerra ha rivoluzionato sia la tattica che la strategia". Ad ogni modo, nella storia marittima della Francia sono numerose le sconfitte subite nonostante la superiorità numerica della sua flotta, mentre nel 1866 gli Italiani, [benché con fort.e superiori], non hanno fatto grandi cose davanti a Pola e
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hanno perso un'occasione ancor migliore di distruggere la flotta nemica davanti a Lissa. Le vittorie nelle guerre degli ultimi trenta anni sono invece tutte dovute a un'idea nuova; Kimburn [nella guerra di Crimea] è stata la prima applicazione della corazza alle navi da guerra; Solferino [Italia, 1859] segna la comparsa del cannone con la bocca da fuoco rigata; [nella guerra di secessione americana 1861-1865] i successi del Merrimac sulla marina degli Stati del Nord, il SaintLouis e il Congrès affondati in pochi secondi attestano l'efficacia dello sperone; la guerra di crociera vittoriosa condotta dall'Alabama [peraltro affondata da una nave da guerra degli Stati del Nord, dopo circa due anni dal suo inizio - N .d.a.] e più tardi i successi dell'Huascar e dell' Union dimostrano l' importanza della velocità, con la quale si ottiene l'ubiquità c l'invulnerabilità .. . Tutto questo dimostra, sempre per i due autori, che le armi moderne banno "rivoluzionato" non solo la tattica, ma anche la strategia. Affermazione, quest'ultima, non condivisibile, perché le caratteristiche del naviglio e delle armi disponibili sono solo un elemento del quale deve tener conto la strategia anche navale, per la quale tutti ammettevano - e ammettono che deriva dalla politica, quindi - come affennano gli autori slt:ssi in altra parte del libro - le caratteristiche degli armamenti dovrebbero derivare dalla politica e/o dalla situazione geostrategica del Paese, non viceversa. Senza contare che, sul piano generale, le "rivoluzioni'' strategiche molto raramente sono tali: sono piuttosto dei mutamenti ai quali gradualmente si adeguano le caratteristiche delle forze. Per quanto attiene alla possibilità di mettere fuori combattimento la flotta nemica, essi ricordano che una volta questo obiettivo veniva raggiunto con la sua distruzione in una battaglia classica, o bloccandola in un porto. Ma, al momento, il blocco non è più possibile. Lo dimostra la guerra franco - prussiana 1870-1871, nella quale la flotta francese, pur dominando il mare, non è riuscita né a mettere fuori causa la flotta tedesca chiusa nei suoi porti, né a impedire la sortita dell'Augusta; ma ben più che la sortita dell'Augusta, le imprese delle torpediniere e degli incrociatori isolati tedeschi dimostrano già che i blocchi sono ormai sterili, che il dominio incontrastato dei mari non è più che una parola vuota, e soprattutto che, oggi, una marina da guerra può evitare il rischio di una battaglia decisiva, che non si può costringerla a combatterla. e che così facendo, essa non dà prova della sua impotenza, ma piuttosto compie un 'operazione strategica di livello superiore e applica una nuova strategia, indipendente dal principio essenziale della strategia pura: "mettere anzitutto fuori causa la parte principale deUe forze nemiche".
Ne consegue l' importanza e la convenienza della guerra difensiva, che, al contrario di quanto sostiene il Degouy, è "un obiettivo principale che bisogna saper distinguere dagli obiettivi secondari", a'isolutamente diverso dall'obiettivo superiore della strategia delle forze terrestri perché imposto dalla natura stessa delle cose. Bisogna tener coutu ddla velocità del naviglio mo-
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demo e della potenza dei nuovi esplosivi e delle nuove armi leggere a tiro rapido e preparare le basi specie in Corsica e a Biserta. In tal modo si potrà dire che al posto della strategia del passato sostenuta dal Degouy esiste una nuova strategia che è funzione delle macchine e dei nuovi strumenti di guerra. La conclusione dei due ufficiali di marina francesi, coerente con la precedente impostazione, è che la marina francese deve al più presto dotarsi dei tipi di nave più adatti alla strategia difensiva. Tali navi - a loro discutibile giudizio - sono già in possesso della Germania e dell'Italia, e hanno caratteristiche idonee anche per la guerra offensiva. In particolare bisogna curare un massimo di velocità e un minimo di dislocamento. che assicurano: un 'elevata autonomia del naviglio da guerra, la specializzazione di ciascun tipo di nave per l'impiego dell'armamento di cui è dotalo, il numero che consente di ottenere l'ubiquità della difesa da opporre ali 'ubiquità che la velocità rende possibile per l'attacco.
Pur cogliendo nel segno su parecchi argomenti, queste tesi, nettamente prive d'equilibri o, fanno emergere le interfacce che hanno portato allo scarso successo della Jeune École in Francia e altrove. È certamente vero che la nuova strategia - e non solo la tattica - non può non tenere conto del progresso degli armamenti; ma anche l'esperienza storica ha il suo posto e il suo valore teorico, benché da essa - come già aveva sostenuto Clausewitz - non possano essere tratti principi e regole immutabili (concetto, quest'ultimo, jominiano e tipico della tradizione francese). Su questo punto, i due allievi dell'ammiraglio Aube hanno ragione: ma al culto e all'assolutismo dell'esperienza storica non può essere sostituito il culto e l'assolutismo del materiale. Lo stesso si può dire per il culto del numero nel senso indicato dal Degouy: anche qui i due suoi critici hanno ragione, ma a tale culto non può essere sostituito quello del numero, ottenuto - come essi sostengono - esclusivamente a prezzo della diminuzione del tonnellaggio delle navi e/o del loro armamento. E che dire delle peculiarità economiche, industriali e geografico-strategiche, diverse da ciascun Paese? Il loro principale merito è, invece, di aver gettato acqua sul fuoco della battaglia decisiva a tlotte riunite per la conquista del dominio assoluto del mare, una sorta di mito che, fino alla seconda guerra mondiale, conquisterà sulle orme del Mahan gran parte degli scrittori navali europei, non esclusi quelli che potevano contare su una flotta palesemente inferiore a quella del probabile nemico, per la quale - come sosteneva in Italia il Bonamico - una grande battaglia sarebbe semplicemente stata un suicidio. Non c'è dubbio che tale dominio assoluto - e ancor più il suo sfruttamento - sarebbe stato reso sempre più difficile dalle nuove armi (mina, siluro, torpediniera e in prospettiva, nel secolo XX, sommergibile e aereo): ma la battaglia decisiva poteva essere evitata anche nel periodo velico, così come l'esercizio pieno del dominio del mare è sempre stato difficile (ad esempio, Nelson non è riuscito a intercettare l'imponente flotta francese che trasportava la spedizione di Napoleone in Egitto).
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Un secondo loro merito è di aver dato dignità e importanza financo eccessiva alla difensiva strategica, che tuttavia non poteva essere "una forma superiore di strategia", ma era solo la strategia più conveniente per una flotta inferiore. Tuttavia questa forma di azione strategica, non scelta ma imposta dalla situazione, per avere successo richiedeva in particolar modo qualità morali clausewitziane come il talento del Capo e la virtù militare dei Comandanti e degli equipaggi: qualità trascurate sia dal Degouy che dai suoi avversari, troppo legati l'uno all' esperienza storica e gli altri alle nuove armi, si che a una formula rigida e tradizionale se ne oppone un 'altra per così dire modernista, ma non meno rigida. Battaglia e non - battaglia, difensiva e offensiva sono forme operative dettate dalla situazione e dalle sue varie componenti, che spetta ai Capi valutare correttamente; perciò non si può parlare solo di scienza della guerra ma anche di arte. Infine i due autori, accennando alla necessità che la Francia adotti una propria strategia che tenga conto della sua situazione geogra fica e delle sue esigenze politiche, richiamano direttamente o indirettamcn1 c l'a1tcnzionc su una questione di fondo, spesso trascurata anche in Italia e am;hc nel XX secolo: la strategia e le costruzioni navali di una marina 11011 possono diventare una variabile indipendente e/o una fotocopia più o meno ridotta e approssimata della marina dominante, con relativi, ulteriori vantaggi di quest' ultima. Esse devono avere come riferimento le peculiarità geostrategichc e le possibilità economiche della loro Nazione, che le possono magari portare a soluzioni diverse da quelle altrui, ma assicurano loro un ruolo più efficace, lontano da miti o speranze ma saldamente ancorato alla realtà. Non era infatti realistico-per la Francia come per l'Italia - ricercare la battaglia decisiva con il più probabile e il più potente avversario, il che significava preparare la guerra di squadra e perciò costruire un numero maggiore di grandi navi, per le quali non erano sufficienti le risorse. A tal proposito, appare contraddittorio il princ ipio sostenuto dai due autori, secondo il quale il naviglio che propongono di costruire sarebbe adatto sia per la difensiva che per l'offensiva, se nou altro pt:rché l"offensiva richiede, al contrario di quanto essi affermano, un nucleo di grandi navi di potenza, dislocamento, corazzatura sempre maggiori e numericamente superiori a quelle avversarie. Ambedue le p arti ignorano il termine ''potere marittimo", mentre i due autori della Jeune Eco/e si limitano ad affermare categoricamente che il dominio del mare è una parola vana. Appare comunque chiaro che il culto della distruzione dell'avversario tipico del Degouy sottintende l'obiettivo ideale della conquista di un potere marittimo dominante e del suo pieno esercizio (obiettivo che la Marine Nationale non poteva certo raggiungere nei riguardi della Roya/ Navy), mentre, al contrario, le tesi dei suoi due avversari, esaltando la difensiva strategica, si avvicinano di più alla realtà della guerra marittima che la Francia poteva condurre nei confronti dell' Inghilterra, mirante ad impedire alla marina dominante il pieno esercizio del potere marittimo, e in ta l modo annullando gli effetti pratici della superiorità del suo naviglio da guerra.
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In sintesi il dibattito tra il Degouy e i due suoi oppositori consente di valutare i caratteri di due assolutismi teorici inconciliabili, ambedue con interfacce discutibili e tali da portare su una falsa strada colui che intendesse applicarli alla lettera. Tra i due approcci, comunque, è preferibile quello della Jeune École, che pone una serie di problemi con i quali la strategia navale deve e dovrà misurarsi, a causa della comparsa prima del sommergibile e poi del1'aereo, accanto alle esigenze delle due "guerre industriali" in Europa nel XX secolo, che spostano l' asse strategico sulla guerra dei convogli in Atlantico e in Mediterraneo, dove finisce con il prevalere il naviglio leggero e di scorta, insieme con nuovi mezzi di contesto come il sommergibile e l'aereo, anch'essi leggeri anche se diversi da quelli immaginati dai due autori. Se inteipretate con una certa larghezza, dunque, le teorie del Commandant Z e di H. Montéchant guardano assai più in là delle altre, e ancor più di quelle del Makarov forniscono un utile termine di riferimento per l' analisi dei principali scritti di arte militare marittima in Italia, che ci accingiamo ad affrontare.
Il difficile cammino della teoria della guerra marittima in Italia:
poche luci e molte ombre Stando così le cose, non si può fin d 'ora pretendere molto dal pensiero navale italiano, se non altro perché majora premunt. TI primo studio italiano che valga la pena di ricordare è quello (1 873) del capitano di fregata Enrico Morin (poi Ministro deal 1893 al 1896 e dal 1900 al 1903).49 More solito, nessun accenno alla strategia o al potere marittimo; l'interesse del futuro ammiraglio si polarizza sulla tattica. Ciò non toglie che egli abbia una visione abbastanza corretta della differenza tra arte e scienza della guerra e dei limiti di quest'ultima: la scienza della guerra non è un complesso metodico di teoremi e di precetti, che prevedano tutti i casi possibili in pratica, e stabiliscano, per ognuno di essi, una linea di condotta determinata. ln essa, di veramente assoluto e stabile non si hanno che alcuni g randi principi, dei quali è molto più facile dimostrare la verità che insegnare / 'applicazione. Ogni volta che si è preteso di definire esattamente il modo di mettere in pratica questi principi.formando una teoria minuziosa e pedantesca, non si è fatto altro che creare le pastoie nelle quali sono ognora rimaste inceppate le intelligenze comuni, ma che gli uomini superiori, con la splendida iniziativa del loro genio, hanno sempre infrante; imperrocché non sono mai stati i cultori delle tradizioni, gli schiavi delle regole, che hanno vinto la battaglia. La scienza della guerra navale. in particolare, si può meno d'ogni altra trattare come una scienza esatta. Le macchine a vapore e la corazzatura hanno portato nella maniera di combattere in
49 Costantino Enrico Morin, D egli ordinamenti e delle evoluzioni di una flotta. in "Rivista Marittima" novembre 1873, pp. 151-167; dicembre 1873, pp. 311-339; gennaio 1874, pp. 42-66; febbraio 11\74, pp. 219-243.
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mare una rivoluzione sul vero carattere della quale gli apprezzamenti sono generalmente discordi, e i continui cambiamenti nel materiale ai quali assistiamo non sono certo fatti per uniformare e fissare le idee riguardo ad un argomento più importante.50
Un approccio tutto sommato migliore di quello del Bonamico e del Makarov, anche se definisce - più a torto che a ragione - "rivoluzionari" i riflessi della propulsione a vapore. II Bonamico, infatti, ne esagera la cesura con il periodo velico e tende a sopravvalutarne i riflessi anche in campo strategico, con l'eccessiva importanza data alla guerra costiera e allo sperone e con un'identità troppo pronunciata tra guerra marittima e guerra terrestre. Va inoltre ricordato che il capo di genio, secondo C lausewitz, si distingue non dalla capacità di rischiare violando fruttuosamente le regole, ma piuttosto da quella di intravedere, grazie appunto al suo intuito eccezionale, delle regole più alte e migliori di quelle già stabilite, le uniche accessibili per gli intelletti comuni. Coerentemente con la sua impostazione generale, il Morin divide la tattica - senza definirla con precisione - in due parti da lui erroneamente considerate indipendenti tra di loro: quella relativa allo studio delle formazioni e delle modalità per mantenerle, e quella che invece ha lo scopo di "esaminare i caratteri, le proprietà, il valore militare dei diversi ordini; studiare in quale maniera, in quali circostanze e fino a quale punto le varie evoluzioni si prestino all'esecuzione delle manovre di combaLLimento". Una siffatta, artificiosa e inutile suddivisione ha almeno il merito di considerare come parte della tattica le modalità per il combattimento, cosa della quale di preoccupano ben poco altri scrittori navali del periodo. Ciò non toglie che esista un legame tra le due parti, e che quel la relativa alla modalità di combattimento deve essere preminente. Invece il Morin rinuncia a trattare proprio quest'ultima, perché, a suo parere, è un campo completamente aperto al genio del Capo e al suo intuito, sul quale nulla si può e si deve dire; il che come sostiene il Makarov non è vero, anche se - questo vale sempre - le norme devono aiutare, non soffocare l'iniziativa e l'intuito dei comandanti, e ricordare loro - diversamente dal de Gueydon e dallo stesso Morin - che prima di tutto c'è il nemico da combattere. Per il resto, premesso che "Lutti i vari ordini [cioè formazioni - N .d.a.]proposti o ammissibili, per una flotta, si possono riassumere in cinque grandi categorie, vale a dire: ordini semplici, ordini angolari, ordini a colonne, ordini doppi e ordini composti", il Morin si sforza di ricercare modalità il più possibili semplici ed efficaci per il passaggio da una formazione all'altra, di semplificare una materia di per sè complessa e difficile; tant'è vero che per dimostrare le regole da lui suggerite ricorre largamente a schemi e formule matematiche, senza alcun riferimento ad altre alternative o ad altri problemi di base. Insomma: egli ragiona di tattica senza minimamente considerare i termini
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Morin, in " Rivi~1;., Marittima" novembre 1873, p. 152.
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essenziali del problema, cioè oltre al nemico le costruzioni navali e gli armamenti del momento che non sono affatto della tattica ma la detenninano. E la strategia navale? Non è certo il Morin il solo a trascurarla. Ad esempio il coevo ammiraglio inglese Smyth, autore di un non meglio conosciuto dizionario navale, oltre a non far parola della strategia, così definisce la tattica navale: "scienza che nessun ammiraglio inglese ha saputo mai e che insegna il modo di disporre le navi di una squadra (sic). Ne fu autore (sic) il padre Hoste della compagnia di Gesù". Citando nel 1876 questo coacervo di sciocchezze dello Smyth, il nostro Vecchj osserva giustamente che, se lo Smyth avesse parlato di strategia, avrebbe dovuto essere prodigo di meritate lodi per quei Capi inglesi che fin dal regno di Elisabelta hanno saputo mantenere invitte o quasi le flotte britanniche: "avvegnaché sia dal seggio del Consiglio di Ammiragliato, sia dal cassero delle navi ammiraglie, uomini mediocramente istruiti nella tattica, hanno fra gl 'inglesi, diretto campagne.fruttifere di allori e prede".51 Anche in Italia, dunque, dopo il 1870 comincia a diffondersi la convinzione che una strategia navale esiste ed è necessaria; ma dal punto di vista teorico c'è ancora molto da fare, visto che nel 1881 il Bonamico ancora lamenta che essa "non solo non si è costituita come scienza da sè, avente i suoi scopi, i s uoi mezzi, i suoi caratteri, ma non ha ancora una sola definizione navale, non un solo capitolo in tanti scritti di tattica che le sia specialmente destinato". Ecosì sintetizza il presente e l'avvenire di quesla giovane branca dell'arte militare marittima: la strategia navale è una scienza nuovissima, tanto nuova che dai più non se ne sospetta l'esistenza, non se ne intende lo scopo, non se ne conoscono i primi elementi, non si desidera sentirne parlare. Questo ripudio, o meglio questo suicidio, è conseguenza della simpatia patologica che tiene avvinte le masse, quelle inglesi specialmente, al fàscino del periodo velico [dove pure, specie da parte inglese, esisteva ed era predominante una prassi strategica assai efficace, praticata in guerra e in pace - N.d.a.]. Tutto ciò fa sì che la scienza nuova, per ostacoli infiniti, stenta a farsi innanzi, ed intanto che s 'imbelletta il vecchiume e si lasciano le grinze si lascia nella miseria questa bella ricetta che pure sarà chiamata ad altri destini. Sperando nell'avvenire ci è fòrza confessare che oggi non possiamo comprenderlo e che la scienza nuova rimane nella sua novità, senza che la grandezza ventura le sia conjòrto nella miseria presente. L'avvenire della scienza strategica navale è indiscutibile. ma è pure evidente che oggi essa non ha ancora le basi del suo sviluppo e che p er conseguenza attraversa il suo periodo d'indeterminazione iniziale [... ].Il compito venturo sarà dunque quello di determinare i principi, i rapporti, le definizioni, le teorie speciali che concorrono a costituire la scienza strategica. 52
"Augusto Vittorio Vecchj, Sulla :slralegia navale dell'Italia, in "Nuova Antologia" Voi. I Fase. I aprile 1876, pp. 801-820. 52 Bonamico, Considerazioni sugli studi di g eografia militare e marittima, in "Rivista Marittima" settembre I 881, p. 40 I.
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Con queste considerazioni sulla perdurante infanzia della strategia il Bonamico nonostante le difficoltà prevede per essa un avvenire sicuro; eppure tra gli scrittori coevi e' è ancora chi, come I' Arminjon, pur essendo tra i più apprezzati autori del momento arriva a negare ancora l'esistenza di una strategia navale. In particolare l'Arminjon rimprovera al Bonamico di voler estendere alla condotta delle forze navali definizioni valide solo per la guerra terrestre, senza tener conto che queste definizioni non sono tanto generali da adattarsi a cose per natura così diverse, e lo abuso che se ne fa contribuisce a mantenere equivoci. Queste prove non giovano nel momento presente in cui aspettiamo che si estenda l'insegnamento militare navale nell 'esercito, come si f ece per l'insegnamento militare terrestre a bordo delle navi. Le definizioni buone o cattive hanno sovente deciso della sorte d 'un libro o d 'un sistema. li nostro simpatico autore [cioè il Bonamico - N.d.a.] vorrebbe applicare il vocabolo strategia all'arte di raccogliere le amiate e di condurle nella esecuzione dei movimenti aggressivi e dife nsivi; egli attribuisce qualche importanza a certe analogie che sussistono in effetto tra le mosse di un 'armata sul mare e quelle di un esercito. massime dopo che le armate, soppressa la ve la e ottenuta/ 'i11dipe 11de 11z a dal vento, hanno completa autonomia. Non v 'ha dubbio che tale circosta11za possa ricondursi prontamente alla p erfetta unione delle due armi che esisteva ne/l'antichità greca e romana. ma non per questo può dirsi che vi sarà mai una vera e importante strategia navale nel senso assoluto. la strategia co11ti11entale è intesa p rincipalmente allo scopo di mantenere divise le masse di armati per agevolare i loro movimenti. jàrle vivere sul territorio occupato e ricongiungerle al luogo dove si affronta il nemico. Togliete alla strategia quel compito che non essenziale, e codesta scienza tanto altamente apprezzata si ridurrà poco più che alla logistica, cioè all 'arte di condurre g li esercizi da un luogo ad un altro designato.53
A parere dell ' Arminjon la necessità di dividere le forze onde farle vivere, per poi concentrarle per farle combattere, semplicemenlt: non esiste nella guerra mariltime, quindi viene meno anche lo scopo e la necessità della strategia. E ignorando totalmente il secolare ruolo strategico dellaRoya/ Navy anche in tempo di pace, l'apporto decisivo dato da tale marina nella guerra di Spagna contro Napoleone e il ruolo di tutte le marine europee nelle guerre coloniali, egli a riprova delle sue tesi afferma che in tutto il XIX secolo vi è stato un solo movimento strategico navale, peraltro fallito anche se ideato da Napoleone: il concentramento nella Manica contro la flotta inglese di tre flotte partenti dai porti francesi e spagnoli del Mediterraneo e da Brest, allo scopo di distruggere le forze navali inglesi che ostacolavano lo sbarco del suo esercito in Inghilterra.
53 Francesco Vittorio Anninjon, Considerazioni sugli studi di geog rafia e strategia militare e marillima e appunti su un articolo del tenente di vascello D. Bonamico", in ''Rasseb'lla Nazionale" Voi. VII dicembre 1881, pp. 502-523.
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Non ci risulta che il Bonamico abbia replicato a queste critiche di fondo, sulla quale c'è parecchio da dire, a cominciare dal fatto che, pur insistendo su legami e analogie concettuali tra operazioni terrestri e navali, Bonamico allo stesso tempo chiarisce che gli elementi dei quali è funzione il problema strategico non sono comuni ai due rami e quelli comuni non esercitano un 'influenza relativa costante[ ... ]. È perciò assurdo volere coi criteri continentali giudicare le operazioni dell 'esercito o dell'annata, invocando la grande analogia della loro mobilità, non tenendo conto di tutte le altre cause dijferenzianti. 54
Se poi si prende in esame la definizione che il Bonamico dà di strategia navale (vds. Cap. I), si constata che egli non la identifica affatto con la divisione e poi la riunione delle forze, e per di più oltre a riferirla opportunamente sia alla guerra terrestre che a quella navale, non le asse!,'Ila lo scopo di ottenere la vittoria o di condurre la sola offensiva, ma le indica il compito di creare le migliori condizioni per il contatto tattico. Proprio dall'analisi della definizione del Bonamico, quindi, è possibile far emergere la pochezza delle critiche dell 'Arminjon, il quale si rifiuta di considerare i legami tra operazioni terrestri e navali e ignora il fatto elementare che, come per la guerra terrestre, anche per la guerra navale occorre definire le finalità e le grandi linee della sua condotta, creando così le condizioni per il successo tattico e per il suo sfruttamento, esattamente come avviene in campo terrestre. Pare impossibile che, più o meno nello stesso periodo in cui compaiono gli spropositi dell ' Arrninjon, vedano la luce due opere fondamentali, dovute al contrammiraglio Luigi Fincati, proveniente dalla Marina austriaca (e quindi dalla Scuola Navale di Venezia), comandante (non esente da critiche) della pirocannoniera parzialmente corazzata Varese a Lissa e acerrimo critico del Persano (Cfr. Voi. TT, cap. XII). Si tratta degli Aforismi militari e delle Considerazioni sulla tattica navale - studi sui combattimenti in mare, ambedue del 1882 (le Considerazioni sulla tattica navale sono pubblicate anche sulla Rivista Marittima, in ben 14 articoli dal giugno 1881 a gennaio 1883). 55 TI Lumbroso, difensore del Persano, cita nel suo Carteggio di un vinto una lettera di certo colonnello Casa (segretario dell'Accademia navale di Livorno sia con il Fincati - che ne è stato comandante - sia con il suo predecessore ammiraglio Del Santo) nella quale lo stesso Casa dipinge il Fincati come il Fincati "cattivo militare e cattivo educatore, [... ] troppo chiacchierone e troppo teorico", ricordando che il Del Santo, predecessore del Fincati nel comando della Scuola di Genova, gli aveva ordinato di tener nascosti gli Aforismi, perché non voleva che gli allievi li lcggcsscro. 56 Sta di fatto che né il Persano nei suoi
S4 Bonamico, Considerazioni... (Cit.), p. 417. ss Ambedue le opere del Fineati sono edite da Fon.mi, Tip. Senato (Roma 1882). 56 Alberto Lumbroso, Op. cii., pp. 463-265.
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scritti, né il Casa nella sua velenosa lettera contestano alcunché delle due opere del Fincati prima citate, frutto delle sue lezioni all'Accademia navale. Forse per le sue esperienze dirette, questo autore oggi dimenticato non è un freddo teorico, ma sente profondamente i problemi di comando e l'importanza del morale e della disciplina. Le sue considerazioni sull'arte militare marittima pur con qualche lato discutibile prescindono da ogni dogmatismo e sono certamente migliori di quelle finora esaminate, grazie anche a una base storica eccellente nella quale risalta la vecchia marina veneta. Ambedue i libri sono pieni di attacchi al Persano, con l'organizzazione e condotta strategica e tattica della disastrosa impresa di Lissa presentate come exemplum in negativo; ma animosità personali a parte, si deve riconoscere che le accuse del Fincati sono in massima parte fondate, visto che il Persano non ha certo dimostrato di essere un vero Capo navale. Molto equilibrato è anche il suo giudizio sulle analogie e differenze tra guerra terrestre e marittima: le varie Armi o corpi che jòrmano la totaliLà delle forze militari della nazione hanno ognuna precetti particolari i quali nel loro sviluµµu costituiscono l 'arte e la scienza :,peciali a ciascuna di essr e giust(fìca110 la !uro esistenza in cu,pi separati. Ma tutte le Armi di terra e di mare hanno in comune quel corredo di principi generali. di massime, ossia di aforismi essenzialmente militari che non variano per variare dei corpi. che colla loro parte morale costituiscono il guerriero; che fanno una solo fr,rnig lio rii tuffi g li uomini chiamati alle anni; che ne moltiplicano le.forze... 57
A parere del Fincati, vi è però notevole differenza tra il sistema di comando in terra e in mare. Un generale non è visibile per tutti i combattenti e combatte con la volontà e con il pensiero, mentre invece un ammiraglio combatte come tutti con la sua nave, la sua insegna è visibile per tutti e per costante tradizione deve dare l'esempio; "guai se è veduto neghittoso in disparte; niun ammiraglio vinse una battaglia navale.fuorché con la s ua nave stessa". Per il resto, sia in terra che in mare le condizioni nelle quali può trovarsi una forza militare cambiano all'infinito [ ... ]. La diversità di queste condizioni apre un campo vastissimo alle più svariate combinazioni, che nessuna mente può tutte abbracciare ed alla risoluzione delle quali è impossibile applicare regole fisse e prestabilite [ ... ] . La molteplicità delle pratiche, delle norme, dei ruoli, delle prescrizioni, la pretensione ridicola di tutto ridurre a formule, la ciarlataneria del tecnicismo sono il segno della mediocrità; nel momento del bisogno non una è applicabile di quelle particolarità, non una viene in acconcio, e la confusione invade ogni mente. Principifondamentali e regole generali. La loro applicazione dipende dalle circostanze, sempre variabilissime; spetta all'ingegno, ed è stolto chi
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l'incati, Aforismi milituri (cii.), p. 5.
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pretende sottoporla a calcolo, ché due circostanze uguali non si presentano mai. 58
Anche se le nuove armi e il progresso delle scienze hanno reso le modalità con le quali si combattono le guerre moderne molto diverse dalle antiche, i fattori morali e la conoscenza del cuore umano da parte del comandante conservano importanza decisiva [lo stesso direbbe Clausewitz - N.d_a.]. Ciò non esime i Quadri dallo studio della storia militare, perché "niuna arte, e soprattutto la nostra, può essere nobilmente esercitata senza conoscerne la storia, cioè le origini, i progressi, le vicende e gli errori stessi in cui caddero coloro che la professavano prima di noi"_ 59 L'esperienza non basta: gli ufficiali devono apprendere dalle gesta dei grandi ammiragli del passato l'arte di comandare lenavi e le armate navali. Non bastano nemmeno le conoscenze scientifiche, perché il comandante di una nave oltre a possedere le cognizioni tecniche del navigatore, dell'artigliere, dell'ingegnere, del macchinista, deve sapere soprattutto quando e come applicarle nel modo più vantaggioso per raggiungere lo scopo desiderato. Chi attribuisce troppo valore alle conoscenze scientifiche e matematiche, confonde perciò i mezzi con lo scopo: "da un y al!'altm, da una differenziale all'altra e di sommatoria in sommatoria si va nelle nuvole. I jànatici delle jòrmule, dice il colonne/lo Choumara, vagano in un mondo immaginario nel quale la pratica e i grandi principi del 'arte scompaiono completamente_ È la matematica sostituita alla professione, è lo strumento sostituito alla esecuzione". 60 Da queste riflessioni, tuttora valide, scaturisce un concetto di arte militare bivalente al quale corrispondono principi anch'essi bivalenti, con definizioni e spunti sui quali finalmente non c'è nulla da dire: l'arte della gue"a è l'insieme delle conoscenze e delle attitudini necessarie per guidare una massa d 'uomini armati, coordinarla, rimuoverla, farla combattere contro di un 'altra, dare agli elementi che la compongono il massimo valore e provvedere in pari tempo alla sua conservazione. 61
rt genio della guerra consiste nella capacità di sfruttare opportunamente tali elementi con sicurezza, prontezza, in mezzo ai pericoli e di fronte ai mutamenti più repentini_ inoltre il Capo deve essere dotato di autorità, risolutezza, carattere e "di quelle ispirazioni che formano scienza morale e intuitiva della guerra, azione misteriosa che crea il valore del momento e fa sì che un uomo ne valga dieci e che dieci non ne valgano talvolta uno solo"_ Sia in terra che in mare vale il principio della massa; in particolare, come dimostra la battaglia di Lissa "un 'armata navale che assale compatta la testa, la coda o il centro del-
'" ivi, pp. 16-17. 59 ivi, p. 69. 60 ivi, p. 86. 61 ivi, p. 14.
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la linea nemica gode nel momento dello scontro una superiorità numerica che deve renderla vincitrice". 62 Riguardo alla tattica, conseguentemente a queste idee il Fincati critica aspramente il dogmatismo della scuola francese, che ha avuto nefasta influenza anche in Italia, portando molti a confondere le evoluzioni navali con la tattica vera e propria, la quale invece è arte dei combattimenti navali e consiste nella scelta appropriata della formazione più adatta ad assalire vantaggiosamente il nemico e sconfiggerlo. Più precisamente, negli Aforismi il Fincati scrive che la tattica è l 'arte di disporre le truppe o le navi sul campo di battaglia nel modo più opportuno per assalire il nemico con vantaggio; in alto mare finché l'ordine non sia scompigliato essa costituisce tutta l 'arte del combattimento navale e serve a ristabilirlo dopo una mischia. la tallica ha lo stesso scopo della strategia. ma sopra un teatro molto più ristretto. In luogo di agire sopra un vasto territorio e durante più giorni si agisce sopra 1111 campo di battaglia del quale l'occhio abbraccia 1'estensione. e i movi111e11ti si co11111itnw in poche ore; sul mare, poi, con rapidità sorprendente e, relatframt.:nlt.: alle masse che si muovono, vertiginosa; ma lo scopo finale è sempre quello d 'essere pitÌ Jòrti del nemico in un punto determinato della battag lia.61
Questa definizione, che appena sfiora i contenuti teoric i della strategia, è senz'altro migliore di molte altre finora esaminate, perché stabi lisce che la tattica è arte, e arte del combattimento navale, che dunque si presta a varie soluzioni e formazioni pur avendo una base teorica. Sono però in contraddizione con questo sano concetto sia l'affermazione che la tattica serve "per assalire il nemico" (e la difensiva?) sia quella che lo scopo finale è sempre di fare massa su un solo punto del dispositivo nemico. Quest'ultimo tipo d'azione è un mezzo, una modalità, e non uno scopo; di solito vale solo nell ' offensiva e può anche non riuscire o non essere convincente. 11 vero scopo dell'azione tattica in generale è invece la vittoria, e se ciò non è possibile, la creazione delle condizioni più favorevoli per l'azione successiva e/o per la difensiva. Sen:,,;a contare che la tattica non vale solo "finché l'ordine non sia scompigliato", ma sempre; e perché la formazione iniziale dovrebbe necessariamente "scompigliarsi"? Appare perciò molto migliore di quella degli Aforismi la definizione delle Considerazioni sulla tattica navale: per ben definire il significato dei vocaboli tattica e strategia si scrisse tanto da formare volumi, i quali generano spesso più confusione che luce; e quello che di più chiaro ne disse un gran capitano, l'Arciduca Carlo [che non è mai stato un "gran capitano" - N.d.a.], nei suoi Principi di strategia, JR/ 7,fa che "la strategia è la scienza, e la tattica l 'arte della guerra". Definizione che a me sem-
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ivi, p. 18. ivi, p. 24.
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bra definire ben poco, sebbene sia stata di poi adottata da parecchi scrittori di cose militari che la svilupparono più o meno dottamente. 64
Dopo questa giusta critica all'impostazione dogmatica della scuolajominiana, contrapposta a quella di Clausewitz (Voi. I, cap. il e lii) viene una definizione di tattica pienamente accettabile, eccezion fatta per l'ultima frase: è l'arte di condurre le navi al combattimento e di usarne in modo da rendere sicura la vittoria e men disastrosa la sconfitta. Così definita, essa adunque altro non èfuorché 1'arte del combattimento navale, e comprende: il viaggio per ricercare e raggiungere il nemico, la pugna, l'inseguimento e la ritirata. 65
Se la tattica, come giustamente afferma il Fincati nella prima parte di questa defmizione, ha lo scopo di "rendere sicura la vittoria e men disastrosa la sconfitta", allora essa - come già detto - non può essere limitata all'azione offensiva (come si deduce dalle fasi dell'azione tattica: ricerca del nemico, ccc.), ma deve estendersi anche all'azione difensiva. Ciò che più importa, comunque, è che la definizione più tattica del Fincati dimostra un approccio molto flessihile ai problemi di condotta del combattimento navale, ben sottolineando anche la netta dicotomia tra tattica ed evoluzioni navali, che sono solo un mezzo della tattica stessa. Coerentemente con questa impostazione il Fincati indica come guida anche per la marina italiana i celebri quattro principi per la condotta del combattimento dettati nel 1782 dall' inglese John Clcrck, che sono stati la guida di Nelson (Cfr. Voi. T, cap. XV) e consistono essenzialmente nell'attaccare con grande superiorità di forze una parte della flotta nemica, senza che essa possa venire soccorsa dal resto della flotta stessa, e, al contrario, nell'impedire che il nemico attacchi una parte della nostra flotta, senza che noi siamo in grado di soccorrerla (principi che secondo lo stesso Clerck sono applicabili anche al combattimento terrestre). Con queste idee, non si capisce perché il Fincati lodi il comandante Morin, pur precisando (non è cosa da poco) che la vera taUica è solo quella che indica il miglior modo di impiegare le navi in combattimento, mentre le evoluzioni - diversamente da quanto afferma lo stesso Morin - non fanno parte della tattica. A parte le contraddizioni e i lati meno felici delle sue opere, la lacune più seria del pensiero del Fincati è il suo disinteresse - non certo nuovo - per l' inquadramento teorico della strategia, alla quale dedica solo una o due frasi distratte; lacuna peraltro frequente negli scrittori dell'epoca, insieme con la tendenza a interpretare tattica e strategia solo in chiave offensiva, tendenza molto diffusa anche tra gli scrittori terrestri. Dopo il Fincati e per tutto il secolo XIX, l'approccio teorico alla strategia e tattica se si eccettuano Bonamico e Sechi non subisce sensibili miglioramen-
64 Fincati, Considerazioni sulla tattica navale (Cit.), p. 3 . ., Ibidem.
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ti. Ad esempio nel 1898 il comandante de Amezaga, che abbiamo già brevemente citato come autore di un Manuale (vds. Sz. il) afferma che in mare come in terra, il significato che si attribuisce all'essenza logistica, a quella tattica e a/La strategia è identico, mentre il comportarsi del 'essenza di codesti rami dell'arte militare è profondamente diverso, per la natura fisica varia degli ambienti[...]. Ecco come l'arte militare navale nelle applicazioni della parte sua trascendentale, la strategia che costringe i combattenti a sapere dove sta o si aggira l'avversario per valutarne l'efficienza e subordinarvi la propria azione, deve, diversamente dall'arte militare terrestre. ricorrere il più delle volte ad un fatto importantissimo: la ricerca del nemico, che [sul mare] presenta oggidì, malgrado la libertà di movimento, estreme difficoltà di soluzione[... ]. Le discipline strategiche insegnano ad ottenere ed a evitare il contatto con ii nemico [... ] La tattica è per i marini l'arte di manovrare e disporre in battaglia le navi militari, innanzi al nemico: e la strategia è l'arte di muovere e condurre la flotta per conseguire la vittoria. La tattica include il deliberato proposito di combattere, epperciò la possibiliuì di immediata aggressione o resistenza; la strategia, a sua volta, comprende gli espedienti che conducono al contatto con il nemico. La prima allua il cuncello ispiratore della seconda, che è causa, l'altra essendo soltanto I'elletlo.""
Nonostante la notevole fama del de Ame7.,aga, questa definizione è un insieme di verità, mezze verità ed errori (quest'ultimi non rilevati dal recensore contrammiraglio Gavotti, anch'egli scrittore navale tra i più apprezzati del tempo). Si deve infatti osservare che: I) anche in campo terrestre la ricerca del nemico, e l'esatta determinazione della sua forza e dei disegni del comandante, è fondamentale e ugualmente difficoltosa; 2) è la tattica, non la stTategia, che consegue alla fin fine la vittoria militare; per il resto, anche la tattica, come la strategia, è "l'arte di muovere e condurre la flotta", e allora, qual ' è la differenza?; 3) la strategia crea condizioni il più possibile favorevoli per stabilire il contatto con il nemico o per evitarlo, lasciando alla tattica di organizzare e condurre il combattimento, e/o la ritirata; questa è la vera differenza. Nel 1900 il comandante Filippo Baggio, anch'egli scrittore navale di punta, rettamente sostiene che la tattica è un insieme di norme di carattere generale, le quali stabiliscono "le mosse più opportune per ottenere dalle navi il massimo rendimento, a danno dell'avversario". l grandi principi della tattica rimangono costanti; ma le loro modalità di applicazione variano a seconda delle caratteristiche delle navi e degli armamenti.67 Il Baggio sempre rettamente distingue anche tra preparazione della guerra navale, strategia e tattica. La pre-
"'Cfr. Carlo De Amezaga, Studi sulle grandi manovre italiane del I 896 e considerazioni d'ordine navale intorno a/la n?cente guerra ispano-americana, Genova, Pietro Martini 1896 (si veda anche la recensione del contrammiraglio Uavotti dal titolo Il pensiero navale moderno, in "Rivista Marittima" ottobre 1896, pp. 201-202). 67 Filippo Saggio, Pensieri intorno alla strategia e tattica navale, Roma, Fratelli Docca 1900, pp. 46-47.
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parazione ha lo scopo di rendere le forze pienamente atte al combattimento e di dislocarle nelle posizioni migliori. Una volta ultimata la preparazione, entrano in campo la strategia e la tattica. Dopo la preparazione due sono le operazioni che ancora restano a fare a/l'iniziarsi del movimento guerresco; 1° dislocare opportunamente le forze, cioè in relazione coi presumibili obiettivi del/ 'avversario, per battersi con probabilità di successo; 2° battersi effettivamente. La prima operazione appartiene alla strategia, e dalle leggi di quella è governata; la seconda, per riuscire bene, dev'essere anche disciplinata; e questa disciplina è la tattica. 68
A parere del Baggio, di queste tre fasi la più importante è la preparazione e la meno importante è la tattica, perché nessuna tattica può essere efficace senza una preparazione e una strategia appropriate; a sua volta, non può esistere una buona strategia senza un'accurata preparazione morale e materiale delle forze. In proposito v'è da osservare che quanto afferma il Baggio su tale rapporto è di massima corretto, ma almeno in certa misura vale anche il contrario: la preparazione, cioè, deve tener conto - oltre che dallo scopo della guerra della strategia che è possibile adottare in relazione a vari fattori, a cominciare dalla situazione delle forze nostre e dall'ambiente naturale ecc.; al tempo stesso, anche la strategia deve tener conto delle possibilità e limitazioni tattiche. Ci si aspetterebbe che il Baggio sviluppasse questi concetti in senso positivo, ma ciò non avviene: dopo aver tanto insistito sull'importanza preminente della preparazione e della strategia ne parla assai poco, dedicando anch'egli gran parte dello spazio alle modalità tattiche. In secondo luogo, pur riconoscendo - come risulta anche dalla definizione - che non possono essere adottati schemi tattici rigidi e che non vi sono più formazioni determinabili a priori, nelle definizioni stesse parla di "leggi'' della strategia e più avanti afferma che i principi della tattica "siccome risultanti da studio veramente profondo, a base di scienza esatta e di logica rigorosa, non basati già sopra vaghe ipotesi solamente, o sopra mere aspirazioni, formano veri canoni del periodo attuale della marina". 69 Da tali canoni - aggiunge - ci si può anche discostare, imitando l'esempio di Nelson a Trafalgar e dell'ammiraglio giapponese Ito nella battaglia dello Yalu; "ma appunto per poterci da questi scostare all 'occorrenza, bisogna conoscerli bene", e non contare solo sull'ispirazione al momento dell'azione. Seguendo quanto afferma Clausewitz si può obiettare anche in questo caso, per l'ennesima volta, che Nelson e Ito - ai quali andrebbe aggiunto Napoleone, accusato dai generali austriaci sconfitti di non fare la guerra secondo le regole - hanno violato solo falsi canoni, e diversamente da tanti altri hanno intravisto quelli veri, sì che sono stati premiati dalla vittoria; né si può afferma-
68 ivi, pp. 18- 19. •• ivi, p. 77.
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re che tattica e/o la strategia, sono scienze esatte. Queste reminescenze jominiane sono però compensate da un approccio flessibile, che include la strategia e la tattica prevalentemente nella condotta della guerra, e non lega il loro campo d'azione esclusivamente all'offensiva. Nel 1900-1904 il capitano di fregata (poi ammiraglio) Eugenio Bollati di Saint Pierre, traduttore (come si è visto) del Makarov dal francese e insegnante di arte militare marittima alla Scuola di Guerra dell'Esercito, dedica all'arte militare e alla strategia numerosi studi nei quali (come farà più tardi, sia pur con ben altra profondità di concetti, il Sechi) è l'unico a indicare una ripartizione organica dell'arte militare. 70 Il Bollati ottimisticamente parte dall'assioma del Makarov - non sempre valido - che lo scopo essenziale della guerra in mare è battere la flotta nemica. Perciò "una marina, anche inferiore, non deve tralasciare il compito dell'offensiva e non deve tralasciare di lottare per il dominio del mare [ma ciò può non essere possibile - N.d.a.]". Risente dell'influenza del Bonamico, del Mahan, del Barone suo prefatore, e - naturalmente - del Makarov; ma da quest'ultimo - e anche dal Mahan - si discosta su parecchi punti-chiave, a cominciare da un minore dogmatismo, peraltro contraddetto, anche nel suo caso, da alcuni concetti di matrice jominiana. A suo parere "la strategia navale, scienza dell'alto comando in mare, non è una scienza astratta; essa è nata dal connubio dell 'esperienza con la ragione, ed offre poche norme, le quali devono guidare lo studio della guerra". 71 Seguono considerazioni tuttora di massima condivisibili: appunto perché le nurme della strategia sono poche e semplici, la loro applicazione dipende dalle circostanze, qumdi è estremamente difficile. Per risolvere correttamente i problemi strategici l'ispirazione non basta: occorre lo studio critico dei fatti che consente di utilizzare l'esperienza storica, senza peraltro respingere concetti nuovi, solo perché non suffragati da precedenti storici. Lo studio critico dei fatti, dunque, è solo un punto di partenza, che può fornire soltanto " buoni consigli" da applicare nella maggior parte dei casi, proprio perché sono frutto del1' esperienza. Un'altra aurea affermazione, analoga a quella del Barone, è che "principi generali valevoli in tutti i casi, nelle cose di guerra, non ve ne sono. Se se ne volessero formulare, a furia di sottilizzare, si giungerebbe a enunciati, i quali poi, in fondo, per voler essere troppo comprensivi, nulla direbbero, e a nulla
70 Di Eugenio Bollati di Saint Picrre si vedano soprattutto la g uerra in mare, Torino, Casanova 1900; Preparazione politica e strategia navale, Torino, Casanova 1902; Breve raccolta di azioni navali, Torino, Casanova I 904. La prima di queste tre opere è la più importante. È dedicata a Enrico Barone, che ne compi la anche una pregnante prefazione dove esprime le sue idee sul potere marittimo (Cfr. Voi. TI, cap. V). Essa è inoltre recensita dal massimo scrittore navale del tempo, Domenico Bonamico (in "Rivista Marittima" marm 1900, pp. 394-396). Sia La guerra in mare che Preparazione politica e strategia navale sono espressamente compilate per gli allievi della Scuola di Guerra dell'esercito di Torino, dove il Bollati è insegnante. 71 Bullati, La guerra in mare (Cit.), p. 135.
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servono". 72 Per la verità - prosegue il Bollati - Mahan parla anche di principf; ma con questo termine intende indicare soltanto degli assiomi, fra i quali la rapida concentrazione delle forze su un punto decisivo e altri, i quali sono "la sintesi tanto della strategia che della tattica". Nondimeno - e qui sta il maggior punto di caduta - "nella guerra vi sono nonne e regole" che è bene osservare. Si può vincere anche violandole, ma la storia insegna che qualche volta si è vinto anche non osservando codeste regole, anche quando la situazione nulla aveva che consigliasse ad abbandonarle; ma se si esaminano le cose più a fondo, si ha la convinzione che si è vinto perché l'avversario non ha tratto profitto dal vantaggio, che la violazione di tali regole gli offriva. Anche il }omini asserisce: se molte imprese riuscirono, benché eseguite contro le regole, ciò si verificò solo nel caso in cui il nemico se ne ,çcostò a sua volta, e mai quando esso operò regolarmente. 73
Sarebbe come dire che Napoleone o Nelson hanno ottenuto le loro folgoranti vittorie, solo perché sono stati così fortunati da trovare avversari che hanno shagliato più di quanto essi stessi hanno fatto, violando le regole. Concetto diametralmente opposto a quello di Clausewitz, secondo il quale, come più volte si è detto, il vero genio militare non viola affatto i principi. Tn altra parte del testo il Bollati afferma che "le massime napoleoniche si confànno perfettamente alla guerra marittima". Sul rapporto tra strategia e politica e tra strategia e tattica, egli ha invece idee molto più chiare. A suo parere, la strategia navale non può compendiarsi solamente nell'esecuzione di un piano prestabilito: per giungere ad avere di essa una conoscenza profonda, è impreçcindibile necessità di studiare, prima di tutto, la preparazione politica e militare di uno Stato per la guerra[ .. .]. Abbiamo perciò diviso questi brevi note sulla strategia navale in tre parti: Preparazione alla guerra, disegno delle operazioni, Esecuzione. 74
La preparazione alla !,'llerra si basa sulla politica nazionale e sulle alleanze per stabilire l'entità delle forze navali destinate a fronteggiare i più probabili avversari, e le relative basi d'operazione. Il disegno delle operazioni (o piano di guerra) va preparato fin dal tempo di pace. Deve definire lo scopo della guerra, gli obiettivi e il modo di raggiungerli, e se si deve condurre la guerra difensivamente o affermativamente. L'esecuzione del piano "è l 'applicazione pratica di tutto lo studio strategico. È altresì la più difficile". Di rilievo anche l'affermazione che "la direzione della guerra [terrestre e navale] deve essere unica", e che
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Bollati, Preparazione politica e strategia navale (Cit.), p. 8. ivi, pp. 8-9. ivi, p. IO.
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una guerra s'intraprende per uno scopo politico, ed è naturale che i movimenti delle armate [navali] e degli eserciti debbano essere coordinati a quello scopo. Non è quindi possibile immaginare, che i Comandi supremi in terra e in mare procedano se non d'accordo, il che non si può ottenere, se non vi è una sola mente direttrice, che sappia come, quando dove esercito ed armata [navale] debbano operare insieme e sostenersi a vicenda. Quest'unità d 'indirizzo non deve essere perturbata da alcuna rivalità tra le forze di terra e di mare.15
La conseguente definizione è che "l 'arte militare navale tende alla preparazione e condotta della lotta sul mare, così come l'arte militare terrestre tende allla preparazione e condotta della guerra terrestre e continentale".76 ln particolare, l'arte militare navale ha lo scopo di "raccogliere gli elementi necessari di forza p er la guerra in mare; discuter/i, ordinarli. collegarli fra loro in modo da costituire una marina che, dal! 'applicazione di quegli elementi, risponda al suo vero fine, che è anche quello della guerra in genere: battere il nemico". Peraltro essa differisce dall'arte militare terrestre, la quale, per le innumerevoli guerre combattute, ha il vm1taggi<1 di fondare le sue induzioni sopra fatti sperimentali ormai riconosciuti esatti. L 'arte militare navale non gode di questo privilegio, non ha raccolto ancora un insieme di dati tali da escludere qualsiasi controversia, non vi sono campagne navali che abbiano risentito l 'injluenza di una sola mente diretlri<:e. Lu studio dunque dell'arte militare navale è tutto induttivo, e da ciò deriva la pluralità d'idee circa la condotta delle operazioni sul mare. 77
Il lettore può osservare: è proprio così? Si può dire solo che, per i motivi ormai noti, l'arte militare navale del tempo è più giovane di quella terrestre, e ha bisogno di essere approfondita; ma non è vero che l' arte militare terrestre "esclude qualsiasi controversia", o che manchino campagne navali con una sola mente direttrice (lo dimostrano ad esempio le campagne di Nelson, esaltato dallo stesso Bollati). Infine Bonamico, Mahan, Aubc ccc. al tempo hanno fatto molto per eliminare certe lacune, fermo restando che anche lo studio dell'arte militare terrestre è induttivo (cioè muove dal particolare al generale, dai fatti ai principi). Il Bollati, però, non si sofferma molto sulla ripartizione teorica dell'arte militare (che, come si è visto, chiama navale e non - più largamente - marittima) e sull'analisi di ciascuna parte. La ripartizione da lui indicata, oltre ad essere troppo sommaria, ha il difetto di essere "orizzontale" (senza cioè distinguere tra concezione, impostazione teorica, organizzazione e condotta) 78 e il
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Bollati, La guerra in mare (Cii.), p. 127. ivi, p. 4 . .,, ivi, p. 3. 1 • Per un approfondimento concettuale di questa questione di base rimandiamo al Nostro L 'A rie 16
mi/ilare del 2000, Ro ma, Ed. " Rivista Militare" 1998, cap. VI.
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pregio di accennare, per la prima volta, all'organica e alla logistica anche in campo navale, oltre che di separare - come altri prima di lui - le evoluzioni dalla tattica: le discipline navali sono: la Tecnologia, l'Organica, la Strategia, la Tattica, le Evoluzioni e la Logistica, le quali racchiudono il pensiero della vera condotta della guerra, perché mentre le Evoluzioni sono mezzo di esecuzione del concetto tattico de/l'ammiraglio, la Logistica e la Tattica sono mezzi di esecuzione del concetto strategico, l'uno (logistico) ordinato alla traslazione, l'altro (tattico) ordinato all'urto. 79
In nota il Bollati rileva che " i/ Jomini a queste discipline ne aggiunge un 'altra, che per gli ufficiali di mare acquista una non lieve importanza, ed è la diplomazia, o scienza politica nelle sue relazioni colla guerra". Questa sua affermazione è inesatta: in realtà Jomini (Vol. I, cap. TI) impropriamente include, per prima, nell'arte/scienza della guerra, la politica della guerra, che riguarda il Governo e consiste nello stabilire se una guerra contro un dato Stato nemico è conveniente, opportuna o comunque indispensabile, tenendo conto della politica estera, che a sua volta si avvale della diplomazia. Di conseguenza, per quest' ultima si intende non in vera e propria parte dell'arte/scienza della guerra, ma piuttosto un'arte/scienza "esterna" che ne è il fondamento, l'accompagna e ispira, dunque è l'esatto contrario di quanto vuole Jomini. lnf'me la diplomazia non è solo "la scienza politica nelle sue relazioni con la guerra", ma più ampiamente "la scienza e pratica dei rapporti internazionali tra gli Stati" (diz. Garzanti), che pertanto riguarda anche la politica della guerra o militare ma non solo queste. A compimento di un'altra opera nella quale analizza criticamente le principali battaglie navali del passato, il Bollati fornisce anche un ambizioso "corano navale della guerra in mare", che prende come riferimento un "Memento" dell'ammiraglio Makarov.80 In sette punti vi sono elencate raccomandazioni che a prima vista sembrano banali, ma in pratica, per tutto il XX secolo sono state assai poco seguite dalle leadership politico-militari. In sintesi: le navi devono essere sempre pronte e allenate per la guerra, anche per mezzo di serie esercitazioni il più vicine possibile alla realtà del combattimento; occorre assicurarsi basi d'operazione nei più probabili teatri di guerra, ben fomite di carbone, bacini di raddobbo ecc.; la scelta dei comandanti delle navi e del comandante supremo va preparata di lunga mano e deve essere frutto di accurata selezione; l'istruzione e lo spirito d'iniziativa di tali Quadri devono essere sviluppati al massimo; la mancanza di preparazione alla guerra è "un vero delitto di lesa patria", e i Governi che se ne rendono colpevoli devono essere additati al pubblico disprezzo; "qualunque politica deve cedere il passo alla pre-
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Bollati, La guerra in mare (Cit), p. 3. Bollati, Breve raccolta di azioni navali (Cit). pp. 70-71.
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parazione alla guerra"; i comandanti delle navi, che non si curano di tenersi al corrente dei progressi navali, rischiano di disonorarsi al momento dell'azione. Questi principi sono l'antitesi di tutto ciò che ha portato alla sconfitta di Lissa, a cominciare dall'azione di comando dell'ammiraglio Persano, che il Bollati giudica in modo estremamente severo, più severo ancora del Fincati, fino ad affermare che "anche l'ammiraglio Byng, così incapace di fronte al nemico, non discese così in basso come Persano, e ciò nonostantefufucilato". 81 Affermazioni di questo tipo ben riassumono i caratteri dell'intera opera del Bollati, che può definirsi in chiaroscuro, perché i non pochi aspetti positivi vi sono offuscati da altri ugualmente frequenti, ma di segno opposto. Merita comunque particolare attenzione l'affermazione di tipo clausewitziano che anche la strategia navale deve tener conto dello scopo politico della guerra, peraltro in contraddizione con la precedente - ripresa dal Makarov - che lo scopo della guerra navale (e quindi anche della strategia) è di battere il nemico con una condotta comunque offensiva delle operazioni, che non sempre è possibile o non sempre è in armonia con lo scopo politico. Nei primi anni del secolo XX, è importante ricordare anche una risposta istituzionale ai molti interrogativi non sciolti, riguardanti il potere murittimo e, più in generale, la condotta strategica e tattica della guerra navale. Con decreto del Ministro Mirabello in data 19 gennaio 1908 viene istituita per gli ufficiali di tutti i corpi della Marina la Scuola Navale di Guerra, che (Art. 1) "mira allo scopo precipuo di coltivare ed qffermare un pensiero navale sulla nostra preparazione alla guerra, mercè il più largo contributo intellettuale". Tale scopo (Art. 2) "è ottenuto mediante la cooperazione di tutti gli ufficiali a mezzo di: 1) conferenze, seguìte da discussioni, sopra argomenti attinenti al1'organica, arte e tecnica militare navale; 2) una larga applicazione del giuoco di guerra navale". Secondo il capo di Stato Maggiore della Marina (viceammiraglio Bettòlo), "questa istituzione è una specie di palestra scientifica che, mentre differisce sostanzialmente dalle Scuole Navali create in Francia e Germania, rispecchia piuttosto il cancello cui s'informano i ' War Colleges' de/l'Inghilterra e degli Stati Uniti d'America, pur presentando caratteristiche speciali e conservando una fisionomia tutta sua propria e più conforme ali 'indole nostra". Il nuovo, alto istituto di studi, alla cui nascita come si è visto non è certamente estraneo il pensiero del Sechi, dovrebbe finalmente promuovere una più approfondita riflessione sugli aspetti teorici generali dell'arte militare marittima, sulla sua ripartizione organica e sui contenuti di ciascuna sua parte; ma non è cosi. Nella la Sessione acquistano spiccato rilievo l' analisi del potere
81 ivi, p. 37. L'ammiraglio inglese John Byng, chiamato in causa dal Bollati, nel 1756 ricevette dal1'Ammiragliato il compito di soccorrere Port Mahon nelle Baleari, allora occupato da forze inglesi e assediato per mare dalla flotta francese. Fu malamente battuto dall'ammiraglio Le Galissonièrc e la sua
sconfitta provocò la caduta di Port Mahon. Tradotto per questo davanti a un consiglio di guerra, venne condannalo a morte e fucilato nel 1757 (Cfr. E11ddopcdia Militare 1933, Voi. II).
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marittimo, della geografia strategica marittima e della nave da battaglia; ancora una volta gli aspetti teorici dell'arte militare rimangono in un cantuccio. 82 Solo il tenente di vascello Giuseppe Stabile, trattando sulle orme del Sironi (Tomo I, cap. VITI) della geografia strategica marittima e del suo influsso, si limita a definire la strategia (senza parlare di tattica o di altre parti dell'arte militare marittima) come l'arte di adoperare con sapiente coordinazione tutti i mezzi che essa ha disponibili per combattere il nemico ad un fine ultimo di vittoria. Il compito navale per la vittoria della grande gue"a ha la sua fase più essenziale nell'acquisto del dominio del mare, per cui occorre annientare e paralizzare permanentemente il nemico. La strategia in mare impone perciò la massima conoscenza della configurazione [geografica], come quella che permette di intuire la migliore coordinazione dei mezzi, e che avvalora, quando secondata, l'esplicazione delle forze.83
Una definizione da giudicare tra le peggiori finora incontrate, anche se ha avuto un certo successo tra i navalisti del XX secolo: 1) anche la tattica coordina tutti i mezzi ecc. per ottenere la vittoria; 2) la strategia - anche in campo marittimo - ha piuttosto il compito di raggiungere lo scopo politico della guerra, creando le migliori condizioni per l'impiego (offensivo o difensivo) delle forze in campo tattico, in relazione allo scopo politico; 3) pertanto la strategia navale, checché ne dicano molti navalisti, non sempre e non necessariamente mira alla conquista del dominio del mare; 4) anche la tattica si basa sulla "massima conoscenza della conjìgurazione [geografica]; 5) anche la strategia e la tattica terrestri si basano su tale conoscenza, coordinano l'impiego dei mezzi disponibili ecc. La 1a sessione 1908 della Scuola Navale di guerra, comunque, ha almeno il merito di fornire - grazie al capitano di vascello Camillo Corsi - l'unica e condivisibile definizione di potere marittimo che, oltre al Sechi, siamo riusciti a rintracciare nell'intero periodo 1870-1815 (è ben noto che né il Mahan, né il Bonamico, pur trattando a fondo l'argomento, non ne forniscono una definizione). Secondo il Corsi, si intende per potere marittimo il prodotto dell'armonico sviluppo degli interessi d'ordine economico e politico che una nazione ha sul mare e della sua potenza militare marittima. Sovente si corifonde il potere marittimo col potere navale [dato dalla sola flotta militare - N.d.a.], col dominio del mare [come fa l'Enciclopedia Militare I 933 - N.d.a.], col potere militare marittimo, con la preponderanza marittima ecc.; mentre codeste locuzioni esprimono soltanto particolari condizioni di cose che sono in stretti rapporti col potere maritti-
82 Cfr. Ministero della Marina - Ufficio del Capo di Staio Maggiore, Annali della Scuola Navale di Guerra - Sessione 1908, Roma, Ed. "Rivista Marittima" 190R. 83 ivi, p. 31.
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mo, sono suoi coefficienti e sue manifestazioni. ma non sono il potere marittimo. faso risiede nella ricchezza. nel prestigio, nella forza che derivano dal/ 'atlività commerciale sul mare, dal prosperare delle industrie marittime, dal['efficacia del 'indirizzo politico, dall'influenza che esercita e dall'azione che può svolgere la marina militare[... ]. Sono dunque elementi d 'indole economica, politica e militare quelli che, integrati, conferiscono ad una nazione il potere marittimo; essi sono indissolubilmente collegati; la funzione dell'uno è compenetrata in quella degli altri che la completano, onde, al/or quando uno dei tre elementi non è armonicamente proporzionato agli altri due nerisulta un prodotto ibrido che può avere parvenza di potere marittimo, ma è un potere effimero, sterile, atto più che altro a creare illusioni. 84
Questa definizione sintetizza con efficacia i caratteri del potere marittimo, così come sono tratteggiati da Mahan e Bonamico; peraltro si deve constatare che i termini fondamentali potere marittimo e dominio del mare, sono trattati specie nei loro riflessi da parecchi autori del periodo, ma - contradditoriamente - nella generalità dei casi non si ritiene opportuno darne una definizione, come invece sarebbe necessario per chiarire bene le basi teoriche della materia. L' ultimo a fornire approcci teorici interessanti a strategia e tattica è il tenente di vascello e futuro ammiraglio Romeo Bernotti, massimo scrittore navale del secolo XX e padre dell'aviazione navale fin dagli anni Venti. In parecchi articoli che culminano nella sue opere Fondamenti di tattica navale (191 O) e Elementi di strategia navale (1911 ),85 il llernotti more solitu non definisce l'arte militare marittima né si occupa delle sue parti, ma in compenso fornisce definizioni di tattica e strategia sostanzialmente corrette e con accenni significativi anche al dominio del mare, benché la trattazione particolareggiate di questi argomenti non sia esente da contraddizioni e aspetti criticabili. Non a caso l'opera del 1910 dedicata alla tattica navale precede di un anno quella che si occupa della strategia. Uno dei lati più discutibili degli scritti del Bernotti è infatti la sua pretesa iniziale (poi smentita) che lo studio della tattica debba precedere quello della strategia, in tal modo negando la stretta interconnessione e gli incerti confini tra le due parti, insieme con il principio che un buon tattico deve conoscere quanto gli basta anche della strategia, e viceversa. A parere del Bemolli (1902), "mentre bisogna conoscere la tattica per studiare la strategia, d 'altra parte lo studio del modo di combattere [ cioè della
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ivi, p. 15. i principali scritti del Bemotti prima della guerra mondiale ricordiamo Suijòndamenti della tattica navale, io " Rivi~1a Marittima" mano 190 I, pp. 401-433; Lo studio della lallica navale, in "Rivista Marittima" novembre 1902, pp. 249-275; Riflessioni sulla strategia navale, in "Rivista Marittima" marzo 1903, pp. 417-452; i due libri Fondamenti di lllllica navale, Livorno, Giusti 1910; Elementi di strategia navale, Livorno, Giusti 19 11 . Queste ultime opere sono frutto dell'insegnamento di Arte militare e marittima dell'autore presso l' Accademia Navale di Livorno. Si veda, in merito, anche il Nostro l 'evolu::ione del/ 'arie marittima ali 'inizio del ,çecnlo, allraverso gli scritti di Romeo Bemolli, in " Bollettino d 'A rchivio Marina Militare" Auuo J - n. 2 dicembre 1987, pp. 161-179. 15 Tra
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tattica - N .d.a.] può svilupparsi completamente, [anche] quando non si abbiano conoscenze strategiche". 86 Questa affermazione (poi contraddetta in altre parti dei suoi scritti) si basa su una pretesa differenza operativa tra strategia terrestre e marittima: mentre sul campo di battaglia terrestre nel determinare la direzione dell'urto entra anche una componente strategica [il che non è vero, o non è sempre vero - N.d.a.], in campo navale anche se la battaglia è condotta per raggiungere obiettivi strategici, data la grande velocità delle formazioni "la direzione dell'urto tattico non potrà in alcun modo essere influenzata da considerazioni strategiche"87 (anche questo non è vero, o non è sempre vero: ad esempio, se una flotta attua una strategia difensiva l'urto tattico ne è certamente influenzato). Il lettore può obiettare che anche in campo terrestre l'utilizzazione delle armi può essere indipendente dallo scopo strategico, così come può esserlo in campo navale. Su questo argomento nessuna norma rigida è possibile, perché il modo di condurre la battaglia dipende anche in mare dallo scopo strategico da raggiungere; inoltre ne fa sempre parte anche il coordinamento tra fuoco e momento e in esso, l'impiego delle varie armi. In realtà nemmeno nella battaglia navale decisiva a forze riunite si può considerare le modalità di azione tattica come indipendenti dallo scopo strategico da raggiungere. In questo caso la strategia intende ottenere il suo scopo con il mezzo più completo e difficile, cioè la distruzione del nemico; ma in tante altre circostanze, nelle quali per una qualche ragione tale obiettivo non è possibile (difensiva strategica; guerra di corsa ecc.), tali modalità di azione cambiano radicalmente. Si può dunque concludere che - all'opposto di quanto afferma il Bemotti- in nessuna occasione - si può rinunciare a un certo grado di dipendenza reciproca anche tra strategia e tattica navali, e che sia in campo terrestre che marittimo la strategia, pur tenendo conto dei limiti e delle possibilità tattiche, in nessun caso può rinunciare a determinare modalità e condizioni dello scontro tattico (al quale compete ottenere la vittoria, o comunque dare un contributo non solo positivo, ma insostituibile al raggiungimento dello scopo strategico). Il Bemotti non ha la mano felice nemmeno quando, nel le Riflessioni sulla strategia navale del 1903,88 accenna a tre differenze a suo parere fondamentali - ma per la verità inesistenti - tra principi (o meglio "proposizioni") della strategia terrestre e navale. l) "Bisogna tenere le forze riunite, affinché la loro azione possa essere simultanea". Secondo il Bemotti in campo terrestre questa esigenza è difficile da soddisfare, perché le necessità logistiche impongono alle forze di dividersi; sulla piatta superficie del mare, invece, queste necessità non esistono e quindi non vi sono difficoltà a mantenere sempre e agevolmente le forze riunite [uno
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Bemotti, Lo studio della tattica navale (1902 - Cii), pp. 273-274. Bernotti, Introduzione a Elementi di strategia navale (Cit). Remotti, Riflessioni.... (1903 - Cit).
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dei capisaldi delle teorie di Mahan - N.d.a.]. Ma ciò non sempre è conveniente; anzi, l'applicazione di tale principio sul mare può causare la sconfitta: perciò ''prima di ammettere questo principio, bisogna ricercare se mediante un opportuno frazionamento, che bene utilizzi le qualità strategiche, si possa riuscire a cogliere in errore il nemico ed opporgli fòrze maggiori nelle azioni tattiche". Noi osserviamo che questo può essere conveniente anche in campo terrestre; in ogni caso il Bemotti si contraddice e afferma cosa inesatta, perché in campo terrestre, almeno come usava fare Napoleone, le forze dovevano dividersi per vivere o muovere verso il nemico e unirsi per combattere. Il vero problema era dunque quello di riunirle nel punto decisivo e nel momento voluto, non di mantenerle sempre riunite (come afferma lo stesso Bemotti che dunque in questo caso sbaglia, anche se si ispira a Mahan - mai dividere la flotta"). Il) "Bisogna mantenere libere le vie di comunicazione". Secondo Bemotti questo vale in campo terrestre ma non in campo marittimo, dove i movimenti sono liberi e quel che vale non è tanto la direzione delle basi di operazione, ma la loro distanza. Inoltre le basi di operazione possono essere più di una e possono cambiare. Perciò "in mare il vincolo è intermittente, mentre quello di un esercito è continuo, e le sue linee di comunicazione sono bene reali". Affermazione anch'essa troppo assoluta, alla quale si può obiettare che ad esempio Napoleone, pur sottolineando la necessità di mantenere le linee di comunicazione alle spalle dell'esercito e di eliminare quelle nemiche, se la situazione operativa lo richiedeva ha saputo rapidamente discostarsene, o cambiare la base d'operazione. Inoltre anche in mare - specie a quei tempi e per ragioni di autonomia specie del naviglio minore - i movimenti di una flotta non erano una variabile indipendente rispetto alla posizione della base o delle basi d'operazione, dalle quali specie in Mediterraneo, mare ristretto, anch'essa poteva essere tagliata, con gravi conseguenze. Interponendosi tra la flotta nemica e le sue basi d'operazione, è sempre stato possibile costringerla a battaglia anche se aveva forze inferiori o comunque non la ricercava: ciò è avvenuto anche nel luglio 1940 a Punta Stilo, per iniziativa della flotta inglese. Certo, in mare non si tratta di togliere o mantenere, un fascio ben localizzato di comunicazioni stradali: ma anche la libertà di movimento di una flotta è sempre stata relativa e non assoluta, perché il cordone ombelicale con le sue basi di operazione è sempre stato necessario, individuabile e interrompibile. Ili) "Lo scopo essenziale da raggiungere è quello di battere le forze nemiche". Principio, come si è visto, di grande successo tra gli scrittori navali, dal Makarov in poi, che però il Bemolli ritiene (a torto) valido solo in campo terrestre, ma (a ragione) non sempre valido in campo marittimo, diversamente da Mahan e in questo seguendo il Bonamico e il Sechi. In merito, egli afferma anche che "in terra nessun risultato è conseguibile senza la battaglia". Cosa non vera: anche in campo terrestre c' è la difensiva, la battaglia può essere ricercata, ma anche sfuggita: né la distruzione dell' avversario, pur essendo l'obiettivo militare ideale, può essere possibile o necessaria. A parte le moda-
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lità per conseguire lo scopo tattico derivanti dall'ambiente naturale, quindi, non c'è alcuna differenza sostanziale tra il campo terrestre e il campo marittimo, per il quale il Bernotti ( diversamente dai navalisti coevi, per i quali la conquista del dominio del mare è premessa indispensabile per qualsivoglia operazione "secondaria") afferma che il principio in questione non può essere accettato in mare come un assioma [...].L'offesa alle città costiere, la distruzione del commercio, l'attacco di un convoglio di sbarco, sono obiettivi importanti, e si possono tentare senza la distruzione delle forze nemiche. Saranno queste ultime che vorranno opporsi all'attaccante, sicché potrà risultarne la battaglia; per conseguenza è giusto pensare che prima o poi, in qualche modo bisognerà battersi, ma la battaglia navale, la battaglia di squadre, non può ritenersi a priori la stella polare della strategia navale.
A conforto di queste sue tesi confermate dall'esperienza storica, il Bernotti cita - sempre nel 1903 - un 'affermaz ione del 188 1 del Bonamico, secondo il quale in campo terrestre (e qui sbaglia come il Bernotti dopo) "la battaglia è lo scopo, poiché è anche l'unico m ezzo, per conseguire importanti obiettivi, e diventa p erciò principale obieLtivo essa stessa". Questo non avviene in campo marittimo, dove "essa non è che un mezzo finché rimane la possibilità di conseguire i più importanti obietti vi senza impiegare decisivamente tutte leforze; per conseguenza evitare la battaglia rimane uno scopo strategico, quanto quello d'impegnar/a vantaggiosamente".89 A queste affermazioni del Bonamico il Bernotti aggiunge un accenno polemico alle tesi di taluni navalisti coevi: "tuttavia da qualche.fautore della strategia navale napoleonica non si esita ad affermare che, in virtù del principio enunciato, sarà un grave errore il bombardare una città costiera prima che la flotta nemica sia distrutta". 90 Le definizioni di strategia navale e di dominio del mare, che il Bernotti fornisce nei successivi Elementi di strategia navale, denotano anch'esse una certa flessibilità, nonostante numerose contraddizioni. La strategia navale "considera nel loro insieme le operazioni della guerra marittima" e ha come "obiettivo essenziale" la conquista del dominio del mare o almeno un efficace contrasto di tale dominio, quando è in possesso dell'avversario, cioè quando le condizioni relative delle forze contrapposte non consentono di mirare alla conquista, che può essere ottenuta definitivamente solo distruggendo le forze nemiche con una battaglia decisiva.91 La correlata definizione del dominio del mare riconosce realisticamente che non sempre la sua conquista può essere piena, assoluta, definitiva, con una formulazione che ammette anche l'esistenza di limitazioni geografiche:
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ivi. Bemolli, Riflessioni.... Cit. Bernotti, Introduzione n Elemenli. ... (Cit).
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un belligerante ha il dominio e la padronanza del mare, in un certo bacino di operazioni [quindi, non in tutto il teatro di guerra- N.d.a.] quando le/orze navali nemiche da battaglia ne sono assenti, oppure sono annientate, o paralizzate, in modo che le acque di tale bacino risulti sufficientemente sicure[ ... ]. Una flotta che non sia paralizzata, può trovarsi, rispetto al dominio del mare, nelle situazioni seguenti: 1° Dominio contrastato [...]; 2°) Dominio temporaneo[ ... ]; 3°) Dominio conservabile[ ... ]. È questo il caso in cui /e/orze nemiche sono penalizzate, oppure sono assenti, ma si ritiene di poter impedire il loro arrivo nel bacino di operazioni a cui ci riferiamo... 92
Un siffatto concetto di dominio del mare ammette come forma d'azione alternativa rispetto all'offensiva la difensiva strategica, vista come mezzo per logorare le forze nemiche con azioni a grande distanza. ( creando così le condizioni per un rapporto di forze più favorevole), oppure per contrastare al nemico il libero uso delle vie del mare e per ottenere la protezione indiretta delle coste. In questo caso la flotta si mantiene in being, tenendosi però pronta a passare dallo stato potenziale allo stato attivo. Ne consegue che "il termine stato potenziale è relativo ali 'attività tattica, e altrimenti [si può dire che] la flotta in potenza non è una flotta che rimane costantemente in porto, bensì è strategicamente attiva, e animata da spirito oflènsivo". 93 Mahan è assai diffidente nei riguardi del principio dellajleet in beingc della difensiva strategica; anche in questo, dunque, il Bernotti si discosta dal profeta americano e si avvicina al Bonamico. Se ci si sofferma solo su queste interfacce dei suoi scritti, il Bcmotti potrebbe legittimamente essere definito come un seguace di Bonamico e Sechi e come un avversario di Mahan, ma non è così, o meglio non è sempre così. Forse condizionato dal pensiero ufficiale del momento, in contraddizione con altre parti degli stessi Elementi di strategia navale e ancor più con l'approccio relativistico dell'articolo sulla strategia del 1903, nel 1911 egli vira decisamente verso il Mahan, sostenendo in tutti i modi e in tutte le possibili forme d'impiego la centralità assoluta della conquista del dominio del mare e quindi della battaglia decisiva tra grandi navi, la cui azione può essere ostacolata, ma non interdetta da sbarramenti di mine, torpediniere e sommergibili. Questa volta, a suo parere la conquista del dominio del mare è addirittura ''l'unica forma di guerra che devesi considerare razionale" [ma è razionale anche la difensiva strategica, per quanto detto da lui stesso - N.d.a.]. Pretendere di ottenere loscopo della guerra con altre forme di azione strategica (blocco,attacco al commercio, trasporti marittimi in appoggio all'esercito, ecc.) anche senza la conquista del dominio del mare, è un grave errore: tale conquista è una conditio sine qua non per la riuscita di queste azioni secondarie. Netta e contradditoria sfiducia anche nella difensiva strategica, visto che "se non cercheremo la di-
92 Bcmotti, Elementi.... , pp. 3-4. '" Bemolli, i vi, p. 20.
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struzione della flotta avversaria, o ci esporremo al contatto tattico con l'inconveniente che sarà nemico a imporcelo (e per questo potremmo essere colti in situazione critica) oppure, se non riusciremo nel 'obiettivo prefisso, il buon esito sarà illusorio". 94 Sempre nei predetti Elementi del 1911, il possesso del dominio del mare diventa anche la miglior premessa per realizzare la correlazione terrestre-marittima, alla quale, come il Bonamico e il Sechi, il Bernotti dà grande importanza particolarmente nell'articolo del 1903. A distanza di circa un secolo, quanto afferma in proposito non è ancora stato ben assimilato, anche se riguarda non marginalmente il modo di intendere, di impostare correttamente le strategie relative ai tre ambienti (terrestre, marittimo e aereo): è evidente che per determinare la correlazione delle operazioni marittime con quelle territoriali, non possono ritenersi sufficienti cognizioni puramente marittime; per giungere a questa correlazione è indispensabile esaminare l'influenza reciproca della lotta marittima e di quella terrestre. Non è dunque concesso di ascrivere questa conoscenza unificata della guerra alla strategia navale più che a quella terrestre, ma è ad essa soltanto che può darsi il nome di Strategia puro e semplice. Rimane in tal modo definito il compito della strategia navale; per quanto riguarda la condotta delle operazioni questo campo è limitato inferiormente dalla tattica e superiormente dallo studio della correlazione anzidetta. Così per la teoria; entrando poi nel campo delle applicazioni diviene necessario seguire un procedimento inverso: in hase ai criteri della strategia si stabilisce lo scopo a cui bisogna tendere; da ciò derivano le operazioni strategiche navali, da queste risultano gli urti tattici[... ]; la strategia navale si occupa dunque non soltanto di studiare il possibile e il conveniente per impegnare il contatto tattico nelle condizioni migliori. ma riguarda anche il limite.fino a cui conviene sviluppare l'azione tattica [e come può, allora, la condotta di tale azione essere indipendente da quella strategica, come sostenuto in precedenza dallo stesso Bemotti? - N.d.a.]. 95
Ciò significa escludere quelle strategie "indipendentiste" così in vuga unche nel XX secolo, in base alle quali, nelle due guerre mondiali, ciascuna Forza Armata italiana (con effetti rovinosi specie nel 1940- 1943) ha cercato in luiti i modi di condurre la "sua" guerra, giustificandola teoricamente in modo poco convincente con le precedenti affermazioni. Tuttavia, non è del tullo in linea l'importanza assiomatica della conquista del dominio del mare (assolulo) con una battaglia decisiva tra grandi navi, sostenuta altrove dal Bcrnotti qual<; conditio sine qua non per qualsivoglia azione strategica in comune con le forze di terra. Non concordano con le predette, categoriche tesi mahan ia ne nemmeno le considerazioni sulla difensiva strategica e sullaJleet in h<'ill}!.. per di più suffragate da un'inopportuna ripetizione delle considerazioni del Bonami-
94 95
ivi. pp. 4-5. Demotti, Rijlessior,i ... (Cit.).
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co sulla minore importanza della battaglia in campo marittimo, già citate, come si è visto, nel 1903. Al confronto con quello di strategia, il concetto di tattica navale del Bernotti è molto più lineare e meno contradditorio: lo studio della tattica navale ha per oggetto l'impiego delle navi nel combattimento. Con ciò il campo di tale studio non si intende puramente limitato a quello in cui le armi sono in azione (contatto offensivo). Si comprende invero che direttamente in relazione al combattimento sono da considerarsi le mosse di due avversari fin dal loro avvistarsi... 96
Visto che dà tanta importanza alla battaglia, il Bemotti avrebbe potuto aggiungere che la tattica riguarda l'impiego delle navi, oltre che nel combattimento, nella battaglia stessa; ma, forse, in questo caso dà a combattimento il significato estensivo di "scontro con il nemico". Ad ogni modo nei citati due articoli del 1901-1902 sulla tattica pur senza definirla egli enuncia taluni pregevoli assiomi che senza dubbio favoriscono un corretto approccio alla problematica di questo livello, come ad esempio: - "la tattica deve precisare il criterio delle manovre, non le manovre stesse"; - occorre fissare con lo studio delle norme generali che lascino largo spazio all'iniziativa, non delle regole che sono molto più restrittive perché implicano un'idea preconcetta su quello che farà l'avversario; - è assurdo pretendere di stabilire a priori quel che si farà davanti al nemico, prescindendo dall'atteggiamento del nemico stesso; - di conseguenza, va abbandonata la cosiddetta "scuola geometrica o aprioristica", che intende individuare a priori, e mantenere per un certo tempo, la formazione che sarà necessario adottare di fronte al nemico. Con i predetti studi il Bernotti intende replicare esplicitamente alle critiche del Sechi, secondo il quale gli studi tattici francesi e italiani non tengono sufficientemente conto della formazione e manovre dell'avversario, e "costituiscono un ritorno agli antichi metodi di regole e norme fisse", vincolando dannosamente la manovra. Per la verità, nello sviluppo di questi concetti il Bernotti non tiene talvolta fede ai suoi stessi assiomi, diITondendosi su dimostrazioni matematiche e su troppo elaborati ragionamenti teorici aventi lo scopo di dctenninare le condizioni tattiche più vantaggiose; inoltre, ripetendo alla lettera le tesi del Makarov ritiene anch'egli - a priori e tassativamente - la riserva inutile negli scontri sul mare, e utile solo nella guerra terrestre. A questi limiti va aggiunta un'affermazione nei Fondamenti di tattica del 191 O che, oltre ad essere in totale contrasto con quelle precedenti (1903) sullo stesso argomento, entra in collisione anche con lo spirito e la lettera delle definizioni e degli assiomi prima esaminati:
96
Bcmotti, Fondamenti ... (Cit.), p. V.
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la distruzione delle forze mobili dell'avversario costituisce l'obiettivo essenziale a cui devesi mirare costantemente; il pretendere di conseguire lo scopo delta guerra evitando la battaglia tra le forze principali. e cercando obiettivi secondari, è mostrato interamente erroneo dalla Storia e dal raziocinio; a noi italiani fruttò Lissa. È sommariamente preferibile una battaglia voluta anziché una battaglia subita. 91
È ormai superfluo osservare che, come riconosciuto prima dallo stesso Bernotti, distruggere le forze mobili nemiche (obiettivo ancor più ambizioso di quello del Makarov, che parla solo di battere) e non subire la battaglia è il caso ideale: ma se non si può? Né qusto può essere un obiettivo "costante" ... Recensendo i Fondamenti di tattica navale il Sechi non accenna al precedente, criticabile assioma sulla distruzione dell'avversario e loda il lavoro del Bernotti,98 ma non manca di criticare il suo metodo eccessivamente analitico, con troppe formule matematiche "che in genere stancano e infastidiscono il lettore", con conclusioni che avrebbero potuto essere raggiunte anche "con semplici ragionamenti a base di buon senso". Per ultimo il Sechi non è d'accordo nemmeno sull'inutilità aprioristica e assoluta della riserva, "la cui convenienza o meno deve considerarsi principalmente in relazione alla certezza che essa potrà entrare in azione al momento opportuno, la quale certezza dipende essenzialmente da elementi strategici e in certi casi anche geografìci''. Le condivisibili osservazioni del Sechi contribuiscono notevolmente a far emergere pregi e di fctti dcli' opera del Bemotti in questo periu<lu, m:lla quale - forse per non discostarsi troppo da concezioni teoriche ufficialmente avallate - la lodevole flessibilità e molte condivisibili istruzioni sulla natura della strategia e tattica navale sono frenate, contraddette, neutralizzate da dogmi mahaniani, da schematismi a sfondo matematico e da ricerche del particolare di scuola francese, che rendono le due sue opere del 19 10-19 11 ancora in parte legate a l mito della battaglia decisiva tra grandi navi , mito che invece il suo maestro Sechi qualche anno prima aveva cercato di superare, nonostante l 'esperienza di Tsushima, probabilmente non estranea a certi ripensamenti del Bernotti nel 1910-1911.
* * * Conclusione Tra Lissa e la grande guerra il panorama dei contenuti teorici dell'arte militare marittima in Italia è contradditorio, raramente ori ginale e - nel complesso - si mantiene su un livello assai inferiore a que llo dcli 'arte militare terrestre esaminato nel Tomo I, anche perché troppo polarizzato sulla problematica
97
ivi, p. 233.
°' Scchi, in "Rivista Marittima" diccwlm: 191 0, pp. 609-616.
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tattica, e ancor più sui suoi schematismi. I progressi sono pochi e i problemi in sospeso sono molti. Una marina giovane come quella italiana è costretta ad affrontare ardui problemi teorici e interrogativi non risolti in un periodo di profonde trasformazioni delle armi e materiali, nel quale neppure le maggiori marine, con un retroterra culturale, industriale e di esperienza bellica, ben altrimenti radicato, dimostrano di avere idee chiare; a ciò si aggiunge la ritardata nascita dell'arte militare marittima rispetto a quella terrestre, dopo secoli nei quali l'arte della guerra in mare veniva identificata con la tattica tout court, o meglio ancora - specie nel periodo velico - con il miglior sfruttamento del vento per mantenere la formazione. In questo contesto, nonostante gli inevitabili limiti economici prevalgano nettamente, ancor prima di Mahan, gli orientamenti strategici verso la guerra di squadra e le grandi navi, anche se su questo terreno la nostra flotta non è certamente in grado di competere con le marine maggiori, e in particolare con la flotta francese (la Royal Navy è considerata fuori causa). Le idee di Bonamico, del Ministro Acton, di Sechi e del Bernotti non hanno alcuna influenza nelle scelte ufficiali. Le teorie di Mahan, la cui opera principale viene peraltro tradotta in Italia nel 1994, a cura dell'Ufficio Storico Marina, confermano sostanzialmente i precedenti orientamenti strategici anzi ne rafforzano la base teorica, risultando sostanzialmente nocive per una marina con risorse limitate come quella italiana, perché danno corpo alle esigenze di una grande potenza industriale con interessi globali com'erano allora gli Stati Uniti. Riceve forza e inimmeritata dignità scientifica anche quella concezione mitologica e irrealistica del ruolo delle forze navali italiane giustamente attaccata da Bonamico, mentre sulla Rivista Marittima non compare alcun studio approfondito su Aube e la sua scuola, le cui idee anche se non accettabili in toto forniscono elementi utili a una flotta inferiore che deve affrontare una flotta superiore e deve condurre la guerra dei convogli. Nonostante l' ampia recensione che ne fa la Rivista Marittima,99 anche l'opera di Julian Corbett Some principles ofmaritime strategy ( 1911 ), tradotta in Italia solo nel 1995 a cura dell 'Ufficio Storico Marina, riceve scarsa attenzione ed è mal compresa dallo stesso recensore. Eppure vi si avvertono distintamente parametri assai trascurati sia nel XIX che nel XX secolo: il rifiuto del dogmatismo teorico mahaniano, che appare legato anche ad esigenze di propaganda per una grande marina americana; la necessità di riferire alle esigenze nazionali le concezioni teoriche e in particolare quelle strategiche, la guerra dei convogli ; la correlazione terrestre-marittima, invero dettata - specialmente per la situazione italiana - da un semplice sguardo alla carta geografica e dalla vasta estensione delle nostre coste. Tuttavia - fenomeno finora sfuggito ai compilatori dell ' histoire-bataille - già nella guerra del 1866 l'Italia ave-
99 Cfr. Manfredi Gravina di Ramacca, La s trategia marittima nelle opere del Corbett e del Mahan, m "'Rivista Marittima" marzo 191 3, pp. 435-454.
Il l' l' N~IFKO Mli lTAR[l Il NAVALE ITALIANO - VOL. lii (1870- 1915) - TOMO Il
va dimostralo di non essere in grado di costituire e mantenere- anche per una gucm, breve un grande esercito senza ricorrere a forti importazioni specie via mare di cavalJi, foraggi, generi alimentari, prodotti metallurgici ecc. 100 Come ricordano il Bemotti e il Bonamico, fino al 1915 le concezioni teoriche favorevoli alla guerra di squadra prevalgono anche all'estero, cioè presso le marine maggiori: occorre perciò chiedersi se questa è una giustificazione e un'alternativa, oppure un elemento a sfavore della nostra leadership, che poi giudicando l'Adriatico un mare non adatto alJe grandi navi, nella guerra 19151918 le ha mantenute prudentemente in porto a Taranto (a torto presentando tale scelta come l'applicazione del principio dellafleet in being. 101 Tutto sommato, la valenza teorica del periodo considerato va valutata lenendo presente l' esperienza del 1914-1918 e quanto affenna l'ammiraglio Castex negli anni Venti del XX secolo: se il pensiero strategico dei protagonisti della guerra navale emerge facilmente dalle operazioni da essi condotte (ordini, rupporti ecc. da loro redatti in quelle occasioni), la strategia teorica, invece, è espressa solo nei regolamenti ufficiali o nelle opere riservate di carattere dottrinale o didattico. Ora, secondo quest 'ultimo pu11to rii vista, il passato delle diverse marine è, jìno alla fine del secolo XIX, di un vuoto sconcertante. Sembra che lo studio dei principi che presiedono alt 'ideazione e alla direzione d 'insieme della guerra sul mare non abbia tenuto nessun uomo del mestiere. Parecchi autori sono stati colpiti, prima di noi, da questo fatto ed alcuni hanno tentato di spiegarlo. In Jta/ia, Bo11a111ico notava g ià, nel I 895, che gli scrittori dell'epoca della marina velica sembravano non aver sospettato L'esistenza della strategia navale, e che nessun autore moderno aveva tentato di sviluppare completamente tali problemi, al punto che la strategia marittima non era ancora divenuta, come quella terrestre, una scienza particolare, e che in quell'epoca non se ne trovava da nessuna parte un trattato completo. 102
Parlando di "vuoto sconcertante" Castex esagera: sta di fatto che la teoria strategica e tattica sul mare dopo Lissa percorre in prevalenza una rotta smentita dall'esperienza della guerra 1914-1918. Le concezioni strategiche e tattiche italiane, dunque, non sono le sole a privilegiare orientamenti e criteri di condotta, che nel 1914-1918 si riveleranno - come del resto quelle terrestri smentite dalla realtà, causando gravi perdite e gravi riflessi morali. Degli studi sul linguaggio marinaresco italiano rimane da dire ben poco, se non che essi non portano alcun valido contributo alla comprensione del ruolo delle forze navali e della realtà strategica e tattica della guerra marittima.
u,o Bolli, La logistica del/ 'Esercilo 183 1 - tR91 , Roma, SME - Uf. Storico 1991, Voi. Il pp. 180-
2 14. 101 Cfr. in merito, i Nostri La Marina italiana nel XX secolo, in " Rivista Marittima" luglio 2001, pp. 33-50, e La guerra marittima e aerea secondo Romeo Bernotti, Roma, Ed. Forum di Relazioni Internazionali. '"' Raoul Castex, 1eorie stralegidu,, tiaduz. il. Roma, Uf. Storico Marina I 99, Voi. T, p. 71.
CAPITOLO IV
IL COMBATTIMENTO NAVALE DA LISSA A FINE SECOLO XIX: SPERONE, CANNONE O SILURO?
"Al giorno d'oggi si vede continuamente variare la specie delle navi. Le artiglierie hanno variato grandemente in piccolo giro d'armi, ma lenavi da guerra hanno subìto variazione completa di sistema in tempo ancor più breve. Vascello a vela, a vapore, semplicemente corazzato. cogli :,peroni; ora si parla di torpedini. Sono cambiamenti radicali, i quali fanno variare il modo di combattere". On. Gen. PERRONE (CAMERA 1873) "Nell'ultima guerra americana [1861-1865] un gran numero di bastimenti venne distrutto dalle torpedini; questo ammaestramento del passato non dovrebbe esso condurci a studiare quale potrebbe essere la sorte dei grandi bastimenti corazzati armati di cannoni, se fossero attaccati da gruppi di battelli-torpedini molto maneggevoli?". (da "NAVALAND MILITARY GAZETIE" tradotto da "RIVISTA MARTTIIMA" 1870) "Che col mutare delle armi debba mutare il modo di combattere jù detto a sazietà, quantunque la cosafosse abbastanza evidente di per sé stessa; ma ciò che spesso è rimasto indimostrato allo apparire di nuovi istrumenti di guerra è il modo di servirsene colla maggiore ejjìcacia [ ... ]. Le tradizioni, le abitudini, i pregiudizi annebbiano la verità ed anziché lasciarla travedere nella purezza delle sue forme. la coprono del/ 'adamitica foglia, quando non di un lurido cencio".
CARLO DE AMEZAGA ("Rivista Marittima" 1872)
Premessa
L'analisi puramente teorica dei concetti di arte militare navale - e delle relative parti, là ove esse sono affrontate - non è sufficiente, anche se è un'insostituibile base di partenza. Il secondo passo non può essere che quello di definire più concretamente per la strategia quale può essere il ruolo generale delle forze navali, e per la tattica come e in che misura si deve tener conto di una serie di fattori: il grado di efficacia dello sperone anche per il futuro, i progressi delle artiglierie e corazze corrispondenti ai progressi della metallurgia e del-
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IL PENSIERO MTUTA!Ui E NAVALE ITALIANO - VOL. LII (1870-1915) -TOMO Il
l'industria, l'influsso delle nuove armi e in particolare del siluro (il ruolo antinave dei mezzi aerei è appena intravisto a fine secolo XIX), la perdurante efficacia di una vecchia arma perfezionata e prodotta in serie come la mina, il progresso delle macchine a vapore che con pesi sempre più ridotti possono fornire potenze (e quindi velocità) crescenti e infine il perfezionamento dei mezzi "specializzati" più idonei per mettere a segno il siluro (la torpediniera e, più tardi, il sommergibile). Di conseguenza in campo marittimo ancor più che nel campo terrestre l' arte militare deve tener conto anzitutto dello sviluppo tecnologico degli armamenti, risentendo solo in seconda istanza della realtà politico-sociale e in particolare delle disponibilità finanziarie e del potenziale industriale di ciascun Paese.
SEZIONE I - Caratteri generali della tattica in un periodo dominato dall'incertezza Nel difficile contesto della seconda metà del secolo XIX la tattica deve tener conto dell'inllusso di nuovi mezzi e nuove armi il cui sviluppo è appena all'inizio, con una problematica d'impiego che va affrontata insieme a quella creata dalla troppo rapida scomparsa della propulsione a vela (compresa quella ausiliaria) e dal l'inadeguatezza della relativa tattica, resa difficile anche dalla tendenza a dotare le unità maggiori di armi con caratteristiche d' impiego giustamente definite dal Bonamico (vds. cap. T) "divergenti'', come sono il cannone, il rostro e il siluro. Ne deriva - specie ma non solo per l'Italia - un quadro di incertezza che le esperienze bel liche di rilievo (battaglia di Lissa - 1866; battaglia di Ya-Lu fra le flotte giapponese e cinese - 1894; battaglie di Cavite e Santiago fra le flotte americana e spagnola - 1898) non riescono a dissipare, perché combattute in diverse circostanze, con diverse pedine e con leaderships di valore assai di segnale. Nonostante i continui progressi delle artiglierie e corazze dalla battaglia di Lissa in poi, taluni sono indotti a considerare lo sperone come arma-base del combattimento navale, dando di conseguenza la preferenza alla formazione frontale e a cuneo. La battaglia dello Ya-Lu (I 7 settembre 1894), vinta dai giapponesi in fonnazione in linea contro i cinesi in formazione a cuneo, sembra rivalutare il cannone: ma non più il grande cannone ad avancarica con lentissima celerità di tiro del Duilio, ma il cannone a tiro rapido e di medio calibro, sostenuto da uomini come Mahan e Bonamico. Al tempo stesso acquista crescente importanza l'imbarcazione specializzata destinata a impiegare la "torpedine mobile" (più tardi denominata siluro). Il quadro di perdurante incertezza è ben descritto da Rocco De Zerbi, il quale scrive nel 1886: forse verrà giorno in cui si crederà che ispiri troppa prudenza al comandante di una nave munita di potenti artig lierie il dargli anche a bordo pericolosi
IV - IL (.,'OMHATIIMENTO NAVALE l>A LISSA A FINE SECOLO XIX
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depositi di dinamite [cioè i siluri - N.d.a. ], che scoppiando potrebbero far saltare in aria la nave che li porta; giorno forse verrà che il Freemantle del I 886, il quale deride ''una flotta di tipi di vario genere, formanti fra loro una specie difamigliafèlice, perché gl'individui che la compongono hanno qualità differenti", parrà meno ragionevole del Freemantle del 1880 che - deridendo il soldato da operetta, armato di spada, di sciabola, di fucile, di lancia e di pistole - diceva: "nella guerra, nella vera guerra, a terra come in mare, noi poniamo la nostra fiducia in una sola arma, adoperando le altre come ausiliarie se occorre, ma non provandoci a farne uso più di una alla volta". Ma non ancora siamo a quel giorno. E non siamo là, perché siamo in periodo di trasformazione, il cui domani è incerto: non siamo là perché- l'ammiraglio Aube lo confessa "che cosa sarà una guerra marittima? Cosa strana! Nessuno oggi, neppure tra i più segnalati uomini di mare, può rispondere a questa domanda, e aggiungo: nessuno di loro può dire quale sarà in una prossima guerra l' istrumento di battaglia". Donde il naturale desiderio di ciascuno di averli tutti.•
Sempre secondo il De Zerbi questo stato di cose, comune a tutte le Marine, danneggia particolarmente la rinascita della Marina italiana dopo Lissa: in questa varietà del tipo di unità da combattimento, in questa conseguente varietà di criterio nella composizione delle squadre, in questa ignoranza assoluta delle regole che avrà la futura strategia e la futura tattica, in questa corsa al palio che fanno tra loro le tre armi (cannone. sprone, dinamite subacquea) delle quali a vicenda ciascuna è ogni anno vittoriosa e vinta a sua volta, in questo vertiginoso succedersi di novità tecniche e di nuove esigenze politiche [ ... ] diciamo la verità, l'opera del rinascimento [della Marina Italiana] è stata disseminata di enormi e continue difjìcoltà tecniche ejìnanziarie. 2
Neppure la guerra ispano - americana del 1898, vinta dagli Stati Uniti grazie alla superiorità della loro flotta e in particolare delle loro artiglierie, contribuisce a chiarire definitivamente le idee. All'inizio del secolo XX il comandante Bollati di Saint Pierre scrive che la guerra navale si presenta oggi come una terribile incognita, che le ultime due guerre, cino-giapponese ed ispano-americana, non valsero a mettere in chiaro, perché in ambedue queste guerre uno degli avversari si lasciò cogliere impreparato; infatti i progressijàtti e che continuano a farsi nella costruzione delle navi e delle armi non hanno ancora dato sufficiente prova di sé; sicché una futura guerra navale potrebbe riservarci gravi sorprese, e tutto, o quasi tutto, si può ritenere ancora nel 'ignoto. 3
1 Rocco dc :!.,erbi, La marina militare italiana, in "Nuova Antolob'la" Voi. lll - Fase. XXI - l novembre 1886, p. 97. 1 ivi, p. 99. 1 Eugenio Dollati di Saint Pierre, La guerra in mare (con pre fazione di Enrico Barone), Torino, Casanova 1900, pp. J 2.
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Sempre all'inizio del XX secolo è il Bonamico (vds. anche il cap. l) a tracciare da par suo la più esauriente panoramica generale del pensiero tattico europeo del secolo XIX, nel quale - va detto subito - quello italiano non sfigura affatto. 4 Dando prova di una vasta cultura storica e di un'altrettanto vasta conoscenza degli scrittori europei coevi, egli parte dagli elementi di base (ben 12) della tattica dell'età della vela per poi giungere a quelli del vapore, tenendo conto anche degli ammaestramenti delle ultime battaglie. Premesso che intende riferirsi unicamente alla "grande tattica", cioè ai criteri di condotta della battaglia navale diurna a flotte riunite, egli riconosce agli scrittori francesi il primato tattico del periodo velico, favorevolmente citando, tra gli altri, il Padre Hoste, e attribuendo un ruolo di rilievo al Bouet de Villaumcz, a Jurien dc la Gravière e a Cbabaud-Arnaud (ai quali aggiunge anche il nostro comandante Gavotti, il cui contributo esamineremo più tardi). A suo avviso, verso lajìne del 18° secolo i criteri fallici [del periodo velico] erano teoricamente stabiliti ed applicati, a seconda della situazione e della indole direttiva. con tanta maggiore esattezza quanto più le flotte si perfezionavano e si riducevano a minor numero di navi. Il criterio tattico non applicabile e mai applicato con intendimento prestabilito, era 'luello del concentramento eventuale nel campo tattico, che aveva avuto così risolutiva applicazione da Alcibiade, Oberto e Lamba D'Oria. Assereto [e perché non anche da Nelson? N.d.a.] ... e che potrò trovare ancora ragione da applicarsi in avvenire. li periodo velico aveva raggiunto una perfezione e determinazione tattica che le flotte a remi 11011 ebbero, e se non fosse sopraggiunto il vapore [ma è forse una disgrazia'! - N.d.a.) si sarebbe certamente creata una dottrina tattica di grande perfezione scientifica.
Questo giudizio è suffragato da una serie di argomentazioni, che riguardano tutte le componenti del problema tattico: - la nave tattica per eccellenza era il vascello. Essa era teoricamente e praticamente determinata; rispetto al vascello le fregate, corvette, navi-brulotto ecc. avevano anch'esse un ruolo ben definito; il cannone era "l'arma quasi esclusiva del combattimento, in tutte le sue
fasi. Tutte le fasi dello scontro erano fondate nell'impiego a distanza o ravvicinato del cannone. 1 brulotti specie nelle guerre anglo-olandesi produssero effetti risolutivi, ma con l'aumento della potenza delle artiglierie il loro impiego divenne più pericoloso che utile. L'arma bianca, fondamentale nel periodo remico, divenne di impiego eccezionale; l'unità del tipo di nave fondamentale e l'esclusività del cannone come arma tattica resero la linea di fila l'unica formazione di combattimento da adottare, corrispondente alla necessità di utilizzare le artiglierie di-
• Domenico Bonamico, La tattica navale del secolo XIX. in "Rivista Marillima'" n Trimestre 1901 - Fase. II. pp. 253-284.
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sposte unicamente sui fianchi dei vascelli. Tra tutte le linee di fila quella che meglio corrispondeva alle esigenze tattiche era la linea di bolina; l 'ordine di marcia era pertanto molto vicino a quello di combattimento. Una flotta numerosa si articolava su due o tre colonne che poi costituivano reparti tattici della formazione (in linea) di battaglia; "l'ordine di battaglia essendo unico, l 'evoluzione non aveva altro scopo che quello di preservare quest'ordine durante le manovre o i movimenti tattici per spostare l'armata rispetto a quella del nemico". I cambiamenti di formazione e di densità erano esclusi. L'evoluzione simultanea, esclusa la poggiata per l'attacco, sia per attraversare la linea di fila sia per formare di nuovo la linea di fila, a distanza di combattimento, era molto difficoltosa; premesso che la manovra tattica sul campo di battaglia ha come scopo la rottura del la formazione nemica oppure la concentrazione temporanea di forze preponderanti sul punto decisivo (che è più risolutiva), tale manovra poteva raggiungere il suo scopo solo guadagnando e conservando la posizione sopravvento; "durante tutto il periodo velico lajàse risolutiva si estrinsecò sempre con la lotta d 'artiglieria a breve dL,;tanza, completala eventualmente dal/ 'abbordaggio. Essa era quindi perfettamente determinata come azione, e la sua riuscita dipendeva dalla concentrazione materiale o morale, preparata durante la jàse iniziale"; diversamente da altri ammiragli Nelson, che mirava sempre alla distruzione della flotta nemica, "odiava la manovra p er la manovra, e soltanto la studiava per conseguire immediatamente il concentramento preponderante". Ma il modello di Nelson per Bonamico non è l'unico valido, visto che, per lui, "ciò non esclude che l'azione manovrata preparatoria avesse raggiunto una grande perfezione teorica, e fosse lodevolmente esplicata ad onta della minore risoluzione tattica di cui era capace"; la funzione essenziale delJa riserva è di rimanere in potenza durante l'azione fino al momento risolutivo. Durante il periodo remico essa era impiegata per rafforzare immediatamente le parti della formazione che stavano per essere sopraffatte dal nemico, o che dovevano esercitare uno sforzo preponderante. Nelson nel celebre Memorandum prima della battaglia di Trafalgar ba costituito con gli 8 vascelli più veloci un gruppo indipendente dalle due colonne d'attacco, che aveva il compito di rafforzare la colonna con la quale, azione durante, l'ammiraglio avrebbe deciso di esercitare lo sforzo decisivo, formando, a seconda dei casi, un'avanguardia o una retroguardia. Tale compito non fu mai quello della riserva, come erroneamente affermato dagli scrittori del periodo velico; più in generale "le armate a vela non ebbero, e per le condizioni variabili del vento non dovevano avere, una vera riserva, onde anche sotto questo aspetto la dottrina tattica era perfettamente determinata"; secondo l'opinione generale la posizione de ll'ammiraglio era al centro della linea di battaglia, se questa era estesa, oppure in testa, se aveva al-
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le sue dipendenze un numero limitato di navi. La facoltà che gli lasciavano i regolamenti di trasbordare su una veloce fregata ebbe rare applicazioni e ancor più rari successi, perché la fregata pur avendo una velocità superiore (ma non di molto) a quella dei vascelli, non aveva alcuna capacità di combattimento e non gli consentiva certo, come invece lo consente un incrociatore moderno, di controllare e dirigere il combattimento. Se si passa al periodo del vapore, anche in virtù di quanto detto al precedente capitolo lll ben si comprende come - all'inizio del secolo XX - molti concetti tattici relativi al periodo velico non siano più validi. Lo registra lo stesso Bonamico, sempre mostrando dispiacere per quello che, invece, è un progresso inevitabilmente pagato da un periodo di crisi. A suo parere l 'eredità tattica lasciata dal XVJJJ al XIX secolo era così determinata in tutte le sue categorie che sarebbe stato possibile formarne un preciso inventario, raccogliendo le formule in un prezioso manuale, ciò che forse sarebbe avvenuto se la nave a vapore non avesse falciata tutta la preziosa messe del periodo velico. Quasi tutte le questioni fondamentali della tattica precedentemente esaminate vennero sovvertite, e pochissime conclusioni fra quelle enunciate hanno sopravvissuto nella rinnovazione della dottrina tattica delle armate (navali) moderne. Questa rinnovazione trovasi tuttavia in uno stadio iniziale di grande indeterminazione, e / 'evoluzione del pensiero tattico. ad onta di pregevolissimi e numerosi studi, ha progredito assai meno di quello del pensiero strategico.
Segue un elenco in ordine cronologico (unico del genere) degli scrittori europei che dal 1833 in poi si sono occupati di tattica navale, tra i quali parecchi italiani (ad esempio: Morin, 1873; Gavotti, 1880 e 1898; Grillo, 1881; Ronca, 1891 e 1900; Passino, 1895; Baggio, 1897 e 1898; Bcmotti, 1900; e poi, senza data, Brin, Saint Bon,Arminjon, deAmezaga,Algranati, D' Agliano, Passino, Pesci , Lazzeri, Sechi, Roncagli, e ancora Baggio e Bernotti. Mancano inspiegabilmente il Fincati e altri). Dopo di ciò, il Bonamico in analogia a quanto da lui fatto per il periodo velico passa ad esaminare i principali elementi della tattica del momento. 1) LA NAVE DA BATTAGLIA-TIPO. Diversamente da quanto è avvenuto per il periodo velico, su questo argomento le opinioni non sono concordi e non esiste, per il momento, un tipo determinato di nave da battaglia, anche se "le attuali tendenze sono piuttosto.favorevoli alla nave di tipo assoluto che rappresenta la massima concentrazione del potere offensivo e difensivo in base al cannone". Gli incrociatori corazzati, "variante strategica della nave tattica" [che come tale privilegia l'autonomia e la velocità rispetto all'armamento e alla corazza - N.d.a.] sono generalmente considerati anch'essi navi da battaglia, da impiegare in formazioni a parte oppure insieme con le corazzate. Le navi solamente protette [cioè poco o nulla corazzate - N.d.a.] sono generalmente considerate complementari. Comunque "/'avvenire riserva ancora non poche sorprese circa il tipo dejìnilivo della nave da battaglia";
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2) L'ARMA TATTICA. La stessa indecisione si verifica a proposito dell'arma tattica per eccellenza: "le armi essendo tre [cannone, sperone e si luro N.d.a.] e lo sviluppo della battaglia comportando fasi preparatorie e risolutive, ne nasce una complessità del problema che rende difficile la soluzione: poiché l 'arma tattica di unajàse potrebbe non essere quella della fase successiva". Infatti durante il primo periodo degli studi tattici (1850-1880) la generalità degli scrittori ha indicato nel rostro l'anna preponderante per gli effetti risolutivi. Tra i fautori del rostro Bonamico indica il Bouet-Willau.mez, il Boutakov, il Semekin, il Parker, il Jurien de la Graviere, il Noel, il Grivel, l' Attlmayr, il Farret, il Penfenteyo, il Bougois, il Randolph e il Freemantle. Dopo il 1880 la difficoltà dell'urto e l'influenza del siluro hanno portato il Makaroff, il Penhoat, il De Gueydon, il Colombe i nostri Grillo, Saint Bon, Gavotti, Ronca, Baggio, Saint Pierre a indicare il cannone come anna principale e il rostro e il siluro come armi accessorie. Il ruolo assegnato al rostro e al siluro è però dissimile: taluni ritengono che nella fase risolutiva prevalga ancora il cannone, secondo altri invece nella mischia finale si deve manovrare per l' urto e per il lancio del siluro. Tenendo conto delle varie opinioni, il Bonamico esprime questo parere: dopo le ultime guerre. cino-g iapponese ed ispano-americana, l'importanza risolutiva accordata al cannone è ancora cresciuta, ma non crediamo che sia ancora giunto il momento di considerarlo, tanto nel duello come nella hattaglia e in tutte le fari defl'az ione, 1'arma tattica esclusiva del combattimento, quale fu durante il periodo velico. Noi crediamo interpretare correttamente il pensiero tattico prevalente oggidì condensandolo nei seguenti principi: 0 / ) il cannone è l'arma esclusiva del periodo iniziale manovrato, ed il siluro è l'arma accessoria anche p er distanze maggiori di I 000 metri, quantunque per tali distanze si escluda ancora, quasi generalmente, il suo impiego; 2°) il cannone rimane ancora l'anno preponderante nelle manovre ravvicinate o d 'incrocio finché si mantiene l'unità della forza navale manovrante, ma il siluro fin questo casol acquista un 'importanza risolutiva quasi uguale al ca1111011e; 3°) nella mischia generale, quando la manovra singolare della nave succede a quella evolutiva di squadra, il siluro diviene l'arma risolutiva, ed il cannone /'accessoria; 4°) il ros tro rimane nella 2" e ]"fase un 'arma d 'azione eventuale di urto, ma non mai di manovra, i cui caratteri sono dissimili, se pure non opposti, a quelli p er l'impiego del cannone e del siluro.
1n aderenza a questi concetti la manovra tattica di squadra e della nave, "salvo il caso eccezionalissimo del 'urto", deve armonizzare per quanto possibile le norme d ' impiego del cannone e del siluro; comunque "ad onta delle conseguenz e negative che si ebbero nelle ultime guerre, persistiamo a credere che il siluro ha un grande avvenire, che esso è l 'arma risolutiva per eccellenza nella fase rawicinata e d'incrociamento, e che p erciò è grave errore trascurarne /'impiego e limitarne il numero sulle navi da battaglia".
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3) LA FRONTE DI SCHIERAMENTO. Finché lo sperone è stato ritenuto l'arma preponderante, la prora della nave era offensivamente più forte e difensivamente meno vulnerabile del fianco, perciò anche in questo caso la questione era perfettamente risolta. Se invece si considerano il cannone e il siluro come armi preponderanti nelle principali fasi del combattimento la questione si complica, perché "offensivamente il fianco sarebbe più forte, ma difènsivamente è più vulnerabile" . Il pensiero tattico non ha ancora risolto questa questione, e "probabilmente non lo sarà.finché l 'esperienza della guerra non abbia dimostrato che il cannone e il siluro possano arrestare l'attacco prodiero di una nave nemica rendendolo una scelta tattica troppo pericolosa, cosa dalla quale siamo ancora molto lontant'. Al momento sembra valido il concetto che"la fronte di schieramento di unaforza navale è sempre subordinata a quella del nemico"; comunque "i criteri fondamentali che riguardano questa importantissima questione non possono ancora costituire una solida base alla teorica tattica delle flotte a vapore". 4) L'ORDINE DI BATTAGLIA. Non essendo stata risolta la questione della fronte di combattimento, non lo può essere neppure questa [ma non si può risolvere definitivamente! - N .d.a.]. Fino al 1880 hanno avuto la prevalenza ordini frontali di vario tipo; man mano che prevaleva il cannone sullo sperone quest'ultimi ordini tendevano a trasformarsi in ordini di rilevamento, a scaglioni o anche di fila semplici, doppi, per gruppi ... Tra i fautori degli ordini fi·o ntali estesi il Bonamiw indica gli scrittori francesi che per primi si sono occupati di tattica (il Bouct-Willaumez, il Grivel, il Jurien de la Gravière, il Penfentenyo, il Penhoat, il Courbet), gli inglesi Pellew, Noel, Randolph e Freemantle, i russi Bontakov e Semekin. Tra i fautori degli ordini di.fila semplici o complessi ricorda il Colomb, il Pagel, il Wilson, il Makarov e gli italiani Grillo, Algranati, Gavotti, Ronca. Infine gli ordini di rilevamento ad angolo, a scaglioni semplici o a gruppifurono propugnati, tanto prima che dopo il 1880, dal De Gueydon, Lawgton, Rando/ph, Attlmayr, Lewal, Sain Bon, Ronca, Labrès... ma specialmente, e prima di tutti, dal Douglas. Molti scrittori, come il Noe/, il Freemantle, il Jurien, il Ronca... propugnarono ordini di vario carattere a seconda dei tempi in cui scrissero o delle fasi del comhattimento che considerarono, ciò che è la prova più evidente della mancata soluzione di questo problema.
5) LE FORMAZIONI 01 MARCIA. Questa questione aveva grande importanza con le flotte a remi o a vela, che richiedevano un tempo considerevole per schi erarsi a battaglia; ma al momento può essere considerata di importanza secondaria e di carattere nautico più che militare. Non appena il nemico è in vista le forze navali assumeranno immediatamente la formazione prescelta per il combattimento, e tutti gli scrittori concordano sugli ordini di fila a gruppi o di colonne, con la densità richiesta dalle esigenze di sorveglianza e di difesa contro le sorprese notturne.
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6) LE EVOLUZIONT. Si tratta di una delle questioni più complesse della tattica navale, perché La sua soluzione dipende da una serie di requisiti: sicurezza della manovra, sua rapidità, ristrettezza dello spazio, minima vulnerabilità durante il periodo evolutivo, semplicità pratica dell'evoluzione. Dalla complessità dei requisiti deriva una grande varietà dei tipi di evoluzione e relativi sistemi, che il Bonamico riassume come segue: - il sistema per pronta formazione, di origine francese (Bouet-Willaumez, Grivel e Jurien de la Gravière). Consiste nell'occupazione da parte di ogni nave del suo posto nella formazione nel più breve tempo possibile e per la via più diretta, "con il solo criterio fornito dal colpo d'occhio del manovriero". È stato quasi esclusivamente adottato dalla regolamentazione tattica francese in vigore dal 1850 al 1865; - "il sistema per rotte determinate in base alla curva geometrica, descritta dalla nave monodica". A seconda della curva monoclica attribuita a tale nave, questo sistema ha avuto due modalità distinte: il metodo del Bontakov, che non corrispondeva alla realtà del movimento delle grandi navi, e a quello del Lewal, che era troppo complicato e basato su tabelle di evoluzione; - i metodi per rotte parallele, che rappresentavano un compromesso tra i due sistemi precedenti e furono regolamentati in quasi tutte le marine. Tra i sostenitori di quest'ultimo metodo il Bonamico cita il Dc Gueydon, il Parker, il Penfenteyo, il Pellew e il nostro Morin, tenendo presente che " la migliore analisi dei metodi di evoluzione e le migliori norme teorico-pratiche furono determinate dal Morine dal Ronca". Comunque egli è lungi dal criticare il compromesso raggiunto tra i sistemi urgenti e indeterminati dei primi tempi e i sistemi geometrici; quest'ultimi gli sembrano validi e applicabili, visto che a suo avviso "sarebbe temerario affermare la immutabile stabilità di questi sistemi teorico-pratici, ma non vi ha dubbio che essi rappresentano, salvo parziali modificazioni secondarie, una buona e durevole soluzione del problema evolutivo". 7) APPLICAZIONE DEL PRINCIPIO DEL CONCENTRAMENTO. Premesso che si tratta dapprima di rompere la formazione nemica, e in secondo luogo di concentrare forze preponderanti sul punto decisivo, nel periodo velico - come già detto - questo era assai difficile; ma nulla esclude che il primo principio, già applicato nel periodo nemico in virtù di una velocità e manovrabilità superiori, possa essere ancora applicato. Comunque sulla questione della rottura della formazione nemica il pensiero tattico nel XX secolo non si è ancora affe rmato, e l 'esperienza di guerra/a completamente difetto. Si ammette bensì che una squadra, od un suo reparto, dotato di velocità prevalente, possa manovrare estenzamente alla nemica e costringerla a manovrare, ma nessun scrittore, se si eccettua il generale Doug las, ha svolto con metodo questa tesi, onde si può affe rmare che questa questione è per ora insoluta.
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11 secondo problema (cioè i I concentramento di forze preponderanti sul punto decisivo così stabilito) è stato affrontato da una serie di scrittori (il Douglas, il Randolph, il Colomb, il Noel, il Jurien de la Gravière, il Freemantle, il Fournicr e i nostri Ronca e Baggio), ma anche in questo caso le modalità di applicazione non sono state definite con precisione, "onde questa parte del problema nonfa che vagamente considerata e non teoricamente risolta". D 'altra parte la velocità non assicura più, come il vento nel periodo velico, il concentramento delle proprie forze su una parte di quelle nemiche, perché con il vapore le forze separate possono rapidamente soccorrersi a vicenda. Inoltre la preponderanza tattica più che dalla separazione delle forze nemiche, deve derivare dalla superiorità materiale e morale e dalla rinnovabilità della flotta; lo stesso vale per le formazioni. 1n conclusione si può ajfennare che durante il XTX secolo non si è rivelato alcun nuovo principio tattico di concentrazione, poiché la velocità era giudicata elemento disgiuntuvo insufficiente e la preponderanza del numero o della forza navalefurono principi propri di tutti i tempi. [... ] Soltanto negli ultimi anni del secolo si esplicò, senza ajfennarsi né teoricamente né praticamente, un concetto nuuvo di ,:,mcentrazione fallica d'artiglieria, in virtù della velocità superiore, che è tutto proprio delle armate a vapore, ma che ha molta analogia con quello di defilamento delle armate del periodo velico.
Pertanto per il Bonamico le fasi del pensiero tattico sono state tre: 1°) concentrazione delle forze in virtù della preponderanza materiale e morale; 2°) concentrazione dovuta alla manovrabilità, "specialmente d'inversione della rotta, e alla formazione tattica che lo consente"; 3°) concentrazione a distanza del tiro d'artiglieria preponderante, in virtù di una mobilità superiore a quello del nemico. li concentramento di sorpresa di reparti distaccati e impegnati nel momento giudicato più opportuno dal l' ammiraglio, che nel periodo remico era stato risolutivo, nella guerra moderna non può essere applicato. 8) AZIONE IN1ZTALE. Fino al 1880, quando il rostro è prevalso sul cannone, la manovra iniziale aveva come unico scopo quello di rompere la formazione nemica. Tale modalità d 'azione avrebbe richiesto una capacità di manovra e una velocità superiori a quelle del nemico rivelatesi difficili da ottenere, che perciò non vennero studiate dal pensiero tattico. Dopo il 1880, quando al contrario è prevalso il cannone sul rostro, la concentrazione delle forze a distanza per mezzo di una adeguata mobilità è diventata la manovra più conveniente dell ' azione iniziale. Fino al 1895 nessuna teoria ne ha defmito le modalità d'azione; tuttavia gli scrittori sembrarono concordare sulla necessità dell 'azione a distanza come preparatoria di quella ravvicinata e risolutiva, mentre "il concetto velico del defilamento lungo un fianco e sulla testa e sulla coda della formazione nemica riacquistò favore teorico, ed ebbe sanzione pratica rosolutiva a Ya-Lu e a Cavite [... ]. Si ritornava quindi ai tempi di Keppel, Guichen d 'Orvilliers... ma rimanevano sempre da meditarsi i Memorandum di
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Suffren e di Nelson". Tale concetto si è maggiormente affermato dopo che un primo abbozzo del Cordes ( 1867) è stato richiamato in onore e approfondito con gli studi geometrici e analitici sull'evoluzione della nave intorno a un polo mobile costituito dalla nave nemica, dovuti nel 1894 a1 nostro comandante Passino (il cui contributo è definito dal Bonamico "splendido anche sefa grande peccato non avesse la diffusione che meritava"), al Fournier (1896) e successivamente al Vida1, al Vivier, e ai nostri Baggio e Bernotti, che svilupparono sempre più tale teoria propugnandone l'applicazione nella fase iniziale del combattimento. In sintesi, sempre secondo il Bonamico, la precedenza di tale teoria spetta alla Francia, ma il Baggio, e il Passino e soprattutto - più tardi il Bemotti hanno avuto il merito di portarla al massimo perfezionamento possibile. 11 Bonamico peraltro non si pronuncia sul punto più importante, che è l'avvenire di questa teoria; tuttavia si sbilancia giudicando questo metodo, che al momento ha non pochi sostenitori, "una delle più geniali conquiste colle quali si è affermato il pensiero tattico nel 19° secolo". 9) AZTONE RISOLUTIVA. Anche se lo sviluppo della battaglia "non fu ancora teoricamente determinato" [ma come avrebbe potuto esserlo? - N .d.a.], in generale si ammette che al momento essa possa essere combattuta in tre fasi: - la fase: periodo manovrato a distanza con azione di artiglieria ed eventualmente di siluri; - 2a fase: periodo manovrato a breve distanza con azione preponderante di siluri e artiglierie ed eventualmente <lei rostro; - Y fase: periodo della mischia generale con impiego di tutte e tre le armi, manovrando la nave per il lancio del siluro ed eventualmente per l' urto. L'evoluzione del pensiero tattico ha seguìto l'ordine inverso, nel quale: - dal 1850 al 1870 la mischia generale era ritenuta: "la forma principale, quasi esclusiva e immediata del combattimento"; - dal 1870 al 1890 è prevalso il concetto che la vera risoluzione della lotta poteva essere conquistata con la manovra di concentramento e d' incrociamento, e che la mischia era soltanto la conclusione ultima e non indispensabile della fase risolutiva; - dopo il 1890 si è attribuita capacità risolutiva al combattimento a distanza, se favorito da manovrabilità e potenza di fuoco preponderanti, escludendo la necessità della fase d ' incrociamento c - a maggior ragione della mischia, considerate solo come mezzi per completare la vittoria. Per ottenere la vittoria con quest'ultimo metodo occorre peraltro una forte superiorità di artiglieria, di velocità, di manovrabilità e nell ' impiego del si luro difficile da ottenere in pratica, e tale da richiedere lunga preparazione. Tn teoria sarebbe sufficiente una velocità lievemente superiore per applicare il metodo di avvolgimento polare descritto a proposito dcli 'azione iniziale, ma in pratica non sarebbe conveniente fare affidamento su margini di velocità così esigui. Peraltro, i non pochi scrittori che [come Mahan - N .d.a.] ritengono più nociva che utile una forte velocità sono in errore, mentre "noi riajfèrmiamo quan-
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to abbiamo sempre propugnato negli scritti e insegnato dalla cattedra, che cioè la velocità èfanzione tattica quanto strategica perfetta". E se le modalità tattiche della battaglia non hanno ancora raggiunto il grado di determinazione necessario, "ciò dipende principalmente dalla indeterminazione di altre questioni tattiche e specialmente dalle opposte qualità offensive e difensive della fronte di combattimento della nave". 1O) ATTACCHI TORPEDTNIERI. Tutti i principali scrittori che si sono occupati di impiego del naviglio torpediniero non hanno ancora indicato criteri d'impiego delle torpediniere veramente pratici [non è del tutto vero - N.d.a.]. Manca totalmente l'esperienza bellica [non è vero - N.d.a.], mentre nelle manovre di pace "i prodigi di attacco compiuti da squadre e squadriglie torpediniere, in vera guerra, non sarebbero stati possibili e probabilmente sarebbero divenuti disastri". Anche se sono stati definiti alcuni criteri pratici riguardanti l'impiego indipendente e notturno delle torpediniere, non si è finora concluso nulla sulle modalità d'impiego del naviglio torpediniero nella battaglia [non è vero - N.d.a.]. 11) RISERVA. li pensiero navale non ha ancora attribuito alla riserva il vero carattere che essa ha nella guerra territoriale, "ed è assai probabile che si limiti a considerarla tuLli al più come sostegno e rafforzamento di questa o quella parte de/l'ordinanza propria, dopo riconosciuta l 'ordinanza di battaglia nemica" [ma questo fa parte del ruolo della riserva - N.d.a.]. Inoltre gli scrittori navali non sono concordi sulla funzione esatta delle riserve; pertanto anche la soluzione di questo problema rimane insoluta. 12) POSTO DEL COMANDANTE SUPREMO. Quasi tutti gli scrittori, dal Bouet al Makaroff, sono concordi nello stabilire che l' ammiraglio deve essere al centro o in testa della formazione di battaglia, come Nelson. Con le flotte a vapore, però, questa soluzione non è più valida: nelle armate numerose, qualunque sia la formazione prescelta, la nave ammiraglia deve muovere fuori formazione e avere caratteristiche speciali, cioè "di limitato hersaglio, rapidissima, bene corazzata, con buon armamento di siluri, e speciale armamento di cannoni per difesa torpediniera, con torre amplissima e bene corazzata per il comando, corrùpondente a tutte le esigenze direttive della battaglia". Con discutibile scelta il Bonamico colloca alla fine del suo studio, e non all ' inizio, gli ammaestramenti tratti dalle battaglie della seconda metà del secolo (Lissa 1866; Ya-Lu tra la flotta giapponese vincitrice e quella cinese 1984; Cavite e Santiago nella guerra ispano-americana 1898). A suo giudizio tali battaglie forniscono ben pochi insegnamenti per "la grande tattica", anche se poi le utilizza fin troppo per rafforzare le sue tesi di fondo; perciò le sue considerazioni sono in chiaroscuro e quindi non sempre condivisibili. A proposito della battaglia di Lissa, il Bonamico condanna giustamente l' azione di comando del Persano, che ha portato solo due corazzate italiane a combattere contro sette austriache e azione durante non ha adottato alcun prov-
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vedimento efficace per concentrare le forze contro l'avversario. Tuttavia la sua critica alla formazione iniziale in linea di fila prescelta dal Persano appare giustificata in modo discutibile, solo perché sarebbe stata "contraria al concetto Lattico che prevaleva allora, e anche ora prevale, di opporre formazioni analoghe alle nemiche". Ugualmente discutibile e contraddittoria la sua affermazione che in tale battaglia "l'arma tattica preponderante fu il cannone, ma l 'azione della flotta austriaca, secondo gli ordini del Tegetthof, doveva svolgersi in base allo sperone". A nostro parere, invece, a Lissa a giudicare dai risultati l'arma tattica preponderante è stato il cannone solo per la squadra italiana, mentre per la squadra austriaca è stato lo sperone. È vero che l'affondamento del Re d'Italia fu dovuto - come ammesso anche dagli austriaci - a "eccezionalissima condizione"; ma appare contradditoria l'affermazione del Bonamico che il fronte di schieramento della squadra austriaca fu prodiero, corrispondente al concetto teorico allora prevalente; quello della squadra italiana fu laterale e perciò teoricamente errato e praticamente fune~to, per l 'urlo del Kaiser, l 'affondamento del Re d'Italia e le peggiori conseguenze che potevano derivare. L'ordinanza di battaglia ad angolo, prescelta dal Tegettlwf. henché corrispondesse al concetto tattico di accentuare l'urto ed attraversare la formazione italiana, non ebbe alcuna irifluenza sui risultati della battaglia.
Si può obiettare che la linea di fila era coerente con la scelta del cannone come arma principale, e che essa si prestava anche a contromanovrare, avvolgendo la formazione a triangolo nemica e lasciandole il vuoto davanti. Bisognerebbe piuttosto chiedersi perché la squadra italiana non ha per nulla contromanovrato, perché - i cannoni italiani si sono all'atto pratico dimostrati così inefficaci, perché il Bonamico, dopo aver affermato che la formazione italiana ha portato a risultati così disastrosi, aggiunge che la formazione del Tegetthof non ha avuta alcuna influenza sui risultati de lla battaglia, e infine perché nella mischia finale i nostri comandanti non hanno mai tentato di speronare a loro volta le navi nemiche, dimostrando così scarsa iniziativa di fronte ali ' evidente carenza di comando da parte dell'ammiraglio, che di per sè richiedeva loro di assumersi le proprie responsabilità. Condivisibile, comunque, la conclusione del Bonamico che "la vittoria fa principalmente dovuta alle virtù del comando [e dei comandanti di nave - N .d.a. ],favorita dalla fortuna che aiuta gli audaci, e i soli insegnamenti, propri delle armate a vapore, sono quelli che derivano dalla concentrazione tattica e dalla fase risolutiva". La battaglia dello Ya-Lu (1894), nella quale l' ammiraglio giapponese Tto con la sua flotta in linea iniziale di fila sconfisse la flotta cinese disposta ad angolo contromanovrando e avvolgendola, per poi infliggerle gravi danni con il cannone, dimostra che le valutazioni del Bonamico sono in parte errate. ln questo caso prevale da ambedue le parti il cannone e la decisa azione di comando di lto dimostra che la formazione iniziale in linea di fila non è di per sè errata. Da questa battaglia nell'articolo citato il Ronamico trae parecchi inse-
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gnamenti, che sono in parte contradditori rispetto a quelli di Lissa. Infatti a suo parere l 'ordinanza di battaglia dimostrò la manovrabilità e l 'efficacia avvolgente della linea di fila rispetto a quella angolare, che si rivelò, come a Lissa, non maneggevole. l 'app/icazione del principio tattico del concentramento si ottenne dai giapponesi col defì,/amento su un fianco e coli 'avvolgimento poppiero successivo del/ 'ordinanza nemica. Il risultato dimostra che tale concentrazione è possibile quando una squadra è più mohile e manovriera dell'altra[ ... ]. La fase risolutiva si esplicò con preponderanza di tiro rapido. favorito dall 'accerchiamento laterale e poppiero, che permise ai giapponesi, e non ai cinesi, una efficace utilizzazione del 'artiglieria...
Sotto un abile comandante, quindi, la battaglia dello Ya-Lu dimostra che la linea di fila può essere una carta vincente; inoltre i risultati della battaglia (6 navi con 718 morti perdute dai cinesi; solo 3 navi con 90 morti danneggiate per i giapponesi)5 smentiscono quanto afferma il Bonamico a proposito dell'unica arma usata in quella battaglia, la quale avrebbe "una lenta e scarsa efficienza risolutiva quando la lotta è regnlarmente impegnata". La battaglia di Cavite non offre alcun utile insegnamento, perché si risolve in un tiro al bersaglio delle navi americane (assai superiori e in linea di fila) contro le navi spagnole ferme. Nella battaglia di Santiago le navi spagnole dell'ammiraglio Cervera, inferiori per qualità a quelle americane, tentarono di forzare il blocco delle navi ma a causa dt:lla superiorità di fuoco americana, che inflisse loro gravi danni, furono costrette una dopo l'altra a gettarsi verso la costa, compreso il moderno e veloce incrociatore Colon costruito in Italia, ma privo delle artiglierie maggiori. Da questi avvenimenti il Bonamico trae conclusioni in buona parte scontate: le navi assedianti non devono trovarsi a portata d 'urto o di lancio ne l momento in cui avviene il tentativo di forzare il blocco; esse devono essere più veloci di quelle assediate; lo sbocco in mare aperto deve essere favorito da buona protezione costiera e da adeguato impiego delle torpediniere; anche se le forze bloccate non sono più che doppie rispetto a quelle nemiche, un forzamento che avviene nelle circostanze prima descritte ha buona probabilità di riuscita; i I compito di una flotta bloccante è sempre estremamente oneroso; il blocco rigoroso non può essere sostenuto senza una buona base permanente o eventuale a breve distanza, ecc. Per il Bonamico nemmeno l'esperienza di queste battaglie è di qualche valore: egli conclude che nessuna delle precedenti questioni è stata "compiutamente e dejìnitivamente risolta". A suo giudizio alcune di esse, come quelle della nave da battaglia, dell'arma tattica preponderante, della formazione di marcia, dei sistemi di evoluzione, hanno avuto una soluzione approssimata che "se persisteranno le attuali caratteristiche della nave, ha possibilità di ajjer-
s "Enciclopedia MUitnre" 1933, Voi. 6° p. 1499.
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marsi"; ma le rimanenti e in special modo la questione che riguarda le fasi della battaglia "sono così controverse da escludere la probabilità di una prossima e approssimata soluzione". Ciononostante, anche sulla base dell'esperienza delle battaglie da Lissa in poi egli riassume il complesso esame condotto in ben 22 aforismi, che in gran parte riprendono le precedenti sue idee. Tra di essi: - il blocco è il fondamento della guerra navale. La sua condotta può essere strategica o tattica. La teoria del blocco tattico non è ancora stata approfondita, ma la sua grande importanza lascia credere che verrà tra non molto determinata; - la grande guerra ha la sua naturale soluzione nelle grandi battaglia. Senza una larga esperienza di grandi battaglie non si può fondare su solide basi la tattica [questa è una contraddizione rispetto all'affcnnazione precedente - N.d.a.]; - "la nave da battaglia non è determinata" [non può esserlo, visto il continuo progresso delle costruzioni navali - N.d.a.]; - l'arma preponderante è onnai ritenuta il cannone; "ma nulla esclude che il siluro possa divenire l'arma tattica risolutiva, rimanendo sempre lo sperone un 'urma eventuale" ; - la formazione di battaglia dipende dal fronte della nave e dalla capacità risolutiva delle anni. Perciò ''finché non sarà risolta la questione del/ 'arma tattica non si risolverà quella della fronte del combattimento. Nelle attuali condizioni pare preferibile una fronte obliqua a 30° della rotta"; - a parte la superiorità morale e la capacità del comando, l'applicazione del principio tattico del concentramento, a parità di condizioni può avvenire solo con una velocità superiore; - "senza una larga esperienza di grandi battaglie non si può fondare su solide basi la tattica". Pertanto nonostante molti e pregevoli studi il pensiero tattico non consente ancora, e non consentirà per molto tempo, la stabilità teorica tipica del periodo velico. *
* *
Lo studio del Bonamico fin qui esaminato è uno strumento prezioso per un primo inquadramento del pensiero navale europeo dopo l'introduzione della propulsione a vapore e delle nuove armi; tuttavia le sue considerazioni su alcuni argomenti sono non condivisibili oppure discutibili. In particolare: - le sue pronunciate nostalgie per il periodo velico perché tutto vi era ben determinato e le sue lodi a Padre Hoste rendono Clerk, Nelson e i loro seguaci non (come dovrebbero essere) dei validi riferimenti teorici e degli esempi da imitare, ma dei violatori delle tanto amate regole; - non necessariamente la qualità del pensiero tattico coincide - come par di capire - con la risoluzione matematicamente esatta dei vari problemi, per la semplice ragione che taluni di essi non potevano e non possono essere "determinati" nel senso a tale parola attribuito; a ciò si aggiunga che
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in guerra (come ammesso dallo stesso Bonamico) prevalgono spesso il talento del Capo, l'invenzione, la fortuna; non sempre è conveniente adottare la stessa formazione dell'avversario, come suggerisce Bonamico; le sue continue pretese di "determinatezza" mal si conciliano con un periodo nel quale gli armamenti, in continuo sviluppo, dettano di per sé con le loro mutevoli caratteristiche - le norme tattiche. A tal proposito non può essere trascurato che all'epoca le navi maggiori oltre che di rostro sono annate di siluro, che il sottomarino è solo ai primi passi e che le mine - come dimostrerà la guerra russo-giapponese - possono affondare anche le più potenti navi dell' epoca; anche la visione del Bonamico diversamente da quella delle precedenti sue opere (vds. cap. I) all'inizio del secolo XX è ferma allo scontro tra flotte riunite, senza alcun spazio per altre forme di lotta, e in primis per le modalità d 'azione di una flotta che vuol sottrarsi al combattimento, oppure per l'attacco ai convogli ; non vi è più traccia, in tale visione, della netta ostilità al grosso cannone e ai grandi dislocamenti di vent'anni prima, giustificata anche con l'inferiorità della flotta italiana rispetto a quella francese. Eppure al momento siluro, mine e cannone a tiro rapido hanno compiuto parecchi passi avanti, mentre anche la prospettiva di uno scontro della flotta italiana con una superiore e degli sbarchi rimane di attualità; le sue insistenze sulla forte soluzione di continuità esistente tra periodo velico e periodo del vapore non trovano conforto nella realtà presente e futura. Pare evidente che, con la propulsione a vapore, le manovre per il cambio di formazione e per il concentramento delle forze nel punto decisivo diventano più agevoli, mentre dopo che il rostro è stato praticamente accantonato, la formazione ad angolo di Tegetthof a Lissa cade in disuso e si ritorna alla linea di fila, anche se il concentramento prodiero delle torri corazzate per artiglieria se mai avvantaggia chi intenda attraversarla; l'importanza data dal Bonamico aJla determinazione matematica e geometrica delle evoluzioni è anacronistica, di scarsa utilità pratica e in palese contrasto con i principi assai semplici e pratici di Clerk e Nelson (adottare la formazione di battaglia per la via più breve, onde portarsi il più rapidamente possibile a ridosso dell' avversario); le tre fasi della battaglia alle quali accenna il Bonamico oltre a "ingabbiare" inutilmente uno scontro che può avvenire con le modalità più varie, non mettono bene in evidenza che, anche in base a ciò che egli afferma, le esigenze (più che le fasi) non possono essere che due: raggiungere al più presto la distanza di tiro più conveniente per l'arma principale (il cannone), mantenerla e successivamente portarsi alla distanza di tiro più utile per il siluro; va da sè che l'esigenza principale è la prima. Checché ne dica il Bonamico, il siluro con le ancor modeste prestazioni del momento non puù t:s-
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sere che l'arma di completamento della vittoria, o di difesa estrema nella sconfitta; a sua volta la mischia non può essere né una prospettiva finale, né una fase obbligata e inevitabile; - l'attacco torpediniero non può essere rigidamente regolamentato e "detenninato", né nella difesa costiera né in alto mare; quel che importa è mantenere le torpediniere in grado di attaccare in ogni momento le navi maggiori nemiche, proteggendo le nostre; - le considerazioni del Bonamico sulla riserva non sono condivisibili. Meglio dire che, con la linea di fila, la sua funzione al bisogno viene normalmente svolta dalla retroguardia. Alla fin fine Bonamico è per il cannone, il rostro o il siluro? Partendo dal presupposto, ormai superato, che una nave da battaglia deve essere dotata di tutte e tre le armi, egli riconosce chiaramente al cannone il primato, però intravede anche per le altre due armi un ruolo utile, e per il siluro in particolare profetizza un grande avvenire. In questo caso, è ancora molto lontano dalla grande nave monocalibra dei primi anni del secolo XX, anche perché su tutti gli altri requisiti di una nave da battaglia privilegia la velocità.
SEZIONE Il - Uno sguardo al pensiero tattico delle marine dominanti (Colomb, Noel, Freemantle, Sturdee)
Gli insegnamenti puramente tecnico-tattici della battaglia di Lissa sono, per così dire, oscurati sia dalle evidenti carenze dell'azione di comando del Persano, sia dal continuo progresso delle artiglierie e corazze. Per quanto attiene alle responsabilità del Persano, è un fatto che egli a Lissa presenta alla flotta austriaca, ben addestrata e ben riposata dalla tranquilla e indisturbata permanenza nella base di Pola, una formazione della flotta italiana disomogenea, poco addestrata e affiatata, disarticolata dall'inconcludente bombardamento dell' isola e con gli equipaggi stanchi per tale azione. Ed è un altro fatto che come scrivono i comandanti Garofalo e Ginocchielli - il Persano, seguendo l'esempio della flotta francese e in parte di quella britannica, in linea generale si è richiamato a un pregevole lavoro dell'ammiraglio Bouet-Willaumcz sulla tattica delle nuove flotte a vapore, nel quale, tra però, si afferma che "l'ammiraglio in capo deve per quanto possibile prevedere prima del combattimento la manovra a farsi una volta impegnato i/fuoco, ed i comandanti delle navi dovranno talmente essere convinti dei metodi di attacco e delle intenzioni del loro ammiraglio che i segnali cessano allora di essere una necessità della loro azione". Invece l'ammiraglio Persano non vide la necessità di definire in accordo coi suoi ammiragli e comandanti le norme d 'impiego de/l'armata, o se vide questa necessità si astenne dal provvedere, fòrse a causa delle relazioni p oco cordiali che correvano fra lui e i suoi sottordini. Si limitò a far sapere che egli avrebbe seguito il regolamento tattico i" vigore - puco o nulla sperimentato nella
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nostra marina dalla così detta squadra di evoluzione - e che avrebbe anche in certi casi adottato il "Progetto di tattica" del Willaumez; e injìne a prescrivere che le navi non corazzate dovessero sempre mantenersi in combattimento a circa 3.000 metri dalle corazzate_le prime due no,me erano imprecise per un 'armala le cui unità si riunivano per la prima volta, e non avevano mai manovrato insieme [---l- la terza norma, oltre ad essere troppo generica, era anche del tutto inopportuna, perché alta a creare un inutile senso di sfiducia nei comandanti delle navi della squadra in legno. 6
Se alle predette carenze si aggiungono quelle riguardanti l'impreparazione generale della flotta, lo scarso addestramento dei cannonieri, la mancanza di precedenti esperienze ecc. si arriva alla conclusione che qualsivoglia ammaestramento puramente tecnico tratto da Lissa - a cominciare dalla preminenza del cannone o dello sperone - è riferito a circostanze particolari e quindi troppo opinabile, perdendo inoltre valore -a tutto vantaggio del cannone mano mano che ci si avvicina a fine secolo XIX e che il cannone migliora le sue prestazioni_Non va a favore del rostro un terzo elemento, la nascita e il progressivo sviluppo del siluro, macchina da guerra con testata esplosiva e propulsione ad aria compressa così denominata appunto dal pesce siluro, perché con caratteristiche ben diverse da quelle della "torpediniera mobile" ad asta, usata con un certo successo nella guerra di secessione americana 1861-1865. In proposito un breve articolo (non firmato) sulla Rivista Marittima del suo primo anno di vita ( 1868) anticipa già nel titolo uno dei temi salienti del dibattito fino a fine secolo XIX: "non più cannoni né rostri, ma solamente torpedini semoventi". 7 E dopo aver fatto riferimento al siluro sperimentato e inventato a Fiume dal capitano di fregata Luppis (poi Whitehead), che si dice sia stato già adottato dalla marina austriaca, esagerando ancor più che nel titolo si prevede che Sopra un piccolo bastimento agile, leggermente alberato e molto basso [cioè qualcosa di simile a una torpediniera - N.d.a_) si possono trasportare da 60 a 80 di quelle macchine di distruzione (sic), che lanciate in mezzo di una flotta dovranno inevitabilmente produrre degli efjètti incalcolabili. Marini di un 'esperienza provata pretendono che impiegando opportunamente tali torpedini tutti i bastimenti esistenti possano essere considerati da ora in poi come del vecchio materiale fuori uso e sarà d'uopo ricominciare a costruire le flotte sopra un nuovo sistema, che non si saprebbe ancora determinare.
Un'idea analoga è sostenuta nel 1870 in un articolo della Naval and Military Gazette americana riportato anch'esso dalla Rivista Marittima, 8 nel quale si afferma che nonostante il loro costo irrisorio i piccoli battelli armati di "tor-
6 Franco Garofalo e Angelo Ginocchietti, Nozioni di storia navale, Bologna, Cappelli 1934, Voi. I pp. 161 e 164- 165. 7 ln " Rivista Marittima" 1868, pp. 426-427. 8 In "Rivi.via Marittima" 1870.
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pedini di mare" o "torpedini volanti" potrebbero essere resi "formidabili quanto gli enormi bastimenti [cioè le corazzate - N .d.a.] che costano somme ingenti", e in combattimento provocherebbero con ogni probabilità un'immensa perdita di vite umane. Nell'ultima guerra americana un gran numero di navi è stato distrutto da torpedini; pertanto "questo ammaestramento del passato dovrebbe condurci a studiare quale potrebbe essere la sorte dei grandi bastimenti corazzati armati di cannoni, se fossero attaccati da gruppi di piccoli battellitorpedini molto maneggevoli"'. Accanto a queste valutazioni troppo ottimistiche (assai frequenti nei primi anni dopo la comparsa di una nuova arma) si trovano anche atteggiamenti di chiusura conservatrice: sempre la Rivista Marittima del 1870 riporta la lettera di un certo Ozark9 che contesta un' esagerata afTennazione di Ericsson (inventore dei primi sottomarini), secondo il quale " mio scopo, nel dare ragguaglio delle mie fatiche concernenti la guerra sottomarina, è soltanto di dimostrare l 'inutilità di fasciare i bastimenti da guerra con enormi masse di ferro, e di provare l 'inutilità di consumare milioni di milioni di tonnellate di carbone per muovere un peso che non è protetto". Subito dopo Lissa, dunque, lo sviluppo paralldu e continuo del binomio cannone nella cornzza e del siluro, che affianca per il momento il rostro, contribuisce a confondere le idee e a diversificare le opinioni. Lo dimostra il dibattito nella Royal Navy - la marina di gran lunga dominante - che di seguito riassumiamo come utile riferimento, a cominciare da quanto afferma il capitano di vascello Colomb (eminente scrittore navale), in due conferenze il cui testo è tradotto anche dalla Rivista Marittima, uno del 1971 e l'altro del 1977; iI primo riguarda il combattimento tra squadre corazzate; il secondo gli ammaestramenti da trarre dalla battaglia di Lissa. 10 La tesi di fondo sviluppata in ambedue gli scritti è che lo sperone (e perciò anche l' ariete senza artiglierie) è un'arma preferibile alle artiglierie del momento, che hanno troppi difetti: bassa celerità di tiro, limitata capacità di penetrazione de lle corazze e limitata gittata utile, e oltre tutto a causa del fumo prodotto dal loro fuoco ostacolano la visibilità del nemico. Nella prima conferenza il Colomb intravede inoltre un grande avvenire per le torpedini Harvey (al momento disposte su battelli che navigano a rimorchio o a rimorchio con un cavo sui fianchi delle navi maggiori), le quali potrebbero integrare l'azione dello sperone, difendere le navi stesse dagli arieti o dallo sperone, oppure affrontare le analoghe torpedini nemiche, in combattimenti ove prevarrebbe le imbarcazioni più veloci. Dagli attacchi dei battelli-ariete e dei battelli-torpedinieri, comunque, le navi maggiori possono difendersi aumentando il numero dei cannoni di minor calibro.
• ivi, p. 1817. 10 Philip Colomb, Il combattime11to tra squadre corazzate, in "Rivista Marittima" 1871, pp. 13281375 e ID, Le lezioni della battaglia di I.issa. in "Rivista Marittima" lliTrimestre 1877 - Fase. IX, 1877, pp. 184-2 15.
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Nella successiva conferenza del 1877 il Colomb non parla di torpedini e dopo aver lamentato che Lissa, la più importante battaglia navale dopo Trafalgar, è stata fino a quel momento trascurata dalla letteratura navale, premette di voler considerare quella battaglia solo dal lato scientifico, senza parlare del comportamento degli uomini (ma come si fa? È un tutto unico). Egli condanna le formazioni iniziali assunte da ambedue i contendenti (cioè la linea di fila da parte della flotta italiana e la formazione a cuneo da parte della flotta austriaca), ma non suggerisce con sufficiente precisione una propria soluzione al problema delle formazioni, lamentando solo che esso é stato fino a quel momento poco studiato. A suo parere una linea di fila ben serrata sarebbe l'ideale per un ammiraglio che l'attaccasse con alle sue dipendenze alcune navi rostrate, perché tale formazione si presterebbe facilmente ad essere rotta subito con il rostro, offrendo a quest'ultimo buoni bersagli; invece a Lissa la formazione ad angolo della flotta austriaca attraversò senza danno rilevante per le due parli il vuoto esistente nella linea italiana tra l'Ancona e il Re d'Italia. Perciò "mi è stato detto fino ad ora che la formazione ad angolo saliente degli austriaci non ha contribuito molto o nulla ajjàtto al risultato ottenuto. Io sono pienamente di questa opinione", perché tale fom1azione non possiede la mobilità necessaria a più navi rostrate che devono muoversi come un tutto e attaccare come una sola. Un attacco con navi rostrate si deve svolgere in due tempi . Dapprima "si deve usare l'effetto indiretto della paura di essere cacciati a picco per rompere la linea nemica in due parti, per mettersi fra di esse con la propria e per concentrare con questo mezzo tutta la propria forza contro metà della nemica", con un fronte ristretto ma molto profondo come una colonna di fanteria. Una volta fatto questo, bisogna impiegare le navi rostrate per distruggere le navi nemiche con l'urto, come se si trattasse di una carica alla baionetta [troppo facile, troppo semplice - N.d.a.]. Anche se a Lissa la formazione degli austriaci, sempre secondo il Colomb, era una via di mezzo tra le due opposte, a suo parere merita la massima attenzione il fatto che "una squadra inferiore, armata con cannoni di minor calibro, coll'azione indiretta di un 'arma.fino ad allora non provata, ruppe la linea nemica quantunque superiore in navi e cannoni, ed ottenere quasi senza danno l'effetto che in altri tempi era considerato equivalente a una vittoria". Si dice che l'artiglieria italiana fosse inefficiente, ma anche se fosse stata efficiente al massimo grado, anche se ambedue le flotte contrapposte fossero state completamente armate come il Bellerophon inglese, anche se i cannonieri italiani fossero stati meglio addestrati, io non posso fare a meno di affermare che una flotta non può con le sue artiglierie arrestarne un 'altra che si proponga d'investirla a tutta fona. lo non dico che la hattaglia di Lissa lo provi, ma asserisco che questo avvenimento ci obbliga a prendere in considerazione gli avvenimenti che lo provano".
1n effetti il Colomb dimostra che con la celerità di tiro e la potenza e la gittata utile delle artiglierie del momento (questo va sottolineato) una flotta di-
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sposta in formazione di fianco per sfruttare appieno il fuoco delle artiglierie non ha il tempo sufficiente per arrestare una flotta che le presenti la prora e proceda decisamente a tutta forza per speronarla; inoltre se quest'ultima riesce a isolare una parte delle navi nemiche sottraendole all'azione di comando del1' ammiraglio, "il semplice fatto di averle così separate vi dà già molti punti di probabilità per la loro perdita e per la vostra riuscita". In conclusione, secondo il Colomb solo dal fatto che il Ferdinand Max senza riportare danni ba piantato completamente la sua prora nello scafo del re d 'ltalia, il potere della nuova arma fu concludentemente provato ed è quindi d 'ora innanzi impossibile dubitare del suo valore pratico[... ]. Dopo quanto ho detto sono obbligato a dedurne che i cannoni come arma navale non conservano più il primo pos to. Nel mio antecedente scritto sulla tattica navale io ricavavo questa conclusione, ma allora non ero sicuro che ilfatto fosse così evidente come apparisce adesso. La Revuc dcs deux Mondcs non mi sostiene in questo senso, ma considera che "Tegetthoff ha avuto una straordinaria fortuna della quale ha saputo valersi. Malgrado l'iocontcnstabile potenza del rostro il cannone rimane sempre la prima arma che governa la guerra navale". Con tutto ciò il Touchard non ha dubbio in questa materia. Egli dice: "il rostro è ormai l' arma principale nei combattimenti navali, l'ultima ratio della guerra marittima". /o sono d 'opinione che il dire che Tegetthojfnon ha avuto se non una straordinaria fortuna è un 'assenione senza base. Era la prima volta che si sperimentavano i rostri in aperto mare. Essi tagliarono fin da principio la.flotta italiana e distrussero la loro più bella nave in pochi minuti: vinsero la battaglia, e si attribuisce tutto a una straordinaria fortuna ? Non ci lasciamo per.m adere da tale assenione. Separiamo accuratamente i fatti dalle opinioni ricordando che le ultime spariscono davanti ai primi. Come sta il fatto ? l 'opinione generale anche degli stessi ufficiali austriaci dice: "il rostro è di cosi difficile uso che raramente può riuscire". I/fatto dice che è così poco incerto che vinse la prima battaglia ove fu adoperato...
Ma se la flotta italiana ha sbagliato formazione iniziale, quale formazione avrebbe dovuto adottare? Sorprendentemente il Colomb afferma di non voler trattare questo argomento basilare, a suo dire implicito nel ragionamento da lui fatto (il che non è vero). A parte questa non trascurabile interfaccia, il punto di caduta del lavoro del Colomb è là ove egli afferma erroneamente, benché ufficiale d'artiglieria, che "la questione dei cannoni è al suo apice e vi vedo il precipizio accanto" . Oltre che sul rostro, egli è difficile profeta soprattutto su quest'arma in continuo progresso. Non manca di farglielo notare uno dei presenti alla conferenza, il comandante Dawson, il quale non accetta la precipitosa svalutazione dell' artiglieria da lui fatta e riguardo al rostro ricorda, giustamente, che a Lissa una sola nave riuscì a usare con successo tale arma, anche se le altre corazzate austriache hanno provato a speronare quelle italiane, le quali con un colpo di barra hanno potuto facilmente evitare l'urto. Quindi il Dawson non si dichiara disposto ad accettare che il rostro sia l'arma della futura guerra e
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ritiene che la questione dell'urto ravvicinato possa se mai essere risolta con le torpedini anziché con il rostro. A parer nostro, la storia dimostra che il Colomb- non è stato il solo- è stato cattivo profeta specie nello sviluppo e sull'efficacia delle artiglierie maggiori, che alle brevissime distanze da lui ipotizzate sarebbero senz'altro risultate micidiali. L'ariete-torpediniero da lui caldeggiato è ben presto scomparso dal novero delle flotte; il siluro è diventato veramente efficace, solo quando è stato abbinato al sommergibile. Anche la sua pretesa di considerare la battaglia di Lissa esclusivamente con un approccio tecnico, prescindendo dagli uomini, è da ritenersi poco realistica e fuorviante, se non altro perché il ricorso al rostro è prima di tutto una questione morale. Sotto questo profilo a Lissa c'è stato un ammiraglio, il Persano, che non ha comandato la flotta né prima d ella battaglia né durante la battaglia contro un ammiraglio, il Tegetthoff, che l'ha seriamente preparata e durante lo scontro anziché rifugiarsi come il Persano in una torre corazzata, è rimasto come Nelson allo scoperto sul ponte di comando della sua nave ammiraglia, circondato dal suo Stato Maggiore. L'unica scusante del Colomb è che quando egli esprime le sue opinioni tutto è in corso di rapido mutamento: ma perché negare proprio a l cannone dei margini di sviluppo e di miglioramento? Nel 1875 un altTo ufficiale di marina inglese, il comandante Noel, pubblica uno studio nel complesso più equilibmto di quello del Colomb, nel quale ritiene utili, a seconda delle circostanze, sia il cannone - sia pur di medio calibro - che il rostro e la torpedine mobile. 11 A suo avviso il grosso cannone è utile soprattutto per le difese costiere, ma per le flotte di linea siamo lontani dall'accordare la palma ai grossi cannoni. Il loro effetto è certamente molto dannoso se il bersaglio è colpito: ma per portare simili mostri occorre costruire bastimenti giganteschi, e ancora ciascuno di essi può averne un piccolo numero nel suo armamento. Oltre a ciò si deve tener conto della probabilità che solo un piccolo numero di colpi per ogni cento tirati riesce efficace fra combattenti che si muovono colle grandi velocità delle navi moderne. La diminuzione quindi del numero dei cannoni, congiunta alla maJ{giore lentezza del tiro con tali pesantissime bocche di fuoco, consiglia di non seguire il sistema di porre tutte le uova in uno stesso paniere; sono persuaso che la prima battaglia navale dimostrerà che un maggior numero di cannoni di minor calibro è l'armamento preferibile. Non voglio sostenere che in un combattimento navale i cannoni saranno l'arma principale; ma se il motore o il timone di una nave subissero avarie, anche soltanto temporanee, le sue artiglierie diverrebbero l'oggetto di prima importanza.
Riguardo al rostro, dal fatto che tutte le nuove navi ne sono munite il Noel prende atto che si accorda gran valore a questo mezzo di attacco, e "leggendo
11 Comandante Noel, Cannone, rostro e torpedini: saggio di manovre ed evoluzioni della tattica navale modr.rna, in "Rivista Marittima" II trimestre I 875 Foscicolo V - VT, pp. 308-379.
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le numerose relazioni di fatali abbordi [cioè cli collisioni fortuite - N.d.a.] in mare", non si può mettere in dubbio che il suo effetto sia "terribile e decisivo", anche se le opinioni dei vari autori non sono concordi circa la possibilità di riuscita dell'attacco a circa il modo di attaccare. Infine, secondo il Noel non esiste alcuna esperienza di impiego in guerra per le torpedini mobili. Egli conosce poco i siluri Whitehead e parla soprattutto di torpedini ad asta e di torpedini Harvey da rimorchio, che se rimorchiate da "alcuni piroscajì speciali velocissimi, con pavesate capaci di resistere alla mitraglia e alle palle di carabine e comandati da ufficiali ahili e arditi" potrebbero produrre molta confusione e molto disordine, lanciandosi a gran velocità in mezzo alla formazione nemica proprio nel momento in cui sta per iniziare la battaglia. Anche per i siluri sarebbe necessario costruire navi speciali, per le quali però è molto difficile stabilire un posto nelle formazioni navali; comunque questa nuova arma se abbandonata a sé stessa nei combattimenti potrebbe diventare una nemica pericolosa per ambedue le parti. Pur non riconoscendo nettamente la preminenza del cannone il Noel immagina una flotta inglese la cui spina dorsale sarebbero 18 corazzate (che come tali, dunque, privilegiano il cannone e la corazza) accompagnate da 6 incrociatori, 2 avvisi e 4 "bastimenti speciali per le torpedini". L'unità operativa di base è il gruppo di tre navi; i gruppi possono formare due divisioni di tre gruppi, oppure tre divisioni di due gruppi. Ciascuna divisione sarebbe comandata da un ammiraglio, ivi compreso l'ammiraglio comandante in capo. La velatura non è ancora stata abbandonata, visto che le 18 corazzate prima di lasciare il porto "avranno sbarcati i loro alberetti, i pennoni di velaccio e controvelaccio, le vele e l'attrezzatura relativa, nonché tutti i cavi e i materiali di ricambio, e saranno mandate in mare con le gabbie e le basse vele infiorite; queste, col fiocco e le rande, saranno sufficienti in caso di avaria della macchina" e le navi così alleggerite potranno imbarcare maggiori quantità di carbone. Gli incrociatori sono "bastimenti velocissimi a macchina con velatura" c hanno il compito di "riconoscere il mare intorno alla flotta e fare da vedette catturando gli incrociatori nemici e ottenendo informazioni da essi e da qualsiasi altro bastimento che incontrassero". I due avvisi dovranno tenersi a lato della nave del comandante in capo, pronti a portarne gli ordini e riceverne i segnali. La posizione dei bastimenti speciali per le torpedini [che per il momento sono solo quelle a rimorchio tipo Harvey - N.d.a.] sarà probabilmente dietro la flotta durante il movimento e sui fianchi all'avvicinarsi del nemico "pronti a una carica a tutta velocità se venisse ordinata". Al momento la flotta inglese manca di navi speciali per tale compito, ma "all'occorrenza la nostra marina mercantile potrà fornire in numero sufficiente di piccoli piroscafi velocissimf'. 11 Noel insiste molto sull'inscindibilità dei gruppi, che devono essere composti sempre dalle stesse navi e non devono variare con il variare delle formazioni della flotta, mentre ogni nave del gruppo deve conservare sempre lo stesso posto al suo interno. A tlìnché ogni nave possa manovrare prontamente in
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una flotta, i suoi ufficiali devono conoscerla a fondo, sia per quanto riguarda la velocità che per la capacità evolutiva. Inoltre da quando una flotta lascia il porto fino alla zona d'impiego, essa dovrà esercitarsi nell'assumere le diverse formazioni. Poiché durante il combattimento è impossibile far comprendere i segnali più complicati, e fors'anche i più semplici, l'ammiraglio in capo dovrebbe preventivamente spiegare e concertare quattro o più piani d'attacco, in modo che qualcuno di essi risulti applicabile alle circostanze della battaglia, tenendo anche presente che dopo l'inizio della battaglia il capo-gruppo ha facoltà di cambiare la formazione del gruppo stesso, e che battaglia durante i gruppi devono sempre rimanere ben distinti. Ciò premesso, appena il nemico sarà in vista, bisognerà ordinarsi compiutamente nella formazione in cui si vuole attaccarlo; il comandante supremo cambierà di rotta dirigendosi verso la flotta awersaria, e gli altri bastimenti prenderanno il loro posto giusto la nuova rotta, aumentando o diminuendo di velocità se occorresse. Avendo messo la prua verso il nemico, mi sembra che per l'attacco si debba scegliere.fra queste due sole formazioni: ordine in due colonne di divisione per gruppi di fila, oppure ordine per gruppi di fronte; la prima se il nemico presentasse una fronte ristretta, la seconda se invece tentasse una fronte estesa.
Per il Noel la tattica del periodo velico teorizzata da Padre Hoste quando la linea doveva essere mantenuta il più possibile serrata, perché se attraversata sarebbe stata la sconfitta, non ha più niente da dire. Ferma restando l'inscindibilità dei gruppi, con il vapore sono ammesse tutte le formazioni possibili; in ogni caso due flotte che si avvicinano tenendo una fronte estesa sono obbligate di passare una attraverso l'altra, facendo il miglior uso possibile dei cannoni durante il passaggio, e non servendosi dei rostri che nel caso in cui qualcuna delle navi avversarie devii dalla propria rotta [ma se è cosi, come si fa a dire che il rostro è l'arma principale? - N.d.a.]. In questo modo d'attacco la flotta che può conservare l 'ordine più perfetto, e che quando ha uUrepassatu il nemico può riformarsi prontamente ed essergli condotta contro, godrà del grandissimo vantaggio di poter cogliere il nemico in disordine, al momento in cui si sta per ristabilire la sua formazione.
11 Noel passa poi a prendere in esame separatamente (questo è un errore) le caratteristiche e le modalità d'impiego del cannone (in relazione alla corazza), del rostro e della torpedine mobile (al momento il vocabolo siluro specie nel mondo anglosassone non è ancora entrato in uso). Dopo aver ricordato che il più grande dei cannoni del momento pesa 35 tonnellata e può lanciare un proietto di 318 kg alla distanza di 6-7000 m circa, capace di mettere fuori combattimento metà degli uomini - e forse tutti - di una batteria di una nave corazzata tipo Hercules, con scarsa coerenza si schiera decisamente a favore del rostro:
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non partecipo al parere che l'artiglieria sia l'arma più efficace delle flotte moderne. Credo che gli ufficiali i quali hanno studiato l'armamento e la tattica delle navi concordino generalmente nella opinione che fra poco il rostro soppianterà il cannone e che la torpediniera - la cui costruzione e il cui uso sono ancora nell'infanzia - sia un 'arma che produrrà una nuova rivoluzione nell'architettura navale, nelle evoluzioni delle flotte, e nell'arte militare marittima in generale.
Eppure in precedenza trattando delle formazioni aveva assegnato al cannone un ruolo non certo subordinato rispetto al rostro. E dopo le apodittiche considerazioni-non confortata dalle costruzioni navali - sull'incipiente decadenza del cannone e sulla crescente importanza del rostro, dedica molte pagine alla lotta tra cannone e corazza e allo sviluppo di sempre nuove soluzioni per le artiglierie navali, giungendo a conclusioni spesso discutibili e smentite dalla storia, tra le quali quella che le artiglierie disposte in torri, quindi in grado di sparare da ogni parte, sono vantaggiose solo in duelli tra due sole navi. Se una nave con artiglieria in torri è invece inserita in una formazione navale di navi a batteria [cioè con cannoni solo sui fianchi - N.d.a.] deve limitare il raggio d' azione utile delle sue artiglierie allo stesso modo di quest' ultime navi [ma se la formazione fosse modernamente composta da navi, tutte con torri, che avverrebbe? - N.d.a.]. Infine il Noel, evidentemente immaginando che le prossime battaglie navali avverranno a distanza molto ravvicinata come quelle del periodo velico, accenna all' utilità delle mitragliatrici: "se ne potrebbe certamente far uso con grande vantaggio. Situate nelle parti elevate delle navi, esse potrebbero grandinare proiettili sulla coperta dei bastimenti nemici e massacrare qualsiasi individuo che osasse di rimanervi". Cosa evidentemente passi bi le so lo in caso di mischia; più assennato il commento in nota del traduttore in italiano ing. Borghi (vds. Voi. II), secondo il quale "l'uso delle mitragliatrici sarà anche molto efficace contro le barche e i battelli portatorpedini. Certamente questa considerazione contribuì a indurre l'attuale ministro della marina [cioè il Saint Bon - N.d.a.] ad introdun·e le mitragliatrici nell 'armamento di tutte le nostre corazzate. Le fregate corazzate ne avranno quattro e le corvette corazzate due: anche alcune navi ad elica non corazzate saranno provvedute di mitragliatrici. Queste nuove armi verranno collocate sulle parti più alte delle murate di coperta, sui casseri, sui castelli e sulle coffe" (da ricordare che nel 1875 l'Esercito non pensava minimamente alle mitragliatrici, il cui impiego comincerà ad essere discusso solo a fine secolo XIX - vds. Tomo I, cap. XI). Passando al rostro, che secondo la communis opinio del tempo sarà il principale protagonista dei combattimenti navali, il Noel constata che le esperienze d'impiego di questa nuova arma sono molto limitate; ciononostante "tutte le nazioni marittime debbono avere arieti [cioè navi il cui armamento esclusivo o principale sia il rostro - N.d.a.] e marinai capaci di condurli. Andrò più oltre e dirò: che tutti i bastimenti da guerra dehhnnn essere provveduti di ro-
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stro e che tutti gli ufficiali di marina debbono essere esercitati a servirsene". Generalmente gli scontri avverranno prora contro prora, e per riuscire a inOiggere dei danni al nemico senza riportarne, occorre nei comandanti grande abilità, colpo d'occhio, audacia e sangue freddo. Se si devia dalla rotta diretta contro il nemico si espone il fianco allo speronamento, e viceversa. Se il nemico devia all'ultimo momento, "anche un abilissimo ufficiale può ingannarsi circa la distanza, e dando troppo timone al suo bastimento potrebbe colpire in pieno la prora della nave nemica col rostro; ed in tal guisa urtando dove maggiore è la resistenza, riceverebbe egli stesso un violento contraccolpo, sufficiente forse ad ajjòndare tanto la propria quanto la nave del 'avversario, che evidentemente sarebbe condannato a perire". Occorre affondare col rostro la nave nemica, evitando di andare a fondo a nostra volta, anche per opera di qualche altra nave della formazione nemica. Perciò dovendo attaccare di sorpresa sul fianco il nemico con una squadra di arieti tenuti in riserva o con una parte della nostra flotta riordinantosi dopo il combattimento iniziale prima di quella nemica, converrebbe manovrare in modo da colpire le navi nemiche a metà scafo, tenendo però al momento d 'urtarlo una rotta che tagli ad angolo acuto quella del/ 'avversario, anziché ad angolo retto. Piegando in tal modo verso la rotta dell 'avversario il rostro lo urterà a sufficienza, quantunque con minor violenza; e scorrendo verso la prora del nemico s'eviterà il rostro del bastimento che lo segue da poppa, anziché gettarsi a traverso delle linee avversarie ed esporre il proprio fianco alle sopravvenienti navi.
Per il Noel le torpedini del momento (si riferisce esclusivamente a quelle mobili) non sono state mai usate in combattimenti a flotte riunite, quindi le conoscenze che si hanno su quest'arma si limitano ai risultati degli esperimenti. In generale le giudica non adatte per tali combattimenti, ad eccezione delle torpedini Harvey dalle quali è peraltro facile difendersi; ad ogni modo, ne fornisce una possibile ipotesi d'impiego. Non appena ha inizio la battaglia un veloce battello con a rimorchio due torpedini Harvey (una a sinistra e una a destra) si dirige verso la flotta nemica e giunge al traverso della nave ammiraglia; ma quest'ultima ha la prora protetta da una sorta di corazza, quindi la torpedine che riesce a lanciare contro di essa nonostante l'intenso fuoco nemico (che non la colpisce), non fa alcun danno. Correndo audacemente lungo la linea nemica, però, il comandante riesce a tagliare la linea stessa sotto la poppa della quinta imbarcazione, facendo scoppiare l' altra torpedine e provocandone l'affondamento. I rimanenti battelli non riescono ad arrecare alcun danno alla !:lotta nemica; riescono però a scompaginare temporaneamente la linea, ottenendo almeno un grande effetto morale. Proprio in relazione a tale effetto morale, il Noel prevede che in futuro le navi di linea avranno a scopo difensivo una torpedine a rimorchio per ogni lato della poppa. TI Noel accenna (a torto) anche alla perdurante utilità delle torpedine ad asta (cioè di una carica esplosiva disposta sulla sommità di un 'asta di legno, da
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spingere sotto la nave nemica passandole vicino), che potrebbero essere impiegate insieme con quelle tipo Harvey. Manifesta invece (ancor più a torto) delle perplessità sull'utilità del siluro Whitehead, che ammette di conoscere poco: sembra che il suo merito consista nell 'impossibi/ità di scansarne l'attacco [ma non precisa il come e il perché- N.d.a.], e che il suo principale difetto sia I 'improbabilità di colpire l'oggetto preso di mira. Non saprei dire come possa essere usata nei combattimenti di }lotta contro jlolla; non mi pare possibile di tirarla contro La prora di una nave che si awicina, e nemmeno di tirarla mentre gli si passa vicino a grande velocità.
Ne consegue che egli - totalmente smentito non solo dalla storia, ma anche dagli avvenimenti degli anni immediatamente successivi - ritiene utile il siluro (usato da battelli speciali oppure da posizioni fisse) solo contro navi che volessero rimontare fiumi, o passare per spazi ristretti; anche l'impiego in alto mare della torpedine ad asta a suo parere è da escludere. Significativa l'annotazione del Borghi (suo traduttore) intorno a quest'ultime sue affennazioni: "anche intomo a àò al dì d'oggi le idee sono mutate. Già si parla di lance a vapore portatorpedini appese alle gru delle navi di linea pronte ad essere ammainate in mare al momento opportuno". Tn conclusione, ci sembrano realistiche - e migliori di quelle del Colomb - le considerazioni del Noel sulle fonnazioni, e in particolare sulla convenienza di adottare il gruppo di tre navi - anziché la nave singola - come base per le formazioni, che acquistano anche per questo la necessaria flessibilità. Il Noel indica anche delle formazioni- tipo, ma non insiste sulla loro immutabilità; su questo argomento, comunque, chiaro appare il suo concetto che le nostre formazioni devono tener conto di quelle del nemico senza essere le stesse, come pretende il Bonamico. Il cannone è palesemente la misura di molte sue formazioni; ma non dimostra in alcun modo l'asserita superiorità del rostro limitandosi a prendere atto della communis opinio che gli è favorevole. Ciò che egli dice sul corretto impiego di quest'arma, comunque, basta a dimostrare indirettamente sia l'aleatorietà dei risultati di uno scontro tra due navi che ricorrono addosso prora contro prora, sia le molte ( e molto rare) qualità che deve possedere il comandante di una nave, non solo e non tanto per speronare una nave nemica, ma per evitare di esserne speronato, o di speronarla fornendo però sul fondo insieme. Per ultimo il Noel ammette di avere una scarsa conoscenza delle torpedini mobili, quindi gli va perdonata buona parte di ciò che dice a proposito dell' impiego di queste anni in scontri tra flotte d'alto mare ( impiego mai avvenuto nemmeno nel la guerra di secessione americana 18611865, e nemmeno nel XX secolo). La sua ipotesi d 'impiego delle torpedini mobili Harvey può essere definita fantasiosa, visto che non ha trovato alcuna pratica applicazione. Si deve anche notare che non accenna nemmeno all' efficacia delle torpedini fisse ancorate sul fondo (chiamate poi mine), anche se impiegate con s uccesso nella guerra di secessione americana. In quanto al siluro,
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allora ai primi passi, non vale nemmeno la pena di obiettare a ciò che dice un profano come il Noel; si deve solo osservare che, almeno da parte delle marine francese e italiana, a distanza di poco tempo si porrà se mai un problema di sopravvalutazione delle possibilità di quest'arma (caso strano, anche da parte dei fautori e progettisti delle grandi navi). In un'altra conferenza del 1886 il contrammiraglio Freemantle su alcuni argomenti fondamentali esprime idee assai diverse sia da quelle del Colomb che da quelle del Noel, 12 passando in rassegna anzitutto i progressi degli armamenti del suo tempo. A suo parere il siluro si è ormai affermato fino a farritenere necessaria la costruzione di torpediniere, cioè di navicelle speciali molto veloci, che servono a portarlo a distanza utile di lancio durante il combattimento. Si pensa, addirittura, di imbarcare tali navicelle sulle navi maggiori, calandole in mare solo al momento del bisogno per mezzo di un'apposita gru. Per difendersi dalle torpediniere le navi maggiori devono armarsi anche di artiglierie di piccolo calibro a tiro rapido e di mitragliatrici. Una volta tanto il Freemantle non fa una classifica precisa e univoca dell'importanza delle solite tre armi (cannone, rostro e siluro); tuttavia il vincitore sembra il cannone. Infatti il siluro del tempo, "malgrado la perfezione che ha raggiunto è sempre un meccanismo molto delicato, che tiene in serbo più di un disinganno per coloro che lo dovranno usare... ". Del rostro il Freemantle si autoproclama "un vecchio amico", collocandolo peraltro "in 2° linea almeno al principio del combattimento.fra due.flotte" e aggiungendo che "quantunque il mio vecchio amico abbia perduto parte del suo valore, io lo credo sempre un 'arma importante, [perciò] reputo che quello delle nostre navi debba essere almeno così solido come quello delle navi estere". Sull' impiego del rostro egli non fornisce altri particolari, soffermandosi invece sui diversi sistemi di protezione delle carene delle corazzate dai siluri che al tempo si stanno studiando (paratie stagne, sistema cellulare di ripartizione interna, rivestimento dello scafo in crinoline e/o in " coffe rdam" - materiale che una volta trapassato si rinchiude automaticamente - , reti parasiluri anche durante la marcia). Su questi nuovi sistemi cita i positivi risultati ottenuti dalla Marina italiana alla Spezia con esperimenti di lancio di un siluro contro uno scafo a conformazione interna cellulare, che ha dimostrato la sua solidità. In secondo luogo mostra di credere (a torto) nel rivestimento dello scafo de lle corazzate (anche in movimento) con reti parasiluri, che provocano solo una modesta riduzione della velocità di marcia; perciò malgrado gli inconvenienti lamentati da chi teme che le reti impediscano alla nave di muoversi, ostacolino la manovra, si impiglino nell'elica ecc. a suo parere "le reti diventeranno certamente di uso generale; a poco alla volta si sormonteranno le difficoltà che s'incontrano nel loro maneggio, e la loro utilità sarà da tutti riconosciuta".
12 Edmund R. Freemantle, Sulla tattica navale, in " Rivista Marittima" 1886, lii Trimestre Fascicolo VIII - IX, pp. 113- 145.
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Dopo questa previsione sbagliata, che avvalora anch'essa l'esagerato timore al momento destato dalle torpediniere, il Freemantle polemizza con gli esponenti dellaJeune École, che vorrebbero una flotta composta principalmente da questo tipo di navi. A suo parere, dati i perfezionamenti apportati al siluro la velocità deve essere "il primo fattore da mettere a calcolo, perché la facilità d'evoluzione in mare aperto molte volte implica la velocità"; di conseguenza non vedo in quale modo, fìnche ci sarà bisogno di navi, si potrà imporre un limite alle loro dimensioni [.. .]. Non ammetto la possibilità di ridurre questa questione ad una questione finanziaria [invece, specie per l'Italia è anzitutto una questione finanziaria - N.d.a.]; se la grande nave deve essere completa e capace di sostituire l'antico vascello, essa sarà [appunto] grande o altrimenti presenterà qualche punto di debolezza, in un senso o nell'altro. Non è necessario dire che, naturalmente, devono coesistere, colla nave da battaglia, le veloci torpediniere, le navi con grossa artiglieria [quindi le navi maggiori non necessariamente devono avere grosse artiglierie - N .d.a.] e poca velocità per l'attacco alle batterie [di difesa costiera], le piccole cannoniere, le navi appoggio torpediniere, i veloci incrociatori e le barche torpediniere; ma le navi che hanno una sola qualità offensiva si troveranno spesso in circostanze in cui la loro velocità i loro cannoni, i loro siluri o il rostro non serviranno a nulla, ed io non credo che l'impero del mare possa essere affidato ad una flotta di tipi di vario genere.formanti tra di loro una specie di famiglia felice, perché gli individui che la compongono hanno qualità dijjèrenti.
Dopo questa implicita presa di posizione contro le navi leggere e "specialistiche" e a favore anch'essa delle grandi navi (le sole che possono imbarcare i vari tipi di armi tutti insieme), il Freemantle passa alla problematica tattica. Diversamente dall'opinione generale ritiene il blocco ancora possibile, "se la squadra bloccante, che deve consistere in almeno tre tipi di navi, prenderà le misure opportune; né mi pare che le navi bloccanti avranno molto da temere dalle torpediniere nemiche se le loro saranno numerosi, veloci e ben armate". Per quanto attiene alla composizione della flotta, le antiche torpediniere di r classe, che ho classificate come di 2~ non sono atte a tenere il mare, e il tentativo di farle andare di con.çerva colla squadra ha portato con sé grandissimo strapazzo per gli equipaggi e serio p ericolo per le torpediniere[... ]. È necessario disporre di numerosi incrociatori veloci atti a servire come vedette, e di numerose torpediniere e cacciatorpediniere da poter opporre alle navi nemiche di simile specie.
Con questi criteri il Freemantle immagina di impiegare una flotta composta di 12 corazzate, 4 fregate, 12 avvisi, 24 cacciatorpediniere, 50 torpediniere di 1" classe [cioè atte anche alla navigazione in alto mare - N.d.a.], 2 navi appoggio torpediniere; le torpediniere sarebbero perciò circa il 50% della flotta. Riguardo all'atticolazione delle forze,
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io non ho nulla da dire sulla ripartizione della nostra flotta in 2, 3, 4 o 5 divisioni, ciascuna delle quali può a sua volta essere ripartita in due suddivisioni, ma non vedo perché ogni divisione non possa scomporsi in 4 suddivisioni se il comandante in capo lo crede[ ... ]. lo, per conto mio, preferire navigare su due colonne distanti fra loro miglia 1,6, ma allora non potrei avere suddivisioni inferiori a 4 navi.
I cacciatorpediniere e le torpediniere dovrebbero navigare separatamente dalla squadra, agli ordini di un contrammiraglio o commodoro e con i 24 cacciatorpediniere suddivisi in 3 o 4 divisioni, mentre le 50 torpediniere si suddividerebbero a loro volta in 4 divisioni. Sempre in tema di formazioni il Freemantle boccia senza remissione - ma anche senza motivare a sufficienza la sua posizione ctitica - la tipartizione della flotta in gruppi proposta dal Noel: "dirò intanto che non vedo lo scopo della ripartizione della.flotta in 3 squadre, e che non so vedere altro negli ordini per gruppi se non un 'insidia tesa all 'imprudente che adotti una tale disposizione tattica". Circa le evoluzioni, giudica il sistema di movimenti per contromarcia inglese migliore di quello in uso nella manna francese; inoltre "si dovrebbe sempre essere in fòrmazione f di combattimento], di notte, di giorno, entrando o uscendo dal porto, e all'ancora. Riguardo ai segnali, le bandiere ancora in uso non possono più essere usate in combattimento, perché il personale addetto ai segnali è esposto al fuoco delle mitragliatrici. Tn sostituzione delle bandiere è stato ~perimentato il semajòro, che però dovrebbe essere usato anch'esso da personale protetto". TI combattimento tra due sole navi sarà in genere deciso dal cannone, perché all'inizio ambedue cercheranno di evitare un colpo fatale del siluro, manovrando in modo da presentare al nemico la prora o la poppa a seconda che esse siano la parte meglio armata. La velocità per ambedue le navi sarebbe la qualità principale. Sarebbe consigliabile anche l'uso delle torpediniere; "se potessero essere preparate in tempo, esse dovrebbero rimanere al riparo della nave [amica]finché non si presenti loro l'opportunità di lanciarsi contro il nemico nascondendosi nel fumo"; è comunque essenziale che abbiano a loro volta una velocità superiore a quella della nave. Sempre in questo caso, "un bastimento che possieda migliori qualità di manovra di un altro, ma che gli sia inferiore nelle altre qualità, dovrà subito cercare di usare il rostro". Nel combattimento tra flotte l'ammiraglio deve scegliere l'arma principale con la quale intende combattere e subordinare la sua tattica a questa scelta [questa ci sembra un'ovvietà - N.d.a.], tenendo presente che non si fanno frittate senza rompere le uova, e vi possono essere parecchie maniere per romperle, ma il cuoco che esitasse sul modo o sullo strumento da scegliere, troverebbe probabilmente la frittata fatta dal competitore. Questa è mia volgare illustrazione del successo dell'ammiraglio Tegetthojfa lissa. Egli scelse il rostro per sua arma e lo adoperò mentre Persano era esitante.
Il Freemantle constata che sulla formazione tattica più conveniente per
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presentarsi al combattimento sono comparse le proposte più svariate in relazione all'arma sulla quale ciascun scrittore fa il maggiore assegnamento. Su questo punto non si sbilancia troppo quando scrive che la linea di fronte a denti è la più conveniente per l'uso del rostro, tesi generalmente adottata dagli autori francesi (Bourgois, dc Gueydon, Penhoat e altri), mentre gli scrittori che si basano principalmente sull'artiglieria sono tornati alla linea di fila o a qualche sua variante. Così "il capitano Colomb già nel 1872 ritornò alla linea di fila (antica linea di battaglia) perpoter doppiare la squadra nemica servendosi dei suoi cannoni. L 'ufficiale della marina italiana Grillo preferisce la linea di jìla per un combattimento d'artiglieria e trova che il gruppo di 3 navi informa di triangolo non ha alcun valore militare". 11 Frccmantle è del parere che ambedue queste formazioni - limite all'atto pratico debbano "moderarsi vicendevolmente", perché nessun ammiraglio penserà - come hanno fatto le navi italiane a Lissa - di esporre il fianco al rostro delle navi nemiche. D'altra parte una flotta in formazione serrata, che paralizza i propri cannoni, offre un ottimo bersaglio per navi disposte in linea di battaglia: di conseguenza "non vi è maggior ragione per non impiegare una flotta con la fronte multo estesa ne/l 'attaccame un 'altra con la fronte ristretta, di quella che vi sia [in campo terrestre] p er opporre ad un battaglione che attacca in colonna un battaglione in linea di battaglia". Tutto dipende dalla capacità manovriera delle due flotte [da ricordare che a Lissa nessuna delle due ha manovrato - N .d.a.]; comunque il Freemantle conclude che: - una linea di fila estesa è assai debole; la sua debolezza aumenta col numero delle navi. Tale formazione può risultare abbastanza forte con 6 navi, più debole con 8, pericolosa con 12; - la linea frontale a denti da lui descritta, delle due in uso nella marina inglese è quella con il minor numero di inconvenienti; - "maggior flessibilità può ottenersi con una formazione dello stesso genere, ossia coli 'ordine di fila di sottodivisioni di 2 navi, le navi d'ogni sottodivisione in linea di rilevamento"; - "per opporsi a un nemico in linea di fila io prefe rirei la formazione in colonne di sottodivisione in linea di fronte, i numeri uno delle divisioni rilevandosi a 45°. Questafòrmazione mi sembra flessibile e mi pare che dia alle navi un appoggio reciproco migliore di quello che si attiene colla linea di fila a denti. Probabilmente una fonnazione qualunque di questo genere, purché non sia quella per divisioni in ordine di fronte, sarebbe la migliore contro un nemico che si avanza in linea difronte"; - "l 'attacco col siluro e col rostro seguirebbe il combattimento d 'artiglieria. Le navi dovrebbero avere l'ordine di agire per quanto possibile a due a due". 11 Frccmantle per primo accenna brevemente anche al "battello sottomarino Nordenfeldt", precisando di non esserne occupato prima, perché lo ritiene "solo" un mezzo speciale di attacco con la torpedine [appunto: non è poco -
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N.d.a.); comunque tale battello "guadagna in segretezza e in invisibilità, ma perde in velocità". Quello lungo 100 piedi, quando ha la torretta fuori acqua, sarà più facilmente scoperto da un altro più piccolo. A suo parere bisogna aspettarsi di sentir parlare di battelli sottomarini più grandi e più atti alla navigazione; "da Bushnell e Fulton a Gabriele Charmes [giornalista esponente di punta della Jeune École - N.d.a] e Nordenfeldt tutti abbiamo la stessa idea; tuttavia vi sono le reti e gli sbarramenti che terranno tanto facilmente lontani i battelli sottomarini quanto le altre torpediniere. Un battello sottomarino arrestato sott'acqua diventerà un bel sarcofàgo di Maometto per il suo equipaggio". Il battello sottomarino deve agire di sorpresa e fuggire, perché le 300 libre di dinamite del suo siluro possono essere fatte esplodere prematuramente. Ad ogni modo, anche se il battello in questione potrà dare dei buoni risultati (come nella guerra di secessione americana li diedero le torpedini che distrussero l' Housatonic e l'Albemarle), esso non potrà cambiare la tattica e rimarrà pur sempre un mezzo sussidiario rispetto "alla gran guerra che sempre, sia in terra che in mare, deciderà del 'esito della contesa" . Nella discussione che segue la conferenza del Freemantle il capitano Brand richiama l'attenzione nella necessità di trovare il modo di mettere in mare le torpediniere delle navi maggiori con grande celerità [all'epoca, come si è visto, si pensa che questo sia uno dei modi più efficaci di offesa e di difesa con queste nuove anni - N.d.a.] e non concorda con l'ammiraglio Freemantle a proposito dei difetti del gruppo di tre navi proposto dal Noci. A suo parere "il gruppo ha il vanlaggio di lasciar libero ilfaoco di prora delle navi che lo compongono ed ha una.fl,essibilità superiore a quella di qualsiasi altra formazione. L'ammiraglio Freemantle abolendo il gruppo vuol far combattere le sue navi appaiate; ora, secondo me, non vi è sensibile differenza nell'avere i gruppi di 2 anziché di 3 navi''. Sempre a proposito delle torpediniere - prosegue il Brand - il capitano Colomb ritiene che il loro compito debba essere quello di attaccare il nemico più che di difendere le navi amiche. Di conseguenza "se le corazzate saranno fomite di un numero sufficiente di mitragliere e di cannoni a tiro rapido, e munite di reti [parasiluri] o di altre difese, esse saranno certamente in grado di provvedere da sé alla loro sicurezza [non è vero - N.d.a.]. Riguardo al la tattica il Brand è dell' avviso che gli antichi principi siano sempre validi, ma che sia mutato il modo di applicarli; così "altre volte si cercava di sopraffare un bastimento nemico col metterlo in posizione tale da fargli subire contemporaneamente il.fuoco di due navi: colle attuali velocità ciò non è più possibile e per sopraffare una nave si cercherà di passarle vicino con due o più navi, che successivamente le lanceranno contro i loro siluri e le loro bordate". Il Freemantle risponde poi al capitano Bethell (secondo il quale la tendenza del futuro sarà di diminuire e non di accrescere il dislocamento delle corazzate) ricordando che il Reed, celebre costruttore navale inglese, ''fece altra volta notare come gli ufficiali di marina gli domandavano s empre di non costruire navi troppo grandi, ma nello stesso tempo non erano disposti a rinunziare
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a nessuna delle qualità di una buona nave da guerra e per conseguenza rendevano impossibile al costruttore di soddisfare il loro desiderio con una nave di dimensioni moderate". Ribadisce poi la sua contrarietà al gruppo, che ritiene poco pratico per la difficoltà di far manovrare insieme tre navi, e polemizza con il Charmes e con il Nordenfeldt, secondo i quali il sottomarino e la torpediniera sono armi economiche, perché possono affondare una nave di dimensioni e costi ben maggiori: alla fin fine, se si tiene conto del numero di torpediniere di 1a classe (cioè d'alto mare) da lui ritenute necessarie per la flotta inglese (50 torpediniere per 12 corazzate) scompare l'illusione di poter fare la guerra a buon mercato. Fatto strano, il presidente della riunione (certamente un ufficiale d 'alto grado) non è affatto d'accordo con il Freemantle. Ammette che le corazzate scompariranno dalle flotte, ma non così presto come sostiene la Jeune École. Riconosce la necessità anche per l' Inghilterra di avere navi veloci in grado di percorrere grandi distanze (cioè incrociatori veloci a grande autonomia) e si dichiara favorevole ai gruppi di tre navi, con i quali il comandante in capo "se avrà affidata la direzione di ciascun gruppo a dei comandanti di sua fiducia, sarà certo che anche dopo rotta la formazione generale le sue navi combatteranno raggruppate a tre a tre e che ciascuno di questi gruppi rimarrà sotto gli ordini di valenti ufficiali i quali, come già fece Nelson a S. Vincenzo, cercheranno di portare le loro navi nei punti dove ve ne sarà maggior bisogno". E anche se non è facile manovrare il gruppo, disposto com'è in un triangolo scaleno, esso è una formazione buona per il combattimento ma non buona per la manovra; perciò le sue tre navi potrebbero normalmente muovere in linea di fila e assumere la formazione in gruppo solo al momento di cominciare il combattimento, onde aver libro il campo di tiro delle artiglierie di caccia e di quelle di fianco. In conclusione il Freemantle ha una visione tendenzialmente conservatrice, che proprio per questo corrisponde nelle grandi linee alla realtà del tempo e a quella futura, almeno a medio termine. Registra la prevalenza del cannone e quindi della corazza, così come della tendenza ai grandi tonnellaggi; peraltro il riconoscimento del primato del cannone e la freddezza verso il rostro non sono un merito, ma un inevitabile portato dei tempi. Per le formazioni quanto egli afferma non è tassativo; per questo non si comprende bene la sua ostilità netta ai gruppi di tre navi, che senza dubbio - come il presidente stesso ha affermato - assicurano alle formazioni di combattimento una notevole flessibilità (specie - noi aggiungiamo - con le artiglierie disposte in torri girevoli, soluzione che si va sempre più affermando). Tnoltre anche se al tempo (1886) manca ancora la radio, non si vede perché con la propulsione a vapore non dovrebbe essere possibile concentrare il fuoco su una sola nave, a maggior ragione con la formazione in gruppi che lascia campo libero alle torri di prora di ciascuna nave. La sua visione della battaglia è inoltre contraddittoria, perché nonostante i progressi del cannone in gittata e potenza parla di passare vicino a una nave
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nemica, colpendola con le bordate delle artiglierie e con i siluri_ Evidentemente le due armi vanno meglio impiegate in fasi diverse e a diverse distanze, mentre alle lunghe distanze almeno, le formazioni in linea di fila o loro varianti riacquistano il loro valore, per la semplice ragione che le formazioni frontali non consentono lo sfruttamento pieno dell'arma principale, cioè del cannone; ragione in più per imbarcare il siluro solo su navi specializzate o su sommergibili. Il Freemantle, come del resto gli altri autori inglesi prima citati, è lungi dal! 'intravedere quest'ultima soluzione, la sola che può diminuire la confusione regnante nel campo tattico. Inoltre la sua visione delle possibilità d'impiego delle tre anni principali è in talune parti antiquata; più equilibrata e moderna è quella (dello stesso anno) dovuta a un altro ufficiale inglese (futuro ammiraglio nella guerra 1914-1918), il tenente di vascello Sturdee. 13 Come laJeune École lo Sturdee è un convinto sostenitore del siluro, anche se non dà al cannone l'importanza che deve avere e che avrà, per contro continuando a sopravvalutare le possibilità del rostro: siamn del parere che l 'introduzione del siluro Whitehead abbia.fatto passare il rostro al secondo posto e che il cannone si sia in pari tempo awicinato per importanza al rostro, ritenendo che di questo non verrà fatto uso frequente contro navi convenientemente munite di apparecchi di lancio [di siluri]; lo abbiamo tuttavia anteposto al cannone per la ragione che col rostro si è sicuri di a.ffondare qualsiasi hastimento contro cui si urti. Dove [invece] le navi non sono munite di siluri il rostro conserva tuttora il suo antico posto, e il cannone rimane relativamente di molto inferiore.
Anche per lo Sturdee le navi maggiori, oltre che con artiglierie e rostro, devono essere armate con tubi-lanciasiluri (due per ciascun fianco, uno a prora e uno a poppa) e con piccole torpediniere, da mettere in acqua solo al momento del combattimento. TI siluro ha una funzione anzitutto anti-rostro; inoltre dalla battaglia di Lissa egli trae l' ammaestramento che colpire una nave con il rostro è tutt'altro che facile, e che sia nella nave attaccante che in quella che si difende devono essere eliminate le sporgenze_ Circa le formazioni, molti ujjìciali propongono la linea di fronte, ma a noi pare una cattiva formazione per l'attacco, giacché quando i bastimenti nemici la traversano, qualcuno dei proietti a loro diretti chefallisse l'obiettivo, colpirebbe probabilmente le navi amiche. Lo stesso si potrebbe dire per i siluri, specialmente se le navi stessero in ordine chiuso. Crediamo che la linea di j ìta sia al confronto una formazione migliore. Ma prejèriamo la formazione in gruppo a qualsiasi al-
13 F. Slurdee, Dei cambiamenti avvenuti nelle condizioni della guerra navale in seguito all'introduzione del rostro e della torpedine, avutulo riguardo principalmente all'istruzione del personale, alla costruzione e protezione del materiale e all'attacco e difesa delle navi e dei porti, in "Rivista Marittima" 1XX6, I V Tnmestre J'ascicolo XI, pp. 249-288.
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tra, come quella in cui non v'è pericolo di far fuoco sulle proprie navi e offre un campo di tiro sgombro tutto al 'intorno, si per le artiglierie che per i siluri. È inoltre una formazione difficile da attaccare col rostro e che al tempo stesso lascia che ognuna delle navi del gruppo possa, con relativafacilità, tentare l'investimento delle navi nemiche.
Con lo Sturdee comincia ad affermarsi il siluro, nuova arma che tende a porre fine al culto del rostro. In secondo luogo riacquista importanza la linea di fila, formazione che implicitamente rivaluta il cannone, anzi lo colloca al primo posto. La formazione in gruppi non è antitetica alla linea di fila, ma in certo senso ne moltiplica i vantaggi, aumentando le possibilità di offesa e difesa con il rostro.
* * * Nel periodo considerato le costruzioni della Royal Navy rimangono lungi dal non dare importanza al cannone e alla corazza anche subito dopo Lissa, evitando peraltro la corsa al gigantismo tipica della nostra Marina dal 1873 in poi. Invece nessuno dei tre autori inglesi prima citati riconosce in modo inequivocabile il primato del cannone, subito dopo Lissa collocato dal Colomb addirittura al terzo posto per importanza dopo il rostro e la torpedine Harvey, ambedue anni evidentemente senza avvenire. Il lavoro del Noel (1875) è il più aderente alla realtà del tempo, perché almeno ammette, a seconda delle circostanze, l'efficacia di tutte le armi e di tutte le formazioni possibili, anche se esprime la propria preferenza per i gruppi di tre navi e crede ancora troppo - come il Colomb - nelle torpedini ad asta e nelle torpedini Harvey. Lo Sturdee (1886) si sbilancia troppo a favore del siluro, mettendo ancora al secondo posto il rostro e lasciando per ultimo il cannone. La sua critica alla formazione di fronte è poco in armonia con la priorità che assegna al siluro; più condivisibile invece la sua preferenza per la linea di fila per gruppi. Infine il Freemantle (1886) in parte almeno dimostra idee che gli anni non sono passati invano. Ha il merito di riconoscere l' importanza della velocità e dei pezzi di medio calibro sulle corazzate, pur sostenendo anche la necessità di un tipo speciale di nave da battaglia con grossi cannoni per controbattere le batterie costiere. Non condivide la ripartizione della flotta in divisioni e gruppi di tre navi proposte dal Noel, trova la linea di fila debole in proporzione diretta al numero delle navi, ritiene che la miglior soluzione sia la linea frontale a denti composta da gruppi di due navi e finalmente registra il primato e lo sviluppo inarrestabile del cannone e della corazza, prevedendo che l'attacco con il si luro e con il rostro avrebbe seguito il combattimento d'artiglieria. È anche l'unico dei tre (e il primo di tutti) ad accennare al sommergibile, però tenendo i piedi per terra, almeno relativamente alle prestazioni e ai limiti del mezzo al suo tempo, che prevede già armato di siluro anche se è ancora ovunque disarmato e in esperimento. Tutto sommato è azzeccata - almeno fino al 1914 - la sua previsione che esso non potrà cambiare la tattica e rimarrà un mezzo sussidiario.
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l1 pensiero tattico dell'altra grande Marina europea, quella francese, non aggiunge niente di nuovo a quanto hanno scritto gli autori inglesi prima esaminati e si distingue solo per il suo estremismo concettuale, che lo porta a un' eccessiva fiducia nel rostro (De La Gravière), nel siluro, nelle torpediniere, nei sommergibili e quindi nella poussère navale, a tutto discapito della grande nave corazzata ritenuta troppo vulnerabile e troppo costosa, e del grosso cannone (Jeune École). Va però ricordato che i teorici del\a Jeune École - a cominciare dall'ammiraglio Aube - ritengono indispensabile anche il cannone, da impiegare soprattutto per il bombardamento delle città costiere specie italiane.
SEZIONE III - La troppo graduale marcia verso il cannone e le nuove prospettive del siluro negli autori italiani Il più maturo giudizio del Bonamico su Lissa L'esame del pensiero strategico e tattico italiano dopo il 1870 fa sorgere un primo interrogativo: come viene giudicata l' amara sconfitta di Lissa c quali ammaestramenti se ne traggono? Manca - diversamente da quanto è avvenuto per Custoza 1866 - una versione ufficiale degli avvenimenti; ma una risposta senza equivoci viene subito data indirettamente <lai Ministri Riboty, Saint Bon e Brio, con l'impostazione nell ' aprile 1873 della grande corazzata Duilio (4 cannoni da 450 mm con potente armamento secondario, sperone e 3 lanciasiluri), seguita dalla gemella Dandolo e dall'Italia, impostata nel luglio 1876 (4 cannoni da 431 mm, 8 da 152 mm, 12 mitragliere e sperone). Gli orientamenti costruttivi italiani a breve distanza da Lissa sono dunque ben chiari: preferenza al cannone colossale, e quindi alla corazzatura e ai grandi ( e costosi) dislocamenti; ruolo secondario assegnato allo sperone e al siluro, quest'ultimo solo all'inizio del suo sviluppo. Per altro verso il dibattito su Lissa e sull'arma principale del futuro è abbastanza intenso, anche se lungi dal portare a risultati univoci. Su Lissa scrivono in molti (Randaccio, Vecchj, Parodi) mentre anche il Fincati, come meglio si vedrà in seguito, vi fa frequente riferimento; ma lo studio di maggior peso è ancora una volta quello di Domenico Bonamico, che ha partecipato alla battaglia imbarcato sul Re di Portogallo come ufficiale addetto ai segnali alle dipendenze dirette del comandante (e futuro ammiraglio e Ministro) Riboty. Studio tanto più importante, visto che è pubblicato da un periodico ufficiale come la Rivista Marittima, anche se trent'anni dopo. Le sue considerazioni in questa occasione, pertanto, meritano di essere aggiunte a quelle, molto più stringate, che sono state compiute nel precedente articolo sulla tattica navale. Recensendo 1'opera (mai tradotta in italiano) sulla guerra austriaca del 1866 in Adriatico <lel comandante Attlmayr (per lungo tempo insegnante alla seuo-
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la navale di Pola, intimo del Tegetthoff e suo Sottocapo di Stato Maggiore a Lissa), 14 il Bonamico fornisce in apertura una riflessione generale tuttora valida, che avvalora il suo personale punto di vista: le pubblicazioni ufficiali non corrispondono quasi mai alle esigenze storiche, e se possono servire quali documenti a chi intraprende lo studio di un determinato periodo militare, difficilmente costituiscono un 'opera storica adatta alla diffùsione della letteratura militare. In questi lavori la soggettività del[ 'autore scompare, la forma cronologica tende a prevalere, la rigidità de/fatto s'impone a danno del concetto critico, onde il lettore è quasi sempre costretto a sintetizzare le situazioni complesse con un lavoro mentale assai spesso difficile, faticoso e ingrato.
Non è dunque della mancanza di una storia ufficiale italiana (mai compilata) che il Bonamico si preoccupa, ma piuttosto dell'assenza di studi esaustivi su Lissa. A suo giudizio la Storia della marina militare italiana dal 1860 al 1870 del Randaccio "non costituisce una vera storia militare della campagna di guerra nell'Adriatico, quantunque gli avvenimenti del conflitto italoaustriaco del 1866 siano largamente esaminati e troppo spesso giudicati con un 'acredine che offende l'imparzialità della storia". Non sfugge ai suoi strali nemmeno il Vecchj, che a suo parere nella sua Storia generale pur trattando fin troppo diffusamente la parte riguardante la marina italiana nella guerra del 1866 omette quasi interamente quella che riguarda la marina austriaca, sia pur fatta eccezione per le operazioni del 27 giugno e del 18, 19 e 20 luglio. Ne consegue che che il lavoro del Vecchj non può essere considerato completo, e che i suoi studi "tendono ad assumere un carattere piuttosto critico che storico". Di conseguenza "la storia della campagna di guerra nel 'Adriatico rimaneva un desideratum degli studiosi di scienz a militare marittima, e questa lacuna non poteva colmarsi che da uno storico austriaco il quale, giovandosi degli esuberanti documenti italiani, costituisse un 'opera armonica in tutte le sue parti". Affermazione, quest'ultima, non condivisibile: perché solo uno storico navale austriaco, e non uno storico italiano, avrebbe potuto fornire un quadro soddisfacente e obiettivo della battaglia? Senza contare che l' Attlmayrnon può essere che uomo di parte, in quanto - come scrive lo stesso Bonarnico - "nel/'opera sua palpita il cuore e si rispecchia la mente dell 'illustre ammiraglio". Per contro il Bonamico - altrove sostenitore del rostro - non si associa affatto alla dimostrazione dei vantaggi della formazione ad angolo della flotta austriaca prevedibilmente effettuata dall' Attlmayr, da lui definita "postuma" rilevando che
14 Domenico Bonamico, recensione all'opera del comandante Ferdinand Attlmayr Der Krieg Oesterreichs in der Adria in Jahre /866 (Pola 1896), in "Rivista Marittima" 1897, I Trimestre, Fase.
TI, pp. 359-381.
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l'ordine prescelto degli Austriaci per la marcia e per l'attacco era quello di: Fila per gruppi - ogni gruppo in ordine ad angolo. La formazione di fila p er gruppi era logica e tattica, ma l'ordine ad angolo dei singoli gruppi, cuifu attribuito il valore dell'urto e dello sfondamento dell'ordinanza italiana, non era né un ordine di marcia né un ordine efficace di attacco.
Questo categorico giudizio è così motivato dal Bonamico: 1) gli studi tattici moderni hanno bocciato l'ordine ad angolo, perché poco flessibile e difficile da mantenere per una squadra numerosa; 2) le antiche armate a remi benché la loro tattica abbia molte affinità con quella delle armate a vapore, non hanno quasi mai impiegato tale formazione; 3) quando la preparazione per l'attacco esige spostamenti e manovre, essa è assolutamente da escludere; 4) come formazione di attacco per sfondare la formazione più sottile del nemico, essa non ha alcun vantaggio sulle altre formazioni fì-ontali , e conserva tutti gli svantaggi della sua scarsa flessibilità; 5) " il forzamento della linea italiana sarebbe avvenuto qualunque fosse l'ordinanza austriaca, purché essa avesse l 'attitudine ali 'attacco prodiero, e solamente per questa proprietà l'ordine prescelto dagli austriaci aveva un carattere moderno preponderante sull'antica linea di battaglia". Tn secondo luogo il Bonamico non condivide l'affermazione dell' Attlmayr che "l'ordine ad angolo può essere preso in considerazione soltanto nell 'intendimento di un attacco diretto collo sprone, tendendo alla mischia". Questo perché il Tegetthoff appena attraversata la linea e il Pctz (comandante della divisione austriaca delle navi non corazzate) anche prima di averla attraversata, hanno segnalato alle loro navi di ass umere la linea di fila. Inoltre solo la divisione delle corazzate austriache ha assunto la formazione ad angolo e attraversato la linea italiana, mentre la seconda divisione in legno ha assunto "una linea di fila irregolarmente a scacchi'', con la quale ha attraversato l' ordinanza italiana tra la Maria Pia e la Varese, che ancora non era giunta in formazione. Sempre secondo il Bonamico l'attraversamento della linea di fila italiana da parte delle corazzate austriache è stato molto agevolato dall' intervallo di oltre 1.200 metri che separava l'Ancona dal Re d 'Italia, a causa della perdita di tempo provocata dal trasbordo (da lui duramente criticato) dell'ammiraglio Persano dal Re d'Italia ali' Affondatore; è quindi manifesto che l'ordine ad angolo, mantenuto solo dalla divisione delle corazzate, non conseguì alcun effetto nella fase d'incrociamento e non ebbe alcuna influenza sulle successive fasi del combattimento. L'ordinanza di combattimento prescelta dal Persano fu la linea dijìla - ordine naturale - ma [... ] questa linea era così scucita e deformata da non poter rappresentare in alcun modo un 'ordinanza regolare di combattimento. Le considerazioni s volte dal! 'autore, nel suo complemento tattico, sulla linea di fila come ordine di battaglia e sul dnven~ che ùu:omh,~va al Per.wino di attuare, p er r.nnlmmarria
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e simultaneamente, l'attacco prodiero verso il nemico accostando a 90° a sinistra. sono così giuste e ponderate da potersi senza discussione accettare.
Dopo queste affermazioni, che criticano non tanto l' impiego dello sperone ma la scelta delle formazioni più adatte a impiegarlo con successo, Bonamico rileva che non solo i comandanti italiani (compreso il Riboty) non avevano fiducia nello sperone, ma anche quelli austriaci: solo la Ferdinand Max ha tentato per tre volte l' urto con lo sperone (due volte senza risultati, e la terza volta con pieno successo), mentre le altre corazzate austriache non lo hanno mai tentato. Questa volta, però, Bonamico non coglie l'occasione per ribadire la superiorità del rostro sul cannone; non prende posizione sulle critiche dell' Attlmayr al Persano, che non ha tentato di affondare col rostro il Ferdinand Max danneggiato dopo l'urto con il Re d 'Italia, e non fa più riferimento a quanto aveva scritto nel 1880 sulla Rivista Marittima, sempre a proposito del1'esperienza di Lissa: quella sfiducia [dei comandanti italiani nel rostro - N.<l.a.] non doveva/orse consigliarci di rafforzare le prore rendendole capaci dell 'urto? Ebbene, noi abbiamo lasciato gli sproni come erano e abbiamo. invece, trasformato le prore per soffocarle con nuovi cannoni; io propongo quindi, se torna la spesa, di togliere quei cannoni, alleggerire le prore ed armarle di uno sp erone che non sia un simbolo, ma un 'arma efficace. Quattro buoni cannoni sopra una nave marina, leggera, evolubile, veloce,Jòrtemente rostrata. sono quanto è necessario e suffìciente alla nostra difesa; ed un 'arma potente fra mani ardimentose. 15
Le successive critiche del Bonamico al Vacca e all 'Albini, aggiunte a quelle al Persano, una volta per tutte chiariscono che la sconfitta di Lissa non è stata questione di formazione o di armi ma di comando, e di iniziativa da parte dei livelli inferiori. Ne consegue che - anche sulla base di quanto egli afferma nella recensione del 1897 prima citata - il culto dello sperone non è affatto giustificato dagli eventi di Lissa, e che le sue affermazioni del 1880 a favore dello sperone - non più confermate - percorrono una strada contraria a quella seguìta dalle costruzioni navali di tutti i Paesi, non solo dell'Italia. Le considerazioni del Bonamico sulla battaglia di Lissa rimangono a tutt'oggi le più equilibrate e le più centrate. Nella letteratura navale italiana si parla spesso di Lissa, ma generalmente con il tocca e.fuggi, senza approfondire più di tanto gli argomenti e con una condanna pressoché unanime alla condotta del Persano, condanna peraltro giusta. Fa eccezione solo lo studio del maggiore Guerrini, pregevole soprattutto per l'accurata descrizione del quadro nel quale si svolgono gli avvenimenti e per le fondate critiche al Persano. 16
15 Domenico Bonamico, Scritti sul potere marittimo (a curn di F. Bolli), Roma, Ufficio Storico Marina Militare 1998, p. 31. 16 Cfr. Domenico Guerrini, Lissa - Voi. I Come ci avviammo a !,issa e Voi. Il Come arrivammo a Lissa, Torino, Casanova 1907- 1908.
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SEZIONE IV - Il pensiero tattico italiano da Lissa al 1881: predominio del rostro L'immediata eredità di Lissa (1872-1873): le tesi del de Amezaga a favore del cannone. l'esaltazione della torpediniera alla Camera proprio da parte del Saint-Bon e la jòrmazione di combattimento (troppo astratta) della flotta sostenuta dal Morin Già nel 1872 si affronta sulla Rivista Marittima il problema di fondo: se con le torpedini rese mobili sia possibile aver ragione con poca spesa delle grandi navi. Al momento - come già visto - si sta sperimentando la torpedine Harvey, che consiste essenzialmente in una mina calata in mare nell'imminenza del combattimento e tenuta a rimorchio con cavo a 45° da una nave, con la speranza che riesca a urtare e colare a picco una nave nemica. Nel primo dei due suoi articoli sull'argomento 17 il comandante (poi ammiraglio) Carlo de Amezaga diversamente dal Colomb e da altri autori inglesi giustamente la giudica come "un ordigno destinato sì, in alcune circostanze specialissime, a produrre effetti micidiali contro il nemico, ma non mai atto ad arrecare perturbazioni ai moderni principi della tattica navale, i quali riposano esclusivamente sulla potenza dello sperone e delle artiglierie". Secondo il de Amezaga l' idea di un'arma poco voluminosa e poco costosa, ma capace di affondare le grandinavi corazzate, ha senza dubbio esercitato un certo fascino su coloro che si limitano soltanto a esaminare le conseguenze di una simile catastrofe; ma se si valutano attentamente i fattori che determinano il reale valore bellico di quest'arma, "non si tarda a riconoscere che, tolta ogni illusione, essa si riduce a una macchina guerresca affatto secondaria, ammesso pure che (ciò che per ora non è provato) il suo maneggio a bordo non offra pericoli di sorta". In effetti - prosegue il de Amezaga - si tratta di un' anna che crea parecchi problemi per il suo recupero, con elevato rischio di esplodere; e se il cavo di rimorchio fosse tagliato lasciandola libera sul mare, essa potrebbe colpire anche una nave amica. La mischia esclude il suo impiego, ma condiziona pesantemente le evoluzioni tattiche, perché la sola formazione nella quale potrebbe essere tenuta a rimorchio è l'ordine di fronte semplice, che non può essere adottato come formazione invariabile di combattimento. Il de Amezaga perciò non concorda con "un illustre marino inglese", la cui opinione è che l'adozione della torpedine Harvcy "tende a ricondurre in prima linea nei futuri attacchi navali il cannone, in quella guisa che lo sperone lo aveva relegato nella seconda". E poiché tali attacchi saranno decisi dell'artiglieria, la linea di fila ritornerà come ordine fondamentale di combattimento ... . Invece il Nostro, pur non negando per altri motivi alla linea di fila la sua simpatia, ritiene che tale for-
17 Carlo de Amezaga, fmpressinni intonio alla torpedine Harvey, in "Rivista Marittima" 1872. I Trimestre Fase. U, pp. 279-285.
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mazione non si presti per niente all'impiego del.la torpedine in questione: "non c'è bisogno di soverchia perspicacia per prevedere la critica posizione che al poppiero sarebbe fatta dalla nave [con torpedine Harvey a rimorchio] che fortuitamente rallentasse la sua marcia, e per comprendere le difficoltà immense che l'intera flotta incontrerebbe collo eseguire cambiamenti di direzione, e segnatamente un 'inversione d'ordine simultanea". Considerazioni ineccepibili ... Il de Amezaga boccia anche la proposta dello stesso inventore Harvey di costruire per l'impiego della sua arma navi ad hoc, in quanto i pregi della sua torpedine non hanno un 'importanza così capitale da imporre all'arte navale di farle larghe concessioni. L 'azione di simile strumento di guerra è troppo incerta, troppo circoscritta; e, costo per costo, realizzazione per realizzazione di un progetto tendente ad affondare navi, siamo tentati a dare la prefe renza al proietti/e sottomarino (sic) del signor M.Q. Devèze del Genio francese, mediante il quale almeno si va sempre incontro all'obiettivo, e senza confusione e incertezza.
Le suddette critiche dovrebbero portare la Marina italiana ad escludere l'adozione di questa nuova anna; invece il de Amezaga contraddittoriamente (e non "paradossalmente", come egli stesso scrive) propone che il nostro Governo la adotti, perché altri Governi già la possiedono e adottandola si accontentano sia gli oppositori che i fautori, concordi nel giudicarla un segnale del nostro desiderio di progredire; tanto più che l'Inghilterra la possiede già .... Un altro articolo comparso dopo quello del de Amezaga, a firma R.V., 18 cerca di minimizzare gli inconvenienti e i pericoli che comporta l' impiego della medesima arma, ma giunge più o meno alle sue stesse conclusioni: essa richiederà taluni accorgimenti nella manovra, e comunque nelle future battaglie non farà cambiare essenzialmente la tattica navale. I due principf su cui questa riposa, dovuti all'adozione del/ 'elica e del rostro, e non all'adozione della corazza, non potranno subire una variazione se non quando cambiasse il mezzo di locomozione e quando il mezzo dell'urto non fosse più riconosciuto efficace, oppure quando il cannone avrà riacquistato l'importanza antica ed assoluta che aveva.
Il de Amezaga chiarisce ancor più le sue idee - favorevoli al cannone e quindi contrarie al rostro - in un altro articolo dello stesso anno 1872, 19 nel quale peraltro, manifesta chiaramente la sua ostilità anche alle grandi navi: assistiamo da varii anni a uno spettacolo straordinario. all'amore esagerato di offendersi e difendersi: eppoiché col pensiero nostro ci figuriamo trovarci
'"R. V., Sulla possibile importanza della torpedine Harvey, in "Rivista Marillima", pp. 400-407. Carlo de Amezaga, Studi navali militari, in "Rivista Marittima" 1872, 11 Trimestre Fascicolo IV,
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pp. 384-398.
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sul mare, vediamo ogni giorno a dismisura la potenza del cannone e lo spessore delle corazze. Dove si arriverà, e giunti al piede del muro che si farà'! Sono le questioni intorno a cui, sostenute dalle promesse, intendiamo ragionare. I limiti della difesa e de/l'offesa, in relazione alle navi, sono assai circoscritti, imperrocché li delinea una mole moderata, un peso moderato, condizioni al di faori delle quali difèttano le qualità essenziali per tenere il mare, e cessano quelle necessarie a far funzionare l'arma aggressiva. Per quest 'ultima intendiamo il cannone. Il rostro per noi non essendo che un emissario del moto, un punto di maggior robustezza del corpo in movimento che insegue e va incontro ad un altro corpo animato anch 'esso da movimenti liberi; che quando il rostro s'imbatte in un corpo inerte è sempre la nave, il gran maglio, che lascia la sua impronta. li rostro è tutt'al più uno dei fattori secondari del! 'aggressione a hruciapelo, che la massa e il moto concertano: il gran fattore di ogni aggressione è la velocità che può esserlo anche per la dijèsa.
Per il dc Amezaga l'importanza della velocità non è tanto dovuta al possibile impiego del rostro: grazie a lla velocità superiore è possibile scegliere le modalità di combattimento. I progressi del cannone sono stati superiori a quelli della corazza, ma l'artiglieria sembra aver raggiunto il culmine del suo sviluppo, a tutto vantaggio delle difese. Inoltre se l'artiglieria si apparecchia alla sosta spunta un'altra arma, piena di vita e ansiosa di distinguersi, che si ripromette di divenire la sua valida ausiliaria, il suo bastone della vecchiaia; la torpedine, invenzione degna di Vulcano[ ... ]. In una parola è il proietto sottomarino [cioè il siluro - N.d.a.], la cui apparizione fu presto dimenticata, le menti essendo allora dominate dalla preoccupazione del rostro, il jìdo compagno del 'artiglieria [ ... ]. insistiamo sul valore delle armi da lancio essendo nostra convinzione profonda eh 'esse sono armi aggressive per eccellenza, armi che non morranno, armi del debole contro i/forte ....
Né la torpedine, né il rostro sembrano avere grande influsso sulle formazioni che il de Amezaga successivamente indica, dopo aver manifestato idee piuttosto confuse sulla tattica navale ( che erroneamente definisce "scienza delle evoluzioni") e ancor più sulla strategia navale, per la quale dimentica che essa esiste ed è indispensabile ma, ovviamente dal punto di vista teorico e formale è ben diversa da quella terrestre: se è vero che la strategia sia: quel ramo d'arte militare il quale insegna quali siano i punti utili ad essere occupati in un teatro di guerra, e quali le lince più utili per passare dali 'uno ali' altro di tali punti [definizione solo "terrestre" del!' Arciduca Carlo, approvata dal generale Ricci - Cfr. Tomo 1, cap. I - N.d.a.], la strategia navale troverehhesi invocata in mal punto da 'nostri contradditori; che se intendessero per essa l'arte di sorprendere il nemico con evoluzioni inaspettate, non dispiaccia loro, diremo che la strategia navale è parola vuota di senso.
Trascurando che a Lissa la flotta italiana, intenta a bombardare i forti e a tentare uno sbarco, è stata sorpresa da quella austriaca, il dc Amczaga sostiene (sempre a torto) che diversamente da quanto accade in campo terrestre le tlot-
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te non possono nascondere né i loro movimenti, né le loro formazioni; quindi sul mare non sarebbe possibile la sorpresa. A suo parere quando due flotte nemiche sono a contatto della strategia non resta che l'obiettivo, che si concreta nella battaglia; "in mare non esistono per le armate movimenti strategici, come non esistono movimenti analoghi a quelli della gran tattica degli eserciti, che ha per scopo di preparare l 'urto. Esistono soltanto movimenti tattici, i quali sono del dominio esclusivo della tattica delle manovre, della tattica delle evoluzioni''. Inoltre in campo terrestre, tale gran tattica esige che sul campo di battaglia vi sia un esercito pronto all'offensiva e che quello contrapposto intenda mantenersi sulla difensiva [ma chi l'ha detto? - N.d.a.); "ora nulla di ciò si verifica tra forze navali in vista, dappoiché si separano se la più debole, dotata di velocità sufficiente per allontanarsi. non istima utile accettare battaglia subito, ed allora i movimenti di entrambe sono sempre ofjènsivi, senza preoccupazioni di sorta a riguardo del possesso di un punto piuttosto che di un altro delle acque ...". Le differenze così rilevate dal de Amezaga non hanno alcun fondamento: sia in campo terrestre che navale la grande battaglia può avvenire solo se ambedue i contendenti sono d'accordo nel combatterla, così come in ambedue i casi chi si sente più debole, e/o comunque non intende accettare battaglia, tenta sempre di non farsi agganciare dal nemico e di ritirarsi anche combattendo. Il de Amezaga passa poi ad esaminare le formazioni più convenienti, premettendo che, dato il loro elevato numero, tratterà solo quelle comparse negli ultimi anni. Dopo aver bocciato decisamente come tanti - i vari tipi di ordine a cuneo perché mancano di flessibilità e di rapidità nei cambiamenti di direzione, esprime la propria preferenza per la linea di fila doppia o tripla, che dovrebbe essere la base di ogni evoluzione in battaglia, perché può essere formata rapidamente in combattimento, e una volta serrata assicura la massima velocità in presenza del nemico. Se, poi, venisse adottata da ambedue i contendenti, e una delle due flotte tentasse di attaccare sui fianchi l'altra, "a miglior lino miglior tela"; con tale formazione sarebbe pur sempre possibile la contromanovra della flotta attaccata. E poiché il primo dovere dei comandanti in mare è di "ritardare più che si può la mischia e salvare da questa le proprie navi colla maggiore sollecitudine", occorrono appunto ordini tattici maneggevoli e facili da formare come la linea di fila, la quale è la formazione più adatta per riordinare la flotta e tornare all'attacco. Alla fine del successivo anno 1873 le chances della torpediniera contro la corazzata - uno degli argomenti di base del periodo - sono ampiamente discusse anche in un 'autorevole sede ufficiale come la Camera. 1n merito il nuovo Ministro della Marina ammiraglio Simone Pacoret de Saint Bon (in carica dall ' 11 luglio 1873) fa dichiarazioni sorprendenti e generalmente poco note, 20
'"Cfr. Gli interventi del Saint-Bon nelle tornate della Camera <lell'8, 9 e 10 dicembre 1873. Si veda anche, in merito, Mariano Gabriele, Simone Pacoret di Sai11t Bon. Roma, Ufficio Storico Marina Milit~re 2002, rr 110-11 2.
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che mal si conciliano con la politica delle grandi navi, delle quali - come meglio vedremo in seguito - è stato storico assertore con il suo amico (diventato poi avversario) generale del genio navale ing. Benedetto Brin. 11 Saint Bon ricorda che nel 1860, quando il vascello poteva dirsi ormai superato dalla corazzata, l'allora Ministro della Marina ha pubblicato un opuscolo nel quale annunciava l'intento di mettere immediatamente in cantiere 12 vascelli di linea. A tale progetto egli si è opposto con un altro opuscolo, nel quale cantai l'elogio fanebre del vascello di linea, che dichiaravo apertamente e solennemente morto per sempre: ora, signori, in presenza del porta torpedini che noi abbiamo, o che ci proponiamo di avere, in presenza della torpedine Whitehead [cioè del siluro - N.d.a.], io oso dichiararlo nuovamente che la marina è in uno stato di gestazione per una nuova trasformazione non meno radicale di quella che ha avuto nel 1860. A//ora la corazza ha reso impossibili tutti i bastimenti che esistevano prima; ed ora la torpediniera Whitehead rende impossibili tutti i bastimenti che esistono.
Le principali marine straniere del tempo tengono in grande considerazione il siluro Whitehead-Luppis; dal canto suo, il Saint Bon annuncia di aver messo allo studio il progetto di una nave porta-torpedini dovuto all'Jspcttorc del genio navale ed ex-deputato Mattei, con una grande velocità ( 17 miglia/ora) e dotata di corazza (questa nave, sia pur mal riuscita e definita "un aborto" diventerà poi la prima torpediniera della Marina italiana, il Pietro Micca). La sua decisione è approvata a grande maggioranza da apposita Commissione (stranamente l'ammiraglio Acton, che ne fa parte, è fra i due contrari). E il Saint Bon aggiunge (forse con molta sorpresa da parte di chi oggi è fermo al suo cliché classico di capo-scuola dei fautori delle grandi navi): qui però, o signori. è necessario farvi un 'osservazione di una grandissima importanza. TI porta-torpedini, che vi ho descritto. costa ali 'incirca mezzo milione, poco più. I bastimenti corazzati che si costruiscono oggi (ne abbiamo due in cantiere. uno a Castel/amare, l 'altro alla Spezia), costeranno 14 milioni l'uno. La differenza fra queste 500.000 lire ed i 14 milioni è evidente mente grandis,çima. Ora, tutte le probabilità sono che in una lotta fra i due, chi avrà ragione sarà il porta-torpedini.
Il nuovo Ministro aggiunge che le navi porta-torpediniere saranno il mezzo più adatto per difendere con una spesa ridotta le nostre estese coste. A questo punto viene da chiedersi: stando cosi le cose, perché, con un bilancio così ridotto, la Marina italiana del tempo dovrebbe continuare a costruire navi colossali di dislocamento e costo superiore a quello delle altre marine, tanto più che in tutti i casi potrebbe averne molto poche, troppo poche? Le considerazioni del Saint Bon su questo punto sono poco convincenti, e assolutamente lontane dalla fiducia nelle grandi corazzate, che pure secondo la communis opinio ha contraddistinto la sua opera: io non so se i bastimenti del presente saranno suscettibili di essere trasformati in guisa da poter resistere ali 'arma nuova, cioè alla torpedine Whitehead.
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lo non so se saremo obbligati ad abbandonarli completamente e farne degli altri di [sana] pianta; quello che è certo è che, nel loro stato attuale, quei bastimenti hanno cessato di essere veri bastimenti da guerra [ ... ]. Con tutto questo, o signori, nel tempo in cui si porrà mano alla costruzione delle armi potenti de/l'avvenire, quali sono i porta-torpedini, la prudenza c'impone e c'imporrà di non desistere dall'usare nel miglior modo possibile le armi che abbiamo in mano, vale a dire le corazzate che possediamo e che sono ancora efficaci.
Il Saint Bon ritiene che la prudenza sia necessaria anche nel decidere nuove costruzioni, per la semplice ragione che un siluro Whitehead, del costo di mille lire, è sufficiente per distruggere una nave costata 14 milioni. Impiegare ancora le corazzate esistenti è una buona norma, ma al lettore viene da chiedersi: se la torpedine Whitehead è così efficace e - come assicura il Saint Bon stesso - in una lotta contro una corazzata avrà senz'altro la meglio, perché proseguire nella costruzione dei bastimenti corazzati già in cantiere? che vuol dire, nel concreto, "prudenza" nelle nuove costruzioni, visto che esse secondo il Saint Bon possono essere sempre distrutte da navi porta-torpedini? Anche nel 1875, sempre da Ministro della Marina, in una lettera ai suoi elettori della Spezia il Saint Bon assicura che "con un sistema affatto nuovo, che non è conveniente di manifestare, il metodo di maneggio delle torpedini Whitehead diventa sicuro; quando il nostro porta-torpedini sarà completo, esso potrà, se avrà un po ' di fortuna, colare a fondo due o tre corazzate [dunque anche quelle di nuovo tipo? - N.d.a.]." E lo sperone? Né il nuovo Ministro, né gli altri deputati - compresi i suoi oppositori - ne parlano. Se ne deduce che, per il Saint Bon, la lotta tra il cannone e il nuovo siluro Whitehead è l'unico fattore da considerare nel combattimento navale: opinione almeno nel 1873 ardita e preveggente. Il de Amezaga non si occupa di formazioni; questo argomento viene studiato - sia pure in modo assai discutibile - dal capitano di fregata (poi ammiraglio e Ministro) Enrico Morin, che, benché nominato dal Saint Bon comandante della scuola torpedinieri a bordo della corvetta Caraccio/o, trascura completamente il possibile influsso del siluro e delle altre armi con un lungo studio del 1873-1874 sugli Ordini ed evoluzioni di una flotta (1873-1874) nel quale oltre che dalla composizione della stessa (tipi di navi, loro armamento e loro proporzione con il resto della flotta) prescinde anche da un altro dato essenziale: la flotta nemica, la sua possibile composizione e i suoi possibili movimenti.21Come già affermato nel precedente cap. III, il Morin ha un concetto inesatto e contradditorio della tattica navale, anche se è apprezzabile quanto egli afferma sempre nel cap. III a proposito della "scienza della guerra nava-
21 In "Rivista Marittima" 1873, N Trimestre Fase. XI, pp. 151-167, e Fase. Xli, pp. 311-327 e "Rivista Marittima" 1874, I Trimestre e Fase. II, pp. 279-243.
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le". Ci sembra troppo generico e troppo ambizioso il suo principio che "nel determinare gli ordini e le evoluzioni da adottarsi, si debba procurare con ogni cura, tanto di raggiungere, come di non oltrepassare, questo scopo: rendere la flotta atta il più possibile ad eseguire, con decisione e rapidità, e senza bisogno d 'istruzioni speciali, qualunque concetto tattico del suo comandante". Quello della massima flessibilità di una formazione è un obiettivo certamente importante; ma le fonnazioni di base iniziali da adottare nella battaglia non devono forse, in primis, agevolare l'impiego delle nostre armi principali e ostacolare quello delle armi nemiche? Evidentemente le possibilità delle varie armi condizionano le formazioni, quindi prima di definire una fonnazione di base vanno accuratamente vagliate, come del resto fanno gli autori navali coevi; ma su questo argomento fondamentale il Morin tace. Eppure solo qualche anno prima a Lissa Tagetthof aveva vinto adottando una formazione poco flessibi le ma tale da garantire il miglior impiego dell'anna principale da lui prescelta, che nella fattispecie era lo sperone. Le sue affermazioni forniscono dunque l'occasione per sottolineare ancora che - come del resto ammette egli stesso nel combattimento navale le priorità e le relative formazioni sono fissate di volta in volta dal comandante, tenendo però presente che anzitutto si deve fare tutto il male possibile al nemico, e ridurre al tempo stesso l'efficacia delle sue armi: poi si vedrà.
L 'incerto e troppo variegato dibattito dal I 873 al 1881: la scarsa fiducia nelle artiglierie colossali, i dubbi sul cannone, la troppo frequente_fìducia nel rostro e la comparsa del siluro Nel periodo in esame la posizione più conservatrice è quella del Morin, che in un altro articolo del 1878 non parla del rostro e senza preoccuparsi dei risvolti economici della sua soluzione o di ciò che avverrebbe se la nostra flotta fosse inferiore a quella nemica, polemizza con coloro che ritengono superflua per l'Italia una flotta da battaglia di composizione classica e sostengono che con una spesa minore le nostre coste potrebbero essere meglio difese da un sistema di torpedini fisse, batterie costiere e/o piccoli bastimenti a ridotta autonomia (cioè torpedinierc).22 A suo avviso l'esempio della difesa delle coste americane e tedesche, e/o delle guerre che al momento si combattono in Oriente (nelle quali le torpedini fisse si sono dimostrate molto utili) per noi non vale, perché le coste italiane, quasi ovunque aperte, non si prestano all ' impiego di tali armi, mentre i fondali troppo profondi davanti a Genova, Livorno, Napoli e Messina non ne consentono l'ancoraggio. Anche le batterie costiere, necessarie per difendere tutto ciò che dovrebbe essere difeso, sarebbero troppo
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Enrico Morin, Dijèsa marittima del/ 'Italia, in ' 'Rivista Marittima" I 878, I Trimestre, Fase. l,
pp. 17-33.
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costose; egli invece riconosce che i siluri "hanno un certo awenire", sempre che siano costruiti con la perfezione necessaria, senza la quale saranno sempre un'illusione, o, peggio, un pericolo per chi se ne serve. Tuttavia "ciò che non arrivo a comprendere è il bastimento lancia-siluri [cioè la torpediniera- N.d.a. ], piccolissimo, di valore minimo e, in pari tempo, efficace. In quest 'ordine di idee, ammetto la lancia, che un bastimento porta con sé, ma la nave autonoma non la ritengo possibile". Secondo il Morin alle navi torpediniere si richiedono requisiti inconciliabili con le loro piccole dimensioni. Con un dislocamento troppo esiguo bisognerà rinunciare alla protezione richiesta dai partigiani di questo tipo di nave, e forse non si riuscirà neppure a tenere le macchine e le caldaie al di sotto del bagnasciuga, né si riuscirà a ottenere la grande velocità di manovra da loro richiesta; perciò "non si potrà a meno di adottare una forma di carena sul genere del Pietro Micca, la quale (checché ne pensino taluni) è certamente poco compatibile con lo sviluppo di una velocità considerevole".23 Ne consegue che l'ingegnere, per soddisfare i contrastanti requisiti richiesti, "oltrepasserà di gran lunga i limiti di tonnellaggio piccolo ed economico, e produrrà in definiti vu u11 progetto di nave esclusivamente torpediniera, il quale, senza grandissime variazioni per ciò che riguarda il dislocamento e il costo, potrà venire convertito in quello di un.a nave armata di cannoni e siluri [ cioè in un cacciatorpediniere - N .d.a.]". Tra i sostenitori della torpediniera vi sono però coloro che [come più tardi il Sechi - N.d.a.] sono disposti a sacrificare alla velocità, oltre che le artiglierie, anche una parte considerevole della protezione e del combustibile, quasi tutti gli approvvigionamenti e l'abitabilità della nave. Così facendo ci si avvicinerebbe al naviglio di valore minimo vagheggiato da costoro, che peraltro non potrebbe essere impiegato in alto mare bensì diviso in piccoli gruppi fra tutti i punti delle coste nei quali si avrebbe ragione di temere un' aggressione; "ma questo sarebbe il sistema delle Linee di difesa estese e deboli, spinto all'ultimo grado dell'assurdo". Se, infatti, il nemico si presentasse in forze all'attacco di uno dei porti difesi dalle nostre torpediniere, io domando: in forza di quale principio scientifico, in nome di quale insegnamento dell'esperienza si può sostenere [come ba fatto il Saint-Bon - N .d.a.] che le probabilità di vittoria sarebbero per i bastimenti torpedinieri? Siammetta pure fin che si vuole la superiorità delle torpedini sugli altri mezzi di of-
23 La c.d. "nave lanciasiluri" Pietro Micca, assai criticala ma dalla quale il Saint Bon rivendica esplicitamente e polemicamente alla Camera la paternità (Gabriele, Op. cii. , p. 113) aveva le seguenti caratteristiche: impostata nel 1875, varata nel 1876, entrata in servizio nel 1877, radiata nel 1893, dislocamento t 608, velocità massima 17 nodi, armamento 6 lanciasiluri. Fece cattiva prova, probabi lmente per la sua velocità inferiore (o al massimo uguale) a quella delle corazzale e degli incrociatori più recenti e per le eccessive dimensioni (m 61 di lunghezza x 6 di larghev.a) a fronte delle sole 13 t di dislocamento e delle dimensioni molto più ridotte delle più moderne torpediniere tipo 1norneycroft e della velocità molto maggiore delle torpediniere Schichau (22 nodi, con sole 80 t di dislocamento), le prime adottate dalla marina italiana.
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fesa; si urterà sempre contro l'obiezione che le stesse torpedini le può possedere la flotta che attacca, la quale inoltre avrà tutti i vantaggi del numero e dalla forza delle navi e di un potente armamento d'artiglieria. in questa lotta ineguale le navi torpediniere avrebbero certamente la peggio [... ). Né, per quanti sofismi si accumulino, non si arriverà mai a dimostrare lo stravagante assunto che sia un rimedio contro 1'i,iferiorità di forze il disseminare gli scarsi mezzi che si possiedono. Se l'azione concentrata e circoscritta è da consigliarsi al forte, perché possa vincere facilmente e con minore danno, questo genere d'azione si impone a fortiori al debole, per resistere il più possibile e, in ogni caso, per far costare più cara al nemico la vittoria.
Ne consegue che, a parere del Morin, le coste italiane possono essere difese solamente con tutte le forze navali riunite in un porto fortificato, dal quale potranno osservare i movimenti del nemico, piombandogli addosso se questi, trascurandole, si azzardasse a tentare uno sbarco. Per tradurre in atto tale concetto "è necessaria una flotta mobile e forte; una flotta di navi che potranno essere inferiori a quelle tipo Italia e Lepanto, ma che certo dovranno risultare assai più grandi e più costose dei piccoli lanciasiluri dei quali si è tanto parlato" .
La posizione del Morin è la più conservatrice. Le sue argomentazioni non sono contro il siluro in sé: egli combatte soprattutto i sostenitori delle navi siluranti specializzate e si schiera a favore di una flotta dalla composizione classica, con lancia - siluri sulle navi maggiori. L'articolo seguente, dell ' ufficiale di marina Roberto De Luca, ha un titolo già di per sé stesso eloquente: Dell'importanza de/l'artiglieria nei futuri combattimenti navali e da costa24 e tratta un argomento assai più circoscritto di quello del Morin, oltre che in modo più equilibrato. TI De Luca, infatti, parte della premessa che "tre sono le armi da battaglia di una flotta moderna: cannone, rostro e torpedine; tutte importanti, nessuna esclusiva". L' impiego delle torpedini non diminuisce affatto l' importanza dell'artiglieria, anzi l'accresce; infatti quando una nave saprà che avvicinandosi di molto ad una nave nemica per tentare di urtarla col rostro, niente avrà di più probabile che il trovarsi addosso una delle torpedini da questo lanciate o rimorchiate, sarà divenuto ben più difficile il problema dell'urto: ed ogni svantaggio per l'uso del rostro è un vantaggio per l'importanza dell'artiglieria[ ... ]. Ma il nemico di una flotta non è sempre un 'altra flotta pronta a dar battaglia in alto mare; le navi devono poter combattere anche nemici terrestri, ed allora la sola arma possibile resta il cannone.
Il De Luca passa poi a trattare degli ammaestramenti della battaglia di Lissa, nella quale le artiglierie dell e nostre corazzate erano composte per la mag-
24 Roberto de Luca, Dell'importanza de/l'artiglieria nei faturi comballimcnli navali e da costa, in " Rivista Marittima" 1876, I Trimestre Fascicolo I, pp. 8-46.
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gior parte da cannoni da 16 cm di ghisa rigati e cerchiati del peso di circa 4 tonnellate, costruiti per lanciare normalmente una granata di circa 30 Kg con 3,5 Kg di polvere. Tali artiglierie in occasione della guerra furono fomite di proietti d'acciaio di 50 Kg per forare le corazze delle navi austriache, che però rimanevano incastrati nelle corazze stesse senza attraversarle. Anche i pochi nostri cannoni più potenti (4 cannoni Armstrong da 12 tonnellate e 6 da 7 tonnellate), che avrebbero potuto benissimo perforare le corazze nemiche, produssero effetti quasi nulli, perché lanciavano granate di acciaio con forte carica interna. E tenendo anche conto che i cannoni lisci della squadra in legno italiana non furono mai impiegati, si deve concludere che "la maggior parte dei nostri cannoni era del tutto inefficace". L'armamento della flotta austriaca, invece, consisteva in cannoni lisci da 48, che lanciavano palle piene di circa 30 Kg, in cannoni rigati da 24 che lanciavano granate di 25 Kg e in qualche grosso obice liscio da 25 cm. Nessuno dei cannoni austriaci, quindi, era in grado di forare corazze; ma proprio per questo essi hanno impiegato i proietti di normale uso. Riguardo alle ben note perdite italiane, il de Luca afferma che il Re d'Italia fu speronato e affondato dalFerdinand Max solo perché un comune proietto lo aveva colpito al timone (che avrebbe dovuto essere protetto), mentre anche la Palestro si è incendiata ed è affondata per effetto di una granata comune che ha colpito la parte non corazzata. Inoltre un principio d'incendio prodotto da una granata nella parte non protetta da corazze si è manifestato anche a bordo di altre tre corazzate italiane, sicché su 10 di tali navi partecipanti all'azione ben 4 ebbero un incendio a bordo e una ne restò vittima. Da questi fatti il De Luca deduce che ogni cannone non sufficientemente potente per trapassare le corazze nemiche dovrebbe tirare con granate incendiarie contro le parti non corazzate del le navi nemiche. Nega inoltre che la maggiore efficacia complessiva del tiro delle navi austriache rispetto a quelle italiane, fosse dovuta alla minore abilità dei cannonieri italiani rispetto a quelli austriaci, perché "tutti i nostri puntatori di allora erano di fresco usciti dalla scuola cannonieri [non è vero - N.d.a.], che sin d'allora dava risultati incontestabilmente soddisfacenti; inoltre un mese prima le navi della squadra avevano eseguito a Taranto un tiro al bersaglio con ammirabile precisione" (anche quest'ultima affermazione non risponde a verità; e basta una sola esercitazione?) Secondo il De Luca ciò è avvenuto piuttosto perché gli austriaci, tenendo conto della scarsa efficacia dei loro cannoni contro le nostre corazze, hanno effettuato un tiro convergente di intere fiancate a breve distanza e su ordine, mentre le navi italiane hanno quasi esclusivamente fatto ricorso a un tiro a volontà e per iniziativa dei singoli puntatori, che per diverse ragioni (difficoltà di stimare le distanze, fumo delle altre artiglierie ecc.) ha dato risultati molto diversi da quelli ottenuti nell'addestramento in poligono. Ciò dimostra che il tiro preparato e convergente è certamente più vantaggioso del tiro a volontà, perché tutti i cannoni si trovano in punteria nel medesimo istante; per giunta nel tiro singolo il puntatore vede solo un ristretto spazio nel suo porte!-
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lo, senza poter individuare le navi che è più utile colpire. Poiché un tiro utile non può essere sviluppato a distanze superiori ai 600-700 m, risulta vantaggioso stabilire per ogni batteria, castello o torre un angolo di elevazione costante per i cannoni, onde ottenere la quasi certezza di colpire un nemico nel limite di gittata utile senza doverne calcolare in precedenza la distanza di tiro. TI de Luca è tra i pochissimi del suo tempo a trarre dalla battaglia di Lissa conclusioni favorevoli al cannone, con il rostro che è arma sussidiaria e di difficile impiego, utile solo in circostanze molto favorevoli. Di opposto avviso è il capitano di fregata Turi, 25 che - probabilmente risentendo dell' influenza del Bonamico e delle teorie della Jeune-École - ammette e anzi spinge all'estremo la preponderanza del cannone, fino a ritenere ormai inutili le corazze e quindi le grandi navi corazzate, dimostrandosi assai più categorico anche del Bonamico. A suo avviso, 0
la corazza per essere utile occorre che sia capace di resistere agli urti dei più formidabili cannoni dell'epoca, senza di che è meglio non averne; 2°) dopo il trionfo del cannone sulla corazza, questa non ha più ragione di essere, perché, a mio credere, quando essa è impotente riesce non solo inutile, ma anche dannosa. Non è da dire quanto sia più fatale l'urto di un proietto sui jìanchi di una nave coperta da impotente corazza, dell'urto dello stesso proiettile sui fianchi nudi di una nave. /
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Ormai anche i siluri sono in grado di rendere inutili le corazze più spesse; se quest'arma darà i risultati sperati, la più semplice e piccola, ma jòrtunata nave, potrà dare sollecita e certa morte alla più grossa nave del mondo, sebbene ricoperta dalla più potente corazza e armata dei più potenti cannoni. E domando io: quante di queste piccole. ma ben veloci navi, non si potranno costruire con circa venti milioni che è il costo di una delle più attuali navi di linea? E (vedi umana contraddizione) i più caldi ed accaniti vagheggiatori delle torpedini e sostenitori della loro grande efficacia nei jùturi combaltimenti navali sono i più grandi sostenitori delle navi tipo Tntlexible, o di anche più esagerata grandezza e armatura! [probabile riferimento al Duilio e al Saint-Bon - N.d.a.].
Senza contare che la velocità consente di neutralizzare validamente "la potenza dei pochi e grossi cannoni che ci obbligarono a costruire navi enormi per sopportare il loro peso e le corazze di sempre crescente spessore che loro si oppongono". Data la loro ridottissima celerità di tiro, infatti, il tiro di tali cannoni raramente sarà efficace contro navi piccole e molto veloci. Di conseguenza le due squadre contrapposte giungeranno rapidamente una sull'altra, ma proprio in questa fase l'azione dell'artiglieria sarà quasi paralizzata, perché per ben
"C. Turi, Le alluali corazzale e le navi di linea dell'avvenire, in "Rivista Marittima" 1878, fl Trimestre pp. 380-390.
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distinguere le azioni e i movimenti del nemico non bisogna fare fuoco. Se si fa fuoco il fumo impedisce non solo di vedere il nemico ma anche di muoversi con sicurezza; perciò ben presto le due squadre "oltrepassandosi dovranno con precise manovre tornare all'attacco per finire con la lotta tra nave e nave, ossia a tanti singoli combattimenti o duelli, in cui giocherà molto l'ardire e il colpo d'occhio del comandante, il cozzo con la prora e le torpedini". Queste ultime armi renderanno le navi gigantesche a parità di velocità utili quanto le piccole, con la differenza che la loro perdita priverebbe in un istante la squadra di una parte considerevole della sua forza, causando effetti morali gravissimi. La conclusione del Turi è drastica: per effetto del cannone e delle torpedini "non può rimanere dubbio che le corazzate hanno cessato di essere veri bastimenti da guerra, nonostante se ne continui la costruzione"; pertanto specie per la Marina italiana non è opportuno continuare su una via che non è utile, prudente, politica ed economica. Anche il tenente di vascello Gavotti preannunciando nel l 880 una sua opera che esamineremo in seguito sostiene l'artiglieria, 26 ma con motivazioni diverse da quelle dei precedenti autori. A suo parere nelle battaglie navali gli ammiragli devono cercare prima di tutto di mantenere le loro flotte in una formazione ordinata, evitando la mischia a distanza ravvicinata nella quale ciascuna nave combatte da sé: questo "val quanto dire che noi non crediamo il rostro arma tattica dellefuture lotte navali, imperrocché non possiamo immaginare combattimento.fra.flotte in cui l'urto sia intento supremo, senza vederlo accompagnato da un inevitabile efàtale disordine". Queste tesi sono giustificate dal Gavotti con il recente aumento di potenza del cannone, che gli ha permesso ormai di perforare le corazze più resistenti. Ne risulta indirettamente svalutato il rostro, il cui successo a Lissa è anche per lui dovuto a circostanze eccezionalmente favorevoli, mentre "una nuova arma più insidiosa e terribile, la torpedine, ha arricchito l 'arsenale guerresco delle flotte moderne e complicato il problema del modo di combattere sul mare". Il lancio di siluri semoventi non ha ancora raggiunto una grande perfezione e la difficoltà di ben dirigerli è ancora molto grande; tuttavia a distanze limitate, quali sarebbero quelle delle due flotte che si attraversano, "le navi affronterebbero con quella manovra un pericolo assolutamente troppo probabile, e leprime battaglie navali potrebbero risolversi in una generale ecatombe". Anche per il Gavotti, dunque, l'arma prevalente è il cannone, perché è la sola arma in grado di garantire il mantenimento di formazioni ordinate [ma non può essere questo lo scopo del combattimento - N.d.a.]. La torpedine sarà anna esclusivamente difensiva e il rostro sarà l'ultima ratio, da impiegare contro navi danneggiate e rese incapaci di manovrare dall'artiglieria; comunque anche in una mischia il successo del rostro sarebbe garantito dal caso più che dall'abilità.
26 GiuseppeGavotti,L 'arma tattica dei.futuri comb,1tlimentifraj/01te", in " Rivista Marittima 1880, IV Trimestre Fascicolo XI, pp. 255-323.
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Riguardo alle formazioni, per il Gavotti è da escludere per il futuro che le flotte possano correre l'una contro l'altra e attraversarsi a più riprese, né è prevedibile che si divideranno per agire separatamente contro un nemico compatto. La grande velocità e la potenza delle artiglierie saranno i requisiti più importanti per conseguire la vittoria. Le flotte combatteranno a distanza di 500 o di 1000 m protette dalla loro compattezza e dalle torpedini, presentando al nemico o il fianco o la prora a seconda delle circostanze del momento; se si mantiene tale distanza, infatti, il pericolo di un urto improvviso contro il fianco delle navi è "assolutamente improbabile". Perciò le formazioni da adottare "saranno quelle in cui la flotta sarà maggiormente riunita e in cui le navi avranno tutte libero il loro campo di tiro. Gli ordini di fila a denti e gli ordini di rilevamento si presteranno più degli altri allo scopo e saranno probabilmente generalmente prefèriti. Le tattiche di Lewal e di Douglas ritorneranno opportune", tenendo presente che il primo atto tattico sarà il concentramento del fuoco di artiglieria. Oggettivamente il Gavotti confonde il "volere" con il ''potere"; le sue idee hanno una base malferma, perché tendono ad escludere troppo tassativamente la mischia, che invece potrebbe essere cercata e ottenuta da uno dei contendenti, oppure essere uno sbocco imprevedibile e imprevisto del combattimento. Il tenente di vascello Armani contesta perciò i capisaldi del suo articolo,27 partendo dalla constatazione (errata) che con la propulsione a vapore è più difficile compiere delle evoluzioni che nel periodo a vela, mentre al tempo stesso l'elevata velocità non consente di manovrare a distanza ravvicinata e in tempi rapidi. Perciò come ha scritto il La Gravière [sostenitore assoluto del rostro - N.d.a.], "qualunque possa essere l'attenzione e la buona volontà dei comandanti che manovrano a una distanza inferiore ai 1000 m dal nemico [ritenuta dal Gavotti ancora sufficiente per mantenere la formazione di combattimento - N.d.a.], basterà una sola evoluzione perché l'ordine di battaglia sia necessariamente turbato con poca speranza di ben ricostituirlo". Ne consegue che, diversamente da quanto prevede il Gavotti, per l 'Armani il combattimento navale non si risolverà solo in un duello d'artiglieria ma avrà necessariamente una seconda fase, nella quale le flotte dopo essersi combattute col cannone si mescoleranno, senza che ci sia più possibilità per l'ammiraglio di impartire ordini e/o di controllare l'operato delle sue navi, anche perché sarà difficile per gli ammiragli contrapposti valutare con una certa precisione i danni inflitti all'avversario. Tn questa seconda e decisiva fase "nessuna fra le molte armi disponibili [compresi siluri e mine - N.d.a.) potrà essere in assoluto la prescelta[ ... ]. Il vantaggio sarà per quel comandante di nave che con calma e pratica conoscenza delle varie anni saprà volta a volta, con ordini preventivi e con opportune manovre, favorire l'uso di una più che dell'altra arma di offesa o dijèsa".
27
colo
Luigi Armani, lfaturi combattimenti fra flotte, in "Rivista Marittima" I 881, l Trimestre Fa~ci-
n, pp. 311 -323.
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In linea di stretta logica. con il continuo progresso delle artiglierie e corazze almeno il rostro dovrebbe perdere terreno, ma non è così: dipende anche dai diversi orientamenti di chi è alla testa della Marina. Si ha motivo di ritenere che non siano estranei all'assunzione della carica di Ministro della Marina nel periodo 25 novembre 1879 - 17 novembre 1883 da parte dell'ammiraglio Ferdinando Acton (notoriamente contrario alle grosse artiglierie e alle navi colossali), due articoli del 1880 ancora decisamente pro-rostro, uno del contrammiraglio Di Suni (sulla Rivista Marittima) e uno di un non meglio indicato Giovanni Moro (sulla NuovaAntologia). 28 Anche il di Suoi si dichiara contrario alle navi colossali, ma con motivazioni diverse da quelle del Turi: per lui non è tanto il progresso delle nuove artiglierie a dettare legge, ma la perdurante efficienza del rostro: le navi oggi sono tutte armate di sperone, e siccome questo costituisce un 'arma di effetto terribile e decisivo, sarà precisamente con esso che si dovrà af: frontare il nemico. Ecco dunque che anche per questa ragione le squadre saranno obbligate a muoversi per rotte diametralmente opposte, nessuno volendo certo traversarsi al nemico ed aspettarne l'urto sul proprio fianco. Con_çeguenza logica di queste manovre in una battaglia navale .mrehhe il reciproco urtarsi nave contro nave e il simultaneo affondamento delle due squadre. li rostro ha posto in seconda linea il cannone. Tutti gli studi fatti per ottenere cannoni, coi quali si possano forare le più resistenti corazze, non servirebbero dunque ad altro che ad avere il mezzo di assestare colpi terribili e quasi come quelli dello sperone micidiali, quando per una causa qualunque e forse anche istintivamente l'incontro di due squadre si risolvesse in un incrociamento a bruciapelo, ogni nave passando nel/ 'intervallo tra le due nemiche che ha di fronte. In ogni modo è la distruzione reciproca e nel più breve tempo possibile.
Va però considerato - prosegue il di Suni - che i comandanti in mare, se hanno l'obbligo di arrecare il maggior danno possibile al nemico, hanno anche il dovere di preservare il più possibile le proprie forze, attaccando per esempio con le loro navi più veloci la coda della formazione avversaria, sì che ben presto si arriverebbe a una mischia con singoli duelli tra navi. Questi esempi dimostrano perciò, a parere del di Suoi, l'estrema incertezza sui principi della tattica moderna, ancor più accresciuti dal progresso ormai avanzato del siluro, che ci obbligherà a studiare nuovi mezzi di attacco e di difesa; ora abbiamo i cannoni da 43 tonnellate che se non eguagliano in potenza i cannoni da l 00 del Duilio, sono però già a questi molto vicini[ ... ]. Né vale, per il di Suoi, richiamarsi ai criteri tattici del periodo remico, nel quale le navi non disponevano certo dei cannoni di oggi. Su questo punto il
2" G. Di Suni, Sulla questione delle navi, in "Rivista Marittima" 1880, IV Trimestre Fascicolo XII, pp. 503-516 e Giovanni Moro, L 'arte marittima degli antichi, in "Nuova Antologia" voi. XX I - 15 maggio 1880, pp. 229-250.
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Moro, pur essendo anch'egli contrario alle navi colossali, la pensa - grossolanamente - in modo opposto a quello del di Suni: a suo avviso due corazzate nemiche non cercheranno mai di urtarsi prora contro prora, ma ciò potrebbe ugualmente avvenire per forza di cose o per un caso fortuito. Due corazzate che procedono l'una contro l'altra, per sfuggire a Il 'urto dovranno presentare il fianco al nemico, anche se nessuna delle due vorrebbe farlo; quindi "avranno
luogo più spesso, anzi ordinariamente, strisciamenti più o meno pronunciah"''. Non si sa ancora come potrebbe essere preparata e diretta una nave per ridurre i danni dello strisciamento al minimo, perché "la teoria dell'urto è ancora [nel 1880! - N.d.a.] all'infanzia; ma è certo che in essa sta l'avvenire delle grandi.flotte da guerra". In ogni caso, una flotta a vapore ha le stesse capacità di manovra di una a remi; infatti anche la tattica moderna è basata su due principi fondamentali, introdotti dall'ammiraglio ateniese Formione: il diecplous (manovra di una nave che si stacca dalla linea di battaglia e corre contro la linea nemica passandole in mezzo) e L'anastrophé (quando una nave, con a poppa le navi nemiche in virtù della manovra precedente, inverte la marcia e si avventa contro le poppe nemiche). Anche oggi il combattimento generale si risolverà naturalmente in molti combattimenti parziali: ogni nave mirerà a combattere un 'altra nave. Se una nave di media grandezza e una nave grandissima si troveranno di.fronte l'una all'altra, la prima, dopo aver fatto il diccplous, eseguendo più prestamente sottometterà questa al suo sperone, senza che questa nave stessa con tutta la sua forza possa rivoltarsi [ ... ]. Più una nave è grossa, più dev'essere lunga; e più è lunga una nave, meno agile diviene in tutti i suoi movimenti ...
E il grosso cannone moderno? il Moro gli dedica solo qualche riga, osservando che esso potrebbe alterare i criteri prima enunciati solo nel caso che due navi isolate intendessero rimanere a distanza per distruggersi con tale arma; ma due flotte contrapposte difficilmente potranno mantenersi in tale posizione. Nessun cenno alle torpedini e al siluro; in quanto alla fortissima differenza di dislocamento e di capacità di manovra tra le triremi ateniesi (meno di duecento tonnellate) e le navi da battaglia moderne (circa 8000), il Moro si limita ad affermare che quest'ultime richiedono molto di più il colpo d'occhio del comandante nel momento decisivo. Il di Suni e il Moro non hanno certo l'ultima parola: a dimostrazione quanto meno de lla libertà di dibattito del periodo, l'anno seguente (1881) la Rivista Marittima pubblica un altro articolo del tenente di vascello Gavotti, nel quale egli ribadisce la sua fede nel cannone e la sua avversione al rostro, peraltro accompagnate dalla fiducia nell'avvenire del siluro.29 A suo parere
29
Giuseppe Gavotti, li mstro antico e il rostro modemo - considerazioni di tattica navale, in "Ri-
vista Marittima" 1881 , l Trimestre Fascicolo m, pp. '151 463.
IV - IL COMBATIIMENTO NAVALE DA LISSA A FINE SECOLO XIX
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il rostro nei combattimenti isolati non può che chiudere la lotta, che completare con voce terribile e ultima l'azione del cannone. Il rostro, nelle battaglie fra flotte, adottato come base del sistema di offesa è, secondo noi, la negazione di ogni tattica, se per tattica si intende l'azione armonica delle varie parti che compongono una forza navale al fine di vittoria.
Parole con il pregio di essere non equivoche, alle quali si aggiunge anche un'accettabile definizione di tattica. In sintesi il Gavotti non crede - come invece fanno molti autori coevi - che col vapore sia possibile ripetere la tattica delle antiche triremi, anche se dimostra che il loro sperone serviva ad affondare l'avversario c non solo - come sostengono alcuni - ad abbordarlo. Non vi è più nessuno che ammetta che nel combattimento fra due navi, rinunciando a danneggiarsi con l'artiglieria e il siluro, debbano ricorrere all'urto per combattere. Perciò in linea generale si può ritenere che "l'urto nei duelli parziali sarà solo l'ultima e terribile ratio della pugna", mentre nello scontro tra flotte sarebbe un'imprudenza assai maggiore quella di due ammiragli che lancino le loro navi l'una contro l'altra per investirsi, e che " le obblighino a passare J,-a i fuochi e i siluri di due navi nemiche a così minima distanza". La tattica deve essere fondata sull'uso razionale ed efficace delle armi; non sull'azzardo e sull'ignoto. Invece quell'ammiraglio che si getterà con la sua flotta a tutta velocità sulla flotta nemica non potrà formulare alcuna previsione sul risultato del suo attacco e sulla seconda fase della battaglia. Egli provocherà la confusione e tu mischia e si abbandonerà volontariamente nelle mani del caso [ ... ]. A noi pare che la logica inesorabile renda incompatibile l 'uso del rostro coli 'intento di far agire un 'armata navale come un sol corpo guidato da una sola testa; ci sembra che i sostenitori di quest'arma debbano tutti inevitabilmente concludere cogli autori francesi, in questo più logici, che al primo scontro ogni formazione debba disordinarsi e la battaglia cambiarsi in una mischia generale. Noi non sappiamo in verun modo comprendere come si possa mantenere o riordinare la formazione per gruppi del Noel o qualsivoglia altra dopoché le navi si saranno gettate a tutta velocità sulla flotta nemica .....
A queste considerazioni contro il rostro il Gavotti ne aggiunge altre, per la verità non originali: I) vi è il pericolo che l'urtante possa diventare l'urtato. con tutte le conseguenze del caso; 2) come dice l'ammiraglio inglese Willes, su dieci persone sarà difficile trovarne una con il coraggio morale necessario per correre con la propria nave addosso a un 'altra in mare aperto.
SuJ siluro egli non ha dubbi: l'esito favorevole di recenti esperimenti compiuti in Italia ha confermato l'efficacia di quest'arma, tanto "da far r~flettere seriamente se non sia il caso di adottare una tattica più prudente, basata sopra un 'arma di offe sa di effetto meno problematico di quello del rostro". lnfi-
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ne auspica la creazione anche in Italia di una sede di discussioni sul modello del K. United Institution inglese, perché "è colla discussione che si giunge o si approssima alla verità, e le verità sulla tattica navale moderna, a giudicare dalla diversità di opinioni esistenti anche sugli uomini più competenti delle varie marine, è ancora ben lontana da/l'essere raggiunta o avvicinata".
* * * Il Gavotti ha ragione: il troppo ampio e variegato dibattito dal 1873 al 1881 di per sé dimostra che in tale periodo le idee tardano a maturare. Manca un riferimento comune, quindi un filo conduttore e un punto di sintesi, anche se le costruzioni navali italiane con l'impostazione nel gennaio 1882 dei tipi Andrea Doria ( 4 cannoni principali da 431 mm ; sperone; ben 5 tubi lanciasiluri) continuano - uniche in Europa - a seguire la rotta delle grosse artiglierie e quindi delle navi colossali, non sostenuta da alcun autore. Complicano spesso le cose anche i frequenti distinguo con i quali i vari autori si schierano a favore di un 'arma o di un'altra. Ciò premesso, in sintesi si manifestano i seguenti schieramenti: - per il cannone e contro la torpediniera e per grandi navi sia pur di tonnellaggio moderato: Morin (1878); - per il cannone, senza escludere l'importanza delle altre armi: de Luca (1876) eArmani (1881); - per il cannone, il siluro e il rostro, ma contro la corazza e quindi contro le grandi navi: Turi (1878); - per il cannone, contro il rostro e la mischia e in seconda istanza per il siluro: Gavotti ( 1880 e 1881 ); - per il rostro e la mischia: di Suni ( 1880) e Moro ( 1880). Queste posizioni dimostrano la perdurante e immeritata influenza del rostro, non ristretta al periodo dopo Lissa. Esse rimangono al livello di congetture, perché manca un' esperienza diretta di impiego delle varie armi in combattimento; quel che si può dire, comunque, è che i dubbi sulle grosse artiglierie sono tutt'altro che evanescenti, anche se sembra rimanere valido il modello di corazzata armata di medie artiglierie, di rostro e siluri.
SEZIONE V - Il concorso indetto nel 1881 dal Ministero tra gli ufficiali di marina e i suoi contraddittori risultati Dimostra la perdurante necessità di assestare le idee, di trovare una direttrice sicura anche il concorso indetto in data 31 gennaio 1879 fra gli ufficiali di Marina da un Ministro civile tipicamente di transizione tra grandi figure come Benedetto Brine Ferdinando Acton (l'on. Nicolò Ferraciù), che molto probabilmente intende acquisire ulteriori elementi di giudizio sulle contrapposte
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tesi pro e contro le navi colossali di queste due eminenti personalità della Marina. Il tema inizialmente proposto è infatti estremamente impegnativo: "l°) Descrizione ed esame critico degli ordini di marcia e combattimento delle armate antiche e moderne; 2°) Loro confronto ed influenza esercitata dai modi di locomozione delle navi e dai loro mezzi di offesa; 3°) Applicazione alle armate moderne; 4°) Presagi e speranze (Conclusione)". Argomenti evidentemente tali da richiedere una non comune preparazione storica e teorica ai partecipanti; probabilmente per questo motivo il numero dei partecipanti al concorso è esiguo, sì che all'inizio del 1880 il Ministro Ferdinando Acton proroga di 6 mesi - cioè fino al 31 luglio 1880 - il termine stabilito, restringendo l'argomento al solo quesito "sui migliori ordini di marcia e di combattimento con le odierne armate, tenendo conto degli attuali mezzi di offesa e difesa (artiglieria, torpedini e rostro)". 30 Ottiene il l O premio il saggio del capitano di corvetta Carlo Grillo "Sui migliori ordini tattici per una flotta moderna"; il 2° premio viene assegnato al tenente di vascello Emilio Algranati, con il saggio "ordini di marcia e di combattimento delle flotte". Riceve la J3 menzione onorevole il tenente di vascello Michelangelo Cattori, con i suoi "Sh,di di tattica navale"; la 2a menzione onorevole va al tenente di vascello Enrico D 'Agliano Galleani, che presenta uno studio "Sui migliori ordini di marcia e di combattimento con le odierne armate". Per ordine del Ministro Acton questi saggi sono pubblicati sulla Rivista Marittima del Il Trimestre 1881 . Il lungo studio del Grillo (122 pagine) ha talune caratteristiche, che conviene mettere subito in evidenza: - critica indirettamente ma duramente l'azione di comando del Persano alla battaglia di Lissa (di qui iI motto "errando discitur' che apre l'articolo); - si dichiara nemico dei grossi cannoni e delle navi colossali, evidentemente in armonia con il pensiero del Ministro Acton; - tra cannone, rostro e siluro si sforza, non senza contraddizioni, di mantenere un certo equilibrio, tuttavia non riconoscendo al siluro (diversamente da altri già al suo tempo) una grande importanza, almeno per il momento. Non nega, infatti, che in futuro tale arma, se perfezionata, possa rivoluzionare la tattica. Ha scarsa fiducia anche nelle torpediniere, con particolare riguardo al loro impiego in alto mare; - della tattica navale dà una definizione teorica non del tutto accettabile, peraltro accompagnata da sagge premesse; - la suddivisione del naviglio da guerra e le formazioni di marcia e combattimento da lui indicate, pur risentendo come tutte della mancanza di probanti esperienze, contengono parecchi elementi di massima applicabili anche per il futuro, pur risentendo dell'eccessiva importanza anche da lui data al rostro, destinata ad essere smentita dalla storia;
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In "Rivista Marittima" li Trimestre 1880.
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- critica (direttamente) taluni aspetti della regolamentazione tattica in vigore e (indirettamente) anche dello studio del Morin prima citato; - loda invece grandemente il Bonamico e dichiara di accettare "quasi per intero" le sue conclusioni sulla difesa marittima dell'Italia. Per il Grillo la tattica è "l'arte di impiegare nel miglior modo i mezzi di cui si dispone per raggiungere un obiettivo militare; essa quindi comprende tanto la scienza di far navigare una forza navale nel modo più rapido e più opportuno allo scopo che si ha in mira, quanto quella di renderla uno strumento docile nella mano del suo capo, atto a compiere colla massima prontezza qualunque mossa che questi creda di ordinare". La seconda parte di questa definizione è pienamente condivisibile; ma sulla prima si può osservare che anche la strategia- o la logistica - sono anch'esse arte di impiegare al meglio i mezzi disponibili per raggiungere un obiettivo militare. Detto questo, il Grillo ha ragione quando scrive che " il presentarsi sul luogo de/l'azione senza aver fermo in mente come si dovrà combattere, fidando sulla ispirazione del momento e sulla possibilità di dare solo allora gli ordini opportuni, esclude i vantaggi del/ 'iniziativa, è quasi sempre causa di malintesi e conduce generalmente alla sconfitta". La prima base della tattica sta, a suo parere, nell'educazione morale di un popolo e nel sentimento dell'onore e del dovere, che deve unire tutti i compagni d'annc con una stima e una fiducia reciproca; "ottenuta questa base essenziale, tulle le cure debbono essere rivolte ad assicurare l'unità dell'azione tattica, a render possibile /'esecuzione di un piano di battaglia, in cui tutti sappiano la parte che loro incombe; ancorché questo piano non sia il migliore, quando in esso sono concordi tutte le volontà, è già assicurato un grande elemento di successo". La verità di questo principio è stata dimostrata dalla battaglia di Lissa, nella quale ci trovammo alla presenza del nemico nel caso di quegli scolari che non han-
no appreso la lezione: avevamo bensì buone navi, buone armi, eccellenti equipaggi: ma fece difetto il principio vivificatore, mancò il sojjìo potente che doveva dar corpo a quegli elementi di forza. Ogni nave si trovò abbandonata alla sua propria ispirazione, dubbiosa se avrebbe fatto bene o male a prendere un partito ....
A questo fondato giudizio - che peraltro non è il solo a pronunciare - il Grillo aggiunge altri principi generali ovvi solo in apparenza, ma sovente dimenticati anche nel XX secolo: - la ricerca dei migliori ordini di marcia e di combattimento per una flotta, oltre alla conoscenza esatta degli elementi che la compongono presuppone la conoscenza del genere di guerra marittima che ogni nazione deve combattere (offensivo, difensivo ecc.) [cioè della sua strategia N.d.a.]; - tale genere di guerra [e quindi di strategia - N.d.a.] dipende dal carattere nazionale, dalla natura delle coste e dei mari, dagli interessi commerciali e politici da proteggere, dalla potenza e dalle caratteristiche pecu-
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liari del nemico; tutti elementi diversi da Paese a Paese, che impongono ad ognuno una soluzione speciale; - nessuna norma regolamentare può essere stabilita a priori per la condotta di un 'azione navale, per la quale si può pervenire solo a considerazioni individuali che servano a meglio precisare il problema, "lasciando al genio dell 'ammiraglio il concepire e il dirigere nella sua esecuzione quel piano di battaglia, che a seconda dei casi gli potrà sembrare migliore"; - nel campo tattico non bisogna dare troppa importanza alle evoluzioni: "gli ordini e le evoluzioni sono un mezzo di eseguire i movimenti lattici, un 'istruzione preliminare per dare scioltezza alle unità della linea di battaglia, ma non possono costituire per loro stessi le manovre di combattimento"; - di conseguenza tali ordini devono essere ridotti al minimo e facilitare il rapido passaggio da una formazione all'altra, anche con modalità non previste dalle norme regolamentari; - tali norme devono evitare sia di essere troppo ristrette - e quindi insufficienti per tutte le esigenze - sia troppo larghe. Peraltro non si deve rinunciare alla compilazione di ordini anche per le evoluzioni delle flotte e alla definizione di un linguaggio marinaresco; l'importante è che la lettera non uccida lo spirito. Il rostro per il Grillo è un'arma di difficile impiego e pericolosa sia per l'attaccante che per l'attaccato. Ciò non toglie possa essere decisiva e avere grande effetto morale, perciò "anche ammettendo che in pratica non sia essa che assicuri la preponderanza nella lotta, io credo che sarà purtuttavia questa l'elemento che influirà maggiormente sulla tattica del combattimento e che imporrà la manovra ad ogni singola nave". All'artiglieria non si deve chiedere di affondare le navi nemiche, ma solo di danneggiarle seriamente; per fare questo, sulle navi maggiori sono sufficienti cannoni da 25 t in piattaforma girevole e anche sui lati (almeno 2 pezzi, che consentano un tiro di prora). A tali artiglierie maggiori dovrebbero aggiungersi altre secondarie da 7 a 10 t (atte a forare almeno 30 cm di corazza) e artiglierie leggere contro le torpediniere. Per quanto detto prima, l'impiego dell ' artiglieria sarà subordinato alle esigenze d'impiego del rostro. Così stando le cose, ci si aspetterebbe che il Grillo concludesse che è quest'ultima l'arma decisiva; invece dal confronto finale da lui compiuto si deve piuttosto dedurre che è il cannone a decidere la lotta. Infatti egli scrive che mentre il rostro è l'elemento prevalente per la manovra tanto delle singole navi quanto dell'intera flotta, senza però condurre a risultati decisivi nella prima fase del combattimento, il cannone rappresenta invece un 'arma di valore più pratico e sarà esso generalmente che deciderà del vantaggio tra i due avversari [ ... ). Sul mare l'impiego dell'artiglieria costituisce l'elemento più importante dell'azione militare; e sarà quella delle due flotte. la quale avrà saputo ottenere maggiori vantaggi nel suo impiego e mantenersi meglio compatta, che potrà sperare di decidere la sorte in suo favore, facendo un ultimo
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sforzo con una carica allo sperone [che dunque dovrebbe solo completare l'azione del cannone - N.d.a.]. Ritengo quindi che i due mezzi d'offesa, entrambi ugualmente necessari, si equivalgano per importanza sulle navi di 1° ordine, mentre il diverso modo in cui, a mio parere, conviene impiegare lenavi di 2° ordine ammette per queste un valore superiore al rostro.
L'ultima frase non è evidentemente coerente con quanto prima detto dal Grillo. Secondo quanto egli afferma in precedenza, dovrebbe essere invece l'artiglieria l'arma preminente almeno sulle navi di 1° ordine, fatto indirettamente riconosciuto nelle costruzioni navali del tempo; tanto più che tra gli autori coevi il Grillo è quello che meno riconosce il ruolo del siluro e quindi della torpediniera. Come il de Amezaga nel 1872, giudica inoltre poco efficaci le torpedini ad asta, quelle a rimorchio delle navi maggiori (tipo Harvey) o quelle da esse gettate. A suo parere le torpediniere (intese come piccole navi lancia siluri) possono essere efficacemente impiegate per la difesa delle coste, ma date le loro dimensioni molto ridotte (imposte dalla necessità di non offrire facile bersaglio alle armi nemiche) in mare aperto possono essere impiegate solo con acque calme ed è necessario trasportarle o sulle navi maggiori, oppure su apposite navi porta - torpediniere, mettendole in acqua - con molti inconvenienti - solo al momento del bisogno. Le stesse navi maggiori devono essere dotate di tubi lanciasiluri disposti ai lati, senza alcun contrasto tra impiego del siluro e impiego del rostro, perché anche i siluri imbarcati, come l'artiglieria, devono sottostare all'impiego di tale arma, (con questa affermazione, dunque, il Grillo le assegna il ruolo principale). Ma anche se la sua fiducia nei siluri del momento è relativa, per il futuro egli prevede che "quando il loro uso sarà reso più familiare e più esteso, porteranno una rivoluzione completa nella tattica dei combattimenti, obbligando a rinunziare ai passaggi a breve distanza dal nemico, perché sarebbe un esporsi quasi infàllibilmente a ricevere nella carena parecchi colpi,ji-a i quali alcuno potrebbe essere mortale". Le successive premesse per la trattazione del controverso problema delle formazioni sono condivisibili; tuttavia anche in questo caso si notano talune contraddizioni, riguardanti principalmente il binomio rostro-cannone. TI Grillo ritiene necessario ridurre al minimo i tipi di nave e le formazioni, per quest'ultime indicando dei requisiti difficili da realizzare nella pratica e, in parte, anch'essi contraddittori: 1) massima libertà di movimento e massima capacità offensiva per ogni nave, che tuttavia deve esporsi il meno possibile all'offesa nemica; 2) possibilità per le navi di prestarsi reciproco appoggio, obbligando se possibile il nemico ad attaccarle con svantaggio; 3) formazione rispondente a un concetto tattico che deve essere preventivamente conosciuto e sviluppato durante l'azione dai comandanti; 4) formazione semplice, flessibile, facile a mantenersi e in grado di compiere con rapidità e senza pericolo le manovre che le vengono ordinate dal comandante. Tenendo presenti queste esigenze, egli esprime la sua preferenza per una linea formata solo dalle navi maggiori (che chiama "navi di 1° ordine"), della
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quale possono eccezionalmente far parte anche gli incrociatori ( che chiama "navi di 2° ordine"); tale linea deve essere suddivisa in squadre formate da navi con caratteristiche simili. Scarta la soluzione di inserirvi tutti i tipi di nave, perché non consente di impiegare ciascun tipo di nave nel modo più aderente alle sue caratteristiche. Boccia anche la suddivisione della linea in gruppi di navi con diverse caratteristiche, perché in tal modo le navi più potenti perderebbero la loro libertà d'azione, essendo costrette a proteggere le navi più deboli, mentre queste ultime sarebbero troppo esposte al fuoco nemico. Tutti gli altri tipi di nave agirebbero per gruppi autonomi fuori dalla linea; bisogna comunque evitare di mandare al fuoco navi con caratteristiche inferiori o superate, perché fornirebbero al nemico un facile trofeo di vittoria e la loro perdita avrebbe nocivi effetti morali per la flotta. TI Grillo prevede poi che le flotte si correranno incontro prora contro prora, "non tanto con lo scopo deliberato d'investirsi, quanto perché tale formazione è la sola che impedisca al nemico di tentare questa manovra, che è fra tutte la più decisiva quando si può effettuarla in condizioni favorevoli''. Dopo questa prima fase le due armate si attraverseranno più volte reciprocamente, scambiandosi colpi di artiglieria e tentando in qualche occasione propizia di far uso del rostro. Dunque la formazione frontale per il Grillo è la più redditizia, se non altro perché dovrebbe consentire il più vantaggioso impiego del rostro? Neanche per idea: subilo dopo qucslc parole non equivoche, il Grillo esamina il caso (ottimale) di una flotta in linea di fila, che corra incontro a quella nemica in formazione frontale, concludendo che la prima sarebbe in vantaggio, sia per l'impiego dell'artiglieria che per quello del rostro. La flotta in linea di fila attraverserebbe quella nemica in linea di fronte al centro; in tal modo ogni nave della linea di fila potrebbe scaricare la totalità delle sue artiglierie contro due sole navi (a sinistra e destra) della linea di fronte, che sarebbero subito ridotte a mal partito. Queste due navi nemiche invece potrebbero scaricare le loro artiglierie solo da un lato e contro la nave di testa della linea di fila; inoltre quest'ultima consentirebbe alle navi di coda della colonna di attaccare con il rostro la flotta nemica probabilmente già disordinata, senza timore di ostacolare la manovra delle navi amiche e di essere colpite dalle artiglierie nemiche che avrebbero esaurito i loro colpi. Il Grillo dimostra poi che le possibili conlTOmanovrc nemiche avrebbero scarso successo, per poi concludere che la formazione in fila consente un agevole impiego anche del rostro. Dopo queste congetture (perché tali solo), egli è l'unico del gruppo dei concorrenti a criticare apertamente il libro di tattica entrato in vigore negli ultimi mesi, che "abolisce l'antico gruppo come formazione di base invariabile e vi sostituisce, come unità tattica degli ordini composti, la divisione e la squadra, ammettendo per questi riparti la possibilità di essere formati in un ordine qualsiasi fra quelli compresi nelle disposizioni di massima" . A suo parere si tratta di una varietà di soluzioni che per un verso può essere ritenuta eccellente, ma per altro verso può risultare dannosa, "se non si procura di semplificare il meccanismo e restringere il numero delle evoluzioni''. La condanna è perciò netta:
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"io credo di poter affermare che sarebbe più sano consiglio rinunziare a qualunque norma regolamentare pei passaggi di formazione, anziché esigere [ 'impossibile, cioè la conoscenza precisa della manovra per ognuna delle evoluzioni a cui può dar luogo il nostro sistema di tattica" . Un secondo inconveniente - sempre a parere del Grillo - è quello di rompere l' unitarietà delle divisioni dividendole fra le due linee degli ordini doppi e rra i due Iati degli ordini ad angolo, creando in tal modo una differenza essenziale ma ingiustificata con gli ordini doppi, ottenuti disponendo le divisioni o le squadre su due linee parallele. Il tenente di vascello Algranati manifesta idee analoghe a quelle del Grillo, con un maggiore sviluppo della parte storica e con un approccio più morbido al problema delle artiglierie colossali, delle quali sostiene non tanto l'abolizione ma solo la riduzione, lasciando così maggiore spazio alle artiglierie di calibro minore a tiro rapido. Per consentire alle nostre artiglierie colossali di colpire con più facilità il bersaglio, ritiene conveniente il combattimento ravvicinato (ma se il nemico avesse più grosse artiglierie di noi, che avverrebbe?). Egli ritiene più decisamente del Grillo che tutti gli altri mezzi di offesa debbano essere subordinati al rostro, ma a proposito delle torpedini e del si-
luro le sue idee sono identiche a quelle dello stesso Grillo. Riguardo alle formazioni, non parla di incrociatori e considera una formazione composta da sole corazzate divise per gruppi, così inquadrandone il combattimento: 0
con i mezzi attuali e per l'estrema mobilità delle navi e per le loro qualità evolutive, un ordine serrato per quanto favorisca il concentramento, deve paralizzare l'azione dei mezzi offensivi e mettere a serio rischio i bastimenti stessi; 2° non essendo possibile far entrare simultaneamente in azione sullo stesso punto un grande numero di corazzate (il che sarebbe il desideratum tattico) si può però, con un ordine per gruppi profondo, raggiungere uno scopo simile, e approfittando della grande velocità.far agire questi gruppi con azioni successive e a intervalli tanto brevi da non permettere alla parte non attaccata del nemico movimenti difensivi fra l'attacco di un gruppo e quello del consecutivo; 3° una flotta corazzala non puòfare con ordine evoluzioni d'importanza, quando è dentro il campo d'azione della.flotta nemica; il che è quanto dire, senza perdere il vantaggio che le dà la formazione; 4° il rostro è l'arma più potente di una corazzata; il presentare la prua al nemico, quando si è nel suo raggio d'azione, è la posizione più opportuna per schermirsene e per profittare delle occasioni propizie al suo uso; 5° il cannone è un potentissimo ausiliario ma non riuscirà vincitore assoluto nella lotta contro la corazza, per cui questa non sparirà; l'artiglieria deve perciò essere usata di calibro massimo per qualche colpo decisivo a hreve distanza, di calibro medio per l'u~o continuo, di calibro piccolo per combattere le torpediniere, onde una nave da battaglia non potrà fare a meno di esserne largamente fornita; il combinare a dovere le bocche da faoco di vario calibro su di una stessa nave deve essere il vero problema del/ 'artiglieria di mare. /
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In sostanza anche l 'Algranati come il Grillo preferisce la linea di fila, sia pure per gruppi che devono rimaner tali anche nella mischia, in quest'ultimo caso con il capo - gruppo che agisce in piena dipendenza; e benché preveda di presentare inizialmente al nemico lo sperone assegnando alle artiglierie un ruolo subordinato, ne pretende un gran numero di tipi senza rinunciare ai cannoni colossali. Ciò appare in contraddizione con il loro ruolo secondario, tanto più che a suo avviso non si deve rinunciare nemmeno alla corazza. Tutte caratteristiche delle armi imbarcate, che richiedono - diversamente da quanto sostiene il Grillo - grandi dislocamenti. Il Cattori apre il suo studio con una definizione di ispirazione jominiana e terrestre di tattica e strategia: a suo avviso "la tattica è l'arte di ben combinare e di ben condurre le battaglie; la strategia invece è l 'arte di determinare i punti decisivi del teatro di guerra e le linee generali, secondo le quali le armate devono muoversi per arrivarvi''. Se a battaglie si sostituiscono o si aggiungono combattimenti, la predetta definizione è accettabile anche sul mare; ma ciò non avviene per la definizione di strategia (Vds. Voi. T, capo TT e III), chiaramente ispirata al concetto di strategia terrestre dei dottrinari (Jomini e Arciduca Carlo) e non valido nemmeno in campo marittimo, ove non sono determinabili i punti decisivi e le armate si muovono unicamente per incontrare il nemico, o sfuggirgli. Lo studio del Cattori è inoltre pregevole anche per i richiami storici, dai quali emerge la validità dei principi tattici di Nelson e della sua azione di comando. Anche egli appare sostenitore del rostro più che dell' artiglieria. Come il Grillo non giudica la torpedine un'arma che diminuisce l'importanza del rostro e anzi ritiene che "il panico di reazione che fu conseguenza della guerra di America ha prodotto due gravi inconvenienti: 1. Ha esagerato ogni concetto o sistema che sia in attinenza alla torpedine; 2. Ha esagerato ogni base della buona guerra, e vi ha sostituito elementi .fiLLizi ed irrealizzabili". Sul siluro Whitehead condivide il giudizio negativo dell'ammiraglio americano Porter (uno degli eroi della guerra di secessione 1861 - 1865), e gli preferisce-come quest'ultimo e diversamente dal dc Amczaga - il battello torpediniero ad asta, ''perché il suo comandante è sempre padrone della manovra" ritiene infatti il siluro troppo pericoloso se installata sulle navi maggiori, sia perché potrebbe essere colpito dal tiro nemico cd esplodere, sia perché se lanciato potrebbe affondare imbarcazioni amiche: a suo parere (erroneo) "la sola arma di questo genere che potrebbe forse parere la pratica nelle circostanze di cui parliamo, è la torpedine ad asta datafuori dalla prora nel momento prossimo d'investire", da considerare comunque come ausiliare dello sperone. Detto questo, contraddittoriamente prevede che il siluro Whitehead "in qualche circostanza" (ma quale?) potrà essere impiegato in uno scontro tra flotte, ma solo su battelli speciali, tenendo presente che le torpediniere vanno combattute solo con altre torpediniere, perché non sarebbe opportuno distogliere una grossa e potente nave per combatterle. Esse devono essere ripartite in due divisioni, delle quali una con scopo principalmente offensivo e l'altra con scopo principalmente difen-
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sivo (nessun accenno del Cattori alla difficoltà di impiegare in alto mare le torpediniere del momento). Sul cannone e sul rapporto cannone-corazza le considerazioni del Cattori sono le più convincenti tra gli autori coevi_ Con numerose e centrate citazioni di autori francesi e inglesi, egli così dimostra la sua citata contrarietà alJe grosse artiglierie: si è già detto, e con molta ragione, che un moderno cannone da 100 concentra nel suo proietto la potenza d 'azione meglio che una bordata d'antico vascello, ma non s'è posto niente alla probabilità di colpire, che è solo in ragione dei colpi che si sparano e non in quella del calibro e della potenza del cannone [ ... ]. L'aumento del calibro ha portato aumento di peso, e diminuzione nel numero di colpi in una data unità di tempo. Queste due considerazioni sommandosi naturalmente, il numero dei colpi diminuisce ancora di più.
Ne consegue che non solo la probabilità di colpire è indipendente dal calibro delle artiglierie, ma che essa è troppo bassa, anche perché l'aumento di precisione dei grossi cannoni moderni non compensa la loro bassa celerità di tiro, a causa degli errori dovuti al continuo cambiamento di distanza delle navi che si combattono. E poiché il fuoco a grande distanza non è conveniente per la scarsa probabilità di colpire, mentre il fuoco a distanza più ridotta data la velocità delle navi può essere eseguito una sola volta, il tiro d'artiglieria non può essere assunto come l'esclusivo o il più importante criterio da avere in vista in un ordine d'attacco, quantunque esso resti sempre, in qualsiasi disposizione adottata, un mezzo terribile di distruzione, epossa anche in date circostanze avere effetto decisivo contro una nave che, mediante altre armi o altre offese, sia stata ridotta in critiche condizioni.
In definitiva, nella visione del Cattori solo il rostro può "ridurre in critiche condizioni" una nave: esattamente l'opposto di quanto affermano i sostenitori del cannone. Ne consegue anche la priorità di quest'arma - e delle formazioni che ne favoriscono l'impiego - rispetto all'artiglieria. Due flotte o due navi saranno naturalmente portate a tentare di urtarsi di punta; se poi oltre alla corazza orizzontale un bastimento possiede "una maschera corazzata" sulla prua, sarà nella migliore posizione per difendersi dai tiri d'infilata e rinforzerà lo sperone. In generale le navi dovranno essere solide, avere macchine e caldaie tali da riportare il minor danno possibile in caso di urto con il nemico, una conveniente protezione della prora e una forma dello sperone efficace e tale da avere un effetto perforante più che contundente. Con navi di questa qualità sarà possibile sia rompere la formazione avversaria concentrando tutte le proprie forze contro una parte di quelle nemiche, sia sfuggire al nemico e ripetere l'azione nel caso che essa non riesca. Trattando delle formazioni ancorn una volta diversamente dal Grillo, il Cattori giudica l'ordine di fila semplice "interamente da respingersi" come ordine di battaglia, tant'è vero negli scontri fra flotte a vapore che nessuno - tran-
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ne il Persano - lo ba fino a quel momento ritenuto applicabile. Solo se è a denti può essere utile in taluni casi speciali e nella ritirata, ma mai come ordine d'attacco. A suo parere la formazione più vantaggiosa per il combattimento è quella ad angolo per gruppi, che "toglie l'inconveniente della troppa estensione, raccogliendo meglio tutte le navi, facendole tutte di reciproco appoggio e avendo la forma naturale di cuneo, che meglio si presta a penetrare e schiacciare i fianchi della formazione penetrata". Anche la formazione di fronte "può avere gran valore", sempre che sia "composta e a denti, per minacciare con tutte le prue ed essere in complesso più serrata contro una carica nemica". Il Cattori conclude osservando che le formazioni di combattimento adottate dalle varie marine, "cioè l'ordine ad angolo dei russi, la doppia linea di fronte e l'ordine ad angolo degli inglesi, la doppia linea di fronte dei francesi, ecc." hanno in comune il difetto dell'esclusivismo, cioè la pretesa di ridurre a priori a un criterio esclusivo le formazioni che volta per volta si sarebbe costretti a modificare per una somma di circostanze impreviste e imprevedibili; bisogna infatti tener conto delle formazione e delle manovre del nemico, che non possono essere previsti. Pertanto la vittoria andrà a quella parte che in altre condizioni saprà meglio manovrare, perché nessw1 piano, nessuna regola, nessun segnale potranno sostituire il colpo d'occhio del comandante. Il tenente di vascello D'Agliano Galleani si distingue dagli altri per il piano di assoluta parità sul quale vuol collocare le tre armi (cannone, rostro e siluro), dal quale discende anche il concetto-informatore delle formazioni da lui proposte. Giudica non conveniente la loro riunione su una sola nave (come avviene sul Duilio), perché l'impiego di grosse artiglierie con le corrispondenti forti corazze, richiede navi di grande dislocamento e grande pescagione, non in possesso perciò delle qualità evolutive richieste per il lancio del siluro e per l'impiego del rostro; a questo inconveniente bisogna aggiungere quello creato dal fumo delle artiglierie, che riduce la visibilità necessaria per il buon rendimento delle altre due armi. Un'altra caratteristica dello studio del D' Agliano è la sua netta quanto discutibile preferenza per il gruppo non omogeneo, perché composto di arieti ( rostro), batterie (cannone) e lancia-siluri. Certamente - egli osserva - il gruppo omogeneo è più facilmente comandabile, più manovrabile e può evoluire meglio; "ma qui non si tratta di operare nel modo più agevole, bensì nel più efficace entro i limiti della possibilità". La formazione da lui preferita per la flotta è in doppia linea di fronte, o in doppia linea di fila. Nell'ambito del gruppo l'ariete deve trovarsi al vertice in avanti, perché il siluro Whitehead (la torpedine Harvey è ormai sorpassata), è un'arma insidiosa da usare solo quando il nemico meno se lo aspetta, quindi non è adatto ad iniziare il combatti.mento. Per avere spazio libero davanti a sé e per non riuscire pericolosa per le navi nemiche. La nave lanciasiluri. deve occupare il lato esterno del triangolo, il cui vertice (verso il nemico) è occupato dal rostro. Rimane la nave col cannone, che deve occupare il lato interno ( cioè verso le navi amiche), più indietro del lanciasiluri: infatti "se il cannone non si può considerare oggidì come arma
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decisiva, pare però che sia meglio adatta per dare il colpo di grazia ad un nemico già preoccupato dal 'aver dovuto evitare un attacco col rostro e un attacco col siluro", dando al tempo stesso al "comandante della batteria" (cioè dei cannoni disposti all'interno dello scafo) il tempo di osservare il combattimento precedente e quindi di preparare meglio i suoi cannoni per fare fuoco concentrato sul nemico. Se a una flotta composta da gruppi formati come prima descritto si aggiungessero delle navi tipo Duilio, date le loro caratteristiche quest'ultime potrebbero rimanere isolate e formare tante unità tattiche complete, perché posseggono tutti gli elementi di difesa e offesa che necessitano ad una unità tattica; di conseguenza "il riunire in gruppi di 3 legni delle corazzate tipo Duilio, lasciando da parte la enorme spesa che costerebbe il costituire una.flotta con navi tutte di tal genere, presenterebbe delle grandi difficoltà di manovra, e l'impiego delle armi sarebbe mutualmente impacciato, per il che più vantaggioso sarebbe lasciare tali navi isolate". E se una nave tipo Duilio dovesse subire l'attacco di un gruppo, è probabile che quest'ultimo riuscirebbe ad aver la meglio, anche se il suo rostro, i suoi cannoni e le sue corazze fossero di per sé inferiori a quelle del Duilio. Infatti "il vantaggio del gruppo risiede nella sua mobilità, nella possibilità di usare contemporaneamente le tre armi, mentre la unica grossa corazzata, ancorché riesca com 'è probabile ad offendere uno de' suoi assalitori, difficilmente potrà evitare o il fuoco concentrato dei cannoni o il siluro, oppure un fatale cozzo". Infine a proposito della possibile abolizione della corazza, che potrebbe essere ritenuta inutile a fronte dell'aumento della capacità di penetrazione delle artiglierie, dei siluri e del rostro, il D' Agliano è assai prudente: essa potrà pur sempre proteggere la nave contro le artiglierie di minor calibro e contro tiri obliqui anche di artiglierie di grande potenza, anche se è probabile che in futuro venga abolita.
* * * Tutti gli studi presentati al concorso hanno una caratteristica comune, poco in armonia con le costruzioni navali italiane del tempo ma prevedibilmente assai vicina al punto di vista del Ministro Acton: la critica alle grosse artiglierie, che trascura con sé anche la sopravvalutazione del rostro e, di conseguenza, la sottovalutazione del ruolo delle artiglierie navali in genere, al massimo collocate- come fa il D'Agliano e in parte anche il Grillo - su un piano di parità con il rostro, nonostante il loro continuo progresso e la tendenza ad armare le corazzate anche con cannoni di minor calibro e quindi con celerità di tiro più elevata. Solo il Grillo primo classificato e il D' Agliano ultimo classificato portano l'artiglieria almeno su un piano di parità con il rostro; ciò avviene anche perché, paradossalmente, proprio le grosse artiglierie, con la loro troppo bassa celerità di tiro, favòriscono il ricorso a altre armi in grado di rimediare a questo non piccolo inconveniente. 11 Callori più di tutti sottovaluta il ruolo del
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siluro, al tempo stesso sopravvalutando contradditoriamente il pericolo delle torpediniere nemiche per le navi maggiori, senza preoccuparsi troppo della loro difficoltà di agire in alto mare e/o con mare agitato. Tutti, ignorando i progressi dell'artiglieria anche in gittata, ne sostengono l'impiego alle brevissime distanze. Solo il Cattori accenna all'importanza della celerità di tiro, evidentemente molto bassa, troppo bassa nelle grosse artiglierie. Nessuno accenna alla necessità di installare i siluri su navi speciali con dislocamento sufficiente per agire in mare aperto. Le formazioni previste partono tutte dall'errato presupposto di presentare inizialmente al nemico la prora, onde consentire il miglior impiego del rostro a scapito dell'artiglieria, che serve a completare gli effetti di tale arma. Prevalgono l'articolazione in gruppi e le formazioni complesse; solo il Cattori rettamente sottolinea che la formazione è una variabile dipendente dalla situazione e in particolar modo da atteggiamento e formazione del nemico, quindi quelle normalmente indicate come le migliori hanno puro valore di riferimento. Pesa come sempre sulle riflessioni di tutti i partecipanti l'impossibilità di trarre ammaestramenti da recenti battaglie a flotte riunite; l'ultimo esempio rimane la battaglia di Lissa, alla quale i concorrenti hanno il merito di non dare troppo peso, anche se mostrano di preferire il rostro. In sintesi i loro lavori servono solo a dimostrare l'opportunità di non fare più affidamento sulle grosse artiglierie e sulle spesse corazze; ma, per il resto, non intravedono affatto i progressi e la crescente importanza delle artiglierie con calibro più ridotto ma celerità di tiro elevata e il calo del rostro, mentre per il futuro del siluro ancora ci si limita a lasciare la porta aperta. Per tutte queste ragioni i risultati del concorso corrispondono solo parzialmente alle attese di chi ha indetto il concorso, dimostrando una rara apertura anche agli apporti "dal basso".
SEZIONE VI - Dal 1882 a fine secolo XIX: l'ancor contrastata ma definitiva affermazione del cannone Il canto del cigno dei nemici del cannone: Pineali (rostro - I 882) e Mesturini (siluro e torpediniera - I 885)
Da un estremo all'altro: dopo i partecipanti al concorso il contrammiraglio Fincati, membro della Commissione chiamata a giudicare i lavori presentati, nella sua citata opera del 1882 Studi sui combattimenti in mare (raccolta di 14 articoli pubblicati sulla Rivista Marittima da giugno 1881 a gennaio 1883) dice parecchie cose sensate sia in materia teorica che su Lissa, dimostrando di ben conoscere sia la storia dei periodi remico e velico che gli autori francesi, inglesi e americani del periodo; ma a proposito dcli ' efficacia delle tre armi non è buon profeta, con un estremismo concettuale a tutto favore del rostro e contro il cannone, quale solo il Moro prima di lui aveva lasciato trasparire. Dimo-
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stra lo stesso estremismo concettuale anche a favore del siluro e della torpediniera; di quest'ultima arriva ad esaltare (sulla base di discutibili esperienze) la tenuta del mare anche di notte e con acque agitate, e a conforto della sua tesi cita la già nota frase del Saint-Bon, secondo la quale una corazzata nella lotta contro una torpediniera sarebbe soccombente. Per suffragare le sue tassative affermazioni, sulle quali forse pesa la sua partecipazione alla battaglia di Lissa, si richiama a quanto scrive l'ammiraglio Juricn de La Gravière, capofila dei numerosi sostenitori francesi del rostro, secondo il quale l'importanza dell'artiglieria sarebbe addirittura in declino, mentre "i colpijàtali sono riservati all 'urto delle prore". Nel campo italiano ricorda gli orientamenti tattici che il comandante Bucchia (nuovo Capo di Stato Maggiore della nostra flotta subito dopo Lissa) ha inviato ai comandanti delle navi: 1° Pare evidente che la grande mobilità di cui dispongono oggigiorno le flotte non renda possibile mantenere la formazione d 'attacco che per pochi minuti, e che il combattimento navale si compendierà in un seguito di urti e di attacchi più che in una continua reciprocanza di scariche d'artiglieria in due.fònnazioni opposte, scelte e stabilite ... 2° Pare inoltre che il risultato dipenda, assai più che dal 'urto delle artiglie-
rie, da/l'abilità delle manovre nel breve periodo ...
Sempre a parere del Fincati un colpo di cannone, anche se è da 100 t, "non è veramente disastroso" se non colpisce efficacemente i punti vitali di una nave, che sono pochi ed efficacemente protetti da una robusta corazza; pertanto "confido più nel rostro che nel cannone; e credo che, con navi in moto, questo non possa colpire più di due volte sopra cento colpi, come fu dimostrato nelle esperienze di Vìgo e confèrmato dal combattimento tra l 1Iuascar e/ 'A methyst". Egli poi rileva che un pezzo di grosso calibro ad avancarica [come quelli del Duilio -N.d.a.] ha una celerità di tiro massima di un colpo ogni 10 minuti, mentre tra lo scorgersi all'orizzonte di due flotte e il raggiungersi non passano più di 18 minuti; inoltre un colpo del cannone da l 00 t avvolge la nave che lo spara in una nube di fumo così densa e così lenta a diradarsi, da accecarla per un tempo considerevole. Si dichiara pertanto d'accordo con certo Knox Laughton, secondo il quale la potenza dell'artiglieria di una nave del tempo alla prova dei fatti risulta molto inferiore a quella delle navi di vent'anni prima, e nonostante i buoni risultati dei tiri in poligono, in un combattimento "grandissime non siano poi le probabilità di non colpire affàtto, o di rimbalzare dopo aver colpito, e pochissime quelle di ottenere a grandi distanze tiri penetranti sui quali si possa in pratica/are gran conto". Da queste constatazioni deriva una previsione del tutto scentrata: i cannoni, pur non essendo da escludere nell'armamento delle navi, "nelle future battaglie navali avranno, relativamente al rostro, un 'importanza secondaria, a meno che gli awersari non si limitino deliberatamente al 1nm usn esclusivo a grandi distanze, r.nme avvenne nel r.nmhattimentn tra la
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squadra de/J 'ammiraglio Lobo e quella del generale Contreras nelle acque di Cartagena, al quale ebbi lafortuna di assistere durante i'assedio di quella piazza ... ".31 Dopo queste idee basate su esempi assai poco attendibili, perché non riferiti a recenti battaglie tra grandi flotte, il Fincati ricorda che nella battaglia di Lissa i colpi di cannone hanno avuto ben poco effetto, mentre l'affondamento con il rostro del Re d'Italia ha demoralizzato gli equipaggi italiani fino a un punto tale, da "bastare da sé solo a far traboccare la bilancia in nostro sjàvore". E nega anche la tesi della casualità di tale affondamento, sostenuta- oltre che dagli stessi austriaci - da coloro che mettono piuttosto in rilievo la difficoltà di usare con successo quest'anna: a suo parere nel corso della battaglia di Lissa, "con un miglior timoniere il Re di Portogallo avrebbe affondato / 'Imperatore, e sotto altri auspici [attacco indiretto al Persano - N.d.a.] l 'Affondatore avrebbe mandato altre due navi [austriache] a tener compagnia al Re d'Italia infondo al mare ... ". Oltre a trarre da Lissa degli ammaestramenti discutibili almeno quanto que1li degli scrittori coevi nemici del rostro, il Fincati con il solito estremismo propone persino di abolire i vocaboli ordine di battaglia, ordine di caccia, ordine di ritirata, di attacco, di marcia ecc., per non vincolare l' ammiraglio a operazioni tattiche prestabilite e per non confondere i comandanti delle navi nel caso che l'ammiraglio intenda adottare una formazione "diversa da quella che udirono sempre preconizzata e quasi descritta"; a suo parere non è possibile adottare fonnazioni ben regolamentate. L'esempio da lui citato, invero poco calzante, è quello (di altri tempi) della Repubblica di Venezia, che lasciava all'ammiraglio piena libertà d'azione - ma anche piena responsabilità - in fatto di formazioni, metodi di combattimento ecc.; ciononostante, diversamente dal Cattori afferma che una buona tattica non deve separare le tre armi principali installandole su navi diverse, ma che quando sono riunite su una stessa nave, l'arma principale è il rostro. A queste tesi, in contrasto sia con quella sulla libertà d'azione sia con quella sull'efficacia delle torpediniere, il Fincati aggiunge una prevedibile critica alle formazioni in linea di fila o di fronte allora più in voga, esprimendo anch'egli la sua preferenza per i gruppi di tre navi, sia pur con i gruppi stessi - o l'intera flotta - disposti in triangolo a forbice, cioè con il vertice non verso il nemico ma in senso opposto, con il capo - gruppo e/o l'ammiraglio al vertice, in modo da poter controllare il combattimento. Scontata la precisazione che le manovre di tattica prescritte dal libro dei segnali [che dunque per il Fincati diversamente da quanto prima affermato è necessario - N.d.a.] devono bensì offrire all 'ammiraglio una scelta sufficiente di forma zioni, ma i modi di evoluzionare devono essere fissi ed uniformi, devono essere i più semplici e i più naturali a fine di schivare per quanto sia possibile ogni confusione o malin-
31 l .niei Finc.1ti, St11di sui combattimenti in mare (Cit.), p. 104.
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teso [---J. A questo proposito io confesso di non aver mai compreso l'opportunità di preçcrivere [nel Hbro dei segnali) due modi per disporsi in un dato ordine, uno usuale ed ordinario, ed uno per pronta formazione[ ... ). Né tampoco comprendo l'utilità di distinguere due qualità di ordini, naturale l'uno e inverso l'altro, non ultimo inconveniente dei quali è quello che, come nel caso precedente, le navi sono soggette ad un cambiamento di numero ordinale, fonte di malintesi o di errori specialmente quando qualcuna venga a mancare per un motivo qualsiasi. 32
Sempre sulla base dell'esperienza di Lissa, e con indiretta ma chiara critica al Persano, anche il Fincati sottolinea il valore dell'esempio da parte dell'ammiraglio (che dunque deve rimanere sulla nave più forte dando alle altre l'esempio di come si combatte il nemico, ad imitazione di Nelson) e al tempo stesso, l'inutilità e il danno dei segnali azione durante, sia da parte dell'ammiraglio, sia soprattutto da parte dei comandanti delle navi: in ambedue i casi essi provocano confusione e si prestano ad essere mal compresi. Ritiene infine che una volta rotto l'ordine iniziale di combattimento e iniziata la mischia non sia più possibile - come sostengono alcuni - rimettere ordine nella propria flotta, perciò ogni comandante deve essere libero <li combattere come meglio gli aggrada, senza essere vincolato a schemi prestabiliti. 11 Persano si era sempre rifiutato di dare ordini o direttive ai comandanti di nave, (che pure li attendevano), asserendo che era sufficiente quanto previsto dai regolamenti. Le tesi del Fincati, dalle quali traspare un concetto di combattimento navale sempre meno in linea con i progressi del cannone e con la decadenza del rostro, sono evidentemente troppo influenzati dall'esperienza traumatica di Lissa; ciononostante parecchie sue idee hanno il pregio di mettere in guardia contro gli eccessivi schematismi e contro l'eccessiva fiducia nel materiale. Non si comprende perciò la ragione della sua mancata citazione da parte del Bonamico, ricambiata da lui stesso ignorandolo a sua volta. Dopo la netta e irrealistica svalutazione dell'artiglieria da parte del Fincati va segnalato un altro autore meno noto, che come il Fincati le riconosce scarsa efficacia, ma in nome del siluro e non del rostro: il tenente di vascello Evasio Mesturini, per il quale il siluro dovrebbe ormai essere l'arma principale delle navi.33 A suo parere anche le torpediniere hanno le più larghe possibilità d ' impiego, compreso quelle ad asta ormai sorpassate; uno di quest'ultimi tipi di nave, infatti, vale quanto un rostro, mentre la torpedine semovente o siluro lo supera. Il suo lancio non è più complicato di quello di un grosso cannone, mentre la sua capacità distruttiva è maggiore di quella del cannone anche contro navi con struttura cellulare.11 cannone può mettere fuori combattimento una
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ivi, pp. 130-13 1. Cfr. Evasio Mesturini, l ezioni di arte militare marittima f atte alla Scuola di Guerra [dell' esercito di Torinol in marzo-aprile 1885. Tornio. Ed. Scuola di Guerra 1885. 33
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nave solo se la colpisce in alcuni punti vitali, mentre il siluro ha un effetto letale in qualunque punto la colpisca. Senza contare che è un'arma in continuo perfezionamento, e i recenti progressi tendono appunto a renderlo più semplice e leggero, in modo che si possa aumentare il numero dei siluri trasportati da una nave o da una torpediniera. Comunque, anche se il numero di colpi di cannone disponibili sulle navi è maggiore, quel che conta è la probabilità di colpire, e sotto questo profilo tale probabilità-come dimostrano i più recenti esperimenti - è molto maggiore per il siluro. Per il Mesturini l'efficacia delle torpediniere costiere è stata dimostrata fin dalla guerra civile americana. 1n alto mare le torpediniere trovano favorevoli possibilità d'impiego anche contro le grandi navi di notte, quando possono essere difficilmente individuate e colpite. La velocità, le dimensioni ridotte, la facilità di evoluzione sono le doti che permettono loro di attaccare in gruppi, con successo, anche le grandi navi. Le navi in moto per difendersi dai loro attacchi devono cercare di allontanarsi facendo fuoco con tutte le mitragliere (le armi più efficaci in questo caso) e con le artiglierie leggere di bordo, e se a loro volta hanno a loro disposizione delle torpediniere, le inviano contro quelle nemiche; dal canto loro le torpediniere devono cercare di accerchiare le navi nemiche onde precludere loro la ritirata, evitando di attaccarle perpendicolarmente alla direzione di marcia o di venire a poppa sul traverso, perché queste sono le direzioni che più le espongono al fuoco nemico. La visione che il Mesturini ha del comballimento trn flotte è alquanto primitiva e tale da rendere il siluro un fattore di disordine. Egli afTerma che nell'età del vapore la tattica ha dovuto basarsi sull'attacco di fronte in lince successive; prima che fosse adottato il siluro le navi si correvano incontro manovrando sia per urtarsi in condizioni favorevoli sia per impiegare le artiglierie. Con il siluro le navi non devono più manovrare per urtarsi, tuttavia si trovano sempre nella necessità di avvicinarsi per lanciarlo efficacemente e per impiegare le artiglierie con elevata probabilità di colpire. In tal modo il combattimento diventa un continuo incrocio di rotte, con forte pericolo di colpire, nella confusione della mischia e tra il fumo, le navi arniche; perciò le navi combattenti non possono presentarsi con una massa compatta contro le navi avversarie, ma devono mantenere una considerevole distanza tra di loro, in modo da non ostacolarsi reciprocamente la manovra. ln questa situazione non è possibile prevedere l'andamento del combattimento navale, ed è necessario lasciare la massima iniziativa ai comandanti delle navi. Riponendo fiducia eccessiva in un'arma molto efficace ma nuova come il siluro, il Mesturini si colloca al polo opposto del Fincati, le cui affermazioni sono solo di tre anni prima. Il suo pensiero anch'esso estremista dimostra ancora una volta che un'arma nuova suscita sempre entusiasmi eccessivi e altrettanto eccessive diffidenze, per poi essere collocata in un alveo più equilibrato. Al confronto il Fincati può dirsi l'ultimo illustre rappresentante della corrente favorevole al rostro, che - non solo in Italia - raggiunge l'apice subito
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dopo Lissa per poi decadere gradualmente ma inesorabilmente. Ancora nel 1885, comunque, rimane un notevole, singolare contrasto tra la formula coeva dei tipi Duilio e Daria, costruiti intorno ai grossi cannoni con le altre anni in palese sottordine, e tutto quanto si scrive nel periodo in esame sulla Rivista
Marittima.
Le residue oscillazioni del Ronca sul cannone (/890-1891), le conferme delle battaglie dello Ya-Lu (1894) e di Cavita e Santiago (1898) e la sua definitiva ajjèrmazione (Gavotti - 1898) Come meglio si vedrà in seguito, le battaglie dello Ya-Lu (1894) e di Cavite e Santiago (1898) sono vinte dal cannone di medio calibro rispettivamente giapponese e americano, senza alcun ricorso al rostro e anche al siluro, la cui piattaforma ideale - il sommergibile - è ancora in fasce. Ancor prima di tali battaglie il cannone comincia ad essere rivalutato - sia pur con parecchie contraddizioni - negli scritti del tenente di vascello Ronca, in otto lunghi articoli pubblicati sulla Rivista Marittima da settembre 1890 a tèbbraio 1891 con il titolo Studio sulla tattica navale moderna. Dopo gran copia di riferimenti storici e numerosi accenni sia alle teorie del Bonamico che a quelle della Jeune École (nei quali diverge da ambedue), il Ronca giunge inizialmente all'errata conclusione che il cannone agisce a distanza e non è quindi suscettibile di un controllo generale. Non ha grandi effetti morali (sic), perché i danni che produce sono interni e possono essere ignorati dalle altre navi: infine, non si presta alla concentrazione che è lo scopo di ogni manovra tattica [ma, allora, che cosa ha fatto Nelson con il solo cannone? - N.d.a.]. Così in passato le corazzate sono state armate di rostro e si è relegato il cannone il seconda linea, perché
"questa nuova arma, oltre ad essere più potente, si prestava alla concentrazione che è lo scopo di ogni manovra tattica". A quest'ultima afTermazione, anch'essa discutibile ( e il cannone da 100 tonnellate del Duilio, impostato fin dal 1873?), ne segue un'altra ugualmente discutibile, sempre riferita al passato: quando s 'inventò il siluro, che è capace di riprodurre gli effetti del rostro. senza pericolo per! 'assalitore, anche i più entusiasti sostenitori dello sperone accettarono questo nuovo sperone flessibile da 300 metri [non è vero; vi è stato anche chi non lo ha accettato affatto - N.d.a.], situato non solo di prora ma di fianco e di poppa, e a lui assegnarono i vantaggi del vecchio, e dal suo impiego vollero trarre la forma del combattimento. 34
Segue una serie di controversi esempi storici - ivi compresa Lissa - dai quali il Ronca, citando un certo De Poyen, già deduce - in contraddizione con
34 Gregorio Ronca, Studio sulla tattica navale moderna, in "Rivista Marittima" 1890, III Trimestre Fase. LX, p. 354.
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le affermazioni precedenti -che il cannone è sempre stato protagonista del combattimento: il De Poyen conclude che le artiglierie si mostrarono sempre preponderanti, e che lo sprone compì in genere l'opera da loro iniziata; ma nella mutata condizione delle cose, per i recenti progressi del siluro, noi crediamo di poter dire, anticipando una conclusione a cui arriveremo in seguito, che lo :,perone flessibile, ossia il siluro, è l'arma dominante, mentre il cannone è l'arma regnante. A questo è restituito l'antico splendore; ogni lotta si impegnerà con un combattimento d'artiglieria, che assicurerà la preponderanza di uno degli avversari, e renderà possibile l'uso del siluro ed eccezionalmente del rostro, che compiranno l'opera dal cannone cominciata. 35
Con queste inequivocabili parole, diversamente da tanti altri autori prima esaminati il Ronca assegna al cannone - non al rostro - il compito non solo di iniziare la lotta, ma anche "di assicurare la preponderanza di uno degli avversari", lasciando al siluro (che dunque in questo caso sarebbe anna secondaria) il compito di "compire [cioè completare - N.d.a.] è opera del cannone, mentre solo "eccezionalmente" tale compito viene svolto dal rostro, ormai relegato in una posizione di terz' ordine. Ma se l'arma preponderante per il Ronca è il cannone, come si concilia questa tesi con l'ambigua frase che "il siluro è l'arma dominante, mentre il cannone è l 'arma regnante"? Da tale frase si dovrebbe dedurre che almeno sulle navi maggiori esiste una sorta di condominio, di ruolo paritario tra siluro e cannone, anche perché chi regna (cioè il cannone) dovrebbe e potrebbe anche dominare, e viceversa. Comunque il Ronca accenna a un'invenzione fondamentale, che va a tutto vantaggio dell'impiego del cannone: I.e polveri senza fumo al momento in corso d'adozione, che oltre a rendere più efficace l'osservazione e condotta del tiro, diminuiscono l'insidia delle torpediniere nemiche prima nascoste facilmente dal fumo degli spari del cannone, evitano la confusione e facilitano al comandante il controllo della propria nave e la vista del nemico. Per altro verso, egli si guarda bene dallo svalutare troppo il rostro e tende piuttosto a valutare troppo il siluro, il cui impiego ha inconvenienti non maggiori di quelli del cannone e che ha trasformato la guerra marittima; le navi più potenti sono minacciate dal suo attacco; le deboli hanno ottenuto un aumento grandissimo di potenza; le poco veloci una strenua difesa; le scorazzate [cioè le navi prive di corazze N.d.a.] e veloci una maggiore possibilità e facilità di minacciare le grandi; le piccole e rapidissime [cioè le torpediniere - N.d.a.] una potenza enorme che le rende terribilmente insidiose per tutte le altre. Il suo uso p erò è perfettamente d 'accordo con quello delle altre armi [non è vero - N.d.a.] e per niente ne modifica la manovra.
35
ivi, p. 357.
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Affinché il lancio del siluro possa essere compiuto non occorre fare altro che passare a breve distanza dal nemico; per il resto, si prestano anche per il siluro le manovre per impiegare l'artiglieria di fianco. La grande importanza da lui data al siluro lo porta a esaltare anche gli incrociatori, tanto che "uno spronefortissimo e i siluri, artiglierie potentissime e poco pesanti ed una grande velocità mettono i tipi più forti d 'incrociatori in condizioni di battersi anche con una corazzata". Hanno perciò grande importanza anche le loro artiglierie leggere; quest'ultime armano anche le torpediniere, per difesa e offesa contro navi simili e qualche volta per fare da cacciatorpediniere. Il Ronca si occupa inoltre delle reti per la difesa contro i siluri, che giudica a ragione di faci le impiego ed efficaci solo quando la nave è alla fonda e comunque ferma. Quando invece la nave è in movimento, "assaltati da sole torpediniere, la miglior difesa si troverà nella velocità e nella manovra, ma sarà prudente avere le reti pronte nel caso in cui, rimanendo accerchiati, non sia più possihile evitare l'attacco [di torpediniere]". Anche l'impiego notturno dei proiettori da parte delle navi maggiori presenta vantaggi e svantaggi: consente di scoprire le torpediniere attaccanti, seguirne la manovra e impedirne l'attacco e facilita la nostra manovrn di notte, ma per contro segnala la nostra presenza, facilita l' attacco a una torpediniera nemica che riesca a mantenersi di fianco al proiettore, lascia delle zone d'ombra pericolose e offusca la vista dell'ufficiale che manovra il proiettore. Quando inizia a trattare della battaglia, il Ronca applica le predette considerazioni sul ruolo del cannone, del rostro e del siluro non senza contraddirsi. Osserva giustamente che se noi poniamo mente a ciò che scrissero i principali tra gli scrittori navali, troveremo le idee più disparate; ma l 'opinione dell 'ammirag/io Aube, che qfferma non potersi dire che cosa sarà la guerra marittima, del/'ammiraglio Jurien de La Gravière che non riconosce un ordine di battaglia [valido] per le flotte a vapore, e dell 'ammiraglio Selvyn che ritiene essere la mischia confusa la sola forma possibile di una battaglia navale, a quella dell 'amrnirag lio Freemant/e che detta norme precise per l 'attacco, e del padre Guglie/motti che cerca (d'accordo con l 'ammiraglio Penhoat e col comandante Rivet) la forma delle possibili battaglie d 'oggi ,in quelle combattute ad Azio ed alle Egadi: io credo che debba esistere un giusto mezzo, e che sia d'importanza grandissima il ricercarlo. 3(•
In che cosa consista questo "giusto mezzo", il Ronca non lo dice con precisione: continua comunque a sostenere che il cannone non consente la concentrazione delle forze, "mentre il rostro e il siluro ci permettono di operare uno .~forzo combinato ed unico sopra un punto delle forze nemiche, e p erciò il siluro e il rostro sono le vere armi sulle quali la tattica deve basarsi, sempre
36
ivi, in "Rivista Marittima" 199 1, I Trimestre Fas;c.ic.olo 11, p 248.
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tenendo presente che il loro impiego utile deve essere preparato o reso possibile dal cannone".31 Da queste parole tutto si potrebbe dedurre, meno che il cannone è I' anna principale, come da lui chiaramente affermato in precedenza. Tuttavia egli boccia le formazioni più caldeggiate dai sostenitori del rostro, come correre incontro al nemico prora contro prora (che anche a suo parere porta inevitabilmente alla mischia e quindi alla negazione dell'arte della guerra), la formazione in gruppi (che non consente una protezione sufficiente per le navi all' esterno), e infine l'attraversamento della linea nemica. Perciò "sarebbe più acconcio un ordine profondo e poco esteso, in modo che la concentrazione resti determinata da assalti succedentesi a brevi intervalli di tempo. E questa mi pare che sia la sola forma di concentrazione possibile, perché è difficile immaginare un gruppo di navi manovranti per un assalto concorrente e contemporaneo". 38 A questo punto, altra contraddizione con quanto prùna detto: "concludiamo che nella hallaglia come nel duello il siluro è l'arma dominante, e che si usa come il rostro, o in vece sua, avendo cura però di impiegare esclusivamente i tubi dal lato esterno, dove non si trovano, né passeranno amici". E l'artiglieria? Ricompare, sia pure in modo ancora equivoco, nei criteri che il Ronca indica per condurre la battaglia, la quale "sarà decisa dal siluro ed eccezionalmente dal rostro, ma il cannone preparerà la villoria e perciò la sua potenza e l'abilità d'impiegarlo avranno importanza grandissima e suprema". 19 Più bilanciato un secondo criterio: "la battaglia si svolgerà in due periodi: nel primo l'arma dominante sarà il cannone, nel secondo il siluro". Bisogna comunque conservare le forze ordinate, e poiché una squadra non può essere composta solo da corazzate, anche se quest'ultime devono compiere il massimo sforzo accanto ad esse occorrono navi speciali [ cioè torpediniere e arieti con sperone - N.d.a.) "atte a dare un colpo mortale nel momento supremo della lolla, a difendere le navi principali dai loro insidiosi nemici, a proteggerne i movimenti, e a perlustrarne il cammino". Queste navi speciali non devono raggrupparsi intorno alle navi maggiori, perché i gruppi così formati renderebbero meno flessibile la squadra e nuocerebbero alla concentrazione delle forze, senza aumentarne la potenza. Esse devono essere ripartite in divisioni speciali; fanno eccezione le torpediniere, in parte da ripartire in divisioni separate, e in parte da imbarcare su ciascuna nave. Pertanto la squadra sarà formata da divisioni di navi da battaglia, divisioni di arieti (sperone) e divisioni di incrociatori torpedinieri (ciascuno capo-gruppo di una divisione di torpediniere). La distanza tra le navi deve essere la minima possibile, e la velocità di squadra la massima possibile. La presenza delle torpediniere non influirà sul modo di condurre le battaglie; peraltro per il
37
38
ivi, p. 249. ivi, p. 256.
'"ivi, p. 25R.
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Ronca non è condivisibile la previsione che le future battaglie inizieranno con una carica di torpediniere e quindi con uno scontro di due flottiglie di queste navi, nel quale prevarrebbe la più numerosa. Sempre a proposito delle formazioni e in particolare deJla linea di fila, il Ronca concorda che il Grillo, giustamente osservando che a Lissa la formazione frontale ad angolo della flotta austriaca "ha dimostrato che un ordine complesso e poco maneggevole può risultare egualmente disastroso, perché nonostante che i tedeschi fossero passati facilmente tra l'Ancona e il Re d'Italia, pure nella seconda carica non riuscivano più a discernere gli amici, ed a mal partito si sarebbero trovati se prima avessero dovuto manovrare per evitare un assalto diritto e concentrato". 40 Tenendo conto dei criteri e degli esempi prima esposti il Ronca categoricamente afferma che "la linea di.fila sarà l'ordine per eccellenza; ma l'azione, in principio specialmente, si svolgerà sopra linee di rilevamento, alle quali saremo condotti dal bisogno di jàre delle accostate ad un tempo onde regolare la distanza dal nemico nel periodo in cui la lotta è impegnata a distanza con le artiglierie". Queste formazioni sono riferite alle sole corazzate; le divisioni delle navi minori saranno disposte in modo analogo, mentre "l 'insiemc di queste linee costituirà l'ordine vero di combattimento, che sarà perciò sempre un ordine composto". Come il Grillo da lui espressamente citato, anche il Ronca ritiene necessario costituire con le navi più potenti e veloci una riserva destinata a portare il colpo decisivo sul nemico [con i cannoni, come par di capire, o con i I siluro'! Nel primo caso, si tratterebbe di un'altra contraddizione - N .d.a.]. La parte più originale dello studio del Ronca è comunque un'altra: egli è l'unico ad occuparsi sia pur brevemente della difesa da parte di una flotta attaccata, che tenderà a neutralizzare le manovre di concentrazione dell'attaccante e a mantenersi compatta, affrettando la lotta ravvicinata e fondandosi sul rostro più che sul siluro [e l'artiglieria? - N.d.a.]. Alla squadra che si difende occorrono grande mobilità e capacità di manovra, con le quali potrà far perdere all'avversario la compattezza e l'ordine. Il problema della difesa si impone specialmente di notte, quando l'oscurità non consente l'impiego dell'artiglieria e quindi l'attacco avverrà principalmente col siluro e qualche volta col rostro, con le torpediniere e gli arieti-incrociatori che assaltano un'ala della flotta avversaria. AJla flotta attaccata conviene perciò prendere caccia e aprire il fuoco con le sue artiglierie; se invece la flotta assalita è aJla fonda, essa può dirsi perduta quando le mancano ostruzioni tali da arrestare il nemico. Questo perché "il cannone non ha mai arrestato una flotta a vapore che corre all'attacco, e il siluro in questo caso offre una debole dffesa, perché può essere impiegato in limiti molto ristretti, mentre l'avversario può scegliere la sua via negli angoli morti di queste armi''. 41
40 41
ivi, pp. 263-264. ivi, Fascicolo III p. 423.
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Se ne deduce che, in questo caso, l'unica cosa che una flotta alla fonda attaccata può fare è ricorrere agli arieti con rostro e alle torpediniere, anche se il Ronca - chissà perché - non accenna affatto a questa possibilità. Invece un altro caso nel quale il Ronca accenna esplicitamente all'utilità del rostro, anzi alla sua preminenza anche rispetto al siluro, è quando in uno scontro d'alto mare una flotta è costretta a mettersi sulla difensiva: in questa situazione ( che egli è l'unico a prendere in esame) scopo principale della flotta attaccata sarà quello di annullare i movimenti di concentrazione dell'avversario [attaccante] e di mantenersi compatta. Le armi rimangono le stesse, come valore e impiego, di quelle dell 'awersario, ma la flotta seriamente minacciata da un disastro, può ricorrere al mezzo supremo di fondarsi sul rostro più che sul siluro, ed in ogni caso essa affretterà la lotta rawicinata. 42
TI Ronca dedica infine lo spazio più ampio di tutti (l'ultimo articolo e gran parte del penultimo) alle torpediniere, le cui dimensioni nel momento in cui scrive variano da un dislocamento minimo di 12-15 tonnellate fino a un massimo di 700-800 tonnellate. La loro autonomia massima è di 1.000-1.500 miglia; sono generalmente sprovviste ( o quasi) di difese passive. Sono loro anni offensive il siluro e la velocità; sono armi difensive la velocità, il cannone e le torpedini da getto (cioè le mine). Egli non concorda con le tesi della Jeune École, che verrebbero fare di queste piccole navi un sostituto della corazzata, e indirettamente diverge anche dalle idee del Bonamico (da lui peraltro non citato come il Morin) quando afferma che "oggi è assodato che le coste si difendono al largo con una squadra potente, atta a dominare il mare [e chi - come l'Italia - non può permettersi di possederla o di possederla con una forza sufficiente, che cosa deve fare? - N.d.a.]; mentre le torpediniere concorrono allo svolgimento della guerra, ma non possono sostenerla da sole; esse cedono davanti al mare grosso e a un nemico polente e invulnerabile alla loro offesa". 43 Sempre secondo il Ronca, i difetti di queste piccole navi sono molteplici: la difficoltà di agire in mare aperto e con mare mosso, la grande quantità di fumo e scintille prodotte dal loro fumaiolo che le rende visibili ( e rendono consigliabi le mimetizzarle), il pericolo di avere i siluri danneg1:,r:iati a causa dell'alta velocità, la difficoltà di impiegare le armi difensive, la difficoltà di essere messe in mare se trasportate da una nave da guerra, lo scarso campo di vista. Sono invece loro vantaggi la difficoltà di colpirle da parte delle navi nemiche e il grande effetto morale dell'impiego dei siluri, che comunque al momento richiede loro di portarsi a soli 400 metri dalle navi nemiche per il lancio. Per le torpediniere è indispensabile un piano di attacco, ma non sono necessarie speciali formazioni:
42
ivi, p. 422.
43
ivi, pp. 429-430.
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quando si attacca con un nucleo di torpediniere un nemico che ha acque libere in tutti i sensi si cercherà di circondarlo, anche se corre a rotte opposte, per rendergli impossibile la manovra che è il mezzo più attivo di difesa; perciò basterà che le torpediniere navighino serrate e compatte nello avvicinarsi al nemico, legate se occorre, e che giunte poi a distanza conveniente, con la massima circospezione si separino, ed ogni gruppo o sezione tenti di guadagnare il rilevamento che gli è assegnato; onde non occorre una formazione ma è necessario solo ordine, audacia, risoluzione ed abilità per attenersi al piano stabilito, ed attaccare con decisione. 44
Il Ronca non manca poi di rilevare che accanto alle torpediniere sono stati recentemente introdotti nuovi tipi di nave, come i caccia - torpediniere e le navi - appoggio torpediniere. I caccia - torpediniere possono essere sostituiti da rapidi incrociatori e avvisi di poca immersione, o meglio ancora da incrociatori torpedinieri; comunque le torpediniere che accompagnano una squadra trovano nelle navi stesse il loro appoggio. ln conclusione, nel pensiero del Ronca nonostante le frasi stranamente ambigue e contraddittorie il cannone comincia o ricomincia ad acquistare peso, e con esso la formazione di fila_ Peraltro egli non si spinge mollo più in là del Grillo; e la sua troppo pronunciata fiducia nel siluro, oltre a contrastare con le ancor modeste prestazioni di quest'arma, trascura che alle brevi distanze alle quali occorre lanciarlo (circa 400 m) anche il cannone guadagna di molto in fatto di efficacia, e che a distanze così ravvicinate è difficile mantenere - come egli vorrebbe - la formazione; né si può condividere la tesi che l' impiego del cannone non sarebbe tatticamente in contrasto con quello del rostro e del siluro, che proprio per tale contrasto richiedono sempre più navi speciali. E se il siluro ba tanta importanza, perché - contraddittoriamente - il Ronca continua ad avere fiducia nella corazzata, notoriamente costruita in funzione pressoché esclusiva della lotta tra cannone e corazza, della quale è espressione il Duilio che comincia a nascere fin dal 1873? Per altro verso il lavoro del Ronca da una parte è l' ultimo di un periodo di estrema incertezza nel quale di ciascuna arma si dice tutto e il contrario di tutto, con conseguente, inevitabile disparità di opinioni anche sulla tattica e sulle formazioni; dall'altra pur "aprendo" al cannone, induce a riflettere sul fatto che a pochi anni dall'inizio del secolo XX, e a fronte di precisi e consolidati orientamenti nel le costruzioni navali, l'immagine teorica dello scontro navale è ovunque così lontana dalla realtà tattica che si prepara, e ancora incentrata sulla lotta a breve distanza. La contraddittorietà di parecchie sue affermazioni in merito all'importanza delle tre armi è pertanto difficilmente giustificabile; né egli accenna alla vexata quaestio della convenienza o meno delle grosse artiglierie o ai vantaggi delle artiglierie di medio calibro, con maggiore celerità di tiro.
44
ivi, U Trimestre, Fascicolo IV. p. 59.
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n, COMBATTrMENTO
NAVALE DA LISSA A FINE SEC'OW XIX
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Le nebbie, le incertezze e le contraddizioni lasciate dal Ronca, che pure comincia a riabilitare il cannone, sono definitivamente dissipate dal Gavotti - ormai contrammiraglio - nel suo libro di fine secolo La tattica nelle grandi battaglie navali da Temistocle a lto, 45 nel quale in buona sostanza non fa che riprendere e ampliare le sue idee favorevoli al cannone (e simili a quelle del Morin) di quasi vent'anni prima, aggiungendo alla fiducia nel grosso cannone e nella corazza una profonda sottolineatura del ''fattore uomo", la cui importanza è stata dimostrata anche dall'unica vera battaglia navale del secolo XIX dopo Lissa, quella dello Ya-Lu nel 1894. Non concorda pienamente con le analogie sostenute da taluni scrittori tra il modo di combattere del periodo remico e quello del momento; ma d'altra parte le armate a vela e le armate a vapore hanno qualche punto di contatto nelle Leggi che ne regolano la manovra e nel modo di combattere colle artiglierie, ond'è che lo studio delle guerre passate può presentare, anche dal lato scientifico, qualche interesse, e potràforse,fino a un certo limite.facilitare la ricerca dei criterì direttivi delle guerre future. Ad ogni modo, soltanto con lo studio intrinseco dei fatti si potrà risolvere la questione: se la scuola del passato sia, in r.in che si riferisce al modo di r.omhattere in mare, scuola efficace per l'avvenire, o se da essa debbansi ricavare soltanto ammaestramenti di carattere generale derivanti da quei fattori morali della combattività, i quali dall'epoca più remota infònnarono sempre ogni più disparata arte di guerra, e dominarono perennemente nelle umane lotte, quantunque combattente con mezzi diversi. Questi fattori morali sopravviveranno a tutte le trasformazioni, a tutti i sistemi. L'esito delle battaglie, più che da mezzi morali, dipenderà quindi da cause morali. 46
In apertura della sua opera il Gavotti compie una sommaria rassegna delle tesi del La Gravière (a favore del rostro) e di altri autori stranieri, osservando anch'egli che "l'uso del rostro è precisamente la negazione di ogni manovra d 'insieme [... ]. Concentrare più rostri sopra un punto, significa legare la manovra di parecchie navi, p er riuscire in un intento che richiede spazio e cambiamenti incessanti di direzione, quindi espone le navi assalitrici al pericolo di investirsi tra loro". E dopo aver concordato con il La Gravière sull'opportunità di non fare movimenti complicati di fronte al nemico, dissente dai complicati metodi di evoluzione delle flotte descritti dal Boutakov, dal Lewal, dal Boutakov e altri, perché richiedono studi preliminari e complicati calcoli durante le evoluzioni, quindi non sono per nulla pratici e adatti a far muovere prontamente un'armata navale di fronte al nemico. Un intero capitolo è anche da lui dedicato all'analisi critica degli elaborati dei partecipanti al concorso del 1881, a cominciare da quello del comandan-
" Roma, Forzani e C. 1898. Si veda anche la recensione del libro (anonima e incolore) in "Rivista Marillima" 1898, II Trimestre Fascicolo T, pp. 225-232. 46
ivi, p. 11.
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te Grillo vincitore del concorso. A suo avviso il Grillo, avrebbe dovuto trarre le dovute conseguenze dalla sua troppo generica previsione che il siluro avrebbe cambiato le basi della tattica, tanto più che gli effetti del siluro erano già perfettamente noti e molte navi prossime a scendere in mare erano state munite di tubi lanciasiluri: invece non ha preso in esame l'impiego tattico di quest'arma. Critica inoltre la formazione da lui prevista (che, come si è visto, con l'armata in linea di fila intenderebbe attaccare il nemico disposto in linea di fronte), perché "esporrebbe la nave capofila ai fuochi di tutta una fronte e metterebbe il nemico nella favorevole condizione di concentrare un 'azione immediata soverchiante sulla testa della linea di.fila". Critica evidentemente non condivisibile, perché Nelson non si è mai preoccupato di questo pericolo; più condivisibile, invece, l'altra previsione del Gavotti che, con il nemico in linea di fronte, "la linea di fila, anchefacendo astrazione dai lanciasiluri, non sarebbe probabilmente giunta ad attraversare la fronte nemica, neanche colle prime navi, poiché bastava una minaccia di urto per scompigliarne l'ordinanza e certamente il nemico non sarebbe rimasto in una rigida ordinanza di fronte, lasciandosi attraversare a più riprese dalla linea di jìla". 47 Che cosa avrebbe fatto il nemico? Questa del Gavotti è solo un'ipotesi delle tante; ad ogni modo gli va riconosciuto il merito di sottolineare indirettamente che non è realistico azzardare formazioni e manovre in un vuoto pneumatico, senza tener conto della consistenza e dell'atteggiamento del nemico, che molto raramente sono prevedibili e molto raramente favoriscono i nostri disegni. Anche le soluzioni dell'Algranati (che come si è visto preferisce l'ordine di fila per gruppi, ritiene necessario mantenere il più possibile la formazione ordinata con le due armate contrapposte che si attraversano più volte, prevede l'avvolgimento di un'ala del nemico o lo sfondamento della sua linea di fronte e ammette una mischia finale) sono giustamente criticate dal Gavotti più o meno per le stesse ragioni: "anche qui noi vediamo un nemico talmente tardo e inetto, da lasciarsi tagliare un 'ala dell'ordinanza prima di aver invertito l'ordine e lasciarla soverchiare prima di poterla soccorrere". Tra le righe egli non condivide nemmeno la formazione ad angolo di 60° indicata dal Cattori, che respinge l'ordine di fila semplice e l'ordine di fila per gruppi e a suo parere attribuisce alla predetta formazione ad angolo "il grande vantaggio di poter attaccare in un istante, senza manovre preparatorie, e con una semplice accostata simultanea di tutte le navi ali 'angolo, rovesciare sovra un lato del nemico una enonnefalange di rostri! l'arma tattica del Callori era dunque il rostro, e la manovra anche da lui favorita, l'inversione di Formione". 11 Gavotti loda poi lo studio sulla tattica navale del Ronca, giudicandolo con un po' di esagerazione "accuratissimo e più importante degli altri fin qui esaminati". Non ritiene contraddittorie le tesi dello stesso Ronca sull'importanza sia del rostro che del cannone, e sembra condividere la sua affermazione
41
ivi, pp. 105-106.
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che "il rostro è l 'arma tattica predominante, ma il suo impiego dipende dagli effetti del cannone": quindi "l'urto è lo scopo della lotta, ma il cannone è il mezzo per conseguirlo". Condivide anche la sua affermazione che il siluro è un rostro lungo e flessibile di 400 metri, e nulla trova da dire anche a proposito della formazione di marcia e combattimento preferiti dal Ronca (linea di fila semplice), mettendo peraltro in rilievo che con tale linea di fila egli non intende attraversare la formazione nemica, quindi i pericoli per le navi di testa sono molto diminuiti. Trova da ridire solo sull'impiego della riserva così come è previsto dal Ronca, perché "questa riserva, presente sul luogo di azione, può essere attaccata subito dal nemico e non può servire come vera e propn·a riserva". Dobbiamo al Gavotti l'interpretazione più interessante della battaglia dello Ya-Lu (17 settembre 1894), la quale, a suo parere, contrariamente alla communis opinio non dimostra affatto la superiorità delle medie e piccole artiglierie a tiro celere - e quindi delle navi di modesto tonnellaggio - sulle artiglierie di grosso calibro e sulle robuste corazze delle grandi navi. Citando sia un'opera del comandante de Amezaga compi lata subito dopo la guerra ispano - americana del 1898 e da lui favorevolmente recensita in precedenza48 , sia una conferenza dell' anuniraglio Accinni del dicembre 1894 (cioè a distanza di qualche mese dalla battaglia dello Ya-Lu), il Gavotti sottolinea che in quest' ultima battaglia le due corazzate cinesi resistettero a un fuoco concentrato e celere delle migliori navi de/l'armata giapponese senza ristare neppure un istante da/l'azione, mentre il Matsushima che, rispetto alle cinesi, si può considerare una nave modesta e che aveva minor forza difensiva, non Lardò ad essere messo fuori combattimento. Si ha dunque ilfatto di una reale superiorità di resistenza militare delle navi maggiori su quelle di più umili dimensioni; e se tale resistenza fosse stata congiunta ad un armamento di cannoni meglio inteso e ad un 'adeguata perizia professionale da parte dei marini cinesi, avrebbe indubbiamente cambiato le sorti della battaglia. Se i Cinesi, in vece di acquistare le quattro navi piccole che andarono perdute, avessero dotato la loro forza navale di altre due navi del tipo del Ting-Yuen, cioè di altre due navi maggiori, queste avrebbero resistito come quello, e le vicende del 'azione sarebbero state loro assai probabilmente favorevoli. Ma che sarebbe avvenuto (domanda il de Amezaga) se alle piccole navi [cinesi] distrutte dal fuoco nemico se ne jòsse sostituita una grandissima come la [nostra] Sardegna,49 che fila 20 nodi a tirare forzato, è invulnerabile almeno quanto il Ting-Yuen, ed ha quattro cannoni da mm 341, otto da 152 e sedici da 120 a tiro rapido? È facile immagi-
48 Gavotti, ll pensiero navale moderno, in "Rivista Marittima" 1898, IV Trimestre Fascicolo X , pp. 197-212 (articolo che segue il ibro La lattica navale... ecc.). 49 Le tre coraz.7.atc tipo Sardegna, entrate in servizio dal 1893 al 1895, erano armate con 4 cannoni principali da 343 mm in torri corazzate a barbetta, più artiglierie minori, 5 lanciasiluri e sperone. Dislocamento 15600 tonnellate, velocità 20 nodi. Erano le prime, dopo il Duilio, ad avere artiglierie di calibro inferiore ai 400 mm e velocità e dislocamento superiori ai tipo Doria ( 1889- I 891, ancora con 4 cannoni principali da 431 mm).
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narlo: sarebbe avvenuta la distruzione dell'armata giapponese, ancorché l 'impiego della Sardegna e del suo armamento non fosse stato superiore a quello fatto dai Cinesi delle loro maggiori navi e relative armi. 50
Le nostre navi tipo Sardegna erano armate con 4 cannoni da 343 mm, 8 da 152 mm e molti altri di calibro minore, con 100 mm di corazzatura verticale e orizzontale (vds anche nota 49). Perciò con queste idee il Gavotti si discosta nettamente dai fautori dello sperone, dei ridotti dislocamenti e delle artiglierie di calibro ridotto, anche se mostra di non apprezzare particolarmente i cannoni colossali di calibro superiore ai 400 mm. Tuttavia, pur divergendo dall'ammiraglio Colomb, dal Bonamico e dallaJeune École egli mostra di apprezzare anche il ruolo delle torpediniere, mettendo i rilievo i buoni risultati ottenuti da tali navi giapponesi nell'ardito attacco notturno alla base di Wei-Hai-Wei, dove si era rinchiusa la flotta cinese dopo essere stata sconfitta - ma non annientata - nella precedente battaglia dello Ya-Lu. Comunque da quest'ultima battaglia, nella quale la flotta giapponese vincente si è disposta in linea di fila avviluppando la formazione avversaria, il Gavotti ha il merito di non trarre - come tanti - ammaestramenti categorici e assoluti a favore di questa o quella formazione: appn::zza solo il fatto che l'ammiraglio Ito ha manovrato in modo da evitare la mischia e, per il resto concordando con il de Amezaga afferma che, dati gli svariati tipi di nave disponibili, le battaglie del momento hanno perduto il carattere formale e uniforme che avevano in passato, pertanto "il genio dei condottieri ha d'uopo in gran parte di esplicarsi nell'impiego opportuno di ogni tipo delle proprie navi, subordinatamente a quello che può.fare l'avversario dei suoi tipi di nave e a seconda del luogo e delle occasionf'. Non sono quindi solo le nuove caratteristiche del naviglio a pesare sulla condotta della battaglia ma le sue diverse prestazioni, alle quali vanno aggiunti il talento del capo, i fattori morali e il livello addestrativo. Anche su questo punto fondamentale il Gavotti condivide il parere dell'ammiraglio Accinni, il quale sottolinea che mentre l'ammiraglio giapponese lto comandava una squadra piena di amor patriottico e da lui costituita e addestrata da circa un anno e mezzo (quindi ben affiatata), l'ammiraglio cinese Ting combatteva con una flotta mobilitato da soli trentadue giorni, e derivante dall'affrettata fusione di naviglio di due diverse squadre. Di conseguenza, secondo l'ammiraglio Accinni (citazione testuale del Gavotti): la fortuna arrise ali 'ammiraglio Ito perché a lui toccò di raccogliere quello che fa seminato da diligenti studi, da indefesse cure, instancabili operosità, da fermi propositi, da coscienziosi doveri; virtù insegnate e coltivate nel cuore degli ufficiali e dei marinai. Non ha vinto il cannone a Ya-Lu, ha vinto il sentimento. È il Dovere che ha imparato e ha dato nelle mani dei Giapponesi la palma della vittoria.51
50
SI
Gavotti, la tattica navale... (cit.), p. 139. ivi, p. }45.
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Queste valutazioni assolutiste, che attenuano La preferenza da Lui accordata al cannone, sono bilanciate dalla sua constatazione che, poiché allo Ya-Lu non hanno combattuto navi di grande mole paragonabili a quelle europee, "non si può intravedere dai risultati della battaglia dello Ya -Lu quali sarebbero quelli di una battaglia combattuta fra le grandi navi di linea delle marine d'Europa".52 Tali considerazioni, tuttavia, non gli impediscono di riaffermare il primato del cannone, senza con questo svalutare del tutto il siluro e il rostro: "se l'ammiraglio Ting avesse avuto la risolutezza del suo avversario, e le sue navi avessero messi in azione tutti i loro mezzi, gli scrittori che giudicarono quella battaglia non sarebbero giunti alla deduzione della insufficienza delle grosse artiglierie, un colpo delle quali pure affondò una nave, né della inefficacia del siluro e del rostro". 53 Un altro argomento sul quale il Gavotti richiama l'attenzione è la velocità, grazie alla quale l'ammiraglio Ito è riuscito ad avviluppare e sconfiggere la formazione cinese. Anche a parere dell'ammiraglio francese Fournier, il cui libro La flotte necessaire (1896) è da lui largamente citato, la velocità superiore consente alla nave che ne dispone di imporre all'avversario le modalità di combattimento ad essa più favorevoli: "è quindi ra~onevole conseJ?;uenza, a nostro modo di vedere, dotare le navi da battaglia di grande velocità, di artiglieria più potente a poppa ed a prora le altre meno veloci: injàtti le prime per sostenere la lotta a distanza più conveniente dovranno prendere caccia dalle avversarie e presentare la prora allora soltanto che la distanza sarà divenuta eccessiva [va ricordato ancora che il Gavotti predilige lo scontro a distanza, onde evitare la mischia - N.d.a.)". 54 Tn conclusione, l'opera del Gavotti contiene numerose considerazioni condivisibili e all'altezza dei tempi. L'esame che egli fa dei lavori dei partecipanti al concorso del 1881 è assai utile, così come è utile la sua analisi dell'opera del Foumier; tuttavia le sue valutazioni sono spesso in chiaroscuro e in contrasto con le affermazioni precedenti. Ormai a fine secolo XIX si vanno sempre più affermando le artiglierie, ma dopo aver giudicato negativamente il rostro insieme con la mischia, il Gavotti concorda con il Ronca su argomenti essenziali e quindi lascia a quest'ultima arma ancora la porta aperta, mentre anche il siluro - arma dell'avvenire in continuo perfezionamento - viene da lui indirettamente svalutato, perché lo mette su un piano di parità con il rostro. A sua parziale giustificazione va tenuto presente che le costruzioni navali del tempo continuano a prevedere l'armamento sia con il rostro che con il siluro anche delle corazzate, pur sviluppando al tempo stesso le torpediniere. 1n particolare, secondo il Gavotti: - con l'introduzione dei siluri e delle potenti artiglierie sulle navi è stata abbandonata la tattica dell'attraversamento della formazione nemica, tra l'altro avversata anche dal Ronca;
ivi, p. 144. " Ibidem. "ivi, pp. 154- 155. 52
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- "la tattica negativa della mischia generale" non ha più fautori; - la linea di fila semplice, in passato sostenuta soltanto dal Colomb, dal Grillo e dal Ronca (i primi due per attraversare la formazione nemica, e il terzo per fronteggiarla a distanza d'impiego utile per l'artiglieria) è ritornata in auge; - le formazioni in linea di fronte, già preferite dai sostenitori del rostro, non essendo più destinate ad attraversare (come a Lissa) la formazione nemica, hanno perduto importanza per gli attacchi diretti, rimanendo utili soltanto per concentrare in determinate situazioni il fuoco sul nemico; - "i gruppi a figu.re geometriche fisse, a triangolo e a quadrato, non hanno più sostenitori'' e sono stati sostituiti da divisioni omogenee [per velocità - N.d.a.], senza vincoli di schemi di formazione prestabiliti; solo pochi autori (tra i quali il Selwyn e il Fournier) si sono preoccupati delle conseguenze delle differenti velocità di navi inserite nella stessa formazione; la battaglia dello Ya-Lu ha dimostrato che "la maggiore velocità è il fattore più decisivo della vittoria", ma lo squilibrio tra le navi in fatto di velocità tende a sparire; essa ha inoltre dimostrato l'efficacia della protezione delle navi da battaglia; il siluro e il rostro non vi hanno avuto un ruolo di rilievo, "perché l'ammiraglio lto seppe mantenersi a conveniente distanza per combattere, e perché da parte cinese mancò l'audacia indispensabile ali 'uso efficace di quelle due armi''; la maggiore velocità e l'ampiezza del campo di tiro delle navi moderne diminuiscono le conseguenze dei difetti delle varie formazioni, perciò occorrono solo formazioni il più possibile semplici; l'ammiraglio deve curare anzitutto che le sue navi siano in grado di impiegare nel modo migliore tutte le armi delle quali sono dotate, ripartendo la sua flotta in divisioni omogenee per velocità, da impiegare unitariamente sulla base di un piano generale; anche se non è più possibile come in passato [e come ha fatto Tto - N .d.a.] avviluppare una parte delle forze nemiche per combatterle ad oltranza, le grandi velocità ormai raggiunte rendono pur sempre possibile il concentramento di fuoco su una parte delle forze nemiche, che se effettuato anche per pochi minuti può essere decisivo; nelle future battaglie le varie armi potranno essere impiegate anche in successione di tempo e-come sostengono il Grillo, il Ronca, il Fournier e l'Elliot - la battaglia potrà essere iniziata da incrociatori o navi di ridotto tonnellaggio, che avranno il compito di scompaginare e danneggiare la formazione nemica; le [piccole] torpediniere saranno impiegate specialmente da una flotta che combatte vicino alle proprie coste, e in tal caso sarà un vantaggio essere attaccati nel proprio mare; ma anch'esse stanno per essere sostitui-
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te dai tipi più grandi di 300 e più tonnellate, perciò ritorneranno al loro ruolo iniziale, cioè alla difesa delle coste. Salta subito all'occhio che in queste conclusioni il Gavotti, oltre a non rimarcare a sufficienza la cresciuta superiorità del siluro rispetto al rostro e il declino di quest'ultima arma, non parla mai della preminenza dell'artiglieria, attribuendo invece un ruolo decisivo alla velocità e accennando anche all'importanza della protezione. La sua tesi sulla non convenienza dell'attraversamento dalla formazione nemica risulterà smentita nel XX secolo. Trovano conferma nei futuri eventi, invece la sua preferenza per la suddivisione della flotta in gruppi omogenei e il suo accenno - della massima importanza - alla possibilità di concentrare con vantaggio il fuoco su una parte della flotta nemica, che peraltro richiede un efficiente coordinamento dell'azione, per il quale mancano ancora mezzi di collegamento efficaci (al momento la radiotelegrafia è ancora di là a venire). Il Gavotti non accenna alla guerra ispano-americana (21 aprile - 13 agosto 1898), per la semplice ragione che il suo libro compare appena prima dell'inizio di tale guerra; comunque le battaglie navali di Cavite (Filippine) e Santiago (Cuba)- nelle quali i moderni incrociatori americani armati con calibri medi hanno sconfitto le antiquate e male organizzate e addestrate navi spagnole che avevano tentato di uscire da quelle basi - si sono trasformate in una sorta di tiro al bersaglio da parte dei moderni incrociatori americani, senza fornire ammaestramenti tattici di rilievo anche tenendo conto delle differenze sostanziali nell'efficienza delle forze. Si può solo dire che, almeno sulla base delle sue considerazioni finali, il Gavotti avrebbe concordato con il Bonamico, secondo il quale trascurando l'impiego delle artiglierie - nelle quali era palesemente inferiore- l'ammiraglio spagnolo Montojo a Cavite avrebbe potuto gettarsi sulle navi americane, in modo da vendere cara la pelle in una mischia ove sarebbe prevalso lo sperone. 55 Nella citata recensione del libro del de Amczaga pubblicata dopo il libro, comunque, il Gavotti accenna in modo esauriente anche alle vicende navali della guerra ispano-americana, ben trattate dallo stesso de Amezaga, il quale pur asserendo che dal lato tecnico "nessun ammaestramento può ricavarsi o ben pochi" dalla battaglia di Santiago, in sostanza vede in tale battaglia e in quella dello Ya-Lu la conferma della preminenza delle grosse artiglierie e delle forti corazze. Naturalmente il Gavotti questa volta non ha nulla da obiettare, osservando solo che, se la vittoria americana è dovuta alla preponderanza nel numero delle navi e delle artiglierie e alla maggior precisione del tiro, "è facile
colpire un bersaglio che fugge in una costante direzione; d'altra parte l'ammiraglio spagnolo uscendo di giorno da un pavso stretto, ben guardato da navi nemiche, si mise da sé stesso in una situazione nella quale anche un maggior numero di navi non gli avrebbe giovato. la velocità superiore delle sue
" Donamico, Scritti sul potere marittimo ( cit.), pp. 724-728.
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navi fa jòrse paralizzata fin dai primi istanti, perché quelle navi furono costrette a passare sotto il fuoco di parecchie awersarie a breve distanza" . A questo punto il lettore potrebbe porre il seguente, legittimo interrogativo: ma le navi spagnole erano forse completamente disarmate? come mai il loro tiro in rapporto a quello delle navi americane ha avuto effetti trascurabili? Né il de Amezaga, né il Gavotti forniscono elementi di risposta: tuttavia quest'ultimo alla frase del comandante dell' incrociatore corazzato Colon (la miglior nave della flotta spagnola costruita in Italia, ma purtroppo priva delle artiglierie maggiori): "cannoni pesanti e niente legno nella costruzione delle navi, ecco la lezione che ci dà la recente guerra", aggiunge "e buoni pontatori soprattutto, sia per i pesanti come per i leggeri cannoni". L'unico argomento importante sul quale il Gavotti non si dichiara d'accordo con il de Amezaga è il siluro, che quest'ultimo precorrendo i tempi vorrebbe senz'altro abolito sulle grandi navi e installato solo sulle navi specializzate: " io non credo che si possa da/l'esperienza negativa delle due ultime guerre trarre la conseguenza che il siluro sia arnese inutile sulle navi da battaglia e sono convinto che, p er addivenire alla sua abolizione, si attenderanno ancora altre esperienze, almeno p er quanto riguarda il lancio sopracqueo protetto" . Senza dubbio il siluro al momento abbisognava di ulteriori perfezionamenti; ma la tiepidezza del Gavotti di fronte alla possibilità di abolirlo s ulle navi maggiori è in palese contraddi zione con la sua insistenza sulla necessità di cercare il combattimento a distanza e di evitare la mischia, tenendo anche conto della tendenza delle navi maggiori ad aumentare le corazze e la potenza del fuoco di artiglieria, così come dei progressi delle torpediniere con particolare riguardo alle loro prospettive d'impiego in alto mare e alla difficoltà di colpirle di notte con le armi a tiro rapido delle navi attaccate. 56 Con il Gavotti si può considerare chiusa l' analisi del pensiero tattico fino all' inizio del secolo XIX. Prima di entrare nel secolo XX, merita una breve citazione una lettera di fine secolo alla Rivista Marittima in difesa del siluro. 57 Preso atto che nelle ultime guerre il siluro non ha dimostrato particolare efficienza, l' autore della lettera (E. Ferretti) ricorda molto opportunamente che " 'arma adoperata ' o 'mal adoperata' non vuol dire ajjàtto 'arma non adoperabile"', e che non si possono trarre conclusioni definitive sull'efficienza di un'arma fino a quel momento impiegata - o m eglio non impiegata - in circostanze particolari. li Ferretti nota che le torpediniere, i cacciatorpediniere ecc. hanno di molto aumentato la loro velocità; è perciò necessario rendere molto più veloce anche il siluro, sostituendo al suo apparato motore del momento (mo trice Brotherhood, con re lative valvole, ingranaggi ed eliche) una motrice
56 Si veda anche, in merito, MG, Tattica delle torpediniere nella guerra offensiva e difensiva, in "Rivista Marittima" 1889, I Trimestre Fascicolo II, pp. 247-258. 51 F.. Ferretti, In difesa del siluro, in " Riv is ta Marittima" 1899, Ul Trimestre Fascicolo VITI.
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a turbina ad aria compressa, che potrebbe fare a meno di tutti gli organi accessori aumentando le prestazioni dell'arma. Nel 1896 viene varato il nostro sommergibile {sperimentale e disarmato) Delfino. Né il Gavotti, né altri accennano all'impiego tattico dei mezzi subacquei e/o al loro possibile armamento con il siluro: a fine secolo XIX, come meglio si vedrà in seguito (vds. cap.VTTI) in Italia e all'estero questo nuovo mezzo sta ancora risolvendo i problemi di navigazione subacquea che nel XX secolo ne faranno un protagonista della guerra marittima. Ne prende atto un articolo del 1899 a fmna Ernesto Mancini,58 nel quale dopo un lungo esame dei tentativi fatti da inventori italiani e stranieri si afferma che al momento il sommergibile deve ancora superare non tanto il problema dell'immersione, ma quello dell ' orientamento e della visibilità della navigazione subacquea. Pertanto "i baLLelli sottomarini [ . .. ] non possono portare una rivoluzione nella guerra sul mare, per la quale rimangono sempre come mezzi sussidiari di combattimento", con importanza soprattutto morale. Un altro articolo di fine secolo XX a firma A. Biscontini è più ottimistico sulle possibilità future di questo nuovo mezzo59, che secondo il Biscontini ha raggiunto livelli di eccellenza con il battello sottomarino costruito recentemente dal Signor Simon Lake negli Stati Uniti. Esso è caratterizzato da facilità di movimento a qualunque profondità, facilità di direzione (grazie alla bussola in dotazione), e di approvvigionamento di aria, possibilità di illuminare le acque davanti a sé con un faro elettrico. Grazie a queste prestazioni i battelli di questo tipo se sorpresi dal nemico possono rapidamente immergersi, e spostandosi in immersione vanificare le difese dei porti con torpedini sottomarine, oppure - al contrario - forzare i blocchi.
Conclusione Al di là delle apparenze l' esame condotto non riguarda aspetti puramente navali, che dunque ben poco potrebbero avere a che fare con la tattica terrestre. Le tattiche dell'ambiente terrestre e marittimo hanno in comune almeno due caratteristiche di base: il carattere aprioristicamente, dogmaticamente offensivo e il tentativo più o meno riuscito di valutare le ricadute del continuo progresso degli armamenti, rispecchiato soprattutto dal progresso dell'artiglieria, non da tutti considerato come merita. Da questi orientamenti generali emerge indirettamente l'isolamento concettuale del Bonamico, l'unico scrittore del periodo ad approfondire la realistica prospettiva della disparità di forze tra due flotte avversarie e la conseguente possibilità che la flotta inferiore tenda a
" Ernesto Mancini, / battelli sottomarini, in "Nuova Antologia" Voi. LXXI X Fase. 651 - I febbraio 1899, pp. 486,505. '" A. Biscontini, L'Argonauta (a proposito di un nuovo balle/lo sollomarino), in "Rivista Militare Italiana" Anno XLIV - 1 Semestre aprile 1899, pp. 811 -814.
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sfuggire alla battaglia, in tal modo subordinando alla situazione geostrategica anche le caratteristiche del materiale e delle armi. Sull'approccio dei vari autori pesano altre due cose: l'eredità condizionante del passato, che spinge spesso a un estremismo concettuale in un senso e nell'altro, e la mancanza molto lamentata di convincenti esperienze di guerra europea rispettivamente dopo il 1870-1871 (per la tattica terrestre) e il 1866 (per la tattica navale). Forse per queste ragioni negli scritti esaminati si trova tutto e il contrario di tutto; un caleidoscopio e una miniera che hanno anche i loro pregi, ma inducono il lettore a non trarre conclusioni ultimative dei ragionamenti condotti. Le frequenti contraddizioni di parecchi autori sul peso tattico delle tre armi principali (cannone, rostro e siluro) non devono destare troppa meraviglia: essi sono in massima parte ufficiali in servizio attivo, perciò per ovvie e comprensibili ragioni tentano di non scontentare nessuno, di non sbilanciarsi troppo. L'eccessivo peso del rostro, che sia pur gradualmente ridimensionato è erroneamente considerato arma di importanza cospicua anche a fine secolo XTX, è un dato di fatto che è obbligatorio valutare, insieme con l'oggettiva difficoltà di realizzare concretamente le condizioni per lo speronamento, che è messa bene in luce da parecchi autori e quindi porta di per sé a ritenere superficiali le argomentazioni degli entusiasti fautori di quest'arma. Tn secondo luogo compare una difficoltà di comando e controllo in sede di condotta della battaglia già tipica del periodo velico, che sarà possibile ridurre o eliminare solo con l'adozione della radio. Terzo elemento le formazioni, che quasi sempre risentono di valutazioni aprioristiche e di dogmatismi più o meno consapevoli, con ingiustificata importanza ancora data alle formazioni frontali tipiche del rostro. Riguardo alle armi va ancora sottolineata la sostanziale suddivisione dei sostenitori delJ'artiglieria (e quindi della corazzata) in fautori dei cannoni giganti (tipo quelli del Duilio e del Daria) e dei cannoni di calibro inferiore ma di celerità di tiro più elevata, che tendono ad affermarsi a fine secolo XIX. Non viene peraltro studiata a sufficienza la crescente possibilità di concentrare il fuoco grazie alle maggiori gittate dei pezzi, in tal modo limitando la necessità di manovrare tipica del periodo velico e di Nelson, alla quale ha fatto ancora ricorso l'ammiraglio Ito nella battaglia dello Ya-Lu. TI siluro riceve la dovuta attenzione, ma si rimane molto spesso fermi al concetto di prevederne l' installazione (a scopo offensivo e non puramente difensivo) prima di tutto sulle grandi navi, con la pretesa che il suo impiego non sia - come invece giustamente afferma il Bonamico - divergente rispetto al cannone. Un'arma quasi dimenticata, destinata a rivelarsi efficace anche e soprattutto nel XX secolo, è la mina fissa60, al momento chiamata torpedine fissa; eppure - come ricordano mol-
60 Sulla storia e sulle caratteristiche delle mine fisse, di quelle mobili ( distinte in semoventi, cioè siluri e dirigibili) e delle torpediniere si veda anc he l'esauriente panoramica tracciata nel 1880 dal maggiore del genio A. Triani sulla Rivista Militare Italiana (Le torpedini, in "Rivista Militare Italiana" Anno XXV - Vol. TV settembre I 880, pp. 382-406 e ottobre 1880, pp. 19-39).
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ti - essa si era rivelata assai pericolosa già nella guerra di secessione americana. L'unica spiegazione è che si tratta di un ostacolo che poco o nulla ha a che fare con la tattica per così dire d'alto mare, argomento che polarizza fin troppo l'attenzione di tutti. L'esperienza di Lissa non pesa un gran che, fino quasi a svanire lentamente con il tempo. Anche se di questa battaglia manca una storia ufficiale, essa viene comunque studiata, esaminata, citata da parecchi autori anche sulla Rivista Marittima, fino a far ammettere che la Marina ha fatto i conti con il passato. Su Lissa i pareri sono diversi: comunque tutti sono concordi sull'insufficiente azione di comando del Persano e ne traggono i dovuti, corretti insegnamenti. Tutto sommato le battaglie di Ya-Lu e Cavite e Santiago hanno assai meno importanza di Lissa: esse suonano sostanzialmente come una confcnna dell'efficienza del cannone già emersa da una corretta valutazione dei suoi progressi, con particolare riguardo al le artiglierie di medio calibro, che portano anche la Marina italiana ad accantonare i cannoni giganti, ai quali rimane fin troppo affezionata. In proposito si deve anche notare che tutti e tre gli ammiragli sconfitti (Persano, Ting, Montoyo, Cervcra ... ) non hanno mai saputo manovrare, né hanno mai tentato di farlo: ciò avviene prima di tutto perché in grado e misura diversi, lo strumento a loro disposizione era notevolmente imperfetto e nel complesso - al di là dei materiali - poco "rodato" e addestrato, quindi inferiore a quello avversario per capacità combattiva. In sintesi il periodo in esame va studiato e considerato come una specie di palestra, di campo sperimentale ove le strutture portanti del pensiero tattico del XX secolo ricevono un primo abbozzo, come tale non privo di interesse. Il Bonamico ha l'aria di considerarlo un periodo poco felice, come se le limitate acquisizioni in questo campo fossero demerito dei vari autori: ma oggettivamente non si poteva fare molto di più in un contesto generale tale da presentare molte, troppe variabili e da imporre troppo rapidamente degli adeguamenti tanto alla tattica che alla slTalegia, anche per effetto di costruzioni navali che tendono a camminare per loro conto, ad essere autoreferenziali e alla fin fine a uniformarsi in modo consistente, anche se non assoluto. Per questo le questioni tattiche tendono, a loro volta, a prendere distanze notevoli e non sempre necessarie sia dalle costruzioni navali che dalla strategia, contribuendo così anch'esse a creare "un 'età dell 'incertezza" nella quale solo il cannone e la linea di fila rappresentano acquisizioni solide raggiunte a fine secolo, insieme con un grande problema insoluto anche nel XX secolo: la vulnerabilità delle grandi navi e il valore delle anni di contrasto.
CAPITOLO V
LA TATTICA NAVALE DALL'INIZIO DEL SECOLO XX ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE: TRA CANNONE E ARMI DI CONTRASTO
Premessa Al confronto con il lungo periodo precedente, gli anni che vanno dall'inizio del secolo XX alla prima guerra mondiale portano di frequente, anche nel campo tattico, ad acquisizioni generalmente accettate nelle quali il rostro viene accantonato e il cannone acquista un ruolo preponderante e persino eccessivo, inducendo talvolta a non intravedere appieno il futuro ruolo del siluro (specie quando imbarcato su una piattaforma sommergibile), nonché della mina ancorata e dei mezzi insidiosi in genere. Contribuiscono a questo assestamento due eventi: la battaglia di Tsushima (1905), ultima della storia a flotte riunite combattuta solo con il cannone e il siluro e in assenza del mezzo aereo; la comparsa della Dreadnought (1906), prima corazzata "monocalibra" (pezzi principali da 305 mm) nella quale si tende a realizzare un ottimo equilibrio tra velocità, armamento e protezione, con una soluzione adottata per prima dalla Royal Navy ma accettata con sorprendente mancanza di obiezioni e con la massima rapidità da tutte le Marine, compresa una Marina tradizionalmente di ffidcnte dei grossi dislocamenti e della guerra di squadra come quella francese e una Marina povera come quella italiana, che pure aveva tutto da perdere dal confronto su questo terreno con le Marine maggiori e più ricche, a cominciare dalla francese. I nemici della corazzata, abbastanza numerosi e influenti nel la seconda metà del secolo XIX, perdono molto terreno. Nell'ultimo decennio del secolo anche gli Stati Uniti (dove banno grande seguito le teorie di Mahan, per una flotta di grandi navi sul modello inglese) iniziano la trasformazione della loro flotta costiera in una flotta oceanica, mentre anche la flotta francese dopo le dimissioni dell'ammiraglio Aube dalla carica di Ministro della Marina abbandona la poussère navale per tornare definitivamente alla costruzione di corazzate, che peraltro non aveva mai completamente interrotto. Giova rilevare che il calibro 305 mm della Dreadnought non è l'ultima espressione del generale ritorno al cannone e quindi a dislocamenti sempre maggiori, almeno presso le grandi Marine. La Royal Navy, prima a imboccare la strada della Dreadnought, ben presto la supera con le cosiddette Superdread-
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nougts, dapprima con la costruzione di corazzate con 1Opezzi da 343 mm (classe King George V - 25000 tonnellate, 19 I 1-1913) e subito dopo con le corazzate della serie Queen Elisabeth, già con 8 cannoni del canonico calibro 38 l mm (da allora in auge fino alla seconda guerra mondiale compresa) e, di conseguenza, con dislocamento di circa 28000 tonnellate. Anche la concorrente Marina germanica da 12 pezzi da 280 della classe Nassau (1908), dal 1913 in poi passa al 381 (corazzate classe Baden da 25000 tonnellate), mentre la Marina francese dai tipi Jean Bari del 1911 (12 cannoni da 305; 25000 tonnellate) passa alla classe Bretagne (1 O cannoni da 340; 28500 tonnellate). Infine l'U.S.Navy- grande Marina sempre più emergente - dagli 8 cannoni da 305 della classe South Carolina (1908-1913) e dai 12 da 305 dell'Arkansas (1911 - 28000 tonnellate) passa ai 12 cannoni da 356 della classe Pennsylvania (1915 - 33000 tonnellate). 1 Dopo la Dreadnought ci si trova dunque di fronte a un vero e proprio ritorno ai grossi calibri e alle forti corazze, con dislocamenti mai raggiunti. E anche se le corazzate vengono chiamate "monocalibre", esse sono pur sempre dotate di un cospicuo e crescente numero di calibri minori a tiro rapido. Oltre che a cause "industriali", questa evoluzione è dovuta sia al pro1::,rresso tecnologico (che consente di eliminare in buona parte i limiti dei calibri maggiori, a cominciare dalla bassa celerità di tiro, per contro aumentandone la gittata, la potenza e la precisione del tiro), sia all ' esigenza di difendersi meglio a fronte del continuo progresso del siluro, della torpediniera, del sommergi bi le e in prospettiva anche dell'aereo. Della Marina italiana si può dire sinteticamente che essa subito dopo Lissa, nonostante la comparsa del siluro e della torpediniera, è la sola ad imboccare la strada dei cannoni colossali e quindi dei grossi dislocamenti, con il Duilio e il Dandolo (1876) armati con 4 cannoni principali da 450 mm ad avancarica e con dislocamento di 12000 tonnellate. Tale strada è però abbandonata, sia sostituendo a fine secolo XIX i cannoni da 450 mm di queste due navi con altri da 254 mm, sia con le successive costruzioni di corazzate, che ricalcano le soluzioni europee fino alla Dreadnought. Dopo il varo della sua prima Dreadnought, invece, la nostra Marina è l'unica a non superare il calibro 305, entrando nella prima guerra mondiale con tale calibro massimo, e in questo caso discostandosi per difetto dalle soluzioni delle principali Marine. Infatti dopo essere passate dal calibro 450 del Duilio e Dandolo ai 4 pezzi da 431 a retrocarica con 16000 tonnellate di dislocamento dell'Italia e del Lepanto ( 1880), e sempre ai 4 da 431 della classe Doria con 12000 tonnellate di dislocamento (1885), le nostre corazzate subiscono una netta diminuzione di calibro con i 4 cannoni da 343 e le 16000 tonnellate della classe Sardegna (1890), per poi rag-
' Sulla tendenza al superamento del calibro 305 nelle principali Marine già prima della guerra mondiale si veda Gino Galuppini, Guida alle corazzale dalle origini a oggi, Milano, Mondadori 1978, pp. 190 e segg.
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giungere già il 305 con i 4 cannoni e le 15000 tonnellate di dislocamento della classe Brin (1901). Anche la successiva classe Vittorio Emanuele (l'ultimo pre-Dreadnougth) mantiene con dislocamento analogo il 305 sia pure diminuendo di numero i pezzi con tale calibro (da 4 a 2) e aumentando notevolmente i calibri intermedi (12 cannoni da 203). La primaDreadnought italiana (Dante Alighieri - 12 cannoni d 305, dislocamento 22000 tonnellate) viene varata nel 1910 ed entra in servizio nel 1913, con notevole ritardo rispetto alla prima Dreadnought inglese (10 cannoni da 305-1906). Quel che importa, anche la successiva classe di 5 corazzate tipo Cesare e Doria, entrata in servizio dal 1914 al 1916, mantiene nonostante il dislocamento più elevato di quello dell'Alighieri (25000 tonnellate) il calibro 305, con 13 cannoni di tale calibro; solo guerra durante verranno impostate - ma mai ultimate - altre corazzate con il calibro 381. Nel prosieguo dell' opera non emergono le ragioni della mancata o ritardata partecipazione della nostra Marina alla manifesta corsa al calibro maggiore da parte delle altre Marine, ivi compresa la Marina francese {sua nemica e suo termine di confronto fino all'inizio del 1915). Probabilmente non è estraneo a questo ritardo e non è casuale - l' analogo indirizzo costruttivo della Marina austriaca sempre più potenziale rivale, le cui 4 più moderne corazzate postDreadnought del la serie Viribus Unitis sono armate ancb 'esse di 12 cannoni da 305 con dislocamento di 21000 tonnellate (dati tra l'altro stranamente analoghi a quelli della Dante Alighieri). E il rostro? Le corazzate italiane e straniere, pre e post- Dreadnought, sono generalmente armate di tubi lanciasiluri e il loro scafo è dotato di rostro; ma tale arma si avvicina sempre più al tramonto, mentre i lanciasiluri sulle navi maggiori resistono oltre il dovuto.
SEZIONE I - Dall'inizio del secolo XX alla battaglia di Tsushima (1900-1904)
Tre importanti opere del primo anno del secolo: le "Questioni di tattica navale" del Makarov, "La guerra in mare" del Bollati, di Saint Pierre e i "Pensieri intorno alla strategia e tattica navale" del Baggio
Il XX secolo si apre con le tre opere di cui al titolo,2 di particolare importanza sia perché danno inizio a un periodo cruciale, sia perché esercitano una certa influenza sul pensiero terrestre e navale, almeno fino alla battaglia di
2 Cfr. Serghei Makarov, Questioni di tattica navale (forse 1896) - traduzione italiana a cura del capitano di corvetta Eugenio Bollati di Saint Picrrc, Torino, Casanova 1900 ( recensione del capitano di vascello G. Astuto in Rivista Marittima 1900, Il Trimestre Fase. Il, pp. 395-407); Eugenio Bollati di Saint Pierre, la guerra in mare (con prefazione di Enrico Barone), Torino, Casanova 1900; Filippo Bag-
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Tsushima. L'opera del Makarov (vds. anche cap. III) è in parte superata, perché pubblicata in Russia non prima del 1896, cioè dopo la battaglia di Ya-Lu ma prima della guerra ispano-americana del 1898; tuttavia la comparsa della traduzione italiana nel 1900 dimostra anch'essa che pochi anni prima del varo della nuova Dreadnought riscuotono ancora immeritato interesse, anche in Italia, idee favorevoli al rostro e tutto sommato poco propense ad assegnare al cannone e alla corazza la preponderanza assoluta teorizzata dal Gavotti e tipica delle costruzioni navali. Il Makarov predilige, come si è visto, la linea di fila, sia perché meglio delle altre si presta all'impiego del cannone, sia perché la giudica allo stesso tempo (ma a torto) la miglior formazione per l'offesa e la difesa, non con il cannone ma con il rostro, al quale dunque attribuisce ancora un rango superiore. Descrive poi minutamente, senza gerarchie e separatamente (questo è un errore), le prestazioni e le modalità ottimali d'impiego di ciascuna delle tre armi di base, ammettendo contradditoriamente che la tattica dello sperone è in contrasto con quella del cannone. Prende atto dei progressi del cannone, senza però indicare i vantaggi che la linea di fila presenta al suo impiego. Sopravvaluta il rostro fino a un punto tale da sostenere la necessità di rafforzare quelli esistenti. Tale sopravvalutazione rispetto al cannone è dimostrata anche dall'affermazione che secondo alcuni lo scontro prora contro prora di due grandi navi corazzate provocherebbe l'affondamento di entrambe, accompagnata però dal consiglio ai comandanti di non tenerne conto. Oltre tutto, a parere del Makaroffla linea di fila è "la sola formazione capace di essere mantenuta in battaglia, e colla quale possono dirigersi i movimenti della squadra''. La flotta dovrebbe essere ripartita in due divisioni, però tenendo conto unicamente della velocità delle navi e non del calibro dei cannoni e dello spessore delle corazze (suddivisione da bocciare). Le navi con dislocamento inferiore alle 1000 tonnellate (ma nel 1900, sono solo le torpediniere, i cacciatorpediniere e gli avvisi) non devono far parte della linea di fila e vanno destinate alla ripetizione dei segnali; anche le torpediniere dovrebbero costituire una divisione separata sotto un unico comandante. A questo punto il Makarov non è d'accordo con colore i quali sostengono che la formazione di una flotta può essere mantenuta solo all'inizio, perché lo scontro degenera ben presto in una mischia: "quest'opinione non è ragionata, perché i movimenti di ogni nave sono impediti dal movimento delle altre del proprio partito. Giova ricordare quanto sia difficile il manovrare nel raggio d 'azione di un altro bastimento, le cui intenzioni sono sconosciute". È possibile che la line si rompa, se le due squadre si avvicinano a tiro di pistola: ma in questo caso ciascuna nave deve fare il possibile per assumere di nuovo la formazione in linea di fila. Questa idea è dunque in contraddizione con la fiducia nell' impie-
gio, Pensieri intorno alla strategia e tattica navali, Roma, Bocca 1900 (si veda, in merito a quest'ultima opern, anche il lungo commento critico di Giovanni Roncagli in l 'idea nuova, " Rivista Marittima" 1900, ll Trimestre, Fascicolo l, pp. 19-58).
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go del rostro, che potrebbe avvenire solo rompendo la formazione e passando alla mischia. Ed è ancor più in contraddizione con l'ammissione che, secondo quanto pensano Napoleone e Lloyd, "non è facile stabilire regole per condurre una battaglia, ma quando pure fosse possibile, non saranno mai abbastanza complete per condurre alla vittoria",3 sulla quale pesa anzitutto il talento del capo; ma "volere" non è potere ... Benché nella guerra russo-giapponese (1904-1905) la nave corazzata sulla quale era imbarcato come comandante del la flotta sia affondata per urto contro una mina provocando la sua morte, anche il Makarov non menziona affatto questo tipo di vecchia arma, la cui efficacia era già emersa nella guerra di secessione americana 1861-1865; per lui esistono solo cannone, rostro e siluro. Osserva tuttavia che "i mezzi di difesa sono scarsi, e di qui la necessità di studiarne altripiù adeguati". Non essendo possibile assicurare l'invulnerabilità di una nave, occorre salvaguardare la sua capacità di galleggiare e di continuare a combattere, anche dopo aver subìto perforazioni subacquee. A suo discutibile parere non conviene costTuire navi specializzate; ogni nave deve imbarcare tutti e tre i tipi di anni principali e il dislocamento delle unità maggiori dovrebbe essere limitato a sole 3000 tonnellate, "difendendo con leggera corazzatura macchine, caldaie, munizioni, contro le schegge dei proietti esplodenti" e sistemando i cannoni esclusivamente in coperta. Dopo queste irrealistiche pretese, attribuisce contradditoriamente grande importanza alle torpediniere, asserendo che "la forza di una nave non è determinata dalla dimensione, poiché una piccola torpediniera può affondare una grossa nave". Si diffonde perciò sul loro impiego diurno e notturno senza esprimere dubbi sulla loro capacità di tenuta del mare, tanto da affermare che "la burrasca è una delle migliori condizioni per l'attacco torpediniero". Naturalmente la sua fiducia persino eccessiva nel naviglio di piccole dimensioni deriva dalla sfiducia nelle grandi navi, giustificata con argomentazioni analoghe a quelle della Jeune École (peraltro da lui mai citata): se immaginiamo un incontro e una lotta fra un colosso di 15. 000 tonn., tipo Magnificcnt, e cinque navi di 3000 tonn. del tipo proposto da Armstrong, ma con l'artiglieria da me indicata, probabilmente l'esito della lotta non riuscirebbe favorevole al colosso [... ]. / vascelli d 'una volta erano di 4000 tonn., e questa dimensione si riteneva sufficiente; si riteneva allora che le dimensioni determinassero la forza, per cui quanto più grande era il vascello, tanto maggiore era la sua forza. Ora vive la forza non è determinata dalla dimensione, poiché una piccola nave [come la torpediniera - N.d.a.J può affondare una grossa nave.
Tra i difetti delle grandi navi rispetto alle piccole egli indica: l) la maggiore difficoltà di manovra; 2) i maggiori danni che soffrono anche in caso di
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Makarov, Op. cit., pp. 269-270.
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guasti minimi; 3) l'impossibilità per l' equipaggio di combattere sotto gli occhi del comandante, e quindi di essere da lui incoraggiato; 4) la maggiore diffico"ttà di distribuire le munizioni; 5) la maggiore difficoltà di collocare i pezzi in condizioni favorevoli rispetto all'angolo di tiro; 6) i gas sviluppati dalla polvere senza fumo nelle torri corazzate hanno un effetto esiziale sull'organismo; 7) con le grandi navi il numero delle promozioni è limitato; gli ufficiali sono perciò promossi comandanti in età troppo avanzata e non possiedono più l'energia e l'audacia necessarie per svolgere bene i loro compiti; 8) con le grandi navi lo sgombero e la cura dei feriti è più difficile, perché tutto lo spazio sotto il livello dell'acqua o riparato dalle corazze, diversamente dal passato è occupato dalle macchine, dalle munizioni e dai cannoni. In conclusione i difetti delle grandi navi mi sembrano di tale entità, da preferire quasi tutte le navi non corazzate pel bombardamento delle fortificazioni. È impossibile combattere senza p erdite sia per i cannoni che per i siluri, e dal momento che le grandi navi non sono sicure dalla rovina, non sarebbe meglio rinunciare alla corona anche per le navi che bombardano iforti?4
L'avversione del Makarov alla corazza non è smentita della recente battaglia dello Ya-Lu, che secondo la communis opinio - e non solo secondo il Gavotti - ne conforma l'efficacia (non contestata nemmeno dal Bonamico). Egli invece è di parere opposto: il fatto che la corazzata Chen-Yuen e la gemella Ting-Yucn hanno resistito con successo [al fuoco giapponese] è considerato come una vittoria della corazza. Noi abbiamo visto il Chen-Yuen e abbiamo scorto che non era questione di corazza, ma bensì di proietto. T Giapponesi avevano granate meschine, e la battaglia di Ya-Lu confermò una volta di più la vecchia storia, che le corazze non siforano con cattivi proietti. Gli incrociatori [giapponesi] a YaLu annientarono, è vero, qualche nave corazzata [cinese], mentre due delle più rapide riuscirono a sjùggire, lasciando che i Giapponesi finissero le altre, ma questo fatto è stato male interpretato. Si ritiene che la corazza rimase la vincitrice della battaglia, però non si deve dimenticare che è un huon cannone quello che dà la vittoria, mentre la corazza è capace soltanto di ritardare la disfatta. L'opinione nostra sui tipi di nave rimane la stessa...
Dunque per l'ammiraglio russo servono buoni cannoni, ma la corazza è addirittura superflua; nessun accenno al mancato impiego del rostro (e anche del siluro, almeno nello scontro tra le due flotte). Queste affermazioni non condivisibili hanno tuttavia il merito di toccare i punti più controversi della tattica e strategia navale del tempo, e quindi di fungere da stimolo e da elemento di riflessione. Altro suo merito è di affrontare una questione tuttora assai controversa, riguardante l'esercizio effettivo del dominio del mare. Fino a poco tem-
• ivi, pp. 349, 359 e 361.
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po fa- egli afferma - sulle tracce del Mahan e del Colomb si è ritenuto che chi conquista il dominio del mare può liberamente disporre del mare stesso; ma al momento "gli stessi.fatti consigliano al vincitore di evitare un attacco notturno di torpediniere, di navigare a fari oscurati e a buona andatura. Se la flotta vittoriosa non osserva queste precauzioni, potrà perdere qualche unità nella prima notte d'attacco, e perderne ancor più nelle susseguenti". Di conseguenza, alcuni scrittori stranieri si chiedono "se è propriamente concepibile, che una flotta vittoriosa debba proteggersi dai resti di un nemico sconfitto". Qui i I Makarov tocca una questione della massima importanza, più tardi affrontata dal Sechi (vds. Cap. il) e dal suo allievo Bemotti: cioè la difficoltà di ottenere un dominio del mare assoluto con i nuovi mezzi di contrasto (al momento torpediniere, ma più tardi sommergibili e aeroplani). Il traduttore comandante Bollati di Saint Pierre opportunamente commenta a piè pagina: "se una flotta vittoriosa deve ancora difendersi dai resti di un nemico sconjìtto, vuol dire che essa non ha ancora ottenuto il dominio del mare[... ]. Oggi è più dij}ìcile conseguire quel dominio per la comparsa di nuovi tipi di navi che aumentano le dijficoltà di quel conseguimento, e se lo sconfitto ha ancora torpediniere capaci di combattere, il vincitore non ottiene il dominio del mare. Il dominio del mare non ammette compromessi, né sottolineazioni. Vì è, o non vi è". Da queste affermazioni del Bollati ci sembra dunque lecito dedurre che già in quel momento anziché di difficoltà di conseguire il dominio del mare sarebbe meglio parlare di impossibilità di conseguirlo, data l'impossibilità pratica di distruggere tutte le torpediniere nemiche. Di conseguenza, per effetto dell 'impiego tattico delle nuove anni più che parlare di dominio si dovrebbe parlare di controllo del mare, o di ricerca del la superiorità marittima; senza contare che ne viene indirettamente svalutata anche la battaglia tra flotte di grandi navi, i cui effetti - come già afferma il Bonamico - raramente sono decisivi. Dove il Makarov dà il meglio di sé è nelle considerazioni a carattere generale, in gran parte ancora attuali. Giustamente lamenta che "se ci.facciamo a guardare indietro, vediamo che gli studi in artiglieria, macchine e siluri, si svilupparono regolarmente come scienze indipendenti, o quasi; ma la costruzione navale, che è più da vicino collegata al progresso navale, mostra tracce di indeterminatezza nel suo sviluppo". In particolare una grande confusione regna anche nello studio dello spessore e della distribuzione della corazza sulle navi, mentre "l'incertezza è ancora più sensibile riguardo ai tipi di navi. Ogni sforzo essendosi concentrato nel fare ogni nave migliore della precedente, la confùsione nata è stata grandissima". Egli ha anche il merito di ricordare che nel campo tattico ciò che in ultima analisi vale non sono le armi ma l'uomo, e che non esistono regole fisse, immutabili, adatte a tutte le circostanze; anche sul mare, come già solevano affermare Clauscwitz (da lui espressamente citato) e Suvorov, viene prima di tutto il talento del Capo. Prende pertanto come modello Nelson, il cui scopo principale è sempre stato quello di distruggere il nemico facendo massa sul suo punto più debole, e difende con abilità l'ammiraglio inglese dalle critiche del-
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lo storico suo compatriota Jamcs (il quale non lo giudica un abile tattico, visto che la sua tattica consisteva semplicemente nell'avvicinarsi il più possibile al nemico e sconfiggerlo il più rapidamente possibile) e dell'ammiraglio e scrittore navale francese Jurien de la Gravière (che lo definisce poeticamente "un felice fanciullo della fortuna, anziché un paziente adoratore dei suoi favori"). Del modello nelsoniano prende anche tutto il resto: la necessità e l'utilità di rischiare quando necessario, la cura per la salute e il morale degli equipaggi, la capacità di adottare decisioni rapide assumendosi le proprie responsabilità senza bisogno di consigli di guerra ( che pertanto sono inutili e dannosi), la necessità di riunire i comandanti prima di uscire dal porto e prima della battaglia comunicando loro con chiarezza le proprie decisioni ecc. La conclusione del Makarov è che non vi sono esempi di guerre navali moderne, pertanto nella condotta della guerra bisogna confidare nel buon senso più che nei precedenti storici, che sono completamente insufficienti. Comunque dalle due più recenti battaglie (Lissa, ove l'ammiraglio Persano con la flotta la linea di fila è sconfitto da Tagetthoff, con la flotta ad angolo, e Ya-Lu, ove è avvenuto il contrario) egli realisticamente deduce che la vittoria.fii perduta nel primo cusu e guadagnata null'altro, non a cagione di una formazione più che dell'altra, ma per altre cagioni. Non si possono fondare conclusioni tattiche sulla formazione con gli esempi sopra citati; essi servono soltanto a confermare la verità, che il partito che ha meno audacia perderà sempre.
Si deve però osservare che l'ammiraglio russo non dà il dovuto peso ai progressi del cannone e della corazza, anche se la sua scarsa fiducia nella grande nave corazzata trova sostanziale conferma nelle due guerre mondiali. Questi limiti, che non avrebbero potuto essere tali venti o trent'anni prima, sono assai poco ammissibili a fine secolo XlX e inducono a considerarlo un autore interessante ma da leggere con cautela, anche senza considerare il suo riferimento troppo esclusivo a una strategia offensiva e alla battaglia navale (cosa che fanno molti altri autori navali coevi), per di più da condurre con armamenti ( e quindi dislocamenti) modesti. Sono un pregio anche le numerose citazioni del libro notate anche dal recensore italiano comandante Astuto, del quale vanno condivise due critiche al Makarov: 1) "non ha resistito alla comune tentazione dei casi particolari di manovre di combattimento, che hanno generalmente il pregio di far Jàre ali 'avversario quello che ali 'autore o al conferenziere meglio conviene"; 2) dopo aver criticato la Marina tedesca, perché nella guerra 1870-1871 non ha nemmeno tentato un attacco torpcdiniero, egli ricorda che invece nella successiva guerra russo-turca del 1877 la Marina russa ha tentato con varia fortuna attacchi torpedinieri, attribuendo tale reattività al maggiore spirito d'iniziativa e alla maggiore capacità di improvvisazione del carattere russo, contrapposti alla capacità organizzativa tedesca. In proposito l'Astuto giustamente dichiara di preferire - diversamente dal Makarov - il metodo tedesco, tanto più che esso non esclude lo spirito d'iniziativa, ma ne è la base sicura.
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Per ultimo la traduzione italiana del libro reca ben visibile sul frontespizio il motto "Ricordati della guerra!", a significare che una marina esiste solo per combattere con vantaggio, quindi nel tempo di pace non bisogna lasciarsi distrarre - come può facilmente avvenire - da altri scopi. Tale motto è accompagnato dall' ormai consueta insistenza sulla necessità di battere l'avversario in battaglie classiche a flotte riunite; né trattando delle formazioni, egli dà molta importanza a quelle dell'avversario. L'esigenza assoluta e pregiudiziale di battere l' avversario - a ragione criticata, come si è visto, dal pur benevolo recensore comandante Astuto - è pienamente recepita dal comandante Bollati di Saint Pierre nel suo libro La guerra in mare (pubblicato anch'esso nel 1900, con prefazione del colonnello Barone - vds. Tomo I, cap. V), le cui basi sono le lezioni di arte militare marittima tenute dall'autore alla Scuola di Guerra dell'Esercito di Torino, ai cui ufficiali frequentatori è dedicato. Nell'introduzione il Bollati dichiara di aver voluto scrivere non già la teoria della guerra marittima, né tanto meno un trattato di arte militare, ma un compendio elementare di ciò che da altri fu esposto più particolarmente su ogni singola disciplina navale, suffragando il suo dire "con l'appoggio della storia ogniqualvolta me ne venne porta l'opportunità"; in realtà il suo è invece un vero e proprio trattato di arte militare, con interessanti riferimenti agli autori militari del secolo XIX, numerose citazioni e cenni anche al modo di fare storia navale. Siamo costretti a trascurare questo notevole patrimonio insieme con quello di carattere strategico, riservandoci di riprenderlo quando e dove sarà opportuno e limitandoci per il momento alle questioni tattiche. Sotto questo profilo, fin dall'inizio non sempre meritatamente il Makarov appare di gran lunga il riferimento primario del Bollati, che persino nel frontespizio del suo libro ne riprende il motto che "lo scopo essenziale da raggiungere nella guerra in mare è battere la flotta nemica", scopo nel quale si è sempre compendiata anche l'arte militare napoleonica. E già nella presentazione al lettore critica - richiamandosi al Mahan - il di fensivismo strategico tipico in passato della flotta francese e ripreso dalla Jeune École, sbrigativamente trascurando che tale difensivismo può essere una scelta obbligata - quindi opportuna - per una flotta inferiore, fino ad affermare (con scarso realismo se non con faciloneria) che Una marina, anche inferiore, non deve tralasciare il compito dell'ojjènsiva e non deve trascurar di lottare per il dominio del mare [che, peraltro, come afferma il Makarov, è ditlìcilc da ottenere persino per una flotta superiore N.d.a.]. Supplisca colla qualità al numero; abbia comandanti più audaci, artiglieri più esperti, macchinisti più pratici.fuochisti più abili, e la.fortuna le arriderà, se nella condotta della guerra s'inspirerà al concetto che.fino all'ultima torpediniera, tutto vuol essere impiegato per battere la flotta avversaria. 5
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Dollati, Op. cii., pp. IX-X.
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È una parola! E se non esiste - come spesso accade - un sufficiente scarto di qualità? Non per nulla il colonnello Barone, pur concordando con l'affermazione che lo scopo essenziale della guerra in mare è battere l'avversario, di fatto la annacqua ricordando con elementare buon senso che una flotta inferiore non deve intraprendere una strategia e una tattica offensiva per partito preso, ma deve combattere se, quando e come lo ritiene conveniente perché le circostanze lo consentono, cosa peraltro intuitiva. Del resto lo stesso Bollati, pur sostenendo in opposizione alle tesi dell'ammiraglio Aube e del Bonarnico che "la guerra che contempla l'urto di due flotte non èfinita, né accenna a finire: predomina sempre l'idea di conquistare il dominio del mare, ...", quando tratta delle operazioni marittime non manca di accennare anche al nodo di condurre attività rientranti in un atteggiamento difensivo da parte di una flotta inferiore per quantità, per qualità o per ambedue, che evidentemente non può lottare per il dominio del mare ma solo ostacolare la sua conquista defmitiva da parte dell'avversario. E pur richiamando ancora il concetto elementare che la vittoria non dipende solo dal numero, scrive che non sarà sempre probabile il caso che una.flotta tenti l'q[(esa con.forze minori. Ciò peraltro accade e potrà ripetersi. Dato che ciò avvenga, l'attaccato [cioè la flotta superiore - N.d.a.] si troverà nelle condizioni migliori e potrà agevolmente conseguire il suo scopo, che è quello di proteggere le sue coste [perché? il suo scopo potrebbe anche essere diverso, anzi è più frequente che esso attacchi le coste nemiche - N.d.a.], giacché il nemico [inferiore di forze - N.d.a.] non si esporrà sicuramente da temerario al pericolo di essere distrutto, ma agirà cautamente, tentando qualche azione parziale che possa compensarlo della sproporzione delle forze, e allora l'attaccato potrà avere buon gioco per indurlo a battaglia in condizioni tali da poterlo sopraffare[... ]. Se la.flotta della difesa è inferiore a quella dell'offesa, non le converrà, se non in casi eccezionali, avventurare d'un solo colpo le sorti della guerra in un solo combattimento... 6
Superfluo rilevare che quest'ultima frase, anch' essa attinente più che altro al comune buon senso e la cui validità è confermata dal Bonamico, è in patente contraddizione con la precedente sottolineatura dello scopo unico e vincolante della guerra marittima, valido solo se si ha decisa superiorità di forze, in una parola: per le marine dominanti, tra le quali certamente non è quella italiana del tempo! Con ancor maggiore precisione il Bollati aggiunge che la flotta inferiore deve uscire al più presto dai centri difensivi per non farsi bloccare; più in generale (e qui egli cita Mahan e Bonamico), "la condotta delle operazioni della flotta di difesa, quando più debole, deve essere informata a questo concetto: impedire fino al limite massimo del possibile che il nemico si renda padrone del mare". Pertanto il suo compito consisterà in "diversioni, attacchi
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ivi, p. 159.
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rigorosi e arditi; minaccia d'interruzione delle comunicazioni dell'avversario, e soprattutto non accettare uno scontro decisivo, anche se vi fosse minaccia di bombardamento di qualche città litoranea". Dopo queste parole che Bonamico avrebbe integralmente sottoscritto, e che - dopo lo stesso Bonamico - il Bollati ha il merito di usare per primo, egli accenna alla necessità che la flotta attaccante tenda anzitutto a distruggere l'avversario, così conquistando il dominio del mare. Se invece si limitasse a bloccare l'avversario in un porto, dovrebbe dividere le sue forze per mantenere il blocco e per raggiungere al tempo stesso gli altri suoi scopi, cosa che potrebbe diventare pericolosa a meno che essa non disponga di ''.forze ultrapotenti'', come ha sempre fatto l'Inghilterra [ma solo l'Inghilterra - N .d.a.) in tutti i mari del mondo. A questo punto sembra chiaro il riferimento della marina francese del tempo, assai superiore alla nostra: solamente dopo che [la flotta superiore] sia riuscita a distruggere, disperdere o bloccare effettivamente le forze del nemico ed a conquistare il dominio del mare, potrà impedire anche la mobilitazione dell'esercito della difesa per le vie litoranee; tagliar fiwri le isole del continente, rompendone le comunicazioni, impossessandosene per formare basi d'operazione eventuali; potrà injìne procedere impuneamente, a limitate o estese azioni contro la costa. come, quando e dove le tornerà più opportuno. 1
Ricordiamo che questa affermazione, concordante con l'impostazione del Bonamico, induce quest'ultimo a indicare la necessità che la flotta italiana eviti la battaglia, lasci in being in porto le navi maggiori e si limiti ad attaccare con navi ad hoc, molto veloci, i convogli di sbarco francesi. Inoltre la predetta affermazione è stata smentita in buona parte dalla guerra cino-giapponese, nella quale la presenza della flotta cinese - battuta e danneggiata, ma non distrutta - nella base di Wei-Hai-Wei, non ha affatto trattenuto la flotta giapponese dall'effettuare sbarchi in forze nella vicina penisola. Però il Bollati non tiene conto di queste non trascurabili interfacce e mostra come tutti di preferire la solita prospettiva dello scontro tra flotte riunite, soffermandosi sulle differenze tra la tattica e strategia del periodo del vapore e quella del periodo velico, con considerazioni dalle quali traspare il condizionamento determinante esercitato dalla tattica del momento sulla strategia. A suo parere la tattica, in questi ultimi anni, ha acquistato un 'influenza preponderante. T principi già così semplici della strategia, potrebbero per questo fatto restringersi ancor di più, o per meglio dire, condensarsi. Si potrebbe, per esempio, comprendere tutta la strategia in un solo enunciato semplicissimo: ottenere la rapida accumulazione delle forze. Quest 'enunciato impone la soluzione di due questioni: la potenza di concentrazione in un punto; la esattezza e la sicurezza della manovra. Queste due questioni appaiono a prima vista semplici, ma
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ivi, pp. 161-163.
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esse compendiano la tattica, e sono oggi più che una volta complicate e difficili a realizzarsi.
In proposito il Bollati cita uno scrittore francese della seconda metà del secolo XVTIT, il Morogues, secondo il quale "la tattica navale è basata sopra certe condizioni, la prima delle quali è che le armi possono cambiare; ciò causerà necessariamente un mutamento nella costruzione delle navi, nella capacità di manovrarle e jìnalmente nell'ordinamento e nel modo di combattere delle flotte". 8 Comunque più che le armi per lui continua ad avere importanza come nel periodo velico - la manovra: "il principio che è latente sotto la combinazione tattica, di scegliere, cioè, quella parte dell'ordine nemico che meno facilmente può essere soccorsa e schiacciarlo con forze superiori, non è men vero oggi che allora".9 Come osserva anche il Mahan - prosegue il Bollati - la storia dimostra che i mutamenti della tattica in seguito all'introduzione di nuove armi non avvengono subito, ma dopo un lasso di tempo assai più lungo del necessario; "questo proviene senza dubbio dal.fatto che il perfezionamento delle armi è opera di uno o due uomini, mentre il cambiamento della tattica deve vincere l'inerzia delle menti conservatrici: ma questo è un gran male". D'altra parte (tesi non certo originale) la tattica moderna non ha come al tempo della vela una base positiva ben definita, perché la mancanza di grandi guerre nel!'epoca moderna non ha ancora consentito di stabilire con sicurezza nuove teone. Due fattori che non sono cambiati sono l'uomo e il mare; ma " oggi che si passò dal cannone da 100 a quello rapido, dalla nave gigante alla minuscola, dalla velocità della nave a vela a quella vertiginosa dei cacciatorpediniere la tattica è tutta, si può dire, ne/l'ignoto" e dipenderà essenzialmente, oltre che dai meccanismi, dal carattere <lei comandante supremo, dalla stagione, dalle condizioni meteo al momento dell'azione, e da un'infinità di altri fattori difficili da definire. Dopo queste esagerate valutazioni, che non chiariscono ma offuscano un ' indubbia realtà, il Bollati riscontra un' inesistente diffcrcnz,a tra tattica della vela e del vapore: a suo parere mentre la tattica navale dei tempi della vela si occupava "esclusivamente" del modo con cui si regolavano i movimenti delle navi [il che non è vero; si cercava prima di tutto di ottenere il massimo rendimento del fuoco, onde battere e possibilmente distruggere l'avversario - N.d.a.l, "oggi la tattica deve occuparsi di quei movimenti in relazione ai dffferenti tipi delle armi, ed al modo con cui si può ottenere il massimo rendimento da ognuno dei fattori di potenzialità delle navi''. 10 Affermazione valevole anche nel periodo velico, se si eccettua il fatto che, allora, l'arma unica era il cannone; la manovra non è fine a sé stessa...
8 ivi, pp. 223-224. • ivi, pp. 224-226. IO ivi, r- 226.
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Dopo queste premesse il Bollati - diversamente dal Makarov e come il Gavotti e tanti altri - insiste sull'importanza della velocità, che consente di ricercare a seconda delle convenienze il contatto con il nemico, oppure di sfuggirlo. A proposito del cannone si discosta dal Makarov, categoricamente affermando che "il buon impiego delle artiglierie senza alcun dubbio, salvo il caso fortuito d 'urto o di siluro, deciderà le sorti della giornata"." Sottolinea però giustamente che ciò può avvenire solo alla condizione che siano addestrati bene i cannonieri, ricordando che a Cavite e Santiago gli americani ebbero perdite trascurabili in confronto a quelle degli spagnoli, che dunque "non seppero tirare, [perché] i loro cannonieri erano inabili e impreparati''. Bisogna inoltre raccomandare ai comandanti delle torri corazzate - come ha fatto l'ammiraglio lto prima della battaglia dello Ya-Lu - di tirare non alle linee di galleggiamento, che sono protette da corazza, ma alle sovrastrutture. Non prende direttamente posizione contro i cannoni giganti (c, di conseguenza, contro i grandi tonnellaggi) ma si associa agli ammaestramenti tratti dalla battaglia dello Ya-Lu a cura del Bonamico, secondo il quale non si possono formulare giudizi definitivi sulle grosse artiglierie, perché sono mancate battaglie navali tra navi di grnnde potenza. Comunque il tiro rapido dei mcdi calibri si è dimostrato di efficienza risolutiva contro navi non protette, ma non ha avuto la possibilità di dimostrare pari efficienza contro navi protette; d'altra parte le piccole navi a causa delle loro scarse doti marine sono una piattaforma poco adatta ad utilizzare le possibilità tattiche del tiro rapido, mentre le piccole artiglierie si sono rivelate troppo vulnerabili. In conclusione, "la riduzione dei calibri, cogli aumenti delle perforazioni e delle gittate, pare sia una conseguenza logica degli insegnamenti recentf'. 12 Rostro e siluro sono erroneamente messi sullo stesso piano dal Bollati, che per il rostro cade in contraddizione: da una parte come si è visto, definisce ''J<_,rtuito" il suo impiego, dall'altra come il Makarov accenna alla possibilità che almeno uno dei contendenti (o tutti e due) ricorrano al loro impiego. Fatto, quest'ultimo, che riconosce assai più raro, citando l'ammiraglio inglese Randolph per il quale "agire così non sarebbe dimostrar valore, ma sciuparlo; la guerra non sarebbe più un 'arte militare, o un cercar vittoria anche a caro prezzo, perché con ogni probabilità nessuno dei due sopravviverebbe a cogliere gli allori" .13 Secondo il Bollati le navi costruite appositamente per l'urto, che al momento sono in servizio presso la Marina americana o inglese, hanno parecchi di fotti, perché non posseggono altri armamenti oltre allo sperone e sono poco adatte a tenere il mare; quindi "val meglio attenersi al concetto che ogni nave da guerra, purché solida e ben costruita, è per sé stessa un ariete e può, come tale, essere impiegata quando si presenti un 'occasione favorevole". 14 Al silu-
"ivi, p. 229. 12 i vi, p. 232. 13 ivi, p. 228. 14 ivi, p. 232.
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ro dedica solo poche righe, senza accennare al grande avvenire di quest'arma e prevedendo il suo impiego solo in passaggi controbordo e con lanciasiluri subacquei. Le predette considerazioni sono riferite ai siluri imbarcati sulle navi maggiori, ma esse non impediscono al Bollati di considerare attentamente le forme d'impiego delle torpediniere, fino ad affermare senz'altro che "con neb-
bia, o di notte, o con cattivo tempo le piccole navi con poca pescagione, armate di siluri, sono più forti che le corazzate", mentre invece di giorno "il più forte è il più grande". Ad ogni modo quando non è possibile evitare un attacco torpediniero è meglio che le grandi navi rimangano su bassi fondali, perché se vanno a picco non affondano completamente e l'equipaggio ha la possibilità di salvarsi. Per contro le torpediniere devono cercare di attaccare con fondali più alti, perché così la distruzione delle navi sarà completa. Quando tratta delle formazioni il Bollati contraddice la sua precedente affermazione che nella tattica del momento non vi possono essere regole, e commette anch'egli l'ormai consueto errore di trattare l'argomento in astratto, senza considerare consistenza e atteggiamento del nemico. Come il Gavotti e il Makarov accenna alla necessità di evitare la mischia, che sarebbe a suo parere dimostrata anche dalla condotta della battaglia dello Ya-Lu da parte di ambedue i comandanti. Ammette che i requisiti di una buona formazione di combattimento sono difficili da realizzare tutti insieme e anche per questo "il concetto d'attacco che si vuole sviluppare e le particolarità di costruzione delle navi impiegate debbono, in una certa misura, dettare la natura delle formazioni da adottarsi". 15 In tal modo, oltre ad escludere il nemico, egli dà per scontato un atteggiamento offensivo da parte di ambedue le squadre, che all'inizio, quando non è ancora chiara la situazione, potrebbe anche mancare, mentre combattimento durante le fasi offensive e difensive di una flotta potrebbero anche alternarsi, fino alla mossa decisiva. Sempre riguardo alle formazioni osserva che le idee sono disparate, perché manca l'esperienza di grandi battaglie; cosa che per la verità andava bene fino alle due ultime battaglie del secolo XlX. Descrive poi vari tipi di formazione e individua correttamente i difetti sia della formazione in fila che di quella di fronte: ciò converrehhe, p er esempio, per una mischia, oppure per l'uso dello sperone e del siluro non è più conveniente per un comhattimento [con l'artiglieria]. Una linea semplice, sia essa di fila o difronte, ha questi inconvenienti: le sue estremità sono deboli, occupa un grande specchio d'acqua, la fona non è concentrata e l'attacco del nemico può succedere sopra una sola parte della flotta. Si aggiunga che la linea di fronte paralizza le bordate [cioè i tiri con i cannoni di fianco - N.d.a.] ed impone un attacco colla prora il cui risultato, se il nemico lo incontra in una formazione analoga, sarà una mischia nella quale le flotte si romperanno in un numero isolato di unità e la fortuna deciderà il
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ivi, p. 257.
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risultato. Una simile jòrmazione può anche essere girata alle ali quasi impuneamente, perché i faochi laterali sono mascherati, eccettuati quelli di un lato di una sola nave. 11•
Le predette considerazioni sulla linea di fronte sono ormai fuori tempo, perché essa è da sempre adatta soprattutto per il rostro, non si presta all'impiego dell'artiglieria sia in torri girevoli che ai lati, è poco flessibile ecc. ecc.: tutti limiti che ritroviamo anche negli autori di parecchi anni prima. Comunque, citando vari autori assai autorevoli (Mahan, Bonamico e naturalmente il Makarov, al quale presta fede più di tutti) il Bollati si dichiara a favore della linea di fila, sia pur considerando solo il cannone. Afferma infatti che quest'ultima è la miglior formazione se il nemico non prende caccia; è la formazione normale per incrociare; con essa si compiono facilmente dei cambiamenti di direzione e formazione; le bordate [sui fianchi] sono libere; non c'è nessun pericolo di sparare sulle navi amiche e le navi mantengono facilmente il loro posto; i segnali possono essere ridotti al minimo, sempre che l'ammiraglio abbia fatto conoscere in anticipo le sue idee; il fuoco per chiglia [cioè Lungo l'asse longitudinale della nave - N.d.a.l si può ottenere rinforzando opportunamente la testa con altre navi, o anche trasformando la linea di fila in linea di rilevamento. Sempre a parere del Bollati va a favore di questa formazione anche il fatto che è stata adottata con successo nei tempi passati, perché i principi sono sempre gli stessi. Al confronto la formazione a gruppo, sostenuta anche dagli esponenti della Jeune Écofe, fornisce un buon bersaglio al tiro nemico, manca di elasticità e aumenta il rischio che le navi possano colpirsi tra di loro. Anche riguardo all'impiego delle torpediniere il Bollati non fa che riprendere le idee del Makarov. Premesso che i loro attacchi spesso possono riuscire letali di b>iomo e con bel tempo, esse devono essere mantenute fuori formazione e fuori tiro. Se le torpediniere nemiche attaccano prima della battaglia ed è possibile intercettarle a distanza dalla nostra formazione, si può prendere in esame la convenienza di mandare loro contro le nostre o meno; se invece il tempo non consente uno scontro tra torpediniere e distanza, si può metterle subito al riparo della nostra linea per non ostacolare il fuoco delle nostre artiglierie. Quando invece le torpediniere nemiche attaccheranno la nostra linea, "se vi è tempo, ancora la miglior cosa è di volgere loro la poppa per tenerle a lungo sotto il fuoco. In caso contrario non resta che metter la prora sopra loro, ma certo, con minor vantaggio di prima"; in ogni caso il loro impiego più conveniente è alla fine della battaglia e contro un nemico già vinto. È anche prevedibile che "fra qualche anno nessuna marina avrà più torpediniere al seguito delle squadre, ché saranno accompagnate dai cacciatorpediniere o destroyers"; in ogni caso i criteri d'impiego per questi ultimi sono gli stessi delle torpediniere, anzi "le probabilità d 'insuccesso. p er i cacciatorpediniere, ne-
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gli attacchi diurni aumenteranno senza dubbio, causa il maggior bersaglio che o.ffrono" . 11 A quest'ultima valutazione scentrata, anche se almeno in parte corrispondente alla communis opinio del tempo, il Bollati ne aggiunge un'altra anch'essa ormai corrispondente alla communi opinio, oltre tutto vecchia di un secolo, perché già tipica della tattica di Nelson: nella battaglia tra flotte bisogna cercare la completa distruzione del nemico, mediante la concentrazione di una forza preponderante [sarebbe meglio dire "delfuoco" - N .d.a.] contro una sola parte del nemico, per poi attaccare tutto il resto dopo averla annientata. Infine il Bollati è tra i pochissimi autori navali del tempo a preoccuparsi degli approvvigionamenti e dell'impiego nazionale del personale. Egli si riferisce evidentemente alla sola logistica di distribuzione, quando afferma che "la logistica terrestre è ben più ampia e di difficile applicazione, che non la logistica navale". Giudizio sul quale ci sarebbe molto da discutere, perché sono importanti tutti e due, visto anche che è così da lui motivato: in terra la dij]ìcoltà principale proviene dai trasporti dei mezzi di sussistenza e di combattimento che debbono seguire gli eserciti, e quella dijfìcoltà può essere, qualche volta, quasi insormontabile, come accade ora agli inglesi nel presente conflitto [anglo-boero]. Tn mare ciò non succede, perché la nave porta tutto nel suo seno, risparmiando all'uomo qualunque disperdimento di jòrze. 18
Per i viveri egli aggiunge - non vi sono difficoltà, perché ogni nave può portarne al seguito una scorta fino a tre mesi, mentre essa in un tempo più breve sarà obbligata a toccare comunque terra per rifornirsi di carbone. Infatti "le navi moderne sono terribili divoratrici di carbone", tanto che (e qui egli esagera) "la guerra navale moderna si riduce a una questione di carbone", perciò la nazione che può rifornire a sufficienza le sue navi di combustibile " ha la certezza della vittoria, indipendentemente da tutte le altre casualità". Sarebbe stato sufficiente dire che il possesso nella zona delle operazioni di buone basi che consentano il rifornimento e il raddobbo è condizione necessaria (anche se non sufficiente) per la vittoria, cosa che egli invero fa più avanti, indirettamente ma chiaramente facendo emergere che la logistica navale mette alla prova il buon senso e la perizia dei comandanti e dei direttori di macchina, in modo da calcolare e graduare accuratamente il consumo di carbone in relazione alle missioni da compiere. T comandanti dovranno approfittare di tutte le occasioni per tenere la loro nave sempre al completo delle dotazioni necessarie, curando inoltre la tempestiva riparazione e manutenzione delle macchine, delle caldaie e di tutte le armi e attrezzature di bordo. Ad esempio, nella recente
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1 •
ivi, pp. 275-276. ivi. p. 278.
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l:,'1lerra ispano-americana le principali navi spagnole per evidente difetto di manutenzione non poterono sfruttare la loro superiore velocità (sulla carta) rispetto a quella delle navi americane, che riuscirono a raggiungerle. Da queste ultime, giuste riflessioni del Bollati appare ben chiaro che, sia pur sotto diverse forme, il problema logistico navale non presenta certo difficoltà minori di quello logistico terrestre, per non parlare della logistica di produzione nella quale la domanda di tecnologie e di capacità industriali è assai maggiore per le forze navali che per quelle terrestri. Nulla da dire, invece, sulle sue considerazioni riguardo all'impiego razionale del personale, basate sulla necessità di curare l' igiene e garantire il riposo degli equipaggi. In definitiva, forse perché risente fin troppo delle lezioni tenute dall'autore in una sede ufficiale come la Scuola di Guerra dell'Esercito di Torino, il libro del Bollati contiene fin troppo raramente idee personali dell'autore; tuttavia - come quello del Makarov, da lui molto citato - serve a dare un' idea delle teorie tattiche più conosciute all'inizio del secolo XX, che nel suo approccio non compiono certo grossi passi avanti non solo rispetto al Gavotti e al Ronca, ma anche rispetto a quanto emerso dal concorso del 188 1, con particolare riguardo alle idee del Grillo. Il Bollati non insiste, et pour cause, sulla pretesa irrealistica del Makarov di limitare il dislocamento delle navi maggiori a sole 3000 tonnellate (per di più concentrandovi tutte e tre le armi principali) e non sottolinea particolarmente i difetti dei cannoni giganti e delle grosse navi, dando scarso rilievo anche alla necessità di tener conto della formazione (ma anche della forza!) dell'avversario prima di decidere la nostra. TI suo maggior merito è di accennare almeno (sulle tracce del Bonamico, sia pur in contraddi zione con altre parti del libro) alla possibilità che una flotta inferiore non accetti il combattimento e adotti altre forme d' azione per rimediare alla sua debolezza. Ha il torto di ostinarsi a non volere navi specializzate come il Makarov, e di mettere sullo stesso piano un'arma ormai anacronistica e dall'impiego meramente casuale come il roslro e un'arma di sicuro avvenire e in continuo progresso come il siluro; né accenna alle future possibilità del sommergibile. Di volta in volta abbiamo fatto notare il nostro disaccordo su diversi argomenti specifici, oppure le contraddizioni di questo autore; quel che è certo è che ancora una volta tra l'indirizzo delle costruzioni navali dell'epoca, le sue tesi e quelle del Makarov rimane una distanza eccessiva, nella quale non si coglie nessuna avvisaglia della ormai vicina comparsa dellaDreadnought con artiglierie principali da 305 mm, i cui nuovi criteri costruttivi sono stati enunciati fin dal 1903. Questi limiti, certamente notevoli, non sono però tali da nascondere la linea di tendenza emersa già a fine secolo XIX per merito del Gavotti e di altri, che può essere riassunta nella crescente prevalenza del cannone dotato di sufficiente celerità di tiro, nell'utilità della corazza e della velocità, nella crescente importanza del siluro nonostante le ultime anacronistiche sopravvalutazioni delle sue possibilità delle quali è ultima lo stesso Saint Bon.
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Nulla aggiunge ai contenuti della Guerra in mare la successiva Breve raccolta di azioni navali (I 904), 19 che ha anch'essa finalità didattiche e attraverso molti exempla historica conferma concetti non certo nuovi, come l'importanza del talento del Capo e della preparazione morale e materiale degli equipaggi (con particolare riguardo all'addestramento dei cannonieri), che in certa misura possono supplire alle deficienze del materiale. Ne consegue un "Corano navale" tuttora valido e solo apparentemente banale, visto che all'atto pratico spesso non è stato rispettato (o rispettato solo in parte) in pace e in guerra, nemmeno nel XX secolo: L'opera mia, per volgarizzare fra gli Ufficiali dell'esercito le questioni marittime e farne emergere l'importanza forte e potente per il nostro paese, ha toccato il suo termine con questo lavoro. Dai miei scritti lo studioso delle materie navali può trarre alcune verità fondamentali, che possono costituire il Corano Navale della "Guerra in mare". 0 / ) Ogni nazione marittima deve essere pronta per la guerra, tenendo presente il "Memento" dell'ammiraglio Makarov "Ricordati della guerra!"; 2°) le navi dehhono essere sempre pronte per la guerra; il personale sempre allenato ed addestrato; le esercitazioni sempre fatte seriamente e col solo scopo della guerra ed in condizioni approssimantisi il più possibile a quelle della vera guerra; 3°) Le nazioni debbono assicurarsi basi d'operazione nei più prohahili teatri di guerra e queste basi debbono essere rifornite d 'ingenti quantità di carbone, con ogni sollecito mezzo per il suo imbarco; debbono avere bacini e officine di raddobbo; 4°) La scelta dei Comandanti delle navi e del Comandante Supremo deve essere preparata da lunga mano ed i Governi debbono pensare assai per tempo, con opportune soluzioni, ad assicurarsi questo personale dirigente; 5°) L'istruzione e lo spirito d'iniziativa di questo personale debbono essere sviluppati al massimo grado, quanto e forse più del! 'istruzione professionale del personale di bassa/orza. Valga, a que.çto proposito, il "Memento" del Callwell sulla battaglia di Lissa; 6°) Dopo tante e replicate lezioni dateci delle storie navali, ogni mancanza di preparazione alla guerra è un vero delitto di lesa patria ed i Governi che, per ignavia od indifferenza, se ne rendono colpevoli, debbono essere additati al pubblico disprezzo ed i loro membri colpiti senza misericordia. Qualunque politica deve cedere il passo alla preparazione per la guerra; 7°) I designati a salire i ponti di comando delle navi, i quali dimenticano di curare l'educazione della loro mente col non mantenersi all'altezza dei progressi navali, corrono il rischio di disonorarsi nel giorno dell'azione, e questo pensiero deve essere il faro luminoso verso il quale debbono tener fisso lo sguardo coloro i quali si danno alla vita del mare".20
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Torino, Casanova 1904.
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Bollati, La guerra in mare (cit), p. 7 1.
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Neppure il comandante Baggio con i suoi Pensieri intorno alla strategia e tattica navale dice nulla di nuovo, anche se intende "procurare seguaci alle pochissime nuove idee che qui con saldajède propugno". Come il Bonarnico ritiene giustamente che esista una netta soluzione di continuità tra la tattica del periodo remico e velico e quella dell'età del vapore, perché le armi sono cambiate. Infatti se i grandi principi, di principi cardinali dirò così, della tattica possono mantenersi, e ammetto si mantengano costanti in tutti i tempi. l'applicazione loro, cioè i movimenti da consigliare alle navi per attuarli, non possono essere anch'essi costanti in ogni tempo, dal momento che codeçti movimenti devono essere una funzione dell'essenza stessa delle navi e dei caratteri particolari delle armi che sono tutti fattori mutevoli. 21
Osservazione banale, perché nessuno di questo ha mai dubitato. Ma il Baggio, dopo aver osservato che al momento il concentramento delle forze sul lato più debole dell'avversario va sostituito dal concentramento del fuoco (il che con le artiglierie del momento pur sempre richiede la ricerca della manovra, come ha fallo Ilo a Ya-Lu), giunge all'esagerazione: a suo dire la rottura della linea di fila nemica non è più possibile, perché una nave che tentasse questa manovra passando fra due altre nemiche sarebbe investita ed affondata [non è detto - N.d.a.], quindi il celebre esempio tallico di Nelson a Trafalgar [che anche allora si è esposto alle bordate nemiche - N.d.a.] non è più ripetibile. Inoltre non è più necessario e possibile separare dal grosso della flotta nemica una parte delle sue forze, perché le ordinanze non sono più così lunghe da interporre grande distanza tra la testa e la coda [ma chi ha detto che la formazione nemica è sempre troppo corta? - N.d.a.]; i/ vento più o meno debole, e le possibili avarie nelle alberature, non possono influire a ritardare il soccorso alle navi soccombenti per parte delle compagne; né si ha più, come ai tempi del remo, la fatica della voga che non poteva sopportarsi a lungo, e per la quale la velocità e l 'agilità nella manovra venivano diminuendo a poco a poco. 22
Insomma, con il vapore non si manovra più? Dopo di ciò il Baggio non è certamente l' unico autore del tempo a dare molta importanza alla velocità; sarebbe stato sufficiente sottolineare che, sempre a condizione di possedere una velocità superiore a quella del nemico (cosa non facile), data la gittata e la maggiore potenza delle artiglierie moderne, al momento ciò che veramente importava era guadagnare una posizione che consentisse il miglior sfruttamento e il concentramento del fuoco, fermo restando che anche nel periodo velico questo era lo scopo ultimo della manovra e che al momento non si poteva escludere,
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Baggio, Op. cit., pp. 46-47. ivi, p. 47.
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anzi era auspicabile l'isolamento dal resto di una parte della flotta nemica. Se poi si tiene conto che anche nel periodo velico non era tanto facile - come par di capire da quanto afferma il Baggio - portare rapido soccorso a una parte della flotta che il nemico era riuscito a isolare (e il vento, che poteva essere non favorevole?), si arriva alla conclusione che in ambedue i periodi quel che importava era la manovra e il fuoco, così come era valido il principio del concentramento di tale fuoco; tutto il resto erano modalità variabili. Ovvia la differenza che il Baggio rileva tra la battaglia di terra - che oltre che delle armi deve tener conto del terreno - e quella di mare, che si svolge su un uniforme specchio d'acqua. Ma a parte il fatto che tra la battaglia di terra e di mare vi sono diverse altre analogie e differenze, e che anche in mare - specie in un mare interno come il Mediterraneo - si deve tener conto della posizione di basi, porti e coste, non pare condivisibile la sua affermazione che in mare esiste solamente la posizione favorevole di uno degli avversari rispetto all'altro, e questo in un campo aperto e uniforme; però, mentre nei periodi precedenti del remo e della vela tale posizione dipendeva da circostanze naturali [cioè dal vento - N.d.a.] e dal caso, nel periodo nostro attuale dipende esclusivamente dalla volontà. Prima, la posizione favorevole era semplicemente iniziale e si poteva perdere durante l'azione; adesso è possibile mantener/a durante l'azione, ove si manovri opportunamente. 23
La storia delle battaglie del periodo velico, nella quale la ricerca della posizione sopravvento è stata la preoccupazione principale dei comandanti, dimostra che sulla posizione iniziale delle flotte anche in quel periodo molto dipendeva dalla loro volontà e abilità nel mettersi sopravvento, e certamente non dal caso. Anche nel periodo velico era possibile mantenere la posizione iniziale manovrando opportunamente; al contrario, nel periodo del vapore era possibile perdere la posizione iniziale favorevole. E perché quel "dipende esclusivamente dalla volontà", visto che una flotta, a prescindere dalla volontà del comandante, può essere sorpresa dall'altra, oppure nonostante la sua volontà può assumere una posizione svantaggiosa? Infine, nel periodo del vapore che cosa s'intende per "posizione iniziale favorevole"? Spesso essa dipende, appunto, dalla vicinanza di porti o basi e/o dalla conformazione geografica delle coste amiche e nemiche; perdono quindi valore la casistica e la ricerca ad ogni costo delle differenze sulle quali si sofferma il Baggio così come l'uso da parte sua dell'avverbio "esclusivamente". Questi aspetti discutibili dell'approccio del Baggio sono accompagnati da altri, nei quali - tra l'altro - mostra di non ammettere affatto quei tagli netti e totali con il passato, che in altra parte del libro ritiene necessari. Da notare anzitutto un'esatta e tuttora valida percezione dell'importanza e dei limiti della
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ivi, p. 49.
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teoria, dalla quale indirettamente traspare l'importanza della conoscenza approfondita dei precedenti storici, da prendere non come nonna ma come utile riferimento: la teoria detta soltanto principi generali per la condotta delle azioni guerresche, e questi devono essere ben chiari nella mente di chi opera. Oggi questi, siccome risultanti dallo studio veramente profondo, a base di scienza esatta e di logica rigorosa, non basati già sopra vaghe ipotesi solamente, o sopra mere aspirazioni, formano veri canoni tattici del periodo attuale della Marina. Scostiamoci pure da questi canoni, quando ciò possa giovare, se saremo chiamati a metterli in pratica per dawero; imitiamo pure/ 'esempio di Nelson [che dunque è ancora valido - N.d.a.], o di Jto, a Trafalfar, a Ya-Lu; ma appunto per poterci scostare all'occorrenza, ci conviene conoscerli e conoscerli bene... 24
Segue un elogio di Napoleone, le cui folgoranti intuizioni erano dovute, per sua stessa ammissione, anche a approfondite meditazioni e a un 'intensa ginnastica della mente, e il solito accenno alla importanza dei fattori morali, accompagnato dalla necessità di dare ai Quadri "un 'educazione meno placidamente scolastica e marinaresca più attiva", insieme con un accurato aùùt:stramento degli equipaggi. In proposito il Baggio cita inevitabilmente Nelson (dunque il periodo velico serve ancora a qualcosa) e attribuisce anch'egli la vittoria americana nella recente battaglia di Santiago contro la flotta spagnola (1898) al superiore addestramento dei cannonieri, aggiungendo che in tale battaglia l'ammiraglio Cervera non era stato in grado di manovrare a causa dell' insufficiente addestramento, oltre che dei suoi cannonieri, anche dei suoi fuochisti. È perciò lecito un altro paragone con il periodo velico, nel quale "i gabbieri di Villaret-Joyeuse [nella battaglia del 1° giugno contro la flotta inglese, comandata dall'ammiraglio Howe - guerre napoleoniche - N.d.a.] mi sembrano paragonabili ai fuochisti di Cervera, poiché né gli uni né gli altri erano abbastanza addestrati all 'ujfìcio loro". 25 Sugli studi tattici degli ultimi trenta o quarant'anni il giudizio del Ilaggio è a ragione assai severo, pur essendo accompagnato da una visione totalmente errata dei possibili progressi del materiale: in tali studi la disparità di opinione induce a dubitare che le rispettive conclusioni alle quali si perviene, più che la conseguenza di uno studio veramente profondo dell'efficacia di ciascuna arma in relazione a quella delle altre (le quali tutte appunto nel loro insieme armonico costituiscono l'efficacia guerresca di una nave) sembrano eçsere soltanto.frotto di studio parziale di ogni singola arma indipendentemente dalle altre [... ] . Posto lo studio in queste condizioni, accade facilmente che l'idea particolare di un 'arma sola assorba od offuschi l'idea dell'arma complessa che è la nave; e da questo può derivare che la tattica
24 2S
ivi, p. 77. ivi, p. 86.
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suggerita dallo studio di una data arma, non corrisponda alle principali esigenze pratiche delle altre armi, né, quello che più conta, del loro complesso. 26
Peccato che questo esatto giudizio sui caratteri essenziali del periodo precedente sia accompagnato da un'erronea e fuorviante previsione dei progressi presenti e futuri del materiale: "adesso sembra che la tumultuosità delle invenzioni accenni a divenire meno febbrile e intensa; pare che ad un periodo di incessanti mutamenti stia per succederne uno di relativa stabilità; v'è dunque speranza di un poco di sosta", quindi sarà possibile finalmente chiarire il quadro teorico della tattica, fissando dei punti fermi. Così il Baggio; a noi invece sembra che i punti fermi comincino ad affiorare per l'effetto di vari elementi: il progresso tecnico, l'esperienza delle ultime battaglie, e infine quanto afferma egli stesso, associandosi all'affermazione dell'ammiraglio deAmezaga che "il cannone è capace da sé solo di far desistere dalla lotta". Esso è riuscito vittorioso nella lotta contro la corazza, grazie anche " al progresso conseguito dalla granata-mina, i cui terribili effetti di sconquassamento e demolizione hanno rimesso in onore il concetto della moderata corazzatura intorno allo scafo intero, riducendo al minimo possibile la superficie ricoperta dalle corazze di maggior spessore a d!fesa delle parti vitali della nave". 27 Ne consegue che l'urto con il rostro è diventato eventuale ed occasionale, anche perché se ricercato potrebbe diventare un suicidio. Questa esatta valutazione è accompagnata da un accenno non certo nuovo alla necessità di evitare la mischia; il Baggio non parla del siluro. Così stando le cose, ci si aspetterebbe che presentì come vantaggiosa la formazione più adatta a sfruttare il fuoco, ma non è così. Ritiene che non vi possano essere formazione di combattimento determinabili a priori, ma che tutte dipendano dallo scopo che si vuol conseguire e dalle "possibili mosse controffensive del nemico" [come se fosse cosa scontata mantenere sempre un atteggiamento offensivo -N.d.a.]; comunque le formazioni serrate, siano esse estese o profonde, non si prestano a questa esigenza, alla quale può meglio corrispondere "una fòrza navale le cui unità [composte da elementi omogenei - N .d.a.] siano piuttosto staccate l'una dall'altra, così da formare un 'ordinanza molto_flessibile, quasi snodata e nella quale le d[ffèrenti unità, appunto per non essere legate rigidamente l'una all'altra, possano sviluppare successivamente, quando per la loro molteplicità e fors 'anche diversità non è possibile contemporaneamente, i mezzi di offesa che posseggono". In tal modo all'idea dell 'ammassamento delle unità ancora in vigore, dovrebbe subentrare quella dell'ordine sparso, tenendo anche presente che solo con una velocità superiore si può impiegare a distanza l'artiglieria e che, comunque, "una difjèrenza di velocità, più ancora
26
27
ivi, p. 51. ivi, pp. 66-67.
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forse che nei mezzi di ojjèsa o difesa, offre vasto campo al 'intelligenza per istudiare la maniera di meglio utilizzare le armi"'.28 L'opera del Baggio è ampiamente commentata dal comandante Roncagli, con un lungo articolo sulla Rivista Marittima non sempre chiaro, che porta un titolo ambizioso ma non del tutto giustificato: L'idea nuova. Ci limitiamo a riassumere i diversi pareri del Roncagli, e/o i passi del suo articolo che meritano attenzione: - diversamente dal Baggio egli ritiene inevitabile la disparità di pareri sulle questioni tecniche del momento, derivante "dalla naturale riluttanza che trattiene i più dall'accettare cose nuove'', fino a quando il progresso non si è di per sè imposto; - come il Baggio non concorda con coloro i quali ritengono che, con il vapore, bisogna imbarcare sulle navi dei tecnici ( come fuochisti, cannonieri ecc.) che poi diventano marinai. Al contrario bisogna imbarcare marinai, che poi in poco tempo diventano anche tecnici [tesi già allora almeno in parte moderata; occorrevano sempre più "tecnici'' - più - N.d.a.]; - non condivide l'affermazione del Baggio che la tattica è nata con il perfezionamento della costruzione delle galere: ciò significherebbe che non esiste nessuna tattica nel combattimento tra due sole navi. È comunque vero che "dal perfezionamento delle navi sarebbe sorta l 'idea della manovra d'insieme" [non condividiamo nessuno dei due giudizi; la tattica è nata semplicemente quando - a prescindere dallo stato delle costruzioni navali - si è presentata la necessità della manovra d ' insieme. Nel combattimento tra due navi, peraltro inusuale, non possono valere criteri o nonne fisse - N.d.a.]; - condivide l'affermazione del Baggio che con il vapore la guerra navale, da lotta di uomini com ' era in passato, è diventata "lotta di mezzi d 'ogni maniera" [cosa vera fino a un certo punto anche in passato. Non solo nel periodo della vela ma - ad esempio - a Lepanto, contavano anche le navi, le loro anni, il loro numero ccc. - N.d.a.]; - il Baggio sembra escludere i mezzi intellettuali dai combattimenti del passato. Ciò a parere del Roncagli non sarebbe giusto; - diverge - del tutto a ragione-dall'affermazione del Baggio che non siano più valide le fondamenta della tattica di Nelson a Trafalgar; - ciò non toglie che "l'appoggiarsi tranquillamente al passato [... ] ebbe già per effetto la creazione di regole per la condotta delle armate, le quali'rispondevano assai male alle esigenze della realtà delle cose, imposte dal progresso delle armi e delle costruzioni. Dice benissimo il comandante Raggio, che il pensiero navale è in ritardo sul progresso del materiale. Per questo ritardo abbiamo ancora oggi i cosiddetti libri di tattica, i quali tutto insegnano fuorché il modo di combattere";
,. ivi, pp. 71 e 76.
378 _ __ _ IL_PE_ ·N_SIE_·R_O_M_IL_IT_A_RE_ ·E_·N_A_V_A_ LE_IT _A_L_IA_NO.:..._ -v_o_L_.m__:_ ( I_R?_ 0-_19_1_;.5)_- _TO_M_O_II_ _ __
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- diverge dall'affermazione del Baggio che al tempo della vela non era possibile "concretare vere esercitazioni di combattimento". Questa è invece un'altra prova del ritardo del pensiero tattico, che solo in tempi molto recenti ha cominciato a tener conto delle possibili mosse del nemico; - la nave da guerra-tipo è sempre stata un compromesso tra i cinque elementi indicati anche dal Baggio: dislocamento, autonomia, offesa, difesa, velocità. Mai come oggi sono stati tanto chiari i loro rapporti, sì che il compromesso è diventato una relazione matematica. Di tali elementi tre sol i possono influire nel valore tattico di una nave: offesa, difesa, velocità; - l'importanza del vantaggio di velocità è innegabile, ma bisogna tener conto anche degli altri due fattori, perché la maggiore velocità da sola non basta. Inoltre il Baggio non ha considerato i vantaggi del numero; - posto che il problema tattico consiste nel dare o prendere caccia, è errato J'orientamento ad armare le navi moderne più a poppa che a prua; allo scopo di sfruttare meglio la velocità superiore, meglio concentrare l'armamento principale sia a prora che a poppa; - il comandante Baggio considera la lotta futura sul mare soprattutto come lotta di intelligenze. Poiché l'intelligenza è un fattore trascendente e non misurabile, bisogna tener conto anche di un altro fattore meglio misurabile, che è J'abilità di ciascuno nello svolgere il proprio compito e la preparazione morale dei Quadri e degli equipaggi; - a tal fine, diversamente da quanto avviene in campo terrestre (dove l'istruzione del soldato rimane relativamente semplice e il numero è il principale fattore di potenzialità), in campo marittimo il servizio di leva è insufficiente, perché solo la lunga permanenza del marinaio sulle navi consente di formare gli specialisti resi necessari dal progresso delle armi e delle macchine, e al tempo stesso di dare agli equipaggi una buona educazione morale, in modo conforme alle idee dello stesso Baggio (l'esempio è la flotta inglese). In tutto questo dov'è "l'idea nuova"? Non si capisce bene, perché anche le idee che il Roncagli chiama nuove - come lo studio dei problemi della velocità - nuove non lo sono, o lo sono solo in parte. Comunque le sue critiche al Baggio, pur non essendo chiare, nette e taglienti, hanno il pregio di far emergere tre punti importanti: l) mutatis mutandis, la tattica di Nelson e la sua personalità di comandante in mare rimangono un modello, anche se bisogna guardarsi dai condizionamenti del passato; 2) non bisogna dare importanza eccessiva alla velocità, perché sul combattimento pesano altri fattori, ivi compreso il numero; 3) la lotta sul mare, oltre ad essere lotta di intelligenze, coinvolge anche la professionalità e l'educazione morale dei Quadri e degli equipaggi. Su quest'ultimo punto la differenza tra le forme di reclutamento dell'Esercito (di leva) e della Marina (a lunga ferma) che il Roncagli ritiene necessaria, appare tutt'altro che convincente. Come si è visto nel Tomo I, le sue argomentazioni contro la leva tout court sono state usate, in campo terrestre, anche da coloro che intendevano opporsi alla prolungata tendenza alla riduzione della ferma,
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stabilendo un'equivalenza del tutto discutibile tra lunghezza della ferma e formazione prima di tutto morale del soldato. Il sistema di reclutamento prussiano ha invece dimostrato che più che la lunghezza della ferma valgono l'indole, le virtù civili, lo spirito militare e nazionale di un popolo, base indispensabile di una salda organizzazione e di un'efficiente leadership, senza le quali non è possibile - quale che sia la lunghezza della ferma - formare degli equipaggi con le qualità giustamente richieste dal Baggio e dal Roncagli. Accanto alle grandi navi e relative armi e corazze, le torpediniere - sempre all'inizio del secolo - sono il tema principale di discussione sia sulla Rivista Marittima che sulle altre riviste, come La Lega navale. Vi sono ancora scrittori navali di vaglia (come il Vecchj, che scrive senza mezze misure "mi vanto di non aver mai creduto all'effìcacia delle t01pediniere" , o come il Roncagli), che a similitudine del Mahan29 non credono a questo tipo di piccola nave. Le manovre del settembre 1899 nella rada di Gaeta non riescono a dissipare i dubbi; esse prevedono due tipi di azione notturna: 1°) attacco di torpediniere a una flotta ancorata in tale rada; 2°) forzamento da parte del la nave Volta con l' ausilio di due flottiglie di torpediniere di una linea di blocco imposta dalla squadra attiva. La prima azione fallisce, la seconda riesce; le ragioni del fallimento e della riuscita sono meglio di tutti esaminate, con probanti ammaestramenti, da un non meglio identificato Flock,30 secondo il quale: - nel corso di ambedue le esercitazioni i siluri hanno funzionato regolarmente; - se la prima esercitazione (attacco notturno a una squadra in porto) è fallita, ciò è avvenuto perché la squadra attaccata era stata già preavvisata con notevole anticipo, rendendo così impossibile alle torpediniere attaccanti di realizzare il principio-cardine del loro impiego, cioè la sorpresa; - nella seconda esercitazione, invece, le torpediniere hanno pienamente dimostrato la loro efficacia, perché la violazione del blocco da parte della nave Volta non sarebbe avvenuta senza il loro concorso. Tenendo conto di questi risultati solo apparentemente contradditori, il Flock indica una serie di criteri d'impiego da adottare: - deve essere evitato l'impiego di torpediniere nell'ambito delle squadre di alto mare, perché in tal caso si avrebbe un forte logoramento dei loro equipaggi, mentre il loro impiego anche partendo da una nave-appoggio potrebbe avvenire solo di giorno e magari all'inizio del combattimento, rendendo comunque per loro impossibile realizzare la sorpresa; - essendo i loro effetti anche d'ordine morale, esse "troveranno più largo impiego in un ben inteso s ervizio di protezione costiera [ ...]. Difficilmente
29 Arthur Thayer Mahan, L 'influenza del potere marittimo sulla s toria - 1660- 1783 ( 1890), traduz. it. Roma, Ufficio Storico Marina Militare 1994, pp. 142- 145. 30 Flock, Le torped iniere e le esercitazioni navali dello ~·corso anno, in " Lega Navale" Anno li] N . 2 - 15 gennaio 1900, pp. 22-27.
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un nemico, sia pure ardito, si arrischierà ad avvicinare dei tratti di litorale lungo i quali fossero state disseminate queste piccole navi", specie in cattive condizioni atmosferiche. Per "Floclè', dunque, solo nell'impiego costiero si possono realizzare i presupposti necessari per il successo dei loro attacchi, che possono essere così riassunti: attacco di sorpresa, concessione di adeguati turni di riposo agli equipaggi e di tempo sufficiente per la manutenzione del materiale, norme sobrie e chiare di navigazione che assicurino al loro impiego grande elasticità, semplicità e indipendenza di movimenti con conseguente abolizione di masse troppo compatte, facilità di rifornimento, possibilità di evitare il cattivo tempo, possibilità di mantenere un continuo contatto con la rete semaforica. "Flock" conclude con un accenno anche ai sottomarini: la torpediniera "costituisce oggi ancora, ad onta dei nascenti sottomarini un elemento di difèsa costiera assai importante". In effetti le dimensioni minime di questo piccolo natante, anche dal Sechi ritenute necessarie per diminuire la vulnerabilità, danno ragione a Flock e fanno ancora apparire poco realistiche le considerazioni nel suo impiego diurno e nell' ambito delle battaglie d' alto mare. Questa eredità del XIX secolo si aggiunge dunque ad altri elementi d'incertezza, circa la lotta cannone-corazza e il dislocamento più idoneo delle navi maggiori.
La tattica navale nei p rimi scritti di Romeo Bernotti Gli scritti di Romeo Bemotti, futuro ammiraglio, sono di gran lunga i più importanti nel campo tattico e strategico non solo da fine secolo XIX alla prima guerra mondiale ma anche fino alla seconda guerra mondiale e al secondo dopoguerra. Forse con scarsa modestia, ma con piena ragione, ricordiamo di aver proposto invano all' Ufficio Storico Marina, fin dal 1987, un ' analisi organica del suo pensiero che per varie ragioni siamo stati costretti a limitare al periodo precedente la prima guerra mondiale, riuscendo a pubblicarne solo una troppo sommaria sintesi riferita al periodo 1897-191 2.3 1 L' opera del Bernotti è stata di recente riscoperta dal Forum di Relazioni Tntemazionali (Roma), che gli ha dedicato parecchi volumi, oltre a quello dello scriventc(rifcrito al periodo dopo la guerra 1915-1918) su La guerra aerea e marittima secondo Romeo Bernotti. 32
31 Ferruccio Botti, L 'evoluzione del/ 'arie militare marittima all'inizio del secolo XX, in "Bo llettino d' Archivio della Marina Militare" Anno I - n. 2 dicembre I 987, pp. 16 1-1 79. 32 Cfr. Ferruccio Botti, La guerra marillima e aerea secondo Rom eo Bem olli, Roma, Ed. Forum di Relazioni Internazionali 2000. Si tratta della ristampa e analisi del volume del Bcmotti La guerra marillima - studio critico sull'impiego dei mezzi nella guerra mondiale - Voi. I (1923) e dell' articolo (per l' aviazione navale e di polemica contro Giulio Douhet) Sulla guerra nell 'aria (" Rivista Militare" dicembre 1927). Questi scritti sono preceduti da un ampio commento nel quale viene inquadrato il pensiero del Bcm otti nel contesto de lla letteratura militare e navale coeva.
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Ci sembra prima di tutto utile- anche in relazione al precedente, lungo esame delle varie opinioni sulla tattica navale e sulle armi - riferire che cosa scrive il Bemotti, per esperienza diretta (è entrato nel 1889 all'Accademia Navale di Livorno) sugli indirizzi didattici seguìti a fine secolo XIX nella formazione iniziale dei Quadri e sulla metodica addestrativa, del tutto irrazionale e tale da non considerare per nulla l'esperienza delle battaglie passate: fra le materie del corso complementare [a quello di Accademia] aveva preminente importanza l'arte militare marittima. L 'illustre comandante Domenico Bonamico aveva lasciato La cattedra[ ... ]. Era recente ii passaggio dalla vela al vapore [non troppo recente: quasi mezzo secolo - N .d.a.]; quindi L'evoluzione dei concetti d'azione era poco compresa, essendo le idee ancora vincolate all'eredità dei periodo velico e al preconcetto della battaglia di Lissa che faceva attribuire importanza preminente all'impiego del rostro [non è vero: ormai a fine secolo XIX stavano prevalendo il cannone e il siluro - N.d.a.J. La strategia navale era quanto mai vaga [ma era nata da decenni - N .d.a.]; la storia militare marittima non veniva presa in speciale considerazione, oltre quanto avevano fatto nei loro pregevoli libri C. Randaccio e A. V. Vecchj. I concetti di tattica navale e di strategia mi semhravano estremamente nebulosi [ma perché non cita le opere del Bonamico, allora già pubblicate e di grande interesse anche dal punto di vista storico? - N.d.a.).33
Ancor più allarmante quanto riferisce una fonte insospettabile come la sua, a proposito dell' addestramento d' insieme della nostra flotta, che anche dopo la battaglia dello Ya-Lu, non recepisce affatto ciò che emerge con chiarezza dalla letteratura navale da Lissa in poi: non sifacevano esercizi di tiri notturni, di evoluzioni, né esercitazioni tattiche e strategiche di sorta. l trasferimenti erano eseguiti a velocità da 8 a 1O nodi, in linea di fila, a distanza di 600 metri. Se una nave faceva rilevanti variazioni nell 'andatura delle macchine e eseguiva manovre di accostata, ne dava avviso alle altre navi mediante palloni e piramidi alzati alle varee del pennone dell'albero dei segnali. Pur essendo trascorsi quasi trent'anni dal/ 'epoca di Lissa, si era ancora lontani dal 'agilità di manovra. li libro delle evoluzioni era complicato[ ... ]. Da tutto ciò emerge che la condotta della squadra era vincolata dalle preoccupazioni causate dalla difjìcoltà e dalla necessità di tener conto degli spostamenti laterali in fun zione dell'ang olo di accostata. 34
Probabi Imente sono queste prime, negative esperienze a far nascere nel giovane Bemotti la passione per l'arte militare marittima, alla quale contribuisce anche il suo primo imbarco da guardiamarina. Nel giugno 1894 viene infatti nominato a tale grado, e nel novembre 1894 è destinato alla corazzata Ruggero di Lauria, sulla quale entra alle dipendenze dell 'allora tenente di vascello
33 4 -'
Romeo Bcmotti, Cinquant'anni nella Marina Militare, Milano, Mursia 197 1, p. 14. Jbidem.
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Giovanni Sechi (cap. ll) che ha l'incarico di capo del servizio artiglieria della nave_ Sotto l'influenza di una siffatta, eminente e dotta personalità della Marina egli inizia a pubblicare dal 189735 in poi una serie assai nutrita di articoli riguardanti in particolar modo il rapporto tra velocità e impiego dell'artiglieria, che compila fino alla prima guerra mondiale prevalentemente nel grado di tenente di vascello (nominato a tale grado nel 1899, vi rimane fino al 1913, cioè per ben quattordici anni). Nei primi anni del secolo, con largo e financo eccessivo ricorso a fonnulc matematiche egli dimostra una rara attitudine per le scienze esatte, trattando dei fondamenti della cinematica navale e dei problemi prevalentemente matematici relativi ai metodi di ricerca del nemico e soprattutto alla velocità, che anche a suo parere - come già avviene per il Bonamico e per altri - ha un ruolo determinante nella tattica navale, sempre perché favorisce la ricerca e il mantenimento della posizione più idonea per l'impiego redditizio dell' artiglieria. A quanto riferisce lo stesso Bemotti, i suoi scritti ottengono parecchi consensi sulle riviste delle principali marine e sono particolarmente apprezzati dal Bonamico, ritenuto al tempo il nostro maggiore scrittore navale_ In particolare con le sue ricerche il Ilernotti intende fornire un contributo pratico alla ricerca della velocità ottimale in tutte le fasi tattiche del combattimento, dimostrando matematicamente le molteplici possibilità di impiego di uno strumento da lui chiamato indicatore cinematico, con il quale si ricava in modo semplice erapido il valore della velocità che una nave deve mantenere per tenere a distanza costante una nave meno veloce, seguendo la cosiddetta "spirale quadrangolo". Tale strumento si applica ai problemi tattici del combattimento a distanza costante e del blocco navale, alle variazioni di distanza e rilevamento tra navi e al combattimento tra squadre. Sempre nel corso delle sue ricerche sulla velocità il Bemotti perviene a conclusioni che preludono a un suo più profondo impegno nello studio dei principi e criteri generali della tattica: la jòrmazione iniziale di ciascuna flotta sarà la linea di fila; per la flotta più veloce le di visioni omogenee saranno disposte dalla testa in ordine decrescente di velocità; inversamente per quella avversaria. Sopra questi pochi principf generali a noi pare si debba basare la moderna tattica. Soltanto su di essi, ove discutendoli se ne accerti il valore nel campo dell'applicazione pratica, indipendentemente da influenze di preconcetti, di tradizioni, si potranno forse cominciare a stabilire le norme generali e direttrici di una tattica navale basala su principf semplici e razionali, informatisi al concetto di conseguire l'utilizzazione massima delle armi e delle navi come oggidì [... ]. Alla tattica
" l primi articoli del Bernotti riguardano questioni fondamentali come la difesa delle coste, l' esplorazione e la velocità. Tra di essi: Sulla ,lifesa delle coste, in "Rivista Marittima" 1897, m Trimestre Fascicolo VIII-IX; Sull 'esplorazione in mare, in "Rivista Marittima" 189R, I Trimestre Fascicolo TI; la velocità nella tattica navale, in "Rivista Marittima" 1900 (1 Trimestre Fascicolo l pp. 25-65, Fascicolo I I pp. 25 1-267; Il Trimestre Fascicolo V pp. 269-297) e Tiro fra navi, in "Rivista Marittima" 1902, II Trimestre Fase. I pp. -11-58, Fa.sci colon pp. 2-17 262.
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spetta di stabilire il criterio delle manovre, non le manovre stesse, e quindi bisogna dare ai comandanti in sottordine la massima autonomia.
Da una siffatta premessa derivano degli assiomi sintetizzabili come segue: - è errata la vecchia e "comoda" tesi che le navi moderne facciano uso delle elevate velocità ormai ottenibili per corrersi addosso. Quindi il rostro è sorpassato, e la velocità va sfruttata per produrre al nemico il massimo danno con il cannone; - nei combattimenti di più navi, a parità di forze contrapposte e di danno totale la superiorità tattica è acquisita dal partito che nel combattimento a distanza ha saputo meglio concentrare il fuoco; - ncll 'ambito di ciascuna nave bisogna fare ogni sforzo per superare le numerose difficoltà pratiche che ostacolano ancora la condotta unitaria del tiro, essenziale per conseguire i predetti obiettivi [al momento non erano ancora state adottate le centrali di tiro, poi installate sulla prima DreadnouKht inglese e sui nostri tipi Cesare (1911) - N.d.a.]; - sulle navi gli strumenti più affidabili per la trasmissione degli ordini per il tiro rimangono dei buoni portavoce e il telefono elettrico. Su questi temi il Bemotti tiene una conferenza in contradditorio con il Bollati di Saint Pierre, del quale non condivide appieno le idee anche perché a suo parere non dà sufficiente importanza alla velocità e ne dà troppa alla corazzatura (ci mancano ulteriori particolari, non essendo reperibile il testo). Tra i numerosi studi da lui dedicati all'argomento i due più importanti sono Sui fondamenti della tattica navale (1901) e Lo studio della tattica navale (1902 - inutile sottolineare che da quest'ultimo traspare la sua attitudine all'insegnamento al quale dedica una parte notevole della carriera).36 Nel primo entra in polemica anche con il suo antico maestro - ormai pari grado - Giovanni Sechi, che come si è visto (vds. Cap. I) nello stesso anno critica duramente gli studi tattici comparsi fino a quel momento, i quali "non tengono nella dovuta considerazione la formazione e le successive manovre del 'avversario, e falsano il criterio della concentrazione de/fuoco, che si ottiene soltanto quando l'awersario manovra male [quindi non per virtù di una manovra ben studiata dall'altro contendente - N.d.a.]; costituiscono un ritorno agli antichi metodi di regole e norme fisse, vincolano la manovra e distolgono così le menti dal/ 'applicazione del concetto tattico fondamentale, applicazione necessariamente diversa a seconda della formazione e manovra dell'avversario; hanno quindi il difetto capitale di tutte le manovre obbligate e vincolate da regole". 37 Anche se il Scchi mostra benevolenza per i suoi precedenti studi, il Bernotti palesemente irritato respinge le sue indirette critiche, prefiggendosi di 36 Rispettivamente in "Rivista Marittima" 1901, I Trimestre Fascicolo m pp. 401-433 e 1902, IV Trimestre Fascicolo IX pp. 247-275. 17 Giovanni Sechi, Appunti di lattica navale, in "Rivista Marittima" I 900 - IV Trimestre pp. 4 I 1417.
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dimostrare "che essi non sono unilaterali, che non hanno alcuni dei difetti loro imputati, mentre le idee del Sig. Sechi non ci sembrano utilmente applicabili'' e contestando lo scetticismo del Sechi sull'effettivo ruolo della velocità, insieme con la sua àffermazione che una flotta inferiore, risultata soccombente nel combattimento a distanza col cannone, ha come unica chance quella di correre addosso al nemico impiegando le "armi corte" (rostro e siluro). Ciò premesso, dopo aver citato una conferenza da lui tenuta nello stesso anno 1900 con il Baggio sulla Sardegna (presieduta dal contrammiraglio Mirabello, comandante in seconda della Forza Navale del Mediterraneo), il Bernotti precisa il suo concetto fondamentale della tattica, peraltro non nuovo: "la tattica deve precisare il criterio delle manovre, non le manovre stesse". Perciò la teoria non può pretendere di prendere tutto in esame, o di dettare con precisione le modalità della manovra nostra e nemica; essa invece "deve jòrnire norme generali, di cui il sistema di applicazione muterà secondo i casi, fino talvolta ad invertirsi". Le predette norme generali devono lasciare largo campo all'iniziativa, senza pretendere di precisare ciò che si farà davanti al nemico; "sono i concetti.fondamentali che devono stabilirsi saldamente, di guisa che l'iniziativa, convenientemente limitata, possa esercitarsi da tuttt'. Dalle predette considerazioni si deduce che il Bcmotti non parla più di concetti .fondamentali ma di "norme generali", che sono cosa diversa perché più vincolanti dei concetti; e poco più avanti parla di principi. Si può anche osservare che concetti e principi generalmente non limitano l'iniziativa: e se i concetti e le norme generali possono indicare persino un sistema di applicazione che si inverte, a che cosa essi servono? Infine, se tali concetti limitano "convenientemente" l'iniziativa, fino a che punto essa può essere esercitata? e se così fanno, possono essere chiamati concetti? È vero che il Bemotti precisa che "trattiamo di norme e non di regole"; ma anche le norme sono prescrittive e vincolanti, tanto che il recentissimo dizionario Garzanti le definisce ''precetti, regole generali che prescrivono la condotta da tenere in determinati casi o per raggiungere determinati fìni". Se, dunque, meglio sarebbe che il Bemotti non parlasse di norme, e che non confondesse le norme generali con i concetti, criteri o principì, non ci sembra calzante nemmeno la sua citazione del generale Marselli (Tomo I, cap. ID), il quale stigmatizza la ricerca delle formazioni di combattimento di moda al suo tempo, per concludere giustamente che "lo studio positivo della tattica ci avverte che un generale abile non si lascia preoccupare la mente da quelle forme; egli guarda al modo con cui l 'avversario occupa il terreno. fa di scoprirne il punto debole, si propone uno scopo; dispone le sue truppe in modo adatto al terreno su cui debbono combattere ed allo scopo che debbano conseguire: la forma geometrica risulta da tutti questi preliminari". 3~ Intanto - come giustamente osservato da altri - nel combattimento navale il terreno non esi-
33
Nicola Marselli, La guerra e la sua storia, Milano, Voghcia 1875, Voi. Il pp. 242 e scgg.
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ste, ed è assai meno facile che nel combattimento terrestre - il quale al tempo si conduce a distanze assai più ridotte - individuare il punto debole del nemico. In secondo luogo non si tratta di stabilire delle formazioni, ma dei concetti (o principi, o criteri) per la condotta delle operazioni, dei quali le formazioni sono solo una delle interfacce, tenendo presente la giusta osservazione che "i criteri tattici devono nascere da un giusto compromesso tra i desiderata teorici. Non è generalmente possibile soddisfare a tutti questi desiderata; onde ogni conclusione avrà dei vantaggi e degli inconvenienti". Evidentemente queste affermazioni abbisognano quanto mai di un riscontro concreto, cosa che il Bernotti fa subito dopo, ma considerando solo la lotta tra cannone e corazza e non le altre armi, e inoltre un po' ottimisticamente affermando che "devesi in tempo di pace paragonare ogni nave con quelle estere, e dalle condizioni relative di offesa e di difesa dedurre il criterio più conveniente per combatterle, così nel momento de/l 'azione non sorgono dubbi; si è certi almeno che se la decisione presa non è proprio la migliore, non è la più errata. Insomma si avranno a tal guisa delle idee ben definite... ". A questo punto per il lettore è legittimo chiedersi: ma basta fare così? E tutte le rimanenti circostanze che influiscono sul combattimento e che limitano la possibilità di scelta, anche ammettendo una conoscenza perfetta delle caratteristiche delle navi e delle artiglierie nemiche? Tanto più che il Bemotti pretende di liquidare l'influsso della diversa abilità dei cannonieri (rivelatasi un fattore estremamente importante, se non decisivo, negli ultimi conflitti, già a cominciare da Lissa) con l'ovvia affermazione che la nave con i cannonieri meno abili [e perché non con le artiglierie meno precise? - N.d.a.] deve serrare le distanze (in tal modo avvalorando le tesi del Sechi) e al tempo stesso non considerando che chi è inferiore quasi mai può scegliere, perché la nave nemica farà esattamente il contrario, se mai con maggiore probabilità di riuscita. Queste idee oscillanti tra ovvietà e eccessiva semplificazione sono avvalorate dal Bernotti con un gran numero di formule matematiche riguardanti pressoché esclusivamente il problema del tiro, nel quale egli sembra (a torto) voler identificare in massima parte il problema tattico. Ne elenchiamo le più importanti, a cominciare dal duello fra due sole navi: - poiché una nave può tirare su quella avversaria solo con una parte dei suoi pezzi, ambedue le navi - come sostiene il Baggio - hanno angoli di massima e minima offesa, mentre l'efficacia della corazzatura di una nave a sua volta varia con il mutare dell'angolo che il suo asse longitudinale fa con la congiungente del suo centro con quello della nave nemica al cui fuoco è sottoposta, quindi essa ha direzioni di massima e di mini ma difesa e offesa; - di conseguenza il problema del tiro per una nave [ma non quello tattico in genere - N .d.a.] si riassume nella ricerca di un angolo di massima offesa e di una direzione di massima difesa [il contrario naturalmente avviene per l'avversario; inoltre può anche avvenire che la nostra nave non riesca a raggiungere e mantenere insieme il predetto angolo e la predetta direzione; ma di questo il Bemotti non parla - N.d.a.];
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- la probabilità che ha una nave di essere colpita è maggiore quando si presenta al traverso [ma proprio con questa rotta la nave a torri o meno può sviluppare al tempo stesso il massimo fuoco di artiglieria, cosa che il Bernotti non considera - N.d.a.]; - "nessuno vuole ormai, contrariamente a quanto teme il Sig. Sechi, concentrare specialmente nel settore poppiero l'offesa maggiore"; - "la differenza di valore tattico degli avversari, ossia il valore tattico relativo, è funzione della distanza di combattimento [tra le due navi]" - [ma è anche funzione di tanti altri elementi - N.d.a.]; - dall'esame della probabilità di colpire risulta che per l'artiglieria il limite superiore della distanza di combattimento è di 4000 metri, mentre il limite inferiore è di I 000-1500; - secondo il Sechi i rispettivi mezzi di offesa e difesa delle flotte che si combatteranno non saranno molto diversi, quindi la distanza di massima utilizzazione delle artiglierie sarà pressoché uguale per ambedue gli avversari. Ciò può accadere, ma questo è "semplicemente un caso particolare", perché normalmente una nave non dovrà combattere soltanto con navi aventi caratteristiche simili (a 4ucsta affem1azione del Rcmotti si può obiettare che, a parte le caratteristiche sempre più omogenee delle navi delle principali flotte, se una nave o un gruppo di navi fossero costrette a combattere con navi nemiche molto superiori ciò sarebbe segno di cattiva leadership - N.d.a.1; - diversamente da quanto sostiene il Sechi, la distanza di utilizzazione massima del fuoco non è la stessa per due navi che si combattono [difficile che ciò avvenga, visto che i calibri delle navi maggiori delle principali flotte tendono a equivalersi - N.d.a.], perciò in questo caso "la manovra a distanz a costante è generalmente la migliore per ambedue le navi"; - ne consegue che la manovra a distanza limitata dà dei vantaggi se il nemico manovra male, mentre la manovra a distanza costante è preferibile, perché dà gli stessi vantaggi se il nemico manovra razionalmente e ha inconvenienti minori. Le predette conclusioni, riferite al "duello" tra due navi, sono evidentemente tali da influenzare anche il combattimento tra flotte, fino a far ritenere che meglio avrebbe fatto il Bemotti a considerare solo quest'ultimo caso, con notevole semplificazione del problema. Comunque, a proposito di tale combattimento come fanno tanti egli ha il torto di prendere come base di partenza l'assioma nclsoniano applicabile solo da parte di una flotta superiore - che bisogna concentrate le nostre forze su una parte di quelle nemiche, con un atto tattico che le maggiori gittate rendono sempre più arcaico. Il secondo assioma consiste nella necessità di abbandonare la "scuola geometrica o aprioristica", che intende tenere le forze compatte e mantenerle nella stessa formazione, stabilita a priori per un certo tempo. Questa soluzione non consente di mettere ogni nostra nave in condizioni di utilizzazione massima, quindi va sostituita con la ripartizione della flotta in gruppi composti da unità omogenee, che manovra-
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no separatamente per raggiungere - senza preoccuparsi della formazione - uno scopo unico. E qui il Bemotti cade nella ricerca del particolare, nella manìa di prescrivere da lui sempre indicate come difetto principale della tattica: la forza navale si presenta compatta al nemico ordinata in Linea di fila (su più linee con molte navi). L 'ammiraglio in capo alza un segnale che è la direttiva della battaglia. Per esempio: "concentrate le offese sulle navi di testa del nemico. combattimento a distanza" [ ma se il nemico fa altrettanto, e/o ricerca il combattimento ravvicinato? - N.d.a.]. È così designato così il gruppo avversario a cui tutti devono possibilmente mirare, anche se in seguito diviene gruppo di destra o di sinistra. Allorché la testa di colonna che consideriamo arriva a distanza con veniente, il primo gruppo di navi omogenee comincia la manovra di concentrazione, alla propria velocità massima di combattimento. Lo stesso fa in seguito il secondo alla sua velocità massima, e così via. La variazione di distanza tra i due gruppi permetterà in generale di tenere lo stesso bordo per un tempo considerevole, per esempio 20 minuti, in fine al quale il comandante del gruppo con accostata simultanea ricondurrà le sue navi in prossimità del comandante supremo, di cui tutti imiteranno la manovra.
Mica male! Tra queste fitte maglie, dov'è lo spazio per l'iniziativa dei singoli gruppi? Che cosa farà nel frattempo il nemico? E perché le cose in una battaglia dovrebbero andare sempre così, a cominciare dalla nostra superiorità e libertà di manovra, che possono anche non esserci? Ad ogni modo il Bemotti coglie l'occasione per lanciare l'ennesima frecciata al Scchi, ritenendo inattuabile la concentrazione del fuoco contro uno stesso gruppo di navi avversarie mediante azione successiva delle nostre navi alle distanze più conveniente, così come proposto dal Sechi. A suo parere invece non è possibile l'azione successiva a distanza (non è chiaro il perché; e se non si può fare altro?) e "dopo aver tentato [nel modo prima descritto - N.d.a.] l'azione simultanea a distan-
za si verrà all'azione successiva ravvicinata". Chiudono quest'ultima parte altre considerazioni non nuove e quasi scontate, che tuttavia vale la pena di ricordare brevemente: - le idee sull 'impiego del materiale nella guerra marittima non ne hanno scguìto la forte evoluzione; infatti negli scritti del periodo del vapore
"scorgiamo una intricata massa di affermazioni e negazioni, una forte, ostinata tendenza a cercare nel passato insegnamenti nell'impiego di mezzi che da quelli antichi differiscono in modo completo ..." [Nelson non è dunque più valido? Eppure anche la concentrazione di forze proposta dal Bemotti ha molte analogie con la manovra di Nelson a Trafalgar, se mai superata dal Scchi - N.d.a.]; - da tale caos tuttavia si perviene per approssimazioni successive a idee tuttora valide, come quelle che non bisogna correre addosso all'avversario fin dall ' inizio del combattimento, che si deve combattere a distanza e che la ripartizione organica del le navi va fatta con criteri di omogeneità [quest 'ultimo già all'epoca è un concetto elementare - N.cl.a.] ;
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- ogni tipo di nave è funzione di variabili strategiche, quindi la soluzione del problema delle costruzioni non può essere dettata dalla tattica [non è vero; nella misura in cui progrediscono gli armamenti, è gioco forza considerare anche variabili tattiche - N.d.a.]; - la velocità massima di combattimento è un fattore tattico che perde la sua importanza quando gli avversari combattono bow to bow, ma può essere ben utilizzata, tenendo presente il detto di Mahan che solo l'artiglieria (e non la velocità) è capace di mandare a picco il nemico; - tanto meglio una nave potrà essere impiegata quanto più sarà veloce, quindi "alla velocità devesi dare il massimo sviluppo compatibile con gli altri elementi" [frase troppo generica; lo stesso vale per il cannone, la corazza ecc. - N.d.a.]; - per navi che hanno come arma principale il cannone l'importanza relativa della velocità di una nave rispetto agli altri elementi di potenzialità aumenta quanto maggiore è il suo dislocamento e quanto minori sono le forze complessive della flotta alla quale la nave appartiene [non è sempre cosi; vi possono essere navi - come già a quel tempo gli incrociatori - che pur avendo come armamento principale il cannone compensano con l'alta velocità il ridotto armamento e la ridotta corazzatura, o viceversa - N.d.a.]; - per mettere la flotta in grado di manovrare alla velocità massima sono necessarie conferenze per i Quadri miranti a ottenere unità di pensiero e quindi unità di azione, oppure opportune esercitazioni in tempo di pace; - come afferma il Marsclli, "occorre infondere il virus del pensiero nello spirito dell'uomo d 'azione". Perciò "chi non studia non profitta dell'attività intellettuale del rimanente de~li uomini, ed è assurdo sperare che sul campo di battaglia possa dal suo cervello scaturire l'idea determinante la vittoria sopra un nemico preparato". Ciò significa che occorre diffidare di quelli "che, in omaggio ali 'imprevisto, danno il nome di scienza militare ad un insieme di frasi vacue; costoro, chefra il sì e il no restano sempre di parere contrario, sono più dannosi degli scettici''. Non ci sembra che, con un siffatto approccio, il Bemotti giunga a risultati conclusivi nella ricerca di concetti o principi tattici tali da orientare convenientemente i Quadri, evitando da una parte di cadere in un nocivo e irrealistico schematismo, e dall'altra d i fornire solo elementi troppo generici. Anch'egli predica bene e razzola male, perché alla fin fine non fa altro che fornire uno schema d'azione nel quale la forza e l'atteggiamento del nemico hanno scarso peso, mentre la nostra flotta è pregiudizialmente superiore. Per ultimo va notato che l'intento del Bernotti di dare una base positiva alla teoria tattica è apprezzabile, ma che l'eccessivo ricorso da parte sua a fonnule matematiche non fornisce molti vantaggi, perché - come osserva anche il Sechi - serve a dimostrare concetti spesso non hanno bisogno di essere dimostrati, in quanto molto vicini a un elementare buon senso.
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L'altro articolo sugli studi di tattica navale non è che un raffittimento di concetti prima esposti, c partendo dalla premessa che sia possibile dare una base scientifica agli studi di tattica navale si ripromette di: 1° scegliere gli enti tattici, nonché gli assiomi su cui deve basarsi la tattica navale; 2° scegliere il metodo da seguire nello studio della scienza e dell 'arte tattica; 3° tracciare le linee di un programma di insegnamento della tattica navale.
Così facendo - precisa il Bemotti - si sceglie la strada di cercare di dimostrare, anziché (sembra abbastanza chiaro il riferimento al Bollati) ":,fogliare molti e molti libri e portare ai discepoli imbandita una specie di miscellanea col.frutto delle numerose letture". Gli enti tattici fondamentali sono tre: valore tattico intrinseco, direzione dello sforzo esterno e distanza. li valore tattico intrinseco (di una nave o di un complesso di navi) deriva dall' insieme dei mezzi di difesa e di attacco e non si può definire con esattezza, anche perché, per esempio, ne fa parte anche il grado di abilità dei cannonieri; la direzione dello sforzo esterno può essere individuata mediante l'angolo che essa forma con la direzione <lei moto. A questi due elementi si aggiunge la velocità; una situazione tattica in un dato istante è definibile i primi tre elementi fondamentali cd è ovviamente mutevole per effetto dei risultati delle offese e della manovra, con quest' ultimo termine intendendo "l'insieme dei movimenti angolari e di traslazione, che un combattente.fa per produrre o mantenere determinate condizioni'". Le manovre si classificano in diverse categorie, in base alla variabilità degli elementi tattici; in particolare da queste premesse derivano tre categorie di assiomi. Gli assiomi della prima categoria sono i seguenti. I) "Lo studio della tattica deve stabilire dei criteri per le manovre. Ogni regola implica un 'idea preconcetta su quello che farà l 'avversario. I criteri risultano dall 'esame di casi generali, mentre le regole da quello di casi particolari"'. In base a questo assioma bisogna regolarsi sui movimenti del nemico momento per momento, perché cercando d ' indovinare le sue mosse "noi affronteremmo tutte le conseguenze di un 'idea preconcetta", cosa che avverrebbe anche studiando la tattica mediante dei grafici, nei quali il nemico fa ciò che più a noi conviene. Così facendo non si dura fatica a convincersi che si può trovare per ogniformazione un caso a cui essa si adatti, ma resta in tal caso da pensare agli altri infiniti casi, c:he rimangono. [... ] Coloro che propugnano queste formazioni credono di fare una scoperta quando dimostrano che esse vanno ugualmente bene in tutti i casi, ma si dimenticano di osservare che esse vanno ugualmente male in tutti i casi[...]. Bisogna invece tendere ad avere in ogni momento una formazione che vada bene per quel momento [appunto: questo non impedisce al comandante in capo di scegliere una formazione iniziale il più possibile corrispondente alla situazione, ivi compresa naturalmente quella del nemico N .cl.a.].
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A maggior ragione vale quest'ultima osservazione, visto che lo studio della tattica - come conclude il Bemotti - deve indicare il modo per rendere sciolta, flessibile, agile una forza navale, fornendo dei criteri aventi lo scopo di mantenere la libertà d'azione e lasciando a ciascuno la libertà d'azione più conveniente. Seguono altri tre assiomi: II) "Ogni situazione tattica non può considerarsi indipendentemente dalle altre precedenti e seguenti"; III) "l'utilizzazione dei mezzi offensivi non può considerarsi indipendente da quelli difensivi, e viceversa"; TV) il rendimento dei mezzi offensivi e difensivi è direttamente proporzionale al grado di libertà d'azione [che peraltro può essere concessa in maniera elevata solo a comandanti validi - N.d.a.]. Superfluo sottolineare l'assoluta banalità dei predetti assiomi, che tali rimangono anche se il Bemotti opportunamente ricorda che a volte sono stati dimenticati. Va anche notato che criteri e regole in questo caso sembra possano derivare solo da un'esperienza storica, ma non si sa da quale, vista la sostanziale chiusura del Bemotti nei riguardi del periodo velico. Gli assiomi della TT categoria (che - come precisa il Bemotti - come quelli della lll si riferiscono specialmente alla lotta con il cannone) riguardano argomenti già esaminati trattando della tattica navale. Gli assiomi della III categoria derivano dai precedenti e sembrano ispirarsi alle direttive di Nelson a Trafalgar, partendo dal presupposto - non sempre valido - che si disponga di una superiorità anche morale rispetto all'avversario: "ogni nave da battaglia, che non rileva il nemico in un settore di massima offesa, non è al suo posto". Contiene in sè anche l'altro "ogni nave che ha per arma principale il cannone e che non combatte non è al suo posto". Ne consegue - precisa il I3ernotti - che diversamente da quanto avviene in campo terrestre, nel combattimento navale la riserva tattica non va costituita, a meno che non si consideri come tale il gruppo di navi che il comandante in capo non potendo contare sui segnali mantiene alle sue dirette dipendenze e fa partecipare ugualmente al combattimento, impiegandolo anzi per indicare agli altri l'obiettivo da raggiungere [ma allora non è riserva - N .d.a.]. Il Bemotti conclude con tre affermazioni discutibili. I) "È molto arrischiato trascurare l'utilizzazione massima delle armi col miraggio di una buona posizione tattica" . Si può obiettare che può rendersi necessario e utile per una flotta rompere il contatto, e che anche una flotta che agisce offensivamente può trovare utile - in base a quanto afferma lo stesso Bemotti - modificare in tutto o in parte la propria formazione anche al prezzo di un periodo di utilizzazione non ottimale delle armi. II) "Non soltanto bisogna cercare di porre in azione il massimo numero di cannoni; è anche indispensabile tendere alle concentrazione degli sforzi. La vittoria è acquisita dalla forza navale, per la quale i danni sono più ripartiti.fra le diverse unità". La prima parte di questa affermazione si avvicina all'ovvietà; la seconda non può essere condivisa, perché la vittoria si ottiene dehellanclo fin che possibile il nemico, e diminuendo
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fin che possibile i propri danni senza pretendere che siano ripartiti in ugual misura - il che è impossibile - tra le proprie unità. llI) "fl rendimento di una
nave nel combattimento di squadre è maggiore quanto più la nave è impiegata, rispetto alla nave nemica su cui dirige il tiro, con gli stessi criteri del duello navale". Anche qui il lettore legittimamente chiede: "ma chi farebbe altrimenti? TV) Altra ovvietà: "la libertà d'azione di una forza navale è massima, quando le navi sono ripartite in gruppi di navi omogenee per mobilità". Meglio aggiungere - cosa che non fa il Bernotti - "e per armamento". TI Bernotti nega che lo studio della tattica serva solo per esercitare la mente, perché ( così pensano taluni) solo alla prova del fuoco si potrebbe stabilire se un'idea sia giusta o errata; invece si tratta di definire dei validi criteri passando dalla scienza all'arte, cioè dai criteri stessi alla loro applicazione pratica alle circostanze. Per fare questo bisogna per prima cosa studiare le caratteristiche delle forze contrapposte, per poi fare previsioni sulle possibili manovra del nemico (supponendo sempre che operi bene) e per ultimo adattare tali previsioni alle circostanze. Per ciascuna di queste tre fasi bisogna procedere dapprima alla ricerca teorica di assiomi e criteri (teoria o scienza) e in secondo luogo agli esercizi di determinazione dei tipi <li manovra e della manovra (pratica o arte). Quest'ultima parte richiede l'accurata organizzazione cd esecuzione di giochi di guerra, perché "soltanto mediante appropriati esercizi di determinazione dei tipi di manovra si riesce a tradurre nel campo pratico i criteri teorici'', tenendo presente che, come scrive il Marselli, "~ran cosa è il concetto, ma a nulla approda senza una conveniente esecuzione", nella quale emergono le qualità dei grandi capitani. Il Bernotti solleva anche una questione generale molto importante: in campo navale lo studio della tattica deve precedere o seguire quello della strategia? A suo parere deve precederlo, ma la motivazione di questo punto di vista è assai debole e confusa: mentre nella battaglia terrestre nella scelta della direzione dell'urto entra una componente strategica, data la grande mobilità delle flotte le battaglie navali si danno per raggiungere determinati obiettivi strategici, ma "la direzione dell'urto non potrà essere in alcun modo influenzata da considerazioni strategiche; però considerazioni di tal genere influiranno nel determinare la natura del 'azione tattica". In altre parole, secondo il Bemotti anche sul mare può essere necessario tagliare il nemico dalle sue basi, ha in questo caso le esigenze strategiche "influiscono sulla natura del 'azione tattica, ne limitano lo sviluppo, ma non ne regolano la condotta". La conclusione è che in campo marittimo "mentre bisogna conoscere la tattica per studiare la strategia navale, d'altra parte lo studio del modo di combattere può svilupparsi completamente, [anche] quando non si abbiano conoscenze strategiche". Se si tiene conto dei suoi stessi assiomi, le differenze fra tattica navale e terrestre prima indicate dal Bernotti risultano inesistenti. Anche in campo terrestre una volta che si è venuti a contatto si tratta di battere il nemico e/o comunque di raggiungere lo scopo dell'azione tattica, a tale scopo subordinando non solo la direzione, ma tutte le modalità dell'azione da compiere: la stessa
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cosa avviene per la tattica navale. E come si fa ad ammettere che le considerazioni strategiche in campo navale possano influire sulle modalità di azione tattica, ma non sulla direzione lungo la quale essa si svolge, che dunque è la modalità principale? Si potrebbe dire, piuttosto, che sia nella battaglia terrestre che in quella navale si tratta di raggiungere lo scopo strategico: le modalità non contano, nulla in esse può pregiudizialmente essere escluso, o nulla pregiudizialmente incluso. In ambedue i casi, inoltre, bisogna conoscere la tattica per studiare la strategia navale, mentre anche senza conoscenze strategiche è possibile sviluppare e applicare almeno in buona misura le conoscenze tattiche. Questo vale specialmente per i gradi bassi e intermedi: perché sui piani alti della gerarchia è indispensabile conoscere sia la tattica (cioè la possibilità dello strumento) che la strategia. Così stando le cose, si deve constatare che al Bernotti sfugge l'unica ragione valida per far procedere lo studio della strategia da quello della tattica (il che equivale a stabilire la necessità che la tattica non sia serva passiva della strategia): al momento il progresso delle costruzioni navali costringe la tattica e in seconda istanza la strategia - a "prendere atto", a non dettare (o peggio imporre) esigenze ma a partire dalle possibilità, <lai nuovi orizzonti ma anche dai vincoli offerti dagli armamenti. Solo in questo senso è ammissibile, anzi è logico, capovolgere il tradizionale orientamento ad assegnare alla strategia il primo posto, sia in campo terrestre che in campo navale. A ben guardare, questo capovolgimento teorico sarà dimostrato valido dagli eventi della ormai vicina guerra mondiale (in campo terrestre, trinomio trincea-reticolato-mitragliatrice; in campo navale binomio siluro-mina). Alla fine dell'articolo il Bemotti fornisce una volta tanto delle riflessioni interamente condivisibili sulla metodica di insegnamento della tattica e della storia navali: - dato il progresso tecnico, non potrebbe seguire un vero corso di tattica un ufficiale che non abbia fatto un tirocinio, sia pur breve, su navi moderne; - poiché il tempo a disposizione è scarso, non si deve chiedere agli allievi uno sforzo puramente mnemonico per imparare un gran numero di pagine, nelle quali l'insegnante "ha riunito tutto ciò che è riuscito a racimolare"; bisogna invece insegnare loro "le questioni tattiche e strategiche, i punti cardinali per orientarsi, il modo di passare dai criteri alla loro applicazione"; - lo scopo al quale tendere è di far acquistare agli allievi stessi idee chiare, perciò devono essere sviluppati pochi concetti, che però siano di portata pratica evidente; - a tal fine l'insegnante deve accompagnare i criteri tattici esposti con esempi concreti, esercizi di determinazione dei tipi di manovra, giochi tattici; - bisogna far studiare agli allievi sia pur pochissime battaglie del passato, approfondendone però tutti i particolari. Lo studio della storia della tattica è infatti utile non in modo diretto, ma indiretto, perché serve a sviluppare il senso tattico;
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- nelle squadre devono essere organizzati frequenti giochi tattici, seguìti da conferenze critiche. Da questi scritti del Bemotti sulla tattica, e ancor più dai Fondamenti della tattica navale, traspare chiaramente la sua fede assoluta nella lotta con il cannone a distanza costante e la sua idiosincrasia per la mischia. TI rostro e il siluro non sono considerati come armi di importanza tale da influire sulle condizioni tattiche, quindi diversamente da quanto fa il Sechi sono ignorati. A questa lacuna il Bernotti pone ben presto riparo con due articoli, Le navi da guerra (1902) e La lotta ravvicinata (1904), 39 nei quali corregge la rotta avvicinandosi con una certa velocità al Sechi. Le sue affermazioni possono essere così riassunte: - i cannoni giganti sono giunti alla fine della loro vita e sono stati sostituiti da artiglierie di minor calibro ma con rapidità di tiro molto più elevata. A loro volta le corazze hanno diminuito lo spessore, ma la loro resistenza è assai aumentata; - fenna restando l'utilità della struttura cellulare degli scali, gli altri mezzi di difesa escogitati contro le anni subacquee si sono dimostrati di scarsa efficacia, ivi comprese le reti parasiluri; - il siluro è l' arma delle piccole navi destinate ad agire di sorpresa. È instai lato anche nelle navi da battaglia come arma secondaria, ed è utilissimo per la difesa dei porti insieme con le torpediniere fisse. A causa delle loro piccole dimensioni, infatti, le torpediniere sono poco atte alla ricerca del nemico e tengono male il mare; - il rostro è arma secondaria. Anche per imporre la lotta con il rostro occorre una velocità superiore; inoltre il ricorso a quest'arma non può convenire a navi molto piccole e richiede molta maneggevolezza; - la nave che non ha il cannone come anna principale e/o che si accorge di non poter sostenere la lotta con il cannone, cercherà la lotta ravvicinata col rostro o con il siluro. È però "razionale" cercare prima il combattimento a distanza e poi la lotta ravvicinata [idee analoghe a quella de Sechi, in contraddizione con altre precedenti affermazioni del Bemotti - N.d.a.]; - lo studio della lotta ravvicinata è il necessario complemento dello studio della lotta a distanza [in precedenza il Bemotti considerava solo la lotta a distanza, vista come lotta tout court - N.d.a.]. Non è infatti escluso che la lotta ravvicinata possa diventare una necessità, tanto più che "a questo esame induce il fatto della maggiore attitudine, che le navi moderne vanno acquistando alla lotta ravvicinata", attitudine dovuta all'adozione di tubi di lancio laterali subacquei e di tubi di lancio prodieri dei siluri [valutazione dimostratasi errata, fin da Tsushima - N.d.a.];
39 Rispettivamente in "Rivista di Artiglieria e Genio" dicembre 1902, pp. 292-3 I 5 (sintesi di una conferenza tenuta a La Spezia agli ufficiali frequentatori della Scuola di Artiglieria e Genio il 13 maggio 1902) e in " Rivista Marittima" I 904, I Trirm:stn: Fascicolo n, pp. 199-221.
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- oltre ali' errore nel l'apprezzamento della velocità nemica, molte altre cause concorrono a diminuire la probabilità di colpire del siluro. Pertanto il suo raggio d'azione è oggi ben lontano dall'imporre la lotta con quest'arma, che pur essendo arma utile anche per le grandi navi rimane di impiego occasionale, fermo restando che a tale impiego non può essere subordinata la manovra; - riguardo all'impiego simultaneo delle tre armi nella lotta ravvicinata, la miglior disposizione delle navi è quella che permette il simultaneo impiego delle artiglierie prodiere, e che differisce il meno possibile dalla linea di fila; - per l'impiego del rostro bisogna fondarsi sull'azione successiva e non sul concentramento, quindi anche per quest'arma è fondamentale la linea di fila; - in generale la manovra non porterà all ' urto, bensi allo strisciamento; "ma la possibilità dell'urto resta e resterà sempre, come certo rimane il fatto che il rostro è una terribile arma".
* * * Salta subito all'occhio la frattura concettuale esistente tra gli studi sui fondamenti della tattica navale e i due ultimi articoli, nei quali la lotta ravvicinata - e, con essa, il siluro e il rostro - si riaffacciano sulla scena. Qual è il vero Bemotti? Quello che in polemica col Sechi riduce la tattica a semplice lotta di artiglierie e giudica che il vero combattimento sia quello a distanza costante, oppure quello che di fatto si allinea con il Sechi, sia pur senza nominarlo? Si deve comunque constatare che in quest'ultimo caso egli rimane sulla scia dei principali autori del secolo XIX, poco di nuovo aggiungendo alle loro idee, mentre quando impernia il discorso tattico sul cannone si avvicina assai di più alla tematica e agli eventi del futuro, a cominciare dall'onnai vicina battaglia di Tsushima. Appare lodevole l' insistenza del Bemotti sulla necessità di eliminare gli schematismi nelle formazioni e nella tattica navale, cosa peraltro non nuova: ma anche in questo caso, contradditoriamente egli finisce - come tutti - con l' indicare meccanismi dell'azione e formazioni da lui ritenute a priori preferenziali. È bene peraltro chiarire che non solo le direttive, ma anche gli ordini, le norme, le regole (come ad esempio quelle derivanti dalle caratteristiche delle armi) non sono di per sè nocivi e quindi da evitare, anche se inevitabilmente limitano la libertà d' azione: tutto dipende dalle circostanze nelle quali sono emanati e seguiti. TI tentativo del Bernotti di dare alla tattica navale una base "non trascendente" forse perché troppo ambizioso appare solo in parte riuscito e si risolve in un esame o riesame delle oggettive condizioni di partenza della tattica navale, che però non sono la tattica navale e non dovrebbero mai essere ignorate, anche perché di frequcnl1; rasentano l'ovvietà. Là ove mostra di idolatrare
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il cannone, il Bemotti si allontana dai suoi maestri Bonamico e Sechi: ma è indubbio che questi suoi scritti giovani I.i nonostante i loro limiti rivelano la rara stoffa "relativista" e problematica del loro autore, dal quale è dunque lecito attendersi ben altre e più lineari prove. Mentre nell'articolo del 1901 sui Fondamenti della tattica navale egli contesta radicalmente il Sechi, in quello del 1902 sullo Studio della tattica navale prende come bersaglio l'opera del comandante austriaco Von Labrès sul Governo tattico delle flotte, sintetizzata e tradotta in italiano senza alcun commento dal Bonamico,40 il quale la definisce "il primo tentativo fatto, per quanto si conosca, onde determinare razionalmente le norme di governo di una forza navale allo scopo di stabìlire le norme di governo tattico di una forza navale e formulare criteri fondamentali di una tattica navale". Questi obiettivi sono evidentemente gli stessi che si prefigge il Bernotti quando, come si è visto, contesta le tesi di coloro che non ritengono possibile formulare dei criteri tattici senza la pratica esperienza della guerra, probabilmente riferendosi all'affermazione del Bonamico che "la soluzione teorica [dei problemi tattici] non può imporsi se non viene avvalorata dalla pratica sanzione della guerra". Lo studio del Von Labrès dice ben poco di nuovo rispetto ai contenuti degli scritti fin qui esaminati, rispecchiandone anche gli ormai noti effetti. Premesso che la battaglia è "quasi sempre il Jàtto risolutivo di una campagna di guerra", per il Von Labrès la sua condotta non può derivare esclusivamente dalla pratica di guerra, ma "deve anche essere subordinata a regole ed a principf, che costituiscono la dottrina pratico-scientifica della guerra". Al momento, per la mancanza della sanzione sperimentale di una guerra, "la tattica navale non può ancora considerarsi, come quella degli eserciti, una scienza" [si può obiettare che la tattica degli eserciti del momento non è una scienza, semplicemente perché non potrà mai diventarla appieno; né basta l'esperienza di una guerra per pervenire a una scienza - N.d.a.]. I requisiti delle formazioni di combattimento indicati dal capitano austriaco sono i soliti, difficili da tradurre in pratica perché tra loro contrastanti; in particolare tali formazioni devono pennettere il simultaneo impiego del cannone e del siluro. Diversamente dal Bemotti egli non considera la linea di fila semplice una buona formazione, perché "poco corrisponde alle esigenze di una squadra numerosa, diventando pesante, poco consistente e poco adatta ad efficaci operazioni tattiche", quindi è facilmente soggetta ad essere forzata o rotta. Meglio sarebbe "la colonna a scacchi o linea difìla a denti'', che conserva quasi tutti i vantaggi della linea di fila semplice acquistando nello stesso tempo maggiore forza offensiva e difensiva. Per contro è difficile da mantenere, il suo valore offensivo nello scontro e difensivo nel combattimento ravvicinato
40 RudolfVon Labrès, // governo tattico delle flotte, in "Rivista Marittima" 1902, Ili Trimestre Fascicolo Vll, pp. 193-253. li Von Labrès, intimo del Tegetthof, fu suo Capo di Stato Maggiore nella battaglia di Lissa e insegnante alla Scuola Navale austriaca di Venezia.
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specie per quanto riguarda l'impiego dello sperone lascia molto a desiderare, è debole a prora e poppa, è più rigida che la linea di fila. Tenendo conto di questi difetti il Von Labrèes ritiene preferibile le formazioni quadrilatere a quattro o sei navi, che a loro volta si articolano in vari tipi. Netta differenza quindi dal Bemotti, dal quale egli si distingue anche per un più realistico ed equilibrato apprezzamento del valore della velocità: la manovrabilità di una nave risulta dalla complessa ejfìcienza della velocità e della evolutività, e da quella risulta la manovrabilità di una squadra. Entrambe queste caratteristiche sono importanti e sarebbe diffìcile dire quale delle due sia tatticamente preponderante. in questi ultimi anni la velocità crebbe costantemente.forse a detrimento della evolutività, ma è assai dubbio che questo incremento di velocità abbia, nel combattimento di squadre contro squadre, quel valore decisivo che le viene generalmente attribuito[ .. .). È pure probabile che fra le due squadre non vi sia grande differenza di velocità, giacché questa circostanza tenderebbe, in tesi generale, ad escludere la battaglia, la quale, nella maggior parte dei casi, presuppone una reciproca disposizione d 'ambe le parti a combattere.
"l'assioma della teoria tallica" (o principio fondamentale) per il Von Labrès è quello di sempre: operare in modo da riuscire preponderanti sul punto decisivo, come avviene anche in campo terrestre. Questo si ottiene o con la superiorità materiale delle forze o con la superiorità nella direzione tattica del combattimento. Se per la flotta più debole è esclusa ogni probabilità di vittoria, "è doveroso non esporla a certa disfalla, tanto più se motivi politici e militari impongono di evitare il combattimento per preservare la flotta, la quale, se anche più debole, pure col solo suo esistere inceppa la libertà d'azione della flotta più forte". Tuttavia in mare anche una flotta più debole, purché ben costituita e ben guidata, può tentare la fortuna "in condizioni d'inferiorità che in un combattimento territoriale cagionerebbero inevitabilmente l'annientamento del più debole". In mare questo vantaggio del più debole dipende "dallo spiegamento eccessivo delle forze numerose, per modo che riesce difjìcile l 'utilizzazione di tutte le forze contro un nemico più mobile e compatto" [affermazioni prive di fondamento: anche in campo terrestre forze inferiori possono aver ragione di forze superiori, mentre la superiorità di forze non è mai un impaccio né in campo terrestre né in campo navale: se diventa uni svantaggio è solo per difetto di coesione e di leadership, come a Lissa - N.d.a.]. La superiorità della direzione tattica del combattimento consiste nella capacità di concentrare l'attacco contro i punti deboli dello schieramento nemico (che sono i suoi punti estremi e i suoi fianchi), tenendo presente "il principio che i movimenti della propria flotta debbono regolarsi secondo la posizione che presumibilmente raggiungerà in un determinato intervallo di tempo la flotta nemica". Segue una minuta casistica nella quale si studiano le condizioni dell'attacco di due flotte in formazioni diverse, dalle quali anche in questo caso si ricavano con l'aiuto di diagrammi "norme e regole" che "servono a
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determinare i criteri dell'attacco in rapporto allo scopo militare o Lattico della manovra" [ frasi ovviamente da bocciare, non solo perché tra scopo militare e tattico della manovra non vi può essere differenza, ma anche perché di "regole" non si dovrebbe proprio parlare, né tanto meno da esse si dovrebbero ricavare dei criteri - N.d.a.]. Il Von Labrès ammette anche che il combattimento possa risolversi in una mischia generale, quindi esso comprende (ecco il solito schematismo!): I 0 ) fase manovrata, fuori tiro efficace; 2°) fase balistica, a grande distanza, fra i 3 e 5000 metri; 3°) fase balistica a media distanza, fra 3000 e 1000 metri; 4°) fase tattica ravvicinata, a meno di mille metri e comprendente defilamenti e incrociamenti; 5°) mischia generale, che può comprendere l' intervento delle riserve e di squadriglie che non hanno preso parte al combattimento. Le varie fase sono da lui descritte con abbondanza di grafici miranti a illustrare le formazioni e le manovre più vantaggiose. Provocare la mischia fin dalle prime fasi della battaglia è un errore, specialmente per il partito che può riuscire preponderante nel combattimento a distanza. Nulla di nuovo per quanto attiene all'impiego delle armi; il cannone è preponderante anche nel combattimento ravvicinato, il siluro è nettamente sottovalutato per asserita mancanza di esperienza bellica anche nella mischia, mentre il rostro - di impiego eventuale e casuale nelle fasi precedenti - in quest'ultimo caso avrà "compiti importanti; specialmente per quel partito che manovra per gruppi contro le singole navi dell'opposto partito". Nulla di nuovo, infine, per quanto attiene all' impiego delle torpediniere, che è da escludere nel combattimento a grande e media distanza e trova le migliori condizioni nel combattimento a distanza ravvicinata, nella mischia e nell'attacco notturno. Del tutto a ragionare il Bemotti rimprovera più volte al Von Labrès un eccessivo schematismo, che come al solito lo porta a presumere senza alcun fondamento che la lotta vada in un certo modo, o fornisce soluzioni che legano le mani ai comandanti per ottenere vantaggi solo ipotetici o evitare pericoli che possono essere anche immaginari. Egli non condivide nemmeno l'altra affermazione del Von Labrès che il pregio di una formazione tattica non dipende interamente dall'utilizzazione sistematica e continua della capacità offensiva (essenzialmente dovuta all'artiglieria) delle singole navi, quando invece tale capacità determina in ogni momento l'efficienza della flotta. infine per il Bernotti i punti deboli da attaccare non sono necessariamente - come per il Labrès - gli estremi della formazione nemica, ma quelle parti di tale formazione le cui navi hanno debole valore tattico intrinseco, oppure che prescindendo dal loro valore intrinseco sono in posizione tale da favorire il concentramento degli sforzi su di esse, senza che le navi loro amiche possano esplicare sull'avversario la massima azione. Alla luce dell'analisi del Bernotti, non si capisce perché il Bonamico abbia stranamente firmato la sintesi dell'opera del Von Labrès senza alcuna osservazione, in tal modo - lo si suppone anche dalla conclusione a lui forse dovuta dando modo di ritenere che ne ha fatto proprie le idee. In ogni caso
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l'opera del Von Labrès, i cui limiti sono spesso analoghi a quelli della letteratura navale italiana del 1870 in poi, consente di stabilire che all'inizio del secolo XX anche ali' estero il livello raggiunto dagli studi tattici è presumibilmente analogo a quello italiano, senza che vi si riscontrino punti di eccellenza o traguardi più avanzati rispetto ai nostri.
SEZIONE II - Gli ammaestramenti della battaglia di Tsushima (27-28 maggio 1905): vittoria definitiva del cannone ma conferma del siluro
Negli scritti fin qui esaminati molti lamentano la mancanza di esempi di grandi battaglie, attraverso i quali dare una base più solida alle rispettive teorie, specie per quanto concerne l'impiego delle armi fondamentali e le conseguenti formazioni di combattimento. Sarebbe stato necessario soffermarsi di più sulle forti differenze sempre esistenti tra le due flotte nemiche - non da Lissa, ma da Trafalgar in poi - nella qualità del comando, nel talento del Capo, nella preparazione ed omogeneità della flotta, nell' addestramento dei Quadri e nel loro affiatamento, nell'accurata istruzione degli equipaggi e in particolare dei cannonieri. Queste differenze sono state in effetti tali da togliere molto a considerazioni meramente tecnico-tattiche, che potrebbero trovare benissimo un fondamento anche nelle battaglie dell'età del vapore che hanno preceduto Tsushima; né si dovrebbe dimenticare che la battaglia di Trafalgar, rimasta un modello anche nell 'età del vapore, è avvenuta verso la fine del periodo velico, del quale - per merito di Nelson - ha sconvolto il principale e indiscusso parametro fino a quel momento in vigore anche nella Royal Navy, cioè quello dell' intangibilità della linea di fila teorizzata a fine secolo XVII da Padre Hoste, che andava mantenuta ad ogni costo. Ciò premesso, la battaglia di Tsushima, la prima del secolo XX, l'ultima combattuta senza la presenza del mezzo aereo e l'ultima con carattere decisivo con la distruzione pressoché totale della flotta soccombente, da un punto di vista strettamente tattico non presenta alcuna novità, se si eccettua l'impiego per la prima volta da parte giapponese della radio (telegrafo senza fili), che ha fortemente contribuito alla vittoria della flotta giapponese mettendola in grado di scoprire in tempo la flotta russa e di avvolgerla manovrando per gruppi di navi ben coordinati tra di loro. Per il resto le vicende della guerra russo-giapponese 1904-1905, e non solo di tale battaglia, suonano conferma di spicchi di verità già emersi da tempo, come l'importanza della leadership, della preparazione della flotta e dell'istruzione degli equipaggi, il definitivo accantonamento del cannone gigante e la prevalenza dei cannoni di medio calibro (il calibro massimo impiegato è da 305 mm, con numerosi pezzi di calibro inferiore), l'efficienza complessivamente dimostrata anche di giorno dalle tOTpediniere, il molo insignificante del rostro, la pericolosità di vecchie armi come le mine fis-
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se che è ignorata, come si è visto, sia dagli autori di fine secolo XIX sia dal Makarov e dal Bollati. Sulla battaglia in questione, avventa il 27-28 maggio 1905, il primo studio notevole in ordine cronologico è quello del tenente di vascello Amedeo Acton, che descrive con molta precisione i singoli episodi per poi fornire una serie di considerazioni e ammaestramenti di elevato interesse, che sono la base degli studi successivi.41 Dal lavoro dell'Acton si deduce: - l'elevata efficacia dei medi calibri (i russi disponevano di 45 cannoni da 305 e 254 e di 179 cannoni da 152; i giapponesi di 16 cannoni da 305, 1 da 254 e 207 da 152)42 contro le sovrastrutture non corazzate e dei cannoni a tiro rapido da 76 contro le torpediniere. Manca un accenno specifico ai 305; - l'inefficacia dei siluri lanciati dalle navi maggiori, soprattutto perché tali tipi di navi da ambedue le parti si sono mantenuti al di fuori della loro distanza utile di lancio del momento, cioè a 3000 m circa; - la nessuna utilità del rostro, mai impiegato; - l'efficacia delle torpediniere e dei cacciatorpediniere anche nell'impiego diurno (peraltro questi tipi di nave non erano incorporati nell'annata giapponese in mare ma partivano al momento opportuno da vicine basi), ciò che costituisce un ulteriore vantaggio geografico dei giapponesi, che "giocano in casa"; - l'utilità dei proiettori e l'importanza della velocità, che "sia nel campo strategico che nel campo tattico è un coefficiente importantissimo per una nave da battaglia"; - la scarsa convenienza dei combattimenti a grandi distanze, che ''fanno vuotare i depositi di munizione e nulla di più" e la maggiore efficacia del fuoco alle distanze più ridotte (circa 3500 m); - i I mancato impiego dei sommergibili; - la grande utilità della radiotelegrafia, anche se da parte giapponese non si è reso necessario ricorrere a molti segnali durante l'azione, sia per l'intelligente cooperazione degli ammiragli in sottordine, sia per le esaurienti istruzioni che essi hanno ricevuto prima dell 'azione, sia perché le navi di ciascuna divisione seguivano nell'ordine le rispettive navi ammiraglie; - in ogni caso "il coefficiente più importante della battaglia è la capacità del/ 'ammiraglio in capo e quella dei rispettivi comandanti''. Tenendo conto di questi ammaestramenti, l'Acton delinea un tipo di nave da battaglia di medio dislocamento, ancora assai lontano dalla Dreadnought perché con calibri multipli tendenzialmente ridotti: solo 2 cannoni da 305 con
41 Amedeo Acton, Sulla battaglia di Tsushima - considerazioni tattiche, in "Rivista Marittima" I 906, II Trimestre Fascicolo VI, pp. 475-497. 42 Dati riportati in "Enciclopedia Militare" 1933, Voi. 6° p. I 3 I O.
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8 da 254 o 234, 16 da 76 e 23 miglia di velocità, che quindi consentirebbero di dare il dovuto risalto al numero. Nel suo commento alla battaglia il Bonamico perviene a conclusioni in buona parte concordi con quelle dell' Acton, con particolare riguardo alla preminenza delle forze morali, all'importanza dei calibri intorno ai 200 mm (ma non dei 305), della velocità e delle torpediniere anche all'attacco diurno, allo scarso rendimento del siluro sulle navi maggiori e al mancato impiego del sommergibile.43 In particolare, per il Bonarnico: - "checché ne pensino il Mahan e i suoi fakiri", la velocità è il.fattore principale tanto tattico che strategico. Essa è particolannente utile per prendere tra due fuochi la fònnazione nemica [come ha fatto Togo a Tsushima N.d.a.], in modo da trarre il massimo rendimento dal tiro, che è possibile solo con una velocità superiore a quella del nemico [su questo, ci sarebbe da discutere - N.d.a.]; - un tiro ben regolato alle grandi distanze in un 'ora o due può danneggiare le sovrastrutture e le parti non corazzate a un punto tale, da compromettere gravemente la difesa contro attacchi torpedinieri; - senza un adeguato naviglio torpediniero non si può impiegare utilmente il naviglio corazzato; - il calibro da 200 mm circa [non quello da 305! - N.d.a.] è sempre il più efjìcace, per la sua azione distruttiva delle parti non corazzate; ma "il cannone da solo non risolve rapidamente la lotta tra corazzate se non interviene il siluro, o se non genera incendio"; - l'efficienza del cannone rimane sempre tatticamente preponderante, perché eçsa sola può assicurare l 'impiego del siluro nella battaglia diurna; tuttavia bisogna tener presente che il tiro deve cominciare alle grandi distanze, quindi i mezzi di puntamento devono consentire questa possibilità; - gli effètti più risolutivi del tiro sono quelli incendiari e di distruzione delle sovrastrutture, che devono essere ottenuti a distanze non inferiori ai 3000 metri per consentire un regolare svolgimento della manovra tattica; - per contro la lotta d 'artiKlieria tra corazzate fcioè con il calibro massimo 305 - N.d.a.] "non provoca grandi risultati diretti ma soltanto indiretti, se si escludono quelli incendiari" [solita sottovalutazione della corazzata N.d.a.]; - "la simultanea preponderanza del potere balistico a grandi distanze, della velocità e del naviglio torpediniero assicura il completo successo"; - l'incendio, che è stato causa principale dei disastri nelle battaglie di Cavite e Santiago, mentre nella battaglia di Tsushima ha costretto a uscire dalla linea parecchie navi russe, specialmente per i suoi effetti morali è un fattore risolutivo importante, quindi occorre migliorare i mezzi di difèsa antincendi; - "la corazzatura ha riconfermato il suo grande valore difensivo piuttosto per la sua estensione anziché per il suo spessore; ma questo fatto derivante dal-
43 Domenico Bonamico, La grande battaglia di Tmshima, in "Rivista Marittima" giugno 1905 e agosto 1905 (Cfr. anche Domenico Bonamico, Scritti sul potere marittimo (cit.), pp. R44-R6'i.
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la distanza di tiro mantenuta in questa battaglia non giustificherebbe ancora eccessive riduzioni degli spessori a vantaggio della estensione"; il siluro non si è dimostrato efficiente come arma installata sulle grandinavi e si è rivelato forse più pericoloso che utile; ma "sarebbe imprudente escludere che non possa avere in avvenire una maggiore efficienza ed essere escluso dall'armamento delle grandi navi"; per contro il naviglio torpediniera ha confermato la sua efficacia, "dimostrandosi il fattore diurno risolutivo più efficace, quando sia preparato e protetto l'attacco", anche se è lecito supporre che l'eroismo degli equipaggi e le circostanze propizie non potranno facilmente ripetersi; il naviglio torpediniera "garanti sce il dominio notturno del mare; permette la completa utilizzazione della vittoria; assicura l'impiego delle grandinavi; consegue grandi risultati con piccola spesa e limitati sacrifici"; i sommergibili non hanno ancora dimostrato le loro possibilità. "È nos tro convincimento" che lejòrti correnti e le circostanze della battaglia di Tsushima non ne abbiano consentito l'impiego, "sebbene non manchino afiè rmazioni che sono forse di affaristi industriali"; sembra che l'impiego delle mine galleggianti a Tsushima sia stato assai inferiore rispetto a quello della battaglia del 1Oagosto 1904 Lcioè degli scontri tra la flotta russa dell'Estremo Oriente, che tentava di uscire da PorlArthur, e la flotta giapponese che impiegava in modo assai redditizio torpediniere e mine galleggianti - N.d.a.]; "la radiotelegrafia [usala solo dai giapponesi - N.d.a.] fu l'origine prima del grande disastro. Senza tale mezzo di segnalazione Rojestwcnsky avrebbe liberamente superato la zona pericolosa, poiché Togo non avrebbe raggiunto la squadra russa che quattro ore più tardi"; il principio [nelsoniano - N.d.a.] del concentramento tattico sul punto decisivo non fu applicato dal Rojestwensky, che pure avrebbe potuto tentarlo, ma solo dal Togo; il concentramento tattico principalefu attuato dal Togo concentrando ilfaoco delle sue quattro corazzate e dei suoi incrociatori [di qui la superiorità della manovra del fuoco rispetto a quella delle forze, che però attenua l' importanza della velocità - N.d.a.]; fa formazione della flotta russa (su due linee parallele come quella di Nelson a Trafalgar. più una terza colonna di navi complementari e incrociatori ausiliari, che procedeva più arretrata in modo la lasciar libero il campo di tiro delle artiglierie delle due colonne principali) era nel complesso la più rispondente alle sue effettive condizioni, perché la formazione di rilevamento per gruppi indipendenti di 4 navi, in teoria migliore, avrebbe richiesto un livello addestrativo superiore. più precisamente " il sistema tattico prescelto dal Togo fu quello da noi definito di reparti speciali ed indipendenti manovranti al conseguimento di un unico e comune obiettivo tattico prestabilito", già previsto [dallo stesso Bonamico] nel commento al c01iflitto ispano-americano.
Questi ammaestramenti del Bonamico sono di prima mano, visto che egli chiude il suo articolo sull'ultimo periodo della guerra - pubblicalo dalla Rivi-
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sta Marittima di agosto - il 5 giugno 1905, cioè a poco più di un mese dalla battaglia. Un exploit veramente notevole dati i mezzi di comunicazione di allora, che però non lo mette al riparo da qualche imprecisione, come del resto egli stesso ammette. Non manca di sottolineare questo limite il vice-ammiraglio Marchese, il quale in un articolo del successivo settembre 1905 gli contesta errori e affermazioni, che peraltro incidono assai poco sulla validità complessiva delle sue deduzioni, addirittura sorprendenti data la lontananza e dato il poco tempo trascorso.44 Il Marchese esprime (a torto) dei dubbi sulla frase di Bonamico che "i/ fatto tattico preponderante della battaglia .fu l'attacco torpediniera diurno", perché da altri documenti gli risulta che [cosa non vera N.d.a.] tale impiego addirittura non è avvenuto. Inoltre non concorda con l'affermazione del Bonamico che le altre battaglie del passato sono "assai lontane dall'epico e tragico evento di Tsushima" e che "la battaglia di Tsushima, giudicata tatticamente, è ancor più bella e perfetta di quella di Trafalgar". Gli exempla historica citati dal Marchese a conforto di questa tesi sono interessanti ma poco convincenti; così come poco convincenti e storicamente non accettabili sono le sue considerazioni miranti a sminuire la vittoria giapponese, basate sul "se" e sugli errori del Rodstejewsky: se la flotta rnssa avesse manovrato così e così... Diventa un'ombra sulla vittoria giapponese addirittura il fatto che la flotta russa non è stata aiutata dalla fortuna; ad ogni modo, è condivisibile la sua afTcnnazionc che è certo che nelle acque di T.mshima i due avversari si affrontarono in ben diverse condizioni morali, professionali, militari e tattiche. Quello che manifestamente era il più debole, andava incontro alla battaglia, disposto in ordinanza tattica difettosa [ma anche Nelson a Trafalgar, aveva disposto la flotta su due colonne - N.d.a.]; mentre il piùfòrte sotto ogni riguardo, aspettava in agguato nel più propizio campo d 'azione, dove s'era ben predisposto per la lotta; e quasi tanta dif}èrenza non bastasse, anche lo stato del mare e del vento congiuravano in danno del primo, a fa vore del secondo.
Ci sembra assai più equilibrato di quello del Marchese il giudizio sulla battaglia del generale Dal Verme, che nelle linee essenziali, sia pur non sempre, coincide con quello del Bonamico, senza addentrarsi in sempre opinabili e poco significativi paragoni di carattere storico.45 TI Dal Verme si richiama a fonti ineccepibili: il rapporto particolareggiato dell ' ammiraglio Togo e, da parte russa, in mancanza del rapporto dell'ammiraglio in capo, i rapporti parziali del contrammiraglio Enquist e dei comandanti dell' Irmrnd e del Bravy. Anche dall'articolo del Dal Verme non risulta confermato il mancato impiego delle torpediniere giapponesi nell'attacco diurno, sostenuto dal Marchese; anzi alle 19 circa pomeridiane del 27 maggio (cioè all'imbrunire) "la squadriglia di torpe-
45 C. Marchese, A proposito della battag lia di T.mslrima. in "Rivista Marittima" 1905, III Trimestre Fase. IX, pp. 207-245.
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diniere del comandante Fugimoto fu presto addosso alla corazzata Suvarov (in precedenza gravemente danneggiata), chefece ancora un 'ultima resistenza con un piccolo cannone a poppa, e colpita da due siluri colò a fondo". Più in generale per il Dal Verme le torpediniere, pur avendo avuto la parte più importante negli attacchi notturni, hanno dimostrato un ottimo rendimento anche di giorno, sì che "la maggior superiorità da parte degli isolanifu nel naviglio torpediniera". Il Dal Verme non sembra molto entusiasta del rendimento del le corazzate: dopo i primi telegrammi - egli afferma - si è pensato che il cannone avesse vinto la corazza, ma più tardi, secondo più attendibili notizie, era il siluro che aveva mandato a picco le corazzate. La relazione del Togo pone invece in evidenza che fu il più delle volte il cannone a mettere fuori combattimento le navi rosse, quasi sempre coll'incendio a bordo, e il siluro.fu destinato a finirle; talora il solo cannone compì l 'opera letale; cosicché si può dire che l'uno e l 'a/tro fecero a tempo opportuno l 'ufficio loro.
Se il generale - come l'Acton t:: il Bonamico - non è entusiasta del rendimento dei calibri da 305 e delle forti corazze, apprezza però gli incrociatori veloci armati di calibri inferiori : i giapponesi hanno aflrontato la grande prova sul mare con sole 4 navi da hattaglia [con cannoni ùa 305 - N.d.a.]; quelle navi che si è continuato per degli anni a proclamare, come lo dice il nome, le sole atte a sostenere il nerbo della battaglia. Ma gli uomini di mare del Nippon, memori del sopravvento del materiale veloce condotto nel settembre 1894 contro le tarde corazzate cinesi dell 'ammiraglio lto,fldavano negli otto superbi incrociatori corazzati, dei quali sei, tutti uguali, di 9800 tonnellate, e due di 7700, tutti potelllemente armati e veloci, e male non si opposero, perché La prova superò qualunque aspettativa.
lnfine, a proposito dell 'impiego del rostro il Dal Verme a ragione è ancor più categorico del Bonamico: la battaglia "ha conjèrmato quello che era già parso assodato durante tutta la lunga guerra, e cioè l' assoluta inutilità dello sperone,facilmente spiegata dall'azione lontana delle artiglierie e da quella vicinissima del siluro; il che però non impedisce che si persista a spendere inutili somme in 40-50 tonnellate difèrrofucinato a prua, a detrimento di più robusta corazzatura dei fianchi della nave o di maggior velocità". In effetti ci si ostinava ancora a commettere questo errore nelle costruzioni navali italiane dell'epoca, ivi compresa la Dante Alighieri nostra prima Dreadnought; la prima Dreadnought inglese invece ne era priva, il che non gli ha impedito di speronare e affondare il sommergibile tedesco U-29 durante la prima guerra mondiale. Tenendo conto anche delle osservazioni del Dal Verme, ci limitiamo a sottolineare solo gli aspetti non condi visibili degli ammaestramenti fin qui tratti
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dalla battaglia: 1) nella preferenza del Bonamico per i calibri da 200 circa, installati in gran parte sugli incrociatori, viene alla luce la sua vecchia ostilità per le corazzate, che non è stata confermata dalle vicende della lotta, perché la demolizione delle sovrastrutture di buona parte delle navi russe non può che essere dovuta, in primis, ai 305 delle corazzate e perché solo i 305 potevano raggiungere quelle lunghe gittate da lui ritenute necessarie. 2) Non si capisce perché, dopo tre battaglie dal 1894 in poi nelle quali il rostro è stato letteralmente accantonato, Bonamico non si sente di chiudere una volta per tutte la porta a quest'arma. 3) Egli mette giustamente l' accento sul rendimento delle torpediniere, ma non spiega perché le 12 siluranti da lui accreditate alla flotta russa non hanno ottenuto alcun risultato. 4) Del pari, la notevole differenza a tutto favore della flotta russa nel numero e calibro dei pezzi da 305 che dimostrano i dati prima citati non è né da lui né da altri evidenziata. Tirando le fila, si può affermare che il primo vantaggio di Togo è stato di "giocare in casa" contro una flotta logorata, a cominciare dallo stesso comandante, dall'interminabile viaggio di trasferimento. Questo fatto ha avuto primari riflessi positivi anche sull' impiego delle torpediniere, avvenuto in un braccio <li mare alla distanza massima di 30 miglia dalle coste amiche. Il secondo suo vantaggio, come più volte detto, è stato l'impiego (per la prima volta) del mezzo radio, che gli ha consentito di scoprire per tempo la flotta nemica e di predisporre le sue forze nella migliore formazione. È molto probabile che abbia impartito a mezzo radio anche ordini nella fase condotta dell'azione, che è stata così mirabilmente coordinata e simultanea da far supporre che i vari gruppi e l'impiego delle torpediniere -abbiano ubbidito a un'accurata regìa, visto che sarebbe stato assai difficile, se non impossibile, lasciare che questi si coordinassero da soli, come pretenderebbe l'Acton. Terzo vantaggio: a parte il coraggio e il valore degli equipaggi, che non sembra siano mancati nemmeno sulle navi russe, ha come sempre avuto grande peso anche il superiore addestramento dei Quadri e in particolare dei cannonieri, che spiega ( come a Cavite e Santiago) la forte differenza di rendimento del tiro. Rimane da considerare l'importanza della velocità (da Acton e Bonamico ritenuta indispensabile per assicurare il concentramento del fuoco), che i giapponesi hanno fatto pesare grazie alla loro superiorità anche in questo campo: ma sarebbe stato necessario, più in generale, un confronto tra le prestazioni, le caratteristiche dettagliate, i pregi e i difetti del naviglio impiegato dalle due parti, che non ci è possibile compiere per mancanza di documentazione. A proposito del naviglio, comunque, va escluso che la battaglia di Tsushima abbia segnato una svolta definitiva verso laDreadnought; al massimo l'ha confermata e favorita, visto che - a parte il celebre studio del 1903 del Cuniberti - la prima Dreadnought inglese è stata impostata il 2 ottobre 1905, cioè a distanza di poco più di quattro mesi dalla battaglia, tempo evidentemente insufficiente per mettere allo studio ex-novo i piani di costruzione, approvarli e passare all'organizzazione c all'inizio dei lavori. Va ancora sottolineato che sarebbe profondamente errato trarre dalla battaglia di Tsushima come dalle altre insegnamenti puramente tecnico-tatti-
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ci. Vale anche in questo caso quanto afferma nel citato articolo di critica ai Pensieri di strategia e tattica navale del Baggio, il Roncagli, che rimprovera al1'ammiraglio spagnolo Cervera, sconfitto nella battaglia di Santiago di Cuba (1898), di non aver impiegato le forze navali ai suoi ordini "con qualche criterio direttivo più conforme alle esigenze della guerra moderna", prendendo caccia dagli americani appena fuori dal porto. In realtà - osserva il Roncagli - le lettere dell'ammiraglio Cervera dimostrano che l'insufficiente preparazione del personale e del naviglio ai suoi ordini non gli consentiva di scegliere liberamente tra accettare o evitare il combattimento, e che la sua sconfitta è stata inevitabile dopo che da Madrid gli si è imposto -contro il suo parere - di dirigersi a Cuba. Se, dunque, la vittoria o la sconfitta nei combattimenti dipendono da molti fattori, si deve anche tener conto che, più a monte, la politica e la strategia navale creano vincoli e premesse favorevoli o sfavorevoli, ulteriormente aumentando la complessità degli eventi e delle loro cause.
SEZIONE JU - Dopo Tsushima: i progressi paralleli del cannone e delle armi di contrasto I "Fondamenti di tattica navale" (19 I O) del Bernotti: aprioristica esaltazione della battaglia decisiva Tsushima pone fine a un lungo periodo di incertezza non tanto nelle costruzioni navali ma negli orientamenti tattici delle principali Marine, che sono largamente univoci a proposito della battaglia navale di stile mahaniano, del ruolo preminente delle navi di linea (sia pur senza le artiglierie giganti) e della parallela importanza del naviglio torpediniero. Viene perciò comunemente adottato come criterio fondamentale "quello di considerare come obiettivo essenziale la distruzione o la para/izzazione delle fòrze navali del nemico, anche se si ammette la possibilità che la battaglia decisiva possa anche non avvenire", e anche se si riconosce il pericolo per le grandi navi rappresentato dalle torpediniere.46 Tsushima segna dunque un colpo definitivo alle teorie anti-grandi navi, senza peraltro indurre a trascurare i mezzi di contrasto (siluro, mina e - per la prima volta-dirigibili o aerei). In questo contesto che privilegia fin troppo il cannone, la tattica navale ha ben poco di nuovo da dire; l'unica opera di rilievo, che vale la pena citare, sono i Fondamenti di tattica navale (1910) del Bemot-
46 Luchino Dal Verme, La battaglia di Tsushima. in "Nuova Antologia" Voi. CXIX Fascicolo 809 - 1 settembre 1905, pp. 111-132. 47 Ferruccio Botti, la guerra marittima e aerea secondo Romeo Bernotti (cit.), Cap. II Le dottrine dell"anteguerra.
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ti, 47 che vi riassume i concetti precedentemente espressi con qualche aggiunta. Forse perché l'opera ha finalità didattiche, sulla battaglia navale, clou del sistema, il Bemotti è assai più tassativo e mahaniano che in passato, fino ad apparire - forse contro le sue stesse intenzioni - dogmatico: la distruzione delle forze mobili deJl'avversario costituisce l'obiettivo essenziale a cui devesi mirare costantemente [anche con forze inferiori e/o con una situazione strategica che non rende conveniente la battaglia, proprio come quella della flotta russa a Tsushima? - N.d.a.]; il pretendere di conseguire loscopo della guerra evitando la battaglia fra le f orze principali, e cercando obiettivi secondari, è mostrato inlieramenle erroneo dalla storia e dal raziocinio; a noi italiani fruttò Lissa. È sommamente preferibile una battaglia voluta anziché una battaglia subìta [certo: ma se non si può? - N.d.a.). 4 K
Le considerazioni di contorno a questo assioma sono anch'esse dogmatiche, perché partono dal presupposto (errato) che ambedue i contendenti abbiano piena libertà d' azione, siano a parità di forze e ambedue cerchino la battaglia, cosa che non è avvenuta nemmeno a Tsushima; per giunta il Bemotti nonostante tutte le sue a1Termazioni precedenti pretende di indicare - more solito - il modo di preparare e condurre la battaglia stessa, come se in questo si risolvesse la tattica. Riassumendo, a suo parere: - la formazione di marcia del grosso delle forze va stabilita "in relazione
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alla possibilità del contatto tattico con navi da battaglia e del/ 'attacco di siluranti", tenendo ben presente la necessità di mantenere le navi in formazione compatta; la lotta ravvicinata di giorno e di notte è conveniente solo per chi ha forze inferiori, mentre con il primo incrocio cessa l'azione delle due flotte; di giorno e di notte la formazione più conveniente è quella in linea di fila, con le forze principali - se numerose - suddivise in due parti. Occorre mantenere velocità elevate, onde rendere più difficili gli attacchi siluranti; per le sezioni siluranti la formazione di marcia più conveniente è quella a triangolo, che consente di evitare che una torpediniera sia investita dal fumo dell 'altra. Per le squadriglie torpcndiere può essere invece più conveniente navigare in formazioni diverse dalla linea di fila, nella quale è difiicile mantenere la posizione; al momento la distanza d'impiego utile per i siluri più progrediti non è superiore ai 2500 metri. Oltre tale distanza il loro impiego è occasionale e comunque va subordinato a quello del cannone; l'esplorazione tattica deve avere il compito di ricercare il grosso delle forze nemiche, ma non si può essere certi che riesca a farlo in tempo utile. Invece è necessario un servizi di vigilanza in grado di fornire una si-
47 Romeo Bernotti, Fundamenli di tallica navale, Livorno, Giusti 191 O. " i vi, p. 233
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curezza quasi assoluta, specie quando nelle acque da attraversare è prevedibile la presenza di numerose siluranti nemiche; - di notte le forze navali principali devono essere precedute e fiancheggiate da numerose siluranti; mentre "di giorno per la sorveglianza contro i sommergibili [è la prima volta che il Bernotti ne parla - N.d.a.] è necessario che i cacciatorpedinieri vigilanti innanzi e sui fianchi (fino a circa 45° dalla rotta) siano distesi in catena";49 - è poco probabile che le forze da battaglia si avvistino direttamente; la battaglia tra le navi maggiori sarà preceduta da un'azione fra incrociatori, e - come è avvenuto per i russi a Tsushima - la flotta che non ne dispone o non ne dispone a sufficienza si troverà a mal partito (infatti in tale battaglia gli incrociatori giapponesi avvalendosi della radio hanno potuto tenere informato continuamente l'ammiraglio Togo sulla posizione del nemico); - diversamente da quanto avviene in campo terrestre [ma non sempre N .d.a. ], nelle battaglie navali è da escludere l'impiego di una riserva, che consentirebbe al nemico di battere successivamente le nostre navi. Lenavi da mantenere in attesa sono solo i cacciatorpediniere e le torpediniere, che possono o meno avvalersi di approdi costieri; - poiché le sorti della battaglia dipendono dai complessi corazzati, nessuna nave corazzata in grado di prendere parte del combattimento deve essere distratta per altri compiti; - una flotta inferiore non deve cercare il combattimento sotto la protezione dei forti, perché ciò vincolerebbe la sua manovra tattica e strategica; - anche se è pericoloso, il comandante in capo deve imbarcarsi - come Nelson - su una nave di linea come le altre, perché le manovre combattimento durante si fondano essenzialmente sull 'imitazione dei movimenti, che non sarebbe possibile se egli si trovasse su un'imbarcazione leggera fuori dalla linea; - "l'esito del controllo ojjènsivo non dipenderà soltanto dalla manovra e da/l'abilità nel tiro; vi avranno grande parte i fattori morali". L'opera viene recensita sulla Rivista Marittima dal Sechi,50 che loda l'intento del Bcmotti di colmare il vuoto esistente nel campo degli studi tattici e condivide gran parte delle sue affermazioni, peraltro osservando che l'autore si sofferma troppo su dimostrazioni matematiche di concetti ai quali sarebbe stato possibile giungere anche con semplici ragionamenti a base di buon senso. Inoltre il Sechi non condivide le sue troppo drastiche affermazioni sulla non convenienza delle riserva, e gli rimprovera di non aver sviluppato a sufficienza la tattica delle siluranti, ritenendo inoltre molto utile per i Quadri un capitolo preliminare sull'evoluzione dei ... tattici da Nelson in poi.
ivi, p. 229. '" La recensione ,Id s~d1i ì: in "Rivista Marittima" 1910, IV Trimestre Fase. XTT, pp. 609-616.
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Le osservazioni del. Sechi sono spesso condivisibili, a cominciare dalla tendenza del Bemotti a non necessarie dimostrazioni matematiche. Non ci sembra, però, che in fatto di studi tattici esista il vuoto del quale egli parla: ormai è stato detto tutto, anche in merito all'evoluzione dei criteri tattici da Napoleone in poi. Per quanto attiene alle torpediniere, uno studio riferito al quadro tattico generale non avrebbe potuto dire molto di più; piuttosto il Sechi non considera l'unilateralismo offensivo del Bemotti e la sua pressoché assoluta proiezione sulla battaglia, peraltro comuni all'epoca.
R(flessi tattici delle armi navali di contrasto (siluri migliorati, mine e sommergibili) Accanto alla Dreadnought, con connessa tendenza al superamento del calibro-standard da 305 e quindi all'aumento del dislocamento, il periodo in esame è caratterizzato da un parallelo, forte pregresso delle anni di contrasto, che farà sentire pienamente i suoi effetti fin dai primi tempi della guerra mondiale ormai vicina. 51 TI siluro aumenta la sua potenza e soprattutto la sua corsa; le torpediniere aumentano il loro dislocamento e il loro carico bellico; anche il sommergibile aumenta le sue prestazioni e si profila il suo abbinamento con il siluro, che dimostra la sua efficacia all'inizio della guerra; una vecchia arma come la mina conferma la sua pericolosità e le sue possibilità, già emerse nella guerra russo-giapponese. Fatto sorprendente e finora ignorato, chi avverte più di tutti non solo l'aumentata efficacia del siluro, ma addirittura la sua preponderanza è proprio il padre dellaDreadnought, il celebre colonnello (poi generale) del genio navale Vittorio E. Cuniberti.52 Dopo aver preso atto che la battaglia di Tsushima [combattuta da corazzate ancorapre-Dreadnought - N.d.a.] segna il trionfo della nave a calibro unico, il Cuniberti rileva che la lotta tra cannone e corazza con i conseguenti grandi dislocamenti si sta avvicinando al limite massimo, dopo il quale vi sarà un "cambiamento della moda navale" a tutto favore del siluro, che nel frattempo "ha percorso grandi passi silenziosi'' fino ad "affermare la sua superiorità offensiva sulla scarsa difesa delle carene dei dreadnoughts". Peraltro la grande efficacia di questa nuova arma è stata fino al momento frenata dai troppi limiti di tutti e tre gli affusti disponibili (la torpediniera, il cacciatorpedinic-
51 Nel suo libro del 1920 I/ potere marittimo nella grande guerra il Bemotti mette in rilievo che nella prima guerra mondiale solo il 17% delle perdite di corazzate, incrociatori da ballaglia e incrociatori corazzati è da attribuire al cannone, mentre le rimanenti sono dovute per il 35% ai sommergibili, per il I 0% al siluro di unità di superficie, per il 22% alle mine, per il l 0% a esplosione interna (Ferruccio Botti, La guerra marittima e aerea secondo Romeo Bernotti- Cit., p. 23). 11 Bcmotti ne deduce l'opportunità (non certo nuova) di rafforzare le carene, visto che il 67% delle perdite è dovuto ad anni subacquee. 52 Vittorio E. Cùniberti, Tutti siluri, in "Rivista Marittima" 1913, II Trimestre Fa~c. V, pp. 199203.
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re e il sommergibile), che tutti e tre presentano un eccessivo squilibrio "fra l'enorme efficacia offensiva della loro arma e la scarsissima potenzialità difensiva che essi offrono", non solo a causa della debole corazzatura ma anche per le accresciute dimensioni che le rendono facilmente visibili e quindi colpibili. Per il siluro occorre dunque una piattaforma migliore, veloce e ben protetta: di qui il progetto di massima di una nave lanciasiluri che dovrebbe riunire la velocità tipica della torpediniera con la protezione subacquea tipica dei sommergibili, avere motori con uno scarico dell'aria che ne aumenta l'autonomia, carena interamente sommersa, due torri corazzate con 8 cannoni da 152 ciascuna(!) destinati a combattere i cacciatorpediniere, ben 18 lanciasiluri (a prora, a poppa e al centro), velocità 25 nodi, capacità di lancio contemporaneo di 9 lanciasiluri ciascuna. Caratteristiche fantasiose, che non avranno alcun seguito ma se non altro dimostrano che dopo il 1903 l'evoluzione del pensiero del Cuniberti non è rivolta - come ci si sarebbe aspettati - alla diminuzione della vulnerabilità della "sua" nave da battaglia o all'ulteriore aumento della sua potenza. Da rilevare, peraltro, che egli prende coscienza della crescente importanza del siluro, senza intravedere appieno l'efficacia dt:òsiva cht: di lì a pochi mesi questa arma avrebbe dimostrato con l'abbinamento a una piattaforma di lancio completamente sommergibile di crescenti prestazioni . Come si è visto, in passato erano affiorate opinioni giustamente contrarie all'installazione di siluri sulle navi di linea, perché dato il loro breve raggio d'azione non facilitavano il combattimento a distanza. Con l'aumento della loro gittata si torna a ritenere necessaria la loro installazione anche sulle grossi navi; si occupano di questo argomento due articoli del 1913, uno di un nuovo e giovane collaboratore destinato a diventare famoso nella seconda guerra mondiale, il sottotenente di vascello Angelo Jachino (poi amnùraglio e Capo della flotta in mare)53 e l'altro del solito Bernotti. 54 Secondo il Jachino "i grandi progressi che negli ultimi anni si sono ottenuti nella costruzione del siluro, e quelli che probabilmente si otterranno ancora in avvenire.fanno logicamente supporre che quest'arma possa avere un utile impiego a fianco del cannone nella battaglia fra navi [maggiori]". Segue un 'analisi a sfondo matematico delle condizioni di lancio del siluro, al termine della quale il Jachino conclude che tale arma pone seri vincoli tattici all'impiego del cannone, fino a far ritenere che in futuro le forze contrapposte cercheranno di mantenersi sempre a distanze tali da non renderne possibile l'impiego; la prima conseguenza dell'aumentato raggio d'azione di quest'anna sarà perciò l'aumento della distanza media di combattimento.
" Angelo Jachino, Impiego del siluro nel combattimento tra navi, in "Rivista Marittima" 191 3, !TI Trimestre Fascicolo V, pp. 2 19-242. 54 Romeo Bcmotti, Il siluro sulle navi di linea, in "Rivista Marittima" 1913, m Trimestre Fascicolo lX, pp. 21 1-224.
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Sempre con largo ricorso a formule matematiche il Bemotti intende a sua volta dimostrare che "pur accordando al siluro tutti i vantaggi oggi concepibili, questi possono facilmente neutralizzarsi e il cannonefinora rimane l'unica arma predominante delle battaglie navali". La conclusione è che nell'impiego del cannone a parità di armi siamo obbligati ad entrare nel campo dei cannoni nemici per avere l'avversario sotto il tiro dei nostri: al contrario, col siluro, è invece possibile (e quindi logico) di presentarsi opportunamente al nemico in modo che non sussistano per lui le possibilità di lancio [più favorevoli]. Per provocare un combattimento risolutivo, bisognerebbe che uno degli avversari rinunziasse allo sviluppo della massima ojjèsa per il periodo di avvicinamento, cioè che si presentasse in.formazione.frontale, tenendo conto che una nave che si presenta per chiglia o in direzione molto prossima ad essa ha la minima probabilità di essere colpita[... ]. Una considerazione di tal genere consiglia di ritenere che l'importanza della potenza di faoco per chiglia sia crescente coi progressi del siluro [...]. Non sembra però necessario che l'impiego del cannone si sacrifichi in misura tanto considerevole come richiede l'avvicinamento per chiglia[ ... ]. infatti. trattando del siluro si allude naturalmente al lancio multiplo con dispersione conveniente; ma si può combattere presentando al nemico il fianco opposto e in tal guisa, quando il lancio non è impossibile. la probabilità di colpire è assai limitata; se uno degli avversari non vuole la lotta con il siluro può dunque raggiungere il suo intento con grande facilità; basta che presenti al nemico il fianco di nome opposto perpoter combattere avendo unicamente riguardo al cannone, cioè senza limitazioni di sorta, .finché la distanza non scende al di sotto del limite in cui anche il lancio isolato ha una notevole probabilità di colpire.
Sia il Jachino che il Bemotti oltre a valutare in modo errato le ricadute del1' aumento della distanza di lancio del siluro non considerano che già a Tsushima l'unico fattore condizionante della manovra e dell'offesa reciproca tra corazzate è stato il cannone e non il siluro da loro pur imbarcato. A parte questo, superfluo rilevare che negli scontri navali successivi tale siluro imbarcato sarà del tutto ininfluente. Per queste ragioni quelle del Jachino e del Bcmotti sembrano più che altro divagazioni matematiche, seguendo le quali si rischia di perdere di vista che, anche in relazione al progresso delle artiglierie e all'aumento delle loro gittate, negli scontri tra corazzate le possibilità di offesa del siluro sarebbero diventate sempre di più un elemento marginale. Assai meno caduco e assai più vicino alla realtà dell'intero secolo XX, invece, un articolo del capitano del genio navale Bocci, il quale si occupa di un problema mai risolto nell ' intero XX secolo: la protezione delle navi da guerra contro l'offesa delle mine c dei siluri. 55 Il Bocci rinuncia in partenza ad esaminare la protezione degli scafi dalle mine fisse profonde, perché anche ra.ffor-
"Carlo Bocci, Protezione delle navi da guerra contro le offese delle mine e siluri, in "Rivista Marittima" I 90R, TV Trimestre Fascicolo X ll, pp. 471 483.
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zandoli convenientemente la carica esplosiva delle mine stesse potrebbe essere aumentata in proporzione senza difficoltà. Non cosi avviene per le mine che entrano in azione per urto, sia perché la loro carica non può essere aumentata oltre un certo limite, sia perché esercitano la loro azione distruttiva solo su una parte dello scafo. La corazzatura di quest'ultimo è stata proposta per la prima volta dal francese Bertin, con il prolungamento della corazzatura stessa fino alla parte sommersa; ma successivamente il Bertin è arrivato alla conclusione che una vera e propria corazzatura interna allo scafo è indispensabile e che la sua struttura cellulare non può fornire una protezione sufficiente, con la suddivisione degli spazi a murata in piccoli compartimenti stagni. Secondo il Bocci da quanto prima detto e dagli esperimenti compiuti presso le principali Marine emergono due orientamenti principali: " 1°) opporre alla violenza dello scoppio paratie interne corazzate o rinforzate in tal gu,isa da resistere alle pressioni dinamiche dei gas; 2°) non opporsi direttamente a/l'azione dei gas, ma adottare tutti i provvedimenti e gli espedienti che presumibilmente ne attutiscono la violenza". TI mezzo più diretto cd efficace per realizzare questi obiettivi è quello di allontanare il centro di scoppio dalle paratie longitudinali, in modo che queste rimangano il più possibile lontane dal ragb,io d'azione. Sulle grandi navi da battaglia questo scopo si può ottenere mediante un'opportuna sistemazione dei locali delle macchine e dei vari depositi; ma ciò non è sufficiente per preservare le paratie interne dal primo urto dei gas. Oltre a riempire lo spazio a murata con carbone, ritagli di sughero o altri materiali che assorbono la forza viva dei gas, la miglior soluzione sarebbe quella di interporre fra il fasciame esterno e la prima paratia longitudinale interna un 'altra paratia leggera. Debolmente collegata alle rimanenti parti dello scafo e disposta a breve distanza da tale paratia interna, essa avrebbe il solo scopo di sostenere il primo urto dei prodotti dell ' esplosione; con gli stessi criteri si dovrebbe provvedere alla protezione del fondo della nave. Le misure suggerite dal Bocci, delle quali non può sfuggire la modestia dei risultati (ma che altro si sarebbe potuto o dovuto fare, anche nella seconda metà del secolo XX?) vanno confrontate con il progresso delle torpediniere, non solo e non tanto con l' aumento delle prestazioni del siluro, ma anche con l'aumento delle prestazioni della piattaforma di lancio (dislocamento maggiore di quello delle prime Schicau - 80 t; miglioramento delle prestazioni del motore e della sua alimentazione, che dal 1893 inizia a passare a nafta; aumento dell'armamento). Queste accresciute prestazioni, come quelle di tutte le costruzioni navali del periodo, sono un fatto ingegnistico legato all ' inarrestabile progresso tecnico, che fa sentire la sua influenza anche ali 'infuori del pensiero tatticonavale, in genere troppo legato, come si è visto, alla necessità di rimediare alla vulnerabilità del mezzo esclusivamente con le piccole dimensioni, inevitabilmente a scapito delle sue doti marine e quindi della sua reale possibilità di agire insieme con la flotta d' alto mare. In definitiva la letteratura navale non può che prendere atto delle aumentate prest.azioni della torpediniera, ponendole a base dei criteri tattici e non vi-
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ccvcrsa. Nel 1904 è impostata la nuova classe di torpediniere tipo Sagittario (215 t, cioè dislocamento quasi triplo rispetto alle vecchie Schicau; 3 tubi lanciasiluri; 3 cannoni da 57; velocità 22 nodi). Il primo a prendere atto delle migliorate prestazioni di questi tipi di nave, anche se al momento il loro dislocamento rimane ancora modesto, è proprio il Sechi, che come si è visto (cap. II) aveva in precedenza sostenuto la necessità che esse mantenessero dimensioni molto ridotte. 56 Secondo il Sechi le nuove torpediniere in programma57 oltre ad essere impiegate contro le navi maggiori potranno sfruttare l'autonomia e la velocità di cui sono dotate "insieme agli esploratori e ai cacciatorpediniere per altri servizi di crociera, e in particolar modo per l'esplorazione e per la trasmissione degli ordini e delle notizie"; in tal modo sarà possibile limitare il numero degli esploratori costruiti, che sono molto costosi data la loro altissima velocità, destinando le somme risparmiate alla costruzione di navi da battaglia. Un secondo loro impiego utile potrebbe essere la vigilanza ravvicinata delle basi di operazione della flotta nemica, quando essa vi resta in potenza; comunque esse rimangono meno adatte di altre navi più piccole a quello che dovrebbe essere il loro principale compito, che è di attaccare col siluro le navi maggiori. A causa delle loro cospicue dimensioni, infatti, possono essere scoperte e colpite più facilmente dei tipi più piccoli, anche se hanno velocità maggiori di quest'ultimi. Inoltre costano di più e se ne può costruire un numero minore, "inconveniente questo assai grave, perché il numero è un importantissimo fattore di successo negli attacchi torpedinied'. Sempre secondo il Sechi le torpediniere Schicau in dotazione, il cui numero si è peraltro già assottigliato, ormai possono essere impiegate utilmente solo in prossimità delle basi di operazione nemiche e in corrispondenza di passaggi obbligati; non sono idonee ad altri impieghi solo perché a fronte dei progressi delle altre navi da guerra la loro velocità è ormai insufficiente. Anche le nuove torpediniere, che pur dovrebbero usare come nuovo carburante la nafta, non potranno mai raggiungere la velocità degli esploratori e dei cacciatorpediniere, che così potranno inseguirle; ma in questo caso "non devono prender caccia in nessun modo, perché questo è il miglior modo di jàrsi distruggere dal nemico senza infliggergli gravi danni'', devono invece assalirlo risolutamente con attacco avvolgente, impiegando tutte le armi di bordo e contro i cacciatorpediniere ricorrendo anche all'urto. A breve distanza di tempo dagli studi sul lancio del siluro da parte delle navi di linea, l'impiego di torpediniere con le nuove e più avanzate caratteristiche e del siluro migliorato viene ancora studiato in tre articoli che partono da
,. Giovanni Sechi, Naviglio torpediniera (lettera a lla "Rivista Marittima" I 906, IV Trimestre Fascicolo Xl, pp. 283-286). 57 Al momento era appena entrata o stava entrando in servizio una serie di torpediniere Schicau migliorata da 2 15 tonnellate, definita "d'alto mare". lnollre nel 1909 em stata impostata la prima serie di cacciatorpediniere Schicau (315 tonnellate, con armamento d'artiglieria superiore) - (Cfr. Gino Galnppini, (',uida alll! navi d'Italia dal //lf,/ ad oggi. Milano, Mondadori 19R2, pp. RO-R3).
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premesse e giungono a conclusioni notevolmente diverse, non solo perché pubblicati a notevole distanza di tempo (Vannutelli 1910; Castracane 1912; ancora Bemotti 1914). 58 Il capitano di corvetta Vannutelli è i I più legato alla passata concezione e non dice niente di nuovo, mantenendo sullo sfondo delle sue considerazioni i nugoli di piccole torpediniere che sempre meno sono disponibili. A suo parere la loro tattica non deve essere legata a prescrizioni rigide, e per il loro impiego "bisognerebbe ispirarsi specialmente al concetto di di-
5persione delle diverse torpediniere del gruppo attaccante e di concentrazione del loro effetto" (più facile a dirsi che a farsi - N.d.a.]. Tale impiego deve comunque ispirarsi al principio fondamentale della sorpresa ottenibile soltanto con l' azione notturna, perché con le moderne artiglierie anti-siluranti non è ragionevolmente sperabile che di giorno le torpediniere possano giungere indenni a distanza di lancio: "di giorno potranno piuttosto agire i sommergibili, le cui condizioni di invisibilità possono dirsi ideali". Esse devono essere inoltre in grado di operare in gruppi ben affiatati e atti a condurre degli attacchi simultanei, che se compiuti con il giusto numero di unità aumentano gli obiettivi da colpire per il nemico, rendendo così impossibile la concentrazione del suo fuoco e diminuendo "enormemente" l' efficacia della difesa, con corrispondente aumento della probabilità che qualche unità del gruppo attaccante riesca a portare a compimento la sua missione, senza essere scoperta e agendo di sorpresa. Per l' autore i requisiti delle formazioni da adottare sono molteplici e difficili da ottenere, anche se abbastanza scontati: elasticità, semplicità, sicurezza di manovra, capacità di assicurare un agevole avvistamento del nemico. Bisogna inoltre tener presente che le formazioni di attacco troppo serrate facilitano la scoperta e il tiro da parte del nemico, mentre quelle troppo lunghe ostacolano i collegamenti tra le navi e la loro manovra e rendono massimi gli intervalli di tempo tra i lanci delle diverse unità. Al problema delle formazioni è collegato quello del numero più conveniente delle unità di una squadriglia, problema anch'esso alquanto scontato: deve consentire flessibilità, facilità di manovra, facilità di trasmissione degli ordini , rossibilità di formare due gruppi per poter avvolgere la nave nemica attaccata. In ogni caso tale numero non deve essere superiore a quel limite che consente un giusto diradamento delle unità e al tempo stesso il lancio simultaneo dei loro siluri. È vero che se si aumenta il numero delle unità del gruppo tattico aumentano anche le probabilità di un lancio utile, ma è anche vero che sorpassando un certo limite aumentano le difficoltà di navigazione e la capacità di reazione delle navi attaccate. Queste affermazioni sono come al solito corroborate da tabelle, calcoli matematici e analisi, che - come osserva il Sechi nulla aggiungono a ragionamenti derivanti più che altro dal buon senso. 58 Luigi Vannutelli, Sul 'impiego /t1tlic:o delle torpediniere, in "Rivista Marittima" 191 O, 11 Trimestre Fascicolo V I, pp. 269-303; Federico Castracanc, Sul lancio del siluro a grandi distanze (note e considerazioni in "Rivista Marillima" 19 12, Il Trimestre Fascicolo VI pp. 435-472; Romeo Bemotti, L 'attaccn diurnn torpe,,/iniero, in "Rivista Marittima" 1914, I Trimestre Fascicolo IJ, pp. 225 233.
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TI tenente di vascello Castracane partendo anch'egli dalle accresciute prestazioni del siluro e della torpediniera allarga notevolmente l'orizzonte del Vannutelli, aggiungendo all'impiego notturno e di sorpresa delle torpediniere anche la possibilità - fornita dal nuovo raggio d'azione - di un loro fruttifero impiego diurno, fino alla distanza-limite di 5000 o 6000 metri; si comprende ù!fatti come a tali distanze sia la sorpresa notturna delle torpediniere, che quella diurna del naviglio sottomarino sia divenuta praticamente impossibile, non solo per la difficoltà di misurare o apprezzare i dati di lancio, ma, il più delle volte, per la stessa impossibilità di scorgere il nemico: di qui nasce una prima conseguenza, che cioè l'attacco a grande distanza, per la sua stessa natura, deve di necessità essere diurno, pur essendo eseguito da galleggianti.
La seconda conseguenza è intuitiva: poiché nei lanci alle grandi distanze aumenta l'imprecisione, l'unico rimedio possibile è l'aumento dell'estensione dei bersagli e del numero dei siluri lanciati: quindi tale attacco "dev'essere un attacco di squadriglia fatto lanciando per così dire a salva il massimo numero possibile di siluri, e deve essere condotto contro un gntppo di navi nemiche". Terza conseguenza: con il lancio del siluro a grande distanza, e più ancora con le fondate speranze che si nutrono per un ulteriore sviluppo del suo raggio d'azione, "la possibilità di usarlo anche nel combattimento navale fra squadre torna a mostrarsi, e noi vediamo infatti aumentare fino a 4 e 6 (e Jòrse 8) per nave il numero dei lanciasiluri subacquei". È vero che con le moderne artiglierie di grosso calibro il combattimento anche per brevi istanti a distanze di 6-7000 m equivale quasi a una mischia ravvicinata, ma vi possono essere dei casi nei quali a tale mischia si è portati dallo svolgimento dell'azione, e altri nei quali la mischia è ricercata da uno dei contendenti. L'obiezione che di fronte al lancio di un siluro a grande distanza la nave attaccata avrebbe tutto il tempo di manovrare per evitarlo non vale: un lancio di più siluri contro una squadra durante il combattimento riuscirebbe a disturbare gravemente la sua condotta del tiro, in tal modo facendo del siluro l'ausilio del cannone. Per l'attacco silurante diurno non è più conveniente ricorrere a una massa di torpediniere, che offrirebbero ottimo bersaglio al perfezionato e potente armamento antisilurante delle navi; l'unità attaccante deve invece essere costituita "dalla squadriglia di quattro unità elementari'', assegnando a ciascuna di esse un compito isolato indipendente e ben determinato. Sempre in relazione all'impiego del siluro a grande distanza, le siluranti che devono opporsi a un attacco di altre unità siluranti per iniziare il loro contrattacco non devono attendere che l'attacco nemico sia iniziato; "da ciò la convenienza suprema, per ciascuna delle due parti, di cercare di distruggere le siluranti del nemico, prima che questo abbia avuto agio di servirsene". Pertanto nel primo periodo dell 'azione tattica di due flotte la mischia fra siluranti, nella quale il successo è affidato soprattutto al cannone dei cacciatorpediniere, sarà inevitabile e bisogna prepararvisi anche addestrando bene i puntatori dei pezzi di piccolo c medio calibro.
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Sempre secondo il Castracane, in passato per lanciare a salve i siluri lenavi maggiori, dato il ridotto raggio d'azione di queste armi, erano costrette a manovrare come le siluranti, con tutti gli inconvenienti del caso. Al momento grazie all'aumento del loro raggio d'azione ciò non è più necessario, anzi l'attacco con lancio a salve "è una delle pochissime manovre che possono scompigliare il tiro nemico senza influire troppo sulla condotta del Nostro, e per questa ragione lo riteniamo di grande importanza, e di attuazione possibile, se non sempre facile". Bisogna però tener presente che i lanci subacquei longitudinali, sia prodieri che poppieri, si prestano meno bene ai lanci a salve di quelli laterali, perché diversamente da quest'ultimi esigono ''jòrmazioni speciali e complicate, radicalmente diverse da quelle solite più probabili di combattimento (linee di.fìla o di rilevamento)". Nello scontro fra flotte il lancio del siluro deve essere affidato a navi di linea con velocità assai superiore a quella media delle unità combattenti dei due partiti ; tali navi devono essere sufficientemente protette per avvicinarsi senza rischi eccessivi alla distanza di lancio ed armate con cannoni della massima potenza per combattere efficacemente le artiglierie nemiche. Questi requisiti sono posseduti ad esempio dai grandi incrociatori corazzati (chiamati dagli inglesi hattle-r:ruises, cioè incrociatori da battaglia) già in servizio presso le Marine inglese e tedesca, che potrebbero formare una "divisione autonoma". Ciò non toglie che l'attacco con le siluranti è più fulmineo e consente all'ammiraglio di determinare meglio il momento esatto nel quale devono entrare in azione i siluri, mentre invece gli incrociatori corazzati rappresentano un'aliquota importante della forza navale e sarà sempre un rischio grave comprometterne l'esistenza; per queste ragioni nel combattimento tra squadre la priorità deve essere lasciata alle siluranti [si noti che il Castracane non intende impiegare le corazzate vere e proprie per il lancio di si Iuri - N .d.a.). Infine il Castracane trova necessario dare in dotazione rispettivamente alle navi maggiori e alle siluranti due tipi diversi di siluri: alle prime, che non devono realizzare la sorpresa, occorre un siluro a grande raggio d 'azione, di grosse dimensioni e quindi poco maneggevole per le piccole unità; a quest'ultime un siluro di dimensioni più ridotte e con corsa più breve. Le siluranti di grosso tonnellaggio come i cacciatorpediniere, invece, hanno bisogno di un siluro con caratteristiche intermedie che si sta già studiando, perché devono essere in grado di condurre sia attacchi a grande distanza, sia attacchi di sorpresa a più brevi distanze, anche se date le loro ridotte dimensioni sono meno idonei a quest'ultimo compito. Si deve, infatti, tener presente che al momento un siluro con raggio d'azione di 6000 m non può essere lanciato con meno di 3000 m di corsa e fornisce tutto il suo pieno rendimento solo su percorsi di almeno 5000 metri, limite che potrebbe essere superato studiando due modelli diversi dell 'arma. Dopo il Castracanc il Bemotti, senza più accennare all'impiego del siluro da parte delle navi di linea, ammette anch'egli la possibilità e la necessità dell'attacco torpediniera diurno, dovute oltre che all'aumento della distanza di lancio del siluro, alle crescenti dimensioni delle navi di linea, con conseguen-
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te accentuata importanza da attribuire all'eliminazione di navi, di cui ciascuna rappresenta una grande potenza unitaria. Diversamente dal Castracane, però, ritiene ancora necessario l'attacco in massa delle torpediniere, con il quale si intende compensare la scarsa probabilità di colpire a distanza. A suo parere non sarebbe logico, avendo un ragguardevole numero di siluranti, di fare attacchi successivi, perché i vari reparti sarebbero successivamente distrutti; questi attacchi non conseguirebbero lo scopo di scompigliare le forze di linea del nemico, cioè di indurle a manovrare in modo non richiesto dalla situazione tattica delle sue navi rispetto a quelle dell'avversario, e tanto meno potremmo averefondate speranze di colpire qualche nave col siluro. Si può obiettare [come il Castracane - N .d.a.] che una massa di siluranti presenterà troppo bersaglio; limitiamoci per ora a riconoscere la logicità del principio di attaccare in massa, riservandoci di accennare alla fònna opportuna di attacco affinché il complesso di siluranti non presenti un bersaglio troppo profondo né troppo esteso.
Nell'attacco silurante vige comunque lo stesso principio del concentramento delle offese valido per il combattimento d'artiglieria. Se il numero di siluranti lo consente è logico distribuirle in gruppi lontani tra di loro in modo che almeno un gruppo risulti in posizione opportuna per l'attacco; ma i gruppi devono avere consistenza sufficiente per realizzare tale concentramento e il loro obiettivo non deve essere troppo esteso, tenendo inoltre presente che il lancio dei siluri di una singola unità può essere simultaneo (modalità desiderabili in particolar modo nell'attacco diurno, quando i siluri sono preziosi) oppure successivo, a brevissimi intervalli di tempo. Bisogna fare in modo che il lancio dei siluri da parte delle varie unità di una flottiglia avvenga simultaneamente, con unico angolo di mira e nel momento indicati dal capo-flottiglia. Per realizzare queste condizioni di lancio la flottiglia deve essere ripartita in squadriglie di tre siluranti, che nell'avvicinamento procedono in linea di fila e a distanza di 100150 metri tra di loro. In questa fase tra i capifila delle squadriglie deve esistere un sufficiente intervallo di spiegamento ed essi devono trovarsi simultaneamente in posizione d'attacco, cosa che si può ottenere quando essi si trovano "su uno schieramento all'incirca perpendicolare alla congiungente del centro del complesso - siluranti col centro della divisione-bersaglio". 11 Bernotti passa poi a indicare nel dettaglio come dovrebbe svolgersi l'attacco, precisando che per una divisione di 4 navi occorrerebbe un complesso di 4 squadriglie, ma senza prendere in esame le possibili contromanovre dei cacciatorpediniere nemici. Come si è visto, anche dopo Tsushima gli studiosi di tattica navale concentrano la loro attenzione sull'impiego del cannone e del siluro, preferendo però per quest'ultima arma solo una piattaforma di superficie; eppure il sommergibile nel periodo in esame fa buoni e anzi decisivi progressi, che con l'abbinamento al siluro lo portano senz'altro ad eguagliare per importanza - se non a superare - la torpediniera.
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Prende atto della nuova realtà un articolo pubblicato sulla Nuova Antologia nel marzo 1915 ( cioè dopo circa 7 mesi di guerra, quando l'Italia è ancora neutrale) il cui autore è l'ingegnere navale (poi generale) Leonardo Fea, destinato a diventare famoso tra le due guerre 59 11 Fea del tutto a ragione indica nel sommergibile e nella mina i mezzi tecnici di maggior rilievo tra gli elementi che hanno provocato nella guerra marittima mutamenti tali, da rendere la sua condotta ancor più ardua di quella terrestre. Il sommergibile ha aumentato le sue doti marine fino a un punto tale da consentirgli di tenere il mare come una torpediniera e anche di più, con qualunque tempo. In merito il Fea ricorda che la corazzata inglese Formidable è stata affondata da un sommergibile tedesco di notte e in mezzo alla tempesta, mentre gli eccellenti risultati già raggiunti dai sommergibili tedeschi nella guerra in corso confermano la loro superiorità anche in termini di autonomia. Per contro questi battelli hanno ridotta velocità in emersione (massimo 8-10 nodi), limitata capacità di vedere intorno, debole armamento difensivo. Quindi possono essere facilmente speronati da navi di superficie molto veloci, mentre un buon servizio di scorta può garantire a sufficienza la sicurezza delle navi maggiori e cavi, reti e altre ostruzioni possono proteggere le navi alla fonda . Questi limiti - prosegue il Fea - non hanno impedito al sommergibile di partecipare con successo e con forti effetti anche morali ai vari tipi di operazioni marittime. Ha validamente sostituito gli incrociatori corsari nella lotta al commercio, e "ad esso, come alle torpedini. è dovuto in buona parte il fatto che, dopo sette mesi di guerra, nessuna grande azione è stata tentata né dalla flotta francese né dalla flotta inglese, contro due nemici assai più deboli: ad essiforse dovranno i Turchi/ 'inviolabilità del Bosforo e dei Dardanellt'. D'altro canto l'importanza di questi mezzi non va esagerata fino a far sospendere l'ulteriore sviluppo delle navi da battaglia, perché possono certo costituire una buona arma secondaria per la dife sa delle coste, ma non possono in alcun modo dare il dominio del mare, necessario, indispensabile per mantenere libere le vie commercia/i. la flotta inglese e la flotta francese possono astenersi dal 'attaccare la flotta tedesca e austriaca perché con la loro prevalenza di forze, tengono bloccate Austria e Germania, senza alcun bisogno di attaccare le formidabili posizioni nemiche, ma potrebbe l'lta/ia contentarsi di difendere da un bombardamento le sue belle città costiere, quando dal mare non venissero più assolutamente né grano. né carbone, né cotone, né fosfati, né mille altri elementi indispens abili alla sua esistenza?... Non lasciamoci vincere da/acili illusioni: p er dominare il mare occorreranno sempre le grandi navi di linea.
Se di questo fatto deve tener conto in particolar modo una nazione come la nostra, che riceve dal mare i rifornimenti più vitali, in linea generale "non i 59 Leonardo Fea, Sommergibili e torpediniere. in " Nuova Antologia" Voi. CLXXVI, fascicolo 1036, 16 marzo 191 5, pp. 293-315.
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sommergibili o le torpedini [fisse] segneranno lajìne delle corazzate, come le torpediniere non segnarono la fine delle grandi navi di linea, se non nella mente di pochi illusi: in mare, come in terra, sarà vittoriosa quella nazione che potrà contare su una decisa prevalenza, morale e materiale, in tutte le forme della guerra". Si deve convenire su quest'ultima frase, che è stata avvalorata dall'epilogo delle due guerre mondiali. Si deve peraltro constatare che tutto sommato il Fea, pur prendendo atto della versatilità e dell'efficacia dimostrata dal sommergibile, non coglie ancora la vera novità del suo ruolo strategico, che è quella di ostacolare o impedire il libero esercizio del dominio del mare a chi tale dominio possiede grazie alla flotta di superficie, quindi la piena utilizzazione delle vie di comunicazione marittime anche da parte delle Marine di superficie dominanti. Sul rendimento di una vecchia e pericolosa arma di contrasto come la mina ancorata sul fondo e/o funzionante a contatto, già confennato dalla guerra russo - giapponese e dai primi mesi di guerra mondiale, il Fea non dice nulla di nuovo. La definisce "arma dei deboli", il che non è esatto perché è stata usata anche dai forti. Ricorda la pericolosità delle mine che strappano gli ormeggi e si muovono libere sui mari, diventando pericolose tanto per chi le posa, come per chi le vuole togliere di mezzo. A tal proposito non accenna al la loro possibilità di vincolare i movimenti delle flotte militari e mercantili, e ali'onerosità delle scorte e delle navi adibite al dragaggio che richiedono. Tutti problemi mai definitivamente risolti e rimasti ben vivi anche nel XX secolo, come dimostra un articolo del 1967 del capitano di Vascello Fulvi.60
* * * Il primo limite delle considerazioni sulle armi di contrasto è che esse - e in particolar modo quelle sulle torpediniere - fanno riferimento troppo esclusivo alla battaglia navale classica, trascurando che acquistano importanza anche maggiore quando si tratta di evitare o comunque di non combattere tale battaglia. Troppo frequentemente si invoca la mancanza di un'esperienza bellica per giustificare in anticipo questa o quella tesi; in realtà proprio alla luce di tale mancata esperienza non è possibile escludere in partenza qualcuna delle varie modalità d'impiego tattico suggerite, perché esse si basano su circostanze mutevoli, che non possono essere definite a priori. Si deve solo dire che dalle battaglie precedenti (Ya-Lu e Tsushima) non emerge alcuna ragione per attribuire al siluro installato su navi di linea un ruolo paritetico rispetto al cannone, fino a fargli condizionare l'impiego del cannone stesso: se, infatti, il siluro ha aumentato le sue prestazioni, anche le artiglierie hanno aumentato la loro gittata e potenza. Questo fatto rende oggettivamente sempre meno pro-
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Luigi Fulvi, Guerra di mine sul mare, in "A/ere Flammann" mag1,.;o 1967, pp. 615-631.
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babile il combattimento alla distanza d'impiego del siluro, così come la mischia. Persiste fin troppo - e lo si vede specialmente ma non solo negli scritti del Bemotti - anche il concetto di nugolo di piccole torpediniere da lanciare al1'attacco, mentre le loro ridotte dimensioni e il loro gran numero sono visti da taluni a torto come un mezzo unico e inevitabile per garantirne la protezione, assicurando così il raggiungimento dell'obiettivo. Si deve però aggiungere che le argomentazioni del Castracanc a favore della limitazione del loro numero sono tutt'altro che convincenti, mentre nessuno sembra prendere atto di una realtà costruttiva autonoma e autoreferenziale, che con l'aumento cospicuo del dislocamento, dell'armamento anche secondario (cannoni a tiro rapido) e delle prestazioni del motore, di per sé limita sempre più il numero di queste navi, quindi anche le loro modalità d'impiego. Nessuno approfondisce il ruolo dei cacciatorpediniere, pur già in servizio da anni e protagonisti della guerra futura; ciò vale anzitutto per la possibile azione di contrasto dei cacciatorpediniere nemici, che sorprendentemente né il Bernotti né gli altri esaminano, come se fossero cosa trascurabile nella ricerca delle modalità per il loro impiego. Si nota inoltre, specialmente nelle modalità d'azione suggerite dal Bcmotti, un superfluo amore del particolare e un poco pratico e dannoso schematismo, che nessun tipo di nave come la torpediniera del tempo impone di prescindere da regole e criteri aprioristici. Chi si avvicina di più a soluzioni ragionate e valide è il Sechi, che indica per le nuove torpediniere un ruolo in senso lato di esplorazione e sicurezza, dando quindi minor rilievo a quello di più valida arma di contrasto della corazzata, assunto fin dalle sue origini. Se dovessero prevalere le idee del Sechi, sarebbe evidentemente meglio costruire cacciatorpediniere (come poi è avvenuto) che torpediniere. In questo senso si può parlare di crepuscolo del la torpediniera classica, provocato da tre nuovi elementi: l' introduzione del cacciatorpediniere che validamente ne assorbe i compiti siluranti, il nuovo ruolo di esplorazione e sicurezza di quest'ultimo, le crescenti prestazioni del sommergibile, che peraltro - come si è visto - ricevono assai tardi il dovuto rilievo nella pubblicistica militare. ln sintesi: nessun strappo - negli argomenti trattati - rispetto al periodo pre - Tsushima e anche rispetto al secolo XTX, perché l' impiego notturno e di sorpresa delle torpediniere e dei cacciatorpediniere conserva il suo ruolo, mentre anche il loro impiego diurno viene ammesso con più forza, ma forse attribuendo valore eccessivo alla capacità di reazione delle navi, senza riferirne le numerose difficoltà, e senza auspicarne un ulteriore aumento del dislocamento, in pratica rivelatosi l'unico mezzo per assicurarne un impiego sicuro e quindi redditizio anche di giorno. Si può dunque affermare che il vocabolo Dreadnought (in inglese: "paura di nessuno") subito dopo la nascita della pur formidabile nave che ne porta il nome risulta poco aderente alla realtà: anche la nuova corazzata ha parecchi e temibili nemici, anche senza contare il nuovo mezzo aereo, del quale ci occupiamo qui di seguito.
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Nascita, rapido sviluppo e ruolo di un nuovo mezzo di contrasto: quello aereo (dirigibile e/o aeroplano) Nei primi anni del secolo muove i primi passi anche un quarto mezzo di contrasto, in prospettiva - ed entro un lasso di tempo relativamente breve destinato a surclassare tutti gli altri: il mezzo aereo, più leggero dell' aria (dirigibile) e più pesante dell'aria (aeroplano). Le caratteristiche peculiari del mezzo, che non è propriamente marittimo anche se può percorrere lo spazio aereo sovrastante il mare, inducono ad esaminarlo a parte, anche perché il suo impiego riguarda sia il campo terrestre che quello marittimo. Lo sviluppo dell'aeronautica anche in campo navale - molto problematico e particolarmente controverso dopo la prima guerra mondiale - è stato già da noi affrontato nel libro La
teoria della guerra aerea in Italia dalle origini alla seconda guerra mondiale, 61 al quale rimandiamo per una più completa visione del problema. Dopo secoli di esperimenti e tentativi, l'invenzione e il rapido perfezionamento del motore a scoppio portano a sviluppare come arma dell'aria dapprima il dirigibile, evidentemente assai vulnerabile e poco flessibile, e poi l'aeroplano, che si afferma man mano che il motore a scoppio aumenta la sua potenza e diventa più affidabile, pur avendo ancora un carico utile molto più ridotto del dirigibile. La relativa dialettica coinvolge fin dall'inizio sia il campo terrestre che quello navale. In merito all'aeroplano meritano un breve cenno - anche per la parte marittima - le visioni precorritrici del francese Clément Ader, che nel 1890 ha fatto il primo volo con il suo avion (dal quale è derivato il nostro termine aviazione), per poi dedicarsi a studi di arte militare aerea molto avanzati rispetto ai tempi, da lui raccolti nel libro del 1908 Aviation militaire, che secondo il generale Amedeo Mecozzi avrebbe ispirato anche le teorie del nostro Giulio Douhet dal 1910 in poi. 62 Basti dire cheAder prevede che l'avvento del potere aereo avrebbe reso l 'lnghilterra- fino a quel momento ben protetta dal mare - vulnerabile dall'alto e quindi posto fine al suo tradizionale "splendido isolamento'", basato sull'incontrastato e secolare dominio del mare esercitato dallaRoya/ Navy; inoltre ritiene la corazzata ormai vulnerabile dall'alto e già assegna alla portaerei un ruolo decisivo nella guerra marittima. Sempre mantenendosi oltr' Alpe e oltTe Oceano, va ricordato che nel 1911 è avvenuto negli Stati Uniti (Baia di San Francisco) il primo decollo da una nave e il primo appontaggio da parte di un aeroplano, che si avvaleva di una piattaforma di m 40 x 9 adattata sull'incrociatore Pennsylvania segnando così la nascita dell'aviazione navale, mentre nel 1910 in Francia già aveva compiuto il primo volo un idrovolante pilotato da E. Fabre, decollato e ammarrato nello stagno di Berie.
61 Ferruccio Botti - Mario Cermelli, La teoria della guerra aerea dalle origini alla seconda guerra mondiale (1884-1939), Roma, Ufficio Storico Stato Maggiore Aeronautica 1989, Cap. III e VII. 62 Ferruccio Botti, Clément Ader e l'aviazione navale, in "Rivista Marittima" Anno CXIX - luglio
19R6, pp. 91-101.
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In ltalia durante le grandi manovre navali del 1907 un pallone trainato dall'incrociatore Elba effettua il servizio di esplorazione dall'alto per la ricerca e segnalazione di ordigni esplosivi e nel 1909 il tenente di vascello Calderara riceve il primo brevetto italiano di pilota di aeroplano, qualifica che gli consente di dirigere la prima scuola di aviazione per militari e civili in Italia, istituita a Centocelle (Roma) nel 1910. Allo sviluppo dell'aeronautica non può essere estranea la Rivista Marittima, che fin dal novembre 1909 ( cosa che non fa la coeva Rivista Militare Italiana) istituisce una rubrica esclusivamente dedicata all'aeronautica. Già nel secolo XIX la Rivista si era occupata dei primi elicotteri (1878) e dei cervi volanti (1898): ma è solo dopo l'affermazione del dirigibile che prende corpo anche per la Marina un vero e proprio dibattito sull'impiego militare dei mezzi aerei, dibattito che tra l'altro precede quello che avviene nell'Esercito. Il primo articolo importante (1907) è quello del tenente di vascello Fausto Gambardella, poi ammiraglio e, vedi caso, negli anni Venti contrario alla costruzione di portaerei.63 11 Gambardella riscontra la grande utilità del mezzo aereo particolarmente nell'esplorazione lontana e già intravede la fonnula della portaerei, anzi dell 'incrociatore tuttoponte: noi pensiamo che non debba essere lontano il giorno in cui Le navi, libere da ogni antenna[ ... ], spariti i fumaioli[ ... ], percorreranno i mari come colossali lance automobili, sulle quali piccoli aeroplani o elicopteri o anche palloni di forme speciali, elevandosi come frecce al momento opportuno, serviranno di sostegno alle bandiere di segnali, se pure questi saranno necessari colla perfezione che avrà raggiunto la radiotelegrafia.
Dopo l'esplorazione viene l'impiego antisom, non solo per l'individuazione ma anche per il bombardamento dei sommergibili, reso possibile specie dopo i perfezionamenti raggiunti dal famoso dirigibile coevo francese Lebaudy. Tuttavia il Gambardella non ritiene possibile l'impiego di questo tipo di dirigibile da bordo delle navi, sulle quali a causa delle sue notevoli dimensioni dovrebbe essere costruito un hangar troppo ingombrante; può però essere fruttuosamente impiegato nella difesa costiera. A suo parere è invece possibile la costruzione di un drachen-ballon per l'esplorazione, con relativa nave dotata di parco aerostatico e di apparato radio per la trasmissione delle notizie. Per ultimo (cosa non di poco conto, in un periodo nel quale prevalgono ancora i sostenitori del dirigibile) il Gambardclla si schiera con i sostenitori dcll 'aeroplano e dell'elicottero, sia pur prevedendone l'impiego solo nell'esplorazione: "dall 'aeroplano e dall'elicottero noi attendiamo la migliore, più semplice e più completa soluzione del problema dell'esplorazione lontana e ci pare non lontano il giorno in cui ciò potrà avvenire".
•• Fausto Gambardella, Aeront1utica Navale, in "Rivista Marittima" 1907, I Trimestre Fase. I pp. 29-70.
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Nello stesso anno 1907 anche il tenente Cianetti dopo aver accennato al1'utilità del mezzo aereo (nella sola esplorazione) non ritiene utilizzabile in campo marittimo il dirigibile, non solo perché data la sua scarsa autonomia richiederebbe uno spazio eccessivo per essere imbarcato sia pur su una nave speciale, ma anche perché non potrebbe raggiungere la velocità sufficiente per essere impiegato al seguito della tlotta.64 Senza accennare all'aeroplano, il Cianetti ritiene utili solo il pallone frenato (drachen ballon) e il cervo volante. Come il dirigibile, il pallone frenato potrebbe essere impiegato nell'osservazione per la difesa costiera; ma potrebbe senza difficoltà essere installato sia su una nave speciale che su una nave da guerra, con velocità almeno uguale a quella della nave meno veloce della squadra e possibilità di produrre il gas per il rigonfiamento anche a bordo. In una lettera alla Rivista Marittima del 1910 il I O tenente di vascello Petrelluzzi ritiene insutliciente per la sicurezza di una corazzata la scorta di due cacciatorpediniere che la precedono dragando le acque dalle mine, perché tale sistema non garantisce affatto la loro eliminazione completa: 65 una semplice accostata può portare la nave in zona non dragata, né una corazzata può essere sempre scortata da piccole unità. Perciò il dirigibile o l'aeroplano "potrebbero essere un potentissimo complemento alla scorta dei due cacciatorpediniere", e specie il dirigibile potrebbe facilmente scoprire, distruggere o neutralizzare i sommergibili, più di quanto possano fare le siluranti. Nel 1910 le prospettive d'impiego si allargano di molto a tutto favore dell'aeroplano, con un netto salto di qualità riscontrabile in una lettera del capitano del genio navale ing. Piumatti,66 che ancor più decisamente del Gambardella si schiera tra i fautori del "più pesante dell'aria" (aeroplano, elicottero o ortottero), per i numerosi vantaggi che fornisce come macchina da guerra atta sia all'esplorazione che al bombardamento marittimo: ha infatti "grande velocità, facilità della manovra, possibilità di salire a grandi altezze con rapidità e altrettanta rapidità discenderne, poca vulnerabilità, poco ricambio". Ciò non toglie che questa macchina abbisogna ancora di molti perfezionamenti: 1°) sicurezza di funzionamento del motore, 2°) possibilità di alzarsi in volo da fermo, che si potrebbe ottenere in vari modi: con l'ortoptero, con l'elicottero, con meccanismi che consentano all' aeroplano di alzarsi in volo dalla nave; 3°) possibilità di trasportare, oltre al pilota, anche un 'altra persona e un carico di esplosivo; 4°) possibilità di mantenere una bassa velocità; per facilitare sia l' osservazione che il lancio di bombe. Con questi perfezionamenti - prosegue il Piumatti - il velivolo potrebbe 64 Ettore Cianctti, /, 'aeronautica al servizio della R. Marina, in " Rivista Marittima" 1907, lll trimestre Fascicolo IX, pp. 285-293. 6S Roberto Petrelluzzi, Sulla dif esa a distanza dalle armi subacquee, in "Rivista Marittima" 191 O, I Trimestre TTT Fascicolo, pp. 533-534. 66 Claudio Piumotti, Velivoli e diriKibi/i nella guerra nflvale, in "Riv ista Marittima" 191 O, 11 Trimestre Fascicolo VI, pp. 525-529.
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raggiungere un rendimento maggiore di quello della torpediniera, "perché mentre la torpediniera, salvo speciali circostanze, si trova in condizioni di grandi inferiorità rispetto alla nave di linea, il velivolo invece è, in qualsiasi circostanza, in condizioni di assoluta e grande superiorità rispeLlo al dirigibile". La conclusione è fin troppo ottimistica, fino ad avvicinarsi alle previsioni dei tanti profeti dell'aviazione: " il velivolo, agile, padrone di sé, della sua velocità e della sua direzione, munito di un regolare e potente motore [ ... ]. Questa macchina obbediente alla volontà dell 'audace che la guida, sarà quella che deciderà dei destini della guerra combattuta negli sconfinati campi dell'aria". Nello stesso anno 1910 - e non nel 1909, come asserito da molti - Giulio Douhet comincia a occuparsi di aeronautica, con un articolo sulla Rivista Militare Italiana che porta la data del 3 marzo.67 In questa sede per quanto di interesse marittimo egli diversamente dal Piumatti non giudica di utile impiego né l'ortottero né l'elicottero e ritiene l'aeroplano più idoneo del dirigibile alla guerra aerea, peraltro sottolineando che può essere impiegato solo per l'esplorazione, perché non è e non sarà mai idoneo a l trasporto di grossi pesi; inoltre il profeta dell'aviazione al momento è ancora assai lontano dal prevedere l'impiego "indipendente" e "decisivo" delle forze aeree per il quale è passato alla storia, visto che a suo avviso "sia l'aeroplano che il dirigibile dovranno modestamente accontentarsi di essere utili nelle piccole operazioni ausiliarie alle g randi, dovranno rassegnarsi quindi a un posto di secondo ordine dal quale, certo, non potranno modificare, gran fatto, In fisionomia della guerra moderna". Inoltre nel caso particolare della guerra aerea sul mare, l'elevato velocità delle navi richiede che il mezzo aereo abbia come minimo una velocità uguale a quella della nave più veloce; ma al momento per il dirigibile ciò non è possibile, e solo il più pesante dell' aria potrà raggiungere le grandi velocità necessarie. Un'altra impegnativa esigenza del momento è che i mezzi aerei, dato il loro ridotto raggio d'azione, devono essere trasportati al seguito immediato degli eserciti e delle flotte. Perciò in campo marittimo sarebbe necessario lanciare alla scoperta navi velocissime trasportanti mezzi aerei; da tali navi, quando lo si riterrà opportuno, si faranno alzare gli aerei, i quali scoprendo vasti orizzonti potranno vedere prima di quello che potrebbero vedere le navi che li trasportano. Poi gli aerei ritorneranno a bordo, e le navi saranno naturalmente in comunicazione radiotelegrajìca colla squadra che proteggono. E sarà necessario che gli aerei possano staccarsi da bordo e ritornarci senza che le navi si arrestino. Sarà possibile far ciò coi dirigibili? Evidentemente no. Cogli aeroplani? Forse che sì e non è.follia sperarlo.
Douhet sostenitore del ruolo ausiliario dell'aeroplano, Douhet a ragione contrario al dirigibile come macchina da guerra, Douhet sempre a ragione so67 Giulio Douhel, le possibilità dell 'aeronavigazione. in "Rivista Militare Italiana" 191 O- Voi. 111 Disp. VII.
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stenitore della portaerei, principalmente per allungare (come avverrà circa un secolo dopo) il raggio d'azione degli aeroplani; Douhet a torto sostenitore dell'impiego dell'aeroplano solo per l'esplorazione, perché secondo lui non sarà mai idoneo al trasporto di grossi pesi. A queste insolite e poco note interfacce bisogna aggiungere che egli prevede l' impiego dell'aeroplano anche nella scoperta dei sommergibili (ma chi li bombarderebbe?) e contro gli sbarchi, agendo da basi terrestri. Cosa strana, all'azione degli aeroplani pilotati per la difesa costiera vorrebbe aggiungere "degli aeroplani automatici, una specie di siluri aerei che si potessero lanciare da terra", cioè dei missili terra-mare_ A brevissima distanza di tempo, comunque, Douhet con la celebre serie di articoli sulla Preparazione (dal 16-17 luglio al 28-29 luglio) dal titolo Problemi dell 'aeronavigazione, raccolti anche in opuscolo a parte, 68 propugna ciò per cui va famoso: la preminenza e l'importanza del dominio dell'aria, che dimostra ricorrendo - sia pur senza mai citarlo - a molte delle topiche assolutiste tipiche di A.T. Mahan quando tratta del dominio del mare_ Al tempo stesso sottolinea ancora la superiorità dell 'aeroplano sul dirigibile: mentre sul mare una nave da battaglia dispone di un efficace armamento contro le torpediniere, nell'aria basta un solo aereo per abbattere un dirigibile. Quel che più importa, questa volta sostiene che l'aeroplano oltre a compiere attività di esplorazione ed eventualmente di bombardamento dovrà avere capacità offensive e difensive per combattere contro gli aerei nemici, perché dovrà anzitutto conquistare il dominio dell'aria eliminandoli. Tutte le nazioni dovranno quindi prepararsi a combattere per il dominio dell'aria con un 'aviazione indipendente dalle forze di superficie, le quali non devono dunque vedere negli aerei dei mezzi ausiliari capaci di essere utili in certe determinate circostanze, no; devono invece vedere negli aerei il nascere di un terzo fratello, più giovane ma non meno importante della famiglia guerresca.
Un altro importante argomento toccato da Douhet è il rapporto tra strategia aerea, strategia navale e strategia delle forze di superficie in genere: la condotta strategica delle guerre aeree sarà molto simile a quella delle guerre navali [- . .]. La libertà della manovra strategica sarà più grande nel/ 'aria che non sul mare [ ... ]. Le squadre navali posseggono una grande velocità di traslazione rispetto alle armate terrestri; le squadre aeree ne possederanno una ancor più grande di quelle navali; per queste ragioni la manovra aerea strategica dovrà essere rapida, e fulmineo potrà essere l'esito della guerra aerea. Le forze aeree dovranno essere sempre pronte, ancor più pronte di quelle navali f .. -1- È da supporsi che le ostilità verranno aperte con improvvisi attacchi aerei [ma a quale scopo, visto che gli aerei non sono atti al bombardamento? - N.d.a.]. Lo scopo della strategia aerea sarà uguale a quello della
•• C fr. Giulio Douhet, 1 problemi dell"aerrmavigazio11e. Roma, Armani e Stein 1910.
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strategia terrestre e navale; giungere con le proprie forze nelle migliori condizioni per vincere nel campo tattico. Anche tatticamente la guerra aerea avrà qualche analogia con quella navale, e queste analogie deriveranno dal fatto che tanto in mare come in aria si può manovrare con la stessa facilità in tutte le direzioni orizzontali e che nei due elementi i mezzi si possono muovere con grandi velocità. Una differenza essenz iale tra la battaglia navale e quella aerea deriverà invece dal fatto che nella seconda si potranno eseguire anche spostamenti nel senso della verticale e che,fornendo il dominio [dell'aria] un naturale e considerevole vantaggio, questo dominio sarà ricercato dalle parti combattenti che tenderanno verso l'alto, dove avverrà lo scontro.
Per Douhet il termine "squadra aerea" è improprio: una squadra navale è composta da un numero relativamente limitato di grosse unità, mentre in una squadra aerea si troveTà sempre gran numero di apparecchi. E a questo punto compare per la prima volta il motivo della capacità di sostituzione di una nave da guerra con un più economico gruppo di aeroplani, motivo ricorrente anche negli anni Venti del XX secolo: con la somma di denaro che costa una nave da battaglia odierna (60 milioni) si possono costruire 3000 aeroplani capaci, ciascuno, di almeno due p ersone. Per quale ragione una nazione non potrà, o non dovrà, spendere per la sua flotta aerea la somma che ora spende per una unità di squadra? Per quale ragione se una nazione fa questo, un 'altra non può fare il doppio?
Come ha osservato il suo grande rivale Amedeo Mecozzi,69 sono soprattutto i principi della strategia e tattica navale del tempo a influenzare Douhet, ma le sue affermazioni sulle analogie tra strategia e tattica navali e aeree non sono sufficientemente fondate. La guerra nell'aria si rivelerà ben diversa da quella sul mare, né la guerra aerea stessa potrà mai ridursi agli scontri decisivi tra due flotte contrapposte, come avveniva (o meglio al tempo si riteneva che avvenisse) sul mare. Ciò non toglie che in queste prime acquisizioni di Douhet comincino a prendere forma in modo abbastanza nitido, anche se imperfetto, un'arte militare aerea e una vera e propria Forza Armata dell'aria indipendenti da quelle di superficie, anche se tale "indipendenza", da allora in poi vero e proprio cavallo di battaglia di Douhet, appare per il momento non del tutto giustificata dal ruolo solo di esplorazione - a tutto vantaggio delle forze di superficie - che egli intende assegnare all'aeroplano. Ciononostante, sempre a suo parere le flotte aeree dell'avvenire non potranno che essere proporzionate alla potenza militare complessiva di ciascuna Nazione, senza che qualcuna di esse possa mutare con una potente flotta aerea il rapporto complessivo di forze rispetto alle altre. Proprio perché l'aereo non potrà limitarsi a rimanere un semplice ausiliario dell 'Esercito e della Marina, Doubet prevede che i bilanci del-
69 Amedeo Mecozzi, Gue"a agli inemii e aviazione d 'assalto, Roma, Libreria dell'orologio 1965, pp. 19-94.
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l'Aeronautica saranno dello stesso ordine di grandezza di quelli delle altre Forze Armate, e anche nell'aria si scatenerà la corsa agli armamenti, perché nessuno vorrà rimanere in seconda linea. Superfluo rilevare che, negli anni Venti, Douhet abbandona queste idee sul bilancio dell'Aeronautica, sostenendone la priorità assoluta. Fino alla prima guerra mondiale egli è impegnato a difendere contro numerosi contraddittori (tra i quali primeggia Carlo Montù - C.M.) l'aeroplano e il dominio dell'aria, gradualmente riconoscendo a tale mezzo una capacità di bombardamento e una grande efficacia anche e soprattutto contro i centri demografici e industriali _ Mancano suoi scritti importanti nel campo marittimo, che invece sono dovuti ad altri autori e vedono la luce nel periodo 1910-1913, da ritenersi cruciale sotto il profilo aeromarittimo. Nello stesso anno 191 O la Rivista Marittima pubblica altri due articoli, uno anonimo e l'altro ancora del capitano del genio navale Piumatti. 70 L'ignoto autore del primo articolo, molto probabilmente un ufficiale di grado elevato con incarico importante, raramente tocca aspetti di interesse marittimo e raramente dice qualcosa di nuovo. Dopo aver polemizzato con coloro che attribuiscono al mezzo aereo importanza esagerata, diversamente da Douhet, dal Gambardella e dal Piumatti si schiera per la convivenza del dirigibile con l' aeroplano, perché "sempreché si debba contare sopra una certa capacità di trasporto e si voglia altresi sostare in un punto qualsiasi dell'aria, compiere lunghi percorsi con velocità moderate ma senza esporre a gravi rischi [di incidenti] gli aeronauti, si preferiranno i dirigibili; per contro i velivoli saranno usali per tutte quelle missioni che richiedono di essere compiute con grande velocità ed in breve tempo"_ Segue l'elencazione degli svantaggi del dirigibile e dei vantaggi e svantaggi dell'aeroplano. Per il Piumatti il dirigibile necessita di stazioni di atterraggio ben attrezzate; non si deve allontanare troppo da ferrovie o rotabili, in modo da poter essere facilmente soccorso all'occorrenza; ha dimensioni che ne rendono difficile il trasporto e ne accrescono la vulnerabilità; non può prendere terra da solo ma ha bisogno dell'aiuto di numerosi uomini; non può compiere sempre e con qualunque tempo le sue missioni_ Gli aeroplani rispetto ai dirigibili avranno sempre vantaggi: sono meno costosi, di dimensioni più ridotte, più facili da costruire, meno vulnerabili, più facilmente riparabili, meno sensibili alle condizioni meteo, più veloci e possono più facilmente atterrare in aperta campagna_ Per contro non possono portare molto peso, compiere missioni di lunga durata, sostenersi immobili nell'aria al di sopra di una data località. Pur ammettendo che l'utilità dei mezzi aerei nella ricognizione e nell'esplorazione anche sul mare è indiscutibile, l'autore afferma che "è difficile.fa-
10 (XXX), 1 dirigibili e i velivoli come ordigni di guerra e come bersagli, in "Rivista Marittima" 1910, II Trimestre Fase. V, pp. 81-103 e Claudio Piumatti, l velivoli nella guerra navale, in "Rivista Marittima" 191 O, III Trimestre Fascicolo VII-VUl, pp. 31 -49.
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re previsioni circa il concorso che le macchine volanti possono portare alle operazioni di gu.erra marittima" e giudica "eccessive" le opinioni di taluni tecnici inglesi, secondo i quali il dominio dell'aria abbinato al dominio del mare accrescerà di molto il potere offensivo delle Nazioni che posseggono quest'ultimo [cioè dell'Inghilterra - N.d.a.], diminuendo in pari misura l'importanza dei grandi eserciti. Infatti a suo giudizio le navi non possono servire da base ai dirigibili, come vorrebbero i predetti tecnici inglesi; tutt'al più in futuro sarà possibile far partire qualche aeroplano dalle navi, ma anche in questo caso tali aeroplani potranno servire solo per l'esplorazione. L'autore è piuttosto scettico anche sulle effettive possibilità del bombardamento: un dirigibile può portare solo 50 Kg circa di bombe, la precisione del lancio è problematica e comunque contro bersagli corazzati terrestri o navali le bombe lanciate dall'alto sarebbero inefficaci, mentre un proietto perforante del calibro 150 mm per vincere la resistenza delle corazze dovrebbe essere lanciato da circa 2500 m di altezza, al momento quota ancora irraggiungibile. Infine va esclusa l' utilità del bombardamento del le città, che a parte le remore umanitarie richiederebbe enormi quantitativi di esplosivo, trasportabili da 200 o 250 enormi dirigibili. Del Piumalli si può dire che in sostanza non dice niente di nuovo rispetto alla lettera precedente. Esalta le possibilità dell' aeroplano, non parla di portaerei ma ritiene necessario imbarcare su ciascuna nave due aeroplani (soluzione adottata nel periodo tra le due guerre mondiali), e ne esamina le possibili modali là per il decollo e l'ammarraggio (devono essere muniti di pallini per il decollo da apposita guida con la spinta impressa dalla caduta di un peso, e di galleggianti per l'ammarraggio a fianco della nave, che poi provvede a rimetterli a bordo con un' apposita gru). Esamina poi i problemi tecnici del lancio di una bomba, partendo daJla premessa (anche questa di estrema attualità) che l' equipaggio del velivolo deve essere composto da due uomini: il pilota e quello che oggi chiamiamo il navigatore, che si occupa della rotta, dell 'osservazione e del lancio delle bombe. Nel 1911 compare l'articolo più importante del periodo io materia aeronavale, scritto dal già citato tenente di vascello Calderara.71 Il Calderara è un convinto sostenitore dell ' idrovolante, che diversamente dai velivoli terrestri ha a sua disposizione uno specchio d' acqua completamente libero, sul quale le dimensioni dell'aeroplano avranno il solo limite della resistenza dei materiali. Fin dalle prime righe dichiara pertanto che "se non tutto, buona parte dell 'avvenire de/l'aviazione è sul mare". E dopo aver rilevato che le recenti esperienze di impiego degli idrovolanti all'estero non sono state soddisfacenti, perché non consentono il decollo dell'aeroplano senza aiuto esterno dopo il suo primo ammarraggio e richiedono tempo buono, il Calderara propone la suddivisione dell' aviazione navale in due categorie:
71 Mario Calderara, Dagli aeroplani marini all'aviazione 11avale, in " Rivista Marittima" 1911, Ili Trimestre Fas cicolo LX, pp. 239-263.
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- aeroplani indipendenti, con il compito dell'esplorazione strategica a lungo raggio, che dovrebbero appoggiarsi a una stazione costiera fissa o mobi le (cioè agevolmente spostabile lungo la costa). Avrebbero dimensioni molto maggiori di quelli terrestri, perché il peso degli organi di galleggiamento deve appunto essere tale da garantirne la sicura galleggiabilità. Sarebbero veramente marini (cioè in grado di poter navigare a piccolo moto fino alla loro stazione costiera in caso di ammarraggio forzato) e dovrebbero avere a bordo le attrezzature necessarie per riparare eventuali, piccoli guasti e rimettere in moto il motore. Solo in casi eccezionali potrebbero essere imbarcati su una nave; - aeroplani dipendenti, di dimensioni minori, che potrebbero essere lanciati da bordo di una nave (e ritornarvi) per brevi voli di ricognizione o anche di esplorazione strategica. Secondo il Calderara solo in via eccezionale gli aerei dipendenti potrebbero essere imbarcati su una nave da battaglia, perché in questo caso sarebbero troppo ingombranti e ne ostacolerebbero la manovra; al contrario la loro base ideale sarebbe una vera e propria portaerei dotata di grande velocità e di ponte continuo. Infine il Calderara difende gli aeroplani marini dall'accusa di scarsa affidabilità e di eccessiva dipendenza dalle condizioni meteo, per poi proporre l'istituzione di: - 1Ograndi stazioni costiere fisse e 5 stazioni costiere mobili, ciascuna con 12 aeroplani indipendenti; - 2 stazioni naviganti [cioè portaerei - N .d.a. ], ciascuna con 25 apparecchi dipendenti. Una siffatta organizzazione assicurerebbe la sorveglianza dal nemico in ogni punto e in ogni istante, al costo complessivo di 7-8 milioni. Per il 1913 vanno ricordati due articoli del capitano del genfo navale ing. Guidoni, 72 dei quali il primo (Aeroplani e dirigibili) non è per nulla preveggente, mentre il secondo (Lancio di grossi pesi dall'aeroplano) lascia chiaramente intravedere l'avvento dcll'aerosilurante. 73 Ambedue gli articoli sono ricchi di formule matematiche non sempre utili, che nel primo caso portano il Guidoni fuori strada, visto che a suo parere - come per tanti altri " moderati'' - aeroplano e dirigibile potranno convivere e completarsi a vicenda, senza che l'uno riesca mai a prevalere sull'altro. Seconda previsione sbagliata: mentre per gli aeroplani il peso totale non potrà mai superare di molto i 6000 Kg, per i dirigibili si tenderà a valori molto più elevati. Come il naviglio da guerra quest'ultimi potranno essere suddivisi in veloci e poco armati (corrispondenti alle
72 li Guidoni, eminente studioso e inventore, nel 1923 pa~sò da tenente colonnello alla neo-costituita Aeronautica, dove fu ben presto promosso colonnello e poi generale. Peri nel 1928 nel collaudo di un paracadute, che aveva voluto effettuare personalmente. 73 Alessandro Guidoni, Aeroplani e dirigibili. in "Rivista Marittima" 1913, I Trimestre Fascicolo m, pp. 455-467 e ID., Lancio di grossi pesi da/l'aeroplano. in "Rivista Marittima" 1913, IV Trimestre Fascicolo X, pp. 15-20.
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siluranti e al naviglio da esplorazione) e in meno veloci, più grandi, meglio armati e con grande raggio d'azione, che quindi avranno compiti di offesa e difesa corrispondenti a quelli delle navi di linea. Per gli aeroplani invece il Guidoni non prevede nessuna esplicita suddivisione, limitandosi a dimostrare matematicamente che aeroplani grandi portano relativamente meno che aeroplani piccoli, il che in ultima analisi potrebbe significare che crede più nel dirigibile che nell'aeroplano. Nel secondo di questi articoli il Guidoni manifesta una ragionata fiducia nelle possibilità offensive dell'aeroplano, dimostrando suJla base di diverse prove effettuate che "con un idrovolante del peso complessivo di Kg 630 si è lanciato un peso di Kg 120 con piena sicurezza, senza nessun disturbo p er l 'apparecchio o per il pilota. Inoltre dallo svolgersi delle prove si può affermare che colla stessa sicurezza si sarebbe potuto abbandonare un grave di Kg 160". E poiché fino a quel momento il peso dei gravi lanciati dall 'aeroplano era "molto inferiore"ai Kg I O, le prove compiute già dimostrano la possibilità di fare dell'aeroplano "un 'arma offensiva molto potente", perciò specialmente gli aviatori militari terrestri dovrebbero riprenderle, mentre anche per la Marina il risultato ottenuto potrebbe esst:n: interessante, "perché con apparecchi di 2 tonnellate e 3 tonnellate di dislocamento si potrebbero abbandonare con sù:urezza pesi di Kg 400- 700 che corrispondono ai pesi dei nostri si/un~'. Si deve solo aggiungere che il Guidoni non è il solo ad avere intravisto questa possibilità, che tra l'altro smentisce le previsioni di Douhet nel 191 O: con una lettera al direttore della Rivista Marittima tale Egisto Cirinei, non meglio conosciuto, ricorda che l' idea di ricorrere agli aeroplani e anche ai dirigibili per il lancio di siluri è sua, "come risulta dall'attestato di privativa industriale italiano N. 125746 che ho avuto il pregio di mostrarle". 74 Nel 1914, pochi mesi prima dell ' inizio della grande guerra, il comandante Roncagli, del quale abbiamo già esaminato alcuni scritti, senza parlare di portaerei e diversamente dal Piumatti e dal Gambardella prevede che l' aeroplano sarà più largamente impiegato in campo terrestre, mentre il dirigibile data la sua grande mole risulterà meno vulnerabile in campo marittimo e quindi sarà preferibilmente impiegato a favore delle squadre navali, nonostante i progressi dell'idrovolante e la sua importanza nella difesa costiera.75 li Roncagli dà poi conto di quanto si fa all'estero per sviluppare il mezzo aereo, accennando allo sviluppo dell' aviazione specie in Francia, "dove g ià esiste un impianto grandioso per quanto riguarda l'aviazione terrestre", e in Inghilterra, dove in un discorso Churchill ha accennato alla necessità che i due Ministeri militari collaborino strettamente, onde raggiungere, nella condotta della guerra aerea,
74 Egisto C irinei, Lancio di siluri dall'aeroplano, in "Rivista Marittima.. 1913, IV Trimestre Fascicolo XI, p. 306. 75 Giovanni Roncagli, Il dominio dell'aria. in "Nuova Antologia" Voi. CLXX, Serie V Fase. I 015 - l" aprile 1914, pp. 480-49 1.
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"quella padronanza assoluta e quella peifezione che in avvenire, non solo si affermeranno per la Marina come elementi essenziali di potenza, bensì come elementi essenziali di sicurezza"_ TI Roncagli aggiunge altri particolari interessanti del discorso di Churchill, secondo il quale in seguito agli eccellenti servizi resi dagli aviatori della Marina [inglese] durante le ultime grandi manovre navali specialmente nella scoperta dei sommergibili, è stato stabilito di creare una cintura di stazioni aviatorie lungo le nostre coste meridionali e orientali. Queste stazioni, come quelle delle torpediniere per la difesa costiera, verranno sistemate in seni sicuri, a distanza da 60 a 80 miglia tra loro, e provvedute ciascuna di almeno tre apparecchi [evidentemente si tratta di idrovolanti - N.d.a.] . L 'impiego simultaneo dell 'aviazione e delle torpediniere, ci me tterà in grado di respingere con successo qualsiasi tentativo d'invasione. i mezzi per tradurre in atto questo disegno saranno disponibili anche prima di aprile. Trenta stazioni saranno pronte subito nei porti e nei canali più importanti; dieci di queste già lo sono.
L'orientamento al quale accenna il Roncagli sarebbe prevalso in Italia nel corso dell'onnai vicina guerra, nella quale in Adriatico i dirigibili avrebbero convissuto con gli idrovolanti; tuttavia nessuna organizzazione sul tipo di quella inglese è stata mai adottata per la difesa delle nostre coste, né si è verificato quanto auspica Churchill in materia di collaborazione in campo aereo tra i due Ministeri Militari, che in questo come in tutti gli altri settori sono rimasti rigidamente separati. Più in generale, nella guerra 1915-1918 mentre i bombardamenti terrestri (anche "controcittà", specie per opera delle aviazioni tedesca, austriaca e inglese) hanno raggiunto un certo grado di efficacia, in campo marittimo nessuna nave è stata affondata per opera degli aeroplani o dei dirigibili, anche se sono comparsi tutti i motivi, i problemi, i punti di contrasto degli anni Venti del XX secolo, senza che la guerra potesse dare un contributo definitivo alla loro risoluzione. Fatto tanto più significativo, se si considera che nemmeno negli anni Venti e Trenta il progresso delle costruzioni aeronautiche e degli armamenti in genere, avrebbe potuto essere un riferimento costante e sicuro, richiedendo perciò più che mai per l'aviazione atti di fede e opere futuristiche, delle quali è i I prototipo fl dominio dell 'aria ( 1921) di Giulio Douhet.
Conclusione Il significato del periodo 1900-1915 è chiaro. I due eventi principali, casualmente entrambi del 1905-1906 ma indipendenti (battaglia di Tsushima e nascita della corazzata monocalibra da 305) non provocano mutamenti cli grande rilievo nelle precedenti acquisizioni tattiche, tenendo anche presente che le costruzioni navali sono più che mai autoreferenziali, come dimostra la tendenza (mai giustificata dalla letteratura navale) a superare il calibro 305, che pure a Tsushima per concorde parere degli autori prima citati, a cominciare dal Bo-
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namico, era stato meno efficace dei calibri a tiro rapido intorno ai 200 mm, non giustificando nemmeno l'adozione dello stesso calibro 305. Per di più la battaglia di Tsushima porta molta acqua ai fuoco dei sostenitori della battaglia decisiva, il che è un danno per le Marine di secondo piano come quella italiana, che non sono mai state effettivamente in grado di battersi ad armi pari per la conquista del dominio del mare. Con il loro culto del cannone, della corazza e della battaglia decisiva le dottrine navali fino al 1914 si rivelano ben presto fuori dalla realtà. I progressi delle armi e dei mezzi di contrasto passano in seconda linea e non esercitano l'influenza tattica che dovrebbero e che avrebbero avuto nella guerra ormai vicina, nella quale avrebbero pesantemente condizionato l' impiego delle costose corazzate fino a impedirlo, come è avvenuto nel Mediterraneo - e in particolare nell'Adriatico - nella guerra 1914-1918. Nonostante le prestazioni dell'aeroplano (crescenti in modo esponenziale anche sul mare, con la realizzazione delle prime portaerei auspicate da Douhet e altri), il fascino ingannevole di Tsushima si è prolungato nella seconda guerra mondiale e nella Marina italiana. Si è così trascurato di considerare che a Tsushima il risultato decisivo della battaglia fa anzitutto dovuto a una forte differenza di potenziale esistente a priori tra le due flotte contrapposte. Tale differenza da allora in poi non si è più verificata, visto il risultato incerto della battaglia dello Jutland (1916) e, per quanto di nostro interesse, di quella di Punta Stilo (1940), ultima battaglia tra grandi navi nel Mediterraneo. La pretesa luce di Tsushima ba così perniciosamente deformato la prospettiva della guerra sul mare italiana, impedendo di prendere atto appieno e con tempestività dell'efficacia del sommergibile specie contro il naviglio mercantile e, in genere, delle possibilità degli altri mezzi di contrasto, comprese le mine. A questa rotta dimostratasi sbagliata, negli anni Venti e Trenta si è opposto senza alcun successo un gruppo di ufficiali capeggiati proprio dal Bernotti, che dopo aver sostenuto così vigorosamente il cannone prima della guerra mondiale, già guerra durante ha preso atto del nuovo ruolo del sommergibile, per poi intravedere nell'aeroplano imbarcato su portaerei un vettore di efficacia almeno pari a quella del cannone, specie per la Marina italiana dimostratosi arma secondaria anche e soprattutto nel secondo grande conflitto sui mari.
CAPITOLO VI
TRA GUERRA DI SQUADRA E GUERRA DI CROCIERA: LA TEORIA STRATEGICA NEGLI STATI UNITI, IN EUROPA E IN ITALIA
È ingiusto omettere il potere marittimo dalla lista dei principali fattori che producono risultati, così come è assurdo pretendere che abbia un 'influenza esclusiva[...]. La storia navale è solo uno deifattori di quell 'ascesa o decadenza delle nazioni che è chiamata la loro storia; e se si perdono di vista gli altrifàttori ai quali essa è così strettamente legata, ci si formerà un 'idea, distorta, esagerata o meno, della loro importanza. A.T. MAHAN
Premessa Le parole di Mahan citate in apertura mettono in guardia da interpretazioni troppo parziali e autoreferenziali del ruolo del potere marittimo. D' altro canto, specie ma non solo nel caso italiano raramente è possibile scindere le considerazioni più propriamente rientranti nella teoria strategica da quelle aventi una ben precisa radice nelle realtà nazionali, quindi concernenti la prassi strategica e le principali opzioni dottrinali, che dovrebbero rientrare in un contesto geopolitico e geostrategico tale da tener conto delle peculiarità di ciascun Paese. Se si vuole far emergere tali peculiarità in tutte le loro interfacce, è giocoforza condurre una breve indagine preliminare sugli orientamenti nel campo della teoria strategica navale prevalenti sia in ltalia che in Europa e oltre Atlantico, perché se ci si limitasse a una panoramica italiana si perderebbero gli indispensabili metri di confronto e di gi udizio. Abbiamo già esaminato i riflessi tattici del progresso tecnologico, tali da rendere non di rado la tattica un fattore condizionante di grande peso anche per la strategia, capovolgendo il tradizionale rapporto di dipendenza; è ora necessario proseguire l'esame anche per quest' ultima branca teorica, senza dimenticare - come suggerisce Mahan - il contesto nel quale detta strategia si inserisce, e in particolare le analogie, le differenze, i raccordi tra forze navali e terrestri, tenendo presente che in campo terrestre fino al 19 14 non sembrano sussistere valide alternative al modello di guerra rapida, offensiva e decisiva di tipo napoleonico. Fino a che punto vale ancora Nelson? E fino a che punto si può parlare di nuovi rapporti teorici tra guerra terrestre e marittima, seguendo le orme del Bonamico? Solo sciogliendo questi due nodi teorici fondatm:ntali sarà possi-
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bile inquadrare bene il successivo problema della strategia marittima - oltre che navale - più conveniente per l'Italia, in un quadro di contrastanti esigenze e possibilità e tenendo conto del pensiero-certamente non favorevole alla guerra di squadra - delle due figure dominanti già esaminate (Bonamico e Sechi).
SEZIONE I - Cenni sul pensiero strategico navale straniero Arthur Thayer Mahan:un mito tuttora attuale, ma valido solo per le grandi marine Di Mahan abbiamo già trattato, soprattutto riferendosi alla critica che ne fa Bonamico ( cap. I); rimane però da esaminare la globalità del suo pensiero e da inquadrarlo meglio nel contesto politico-strategico dell'epoca, con riferimento alle sue opere principali e non solo alla celebre influenza del potere marittimo sulla storia, del la quale anche oggi viene generalmente ricordato solo il capitolo L Pur essendo stata pubblicata nel 1890, una traduzione completa di tale opera è comparsa in Italia solo nel 1994, cioè oltre un secolo dopo. 1 Si sono invece trascurate altre opere non meno indispensabili per cogliere tutte le dimensioni del pensiero dell'ammiraglio americano, a cominciare dai suoi reali obiettivi: The intere.\·( o/America in Sea power present and future ( 1897 - tradotto in italiano nel 1904 2 e ristampato nel 1996 con titolo modificato e ampio commento a cura di chi scrive);3 Lessons ofWar with Spain (1899 - tradotte in italiano nello stesso anno);4 Naval Strategy compared and contrasted with the Principles and Practice ofMilitary Operations on Land ( 1911 - tradotto in italiano solo nel 1997 con ampio ed ottimo commento dell'ammiraglio Ferdinando Sanfelice di Monteforte).5 Come è accaduto spesso ai grandi autori militari (basti ricordare il contrapposto profeta italiano dell'aeronautica Giulio Douhet), anche Mahan ha avuto dei cattivi allievi e seguaci, che anziché studiarlo a fondo con criteri puramente scientifici hanno spesso deformato a fini strumentali il suo pensiero. 1n particolare ovunque - e non solo nelle nazioni economicamente sviluppate, con ampio sbocco sul mare e ambizioni mondiali - Mahan con molta approssimazione è diventato il riferimento teorico principale dei "navalistt', cioè dei sostenitori ad oltranza <lei ruolo decisivo delle forze navali e della conseguente necessità di metterle in condizioni di ottenere il dominio del mare, con una componente di superficie basata su un nucleo di navi maggiori (fino alla guer-
1 Roma,
Uflìcio Storico Marina 1994. Torino, Casanova 1904 (Prefazione di Camillo Manfroni). 3 Roma, Forum di Relaz ioni Internazionali 1996. • Spezia, Zappa 1899 (prefazione di Camillo Manfroni). ' Roma, Forum di Relazioni Intemadonali 1997 (2 Voi.). 2
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ra 1939-1945 le grandi e costose corazzate, con relativo naviglio di scorta; dopo tale guerra le portaerei o gli incrociatori tuttoponte). Questo approccio unilaterale e autoreferenziale è avvenuto a prescindere dalla situazione internazionale, dal diverso ruolo geopolitico e geostrategico di ciascun Paese e soprattutto dalle sue possibilità economiche e capacità industriali e tecnologiche. Si è già visto che non solo in campo terrestre, specie nel caso dell'Italia di ieri e di oggi quest'ultime sono sempre state, più che un convitato di pietra, un fattore primario da considerare, a fronte dell'obiettivo ideale (ma velleitario e quindi pericoloso) del sicuro dominio di un mare che, come il Mediterraneo, anche nell'aureo periodo delle Repubbliche marinare non è mai stato completamente Nostrum, anzi a partire da fine secolo XVII ha visto il crescente predominio di nazioni non mediterranee (come l'Inghilterra fino alla seconda guerra mondiale e gli Stati Uniti dopo), con rivali di secondo rango come la Francia (fino al 1940) e poi l'Unione Sovietica. Una volta chiarito questo contesto, è possibile individuare le reali dimensioni di un pensiero che, come quello di Mahan, è dichiaratamente riferito alla realtà americana di fine secolo XIX e ha anche primari obiettivi propagandistici, nel senso migliore del termine; esse possono essere riassunte come segue. 1) Come già fatto in circostanze diverse da Bonamico quasi vent'anni prima, Mahan intende risvegliare e sviluppare nel popolo americano una coscienza marittima che al momento gli manca, in vista di molteplici obiettivi fondamentali: il controllo del Mar dei Caraibi e del Golfo del Messico, quindi dell'accesso al Canale di Panama da lungo tempo in progetto (che consentiva un risparmio di circa 12000 km nel tragitto da New York a San Francisco ed è stato inaugurato nel 1914 in un'area dell'America Centrale sotto controllo militare degli Stati Uniti); il possesso delle isole Hawaii come avamposto e allo stesso tempo argine verso Oriente (Mahan parla di "pericolo giallo"); l'intervento militare nell'isola di Cuba per espellervi la Spagna sostituendola con una sorta di protettorato americano, vitale per il controllo del Mar dei Caraibi; il ruolo internazionale degli Stati Uniti anche in vista di una possibile alleanza con l'Inghilterra; last not !cast, la protezione del commercio marittimo, che sta assumendo dimensioni mondiali. 2) Esaurita la spinta verso l'Atlantico e consolidata la stabilità politica interna con la guerra di secessione 1861-1865 nella quale gli Stati Uniti industriai i del Nord erano risultati vincitori, nella seconda metà del secolo XIX grazie anche a una massiccia immigrazione gli Stati Uniti avevano iniziato un tumultuoso e imponente sviluppo economico e industriale, che aveva sempre più bisogno di mercati esteri e che destava perciò preoccupazioni in Europa ( vds. anche cap. TI). La necessità per gli Stati Uniti di espandersi nei mercati mondiali, e in particolare in quelli asiatici, non aspetta certo gli scritti di Mahan per cominciare ad emergere, ma è già presente nella politica estera e navale americana subito dopo la guerra di secessione. Lo dimostra il Rapporto annuale del Segretario della Marina degli Stati Uniti, pubblicato nel 1870 dalla Rivista Marittima insieme con la sintesi di un articolo dell'Anny and NavyJuurnal, nt:l
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quale si afferma a chiari note che gli Stati Uniti devono diventare la prima potenza navale mondiale, onde proteggere i crescenti traffici marittimi con l'Asia e con tutti gli Stati del Continente americano. 6 3) Già nella prima metà del secolo XIX, del resto, gli Stati Uniti stavano diventando la prima potenza economica, industriale e finanziaria del continente americano, con ben definiti interessi che si opponevano a quelli - fino a quel momento incontrastati - delle grandi potenze europee nel nuovo continente. Di tali interessi è interprete la celebre dottrina del Presidente degli Stati Uniti Monroe (1823), la quale, con il famoso motto "l'America agli americani" e con i conseguenti principi del non intervento e della non colonizzazione dell'intero continente americano da parte delle potenze europee, in buona sostanza stabilisce il predominio economico e militare degli Stati Uniti - di gran lunga i più forti - sul loro continente. Le teorie di Mahan vanno lette come risvolto militare e navale dei fondamentali enunciati di Monroe; dunque egli non è - né può essere - un profeta solitario e taumaturgico, che per sua esclusiva ispirazione indica grandi obiettivi al popolo americano, ad essi finalizzando la parte puramente teorica dei suoi scritti. È l'interprete autentico e tempestivo dello spirito della nazione, che stava lentamente ma sicuramente maturando da tempo, e nell'ultimo decennio del secolo XlX aveva solo bisogno di essere diffuso e alimentato in un pubblico più vasto, con obiettivo immediato la guerra del 1898 contro la Spagna, che ha fatto degli Stati Uniti una grande potenza mondiale grazie soprattutto a una marina da allora in poi sempre più forte. 4) Le predette esigenze geostrategiche portano Mahan a indicare come modello per il suo Paese - anch'esso potenza geostrategicamente insulare, senza confini terrestri pericolosi - la secolare politica navale inglese, che con una flotta predominante ha garantito a quella nazione il possesso di un vasto Impero, la prosperità economica e il libero sviluppo dei suoi commerci; di qui la sua preferenza fin troppo categorica per la guerra offensiva di squadra condotta da una flotta di grandi navi sul modello inglese. Essa deve garantire il libero uso delle comunicazioni marittime, possibile solo con la conquista del dominio del mare tramite battaglie decisive miranti a distruggere la flotta avversaria. Pertanto insiste sul principio "mai dividere la flotta" e - come se una siffatta strategia classica derivasse da una libera scelta strategica-non ritiene conveniente la guerra di corsa, che richiede dispersione di forze per ottenere solo risultati limitati e non definitivi. Con queste categoriche opzioni, tutte incentrate sullo scontro tra flotte riunite, non dà alcuna importanza ai mezzi di contrasto, fino a prevedere nel 1890 (a torto) che le torpediniere faranno la fine dei brulotti, perché rallentano e impacciano i movimenti della flotta in alto mare.
6 In Rivista Marittima 1870, I Trim. Fase. ID, pp. 501-519 e III Trim. Fase. IX, pp. 1826-1827. Sullo sviluppo economico, commercia le e industriale degli Stati Uniti che precede e segna l' opera di Mahan Cfr. inoltre A.T. Mahan L'importanza del potere marittimo per g li interessi degli Stati Uniti (Cit.), Commento iniziale di chi scrive (pp. XXI-XXXV).
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5) Le predette, perentorie e assolute posizioni teoriche fanno di Mahan il massimo esponente in campo navale della corrente dei dottrinari capeggiata da Jomini (Vol. I - cap. TI), caratterizzata da un dogmatismo di fondo e dalla fede in principi costanti e immutabili (a cominciare da quello della massa) che sono dettati dall'esperienza storica, perciò vanno sempre osservati. Tale corrente è quindi contrapposta alle teorie di Clausewitz (capo-scuola degli ideologi), secondo il quale nella condotta della guerra i principi hanno valore relativo, perché vi domina l'imprevisto e vi prevalgono fattori spirituali e morali come tali non quantificabili. 6) Mahan è stato erroneamente presentato da taluni suoi seguaci come pietra miliare di una sorta di esclusivismo navale, a tutto danno delle forze terrestri che evidentemente per una penisola come l' Italia hanno in tutti i casi un loro ruolo fondamentale e insopprimibile. Tanto più che ha esplicitamente riconosciuto la funzione positiva (come argine nei riguardi dell'espansione di forze provenienti dall' Oriente) dei grandi eserciti di leva del continente europeo; né gli sono sfuggiti gli inconvenienti strategici causati dalla disponibilità di forze terrestri volontarie mal preparate e troppo esigue. Ad esempio dalla guerra ispano-americana del 1898 ha tratto l' insegnamento che "Esercito e Marina hanno reciprocamente bisogno l 'uno del! 'altra e importanti doveri bilaterali" e che "occorre soprattutto una flotta, ma occorre inoltre un esercito adeguato e mobile in sommo grado; ed occorre sopra ogni altra cosa che queste due forze siano fra loro in eff icace relazione, fondata sulla chiara e diligente conoscenza delle rispettive funzioni. Ciascuno di questi due elementi tende naturalmente ad esagerare la propria importanza rispetto al fine comune; ma a questo inconveniente si può trovar rimedio quando il popolo [cioè la pubblica opinione - N .d.a.], che è in fin dei conti l'arbitro della politica nazionale, riesca a comprendere chiaramente le questioni militart'.1 Più in generale chiarisce che, se è ingiusto trascurare l'influenza del potere marittimo sulla storia come fino a quel momento è stato fatto, "sarebbe assurdo pretendere che esso abbia un 'influenza esclusiva", perché la storia navale è solo uno dei fattori dell'ascesa e decadenza delle nazioni. 7) L'opera Strategia navale, che può essere ritenuta il suo canto del cigno, è ulteriore conferma della sua apertura verso la guerra terrestre, anche se non muta le precedenti acquisizioni in materia di guerra marittima (a cominciare dal principio della massa) e tributa lodi eccessive alla condotta delle operazioni da parte dell ' Arciduca Carlo (generale austriaco che è stato dopo Jomini il più illustre esponente della scuola teorica dei dottrinari e alla fin fine ha subìto dure sconfitte da parte di Napoleone, che lo banno costretto a ritirarsi a vita privata - Cfr. Voi. I. cap. II). In quest'ultima opera Mahan esamina in particolar modo la condotta della guerra da parte di Napoleone e ne trae parecchi insegnamenti anche per la guerra navale, stranamente lasciando in seconda linea
7
A. T. Mahan, Lezioni della guerra ispano-americana (Cii.), pp. I 0-1 I .
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il modello di Nelson, al quale ha poi dedicato un libro. E in contraddizione con altre parti della stessa opera e con lo spirito di cui è permeata, arriva ad affermare che la condotta della guerra non è una scienza ma un'arte, e che mentre la scienza è basata su verità fisse e su leggi, "l'Arte, al di là delle occasioni che trova per esprimersi, crea nuove forme di una verità senza fine", quindi pur riconoscendo principì e regole, non si ritiene ad essi vincolata, come invece vorrebbe Jomini. 8 8) Sempre in Strategia navale Mahan si dichiara realisticamente favorevole alle fortificazioni costiere, perché liberano le forze mobili da compiti statici, tanto più che anche la flotta più potente non sarebbe in grado di impedire da sola un 'invasione dal mare (come vorrebbe invece il Bonamico). Esse a parer suo servono a proteggere le basi della flotta, ma a loro volta non sono in grado di difendere da sole le coste da un' invasione, perché la loro capacità offensiva termina là ove giunge il raggio d' azione dei loro cannoni. Non giudica infine redditizia l'applicazione del principio dellajleet in being, che-come dimostra la condotta della guerra contro la Russia da porti giapponesi nel 19041905 - non è in grado di impedire l'uso del mare da parte della flotta nemica. Per contro, in altra parte del testo sostiene con scarsa coerenza che gli sbarchi possono avvenire solo quando si è conquistato il dominio del mare, e che lo sforzo strategico principale non può essere esercitato dal mare contro le coste [ciò non è sempre vero - N.d.a.]. 9) Mahan fornisce la critica più attendibile alla condotta delle operazioni da parte dell'ammiraglio russo Rodzhcstvensky nella guerra russo-giapponese, che ha portato la sua flotta alla disfatta di Tsushima. A suo parere lo sfortunato ammiraglio è giunto nelle acque dell'Estremo Oriente senza aver messo bene a fuoco lo scopo strategico principale che avrebbe dovuto decisamente perseguire, sacrificandovi senza esitazione tutti gli altri secondari (tale scopo era quello di attaccare battaglia con la flotta giapponese, ma nelle migliori condizioni) e ha appesantito la flotta - quindi riducendone la velocità e pregiudicandone la capacità di manovra - sia mantenendo al seguito immediato le navi da trasporto, sia sovraccaricando di carbone e altri rifornimenti le stesse navi da guerra. Invece, in previsione del quasi certo scontro con la flotta giapponese prima di arrivare a Vladivostock, avrebbe dovuto tenere sulle navi da guerra solo il quantitativo di carbone sufficiente per la battaglia e per raggiungere Vladivostock, assegnando una rotta diversa alle navi da trasporto, anche arischio di perderle [a parziale - ma non totale - discolpa del Rodzhestvensky, si può solo osservare che egli sapeva di non poter contare sui rifornimenti disponibili una volta giunto in quella base - N.d.a.]. 10) Coerentemente con il suo scarso entusiasmo per la teoria dellajleet in heing, Mahan adotta anche per la guerra marittima - citando sia Napoleone che
8 J\.T.
Muhun, Strategia navale (Cit.), Voi. Il, p. 92.
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Nelson - il principio che nessun risultato di rilievo può essere ottenuto senza correre rischi, ciò che peraltro non dispensa dal fare tutto il possibile per calcolare e organizzare preventivamente le operazioni da compiere. 11) Per quanto attiene alle costruzioni navali, la predilezione per la guerra di squadra e per una flotta di 1:,rrandi navi non impedisce a Mahan di discostarsi totalmente dagli orientamenti tipici del Saint Bon e del Brin, e più tardi dal concetto di nave assoluta tipo Dreadnought ovunque vincente, anche negli Stati Uniti. Nelle lessons of War with Spain si dichiara infatti "in favore del numero delle unità e contro / 'i/limitata grandezza individuale", giudica le artiglierie di medio calibro più efficaci di quelle di grosso calibro (non è il solo al tempo) e indica come soluzione preferibile un tipo di nave corazzata "oscillante tra un minimo, che permette di concentrare sotto il comando di uno solo quante più navi da battaglia è possibile, e un massimo che permette di suddividere l'intera armata, quando se ne presenta l 'opportunità". Ciò che per lui è più importante non è tanto la massima concentrazione di potenza possibile su una sola nave o su poche grandi navi (filosofia di Saint Bon e Brin, sempre vincente in Italia), ma la capacità di una rapida concentrazione delle forze navali sul punto decisivo. Distingue inoltre tra mobilità ddl'interajlotta e velocità di ciascun tipo di nave, privilegiando i I primo requisito che era cd è di elevata importanza per una flotta oceanica destinata ad agire su larghi spazi come quella americana. Tale obiettivo si ottiene curando l'autonomia del naviglio, riducendo con idonee basi i tempi necessari per il rifornimento di carbone e curando velocità uniformi per tutti i tipi di nave. Non ha perciò il culto della velocità tipico del Bonamico, del Bernotti e di molti altri autori italiani e europei coevi, anzi a suo avviso "quella forma di mobilità, che si dice velocità, è un elemento secondario per una nave da battaglia, o almeno le moderne proporzioni di tonnellaggi per le navi da battaglia non devono essere sacrificate per ottenere un aumento di velocità". Dopo il successo della Dreadnought non cambia affatto idea, e ancora una volta opponendosi ali' orientamento prevalente afferma che, così come in tattica e strategia non bisogna disperdere le forze ricercando diversi obiettivi, "la stessa cosa vale per il progetto delle navi. Non potete avere tutto, e se ci tentaste perdereste tuUo; con questo intendo dire che in nessuna qualità la vostra nave vi darà il massimo, a meno che voi non sfruttiate al meglio quella sola fra le sue caratteristiche". Idea ancora una volta opposta a quelle del Saint Bon e del Brin ... 12) Osserva che l' Italia, con il suo grande sviluppo costiero e buoni porti, potrebbe esercitare un'influenza decisiva sulle rotte commerciali per il Levante e il Canale di Suez. Tale influenza sarebbe ancora maggiore se essa possedesse isole naturalmente italiane come Malta e la Corsica, che invece in mani straniere neutralizzano in gran parte i vantaggi della sua posizione, sminuiti anche dal fatto che l'Adriatico "non è una via commerciale". Questi inconvenienti, insieme con altre cause negative, "rendono più che dubbia la possibilità che l'Italia rimanga ancora in prima linea tra le nazioni marittime".9 Eppure, "con una lunga pe11isulu con una catena montuosa centrale che la di-
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vide in due strette strisce attraverso le quali le strade che uniscono i diversi porti devono necessariamente passare", l'Italia avrebbe bisogno di "un assoluto controllo del mare", perché "l 'insicurezza delle linee di comunicazione nella penisola sarebbe di notevole imbarazzo per un esercito minacciato dal mare e circondato da un popolo ostile". 10 13) Le idee di Mahan hanno avuto uno sbocco positivo e utile per gli Stati Uniti, favorendo la rapida trasformazione della U.S. Navy da flotta per la difesa costiera a flotta d'alto mare, iniziata con l'impostazione della prima corazzata americana (la U.S.S. Indiana), facente parte di una classe di tre unità entrate in servizio nel 1895-1896. Completate da moderni incrociatori, nella guerra ispano-americana del 1898 queste unità hanno avuto un ruolo-chiave nelle determinanti vittorie contro l' antiquata e anche strategicamente mal condotta flotta spagnola. Durante tale guerra Mahan ha non casualmente avuto un ruolo di rilievo come membro del Naval War Board, organo consultivo del Presidente e del Segretario di Stato per la Marina per la sua condotta. Inutile aggiungere che a partire dall'ultimo decennio del secolo XIX la potenza navale americana crescerà con un ritmo esponenziale e incessante, mentre l'esercito, rimanendo sempre su base volontaria, manterrà fino alla guerra 1914-1918 e nel periodo tra le due guerre mondiali una forza palesemente troppo ridotta, sempre meno proporzionata ai crescenti impegni internazionali del Paese. 14) Dal punto di vista strettamente teorico, rimandiamo alla critica alle teorie di Mahan del Bonamico e del Manfroni (cap. I). Ci preme comunque sottolineare taluni aspetti: - a dimostrazione della validità delle sue tesi nell'Injluence ofSea Power upon History, Mahan pur scrivendo nel 1890 sceglie come modelli esclusivamente guerre del periodo velico, in tal modo non accreditando le radicali soluzioni di continuità tra periodo velico e periodo del vapore sostenute dal Bonamico e dalla Jeune École e ridimensionando le innovazioni tattiche e strategiche tipiche della seconda metà del secolo XIX e dei primi anni del secolo XX; - come giustamente ha osservato i I Bonamico, l'ammiraglio americano non fornisce una definizione completa e soddisfacente di strategia. L' acquisizione in pace di posizioni eccellenti, difficilmente conquistabili in guerra, è compito più della politica estera e militare che della strategia; tale acquisizione inoltre riguarda anche la guerra terrestre, non solo la guerra navale come egli afferma. La sua definizione che essa "ha lo scopo di fondare, sostenere e aumentare, in pace e in guerra, il potere marittimo della nazione" è troppo generica; inoltre una strategia così concepita condivide questa funzione con la politica estera e militare e anche (per quanto riguarda la guerra) con la tattica;
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A.T. Mahan, L'influenza del potere marittimo sulla storia (Cit.), p. 6R. ivi, pp. 74 75.
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- nei suoi scritti il culto dell'offensiva a forze riunite ecc., proprio come avviene al tempo anche in campo terrestre (Tomo I) oscura completamente l'esame del caso - certamente normale - che uno dei due contendenti sia per ciò stesso costretto alla difensiva; - nonostante l'importanza da lui attribuita al commercio marittimo, si limita a indicare le ragioni per cui la guerra a tale commercio non è conveniente. Pertanto è totalmente assente dalla sua prospettiva quanto è avvenuto nella prima e nella seconda guerra mondiale, in termini di attacco al vitale traffico marittimo e di sua difesa, con ruolo tutto sommato secondario delle navi corazzate; - indica tra gli elementi di base della guerra marittima, insieme con la produzione e le navi, anche le colonie, che pure hanno sempre avuto un ruolo trascurabile almeno per il suo Paese, e che oggi ovviamente più non esistono, perché sono sostituite da aree d'influenza economica; - le sei "caratteristiche" del potere marittimo da lui indicate trascurano come nota il Bonamico - la necessità che il potere marittimo abbia anzitutto una componente, un'intelaiatura militare e navale, che lo guadagna, lo sorregge e ne è alimentata. Della popolazione considera in modo prevalente la parte marinaresca, cosa che andava bene solo nel periodo velico, mentre nel periodo del vapore era ed è evidentemente importante sia la quantità di popolazione, sia la qualità (disponibilità di personale tecnico) anche a prescindere dalla componente marinaresca; - non indica con la dovuta evidenza, l' importanza fondamentale - anche nel periodo velico - delle capacità industriali, economiche e finanziarie di un Paese, e delle sue linee di comunicazione terrestri; - le sei "caratteristiche" del potere marittimo avrebbero potuto essere opportunamente raggruppate tra di loro, rendendo così possibile un esame meno dispersivo. Ciò avrebbe potuto essere fatto sia per gli elementi di carattere geografico (ad esempio la posizione geografica va evidentemente completata con elementi attinenti a quella che oggi potremmo chiamare "geografia umana", che ne determinano l' affettiva valenza, sia per ciò che riguarda l'indole della popolazione (legata alla sua storia) e il sistema di governo (legato anch' esso all'indole della popolazione e alla sua storia). Inoltre, data la loro importanza gli aspetti industriali, infrastrutturali, economici e finanziari avrebbero dovuto essere trattati a parte, con la necessaria ampiezza. Non si può dire che, a parte Bonamico, i predetti aspetti del potere marittimo enunciati da Mahan siano stati finora approfonditi, studiati, sottoposti a revisione critica e/o completati. Ai tempi dell' ammiraglio americano come anche prima, il potere marittimo non faceva sentire la sua influenza in vacuo, ma doveva combinarsi in un'armonica sintesi con il potere terrestre, per giungere al concetto di potere/potenziale militare; ma questa importante interfaccia non è mai stata considerata come dovrebbe né da lui, né dai suoi seguaci, né dagli scrittori navali in genere. Non è cosi emerso che il pottm: marittimo e/o nava-
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le ha una base comune con quello terrestre, che è anch'esso in primis influenzato dagli elementi geografici. Cosa non di poco conto, perché ciascuna individualità o peculiarità può essere ben definita solo in rapporto ad altre. In secondo luogo - come è accaduto per Clausewitz e Douhet, profeti degli altri ''poteri" - la citazione del pensiero di Mahan si è finora troppo spesso esaurita in generiche lodi, in frasi avulse dal contesto e in riferimenti al carattere decisivo del potere marittimo, trascurando che l'ammiraglio americano ha messo in guardia da generalizzazioni, ha chiaramente ricordato che il dominio del mare difficilmente può essere raggiunto in modo totale e ha riconosciuto che ogni autore scrive prima di tutto per le esigenze del proprio Paese, ovviamente diverse da quelle altrui. Nel concreto solo nazioni industrialmente ed economicamente sviluppate oltre che geopoliticamente insulari (come non solo l'Inghilterra, ma anche gli Stati Uniti) avrebbero potuto- e potrebbero - seguire gli orientamenti strategici offensivi di Mahan. Bonamico è tra i pochissimi ad essersene reso conto: se ne è reso conto anche Carnillo Manfroni, che pur curando dichiaratamente solo la critica storica, nella recensione assai tardiva (1895) a The lnjluence ofSea Power upon History ha giustamente osservato che "il Signor Mahan non ha scritto il suo libro per noi,- egli lo ha scritto per la razza anglosassone". 11 Se si tiene conto delle predette interfacce, l'analisi da noi condotta quanto meno serve ad allontanare dagli scritti di Mahan l'aureola del mito e della profezia per farne emergere quelle luci e quelle ombre, delle quali non è mai priva ogni opera umana. Certamente in questo caso le luci sovrastano di gran lunga le ombre; ma questa non è una ragione sufficiente per dimenticare quest'ultime, rinunciando così a uno dei due corni dell'analisi storica e teorica.
Da Callwell (1897-1905) a Corbett (1911): la concezione empirica del dominio del mare degli autori inglesi e la contestazione del Guerrini Trattando del Bonamico abbiamo già brevemente accennato a Charles E_ Callwell, maggiore d'artiglieria (poi generale) dell'esercito inglese, autore di due opere ( 1897 e 1905) che solo un ufficiale dell'esercito inglese poteva compilare, perché riguardano in prevalenza le interfacce terrestri del dominio del mare (o della preponderanza marittima) dalla battaglia di Waterloo (1815) in poi, dunque si riferiscono in buona parte al periodo del vapore non trattato da Mahan. Più in generale le interpretazioni storiche e le teorie del Callwell ben rispecchiano i capisaldi della secolare politica militare e navale inglese, tesi a sfruttare con il tipico e mirabile empirismo nazionale tutto ciò alla maggiore potenza coloniale del mondo potevano dare sia le forze marittime che quelle
11 Recensione di Camillo Manfroni ali ' Influenza del potere marittimo sulla storia (Cit. ), in " Rivista Marittima" TI Trimestre 1895, Fase. VI pp. 453-469.
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terrestri, con quest'ultime che grazie alla fisionomia geopolitica e geostrategica insulare della Gran Bretagna - e solo grazie a questa - potevano mantenere una forza a reclutamento volontario assai più ridotta di quella dei grandi eserciti di leva del continente. Per avere un'immagine del pensiero del Callwell è sufficiente esaminare il primo di questi libri, Gli effetti del dominio del mare sulle operazioni terrestri da Waterloo in poi (1897), che subito è stato tradotto in italiano significativamente a cura non della marina ma del Comando del Corpo di Stato Maggiore dell'esercito e ristampato di recente.12 Nell'importante introduzione alla traduzione italiana (a torto omessa nella ristampa) tale Comando attribuisce al Callwell il merito di aver introdotto un nuovo approccio storico mirante a far emergere le intime connessioni tra operazioni terrestri e marittime, mettendo dunque fine - già allora - alle solite "storie" a compartimenti stagni (non certo scomparse - noi osserviamo - nel XX secolo e fino ai nostri giorni). Infatti - prosegue il Comando - in passato potè avvenire che si trascurasse lo studio dei legami che corrono tra le operazioni de/l'esercito e quelle della flotta quando debbono agire simultaneamente, e dei danni che tale trascuranza può causare; anzi si giunse a un punto tale che perfino negli Stati meno continentali [come era ed è l'Italia - N.d.a. ], esercito e marina furono considerati come due organismi, non solo distinti, ma affatto indipendenti tra di loro. Ciò poteva succedere_fìno a pochi anni fa senza che gl 'inconvenientifossero soverchi. Mal 'indirizzo della storia va mutando rapidamente; gli interessi extra-europei acquistano importanza sempre maggiore per gli Stati europei [... ]. Tutto induce a credere che Le prossime guerre saranno di natura anfibia, e che la lotta sul mare si svolgerà parallelamente a quella combattuta in terra o Le aprirà la via.
Come afferma il Bonamico nell'ampia e tempestiva recensione che gli dedica13 , "considerato teoricamente il lavoro del Callwell apparisce come il proseguimento e il compimento del/ 'opera del Mahan" e ha carattere più pratico e operativo, intendendo ricordare agli ufficiali dell'esercito l' influsso delle operazioni marittime su quelle terrestri, trascurato dal Mahan (specie ncll'lnfluence ofSea Power upon History) e, più in generale, tanto dagli scrittori terrestri che da quelli navali. 11 Callwell non si interessa, dunque, dei retroterra teorici, politico-sociali ed economici dei problemi, né ritiene necessario approfondire più di tanto gli stessi aspetti teorici della strategia navale, "argomento complicato" che a suo discutibile avviso non è necessario conoscere per valutare l'effetto della supremazia navale sull'andamento delle operazioni terrestri. Ciò premesso, le considerazioni del Callwell possono essere riassunte come segue.
"Torino, Casanova 189R. Ristampa 1996 Roma, Forum di Relazioni Internazionali. Recensione di Domenico Bonamico agli Effetti del dominio del mare ecc. (Cit.), in "Rivista Marittima" 1897, II Trimestre Fascicolo TV, pp. 231 -236. 13
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I) Raramente avviene che in una guerra uno dei due contendenti abbia il dominio esclusivo o assoluto del mare, anche se la superiorità relativa di uno di essi fosse tale da non ammettere confronti_ Per ottenere tali dominio, infatti, la flotta superiore dovrebbe avere il dono dell'ubiquità ed essere in grado di stabilire un blocco così stretto delle coste da non far passare la più piccola imbarcazione_ TI dominio del mare è incontrastato solo quando non esiste - o non esiste più - una flotta da guerra nemica; ma anche in questo caso può avvenire che il nemico "riesca a imbarcare o sbarcare forze militari ed abbia quindi influenza sul corso delle operazioni terrestri"'_ 2) Una delle basi della politica nazionale dell'Inghilterra è "il gran principio strategico che, per effetto della supremazia marittima, i corpi di truppa inglese possono, per quanto inferiori di numero alle legioni di cui dispongono le potenze continentali, ottenere grandi e decisivi risultati". La preponderanza sul mare compensa l'insufficienza delle forze terrestri e consente di intraprendere grandi operazioni in una data regione e/o di trattenere una parte consistente delle forze nemiche lontane dal teatro principale delle operazioni [questa è la tradizionale "strategia periferica" inglese - N.d.a-]. 3) Il dominio del mare regola le operazioni terrestri, in quanto assicura il trasporto delle truppe, dei materiali e degli approvvigionamenti. Pertanto nella maggior parte dei casi l'espressione "dominio del mare" deve essere intesa "solo nel senso che si riferisce a movimenti militari marittimi e non già a questioni di sicurezza del commercio, ovvero di importanza delle flotte nemiche sul loro proprio elemento"_ 4) Come esempio dei vantaggi che consente a un esercito operante il dominio del mare il Callwell, trascurando l'apporto della guerriglia, cita la vittoriosa guerra di Spagna ( 1808-1813) contro le pur superiori truppe napoleoniche. Indica poi il caso dell' Italia come esempio della possibilità che, in determinate condizioni geografiche, una linea di comunicazione terrestre più o meno indispensabile sia interrotta da un nemico che possegga il dominio del mare, con gravi limitazioni della capacità strategica dell'esercito_Infatti - egli osserva - la catena degli Appennini, frastagliata, con forti curve e forti pendenze, solcata da poche ferrovie, ostacola gravemente il movimento Nord-Sud (e viceversa) di grossi trasporti militari, costringendo l 'esercito ad evitare questi aspri ostacoli avvalendosi della ferrovia costiera fra Genova e la Toscana, oppure di quella adriatica fra Ancona e Brindisi. In particolare la prima di queste ferrovie è facilmente interrompibile ed esposta ad offese dal mare, sì che "se l'Italia dovesse subire un disastro marittimo, o non fosse abbastanza forte da tenere in scacco le forze navali di una potenza nemica, sarebbe perduta per lei interamente questa grande linea di comunicazione, che è un passo aperto al suo esercito, solo finché la s ua flotta sia prevalentemente nel mare ligure"_ 14
,. Callwell, Gli effetti del dominio del mam... (C.it.), p . 22.
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5) La capacità del dominio del mare di influenzare le operazioni terrestri non sempre emerge con immediatezza; questo perché il suo effetto sulle operazioni terrestri è essenzialmente strategico e "la sua influenza sulle operazioni militari, per quanto possa essere decisiva, è spesso solamente indiretta, quindi rimane inosservata e dimenticata finché, riesaminate le vicende della campagna, non siano rintracciatefino alle loro sorgenti le cause degli episodi drammatici che eccitano le immaginazioni popolari''. 15 6) La storia, e per ultimo - nella guerra cino-giapponese - lo sbarco di un forte contingente militare giapponese in Corea benché la flotta cinese fosse in beinK nella base di Wei-Hai-Wei nel Mar Giallo, "non giustifica la teoria della fleet in being", a meno che quest'ultima non sia veramente in grado di tener testa alla flotta avversaria. Ad ogni modo, "il presumere che un comandante risoluto sia trattenuto dall 'arrischiarsi ad una traversata dallo spauracchio di una flotta in being, che non sia veramente in grado di combattere, equivale a non conoscere gli insegnamenti della storia".1 6 7) Su un altro argomento-chiave, quello delle fortificazioni costiere, il Callwell è di parere opposto a quello del Mahan. Ritiene infatti che "la preponderanza navale rende assurda ogni fortificazione che non sia di pura difesa della costa, quando il nemico può avvicinarsi solo dalla parte di mare". Lo dimostra proprio la caduta per attacco diretto da terra delle fortezze cinesi di Port Arthur e Wei-Hai-Wei nella recente guerra cino-giapponese, resa possibile dalla superiorità navale giapponese, che ha consentito di trasportare per mare le truppe necessarie per l'attacco da terra di tali fortezze. Quindi la difesa terrestre di Portsmouth, Brest, La Spezia e altre fortezze che corrono pericolo solo dalla parte del mare, "si risolve in una questione di predominio marittimo"11 [ma se questo predominio non c' è? - N.d.a.]. 8) Pur appartenendo alla nazione che più di tutte vi ha fatto ricorso, il Callwell a proposito degli sbarchi non vede le cose troppo facili : per lui si tratta di "un 'operazione da non intraprendersi leggermente, salvo che in eccezionali circostanze". Il trasporto per mare di un grosso corpo di truppe richiede la raccolta di un gran numero di navi, non trova sempre disponibili i porti necessari e se il viaggio è lungo la cavalleria e l'artiglieria giungono a destinazione senza essere subito impiegabili; perciò "tale impresa è solo giustificabile se il dominio del mare è stabilito in modo abbastanza sicuro da garantire almeno che [ 'esercito arrivi a destinazione, senza la molestia di un attacco da parte delle navi da guerra avversarie" 18 (va ancora ricordato che il Bonamico ha invece ritenuto sempre possibile attaccare con forze inferiori i convogli di sbarco del nemico, neutralizzando la superiorità della sua flotta).
IS ivi, pp, 27-28. •• ivi, p. 322. 17 lbidem. 18 ivi, p. 15.
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Come hanno fatto Mahan e Bonamico, questi concetti sono corroborati mediante un largo ricorso a exempla historica, cominciando dalle guerre del Peloponneso e dall'Jnvincible Armada spagnola di Filippo TT sconfitta nel 1588 dagli inglesi fino alle guerre napoleoniche e alle guerre anche secondarie del)' età del vapore, che si chiudono con la recentissima guerra cino-giapponese del 1894-1895. In proposito ci limitiamo a ricordare la discutibile e discussa tesi del Callwell che nella guerra d'indipendenza italiana 1848-1849 il dominio del mare Adriatico, inizialmente in mano alle flotte riunite piemontese e napoletana, avrebbe messo in gravi difficoltà l'esercito austriaco del Maresciallo Radetzky, compromettendo i suoi rifornimenti; tale difficoltà però sarebbero scomparse dopo la de/ai/lance della flotta napoletana... La successiva opera del Callwell (non tradotta in italiano e finora mai citata da alcuno) è del 1905 ed è da lui scritta sotto l'effetto della guerra russogiapponese, la quale a suo avviso dimostra che l'accurata preparazione di ambedue le Forze Armate giapponesi a operazioni combinate e la strategia unitaria che ne è derivata sono un modello da seguire. Si intitola Military operations and marittime preponderance. Their relations and interdipendence ed è ampiamente e benevolmente recensita sulla Rivista Marittima dal già noto comandante Grillo. 19 Non casualmente il Callwell questa volta parla di preponderanza marittima e non più di dominio del mare come in precedenza e ribadisce che molto raramente il dominio del mare può essere conseguito in modo completo. Per il resto, la nuova opera rappresenta un approfondimento attualizzante e un completamento dei precedenti concetti, limitati solo ai vantaggi che la supremazia marittima assicura all ' esercito. Essa è divisa in due parti: nella prima si tratta del bisogno che la marina in molti casi ha di forze terrestri per raggiungere i suoi obiettivi e nella seconda del contributo che essa può dare alle operazioni terrestri. Il Callwell accenna anche all' importanza dei progressi delle costruzioni navali per le operazioni marittime, con particolare riguardo alle comunicazioni radio e all'aumentata celerità e sicurezza della navigazione; per contro non ritiene più possibile improvvisare intere flotte nel corso di una guerra, né riscontra la convenienza di impiegare le navi da guerra in prossimità delle coste, a causa delle loro accresciute dimensioni e della maggiore complessità del loro impiego. Riconosce che la distruzione e la riduzione all'impotenza delle forze navali nemiche [che dunque - diversamente da quanto affermato in precedenza - è possibile - N.d.a.] è l'obiettivo essenziale della guerra marittima, perché una volta raggiunta consente libertà d'azione. Tratta poi dell'importanza di arsenali, punti di rifornimento, porti di rifugio e piazze fortificate per le flotte, per la cui conquista è quasi sempre necessario il concorso di forze terrestri. In-
•• Edimburg and London, W. Blackwood and Sons 1905. Recensita dal già noto comandante Carlo Grillo (wk Anche Capitolo IV) in " Rivista Marittima" 190:5, Voi. IV Fase. Xli, pp. 461-491 .
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fatti le navi si trovano in svantaggio nell'attacco a tali basi, sia perché i danni che possono provocare alle fortificazioni sono minori e più riparabili di quelli che possono ricevere, sia perché esse sono generalmente difese da pericolose armi subacquee. Solo quando una piazza marittima fa parte del recinto di un grosso centro abitato l'azione unicamente navale può essere sufficiente, con la minaccia di bombardamento che può far decidere la resa (il recensore comandante Grillo ne trae, inascoltato, la convenienza di non estendere troppo l'abitato di La Spezia). Sempre secondo il Callwell il blocco della flotta nemica in una piazza comporta parecchie difficoltà, sia per l' ininterrotta vigilanza che richiede, sia perché espone le forze navali bloccanti al pericolo di attacchi da parte delle torpediniere e dei sommergibili della di fesa. Comunque tale blocco serve più che altro a impedire le comunicazioni dall'esterno con la flotta bloccata, dato che la flotta bloccante, essendo superiore, non può che desiderare una sua sortita, che le fornirebbe l'occasione di distruggerla. Il Grillo non concorda del tutto con quest'ultima affermazione, perché ritiene che le navi bloccate o loro parti in condizioni propizie di oscurità, di tempo ecc., grazie alla loro velocità abbiano delle buone probabilità di compiere con successo una sortita. Ad ogni modo, le ultime guerre dimostrano (così pensa anche il Bonamico) che per ottenere risultati decisivi è quasi sempre necessario assediare una piazza marittima con forze terrestri composte da personale delle varie Armi e con tutto il materiale occorrente per operazioni di lunga durata; per sbarchi o attacchi di sorpresa e per operazioni di breve durata possono inoltre essere impiegati anche gli equipaggi delle navi [come è avvenuto all'inizio della conquista della Libia - N.d.a.]. Riguardo al possibile apporto delle forze navali alle operazioni terrestri, il Callwell osserva che la posizione insulare della Gran Bretagna induce talvolta ad attribuire un'importanza esagerata alla marina, vista quale unico cardine della difesa nazionale; tuttavia uno Stato per tenere il suo posto nel mondo deve avere anche una sufficiente capacità offensiva e la possibilità di spingere a fondo le operazioni di guerra, cosa che può fare solo l'esercito. Inoltre nonostante l'attenzione dedicata dalla Gran Bretagna al rafforzamento della Royal Navy, quest'ultima può pur sempre essere tenuta in scacco, quindi anche in questo caso occorrono forze terrestri in grado di opporsi con successo a uno sbarco. Opportunamente ricorda poi che non è esatto presentare (come fa Mahan) la guerra inglese contro Napoleone come una vittoria del mare contro la terra, perché nonostante la battaglia decisiva di Trafalgar ( 1805) e l'incontrastato dominio del mare da parte inglese, sono stati necessari altri nove anni per abbattere definitivamente la Francia a Waterloo (1815). Ciò è avvenuto non per effetto della guerra marittima ma per gli errori di Napoleone e per la coalizione contro di lui dei principali Stati d'Europa, che a loro volta hanno avuto bisogno di lunghe e sanguinose campagne terrestri per aver ragione della Francia. E anche nella guerra di secessione americana la prevalenza marittima degli Stati del Nord non è stata sufficiente, visto che per vincere la guerra contro il Sud
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sono stati loro necessari anche forti eserciti. Il Callwell conclude perciò che la preponderanza marittima non è un fine ma un mezzo, e che se essa può avere un valore decisivo contro una nazione essenzialmente marittima, ha avuto ridotta e travolta minima importanza contro una nazione essenzialmente continentale (come l'Austria). A sua volta il blocco marittimo oltre ad essere difficile da mantenere, può risultare scarsamente efficace contro una nazione che economicamente basta a sé stessa e/o ha un limitato traffico marittimo. Inoltre i suoi effetti, "se un tempo potevamo essere esiziali quando assai più scarsi e difficili erano i mezzi di comunicazione terrestri, non hanno più ora la stessa importanza col moltiplicarsi delle ferrovie e collo sviluppo preso dal commercio [terrestre]". Per contro il predominio marittimo continua ad avere grande importanza per gli Stati, i cui territori sono separati dal mare, che quindi hanno necessità di spostare truppe da una parte del territorio all'altra_ Dopo aver ribadito le difficoltà degli sbarchi e dei trasporti di truppe via mare, sottolineando anche la difficoltà (poco considerata dal Bonamico) di attaccare i convogli quando la scorta è efficiente, il Callwell si sofferma sulla necessità che marina ed esercito abbiano una preparazione specifica e il materiale adatto per operazioni combinate, cosa che al momento non avviene. ln particolare la marina dovrebbe disporre di navi con limitata pescagione e con buone artiglierie dotate anche di munizioni a shrapnel (efficaci contro il personale); inoltre le compagnie da sbarco di marina dovrebbero essere dotate di cannoni leggeri da montagna al posto dei materiali pesanti dei quali al momento dispongono e dovrebbero essere stabiliti vari sistemi di segnalazione fra truppe e navi. Solo i giapponesi - prosegue il Callwell - hanno ben organizzato gli sbarchi, frazionando le truppe in gruppi tattici pluriarma di minore forza e più flessibili, stabilendo con precisione la modalità dello sbarco previ accordi tra esercito e marina e assegnando alle navi il materiale occorrente per costruire rapidamente zattere e pontili di sbarco. Al confronto il meccanismo di mobilitazione dell'esercito inglese, modellato sui piani degli eserciti del continente, "per i bisogni usuali [cioè per quelli non riguardanti una grande guerra - N.d.a.] riesce assolutamente inutile, mentre imporrebbe gravi spese e disturbi all 'intero paese quando fosse messo in azione"_ Non sarebbe nemmeno conveniente tenere pronto in permanenza un forte nucleo di truppe per bisogni che magari non si faranno mai sentire; si potrebbe invece "ripartire la milizia in varie classi, da chiamare alle armi successivamente solo al momento dei bisogni'', tenendo anche conto che vi è tutto il tempo per impartire loro l'istruzione necessaria_ 11 comandante Grillo coglie l'occasione per soffermarsi nell'insufficiente preparazione delle forze militari di tutti gli Stati per l'organizzazione e condotta di operazioni combinate oltremare, molto opportunamente osservando che se tale critica vale per l'Inghilterra; che pure ha una larga esperienza in proposito, "essa deve valere ancor più per il nostro [Paese], che si trova in tali imprese a muovere i primi passi". E tenendo presente la negativa esperienza della recente guerra d'Eritrea, dove furono impiegati con molti inconvenienti re-
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parti di formazione improvvisati tratti dai vari reggimenti deJJ·esercito, ribadisce - questa volta discostandosi da quanto afferma il Callwell - un•opinione già espressa sulla Rivista Marittima del giugno 1896, "quella cioè della convenienza che avrebbe per noi la costituzione di un corpo speciale di milizia coloniale da tenersi sempre sul piede di guerra, sul quale si potrebbe fare sicuro assegnamento non solo per l'Eritrea, ma altresì per qualunque bisogno improvviso di una spedizione oltremare, senza dovere per ciò turbare l'ordinamento generale dellefone nazionali,,. L'esperienza dimostra infatti come tali bisogni si presentino di frequente (e qui il Grillo cita il progetto italiano di occupare la Tunisia nel 1864, l'invito dell'Inghilterra all'Italia - non raccolto - a concorrere an ·occupazionc dell'Egitto, la partecipazione delrltalia alla pacificazione di Candia e alla spedizione io Cina, ecc.). 11 primo libro del Callwell è recensito sulla Rivista di Fanteria20 dal suo direttore capitano di fanteria Domenico Guerrini, che apprezza la dimostrazione (peraltro noi osserviamo - non nuova nemmeno in Italia) dell' esistenza di legami tra operazioni marittime e terrestri, necessaria e salutare specie in Italia dopo l'esperienza del la guerra del 1866, combattuta ciascuno per conto proprio da esercito e marina. Osserva giustamente il Gucrrini che il problema strategico italiano ''non è solo terrestre, come molti credono nell 'esercito, e non è solo navale, come molli credono nell'armata [navale], e neanche è prevalentemente terrestre o prevalentemente navale, come a parecchi sembra"; dopo di che definisce il libro "talora esagerato, e anche talora paradossale,,, aggiungendo che "pare abbia parecchi difetti organici che gli tolgono valore assai, 5pecie per noi che non siamo inglesi,,, cosa che si ripromette di dimostrare in altra occasione. Promessa ben presto da lui mantenuta con una serie di polemici articoli pubblicati sulla sua Rivista di Fanteria dal 1899 al 1900, e poi raccolti in un volume dal titolo Il dominio del mare, nei quali con estrema acribia contesta punto per punto gli ammaestramenti tratti dal Callwell dalle varie campagne, mettendo in giusto rilievo che, come da lui stesso ammesso, " il Callwel! è inglese e ha scritto dal punto di vista inglese, con principf adatti alle condizioni presenti delf 'lmpero inglese".2 ' Polemizza perciò con coloro che "vogliono adattare all 'Italia un abito tagliato p er l'Inghilterra, dimenticando le parecchie centinaia di chilometri delle nostre frontiere terrestri e gridando: più navi e meno battaglioni,,. Ciò che il Guerrini soprattutto contesta, è l' asserita capacità delle forze navali di compensare la deficienza di battaglioni. Se, ad esempio, in un eventuale conflitto tra Francia e Italia, oltre ad avere forze terrestri pari a quelle italiane la Francia disponesse anche del dominio del mare, il suo
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In "Rivista di Fanteria" Anno VIl - 1898, pp. 711 -712.
Livorno, Debatle 1900. I concetti generali che seguono sono specialmente contenuti nel primo articolo del Guerrini sulla " Rivista di fanteria" (La tesi del Callwe/1, in "Rivista di Fanteria" Anno VTII - 1899, CCCLXXIX, pp. 54!1-565).
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vantaggio sarebbe incontestabile; ma se invece diminuisse il numero dei suoi battaglioni applicando il principio che le navi li sostituirebbero, tale vantaggio sparirebbe. In conclusione, per il Guerrini il ragionamento del Callwell è paradossale, perché "uno sbarco è proprio una cannonata, dove il dominio del mare con relativi mezzi di trasporto rappresenta il cannone e la truppa da sbarcare rappresenta il proiettile; perciò quando il Callwell dice che avendolo si possono tenere meno battaglioni, dice poi in sostanza che quando si hanno cannoni si può fare a meno dei proiettili!'. Il Guerrini aggiunge che il ragionamento del Callwell a favore del dominio del mare è basato sull'ipotesi - probabile anche se non necessaria- che chi non possiede il dominio del mare debba mantenersi sulla difensiva; ma in questo caso non è il dominio del mare in sé che vale, bensì l'azione offensiva - nel suo complesso - di colui che lo possiede, e che può concentrare le forze su un punto solo, mentre il difensore è costretto a disperderle. Perciò "il Callwell fa bello il dominio del mare con le penne dell 'ojjènsiva" e sarebbe invece opportuno studiare in che situazione si potrebbe trovare colui che ha il dominio del mare ma poi è sopraffatto dall'offensiva terrestre nemica, come è avvenuto per la Francia nel 1870. Inoltre in caso di guerra con l'Italia la Francia senza il dominio del mare avrebbe l'unico teatro di operazioni delle Alpi, mentre con il dominio del mare dovrebbe estendere le operazioni all'Italia peninsulare e insulare. Ciò richiederebbe una maggiore dispersione delle forze terrestri e comunque il loro aumento, non certo la loro diminuzione; "dunque [in questo caso] il dominio del mare, certo inutile a chi si difende [ma perché? - N.d.a.], può anche riuscirgli dannoso". Lo stesso Callwell, poi, ammette che anche per una flotta padrona del mare è assai difficile impedire uno sbarco; a maggior ragione le sarà difficile impedire il bombardamento delle città costiere, che non richiede i preparativi e le predisposizioni di uno sbarco. Ne consegue, secondo il Guerrini, che il dominio del mare di per sé non può rendere impossibile al nemico la difesa delle coste; al contrario la possibilità di sbarchi o bombardamenti non è sua conseguenza diretta, perché tali sbarchi e bombardamenti possono essere effettuati anche senza il dominio del mare. Vi è in questo un'evidente contraddizione con altre affermazioni del Callwell, nelle quali presenta la possibilità di uno sbarco nemico come conseguenza diretta e necessaria del dominio del mare in suo possesso. Perciò, anche per questa ragione il Guerrini contesta l'affermazione del Callwell che in ogni caso la superiorità navale deve compensare l'inferiorità terrestre. In effetti della superiorità che ha, pur p er la guerra terrestre, chi possiede pari le forze terrestri e soverchianti le navali, non deriva per logica necessità che una qualsivoglia anche molto grande superiorità di forze navali possa - peggio poi, debba - compensare una qualsivoglia anche piccola inferiorità di forze terrestri. Quindi bisogna ragionatamente vedere quali siano le diverse condizioni di colui che avendo il dominio del mare, abbia poi le forze terrestri pari o itifériori alle nemiche.
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In sintesi si può osservare che il Callwell ha il merito di essere il primo a trattare in profondità - e in tutti e due i sensi - il rapporto esercito-marina; ma il suo rifiuto di occuparsi di questioni strategiche non è condivisibile, tanto più che esse, da lui cacciate dalla porta, in parecchi casi rientrano dalla finestra. Non affronta inoltre- diversamente dal Bonamico - il problema del Comando unico, c si rifiuta di considerare un'esigenza vitale tanto per l'Inghilterra come per l'Italia, cioè la crescente importanza del traffico marittimo e la necessità di difendere il nostro e di attaccare quello nemico. Contraddittorio appare il fatto che, dopo aver tanto parlato di preponderanza marittima, egli esalti gli ovvi vantaggi della sconfitta totale della flotta nemica, la quale assicura libertà d'azione ecc. Esagerata la sua valutazione delle difficoltà create agli austriaci nel 1848-1849 dal dominio del mare Adriatico da parte della flotta piemontese e napoletana; come giustamente osserva i1 Guerrini, l'esercito austriaco in Italia ha potuto sempre essere agevolmente alimentato da Nord-Est via terra, senza alcun bisogno di ricorrere ai rifornimenti marittimi. La critica del Guerrini alle tesi del CallweU, troppo polemica, appare convincente solo là ove sottolinea che l'autore inglese si riferisce essenzialmente alle esigenze inglesi . In effetti (non poteva essere altrimenti) la Royal Navy è stata il fondamento principale - anche se non unico - deJla tradizionale strategia periferica inglese ed è servita spesso dajòrce multiplier deJle forze terrestri, sia pur accompagnate dall'oro inglese e dalla grande capacità diplomatica tesa a favorire, specie in Europa, la nascita di agguerriti eserciti (o, in Spagna, della guerriglia) contro i nemici dell'Inghilterra; ma non sarà mai abbastanza sottolineata l' osservazione non certo originale del Guerrini, che l'esempio inglese (e si può aggiungere anche quello americano) vale solo per l'Inghilterra. Per tutto il resto il Gucrrini spesso forza la mano e si produce in discutibili esercizi dialettici tendenti a sminuire oltre il dovuto e il necessario l'importanza del dominio del mare o preponderanza marittima, né fornisce una concreta soluzione del problema marittimo dell'Italia, che non può essere ignorato. Le sue puntate polemiche sono tuttavia utili, perché dimostrano una cosa sola: che la preponderanza marittima - così come quella terrestre - non è soggetta a dogmi, quindi la sua importanza, il suo peso variano a seconda delle circostanze. Le sue acrobazie dialettiche non riescono tuttavia a smentire che chi possiede la superiorità in campo navale possiede sempre e in ogni caso una carta da giocare in più, e non danno il dovuto rilievo al fatto che lo stesso Callwell ammonisce i compatrioti a non trascurare troppo le forze terrestri, importanti anche per l'Inghilterra; a maggior ragione ciò vale per Stati non insulari come l'Italia, dove la capacità sostitutiva delle forze navali evidentemente è assai limitata fatto questo messo in evidenza comunque dal Guerrini. La sua contestazione pecca di un dogmatismo opposto a quello di Mahan e ancor più dei "navalisti'' suoi seguaci, senza considerare le fondamentali differenze tra potenze geostrategicamente insulari, peninsulari e continentali e indirettamente dimostrando - contro la sua stessa volontà - una cosa sola: che il dominio del mare ha influsso sempre variabile nei conflitti, a seconda della situazione
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politico-militare di ambedue i contendenti e dei caratteri della loro economia (argomento, quest'ultimo, completamente da lui trascurato). Lo scrittore navale inglese che più si avvicina alla realtà della guerra e delle guerre navali future - non solo inglesi - è un civile, Julian Stafford Corbett, autore di Alcuni principi di strategia marittima (1911), tradotto in italiano solo nel 1995 a cura dell'Ufficio Storico Marina_ Noto soprattutto come storico della grande guerra inglese sul mare, il Corbett, ancor più empirico del Callwell, nella sostanza rifugge dal tendenziale dogmatismo e offensivismo mahaniano - dal quale non è completamente immune nemmeno lo stesso Callwell per introdurre nella problematica strategica un approccio flessibile e spesso vicino a quello di Clausewitz, da lui esplicitamente e più volte citato come "il più grande tra i teorici''; pertanto può essere definito il primo scrittore navale totalmente clausewitziano. Di Clausewitz recepisce uno dei principali insegnamenti riguardante i limiti dello studio teorico, che come più volte ricordato deve educare la mente del Capo ma "non deve accompagnarlo nel campo di battaglia"_ All'opposto del Callwell rivolge già in apertura del libro la sua attenzione alla teoria strategica, che giudica ancor più necessaria in campo navale di quanto avvenga in campo terrestre. Per strategia marittima intende "i principi che governano una guerra nella quale il mare rappresenta un fattore sostanziale", mentre la strategia navale è "quella parte della strategia marittima che determina i movimenti della flotta quando la strategia marittima stessa ha determinato quale parte la flotta debba giocare in relazione alle azioni delle forze terrestri". Definizione anche oggi accettabile, dalla quale emerge la necessità che la strategia marittima anzitutto determini caso per caso le relazioni tra ruolo del1'esercito e della marina; fatto questo, la strategia navale studia le modalità con le quali la flotta deve assolvere il compito che le è stato assegnato. Indiretta ma chiara anche la divergenza del Corbett dai "navalisti" puri e duri, là ove afferma che "è quasi impossibile che una guerra possa essere decisa solamente con azioni navali" ;22 infatti le grandi guerre "sono sempre state decise - eccetto casi rarissimi - o da ciò che l'esercito può fare contro il territorio e la vita della nazione nemica, oppure dal timore di ciò che la.flotta può consentire all'esercito difare". 23 ln questo quadro, diversamente dal Callwell (e dal Bonamico) il Corbett colloca le comunicazioni marittime e il traffico marittimo al centro della guerra sul mare, fino a concepire le forze navali come arma di logoramento, i cui effetti "sono sempre, di necessità, lenti e disturbano sia la nostra comunità commerciale che i neutrali". 24 Altro concetto da sottolineare, in-
22 Julian S. Corbett, Alcuni principi di strategia marittima, Roma, Ufficio Storico Marina 1995, pp. 22 e 23. 23 ivi, p. 24. " ivi, p. 23.
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direttamente svalutando la battaglia non ritiene più sufficiente e realistico affermare aprioristicamente che l'esercito deve distruggere quello nemico e la flotta quella nemica, e soprattutto non assegna a priori un ruolo decisivo (o complementare) né all'esercito né aJ1a marina: "può darsi che il controllo del mare sia di un 'importanza così impellente che l'esercito debba dedicarsi ad assistere la flotta nel suo compito specifico prima di poter agire direttamente contro il territorio e le forze terrestri nemiche. D 'altro lato può darsi che il compito immediato della flotta sia quello di assistere l'azione militare terrestre prima di essere libera di dedicarsi interamente alla distruzione delle forze navali nemiche".25 Affermazione - noi notiamo - flessibile fino a un certo punto, perché presuppone come dato di partenza la possibilità che sia l'esercito che la flotta siano in grado ambedue - cosa non facile da verificarsi - di condurre un' offensiva; essa è peraltro temperata da quella che segue: i semplici precetti riguardanti gli obiettivi primari, che sono risultati validi nelle guerre continentali, non hanno mai funzionato bene, quando il mare ha influenzato seriamente una gue"a. In questi casi [per la verità, anche in altri riguardanti esclusivamente la guerra terrestre - N.d.a.] non è più sujjìciente affermare che l 'obiettivo primario dell 'esercito e quello di distruggere [ 'esercito nemico e quello della flotta è di distruggere la flotta nemica. Le delicate azioni reciproche dei fattori terrestri e marittimi producono condizioni troppo complicate p er soluzioni così nette. 21•
Sempre a diITercnza del Callwell il Corbctt esamina nel dettaglio il traffico marittimo e la sua difesa, non si pronuncia contro la guerra al traffico c non ne trascura i risultati, anche se ba il torto di negare che i rifornimenti via mare siano diventati più importanti del passato per l' Inghilterra. Inoltre, anche in questo differenziandosi dalla maggior parte degli scrittori navali e terrestri del tempo, è ben lungi dall 'assegnare all'offensiva una preferenza assoluta e pregiudiziale. Pensa infatti che dare alla guerra la designazione di "offensiva" e "difensiva" è biasimevole sotto tutti i punti di vista. Per prima cosa, questa classificazione non mette in evidenza quali siano le diversità reali e logiche; insinua che alla sua base non ci sia tanto una differenza di obiettivo quanto una differenza dei mezzi impiegati per raggiungere quell'obiettivo. Di conseguenza ci troviamo continuamente alle prese con la falsa supposizione che la guerra positiva significhi attaccare e che quella negativa si accontenti della difesa[... ]. Tutte le guerre, e tutte lefòrme di guerra, debbono essere sia offensive che difensive [... ]. Sembrerebbe, pertanto, che sia meglio mettere completamente da parte la designazione "offensiva" e "difensiva", e sostituirla con i termini "positivo" e
"negativo".27
ivi, p. 24. lbidlim. 77 ivi, p. J7. 25 2 •
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Coerentemente con queste premesse teoriche il Corbett esamina, più che le modalità per la conquista e il mantenimento del dominio del mare, le modalità per l'attacco e la difesa del traffico in una situazione di dominio del mare contrastato; va da sé che da questa opzione teorica scaturisce l'importanza del naviglio leggero e la difficoltà di conciliare le sue contrastanti esigenze d'impiego tra scorta delle navi maggiori e attacco e difesa del traffico. A quanto è dato di conoscere è l'unico autore - dal 1911 in poi - a trattare in profondità questi argomenti, che pure sono sempre stati prioritari non solo per l 'loghi Iterra: l'unico neo è che non dedica nessuna attenzione né al sommergibile, né (lacuna più scusabile) all'aeroplano, mezzi in continuo progresso già all'epoca. Gli scritti del Callwell e del Corbett sono importanti anzitutto perché concordemente teorizzano e configurano quella che è sempre stata la strategia marittima inglese, che prescindendo da ogni teoria e da ogni vacuo dottrinismo ha sempre saputo impiegare in modo coordinato esercito e flotta, da ciascuna Forza Armata ottenendo così il meglio. In secondo luogo i due autori inglesi indirettamente dimostrano che l' approccio nazionale del Bonamico non è un caso isolato e che l'Jnfluence o.f Sea Power upon History non può essere una sorta di breviario della guerra marittima valido per tutti e in ogni caso. Non lo è nemmeno per la Royal Navy, che pure per il culto della corazzata - durato fino a metà secolo XX - è stato il modello proposto con successo da Mahan per la guerra marittima d' ispirazione americana.
La " Jeune École" francese: solo utopia navale ? Anche l'altra grande corrente di pensiero europea, la Jeune École navale francese è stata spesso da noi citata, sia pur senza approfondirla. Va detto che oltre che europea, tale corrente può dirsi anche continentale e francese, perché è espressione delle esigenze strategiche globali di un Paese, come la Francia, che pur essendo ricco (molto più ricco dell ' ltalia del tempo) non può fare a meno di mantenere un forte esercito al confine delle Alpi con l'Italia e al confine dell'Est con la Germania, e al tempo stesso deve combattere in due mari: contro un probabile nemico più forte, la Royal Navy nella Manica e nell' Atlantico, e contro un avversario più debole e più fragile moralmente, ma sempre tale da assorbire una notevole quantità di forze in terra e in mare come era l'Italia del tempo. Le espressioni più importanti delle teorie della J eune École sono La guerre maritime et les porls militaires de la France (1882)28 e Ttalie et Levant notes d 'un marin (1884)29 del capo-scuola ammiraglio Teofilo Aube, e l'Es-
21 Pubblicato su " Revue des Deux M ondcs" e tradollo in italiano in " Rivista Marittima" 1882, TV Trim. Fase . XI, pp. 249-259 e Fase. XII, pp. 462-484. ,. Paris, Bergcr Lévrault 1884 .
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sai de Stratégie navale (1893) dei suoi principali allievi comandanti Henry Vignot (pseudonimo Commandant Z) e Paul Fontin (pseudonimo Henry Montecbant). 30 Nel primo di questi studi l' Aube sviluppa tesi affini a quelle del Bonamico, con alcune differenze essenziali: I) non attribuisce alcuna importanza al dominio del mare, obiettivo quasi mitico di gran parte degli autori navali coevi e successivi, fino a oggi. Dà anzi per scontato che una flotta basata sulle corazzate e superiore di numero a quella francese sarà fin dall'inizio delle ostilità, padrona del mare (evidente riferimento alla Royal Navy): "ma oggidì questa supremazia è una parola più che un fatto; essa non garantisce nemmeno la sicurezza del commercio nazionale. È dunque soltanto p er questo meschino risultato che queste flotte sono state create e il giorno della guerra, non avranno esse un compito da eseguire e missioni da compiere più degne delle forze imponenti che ogni nave rappresenta e che riunite sembrano dover moltiplicare la loro potenza?;3 ' 2) Bonamico è nemico delle navi colossali del Saint Bon e Brin, prima ancora che del le corazzate; Aube conseguentemente alle considerazioni precedenti prevede che le corazzate nonostante il loro costo elevato mirante a fame i più potenti mezzi di combattimento, "per la ragione delle cose forse nell'ora decisiva, non risponderanno alle speranze che i~pirurunu i governi europei e li decisero a slanciarsi in questa costosa via d'innovazioni infinite e forse senza uscita; 32 3) ritiene molto difficoltosi gli sbarchi: "se da una parte nessun punto del litorale è al sicuro di un assalto, dall'altra non vi è neppure uno di questi punti che [con il telegrafo e le ferrovie, oltre che con la flotta - N.d.a.] non possa essere difesa. Qualunque tentativo di sbarco sotto il fuoco di una squadra padrona del mare sembra poter riuscire [Bonamico non è della stessa idea - N.d.a.], ma un capo di esercito che si avanzi così in pieno territorio nemico sembra invece dover essere ricacciato in mare prima di aver stabilito la sua base di operazioni e approwigionamento, e se questa base consiste nella squadra che l'ha portato, se è dal mare che esso aspetta i suoi viveri, la sua situazione ci pare molto rischiosa, se non esposta a pericolo ... "; 4) diversamente da quanto sostiene Bonamico, a suo parere può essere sbarcato al massimo un corpo d'esercito di soli 30.000 uomini, troppo esiguo per dare un contributo decisivo alle operazioni; "si resta dunque nell 'ignoto, nell 'indefinito sperando nella fortuna"; 5) più del Bonamico sostiene l' efficacia della guerra di corsa (che "almeno contro l'Inghilterra" sarà la guerra marittima dell'avvenire), degli incrociatori veloci e delle torpediniere (quest'ultime, specie negli attacchi di sorpresa notturni alle basi); 6) diversamente da Bonamico assume come dato certo l' essenza di norme e principi fissi nel campo tattico, e pur svalutando anch'egli la guerra di squadra e la corazzata, assegna a quest'ultimo tipo di nave (senza criticare le nostre navi colossali del momen-
'" Paris - Nancy, Bergcr - Lévrault 1893. 31 Téophile Aube, la guerre maritime... (Cit.), pp. 463-469. " ivi, p . 462.
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to) il compito di bombardare - una volta padrone del mare - le città costiere nemiche, senza remore umanitarie. Come lascia capire lo stesso titolo, il libro di Aube Jtalie et Levant - notes d 'un marin è essenzialmente rivolto contro l'Italia, a torto accusata di sentimenti ostili contro la Francia nonostante "l 'atteggiamento amichevole" di quest'ultima. Vi si ammette, peraltro, che la politica di Bismark ha bloccato l'espansione verso Nord (e, nel caso dell'Italia, verso Nord-Est) di ambedue le potenze, anche per questo condannate "dalla.forza delle cose" ad essere rivali nel Mediterraneo.L'Italia - aggiunge Aube - non può accettare il primato francese nel Mediterraneo [ma è ancor più vero il contrario - N.d.a.] e ha tentato di sostituire nel Levante la Francia sconfitta nel 1870-1871 come vessillifera della civiltà cattolica; perciò sarà il maggiore rivale della Francia nel Mediterraneo, anche perché a suo giudizio gli strateghi terrestri e navali italiani sono convinti che la guerra contro la Francia si deciderà sul mare. Secondo Aube ciò non toglie che, al momento, la Francia dopo essersi assicurato il controllo del bacino occidentale del Mediterraneo [con la nuova base di Biserta- N.d.a.] ha come rivale maggiore nel bacino orientale l'Inghilterra, che ha occupato Cipro e l'Egitto; ma l'Impero inglese, nonostante la sua vastità e la potenza della sua flotta, è un "colosso dai piedi d 'argilla" che si fonda sul commercio marittimo; perciò "venti incrociatori con velocità superiore, gettati contro le rotte commerciali [inglesi] del mondo e comandati da uomini di mare decisi a condurre una guerra senza quartiere - l'unica vera guerra sarebbero sufficienti a colpirlo al cuore. Il monopolio commerciale, che è la vita stessa dell'Inghilterra, sarebbe annientato nel giro di qualche mese",33 mentre le colonie e i Dominions non sarebbero disposti a dare un solo uomo o una sola ghinea per una guerra puramente inglese. Riguardo all'Italia, non si sa in base a quali informazioni (e citando anche il Perrucchetti) Aube assicura che gli ufficiali di marina italiani sono concordi nell'indicare le Bocche di Bonifacio (cioè La Maddalena) come posizione-chiave per la flotta, che avvalendosi delle uscite su due mari può assumere atteggiamento offensivo o difensivo a suo piacimento, con un piede in Corsica e le risorse della Sardegna, che difende, a sua disposizione. Ne consegue che per l'Italia sarebbe estremamente utile la conquista integrale della Corsica, che è concorde aspirazione - anche se non ufficiale - dei politici italiani. Dopo di che, l'Aube si profonda in lodi e complimenti per Bonamico, non perché sostiene idee analoghe alle sue, ma principalmente perché, come si è visto, ha il coraggio di dire che alla flotta italiana non conviene intervenire in caso di bombardamento delle città costiere da parte di una flotta superiore (in tal modo facilitando il compito principale assegnato da Aube alla flotta da battaglia francese; ma questo l'ammiraglio francese non lo dice). In effetti prima dell'Essai de stratégie navale, lodato dal Bonamico come migliore espressione del pen-
"Aubc, Ttulie et levarti (Cit.), pp. 55-56.
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siero strategico europeo, i comandanti Vignot e Fontin avevano pubblicato Les guerres navales de demain,34 opera ancora più antitaliana di quella dell 'Aube, il cui motivo centrale è semplice quanto ingenuo: compito principale e più redditizio della flotta francese (e delle sue corazzate) è il bombardamento delle città costiere italiane, onde indurre le popolazioni, il cui spirito nazionale è dai due autori arbitrariamente giudicato malfermo, a sollevarsi contro il governo costringendolo a chiedere subito la pace. Come si è visto, Bonamico trascura les guerres navales de demain e si sofferma soprattutto sulle opere di Aube e sull'Essai de stratégie navale. li motivo ci sembra evidente: quest'ultime opere sono chiaramente più vicine al suo pensiero, mentre nelle Guen-es navales de demain si accentua la convenienza per la flotta francese di bombardare le nostre città con effetti risolutivi tesi, che non si accorda con il suo punto di vista anche perché diversamente da Vignot e Fontin ritiene possibile che con un'opportuna preparazione morale le popolazioni italiane possano resistere a un siffatto attacco terroristico. ln particolare i due autori dell'Essai de stratégie navale diversamente da Aubc dedicano buona parte della loro attenzione a questioni teoriche di strntegia navale e bocciano senza remissione sia l'mganizzazionc della marina francese del momento sia la corazzata, sostenendo di conseguenza la necessità di un radicale mutamento, o meglio di una vera e propria rivoluzione nella strategia, nella tattica e nelle costruzioni navali . Mentre il governo inglese di qualunque parte politica - essi affermano - prepara la guerra contro la Francia, la marina francese è rimasta quella che è, senza una strategia e senza compiere le indispensabili riforme, mentre le coste francesi rimangono indifese e " le flotte ing lesi si riuniranno a quelle della Triplice alleanza, perché, riunite, hanno la certezza di batterci''. Inoltre l' ammiragliato francese perde il suo tempo dedicandosi a problemi secondari, senza dare alcuna importanza alla Corsica e senza incoraggiare quei deputati preveggenti che reclamano l'organizzazione di una base navale nella magnifica baia eòrsa di Porto Vecchio. Per queste ragioni Fontin e Vignot danno grande importanza alla strategia, da costruire su nuove basi : "senza strategia, nessuna organizzazione nazionale è possibile". 35 Essi si accontentano di stabilire dei principi generali applicabili da tutte le marine, che però non potrebbero essere applicati contro la Francia, perché la sua particolare situazione geografica induce ad applicarli in modo tale, che nessun altra nazione potrebbe utilizzarli meglio. Nessuna incertezza, nessun compromesso sul naviglio francese da costruire: lo studio della strategia porta a concludere che per la Francia, non vi è salvezza sul mare se essa non comincia anzitutto a rinunciare alle corazzate I...]. Senza squadre corazzate la Francia può vincere e distmggere non importa quale squadra corazzata che vuole attaccarla. Senza squadre corazzate le è
Paris, Berger - Lévrault 1892. " Commandant L. et Henry Montechant, Essai de Stratégie navale (Cit.), p. Xlll.
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possibile devastare le coste nemiche, bombardar/e, sbarcarvi, interrompere il commercio marittimo. 36
Perciò la Francia a loro giudizio, può vincere solo impiegando interamente i fondi disponibili per la marina per la costruzione di incrociatori, di cannoniere a pescaggio limitato [per l'attacco alle coste - N.d.a.] e di torpediniere: "in attesa del sottomarino, la Francia ha bisogno solo di queste tre categorie di naviglio, perché è la sola naz ione la cui situazione geografica marittima consente di trarre il massimo utile pratico da li 'impiego" delle flottiglie [ composte dalle predette navi - N.d.a.].3 7 1 limiti del naviglio di piccole dimensioni del momento, come la scarsa autonomia e le scarse qualità marine, non sono affatto ignorati dai due autori: "ma che importano questi inconvenienti, che il progresso scientifico d'altro canto attenua ogni giorno, a fronte dei vantaggi offerti dalla maggiore velocità, dal numero, dalla relativa invisibilità e invulnerabilità, dalla specializzazione?". 38 Segue una parziale correzione di rotta, che sembra non escludere più la corazzata: " noi vogliamo del naviglio dei due tipi, grandi e piccoli, ma in quantità proporzionata all'importanza del loro ruolo, quale risulta da precise esigenze strategiche e lattiche (quindi: non da logiche autoreferenziali, basate sul confronto con le costruzioni navali nemiche - N.d.a.]; noi proscriviamo la corazzatura verticale, ostacolo al numero, alla velocità, alla specializzazione; noi sosteniamo la limitazione del tonnellaggio delle unità maggiori e l'aumento del numero delle unità minori''.39 Un siffatto, deciso orientamento delle costruzioni navali, nuovo nel suo genere perché rifiuta la consueta e discutibile filosofia di opporre tipo di nave a tipo di nave similare, e in particolare nave maggiore (prima vascello, poi corazzata) a nave maggiore, è la conseguenza di una nuova strategia, che rifiuta decisamente il modello offensivo nelsoniano, anch'esso sostanzialmente basato sul principio napoleonico di mirare alla distruzione dell'avversario in grandi battaglie, concentrando il maggior numero di forze sul punto decisivo. I criteri - più che principi - di tale nuova strategia sono enunciati dai due autori principalmente con la contestazione di una conferenza tenuta alla Scuola di Guerra dell'esercito francese dal tenente di vascello Degouy, professore alla predetta Scuola. 40 Tale conferenza esprime pertanto gli orientamenti teorici ufficiali, nella sostanza riassunti dal consueto asserto (largamente condiviso anche in campo terrestre) che il progresso delle armi e dei mezzi fa sentire la sua influenza solo sulla tattica, mentre la strategia "è immutabile e dipende solo dalla natura delle cose".
ivi, p. xrv. ivi, p. XV. 38 ivi. p . XVI. 19 ivi. p . XV1I. 40 ivi, pp. 72-89. 36 37
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Secondo il Degouy [che qui oggettivamente sbaglia - N.d.a.] il fatto nuovo è la rapidità delle guerre, imposta dalla stessa civilizzazione moderna; ne consegue il principio [come si è visto, dominante anche in campo terrestre N.d.a.] che "bisogna anzitutto ricercare e distruggere la parte principale delle forze nemiche, con il suo corollario principale: bisogna attaccarlo con forze superiori''. Naturalmente il Degouy non crede alla guerra di corsa, perché (obiezione rivelatasi tutt'altro che infondata) l'Inghilterra non mancherebbe di formare dei convogli e di difenderli con una forte scorta, della quale farebbero parte anche corazzate di seconda categoria e incrociatori corazzati, che avrebbero facilmente ragione dei più potenti incrociatori francesi; per giunta quest'ultimi a causa della mancanza di basi dovrebbero essere riforniti da navi carboniere, che a loro volta sarebbero facile preda del nemico. Per effetto di questi inconvenienti la guerra di corsa si trasformerebbe ben presto in guerra di squadra; d' altro canto per la flotta francese - tenuto conto della superiorità inglese - sarebbe pur sempre possibile gravitare nei mari territoriali , ritirando le proprie navi dall'Oceano e dal Mediterraneo per assestare un colpo vigoroso alla squadra inglese della Manica, che è il suo principale obiettivo, mentre gli altri sono obiellivi secondari. Il Fontin e il Vi1::,1Tiot sottolineano poi che se l'ufficiale rappresentante dell'Ammiragliato francese presso la Scuola di Guerra dell'esercito ha sentito la necessità di porre l' interrogativo se esiste o meno una strategia navale e di rispondere afTcrmativamente, ciò è avvenuto perché nell'esercito permangono molti dubbi in proposito, e perché gli autori della J eune École Navale hanno avuto il merito di trattare a fondo le questioni concernenti la strategia navale. Peraltro, secondo i due autori non è affatto vero che detta strategia è immutabile, e anche i principi citati dal Degouy non sono stati sempre validi nemmeno in passato: "quante volte, nella nostra s toria marittima, benché le nostre forze fossero superiori a quelle del nemico, abbiamo subìto dei rovesci? E chi ci poteva garantire, in passato, dagli imprevisti della navigazione?". Tutti gli esempi storici, dai quali il Degouy trae i principì, sono anteriori al progresso scientifico, la cui applicazione alla marina da guerra ha rivoluzionato sia la tattica che la strategia; vi è un abisso tra l'epoca dalla quale egli trae i suoi insegnamenti, "e non solamente l 'epoca attuale che è essenzialmente un 'epoca di transizione, ma anche il jùturo vicino, nel quale l'intuizione sarà la qualità principale di un uomo di Stato o di un Capo militare degno di questo nome". Le guerre degli ultimi trent'anni - proseguono i due autori - dimostrano che la causa della vittoria è sempre stata un'idea innovatrice, applicata per primo dal vincitore e spregiata o sconosciuta da parte del mito. In particolare dagli eventi più recenti si può dedurre che il principio essenziale della strategia navale, vero in teoria, è in pratica reso illusorio dalla nuova realtà della guerra marittima; ciò vale anche per il concetto del dominio del mare. Se ne deduce che al momento esiste una nuova strategia "che è jùnzione delle macchine, degli strumenti di guerra e che, perciò, deve mutare a seconda della tecnica e della tattica navale (non avviene, dunque, il contrario - N.d.a.]".
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Non basta: per i due autori la prima conseguenza della nuova guerra marittima è la preminenza della guerra strategicamente difensiva: "al momento attuale [ma ciò è sempre avvenuto - N.d.a.] una flotta si può rifiutare di correre l'alea di una battaglia decisiva che non è possibile imporle, e così agendo essa non dimostra la sua impotenza, bensì applica una strategia superiore. una strategia nuova, indipendente dal principio essenziale della strategia pura: mettere anzitutto fuori causa la flotta nemica". Come afferma l'ammiraglio Aube, la guerra ha un duplice obiettivo: salvaguardare gli interessi nazionali, perciò assicurare l'inviolabilità del territorio nazionale; poi indebolire il nemico infliggendogli il maggior danno possibile, cosa che si ottiene occupando di viva forza il suo territorio e il naviglio da guerra e mercantile che ne è il prolungamento. In realtà questo duplice obiettivo implica due tipi di guerra: guerra difensiva e guerra offensiva. Questa distinzione deve essere mantenuta soprattutto sul mare. Può capitare, infatti, che due potenze continentali affidino l'uscita dalla guerra al successo dei loro eserciti e che ambedue si limitino ad assicurare l'inviolabilità delle loro frontiere marittime, o ancora che una di esse avendo raggiunto tale inviolabilità si sottragga a ogni scontro navale. Questo è, in de.fìnitiva, ciò che è avvenuto nella guerra [franco-prussiana] 1870-1871 [ ... ]. Se è così, si può a priori afjènnare che in una guerra marittima la difensiva è l'obiettivo superiore, al contrario di ciò che avviene nella guerra terrestre, ove l 'o./Jensiva sembra il mezzo più sicuro per mantenere inviolato il territorio nazionale, con l'invasione di quello nemico.
I tedeschi e gli italiani - assicurano i due autori - hanno ben compreso questo concetto organizzando una marina prima di tutto difensiva, cosa che assolutamente non ha fatto la marina francese. Eppure esso è ancor più in armonia con la guerra futura; e poiché il teatro di tale guerra saranno i mari dei futuri avversari, "costituire una/lotta difensiva equivale a costituire ugualmente, al tempo stesso, una flotta offensiva. I loro elementi sono gli stessi''. I suoi strumenti, che la Germania e l'Italia già possiedono, banno come loro fattori di potenza il massimo di velocità e il minimo di dimensioni, "assicurando / 'autonomia del naviglio da guerra, la specializzazione di ciascuna nave per l 'arma di cui è dotata e infine il numero, che a/l'ubiquità conferita dalla velocità all'attacco, oppone l'ubiquità della difesa".
* * * J nuovi mezzi tecnici hanno rivoluzionato la strategia, come pretendono i comandanti Vignot e Fontin? A parer nostro l'hanno costretta a cambiare anche profondamente, ma non rivoluzionata; questo è dimostrato dagli eventi del XX secolo. Ciò non toglie che i due autori della Jeune École sostengano tesi in parte condivisibili, e che a sua volta il comandante Degouy, nonostante le sue posizioni troppo conservatrici c poco adatte alle caratteristiche della flotta fran-
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cese, abbia anche le sue ragioni. Le idee del Degouy non vanno del tutto accantonate, per tre altre ragioni: I) quella di Fontin e Vignot è una strategia jominiana del materiale, che a sua volta sconfina in una sorta di dogmatismo, con eccesso di culto del materiale stesso, le cui possibilità sono sopravvalutate; 2) essi vogliono accantonare i principi teorici della strategia nelsoniana (e mahaniana) operanti nel periodo velico a cominciare da quello della massa, ma non ne indicano con precisione altri in loro sostituzione; 3) la guerra sul mare nel XX secolo ha dimostrato, al di là della guerra dei convogli, la relativa validità di taluni principi (massa, sorpresa, economia delle forze ...) ereditati dal periodo velico, e operanti anche in campo terrestre. Come giustamente ha osservato il Degouy non c ' è dubbio che la guerra di corsa avrebbe incontrato forti difese dei convogli e notevoli ostacoli. Anche il bombardamento navale delle città non ha mai dimostrato l'efficacia che gli hanno attribuito gli adepti dellaJeune École, che peraltro - particolare interessante - hanno influenzato le teorie di Giulio Douhet, come riconosce lo stesso scrittore aeronautico italiano in un articolo poco noto del 1920.41 Si può aggiungere che il progresso tecnico ha indubbiamente influenzato anche la strategia acceuluandone la dipendenza dalla tattica, ma senza ri voluzionarla e non fino al punto di segnare - almeno per le flotte maggiori - la fine delle grandi navi (siano esse corazzate o - più tardi, nel secolo XX - portaerei). Altri limiti potrebbero essere indicati per questa scuola di pensiero che - va ancora sottolineato - è tipicamente francese e adatta alle esigenze di una potenza continentale, che quindi lascia in seconda linea la marina; ciononostante Bonamico ha ragione quando loda l'Essai de stratégie navale. Tale opera, infatti, è assai più vicina di tutte le altre alla realtà della guerra navale del 1914-1918, nella quale l'attacco e la difesa dei convogli è stato l' evento strategico centrale, senza che la guerra di squadra dicesse qualcosa di nuovo e decisivo; anche gli sbarchi (Dardanelli docent) nel 1914-1918 si sono rivelati più rari e più difficoltosi del previsto. È inoltre merito dell 'Essai de stratégie navale quello di aver dato alla difensiva strategica una dignità e un' importanza almeno pari all'oftènsiva, dissipando il mito di quest'ultima, dimensionata (come del resto quella terrestre) per le esigenze di chi possiede forze superiori. Appare comunque dubbio che essa possa essere persino superiore all'offensiva, e che le caratteristiche di una flotta offensiva siano le stesse di una difensiva, a cominciare dai tipi di navi e dai requisiti di ciascun tipo di nave; né sono da condividere le differenze riscontrate dai due autori tra valore dell'offensiva in campo terrestre (che sarebbe assiomaticamente superiore alla difensiva) e in campo marittimo (che sarebbe del pari assiomaticamente inferiore alla difensiva). Va infine sottolineata la loro giusta insistenza sul carattere nazionale della loro strategia, il che equivale a dire che ciascun Paese, in base alla sua situazione geopolitica e
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26-29.
Giulio Douhct, L 'armata aerea, in "Rasse1,'lla Marittima e Aeronautica Illustrata" I 920, pp.
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geostrategica, alle condizioni politico-sociali all'economia ecc., deve cercare una propria strategia e un proprio indirizzo nelle costruzioni navali, le quali devono corrispondere a specifiche esigenze geostrategiche. Il messaggio della Jeune École, pur accrescendo il valore dei mezzi di contrasto, è rimasto inascoltato anche in Francia. Ovunque hanno troppo facilmente trionfato la guerra di squadra e le grandi navi: ma nonostante i suoi limiti esso rimane nelle grandi linee ancora valido, a cominciare dal problematico valore delle grandi navi almeno per le marine secondarie, confermato dall'esperienza delle guerre del XX secolo, e dal deciso valore specie per quest'ultime del naviglio leggero e dei mezzi di contrasto. Tale esperienza ha anche confermato, se ce ne fosse bisogno, che l'essenza delle teorie dell' lnjluence ofSea Power upon Histo,y in ultima analisi si è rivelata valida solo per le "marine talassocratiche" (Fioravanzo), e in pratica solo per le marine inglese e americana. Non si deve infatti dimenticare che nei primi anni del secolo XX in Germania il movimento dei Flottenprofèssoren,42 che sembra autonomo rispetto alle teorie di Mahan, ha fornito un supporto teorico valido per la costruzione di una flotta tedesca di grandi navi competitive rispetto alla Royal Navy anche a discapito delle spese per l'esercito, ma il suo esito pratico è stato dimostrato dall'affondamento di tante belle navi nella base inglese di Scapa Flow. Si potrebbe obiettare che le teorie della Jeune École, che il loro promotore Aube non è mai riuscito a tradurre in pratica nella carica di Ministro della marina, sono mestamente fallite con il ritorno definitivo anche da parte francese alla costruzione di grandi navi nell'ultimo decennio del secolo XIX, preceduto dalla rivalutazione di Mahan proprio nella terra dei suoi più accesi avversari; ma al di là delle esagerazioni giornalistiche di Gabriel Charmes e di talune parti degli scritti di Aube, Fontin e Vignot, ciò che abbiamo riferito basta a collocare tuttora lo spirito, lo zoccolo duro delle loro teorie tra le basi strategiche e i criteri costruttivi di massima tuttora validi per una flotta secondaria, senza pretenderne soluzioni miracolistiche e definitive.
SEZIONE II - La teoria strategica in Italia e il primato di Romeo Bernotti ln un articolo del 1896 sulla Rivista Marittima il Vecchj autorevolmente traccia una panoramica della letteratura navale italiana fino a quell'anno,43 attribuendo al comandante Eugenio Pescetto il merito di aver trasformato la Rivista Marittima da "cronaca arida di notizie navali" in "un periodico austero, denso di pensieri, elegante nella forma" apprezzato anche all'estero. Il suo giu-
" Cfr. Otto Hinze, Op. cii. " Augusto Vittorio Vecchj, La letteratura nello s viluppo della Marina, in "Rivista Marillima" 1896, m Trim. Fase. V, pp. 331-353.
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dizio sulla letteratura navale fino all'ultimo decennio del secolo XIX è estremamente positivo: iniziata da Carlo Rossi [autore del Racconto di un guardiano da spiaggia 1892 - N .d.a.] come scrittore, e da Saint-Bon [in Parlamento ] come oratore, la letteratura navale esercitò azione favorevolissima ali 'armata tra il 1878 e il 1886. Accolta nella stampa periodica, fu a vicenda sprone al Governo e sindacato dè suoi atti. Promosse l'ingrossamento dei bilanci, rese familiari / 'esperienza delle nuove artiglierie e delle polveri, intonò il sursum corda e non mai pronunciò il crucifige. Non fa mai rivoluzionaria, però consigliando e dimostrando riforme. La protezione per /'industria nazionale, il regime dei premi alla marina mercanti/e, l 'istituzione del Regio Yacht Club per favorire il diporto nautico, la legge del limite d 'età, l'adozione dell'artiglieria a gran potenza e a tiro celere, sono tutte pietre miliari che la letteratura contribuì a situare lungo la strada del nostro progresso navale. Essa raggiunse la massima intensità allorché dibattè la questione delle grandi e piccole navi[... ]. Bei giorni, grandi giorni che or non accennano ad albeggiare nuovamente! Un refolo di decadenza intellettuale ha soffiato dipoi sull 'Italia ...
Per inciso il Vccchj elogia l ' ùnperatore tedesco Guglielmo II, che '"non tralascia nessuna occasione per indurre sulle vie dell 'Oceano la Germania", sia con il naviglio mercantile (friedenshiffen, navi di pace) che con le navi da guerra. Dopo di che si pronuncia decisamente contro la formazione matematica dei giovani ufficiali, introdotta da Napoleone l al posto delle scienze morali e politiche, da lui giudicate come portatrici del genne dello spirito rivoluzionario. Perciò come antico allievo del la Scuola di marina disapprova l'importanza che al momento anche qui viene data alle matematiche e nega che l' amore per le lettere sia nocivo per la disciplina, perché lo incitare alla passione per la gloria, il promuovere la generosità, il sollevare gli animi, l'esaltare i cuori sono.frutti delle buone letture; ed allo stabilimento della disciplina non possono minimamente nuocere. Cogli studi matematici si jònnano buoni navigatori, eccellenti cartografi, squisiti inventori di cannoni e di qffusti, abili disegnatori di macchine motrici e ausiliarie; sino a un certo punto anche costruttori navali. Ma non si formano né comandanti, né ammiragli.
Ci proponiamo nel prosieguo dell'opera di accertare fino a che punto il lusinghiero giudizio del Vecchj sulla letteratura navale italiana è condivisibile e di individuare le caratteristiche di tale letteratura da fine secolo XTX all'inizio della guerra mondiale. Sulla formazione prevalentemente matematica degli ufficiali - che vale anche per l'esercito e si protrae per tutto il secolo XX - ben poco c'è da dire in aggiunta alle recise affermazioni del Vecchj, che vanno pienamente condivise e - come si è finora visto - sono pertinenti anche quando gli autori terrestri e navali tentano oltre il dovuto e il necessario di "addomesticare'' con eccessivo ricorso a formule matematiche problemi che non possono essere impostati e risolti matematicamente.
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Ciò premesso, va detto subito che il Racconto di un guardiano da spiaggia (1872),44 fa parte di un filone di pensiero strategico navale mirante a propagandare il ruolo decisivo della marina descrivendo ipotetiche guerre italiane future, con tutte le amplificazioni retoriche e i toni drammatici del caso, senza badare troppo all'attendibilità strategica, tattica e ordinativa; ne daremo pertanto un cenno in seguito, trattandosi di un tipo di letteratura certamente non basilare, e indicheremo anche quale altra opera a nostro avviso può essere ritenuta iniziatrice del la letteratura navale italiana, tenendo comunque presente che - com'è naturale - nel periodo in esame l'interesse prevalente degli scrittori navali, e/o di chiunque si occupi di questioni che possano riguardare la marina, non è rivolto alla teoria strategica, ma a una prassi strategica che interessi prima di tutto l'Italia; lo stesso si può dire per il potere marittimo. Questo non è affatto un limite, perché la vera e unica unità di misura per una qualsivoglia teoria è la sua valenza pratica, la sua applicabilità a un caso concreto_ Va da sé che, nel nostro caso, errori o previsioni infondate sono facilitati dall'ambiguità geopolitica e geostratcgica dell'Italia e dalla carenza di risorse e capacità industriali: due dati di fatto insopprimibili ai quali già abbiamo accennato e accenneremo ancora, perché continuamente emergono come fattori condizionanti di qualsivoglia teoria terrestre o navale, facilitando i contrasti e le esagerazioni_ Un secondo aspetto da considerare è la scarsità di contributi teorici veramente originali, per la semplice ragione che prevalgono di gran lunga le questioni tattiche, a loro volta innescate dal rapido progresso degli armamenti, dai mutamenti nelle loro prestazioni, dalla comparsa di nuove armi. Ciò non si verifica, peraltro, quando si tratta di definire nel concreto - anche se nelle grandi linee - le modalità per una strategia terrestre e marittima nazionali e il loro legame onde pervenire a una strategia unitaria: in questo caso i contributi sono numerosi e riguardano in prevalenza la prassi strategica e gli aspetti dottrinali da adottare. Gli scritti sulla teoria del potere marittimo del Roncagli (1899) e del Corsi (1908)
ln materia di teoria del potere marittimo, dopo il Bonamico nessun altro autore italiano nel periodo considerato aggiunge qualcosa di originale e di nuovo alla sua analisi e a quella del Sechi_ Meritano comunque di essere ricordati due autori, i comandanti Giovanni Roncagli (1899) e Camillo Corsi (1908). Nell'articolo Geografìa, politica e marina (che nonostante il titolo attraente non ha il pregio della chiarezza teorica,45 il Roncagli rettamente richiama la necessità di ben distinguere tra potere marittimo, dominio del mare e compito
44
Roma, Tip. Eredi Botta 1872.
" In "Rivisto Morittimn" 1899, II Trim. Fuse. li, pp. 5'1 66.
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dell'armata navale: ma, con un errore assai frequente anche nel XX secolo tende a identificare il potere marittimo con la sua espressione più completa e assoluta, che può essere prerogativa solo delle marine dominanti, tra le quali non era e non è mai stata né ha mai potuto essere quella italiana. Per il Roncagli, invece, conquistare e conservare un alto grado nel dominio di quel wide common che è, come dice Mahan, il mare, dando al potere navale, sinteticamente considerato, il massimo s viluppo possibile; prendere e mantenere un posto importante tra i grandi poteri marittimi moderni, sembra debba ormai considerarsi quale obiettivo sintetico principalissimo d'ogni nazione marittima che aspiri a grandezza ed a prosperità [e le possibilità economiche? - N.d.a.].
Giustamente non condivide l'opinione del Mahan che l'esistenza di una marina <la b'llerra dipende esclusivamente dalla necessità di proteggere il commercio, fino a rendersi superflua quando tale necessità viene meno. Non condivisibile, invece, la sua affennazionc che "il dominio del mare è essenzialmente una situazione, e come tale ha carattere statico. Essa è conseguenza del potere marittimo che la detennina con la sua doppia energia: statica e dinamica". A tal proposito noi osserviamo che anche il potere marittimo è una situazione, perché appunto legato a fattori variabili e diversi da stato a stato: meglio sarebbe dire, perciò, che mentre il potere marittimo è una potenzialità, una possibilità, una capacità non solo militare, il dominio del mare è una situazione operativa che dipende dal potere marittimo, ma a sua volta lo influenza e determina, perché senza potere navale (cioè senza la sua espressione militare) il potere marittimo sarebbe un involucro senza l'intelaiatura, senza sostegno. Inoltre il compito dell'armata, che come per Bonamico anche per il Roncagli è "una delle/unzioni con le quali si esplica la dinamica del potere marittimo", con più precisione dovrebbe consistere nel raggiungere il grado di potere marittimo necessario e possibile per una data nazione. Non consiste dunque nel "saper adoperare" l' armata navale, come afferma il Roncagli : questo rientra in primo luogo nella strategia, e in secondo luogo nella tattica. Infine non si può dire, come egli afferma, che "lo scopo dell 'Ente Paese [ma non può esserlo per tutti - N.d.a.] è la conquista del dominio del mare" , e che "/'obiettivo assegnato a una/orza navale durante una guerra è quello di conquistare o conservare il dominio del mare" . Si può osservare che la sua conquista è una faccenda prettamente militare, quindi riguarda l'armata; al Paese interessa l' utilizzazione di tale dominio per i propri interessi. Lo secondo luogo può anche non essere necessario o possibile (specie per le marine secondarie) la conquista o il mantenimento di tale dominio, che dunque non è - come scrive il Roncagli - una funzione statica, ma anzi qualcosa di estremamente dinamico, perché può essere perduto, riconquistato, conquistato solo in parte, semplicemente conteso all'avversario. Questi del Roncagli sono errori di fondo, certamente non solo suoi. Ha comunque il merito - oltre che di cercare la differenza tra termini che hanno di-
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verso significato-di ricordare che Mahan non ha scoperto nulla di nuovo, perché le nostre Repubbliche marinare già hanno dimostrato quanta sia l'importanza del potere marittimo. Inoltre ha fatto opportunamente luce sul rapporto tra geografia e politica, che poi si riflette sulle componenti del potere marittimo; a suo parere geografia e politica sono, nel concetto moderno, scienze d'indole generale, che hanno per ausiliarie tutte le altre. La geografia ha per ausiliarie principali la geometria, le matematiche in genere, l'etnografia, la statistica, tutta la filosofia naturale, ecc. che sono scienze aventi obiettivo definitivo e circoscritto, mentre la politica "ha l'economia, la statistica e tulla lafìlosofia sociale che lo sono del pari''. È dunque ben chiaro nelle sue affermazioni quello che ai nostri giorni sarebbe definito il concetto di geografia umana, al quale il potere marittimo è direttamente allegato. Di un certo interesse anche il dibattito del 1908 alla Scuola Navale di Guerra, nel quale il capitano di vascello Corsi riprende non senza qualche critica indiretta i concetti del Bonamico sulla natura del potere marittimo,46 fornendone una lunga definizione almeno per certi aspetti valida anche oggi, sempre che non si considerino gli altri poteri: io intendo per potere marittimo il prodotto dell ·armonico sviluppo degli interessi d'ordine economico e politico che una nazione ha sul mare e della sua potenza militare marittima. Sovente si confonde il potere marittimo col potere navale, col dominio del mare, col potere militare marittimo ecc.; mentre codeste locuzioni esprimono soltanto particolari condizioni di cose che sono in stretti rapporti col potere marittimo, sono suoi coefficienti e sue manifestazioni, ma non sono il potere marittimo. Esso risiede nella ricchezza. nel prestigio, nella/orza che derivano da/l'attività sul mare, dal prosperare delle industrie marittime, dall 'ejjìcacia dell'indirizzo politico, dall'influenza che esercita e dall'azione che può svolgere la marina militare [ ... ]. Se nella coscienza nazionale/a difetto il sentimento del mare, manca l'ambiente indispensabile per fecondare il potere marittimo. Sono dunque elementi d'indole economica, politica e militare quelli che, integrati, conferiscono a una nazione il potere marittimo; essi sono indissolubilmente collegati; la fu11zion e dell'uno è compenetrante in quella degli altri che la completano, onde allorquando uno dei tre elementi non è armonicamente proporzionato agli altri due, ne risulta un prodotto ibrido che può avere parvenza di potere marittimo, ma è un potere effimero, sterile, atto più che altro a creare illusioni.
Tra g li elem enti indicati dal Corsi mancano quelli - fondamentali - di carattere geografico, quindi geopolitico e geostrategico; né trovano collocazione altri anch'essi giustamente menzionati dal Bonamico, come l'indole di un popolo, la quantità di popolazione ecc. Per contro da nessuna parte Bonamico come del resto Mahan - chiarisce che il potere marittimo risulta dal prodotto
46 Cfr. Ministero della Marina - Ufficio del Capo di Stato Maggiore, Annali della Scuola Navale di Guerra - I Sessione Tomo I, Roma, E<l. Rivista Mariltima 1909.
VI - TRA G UERRA DI SQUADRA E GUERRA DT CROClliRA: LA TEORIA STRATEGICA
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delle singole componenti e non dalla loro sommatoria, in tal modo trascurandone un aspetto fondamentale.
Una rara panoramica del Bonamico sul pensiero strategico navale del XIX secolo: le tesi pro e contro la guerra di squadra e la nostalgia per il periodo velico Il bilancio degli studi strategici europei e italiani nel XIX secolo, pubblicato dal Bonamico all'inizio del secolo XX,47 è unico del suo genere e benché non comprenda il periodo 1900-1915 rende opportuno esaminarlo per primo, anche come prosecuzione logica dell'analogo bilancio riferito alla tattica nello stesso periodo (cfr. cap. V). Bonamico lamenta in apertura che il pensiero marittimo della prima metà del secolo XIX si è riassunto "in una estasi contemplativa della grande opera con la quale si chiude il periodo velico", con scarso rilievo dato alla letteratura tecnica e tattica. L'introduzione del vapore ha portato a una fase di accentuato tecnicismo, poi culminata negli studi tallici e strategici basati sul nuovo materiale. Questa evoluzione i: ben lungi dall'essere compiuta; comunque la nave, strategicamente considerata, non ha subito grandi traeformazioni dopo l'applicazione dell 'elica. La maggior efficienza delle principali jimzioni strategiche capacità nautica.autonomia, mobilità, o./Jèsa a distanza - non ha prodotto alcuna grande perturbazione, ma bensì un normale e continuo incremento del valore strategico della nave[ ... ], onde questa medesima continuità progressiva dovrebbe riscontrarsi nella evoluzione del pensiero strategico.
Ciò premesso, il Bonamico suddivide alquanto artificiosamente la letteratura di interesse strategico in tre categorie: 1°) gli studi sul le campagne navali del XIX secolo, che contengono riflessioni strategiche di qualche importanza; 2°) gli studi di arte o scienza militare, con importanti considerazioni strategiche; 3°) gli studi di carattere principalmente strategico, oppure riguardanti la condotta generale di una campagna di guerra contemporanea. Tra gli scrittori della prima categoria, oltre a Mahan, Callwell e a sé stesso (con il libro Mahan e Callwell), egli cita un unico italiano, A.V. Vecchj (Storia generale della marina militare - 1892). Più numerosi gli scrittori italiani della 2a categoria da lui citati, oltre a sé stesso con le principali opere: Saint Bon (Pensieri sulla marineria militare - 1863; cfr. Voi. II cap. XIV), Perrucchctti (La difesa dello Stato - 1884, cfr. Tomo 1 cap. III), Cottrau (opuscoli diversi dal 1880 al 1886); Dc Amezaga (Il pensiero navale italiano - 1898), Bollati di Saint
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Domenico Bonamico, La strategia nel ~eco/o XIX. in "Rivista Marittima" 190 I, TI Trim. Fase.
IV, pp. 60-82.
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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. IIJ (1870-l91S) - TOMO Il
Pierre (La guerra in mare - 1900). Nella 3a categoria sono da lui inclusi, oltre come sempre a sé stesso (con le opere Studi di geogr0;fia militare - 1891, Criteri di potenzialità marittima - 1894 e J/ potere marittimo - 1899), Morin (La difesa marittima dell 'Jtalia - 1878), Arminjon ( Considerazioni sugli studi di geografia militare - 1881 ), De Luca (La marina nella grande guerra - 1885), Baggio (Pensieri sulla strategia e tattica navale - 1900). Mancano inspiegabilmente i primi scritti del Sechi e del Bernotti. Oltre tutto si tratta di una suddivisione poco significativa e alquanto artificiosa, perché i contributi, in qualunque sede siano formulati, dovrebbero essere raggruppati e classificati anzitutto in base alla qualità. Sotto quest'ultimo profilo il Bonamico afferma che la dottrina strategica navale "si trova nella prima fase di sviluppo teorico, ciò che spiega la mancanza anche elementare di un trattato di strategia teorica". Sempre a suo parere, Io sviluppo in questione è iniziato solo nel 1878 in Italia [abbastanza chiara l'allusione ai suoi primi scritti di tale anno - N.d.a.], "assai prima che in Francia, per opera dell'Aube, si costituisse una nuova scuola [la Jeune École Navale - N.d.a.] che tenne più tardi il primato strategico". In particolare l'opera che maggiormente si approssima, nelle forme e nella sostanza, ad un trattato teorico è quella del Vìgnut e Fontin [cioè il citato Eçsai de stratégie navale del 1893 -N.d.a.l, nella quale le questioni navali sono svolte con procedimento e metodo teorico, quantunque la ripartizione della materia non soddisfi a un progressivo ordine, teoretico[ ... ). Si può concludere che /'Essai dc stratégie navale, benché non immune da gravi difetti, ha però pregi scientifici così eminenti, e contiene novazioni teoriche così importanti, da costituire il punto d'arrivo del pensiero strategico nella sua evoluzione durante il 19° secolo.
Il giudizio del Bonamico sull'intero XIX secolo è però negativo: l'evoluzione del pensiero strategico è rimasta ferma al primo periodo, ha progredito senza un preciso orientamento "e non ha ancora dei punti sicuri di riferimento cui riferisce la suu evoluzione futura". La presenza del Bonamico nella panoramica da lui stesso tracciata è a ragione prevalente; ma si deve anche osservare che egli include tra gli scritti di strategia in Italia alcuni studi e contributi che non sono propriamente tali, e che dedicano alla strategia teorica uno spazio marginale (come quelli del Vecchj e del Baggio). In secondo luogo, trascura vistosamente taluni studi che a parer nostro meritano una certa considerazione. Ciò premesso, i contributi teorici più rilevanti ci sembrano: - comandante Roberto De Luca, La marina nella grande guerra (1895);48 - Augusto Vittorio Yecchj, L'impotenza delle armate odierne (1898);49 - comandante Eugenio Bollati di Saint Pierre, La guerra in mare ( l 900); 50
43 In ''Nuova Antologia" Voi. XLIV - I gennaio 1885, pp. 25-73. •~ fn " Rivista d ' Italia" Fase. 8° - 15 agosto 1898, pp. 651 -668. '° Eugenio Bollati di Saint Pierre, La guerra i11 mare (Cit.).
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- tenente di vascello Romeo Bernotti (articoli e opere varie, che esamineremo a parte). Lo studio del De Luca si distingue soprattutto per l' excursus sul periodo remico e velico, per l'esaltazione del primo periodo e per la critica al secondo, accompagnata dalla necessità di accantonare decisamente tutto quel che rimane della marina di Nelson; in tal modo le sue idee si inseriscono nella corrente di pensiero facente capo alla Jeune É cole e al Bonamico. Egli infatti cosi esprime la sua ammirazione persino eccessivo per la strategia del periodo remico: allorquando i condottieri delle flotte, oltre ad essere uomini di guerra [cioè della guerra terrestre - N.d.a.]furono anche uomini di mare, come i lauria, i Doria. i Veniero, i Barbarossa, si guerreggiò ugualmente bene e si naufragò molto meno. In riassunto: unità della guerra come fatto e come arte; accordo fra l'attitudine della marina e il desideratum dell'arte della guerra: le flotte, mezzo per portar la guerra [terrestre] al nemico a traverso il mare, oppure per impedire a lui di farlo, combattendolo nel mare; unione intima della marina militare con l'esercito e con la marina mercantile; prevalenza dell 'elemento militare sul/ 'elemento nautico.
Per contro il periodo velico era caratterizzato da "un 'istintiva antipatia per operare con le forze terrestri nella grande guerra"; in tale periodo la guerra parve aver perduta la sua logica e naturale unità, scindendosi in due parti distinte, la terrestre e la marittima [... ]. L'esercito e la marina tirarono ciascuno dal proprio canto, divennero estranei [... ]. Quello prese l'abitudine di considerare il mare quasi soltanto come ostacolo, dove si può annegare, ma che non si traversa; questa, la marina, si trincerò nel suo poetico e misterioso dominio dell'onda azzurra[...]. L 'elemento nautico prevaleva, anzi assorbiva l'elemento militare; l' arte militare mariuima, nata allora perché separatosi dall'arte militare, tendeva a quell'ideale di guerra proprio del! 'arte nel 'infanzia, il puro e semplice combattimento fra pari, cume i caratteri del Medio Evo.
Scarsa considerazione del De Luca, dunque, per il dominio del mare, "altrettanto indiscusso quanto incompreso". Nella sua visione (riduttiva) esso diventa più che altro un pretesto per giustificare l'esistenza della marina, la cui utilità viene messa in dubbio man mano che diventa meno necessario occupare nuove colonie. Per dare una risposta soddisfacente a chi chiede a che cosa serva una marina, la vecchia marina (la marina a vela, quantunque già mezzo travestita da marina a vapore), fu costretta a tirar fuori il suo dominio del mare, la protezione del commercio, e perfino la polizia degli oceani. li dominio del mare? ottimo in guerra, ma perché serva a qualcosa e non resti allo stato platonico. La protezione del commercio, sia: ma in che consiste questa protezione? potrebbe essa esercitarsi nella maniera di uno o due secoli/a? quale suprema-
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zia navale ispirerebbe oggi abbastanza fiducia al commercio per impedirgli di gettarsi in mano ai neutri al primo annuncio delle ostilità? Bastò /'Augusta [nave da guerra da crociera prussiana - N.d.a.] nel 1870 per fare sospendere la navigazione francese nel Golfo di Guascogna. Non si tratta dunque di vera protezione del proprio commercio, ma piuttosto di distruzione del commercio nemico. Ora, che ciò si possa fare è innegabile; che in guerra tutto ciò che in qualunque modo arreca danno al nemico sia utile, è vero; che i belligeranti, e soprattutto il più debole in mare, adoprino a questo scopo quei mezzi navali che non possono impiegare più utilmente, è giusto; ma che la marina militare in genere debba esistere principalmente per questo, non pare sostenibile[ ... ]. In quanto poi alla polizia degli oceani, sono già ormai venti secoli in cui furono necessarie tutte le forze navali di Roma, con Pompeo in testa, per far la guerra ai pirati; e non sono certo i pirati moderni lo scopo delle marine militari.
Anche la battaglia viene sottovalutata dal De Luca: nel periodo velico "l'ideale bellico fu il duello più che la battaglia, la battaglia più che la guerra: il che non costituì certo un progresso per l'arte militare marittima; anzi fece sì che il periodo velico nella guerra rappresentò per le navi il trionfo del valore individuale, come l 'epoca della cavalleria feudale nella guerra terrestre". Ma con il vapore come si trasforma in definitiva, la guerra navale? A questo concreto interrogativo, che pur si pone, egli risponde in modo tutt'altro che esauriente, limitandosi ad accennare (come Bonamico) al ritorno della guerra di costa e dell 'utilizzazione del mare come linea di operazione delle forze terrestri, come ha dimostrato la recente guerra di Crimea. Il De Luca viene esplicitamente citato dall ' Aube perché la sua sfiducia nel dominio del mare è in armonia con le teorie della Jeune École, tanto più che sostiene anche la necessità di una netta rottura con il periodo velico e rifiuta esplicitamente il modello di Nelson. La pubblicazione dell'articolo in esame sulla Nuova Antologia (e non sulla Rivista Marittima) non è casuale: al Ministero della marina infatti in quel momento è da poco tornalo Benedetto Brin. Il De Luca non si pronuncia esplicitamente sulla strategia più conveniente per la marina (e per la nostra marina in particolare), e di conseguenza sul tipo dinavi meglio adatte a tale strategia: ma nelle lezioni da lui tenute nell'anno scolastico 1876-1877 alla Scuola di Guerra dell'Esercito di Torino, dopo aver esaminato le modalità per la difesa delle coste con fortificazioni, ostruzioni di vario genere, mine, torpediniere ccc. arriva alla conclusione che solo la flotta da battaglia [ma in che modo? - N.d.a.] può assicurare la difesa marittima.51 Un omaggio alla guerra di squadra forse dettato da esigenze di insegnamento, con il quale l'articolo prima esaminato non sembra in armonia. Altre affermazioni del De Luca (come il troppo categorico rifiuto di accettare l'ere-
" Ezio Ferrante, Benedetto Bri11 e la questione marittima italia11a 1866-1898 (Supplemento alla "Rivista Marittima n. 11 / 1983), p. 38.
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dità del periodo velico e la pretesa di collocare solo al periodo velico le grandi battaglie navali - e Lepanto? La svalutazione troppo marcata dell'importanza del dominio del mare e della guerra di corsa (che peraltro non è così difficile da affrontare come egli lascia capire ecc.) non sono condivisibili o almeno dubbie: tuttavia gli va riconosciuto il merito di aver ben caldeggiato l'importanza di una strategia unitaria, l'opportunità di non mitizzare il dominio del mare, la protezione del commercio ecc. e, in genere, la necessità di rinunciare a molti aspetti non positivi dell'eredità del periodo velico. Anche il Vecchj sostiene la necessità di una strategia unitaria, fino ad affermare che la scelta del materiale marittimo non può essere affare del solo dicastero della marina, per quanto sia degno della massima fiducia chi ne è il titolare. Aggiunge, anzi, che il principio della divisione del lavoro al momento di moda "è fallace quando non sia corretto dal non meno savio principio dell'armonia del lavoro"; pertanto si rende necessaria l'istituzione di un "ufficio della guerra" che, a quanto sembra, dovrebbe essere unico per ambedue le Forze Armate. A questa conclusione però perviene con un percorso opposto a quello del De Luca, cioè rivalutando al massimo il periodo velico, nel quale a suo parere il rendimento del naviglio da guerra - anche per autonomia in fatto di viveri, munizioni e capacità di trasporto di truppe da sbarco - a fronte di costi inferiori era assai superiore a quello del naviglio a vapore. Gli exempla historica citati dal Vecchj oltre ad avvalorare il precedente asserto a suo giudizio dimostrano anche che il periodo velico è stato uno "stadio intermedio" nel quale è continuata la promiscuità delJe funzioni di comando con generali che hanno continuato a comandare con successo le flotte, ma "a partire dal 1866 [data relativamente prossima] la marina ha cessato di essere militarmente efficace" e inoltre "è sfuggita alle mani dei militari'', perché da quando Ericson ha inventato i I primo monitor ( dal quale sono derivate le corazzate), "alla marina dei militari si è sostituita quella degli industriali"; a questo fenomeno è dovuta "/a fallacia di concetto derivata da codesta usurpazione". Essa è testimoniata dalla costruzione "sotto la continua pressione del mondo industriale" di numerose torpediniere, le quali a suo giudizio possono essere impiegate solo nel combattimento fra navi, e per di più non hanno fornito alcun risultato nelle recenti battaglie dello Ya-Lu, di Cavi te e Santiago; pertanto l'unico mezzo per evitare scelte sbagliate è l'istituzione di una sola autorità che deve vagliare sulla scelta delle armi e sull'addestramento delle forze militari. In sintesi il Vecchj si dimostra convinto nostalgico del periodo velico c troppo scettico sulle possibilità delle torpediniere: sotto certi aspetti è dunque su posizioni opposte rispetto a quelle del Bonamico e della Jeune École, con argomentazioni discutibili nelle quali non tiene alcun conto della potenza delle moderne artiglierie e dei vantaggi della propulsione a vapore; né una nave da guerra, nemmeno nel periodo velico, poteva essere giudicata dalla sua capacità di trasporto delle fanterie. Ad ogni modo taluni suoi punti di vista, suffragati da interpretazioni strumentali della storia antica e recente, non peccano certo di originalità.
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Anche il Di Saint Pierre come già visto (cap. V) non è molto originale, forse perché il suo libro La guerra in mare è un sunto di lezioni agli allievi della Scuola di Guerra dell'esercito e quindi non può esprimere che la linea strategica ufficiale e più ortodossa dello Stato Maggiore marina. Senza chiedersi (come fa il Sechi) se le disponibilità economiche e le capacità industriali dell'Italia Io consentono, propende per la guerra di squadra a forze riunite e attacca duramente la Jeune Eco/e, fino a parlare di "penosa impressione" che gli fa la lettura di un recente opuscolo di tale scuola sulla guerra con l'lnghilterra.52 Critica la guerra di crociera, che a suo giudizio "non è se non un episodio della gran guerra, e non può condurre a risultati definitivi, né diviene azione culminante e principale della lotta tra due potenze rivali". 53 Può essere condotta da una marina inferiore solo momentaneamente e quasi parzialmente, perché per offrire un sensibile vantaggio richiede l'impiego di un forte numero di incrociatori. Una marina inferiore che avesse perduto il dominio del mare, e che disponesse ancora di qualche incrociatore, potrebbe forse trovare qualche compenso con questo tipo di guerra, devastando e distruggendo, ma i danni sarebbero poi inclusi nell'indennità di guerra da pagare al vincitore (che ha invece ottenuto il dominio clel mare) a guerra finita; "è poi ovvio che una marina inferiore non può fare una guerra di crociera, che importa una dispersione delle forze, dannosa sempre ed anche in opposizione ai principf della guerra. Per una marina preponderante essa non potrà apportare se non vantaggi, e dopo tutto affermerà sempre più la sua padronanza sul mare". Non senza contraddizioni ammette poi che la guerra di corsa può arrecare "danni gravissimi" e che è "un 'operazione navale importantissima"; tuttavia essa rimane "un 'operazione secondaria di guerra", perciò considerarla come "prima e fondamentale misura" semplicemente per schiacciare il nemico, "è una illusione e una ben pericolosa illusione, e a torto alcuni incompetenti rappresentanti del popolo [allusione ai parlamentari socialisti e pacifisti del momento, ovviamente contrari alle spese per una flotta di grandi navi - N.d.a.] la sostengono e la propugnano, per rispetto all'economia".54 Con un siffatto estremismo concettuale il Saint Pierre non recepisce nemmeno l'idea elementare che la guerra di crociera è 1' unica chance strategica delle marine irrimediabilmente più deboli; rimane perciò al polo opposto del Bonamico e di tutti coloro che hanno sostenuto e sostengono che anche con forze inferiori è possibile evitare almeno gli sbarchi francesi sulle nostre coste. Come fare in questo caso non lo dice; si limita solo a esaltare incondizionatamente la battaglia decisiva, unico mezzo per ottenere il dominio del mare assoluto, rispetto alla quale le basi in posizioni favorevoli (cita espressamente la nuova base francese di Biserta) e le fortificazioni contano assai poco. Prevedibilmente attribuisce a tale dominio e al potere marittimo tutta l'importanza che 52
Bollati di S.P., Op. cii., p. 82.
" ivi, p. 171. S4 ivi, p. 180.
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ha dato loro Mahan, del quale si professa fedele seguace. In tutti i casi possibili (la difesa delle coste, gli sbarchi, le fortificazioni costiere ecc.), che esamina con ricchezza di citazioni ovviamente scelte (specie quando si tratta del Bonamico) per avvalorare le sue tesi, la conclusione è sempre la stessa: occorre una forte flotta in grado di conquistare il dominio del mare. Non considera che i giapponesi sono sbarcati con successo sulle coste coreane anche senza aver conquistato definitivamente tale dominio, quando la flotta cinese era rinchiusa sulla base di Wei-Hai-Wei. Non recepisce l'affermazione del Mahan che le fortificazioni costiere servono per liberare le forze navali da compiti statici, ma piuttosto quella del Callwell che le basi navali si difendono dal mare. Prende atto dell'incertezza e delle incognite del blocco con l'età del vapore, sia per la flotta bloccante che per quella bloccata; ma pur accennando alle diverse modalità della lotta per la conquista e il mantenimento del dominio del mare, si guarda bene dallo studiare che cosa avverrebbe in caso di situazione di dominio del mare contrastato, limitandosi ad accennare a una circostanza ovvia, cioè che l'Italia non può contemporaneamente battersi per il dominio del mare e condurre la guerra di corsa. Come quello tattico, l'impiego strategico di una flotta per lui è dominato in aderenza ai canoni classici - dal principio della massa; ciò avviene anche quando si tratta di una flotta inferiore, per la cui strategia si richiama come sempre a Maban, secondo il quale "la flotta più debole deve operare specialmente per diversioni, in modo da stancare il nemico; prendere attitudine minacciosa in diversi punti, dare e,ffetto alle minacce con sortite vigorose e ardite, in modo da provocare una divisione della forza nemica preponderante, facendo sì che esso si trovi ad esporre frazioni meno numerose all 'attacco di fòrze maggiori". 55 Strategia estremamente difficile da realizzare e - a quanto è dato di conoscere - mai realizzata, anche perché prescinde totalmente dalle contromanovre nemiche ed espone la flotta più debole a dividersi a sua volta. fn aderenza a tale strategia il Bollati loda taluni passi degli scritti del Bonamico (ma solo taluni passi) e critica il Perrucchetti (Tomo I, cap. IV), per il quale la guerra di crociera potrebbe dare all'ltalia migliori risultati della guerra di sq uadra (così pensa anche il Bonamico). Le sue argomentazioni sono le solite: una guerra di crociera richiederebbe troppi e costosi incrociatori, anche se "sarebbe non solo consigliabile, ma necessaria in qualche limitato scacchiere d 'operaziont'' [quale? - N.d.a.]; né la distruzione del commercio nemico sarebbe a suo avviso possibile, senza la conquista del dominio del mare. Insomma: l'affermazione semplicistica che"la guerra marittima è lotta per il dominio del mare" e l'altra (attribuita a Mahan) che "la miglior difesa delle coste è un 'armata navale" 56 riassumono il suo orientamento strategico essenzialmente mahaniano, anzi più mahaniano dello stesso Mahan. Ciò che in ogni momento gli interessa è dunque il dominio del mare con le sue ricadute ss ivi, p. 129. "'ivi. pp. 184 e 186.
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sempre e in ogni caso determinanti, senza alcuna eccezione. Il meno che si possa dire, perciò, è che non riesce a dissipare le nebbie dell'utopia intorno a un' affermazione in certo senso programmatica come quella che si trova nella prima pagina del messaggio "al lettore" aJl'inizio dell'opera, e che è manifestamente diretta agli autori e alla pubblica opinione di casa nostra: "una marina, anche inferiore, non deve tralasciare il compito del!'~ffensiva e non deve tralasciare di lottare per il dominio del mare. Supplisca colla qualità al numero; abbia comandanti più audaci, artiglieri più esperii, macchinisti più pratici, fuochisti più abili, e la fortuna le arriderà, se nella condotta della guerra s'ispirerà al concetto che.fino all'ultima torpediniera, tutto deve essere impiegato per battere la.flotta avversaria". Un messaggio che chiaramente si ispira al Makarov, la cui influenza si sente in tutta l'opera; ma che, oltre ad essere anti-Bonamico (la cui opera, al contrario, parte dalla constatazione che la flotta italiana non deve cercare la battaglia, perché sarà sempre inferiore a quella francese) è anche anti-Sechi. Infine è anche anti-mahaniano, perché è ben noto che l'opera dell'ammiraglio americano ruota intorno all'esigenza primaria di potenziare la marina del suo Paese, sul modello inglese; dunque per Mahan solo una grande marina di forza almeno pari a quella avversaria è in grado di contenderle il dominio del mare. Secondo il poco realistico approccio del Bollati, invece, tutti - anche a prescindere dalla forza - devono lottare per la conquista del dominio del mare; non vi è alcuna alternativa, alcuna eccezione, né il semplice contrasto del dominio del mare altrui è un'ipotesi da prendere in considerazione; in tal modo il potere marittimo e il suo scopo rimangono in seconda linea. D'altro canto nell'analisi del potere marittimo il Bollati si richiama a Mahan e soprattutto a Bonamico, "che più di ogni altro ha studiato il problema". Esamina con una certa ampiezza, ma senza sostanziali novità i singoli fattori che lo compongono, ampliando notevolmente quelli considerati dal Bonamico; enumerandoli nel modo seguente, alquanto discutibile prima di tutto perché non considera il potere navale come parte essenziale del potere marittimo: - la posizione geografica; - la configurazione fisica connessa ai prodotti naturali del suolo e al clima; - le condizioni topografì.che ed idrografiche e l'addestramento nautico che consentono; lo sviluppo delle coste; - il numero degli abitanti; - il carattere degli abitanti e l'indole nazionale e militare; - la forma e la politica del governo; - la posizione della capitale; - le industrie marinaresche. A questi elementi, qual più meno commensurabili, il Barone[ ... ] ne aggiunge altri incommensurabili, quali: il genio, l'invenzione e la fortuna, la cui indagine esula dal campo che mi sono proposto. 57
S?
ivi, pp. 40-41.
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Tanto valeva che il Bollati riprendesse interamente l'analisi del Bonamico in Mahan e Callwell; né si capisce il suo rifiuto di esaminare il genio, l' invenzione e la fortuna insieme con il resto. Si nota anche l'assenza di componenti importanti come la capacità economica e industriale, l'ingiustificato esame sparso di elementi geografici affini, che in gran parte potrebbero essere raggruppati, ecc.: tutti limiti già tipici del Bonamico, che il Bollati anziché correggere peggiora. Tra potere marittimo e dominio del mare il legame dovrebbe essere la strategia, ma la definizione che egli ne dà potrebbe essere adottata senza alcuna modifica anche per il campo terrestre: la strategia navale, scienza dell'alto comando in mare [ma anche in terra N.d.a.], non è una scienza esatta; essa è nata dal connubio dell 'esperienza colla ragione e offre solamente certi principii, molto semplici, che danno probabilità di riuscita e dai quali è sempre imprudenza il distaccarsi. Se lo studio di questi principi non è arduo, la loro applicazione è, in genere, molto dif ficile nella condotta della guerra. ss
Oltre ad essere generica e insignificante, questa definizione presente erroneamente la strategia come scienza, sia pur non esatta; è perciò di pretto sapore jominiano e non considera per niente la specificità del campo navale, rendendo le sue caratteristiche analoghe al campo terrestre. Anche per il Bollati la strategia deve essere unica, perché la guerra ha uno scopo politico al quale devono informarsi ambedue le strategie di For7~ Armata. Esercito e marina devono conoscersi a vicenda e tenere conto delle rispettive esigenze; occorre dunque un'unica mente direttrice. Affermazioni ali' epoca non certo nuove, che però non sono fondate - come per il Bonamico - sulle nuove possibilità della propulsione a vapore, ma su esigenze strategiche sempre esistite, anche nel periodo velico. Su questo il Bollati ha ragione; inoltre gli va riconosciuto il merito di aver dedicato un intero capitolo (il II) all'esame (sia pur troppo sommario) della letteratura navale anche straniera, lamentando che in Italia gli studi di storia militare, e di quella navale in particolar modo, sono stati assai tr.:iscurati e considerati come parte accessoria della cultura militare, quando invece sarebbe dovuto avvenire il contrario; "sarebbe poi desiderabile oggi che si occupassero di questi studi e scrivessero non solo in proposito, ma anche di argomenti militari e navali, coloro che appartengono alla più alta gerarchia militare, perché potrebbero essere i rivelatori coscienziosi ed esatti del pensiero dirigente". 59 Tra gli esponenti italiani della "letteratura navale scientifica" cita favorevolmente diversi collaboratori della Rivista Marittima (il Morin, il Bettòlo, il Gavotti, il De Amczaga, il Vecchj e "soprattutto" il Bonamico), ma giustamente riscontra la mancanza di "un lavoro che, prendendo le mosse da una completa storia militare navale, ritragga da essa, col sussidio delle storie
SS ÌVÌ, S9
p. J 35.
ivi, pp. 27.
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militari terrestri, tutti quei criteri che nella condotta delle operazioni della guerra possono essere comuni agli eserciti e alle flotte. Questo sarebbe veramente l 'anello di congiunzione tra esercito e marina...". 60 Insomma: si tratta di un'opera storica interforze che all'inizio del XXI secolo ancora non è comparsa, e che il Bollati spera (come si è visto - vds. Tomo Il, cap. V) venga pubblicata dal colonnello Barone (Tomo I, cap. V), "il quale nello studio critico delle teorie del Mahan, cui da qualche tempo attende, saprà, gioia sperarlo, creare un lavoro utile al marinaio e al soldato [di terra]". 61 Un ultimo ma non secondario aspetto dell'opera del Bollati è l'attenzione da lui lodevolmente dedicata al rapporto tra opinione pubblica e strategia, emerso in negativo nella guerra ispano-americana del 1898, nella quale secondo il giornale francese Moniteur de la Flotte"/ 'opinione pubblica è diventata un fattore strategico di primaria importanza. [L' ammiraglio spagnolo] Cervera andò a Santiago non in seguito ad un buon concetto strategico, ma per soddisfare alla pubblica opinione_ Le peregrinazioni di Camara [l'altro ammiraglio spagnolo - N.d.a.] su e giù per il Mediterraneo si devono alla stessa ragione".62 Come già il Bonamico e il Mahan, pertanto, il Bollati ritiene che l'opinione pubblica è un fattore di vittoria tuu "altro che trascurabile, e perciò sarebbe desiderabile che scrittori competenti si adoperassero a far conoscere quel che valga e quel che meriti la marina e ciò che ragionevolmente si debba e si possa aspettare da lei nel momento del pericolo, a mostrare quanto importi il dominio del mare e come esso non si acquisti se non con una lunga, costosa, incessante preparazione in tempo di pace; sarebbe desiderabile che provvedessero a sradicare errori e pregiudizi universalmente diffùsi, in una parola a popolarizzare la marina. 63
Le idee fin qui esposte sono da lui ribadite nel librn de I 1903 Navi da guerra e difèse costiere, con prefazione del Bonamico e favorevole recensione del colonnello e deputato Giacomo Fazio, noto autore militare e navale dell'epoca.64 In questo caso il Bollati esprime la giusta opinione "controcorrente" che le corazzate e gli incrociatori non devono imbarcare anche i siluri e - contrariamente a quanto molti pensano all'epoca - ritiene che le corazzate moderne, grazie alla maggiore gittata dei loro cannoni, possono controbattere con successo le difese costiere, i cui cannoni non superano la gittata di 9 km [ma perché? potrebbero, a loro volta essere annate con le più moderne artiglierie in torri - N.d.a.]; comunque, anche per questa ragione rimane dell'opinione che solo le forze navali possono impedire gli sbarchi.
60
ivi, p . 35. Ibidem. 62 ivi, p. 36. 63 Ibidem . .. Torino, Casanova 1903. Recensione del col. Giacomo Fazio in "Rivista Marittima" 1902, IV Trim. Fa.se. n, pp. 674-678. 61
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Alla fine delle prime esperienze della guerra mondiale la sua opinione sui vantaggi delle navi da guerra rispetto alle difese costiere è indirettamente contestata da un non meglio identificato Giovanni Zanghieri.65 Rifacendosi agli avvenimenti più recenti (l'attacco giapponese da terra a Port Arthur nel 1904; la nostra azione contro le coste libiche nel 1911; l' attacco della flotta tedesca alle coste inglesi; il nostro "raid" nei Dardanelli e l'attacco inglese ai Dardanelli stessi, alle quali - noi pensiamo - potrebbero essere aggiunti i poco redditizi bombardamenti della flotta austriaca contro le nostre coste), lo Zanghieri afferma senza equivoci che le navi da guerra si trovano in condizioni di notevole inferiorità nell'attacco alle fortificazioni costiere, per la semplice ragione che esse sono costruite per il combattimento con altre navi, non per combattere contro i forti della costa e/o per battere obiettivi comunque terrestri. A suo avviso, contro opere in torri corazzate e con cannoni moderni le Dreadnought, armate solo di grossi calibri, logorano troppo rapidamente le bocche da fuoco e d'altro canto non sono in grado di battere fortificazioni contro le quali occorra un angolo di elevazione superiore a 17-20 gradi, oppure opere armate di obici pesanti in posizione defilata, che però grazie alla loro traiettoria curva possono colpire la nave; senza contare che basta un solo colpo di tali obici terrestri andato a segno per mettere fuori combattimento una nave, mentre un' opera deve essere colpita parecchie volte per essere neutralizzata. Le grosse artiglierie sarebbero più efficaci se la nave si avvicinasse a 6-8 km sacrificando alla sicurezza la precisione; ma questo in genere non viene fatto dai comandanti. Per le azioni costiere sarebbero perciò più efficaci le corazzate predreadnought, che dispongono di un buon numero di medi calibri con vita delle bocche da fuoco più elevata. Tutto sommato nelle recensioni il Bonamico è fin troppo benevolo nei riguardi del suo antico allievo Bollati; in realtà quest'ultimo, con le sue tesi a favore della continuità strategica tra periodo della vela e del vapore, della guerra di squadra della grande battaglia e contro la guerra di crociera, su tutte le interfacce strategiche fondamentali va collocato all'estremo opposto dello stesso Bonamico e del De Luca, anche se con frasi come al solito avulse dal contesto, tenta di accreditare delle inesistenti analogie tra le teorie di fondo dello stesso Bonamico e quelle del Mahan. Le numerose e dotte citazioni, con le quali vuol accreditare la "linea" ufficiale da lui esposta, sono pertanto l'aspetto migliore della sua opera, anche se sono da interpretare con la dovuta diffidenza.
6'
Giovanni Zanghieri, Offese dal mare contro offese d,11/a terra. in " la Letturn" maggio 1915, pp.
441-448.
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Romeo Bernotti, emulo del Bonamico e figura dominante insieme al Sechi (/897-19//) Come già accennato, l'autore che con il Bonamico e il Sechi di gran lunga spicca nel panorama del pensiero strategico italiano del tempo è Romeo Bernotti, su parecchi punti emulo del Bonamico come il Sechi, al quale contende la palma di maggior scrittore navale italiano del periodo che va dall'inizio del secolo XX alla prima guerra mondiale. Anche quando tratta di teoria il suo interesse è in prevalenza rivolto alla problematica dell'impiego strategico delle flotte. Non si interessa delle questioni inerenti alla teoria del potere marittimo e intende probabilmente corrispondere alla domanda di pensiero strategico espressa dal Bonamico, sviluppando argomenti operativi sui quali c'è ancora parecchio da dire, e per i quali è particolarmente portato. Molte riflessioni dello stesso Bonamico sono da lui fatte proprie e correttamente citate e interpretate; di conseguenza si colloca al polo opposto del Bollati di Saint Pierre, che da lui non viene mai citato. TI suo scritto fondamentale sono le Riflessioni sulla strategia navale (1903), 66 completate da un altro articolo sulla Guerra di crociera (1904).6 7 Tali studi in ordine cronologico seguono un altro fondamentale articolo dal titolo Potenza militare degli Stati (1901 ),68 che però esamineremo dopo le predette Riflessioni, perché riguarda argomenti teorici rispetto ad esse complementari. Per ultimo vengono gli Elementi di strategia navale (1911),69 che riassumono le teorie precedenti con parecchie e non sempre coerenti concessioni a Mahan, che forse derivano da lezioni tenute dall'autore all'Accademia Navale. Della strategia il Bcrnotti ha un concetto che si potrebbe dire clausewitziano, quindi anti-jominiano e opposto al dogmatismo mahaniano e a quello di coloro che la considerano come scienza: posto che a suo parere essa serve a stabilire le migliori condizioni per giungere al contatto tattico ( cosa diversa va sottolineato - dalla battaglia sic et simpliciter), i dati sicuri sui quali nel campo strategico si può contare sono molto più scarsi di quelli della tattica, mentre le questioni diventano più complesse; quindi "è più che mai necessario andar cauti nella strategia, perché la scarsezza di dati, in confronto alla vastità del campo strategico,Jàvorisce le illusioni''. Tuttavia non bisogna rassegnarsi in base all'aforisma [napoleonico e clausewitziano - N.d.a.] che "nella guerra domina l 'imprevisto"; anche nel campo strategico si possono fare previsioni ordinate e ragionate, frutto di teorico-pratico della relativa problematica. A tal fine bisogna tener presente che "ammettere la possibilità di induzioni non significa negare l'imprevedibile" e cbe "esclusa la certezza rimane posto per le
66
In "Rivista Marillima" 1903, I Trim. Fase. III, pp. 417-452. In "Rivista Marittima" 1904, T Trim. Fase. I, pp. 5-3 7 . .. In "Rivista Marittima" 1901 , IV Trim. Fase. Xli, pp. 383-4 I 9 . 67
69
Livorno, Giusti 1911.
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probabilità", allargando il campo dell'imprevisto in base all'esame della possibilità e convenienza di una data linea d 'azione e rendendo così possibile "determinare la probabilità relativa delle operazioni che il nemico può intraprendere, e stabilire di conseguenza il proprio modo di azione". Bisogna peraltro tenere ben presente la necessità assiomatica di stabilire le ipotesi in modo che in esse rimanga ampio margine all'imprevedibile; in tal modo "può ammettersi con fondamento che l'abilità tattica sia questione di rapporto immediato, mentre l'abilità strategica è questione di rapporto lontano". Così stando le cose, "possiamo ritenere, col Bonamico, che la strategia, più della tattica, sia campofecondo a/l'esplicazione del genio [da ricordare che il Bonamico colloca il genio tra le "funzioni incommensurabili" del potere marittimo - N.d.a.). Ma, per carità, andiamo assai cauti, se non vogliamo disillusioni; guardiamoci dal fabbricare troppi castelli sul genio del Comandante in Capo". Oltre un certo limite l'influenza del genio non è più possibile: in ogni ambiente militare gli uomini migliori devono fare ogni sforzo per ridurre al minimo la differenza tra la condotta reale, imposta al Capo di genio da una ben concreta situazione, e quella che egli terrebbe nelle condizioni migliori; quindi "a parità di mezzi un ambiente militare è più di un 'altro suscettibile d'influenza geniale, quanto maggiore è la sua preparazione intellettuale e organica". Dopo queste considerazioni preliminari il Nostro affronta la vexata quaestio delle analogie fra strategia terrestre e navale, tendendo a restringerle al minimo nonostante una ben salda fede - analoga a quella del Bonamico e ud Sechi - nella necessità della "correlazione terrestre e marittima", fede in lui rimasta ben salda anche dopo la prima guerra mondiale e se mai accresciuta per la presenza e importanza dell 'aeronautica. Respinge anzitutto la tesi conservatrice che strategia navale e strategia terrestre sono scienze che in gran parte si compenetrano, fino a giustificare l'affermazione categorica che "la strategia navale deve essere strategia napoleonica". È vero - egli afferma - che guerra terrestre e guerra navale hanno in comune la necessità di mirare al massimo danno del nemico [si noti: non di battere assiomaticamente il nemico, come per il Bollati e molti altri - N.d.a.] ; ma giudica "pericolosa" la pretesa di estendere senz'altro alla guerra navale dei principi che nella guerra terrestre potrebbero essere convenienti, ma che in campo navale vanno intesi in modo molto diverso. In proposito cita tre ben note proporzioni tipiche della guerra terrestre, che però per lui non valgono alto stesso modo nella guerra marittima. I) "Bisogna tenere le fone riunite, affinché la loro azione possa essere simultanea" [principio-chiave delle teorie di Jomini, recepito dal Mahan con la sua affermazione "mai dividere la flotta" - N.d.a.]. In campo terrestre - egli osserva - le forze devono spesso dividersi per necessità logistiche, quindi non è facile riunirle per la battaglia: ma in mare di queste esigenze non esistono, quindi non vi sono difficoltà per tenere la flotta sempre riunita; per giunta l'applicazione di tale principio può causare la sconfitta alla flotta più debole, costretta a battaglia contro forze superiori. Ne consegue che ''prima di ammet-
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terio bisogna ricercare se mediante un opportuno frazionamento, che bene utilizzi le qualità strategiche, non si possa riuscire a cogliere in errore il nemico ed opporgli forze maggiori nelle azioni tattiche". II) "Bisogna mantenere libere le linee di comunicazione". In questo caso per il Bernotti la differenza tra terra e mare è sostanziale: "a proposito di comunicazioni marittime è inutile pensare a Marengo". Il legame di un esercito con la sua base d'operazioni è continuo, reale e ben definito; non è così per una nave, che si dirige verso la base (per di più soggetta a cambiare senza particolari difficoltà) solo per ben definite esigenze logistiche o operative, quindi il suo legame è intermittente, e quel che vale è la sua distanza da tale base, non la direzione come in terra. III) "Lo scopo essenziale da raggiungere è quello di battere le forze nemiche". Citando opportunamente il Bonamico, il Bernotti (diversamente dal Bollati) obietta che si tratta di un principio che può essere sempre valido in campo terrestre [non è vero - N.d.a.], ma non lo è sempre in campo navale; "l'offesa alle città costiere, la distruzione del commercio, l'attacco a un convoglio di sbarco, sono obiettivi importanti, e si possono tentare senza la distruzione delle forze nemiche. Saranno queste ultime che vorranno opporsi all'attaccante, sicché potrà risultarne la battaglia; per conseguenza è giusto pensare prima o poi, che in qualche modo bisognerà battersi, ma la battaglia navale, la battaglia di squadre, non può ritenersi a priori come la stella polare della strategia navale". Seguono un'opportuna citazione del Bonamico (per il quale "evitare la battaglia rimane uno scopo strategico, quanto quello d'impegnarla vantaggiosamente") e un ironico attacco a "qualchefautore della strategia navale napoleonica" (come il Bollati?), secondo il quale in virtù del principio prima enunciato sarebbe un grave errore bombardare una città costiera senza aver prima distrutto la flotta nemica. Parole importanti, che segnano il ragionato distacco del Nostro dai navalisti puri e duri, secondo i quali la guerra navale si riassume sempre e in ogni caso nel trinomio strategia offensiva - battaglia decisiva - conquista del dominio del mare. Concetto quest'ultimo, grossolano e non aderente alla realtà di una flotta secondaria, che tuttavia ha grande peso propagandistico interno perché alimenta la speranza (che tale è sempre rimasta) di indurre l' establishmentpolitico-sociale a destinare maggiori risorse allo sviluppo de!Ja marina. A questa indiretta ma chiara presa di posizione contro il navalismo segue la riaffermazione dell'importanza della correlazione terrestre-marittima: per limitare con esattezza il campo della strategia. occorre porre mente alla correlazione indispensabile tra le operazioni degli eserciti e delle flotte. È evidente che, per determinare con esattezza il campo di questa, conviene porre mente alla correlazione indispensabile tra le operazioni degli eserciti e delle flotte. È evidente che, per determinare la correlazione delle operazioni marittime con quelle territoriali, non possono ritenersi sujjìcienti cognizioni puramente marittime; per giungere a questa correlazione è indispensabile esa-
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minare l'influenza reciproca della lotta marittima e di quella terrestre. Non è dunque concesso di ascrivere questa conoscenza unificata della guerra alla strategia navale più che a quella terrestre; ma è ad essa soltanto che può darsi il nome di Strategia puro e semplice.
Per quanto riguarda la condotta delle operazioni il campo della strategia navale è limitato inferiormente dalla tattica e superiormente dalla predetta correlazione, dalla quale deriva lo scopo al quale essa deve tendere, non solo per studiare il possibile e il conveniente onde impegnare il contatto tattico nelle migliori condizioni, ma anche per stabilire i I limite fino al quale sviluppare l'azione tattica. I limiti superiori e inferiori prima indicati sono dunque assai più distanti tra di loro di quelli che derivano dal considerare la battaglia come scopo unico delle operazioni strategiche. Tenendo conto di quanto sopra, il Bemotti si distacca da un altro caposaldo caro ai nostalgici della vela e ai navalisti, a cominciare dal Mahan; diversamente dal Bollati e come il Bonamico e la Jeune École, egli pensa che "col1'immensa trasformazione dei mezzi navali il campo del possibile e del conveniente ha mutato di estensione e di forma: noi non possiamo dunque logicamente ammettere che la strategia navale sia rimasta inalterata". La sua immutabilità è da alcuni ammessa come assiomatica [come avviene normalmente in campo terrestre - cfr. Tomo I- N .d.a.]; ma se si afferma che i principi strategici sono immutabili, mentre ne varia solo l'applicazione, "si salta sopra ai criteri, e si confonde la scienza con l'arte strategica; siamo proprio sicuri che la teoria strategica debba rimanere tanto piccina? Rispondere a priori affermativamente è senza dubbio azzardato". E qui il Nostro cita il Bonamico, ricordando la sua affermazione (1881) che " le condizioni del periodo mi danno il diritto di chiamare la strategia navale una scienza nuovissima, tanto nuova che dai più non se ne sm,petta l'esistenza, non se ne intende lo scopo, non se ne conoscono i primi elementi, non si desidera sentirne parlare. Questoripudio, o meglio questo suicidio, è conseguenza della simpatia patologica che tiene avvinte le masse, quelle inglesi specialmente, al fascino del periodo velico". In linea generale il Bcmotti pensa che "nella ricerca dei criteri strategici per non seguire idee preconcette bisogna riferirsi alle condizioni odierne dei mezzi navali" e che la fede nei progressi della scienza fa spesse volte sembrare realtà quello che è soltanto un parto della fanteria; ciononostante in fatto di mezzi rimane lontano dall'estremismo della Jeune École c persino dalle idee del Bonamico, dimostrando una visione troppo conservatrice: il perfezionarsi delle navi da sorpresa [allusione alle torpediniere e fors'anche ai sommergibili - N.d.a.] potrà rendere possibile un grande passo verso una buona soluzione del problema della difesa mobile costiera; ma è facile convincersi che le navi da sorpresa resteranno sempre poco atte ad operare in lontananza delle coste, avranno scarsa abilità e poca attitudine alla ricerca del nemico[... ]. Così il giorno della sparizione delle squadre di navi du but-
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taglia sembra ancora lontano; in ogni modo il punto importante da considerare è che oggi queste squadre esistono, tenendo conto delle loro condizioni rispetto alle squadre avversarie ed ai mezzi di difesa costiera.
Sempre riguardo al materiale, segnala i vantaggi che specie per 1'esplorazione strategica e tattica potrà fornire la radiotelegrafia [ vantaggi pienamente confermati dall'ormai vicina battaglia di Tsushima - N .d.a.]. Indica poi la necessità di definire per ciascuna nave la velocità strategica, il cui valore è compreso tra quello della velocità economica, corrispondente al minimo consumo di carbone per ogni miglio, e quello della velocità massima assoluta. Inoltre nel campo strategico è importante considerare l'autonomia (numero di ore che una nave può rimanere in mare alla predetta velocità strategica). Se a questi due clementi si aggiunge la capacità d'iniziativa dell'azione tattica [cioè l'attitudine a sfruttare nel modo migliore l'armamento disponibile - N.d.a.] si ottengono gli elementi che determinano la mobilità strategica, mentre la mobilità tattica dipende dalla velocità massima e dalle qualità evolutive. Ne consegue - altro dato costante nel pensiero del Bemotti - un'altra analogia con le leorie del Bonamico, cioè l'importanza della velocilà per una flolta inferiore, che si esporrebbe a gravi rischi in caso di incontro con una flotta superiore. Un complesso di navi è sempre costretto a regolare l'andatura sulla nave meno rapida, perciò se a un gruppo di navi si aggiunge una nave più lenta si aumenta [ma solo se essa è potente come armamento e protezione - N .d.a.] la sua potenzialità tattica, ma si diminuisce la sua potenzialità strategica. Per questa ragione a parere del Nostro non è possibile e conveniente l'ammassamento continuo delle forze navali ed è opportuno ripartirle in unità strategiche, composte ciascuna da navi poco differenti per mobilità strategica e attitudine a tenere il mare; tali unità strategiche avranno obiettivi tra loro connessi. La lotta per il dominio del mare (che il Bemotti esamina una volta tanto in modo articolato e analogo al concetto del Bonamico, e quindi dissimile da quello dei navalisti) tiene conto dei predetti criteri e rifiuta ogni dogmatismo, collocando sullo stesso piano - a seconda dei dati concreti della situazione - 1' offensiva e la difensiva, sia pur senza negare alle corazzate il ruolo di navi fondamentali. In aderenza al suo concetto che la battaglia non può essere la stella polare della strategia navale, prevede anche il caso in cui all'inizio della guerra anziché cercare la battaglia sia conveniente inviare subito contro le coste nemiche una forza navale ridotta ma "superiore o uguale al complesso di superiore velocità, che il nemico può distaccare", con il compito di mantenere alto il morale delle Forze Armate e della nazione. Più in generale si può dire che in una data zona d 'operazioni [quindi non dovunque, come usano prevedere i navalisti - N .d.a.] "una delle due parti avversarie ha raggiunto il dominio del mare (che può essere assoluto o relativo, temporaneo oppure defìnitivo) quando ad essa resta da fare i conti solo con la difesa costiera a piccolo raggio d 'azione [i cui mezzi non hanno come arma principale il cannone, come ad esempio le
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torpediniere - N.d.a.], considerando le navi da battaglia quali mezzi per la difesa costiera a grande raggio [definizione ambigua, sulla quale i navalisti coevi non concorderebbero - N.d.a.]". Comunque bisogna distinguere le operazioni, che si propongono la conquista del dominio del mare da quelle che hanno per scopo di opporsi all'uso di esse. Il dominio del mare non può generalmente ritenersi assoluto; ma la distinzione ora fatta corrisponde per ogni avversario alla speranza di poterlo conseguire in maggiore grado, oppure no. Chi ha speranza di acquistare una libertà d'azione superiore a quella delle forze nemiche, mira anzitutto a distruggere o a paralizzarle; chi non ha forze bastevoli per nutrire simili speranze, cerca di raggiungere l'altro scopo, e le operazioni che mirano a ciò, escludendo quelle dei mezzi di difesa costiera a piccolo raggio, costituiscono quella che chiamiamo
guerra di crociera. Premesso che, in generale, nella lotta per il dominio del mare il mantenimento del contatto strategico è sempre fattore principale di vittoria, il Bemotti diversamente da quanto fa gran parte degli scrittori navale coevi si sofferma in particolar modo sulla condotta strategica più conveniente per la flotta più debole, le cui modalità d'impiego, diverse da quelle previste dal Bonamico, sono assai più ambiziose, perché nel caso più favorevole intendono contendere al nemico la conquista del dominio del mare, attraverso l'impiego di una squadra in potenza appoggiata a una squadra di contatto. La squadra in potenza deve essere di forza superiore o uguale a quella di maggiore velocità che il nemico può distaccare, tendere a mantenere il contatto strategico e indurre il nemico al frazionamento, mentre le forze rimanenti rimangono in being in un centro di rifornimento, che presenti molte difficoltà per il blocco. Le due aliquote di forze devono operare strategicamente separate ma tatticamente riunite; in ogni caso la riuscita delle operazioni della parte più debole dipende dalla possibilità di utilizzare diverse posizioni strategiche che presentino difficoltà al blocco [cosa assai difficile - N.d.a.]. Nel caso che le disponibilità finanziarie non consentano all' avversario più debole di adottare il predetto dispositivo [forse qui il Bemotti si riferisce al caso italiano - N.d.a.], esso deve tentare di annullare questa inferiorità ricercando una mobilità superiore sia nel campo strategico che nel campo tattico. A tal fine potrebbe mantenere una parte del le sue forze in being, tentando con le forze residue (non sufficienti per mantenere un contatto strategico continuo) di contrastare per quanto possibile al nemico il libero uso del mare, in attesa del momento opportuno per operare a forze riunite. In alternativa a tale linea strategica, potrebbe mantenere tutte le forze da battaglia allo stato potenziale o allo stato attivo. Quest'ultima scelta è conveniente solo se tali forze posseggono i requisiti prima richiesti a una squadra di contatto; ma se questo non si verifica, l' unica possibilità che loro rimane è di operare riunite fino all'incontro con una forza nemica superiore, che le possa costringere al combattimento; in que-
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st'ultimo caso devono frazionarsi per unità strategiche, con azione divergente [ma quali sarebbero le residue probabilità di successo con una siffatta scelta? Assai poche - N.d.a.]Riguardo ai tipi di navi più convenienti per una flotta più debole, le idee del Bernotti hanno delle analogie con quelle del Bonamico: esse devono "rinunciare a qualche centimetro di corazza nella cintura del galleggiamento, a vantaggio del 'armamento e della velocità". In pratica questa è la caratteristica degli incrociatori corazzati italiani impostati nel 1905 (Pisa, Amalfi, San Giorgio e San Marco) con 4 cannoni da 254 mm, corazzatura analoga a quella delle corazzate tipo Cavour e velocità superiore; meglio ancora, è la caratteristica dei grandi incrociatori da battaglia inglesi e tedeschi impiegati nella futura guerra mondiale, non costruiti in Italia. Quel che è certo è che per la marina più debole (come è quella italiana rispetto al più probabile avversario, cioè alla marina francese) il Bemotti nel 1903 non ritiene ancora utili le grandi corazzate, come invece saranno di lì a poco quelle tipo Dreadnought. L'ostilità ai grandi dislocamenti e la preferenza sempre e in ogni caso per la velocità superiore non autorizzano però a classificarlo sic et simpliciter come nemico della guerra di squadra e delle navi da battaglia. Nel citato articolo sulla guerra di crociera, infatti, distaccandosi nettamente dal Bonamico e avvicinandosi al Bollati giudicale corazzate indispensabili sia nell'attacco e difesa del commercio marittimo, sia nell'attacco e difesa dei convogli di sbarco; perciò in questi casi la sua concezione strategica potrebbe dirsi classica e senza sorprese. Tn particolare, per l'attacco e difesa del commercio: - diversamente dal Bollati ritiene possibile contemporaneamente la guerra di squadra e quella di crociera, ma respinge l'idea che quest'ultima sia la strategia più adatta a una marina inferiore, perché a suo avviso per essere redditizia richiede troppo numeroso naviglio leggero, che deve pur sempre essere appoggiato da un gruppo di navi maggiori in grado di affrontare con vantaggio le analoghe navi avversarie; - pur ammettendo come la Jeune École l'inconsistenza delle ragioni umanitarie nel condurre la guerra navale, esplicitamente si dissocia dalle idee della predetta scuola, definendole 'fantastiche" con particolare riguardo alla sopravvalutazione delle possibilità di incrociatori e "sottomarini imbarcabili"; - non ritiene conveniente (opinione smentita dalla realtà delle due guerre mondiali) la scorta diretta dei convogli, che richiederebbe un numero eccessivo di forze; occorre invece definire delle zone di massima difesa nelle quali agirebbe un nucleo veloce di navi, coadiuvato da navi esploranti; - "non si può pensare di proteggere il commercio, se in un dato teatro di guerra non si dispone di una totalità delle forze superiore a quelle del nemico"; - di conseguenza l'attacco al commercio non può essere condotto con vantaggio se le nostre forze da battaglia sono distrutte o bloccate, il che equi-
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vale a dire che la guerra al commercio non è affatto la guerra dei poveri, dei più deboli; - "/'attacco è reso tanto più facile, quanto più si impone a chi protegge il commercio di tenere riunite le sue forze, quindi si sarà tanto maggiormente preparati all'attacco del commercio; quanto più forti saranno le squadre di navi da battaglia" [ma allora, che cosa rimane da fare a chi non può disporre di tali squadre più forti? - N.d.a.]; - in questa forma di guerra "la velocità, insieme ali 'autonomia, apparisce fattore essenziale di vittoria". Per quanto attiene all'attacco e difesa dei convogli di sbarco, secondo il Bemotti non valgono più le esperienze storiche relative al periodo velico; comunque la caratteristica essenziale dell'azione delle navi attaccanti deve essere la rapidità, e il loro scopo è raggiunto quando riescono a penetrare tra le navi da trasporto. Dal canto loro le navi di scorta devono cercare l'immedialo contatto tattico con le navi attaccanti, in modo da consentire alle navi da trasporto di prendere caccia; ma se questa manovra avverrà troppo vicino al nemico, oppure se quest'ultimo attaccherà da più parti, ne nascerà una grande confusione. Questi inconvenienti potranno essere evitati sia facendo accompagnare il convoglio che prende caccia da forze almeno equivalenti a quelle nemiche, sia con un'accurata esplorazione che consenta di avere libertà d ' azione. Con queste esigenze la protezione diretta dei convogli di sbarco riesce assai difficile c richiede forze assai superiori a quelle nemiche; perciò "o si sarà in grado di esplicare un 'efficace protezione indiretta, oppure sarà in generale conveniente attendere il momento, in cui ciò sarà consentito dai risultati della lotta per il dominio marittimo". In altre parole, tale protezione indiretta è ottenuta "con il dominio del mare de/ìnitivo o almeno temporaneo nella zona che i convogli devono attraversare". E poiché la distruzione del nemico non può mai essere completa, essa finisce sempre con l'essere esercitata mediante il blocco o obbligando a battaglie con successo le forze nemiche. La protezione dei convogli e quella delle comunicazioni delle truppe sbarcate presentano un diverso grado di difficoltà. La prima si svolge in circostanze più difficili, perché si tratta di far arrivare un gran numero di navi in un solo punto del litorale; perciò la dispersione è fatale e il pericolo è grande, specie se il dominio del mare non è completo. Una volta che si è stabilita una base sul litorale ipericoli diminuiscono, perché le comunicazioni possono essere mantenute anche con navi che arrivano successivamente, e in una situazione di dominio del mare contrastato. Le Riflessioni sulla strategia navale fin qui esaminate, vanno completate con altre riguardanti principalmente (ma non esclusivamente) la correlazione terrestre-marittima e il rapporto tra strategia e storia, che il Bernotti compie nel citato articolo Potenza militare degli Stati, nel quale, tra l'altro, polemizza con il Vecchj e con alcuni scrittori terrestri. All'opposto dal Vecchj afferma che Napoleone ha fatto bene a stabilire la matematica "come pietra fondamentale dell 'istruzim1e militare", perché i grn.ncli uomini non sono degli indovini né dei
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beniamini della fortuna, bensì meglio degli altri sanno ragionare con metodo razionale. Anche il cosiddetto "buon senso" deriva da una naturale attitudine a ben ragionare, perciò "lo studio delle scienze positive fa acquistare l'abitudine a giudicare in modo retto". Bisogna solo evitare degli eccessi nell'applicazione del metodo matematico e non limitare gli studi alle scienze esatte, fermo restando che "gli studi più utili per i militari sono quelli che meglio abituano ad usare il metodo scientifìco nei problemi di guerra". In secondo luogo (proposizione - va osservato - estremamente logica ma disattesa per tutto il XX secolo e oltre) "se ognuno ammette che fra le operazioni in terra e in mare debba esistere accordo, e che generali e ammiragli debbano avere comunanza d'idee, deve chiedersi: bisogna proprio aspettare ad essere generali ed ammiragli per acquistare queste idee? No, di sicuro: perciò gli u:f]ìciali dell 'esercito non devono intieramente trascurare le cose della marina, e quelli di mare hanno bisogno di formarsi giusti concetti sulle operazioni terrestri. È ovvio dire che ciò che si insegna nelle scuole non può bastare, come pure che gli ufficiali dell'esercito devono andare assai cauti nel giudicare le cose di marina; e viceversa". Secondo il Bemolli nell'impiego delle forL.e navali gli ufficiali di marina danno agli studi storici un'importanza minore di quella che ad essi attribuiscono gli ufficiali dell'esercito: questo si spiega col fatto che "in terra i progressi delle armi, le ferrovie, l'accrescimento del numero dei combattenti, derivante dall'affermarsi dei principi di uguaglianza e di libertà, non hanno prodotto alterazioni così radicali come sul mare. [ ... )Il grado d'importanza della storia militare dipende dai cambiamenti che succedono nelle condizioni sociali e nei mezzi guerreschi". Che dire di queste idee? Il minor rilievo dei mutamenti attribuito dal Bernotti alla strategia terrestre è assai discutibile; lo dimostrerà la grande guerra. In realtà i precedenti storici non vanno mai trascurati né per la guerra terrestre né per la guerra navale, sempre che siano correttamente studiati e non ci si limiti all'histoire-bataille, in tutti i casi evitando di attribuire loro a priori un peso che non possono avere, e che è sempre di valore variabile. Lo dimostra, del resto, lo spirito e la lettera delle precedenti teorie del Bemotti; lo dimostrano in particolare le riflessioni che accompagnano le sue tesi, valide in ambedue i casi e in una prospettiva interforze: la scienza della guerra può dividersi in due grandi parti, di cui l'una ricerca le leggi che regolano lo sviluppo e l'influenza del potere militare, considerato come fenomeno sociale; l'altra parte studia i principii de l modo di guerreggiare (preparazione ed azione). L 'applicazione dei principi, che per necessità segue vie diverse secondo le circostanze, costituisce l'arte della guerra. l principi variano con i mezzi d 'azione del potere militare; il metodo acconcio per la loro determinazione è per conseguenza quello fondato sul ragionamento, ossia il metodo nazionale, che può trarre aiuto dalle indagini storiche, dando un peso conveniente alle analogie, che esistono tra i mezzi passati e presenti. [ ... ] La preparazione all 'arte della guerra deve naturalmente procedere di pari passo con lo studio dei principi scientifici, svolto con il me-
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todo razionale ora detto. In questa operazione non si cerca di dedurre della considerazione di molti fenomeni leggi e principi; con l'accurato esame di numerosi/atti (metodo storico) si tenta di rendere agile la mente alla soluzione dei problemi complessi e svariati che la guerra presenta [quest'ultimo è un concetto clauscwitziano - N.d.a.].
Da queste parole si deduce che il peso della storia militare è variabile in ambedue i campi d'azione, quindi non si può assiomaticamente e dogmaticamente affermare che esso è maggiore in uno di essi; tutto dipende dal momento e dal tipo di problema (i problemi sono tanti) al quale detto campo va riferito. Per fare un esempio pratico, la linea di fila, l' importanza del cannone, i metodi nelsoniani di leadership, al momento (cioè pochi anni prima della battaglia di Tsushima) erano forse passate di moda? Non lo saranno fino alla seconda guerra mondiale. Il Bemotti afferma poi che nello stabilire le modalità per la correlazione terrestre e marittima il passato insegna ben poco. Opinione anch ' essa discutibile, perché - come sempre - si tratta di stabilire a proposito di che cosa e per quale esigenza ciò avviene, tenendo presente che anche in passato (basti ancora ricordare la guerra di Spagna 1808-1813 contro Napoleone, le imprese coloniali, e più in generale la tradizionale strategia inglese) le forze navali ben impiegate non hanno mai condotto guerre totalmente "indipendenti". Sono, invece, meritevoli di più attenta valutazione le considerazioni del Bemotti sullo sviluppo politico-sociale cd economico dei popoli, che li rende vulnerabili sia moralmente sia economicamente: nel primo caso, specie ma non solo con azioni di bombardamento a scopo puramente terroristico dal mare sulle principali città costiere, trascurando le fortezze e le installazioni militari; nel secondo caso, interrompendo il traffico marittimo. Sempre per il Bemotti i bombardamenti delle coste sono utili specialmente nel periodo iniziale della guerra, quando è ancora in corso la mobilitazione dell'esercito; pertanto in questa fase le forze navali hanno il compito di ritardarne la mobilitazione e il trasporto alJe frontiere, causando gravi danni con l'interruzione delle ferrovie litoranee, particolarmente importanti per l'Italia; inoltre devono "causare p erturbazioni economiche e morali nella nazione avversaria, per preparare la fase risolutiva della guerra". Superfluo ricordare, in proposito, l'analogia con le teorie della Jeune École e la divergenza dalle idee del Bonamico, visto che per il Bemotti queste tipo di azioni "lungi dallo stimarsi inutili crudeltà sono da ritenersi necessarie, perché sono proficue e poco rischiose". In questa prima fase - prosegue il Bemotti - non si può pensare a sbarchi su scala ridotta di qualche migliaio di uomini che non otterrebbero alcun risultato e creerebbero situazioni pericolose per le navi. D ' altro canto i grossi sbarchi sono impossibili, perché i presupposti per il loro successo sono l'esuberanza delle forze terrestri per la difesa nazionale e la padronanza del mare; "ma queste condizioni possono verificarsi solo nella Jàse risolutiva della gue rra" [affermazione discutibile: chi può escludere che tali condizioni pos-
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sano verificarsi anche all'inizio o guerra durante, in una fase non risolutiva? N.d.a.]. Poiché gli obiettivi principali sono gli abitati, le fortificazioni costiere "sono un metodo di protezione più immaginario che reale", utile solo per la difesa di centri vitali per la marina o per proteggere talune industrie particolarmente importanti. Per il Bemotti lo sviluppo industriale ed economico e lo straordinario aumento dei legami tra i popoli rendono molto remunerativo anche l'attacco alle linee di comunicazione marittime di un Paese con il resto del mondo (alle quali invece - va ancora ricordato - il Bonamico attribuisce scarsa importanza): infatti per valutare l'importanza delle offese contro queste linee, e la loro influenza sulle operazioni terrestri, devesi considerare che la parte più grande del traf: fico segue la via del mare, che è la più a buon mercato, e la più.facile in tempo di pace; e che quale base di operazione dei numerosi eserciti odierni non si può più ritenere una località e nemmeno una regione, ma tutto il territorio nazionale. La strategia.fu altra volta definita la scienza delle linee di comunicazione; questo concetto è senza dubbio molto ristretto, ma noi dobbiamo peraltro riflettere che con l'ingrossare delle masse di truppa si è accresciuta, in un modo non giustamente apprezzabile per mancanza di esperienza, l'entità delle offese dirigibili contro quelle linee, che possono produrre l'esaurimento della base [...]. Questa entità varia secondo i Paesi, e con le loro risorse; a parità di altre condizioni, evidentemente essa è massima per la forma insulare.
In sostanza anche sui criteri strategici per la difesa delle coste70 il Bemotti segue una linea sostanzialmente conservatrice, attribuendo a torpediniere e sommergibili un'importanza assai inferiore alle loro possibilità del momento, e anche in questo caso lasciando alle navi da battaglia un ruolo determinante. A suo parere la difesa costiera si dimostra essere la risultante di molteplici elementi; 11011 la torpediniera, non il sottomarino, non la torpedine da blocco, né le.fortezze soltanto risolvono il complesso problema; elemento predominante restano le squadre di navi da battaglia, impiegate in base al principio che non sempre conviene la concentrazione delle forze ma che si deve ricercare con tutti i mezzi la concentrazione degli sforzi.
Diversamente dal Bonamico, e in aderenza all'importanza da lui attribuita al bombardamento navale delle città, giudica necessario proteggere anche con la flotta le città costiere. In particolare le squadre di navi da battaglia devono mantenere il contatto con l'avversario, impegnandosi a distanza per disturbare la sua azione contro le coste e sfruttando la loro superiore velocità per evitare
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Bemolli, La di.fesa costiera, in "R.ivi~la Marittima" I Trim. Fase. 1, pp. 37-59.
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la battaglia decisiva voluta dal nemico e per rendere ali 'avversario il danno fatto sulle proprie coste, in modo da "tenere alto il morale della nazione, se non sventare interamente i piani dell'avversario". Le navi più adatte a questo tipo d'azione sono indicate dal Bemotti in modo contraddittorio e irrealistico; in pratica oltre aJla velocità superiore devono avere tutti gli altri requisiti, il che è manifestamente impossibile perché un requisito ottimale non può essere ottenuto che a detrimento degli altri. Infatti, a suo parere per questo sistema di difesa attiva è necessario che sia sviluppato nelle navi anche l'autonomia, in modo da rimediare alla deficienza del numero [... ]. L'importanza del numero è maggiore per il difensore che per/ 'avversario; ne risulta quindi che la ricerca del tipo di nave difensivo può definirsi così: cercare il minimo tonnellaggio in cui è possibile /'accentramento dei/attori offensivi e difensivi, sviluppando al massimo grado le attitudini per la lotta a distanza. Queste attitudini impongono che esista rispetto al/ 'a vversario similitudine di armamento, cioè che non si sia inferiori per calibri; e ciò influisce evidentemente sul dislocamento minimo.
Alla fiducia nelle navi da battaglia anche in questo particolare impiego, corrisponde una sfiducia nelle torpediniere e nelle navi guardacoste se mai più accentuata rispetto al passato. Addirittura [siamo - va ricordato all ' inizio del 1905, poco prima della battaglia di Tsushima] per il Bemolli "sono scomparse le incertezze di un tempo nell'impiego delle torpediniere, quando si credeva nel 'efficacia dell'attacco torpediniero diurno [invece dimostrato dalla battaglia di Tsushima - N .d.a.] e si pretendeva di usare queste navicelle come esploratori di squadra; la pratica ha ormai dimostrato che il compito delle torpediniere sembra ridursi alla d(fesa costiera notturna", da efTettuare per gruppi e per zone e non per piccoli nuclei. La battaglia di Tsushima non ha rivelato alcun impiego utile dei sottomarini/sommergibili; ma il Bernotti concede loro un credito maggiore, visto che "per quanto scarsa fiducia si p ossa avere sul/' ef.fìcienza attuale e anche su quella futura dei sottomarini. non si può negare loro un elevatissimo valore per l 'infl,uenza morale derivante dalla possihilità della loro azione silurante diurna". Se, poi, le caratteristiche di torpediniere e sottomarini fossero riunite nei sommergibili, quest'ultimi potrebbero concentrarsi di notte e frazionarsi di giorno. Il Bemotti assegna dunque alle torpediniere l'azione costiera notturna e ai sommergibili/sottomarini l'azione costiera notturna. Il compito di scortare le squadre da battaglia è invece da lui riservato ai cacciatorpediniere, che sostituiscono le torpediniere grazie alle loro maggiori doti nautiche e alla loro maggiore velocità, e sono anche in grado di difendere le navi maggiori contro le torpediniere e i sottomarini nemici. Questi tipi di nave, benché armati anche con il siluro, "non possono ascriversi alle siluranti, essendo il cannone l'arma che ne rende logica l'esistenza". Sono inadatti all'esplorazione, e nella difesa costiera potrebbero avere solo il compito di proteggere le torpediniere contro i cacciatorpediniere nemici; perciò siccome nel problema costiero ricerca del
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nemico e protezione delle torpediniere potrebbero essere unificate, "risulta la convenienza di un tipo di vedetta-torpediniera che sia un derivato del cacciatorpediniere col minimo dislocamento compatibile alle cresciute attitudini esploratrici" [nave mai costruita in Italia e altrove - N.d.a.]. In sostanza il Bemotti diverge su punti importanti sia dal Bonamico che dal Mahan, ritenendo più redditizia la protezione indiretta delle coste da parte delle squadre di navi da battaglia, escludendo la convenienza di costruire navi speciali (guardacoste) per la difesa costiera, attribuendo un limitato rendimento alle fortificazioni costiere invece ritenute necessarie dal Mahan, e soffermandosi alquanto sulla dimostrazione - smentita dagli eventi successivi - che una flotta che attacca le coste è in vantaggio sulle difese fisse e mobili delle coste stesse. Ammette tuttavia - in contraddizione con altre parti della sua opera - che "la necessità di essere in grado di misurarsi con l'avversario in battaglia campale decisiva non può essere, dal partito della difesa, stabilita come determinante del limite minimo delle forze" [come invece pensano i "navalisti" dell'epoca - N.d.a.]. Sulle offese costiere e sull'attacco alle comunicazioni marittime il Bemotti polemizza con il capitano Ottolenghi e il maggiore Cavaciocchi (due nomi destinati a emergere nell'esercito)_ Il Cavaciocchi non attribuisce alcuna importanza ai bombardamenti costieri (tesi per la verità confermata dalle due guerre mondiali) e ritiene (questa volta a torto) che per la flotta più debole sia sufficiente mantenersi allo stato potenziale per impedire senza combattere l'azione di quella avversaria, "costretta a procedere riguardosa fino al momento in cui la vittoria decisiva non le abbia assicurato il dominio del mare". Come si è visto, il Bemotti dal canto suo giudica l'offesa alle coste remunerativa, ironizza sul tennine "riguardosa" e afferma che una flotta non può rinunciare a combattere per il dominio del mare, rinunciando cosi anche al la protezione dei centri vitali del Paese_ Sottolinea poi che le navi destinate alla guerra di crociera pur privilegiando la velocità devono essere in grado di combattere contro lenavi fortemente armate e corazzate del nemico, e che la guerra di crociera non può essere condotta senza essere sostenuta da un adeguato potere navale. Su questo punto si scontra con il capitano Ottolenghi, per il quale è possibile condurre una guerriglia marittima analoga a quella al momento adottata contro l'esercito inglese dai Boeri, che "li hanno punzecchiati, tormentati in tutti i modi possibili, senza mai impegnarsi con loro nella lotta"_ Egli obietta che sul mare - grande pianura uniforme - non è possibile punzecchiare e tormentare il nemico e sono possibili sorprese solo di notte con le torpediniere, che hanno le note limitazioni "aspettando i progressi dei sottomarini"_ Affermazioni in parte discutibili: la sorpresa, anche di giorno, è possibile almeno nei passaggi ristretti, nei canali ecc., mentre i requisiti del naviglio da lui pretesi sono contradditori e difficili da realizzare. È comunque apprezzabile la sua precisazione che la velocità deve avere un valore diverso da nazione a nazione e appare fondato anche un altro suo attacco al Cavaciocchi, il quale vorrebbe che, mentre le navi maggiori rimangono allo stato potenziale, le navi minori non atte a
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combattere in linea con le corazzate "corrano il Mediterraneo e l'Atlantico alla caccia delle navi mercantili dell'avversario". Per ultimo il Nostro esamina nel dettaglio le interdipendenze operative tra esercito e flotta, dalle quali risultano chiare vecchie verità, come l'assurdità strategica di una guerra indipendente, la scarsa convenienza del potenziamento unilaterale dell'una o dell'altra Forza Armata, i reciproci condizionamenti. In pratica se la guerra terrestre subisce uno stallo e rimane indecisa, è alla marina che può essere affidato il compito di risolvere la guerra, sempre che essa sia adeguatamente sviluppata e che vi sia [caso molto raro - N.d.a.] un esubero delle forze terrestri sufficiente per tentare con successo una spedizione marittima; al contrario, se la marina non è in grado di contrastare efficacemente il dominio del mare, è la marina nemica che ha la possibilità di rompere l'equilibrio a suo vantaggio, e in questo caso l'esuberanza di forze terrestri non è sufficiente. Quindi per il Bemotti è "insufficiente" l'aforisma del Gucrrini che "il dominio del mare è specialmente utile e quindi da ricercarsi quando si hanno molte forze terrestri": ad esso va aggiunto che " il dominio del mare è indispensabile in certe condizioni del litorale, specialmente quando si hanno poche jòrze terrestri'', tenendo presente che esistono ce1te condizioni del litorale che lo rendono difendibile solo dal mare, e che l'esercito non basta per la difesa delle coste. In ogni caso, il sistema di difesa delle coste con batterie costiere disposte a distanza di cannone l'una dall'altra [mai proposto da alcuno in Italia - N.d.a.] per il Bemotti è troppo dispendioso e non merita nemmeno di essere discusso. Ne consegue uno scambio di lettere polemiche tra il Cavaciocchi e il Bernotti. In una lettera del 190271 il primo, ormai tenente colonnello, ribatte accusandolo (a torto) di non aver dimostrato a sufficienza la convenienza e I' efficacia del bombardamento di grandi città, nega di aver affermato che unajleet in being debba rimanere passiva e precisa - in modo per la verità non convincente - che l'aggettivo riguardoso da lui usato va riferito alla flotta contrapposta a quella in being. la quale deve evitare frazionamenti non necessari anche per bombardare. In proposito cita le istruzioni di Napoleone al comandante della squadra francese del Mediterraneo, anche per dimostrare che "infàtto di guerra navale la storia può avere importanza maggiore di quella che ad essa attribuisce il Bemolli, purché, ben inteso, sia studiata con discernimento". Riguardo alla guerra di corsa da lui suggerita per le navi minori (incrociatori protetti) non più atte alla guerra di squadra, il Cavaciocchi ricordando l'esempio della corvetta prussiana Augusta nel 1870-1871 ribadisce che contro i mercantili nemici esse "saranno sempre più che ejf ìcad', e comunque arrecheranno al nemico danni maggiori di quelli che potrebbero produrre i cannoni contro le nostre città. Infine, della vulnerabilità dei trasporti ferroviari lungo le coste prosegue il Cavaciocchi - noi non ci preoccupiamo: perché dovrebbero preoc-
71
In "Rivista Marittima" 1902, I Trim. .Fa:;c. l , pp. 106- 1IO.
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cuparsene tanto gli uomini di mare? Sulla regolarità dei trasporti di mobilitazione incidono altre cause; e il guadagno di qualche giorno nella radunata completa non ha nessuna importanza. Nella lettera di risposta72 il Bernotti ricorda di avere dimostrata ad abundantiam che, diversamente da quanto afferma il Cavaciocchi, l'offesa alle città costiere non è trascurabile, e che la protezione dei centri vitali del Paese costringe la flotta più debole ad abbandonare lo stato potenziale; in tal modo la flotta più forte raggiunge lo scopo di obbligare il nemico a battersi per il dominio del mare [ma allora, a che servono le molte manovre strategiche suggerite dal Bemotti per chi è più debole? - N.d.a.]. Aggiunge anche di non aver mai pensato di suggerire per la flotta più forte distaccamenti non necessari, e/o di includere fra i riguardi da usare, quello di non mantenere il contatto strategico. A suo parere, la lettera di Napoleone citata dal Cavaciocchi non fa che suggerire di battere il nemico alla spicciolata, concetto vecchio come il mondo; ma non indica la necessità di mantenere il contatto strategico, "il cardine dell'impiego di una }lotta moderna allo stato potenziale", che non può essere dedotta dallo studio della storia del periodo velico. Gli incrociatori protetti prosegue il Bcmotti - mancano dei due requisiti essenziali per la guerra di corsa, cioè la velocità e l'autonomia; perciò non possono competere con gli incrociatori corsari. Riguardo alla vulnerabilità delle ferrovie costiere, "co,ifesso di non capire in qual modo non sia un male essere costretti a rinunciare a una parte delle.ferrovie, e come non si abbia interesse a guadagnare qualche giorno nell'adunala completa". Si può osservare che il Cavaciocchi si arrampica sugli specchi a proposito dell'aggettivo riguardoso, che da quanto egli stesso scrive non può non riguardare anche la flotta inferiore in being, la quale di per sé stessa limita la libertà d ' azione della flotta superiore anche contro le coste, come si deduce da quanto afferma lo stesso Bemotti a proposito dei vantaggi del dominio del mare. Indubbiamente gli incrociatori protetti hanno gravi limiti anche nella guerra di crociera, e la loro azione sarebbe efficace solo contro navi mercantili non scortate e a poca distanza dalle loro basi. Dal canto suo il Bernotti sopravvaluta l'importanza del bombardamento navale delle città e trascura che, per provocare danni sensibili, occorrerebbero molte navi, molte, troppe munizioni e tempi d'azione prolungati; ciò non toglie che le sue argomentazioni e quelle della Jeune École precedano le altre - anch'esse esagerate - di Douhet sugli effetti morali decisivi del bombardamento aereo delle città. Anche la pretesa del Bemotti che dalla storia possa essere tratto un particolare come la necessità di una squadra di contatto appare eccessiva, pur inducendo il lettore a chiedersi da dove, se non dall ' analisi delle esperienze precedenti, ha tratto le sue idee sulla squadra di contatto, che peraltro - come da lui stesso ammesso - sarà per la flotta più debole tutt'altro che facile da costituire e impiegare.
72
In "Rivista Marittima" 1902, I Trim. Fase. a, pp. 312-314.
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m SQUADRA E GUERRA DI CROCIERA:
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L'interruzione dal mare delle ferrovie costiere, anche con nuclei di sabotatori, nelle guerre del XX secolo non è mai stata tentata con un certo successo; su questo punto, quindi, in base all'esperienza storica ha più ragione il Cavaciocchi che il Bernotti. lnfine ambedue hanno torto quando a proposito della guerra di crociera non distinguono tra la Francia da una parte, e l'ltalia e l'Inghilterra dall'altra. Al momento specie nel Mediterraneo l'attacco al traffico mercantile sarebbe assai poco dannoso per la Francia o l'Austria, ma già estremamente dannoso per l'Italia; il massimo rendimento di questa forma d'azione sarebbe ottenuto attaccando in Atlantico il traffico inglese. Su questo punto il Cavaciocchi ha perciò torto a parlare di impiego dei nostri incrociatori . con ridotta autonomia e senza basi - addirittura in Atlantico. Nel 1904 il Bemotti polemizza anche con il capitano (poi generale nella prima guerra mondiale e Ministro della guerra nel 1924-1925) Antonino Di Giorgio, il quale sul giornale L'Ora di Palermo ( 13-14 dicembre 1903) aveva scritto che, poiché le navi non imbarcano artiglierie a tiro curvo e dovrebbero svolgere un'azione di fuoco di soli dieci minuti, contro una città edificata in piano come Palermo potrebbero colpire solo le case costruite sulla marina con fronte al mare, mentre le altre rimarrebbero defilale e sicure. Il Bemolli attacca questa tesi in una lettera sulla guerra russo-giapponese, definendola un' affermazione infondata di coloro che desiderano tranquillizzare le popolazioni delle nostre città litoranee. 73 Il Di Giorgio gli risponde sulla Rivista Marittima 74 confermando quanto prima scritto, perché per battere in così breve tempo la città le navi nemiche dovrebbero accostare al le minime distanze, sparando quindi con traiettorie molto radenti; contesta inoltre la pretesa del Bernotti di far avanzare un corpo russo di I 00.000 uomini su una sola cattiva strada in Corea, con una media di 30 km al giorno. Quest'ultimo replica ironicamente che quanto sostiene il Di Giorgio sui bombardamenti sarebbe valido, solo se per bombardare le navi dovessero attraccare a una banchina circondata dappresso da altri edifici. 75 In quanto alle distanze, precisa che per definire il minimo spazio di tempo nel quale la flotta russa nella guerra russo-giapponese avrebbe dovuto garantire il dominio del mare, ha considerato la velocità di marcia massima giornaliera possibile delle truppe (30 km) nelle migliori condizioni, "dato ammesso da tutti" . Una polemica significativa, perché dimostra che al tempo gli scrittori terrestri e navali se non altro si parlano, si confrontano, nonostante la palese, reciproca incompetenza nelle strategie dell ' altro campo. Sulla problematica dibattuta probabilmente il Di Giorgio ha torto (basta aumentare l'angolo di sito dei cannoni per colpire anche le abitazioni lontane dal mare) ma anche il Bcmotti ha torto, essendo del tutto approssimativi e insufficienti i dati di base da lui citati, forse più attendibili per unità di forza minore e con migliori
73
ln "Rivista Mariuima" 1904, I Trim. Fase. III, p. 581. ln "Rivista Marittima., 1904, II Trim. Fase. V, p. 412. " In "Rivista Marittimo" 1905, I Trim. Fuse. I, pp. 106 107.
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comunicazioni stradali: occorre infatti considerare soprattutto il peso dei rifornimenti, delle artiglierie, dei carriaggi ecc. su quell'unico itinerario, non essendo manifestamente possibile attingere alle risorse locali per tanti uomini, né essendo corretto considerare il movimento dei soli uomini a piedi. L'ultima opera del Bemotti prima della guerra, i Fondamenti di strategia navale ( 1911 ),76 non è che una sintesi degli studi strategici precedenti, con accentrazione degli elementi mahaniani e di conseguenza, ulteriore diminuzione delle chances della difensiva e dei vantaggi della guerra di crociera, sì che se ne potrebbe dedurre: guai alla flotta più debole! La difensiva strategica non ha più pari dignità rispetto all'offensiva strategica, bensì "devesi considerare razionale un 'unica forma di gu,erra", che è la lotta per il dominio del mare; "in altri termini la difesa e l'attacco al commercio, la protezione e l'attacco delle spedizioni marittime, le operazioni di attacco e di difesa delle coste non sono logicamente da adottarsi come forme distinte della gu,erra navale, bensì come operazioni subordinate al contrasto fra le forze da battaglia".77 Per il Bernotti una flotta belligerante ha il dominio o la padronanza del mare in un certo bacino di operazioni quando le forze nemiche da battaglia ne sono assenti oppure sono annientate o paralizzate, tenendo presente che la paralizzazione di una forza navale può verificarsi: 1°) per impossibilità materiale di prendere il largo in virtù dei danni subìti, o per ostruzione de/1'uscita del porto in cui le navi si trovano (imbottigliamento); 2°) perché una forza navale superiore mantiene il blocco, ossia ha grande probabilità di stabilire il contatto tattico prima che la flotta bloccata raggiunga il suo obiettivo. Una flotta che non sia paralizzata può trovarsi, rispetto al dominio del mare, nelle situazioni seguenti: 1°) Dominio contrastato, quando nello stesso bacino [ambedue] le forze belligeranti sono libere dei loro movimenti; 2°) Dominio temporaneo, quando non si puù impedire l'arrivo del nemico [che quindi è assiomaticamente superiore - N.d.a.] nel bacino delle operazioni, però la sua lontananza garantisce la tranquillità per un certo tempo; 3°) Dominio conservabile, quando si ritiene di poter conservare la padronanza del mare; è questo il caso in cui le forze nemiche sono paralizzate oppure sono assenti, ma si ritiene di poter impedire il loro arrivo nel bacino di operazioni cui ci riferiamo mediante una forza navale mantenuta in posizione dominante l'entrata [ma perché non si prevede di batterle, se ciò non è possibile o sufficiente? - N.d.a.].78
Suddivisione discutibile: il dominio contrastato non assicura affatto la libertà di movimento ad ambedue i contendenti, ma al contrario la rende relativa e soggetta caso per caso a valutazioni della situazione; il dominio tempora-
76 Livorno, Giusti 1911. Recensione di capitano di fregata Angelo Frank in "Rivista Marittima" 1911, IV Trim. Fase. X, pp. 163- 170. 11 ivi, p. 18. 78 ivi, pp. 3-4.
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neo è soggetto anche all'effettiva disponibilità di mezzi propri, oltre che altrui; il dominio conservabile dipende semplicemente da un rapporto di forze molto favorevole. Più in generale a "dominio" si potrebbero sostituire termini meno assoluti come "controllo" o "superiorità", anche perché riferire il dominio del mare a un solo bacino, come fa il Bemotti, non sempre e in ogni caso è opportuno e significativo: se ad esempio i bacini sono contigui, sono possibili per ambedue i contendenti rapidi spostamenti di forze, né esiste sempre la possibilità e convenienza di sbarrarne l'accesso. Da notare, infine, che nonostante i loro progressi di anno in anno, il Bernotti mantiene anche nel 1910 la sua vecchia idea che torpediniere e sommergibili sono mezzi utili solo per la difesa mobile locale; comunque essi "costituiscono indubbiamente un rischio notevole per l 'attaccante, ma non mai però così grande da impedire le operazioni con navi da battaglia, data la scarsa probabilità di colpire col siluro le navi in moto, specialmente se sono a velocità elevata". 79 Affermazione ben presto smentita dagli eventi ...
ln sintesi L'opera del Bemotti, pur innalzando al pari del Bonamico l' importanza della difensiva strategica per una flotta inferiore c della correlazione terrestre-marittima, parallelamente - e contraddittoriamente - fa del dominio del mare la conditio sine qua non per effettuare con successo qualsivoglia operazione di un qualche rilievo sul mare, omettendo l'esame di una situazione di dominio del mare nella quale, anche dopo un conflitto prolungato, nessuno dei due contendenti è in grado di conquistare una superiorità definitiva, situazione che alla luce dell' esperienza storica del XX secolo - ancbe per sua successiva ammissione - si è rivelata la più frequente. Come già accennato, l'esperienza storica del XX secolo non ba confermato nemmeno la sua fiducia nell'efficacia del bombardamento terroristico iniziale delle città costiere, e nelle possibilità di un'azione offensiva contro le coste, nella quale giudica la flotta attaccante assiomaticamente in vantaggio rispetto alle difese fisse e mobili costiere. Ciononostante lo studio da lui condotto sulla casistica d'impiego strategico di una flotta inferiore fornisce spunti interessanti e pregevoli, se non altro perché è l'unico del genere. Non tiene però sufficientemente conto delle contromanovre avversarie, per quanto siano difficili da ipotizzare. Anche per questa ragione su questo argomento il Bernotti cade in quello schematismo e meccanicismo che ba sempre cercato di combattere, oltre tutto assegnando alle navi da battaglia un ruolo attivo e sempre e in ogni caso cruciale anche nella difensiva strategica, senza tener conto - come fanno il Bonamico e il Sechi - che a tale fonna di lotta sono costrette appunto le marine inferiori, che per ragioni prima di tutto economiche non possono certamente permettersi di disporre di questo costoso tipo di navi in numero sufficiente per le manovre da lui sugge-
79
ivi, p. 17.
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rite, anche a prescindere dall'improponibile conquista del dominio del mare, per la quale possono ovviamente lottare solo le marine dominanti. A ben guardare la soluzione di continuità strategica rispetto al periodo della vela anche da lui decisamente sostenuta non sembra dimostrata da quanto poi scrive, non solo per la sua scarsa fiducia nei minori mezzi (torpediniere e sommergibili) e nelle mine. Come nel periodo della vela la strategia - come da lui affennato - serve a creare le migliori condizioni per lo scontro con il nemico e può essere offensiva o difensiva; come nel periodo velico rimane bene in vita il principio dellajleet in being, al quale anch'egli tributa i dovuti omaggi; come nel periodo velico, e sempre come da lui sostenuto, la guerra di squadra e la guerra di crociera sono le due forme d'impiego strategico fondamentali, e anche il blocco - benché più difficoltoso per il bloccante - non è da escludersi. Gli sbarchi di grossi contingenti di truppe nel periodo velico benché non impossibili erano più difficoltosi, ovviamente a causa della più accentuata dipendenza dalle condizioni meteo; ma anche col vapore, nonostante i timori del Bonamico, del generale Ricci (cfr. Tomo l, cap. I) e di larga parte degli scrittori navali, essi sono stati tutt'altro che frequenti. Comunque - fatto più volte sottolineato, ma non rilevato dal Bemotti - nella guerra ci no-giapponese le truppe giapponesi sono sbarcate sulle coste nemiche senza che la flotta cinese fosse distrutta, e benché fosse rimasta in being; questo avrebbe dovuto indurlo almeno a non sacrificare troppo al culto del dominio del mare. Alla luce del quadro da lui tracciato della guerra marittima, senza dubbio più complesso e meno dogmatico di quello nelsoniano e quindi mahaniano, verrebbe perciò da chiedersi e da chiedergli, visto che taluni principi ereditati dal periodo velico per lui non vanno bene: ne esistono altri che li sostituiscono? Quali sono? Hanno lo stesso ruolo? Come laJeune École, anch'egli lascia questi interrogativi di base senza risposta esaustiva. Ila comunque il merito di mettere l'accento - diversamente dal Bonamico e come il Corbett - sull'importanza del traffico marittimo per le moderne nazioni industriali, oltre tutto per armare e alimentare i grandi eserciti che ormai si prevede di costituire in caso di guerra; ma anche in questo caso sbaglia mahanianamente indicando il dominio del mare come premessa per effettuare i convogli, escludendo la convenienza della scorta diretta ai convogli stessi e presentandone attacco e difesa come soluzioni ugualmente dispendiose: sarà anche vero, ma se la loro importanza - come egli stesso ammette - è vitale, allora si tratta di un'esigenza primaria che come tale va in ogni caso fronteggiata da ambedue le parti, nei limiti del possibile e con il naviglio più adatto. A proposito di naviglio, è certamente vero che il naviglio leggero destinato ad attaccare i convogli avrebbe bisogno del sostegno delle navi di linea, così come quello di scorta; ma le predette navi maggiori non sono così numerose da poter essere onnipresenti, senza contare che distaccarne qualcuna per le esigenze della guerra dei convogli significa indebolire la squadra, cosa che avviene, per la verità, anche per gli incrociatori e il naviglio leggero. È dunque una ques6one di scelta, in base a una situazione operativa che può mutare ra-
VI - TRA GUERRA DI SQUADRA E GUERRA DI CROCIERA: LA TEORIA STRATEGICA
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dicalmente anche in breve tempo. Per questa ragione, come già accennato il concetto di dominio del mare ristretto a un solo teatro di operazioni è double face: da una parte denota relativismo e flessibilità nell'approccio del Bemotti, ma dall'altra non tiene sufficientemente conto della possibilità- tutt'altro che remota - che i teatri d'operazioni siano contigui, e che quindi data la velocità del moderno naviglio possano avvenire poco prevedibili travasi di forze in tempi ristretti, sia da una parte che dall'altra. Se in tutti i casi il dominio del mare è tanto importante, allora la costante esaltazione della velocità da parte del Bemotti è contraddittoria: una flotta inferiore, anche se tale, dovrebbe forse ricercare e battere la flotta nemica sviluppando al massimo anche protezione o armamento? Contraddittoria appare anche la sua successiva precisazione che il naviglio oltre ad avere una velocità superiore a quella del naviglio nemico, deve avere anche protezione e armamento tali da poter di affrontarlo con vantaggio. Viene da chiedersi: se è così, si deve forse tornare alla nota formula del Saint Bon e del Brin, visto che non si tratta più di evitare - come sosteneva il Bonamico - la battaglia ma di essere pronti a combatterla? e che dire della formula dell' incrociatore corazzato o da battaglia, sostenuto in altre parti dallo stesso Bonamico? Infine la correlazione terrestre-marittima, caldeggiata con tanta forza dal Bemotti, può anche non richiedere la conquista assiomatica del dominio del mare, oppure criteri d' impiego, quantità e qualità delle forze nava li che prescindono dai canoni della guerra marittima indipendente, o comunque da so1uzioni autoreferenziali basata sul puro confronto con la flotta avversaria. Evidentemente può, anzi deve avvenire il contrario, cioè una fisionomia e un impiego strategico delle forze terrestri che siano in armonia con quelli della flotta. In merito si è potuto constatare che sia il Bemotti, sia gli ufficiali dell ' esercito con i quali dibatte taluni problemi, commettono errori abbastanza vistosi quando si tratta dell'impiego dell'altra Forza Armata; viene perciò molto a proposito la sua proposta di dare agli ufficiali anche di grado inferiore una preparazione interforze, che evidentemente si acquisisce alle scuole e nel corso della carriera, non quando si è raggiunto il vertice. Su li ' importanza delle scienze esatte e nella scarsa utilità della storia c'è da discutere: tutto dipende più specificamente da che cosa si insegna e da come si insegna. In linea generale, studi scientifici e studi umanistici devono equilibrarsi, ma non escludersi a vicenda. E a proposito della storia ( e anche della strategia), anche in base a ciò che afferma il Bemotti, appare chiaro che l'insegnamento di queste materie deve avere un' impostazione interforze, tenendo sempre presente - cosa che non fa il Bernotti - che gli ammaestramenti più validi si traggono non solo dall' histoire-bataille in sé, ma anche da come viene vissuta, studiata e commentata, in una parola: anche da l pensiero militare, specie ma non solo se si tratta di strategia. Senza dubbio nell'opera del Bernotti si riscontrano - come avviene per tutti gli autori - luci e ombre; ma anche in questo caso le luci superano di gran lunga ombre e lo collocano al posto d 'onore nel pensiero navale accanto al Bo-
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namico e al Sechi. Posizione ancor più rafforzata dai corposi suoi studi fino alla seconda guerra mondiale e oltre80 e non scalfita dalle contraddizioni che prima abbiamo constatato, le quali - senza con ciò essere indulgenti- sono da attribuire molto probabilmente al carattere scolastico, quindi ufficioso di taluni suoi scritti e al suo umano desiderio di non collidere troppo con gli orientamenti ufficiali, senza dubbio ispirati - nella marina italiana come in altre - alle teorie mahaniane, specie là ove ne emerge la necessità propagandistica (mirante ad aumentare le esigenze finanziarie della marina) di conquistare assiomaticamente il dominio del mare con una guerra offensiva e un nucleo principale di navi da battaglia, senza dare troppo peso ai sistemi di arma chiamati dopo la prima guerra mondiale "mezzi insidiosf', che specie nella guerra sul mare italiana delle due guerre mondiali saranno protagonisti più delle corazzate.
Gli "aforismi di guerra marittima" dello Stato Maggiore Marina (maggio 1915) Nel maggio 1915 - cioè all'entrata in guerra - la Rivista Marittima pubblica gli "Aforismi di guerra marittima" dello Stato Maggiore Marina, finora mai ricordati da nessun storico anche se sono lo sbocco finale e ufficiale del dibattito tra Lissa e l'inizio della grande guerra.R 1 Li riportiamo integralmente: STATO MAGGIORE DELLA MARINA
Aforismi dì guerra marittima 1. -Ardisci sempre, ma non arrischiare mai, se il rischio accortamente tentato non ti riprometta un conveniente compenso.
***
2. - Cogli l'occasione, non ti.fidare di crearla.
*** 3. - Cerca nella fortuna l'aiuto, ma ti sia di guida il tuo accorto pensiero.
***
4. - Nel rischio ti guidi la fredda ragione, non la fiducia nella fortuna.
* *. 5. - Pondera accortamente, esegui rapidamente. 6.
***
La mente del Capo prepara la vittoria, l'ordine e la disciplina di chiesegue la dànno.
•** 80 Si veda, in merito, il Nostro La guerra marittima e aerea secondo Romeo Bemolli, Roma, Forum di Relazioni Internazionali 2000 (riferito al periodo tra le due guerre mondiali). Di particolare inlportan7a le voci di interesse strategico navale compilate dal Bemotti sull ' "Enciclopedia Italiana" trn le due guerre mondiali e nell'Appendice 1948 della predetta Enciclopedia. 81 In "R ivista Marittimn", Il Trimestre 1915, Fase. V, pp. 181-183.
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7. - La precisione degli ordini è la più grande garanzia di perfetta esecuzione.
*** 8. - L'ordine sia il /rutto di matura riflessione. che illumini e guidi chi deve prontamente e fedelmente eseguire.
*** 9. - Gli errori del nemico non diano mai illusione e rassicurazione, ma accrescano la circo:;pezione e la tenacia.
*** 10. - Pensate sempre che il nemico conosca le vostre azioni ed intenzioni e circondatele perciò sempre di tutto il maggiore accorgimento a occultarle e protegger/e.
*** 11. - Ritenere sempre il nemico capace di tutte le astuzie e di tutli gli stratagemmi e studiate di ritorcerli a suo danno.
*** I 2. - Attribuite sempre al nemico il maggior ardimento per essere pronti a superarlo.
*** I 3. - Iniziando lo scontro navale, esso dovrà esser condotto a fu 11do fino a completo conseguimento dello scopo.
*** 14. - Il debole, sopraffatto dal forte più veloce, troverà tafrolta safrcz:.a nc/1'attacco ravvicinato, mai nella ritirata. *** 15. - La vittoria per quanto ottenuta a caro prezzo sarà sempre meno costosa della più economica disfatta.
*** /6.
Non vi lusinghi il huon successo di una azione non decisiva, ma serva a raddoppiare di scaltrezza, d'energia, d'ardimento.
*** 17. - La fede in sé stessi è la più grande forza della riuscita.
*** 18. - Lo spirito aggressivo raddoppia la capacità ojjènsiva.
*** 19. - Nave fem1a od a lento moto in mare aperto, nave in p ericolo.
*** 20. - Nessuna difesa o vigilanza sarà mai eccessiva p er nave a/1 'àncora.
*** 21.
(Per il cannoniere)- Carica celeremente, punta con calma, colpisci con sicurezza.
22.
(Per le vedette)- Veglia e vigila attento, perché nel tuo occhio ben aperto è la salvezza di tutti.
23.
(Per il fuochista) - li cuore della nave arde per te, ma tu sii freddo come il giaccio.
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Oltre che a prestarsi principalmente per la guerra di squadra, i predetti Aforismi sono evidentemente utili anche per tutti gli altri tipi di guerra. TI meno che si possa dire è che essi non spingono affatto i Quadri ad adottare lo spirito della strategia e tattica nelsoniane, poi onorato dalla Royal Navy nel XX secolo. Contraddittorio (para. 1) il consiglio di "ardire sempre ma non rischiare mai", cercando prima "un conveniente compenso" che è molto difficile precalcolare. E perché (para. 2) non ci si dovrebbe fidare di creare un'occasione? perché la fiducia nella fortuna (para. 3) non dovrebbe guidare chi rischia? Anzi, tale fiducia è un prerequisito spirituale indispensabile per il successo ... Perché gli errori del nemico non dovrebbero mai rassicurare (para. 9), ma se mai accrescere la circospezione e la tenacia? non potrebbero o dovrebbero essi fornire l'occasione migliore per tentare un colpo d'audacia, o almeno per assumere un'iniziativa? Come si fa (para. 13) a condurre sempre e in ogni caso lo scontro navale fino al completo conseguimento dello scopo? e se ciò non fosse possibile, non potrebbe essere conveniente o inevitabile a un certo punto interromperlo? e come può il debole, sopraffatto dal "forte più veloce" (para. 14) trovare sempre salvezza nell'attacco ravvicinato, mai nella ritirata? L'attacco ravvicinato contro forze superiori sarebbe solo un sicuro e rapido suicidio, come tale da evitare assolutamente; nella ritirata un gruppo di navi potrebbe almeno tentare di trattenere il nemico, dando tempo alle altre di sganciarsi. Insomma: l'omaggio finale alla fiducia in sé stessi e allo spirito aggressivo (para. 17 e 18) richiederebbe più coerenti applicazioni nei paragrafi precedenti. Da notare anche che non si parla mai d' iniziativa, ma di disciplina, di ricerca del rischio calcolato, del "conveniente compenso", salvo poi a ignorare il tutto nel para. 14. Si deve infine notare che la linea complessivamente prudente dello Stato Maggiore marina nella guerra 1915-1918 si colloca ali' estremità opposta di quella dell'esercito, ufficialmente troppo improntata a un'offensiva assiomatica forse perché non si tratta di perdere navi preziose e insostituibili, arrischiandole in un mare - come l'Adriatico - che si prestava in particolar modo all'impiego di mezzi insidiosi. Tn proposito si potrebbe però osservare che né il terreno al confine di Nord-Est, né l'annamento e i mezzi dell' esercito si prestavano a una rapida offensiva clausewitziana... Riassumendo, questi aforismi non sono affatto un astratto esercizio teorico, ma rispecchiano fedelmente i criteri strategici per l' impiego del naviglio di superficie - e in particolar modo delle navi maggiori - poi adottati nella guerra navale in Adriatico. Nessun cenno specifico al raccordo operativo con le forze terrestri, e alla cruciale guerra dei convogli 1915-1918, dove è stato perduto il 57% circa del nostro naviglio mercantile: ma nel maggio 1915 la nostra guerra sul mare, sia pur ancora per poco tempo, continuava ad essere concepita come scontro esclusivamente tra navi da guerra. Del resto, se al traffico mercantile fossero stati applicati appieno questi aforismi, difficilmente si sarebbero trovate navi decise a prendere il mare.
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Conclusione Anche al confronto con le sue più importanti manifestazioni del secolo XX, il pensiero navale tra la seconda metà del secolo XIX e la prima guerra mondiale tocca l'apice con livelli mai più raggiunti: tutto ciò che viene dopo non è che una riscoperta, un adeguamento, un'attualizzazione di quanto già si è pensato, in Italia o all'estero. Rientra in questa prospettiva anche il mezzo aereo, concepito come mezzo di contrasto e sostituto dell 'artiglieria navale, come prima erano stati lo sperone e il siluro; anzi, il mezzo aereo a partire dalla prima guerra mondiale si dimostra una piattaforma per quest'ultima arma valida almeno quanto il sommergibile, che viene valutato generalmente tardi e in modo insufficiente dagli scrittori navali, non esclusi - se non altro per ragioni cronologiche - gli adepti della Jeune École, se non altro perché hanno pubblicato il meglio delle loro opere quando il sottomarino/sommergibile era solo in fase sperimentale. Per contro si tende ad attribuire alla prima piattaforma specializzata per il si luro, cioè la torpediniera, o un ruolo eccessivo ( così fa la Jeune École) o un ruolo minimale (Mahan e soprattutto la sua scuola , la quale anche nel XX secolo privilegia il cannone e la corazza, ritenendo a torto l'aeroplano poco efficace anche contro la corazzata, e dunque sempre valida - anche nell'impatto con la teoria del dominio dell'aria - quella classica del dominio del mare, facente capo appunto a Mahan). Più in generale il pensiero navale del periodo considerato oscilla tra due estremi opposti: da una parte le teorie di Mahan, espressione del "navalismo" classico, tipico delle due grandi potenze geopoliticamente e geostrategicamente insulari (Gran Bretagna e gli Stati Uniti) e dall'altra quello della Jeune École, espressione delle esigenze marittime delle potenze continentali. Il pensiero degli autori inglesi (Callwell, Corbett) ha invece una collocazione particolare e a sé stante, come reazione al dogmatismo di ambedue le scuole ed espressione empirica di specifiche esigenze nazionali, che storicamente hanno fatto della Royal Navy uno strumento flessibile e polivalente, cioè no n solo il mezzo per la conquista e il mantenimento del dominio dei mari, ma anche quello per la conquista e il mantenimento dell'Impero insieme con l'esercito e la diplomazia, nell'ambito di una "correlazione terrestre-marittima" rivelatasi esemplare, con livelli di economica efficienza non raggiunti dalle Forze Armate di alcun Stato. 82 Non solo in Italia Mahan è l'unico scrittore navale a essere rimasto anche nel XX secolo un mito, un riferimento costante e generalmente acritico, con particolare e forse eccessiva attenzione per l'Influenza del potere marittimo sulla storia. TI motivo è semplice: più di tutti gli altri scritti la sua prosa essenziale e perentoria si è prestata, e si presta persino oggi, a far attribuire dovunque, dai governi e dalla pubblica opinione, un'importanza preminente alle forze na-
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Domenico Bonamico, Seri/li sul potere marittimo (Cit.), Pane sesta
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vali, veicolando così verso di esse il massimo volume di risorse. In tal modo si sono trascurate le altre sue opere non meno importanti, nelle quali l'impiego strategico e tattico delle forze navali era meglio inserito nel contesto generale, e si prestava attenzione anche al rapporto forze navali - forze terrestri. Per di più, anche nel XX secolo si è spesso trascurato che, come già detto, le sue teorie sono il contraltare marittimo della dottrina di Monroe, e come tali rispecchiano anzitutto le esigenze geopolitiche, geostrategiche, geoconomiche degli Stati Uniti (e solo degli Stati Uniti) in un dato momento storico, cosa che avrebbe dovuto rappresentare la prima ragione per valutarle, invece di passare in seconda linea. Per queste rngioni, più volte ribadite, da un punto di vista strettamente strategico almeno in Italia più che Mahan avrebbero dovuto essere presi come riferimento gli altri autori classici inglesi e francesi, naturalmente adottando anch'essi alle specifiche esigenze normali e alla situazione mediterranea; ciò non è avvenuto, e ci si è preoccupati assai poco di "attualizzare" le componenti teoriche del potere marittimo, per le quali un nostro recente, troppo sommario e scheletrico contributo non esaurisce certo l'importante materia,83 anche se forse è utile. In questo quadro acquistano particolare valore gli scritti del Bonamico, del Sechi e del Bemotti fin qui esaminati, che - a cominciare dal valore dato a soluzioni nazionali e mediterranee, dall'importanza della correlazione terrestremarittima, della difensiva strategica e della velocità, dalla tiepidezza verso la corsa ai grossi calibri e ai grandi dislocamenti, dall'importanza data (Bemotti, Sechi) al naviglio leggero e ai mezzi di contrasto - sia pur non senza contraddizioni e in varia misura si allontanano dal consueto solco mahaniano, senza accettare a scatola chiusa il verbo d'oltre oceano. Meritoria e unica del suo genere, in proposito, la critica a Mahan del Bonamico e del Manfroni; ma anche il Sechi e il Bemotti sia pur senza polemiche dirette esprimono voci discordanti da quelle dell'ammiraglio americano, tifoso - va sottolineato ancora - del periodo velico e paladino di una sorta di guerra napoleonica anche sul mare. È ben nota la polemica del Bonamico e di altri nei riguardi delle soluzioni più eslTemiste della Jeune École; sta di fatto che parecchi spunti teorici di Aube e dei suoi seguaci, nonostante la loro disistima nei riguardi della "tenuta" morale del nostro popolo e nonostante le loro infelici soluzioni costruttive, avrebbero meritato maggiore attenzione e maggiori approfondimenti in Italia, nazione per la quale le teorie mahaniane andavano ancor più larghe che alla Francia, e ancor più che alla Francia si poneva il problema strategico del contrasto di marine più forti, non certo realisticamente risolvibile invocando più risorse per la marina a discapito dell'esercito. A maggior ragione avrebbero meditato di essere meglio studiati - e sopralluUo seguiti - gli scritti dei tre nostri autori più volte citati, invece rimasti
83 Ferruccio Botti, Sugli odierni fattori del potere marittimo, in "R.ivista Marittima" giugno 2005, pp. 15-23.
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in un angolo, a beneficio del costante orientamento ufficiale verso concezioni mahaniane anche nel XX secolo, del quale si può ripetere solo che corrisponde all'orientamento prevalente anche nelle altre marine: ma questo di per sé non è un pregio, visto che la diffidenza mahaniana per il principio dellafleet in being e per la difensiva strategica non ba trovato certo conferma nella prima guerra mondiale, né - per la flotta italiana almeno - nella seconda. Non si può non rilevare, in proposito, che la strategia offensiva e il culto della battaglia decisiva tipici sia di Mahan che di Clausewitz hanno ricevuto più smentite che conferme nelle due guerre mondiali: la guerra di trincea e la guerra dei convogli lo dimostrano, anche se sarebbe errato affermare che le loro teorie sono state totalmente smentite (o totalmente confermate) dalle guerre successive. Lo stesso si potrebbe dire per il binomio dominante in Italia, e/o per qualunque altro autore italiano e straniero. Sta sempre alla critica successiva di vagliare luci e ombre di ciascun autore, tenendo presente che la realtà, l' esperienza pratica immancabilmente e spesso al l'improvviso costringe a una revisione critica delle teorie precedenti. Va però considerato che tanto in campo marittimo come in campo terrestre il differenziale tra le concezioni strategiche e tattiche pre-guerra mondiale e quelle emerse pressoché all' improvviso nel corso de lla guerra è stato estremamente ampio, troppo ampio. Se in campo marittimo si è passati dalla centralità della guerra di squadra e nclsonina a lla centralità vera della guerra dei convogli con le corazzate in porto ufficia lmente in being. ma in realtà specie nel Mediterraneo impotenti, in campo terrestre si è passati almeno in Europa e sul fronte francese e italiano, dal mito de lla guerra breve e napoleonica, alla guerra lunga e alla guerra di materiali e di trincea, che fa particolarmente apprezzare le idee del Bernotti sull'importanza dei trasporti marittimi. Rimane da considerare la già menzionata scarsità in [talia di validi contributi teorici sulla strategia navale. Si impone a tal proposito un primo interrogativo: fino a che punto il Bonamico, il Sechi e il Bemotti sono autori originali? La risposta non può essere che articolata e non ultimnti vn; mn i loro scritti denotano certamente una profonda conoscenza della letteratura europea, che essi sanno elaborare e riconsiderare alla Juce de lle proprie convinzioni, sullo sfondo (non apparente, ma reale) delle esigenze e sensibilità nazionali italiane. In secondo luogo, la scarsità di contributi significativi e originali al di fuori dei tre grandi nomi italiani continuamente ricordati - pietre miliari anche nel XX secolo - non è un fenomeno unico e solo italiano: negli Stati Uniti , anche nel XX secolo che cosa si trova al di fuori del solito Mahan? In Gran Bretagna, c ' è qualcuno che ieri o oggi abbia pensato diversamente rispetto a Corbett o Callwell? Infine, in Francia dopo la rapida e non del tutto meritata fine di Aubc e della Jeune École, almeno fino al 1914 non si sono visti altri concetti originali, al di là della predetta scuola e di Mahan. Ci sembra quindi che il pensiero strategico teorico italiano sia pienamente aH'altezza di quello europeo e forse qualche gradino al di sopra, anche se si deve deplorare che Bonamico crede troppo facile attaccare nel Tirreno i convo-
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gli protetti da una flotta superiore e difendere la penisola con le sole forze navali, mentre Bemotti tenta di fornire non sempre con successo degli orientamenti per condurre con vantaggio una guerra di squadra sempre imperniata nelle grandi navi, contro una flotta superiore. Obiettivi tali da sembrare poco realistici, anche se mai confermati né smentiti dagli eventi bellici successivi: ma nessun uomo è sempre profeta, e si deve anche ammettere che i rapporti di forze del tempo in campo navale erano tali, da lasciare ben poche chances alla nostra marina, la cui strategia in tutti i casi non avrebbe potuto compensare la sua inferiorità rispetto alle marine più probabile nemiche (quella francese e negli ultimi anni, anche quella inglese).
PARTE TERZA
LA POLITICA E STRATEGIA NAVALE DELL'ITALIA E I SUOI ASPETTI INTERFORZE
CAPITOLO VII
L'ITALIA È POTENZA TERRESTRE O MARITTIMA? LA POLITICA E STRATEGIA NAVALE E IL CONTRASTO TRA "NAVALISTI" E "CONTINENTALISTI" NELL'AMBITO DELLA DIFESA NAZIONALE
"Abbiamo creato navi che, a 'tempi loro, furono senza dubbio, mirabili, ma abbiamo spesso dimenticato di studiare e di decidere preventivamente se proprio quelle fossero le navi che alla risoluzione del nostro problema marittimo si convenivano". CTE GIOVANNI RONC/\GLI , "Rivista Marillima" ( 1899) "ll popolo italiano ha intrapreso un compito troppo grave per le sue finanze volendo ad un tempo aver un grande esercito continentale ed una poderosa armata [navale]". SIR CH. W. DILKE, "C/\SSIERS MAGAZINE" (1897) " fl fatto che una Marina abbia più o meno corazzate, più o meno in-
crociatori di un 'altra, interessa fino a un certo punto: una Marina deve essere esaminata in relazione ai probabili avversari, ai teatri di guerra in cui dovrà combattere. al sistema di condotta delle operazioni ecc.". TEN. VASC. ROMEO BERN01TI (1908)
Premessa
Fino a che punto, date le specifiche esigenze geostrategiche nazionali, la marina italiana deve tener conto del quadro teorico americano (naturalmente, Mahan) ed europeo (principalmente la Jeune École, Callwell e Corbctt)? Posto che, come si è più volte sottolineato, ciascuna delle predette teorie rispecchia diverse realtà nazionali in prevalenza extra-mediterranee e quindi ben diverse da quella nostra, una risposta nel presente Tomo Il l'hanno già data il Bonamico e il Sechi e nel Tomoli principali autori terrestri, tra i quali in primis il Ricci, il Perrucchetti e il Barone, senza contare parecchi altri che hanno trattato della difesa dello Stato. Rimane ora da approfondire e completare questo argomento-chiave, visto che si tratta di uno dei due comi dell a difesa nazionale, con importanti ripercussioni sul bilancio dello Stato, sull'economia e industria nazionali e sulla vita ed efficienza dell 'altra Forza /\rmata. Ne Nasce un dibattito che di seguito
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verrà messo in luce, insieme con le differenti valutazioni strategiche nell'ambito delle due Forze Annate. Sulla definizione del ruolo della marina influisce anche un fattore di segno non positivo, che il Bemotti così descrive: il discredito della Marina [dopo la sconfitta di Lissa] e le condizioni di depressione per la triste situazione finanziaria del Paese dopo la campagna del 1866 che imponevano grandi economie, implicavano il grave pericolo che rimanesse incompresa la necessità del potere marittimo; il fatto che la Marina italiana nel 1866 aveva mancato ad un compito offensivo non costituiva un insegnamento capace di far emergere come essa tuttavia fosse indispensabile come mezzo di difesa, data la nostra posizione geograjìca. l'este11sio11e e la vulnerabilità del litorale. 1
Hanno negative conseguenze anche due eventi riguardanti l'esercito: la campagna coloniale d'Eritrea del 1895-1896 conclusasi con la sconfitta di Adua, che assorbe risorse cospicue soprattutto a scapito del bilancio della marina, e la crisi morale e finanziaria dello stesso esercito specie a fine secolo XIX - inizio secolo XX, per effetto delle esigenze di ammodernamento (specie armi portatili e artiglierie) e degli attacchi delle correnti antimilitariste, che tuttavia riguardano anche la marina. Il nemico principale e più sicuro fin dall'entrata delle nostre truppe in Roma nel 1870 è la Francia, che possiede una flotta e un esercito più forti dei nostri, con un bilancio militare di gran lunga maggiore. Ciò ha negativi riflessi sulla preparazione di ambedue le Forze Armate, sia perché essa fino a qualche mese dall'inizio della guerra del 1915-1918 per quasi mezzo secolo è inevitabilmente orientata in senso diametralmente opposto a quello dell'entrata in guerra il 24 maggio 1915 (cioè rispettivamente verso la frontiera occidentale e verso il Mediterraneo centrale, con pressoché totale esclusione del confine orientale e dell'Adriatico), sia perché ambedue le Forze Armate hanno dei buoni motivi strategici per essere forti, e per esserlo (questo è il difficile) in misura assai superiore alle possibilità delle finanze dello Stato, a loro volta costrette a far fronte a situazioni politico-sociali ed economiche di grande diflìcoltà; il tutto senza considerare i troppo frequenti mutamenti di governo, dai quali consegue incertezza negli obiettivi e nelle modalità per raggiungerli. Fin dal periodo 1870- 1915 emerge con priorità assoluta la necessità di un raccordo tra le due Forze Armate: definire come e se si risponde a questa esigenza primaria sarà fine non secondario dell'esame che ci accingiamo a compiere, visto anche che la frequente dicotomia tra storici terrestri e navali, tuttora operante anche se a rigor di logica non condivisibile, ha finora impedito di cogliere aspetti importanti della nostra storia militare. La minaccia francese (è la parola esatta) in campo marittimo viene valutata soprattutto in termini di bombardamento delle città costiere e di sbarchi sulle nostre coste (come è già
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Romeo Bernotti, Il potere marittimo nella grande guerra, J ,ivorno, Giusti 1920, p. 82.
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avvenuto nel 1949 per stroncare la Repubblica Romana, nel 1859 per combattere contro l'Austria a fianco dell'esercito piemontese, nel 1867 per stroncare a Mentana il tentativo garibaldino di dare Roma all'Italia). 1n particolare gli sbarchi francesi e la loro consistenza sono la ragione principale, il baricentro del contenzioso tra esercito e marina, ovviamente esasperato dalla carenza di risorse e dallo scarso sviluppo industriale. Politica e strategia hanno sempre avuto un legame organico: lo hanno specialmente nel caso dell'Italia del tempo, fino a rendere più che mai incerto il loro confine, anche per le ormai ben note e onnipotenti limitazioni di bilancio. Premesso che (Clausewitz) la strategia non ha una logica autonoma rispetto a lla politica, nel nostro caso la strada migliore sembra quella di individuare e caratterizzare per primi gli studi di politica navale a più largo spettro mediterraneo, attenti al confronto con le flotte e alla necessità che l'Italia non sia in condizioni di inferiorità nemmeno rispetto alle grandi potenze presenti in un mare che secondo alcuni deve essere suo, ma che secondo al tri non lo può essere, anche perché la difesa terrestre non va sacrificata alla difesa marittima . Ciò dà origine al contrasto insanabile tra navalisti (nella difesa nazionale devono avere prevalenza assoluta le esigenze della marina e le costru zioni navali, anche a discapito della difesa terrestre) e continentalisti ( la difesa lcrrcslrc e in particolare della val padana - deve avere la priorità assoluta, anche a discapito di quella marittima). Nello scontro tra i due opposti estremismi che ne deriva, la politica navale acquista la ribalta subito dopo la guerra franco-prussiana del 1870- 1871, che non giova ai "navalisti" perché la Francia è stata sconfitta anche se la sua flotta ha mantenuto un incontrastato dominio del mare. Come già dello le grandi e costose corazzate vedono aumentare i loro nemic i, a causa dei progressi delle torpediniere e dell'efficacia dimostrata dalle mine ancorate sul fondo. In questo contesto con la legge 1° luglio 1877, promossa dal Ministro Brin, la marina italiana riprende gli orientamenti del Persano per le grandi navi e quindi per la guerra di squadra, così dimostrando di non voler accontentarsi di una posizione subordinata nel Mediterraneo. La legge prevede di raggiungere in dicci anni, con uno stanziamento suppletivo di soli 20 milioni, l' obiettivo di ben I 6 navi da guerra di 1a classe, 20 navi da guerra di 2" classe ( da crociera, per la protezione del commercio, per la difesa locale, in breve: incrociatori) e 20 navi di 3a classe (tra le quali torpediniere e cannoniere). Obiettivo prevedibilmente troppo ambizioso per le nostre risorse, che non è stato mai raggiunto; rimane comunque costante - e ovviamente, maggiorita ria nella marina l'aspirazione ufficiale a una grande flotta, capace di contendere (non semplicemente contrastare) il dominio del mare alle marine maggiori, senza indagare troppo sul "come": si tratta infatti di creare nel Paese una coscienza marittima, e di aumentare in ogni caso il bilancio della marina. Salta subito all'occhio che il deciso orientamento (non solo del Saint Bon e del Brin) verso grandi navi tradizionalmente superiori per armamento, velocità e protezione anche a quelle delle marine maggiori - quindi molto costose
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- rende oggettivamente ancora più difficile il raggiungimento del traguardo numerico indicato dalla legge: ciononostante con la successiva legge 30 giugno 1887, n. 4646, lo stesso Brin sembra non tenere conto di questo fatto riconoscendo solo la crescente importanza del naviglio leggero, e per ciò stesse ulteriormente diminuendo la possibilità di sensibili incrementi numerici del naviglio maggiore. Con l'Art. 1 di tale legge, infatti, si autorizza la spesa straordinaria di 85 milioni sul bilancio della marina, dei quali 37 milioni per costruzioni navali, 25 per acquisto di siluri, 4 per acquisto di cannoni a tiro rapido e 19 milioni per lavori agli arsenali di Spezia e Taranto (9 milioni ciascuno) oltre che Venezia (1 milione). La predetta somma (Art. 2) è ripartita negli esercizi dal 1887-1888 al 1895-1896), raddoppiando (Art. 4) il numero previsto dalla legge del 1877 sia per le navi da guerra di 2" classe - cioè per gli incrociatori (da 1Oa 20), che per le navi da guerra di 3° classe (da 20 a 40); "inoltre saranno aggiunte 190 torpediniere di vario tipo e di diverse classi''. Come dire: diamo maggiore importanza al naviglio leggero, ma senza diminuire il numero di grandi navi previsto dalla legge del 1877, che pur si rivela sempre meno raggiungibile, anche per il continuo progresso e il conseguente, forte lievitare dei costi. Evidentemente per questo motivo - come meglio vedremo in seguito - le successive leggi di bilancio pur prevedendo forti aumenti non fisseranno più dei traguardi ordinativ i per l' intera flotta, di volta in volta indicando specifiche costruzioni navali sempre in numero assai esiguo rispetto alle due citate leggi del 1877 e del 1887.
SEZIONE I - "L'Italia deve dominare il Mediterraneo": la politica navale tra sogno e realtà
Prevedibilmente gli scritti di politica navale sono dominati dai navalisti, che anche quando escludono per la flotta italiana la possibilità di conquistare il dominio del mare, non rinunciano ad obiettivi estremamente ambiziosi nel Mediterraneo e/o esaltano i vantaggi delle colonie, viste come ulteriore ragione di crescita per la marina militare e mercantile. La prima espressione di questo orientamento, che dunque di per sè ne dimostra la persistenza anche al mutare della situazione interna e internazionale, è il libro del 1872 del conte Luigi Campofregoso dal titolo Del primato italiano nel M editerraneo,2 titolo assai eloquente che già riassume quale politica navale l'Italia deve adottare, sviluppando la marina militare e mercantile per conquistare quel primato mediterraneo, che dall'età romana in poi è spesso stato suo. Deve, ma come, con
2 Cfr. Luigi Campofregoso, Del prima/o ilaliano nel Mediterraneo, Roma - Torino - Firenze, E. Locseher Editore 1872. Si veda anche la recensione in "Rivista Marittima" 1873, 11 Trim. Fase. IV pp. 173-189.
Vll - L'ITALIA È POTENZA TERRESTRE O MARITIIMA? LA POLITICA E STRATEGIA NAVALE
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quali risorse, con quale politica? di questi risvolti fondamentali il Campofregoso non si preoccupa; in compenso per i numerosi richiami storici, tutti diretti a dimostrare il primato marittimo italiano del passato e la necessità di conquistarlo per il futuro, egli può essere definito "il Gioberti del mare", anche perché questo autore (cfr. Voi. I, cap. XI) è da lui ancora citato come autorevole riferimento, trascurando il fatto non marginale che le sue teorie sono state smentite dalla realtà del Risorgimento l 848-1870. Per il Campofregoso non esiste un'ambiguità geopolitica e geostrategica dell'Italia, nazione notoriamente con la testa inserita nel continente europeo e i piedi immersi nel mare; l' Italia è nazione eminentemente marittima, perciò fra le armi, quelle che dagli italiani dovrebbe essere coltivate con più ardore, sia per naturale inclinazione, sia per hisog no dPlln patria foro, sono le armi del mare. La natura separandoci dall 'Et1ropa colla grande murag lia delle Alpi ed invece spezzando, immergendo le noslre /erre nel Mediterraneo nel modo più propizio per dominarlo. ci ha chiaramente indicato qt1a!e sia il principale teatro della nostra allivillÌ. Sul Mediterran('o stanno le maggiori nostre glorie passate e speranze avvenire.'
L'ampia e interessante rassegna de l passato compiuta dal Campofregosa serve a dimostrare che "tutte le vvlte che ~li italiani, loro buon e mal grado, per necessità o passione si spinsero sulle vie dei mari, essi.furono grandi''. TI nostro Risorgimento "è stato preparalo da 1111 'impresa marittima" (probabilmente egli allude allo sbarco a Marsala di Garibaldi), e si è concluso con la sfortunata battaglia di Lissa "che fu come un severo invito fattoci dalla natura a concentrare la nostra attenzione s ui mari'', attenz ione richiesta più che mai dalla preoccupante situazione politico-strategica del momento: non dimentichiamo che Austria. Francia e lnghillcrra stanno ancora accampate nei nostri mari attorno alla nostra penisola. in importantissime posizioni militari, commercia/i, su terre italiane, a vista d 'occhio delle nostre coste; che la posizione della nostra penisola è arrischiatissima quanto importante; infine che l 'orizzonte del Mediterraneo spira tull 'altro che pace, e ben si prevede come in awenire esso sarà chiamato a sostiluire i campi di guerra del Danubio, Reno e Po nelle lotte di preponderanza dei popoli d'Europa. 4
Eppure, mentre la Franc ia, la Spagna, la Russia, l'Egitto e gli altri Stati minori del Mediterraneo hanno un solo sbocco su questo mare, l'Italia li domina tutti e"trovasi in condizione sotto ogni aspetto veramente magnifìche per espandersi ovunque e servire da gran piazza di assembramento, da teatro di fusion e a tutti i popoli d 'Europa. Essa occupa precisamente il centro del Mediterraneo... ". 5 Anche la situazione della nostra marina mercantile è estremamente
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ivi, p. 3. ivi, p. 7.
s ivi, p. 10.
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florida e promettente: "il tonnellaggio marittimo italiano è pressoché uguale a quello di Francia, è il doppio del tonnellaggio di Austria, di Svezia, di Norvegia, di Prussia, di Spagna, equivalente al tonnellaggio di Olanda[ ... ]. Prendendo la parte spettante al cabotaggio ci spetta il secondo posto in Europa dopo l'Inghilterra[ ...]. La navigazione internazionale ci presenta 43.488 navi e 7.269.000 tonnellate; in conseguenza la marina italiana occupa in Europa il terzo posto in questo genere di navigazione". 6 Nessun cenno del Campofregoso alla nostra carenza di industrie e materie prime (specie carbone e acciaio), al livello delle nuove tecnologie e ai cospicui mezzi finanziari necessari per costruire e ben mantenere in efficienza una grande marina da guerra; per di più egli condanna duramente, ancor più duramente del Bonamico, le condizioni morali della società italiana, i vizi c difetti delle classi dirigenti, i limiti dimostrati dalle due Forze Annate- e dai loro Capi - nelle guerre del Risorgimento, soffennandosi anche sulla decadenza e sulla perdita di prestigio delle Tstituzioni militari. In un contesto morale, politico-sociale, economico, industriale quale era quello dell'Italia del tempo, come avrebbe potuto nascere una marina dominante in grado addirittura di fronteggiare ciascuna delle marine maggiori? Il Campofregoso non scioglie questo palese interrogativo di fondo, ma - citando anche il Borghi - si limita a sostenere che un 'alleanza del!'Inghilterra e della Francia contro l 1talia non è impossibile, ma improbabile assai poiché ciascuna di esse vedrebbe che schiacciata l'Italia, una poi di esse dovrebbe perire per mano dell'alleata. In ogni modo altre potenze del Mediterraneo sarebbero compromesse in tal caso, e unirebbero la loro colla flotta italiana, per scongiurare il comune pericolo. A rigore quindi, per ora come base di calcolo sufficiente per la marineria nazionale si può valutare una potenza militare marittima tale da far fronte con probabilità di vittoria a quella porzione di forze che la Francia e l 'Tnghilterra potrebbero riunire nel Mediterraneo. Una forza corrispondente a 14 vascelli di linea e 14 grandi fregate ad elica è quindi nece rsaria ali 'Italia per assicurare la sua indipendenza [necessaria forse sì, ma è anche possibile? quanto costa? e fino a che punto si può essere sicuri della quantità di forze che la Francia e l'Inghilterra potranno magari temporaneamente spostare nel Mediterraneo, vista anche la velocità delle navi a vapore? - N.d.a.].7
Le oggettive condizioni del nostro Paese all'inizio degli anni 70 renderebbero di per sé necessarie delle buone alleanze, ma il Campofregoso fa della ricerca di tali alleanze un'ulteriore ragione di critica. Un ulteriore suo merito o demerito, a seconda dei punti di vista - è la mancata indicazione di concrete ragioni strategiche e/o finanziarie per dare priorità allo sviluppo della marina, visto che in tutti i casi la torta da spartire sarebbe magra. Tutto questo porta a
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ivi, p. 178. ivi, p. 196.
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ritenere quanto meno sterili i suoi lamenti ed appelli, specie quando si dice "assalito da un senso di terrore, da uno sgomento orribile per il non cale in cui sono tenute da noi le cose marittime", e auspica che "Governo e privati, commercianti, industriali, militari, s'affrettino tutti a gettare le basi di una grande potenza marittima degna del loro passato e del loro avvenire". 8 Conclude poi calcando ancora la mano sulla nostra situazione del momento, nella quale more solito spicca la minaccia francese: quando si pensa che da ogni parte si levano attorno a noi segni di orribili burrasche[ ... ] e che una grande potenza marittima [la Francia - N.d.a.] sta alle nostre porte in agguato contro la nostra vita, che non appena lo potrà ci piomberà sopra per finirci, e che noi invece abbiamo la flotta in condizioni inferiori a quelle che ci condussero a Lissa; che i nostri teatri di guerra marittimi sono ancora probabilmente incogniti, le nostre coste completamente sguarnite; che i nostri principali centri di vitalità: Napoli, Palermo, Genova, Livorno, Brindisi, Ancona, Bari, lo stesso arsenale ed emporio marittimo della Spezia sono in balìa ai primi attacchi delleflotte nemiche; davvero che l'animo più non regge, né più si sa che cosa dire. 9
Da notare che nella prospettiva del Campofregoso il pericolo francese non è il solo: è tra i pochissimi, se non l' unico, a guardare anche all'Austria e all'Inghilterra come a due potenziali nemici: L'Austria pure accenna verso i lidi del Mediterraneo. Già ha iniziato il suo movimento discensivo lungo il Danubio [ .. .]. Intanto alle nostre aspirazioni sulle coste orientali dell'Adriatico e sul Trentino essa risponde fòrtificando Pola, Gorz [Gorizia - N.d.a.], Trento, essa ha risposto [... ]facendo di Trieste il primo porto commerciale del 'Adriatico; di Pola, Fiume, Cattaro, grandi porti militari dove tener raccolta la gloriosa sua armata; gettando ferrovie attraverso le Alpi e la Drava,fàcendo del Tirolo chiave della valle del Po come la punta di un pugnale con cui ferirci al cuore, al centro di nostra vitalità[.. .]. È con incredibile leggerezza che si persiste a parlare con noncuranza della flotta austriaca. tutti hanno il diritto di dimenticarlafaorché noi. Ancora una Lissa e chi ci darà il coraggio per far sentire la nostra voce in Europa? L 'Inghilterra da Malta padroneggia il centro del Mediterraneo e tutta la parte meridionale della nostra penisola, di là vigila gelosa contro la formazione di ogni grande potenza marittima. Finora che fummo deboli e impotenti sul mare J'Inghilterra ci fu benevola, ma chi può assicurarci della sua attitudine in avvenire?[... ] E in ogni caso sarà pur necessario un dì o l'altro di cacciare questo padrone del Mediterraneo, se non altro dai nostri mari, dalle nostre terre che ha acquistato coll'astuzia, che mantiene con la forza. Per ottenere tutto ciò si richiedono potenti eserciti e soprattutto armate [navali]; il comporre i primi è opera lunga, l'organizzare le seconde è lavoro lunghissimo e
• ivi, p. 14. • ivi, p. 376.
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VI Il , IO (1870-191 5) - TOMO Il
pieno di dif/ìmlt,ì I. I /l1 //1• , 1 ,I., 111•n/, 11 ·. 1w1/1': wnare,fondere. accrescere nella nostrujlolln, 11 1111 ,·t!l/11 i11 1111111, t1\111 lw l'llol.,'i costruire ab imis funda-
mentis. 10 Considerazioni silTaltc, ne lle qua li 111111 ., 1vnlono che nubi minacciose nel panorama mediterraneo cd europeo, dov1l·hlw111 portare a ulteriori giudizi pessimistici sulla situazione italiana del 1110,nc11to: 111vece il Campofregoso in altra parte del libro osserva contradditoriaim:ntc c he giammai presentassi ad uno Stato occasiu111· p11ì /JIO/Jizia p er guadagnare il dominio dei mari. Quanto ci fi1 henignn /r, 11aflm 1! Mc11trc essa ci ha posti nella più bella posizione che un popolo marino possa d1wid1·1·fln'. ci ha dato altresì la possibilità di poterci rilevare e fa rci più pote1111 .11t! 111,m· ,·,111 mezzi relativamente scarsi. 11
Questo perché "Francia, Spagna, Austria[ ... ] 11011 lt u 111111 ,u'· 1,•1111w n é mezzo di attendere seriamente alle loro forze marittime", e inoltl l' Fi 1111cia, Spagna e Russia data la loro posizione geostrategica (tra Mediterraneo, Atlantico e/o altri mari) dovrebbero disporre di due flotte distinte, la cui riu11iu111.: Jiµ~nJc dai voleri dell'Inghilterra. Ne consegue che "il primato fran co-inglese nel Mediterraneo sta per finire", anche perché l' Inghilterra sta onnai volgendo l'attenzione e le forze navali alle sue colonie che minacciano di staccarsi e agli Stati Uniti "che da lungo tempo cercano un pretesto per venire alla lotta". Anche se contradditorie, queste angolature generaliste fin dal 1872 fanno del Primato italiano sul Mediterraneo una raccolta di molti cavalli da battaglia del "navalismo" da allora in poi, controbilanciata dall'insistenza dell'autore poco in armonia con altri passi del libro- sui gravi limiti della situazione morale e materiale dell' Italia del tempo, che sarà vent'anni dopo stigmatizzata con argomenti affini anche dal Bonamico, benché le ambizioni eccessive del Primato italiano nel Mediterraneo facciano delle teorie dello stesso Bonamico il contraltare di tale opera, nella quale è comunque da apprezzare la sintesi storica delle marine prc-unitaric e delle vicende della marina italiana fino al 1872, senza alcuna concessione alla consueta retorica e con appropriata condanna dell'azione di comando dell'ammiraglio Persano a Lissa, accompagnata da un realistico e quasi profetico accenno al problema strategico dell'Adriatico e al possibile atteggiamento dell'Inghilterra. In sintesi: un libro con parecchie ombre, e con diagnosi veritiere che non si armonizzano con le poco reali stiche aspirazioni alle quali l'autore vorrebbe dare voce e corpo. Tuttavia, anche per certe angolature pregevoli esso merita il titolo di capostipite de lla letteratura na va le della nuova Italia, a preferenza del Racconto del Guardiano da spiag~ia de l Rossi, proposto dal Vecchj .
•0 11
i vi, pp. I 86-188. ivi, p . 89.
Vll - L'ITALIA È POTENZA TERRESTRE O MARITTIMA? LA POLITICA E STRATEGIA NAVALE
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Accanto al predetto libro del Campofregoso merita una breve citazione un articolo (1872) del capitano di vascello e deputato Eduardo D'Amico già Capo di Stato Maggiore dell'ammiraglio Persano a Lissa, 12 il quale esordisce con l'affermazione che la potenza di una nazione [e quindi anche il potere marittimo - N.d.a.] non si assicura solo con poderose Forze Armate, ma dipende principalmente "dallo sviluppo delle sue forze produttive, dalla floridezza dei suoi scambi, dal grado di coltura della sua intelligenza", mentre la forza militare è parte della potenza nazionale quando è mantenuta in limiti sufficienti per assicurare la difesa nazionale, togliendo il minor numero di braccia e di risorse possibile all 'economia e alle attività produttive. In particolare l'Italia, il cui sviluppo costiero è assai maggiore di quello dei confini terrestri, dovrebbe sviluppare meno degli altri Paesi le sue forze terrestri, anche perché "un grosso esercito permanente potrebbe essere un pericolo, spingendoci a seguire vicende e interessi politici cui non saremmo naturalmente legati, come che divisi dal continente per ben delineata e alta barriera di monti, e proiettati sul mare, per grande estensione del nostro territorio[.. .]. A me giova soltanto rilevare che la nostra forza principale dobbiamo sLabilirla sul mare e basarla soprattutto sul 'industria e sul commercio". Infatti (altro leit-motiv del navalismo di ogni tempo, già tipico degli scritti dei fratelli Mezzacapo): l'Italia battuta pure in campo terrestre e nella valle del Po, rimarrebbe pur sempre potente nella sua penisola, ed agevolmente si potrebbe riordinare erifare; ma distrutti colla sua marineria i suoi traffici, distrutte le principali risorse che trae dal commercio, minacciate e forse distrutte le principali sue città bagnate dal mare, le sue forze terrestri, pur vittoriose in Lombardia, dovrebbero capitolare [ .. .]. L 'abbandono delle isole e delle coste porta seco la distruzione de l commercio e dell 'industria marittima, ciò che per l 'Italia equivale alla distruzione delle sorgenti principali della sua prosperità.
Peraltro il D ' Amico si guarda bene dal trarre le conseguenze da questa opzione tipicamente navalista, indicando la necessità prioritaria di mantenere fin dal tempo di pace una grande flotta per proteggere il commercio. A suo parere la marina mercantile e le esigenze del commercio marittimo devono essere le basi della marina militare, non viceversa; non bastano anni e naviglio da guerra per darci un buon ordinamento marittimo. L'Italia è nella posizione geografica più favorevole per sviluppare i suoi commerci marittimi, favoriti dal taglio dell'istmo di Suez; perciò tutto l'andamento dei servizi pubblici, ivi comprese le comunicazioni terrestri, deve essere orientato verso le esigenze di tali commerci. Ma anche se abbiamo bisogno di "una/orza militare marittima ben costituita e potente, per difendere le importantissime nostre frontiere verso il mare", noi ci troviamo nella necessità di tenere in tempo di pace " il minor per-
12 Eduardo D'Amico, La marineria nazionale, in "Rivista Marittim a" 1872, I Trim., Fase. lii, pp. 247-267.
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IL PENSIF.RO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. III (1870-1915) - TOMO Il
sonate possibile [e il materiale? - N.d.a.] impiegato in una forza militare parassita", perché disponiamo di fondi assai limitati. Per fronteggiare queste esigenze con le modalità indicate, occorre ordinare la marineria nazionale in maniera che quella mercantile possa esercitare sul più vasto campo la navigazione diretta e indiretta, e sia adatta a fornire, in caso di guerra, tutti i mezzi necessari a un pronto e conveniente sviluppo della marineria militare, la quale dovrebbe avere un 'organizzazione tale, da impiegare la minima forza e i minori fondi possibili in tempo di pace, e da poter prendere in caso di guerra facilmente le proporzioni necessarie alla difesa nazionale.
Il D'Amico non specifica come, e in quali limiti di tempo, la marina mercantile dovrebbe fornire alla marina militare - che in tempo di pace vuole ridotta ali' osso - tutto quanto occorre per passare dal!' organizzazione di pace a quella di guerra; in tal modo egli cancella con qualche riga il problema assai complesso della rapida mobilitazione della marina da guerra, esigenza sulla quale si sono soffermati parecchi autori navali di ogni tempo. Certamente la marina mercantile non può fornire le navi, e allora? Al contrario, a suo parere non vale il principio che la marina militare, fatta per la guerra, in tempo di pace dovrebbe dedicare i suoi sforzi a prepararsi alla guerra stessa. Le navi militari dovrebbero fornire anzitutto le stazioni navali, non solo per la protezione del naviglio mercantile nei porti esteri, ma anche per prestare soccorso materiale al naviglio mercantile, e per mettergli a disposizione le informazioni sui mercati e il frutto dei continui viaggi per scopi commerciali e delle ricerche scientifiche che compirebbero, partecipando anche alla conclusione dei trattati di commercio. In tal modo si stabilirebbero forti legami tra marineria militare e mercantile, che vanno sviluppati anche riunendo in un unico Ministero la gestione di ambedue le branche, migliorando la cultura degli ufficiali della marina mercantile e facendo compiere agli ufficiali della marina militare anche studi economici. Per accreditare queste sue proposte il D'Amico calca la mano sugli inconvenienti derivanti dal metodo opposto al suo, che consiste nel trarre esclusivamente dagli obiettivi della politica estera e dai caratteri delle frontiere marittime gli orientamenti per la costruzione della flotta militare; in tal modo priori alle condizioni economiche del paese, e considerando esclusivamente la importanza militare della marineria, a questa dovrebbero necessariamente sacrificare gl 'interessi della finanza pubblica e quelli del commercio nazionale. Un potente naviglio militare richiede in primo luogo un enorme capitale immobilizzato. Esso richiede una spesa ingente e continua di mantenimento, di trasjòrmazione e di riproduzione[ ... ]. i seguaci di questo sistema non ponendo mente a
Alle risorse da impiegare per il naviglio da guerra vanno aggiunte le ingenti spese necessarie per i numerosi Quadri in servizio permanente, per i marinai e per gli operai degli stabilimenti, sicché "le forze marittime ordinale in
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questo modo portano nel proprio ordinamento il germe della decadenza, poiché esso inaridisce le sorgenti del loro incremento". Quest'ultima estremizzazione di concetti ben caratterizza le tesi del D'Amico, che possono essere definite utopiche perché - come in campo terrestre i sostenitori della nazione armata - pretende di far scaturire sic et simpliciter da una grande flotta mercantile una flotta militare in grado di far fronte ai gravosi impegni de)l'Jtalia, senza eccessivi costi economici e sociali e senza tutto ciò che è necessario per preparare una forte forza navale (arsenali, basi, depositi, ecc.); e che dire del "pericolo" che rappresenterebbe un forte esercito? Pertanto le soluzioni da lui indicate hanno il solo pregio di essere originali, visto anche che nessuna marina da allora in poi ha creduto di applicarle, fino a farle apparire come un tentativo poco riuscito di interpretare interessi e bisogni riferibili alla sola marina mercantile e in contrasto con il pur necessario sviluppo di una marina militare. I successivi lavori di politica navale non casualmente si addensano a fine secolo XIX - inizio secolo XX: come già si è detto, le maggiori spese per la guerra coloniale sono in pratica detratte dal bilancio della marina, che si trova in gravi difficoltà a fronte dell'esigenza di rinnovare il naviglio, mentre anche l'esercito ha esigenze di ammodernamento; ciononostante si tratta di provocare un movimento di opinione favorevole all'aumento del bilancio della marina anche a spese di quello dell'esercito. In questo senso l'impegno maggiore è quello del deputato de Zerbi, esponente di punta del navalismo anche in Parlamento. Con un opuscolo del 1892 sull'equilibrio del Mediterraneo 13 e un altro dello stesso anno sul problema militare italiano, il De Zerbi sostiene che il Mediterraneo dopo l'apertura del Canale di Suez è ridi ventato "il perno del nostro mondo, perché in esso rivaleggiano le marine europee, perché in esso è il dominio del canale di Suez, perché in esso si affacciano la Siria, l'Asia minore e i 'Armenia, e perché in esso si bagna tutta l'Africa settentrionale". 14 Su questo mare si affaccia la Russia, e soprattutto rivaleggiano e marine francese e inglese, dando origine a un equilibrio instabile per la incertezza del predominio inglese, oltre che dannoso per l'Italia. Infatti ali '/nghilterra non è facile concentrare tutte le 51 corazzate nel luogo della battaglia, la quale può, se ! 'ammiraglio francese superi in ingegno il britannico, seguire a forze uguali e poco dispari. Non è possibile a I Ocorazzate vincerne 20 a parità di altre condizioni; ma a 36 [come al momento sono quelle francesi - N.d.a.] è possibile vincerne 50. 15
Allo stato dei fatti, dunque, per il de Zerbi si tratta di equilibrare le forze nel Mediterraneo, bilanciando con la nostra flotta - che dovrebbe fare da "terza forza" - la flotta francese o inglese, a tutto vantaggio dell'Italia:
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Cli-. Rocco de Zerbi, L 'equilibrio del Mediterraneo, Roma, Casa Editrice Italiana 1892. ivi, p. 81. " ivi, p. 74. 14
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IL PENSIERO MIUTARE E NAVALE ITALIANO - VOL.
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questo bilanciarsi delle due impedisce alla Francia di formare un vasto imperio da lei governato, che dal Marocco giunga alla Siria, e di obbligare Spagna, Italia e Grecia ad essere satelliti suoi; impedisce all'Inghilterra di annettersi l'Egitto, di occupare Tangeri e forse Tripoli e i Dardanelli, di obbligare l'Italia ad essere per forza, com 'è per elezione e per pro.denza, nell'orbita della politica inglese.
Il de Zerbi critica poi l'atteggiamento dell'Italia, che di fronte a questa situazione dimentica che "basta un piccolo peso che si aggiunga di qua e di là per spostare questo equilibrio", e mantiene una politica "di raccoglimento", perciò nel 1870 ha rifiutato di andare a Tunisi, nel 1877 ha rifiutato l'alleanza propostale dall'Inghilterra contro la Russia, ecc. Bisogna invece considerare aggiunge il de Zerbi - che l'Italia è fatta nazionalmente ma non militarmente. Militarmente essa è/atta e sicura, quando avrà il Trentino - in cambio di valido aiuto che all'Austria potesse prestare - e quando o avrà sulla costa africana un punto che impedisca a Biserta di diventare una pedina strategica contro le coste italiane, o talmente fortificherà l'interno della Sicilia. Palermo. Napoli, da porre le province meridionali al sicuro da uno sbarco o da un colpo di mano. E non basta: non basta se l'occhio si spinge al futuro: da Durazzo a Bari, da Valona a Taranto non v'è distanza: di là Taranto può essere presa a rovescio; l 'Italia può essere tagliata nel mezzo [... ). Senza Tunisi e senza Trieste, o senza la Cirenaica che paralizzi Tunisi e senza Durazzo che controbilanci Trieste. l 'ltalia deve e può spendere più di quanto ha speso finora, per fortificazioni, o deve avere una flotta superiore e sicura di vincere. li problema politico de/l'Italia è problema militare - per terra, chiudere seriamente le Alpi con fortezze, non con sbarramenti che hanno la consegna di cadere dopo una settimana: poter così impedire con piccole forze la penetrazione del nemico nel suo territorio; poter quindi aver sempre disponibile un forte esercito da mandare al fianco dell'alleato; in mare, avere una marineria da guerra che pareggi la francese [nostra sottolineatura - N.d.a.). La soluzione del problema è finanziariamente incomoda: ma o questa, o non essere. La flotta francese, la inglese, può essere battuta: e ciò non distruggerà la marineria, non annullerà la nazione. Ma, se la flotta italiana sarà battuta una seconda volta [dopo Lissa], l'Italia diverrà politicamente ciò che è la Spagna. 16
A fronte dell'ambiziosa necessità di pareggiare la flotta francese il de Zerbi calcola che al momento noi disponiamo di 1O corazzate "nuove e possenti'' tre delle quali non ancora in squadra, mentre la Francia può opporre loro 20 corazzate e 18 incrociatori, che però non hanno qualità nautiche e possono essere meglio definiti torpediniere d'alto mare; quindi, tenendo conto della nostra superiorità in incrociatori del tipo Bausan, "possiamo dire che ci basterà m 1,• re altre quattro grandissime navi o altre otto possenti navi da hallaKlin l'lw
•• ivi, pp. 103-105.
VU - L' ITALIA È POTENZA TERRESTRE O MARIITIMA? LA POLffiCA E STRATEGIA NAVALE
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spostino ciascuna da 5000 a 6000 tonnellate, cioè la spesa di poco più di altri 100 milioni, per uscire da/l'inferiorità". 17 Non bisogna fare economia sulle costruzioni navali, perché l'Italia, pari in forza a una delle due marine maggiori, deve fungere da elemento moderatore degli squilibri eccessivi; "alleate due, la terza potrebbe unire intorno a sè tutte le marinerie minori[ ... ], e resistere". Senza fare questo non potrà espandere i suoi commerci e aumentare la sua prosperità; lo dimostra l'espansione commerciale francese nel Mediterraneo, che "ha camminato in ragione diretta della potenza della sua marineria da guerra". Nel successivo articolo dello stesso anno sul problema militare italiano 18 il de Zerbi riferendosi ad alcuni commenti della stampa francese, respinge l'accusa all'Italia di voler menomare l'importanza della Francia nel Mediterraneo e assicura che è piuttosto suo desiderio che essa non cresca, o che almeno si accresca nel Mediterraneo orientale anziché in quello occidentale. Ammette poi che non è interesse dell 'Ttalia incominciare una gara navale con la Francia, che date le sue maggiori disponibilità finanziarie potrebbe sempre costruire due corazzate per ogni nostra messa in cantiere; tuttavia a suo avviso un aumento della flotta italiana sarebbe nel vero interesse ùdla Francia, perché l'Italia ha aderito alla Triplice Alleanza per rimediare alla sua debolezza, non per ambizione o cupidigia; ma "se gl'italiani sapessero d'aver difeso le loro coste e chiusi i loro valichi alpini senza bisogno di alleanze, la loro natura tranquilla e borghese prenderebbe il sopravvento", ed essi sceglierebbero la neutralità. Permettere all'Italia di sentirsi sicura dentro i suoi confini equivale a ridare autonomia alla sua politica e a sottrarla all'eccessiva influenza di Berlino e Londra. Perciò alla Francia conviene una terza marina mediterranea, che ''.facesse traboccare la bilancia dalla parte francese o dalla parte britannica, secondo che la tesi del 'una o del! 'altra fosse più giusta [ ma per chi? questo è il punto - N.d.a.]". Si deve infatti considerare che se la Francia potesse superare la marina britannica, [ ...l avrebbe ragione di temere che una terza grande marina, alleandosi alla britannica, s 'intendesse con essa per menomare l'importanza .francese; ma, poiché già la marina inglese è più forte né può essere sorpassata da quella dei francesi, la Francia ha tutto a sperare e nulla a temere dalla formazione della terza grande potenza marittima del Mediterraneo.
Poiché ognuno deve bastare a sè, anche se la Francia ritiene pericoloso l'aumento della flotta italiana a noi conviene mettere in cantiere quattro corazzate che possano essere pronte nel 1895, e acquistare all'estero due navi di seconda classe nel prossimo anno. Infatti in ogni caso
17
ivi, p. 107. Rocco de Zerbi, Il problema militare italiano, in "Nuova Antologia" Voi. XXXII I - 16 aprile 1892, pp. 249-254. 18
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la guerra tra una marina forte e una marina debole si ridurrà per regola generale sempre a questo: che la debole sarà bloccata dalla forte. Sarà bloccata alla Maddalena, o alla Spezia, o a Messina; ma sarà bloccata. E durante il blocco, le ferrovie saranno distrutte, le città bombardate. Per impedire ciò, bisognerebbe mutare tutta la costa in una immensa fortificazione; impresa militarmente e finanziariamente impossibile[... ]. Avendo una marinaforte, si minacciano le coste nemiche e si difendono le proprie; avendola più debole delle marine avversarie, le jòrze de/L'esercito, siano di dieci, o di dodici, o di quattordici corpi saranno insufficienti per servire in pari tempo alla difesa continentale, alla peninsulare e alla insulare.
Per consentire alla marina di svolgere una missione così ambiziosa, a parere del de Zerbi occorrono cento milioni, che possono essere reperiti ( come sosterrà più tardi il Bonamico nel Problema marittimo dell 'ltalia) riducendo i corpi d'armata dell'esercito da 12 a 10, dei quali 8 basterebbero per la difesa del confine alpino e 2 potrebbero essere dati in rinforzo a uno degli alleati; con questa proposta, egli precisa, iv non pongo un problema, ma un prublemu militare [frase ripetuta più volte nelle ultime due pagine dell 'articolo - N.d.a.]. I nostri dodici capi di esercito quali sono oggi, sono dodici forze, o dodici debolezze? E se sono dodici debolezze, se, per mantenere i dodici, bisogna ai battaglioni di soldati sostituire battaglioni di reclute e lasciare a/l'artiglieria un materiale vecchio ed avere scarsezza di cavalli e dare alla fanteria un fucile inferiore a quello del nemico, non sono preferibili forse dieci/orze a dodici debolezze?
11 de Zerbi aggiunge che invece di difendere (malamente) con tre corpi dell' esercito l' Italia peninsulare e insulare perché la flotta può essere disfatta o bloccata, è meglio - anche a costo di sopprimere due corpi d'esercito - avere una flotta la cui difesa sia efficace; e dieci corpi sul fronte alpino varrebbero certamente più di nove. A dispetto della logica e della geografia, oggi consacriamo 250 milioni a difendere ( con l'esercito) 600 chilometri di confine (quello francese), mentre ne spendiamo solo 100 per difendere i 6000 km dell' Italia peninsulare e insulare. A ciò si aggiunga che il vantaggio dell'alleanza con due potenze militari continentali non è che questo per l 'Ttalia: poter non avere un grosso esercito; essa in cambio sopporta le spese per una forte squadra navale. A che giova l'alleanza, se anche questo vantaggio essa non dona? E, se dobbiamo noi tenere forte esercito, perché l 'Austria può limitarsi a debole flotta?
Non è possibile una sufficiente preparazione alla guerra e alla difesa se manca un armonico indirizzo unitario alle cose di terra e di mare, se il Capo dell ' esercito e quello della marina si disputano un milione, se manca un Capo responsabile di tutta la difesa del Paese, se le due braccia non sono dirette da uno stesso cervello; ma egli si rende conto che
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tutto ciò che ho detto fagacemente e sommariamente urta contro mille interessi e contro mille pregiudizi militari, e più che contro questi, contro l'accidia musulmana di chi avrebbe maggiore il dovere di guardare in faccia il problema e risolverlo[.. .]. Molto [tempo] ancora si dovrà scrivere e parlare per sostituire alla scuola della difesa terrestre con appendice di difesa navale, la scuola della difesa marittima con appendice di difesa terrestre. Ma qualcuno deve cominciare.....
Il de Zerbi non è l'unico deputato "civile" a sostenere posizioni che intendono spostare fino al massimo la bilancia a favore della marina, ritenendo indispensabile un ruolo mediterraneo dell'Italia paritario rispetto a quello delle grandi potenze. Ad esempio il celebre deputato meridionalista Giustino Fortunato, pur così sensibile al risanamento del bilancio dello Stato e al reperimento di risorse per il suo Meridione, nella seduta della Camera del 4 maggio 1893 riscontra anch'egli la necessità di un'impostazione interforze del problema della difesa nazionale, magari traducendo in atto l'idea di Garibaldi - patrocinata anche da Francesco Crispi - di costituire un unico Ministero della difesa nazionale, "cui spetterebbe coordinare tutlo il lavoro preparatorio, affidando ai Ministeri della guerra e della marina lo studio dei particolari". Ciò premesso, dichiara che l'Italia non può permettersi il lusso, a un tempo, di un grande esercito e di una grande armata, e la posizione geograjìca non può fare della penisola, a parità di cose, se non una grande potenza marittima. [... ]. Finché il Mediterraneo, nonostante la maggiore espansione del mondo moderno, continuerà ad essere, com 'è, il cuore di tanta parte dell'umanità noi non possiamo vedere e pensare e amare questa Roma, ove tutti noi conveniamo, se non raffigurarcela nell'atto in cui è effigiata su la moneta di Nerva - col timone della nave tra le mani.
Idee condivisibili, desideri legittimi: ma come e con quali risorse soddisfarli? Le tesi del de Zerbi, che molto più esplicitamente del Campofregoso sostiene la necessità di capovolgere l'orientamento strategico della difesa nazionale, sono subito contestate sulla Rivista Militare (la quale significamente precisa che agli autori viene lasciata la responsabilità delle loro opinioni) con un articolo a firma A.Z., 19 che controbatte punto per punto le sue affermazioni, con una serie di obiezioni: - la citazione da parte del de Zerbi dell'affermazione di Napoleone l che l'Italia deve essere una grande potenza marittima [frequente nei navalisti - N .d.a.] è incompleta; bisogna ricordare anche che il grande còrso ha aggiunto che, indipendentemente dalla flotta, deve avere un esercito di 400.000 uomini per la difesa dei confini;
19
A.Z., Il problema militare italiano, in "Rivista Militare Italiana" Anno XXXVII Turno II ùi-
spensa V - maggio I 892, pp. 2 I 9 -254.
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- poiché, come ha ammesso lo stesso de Zerbi, una flotta non si improvvisa, se si sopprimessero due corpi d'armata per mettere in cantiere quattro grandi navi, tenuto conto dei loro tempi di allestimento (assai lunghi), fino a quando quest'ultime entreranno in servizio noi avremmo due corpi d'armata in meno e una flotta debole; - la mobilitazione dell'esercito richiede pochi giorni, mentre quella della marina con i nostri marinai sparsi in tutto il mondo potrebbe richiederne molti di più, a meno che non si intenda stanziare forti somme annue, oltre ai cento milioni richiesti dal de Zerbi; - premesso che le alleanze non sono concluse a vantaggio di una parte sola, "la grossa lotta, la vera lotta sarà sul Reno e sulla frontiera russa. E che volete che facciano i nostri alleati di una polente_flotta? Corpi d 'armata ci vogliono"; perciò due o tre corpi in più saranno più utili ai nostri alleati di una forte flotta; - il nostro ordinamento militare deve essere fondato sulla necessità di fare da soli; le alleanze possono cambiare, e se esso fosse fondato solo sulle alleanze noi saremmo schiavi della Triplice anziché trame vantaggio; - così stando le cose, la geografia tanto invocata dal de Zerbi in appoggio alle sue tesi ci dice chiaramente che non è conveniente né subordinare il bilancio dell'esercito a quello della marina, né subordinare troppo il bilancio della marina a quello dell'esercito; - il temuto grosso sbarco francese sulle nostre coste non è né possibile né probabile, perché alla Francia non conviene sottrarre centomila uomini al fronte decisivo del Reno, e se lo dovesse tentare, qualche cosa le forze terrestri lasciate nella penisola e le forze navali potranno pur fare; - se fossimo isolati avremmo i nostri possibili nemici sia ad Ovest sia ad Est delle Alpi; e anche ammesso - ma non concesso - che contro la Francia sarebbe più conveniente aumentare la flotta e diminuire l'esercito, contro l'Austria bisognerebbe fare esattamente il contrario, tenendo anche presente che con coste così estese come le nostre non si può fare a meno di immobilizzare una parte del nostro esercito per la difesa da un eventuale sbarco; - in conclusione, "lasciano i dodici corpi come sono o quasi come sono perché essi rappresentano dodici f orze - e non dodici debolezze, come voi dite - e dedichiamo pure il resto alla flotta". È quest'ultima proposta che più si avvicina alle soluzioni effettivamente adottate. Sia pure non a danno degli stanziamenti per l'esercito (e per questo in ritardo), nel 1899 sono impostate due nuove corazzate (Benedetto Brin e Regina Margherita) entrate in servizio nel 1905, seguìte nel 1901-1903 dalle quattro Vittorio Emanuele, ultime pre-Dregnopughtentrate in servizio nel 19071908. Come già detto, sul ritardo nell ' impostazione di nuove e costose navi di linea influiscono più di tutto le spese per la campagna d'Eritrea malamente conclusasi nel 1896, né sembra avere molta influenza il ritorno da parte francese alla costruzione di nuove corazzate a partire dal 1890, con definitivo accantonamento delle teorie della Jeune École.
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Sia il de Zerbi che A.Z. ricorrono ad argomentazioni convincenti, mescolate con altre che lo sono assai di meno. Il de Zerbi drammatizza le oggettive ragioni che impongono un rafforzamento della flotta, e corre troppo in avanti quando indica come unica prospettiva la guerra di squadra contro la flotta francese, quindi l'esigenza per la flotta italiana- chiaramente irraggiungibile e mai raggiunta - di pareggiarla. Molte altre critiche gli possono essere rivolte; ad esempio quando vuol dimostrare il molo di "terza forza" della flotta italiana nel Mediterraneo, non contempla la possibilità - che pure andrebbe a favore delle sue tesi - di una coalizione franco-inglese contro di noi (come poi è avvenuto nel 1940), e stranamente lascia da parte il possibile atteggiamento della flotta russa, tutt'altro che trascurabile; né la indica tra le marine che potrebbero coalizzarsi con la nostra per opporsi all'eventuale duopolio franco-inglese, la cui possibilità di realizzarsi non era così remota, come dimostra la storia del XX secolo. E dopo aver affermato che la marina francese è di poco inferiore a quella inglese, contradditoriamente sostiene che la Francia dovrebbe vedere con favore il rafforzamento della marina italiana fino a raggiungere una forza pari alla sua, mettendola evidentemente in condizioni di inferiorità proibitive in caso di alleanza dell'Italia con l'Inghilterra, date anche le nostre relazioni da sempre amichevoli con l'Inghilterra stessa. A ciò si aggiunga che anche se la marina italiana fosse sola, in caso di parità con quella francese (come anche di una sua non rilevante inferiorità), la Francia nel Mediterraneo avrebbe a che fare con due rivali potenti anziché una. Per carenza di risorse i dodici corpi d'armata dell' esercito italiano sono oggettivamente deboli: ma se si riducesse il loro numero a tutto vantaggio della marina, anziché dodici corpi d'armata deboli se ne avrebbero dieci ugualmente deboli, con pregiudizio anche della difesa del centro-sud e delle isole, che pure preme anche alla marina. Infine, fino a che punto è accettabile la sopravvalutazione delle Alpi come ostacolo naturale e tale da richiedere poche forze per la loro difesa, tanto più che mancano fondi per fortificare almeno le principali vie di facilitazione per un eventuale invasore, mentre il confine dell'Est con l'Austria è notoriamente aperto? Sull'altro piatto della bilancia, vista anche l'esperienza dell'intero XX secolo e in particolare della guerra 1940-1943, è apprezzabile l'accenno del de Zerbi alla necessità di una struttura interforze. È inoltre tra i pochissimi del suo tempo a indicare l'Austria come un potenziale pericolo: ma viene da chiedersi perché non ne trae le dovute conseguenze, sia nei riguardi delle forze terrestri (che evidentemente dovrebbero prepararsi a difendere anche il confine orientale delle Alpi, meno favorevole), sia nei riguardi delle forze navali, che hanno evidentemente bisogno di basi, punti d'appoggio, molto naviglio torpediniero per operare nell ' Adriatico. Va tuttavia riconosciuto che le considerazioni del de Zerbi scendono su un terreno più concreto di quello del Campofregoso e degli autori precedenti, anche se indirettamente dimostrano, con certe impacciate dimostrazioni, la necessità per l'Italia di allearsi con una delle due grandi potenze che dominano il
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Mediterraneo, necessità che deriva dalla carenza di fondi e dalla situazione economica per scarsità di materie prime del paese, sempre più dipendente dal mare anche se la pretesa di ridurre numericamente le forze terrestri (altra cosa è la loro efficienza, che ne potrebbe consigliare la riduzione) con due dei maggiori eserciti europei potenzialmente ostili alle frontiere, appare opinabile almeno quanto la riduzione delle forze navali. Anche A.Z. cade più o meno in quest'ultima contraddizione. Dopo aver sostenuto che l'Italia non deve puntare sulle alleanze e deve cercare di fare da sé (cosa in linea di principio condivisibile, ma in pratica inattuabile) contradditoriamente afferma che alla Germania servono dei corpi d'armata alleati, non delle navi (cosa che va assai meno bene all'Austria). Afferma poi che gli sbarchi sono poco probabili, visto che alla Francia date le sue alleanze non converrebbe sottrarre forze terrestri al principale teatro d'operazione dell'Est; inoltre a suo avviso le forze terrestri e navali francesi potrebbero essere validamente contrastate ecc .. Affermazioni logiche e condivisibili, ma non confermate dalla realtà futura come quelle contrarie dei "navalisti''; inoltre l'opzione strategica francese di non sottrarre forze al fronte dell'Est potrebbe ancor di più valere in campo terrestre, consentendo di diminuire le nostre forze destinate alla difesa delle Alpi ... Le affermazioni di A.Z. dimostrano anche, indirettamente, la necessità per l'Italia di evitare una guerra terrestre su due fronti, in ambedue i casi con eserciti assai più forti del nostro. Evidente la convenienza di allearsi con la Francia (come poi è avvenuto nel 1915-1918), che possedeva oltre che un esercito più forte una flotta più forte, il che non poteva dirsi di un'alleanza con l'Austria. A.Z. ha ragione anche quando contesta l'affermazione (già del Bonamico, del Ricci e di altri) che per la difesa delle coste basta la sola marina; ma in questo caso, come sempre, si può dire che ambedue le tesi contrapposte non sono state confermate dai fatti, almeno nella guerra 1915-1918. Discutibile infine la sua affermazione di lasciare "così come sono" i dodici corpi d'armata, dando "il resto" alla flotta. In realtà i dodici corpi d'armata non potevano certamente rimanere "cosi come erano", perché avevano notoriamente bisogno di forti iniezioni di risorse per artiglierie, mitragliatrici, mezzi di trasporto ecc. ecc.; ma anche la marina aveva bisogno di rinforzi, situazione derivante dalla più volte sottolineata ambiguità geostrategica dell'Italia, e perciò risolvibile solo con le alleanze. Nel successivo anno 1893 viene pubblicato un importante opuscolo dal titolo L'Italia deve essere potenza terrestre o marittima? il cui autore è il già citato maggiore dell'esercito Manfredi,20 che ricordando anche il Ricci, all'interrogativo del titolo risponde senza equivoci (ma anch'egli non senza contraddizioni) che l'Italia deve essere anzitutto una potenza marittima in grado di contendere il dominio del mare alla Francia, entrando così definitivamente nel
20 Cfr. Cristoforo Manfredi, L 'JtaUa deve essere potenza terrestre o murillima? Roma, Voghera 1893 (ristampa 1896 e 1899; ristampa 1996 Roma, Forum di Relazioni Internazionali).
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campo dei navalisti. Definitivamente, perché già anticipa talune sue posizioni del 1893 in un articolo del 1886 finora mai citato e - caso strano - pubblicato dalla Rivista Militare, 21 anche se certe sue idee certamente non possono essere condivise dal vertice dell'esercito. Si oppone alla proposta di togliere 50 milioni all'esercito per darli alla marina, ma si affanna a dimostrare che, mentre le porte di casa sulle Alpi sono "chiuse e strachiuse", possiamo subire gravi offese dal mare, dove siamo troppo deboli. E dalla flotta pretende molto di più di Bonamico e Perrucchetti, visto che i nostri punti deboli non sono attualmente le porte di casa e neppure le zone di sbarco in terraferma. Sono le città marittime e le isole. Sono tutti i punti do-
ve al nemico non possiamo opporre l'esercito[... ]. L 'Italia non sarà mai sicurafinzhè non abbia una.flotta costiera capace di guardare le coste; e non sarà mai rispettata e temuta.finché non abbia una flotta d 'alto mare, capace di offendere le coste altrui...
A suo parere bisogna rinunciare a una mentalità "continentalista" e "difensivista" molto diffusa, perché "chi bada solo a parare, finisc:e col prenderle [... ]. Se nel Mediterraneo, in mezzo a cui la natura ci ha posto. non riusciremo a muoverci a nostro agio, a prendere la posizione che ci compete, potremo faticare come schiavi nei campi e nelle officine, che saremo nondimeno schiacciati nelle lotta per la prosperità [.. .]. La guerra per l'indipendenzafù c:omhattuta dall'esercito nella valle del Po. Quella per la prosperità (ove occorre la forza) deve combatterla la flotta nel Mediterraneo", perché comunque vadano le cose in terra, se saremo vinti sul mare perderemo tutto. Bisogna anche fare i conti con la triste eredità di Lissa, visto che " la nostra prima e unica battaglia navale fu una sconfitta; ecco perché i nostri diritti in mare sono pochi; fìnché un secondo esperimento non cancelli il primo, o le nostre forze navali siano tali che s'impongono senza esperimento". Nella nostra situazione geostrategica risulta poco conveniente allearci [come al momento sta avvenendo - N .d .a.] con una poten7,a continentale o prevalentemente continentale, perché "la nostra alleata ci guarderebbe soltanto dalla parte donde abbiamo meno a temere"; quindi ci converrebbe allearci con l'Inghilterra, che domina il Canale di Suez e il Mediterraneo Orientale e con il possesso di Gibilterra custodisce le chiavi del Mediterraneo intero. Per l' Inghilterra questo mare è solo una strada coperta, una via di transito dal Tamigi al Gange che passa vicino alle nostre coste; essa non ba interesse a conquiste territoriali anche perché ormai non mira più a estendersi ma a cona ervare, e in campo terrestre è assai debole. Tra le grandi potenze che dominano il Mediterraneo è quella che ci dà meno fastidio, e la sua presenza ci libera da una situazione infinitamente peggiore: il Mediterraneo francese. Dal canto
21 ID.,
66.
La lotta per la prosperità, in "Rivista Marittima" 1886, IV Trim. Fase. IV ottobre, pp. 40-
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suo, ha interesse che sorga nel Mediterraneo una potenza marittima capace di tener testa in questo mare al la Francia. Gli stessi concetti dell'articolo del 1886 sono ripetuti dal Manfredi con maggiore ricchezza e profondità di argomenti nel citato, fondamentale opuscolo del 1993, segno che la situazione non è cambiata rispetto a quell'anno e forse a molto prima. Vi si traccia un quadro ancor più drammatico di quello precedente: alleati con la Germania [come avviene con la Triplice firmata nel 1882 N.d.a.], vincitori sulle Alpi e magari sul Reno, scenderemmo, se vinti sui mare, al grado di seconda potenza; scenderemmo ai di sotto della Spagna. Soli, la stessa nostra esistenza nazionale sarebbe in pericolo [ ...]. E l'invasione, venga dalle A /pi o venga dal mare, può essere la rivoluzione prima della sconfitta [riferimento alla grave situazione economica del momento e ai conseguenti moti sociali, che sembrano accreditare le previsioni della Jeune École - N.d.a.]. Ed anche senza guerra,finche la nostra flotta non sarà in grado di misurarsi testa a testa con quella della Francia [ma con quali risorse? - N_d_a_ ], /'italia sarà grande potenza solo di nome[.. .]. Ma che c'importa d'essere potenza di primo o secondo ordine'! A noi basta che l'Italia sia prospera. Così dicon certi economisti [unico accenno ai problemi economici e di bilanc io N.d.a.]. Il guaio però si è che una grande nazione europea la quale non sia grande potenza di nome e di fatto, una nazione di trentatrè milioni [di abitanti] che non sia rispettata e temuta, non può essere che miserabile.22
Come può la flotta italiana misurarsi "testa a testa" con quella francese? Su questo punto il Manfredi sembra simpatizzare per le idee espresse in Parlamento dall'ammiraglio Morin, secondo il quale la flotta italiana [ma con quale consistenza? - N.d.a.] non dovrebbe rimanere in being (in attesa di un'occasione favorevole che potrebbe non presentarsi mai, lasciando intanto che il nemico distrugga il nostro commercio marittimo, bombardi le nostre città costiere ecc.), ma dovrebbe senz'altro "contendere al nemico del dominio del mare, accettando [anche se inferiore? - N.d.a.] in mare aperto, la lotta alla quale sarà infallibilmente provocata". Egli non prende posizione, ma constata solo che tra "queste idee grandi, ardite,forse temerarie, espresse da un ammiraglio tra i più stimati" e quelle - tendenti ad attribuire alla flotta un ruolo marginale - di parecchi esponenti dell'esercito, "si vedrà chiara una divergenza enorme. Si vedrà che, se manca nell 'esercito il concetto di ciò che può e deve fare la flotta, non esiste neppure nell'armata [navale] l'accordo intorno alle idee fondamentali per l'impiego di sé stessa. Come può aversi ombra di piani combinati tra la.flotta e l'esercito?". La situazione - conclude pessimisticamente - non è perciò mutata rispetto al 1866, quando non si aveva idea di quello che dovesse fare in guerra ciascuna delle due forze armate.
22
ID .• l 'ltalia deve essere pntenza terrf'-<tre n mari/lima ? r- 'i6.
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Comunque, pur assegnando alla flotta un impegnativo ruolo paritario rispetto ali' esercito, come in precedenza il Manfredi si dichiara contrario alla proposta di ridurre da 12 a 1O i corpi d'annata, per destinare le economie così realizzate all'aumento del bilancio della marina: ciò non tanto per ragioni militari, quanto per ragioni politiche e morali. Sotto il rapporto militare si disse egregiamente che non conviene indebolire l'esercito prima di avere rinforzato la marina, della quale aggraverebbe il compito che è già superiore alle sue jòrze. Sotto il rapporto politico e morale, le ragioni di nulla togliere a/l'esercito per dare alla marina, sono anche più forti e non occorre qui specificarle. Perciò nessuno degli ufficiali di marina che si trovavano alla Camera sorse ad appoggiare la proposta [si riferisce a quella del Ricci - Cfr. Tomo I, cap. I - N.d.a.] e fecero tutti benissimo.
Ancora una volta le predette argomentazioni sono accompagnate con scarsa coerenza dalla dimostrazione che il confine alpino occidentale è ben guardato, tanto che a suo parere ogni via di facilitazione vi è ben sbarrata grazie anche alle ottime truppe alpine [fatto negato molto più tardi dalla Commissione d'Inchiesta per l'esercito - Vds. Tomo I cap. VIII - N.d.a.]. Non gli sembra più valida la tesi che le Alpi, così come sono state superate abbastanza facilmente in passato (per esempio da Napoleone), lo potranno essere anche in futuro: rispetto ai tempi passati è di gran lunga aumentata la forza numerica degli eserciti e sono enormemente aumentate anche le loro impedimenta (artiglierie, carriaggi ...). Gli eserciti del momento, di centinaia di migliaia di uomini, sono perciò obbligati a dividersi per passare le Alpi e a riunirsi solo davanti al nemico. È vero che la frontiera con la Svizzera e quella con l'Austria sono più agevoli per l'invasore e meno fortificate: però si deve tener conto che "dalla parte della Svizzera ci copre la neutralità di questo Stato, finché essa dura; ma se vi fossero gravi ragioni per credere che dovesse cessare, non sarebbe poi difficile prendere in tempo buone misure. Dalla parte dell'Austria ci ~{fida provvisoriamente l'alleanza con questo Stato, che non diremo di certo debba essere eterna, ma che durerà lungamente, perché si fonda su ragioni di ordine così generale che non possono jàcilmente mutarsi,,_ D'altra parte, pur negando (non è certo il solo) la tesi continentalista che le sorti d'Italia si decidono nella val padana, il Manfredi ammette che essa è "il principale dei nostri teatri d'operazione". A suo parere, l'alleanza con la Ger'mania di per sè ci garantisce in modo assoluto da un attacco francese sulle Alpi, che potrebbe avvenire solo dopo la sconfitta della Gennania sul fronte del Reno. E poiché i nostri due "terribili concorrenti" nel Mediterraneo sono nel presente e nel futuro l'Inghilterra e la Francia, "un accordo coll 'Jnghilterra su basi solide e durature è possibile se non facile, ed in Italia vivamente desiderato: [invece] perché divenisse possibile colla Francia sarebbero necessari avvenimentijùori d'ogni previsione"; ciò non toglie che "soli o accompagnati, bisogna contare essenzialmente sui nuovi mezzi".
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All'inizio del secolo XX, cioè dopo sette anni, ancora una volta il problema non è cambiato e il Manfredi approfondisce le stesse idee con due articoli sulla Rivista Marittima, 23 nei quali constata che nessuno ha confutato il suo scritto del 1893 e si sofferma in particolar modo sull'opinabile dimostrazione 0 che "/ - Il dominio del mare in mano all'Italia renderebbe impossibile alla Francia l'invasione della valle del Po; 2° - Il dominio del mare in mano alla Francia le rende superflua questa invasione" e che la difesa terrestre e marittima non deve limitarsi alla difesa della val padana. In particolare citando ancora il Bonamico, il Ricci, il Morin, il Manfredi si sofferma sul problema della difesa del la riviera ligure contro sbarchi e offese dal mare, sostenendo che solo con la nostra preponderanza sul mare è possibile eliminare un grave pericolo da questa parte. Infatti Per la strada della Riviera non passa un gatto se chi ha il dominio del mare non vuole. Col dominio del mare in mano al nemico, non solo viene a mancarci la difesa dal mare - la più indicata nelle specialità del caso - ma è sostituita da una quantità di offesa che dovete ritenere grandissima, senza poterla esattamente valutare; perché questo tratto di frontiera è per il nemico non solo una hasP. d'invasione ma una base d'approvvigionamento necessaria, ad invasione riuscita [... ]. li dominio del mare, escludendo gli sbarchi, rendendo impossibile la sfilata per la strada della Riviera, escluderebbe perfino la possibilità della lotta in terra da Ventimiglia a Genova, assicurerebbe questa città dal blocco e dai bombardamenti e toglierebbe al nemico una base di approvvigionamenti che gli è assolutamente necessaria.
Con tale dominio il nemico potrebbe sbarcare sulla riviera 150.000 uomini e impadronirsi di Genova, "il colosso dai piedi di creta che - come l'Italia - presenta al nemico da terra la testa, difesa da un elmo d'acciaio, e al nemico da mare, il corpo nudo". Per opporsi allo sbarco, tenuto conto dalle vie di facilitazione che si offrirebbero al nemico per raggiungere la valle del Po, occorrerebbe una forza equivalente (150.000 uomini), che ovviamente indebolirebbe il fronte delle Alpi occidentali_ Con il dominio del mare da parte nostra, invece, mentre per l'esercito francese i 150.000 uomini non impiegati per lo sbarco in Liguria sarebbero superflui, per la di fesa delle Alpi il nostro esercito oltre ai numerosi forti di sbarramento disporrebbe di tutte le sue forze, più che sufficienti per fronteggiare un massimo di 250.000 uomini che potrebbero attaccare lungo le sole cinque linee di facilitazione. Non basta: dopo questa valutazione il Manfredi dipinge con tinte oltremodo drammatiche la situazione dell'esercito francese senza il dominio del mare, che anche se riuscisse a passare le Alpi "si troverebbe col mare chiuso, col1'Alpi alle spalle e con un esercito a fronte doppio o triplo di forza", perciò "sa-
23 ID., Da terra e da mare, in "Rivista Marittima" 1900, IV Trim. - novembre, pp. 2 15-250 e I Trim. 1901 - gennaio, pp. 81-105.
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rebbe in trappola", né potrebbe vivere con le sole requisizioni. E anche supposto che l'esercito francese non trovasse resistenza in val padana, giungerebbe in cattive condizioni a ridosso dell'Appennino, concepito da taluni scrittori militari italiani come il vero baluardo della difesa d'Italia, e "si troverebbe di fronte un nuovo passaggio delle A /pi, con minor numero di strade, col nemico sui due versanti e con linee di comunicazione impossibili"', mentre invece il nostro esercito, appoggiato all'Appennino e sicuro grazie al dominio del mare di ricevere da tergo tutti i rifornimenti necessari, "si troverebbe in posizione così forte da non invidiare forse quella dei difensori alpinf'. La seconda parte del precedente asserto - il dominio del mare da parte della Francia, che le renderebbe superflua un'invasione del territorio nazionale attraverso le Alpi - è dimostrata dal Manfredi ricorrendo spesso ad argomentazioni usate anche da alcuni scrittori navali coevi: le difficoltà per il passaggio delle Alpi sarebbero tali da consigliare uno sbarco nell' Italia peninsulare e insulare, che grazie alla maggiore disponibilità di naviglio mercantile da parte francese rispetto ai vecchi calcoli del Bonamico, del Ricci ecc. dovrebbe raggiungere la forza di 250-300.000 uomini sbarcati, equivalente alla forza dell'invasore attraverso le Alpi sulla quale in passato hanno basato i loro calcoli il Ricci e il Dabormida. E anche nel caso che il difensore aftluisca in tempo utile nella località di sbarco, l'invasore potrebbe contare sulla superiorità delle artiglierie navali, e in presenza di un forte contrasto anche da parte di fortificazioni potrebbe facilmente cambiare punto di sbarco; per di più diversamente da quanto accadrebbe nell'attacco attraverso le Alpi, le forze sbarcate potrebbero essere facilmente rafforzate da una seconda ondata... Inoltre - e questo è l'aspetto più originale delle sue tesi - il Manfredi recepisce in pieno le teorie della Jeune École sul carattere decisivo che avrebbero i bombardamenti delle città costiere italiane, ivi compresa l'affennazione che non bisogna rispettare le città aperte, perché in questo caso "non varrebbe la pena di spendere tanto per la flotta; basterebbe che la più debole si chiudesse in un porto fortificato per togliere all'altra il suo obiettivo. Che servirebbe allora il dominio del mare? A far viaggiare con sicurezza convogli di sbarco? Qualche volta gli sbarchi non convengono. Non si può ridurre all'uffizio di scorta il compito di una }lolla [... ]. Taglieggiare, predare, bombardare, incendiare quanto di meglio il nemico ha in mare o sulle coste a portata di cannone, ecco il compito normale di una flotta". Oltre al bombardamento delle città marittime, i cui effetti non si annullano certo invitando le popolazioni a sopportare e tacere [come volevano il Bonamico e altri - N.d.a.], anche la vita della valle padana verrebbe soffocata senza sbarcare, con la distruzione del commercio marittimo e il blocco del porto di Genova, che impedirebbero alle industrie di funzionare e arresterebbero il commercio terrestre. E la guerra terrestre? In questo caso "il nemico tiene il grosso del suo esercito disponibile e pronto per ogni occasione. l'esercito nostro è messo fuori questione, cioè nell'assoluta impossibilità di agire[ ... ]. I corpi lasciati nell'Italia peninsulare se ne stanno con l 'arma al piede aspettando gli sbarchi che non arrivano; quelli
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nelle Alpi e nella valle del Po aspettano le colonne che non si avanzano", né è ipotizzabile un passaggio delle Alpi a rovescio (cioè dall'Italia alla Francia), il quale sarebbe ancor più difficile che dalla Francia in Italia. L' aspetto più apprezzabile e meno scontato dei precedenti scritti del Manfredi è l'accenno ai pesantissimi riflessi che il blocco del traffico marittimo avrebbe sulla vita della pianura padana, che sarà approfondito in altri scritti. In effetti la guerra del 1866, anche se relativamente breve, aveva già dimostrato che l'economia e l'industria nazionali non erano in grado di far fronte da sole alle esigenze logistiche di un grande esercito nazionale mobilitato, costringendo fin da allora il Ministero della guerra a ricorrere a massicce importazioni via mare di armi, cavalli, granaglie ecc. 24 Questo fatto basilare viene ignorato tanto dagli storici terrestri che da quelli navali; il Manfredi è perciò tra i primi, se non il primo, a cogliere la crescente importanza delle importazioni via mare specie ma non solo di carbone e grano - per un Paese povero di materie prime come l'Italia. 1n secondo luogo, mentre gran parte degli scrittori navali italiani coevi (tra i quali il Bonamico) dimenticando Mahan ha visto nelle colonie solo un inutile e dannoso dispendio di fondi a tutto danno delle esigenze finanziarie della marina, il Manfredi le giudica utili e necessarie aree di espansione economica, commerciale e demografica.25 Premesso che nessun Paese è totalmente autosufficiente e che la necessità degli scambi cresce con la civiltà e con il progresso industriale e agricolo, egli nota che ''.fra i paesi che per la natura delle loro frontiere e per la qualità e quantità dei loro prodotti, sono più a pericolo di un blocco, e ne risentirebbero più gravi conseguenze, è l'Italia". L'Italia è infatti separata dal continente da un muro (le Alpi) le cui aperture (ferrovie e strade ordinarie) sono poche, e potrebbero ulteriormente ridursi in caso di guerra con uno degli stati confinanti. Importiamo via mare quasi tutti i generi di prima necessità (732.000 tonnellate all'anno di grano dalla Romania, dalla Russia, dalla Turchia, dall'Asia, dal1' America; 14-15.000 tonnellate al giorno di carbone soprattutto dall'Inghilterra); né potremmo convenientemente sostituire le importazioni via mare con importazioni per ferrovia, sia per le enormi esigenze di vagoni ferroviari, sia per la scarsità di passaggi attraverso le Alpi, sia soprattutto per i maggiori costi di tali impostazioni. A loro volta le colonie, anche se alcune di esse [riferimento alle poche italiane del momento? - N.d.a.] rappresentano "speranze più o meno fondate e passività più o meno gravose, dove vivono soltanto g li immigrati che vi mantiene il governo", rappresentano delle aree di consumo, dei mercati privilegiati dove vivono nuclei di popolazione nazionale, oppure "paesi di scarico della popolazione esuberante" seguita dai prodotti nazionali; so-
24 Fermccio Botti, la logistica dell 'Esercito ltalia110, Roma, Uf. Storico SME I 99 I - Voi. Il (186119 1!!), pp. 123-2 14. 25 ID., Le colonie e l 'avvenire d'Italia, in "Rivista Marittima" l 901 , I Trim. Fase. 11 pp. 3 13-327 e Gli scambi via mare, in "Rivista Marittima" 1901 , n Trim. Fase. TI pp. 219-2SS.
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no perciò in atto aspre contese coloniali tra le potenze europee, perché la divisione dei territori oltremare non è finita. Di qui lo sviluppo delle marine militari e mercantili del momento: "aumento di popolazione, necessità di scambi, colonie in casa altrui [come i forti nuclei di popolazione italiana nel Sud-America - N.d.a.], imperi coloniali, marine mercantili, marine militari sono tutti elementi della situazione mondiale legati l 'uno all 'altro come vagoni dello stesso treno, e se muove uno, muovono tuttf'. Le fitte linee di navigazione che attraversano tutti i mari sono "le vene e arterie" che uniscono le colonie alle madri patrie e rendono possibili gli scambi, ma possono in tutte o in parte essere recise da una flotta nemica. Ecco perché la Germania, che pure ha poco da temere da sbarchi e bombardamenti, ha sentito il bisogno di sviluppare dal nulla una marina da guerra, in appoggio a una marina mercantile sorta per generazione spontanea. Ecco perché l'Inghilterra, che controlla le grandi vie del commercio mondiali e ha una grande flotta, è "una potenza che.fa tremare il mondo", anche se nessuno teme i suoi sbarchi e il suo esercito si è dimostrato incapace di stroncare prontamente larivolta del Transvaall, la cui popolazione non arriva a un terzo di quella di Londra: ma se il Transvaall fosse stato un paese industriale come il Belgio, oppure un'isola o una penisola, "in sei mesi, senza sbarcare un uomo [la flotta inglese] l'avrebbe preso per fame". Ciò dimostra, secondo il Manfredi, che specialmente per l' Italia un blocco dal mare sarebbe letale. Basterebbe bloccare i tre principali porti che dal mare alimentano la val padana (Savona, Genova e Venezia) e spazzare via dal mare aperto la nostra flotta: le fabbriche del Nord sarebbero costrette a fermarsi per mancanza di carbone, con centinaia di migliaia di operai sul lastrico, il pane sarebbe ridotto ad articolo di lusso, mentre "i treni e i carri di grano, appena entrati nella valle del Po, sarebbero presi d 'assalto come in una città assediata". Questo fatto per il Manfredi dimostra che una forte flotta militare non serve solo ad evitare sbarchi e bombardamenti dal mare, ma deve anche impedire che un popolo ceda per fame; sì che agli scrittori di storie dell'avvenirc,poiché è genere di moda, io propongo un tema, non più vergine ma non ancora sfruttato: sei mesi di blocco nella guerra del 19... ; quando il consumo di carbone sarà raddoppiato pel crescere delle industrie, la produzione di grano sarà ridotta a metà per l'abolizione del dazio protettore, e la popolazione vivente negli odierni confini del regno toccherà i quaranta milioni.
Alla luce di quanto è avvenuto specie nella seconda guerra mondiale, con le importazioni via mare dell 'Ttalia praticamente soffocate, questa conclusione si colora di toni profetici e annacqua di molto l'erronea prospettiva della guerra breve e decisiva unicamente tra eserciti e tra flotte militari, che domina il pensiero militare terrestre e navale fino al 1915 e oltre. Questa prospettiva è il maggior merito del Manfredi, perché è tra i primi a non mettere la guerra breve alla hase delle sue teorie, e a far emergere la debolezza economica, indu-
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striale, agricola dell'Italia, che la rende fin da allora particolarmente dipendente dai rifornimenti via mare, e al tempo stesso militarmente non competitiva rispetto alle grandi potenze_ Per il resto, viene da chiedersi: se è così, dove è possibile trovare le risorse e la capacità industriale per creare e mantenere in efficienza una grande marina capace di competere almeno con quella francese? E come possono tali risorse derivare da quanto resta dal bilancio dell'esercito senza spostamenti sensibili di risorse, come il Manfredi vorrebbe? Sempre su questo terreno, come si è visto, egli attacca "certi economistf', ai quali importa solo che l'Italia sia prospera, senza alcun interesse per le esigenze della marina. Qui va osservato che lo sviluppo economico di un Paese era ed è la base necessaria - ancorché non sufficiente - per le esigenze delle sue Forze Annate, e che quindi un Paese doveva anche allora essere prima di tutto economicamente prospero. Né sta scritto da nessuna parte che l'Italia del tempo per essere rispettata e temuta, doveva essere una grande potenza; lo status di grande potenza andava riservato a Paesi con ben altre possibilità economiche e ben altri bilanci militari, come erano- c sono sempre stati - l'Inghilterra, la Francia, la Germania, la Russia e (già allora) gli Stati Uniti. Il pesante appellativo di "miserabile" usato dal Manfredi andava perciò indirizzato a un Paese che non destinava le risorse che gli era possibile destinare - diverse da quelle necessarie - alla sua difesa: ma era questo il caso dell'Italia? Anche in relazione alla sua dipendenza dal mare, appariva indiscutibile la convenienza dell'Italia di allearsi con l'Inghilterra; purtroppo il governo inglese del tempo notoriamente non desiderava affatto allearsi con l' Ttalia, e allora non era il caso di indicare questa come un 'opzione realistica. Si può anche aggiungere che I 'Ttalia era una penisola con due eserciti più forti del nostro ai confini e con il centro di gravità della vita economica e industriale - per ammissione dello stesso Manfredi - nella pianura padana e inevitabilmente gravitante verso l'Europa continentale; quindi data la sua ambiguità geostrategica l' Italia non era, non poteva essere solo una potenza marittima, né sussistevano elementi sufficienti per affermare in modo sicuro e tassativo che le Alpi erano un forte ostacolo: il fatto sicuro era anzi che le fortificazioni di confine non erano affatto sufficienti, anche a Ovest. Se la guerra - come giustamente riconosciuto dal Manfredi non poteva e non doveva concludersi con una guerra di eserciti nella pianura padana, a maggior ragione vi era necessità di non trascurare del tutto gli apprestamenti militari terrestri nella penisola e nelle isole. E se probabilmente l'esercito francese avrebbe gravitato sulla frontiera da Reno (ma di questo, non v 'era certezza), con altrettanta probabilità - vista anche la notoria rivalità sia con l'Inghilterra sia con la Germania - la flotta francese avrebbe potuto gravitare fuori dal Mediterraneo, alleggerendo la posizione navale dell'Italia. In conclusione: a) l' ipotesi di pareggiare la flotta francese appare irrealistica anche a costo di diminuire l'esercito, né è da escludere una coalizione di ambedue le flotte contro quella italiana; b) altrettanto irrealistica è la possibilità di pareggiare in campo terrestre ciascuno dei grandi eserciti alle frontiere; e) di conseguenza, solo con le alleanze l'Italia poteva alleg-
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gerire una posizione precaria, anche per il suo scarso sviluppo industriale ed economico e per la carenza di materie prime. Queste interfacce del problema della difesa nazionale, abbinate alla sua mancata impostazione interforze, indirettamente ma molto chiaramente risultano dagli scritti del Manfredi, ma valgono anche per altri autori. Egli tocca però il punto meno convincente quando tenta di dimostrare più nel dettaglio i vantaggi del dominio del mare - e gli svantaggi del mancato dominio - sia per l'Italia che per la Francia, con un ragionamento nel quale tutto è rigidamente pre-calcolato, e non si lascia nessun spazio a una meccanica degli avvenimenti diversa da quella da lui immaginata, la sola ad accreditare le sue tesi; i passaggi delle Alpi diventano facili più a Sud, dalla parte della Liguria, e difficili più a Nord, dove sono rigidamente cinque e ciascuno con l' esatta capacità logistica da lui prefissata, senza possibilità di rinforzi per le forze nemiche in prima schiera; il nostro esercito svolgerebbe un'azione difensiva efficace solo nelle Alpi Occidentali più a Nord, non nelle Alpi liguri, né tanto meno nella penisola e nelle isole; i 150.000 uomini destinati a superare le Alpi liguri sarebbero esuberanti in caso di mancato dominio del mare da parte francese, mentre i nostri 150.000 destinati a fronteggiarli rafforzerebbero la già imponente forza del nostro esercito, tanto imponente che non si capisce perché una sua aliquota consistente in mancanza di dominio del mare da parte nostra non dovrebbe presidiare con efficacia l'Italia peninsulare e le isole: il nemico può sbarcare ovunque e le fortificazioni costiere possono essere aggirate; e come mai un ufficiale dell'esercito come Manfredi non si preoccupa nemmeno della mole di armi, equipaggiamenti ecc. che sarebbero necessari per forze terrestri così imponenti? Questo fa pensare che quella del Manfredi è in senso contrario una costruzione artificiosa come quella del Guerrini, che mirava a dimostrare lo scarso valore del dominio del mare, o come quella dei navaJisti, per i quali le Alpi erano un ostacolo naturale di per sé molto difficile da superare. Le tesi del Manfredi sono fortemente contestate dal maggiore di Stato Maggiore Cavaciocchi,26 il quale prevedibilmente condivide appieno la sua opinione contraria alla diminuizione delle forze terrestri a pro di quelle marittime, ma giudica "paradossali'' le restanti considerazioni, pur condividendo l'opportunità di rafforzare la marina (ma, anche nel suo caso, come e con quali soldi?). lo sostanza il Cavaciocchi vuol dimostrare che al contrario di quanto sostiene il Manfredi il pericolo maggiore viene dalle Alpi, anche perché la difesa contro l' invasore non sarebbe così facile come egli vorrebbe, mentre anche gli sbarchi non sarebbero così agevoli come risulta dai suoi scritti. Ed esordisce facendogli carico di non considerare affatto l'ipotesi di una guerra tra l'Italia e l' Austria, nella quale il confine dell'Isonzo sarebbe aperto e il dominio del mare non avrebbe l'importanza che ha in un conflitto con la Francia. Dopo di che,
26 Alberto Cavaciocchi, Dalle Alpi o dal mare? in "Rivista Militare Italiana" Anno XLVI - I scm. ottobre 1901, pp. 561-594.
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si sofferma soprattutto sulla contestazione delle due citate ipotesi del Manfredi sugli effetti del dominio del mare (che in mano all 'ltalia renderebbe impossibile per la Francia l'invasione della valle del Po, mentre in mano alla Francia renderebbe supe,flua tale invasione). Per quanto attiene alla prima ipotesi il Cavaciocchi con un ragionamento invero confuso giudica superata l'affermazione del Ricci - fatta propria dal Dabormida e dallo stesso Manfredi - che l' invasione avverrebbe tassativamente per cinque strade ciascuna della portata logistica di 50.000 uomini. Osserva che essa "non venne, né poteva venire da una dimostrazione matematica", ma a sua volta non indica delle cifre diverse, né dimostra matematicamente alcunché. Par di capire che lo sforzo nemico avverrebbe anche lungo itinerari e mulattiere secondari, e che anche prima dello sbarco in piano delle colonne, vi sarebbero dei combattimenti dall'esito incerto; inoltre allo sbocco in piano ditali colonne il difensore si troverebbe a sua volta in difficoltà, sia perché non sarebbe facile individuare lo sforzo principale nemico, sia perché il terreno favorirebbe più l'attaccante che il difensore; e se con una penetrazione anche dalle Alpi marittime la minaccia francese si dovesse sviluppare lungo tutto l'arco delle Alpi, per il difensore aumenterebbero le difficoltà; eppure il Manfredi ha ammesso che il nostro esercito dispone di forze sufficienti, né il problema strategico cambia per l'invasore. Per quanto attiene agli sbarchi, con opportuna citazione di testi francesi il Cavaciocchi dimostra che per carenza di naviglio mercantile (il cui tonnellaggio reale sarebbe assai interiore a quello considerato dal Manfredi e altri), anche le forze sbarcate sarebbero molto inferiori a quelle da lui considerate e inoltre i tempi dello sbarco, nonostante la breve distanza dei porti di partenza, sarebbero notevolmente più lunghi. In sostanza secondo il Cavaciocchi, tenendo • conto del naviglio in riparazione e delle navi mercantili armate come incrociatori ausiliari, anche dopo aver completamente interrotto il commercio marittimo "la Francia può imbarcare poco più di due corpi d'armata, cioè un massimo di 70.000 uomini", cifra che si riduce notevolmente perché bisogna considerare anche il tempo necessario per riunire nei porti il naviglio. Così facendo si disporrebbe di sole 160.000 tonnellate, sufficienti per trasportare 1 corpo d'armata + 1h, corrispondenti a 50.000 uomini [cifra generalmente ipotizzata dagli autori terrestri - N.d.a.], a fronte dei 250.000 circa ipotizzati dal Manfredi; tant'è vero che la Francia per la spedizione contro il Madagascar dovette noleggiare navi inglesi; bisogna inoltre tener conto di Comandi, servizi, salmerie [come vedremo in seguito - N.d.a.]. Sempre riguardo ai tempi di sbarco si deve tener conto che sbarcando 50.000 uomini per ciascun viaggio per sbarcarne 250.000 occorrerebbero cinque viaggi, intervallati di un minimo di 20 giorni uno dall'altro (8+8 giorni per sbarco e imbarco, più 4 giorni di traversata), sì che tra la prima e quinta spedizione occorreranno ben 8 giorni. Inoltre uno sbarco simile sarebbe utile all'avversario nei primi quindici giorni di guerra, per ostacolare la mobilitazione; "ma la spedizione è a sua volta subordinata alla conquista del dominio del mare,
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alla mobilitazione e al concentramento delle forze terrestri e alla raccolta del naviglio, la quale ultima non richiede meno di due mesi; lascio a chi legge le conclusioni''. E anche ammesso che la difesa non giunga in tempo a contrastare lo sbarco, o meglio che pur essendo in misura di farlo, se ne astenga a causa dell'appoggio che l'invasore troverebbe nel fuoco delle navi, "tutti sanno che è buona regola non contrastare materialmente lo sbarco, ma attaccare il nemico sbarcato, appena si allontani un poco dalla costa [... ].L'aver posto piede sulla costa nemica non solo non significa aver superato le maggiori difficoltà, ma indica invece il punto di partenza per andare incontro ai maggiori pericoli". E per quanto riguarda la difesa della Sicilia e Sardegna, "è lecito sperare" che il presidio che vi rimane potrà bastare a sè stesso anche se isolato; comunque le sorti delle isole, come quelle del continente, dipenderebbero dalle battaglie decisive [marittime o terrestri? - N.d.a.] che sarebbero combattute altrove. Citando fonti francesi contrarie alle teorie della Jeune École, il Cavaci occhi nega anche gli effetti morali decisivi dei bombardamenti dal mare, afferma che laJeune École è onnai tramontata anche in Francia e non ritiene che il blocco avrebbe gli effetti paralizzanti dei quali parla il Manfredi, perché in Italia potrebbero ugualmente aITTuire rifornimenti dall'Austria e dalla Svizzera; e al contrario del Morin e dello stesso Manfredi crede all'efficacia della nostra flotta in being, che oltre a proteggere la mobilitazione dell 'esercito e a impedire nella fase iniziale piccoli sbarchi (in questa fase i grossi sbarchi non sono probabili) "sarebbe la più efficace minaccia contro le crociere nemiche che volessero distruggere il nostro commercio e contro i tentativi che navi isolate o piccoli gruppi di navi volessero fare contro i nostri porti'', renderebbe mal sicura la raccolta di naviglio per lo sbarco da parte del nemico, ecc. Inoltre associandosi alle tesi del Barone sulla Stampa, il Cavaciocchi nega di voler sostenere a priori una tattica temporeggiante per la nostra flotta: per lui la convenienza del temporeggiamento o della battaglia dipende dalle circostanze, nell'intesa che in molti casi l'ordinamento tattico e l'energia possono supplire all'inferiorità numerica, e che [questo è molto discutibile; è vero il contrario - N.d.a.] il più forte "non cercherà la battaglia se non quando avrà la maggior somma di probabilità favorevoli", mentre i I più debole, per timore di perdere una buona occasione, la cercherà anche quando tali probabilità siano minori [ma a chi è inferiore di forze si presenteranno ben rare occasioni per attaccare battaglia con qualche prospettiva di successo - N.d.a.]. La conclusione del Cavaciocchi è che nel caso di una guerra dell'Italia "la salvezza è riposta essenzialmente nell'esercito e la partita non dovrebbe considerarsi perduta quando, pur essendo distrutta la flotta, la vittoria pendesse indecisa dal lato di terra". A suo parere la guerra marittima si prolungherebbe tanto più, quanto minore fosse la disparità tra le due flotte; ma data la forte preponderanza francese, "non credo che sul risultato finale avrebbe grande influenza l'essere il loro rapporto [a nostro sfavore] di I a 3 come è presentemente, oppure di uno a due, come taluno propone". Anche a prescindere dalla
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spesa proibitiva che comporterebbe solo il raggiungimento della proporzione di ½ rispetto alla flotta francese (circa mezzo miliardo), per il Cavaciocchi bisogna considerare che la flotta italiana in una guerra difensiva avrebbe un ruolo secondario, mentre per loro natura le forze navali in generale sono uno strumento offensivo e adatto a scopi aggressivi e di espansione, necessari solo per nazioni che, come la Germania del tempo, sono in piena espansione commerciale e possiedono già una grande flotta mercantile e un vasto impero coloniale; perciò dato che "l'Italia è ancora in infanzia sotto questo rispetto, voler imitare la Germania sarebbe precorrere i tempt'. In particolare, ispirandosi almeno in parte all'idea del Ricci di prendere l'iniziativa operando con la nostra flotta, inferiore di forze, prima che le due francesi del Mediterraneo e dell'Atlantico si siano riunite contro di noi, esprime il parere che "il nostro programma navale deve essere quello di possedere una flotta che uguagli o superi le forze che la Francia tiene normalmente a Tolone o Biserta"; in tal modo, nel caso che la Francia non possa allontanare dall'Atlantico la sua squadra colà destinata, o che (come è probabile) possa distoglierne solo una parte [chi lo assicura? e se concentrasse tutta la flotta almeno temporaneamente nel Mediterraneo? - N.d.a.J, alla squadra italiana riunita a quella austriaca rimarrebbe la supremazia nel Mediterraneo. Dal predetto obiettivo, comunque, egli ottimisticamente ritiene che "non saranno molto lontani i giorni in cui, oltre alle navi già in costruzione, noi avessimo in mare quelle progettate ultimamente: Vittorio Emanuele ll [lapsus: evidentemente Il - N.d.a.] e Regina Elena, mediante le quali l 'Italia riacquisterebbe altresì il primato delle costruzioni navalt". Non sono dunque giustificati, per il Cavaciocchi, giudizi troppo pessimistici sullo stato della nostra flotta, che avrebbero negativi effetti morali; e termine la sua analisi critica, invero inconciliabile con le tesi del Manfredi e del Fazio, con un appello a evitare rivalità e gelosie tra le due Forze Armate, delle quali teme soprattutto i riflessi morali. Non risulta che il Manfredi abbia replicato alle dure critiche del Cavaciocchi. Nel 1902 prende invece di mira il citato libro del Marazzi L'esercito dei tempi nuovi (Tomo I, cap. X), nella sostanza condividendo il difensivismo dell'autore solo per quanto riguarda l'esercito, ma non per la marina.27 Premesse che le Alpi sarebbero un ostacolo immenso per la difensiva, che l'esercito italiano non avrebbe la possibilità di condurre un'offensiva oltreconfine e che anche un eventuale invasore una volta superate le A !pi si troverebbe a mal partito nel ripassarle, all'affermazione del Marazzi che "resistere qualche mese sulle Alpi è salvare l'Italia" il Manfredi contrappone quella, più limitativa, che "resistere qualche mes~ sulle A /pi è salvarla da un 'invasione dalle Alpi, nient 'altro; e ciò non basta a salvare l'Italia". Naturalmente contesta anche l'in-
27 Cristoforo Manfredi, Guerra d/fensiva o offensiva'! in "Rivista Militare Italiana" Anno XXXII Voi. IV - ottobre 1887, pp. 5-11 e ID., Ancora Viribus Unilis, in "Rivista Marittima" 1902, I Trim. Fase. I, pp. 45-60.
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tento del Marazzi di far coincidere la difesa nazionale con la difesa della valle del Po senza nemmeno considerare gli Appennini, e sostiene che l'Italia può essere salvata solo sul mare, ove diversamente da quanto avviene in campo terrestre i movimenti di una flotta non sono condizionati da ostacoli e possono rapidamente cambiare i loro obiettivi. Di conseguenza, mentre gli ostacoli per un'invasione dalle Alpi sono aumentati "è dall'aperto mare che l 'ojfesa principale può venire da noi. Su questo campo non v 'ha per noi altro ostacolo che la poca entità delle nostre forze rispetto a quelle dei nostri eventuali avversari" [ma non è poco: è l'elemento decisivo! - N.d.a.]. Sempre a fine secolo XIX il dibattito tocca finalmente con una certa profondità il primario problema delle risorse - trascurato dal Manfredi e appena sfiorato dal Cavaciocchi - con un articolo sulJa Nuova Antologia dall 'emblematico titolo Marina e finanza, 28 nel quale l'autore, che si firma "un ex-deputato" difende l'operato del Parlamento nei riguardi della marina premettendo che le ha assegnato fondi insufficienti non per insensibilità politica ma per carenza di risorse, sì che "i bilanci per la marina hanno sempre rappresentato il massimo degli assegnamenti che era sperabile conseguire nelle circostanze politiche e finanziarie in cui venivano presentati; non però il massimo a cui avrebbe potuto portarci una linea di condotta più prudente, più curante del!'avvenire, più saggia. Si è fatto ricorso in maniera eccessiva al credito... ". La politica delJa lesina chiedendo sacrifici a tutti ha creato le premesse per nuovi aumenti; comunque le nuove assegnazioni dovranno ispirarsi "alla più oculata e severa previdenza", in modo da non provocare, in futuro, una situazione finanziaria ''falsa e grave come quella che è stata l'unica causa di quelle deficienze nei servizi della marina a cui ora si vuol rimediare". Sulla Rivista Marittima il prof. Manfroni, convinto navali sta e tra i fondatori della Lega Navale,29 obietta che l'aumento delle spese per la marina fino al 1890 non è stato causato da un dissennato ricorso all' indebitamento dello Stato, ma dalla difficile situazione internazionale e dalla minaccia [evidentemente francese - N.d.a.] che incombe dal mare. in questo senso, la diminuizione dell ' efficienza della marina ha certamente contribuito alla politica estera rinunciataria dell'Italia; e poiché il vitale rapporto tra politica estera e marina è indiscutibile, per il Manfroni le esigenze di bilancio della marina non possono essere ridotte a una mera questione di bilancio, allo stesso modo del bilancio dell'agricoltura o della pubblica istruzione. Ciò premesso, egli propone che la frase dell'ex deputato il massimo che le nostre condizioni finanziarie ci consentono sia sostituita con l'altra il massimo che le nostre condi-
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Un ex - deputato, Marina e finanza, in "Nuova Antologia" Voi. LXXVII - Fa~e. 644, pp. 739-
770. 29 Camillo Manfroni, Marina.fìnanza e politica, in "Rivista Marittima" 1898 - IV Trim. Fase. XI, pp. 189-196. Si veda anche, dello stesso autore, Che cosa vuole la Lega Navale, in " Rassegna Nazionale" Voi. CXIII - Anno XXlli.
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zioni finanziarie ci consentono, tenendo conto dei vantaggi che si perderebbero, degli svantaggi e dei pericoli a cui andremmo incontro, subordinando la marina alla finanza: "salus patriae suprema lex". L'"ex-deputato" non si dà per vinto e rimane fermo sulle sue idee, ribadendo in una replica alla "Rivista Marillima''3° che la discussione del bilancio della marina in parlamento è essenzialmente una questione finanziaria. Marina e finanza sono due termini indissolubili; non si può avere "una forte e solida marina con una cattiva finanza" . L'affermazione del Manfroni che bisogna curare di più la marina che la finanza è quindi a suo parere incomprensibile, e per il futuro, sulla base della passata esperienza "temo il pericolo che, scegliendo male la via per raggiungere la meta alla quale tutti vogliono arrivare, ci awenga, come già è successo in passato, di dover tornare indietro, dopo aver fatto pochi passi avanti". Siffatte tesi non possono trovare d'accordo i navalisti, perché minacciano di troncare fin dall'inizio le gambe a qualsiasi progetto di ampliamento della marina. In particolare il comandante Roncagli si schiera a fianco del Manfroni,31 negando recisamente la validità del principio di subordinare le esigenze della marina alle condizioni di bilancio. Per il Roncagli il compito del! 'armata [navale] è quello che è, tal quale lo determinano le condizioni geografiche e politiche del paese, e non c'entrano a stabilirlo né condizioni economiche, néfinanziarie, né sociali; queste influiscono piuttosto sulla determinazione del grado di approssimazione all'altezza del compito che può connguire l'armata; ma è certo che un paese, il quale voglia provvedere come si conviene al proprio avvenire, deve avere per obiettivo non di subordinare il compito alle potenzialità del bilancio, ma di condurre al massimo quel grado di approssimazione che abbiamo detto.
La tesi del Roncagli, diametralmente opposta a quella del Bonamico, tocca una questione di importanza cruciale anche oggi, riassumibile nell'interrogativo: i compiti - e le relative caratteristiche della marina - devono essere dimensionati su quello che la marina dovrebbe o potrebbe Jàre, oppure su quello che può effettivamente jàre in relazione alle reali, presumibili disponibilità finanziarie a breve e medio termine? Appare evidente il rischio della prima soluzione, che se le assegnazioni future non fossero proporzionate al compito renderebbe tale compito irreale e dunque deformante della realtà, con l'inconveniente ancor maggiore che le costruzioni navali prima di tutto per le loro caratteristiche non sarebbero in armonia con quanto può essere fatto. Insomma: è forse utile assegnare a una marina dei compiti che non potrà mai svolgere o
30 Un ex - depulato, Marina, finanza e politica, in " Rivista Marittima" 1898, IV Trim. Fase. X 11, pp. 515-523. 11 Roncagli,L'armata non c'è, in "Rivista politica e letteraria" Voi. 5° - 1° dicembre 1898, pp. 8692.
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svolgere appieno, e impostare dei programmi di costruzioni navali per qualità e quantità dimensionati su esigenze irreali? È giusto riassumere la politica navale in un periodico, eterno cahier de doléances per l'insensibilità dei politici e la carenza di risorse, in relazione a missioni strategiche sempre troppo ambiziose, ma considerate come "variabile indipendente"? Il Roncagli non si dichiara d'accordo con l"'ex-deputato" nemmeno nel1' indicare come causa unica delle deficienze della marina del momento le carenze finanziarie: a suo parere "la prima, la vera causa determinante è stata questa: i quattrini, pochi o molti, assegnati alla marina, sono stati in gran parte spesi male, assai male tanto male che, nonostante i mille milioni circa spesi in quest'ultimo quarto di secolo, siam ridotti ad avere un naviglio deficientissimo per numero e qualità di navi", al quale si aggiunge un personale "numericamente assai inferiore al bisogno e forse anche moralmente non ben preparato", con grave deficienza di ufficiali in caso di mobilitazione. La paura di spendere - egli aggiunge - ha ridotto le nostre navi a non navigare più, e a non radunarsi più per compiere le proficue esercitazioni su grande scala inaugurate dall'ammiraglio Saint Bon, "le quali dovrebbero essere la scuola normale per gli ufficiali e gli equipaggi". Si sono così stabiliti due nocivi principi: l 0 ) ''per essere buoni marinai da guerra non è necessario navigare molto, come si faceva ai tempio della vela"; 2°) per gli ufficiali di marina lo studio della geografia è inutile, quindi tale materia è stata bandita dall'insegnamento all'Accademia Navale, anche se come sempre è fondamento di educazione nautica e base importantissima della strategia, specie se navale. Ne discende la critica all'operato di tutti i Ministri della marina dal Saint Bon in poi, che anche per questioni finanziarie "non ebbero mai.forse, un programma vero, rispondente ai bisogni della nazione", e tutti hanno messo in seconda linea "la necessità assoluta, la quale non riguarda solo la preparazione delle navi, ma quella de/l'armata considerata nel suo insieme di materiali, di armi, di munizioni, di ufficiali, di materiali, ecc.". Sotto questo profilo a suo parere c'è tutto o quasi tutto da fare; e poiché prima di pensare a mantenere bisogna creare, contrariamente a quanto sostengono !"'ex-deputato" e i finanzieri prudenti, occorre un prestito straordinario immediato, sufficiente per un primo impianto dell'organizzazione della marina. Fatto questo, poiché non si tratterebbe più di creare, ma di innovare e di mantenere la necessità assoluta, potrebbe aver valore quanto sostiene !"'ex-deputato, tenendo peraltro presente che "bisogna resistere alla seduzione della novità, che troppi errori ci fece commettere nella preparazione del naviglio e troppi denari sperperare", e che non solo "spenderemo bene quando spenderemo abbastanza, ma anche distribuiremo bene il denaro secondo i vari bisogni''. A quanto dovrebbe ammontare il credito straordinario da richiedere, anche in relazione agli obiettivi strategici della marina? E come, sia pur nelle grandi linee, dovrebbero essere ripartite la spesa straordinaria e quella normale? Il Roncagli per il momento non risponde a questi interrogativi, che pure sono il corollario indispensabile delle sue tesi assai ardite, perché ne misurano la fat-
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tibilità e la convenienza. Una risposta abbastanza chiara, ma solo sul ruolo della marina, la dà nei successivi articoli Geografia, politica e marina (1899 - già citato) e Il dominio del mare dal punto di vista italiano (1900),32 nei quali, pur lodandolo, anch'egli si colloca all'estremo opposto di Bonamico. Quest'ultimo aveva distinti gli obiettivi della marina in assoluti (la difesa contro gli sbarchi nemici), relativi (la difesa contro i bombardamenti delle città costiere, la distruzione delle linee ferroviarie, l'espugnazione delle basi della flotta e la protezione della flotta mercantile) e complementari (gli obiettivi coloniali, che dovrebbero essere conseguenza di un periodo di preponderanza militare o almeno di una situazione tale da garantire l'integrità dello Stato). Per il Roncagli non è ammissibile una siffatta scala di priorità: tutti e tre questi obiettivi devono essere proseguiti contemporaneamente, perché "l'Italia correrebbe sopra una china pericolosa se limitasse l'azione della propria marina militare alla solajùnzione difènsiva del territorio dello Stato, abbandonando, in caso di conflitto, tutta la massa d'interessi e di doveri sparsi per il mondo; e lasciando il traffico marittimo nazionale perire, costrette le navi mercantili a rimanere chiuse nei porti neutrali per essere malsicuro il mare". Da queste impegnative premesse il Rom:agli senza soffermarsi sui riflessi finanziari degli obiettivi totalitari da lui indicati, trae una conclusione ancor più impegnativa: "il potere marittimo, nel senso vasto della parola, oggi più che mai è imperiosa necessità, e non lo è meno per l'ltalia di quanto non sia p er le altre grandi nazioni marinare". Affermazione troppo generica dalla quale è legittimo dedurre, in buona sostanza, che nella sua visione l'Italia dovrebbe avere forze navali competitive almeno rispetto a quelle francesi (il che è manifestamente impossibile, anche se sarebbe auspicabile e conveniente). Nel caso specifico del conflitto con la Francia non ha idee molto originali: ritiene anch'egli che la forte barriera alpina la indurrà a tentare la via del mare e quindi a cercare la conquista del dominio del mare, condizione necessaria per poter effettuare gli sbarchi. E pur citando molto favorevolmente il Bonamico e i suoi articoli sulla Gazzetta del Popolo raccolti nel Problema marittimo dell'Italia, non crede affatto alla guerra di crociera, né ritiene possibile che "come di recente fu scritto [critica indiretta ma chiara al Bonamico e/o alla sua scuola N.d.a.] poche navi, comandate da ufficiali di cuore, basterebbero a far p entire amaramente il nemico d'aver tentato una spedizione da sbarco, anche se una potente flotta accompa6-rnasse il convoglio". Questo perché "non vedo come la temporanea missione di guardiana di un convoglio possa condurre una potente flotta, a dover piegare davanti a poche navi. Fate che quelle poche si azzuffino con quelle molte e potenti, e mi direte poi a che giovi il cuore degli ufficiali''. Infine anch'egli - come il Manfredi-è dell' opinione che "con la sola interruzione del traffico marittimo la Francia molto probabilmente finireb-
31 lD., 1/ dominio del mare dal punto di vista italiano, in "Rivista Marittima" 1900, IV Trim. Fase. IX, pp. 55-75.
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be con l'aver ragione dell'Italia", ed esplicitamente ritiene necessaria una parità navale con la Francia rivelatasi sempre impossibile. Un altro lavoro del Roncagli, L 'aeropago militare e il compito del/'armata,33 riguarda la corretta impostazione del problema navale a tutti i livelli, evidentemente mancata dal 1866 in poi con le conseguenze ben messe in luce da lui stesso. Premesso che lo studio della situazione mediterranea dell'Italia può essere affrontata solo partendo dalla situazione europea, a suo parere detto studio non può essere affidato a una persona sola ma va condotto in un ambiente senza vincoli di gerarchia o impicci burocratici, che sia anche immune da influenze di qualsiasi natura; perciò riteniamo che la tradizione generale o di massima (la quale, per quanto riguarda l'armata, non può assolutamente jàrsi che in comunanza d'idee e d'intenti con quella che concerne l'esercito), debba condursi in pennanenza da un aeropago militare, una specie di carriera vitalizia militare, un Senatus militiae, al quale dovrebbero appartenere spiccatissime notabilità dell'esercito e dall'annata, in attività di servizio oppure no, sotto la presidenza d 'un eminente personaggio civile.
Al predetto alto organismo comporterebbero lo studio del problema politico-militare nelle sue linee fondamentali, e la determinazione e valutazione degli obiettivi. Gli uffici di Stato Maggiore di Forza Armata dovrebbero definire la conseguente necessità assoluta cioè il compito fondamentale della rispettiva Forza Armata, sul quale non si può assolutamente transigere - N.d.a.], che "è problema essenzialmente tecnico" [non è vero; al massimo è un problema prevalentemente tecnico -N.d.a.]; infine ai due Ministeri di Forza Armata spetterebbe di
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elevare al massimo, e mantenervelo in ogni tempo, il grado di approssimazione al compito, sia chiedendo all'assemblea legislativa adeguati mezzi pecuniari e quei provvedimenti che la situazione economica del paese può consigliare, sia curando che questi mezzi fruttino sempre il massimo che è dovere pretendere, siano cioè sempre ben impiegati e sempre ben distribuiti in rapporto ali 'importanza di tutti i fattori della potenza militare.
In questa specificazione manca completamente il ruolo del governo nella sua collegialità e quello del Parlamento come sedi primarie della definizione della politica militare e navale, che non può essere affidata in toto al c.d. Aeropago militare, a meno di non farne - cosa assurda - un organo sovraordinato rispetto al governo stesso. E perché la definizione della necessità assoluta competerebbe agli Stati Maggiori, non al governo o almeno ali' Aeropago militare, che pur definisce gli obiettivi? Perché, infine, i Ministeri dovrebbero
33 ID., L 'aempago militare e il compilo del 'armata. in "Rivista Marittima" 1899 - I Trim. Fase. II, pp. 259-267.
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avere solo il modesto ruolo di controllori e amministratori, senza alcuna capacità di propulsione, di indirizzo nel campo strategico, ecc.? Tutto sommato questo dell'Aeropago militare è un lavoro assai modesto, che non contribuisce affatto a chiarire una razionale impostazione del problema navale, pur giustamente ritenuta necessaria dall'autore; ma è sempre qualcosa, anche perché accenna al coordinamento di obiettivi con l'esercito e a una sia pur discutibile ripartizione di competenze nell'ambito del vertice politico-militare. Del Roncagli va infine ricordato l'opuscolo Marina e colonie (1900), 34 sintesi di una conferenza da lui tenuta a "Palazzo Reale" di Venezia ed edita sotto gli auspici della Lega Navale. In questa occasione, benché siano passati solo quattro anni dalla triste giornata di Adua (1896), con argomenti più o meno simili a quelli del Manfredi egli caldeggia la necessità delle colonie anche per l'Italia, ancora una volta senza preoccuparsi affatto della situazione del bilancio nazionale, delle ingenti spese che richiederebbe una nuova impresa coloniale ecc. Le definisce [ma questo vale solo per colonie economicamente prospere e aperte all'emigrazione e ai commerci - N.d.a.] "quasi condizioni di esistenza per una nazione [... ], perché senza quelle basi di operazione e di rifornimento sulle grandi linee del traffico e presso i centri più importanti di questo, la sua vita si svolgerà sempre anemica, in istato di perpetuo vassallaggio rispetto alle maggiori potenze coloniali, che si divideranno il dominio del mondo in una quasi oligarchia economica e commerciale". Ne discende l' importanza delle forze navali "sia come contributo alla fondazione sia come concorso alla conservazione di un impero coloniale", la cui importanza è ancora accresciuta dalla necessità che l' immigrazione trovi sbocco in territori appartenenti alla madrepatria. La marina per il Roncagli è una specie di deterrente o polizza d'assicurazione; basta che si sappia che c'è e può accorrere, per tutelare i diritti dei coloni, assicurare la vita e il benessere nelle colonie, garantire la sicurezza e la prosperità dei traffici, far rispettare la nazionalità in un paese straniero; a questo è dovuta l'accoglienza calorosa che ricevono dai connazionali emigrati le nostre navi da guerra - e persino quelle mercantili - al loro arrivo in porti lontani. Segue una critica assai centrata - analoga a quella dei principali autori terrestri (Tomo I) - alla politica estera e coloniale dell'Italia, che avrebbe dovuto essere particolarmente mediterranea; invece mentre la Francia si affermava definitivamente nel Mediterraneo occidentale alle parti di casa nostra, e mentre l'Inghilterra s'impossessava di Cipro e metteva radici in Egitto, noi rifiutavamo di impegnarci nel Mediterraneo e ci volgevamo al Mar Rosso, "dove forse più ad altri [cioè all'Inghilterra - N .d.a.] comodava che a noi non convenisse" , con un'azione politica che "si distinse sempre p er le sue titubanze, per l 'assenza
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ID., Marina e colonie, Spezia, Zappa 1900.
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che direi classica di ogni indirizzo". E così, mentre i 20/ioo delle terre emerse appartengono all'Inghilterra, 3 alla Francia, 6 alla Russia, meno di uno alla Germania ecc., noi abbiamo raccolto solo delle briciole che non arrivano allo 0,7%, per di più a caro prezzo di denaro, di sangue e morale; la conclusione è che "ogni più lontano avvenire italiano nell'Africa mediterranea è diventato impossibile". Quale sarà l'avvenire? Il Roncagli prevede che con la prossima apertura del canale di Panama il centro di gravità della lotta dei popoli per la prosperità si sposterà verso Oriente, e che il centro di gravità del traffico marittimo mondiale si sposterà dall'Europa agli Stati Uniti, mentre con il declinare della potenza britannica si aprirà una lotta per la sua successione, che sarà soprattutto coloniale. Protagonisti di tale lotta saranno molto probabilmente il "il ramo cadetto d'Albione" [gli Stati Uniti - N.d.a.] e "i tardi nipoti d 'Arminio" (la Germania). E l'Italia? Con ottimismo ingiustificato il Roncagli prevede ottimisticamente che essa "se malata oggi, risorgerà più gagliarda domani, e sarà più grande ancora". Come, quando e perché non Io precisa; né si vede come il suo peana alle colonie - valido solo per alcuni Paesi europei - possa essere applicato al difficile caso dell'Italia, visto che come egli stesso afferma -nel Mar Rosso non conveniva andare, mentre nel Mediterraneo ormai la nostra espansione era conclusa (la Libia, importante strategicamente, non aveva certo i requisiti economici, commerciali, demografici da lui indicati, se mai tipici ditalune colonie inglesi, olandesi, belghe del tempo). Senza preoccuparsi troppo delle compatibilità finanziarie, i precedenti autori parlano di conquista del dominio del mare o quanto meno della capacità di contenderlo per la nostra flotta, il che implica una parità navale almeno con la Francia. Invece due altri autori, il colonnello e deputato Giacomo Fazio e il comandante Astuto, pur condividendo la tesi navalista che il pericolo maggiore viene dal mare e la necessità di rafforzare la flotta, nel complesso si mantengono su posizioni più moderate. Il Fazio (in questo campo manifestando idee opposte a quelle del Manfredi) controbatte validamente la tesi di coloro che hanno la certezza dell'aiuto inglese nel caso che l'Italia debba scendere in guerra nel Mediterranco,35 perciò secondo loro una volta alleata dell'Inghilterra sarebbe forte e sicura, anche se la sua flotta fosse debole. A suo parere non è certamente generoso, dignitoso e giusto fare un assegnamento quasi esclusivo sul concorso inglese, fidando in una coincidenza d'interessi che può anche essere momentanea o mancare. La sua opinione è fondata su parecchi scritti inglesi riguardanti la nostra politica e la potenzialità delle nostre forze navali, tra i quali uno di Sir Ch. W. Dilke intitolato Debolezza marittima della gran Bretagna (1899). Secondo il Dilke l'Italia è debole sia in terra che in mare e le sue navi sono per lo più antiquate, tanto che "sarebbe un grave imbarazzo per noi
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Giacomo Fazio, L'alleanza inglese, in "Lega Navale" Arma lii - I febbraio 1900, n. 3 pp. 37-
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doverne aver cura in caso d'alleanza". Solo due navi corazzate [allude alle tre Sardegna, Sicilia e Umberto, delle quali la Sicilia è entrata in servizio in ritardo rispetto alle altre due - N.d.a.], gli arsenali e le stazioni navali italiane sono "di qualche utilità per noi''. Secondo il Fazio, solo il gruppo omogeneo di queste tre corazzate è idoneo ad essere aggregato alle moderne corazzate della flotta inglese del Mediterraneo, perché ha qualità tattiche eminenti come la velocità e la potenza offensiva, per quanto sia relativa la sua capacità difensiva; tutto il resto "è un campionario di navi portate alle stelle al momento in cui sono concepite, abbandonate al museo quando, dopo una lunghissima gestazione, vengono alla luce con la velocità della vettura di Negri''. La conclusione è impietosa: non sarà certo con questo "campionario difettoso" che potremo sperare di guadagnarci l'alleanza dei più forti; per raggiungere questo obiettivo dobbiamo essere forti anche noi, visto che "l'alleanza coi deboli si chiama protezione". In un altro opuscolo dello stesso anno 1900 intitolato Le porte d'Italia (che ovviamente, anche per lui sono sul mare e non sulle Alpi),36 come tanti altri autori navali coevi il Fazio intende appunto dimostrare che il nostro confine alpino nel suo complesso "è buono", benché la frontiera con 1'Austria sia la più aperta; perciò anche per lui "il mare è la vera, grande porta d 'Italia, sempre aperta a una pericolosa e potente invasione". Infatti la Francia per ragioni logistiche (le solite difficoltà di passaggio dei pochi valichi) disporrebbe di ben quattro corpi d'armata esuberanti sulle Alpi, con i quali potrebbe invadere la penisola e le isole dal mare. Tn particolare per la Francia il possesso della Sicilia e della Sardegna vale di più di uno più vasto e più ricco nella valle del Po, "perché allarga e consolida il suo impegno africano [ ...] e specialmente col possesso della Sicilia aggiunto a quello di Tunisi comanda in modo permanente i due bacini del Mediterraneo, insediandosi nel posto che geograficamente spetta all'Italia". L'esercito non può provvedere da solo alla difesa della penisola, perché p er ricacciare in mare 200.000 uomini occorrerebbe una forza di almeno 250.000 uomini equivalente a quasi otto corpi d' armata, che tenendo conto delle scarse potenzialità delle lince ferroviarie impiegherebbero circa due settimane per riunirsi sul luogo dello sbarco, tempo nel quale l'invasione dal mare potrebbe essere ripetuta quattro o cinque volte. Senza contare che la difesa del confine alpino richiede la massa delle forze migliori... Anche per il Fazio, dunque, solo la nostra flotta può scongiurare il pericolo che viene dal mare: ma distaccandosi dai navalisti non giudica necessario che essa conquisti il dominio del mare o almeno sia in grado di contenderlo, bensì - avvicinandosi sotto taluni aspetti alle teorie del Bernotti - prevede che
36 ID., L e porle d 'J1alù1, Spezia, Zappa 1900 (a cura delta Lega Navale; sintesi di una confcrcn7.a tenuta d:ùl' autore a Lu Spezia).
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quando la difesa possa tenere in crociera pennanente una squadra speciale, e quando la flotta sia bloccata in un buon centro strategico, dal quale possa uscire al momento del bisogno [ma allora, che blocco è? e se il blocco rimane tale? - N.d.a.] essa avrà raggiunto lo scopo di rendere impossibile, per quanto umanamente è fattibile, la riuscita di una grossa invasione marittima del1'avversario".
Per raggiungere tale scopo è necessaria una flotta nella quale prevalgano le qualità strategiche [cioè - secondo un'espressione molto usata dal Bonamico - le doti di velocità rispetto a quelle di annamento e protezione, che sono qualità tattiche - N.d.a.]. Di qui un'affermazione affine alle tesi dello stesso Bonamico: "c'è dunque modo di parare alla minaccia d'un grosso sbarco, anche nel caso d'una sensibile inferiorità complessiva, e questo modo è uno solo, quando le qualità prevalenti dell'armata difènsiva siano strategiche e le sue operazioni si appoggino ad un buon centro strategico". A conforto di questa tassativa affermazione, trascurando i rimanenti fattori che hanno reso possibile la vittoria giapponese il Fazio cita l'esito della battaglia dello Ya-Lu, nella quale i veloci e sufficientemente potenti incrociatori giapponesi con i loro medi calibri a tiro rapido hanno reso inoperante la superiorità cinese in fatto di corazzate e di grossi calibri, tanto che se i cinesi avessero potuto disporre ditali incrociatori invece che di corazzate, a suo parere non sarebbe stato possibile lo sbarco giapponese in Corea... Il Fazio ottimisticamente conclude che solo nel modo da lui indicato la flotta potrebbe chiudere la porta del mare, liberando l'esercito "da qualunquepreoccupazione per le sue retrovie e per il suo fianco appoggiato al mare". Tutto sommato si tratta di tesi poco originali; unico suo merito è quello di non insistere sulla necessità che la flotta italiana sia in grado di contendere il dominio del mare a quella francese, sia pur indicando una ricetta strategica discutibile e di incerto esito favorevole. Per tale ricetta, comunque, diversamente dal Bonarnico non indica con precisione né i caratteri delle costruzioni navali necessarie, né in quali proporzioni dovrebbe essere contenuto il livello di inferiorità della nostra flotta, con i relativi mezzi finanziari necessari. A queste lacune il Fazio pone rimedio con un articolo dello stesso 1900 sulla Rivista Marittima, 37 nel quale ottimisticamente affenna, more solito, che l'esercito "ha raggiunto per quanto riKuarda le forze di prima linea il massimo della potenzialità difensiva, sì che "si può ritenere che dodici corpi d 'armata siano pur che sufficienti [ma in rapporto a quale nemico? - N .d.a.]"; invece la marina, che al momento non raggiunge nemmeno la metà di quella francese [non la raggiungerà mai - N.d.a.], dovrebbe raggiungere i¾ di quest'ultima con i ¼ di navi strategiche e 1/4 di quelle tattiche [cioè di grandi navi - N.d.a.],
37 ID., Funzioni dell'esercito e delt 'armala nella difesa nazionale, in " Rivista Marittima" 1899 I Trim , Fase:. l PP- 40-55 e Fase. IJl pp. 495-512.
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capovolgendo così gli orientamenti costruttivi del momento, che privilegiano le navi tattiche (queste sono le tesi del Bonamico, esplicitamente citato, e anche del Sechi). Il Fazio dimostra poi la necessità della correlazione terrestre-marittima e il ruolo insostituibile della flotta in caso di guerra con la Francia, che contrastando il dominio del mare da parte francese assicurerebbe: - nella l" fase della guerra, la mobilitazione e radunata dell' esercito, impedendo il bombardamento dei centri marittimi, l'interruzione delle linee ferroviarie costiere e la separazione da parte della flotta francese delle isole dal continente; - nella 2a fase (difesa della frontiera occidentale) la protezione del fianco sinistro dell'esercito appoggiato alla riviera ligure, che se protetto dalla flotta impedirebbe alle forze francesi ivi sbarcate di prendere alle spalle le nostre forze schierate più a Nord sulle Alpi occidentali, azione resa possibile dai numerosi e non difficili passaggi tra le montagne liguri e la pianura padana; - nella 3" fase (difesa dell'alta valle del Po) la protezione della via di ritirata dell'esercito verso la piazza di Piacenza, contro una minaccia che può venire solo dalla riviera ligure; - nella 4" fase (grande invasione marittima, corrispondente al massimo pericolo per la di fesa italiana), la protezione delle coste della penisola contro un nemico che "padrone del mare, può lanciare, se preparato a ciò, una massa imponente di 150 o 200.000 uomini, in un giorno solo, sulle coste aperte della penisola, in qualunque punto gli convenga, occupandola materialmente o con poco sforzo dal Tirreno all'Adriatico, tagliandola in due, isolando l'esercito d(fensivo dal cuore della nazione". Secondo il Fazio "la flotta italiana, tanto inferiore alla avversaria, ben poco potrebbe fare" senza i due centri strategici delle Bocche di Bonifacio e di Messina, con il sussidio dei tre centri difensivi di Spezia, Taranto e Venezia, che corrispondono in campo terrestre al centro strategico di Piacenza e ai centri difensivi di Bologna e Alessandria. In ambedue i casi i centri strategici rendono possibile anche la manovra delle forze, mentre i centri difensivi non consentono tale manovra ma "servono a mellere al sicuro l'esercito o le risorse navali o mercantili, sono facilmente bloccabili ma dif]icilmente attaccabili, ed in ogni modo la loro esistenza vincola la manovra strategica del 'esercito e dall 'armata dell 'avversario". Il riconoscimento dell'inferiorità non rimediabile della nostra flotta rispetto alla più probabile nemica non è cosa da poco; tuttavia non appare chiaro come essa potrebbe svolgere i compiti strategici estremamente ambiziosi che il Fazio le richiede, anche se potesse raggiungere (cosa mai avvenuta) il livello di forze che ritiene necessario; un conto è infatti contrastare il dominio del mare sempre con la guerra di squadra (ma con quali modalità?) e un conto è condurre la guerra di crociera teorizzata dallo stesso Bonamico.
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Il comandante Astuto, polemizzando con il Roncagli e ripetutamente citando il Manfredi con le solite argomentazioni che indicano la necessità di privilegiare la difesa marittima, si schiera anch'egli per la difensiva strategica, diversamente dal Fazio accennando alle compatibilità finanziarie che la rendono una soluzione obbligata. 38 Per altro verso, però, sembra voler indicare per lo sviluppo della flotta una meta più ambiziosa di quella di quest'ultimo, sia perché a suo parere la difesa marittima non va limitata alla difesa delle coste, sia soprattutto perché le nostre forze navali "vanno commisurate alla resistenza che può presentare la maggior potenza navale mediterranea, come tale cioè, non tenendo a calcolo [e perché? troppo comodo -N.d.a.] leforze che non porterebbe contro di noi, almeno in un primo periodo di operazioni, in vista della sua posizione geografica, dei suoi domini, dei suoi traffici per mare". Quale sia tale "maggior potenza navale", se l'Inghilterra o la Francia, l'Astuto non lo precisa; si può solo dire che il riferimento spesso esplicito dei nostri autori navali è la Francia, mentre l' Inghilterra viene unanimamente considerata la potenza più forte anche nel Mediterraneo, anche se non nemica. Se si riferisse al1'Inghilterra 1'obiettivo da lui indicato sarebbe evidentemente troppo ambizioso, più ambizioso di quello dei navalisti puri e duri, visto anche che condivide esplicitamente l'affermazione del Manfredi che "il nostro campo d'azione è il mare, è al di là del mare; la nostra arma offensiva è la.flotta". A fronte di queste categoriche affermazioni risulta contradditoria l'esaltazione della difensiva strategica nei termini seguenti: riteniamo indispensabile per la difesa del nostro territorio e dei nostri interessi, poter lungamente contrastare il dominio del mare; che contrastarlo con l'offensiva strategica esigerebbe mezzi incompatibili con le risorse economiche del paese; che contrastarlo con la difensiva strategica permetterebbe raggiungere l'intento con forze inferiori di numero a quelle de/l'assalitore, qualora il nerbo della nostra forza armata fosse composto di navi che avessero decisamente taluni requisiti. I requisiti dei quali parla l'Astuto sono anch'essi molto ambiziosi: I"'armata necessaria" deve possedere insieme i requisiti richiesti per la difensiva strategica e per l' offensiva tattica, con la ricerca della velocità elevata che deve avere un limite "soltanto nella misura con gli altri due requisiti di pari importanza, l 'armamento e la protezione", ai quali va sacrificata se necessario l'autonomia. Ne consegue - sempre secondo l'Astuto - che una nave con i predetti requisiti non può avere un dislocamento moderato, anche se il corrispondente costo unitario non può essere che elevato. D'altro canto non sarebbe conveniente diminuire i requisiti richiesti e quindi i costi, facendo assegnamento prima di tutto sul numero: "al di sotto di un certo limite il sacrificio in uno o più
38 Giuseppe Astuto, L 'annata necessaria, in "Rivista Marittima" 1899 - I Trim., Fase. I pp. 40-55 e Fa.~c. ID pp. 495-5 12.
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requisiti diventa notevole, e siccome il numero perderebbe completamente ogni valore nel caso fosse diminuita la velocità, così la maggiore diminuzione potrebbe essere portata nell 'armamento e nella protezione", con risultati negativi anche in vista del possibile, futuro aumento della capacità di distruzione e di penetrazione dell'artiglieria. In sintesi per l'Astuto bisogna fronteggiare la maggior potenza navale mediterranea con navi molto potenti, anche a costo di diminuirne il numero; programma che rimane estremamente ambizioso, anche perché - fatto fondamentale che omette di mettere in rilievo - il numero a sua volta non può scendere al di sotto di un certo livello. I corrispondenti risvolti finanziari sono inoltre da lui affrontati in modo piuttosto generico e troppo sbrigativo, se non sfuggente: nel determinare quale deve essere l'annata necessaria non si dc.'Ve avere soverchia preoccupazione di eccedere perché mentre è il mare, è al di là del mare il nostro campo di espansione, ed è quindi nel mare che dovremo essereforti; ad avere un 'armata occorrono multi anni e lunga preparazione [.. .]. Messa la questione in tali termini, noi persistianw nell'idea che non sia il caso di esaminare se si può o non si può una simile forza; si deve averla perché è una necessità, e provvedervi non è un sacrifìcio, ma un dovere; perché come neceçsità deve avere la precedenza sulle utilità, perché la esistenza e indipendenza politica sono p er uno Stato le prime condizioni del/ 'essere suo, e se per averle e pur mantenerle è dovere dei cittadini dare la propria vita, a più forte ragione è dovere dare la propria sostanza.
Dopo queste utopie, a proposito di "sostanza", l'Astuto si limita a proporre che le tasse destinate ad essere abolite siano "provvisoriamente" mantenute onde far fronte alle necessità della marina, richiedendo alla marina stessa la dimostrazione che i fondi ricevuti saranno spesi bene, per prepararla alla guerra; ed è tutto. Non una cifra, non un orientamento più preciso sul come e dove mettere le mani nel bilancio dello Stato, tenendo anche presente che i criteri genericamente indicati dall'Astuto per la preparazione di una forte flotta sono senz'altro validi anche per preparare un forte esercito: bastano forse le Alpi a fermare quasi da sole il nemico? E come e quando è possibile raggiungere gli ambiziosi obiettivi mediterranei da lui indicati con la difensiva strategica, nel contempo tenendo conto delle limitate disponibilità finanziarie con la forte flotta di grandi navi e costose da lui ritenuta necessaria e con la necessità che essa sia in grado di contrastare il dominio del mare alla flotta dominante del Mediterraneo? Per tutte le predette ragioni i due articoli dell'Astuto ben riassumono caratteri e limiti degli scritti sulla politica navale dell'intero periodo, nei quali è difficile tracciare un confine tra oggettive considerazioni derivanti dalla situazione internazionale e mediterranea, e i pur legittimi sforzi a sfondo propagandistico derivanti dalla necessità di creare una coscienza marinara, sensibilizzando la classe politica. Soprattutto, le prevedibili disponibilità economi-
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che sono dimenticate o affrontate in modo poco convincente e nel migliore dei casi discutibile, difetto che deriva da una premessa non corretta: l'esigenza categorica e senza alternative che l'Italia sia una potenza di prim'ordine nel Mediterraneo al pari (cosa impossibile) della Francia e de li 'Inghilterra, il tutto con confini terrestri tutt'altro che facili da difendere, e soprattutto con disponibilità finanziarie e capacità industriali di gran lunga inferiori a quelle dei probabili avversari. Da tale pretesa derivano frequenti contraddizioni, con orientamenti di politica navale basati più su ciò che si deve (magari tassativamente) fare, che su ciò che è concretamente possibile fare, molto di meno. È un fatto positivo che emerga (Roncagli, Manfroni) la crescente dipendenza dell'Italia dai rifornimenti via mare, elemento condizionante delle due guerre mondiali del XX secolo del quale non si terrà mai sufficiente conto, mentre invece gioca ancb 'esso a favore della soluzione che con ogni evidenza fin da allora presenta il minornumcro d'inconvenienti perla vita e la sicurezza della nazione: l'alleanza con una potenza in grado di aiutarci a mantenere aperte le vie del mare, che è anche l'unico modo di ottenere con la politica quegli obiettivi che nonostante le acrobazie e le ingegnose ma poco convincenti soluzioni degli scrittori navalisli, la strategia non è certamente in grado di conseguire. È fors'anche per i limiti oggettivi della situazione italiana che all'inizio del secolo XX il problema del rafforzamento della marina si pone più che mai, ed è autorevolmente posto anche da un nome illustre, l'ex-Presidente del Consiglio Francesco Crispi.39 Trascurando che - come gli fa opportunamente notare la stessa rivista in nota al suo articolo - i bilanci della marina hanno subìto la massima contrazione proprio quando egli era Presidente del Consiglio [evidentemente per le esigenze della sfortunata campagna d'Eritrea - N.d.a.], il Crispi recepisce in pieno tutte le vecchie tematiche del navalismo (I 'Italia è sufficientemente forte sulle Alpi ma debole in mare; i bilanci della marina hanno subìto una diminuizione sostanziale facendola retrocedere dal 3 ° al 7° posto nella graduatoria mondiale, ecc.) e anch'egli sollecita maggiori assegnazioni per la marina, perché al momento si può contare solo su "una decina di navi tra corazzate e incrociatori e qualche cacciatorpediniere" moderni, mentre il restante naviglio è antiquato. E accenna anche all'intendimento dell'ammiraglio Bettòlo (Ministro dal 1899 al 1900) di "iniziare al più presto la costruzione di quattro navi, le quali, p er moderato tonnellaggio, per velocità, omogeneità nell'armamento generale ed autonomia avrebbero potuto competere con qualche fortuna coi più reputati incrociatori corazzati delle marine estere", con una spesa prevista di quaranta milioni che i ITesoro avrebbe anticipato; inoltre "il suo successore [ammiraglio Morin - N.d.a.] preoccupato della dejìcienza assoluta della potenzialità navale italiana, intende richiedere un sacrificio di cento miliont''.
,. Francesco Crispi, Per la difesa marittima, in "Rivista Marittima" 1900, III Trim. Fa~c. VI 11-1 X, pp. 201-207. Segue anche una lettera di approvazione del sen. Negretto Cambiaso in "Rivista Marittima" 1900, IV Trim. Fase. 1, pp. 111-112.
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E l'Austria, e l'Adriatico? Dopo il Campofregoso è un argomento pressoché totalmente trascurato, come in campo terrestre, non solo e non tanto perché il confronto con le costruzioni navali austriache tutto sommato porterebbe assai meno acqua al mulino dei navalisti, ma anche perché l'Austria è sempre stata estremamente sensibile a fronte di qualsivoglia manifestazione solo sospetta di poter essere antiaustriaca da parte di un alleato - come l'Italia - prima a lungo nemico, e perché il più probabile e più forte nemico rimaneva pur sempre la Francia. In merito, uno dei pochi scritti è l'opuscolo anonimo 1912? Armate la marina, dedicato ai Parlamentari del Regno, il cui autore si autodefinisce "persona che con grande passione si occupa di quanto riguarda la nostra Marina da guerra, nella quale ha servito da lunghi anni". 40 Ha il merito di esprimersi senza mezzi termini, in modo quasi violento, contro l' Austria e per la necessità di prepararsi con ogni energia al la guerra che essa scatenerà contro di noi probabilmente nel 1912, quando avrà completato la sua flotta "con
unità potentissime che le daranno una potenzialità navale di una metà superiore alla nostra", completando inoltre la fortificazione delle coste della Dalmazia; infatti l' intento della flotta austriaca è di conquistare il dominio del1' Adriatico distruggendo la flotta italiana.
Secondo l'anonimo, mentre la m arina austriaca dispone già delle ottime e potenti basi di Pola, Sebernico e Cattaro e di una costa portuosa e inaccessibile, la marina italiana non ha in Adriatico un solo porto idoneo per le grandi navi, perché anche nel porto di Venezia - unico punto di appoggio, sia pur con molte carenze - è difficile entrare a causa dei canali di limitato fondale e a forte corrente che vi danno accesso. Sono stati anche compilati studi (rimasti senza esito) per la costruzione di un porto militare a Comacchio e al lago di Varano... Pertanto "urge provvedere a questa gravissima deficienza con la più gran-
de sollecitudine, tenendo conto dell 'alto costo per la costruzione di un vero punto d 'appoggio, che non può ritenersi inferiore ai 350 milioni". A causa di tale deficienza non è possibile tenere in Adriatico pronta a intervenire un' aliquota della nostra flotta, lasciando così esposte alle offese nemiche le nostre coste; senza contare che mentre gli ufficiali austriaci si esercitano continuamente in Adriatico anche a breve distanza del nostro litorale, molti nostri ufficiali non sono mai stati in Adriatico ... Segue uno studio una volta tanto accurato del problema delle costruzioni navali e delle basi necessarie in Adriatico, degli arsenali, dei fondi necessari ecc. che meglio esamineremo nel capitolo seguente,41 limitandoci per il momento ad accennare alla previsione (esagerata) dell'autore che nel 1912 l'Austria avrà raggiunto il suo obiettivo di "avere una marina da guerra su-
Anonimo, /912? Armale la marina, Roma, Voghera 1909. " Cfr. in merito, l'esauriente confronto tra i programmi navali tedeschi, austro-ungarici, francesi e italiani a cura del comandante Levi-Dianchini (insegnante alla Scuola di Guerrn dell'esercito), Torino, H1blioteca della Scuola di Guerra 1914, Voi. m. 40
VTI - L'ITALIA Ìl POTENZA TERRESTRE O MARJITIMA? LA POLITTCA E STRATEGIA NAVALE
55)
periore e possibilmente doppia di quella italiana, con l'entrata in servizio delle sue nuove corazzate da 20000 tonnellate". Dovrà invece essere la nostra flotta ad avere una potenza almeno doppia di quella della flotta austriaca, "appena sufficiente, per noi, per compensare l'assoluta mancanza dipunti d'appoggio e di porti per le navi sulle nostre coste ed a bilanciare l 'enorme vantaggio che l 'Austria ritrarrà, nella guerra contro di noi, dalle sue formidabili basi d'operazione di Pola, di Sebernico e di Cattaro". Purtroppo la serietà e aderenza alla realtà di molte considerazioni dell'autore è compromessa dalla sua fantasiosa richiesta ai Parlamentari di "compiere per la marina, in tre anni, un sacrificio di un miliardo e cento milioni''. Richiesta ovviamente rimasta inascoltata, anche se all'entrata in guerra la marina italiana sarà ugualmente superiore a quella austriaca, sia pur senza la grande base in Adriatico auspicata dall'autore, quindi anche senza fare di Venezia una base idonea per le grandi navi, o almeno un punto d'appoggio per la flotta. Né si avvera la previsione dell'autore di una guerra di squadra in Adriatico, condotta da ambedue le squadre ... L'oggettivo rafforzamento navale dell'Austria nell'Adriatico, la nascita di una crescente diffidenza e ostilità del] "'alleato austriaco" specie dopo la conferenza <li Algesinas (1906), l'intento della marina austriaca di ripetere Lissa con una guerra di squadra in Adriatico audace, anche se condotta con forze inferiori, sono il fatto nuovo degli ultimi dieci anni che precedono la guerra 19151918; un fatto che gioca anch'esso a favore del rafforzamento specie in termini di navi da battaglia della nostra marina. Ciò che colpisce è che ambedue le marine future rivali nell'Adriatico, fino all'entrata in guerra dell'Italia abbiano come unica prospettiva una guerra di squadra imperniata su navi di linea che poi non condurranno mai, ritenendo concordemente tale mare adatto solo per operazioni di naviglio leggero e di mine e pericoloso per le grandi navi a causa di mine e sommergibili. È probabilmente per tale ragione che la marina italiana anche conflitto durante non farà mai alcunché per crearsi sulle coste adriatiche una base idonea ad accogliere le navi maggiori o almeno un punto di appoggio logistico, rinunciando ai lavori di ampliamento di Venezia e/o ad altri progetti.
SEZIONE II - Come difendere le coste: la strategia navale dell'Italia e la correlazione terrestre-marittima nell'ambito della difesa nazionale
Facciamo rientrare nel campo strategico gli studi su questioni più propriamente tecnico-militari, con considerazioni che si soffermano in particolar modo sul come, dove e quando la marina dovrebbe svolgere i suoi compiti nel.I'ambito di un concetto "allargato" di difesa nazionale e sui suoi conseguenti rapporti con l'esercito. L'intreccio tra i vari problemi che ne consegue rende inevitabili ripetizioni e ridondanze che ci sforzeremo di ridurre al minimo, di-
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stinguendo anzitutto gli autori in assolutisti o dogmatici (la marina italiana deve conquistare il dominio del Mediterraneo o almeno contenderlo a quella francese con la guerra di squadra e per raggiungere tale ambizioso obiettivo, quali che siano i problemi di bilancio bisogna trovare le risorse); relativisti (le nostre forze navali devono più modestamente essere in grado di contrastare con la guerra di squadra il dominio del mare alla flotta francese, quindi la marina deve ricevere risorse sufficienti per raggiungere tale obiettivo, riducendo al minimo il divario - pur sempre consistente - con la flotta francese); minimalisti, il cui caposcuola è Domenico Bonamico (la nostra flotta, essendo in ogni caso troppo inferiore a quella francese, deve condurre una guerra di crociera specialmente contro i convogli di sbarco francesi, dando priorità al naviglio strategico rispetto a quello tattico (cioè rispetto alle corazzate). I relativisti sono i più numerosi; i minimalisti sono molto pochi, fors'anche perché le loro tesi non possono essere molto popolari all'interno della marina, potendo apparire rinunciatarie.
Gli assolutisti (Murin e Bettòlo, futuri Ministri) Il primo rappresentante, anche in ordine cronologico, delle correnti d' idee " navaliste" opposte a quelle del Bonamico è il capitano di fregata Enrico Costantino Morin (poi due volte Ministro a partire dal 1893), del quale (vds. cap. IV) abbiamo già avuto modo di commentare le idee assai poco innovatrici in materia di tattica e formazioni navali. Ancor meno innovatrici sono le sue tesi (1878) in materia di difesa marittima dell'ltalia,42 finalizzate a un unico obiettivo: demolire tutto ciò che ostacola la creazione di una flotta italiana imperniata sulla classica formula delle grandi navi, definendo tout court i portatori di pareri diversi dal suo "nemici della flotta". Prende perciò di mira tutto quanto di nuovo si è pensato in quel momento, a cominciare dalle armi subacquee che a suo discutibile parere "hanno dischiuso un nuovo campo a/la fervida immaginazione degli uomini incompetenti''. È vero - egli ammette che le torpedini (con tale termine intende le attuali mine ancorate) si sono dimostrate assai utili nella guerra di secessione americana, per la protezione delle coste prussiane nella guerra del 1870-1871 ecc.; ma diversamente dalle coste americane, ove essere furono impiegate con successo nell'estuario di fiumi o canali e in bassifondi, le coste italiane sono liberamente accessibili ovunque e data la profondità delle acque costiere non si prestano alla collocazione di mine fisse; senza contare che gli sbarramenti davanti ai nostri principali porti richiederebbero una spesa di 4,5 milioni e per essere efficaci dovrebbero essere battuti dalle artiglierie costiere, ancor più costose.
42 Enrico Costantino Morin, La difesa mari/lima del/ 'Italia, in "Rivista Marittima" 1878, I Trim. Fuse. I, pp. 16-33.
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In secondo luogo, "se il voler proteggere le coste italiane con sole torpedini è un 'utopia, il credere di poterle difendere con fortificazioni littora/i è un 'illusione dello stesso genere". Le coste italiane sono aperte; e poiché il buon esito di uno sbarco dipende soprattutto dalla rapidità con cui è possibile eseguirlo, è necessario che la flotta nemica si ancori lungo uno sviluppo di coste abbastanza esteso da consentire lo sbarco simultaneo dei contingenti di truppe trasportati. Hanno torto coloro che sostengono che la flotta da sbarco deve disporre fin dall'inizio di idonei porti e che essi sulle coste italiane sono pochi, perciò possono essere opportunamente fortificati. Se mai le fortificazioni "devono venir concepite nello scopo di appoggiare le forze [navali] mobili e attive, le quali sono in realtà l'elemento principale"; il resto del litorale, "o può difenderlo la flotta, oppure la sua difesa non è possibile". Questo perché anche se la forza di un contingente di sbarco francese sarebbe minore di quanto prevedono il Bonamico e altri (circa 50-60.000 uomini e non circa 120.000), le forze terrestri destinate a contrastarlo giungerebbero sempre in ritardo, quando si sarebbe già schierato su buone posizioni, pronto a combattere. Una volta ammessa in linea di principio la necessità della flotta per la difesa marittima dell'Italia [necessità l;ht: nessuno nega - N .d.a.], secondo il Morin bisogna tener conto che il dislocamento di una nave da guerra non può essere definito in base a pregiudiziali economiche, ma dipende da ciò che gli ufficiali di marina chiedono agli ingegneri. Sotto questo profilo, ammette l' efficacia del siluro ma non quella del piccolo bastimento lanciasiluri [cioè la torpediniera - N .d.a.], i cui requisiti, pur limitati, sono inconciliabili con quanto gli si richiede; e anche la soluzione di distribuire a cordone lungo tutta la costa delle stazioni di piccole torpediniere è inconciliabile con il principio della massa. Non è opportuno, comunque, "riporre una fiducia esagerata ed esclusiva in un 'arma che non ha ancora fatto le sue prove"; l' unica soluzione conveniente è installare i siluri a bordo delle navi magi;,riori. Se il nemico si presentasse con tutte le sue forze per attaccare uno dei nostri porti difesi da stazioni di torpediniere, qucst'ultime dovrebbero uscire e combattere: ma "in forza di quale principio scientifico, in nome di quale insegnamento dell 'esperienza si può sostenere che le possibilità di vittoria sarebbero per i bastimenti torpedinieri?". Anzi, le torpediniere avrebbero certamente la peggio, perché la flotta nemica oltre ad imbarcare i siluri sulle navi maggiori potrebbe essere accompagnata anch 'essa da torpediniere, e in più potrebbe contare su un potente fuoco d' artiglieria. La conclusione è scontata e diametralmente opposta alle tesi coeve del Bonarnico, rispetto alle quali ha il pregio di trascurare lo sperone e avvalorare di più il siluro: le coste italiane possono essere difese solamente mercé l'opera di tutte le risorse navali riunite, ed impiegate in una sola massa. Sarà difficile che la marina avversaria porti a compimento alcuna impresa di seria importanza, finché avremo una flotta compatta, opportunamente servita da qualche porto fortificato [ ... ]. Appoggiata a quel sicuro asilo, [in caso di tentativo di sbarco
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nemico] non sarebbe molto difficile che essa, piombandogli addosso al momento opportuno, riuscisse (anche essendo inferiore) a combatterlo vittoriosamente [opinione assai discutibile - N.d_a.].
In tutti i casi, finché il nemico non sarà riuscito a distruggere o ridurre ali 'impotenza la nostra flotta, non vi sarà molto da temere da una marina nemica e nessuno dei mezzi escogitati per supplire alla mancanza di forti navi riuscirebbe efficace; il problema, perciò, si risolve sempre in quest'unico concetto strategico: contendere al nemico il dominio dei mari. E per tradurre in atto un tale concetto, è necessaria una flotta mobile e forte: una flotta di navi che potranno essere inferiori a quelle del tipo Italia e Lepanto, ma che certo dovranno risultare assai più grandi e costose dei piccoli lancia - siluri dei quali si è tanto parlato. Se I 'ltalia può avere una flotta ,çijjàtta, la sua difesa marittima è assicurata; se non la può avere, allora bisogna che il problema della protezione delle sue coste essa lo sciolga con la saggezza della sua politica, imperrocché la scienza militare è impotente a risolverlo.
L'articolo del Murin, datato "Roma, 18 novembre 1877" probabilmente esprime la voce del Ministro del momento (Benedetto Brin); appare perciò significativo l'accenno a navi corazzate di dislocamento minore di quello del Lepanto e dell' ltalia, che al momento dovevano ancora entrare in servizio. Per il resto è evidente che una flotta di grandi navi capaci di "contendere il dominio dei mari" a quella francese (non parliamo nemmeno dellaRoyal Navy) con la guerra di squadra, non potrebbe essere numericamente di molto inferiore, requisito che eccede chiaramente le nostre possibilità finanziarie del momento, delle quali il Morin non tiene alcun conto, mentre sono i I punto di partenza del Bonamico. Al lettore viene da chiedersi: l' ltalia deve forse allearsi con la Francia, con la quale vi sono già al momento punti di divergenza difficilmente superabili? La mancanza di reali alternative politiche accredita perciò l'ipotesi che il Morin intenda semplicemente accreditare la necessità di aumentare gli stanziamenti per la costruzione di grandi navi. Porta a far ritenere questo anche la sfiducia assoluta nelle torpediniere da lui dimostrata, sfiducia che alla fin fine accresce la necessità delle grandi navi e della guerra di squadra, senza alcun spazio per le coeve proposte "alternative" del Bonamico, del quale anche per questa via emerge l'eccessiva fede nello sperone e la scarsa fiducia nell'avvenire del siluro, mai citato nei suoi primi scritti. ln sintesi due strategie estreme e ugualmente utopiche: quella del Bonarnico che pretende risolvere il problema della difesa marittima con poche e poco costose navi piccole, rostrate e veloci, e quella del Morin che conta sulla guerra di squadra e sulle grandi navi, le cui chance.\· sarebbero nulle contro una flotta inevitabilmente - e di molto - superiore. Come aver ragione di tale flotta superiore e colpire i convogli il Morin non lo dice, forse perché ciò non sarebbe possibile; né, more solito, egli precisa con quali risorse si potrebbe costruire la flotta con la fisionomia da lui proposta.
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Nel 1899, oltre vent'anni dopo l'articolo del Morin, il problema non è cambiato di un millimetro. Il capitano di fregata Bettòlo (anch'egli futuro Ministro) ancor più recisamente del Morin afferma che "la posizione geografica della nostra penisola e le aspirazioni che s'informano ai nostri più vitali interessi assegnano al possesso del Mediterraneo, sotto i punti di vista economico e mili/are, la più grande importanza. È su questo mare che si lroverebbero in giuoco i supremi destini d'Italia, qualora questa dovesse affidare alla sua marina [ma solo alla sua marina? - N.d.a.] le sorti d'una guerra". 43 Come tutti i navalisti, egli calca poi la mano sul le conseguenze drammatiche derivanti dalla mancata capacità dell'Italia di contendere il dominio del mare "a una forte potenza marittima" (evidentemente la Francia): "il suo esteso litorale, impunemente esposto agli insulti nemici; quindi paralizzate su molti tratti le radunate delle sue jòrze di terra, invase le sue ricche isole, minacciate le posizioni vitali della sua difesa interna, bombardati, taglieggiati i suoi principali centri commerciali, rotte le sue comunicazioni". Diversamente dal Morin che non accenna a questa possibilità, come tanti altri scrittori navali il Bettòlo è dell'opinione che le forti difficoltà di superare le Alpi potranno indurre il nemico a tentare un'invasione dal mare, favorita dalle condizioni idrografiche delle acque costiere e della natura e conformazione delle coste italiane. Tale invasione potrebbe mettere in crisi le nostre difese, sia interrompendo le comunicazioni tra Nord e Sud sia aggirando l'esercito schierato a difesa sulle Alpi; pertanto mentre il nemico tenderebbe ad assicurarsi l'assoluta padronanza del mare (che anche per il Morin gli è indispensabile per queste operazioni) la nostra flotta avrebbe il compito strategico di impedire a ogni costo l'invasione del territorio italiano. A tal fine "mantenendo sempre il contatto con il nemico per vigilarne le mosse e spiarne i disegni, dovrebbe con la maggior parte delle sue fòrze tenere il mare in una posizione indeterminata e minaccevole, pronta a vigorose offensive, a gettarsi sui distaccamenti e sulle navi onerarie del nemico [perché sono poco scortate? - N.d.a. ], alle rappresaglie se necessarie; ma schivare sempre di mettere a rischio molta parte delle sue risorse difensive in imprese, nelle quali al sacrifizio non corrispondesse adeguato compenso strategico". A tal fine [come pensa anche il Bonamico - N.d.a.] dovrebbe evitare "atti d'infècondo eroismo" per la difesa delle città costiere dai bombardamenti nemici; pertanto il Paese va educato a sopportarli virilmente. Per questo tipo d'azione occorre adottare una variante della guerra di squadra, nella quale "il corpo da battaglia, costituilo da vere navi di resistenza [cioè da corazzate - N.d.a.], sia circondalo da una rete di navi leggere destinate a sorvegliare insistentemente i movimenti del nemico, a vigilare i punti minacciati, a stabilire gli opportuni contatti fra le diverse fazioni ... ". In so-
" Giovanni Bettòlo, Il nostro problema navale, in "Rivista Marittima" 1890 - 111 Trim. Fase. IV, pp. 5-39.
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stanza, "per la considerazione delle poche navi da battaglia che noi possiamo contrapporre al nemico", la nostra flotta deve condurre "una difesa mobile" la cui efficacia dipende dal grado di conoscenza che si potrà avere delle mosse e delle intenzioni del nemico, così come avere "la possibilità di prendere l 'offensiva nelle condizioni che più ci convengono". Acquistano perciò particolare importanza il naviglio esplorante e - ormai sono passati vent'anni dalla visione riduttiva del Morin - la torpediniera, "elemento efficacissimo della difesa navale" il cui valore è ormai accertato_ Anche la guerra di corsa "potrà diventare un mezzo efficace contro nazioni che devono tanta parte della loro vitalità al commercio marittimo", mentre l'impiego bellico del naviglio mercantile va maggiormente curato, prima di tutto perché serve ad alimentare la flotta in mare, senza che essa abbia bisogno di basi. Nelle tesi del Bettòlo, tutt'altro che facili da tradurre in pratica, si trova una contraddizione di fondo: la pretesa che la nostra flotta contenda al nemico il dominio del mare, accompagnata però dall'ammissione che il numero delle nostre corazzate potrà essere inferiore (ma di quanto? Lo sarà certamente di molto, di troppo) e dall'indicazione della missione principale, che consiste essenzialmente nell'attacco di convogli di sbarco, che non potranno non essere validamente scortati dalla massima parte delle forze navali francesi, con ogni probabilità superiori alle nostre. Desta perplessità anche la precaria dislocazione della nostra flotta in being in alto mare (e se venisse attaccata dalla flotta francese riunita?), per di più con la raccomandazione - oltre che superflua, controproducente - di evitare quei rischi che specie in situazioni come quella da lui configurata sarebbero incvitabil i. Viene perciò spontanea una domanda: perché la flotta francese dovrebbe iniziare il movimento dei convogli senza aver prima bloccato o distrutto la nostra flotta, così operando in piena coerenza con quanto prevede lo stesso Bcttòlo? E perché, data la sua superiorità da lui stesso ammessa, non dovrebbe muovere a forze riunite contro la nostra, per affrontarla in una battaglia con favorevoli prospettive, o quanto meno bloccarla nei porti? La soluzione del Bcttòlo appare dunque assai poco realistica, perché mirante a condurre una guerra di squadra contro una flotta superiore e a tentare con un siffatto tipo di guerra di proteggere il territorio nazionale dalle invasioni. Infine, è da sottolineare che non dedica una sola parola a come reperire le forti risorse per una marina che sia capace di contendere il dominio del mare a quella francese e non solo di contrastarlo, né accenna ali' opportunità epossibilità di ridurre i fondi per l'esercito a pro della marina. Nel periodo che va dall'agosto 1914 ai primi mesi di guerra per l'Italia, i concordi orientamenti navalisti per la guerra di squadra e per la preminente importanza del cannone - quindi delle navi di linea - non mutano, anche se il sommergibile e la mina con i loro crescenti successi sembrano oscurare i vecchi concetti strategici, per la prima volta collocando la guerra al commercio al centro della guerra marittima e almeno secondo taluni facendo tornare in auge i vecchi capisaldi dellaJeune École. La Rivista Marittima non manca di seguire passo passo gli avvenimenti del conflitto europeo con numerose statistiche del-
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le perdite di navi anche mercantili, ma senza mai accennare alla situazione italiana e senza trame ammaestramenti pro o contro la corazzata e la guerra di squadra; ciò vale anche per i numerosi affondamenti di incrociatori inglesi da parte dei sommergibili tedeschi. Non fa eccezione una presa di posizione piuttosto conservatrice sul richiamo in servizio del "geniale" ammiraglio inglese Percy Scott, che aveva pubblicato sul 7ìmes un importante articolo, nel quale concludeva che i sommergibili avevano reso ormai inutili le grandi navi. Secondo il direttore della rivista "jòrse egli aveva nel manifestarla esagerata la portata di questa idea che ha in sé germi di verità, se intesa appropriatamente; ma come sempre accade, i neofìti della nuova teoria andarono molto al di là del maestro e proclamarono che l'avvento del sommergibile aveva eliminato la guerra sul mare".44 Nella seconda metà del 1915, commentando la guerra al commercio inglese nei mari settentrionali dell'Europa iniziata dai sommergibili tedeschi la rivista ne registra i successi (su 387 navi affondate, 341 sono state perdute per attacchi dei sommergibili e 32 per mine) e accenna a] contrasto tra il Ministro della marina tedesco ammiraglio Von Tirpiz, favorevole alla sua estensione indiscriminata, e il cancelliere Bettman - Hollweg, che invece sostiene la convenienza politica di limitare la guerra sottomarina ad obiettivi militari, anche per mantenere buoni rapporti con gli Stati Uniti.45 Sempre secondo la rivista, i successi dei sommergibili hanno accreditato " l 'opinione di molti'' [non certo in Italia - N.d.a.] che vedono nelle modalità con cui viene condotta la guerra marittima del momento la conferma delle teorie della Jeune École, in base alle quali "si osserva che l'effettiva supremazia del mare non è conseguita con la sola superiorità numerica. Si intende che occorre essere alla testa di ogni progresso scientifico, essere i primi ad adottare quelle innovazioni che fanno dubitare le menti conservative, e sviluppare specialmente i mezzi di offesa che posseggono velocità e relativa invulnerabilità, cioè sommergibili grandi e veloci, cacciatorpediniere, incrociatori velocissimi e flottiglie aeree". Per colpa degli ammiragli francesi troppo conservatori, in questi campi la Francia ha perduto il suo primato a favore dell'Inghilterra; inoltre essa è stata superata dall'Inghilterra anche nel campo delle armi subacquee, molto importanti visto che "si sostiene che il siluro diventerà la principale arma navale, perché non vi è pratico limite alla sua grandezza e alla sua velocità [non è vero - N.d.a.], mentre vi è un limite all'impiego della corazza e dei sistemi difensivi''. Infine secondo i riscopritori della Jeune École l'Inghilterra prevale anche nel campo degli incrociatori da battaglia, che possono essere definiti "le navi del domani" perché portano il maggior calibro aJla più alta velocità, che è anche la miglior difesa contro le armi subacquee. .. R. Mazzingbi, (direttore della "Rivista Marittima"), Gli avvenimenli navali nel conjlilto europeo (21 ottobre - 20 novembre 1914 e quarto trimestre 1914), Roma, Ed Rivista Marittima 1914. 45 La guerra al commercio nei mari d 'Europa da/l 'inizio al 3 / luglio / 915. in " Rivista Marittima" settembre 1915, pp. 104-131 (direzionale).
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Su questi punti di vista, che vorrebbero far rivivere taluni concetti della Jeune École (peraltro mai favorevole a navi di dislocamento elevato) la rivista non si sbilancia, anzi è piuttosto evasiva: sotto la forma da noi qui riassunta rivivrebbe dunque la Jeune École. Fino a che punto ciò si possa sostenere non sappiamo [come mai? - N.d.a.]; ma ci sembra che la questione abbia un interesse relativo [no: ne ha invece molto N.d.a]. E ad ogni modo è il caso di domandare se le siluranti, le macchine e i siluri di trent'anni/a giustificavano allora una teoria che condusse la Francia a trascurare l'approntamento delle squadre da battaglia, per poi riprender/o in fretta, con enorme sforzo tecnico e finanziario, proprio alla vigilia della guerra da cui sembra dover uscire come corollario la prevalenza del naviglio insidioso e del naviglio veloce, e anche - è vero - la sopravvivenza della grande nave come concetto, ma sotto condizioni tali che potrebbero significare la condanna, più o meno a malincuore, di quasi tutte le unità corazzate ora esistenti.
Nulla di nuovo a fine 1915, anzi un arretramento.46 Pur registrando l'estensione della guerra al commercio prima limitata ai mari settentrionali d'Europa - al Mediterraneo da parte dei sommergibili tedeschi, e al Baltico da parte di quelli inglesi, la rivista rivela che da "fonti indirette" si è saputo della perdita di numerosi sommergibili tedeschi per effetto "delle energiche e sapienti misure difensive disposte dall'ammiragliato britannico". Fonti americane (quindi neutrali - N.d.a.] hanno annunciato che tali perdite sono salite a 70 unità; è tuttavia presumibile che ne siano state perduti almeno la metà. Nessuna considerazione sulla loro vulnerabilità; ma dal rallentamento della guerra al commercio specie nei mesi di settembre e ottobre 1915, per quanto da settembre a metà novembre 1915 siano state affondate 164 navi, la rivista affrettatamente deduce che "la caratteristica che si può trarre da questi mesi è che essi costituiscono la conferma pratica del previsto fallimento della guerra dei sommergibili contro il tra/jìco inglese". Nel 1914-1915 non si conoscono, in Italia, prese di posizione analoghe a quelle dell' ammiraglio Percy Scott sulla corazzata, o comunque miranti a una revisione della teoria classica del potere marittimo e del dominio del mare, alla luce delle possibilità che l'arma subacquea incomincia a rivelare; rimangono così inalterati i canoni classici del navalismo. Dimostra questa tendenza un articolo di fine 1914 sulla Nuova Antologia41 a fi nna del deputato Federico di Palma, nel quale tali canoni sono ribaditi senza le prudenti sfumature della Rivista Marittima, e al tempo stesso senza negare i successi dell'arma subacquea. Secondo il Di Palma la situazione è sempre a favore dell'Inghilterra:
46 Le navi da guerra perdute e le loro ca1Lçe (dall'ilzizio del conflitto europeo al 15 novembre 1915), in "Rivista Marittima" novembre 1915, pp. 208 e scgg. (direzionale). 47 Federico di Palma, Le flotte moderne, in "Nuova Antologia" Voi. CLXX IV Fase. 1027 - 1° novembre 1914, pp. 52-77.
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forse in nessun 'altra guerra il "potere marittimo" ha mostrato la forza e l'estensione del suo imperio, come nella spaventosa conflagrazione che da tre mesi tormenta, più che l'Europa, il mondo. Il sea - power è nelle mani dell'Inghilterra, la quale fino a oggi è la vera dominatrice dei mari. Le sue 500 navi armate e veglianti terribili sugli Oceani. non solo hanno condannato la flotta tedesca - la seconda del mondo - a rinchiudersi nelle proprie basi del Mare del Nord, ma hanno distrutto il commercio marittimo germanico, il grande rivale del commercio marittimo britannico. La colossale flotta mercantile tedesca non corre più sui mari: essa o è paralizzata o è già preda del potente e implacabile nemico. Un cerchio di ferro minaccia di soffocare ed affamare la Germania, le cui vie marittime - sugli Oceani, nel Nord e nel Mediterraneo - sono sorvegliate e controllate dalle numerose squadre inglesi. TI dominio del mare rese possibile all'Inghilterra, fin dall'inizio delle ostilità, lo sbarco delle sue truppe sulle coste del Belgio; ed alla Francia il trasporto delle sue truppe d'Africa in Mediterraneo.
Grazie anche alla neutralità italiana, il dominio del Mediterraneo è assicurato alla Francia e all'Inghilterra, che hanno di fatto bloccato l'Adriatico, costringendo la flotta austro - ungarica a rinchiudersi a Pola. Anche le vie del Nord, le vie oceaniche, Io stretto di Gibilterra, il canale di Suez sono dominati dalla flotta britannica. Questa vera e propria esaltazione della potenza marittima inglese, invero strana per uno studioso di una nazione ancora alleata dei nemici dell'Inghilterra, è accompagnata dal riconoscimento dell ' efficacia della guerra di corsa, nella quale la marina tedesca "si è mostrata ben preparata e meglio organizzata" (per il momento il Di Palma si riferisce particolarmente a incrociatori leggeri e navi mercantili ausiliarie armate, senza accennare ai sommergibili). Tuttavia - egli prosegue - anche se la padronanza del mare è rimasta all'Inghilterra e il blocco del mare del Nord da parte inglese rimane inflessibile e completo, manca alle flotte bloccanti "l'orgoglio della grande azione navale"; ma la loro attività, che azzera il commercio nemico e costringe le flotte tedesca e austriaca a rimanere chiuse nei porti, pur essendo logorante non è certo meno efficace di una battaglia vittoriosa. Ma arriverà pure l'ora in cui le flotte bloccate si decideranno ad uscire per affrontare la battaglia, sì che si può dire che "anche questa guerra dovrà essere decisa sul mare", benché a fronte dei 10 milioni di uomini degli eserciti stiano i soli 400.000 delle notte [paragone improponibile - N.d.a.]. Segue un esame delle costruzioni navali delle principali potenze marittime, dal quale il Di Palma deduce troppo salomonicamente che i sommergibili "avranno in questa guerra unafanzione larga e importante", ma non potranno mai sostituire la nave di linea, che rimane - come il cannone- la regina delle battaglie navali.
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I relativisti (Rossi, R. V., Vecchj, Maldini, Zevi) Specie nel campo strategico la dialettica tra le due Forze Armate inizia molto presto. Fin dal 1872 il capitano di fregata Carlo Rossi, facente parte del Gabinetto del Ministro Riboty, contesta sia pur con mano leggera e tra le righe48 un articolo altrettanto "diplomatico" del capitano del genio Fambri, noto scrittore militare e già membro della Sotto - commissione nominata nel 1860 dalla Commissione per la difesa dello Stato "per lo studio strategico-marittimo" delle nostre coste meridionali (evidentemente le più vulnerabili all'offesa dal mare).49 TI Fambri nega che il problema della difesa marittima sia preminente rispetto a quello della difesa terrestre, e pur ammettendo che per le coste non fortificate non c'è altro mezzo di difesa che la flotta, ritiene pur sempre necessario fortificarne bene i punti-chiave (a cominciare dalla Spezia), ridimensiona l'importanza degli sbarchi, esalta le difficoltà che essi trovano, e più in generale mette in evidenza le molto maggiori chances della guerra contro le coste che sono fornite dalla propulsione a vapore e dalle nuove artiglierie. Né c'è ragione, per il Fambri, di lasciarsi prendere dal panico di fronte alla minaccia di offese dal mare: uno sbarco può avvenire solo con forze limitate e nei pochi punti della costa con i necessari requisiti che lo rendano possibile, mentre le frontiere continentali [che siano] forzate espongono il paese agli estremi danni, compreso quello della perdita della propria vita politica; ma un attacco da mare, a meno che non si verifichi in tali punti e proporzioni da togliere una hase di operazione al paese, conquistar/a a sé e irradiare sulla terra e sulle acque le proprie ojjése, si limita al blocco, al bombardamento delle piazze marittime, alla distruzione degli stabilimenti navali commercia/i, alle contribuzioni.
Al contrario del Fambri, il Rossi sminuisce l'importanza delle fortificazioni costiere e della stessa base della Spezia per esaltare l'importanza delle forze navali mobili, che sono oltre tutto meno costose delle difese costiere. La difesa della Spezia a suo parere costerebbe come 4 o 5 corazzate; "ma quasi nulla di efficace si sarà realizzato, se non si lavorerà contemporaneamente ali 'aumento della.flotta". Una flotta racchiusa tra l'arsenale e la diga esterna, qualunque sia la loro distanza sarebbe un bersaglio quasi sicuro per le forze di una grande potenza marittima. Perciò dare ali 'Italia la sola difesa possibile delle sue coste, la sola possibile protezione della sua vasta popolazione marittima, darle insomma il suo vero po-
•• Carlo Rossi, La difesa delle nostre frontiere marillime, in "Rivista Marittima" 1872, 111 Trim. Fase. VII, pp. 829-834. 49 Paulo Fambri, Le nostre fronliere mari/lime e La Spezia , in "Nuova Antologia" Voi. XX - giugno 1872, pp. 225-255. La Sottocommissione - a carattere interforze - della quale faceva parte il Fumbri era presieduta dal generale Pozzo; gli altri membri erano il colonnello d 'artiglieria Rolandi e il contrammiraglio Zambelli.
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sto di una delle prime potenze navali, quello dovrebbe essere lo scopo da prefiggersi in un 'era di pace [... ). Sarà dunque poi tanto utile [come sostiene il Fambri per La Spezia - N.d.a.] lo affannarsi a proteggere con numerosi cannoni da mare [cioè dalle offese provenienti dal mare - N.d.a.] un punto già messo dalla diga a riparo di un colpo di mano, se questo arsenale [di La Spezia] non dovrà servire che a mandare faori una flotta da mettersi quasi in rimessa al 'aprirsi delle ostilità? Niuno può d'altronde dire dove si arresterà il pazzo palio che corrono corazze e cannoni da vari anni con rivale tenacità [ ... ] ma la questione di avere una flotta vera, proporzionata proprio ai bisogni d'Italia [ma quali sono tali bisogni e come deve essere questa "flotta vera"? - N.d.a.), quella è questione che sta, qualunque siano i cannoni, qualunque le corazze o le navi da battaglia prescelte.
Né il Fambri, né il Rossi concretizzano, indicono delle cifre, stabiliscono delle proporzioni, quantificano le risorse necessarie e/o possibili; inoltre il Rossi non calca il solito tasto della difesa marittima prioritaria rispetto a quella terrestre e/o della necessità di diminuire l'esercito a pro della marina. Nello stesso anno 1872 un non meglio identificato R. V. indirettamente contribuisce anch'egli a contra<;tarc la valutazione riduttiva della minaccia dal mare tipica del Fambri,50 mettendo in particolare evidenza che mentre l' Inghilterra, la Francia e la Germania per ragioni diverse poco hanno da temere dalle offese dal mare, l'Italia vi è completamente esposta, con coste accessibili, flotta debole, fortificazioni costiere insufficienti o antiquate e i numerosi e importanti centri costieri indifesi. Né R. V. con fida - come invece fa Bonamico - nella possibilità di attaccare i convogli con prospettive favorevoli, perché "i trasporti dell 'aggressore o dell 'invasore [naturalmente la Francia- N.d.a.] non sarebbero nemmeno costretti a separarsi dalla squadra che li accompagna, poiché la flotta di lui, perdurando l 'attuale esiguità delle nostre forze navali, non mai polrebb 'essere tale che permettesse alle navi di cui disponiamo di correrle incontro e d 'invitarla a battaglia con qualche probabilità di successo per noi", dato che la flotta francese sarebbe forse il triplo della nostra [proporzione mai migliorata a favore dalla nostra flotta anche per il futuro - N.d.a.]. R. V. passa poi in rassegna le nostre basi e fortificazioni costiere, accennando in particolar modo alla "colossale opera di La Spezia, primo arsenale d'Italia non ancora compiuto e ancor oggi priva di difesa ejjìcace", all'importanza di Napoli, per la cui difesa sarebbe necessaria - oltre che batterie costiere al momento inesistenti - anche la flotta, e alla relativa facilità di occupare la Sicilia e la Sardegna per un avversario "che possegga una flotta e qualche divisione di soldati da sbarcare", perché anche numerose forze terrestri che impedissero al nemico di sbarcare, non riuscirebbero ad impedire alla flotta nemica di provocare il massimo dei danni possibile alle coste e alle città di queste isole.
'" R.V., la dife sa delle nostre coste, in "Rivista Marittima" 1872, Jl Trim. Fase. V, pp. 538-550.
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Più in generale R.V. distingue tre specie di "guerre difènsive" alle quali sarebbe esposta l'Italia, prendendo come dato costante una flotta debole: 1) guerra esclusivamente continentale o terrestre; 2) guerra combinata terrestre e marittima; 3) guerra quasi esclusivamente marittima. Nel primo caso (offensiva terrestre nemica da Nord, Nord-Ovest o Nord-Est) la sua valutazione è- come le altre coeve - decisamente ottimistica: tale tipo di offensiva "è quello per il quale siamo più in grado di resistere efficacemente e forse di vincere", grazie a "un esercito poderoso, sufficientemente ordinato, la migliore creazione del Governo" e grazie alla barriera delle Alpi (sempre forte anche se le nostre fortificazioni "lasciano anch'esse a desiderare"), alle fortezze della val padana e infine agli Appennini. Nel secondo caso, se il nemico si limitasse a un'invasione terrestre danneggiando il più possibile le coste senza sbarcare, le sorti della guerra dipenderebbe dall'esercito, tuttavia costretto a immobilizzare parte delle sue forze nella difesa delle principali città marittime e delle isole, che tuttavia subirebbero "immense distruzioni''. Se invece l'invasione nemica avvenisse principalmente per terra ma secondariamente anche per mare, la situazione diverrebbe più complessa e critica, "la suddivisione dell'esercito sarebbe più grande e la sua azione.fino a un certo punto paralizzata dalla incertezza del sito di attacco che il nemico presceglie". Lo sbarco nemico avverrebbe poco a Sud del Tevere, o lungo le spiagge della Puglia o a Nord della Calabria, con pericoli e danni difficili da prevedere ma superiori a quelli dei casi precedenti, dato che "quarantamila uomini sharcati ed appoggiati ad una flotta convenevole basterebbero probabilmente a mantenere in iscacco centomila uomini del nostro esercito, i movimenti ed i colpi del quale diverrebbero senza dubbio più lenti e meno efficaci e decisivi''. Il terzo caso sarebbe il peggiore di tutti, perché impotenti a difendere le nostre isole, dovremmo subire la legge del nemico, facile e quasi invulnerabile triorifatore [ ... ]. Il nostro esercito, agguerrito, numeroso, rimarrebbe colle armi al piede ad assistere alle prede e alle devastazioni della flotta nemica. Al più, ove lo volesse l'aggressore s'impegnerebbero rari duelli di artiglieria fra le nostre fortezze e le navi di lui. Ma le flotte corazzate, armate di potenti cannoni, invierebbero di prejèrenza, impunite, enormi proiettili a battere, al di là delle fortezze e delle batterie, in pieno centro le città e gli stabilimenti nazionali. Le nostre navi mercantili catturate, bruciate o colate a fondo, il nostro commercio annientato, le nostre città marittime nel panico e nel lutto, le nostre isole abbandonate, le poche nostre forze navali distrutte, il Paese e il Governo, non preceduti da guerra combattuta e persa, obbligati a patti vergognosi, ecco la posizione terribile di uno Stato posto tutto sul mare senza.fortificazioni costiere, senza una flotta da opporre alla nemica.
Che cosa avverrebbe nell' ipotesi- oggettivamente anch'essa meritevole di essere presa in attenta considerazione - che il nemico sfondasse le di fese delle Alpi e degli Appennini, R. V. non lo dice, per tracciare in compenso I' om,ai
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consueto quadro drammatico delle conseguenze di un' offensiva marittima nemica, al quale non può che seguire"l'intento di persuadere possibilmente i molti non ancora convinti [non certo nella marina - N .d.a.] della grande , indiscu-
tibile necessità che l '/talia provvede a tempo e presto, né limiti dei suoi bisogni e delle sue risorse, alla difesa delle proprie coste". Nessun obiettivo eccessivo, nessun tentativo di quantificare, di precisare l' entità dello sforzo necessario e possibile; in tal modo rimangono senza risposta due interrogativi semplici ma fondamentali: basterebbe all'Italia uno sforzo "nei limiti delle sue possibilità e delle sue risorse"? e con quali criteri strategici, con quale flotta tale sforzo dovrebbe essere condotto? Nonostante il titolo pretenzioso (Sulla strategia navale dell'Italia) e l'ampiezza dei riferimenti storici, non è più originale, né più concreto dei precedenti l'articolo del 1876 di un grande nome come Augusto Vittorio Vecchj 51 , il quale come già visto sente ancora il bisogno di dimostrare che la strategia esiste ancora, individuando una problematica differenza fra la strategia individuale che può variare a seconda dei capitani, del cambiamento di materiale, dei punti di offesa e di difesa e dei progressi diuturni delle scienze affini alla scienza del mare o parti integranti di questa, e fra quella dottrina che più sopra ho chiamato di strategia nazionale e verso la quale sarebbe mio vivo desiderio veder richiamare l'attenzione di coloro che in Italia stanno alla direzione del presente e alla salvaguardia dell'avvenire delle cose navali.
Sembra dunque che il Vecchj voglia distinguere tra grande strategia nazionale (che in pratica equivale alla politica militare e navale) e strategia prettamente operativa tipica dei comandanti e Stati Maggiori navali; se è così, perché non dirlo più chiaramente, e perché non precisare che la cosiddetta "strategia individuale" deve inquadrarsi in quella nazionale? Per quest'ultima strategia, il Vecchj intende oppure no la sola strategia nazionale navale, come parrebbe di capire nel prosieguo dell'articolo? In effetti (questo è un suo limite) egli non parla mai di strategia insieme terrestre e marittima, come tanti altri non andando al di là dell'affermazione che "l'Italia si difende dal mare e dalle sue isole", con la Sicilia e la Sardegna antemurali del sistema di difesa contro la Francia. E dopo uno scontato accenno all'importanza delle basi navali e degli arsenali (che non vanno confusi con le basi) e all'opportunità per una flotta di non rinchiudersi in un arsenale (forse pensa a La Spezia) perdendovi la sua capacità combattiva, prevede tre possibili modalità per la d{fesa, tutte incentrate sulla guerra di squadra e tutte in assenza di una qualche valutazione delle forze contrapposte, che pure di tale guerra di squadra dovrebbe essere la base: 1) mantenere la flotta italiana schie-
51 Augusto Vittorio Vecchj, Sulla strategia navale del 'Italia. in '"Nuova Antologia" Voi. I aprile 1876, pp. 801 820.
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rata in battaglia alla bocca del Golfo di La Spezia, con un sistema di veloci e numerosi incrociatori che la tengano informata dei movimenti del nemico, onde consentirle di accorrere ovunque sia necessario [ anche se le forze nemiche sono superiori? - N.d.a.] con un ritardo minimo di mezza giornata; 2) difendere le coste "con un 'ampia crociera mobilissima", che pera Itro richiederebbe un numero eccessivo di incrociatori; 3) disporre la flotta alle Bocche di Bonifacio, posizione estremamente vantaggiosa dalla quale mediante i suoi esploratori potrebbe sorvegliare le mosse della squadra nemica. Sarebbe quest'ultima la soluzione preferita dal Vecchj, che consentirebbe anche un ritorno offensivo. Non sembra invece amare La Spezia, o meglio lo sviluppo che vi sta prendendo quell'arsenale come protagonista delle costruzioni navali: a suo discutibile parere (e sembra riferirsi appunto a La Spezia) in un arsenale occorrono solo "molto e scelto carbone, e ben guardato, ampi locali in cui stivare utili e numerosi approvvigionamenti, un piccolo stabilimento metallurgico per quelle riparazioni minute che assai più delle grandi occorrono alle navi moderne". Ma se mai questa è una base: le grandi riparazioni dove si fanno? le navi moderne dove si costruiscono? Con un' esplicita critica agli arsenali italiani, spagnoli, francesi, egli indica come modello l'arsenale americano di Brooklyn, opificio in apparenza modesto ma moderno e con molte macchine che sostituiscono il lavoro manuale, mettendo in mare parecchie navi. Dopo le Bocche di Bonifacio, a suo parere una seconda base d'operazioni potrebbe essere organizzata a Trapani, di fronte a Tunisi e a Malta [Biserta nel 1876 non è ancora una base francese - N.d.a.], non lontano da Tunisi e Cartagena. Dopo aver preso in esame la guerra navale contro la Francia il Vecchj tra i pochi accenna anche a una possibile guerra nell'Adriatico, prevedendo oltre che l'ipotesi di una guerra con l'Austria, quella del tutto fantasiosa che sia necessario combattere contro "una Grecia ampliata", contro la Turchia oppure (pardi capire) contro la Francia o l' Inghilterra; per contrastare tutte queste emergenze è necessaria una base che sbarri l'ingresso dcli' Adriatico, quale potrebbe essere Brindisi in aggiunta a Taranto e Venezia, quest'ultima "sede di un arsenale che ogni giorno acquista maggiore importanza". Riguardo alla strategia, alla tattica e alle costruzioni navali in genere, il Vecchj come tanti afferma (sbagliando) che il materiale è ritornato all'antico, e con esso la strategia e la tattica; infatti la galera romana combatteva coll'urto della prora rostrata come la moderna corazzata [e il progresso delle artiglierie? - N.d.a.], con formazioni di battaglia che assomigliano di più a quelle [frontali] di Duilio e Agrippa che a quella in colonna adottata da Nelson nella battaglia di Aboukir. A questa tesi infondata ne segue un'altra contraddittoriamente affine a quella sostenuta dal Bonamico poco tempo dopo, e adatta più a una guerra di crociera che a una guerm di squadra, anche per la netta svalutazione della corazzata: se la scelta di una conveniente base d 'operazione è parte importante della strategia nazionale, se oltre la scelta dei punti reputo necessario il lavoro di adattamento di P.ssi, è pure di gran momento la sana costruzione d'un mate-
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ria/e richiesto da bisogno speciale e legato direttamente colla configurazione delle costiere nazionali. E poiché chiedesi alle nostre forze la rapidità dei movimenti che può solo schermire dal nemico una marina [cioè uno sviluppo costiero - N .d.a.] di facile approdo e lunghissima, fa mestieri al naviglio da guerra italiano essenzialmente mediterraneo una ingente velocità ed un ampio approvvigionamento di combustibile, sacrificando all'uopo allo spedito cammino altre fra le qualità nautiche delle singole navi. Né ci deve premere molto il numero di quelle di linea o meglio corazzate da battaglia, quanto quello di una svelta flottiglia di esploratori, sopra ogni cosa veloci e graduati per le varie contingenze meteorologiche.
Come si fa a condurre vittoriosamente una guerra di squadra con un naviglio di siffatte caratteristiche? E perché dovrebbe essere necessario privilegiare l'autonomia del predetto naviglio, data la relativa vicinanza delle nostre basi e dato che si tratta, appunto, di condurre una guerra mediterranea? con quale rapporto di forze, e come, dovrebbe essere possibile per la flotta italiana contrastare flotte assai superiori? A questi interrogativi elementari il Vecchj come molti altri non risponde affatto, con un lavoro che nonostante la ricchezza dei riferimenti storici risulta in parecchi punti contraddittorio. superficiale e non all'altezza della fama dell' illustre autore. Il Vecchj è comunque tra i pochi ad avere - più tardi - l'onestà intellettuale di prendere atto dei radicali e imprevisti mutamenti dei primi mesi di guerra, constatando nel suo libro di fine 1914 La guerra sul mare (dedicato a un navalista come l'ammiraglio Bettòlo) la mancanza di scontri navali risolutivi e l'ormai problematica utilità delle corazzate. A suo parere le flotte che, formate di materiale meno perjètto [di oggi], operarono per urto, oggi tendono ad operare per pressione [.. .). Le navi impegnate contro fortezze si sono chiarite impotenti[ ... ]. Hanno in realtà trionfato la mina cieca e il sommergibile, cioè il caso fortuito e l'insidia; il che è triste, molto triste[ .. .]. Purtroppo non è da escludersi che tra Tedeschi e Inglesi una giornata campale possa aver luogo[ ... ]. L'esito dirà quanto vale la nave moderna, prodigio tecnico indiscutibile. Ché se. invece, la prova delle armi non accadrà. si affaccerà alla mente dell'uomo di Stato una domanda: a cosa serve una corazzata di linea? abbiamo noi tutti percorso una via che mena al ciglio del fosso nel quale abbiamo profuso milioni a centinaia?
Con queste poche parole il Vecchj ben riassume il principale interrogativo dell'intera guerra sul mare 1914-1918, che fa seguito alle radicate e diffuse certezze del periodo precedente, tutte concordi nell'attribuire il primato alle grandi navi, con artiglierie sempre più potenti. Gli articoli successivi molto raramente contengono spunti nuovi e originali. Nel 1888 pur essendo esperto di cose navali, il deputato Gian Galeazzo Maldini dà troppo rilievo alle fortificazioni costiere,52 fino a riprendere - in so' 2 Gian Galeazzo Maldini, La difesa marittima d'Italia, in "Nuova Antolo1;:ia" Voi. XV - 16 giugno 1888, pp. 689-715.
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stanza - la solita tesi che bisogna fortificare tutto o quasi, giustificandola con le caratteristiche e l'estensione delle nostre coste e respingendo la diffusa convinzione che tocchi alla marina difendere il litorale; a suo parere essa può solo concorrere a tale difesa, per la quale sono evidentemente necessari altri mezzi. Che cosa debba e soprattutto possa fare la flotta d'alto mare non lo esamina a fondo, pur ribadendo che occorre un concetto unitario di difesa: tuttavia è molto, troppo ottimista sia a proposito della situazione delle forze navali, sia a proposito dei fondi necessari per la difesa marittima. In particolare, divergendo dai pessimisti afferma - rara avis - che oggi la forza del nostro naviglio è tale che non abbiamo ragione di scoraggiarci a questo riguardo, da qui a qualche mese questa forza sarà di molto accresciuta, ma è necessario che vengano adoperati tutti i mezzi possibili per sollecitare i lavori sopra le navi che sono in allestimento e spingere con alacrità quelli delle navi minori che trovansi ancora in costruzione e che possono venire ultimate in un periodo di tempo non troppo lungo.
Forza in rapporto a quale avversario? Non lo dice. Le perplessità del lettore di fronte a queste affermazioni aumcnlano, quando concede di rimanere se necessario sulla difensiva all'esercito, ma non alla flotta: a suo parere "la difensiva per una flotta, corrisponde oggi più che mai alla assoluta inazione. E per ottenere un tale risultato non parmi che convenga una marina", la quale non deve nemmeno proteggere gli arsenali e i cantieri. Anche il problema dei fondi non ha per il Maldini quei risvolti quasi drammatici che per altri lo rendono pressoché insolubile, o quanto meno di assai difficile soluzione: i lavori eccezionali per questa preparazione richiedono certamente molte spese; però nei due bilanci della guerra e della marina, si possono trovare i fondi necessari a tale scopo [come? dove? e in quale misura? - N.d.a.]: ad ogni modo nelle leggi straordinarie che riguardano le costruzioni navali, la difesa ravvicinata delle coste, le fortificazioni litoranee con il loro armamento, havvi la facoltà ai due suddetti ministri [della guerra e della marina - N.d.a.] di anticipare i prelevamenti dei fondi già approvati allo scopo di sollecitare i lavori contemplati nelle citate leggi. Per conseguenza i lavori di preparazione da me indicati possono eseguirsi .tenza per nulla alterare la condizione finanziaria dello Stato.
È assai dubbio, se non impossibile, che sia sufficiente l'artifizio contabile indicato dal Maldini, anche perché non si cura di indicare la somma complessiva necessaria che è senza dubbio ingente, visto che vorrebbe fortificare le basi, gli arsenali i principali centri costieri ove si trovino stabilimenti di costruzioni navali, i principali punti strategici che potrebbero servire al nemico per organizzare sbarchi . . . senza contare che accenna alla necessità di una "difesa ravvicinata delle coste" che integra la difesa costiera, è il trait d 'union tra quest'ultima e l'azione della flotta d'alto mare e ha anch'essa un costo sensibile, composta com'è da"1° torpedini.fisse e semoventi; 2° ostruzioni e sbarramenti;
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3° navi di particolare costruzione; 4° ordinamenti di taluni servizi speciali [come quello dei semafori costieri - N .d.a. )". È comunque tra i pochi autori navali a non ritenere tanto facili e semplici gli sbarchi, pur rendendosi conto che tutto il nostro litorale è di facile accesso e perciò difficile da difendere. Non chiede troppo alle difese costiere, visto che a suo parere "gli sbarchi vengono impediti con la flotta [ma come? - N.d.a.] e con i mezzi che costituiscono la difesa ravvicinata delle coste, combinando questa duplice azione con quella esercitata dalle fortificazioni del litorale". Non è, infine, tra coloro che ritengono possibile indebolire l'esercito a pro della marina e/o sottovalutano la minaccia di confini terrestri e sopravvalutano ad arte il valore impeditivo intrinseco delleAlpi, in modo da dimostrare la possibilità di indebolire senza danno l'esercito a pro della marina. Nonostante quest'ultimi meriti il suo articolo pur volendo essere equilibrato, assegna palesemente troppe chances alle fortificazioni costiere e a quella che chiama "d!fesa ravvicinata delle coste", a tutto danno delle forze mobili navali d'alto mare e senza un quadro attendibile delle esigenze e possibilità economiche. Rientra nel campo relativista anche un articolo del 1886 (da sottolineare: pubblicato non dalla Rivista Marittima, ma dalla Rivista Militare) dovuto al capitano di fanteria Filippo Zevi, che tutto sommato potrebbe essere scritto benissimo da un ufficiale di marina sostenitore della priorità della difesa marittima.53 Dopo aver lamentato che i troppi servizi extramilitari e il frazionamento dei reparti pregiudicano l'addestramento dell'esercito, lo Zevi propone di organizzare anche esercitazioni interforze, nelle quali l'azione di uno o più corpi d'armata sarebbe combinata con quella di uno o più squadre della nostra flotta, che simulerebbero di attaccare o difendere le coste italiane. Perciò il suo obiettivo è di dimostrare i vantaggi di queste esercitazioni, "richiamare alla mente nostra i doveri che c'impongono le condizioni del nostro litorale, vedere se non si possa fare un passo innanzi ali'ordinamento dell'esercito coordinandolo con la difesa marittima, gettare un 'altra piccola pietra nel/'ed{fìzio dell'opinione pubblica che vuol essere preparata a grandi sacr(fizi". Nel concreto anche lo Zevi ricalca in massima parte argomenti tipici del navalismo, e anche se non arriva mai a pretendere che la nostra flotta conquisti il dominio del mare, esordisce con la non nuova affermazione che "l'Italia è potenza essenzialmente marittima, ed al mare deve chiedere la sua futura grandezza", perciò "deve e può pretendere di assumere anche l'offensiva per mare", attaccando il commercio e le colonie del nemico e facendo rappresaglie. Segue la solita accentuazione dei pericoli di sbarchi francesi, anche se diversamente dal Perrucchetti pensa che riuscirà sempre difficile alla flotta francese, quali che siano le sue forze, difendere un grande convoglio di 150-200 navi, "se rapide e potenti corazzate come le nostre si butteranno senza riguar-
s3 Filippo Zevi, La flotta e l'esercito nella difesa delle coste, in "Rivista Militare Italiana" Anno XXXI - Vol. n maggio 1886, pp. 222-224.
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do ad attaccar/o, coadiuvate da rapidissimi incrociatori armati di artiglierie di grosso calibro, e seguiti e preceduti da numerose artiglierie di alto mare". Gli sbarchi francesi avrebbero riflessi ancor più negativi di una sconfitta in alto mare; per scongiurare questi pericoli, secondo lo Zevi esiste una serie di rimedi: Volgere al mare la nazione; togliere, se non si può fare altrimenti, cinquanta milioni all'esercito [in ogni anno] e dedicarli alla marina; nonprofondere questi milioni in difesa passiva ma impiegar/i saviamente in dffese mobili, cioè incrociatori rapidissimi e potenti per artiglieria, costrutti secondo le idee più moderne, dotati della massima velocità, della massima potenza offensiva (artiglieria, sprone, siluri) e di quella difesa che basti per rendere invulnerabili le parti vitali della nave: macchine, timoni, apparecchi subacquei di lancio. Ordinare, non sulla carta, ma effettivamente la difesa delle coste mediante cannoniere Armstrong, torpediniere Yarrow e soprattutto mediante la difesa territoriale. Almeno dieci di questi milioni dovrebbero essere spesi nel naviglio mercantile, le cui sorti sarebbero rialzate, ed il quale diverrebbe un potente ausiliario in caso di guerra.
In sostanza lo Zevi ritiene necessario uno stanziamento straordinario di 50 milioni all'anno in più per la marina, dei quali 30 per nuove costruzioni navali ad hoc e 20 per spese varie tra le quali la marina mercantile. Oltre a 10 milioni per quest'ultima, 5 sarebbero destinati alla creazione della riserva territoriale di marina così come "a/l 'organizzazione seria" del servizio territoriale di costa e 5 alle maggiori spese di manutenzione per l'accresciuto naviglio, oltre che alle spese necessarie per la difesa del litorale (tronchi stradali per il rapido movimento delle milizie costiere, e basi di rifugio per le cannoniere e torpediniere guardacoste). Con i rimanenti 30 milioni all'anno potrebbero essere costruiti, in dieci anni: - 20 potenti incrociatori protetti solo nelle parti vitali, dislocamento 30005000 t, velocità 18-20 miglia, cannoni da 25-30 tonnellate, del costo complessivo di 120 milioni; - 40 incrociatori-torpedinieri con dislocamento non superiore a 2500 t, velocità minima 20 chilometri/ora, per un costo totale di 60 milioni; - 100 torpediniere d'alto mare con autonomia di 1500-2000 miglia, perun costo totale di 35 milioni; - 100 torpediniere da costa, del costo di 20 milioni; - l O grandi navi da trasporto di cui 2 per cavalli, del costo di 40 milioni. Totale 275 milioni su 300 disponibili; i rimanenti 25 milioni andrebbero impiegati per l'acquisto di carbone "che una volta o l'altra.fì.niremo, come si spera, per trovare nella stessa Italia". Con le normali assegnazioni di bilancio si potrebbero ultimare i tipi di nave già in allestimento, che poi non andrebbero più costruiti (par di capire, perciò, che secondo lo Zevi non andrebbero più costruite corazzate, sostituite dai "venti potenti incrociatori" da lui proposti). T 50 milioni all'anno in più per la marina potrebbero essere risparmiati sul bi-
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lancio dell'esercito sia con il reclutamento regionale ( che oltre ad essere meno costoso, renderebbe le operazioni di mobilitazione più semplici e rapide), sia liberando i reparti dall'eccessivo gravame dei servizi di ordine pubblico e di altro genere, ciò che consentirebbe di ridurre senza danno la ferma fino a due anni o a un anno [calcolo poco attendibile, non solo perché il reclutamento regionale e la riduzione della ferma non saranno mai accettati - N.d.a.]. Alla tesi dell'aumento del bilancio della marina a spese dell'esercito, dalla quale esplicitamente dissente un navalista come il Manfredi, il capitano Zevi aggiunge una certa attenzione per l'ipotesi di una guerra isolata contro l'Austria. La nostra flotta - egli afferma - è superiore a quella dell'Austria stessa, che è nazione essenzialmente continentale e dedica alla marina la metà del bilancio della nostra; andrebbe però seguito l'esempio di audacia e di spirito offensivo che a Lissa ha dato contro di noi l'ammiraglio Tegetthof. Quindi i nostri ammiragli, trascurando una falsa prudenza e senza preoccuparsi dei pericoli che ne possono derivare in caso di insuccesso, dovrebbero "cercare subito la flotta nemica, attaccarla risolutamente ovunque la si incontri, non darle tregua fino a che non la si è costretta a chiudersi nei porti, forzare questi porti''. Insomma: la nostra flotta dovrebbe fare l'esatto contrario di quanto poi avrebbe fatto nel 1915 - 1918. Però nel caso "improbabile" di una nostra sconfitta per mare, l'Austria (diversamente dalla Francia) non potrebbe sfruttare il successo con sbarchi sulle nostre coste adriatiche e/o investendo Roma dal mare, azioni che incontrerebbero ovunque "dif]ìcoltà, condizioni sfavorevoli e poche probabilità di riuscita"; essa quindi tenterà di invaderci via terra "dallo scacchiere del Tirolo, il quale fatalmente s'interna nelle nostre viscere, e da quello dell'aperto Friuli [cioè del confine non fortificato e in parte pianeggiante del Friuli - N.d.a.]". In questo caso l'Italia avrà bisogno di tutte le sue forze terrestri, in pace provvedendo alla difesa delle sue coste adriatiche e in guerra affidando esclusivamente alla superiorità della sua marina la loro difesa, "senza pregiudizio dei compiti o.ffènsivi che potranno assegnarle i dettami della gran guerra combinata e le condizioni del momento". Ben diversa è la minaccia degli sbarchi francesi, che saranno preferibilmente rivolti contro la parte occidentale delle nostre coste tirreniche, sfruttando una situazione dei porti che "è oltremodo minacciosa". A parte la discutibile e discussa proposta di depauperare fortemente il bilancio dell'esercito a pro della marina (non condivisa dal Manfredi e dal Fazio, ma più tardi ripresa dal Bonamico) e la pretesa di realizzare così consistenti economie solo con riduzione della ferma e con il reclutamento regionale, lo Zevi dimostra una precisione e una coerenza assai maggiore di quella di molti autori fin qui esaminati, arrivando sia pur nelle grandi lince a prevedere l'andamento di un futuro conflitto con l'Austria, e indirettamente richiamando l'attenzione anche sull'opportunità di fortificare la frontiera di Nord - Est con l'Austria, cosa che non è mai avvenuta con gravi conseguenze specie nella ritirata dall'Isonzo al Piave. Da apprezzare anche le sue considerazioni sull'utilità di grandi manovre comhinate esercito-marina (mai attuate nemmeno nel
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XX secolo) e sulla necessità di talune riforme dell'esercito, anch'esse mai attuate. Apprezzabile, infine, l'apertura della Rivista Militare di allora a proposte come la sua, che non andavano certo a favore degli interessi immediati del1'esercito, anch'esso pressato da costose esigenze di ammodernamento.
I minimalisti (Moro, Cottrau, O T., Gonsalez, Arbasini Scrosati) Per "minimalisti" intendiamo coloro che sia pur sostenendo la necessità di rafforzare la marina (magari anche a spese dell'esercito); le assegnano solo un ruolo strategico difensivo, senza chiederle di afl:rontare il nemico in una guerra di squadra e con forte atteggiamento critico verso le grandi navi. Questa corrente d'idee non ha prevedibilmente molto successo ali 'interno della Forza Armata, se non altro perché è quella che meno si presta a indurre l'establishment politico a maggiori assegnazioni per le forze navali. Ne fanno parte i seguaci del Bonamico, tra i quali spicca il comandante Paolo Cottrau (1882-1884). Merita solo una breve citazione il lavoro sulla difesa marittima dell'Italia di Giovanni Moro, sostenitore del ritorno alla tattica del periodo remico ( cap. IV). 54 Premesso che "le navi da guerra sono la prima linea di difesa delle frontiere di uno Stato, [mentre] gli ostacoli naturali e artificiali e le opere di fortificazione litoranea sono la seconda", il Moro afferma che le nostre coste sono indifese ma non ha alcuna fiducia nelle grandi navi come il Duilio e il Dandolo, anche perché bisogna importare dall'estero tutto ciò che occorre per costruirle e armarle. È necessario quindi sviluppare l'industria nazionale, anche perché non è vero che l'Inghilterra produce il materiale migliore e ai costi più bassi, perché noi possiamo avvalerci della mano d'opera meno costosa in Europa. Sempre a parere del Moro, data la grande portata e potenza delle moderne artiglierie navali gli ostacoli per impedire l'avvicinamento delle corazzate al litorale devono essere disposti almeno quattro chilometri davanti alle coste, con piccole ma forti navi per proteggerli; bisogna inoltre fortificare i punti di maggiore importanza del litorale, costruire numerosi battelli lancia-torpedini, difendere con dighe parallele i porti, progettare e costruire ferrovie che consentano il rapido concentramento dell'esercito in qualunque punto, ecc. Insomma una semplificazione e anzi volgarizzazione dei problemi della difesa marittima senza approfondirli, nella quale spicca solo un opportuno richiamo alla necessità di rendersi il più possibile indipendenti dall'estero, sviluppando l' industria nazionale. Di ben altro livello sono gli studi del comandante (poi vice-ammiraglio) Paolo Cottrau. Non casualmente in coincidenza con la permanenza al Ministero della marina dell'ammiraglio Ferdinando A e ton, il Cottrau pur essendo esperto di balistica ed artiglieria (come Bonamico nello stesso periodo) sostiene la guerra di crociera e si dichiara nettamente contro le grandi navi, dimostrando ,. G iovanni Moro, La difesa marittima dell 'llalùz, Venezia, Cecchini 1878.
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una relativamente scarsa fiducia nel cannone ("l'affondare una nave a colpi di cannone è una cosa immensamente meno facile di quel che s'immagini dai non marini'') e molta fiducia nell'avvenire del siluro, senza escludere il rostro, del quale devono essere provvisti tutti i tipi di nave perché "è certamente il più eventuale, ma I 'essenzialmente decisivo fra gli attuali mezzi di difesa". Ciò avviene nel primo e più importante articolo dall'emblematico titolo Mario lmperium obtinendum55 , nel quale sottolinea la particolare situazione geostrategica dell'Italia, che diversamente dalla Francia e dalla Germania - e come avviene per l'Inghilterra - le impone di "tenere il mare" e si oppone alle tesi di coloro che - dando per scontata la superiorità in campo marittimo delle potenze che possono spendere 200, 300 o più milioni per le sole forze navali - pensano sia meglio "rafforzare efficacemente solo l'esercito e lasciar la nostra marina quale è, o, tutto al più, limitarci a prepararla pian pianino al suo grande, ma remotissimo avvenire". Le argomentazioni del Cottrau per dimostrare la necessità di una flotta, non nuove, sono sotto diversi aspetti analoghe a quelle del Bonamico. Come Bonamico teme anzitutto gli sbarchi: al bombardamento delle città costiere ci si può anche rassegnare, ma noi non possiamo senza gravissimo rischio rinunziare a tenere il mare. Anche con le nos tre forze attuali a qualunque costo lo terremo; e, se il nemico si presenterà con un corpo di sbarco a Vado, sul litorale toscano o sulla costa romana, noi arriveremo sul suo convoglio,forse tardi.forse in pochi. e certamente malconci, ma non esiteremo a sacrificare a una a una le nostre lente e antiquate corazzate, e tenteremo di traversare con esse l'armata di scorta, pur di disturbare se non lo sbarco dei combattenti, che si fa in poche ore, almeno quello delle salmerie e delle riserve, per le quali occorrono giorni e non ore di traffico.
Oltre ad essere estremamente difficile se non disperato, un siffatto impiego della nostra flotta evidentemente prescinde dalla preventiva e impossibile - conquista del dominio del mare mediante la guerra di squadra, così come si dovrebbe dedurre dal titolo dell'articolo; ed è in contraddizione anche con una nota dell 'articolo stesso, nella quale l' autore ricorda che secondo Bonamico [che peraltro non ha mai ritenuto necessaria e possibile la conquista del dominio del mare contro la Francia .- N.d.a.l "la difesa, così essenziale, della Liguria, senza il dominio del mare è oggi quasi impossibile ". Se è così, tale dominio del mare a maggior ragione sarebbe necessario per la difesa della penisola e delle isole; e allora, che fare? Si deve constatare che i restanti contenuti dell'articolo citando a lungo il Bonamico portano ad escludere che "tenere il mare" significhi dominarlo, so-
" Paolo Cottrau, Maris Imperium Obtinendum, in " Rivista Marittima" l RR2, TTT Trim. Fase. VIII, pp. 33-63. Pubblicato anche sulla Rivista Militare Italiana dello stesso anno.
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stengono la guerra di crociera e condannano esplicitamente la guerra di squadra, con critiche al perno di tale guerra - la corazzata - assai più severe e approfondite di quelle del Bonamico stesso. L'articolo del Cottrau ruota intorno a pochi concetti che si rifanno anche al Saint Bon, ma ne riprendono solo le considerazioni favorevoli alle siluranti, senza affatto presentarlo come il padre delle grandi navi e con un sostenitore di fatto della guerra di squadra: non bisogna dimenticare che talune operazioni di guerra sulle coste possono essere disturbate [ma bisogna essere in grado di impedirle! - N.d.a_] con mezzi navali di ofjèsa anche relativamente piccoli e di poco costo, e che il nemico non avventurerà in mare uno sterminato convoglio da sbarco, né forse tenterà, con una o due navi isolate, un colpo di mano sopra una nostra città o sopra una nostra ferrovia, se saprà che il litorale è attivamente sorvegliato e che potenti incrociatori e torpediniere, se non addirittura un gruppo delle nostre fùture, veloci e poderosissime corazzate, gli piomberà addosso. Gli incrociatori autonomi e i lanciasiluri: questi due tipi di navi, che nella loro forma più completa e perfetta sono stati preconizzati, dirò quasi divinati, otto annifa del nostro ammiraglio di Saint Hon; ecco le anni dei poveri ardimentosi contro i ricchi ultrapotenti. La guerra di crociera, la K1Jerra alla spicciolata e, poiché un valente ammiraglio straniero LAube - N.d.a.J ce La accenna, la corsa, ecco il modo di adoperarle [ ... ]. Se invece in aggiunta dell'attuale nostra tardigrada squadra, appiattata alla Spezia o costretta a fermarsi altrove per i continui rifornimenti di carbone e per le scarse qualità marine, avessimo, librati sul mare, dieci potenti velocissimi incrociatori, e se, grazie al servizio di una ben ordinata esplorazione, questi falchi potessero in poche ore piombare da tutte le direzioni sopra i convogli nemici o sui punti minacciati; se alla loro azione si potesse ovunque aggiungere quella di lanciasi/uri e torpediniere anche più veloci, quanto sarebbero mutate le nostre condizioni difensive!
Segue un elogio all'ammiraglio di SaintBon, del quale alcune affermazioni sono presentate a sostegno della guerra di crociera, visto che "egli vedea che
l'era delle classiche battaglie navali si chiudea jòrse per sempre, che conveniva sviluppare le qualità eminentemente strategiche delle navi, la velocità e l 'autonomia, le qualità della guerra di crociera [ma anche quelle tattiche N.d.a.)". E sempre dal Saint Bon il Cottrau riprende anche la famosa dichiarazione che "allora la corazza ha reso impossibili tutti i bastimenti che esistevano prima ed ora il siluro rende impossibili tutti i bastimenti che esistono, [... )
nella lotta fra un Duilio e un lanciasiluri, l'ammiraglio prevedeva che tutte le probabilità di vittoria erano per il lanciasiluri"' [e se il Duilio avesse dovuto lottare contro un'altra grande nave? - N.d.a.)_ Delle tesi del Cottrau meritano di essere ricordati due altri aspetti: i suoi attacchi - in contraddizione con gli elogi ali' opera del Saint Bon - alla corazzata, della quale mette in evidenza soprattutto il costo elevato e la vulnerabilità. A suo assennato parere "cercare l'invulnerabilità è una chimera", perché il siluro ha sostituito il grosso cannone come arma decisiva [non è sempre ve-
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ro - N.d.a.] e uno o due siluri bastano, se non a colare a fondo, a obbligare le grandi navi cannoniere a rifugiarsi in un porto e a rimanervi per lungo tempo in riparazione. Peraltro basterebbe anche un semplice cannoneggiamento, per colpire le parti non corazzate di queste navi; e citando l' ingegnere navaleArmstrong, il Cottrau vuole persino dimostrare che l'incrociatore è preferibile alla corazzata, perché con un costo assai minore(¼ del Duilio e 1/s dell'Italia) può avere una velocità superiore di due o tre miglia a quella di queste due pur veloci grandi navi, con una protezione dello scafo analoga o quasi a quella dell'Italia. A suo parere, contro una corazzata tipo Italia tali incrociatori avrebbero lo svantaggio di cannoni meno potenti e meno protetti, ma rimarrebbe loro i1vantaggio del numero, delle minori dimensioni che li renderebbero più di ffici li da colpire, della maggiore velocità e manovrabilità, grazie alle quali potrebbero scegliere le loro posizioni per assalire con il siluro e il rostro o ritirarsi a loro piacimento [e la maggiore celerità di tiro delle artiglierie di minor calibro? - N.d.a.]. Seguono giudizi impietosi e forse troppo severi sullo stato della nostra marina del momento, nella quale "tutto il vecchio materiale non ha più valore militare", tanto che non si può sperare, con esso, di controhattcrc l'azione di soli due o tre incrociatori nemici e di fiottiglie di torpediniere; e anche se fossero pronte "le nostre stupende e impareggiabili navi di I a classe", il numero ci farebbe sempre difetto, in una guerra di squadra che non sarebbe conveniente "per noi poveri e privi di riserve". Per rimediare a questo stato di cose, secondo il Cottrau bisogna tener presente che "oggi abbiamo troppa carne al fuoco in Jàtto di grandi navi e che quel che ci conviene moltiplicare è il naviglio di piccola mole, le navi da crociera e da corsa ed i moderni brulotti [cioè le torpediniere - N.d.a.]". Più nel concreto - ricetta non certo nuova, tipica non solo del generale Ricci - "bisogna dare 20 milioni all'anno di più alla marina anche a costo di avere due corpi d'esercito di meno" (tesi sempre a parere del Cottrau sostenuta anche dal generale Ricotti), in modo da disporre di un totale di 40 milioni, necessari per costruire sette incrociatori oltre i tre in costruzione e altre 40 torpediniere. E la costruzione di nuove corazzate? Su questo argomento-chiave il Cottrau sembra contraddire almeno in parte le precedenti affermazioni di principio sui limiti di queste navi, insistendo solo sul loro costo molto elevato: abbiamo in cantiere 4 grandi corazzate e una in allestimento: queste splendide navi supereranno tutte certamente, e due di gran lunga, le velocità veramente ammirevoli del Duilio e del Dandolo; avranno anche esse buone qualità nautiche (l 1talia e il Lepanto le avranno in misura eccezionale), avranno tutte i più potenti cannoni del mondo ... ma ci costeranno 80 milioni oltre quelli già spesi, cioè 16 milioni in media all'anno. Se vogliamo, come è altamente desiderabile, ultimarle in 5 anni, non possiamo porre ora in costruzione un 'ottava nave di 20 o 25 milioni. Ritarderemmo così l 'allestimento delle altre e non avremmo il nuovo rinforzo alla nostra flotta se non fra sei anni, mentre in brc~issimn lempn pnssiamn avere incrociatori e torpediniere.
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In sostanza, nonostante la sua esaltazione della guerra di crociera la flotta proposta dal Cottrau sarebbe pur sempre imperniata sulle corazzate, delle quali però per il momento non precisa le modalità d'impiego, anche se almeno in questa occasione riconosce loro superiori doti di armamento e velocità. In tutti i casi anche per lui la costruzione di incrociatori è oggettivamente prioritaria, visto che nello specchio in appendice all'articolo la marina italiana al momento dispone di un solo incrociatore moderno protetto (il Flavio Gioia, con 8 cannoni da 150 mm e macchina inglese) e di incrociatori di tipo recente ed avvisi capaci del servizio da incrociatori, mentre sia la Francia che l' Inghilterra possono contare su un numero molto superiore di incrociatori e di corazzate, anche se qucst'ultime ( e ciò vale soprattutto per le francesi) hanno dislocamento inferiore alle nostre. In un altro articolo pubblicato dalla Nuova Antologia del gennaio 1884, 56 cioè poco dopo le dimissioni del Ministro Acton ( 17 novembre 1883) e nel breve interregno tra quest'ultimo e Benedetto Brin ( che sarebbe tornato al Ministero il 30 marzo), il Cottrau si conferma ancor più del Bonarnico uomo del Ministro dimissionario, lodandone l'opera con piena ragione. Ribadisce, anzitutto, la necessità per l'Ttalia di scegliere la guerra di crociera evitando la guerra di squadra e la battaglia navale, perché anche se quest' ultime fossero da noi vinte, ci troveremmo con il Duilio, il Dandolo e l'Italia e con le poche altre navi di cui disponiamo inevitabilmente danneggiate e abbisogncvoli di riparazioni, mentre la Francia e l'Inghilterra conserverebbero forze sempre imponenti (la Francia secondo lui avrà tra breve 69 corazzate e 60 circa fra incrociatori e navi minori; l'Inghilterra ha 466 navi, delle quali 67 corazzate e 100 torpediniere). Dopo di che il Cottrau sottolinea che solo con un'accurata organizzazione e preparazione e con uno "studio accurato, continuo, metodico, completo del problema strategico" potrà essere utilizzato al meglio il materiale disponibile, e vitando sprechi di tempo e di denaro. Evidentemente ben poco si è fatto fino a quel momento, visto che sente il bisogno di precisare che se, a qualunque costo e senza riguardi, non ci formeremo un ruolo di guerra di personale dirigente, opportunamente scelto, addestrato e specializzato con cura [ ... ]. se il piano di mobilitazione e di guerra non sarà studiato .fin dal tempo di pace in ogni suo particolare [ .. . ]. se tutte le istruzioni per l'apertura delle ostilità non saran sempre in corrente, se infine la più completa entente preliminare non sarà stabilita fra il Capo di Stato Maggiore dell'esercito e l'autorità marittima, le nostre navi poco o nulla ci varranno. La creazione di un ufficio per le operazioni navali e per la difesa delle coste, lo studio di provvedimenti sulla riserva [volti ad assicurare la pronta disponibilità di Quadri ben preparati in caso di guerra - N.d.a.], sulla mobilitazione marittima, sulla difesa di taluni porti ed infine sulle modificazioni da farsi alle leggi sul/ 'a-
56 ID., L'orientamento strategico della nostra marina, in ''Nuova Antologia" Voi. XLIII - Fase. Il 15 gennaio 1884, pp. 293-320.
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vanzamento ne/l'armata e nella leva marittima, sono dunque titoli di benemerenza del 'amministrazione marittima per lo meno pari a quelli acquistati coi provvedimenti relativi al materiale navale.
Perciò il Cottrau molto favorevolmente cita la molteplice opera anche in questo settore del Ministro Acton, che in pieno accordo con il Ministro della guerra ha stabilito la ripartizione delle responsabilità inerenti alla difesa ravvicinata delle coste tra marina ed esercito, riservando alla marina stessa la difesa navale e subacquea del litorale e all'esercito le competenze sulle fortificazioni costiere, al cui studio devono partecipare anche delegati della marina. Egli aggiunge che il Ministro ha nominato una Commissione con il compito di studiare i provvedimenti necessari per attuare i predetti accordi con l'esercito, e poiché tali studi sono giunti al termine, ha istituito alle dipendenze del suo presidente un "Ufficio per la preparazione di quanto occorre a mettere le nostre forze navali in istato di guerra e per attuare la parte di difesa litoranea che spetta alla regia marineria". Fermo restando che "la essenzialissima difesa del litorale" spetterà sempre alla flotta d'alto mare, secondo l'Acton tale ufficio, pur non avendo competenze così vaste come quelle del Capo di Stato Maggiore dell'esercito, deve mantenere continui contatti con quest'ultimo e si occupa di tutto ciò che riguarda i punti d'appoggio costieri e la difesa delle coste. Comunque, sempre a parere del Cottrau il Ministro al momento in carica - ammiraglio Del Santo - intende completare l'opera dell ' Acton, trasformando sul modello tedesco il predetto organismo in un vero e proprio ufficio di Stato Maggiore con i I compito di preparare la guerra; perciò "sarebbe altamente a desiderarsi" che fosse retto da colui che dovrebbe comandare la flotta in guerra, o che almeno ne facessero parte taluni dei suoi luogotenenti. Le tesi a favore della guerra di crociera e delle navi di tonnellaggio moderato sono ribadite dal Cottrau in un terzo articolo sulla Nuova Antologia del1'ottobre 1883 (pochi giorni prima delle dimissioni dell' Acton da Ministro della marina) a firma P.C., che può essere a lui attribuito, e che consideriamo per ultimo per alcune sue caratteristiche atipiche. 57 In questa occasione egli polemizza con l'ammiraglio Aube, che nel suo citato opuscolo ltalie et Levant aveva attribuito all'Italia l' intento aggressivo di conquistare la Corsica, del quale l'importanza annessa dalla marina italiana alla base della Maddalena era un chiaro segno. Pur apprezzando il valore di tale posizione, il Cottrau la considera solo un importante punto di approvvigionamento e nega che essa possa essere il principale centro strategico della nostra flotta; tuttavia "esso ci è non solo utile ma necessario, e ci sarebbe necessario anche se la Corsica ci appartenesse; e dovremmo pur sempre fortificarlo, perché, in mano al nemico, esso non solo ci farebbe perdere la Sardegna, ma sarebbe un nuovo, immenso pericolo per tutte le nostre coste del Tirreno".
" P.C.., I nMtri nhiettivi navali, in ''Nuova Antologia" Voi. XLI - I otobre 1883, pp. 501 -524.
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Se mai - prosegue il Cottrau - è la Francia ad avere intenti aggressivi verso di noi, che invece la amiamo, non aspiriamo a conquiste coloniali e di essa vorremmo imitare solo lo sviluppo industriale. Perciò conferma la necessità per la nostra flotta di condurre la guerra di crociera, sia pur annacquando alquanto la sua ostilità alle grandi navi, tentando una discutibile mediazione tra i due opposti schieramenti pro e contro di esse e omettendo le considerazioni sul loro costo e sulla loro vulnerabilità tipiche di altri articoli: la questione delle navi è stata un po · troppo acre e lunga; ma ora è finita . I due campi avevano ragione, ed infatti ora, mentre riconosciamo buonissime le grandi costruzioni iniziate anni addietro, ve ne aggiungiamo altre, meno grandi, mezzane, piccole e piccolissime, tutte a dir vero studiate con intelligenza e con retto criterio, pari a quelli che guidarono i disegnatori delle prime, tutte, possiamo dirlo senza falsa iattanza. superiori come complesso di requisiti a quanto sifà all 'estero.
Segue un'altra lode non si capisce bene se rivolta al Saint Bono al Brin: "ad un nostro ammiraglio spetta il vanto di aver per il primo con sguardo acutissimo avuto una chiara p ercezione della nuova fase dell'arte della guerra navale ... ", accompagnata da una contraddittoria difesa delle caratteristiche del Duilio e dal contrasto all'accusa di eccessiva lentezza alle nostre costruzioni navali. Né le nostre grandi navi servono solo nella guerra di squadra: le grandi navi non saranno certo inutili. Ad esse, ai potenti arieti e alle torpediniere, ~pecialmente spetterà il tentare attacchi di sorpresa contro le corazzate nemiche isolate o in picco/ numero. Esse rischieranno tutto per tutto quando si tratti di conseguire uno scopo decisivo, vitale, come d'impedire uno sbarco; esse non baderanno nemmeno troppo alle avarie se si tratti di liberare città quali Genova, Napoli o Palermo da un bombardamento ma, in generale, combatteranno attirando su di sé il nemico, bersagliando/o da poppa a guisa dell'antico parto, e sfaggendo grazie alla maggiore velocità la sua caccia, fino a che la notte o il suo rifugio le celino a lui.
Queste affermazioni fin troppo favorevoli alle grandi navi sono bilanciate da una lunga citazione letterale delle note argomentazioni del Bonamico contro la guerra di squadra. Se ne deve dedurre che il tentativo del Cottrau di salvare capra e cavoli non è convincente, se non altro perché trovare le navi nemiche "isolate o in picco/ numero" e/o il cattivo tempo non è un caso frequente ma un caso molto fortunato, né una buona strategia può basarsi a priori solo sui casi poco frequenti o fortunati, che se mai bisogna saper sfruttare con prontezza se si dovessero presentare. Senza contare che anche gli incrociatori e/o gli arieti torpedinieri potrebbero svolgere i compiti qui sopra indicati per le nostre grandi navi, alle quali dato il loro ridotto numero non conviene - e il Cottrau lo conferma - la battaglia decisiva. La sua rimane quindi una conferma della validità delle teorie del Bonamico, peraltro guastata da un evidente desiderio di non scontentare nessuno. Desiderio solo in parte riuscito, perché le argomentazioni contro la corazzata e a favore del numero e degli incrocia-
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tori valevano anche quando è stato impostato il Duilio, sì che il senso del suo articolo potrebbe essere: "teniamoci e impieghiamo al meglio possibile le corazzate che abbiamo o che sono in costruzione, ma per ilfuturo costruiamo solo incrociatori e naviglio leggero". Dopo quelli del Bonamico, gli studi del Cottrau rimangono i più significativi e completi. Nel gennaio 1884 (cioè ancor prima della gestione Brin) un articolo a firma O.T. esamina con maggior realismo del Bonamico, del Cottrau e di tanti altri le effettive capacità d'invasione marittima della Francia, 58 giustamente rilevando - a differenza dei navalisti - che "la condizione per l'invasore di avere il dominio del mare non deve prendersi troppo assolutamente; gli basterebbe bloccare o distrarre sui un altro punlo la flolla nemica e, specie se la distanza che il convoglio di sbarco dovrebbe percorrere fosse ridoIla [come in questo caso - N.d.a.], sbarcare prima che la flotta nemica facesse in tempo ad intervenire". Diversamente da tanti altri, e in particolar modo dai navalisti, O. T. stima che il baluardo delle Alpi mette l'esercito francese in condizioni migliori del nostro e gli attribuisce forze sufficienti sia per impegnare l'intero nostro esercito nella difesa della valle del Po, sia per gettare contemporaneamente un imponente corpo di spedizione sulle nostre coste indifese, dove potrebbe anche esercitare lo sforzo maggiore; inoltre nel caso di un nostro rovescio nella valle del Po il nemico potrebbe darci il colpo di grazia sbarcando due corpi d'armata nella penisola. Dopo elaborati e approfonditi calcoli del naviglio O.T. non è troppo ottimista sull'effettiva possibilità da parte francese di sbarcare una prima ondata di truppe (circa 88.000 uomini senza cavalli e carri [quindi senza artiglierie N .d.a. ], oppure circa 52.000 uomini, 8300 cavalli e 950 carri, equivalenti a due corpi d'armata), mettendo in rilievo che alla prima ondata ne possono seguire altre; per contro non giudica lo sbarco possibile solo in pochi punti ben individuabili delle coste. Per quanto attiene alla difesa marittima, premesso che "il coefficiente difensivo della flotta è attualmente assai piccolo ed incerto, tanto che non basterebbe a distogliere il nemico da una spedizione per mare, anche se non venisse distrutta" e che al momento l'unico punto d'appoggio della flotta è Lr. Spezia, ritiene necessari i seguenti provvedimenti: - aumentare i punti strategici fortificati per la flotta, dai quali essa può sorvegliare il litorale; - portare la flotta da battaglia effettiva ad almeno 1h di quella francese, con un buon numero di incrociatori cd esploratori "la cui dote principale sia una velocità veramente superiore; non immaginaria come quella di certi cosiddetti incrociatori attuali", che sono indispensabili per evitarle di essere bloccata nei porti e per conoscere in tempo utile verso quali punti di sbarco è diretta la flotta nemica;
ss O. T., Appunti sulla capacità d 'invasione marittima della Francia, in "Rivista Marittima" 1884 - Voi. I Fase. I, pp. 5-25.
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- curare l'organizzazione di installazioni elettrosemaforiche a terra [al momento non si dispone ancora di stazioni radio sulle navi e a terra N.d.a.). Per quanto attiene alla difesa terrestre, secondo O.T. sarebbe illusorio contare sulle sole forze territoriali, al momento non ancora sufficientemente inquadrate e ordinate; di conseguenza non sarebbero sufficienti nemmeno due corpi d'armata, anche per le prevedibili difficoltà di giungere in tempo utile sulle località di sbarco. Dieci anni più tardi non sembrano risolti nemmeno taluni vecchi nodi. Nel 1894 compare un libro del contrammiraglio Gonsalez,59 nel quale le idee del Bonamico e della sua scuola sono spinte al l'estremo, fino a renderle largamente analoghe a quelle della Jeune École, peraltro ormai tramontate anche in Francia. Pur auspicando uno stretto raccordo tra esercito e marina, Bonamico non aveva mai sostenuto la necessità di creare un unico Ministero della difesa, cosa che invece fa il Gonsalez proponendo che il Ministro sia coadiuvato da un Sottosegretario per l'esercito e uno per la marina. E come i comandanti Vignot e Fontin, il Gonsalez attacca a fondo la corazzata, perché a suo parere tre incrociatori o dieci torpediniere avranno sempre ragione di una grande nave, e invece di spendere 360 milioni per le grandi navi, l'Italia con la stessa cifra potrebbe al momento avere, oltre a quelli che già possiede, 22 incrociatori protetti e 450 torpediniere Schichau. La flotta potrebbe così economicamente raggiungere il suo scopo strategico con numerose unità relativamente piccole e poco costose, rinunciando alla costruzione di grandi corazzate, che richiede congegni troppo complicati, molto tempo c troppo denaro anche per la manutenzione. A parere del Gonsalez con 80 milioni la marina potrebbe assicurare una valida difesa delle coste, tenendo anche presente che il rapporto del momento tra i bilanci dell'esercito e della marina non è in giusta proporzione con i rispettivi compiti delle due Forze Armate. Peraltro, l'articolazione delle forze da lui prevista è palesemente troppo complessa e dispersiva: nel bacino del Tirreno - praticamente l'unico da difendere perché la Francia è il nostro nemico - egli prevede ben quindici centri di difesa costiera, dieci linee di crociera principali per gli incrociatori, due gruppi di navi da battaglia, in modo che il nemico da qualunque parte proceda verso le nostre coste sia costretto a tagliare due o tre linee di crociera e venga sempre individuato, dando il tempo di accerchiarlo alle navi da battaglia [che dunque sono necessarie! - N.d.a.] e alle rimanenti navi accorse dalle linee di crociera. Se, poi, il nemico dovesse operare con grandi forze riunite, sarebbe sempre possibile concentrare tutta la nostra di flotta sul punto decisivo [e se essa è inferiore? - N .d.a.]. In sintesi: un lavoro di scarsa originalità, che da una parte trova le corazzate inutili, e dall'altra assegna loro un ruolo fonda-
59
Cfr. Giustino Gonsalez, Difesa marittima ed economie. Elementi di strategia e fallica navale,
Firenze, Barbèra 1894.
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mentale. Nella sua recensione sulla Rivista Marittima60 il Bonamico - senza approfondirne, come sarebbe opportuno, i motivi - dichiara di non condividere molte conclusioni dell'autore, "specialmente per quanto riguarda il compito da lui assegnato, nelle presenti circostanze, all'armata, la possibilità di attuarlo con un bilancio ridotto di 80 milioni, la condanna assoluta delle grandi costruzioni, lo schieramento strategico d[fensivo, l'istituzione del Ministero della difesa nazionale ecc.". V'è da concordare solo con la critica di Bonamico a un bilancio così ridotto, e da dissentire da lui perché non accetta la proposta di creare un Ministero della difesa nazionale, della quale si potrebbe solo dire (può essere un pregio) che è un anticipo sui tempi; ma per il resto il Gonsalez non fa che riprendere molte idee esposte dal Bonamico stesso circa 15 anni prima. Perciò, una siffatta critica potrebbe anche confermare che quest'ultimo a fine secolo XIX ha cambiato idea sulla guerra di crociera e si è avvicinato cioè alla politica navale dei Ministri del tempo (fino al 10 marzo 1896 il Moria; dopo il Brin), fatto del resto confermato da quanto scrive nel Problema marittimo dell'Italia. Oltre dieci anni dopo, nonostante la nascita della Dreadnought in Inghilterra e la progettazione ormai in corso della Dante Alighieri, ( cioè della nostra prima nave di questo tipo entrato in servizio solo nel 19 I 3), almeno in Parlamento i dubbi sul nuovo e definitivo indirizzo delle costruzioni navali non mancano. Ad esempio il deputato Ermanno Albasini Scrosati pubblica nel 1908 un opuscolo che intende portare un contributo al dibattito sul bilancio della marina al momento in corso alla Camera,61 e si ripromette lo scopo di dimostrare peraltro con argomenti non nuovi - la non convenienza per l'Italia di costruire nuove grandi navi oltre a quelle in costruzione, perché la nostra flotta è già superiore a quella austriaca e anche accrescendo ulteriormente il tonnellaggio complessivo di corazzate essa non potrebbe mai uguagliare le marine inglese e francese. Perciò con questa sola tesi l' Albasini Scrosati boccia la politica navale del momento, come sempre imperniata sulle grandi navi, ricorrendo ai consueti argomenti della politica antinavalista, tra i quali: - il nostro problema marittimo deve essere ristretto alla più assoluta difensiva e alla difesa costiera. Quando questi obiettivi saranno ottenuti "l'esercito, liberato da altre preoccupazioni, e rinsaldato con opportuni provvedimenti, sarà in grado di fronteggiare qualunque minaccia e di garantire contro qualunque nemico l'indipendenza nazionale"; - gli sbarchi sulle nostre coste, come già ha sostenuto il Cavaciocchi nel 1901, possono avvenire solo con forze limitate e su pochi punti delle coste perfettamente conosciuti, quindi incontrano notevoli difficoltà e sono assai pericolosi;
60 Domenico Bonamico, recensione del libro del Gonsalez in "Rivista Marittima" 1895, I Trim. Fase. Ili, pp. 579-584. 61 Ermallllo Albasini Scrosati, La difesa nazionale - il nostro problema navale, Milano, Cogliati
1908.
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- è difficile per le navi distruggere le fortificazioni costiere, anche se è innegabile l'efficacia del bombardamento dei principali centri dal mare; - la guerra al commercio contro l'Italia darebbe scarsi risultati, perché le importazioni potrebbero avvenire attraverso le frontiere terrestri rimaste libere; con un largo impiego di mine "si preverrebbe! 'avvicinarsi del nemico ai nostri porti, si renderebbero impossibili i bombardamenti delle città marittime, o quasi, l'uscita dai porti nemici;facile quindi sarebbe d'impedire gli sbarchi ..."; come scritto anche dal Bonamico, con le torpediniere si potrebbe realizzare un'efficace difesa costiera; come riconosciuto dall'ammiraglio Bettòlo, dal Cuniberti e da altri, anche il sommergibile è ormai un mezzo efficace per la nostra difesa marittima. Con una insolitamente lunga recensione sulla Rivista Marittima che ha tutta l'aria di rispecchiare la linea ufficiale del momento62 e si differenzia alquanto dal pensiero del Scchi, il già ben noto tenente di vascello Bemotti contesta punto per punto le idee dell 'Albasi n i Serosati, che pure anch'esse riflettono sotto parecchi punti importanti il pensiero del Bonamico. Secondo il Bemotti: - il valore in cifre assolute del tonnellaggio delle navi principali interessa fino a un certo punto, perché una marina va esaminata prima di tutto tenendo conto dei probabili avversari, delle caratteristiche dei teatri di guerra nei quali si dovrà combattere, ecc.; - l'autonomia e quindi il dislocamento delle nostre navi da battaglia, perragioni geostrategiche devono essere superiori a quelli delle navi di pari potenza austriache che hanno compiti e quindi raggio di azione più limitati; - la formula navale della nostra flotta deve essere indipendente dalle alleanze e considerare come livello minimo la forza navale necessaria per una supposta guerra con l'Austria; "solo in questo modo potrebbe non essere costretta ad abbandonare l'Adriatico, avere la speranza di salvaguardare il Paese dalle offese vitali dell'altro nostro supposto avversario (la Francia) pur risultando a questo necessariamente inferiore, e costituire altresì un fattore importante della politica internazionale"; - se si tiene conto delle sue condizioni sfavorevoli geografico-strategiche nei riguardi dell'Austria, senza nessuna nuova costruzione che valga a bilanciare i nuovi Ersatz Tegetthojf austriaci la nostra flotta non raggiungerebbe il predetto livello; - come il Cavaciocchi al quale si riferisce, l' Albasini cita vecchi studi francesi e italiani per dimostrarle le difficoltà che incontrerebbero gli sbarchi. Non ha però tenuto conto degli ammaestramenti della recente guerra russo-giapponese, nella quale i giapponesi hanno dimostrato che è pos-
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Iu ..Rivista Marittima" 1908, TTTrim. Fase. IV, pp. 187-194.
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sibile superare con successo le difficoltà e i rischi di uno sbarco; né si può prevedere che l'esercito che sbarca troverebbe sempre pronto a respingerlo tutta la massa dell'esercito invasore; - i limiti del bombardamento dal mare delle fortificazioni sono troppo noti; tuttavia l'autore sembra volerne erroneamente dedurre l'inutilità delle navi rispetto alle piazzeforti, senza considerare che le fortificazioni sono utili non di per sé stesse, ma unicamente per la difesa delle basi delle forze mobili; - l'importanza delle comunicazioni marittime è dimostrata dalle lamentele che sorgono, anche in tempo di pace, per l'interruzione solo momentanea delle comunicazioni tra i grandi porti commerciali e l'interno, e dallo sviluppo crescente delle nostre industrie; inoltre l'autore dimentica che sono numerosi i punti nei quali basterebbe interrompere le comunicazioni per produrre gravi turbative alla vita nazionale; - nel proporre un esteso minamento delle coste l'autore non considera l'enorme spesa e l'inutile dispersione delle forze che richiederebbe questo sistema, il danno per le comunicazioni marittime dello stesso difensore e la difficoltà di impedire al nemico l'uscita dai suoi porti; inoltre con una flotta ridotta ai minimi termini come egli vuole, non sarebbe possibile reperire il naviglio necessario per il minamento; - sul le tracce del Bonamico l'autore propone una difesa costiera basata sulle torpediniere, ma dimentica che lo stesso Bonamico ha scritto che la difesa con torpediniere permette "di poter utilizzare efficacemente la flotta [d'alto mare, che dunque è l'elemento principale della di fesa - N .d.a. ]", c che giudica necessaria una flotta equivalente almeno ai 2/3 di quella francese; - quando l' autore esalta lepossibilitàdel sommergibile trascura che l'ammiraglio Bettòlo, da lui indicato sic et simpliciter come fautore del sommergibile, dopo averne riconosciuto l'importanza ha aggiunto che "sarebbe assai p ericoloso affidarsi all'illusione che, mercè i sottomarini, sia possibile risolvere il gran problema della difesa marittima, e tanto meno rispondere a tutti quegli uffici che competono alleforze navali di un paese". L'Albasini Scrosati è forse l'ultima voce che riassume tutte le ormai annose ragioni che portano, sia pure per l 'Italia, a svalutare le corazzate a favore delle mine e del naviglio leggero. Si deve riconoscere che nonostante aspetti dilettantistici e punti di caduta ben messi in luce dal Bemotti, le sue teorie ben riassumono nelle grandi linee l'andamento della futura guerra italiana in Adriatico, nella quale specie ma non solo nel Mediterraneo di fronte al timore delle mine e dei siluri le corazzate delle due parti non hanno avuto un ruolo operativo proporzionato alle grandi risorse assorbite. 63 Dal canto suo il Bernotti
63
Si veda, in merito, Ferruccio Botti, La marina italiana nel XX secolo - bilancio strategico, in
" Rivista Matittirua" lug liu 2001, pp. 33-50.
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conferma la sua fede nelle corazzate, ma ha il buon senso di accontentarsi dei 2h della flotta francese già indicato dal Bonamico come obiettivo massimo, però senza accennare alla necessità per l'Italia di conquistare il dominio del mare con la guerra di squadra, come sarebbe coerente vista l'importanza attribuitagli nel suo citato lavoro teorico sulla strategia marittima. Più in generale, si può criticare finche si vuole il difensivismo rinunciatario dei minimalisti e il loro maestro Bonamico, ma si deve riconoscere che essi impostano in ciò che la flotta dovrebbe fare per studiare ciò che potrebbe fare.
SEZIONE III - L'Italia si difende dalle Alpi e/o dall'Appennino: le contrapposte tesi "continentaliste" Così come il principio della storia comparata richiede di esaminare contestualmente a quelli dell'esercito i problemi strategici e ordinativi della marina, è ora ugualmente necessario esporre come e quando taluni scrittori e ufficiali dell'esercito contrappongono alle tesi navaliste le tesi continentaliste. Prevedibilmente ci si trova di fronte a posizioni miranti a dimostrare esattamente l'opposto di quelle dei navalisti: che cioè per l'Italia il pericolo maggiore viene dalle Alpi e che quindi la preparazione dell'esercito deve avere la priorità rispetto alla marina. In questo senso il primo da esaminare in senso cronologico è un libro sulla difesa dello Stato (1872) di un non meglio identificato Francesco Fasolo,64 il quale fin dalle breve introduzione indica chiaramente il concetto direttivo del suo lavoro: "l'Italia si difende dagli Appennini". Concetto discutibile e insolito, perché gran parte degli scrittori continentalisti indica nelle Alpi e/o nella val padana - e non negli Appennini - la chiave della difesa d'Italia. Il Fasolo sviluppa le sue tesi con un certo dilettantismo e una superficialità, che portano a giudicarlo probabilmente un civile. Parecchie sue affermazioni non possono essere condivise e vanno accolte solo con beneficio d'inventario; è però tra i pochi a esaminare il problema della difesa dello Stato con ottica interforze. E come già avveniva per i fratelli Mezzacapo ritiene possibile estendere la difesa terrestre almeno fino all'Italia centrale, senza per questo privilegiare più di tanto la marina. Da respingere decisamente e subito un'opinione da lui manifestata all' inizio del libro, anche se porta acqua al mulino dei continentalisti: "gli Stati puramente continentali sono i più deboli (rnlvo che non siano circondati dal deserto) e la forza dei confini cresce a misura che diminuiscono i limiti terrestri, e crescono i marittimi". L' Italia, quindi, non soffre affatto per la sua chiara ambiguità geostrategica: anzi dopo l'Inghilterra è addirittura il più forte Sta-
64 Cfr. Francesco M. Fasolo, La difesa dello Stato considerata relativamente al 'oro - idrografia del Paese e al 'indole delle guerre moderne, Verona, Civt:lli 1872.
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to d'Europa, ''perché attaccata al continente in parte soltanto del suo confine [terrestre], e perché questo confine istesso [sulle Alpi - N.d.a.] èper sé solo un naturale baluardo. La grande estensione delle coste della penisola (che alcune considerano quale elemento di debolezza) appare invece, innanzi alla mia mente, quale elemento di forza, se considero la configurazione della penisola, in grazie della quale assai limitato riesce il numero delle nostre linee interne ... ". 65 Infatti (altra tesi assai discutibile) lo Stato di natura continentale può in taluni casi essere protetto dal territorio di Stati amici o neutrali; ma può anche trovarsi in guerra con tutti i Paesi vicini, i quali lo possono invadere da ogni parte. Invece lo Stato peninsulare [come è l'Italia - N.d.a.] può essere attaccato solo dal confine terrestre, e solo dagli Stati confinanti; infatti "le offese che vengono dal mare sono di poca importanza [perché? - N .d.a. ], si conoscono in tempo utile e rintuzzate che siano [come? - N.d.a.], non vengono presto ripetute [perché? - N.d.a.]; tanto più che oggi alla difesa delle coste si è aggiunto /'elemento validissimo (sic) rappresentato dalle ferrovie litoranee"66 [che per i navalisti sono invece uno svantaggio, un obiettivo per il nemico da proteggere - N.d.a.]. Evidentemente il problema della difesa marittima e il conseguente ruolo delle forze navali non si risolvono in quattro righe come fa il Fasolo, che ignora totahnente i rapporti di forze con le marine possibili avversarie, le loro possibilità ecc. ecc.; né sono convincenti i suoi esempi operativi a cominciare da quello che uno stato continentale, con estesi confini terrestri, ha bisogno di molte fortificazioni sia per coprire i confini, sia per sbarrare le possibili linee d'operazione nemiche che da essi si irradiano verso il centro, mentre per uno Stato peninsulare come l'Italia bastano poche piazze sul confine, e per fortificare l'unica linea di ritirata "(dorsale della penisola)". E le risorse economiche necessarie anche per poche piazze? e le forze mobili? e perché l'unica linea di ritirata dovrebbe e potrebbe essere solo quella della dorsale dell'Appennino, decisamente impraticabile? Va da sé che da queste premesse generali, tali da avvicinarsi al fantastico, il Fasolo fa derivare - senza alcun accenno ai risvolti economici - l'impostazione della difesa d'Italia, nella quale contraddice la solita tesi del confine aperto e indifeso: "e gli altri Stati, io dico, hanno forse il confine del loro territorio coperto da una nuova muraglia simile a quella della China? le Alpi bastano a naturale difesa, e nell'avvenire vedremo cosa meglio si potrà fare; ma è sul Po [e sull'Appennino? - N.d.a.] che dobbiamo fortificarci, e presto [ ... ] . Venga il nemico e passi impunemente per le valli alpine, venga a dar di cozzo contro il muro di petti umani schierati sul Po; rompa pure questo muro e volga i suoi passi a Roma; se non moltiplicherà i suoi capi come l'idra di Lerna, si consumerà in ripetuti inutili conati sulla dorsale appenninica".
65 M
ivi, p. 6. ivi, p. 7.
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A queste previsioni come sempre superficiali e troppo sbrigative, il Fasolo aggiunge concetti senz'altro condivisibili, e per la verità raramente applicati: bisogna eliminare le piccole fortificazioni; il sistema fortificatorio deve essere programmato in funzione della manovra delle forze mobili e non viceversa, le opere permanenti sono costose e i lavori per mantenerle in efficienza non finiscono mai; le opere campali corrispondono meglio allo scopo e con minore spesa, ecc .. Per contro ad Est deve essere difesa solo la linea dell'Adige, da considerare ai fini difensivi come un valido affluente del Po, mentre il bacino del Tevere sarebbe il "ridotto centrale". Quel che più importa, a questo strano concetto strategico che di fatto non prevede di difendere l'Italia Meridionale, corrispondono un'infinità di fortificazioni con gravitazione nel Nord e nel Centro, senza alcun esame delle possibilità finanziarie. E le forze navali? Premesso che le nostre guerre importanti hanno carattere più terrestre che marittimo, e quindi l' importanza della flotta viene in seconda linea rispetto a quella dell'esercito, il Fasolo liquida come "deliri di menti malate" e "smodate ambizioni'' le aspirazioni di coloro che vorrebbero la marina italiana tanto potente da dominare il Mediterraneo [cioè dei navalisti N.d.a.]: perché ciò avvenisse, "bisq,>nerebbe che per un cataclisma qualunque restassero otturati gli stretti dei Dardanelli o di Gibilterra; o che la Francia, la Germania, l'Inghilterra, la Russia e insieme gli Stati Uniti d'America ricadessero nella barbarie". Dopo di ciò non si sofferma sull'ipotesi di una guerra contro l'Austria, perché in tal caso la nostra flotta sarebbe sufficiente; contro le superiori forze navali francesi, invece, essa dovrebbe condurre una guerra limitata alla difesa delle coste e a operazioni a breve raggio, alla protezione dei convogli e alla protezione dei porti, sviluppando le forze nella misura necessaria per svolgere la sua missione difensiva, con una riforma che dovrebbe riguardare la qualità del materiale e del personale più che l'aumento del numero delle navi, reso poco conveniente anche dalla carenza di carbone nazionale. Nessun timore per la flotta francese, che ha già dimostrato la sua impotenza nella guerra del 18701871 contro la Germania: se noi aumentassimo le nostre forze navali per raggiungere la parità con quelle francesi commetteremmo un rovinoso errore, ''perché le nostre risorse, sciupate in opera d'utilità incerta, tolte sarebbero alle forze terrestri". La flotta francese "non potrà nuocerci molto, perché la Francia, sapendoci fortemente accampati nel Piemonte [dunque non sul Po e suli'Appennino - N.d.a.], non sarà tanto pazza da venire a perdere di qua dell'Alpi un grosso esercito per avere il gusto bizzarro di affondarci nelle acque del Tirreno [e la difesa delle isole? - N.d.a.] tre, cinque o più navi corazzate". Perciò "alla difesa delle coste volgono più le ferrovie che i legni da guerra, militarmente ed economicamente parlando" . Le due basi più importanti - da difendere con priorità - sarebbero La Spezia e Venezia, con sei porti militari di 2a classe tra i quali Messina e Taranto, tre di 3" e numerose batterie e fortini, tutti sul Tirreno meno il Golfo di Venezia. L'importanza della marina mercantile è vista dal Fasolo (non è il solo) unicamente in funzione del supporto logi-
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stico che può fornire alla marina da guerra; perciò le navi a vapore (le più importanti, anche se poco numerose) e quelle a vela dovranno essere concentrate sotto il comando di ufficiali della marina da guerra nei principali porti del Tirreno e dell'Adriatico. Di ben altro livello un altro opuscolo del 1873 del già noto Paulo Fambri,67 il quale contesta le principali tesi dei collaboratori coevi della Rivista Marittima, da lui stesso così riassunte: lo sviluppo delle frontiere marittime è otto volte superiore a quello delle frontiere terrestri, e di questo bisogna tener conto nello sviluppo della marina; è necessario coprire da un colpo di mano, più che da un vero e proprio attacco, le due o tre basi navali principali, lasciando per il resto la difesa marittima alla flotta che da sola basta per di fendere la costa e anche le piazzeforti costiere, destinate a cadere senza le navi. A suo parere invece: - nel determinare l'entità della minaccia ai confini bisogna considerare il diverso "coefficiente d 'attaccabilità" [cioè il diverso grado di vulnerabilità - N.d.a.] dei confini terrestri e marittimi, che risulta assai minore dal lato di mare rispetto alla frontiera terrestre, fino quasi a capovolgere, a favore del lato di terra, la proporzione di 8: 1 indicata dalla Rivista Marittima; - sulle frontiere marittime non saranno mai decise le sorti di uno Stato, che abbia previsto le minacce e provveduto in tempo alla loro difesa; ad ogni modo i punti del nostro litorale che si prestano a uno sbarco sono pochi, e su di essi non è conveniente moltiplicare gli sforzi per impedire subito gli sbarchi stessi, che invece possono essere più agevolmente repressi in un secondo tempo; - l'unico obiettivo della nostra flotta deve essere la flotta nemica, così come quello dell'esercito deve essere l'esercito nemico; la flotta deve dominare i mari per impedire che siano veicolo, e non ostacolo, per le offese nemiche; - occorre una chiara ripartizione di compiti tra l'esercito, che difende le basi necessarie per la flotta, e la marina, che attacca i convogli di sbarco per romperli o dividerli. Anche gli ufficiali del genio e di marina devono dividersi i compiti, i primi occupandosi della difesa e i secondi dell'attacco delle piazze marittime. I punti deboli dell'opuscolo del Fambri, troppo breve e sbrigativo in rapposrto alla complessità dei problemi trattati, sono principalmente due: la contradditoria pretesa che la flotta domini sic et simpliciter i mari (contro chi, come, con quali risorse, ecc.?) anche se il suo ruolo dovrebbe venire dopo quello dell'esercito, e la troppo rigida ripartizione di compiti tra esercito e marina, che possono avere anche obiettivi di comune interesse, oppure altri obiettivi individuati guerra durante nell' ambito di una correlazione terrestre-marittima
67 Cfr. Paulo Fambri, La parte della marineria 11ella difesa degli Stati, Venezia 1873 (Memoria inserita negli Atti del R. Istituto veneto di scienze, lettere e a rti, dal quale ha ricevuto il plauso).
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che evidentemente va molto al di là dei compiti indicati dal Fambri. Questo vale anche per i rapporti tra ufficiali del genio e di marina nella definizione delle modalità per la difesa delle coste, che possono e devono lavorare insieme, perché nello studiare le misure per la difesa bisogna tener presenti anche quelle per l'attacco, e viceversa. All'attivo del Fambri va invece considerata la giusta opposizione alla difficile pretesa estremista che per la difesa delle coste e delle piazze marittime bastino le forze navali, speculare all'altra ugualmente estremista che la difesa delle coste sia affare specialmente dell'esercito. Nel 1885 compare sulla Rivista Militare un articolo anonimo (a firma A.F.J.)68 che condensa gran parte dei motivi del continentalismo da allora in poi, perciò entra in collisione frontale con le tesi del Perrucchetti (espi icitamente citato), del Ricci e di chiunque altro - compreso il Marselli - voglia attribuire alle forze navali nella difesa dello Stato un ruolo se non prioritario, almeno paritario - o solo importante - rispetto a quello dell'esercito. In caso di guerra con la Francia, per A.F.J. non vi sono dubbi: il problema essenziale, rispetto al quale tutti gli altri sono subordinati, è battere l'esercito nemico; e poiché è sempre meglio batterlo in casa propria, bisogna attenderlo in Piemonte. Per ottenere questo scopo deve essere rigidamente applicato il principio della massa; per nessun motivo le forze di la linea vanno disperse in compiti secondari, compreso il presidio delle fortezze che con esse dovrebbe essere previsto, se si vuole che offrdllo la resistenza richiesta. Ciò vale anche per le fortezze dell' Italia centrale e meridionale, tra le quali quelle costiere che secondo alcuni consentirebbero di risparmiare forze: "che se la nostra flotta e gli altri elementi di dife-
sa, all'infuori del nostro esercito permanente, non saranno riusciti ad impedire uno sbarco, o a ricacciare il nemico sbarcato sulle coste toscane, romane, napoletane o sicule, le sorti della guerra rimarranno pur sempre intatte fino a tanto che intatta ed intiera sarà la massa delle nostre forze di prima linea". Nessun pericolo grave, quindi, per gli sbarchi a Sud dell'Appennino e nelle isole; il solo grosso sbarco che l'esercito permanente dovrebbe impedire ad ogni costo - e se necessario fronteggiare anche con l'impiego di forze di l a linea - è quello che il nemico potrebbe tentare sulla riviera ligure di ponente, perché solo per questa via le truppe sbarcate potrebbero concorrere con l'azione principale dell'esercito invasore proveniente dalle Alpi. Sulla predetta riviera, però, all' infuori di Genova (che potrebbe non essere un obiettivo facile da raggiungere e favorevole alJe operazioni dell'invasore), solo un brevissimo tratto di costa ha i requisiti necessari per uno sbarco; così di tutte le fortificazioni, le sole necessarie sarebbero quelle che servono alla sua difesa. Comunque la difesa delle coste non va considerata come a sé stante, ma va inquadrata nel problema generale della difesa dello Stato. TI bombardamento delle città marittime, che la flotta nemica potrebbe effettuare con vantaggio pro-
68 A.F.J., La difesa di uno Stato come la intendiamo noi, in "Rivista Militare Italiana" Anno XXX, Tomo lll luglio 1885, pp. 5-39.
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vocando notevoli danni, avrebbe solo un peso trascurabile rispetto agli inconvenienti che provocherebbe la sottrazione di forze per impedirlo. E anche se le fortificazioni dovessero servire - come spesso è accaduto - a prolungare l'esito della guerra, questo "non è di per sé stesso un obiettivo che una nazione possa razionalmente prefiggersi''. Alla netta chiusura di fronte alla tematica classica del navalismo e alle esigenze di difesa della penisola, A.F.J., in aperta polemica con il Dabormida (Tomo 1, cap. VIII) aggiunge una chiusura ugualmente netta nei riguardi dell' ipotesi di massima difesa del confine occidentale all'interno stesso delle Alpi, il cui scopo sarebbe quello di prolungare la resistenza e non di ottenere quei risultati decisivi, che è possibile raggiungere solo mantenendo riunita nella pianura piemontese la massa dell'esercito. Naturalmente in questo quadro strategico l'impiego di forze navali ha ben poco spazio, e senza scendere in particolari sulla loro costruzione, sul problema delle risorse ecc., A.F.J. assegna loro il non facile compito di impedire alla flotta francese di effettuare grossi sbarchi sulla riviera ligure, principalmente nel tratto prima indicato. Per svolgerlo esse avrebbero bisogno solo di due basi, La Spezia e La Maddalena; e poiché La Spezia "si troverà fra poco al punto da potersi considerare rispondente alla sua parte di mandato", il problema delle basi si riduce all'approntamento della Maddalena. Per le esigenze di un'eventuale guerra contro l'Austria sarebbe utile avere nel l'Adriatico anche un 'altra base importante; "ma riteniamo che nelle nostre c:ondizioni di jàtto, i porti del/ 'Adriatico e del Jonio, anche nelle condizioni attuali, siano sufficienti'' [il che non è affatto vero - N .d.a.]. Tutto si può dire di queste idee di A.F.J., meno che esse non hanno il pregio della chiarezza e non applicano il principio della massa, in verità fino al1' esasperazione. Viene solo da chiedersi: è possibile e conveniente, in nome di tale principio, abbandonare la difesa della penisola e delle isole, e abbandonare - con le forze ormai disponibili - anche la difesa ad oltranza delle Alpi? TI problema della difesa dello Stato è complesso; ma non si risolve bene semplificandolo troppo. Non molto lineare, invece, un successivo articolo a firma G.F.,69 il cui pregio è almeno quello di rispecchiare l' insopprimibile ambiguità geostrategica dell'Italia, che - non è una novità - data la sua posizione nel Mediterraneo e in Europa deve [ma come può esserlo? Questo è il punto - N.d.a.] essere contemporaneamente sia una potenza terrestre di 1° ordine, sia una potenza marittima di 1° ordine; e pur lasciando ali' esercito la priorità, pretende more solito, senza accennare ai problemi di bilancio - che la marina conquisti addirittura il dominio del mare ... Le argomentazioni di carattere geostrategico che giustificano le impegnative proposizioni precedenti sono in massima parte note, anzi risapute; ad esse bisogna aggi ungere quella che la penisola italiana per sbarrare completamente
69 G.F., L'Esercito e la Marina da guerra: j imzioni principali, differenze, caratteristiche, operazioni combinate, in " Rivista M ilita re Italiana" Anno XXXTT - Voi. TTI agosto 1887, pp. 278-409.
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il Mediterraneo deve collegarsi, "direi quasi con sistema rigido", alla Tunisia, che dunque deve essere dominata dall'Italia. Al tempo stesso, la grande piazza d'armi d'Europa fu sempre la valle del Po, il cui possesso - si noti l'approccio utopico, più che troppo ottimistico -"le permette di sboccare contemporaneamente o separatamente sul territorio di tre grandi potenze, conservando al sicuro e riunite le sue forze.fino all'ultimo momento". Ne consegue non solo che l'Italia deve essere una potenza militare terrestre di primo ordine, ma che " il suo intervento diretto nelle grandi questioni che interessano le maggiori regioni europee, specie le confinanti, è necessario". G.F. non esamina come e con quali forze l'esercito italiano potrebbe addirittura "sboccare" nel territorio di tre grandi potenze confinanti (Francia, Austria e - forse - non la Svizzera, ma addirittura la Germania) le cui forze terrestri, terreno sfavorevole a parte, anche prese singolarmente sono nettamente superiori; sottolinea però la preminenza dell'esercito rispetto alla marina con argomentazioni opposte a quelle dei navalisti, anche se più bilanciate di quelle di A.F.J.: il cuore di uno Stato è sempre in qualche punto del suo territorio. Una battaglia navale perduta. la stessa flotta distrutta, i porti e gli empori marittimi
bombardati non sono fatti che determinano la cessazione d'una guerra, finché resti nel territorio un esercito libero e forte. La perdita del mare e l'annientamento della flotta nazionale sono una minaccia delle più gravi in questo senso, che al nemico si offre la possibilità di moltiplicare le sue linee d'operazione, d 'awolgere strategicamente la difesa, di disturbarne il lavoro dedicato alla mobilitazione, di scinderne l'esercito, di preparare un concentramento di masse nel campo tattico. Ma anche sotto questo aspetto le flotte nazionali e le nemiche servono come mezzo, l'obiettivo principale è sempre l'esercito. Ciò non esclude la grandissima importanza della marina nel concorso della guerra, anzi determina nettamente la sua funzione culminante, alla quale dovrebbe sacrificare ogni altro principio d'indole esclusivamente marina [il contrario del Fambri - N.d.a.)_ Premesso che un tentativo di sbarco non può riuscire senza che la flotta nemica sia bloccata in un porto o distrutta, tale ''funzione culminante" per la marina consiste nel cooperare con l'esercito concorrendo alla riuscita del suo piano di campagna, e a tal fine "mirando sopra tutto a moltiplicare le linee d'operazione del proprio partito con l 'assicurarsi il dominio del mare, e ad impedire con ogni sforzo che il partito avversario moltiplichi le sue linee d'osservazione chiudendo e distruggendo le nostre forze navali". Quindi nessuna chance se la nostra flotta è inferiore a quella avversaria: solo con la conquista del dominio del mare si possono evitare gli sbarchi nemici. Inutile concludere, a questo punto, che G.F. imposta tutto sul deve, trascurando il può: come può la marina dominare il mare contro la marina francese, per giunta dando priorità all'esercito? e come può quest'ultimo addirittura essere in grado di prendere l'offensiva contro i più potenti eserciti confinanti, per giunta superando le Alpi?
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Per trovare qualcuno che, pur combattendo il navalismo, mantiene i piedi per terra ed affronta finalmente il nodo finanziario bisogna arrivare al 1893, quando il generale Goiran (sulla Nuova Antologia, forse per non coinvolgere la Rivista Militare in polemiche dirette tra le due Forze Armate) intende dimostrare (vecchio problema ormai) la non convenienza di sciogliere due corpi d'armata dell'esercito per rafforzare con i fondi così risparmiati la marina. Il Goiran dimostra la necessità di riforme dell'esercito che consentano anche delle economie di circa 10-12 milioni (scuola unica per gli ufficiali; reclutamento territoriale; ferma di 3 anni per la maggior parte del contingente e di un anno per la parte minore; scioglimenti dei distretti; riduzione degli ufficiali commissari e contabili ecc.), ma ritiene che i predetti risparmi debbano essere utilizzati ad esclusivo beneficio dell'escrcito.70 Infatti a suo parere gli eserciti sono il più valido propugnacolo per la difesa del territorio e sono indispensabile mezzo per la sua effettiva occupazione, mentre le flotte possono coadiuvare le loro operazioni e portare rapidamente l'offensiva a grandi distanze, diventando soprattutto strumenti per l'espansione oltremare; ma non ci pare che per noi sia ancor giunto il momento storico propizio per aspirare alla grandezza marittima, mentre non abbiamo ancor dato sviluppo completo alle forze terrestri. Noi dobbiamo raggiungere prima ciò che chiamerei l'obiettivo continentale, dal quale dipende l 'esistenza nazionale; poi cercheremo di raggiungere il marittimo. Ottenerli entrambi contemporaneamente è impossibile, non solo perché difettano i mezzi finanziari, ma anche perché non abbiamo ancora una marina mercanti/e così grande da render possibile I ·esistenza di una grande marina da guerra.
Di conseguenza - egli prosegue - due corpi d'armata permanenti in più assicurano la difesa del territorio nazionale meglio di qualche nave in più, che potrà bensì prolungare la lotta sul mare, ma non assicurarci la vittoria finale; i corpi d' annata invece serviranno a rigettare in mare il nemico, se riuscirà a sbarcare. Perciò bisogna conservarli, non abolirli, anche perché in campo terrestre siamo già inferiori alle forze francesi. Va anche tenuto conto che il mare è un campo libero, sul quale la tlotta francese farebbe valere la sua superiorità, mentre in campo terrestre se non si distruggeranno due corpi d'armata, difficilmente l' esercito francese potrà far valere la sua superiorità, sia per la natura della frontiera alpina, sia per la forza necessariamente limitata che può essere impiegata per gli sbarchi stessi, sia infine per le loro difficoltà. Non saranno le corazzate, ma i corpi d'armata a far sentire la loro azione sui campi di battaglia nei quali si combatteranno le lotte decisive, e ciò avverrà specialmente in caso di guerra contro l'Austria. Alle considerazioni di carattere generale il Goiran ne aggiunge molte altre più specifiche, riferite sia agli aspetti ordinativi dell'esercito che - finalmente 70 Giovanni Goir.m, Esercito e Marina da guerra, in "Nuova Antologia" Voi. XLV - Fase. X 15 maggio 1893, pp. 254-293.
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- alle ricadute finanziarie di un eventuale provvedimento. Se si sciogliessero due corpi d'annata per consolidare i dieci rimanenti non si risparmierebbe nulla, anzi in caso di mobilitazione questi dovrebbero essere indeboliti per creare parecchi reparti nuovi a loro volta ancor più deboli. Se però si sciogliessero due corpi d'armata senza rinforzare quelli rimasti si otterrebbe un duplice risultato negativo: da una parte quest' ultimi rimarrebbero con la forza insufficiente che molti lamentano, dall'altra con i 25 o 26 milioni così "risparmiati'' non si eliminirebbe affatto il divario esistente tra la marina francese e la nostra, che rimarrebbe ad essa notevolmente inferiore. Il Goiran auspica comunque il rafforzamento sia dell'esercito che della marina, curando per quest'ultima in particolar modo lo sviluppo della marina mercantile, necessario fondamento di quella militare. Solo per l'esercito propone un prestito di 40 milioni a rate annuali di 10 milioni da parte di un Consorzio nazionale, che aggiunti ai 246 milioni del bilancio annuale consentirebbe di accelerare la costruzione del nuovo armamento; ad ogni modo "migliorare le condizioni dell'esercito e della marina da guerra, questo deve farsi. Migliorare l'assetto di questa, a scapito di quello, è concetto assurdo, perché tecnicamente dannoso alla nostra potenza difensiva, come all'offensiva". Sarebbe vero - si osserva - anche il contrario; e questo è il dramma della ricerca della quadratura del cerchio tipica dcll' epoca, fermo restando che ciascuna situazione, ciascun tipo di guerra avrebbe richiesto per l'Italia una diversa dosatura delle forze terrestri e marittime, in ogni caso concorrenti ad un unico scopo. Le tesi del uoiran, che anch'esse stabiliscono la priorità delle forze terrestri rispetto a quelle marittime, sono contestate dal capitano di fregata Astuto, al termine di un lungo articolo nel quale si attiene ai canoni classici delle teorie del dominio del mare e della priorità assoluta delle forze navali rispetto alle fortificazioni costiere, giungendo a trascurare il ruolo delle basi.71 Sul piano generale l'Astuto sostiene che contro le offese provenienti dal mare uno Stato deve premunirsi essenzialmente con la flotta, dopo di che boccia l'idea del generale Dal Verme di fare di Trapani in Sicilia il contrappeso di Biscrta e attacca soprattutto le tesi continentaliste del generale Goiran, con particolare riguardo alla sua affermazione che la flotta "può coadiuvare" le operazioni degli eserciti e che per opporsi agli sbarchi bastano due corpi d'armata, senza che ci sia bisogno della marina. Dal punto di vista finanziario, a parere dcli' Astuto non c'è bisogno di adottare per la marina provvedimenti analoghi a quelli proposti dal Goiran per l'esercito: di gran lunga più modesti, noi ci contentiamo dei mezzi per contrastare il dominio del mare agli awersari [dunque non per dominarlo - N.d.a.], ed impedir loro di operare grossi sbarchi, dando così il modo di far sentire l'azione di tutti i nostri corpi d 'armata, dove si combatteranno le lotte decisive [cioè
71 Giuseppe Astuto, Centri dffensivi marittimi e tipi di navi, in "Rivista Marittima" 1993, II Trim. Fase. VI. pp. 399-443.
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sulle Alpi e nella Val Padana- è la tesi del Ricci e del Perrucchctti - N.d.a.]. .. Noi domandiamo che il peso delle economie non graviti maggiormente sul bilancio della marina, per modo che 11011 aumenti ulteriormente la distanza che ci separa dalla potenza navale della Francia e che, alla prevalenza per l'eccesso notevole di navi di cui quella dispone rispetto a noi, sia opposta la prevalenza della qualità, elevando sempre più il coefficiente di potenza [... ) delle corazzate e degli incrociatori corazzati.
Alla marina - prosegue l'Astuto citando il comandante Bettòlo - basta un bilancio consolidato di 105 milioni; invece secondo il Goiran non sarebbero sufficienti 20 e 25 milioni in più per l'esercito. L'Astuto dichiara poi di condividere altre tesi del Bettòlo, opposte a queHc del Goiran, sulla prevalenza della qualità e sulla necessità di una rapida mobilitazione della flotta, che dovrà disporre fin dal tempo di pace di tutto il personale necessario per l'annamento delle navi. Infine auspica che venga seppellito da molti, e per sempre, il concetto del Goiran che la marina "può coadiuvare l'esercito": è meglio non far sbarcare i grossi corpi nemici che rigettarli in mare dopo sbarcati, se pur sarà possibile; "e risparmiare estorsioni, rovine e incendi alle città marittime, piuttosto che prometter loro vendetta dopo le decisive vittorie terrestd'. Il generale Goiran e il generale dal Verme replicano agli attacchi dell'Astuto con due lettere pubblicate dalla Rivista Marittima.72 li Goiran nega di aver sostenuto che la marina è inutile e auspica un aumento delle forze navali, ma al tempo stesso ribadisce la lesi che "con una jlolla più potente di quella fran-
cese e un esercito insufficiente, noi potremmo vincere battaglie navali, e ciò malgrado veder invaso il territorio ed espugnata la capitale". Poiché sono gli eserciti che occupano il territorio e se vittoriosi possono colpire al cuore la potenza degli avversari, ciò che gli importa è di non diminuire l'esercito a vantaggio della marina; a suo parere ambedue le forze armate hanno un loro ruolo insostituibile e la soluzione più conveniente del problema navale non può essere trovata se la si separa da quella dell'intero problema militare. Invece il dal Verme accusa l'Astuto di "aver trattato unicamente sotto il punto di vista professionale una questione che io, deputato e militare, dovevo e volli trattare non solo nel campo tecnico, ma altresì nel campo politico e quello jìnanziario", ricorda che il suo intervento in Parlamento è stato da tutti approvato meno che dalla Rivista Marittima, e nega recisamente di aver ignorato che il miglior mezzo di difesa delle coste è la marina, e perciò di avere sostenuto occorrono nuove fortificazioni. Se ha indicato Trapani come località idonea a diventare porto di rifugio per una flotta, ciò è avvenuto solo dietro suggerimento di ufficiale di marina, "e soprattutto di uno che ha avuto modo di trattare e di approfondire le questioni della dijèsa e dell 'impiego della flotta, e sulla cui
72 Giovanni Goiran, Centri difensivi marittimi e tipi di navi, in "Rivista Marittima" 1993 - IV Trim . Fase. XII, pp. 537-541, e Luchino dal Venne, Centri difensivi marittimi e tipi di navi, in "Rivista Marittima" 1993 - TV Trim. Fase. X, pp. 103- 106.
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competenza non ho ragione di dubitare". Infine fa notare di aver prospettato la possibilità di sostituire le fortificazioni costiere con treni armati ed esclude la possibilità di aumentare il bilancio della marina almeno per il momento, auspicando che ciò possa avvenire presto in futuro. Tra il 1894 e il 1898 le guerre cino-giapponese e ispano-americana sembrano favorire i sostenitori dell'importanza della marina; ma a fine 1898 in un campo sufficientemente neutro come la Nuova Antologia compare un articolo del generale Primerano (una delle personalità più eminenti dell'esercito, visto che è stato Capo di Stato Maggiore dal dicembre 1893 al giugno 1896),73 il quale combatte sia le tesi di coloro che sono favorevoli a un aumento del bilancio della marina anche a spese dell'esercito, sia gli attacchi alle Forze Armate dei pacifisti e antimilitaristi, assai virulenti nel periodo. Gli argomenti del Primerano non sono affatto nuovi; tuttavia egli riassume in poche pagine tutto ciò che si deve dire a proposito delle esigenze del la difesa nazionale e del le esigenze dell' esercito. Si deve pensare - egli afferma - non solo alla difesa marittima, ma anche alla difesa di tutto il territorio nazionale. Ritiene "ragionevole e patriottico" chiedere un aumento della marina, ma questo (come dargli torto?) non basta; ora, se Messenia piange, Sparta non ride; e se la marina da guerra è deficiente, deficienti sono del pari le nostre difese terrestri e costiere, e ad esse pure bisogna prowedere; giacché non si può concepire un sistema di seria difesa dell 'Jtalia senza la simultanea efficacia delle.forze marittime e terrestri, e senza avere almeno sbarrate completamente le porte di casa, e dato valido appoggio alla flotta con piazzeforti marittime che le servono di ricovero, di rifornimento e di base d'operazione nei tre mari che ne circondano ...
Data la situazione internazionale, e tenendo anche conto delle aspirazioni e delle necessità dell'Italia (non esclusi il Mediterraneo, l'Africa e l'Oriente), il Primerano respinge qualsiasi ipotesi di disarmo e una volta tanto indica come fondamentale la questione del bilancio, naturalmente negando anch'egli la conveniem;a di diminuire il bilancio della marina a favore dell'esercito. Giudica giustamente poco probanti i confronti del la nostra spesa militare con quella di altri Paesi, perché non si tiene conto della diversa potenzialità economica e del rapporto tra la spesa militare e le altre spese per servizi pubblici di ciascun Stato, e comunque è difficile definire rapporti precisi tra elementi non omogenei che non è possibile stabilire con esattezza. Può essere vero - afferma - che in Italia bisogna pagare più tasse che altrove, ma "è opinione di molte persone competentissime" che l'evasione fiscale è assai elevata; inoltre molti risparmi potrebbero essere ottenuti combattendo gli sprechi nel bilancio dello Stato, ivi compresi i bilanci militari. Premesso che quest'ultimi dovrebbero avere la priorità, ammette che
73 Domenico Primcrano, Navi e fortezze, in "Nuova Antologia" Voi. LXXVII Fase. 648 - 16 dicembre 1898, pp. 739-750.
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realmente assorbono somme molto rilevanti, ma si stanziano di malavoglia e non per la convinzione che tale preferenza è richiesta dalla prima necessità della nazione; e poiché non si concede tutto il necessario, sifa opera poco meno che infruttuosa, come infruttuoso, anzi sprecato, è il denaro impiegato a costruire edifizi non abitabili perché incompiuti, dei quali si hanno molti esempi nella nuova Roma.
Alla luce di questa difficile situazione il Primerano formula un duplice ordine di proposte: da una parte riesaminare e correggere il programma precedente per la difesa nazionale, ormai superato a causa del progresso degli armamenti e dell'industria siderurgica; dall'altra ricorrere a misure straordinarie per far fronte alle maggiori esigenze di bilancio, con un prestito per la difesa nazionale di 30-40 milioni, che non nuocerebbe alle condizioni economiche del Paese, perché non si tratterebbe di alterare il bilancio attuale, ma di destinare al pagamento del capitale e degli interessi annui le somme che già impostiamo nei bilanci militari per spese straordinarie di costruzioni marittime e terrestri e per gli armamenti [.. .]. La differenza starebbe nel tempo, e cioè si jàrebbero più sollecitamente quei sacrifizi pecuniari che ora si fanno a spizzico, e che, fatti in tal modo, in definitiva saranno più gravosi, tenendoci ancora per molti anni impreparati e malsicuri e in balìa del caso.
Non risulta che la proposta finanziaria del Primerano sia stata raccolta, anche se due anni più tardi il tenente colonnello di fanteria della riserva Cuniberti74 propone che per le esigenze finanziarie di ambedue le Forze Armate siano utilizzati (senza pagare gli interessi per cinque anni) i fondi-al momento ammontanti a circa 50 milioni - del Consorzio Nazionale istituito allo scopo di estinguere in un certo numero di anni il debito pubblico italiano con gli interessi dei capitali già raccolti e di quelli da raccogliere. Proposta stroncata dalla pugnace Rivista di Fanteria15 per una serie di ragioni: senza pagare gli interessi per 5 anni si toglierebbero al Consorzio 11 milioni; i fondi verrebbero impiegati per finalità diverse da quelle del Consorzio; molto probabilmente sarebbe il primo passo dello Stato per incamerare l'intero patrimonio del Consorzio. Per inciso la rivista non condivide nemmeno l'affermazione del Cuniberti che dopo Lissa, fu generalmente sentita la necessità di avere una flotta forte per numero e qualità di navi: "non di navi. che a Lissa avemmo esuberantissime per numero e qualità, ma bensi di uomini si senti il bisogno dopo Lissa!". Anche da quest'ultime critiche della Rivista di Fanteria si può dedurre che la diagnosi del Primerano è esatta. È tra i pochi ad esaminare i risvolti finan-
Felice Cunibcrti, Marina, Esercito e Finanza, Torino, Roux e Viarengo 1900. Si veda la recensione (anonima, quindi del Guerrini) in "Rivista di Fanteria" Anno IX - 1900, pp. 284-285. 74
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ziari del problema militare, ma il rimedio da lui suggerito suscita delle perplessità, per la semplice ragione che in ogni caso sarebbe pressoché impossibile eliminare del tutto l'inferiorità delle Forze Armate italiane rispetto ai probabili avversari. Desta perplessità anche la tendenza da lui dimostrata a identificare il miglioramento del sistema fortificatorio (interno e costiero) con il miglioramento complessivo dell'efficienza delle forze terrestri, che pur soffrono di notevoli carenze; e perché, se il confine alpino è naturalmente così forte, sarebbe per lui tanto importante accrescerne le fortificazioni? Poco dopo l'articolo del Primerano il capitano Domenico Guerrini, già contestatore delle tesi del Callwell sul dominio del mare, dalle colonne della sua Rivista di Fanteria con ancora maggiore veemenza attacca il Manfroni perché ha contestato a sua volta ciò che egli dice del Callwell, e perché senza entrare nel merito della questione lo ha definito "Mozzorecchi". 76 Nel 1900 si sforza inoltre di controbattere la famosa sentenza di Napoleone T (spesso citata dagli esponenti della Marina) sull'Italia che avrebbe tutti i requisiti per di vcntare una grande potenza marittima,77 e infine nel 1903 volendo confutare l'altra frequente tesi che il grande sviluppo costiero della penisola rende necessario disporre di una potente flotta, attacca duramente coloro cbe per scherno an:,1;iché "navalisti" chiama "navaioli", con argomentazioni che vale la pena di citare per esteso: sarebbe inutile avvertire qui che i navaioli non appartengono alla marina da guerra. Però, a scanso di equivoci che altri si pensasse di poter creare, avvertiamo che i nostri buoni colleghi della marina da guerra sono precisamente agli antipodi dei navaioli, e la divergenza si riassume tutta in due punti: i navaioli, per sforzare la mano, gridano che non abbiamo forza alcuna navale e screditano la nostra flotta presente; invece gli ufficia li dell'armata [navale] rijùggono da questo metodo che è contrario alla verità e nuoce alla causa dei veri interessi del! 'armata; i navaioli, in secondo luogo, attaccanofariosamente - persino con oscene parole - l 'esercito, allo scopo di far togliere milioni dal bilancio della guerra per aggiungerli a quello della marina; invece gli ufficiali dell'annata 11011 hanno questa idea veramente malvagia di fare a/l 'incremento delle forze navali un bel piedistallo colle rovine dell'esercito. 78
A sostegno di queste affermazioni cita il Sechi (che ha anch'egli scritto che
i numerosi scrittori navali che hanno esagerato la situazione della flotta per ottenere un forte aumento di fondi, anziché essere utili hanno danneggiato la causa della marina), e il Morin il quale in Parlamento ha dichiarato ai navalisti che è cosa da pazzi pretendere che la tlotta assicuri la difesa marittima dell' Italia da sola e/o contro qualunque nemico; inoltre ricorda che "un illustre ammira-
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Domenico Guerrini, Per un fatterello personalissimo, in "Rivista di Fanteria" Anno VIIl - 1899. ID., Per l'interpretazione di una sentenza di Napoleone I, in "Rivista di Fanteria" Anno IX 1900, CDLII pp. 695-710. 78 11)., Pc:r la verità militare:, in "Rivista di Fanteria" Anno Xli - 1903 , DCXLV, pp. 882-898. 77
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glio" [forse Brinda Ministro, per probabile solidarietà politica con gli indirizzi di governo - N.d.a.] si è rifiutato di aderire alla Lega Navale quando è stata fondata nel 1896, dichiarando che "egli non poteva in alcun modo aiutare una
tendenza che manifestamente avrebbe mirato a diminuire le forze terrestri per aumentare le navali''. Nel merito delle questioni affrontate, il Guerrini dimostra che la quantità di forze navali necessarie ad uno Stato non dipende tanto dal suo sviluppo costiero, ma dagli interessi che ha sul mare e dalla potenza navale del suo probabile nemico, o "per lo meno dipende infinitamente più da questi due elementi che dalla lunghezza totale delle coste" [per la verità, dipende da tanti altri elementi, a cominciare dalla sua collocazione geostrategica della quale fanno parte anche le caratteristiche e l'estensione delle coste - N.d.a.]. Contesta perciò l'affermazione che l'Italia ha 7000 km di frontiera marittima e solo 1600 km di frontiera terrestre, a suo parere grossolanamente inesatta perché, tenendo conto che ha 286.000 km2 di superficie totale, a tali dati dovrebbe corrispondere un rettangolo largo 68 km e lungo ben 4232 km ( cioè lungo come da Manchester al Cairo e largo come Da Venezia a Vicenza); inoltre la lunghezza delle coste misurata con un doppio decimetro sulla carte [quindi. solo in linea retta - N.d.a.] non supera i 2400 km. Ciò che importa per la difesa delle coste da parte di una flotta - prosegue il Gucrrini - è il valore della distanza in linea retta da coprire da un punto a un altro delle acque costiere (senza seguirne le anfrattuosità); inoltre una forza navale per sorprendere il servizio sarebbe avvantaggiato dalla concavità rivolta al mare della costa (ò), mentre la difesa terrestre trarrebbe vantaggio dalla sua convessità rivolta la mare (n). Ciò significa che non necessariamente a uno sviluppo costiero più breve corrisponde un minor bisogno di potenza marittima, e che "talora occorrono minori.forze navali a chi abbia più estese coste" [ciò è vero; ma nemmeno questa non può essere una regola generale, perché molto frequentemente un maggior sviluppo costiero, ivi compresi promontori e golfi, richiede maggiori forze terrestri e navali per il suo controllo e la sua difesa - N.d.a.]. In sintesi "se l 'ltalia, invece di avere le coste che ha, solo fosse
bagnata dal mare tra la foce del Roia e quella del/ 'Arno, la nostra inferiorità navale rispetto alla Francia non diminuirebbe" [ma se avesse una maggiore estensione delle coste, aumenterebbero le chances per chi volesse attaccarle e diminuirebbero quelle di chi volesse difenderle - N.d.a.]. Segue una serie di cervellotiche considerazioni per dimostrare una cosa evidente, cioè che Napoleone ha pensato all 'Ttalia anche come a una potenza terrestre, e che ammette la possibilità di uno sbarco del nemico, solo se le sue forze terrestri sono doppie o triple rispetto alle nostre, fermo restando che la difesa delle coste è affare dell'artiglieria terrestre; in definitiva "Napoleone non metteva le invasioni
nemiche dal mare tra le cose normalmente possibili, anche quando il nemico fosse padrone del mare" [non è proprio così - N.d.a.]. Più convincente la nota affermazione dello stesso Napoleone che "l'Italia può avere un esercito di 400.000 uomini. indipendentemente dalla marina".
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Qui il Guerrini ha buon gioco nel commentare che l 'Jmperatore intendeva riferirsi alla forza terrestre prevista in tempo di guerra, la quale al momento è notevolmente aumentata, "sicché non si commette certo errore affermando che l'Italia non ha forse oggi, l'apparecchio navale che Napoleone voleva per essa, ma certo non ha l'apparecchio terrestre che Napoleone voleva per essa". il che è vero; sarebbe bastato questo per dedurre dai suoi scritti che l'Italia non doveva essere solo una grande potenza marittima, ma anche una grande potenza terrestre, senza alcun bisogno di arzigogolare come fa il Guerrini, cercando in modo non sempre convincente il pelo nell' uovo nelle sue affermazioni. Napoleone non ha mai scritto ciò che preme ai navalisti che cioè le forze marittime devono avere la prevalenza rispetto a quelle terrestri, né ha scritto il contrario; è questo l'unico fatto che conta. Con maggiore fortuna il Guerrini riferendosi all'articolo di un deputato sul Giornale di Sicilia n. 345 cerca di smontare anche una ben nota e frequente tesi dei navalisti, che cioè le Alpi erano di per sé un ostacolo molto difficile da superare, che poteva essere attraversato solo in pochi punti e nella bella stagione. In proposito non si perita di contestare, pur definendolo "un sicuro e glorioso maestro", un'affermazione del Ricci che le ritiene anch'egli un ostacolo difficile da superare, tanto cbe Napoleone nel l 800 non riuscì a portare in Italia più di 40.000 uomini passando per vari colli. A suo parere la prova storica allegata dal Ricci è completamente fallace, perché se si guarda alla storia, non vi è un tratto di 100 km dalla barriera alpina per il quale non sia passato un grosso esercito; inoltre Napoleone nel 1800 ha fatto passare le sue truppe per vari colli semplicemente perché ciascuna frazione delle sue forze è stata da lui avviata in Italia per la via più breve, tenendo conto delle diverse dislocazioni dei reparti [tesi da verificare; forse ha inciso anche il fattore logistico, perché un grosso esercito non avrebbe certamente trovato di che alimentarsi in una sola valle, tenendo conto che non era previsto - o era previsto solo in misura insufficiente - l'afflusso di viveri da tergo - N .d.a.]. Un'altra affermazione non condivisa dal Guerrini è quella che "non comprese le spese straordinarie, il bilancio della guerra è quasi il triplo di quello della marina" . A suo parere tale bilancio è ormai diminuito, fino a diventare due volte e un decimo quello della marina nel 1900-1901; e va anche tenuto conto che una potenza insulare come l 'lnghilterra "spende per l'esercito un decimo meno del doppio di quello che spende per la flotta", sì che "la proporzione tra le spese della flotta e dell'esercito in confronto con la proporzione tra lo sviluppo delle frontiere marittime e delle terrestri, sarà più jàvorevole alla flotta in Italia che in Inghilterra" [qui bisogna notare che l'Inghilterra aveva un esercito volontario dislocato in gran parte oltremare e con spese di esercizio molto superiori alle nostre, perciò il paragone avviene tra quantità non omogenee - N .d.a. ]. Infine il Guerrini contesta, punto per punto, tutta una serie di affermazioni dei navalisti, tendenti a dimostrare che la preferenza fino a quel momento accordata alle esigenze dell ' esercito deriva da condizionamentj storici, più che
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dalla valutazione della realtà strategica del momento: a) "l'Italia è stata.fatta dall'esercito e non dalla marina": questo per il Guerrini è un fatto sul quale non vi è nulla da osservare; b) "le guerre del Risorgimento sono state combattute contro l'Austria, potenza continentale, e più tardi la possibilità di una guerra contro la Francia ha richiamato l'attenzione sul nostro esercito". Da questa affermazione per il Guerrini si deduce che in caso di guerra contro l' Austria, e anche contro la Francia, l'Italia avrebbe bisogno più di forze terrestri che di forze navali; "ma se così è, quale è mai la situazione politica alla quale corrisponde, per l 'Italia, la necessità di avere più forze marittime che jòrze terrestri?"; c) "per lungo tempo i governanti italiani specie nei dicasteri militari furono piemontesi, come tali educati a scuola ristretta, con principiprevalentemente continentali''. Il Guerrini obietta che il maestro di questa c.d. "scuola ristretta" fu Cavour [ben convinto dell'importanza della marina, della quale fu anche Ministro innovatore - N.d.a.]; inoltre i due Ministri che più hanno operato per il potenziamento delle forze navali furono i piemontesi Saint Bon e Brin; né basta un articolo di gazzetta per dimostrare che chiunque pensi che l'Italia è potenza prevalentemente continentale è un somaro; d) " la marina ha dato cattiva prova a Lissa, quindi gli occhi si sono rivolti ali'esercito, che pure aveva dato anch'esso cattiva prova a Custoza". Obietta giustamente il Guerrini che se l'esercito avesse vinto a Custoza si sarebbe potuto citare tale vittoria come causa della preferenza per lo sviluppo delle forze terrestri; non essendo ciò avvenuto, "la quarta ragione non è una ragione; è un suono di parole". Per ultimo, non sorprendono le sue obiezioni alla ben nota tesi che sarebbe opportuno sciogliere alcuni corpi d'armata dell 'esercito per rinforzare la marina. secondo il citato articolo dell'Ora di Palermo, 4,5 corpi d'armata su 12 dovrebbero essere dislocati nell'Italia peninsulare e nelle isole per opporsi agli sbarchi, perché mentre il nemico può trasportare per mare un intero esercito, un corpo d'armata muovendosi via terra da Nord a Sud impiega parecchi giorni per giungere a destinazione. Da tale dislocazione l'articolo deduce che per difendere la valle del Po bastano 7,5 corpi d' armata, perciò i rimanenti 4,5 potrebbero essere sciolti a beneficio dei fondi per la marina. Dal canto suo il Guerrini nota che: - si ammette che la valle del Po possa essere difesa da un invasore ma non che si possa lottare anche nella penisola, in campo terrestre, per respingere un invasore sbarcato; - le forze nemiche che possono essere sbarcate sono state continuamente aumentate dai "navaioli'' da 30.000 uomini circa fino a un vero esercito di 100.000 uomini, dato quest'ultimo non in armonia con il naviglio francese effettivamente disponibile e desumibile da parecchie pubblicazioni; - anche una forte flotta non sarebbe in f,'Tado di impedire del tutto sbarchi e bombardamenti sulle nostre coste; - l'esercito ha un ruolo fondamentale (quello di ordine pubblico) anche in tempo di pace, quindi la forza di pace del contingente di leva - già esiguo - non può essere ridotta;
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- di conseguenza potrebbero essere ridotti solo i Quadri di 9 divisioni su 24, però con un risparmio irrisorio ( fino a un massimo di 13 milioni, equivalenti al costo della metà di una nave da battaglia); - come dimostra I ' esiguità della marina mercantile francese benché la F rancia possegga una forte marina militare e un vasto impero coloniale, non è affatto vero che l'incremento della marina militare porta con sè lo sviluppo del commercio marittimo e la ricchezza economica. Per tutte queste ragioni il Guerrini definisce l'articolo dell'Ora di Palermo "una raccolta di tutti i vecchi pregiudizi'' dei navalisti, che "invece di rispon-
dere opponendo ragione a ragione, sono andati a rifar la predica in provincia, dai piccoli pulpiti delle Gazzette". Si deve ammettere che il Guerrini meglio di tanti altri affronta nella loro globalità le tesi dei navalisti, sia pur con argomentazioni a volte discutibili: ma chi ha ragione, chi ha torto? Posto che l'imprevisto andamento delle relazioni internazionali non consente oggi di collaudare alla prova dei fatti le opposte tesi, ci sembra da escludere quella che le forze navali avrebbero dovuto essere sviluppate al prezzo della riduzione dell'esercito, o viceversa. Sull'altro piatto della bilancia, pare evidente che la potente flotta francese in caso di guerra avrebbe fatto sentire tutto il suo peso nel Mediterraneo. Poiché l'Italia era, ed è, un.a nazione geopoliticamente e geostrategicamentc continentale e marittima insieme, sostenere che era solo l'una o l' altra è decisamente sbagliato. In proposito la dislocazione fin dal tempo di pace di 4 corpi d'armata su 12 (1 h ) nella penisola e nelle isole dimostra che in fondo il vertice dell'esercito si preoccupa anche della loro difesa e che non segue la tesi continentali sta estrema, secondo la quale nulla è perduto, fino a quando l'esercito "tiene" la Val Padana. Piuttosto, le varie ipotesi per la difesa marittima e terrestre hanno il comune difetto di considerare sullo sfondo una guerra breve, trascurando quindi non solo le necessità logistiche di un grande esercito, ma anche le esigenze di materie prime necessarie per il normale funzionamento delle attività nazionali, che in buona parte arrivavano per via di mare. Solo il Manfredi ha il merito di considerare questo aspetto, trascurato dai "continentalisti'' forse è era un argomento a favore delle forze navali, e non amato nemmeno dai "nava/isti" forse perché il loro tema privilegiato è la guerra di squadra.
SEZIONE IV - Le "Storiedell'avvenire"nella guerra marittima e terrestre Dal 1872 fino ai primi anni del secolo XX compaiono con un certo successo opuscoli e libri a sfondo futurologico tendenti essenzialmente a dilTondere in vasti strati della pubblica opinione il timore per le minacce che in futuro potrebbero venire dal mare, oppure - al contrario - a dimostrare il ruolo decisivo dell'esercito. Questa letteratura richiede qualche cenno a parte, perché dati i suoi obiettivi scopertamente propagandistic.i non può essere confusa con
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le tesi navaliste o continentaliste fin qui esaminate, costretta com'è a calcare la mano, accentuare i toni, essere perentoria, dogmatica e semplificatrice, insomma: a estremizzare i concetti, a tutto danno della loro coerenza logica e della loro aderenza alla realtà.
1 rovinosi effetti di un 'ipotetica sconfìtta della nostra flotta
Come ricorda il de Amezaga, l'ammiraglio Riboty, Ministro dal 1871 al 1873 e primo artefice della rinascita della flotta dopo Lissa, intendeva rendere popolare la marina con espedienti pratici, ben sapendo che, in ogni regime parlamentare, se priva dell'aiuto di forti correnti di simpatia dell'opinione pubblica, nulla di serio potevasi attuare dai membri del Governo. Sapeva altresì che il trasmettitore più efficace di quella corrente lo rappresentava la stampa [... ]. Volle il Riboty che prendesse radice, fra i giovani ufficiali. una letteratura navale, che già iniziata dalla Rivista Marittima, sotto i di lui auspici, si affiatasse con la stampa quotidiana, per rinvigorire il sentimento nz11rittinzn, in Italia sentimento ormai eccessivamente depresso. 79
Discende da questo chiaro e dichiarato obiettivo di proselitismo navale, mirante a creare o ricreare consenso intorno alla marina e alle sue esigenze di bilancio, un filone di letteratura navale a sfondo ipotetico e avveniristico che non casualmente ha le sue manifestazioni più significative subito dopo il 1870 e a cavallo del 1900, proptio quando le esigenze di bilancio della marina diventano più pressanti. Rivolte come sono a larghi strati della pubblica opinione, non si può chiedere rigore scientifico alle sue manifestazioni, quindi il metro per giudicarle non è lo stesso di quello usato per le restanti opere. Esse sono comunque giudicate molto positivamente dagli autori navali, che come meglio vedremo in seguito - con la sola, tilevante eccezione del Roncagli - forse non considerano a sufficienza che non c'è bisogno di essere dei profondi conoscitori delle cose della marina per giudicare - magari con effetti controproducenti - approssimativi, fantasiosi, poco verosimili e improntati a dogmatica faciloneria taluni scenari obbligati e di maniera che vengono descritti, al solo scopo di accreditare ad ogni costo il ruolo determinante delle forze navali nella difesa della penisola e delle isole. Un giudice piuttosto indulgente è ad esempio il comandante Bollati di Saint Pierre (1900), secondo il quale l'opera di questi scrittori contribuirà a sradicare dalle masse anche non incolte il pregiudizio che per l'Italia la marina sia un lusso costoso. I più ignorano che le navi potenti non sono se non uno dei molti fattori di vittoria, ma domani sorgerebbero ad accusare violentemente quel 'ammiraglio che con co-
79 Carlo de Amezaga, /I pensiero navale italiano - cose vecchie sempre nuove, Genova, Stab. Marlini 1898, pp. 6-7.
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sì belle navi non avesse vinto. Popolarizzare la marina, vuol dire risparmiarci degli amari disinganni. e nulla più della letteratura navale è in grado di raggiungere lo scopo. 80
Anche il Manfredi nel citato articolo del 1901 Da terra e da mare brevemente accennando ai libri di questo genere usciti fino a quel momento scrive che "li chiamo romanzi perché sono racconti fondati sopra un 'ipotesi, ma diverrebbero Storia se quella ipotesi divenisse realtà": un'ipotesi, dunque, che egli non esclude affatto. La prima e più famosa opera di propaganda navale è Il racconto di un guardiano da spiaggia - traduzione libera della battaglia di Dorking (1872)81 del già citato capitano di fregata Carlo Rossi, che - come ricorda il De Amezaga, ammiratore del "brillante opuscolo" fino a riportarlo sul suo Pensiero militare italiano- quando lo scrive si trova alle dirette dipendenze del capitano di vascello (poi ammiraglio e senatore) Marchese Orengo, al momento direttore generale del servizio militare del Ministero, ispiratore dell'opera e consigliere del Ministro Riboty. Scrittore navale di talento, autore della già citata opera sulla Difesa marittima dell'Italia e purtroppo scomparso prematuramente, il Rossi riesce a concentrare in sole 17 pagine, sia pure ad usum delphini, gran parte della pur complessa tematica navale ricorrente da allora in poi, a cominciare dal pericolo degli sbarchi francesi a Sud delle Alpi, che nella fattispecie hanno peso decisivo sull'esito della guerra terrestre. TI canovaccio è semplice: dopo Lissa pochi credono nella marina e il governo concentra le maggiori risorse sull'esercito, che all'inizio della guerra è abbastanza pronto. La nostra flotta ha forze molto inferiori a quelle francesi, pertanto viene costretta ad accettare battaglia - uscendone sconfitta - dalla flotta nemica, che poi distrugge anche La Spezia e sbarca nella valle dell'Arno un corpo di 100.000 uomini, quanto basta per sbaragliare le nostre forze dell'Italia centrale e con i rinforzi muovere da Sud verso la pianura padana, prendendo alle spalle il nostro esercito fino a quel momento schierato a difesa delle Alpi Occidentali e costringendolo a ritirarsi su Verona e Mantova, dove dopo onorata resistenza si arrende, mentre le forze nemiche con altri sbarchi possono facilmente impadronirsi anche di Napoli, Genova e Livorno. Non vi sono battaglie sulle Alpi, che l'esercito francese non ha bisogno di attaccare a fondo; naturalmente la pace è molto dura, con la perdita della Sicilia e Sardegna e il pagamento alla Francia di una forte indennità di guerra, che costringe il governo a spremere ulteriormente i contribuenti. Vale la pena di sottolineare alcuni aspetti particolari: l'Italia è sola perché Germania, Austria e Inghilterra sono occupate altrove, e il Rossi non muove nessuna accusa ai Capi, che sia in campo terrestre che navale fanno del loro
80 Eugenio Bollati di S.P.,La gue1Ta un mare (cit.), p. 37 . " Carlo Rossi, Il racconto del Guardiano da spiaggia - traduzione libera della ballaglia di Dorking, Torino, Botta 1872.
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meglio. La flotta italiana è molto inferiore (9 corazzate contro 30), perciò quando incontra nel Tirreno la flotta francese prende caccia; purtroppo una delle nostre navi ha un guasto alle macchine e deve ridurre la velocità, perciò la flotta nemica giunge a distanza di tiro; a questo punto il nostro ammiraglio non si sente di abbandonare una delle sue navi in balìa del nemico e attacca la flotta francese troppo superiore, uscendone rovinosamente sconfitto. Il Rossi aggiunge che al momento della guerra le basi e le difese costiere erano tutt'altro che pronte, e fornisce un'immagine tutt'altro che soddisfacente della situazione dei Quadri e del vertice politico-militare: troppe leggi e "immensi alveari di impiegati e funzionari'' a Roma. Per quanto riguarda specificamente i problemi e le esigenze della marina, le Camere ne volevano sentir poco a parlare. Già, c'erano ben pochi che conoscessero i bisogni della marina, e quei pochi non parlavano guari, per la tema di non farsi intendere, o che so io; altri si occupavano di marina senza intendersene, e affogavano nelle cifre quel che poteva esserci di positivo nelle idee. Dicono persino che, quand 'erano imbarazzati, tiravano i progetti in lungo per vedere se nascessero novità. La gente della marina sapeva più o meno questo, e immaginava ancora di più che non sapeva. I huoni ufficiali. e ce ne avevamo, vivevano sfiduciati, e i Ministri non osavano presentare progetti rilevanti, non credendo che potessimo essere accettati.
Va detto subito che anche l'esercito del tempo aveva problemi analoghi e che-diversamente da quanto lascia capire il Rossi- soffriva anch' esso di fondi, quindi era di molto inferiore per numero e armamento a quello francese; ciononostante viene da chiedersi come mai, secondo il Rossi, non si è opposto in forze sull'Appennino alle forze francesi provenienti da Sud, o almeno non ha dato battaglia a forze riunite intorno a Mantova e Verona. Le analogie possono estese anche alle fortificazioni terrestri (anch'esse gravemente insufficienti) e ai centri logistici; in proposito il Rossi accenna ai lavori incompiuti per gli arsenali della Spezia e di Venezia, mentre "se ne voleva fare uno a Taranto per sostituire quello di Napoli". Proposte che incontrava delle opposizioni, "perché a Napoli non potevano assuefarsi all'idea di p erdere l'arsenale, quantunque ingombrasse tanto che quasi più non vi era porto mercantile". Così, per ragioni non strettamente militari e funzionali i troppi arsenali sono rimasti una palla al piede e una fonte di spesa improduttiva per la marina, proprio come i troppi stabilimenti militari per l'esercito. Giudizio negativo anche sui Quadri: [nell' approntamento della flotta per entrare in guerra] c 'era una conjùsione da non descriversi, perché tutti volevano fare, e pochi veramente sapevano. Nessuno era abituato ad agire con sicurezza e rapidità; ciò poteva dipendere dal poco lavoro che fino ad allora c'era stato; ma mi dicono anche che dipendesse dall'abitudine che avean contratta di aspettare sempre ordini per decidere una cosa [... ]. Gli uffiziali, i bass 'ujjìziali sopratutto se erano gente animosa e decisa, non possedevano tulle le qualità necessarie ad un buon servi-
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zio di bordo, perché mancava loro l 'abitudine. Molti bravi uffizia/i se n'erano andati, il rimanente si era data a levar piani, a studiar artiglieria, matematica, lingue, che so io, tutte belle cose ed utili molto, ma che loro aveanfatto un pò dimenticare la loro specialità. I bass 'uffiziali erano poco pagati e poco considerati, e ogni anno quei che potevano lasciavano il corpo; erano rimasti solo quelli carichi di famiglia, e gli svogliati che non avrebbero trovato pane altrove; gente che naturalmente prendea poco interesse al servizio. Tutto questo dipendeva dalla scarsezza degli armamenti passati; ma siccome a varie riprese avevano tolto dal corpo i meno abili ed atti al mare. ne era risultato in complesso un nucleo di gente onesta, ma mediocre, disposta a fare il suo dovere al fuoco, senza essere ben persuasa dei modi migliori con cui presentarvisi. Tutti si ricordavano di Lissa, e pensavano che, pur di battersi bene, avrebbero cessato una volta d 'esser creduti capaci di voltar le spalle.
Come si vede, forse perché il Riboty ha assunto la carica di Ministro a fine agosto 1871, cioè pochi mesi prima dell'uscita del libro (aprile 1872) il Rossi non omette di criticare fortemente, oltre che l' estahlishment politico-militare in generale, anche talune tendenze emerse nella vita quotidiana della marina del tempo, che probabilmente il nuovo Ministro si ripromette di eliminare. Ciò non toglie che il dc Amezaga certamente esagera, quando anch' egli (come il Vecchj) dopo aver ricordato che il Fanfa/la e (per suo interessamento) La Nazione hanno pubblicato articoli di sponda che esaltano l'opuscolo, afferma che Il Racconto del Guardiano da spiaggia e gli articoli della Nazione "accennarono a un primo bagliore di letteratura marinara, che andò gradatamente acquistando intensità sino ad apparire luce vivida, quando entrarono in campo i veri artisti della penna"(cioè "il Vecchj in testa a tutti'', indi il Fincati, il Randaccio ... ). A parte questi accenni, il de Amezaga fa dell'opuscolo da lui riprodotto il clou del citato Pensiero militare moderno, che dopo quasi trent'anni si ripromette gli stessi scopi, dimostrando indirettamente che nonostante la vasta e ben più profonda letteratura navalista successiva e nonostante la politica delle grandi navi del Saint Bon e del Brin costantemente proseguita dai successori nei limiti delle loro possibilità, i problemi di fondo della marina non sono cambiati. Nel 1890 stranamente proprio Camillo Man:froni getta acqua sul fuoco di altri navalisti, secondo i quali il Racconto del Guardiano da spiaggia avrebbe avuto grande risonanza e notevole influenza: il commovente racconto del Rossi, che a tinte vivaci descrivere i danni derivanti da una supposta sconfitta dell 'armata navale italiana, non commosse molto l'opinione pubblica; pochi giornali soltanto s'occuparono, quasi per incidente, di quella pubblicazione. che usciva dal Gabinetto del Ministero della Marina ed alla quale risposero altre pubblicazioni, uscite dal Gabinetto del Ministro della guerra. Era una lotta tra i due Ministeri, l 'uno dei quali [quello della Marina - N.d.a.] tendeva ad un aumento del proprio bilancio, l'altro a difendere g li aumenti che il Parlamento aveva votato, e che credeva minacciati. Alla lntta, r.nme ho potuto constatare leggendo le raccolte dei giornali
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- s'era nel 1872 - presero parte soltanto i tecnici, i competenti; l'Italia non si scosse dalla sua indifferenza, neppur quando A/fonso La M armora ebbe preso la parola per combattere certe afjèrmazioni del libro del Rossi. Tuttavia la descrizione dei pericoli ai quali l'Italia si sarebbe trovata esposta dalla parte di mare, se fosse scoppiata una guerra, l'opera insistente di due Ministri autorevoli, il Riboty e il Saint Bon, gli articoli che il de Amezaga e con lui molti altri venivano pubblicando sui giornali amici, riuscirono a poco a poco a vincere/ 'opinione pubblica: il Ministero delle finanze si lasciò forzare la mano, la Commissione del bilancio, quasi a malincuore, cedette, e da poco a poco da 24 milioni la cifra delle spese per la Marina cominciò a salire. 82
A fine secolo XIX viene pubblicato dal tenente di vascello Limo (con lo pseudonimo Argus) un altro opuscolo,83 che si ripromette (in 75 pagine, spazio breve ma pur sempre maggiore del precedente) gli stessi obiettivi del precedente, compare il giorno stesso in cui si vota alla Camera il bilancio della marina e viene ampiamente commentato - più che recensito - da Carni Ilo Manfroni sulla Nuova Antologia. R4 Dopo aver definito (esagerando) Il Racconto d 'un guardiano da spiaggia, "una specie di profezia militare, che diffusa a migliaia di esemplari, eccitò dovunque meraviglia e sgomento", il Limo descrive il clima nel quale nasce la nuova opera, ricordando che si era diffusa a fine secolo XIX non solo la falsa convinzione della nostra potenza navale insuperabile, ma il dubbio che per manìa di grandezza si volesse sviluppare la nostra marina oltre il necessario, e che essa rappresentasse non tanto una necessità di difesa, ma un lusso; di conseguenza proprio nel momento in cui gli altri Stati aumentavano considerevolmente i bilanci delle loro marine e i rapidi progressi dei materiali rendevano rapidamente obsoleto il naviglio già costruito, la nostra opinione pubblica, fuorvita da queste false idee, aveva imposto al bilancio della marina riduzioni sempre maggiori e tali che a nessun altro bilancio furono mai imposte; "invano levarono la voce ammonitrice illustri ammiragli, colti ufficiali di mare, e persino vecchi ed espertissimi generali[ ... ]. L'opinione pubblica si impose... ", sì che al momento la Ootta può contare solo su uno scarsissimo numero di unità realmente moderne, a fronte delle molte che hanno perduto la massima parte del valore militare, senza che il Parlamento si preoccupi troppo del pericolo che viene dal mare; e tuttavia ad attenuare l'impressione della pubblica discussione gioverà ricordare la scarsezza di ufficiali dell'armata fra i membri del Parlamento, l'assenza di
82 Camillo Manfroni, Che cosa vuole la Lega Navale. in "Rassegna Nazionale" Anno XXIII - Voi. CXIII 16 giugno 1890, pp. 625-641. 83 Argus (Gaetano Limo), La guerra del 1900 .... in terra e in mare, Spezia, Tip. Lega Navale 1899. Il Limo, con lo stesso pseudonimo, è autore anche dcli' Armata d 'Italia nella 6'!1e"afatura, Roma, Voghera 1894. 84 Camillo Manfroni, In terra o in mare?, in "Nuova Antologia" Voi. LXXIV Fa~c. 649 - I gennaio 1899, pp. 92-102.
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uno fra i più dotti e più reputati ammiragli, la presenza nella Camera di deputati noti per le loro idee poco favorevoli ali 'espansione dell'armata e per polemiche sostenute intorno a questioni tecniche. È tuttavia innegabile che l'accoglienza fatta dalla Camera alle parole di coloro che lamentavano le condizioni della nostra armata.fu, anzi che no.fredda.
Commentando l'opera sulla Nuova Antologia, il Manfroni sottolinea che quella del Limo è un'opera ben diversa - e di maggior spessore - rispetto ali' opuscolo del Rossi, nel frattempo già deceduto: "non le querimonie e i ricordi fuggevoli d'un vecchio spettatore d'una guerra inimmaginaria (appunto iI Guardiano da spiaggia - N .d.a. ], non pochi cenni fagaci sulle conseguenze degli antichi errori, ma il racconto minuto, la descrizione potente, efficace, in forma epistolare, di tutti gli episodi di una guerra avvenire, combattuta tra l'Italia e la Francia, in terra e in mare nei primi anni del secolo venturo". Le lettere immaginarie da lui riportate dimostrano che il Limo non è uno scrittore di romanzi navali ma che egli batte la stessa via che già (ha percorso in Inghilterra ] il Laird Clowes col suo Captain ofMary Rose, Wil/iam Le Gueux colla sua The next naval war, o [in Francia] Maurice Loir col suo Joumal de bord d'un aspirante che la sua opera, se appartiene per la forma al genere narrativo, per la sostanza appartiene al genere didascalico, e che tutto quello che egli fa narrare ai suoi personaggi è/rutto di profondi studi e di esperienza professionale[... ]. Si vede insomma che chi scrive è un ufficiale di mare che ha studiato a lungo, colla scorta degli autori più riputati di tattica e strategia, che ha assistito a molte manovre navali, che conosce profondamente le condizioni dell'esercito e del1'armata nostra e dei nostri presunti avversari...
In effetti le qualità che il Manfroni attribuisce al Limo - e che non attribuisce affatto, si noti bene, al Rossi - si riscontrano anche nel canovaccio del1'opuscolo, che pur ripromettendosi gli stessi scopi del Rossi, ovviamente miranti a far apparire decisive in un prossimo conflitto le forze navali, si mantiene su una linea assai più verosimile e delinea una trama più complessa e articolata di quella del Guardiano da spiaggia, a cominciare dai prodromi della guerra, nei quali, a fronte della mirabile unità della nazione nemica, emergono fin troppo le nostre divisioni interne, con i partiti che agiscono nell'interesse esclusivo della loro fazione e non della Patria. E mentre l'esercito si sta mobilitando nella valle del Po, sul mare la nostra flotta, composta da 17 navi di linea o incrociatori corazzati "di varia velocità e di potenzialità diversa", deve affrontare senza aiuti quella francese che è assai superiore (23 corazzate e 8 incrociatori corazzati). Inoltre la flotta francese dispone di un'armata di riserva di 14 unità senza calcolare l'armata del Nord, a fronte delle 7 nostre corazzate antiquate (comprese Duilio, Lepanto e Italia) che hanno il compito di rimanere di riserva nei porti, aJ tempo stesso formando la di fesa avanzata delle nostre coste.
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Segue una frecciata polemica a un capitano di Stato Maggiore dell'esercito che ha espresso il desiderio di veder sbarcare i nemici, venendo ben presto smentito dagli avvenimenti. Infatti come previsto dai teorici della Jeune École, mentre i due eserciti si fronteggiano sulle Alpi la flotta francese attacca di sorpresa la base della Spezia per indurre ad accettare la battaglia il nostro ammiraglio, che però saggiamente [come sempre sostenuto dal Bonamico - N .d.a.] non la accetta e si limita a respingere l' attacco nemico, provocando peraltro proteste alla Camera da parte del deputato de Pellis. E mentre si combatte davanti alla Spezia, alcuni incrociatori francesi sbarcano a Monterosso e Cecina dei ridotti contingenti di truppe che tagliano le linee ferroviarie costiere, paralizzando la mobilitazione dell'esercito. Intanto l'esercito riesce a respingere sulle Alpi i tentativi d'invasione dell' armée de terre, ma questo non impedisce alla flotta francese di iniziare il bombardamento di Genova, mentre la nostra flotta interviene per ostacolarlo ma essendo inferiore di numero, anche in questo caso non si impegna a fondo, e nella ritirata perde il Dandolo colpito da un siluro. A questo punto una divisione dell'armata italiana riesce a ottenere finalmente una parziale vittoria contro le coste della Corsica e contro Biserta, affondandovi tre piroscafi di un grosso convoglio pronto a sbarcare truppe in Sicilia; ma è un successo senza conseguenze di rilievo, il quale non ha altri risultati che "gli applausi del popolo [come se, in quel momento, fossero cose da nulla - N.d.a.] e un inutile sciupìo di navi, di munizioni e di carbone". Anche Napoli a sua volta bombardata insorge, mentre a Milano si sta preparando l'insurrezione e viene a mancare il carbone che giunge soprattutto, via mare, perché poco ne può arrivare dalla Svizzera e dall'Austria. Successivamente le proteste della piazza inducono il Ministro a imporre alla flotta di combattere a fondo; l'ammiraglio obbedisce, combatte e vince ed è esaltato e celebrato come eroe ma piange, perché se sa che mentre le sue navi nonostante la vittoria sono ormai inservibili, al nemico è rimasta intatta la flotta di riserva. Così senza trovare alcuna resistenza "40. 000 francesi, protelli dall'armata, sbarcano in Sicilia, a Viareggio, in molti altri punti: il carbone manca alle nostre ferrovie; la mobilitazione è interrotta, l 'esercito tagliato in più parti, vinto alla spicciolata. I resti dell'armata navale d'un tempo escono ancora una volta a tentare la sorte, e alla Patria non rimane più se non una bandiera sventolante ali'albero di una nave ajfòndata fuori del Golfo di Spezia". Così finisce questo lavoro, dal quale risulta ben chiaro il cavallo da battaglia dei navalisti diametralmente opposto alle tesi del Ricci e del Bonamico, cioè che: 1) anche se l'esercito fosse vittorioso sulle Alpi, non riuscirebbe a difendere il resto della penisola da sbarchi francesi; 2) una flotta numericamente inferiore alla francese non riuscirebbe in alcun modo a impedire o ostacolare con efficacia sbarchi e bombardamenti francesi. Che cosa avverrebbe se il nemico riuscisse a passare le Alpi, il Limo (come il Rossi) non lo precisa; né si capisce come mai le difese terrestri della penisola siano assolutamente inefficaci e ininfluenti. Naturalmente il Manfroni si guarda bene dal manifestare
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dei dubbi, almeno relativamente alla possibilità reale di raggiungere la parità navale con la Francia; si limita solo ad auspicare un dibattito sul problema della difesa marittima tra politici, finanzieri, economisti, marinai e generali dell'esercito. Quest'ultimi a suo parere dovrebbero esaminare quali vantaggi sarebbe possibile ricavare dalla flotta e quali sacrifici potrebbero fare a suo favore; soprattutto, nella discussione dovrebbe prevalere il bene dell'Italia, senza riguardo a sentimenti personali, gelosie di corpo, sospetti e acrimonie. Anche la conclusione del commento vuol essere equilibrata. Prevede che le opinioni dell'autore, "quantunque suffragate dal giudizio di autorevoli iif.ficiali di terra e di mare", troveranno forse caldi oppositori come già hanno trovato caldissimi partigiani, quindi non profetizza chissà mai quale successo per l'opuscolo. E aggiunge che "lo Stato Maggiore dell'esercito è ormai convinto della necessità che l 'ltalia sia una grande potenza marittima", come provato dal "recentissimo articolo d 'un illustre generale" e dalla traduzione a cura del Comando del Capo di Stato Maggiore del libro del Callwell Gli effetti del dominio del mare sulle operazioni terrestri; l'unica questione che rimane da definire è "se l 'ltalia dehba essere anche una grande potenza marittima, come sr.ris.çero alcuni giornali, o specialmente una grande potenza marittima, c:urne altri sostengono; e in questa discussione l'opera di A= [cioè del Limo - N .d.a.] servirà certo di bersaglio a molti oppositori". Non ci si poteva aspettare certo che il Manfroni, il quale in questa occasione torna a precisare di essere uno storico e non un esperto di strategia, si sbilanciasse di più; così anche l'opinione del Limo, sia pur mantenendosi a un livello notevolmente superiore di quello del Rossi, non contribuisce molto a dimostrare come e perché sia possibile formare una flotta, in grado di contendere il dominio del mare a quella francese, raggiungendo un livello di forza e di efficienza tale da poter vantaggiosamente fronteggiare le forze navali francesi, (ivi comprese le riserve e la flotta del Nord), e da non uscire dal primo scontro vittorioso così gravemente danneggiata, da farne - almeno secondo la descrizione del Limo - una sorta di vittoria di Pirro. Si tratta di questioni di fondo, che anche un lavoro a sfondo propagandistico, mirante a colpire la pubblica opinione, non dovrebbe trascurare. Un anno dopo La guerra del 190... compare a Milano il libro L 'assedio di Roma nella guerra del 1900... il cui autore è l'ingegner Pompeo Modcmi. 85 Attraverso la descrizione dell'assedio e della distruzione di Roma da parte di un corpo francese di 80.000 uomini che ha potuto facilmente sbarcare sulle coste laziali dopo l'eliminazione della nostra flotta, il Moderni si ripromette di richiamare l'attenzione dei governanti e della pubblica opinione sulla debolezza delle fortificazioni di Roma (costruite, lo ricordiamo, con il limitato e dichiarato scopo di proteggere la capitale da un colpo di mano da parte di forze
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1900.
Pompeo Moderni,/, 'assedio di Roma nella guerra del /90 ... , Milano, Soc. Ed. La Poligrafica
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provenienti dal mare, in attesa dell'arrivo di rinforzi) e perciò di dimostrare la facilità e le gravi conseguenze di uno sbarco francese aHa foce del Tevere, di mettere in evidenza l'impossibilità di soccorrerne in tempo utile il presidio con forze provenienti dal Centro-Nord e l'impossibilità di proteggere la città dalle distruzioni di un bombardamento effettuato da artiglierie di grosso calibro prontamente sbarcate. Jn sostanza, dalla dimostrazione del fallimento delle difese fisse e mobili terrestri di fronte a un attacco risulta chiaro, anche in questo caso particolare, il classico concetto navalista che non solo Roma, ma anche l' Italia si difendono principalmente dal mare. Intorno alla predetta trama essenziale si svolge la descrizione più particolareggiata degli avvenimenti, a cominciare dalla stupefacente e irrealistica rapidità di avanzata del corpo di spedizione francese, che evidentemente senza incontrare alcuna resistenza o difficoltà logistica ''fin dal primo giorno, o al tardi fin dal secondo giorno'' può arrivare a distanza utile di tiro per le sue artiglierie d'assedio, costruire le batterie, proteggerle con le forze mobili e iniziare senza indugio un fuoco micidiale contro l'abitato. Ugualmente irrealistica è la stasi di circa due mesi sul fronte delle Alpi prevista dall' autore quando la nostra mobilitazione è già completata; e anche se il nostro sistema ferroviario longitudinale del momento è tutt' altro che completo e sicuro, questo non lo autorizza a ritenere senz'altro impossibile l'arrivo di rinforzi a Roma. Anch' egli accenna a estesi disordini nelle principali città italiane, e di nuovo aggiunge l'intensa azione di spionaggio contro 1'Italia e i sabotaggi dei clericali di Roma, sì che la situazione italiana diventa ben presto drammatica. Oltre all'assedio e al bombardamento di Roma, si verificano disordini sia nella penisola che in Lombardia, l'occupazione francese della Sicilia e della Sardegna, lo sbocco nella pianura padana delle truppe francesi attraverso il Monginevro, e al tempo stesso lo sbarco di un corpo francese a Viareggio e la sua successiva occupazione dell'Appennino ... L' epilogo è scontato; vale a questo punto la pena di ricordare la lunga recensione che la Rivista Marittima dedica al libro a firma del già noto navalista colonnello Giacomo Fazio,86 il quale pur compiacendosi di un 'altra dimostrazione delle sue tesi sulla verosimiglianza e pericolosità dei grossi sbarchi e sulla conseguente necessità di rafforzare al massimo la flotta, dissente da talune opinioni del Moderni, a cominciare dagli estesi torbidi da lui previsti, che in realtà non sarebbero possibili perché gran parte della popolazione valida sarebbe stata inquadrata nell'esercito. Anche la vasta attività di spionaggio e sabotaggio attribuita al clero non è credibile, per quanto sia riprovevole la tendenza delle istituzioni clericali "a sconnettere la compagine degli ordini e dello spirito nazionale". Poco realistica anche la situazione sulle Alpi, dove dopo due mesi francesi e italiani si limitano ancora a cannoneggiarsi da lontano e dove i tratti più importanti del confine sono presidiati solo da qualche com-
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In "Rivista Marittima" 1900, III Trim. Fase. III, pp. 396-406.
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pagnia alpina. Su questo argomento il Fazio giustamente osserva che, qualunque sia il nostro concetto della difesa, "è ovvio supporre che non si voglia, anzi non si debba, abbandonare i forti di sbarramento e i valichi alpini alle sole forze locali, ai cannoni delle batterie e alle poche compagnie alpine. Il rafforzamento della difesa avanzata per mezzo della manovra attiva delle truppe mobili s'impone in modo assoluto[ ... ]. La difesa attiva della frontiera è il compito principale dell'esercito dislocato nella valle del Po". Il Fazio non trova nulla a ridire sulla descrizione delle operazioni di attacco e di difesa di Roma, che anzi definisce "tracciate da mano maestra". Per la verità si tratta della principale dimostrazione di quel catastrofismo, al quale è improntata tutta l'opera del Moderni: mentre le forze francesi di terra e di mare trovano tutto facile, camminano come su un tapis roulant, nel campo italiano ovunque si tocca il massimo della sventura: la flotta è distrutta, anche la capitale è rapidamente distrutta senza che sia possibile inviare dei soccorsi in tempo utile, l'esercito francese alla fin fine valica con successo le Alpi e sbarca facilmente ovunque lo voglia, occupa la Sicilia e la Sardegna, si impadronisce con poca fatica della seconda barriera dell'Appennino, gravi disordini scoppiano ovunque... Tutto facile, tutto semplice, tutto a buon fine per i nemici dell'Italia; tutto impossibile, tutto ingovernabile dalla nostra parte. E nemmeno il Moderni accenna a come sarebbe possibile disporre di una flotta competitiva, e al tempo stesso fortificare la capitale in modo inespugnabile, potenziare l'esercito, costruire le ferrovie necessarie per spostarlo rapidamente da Nord a Sud ... Molto più interessanti, centrate e condivisibili le considerazioni sul libro del Moderni di certo A. Milesi Ferretti, che si autodefinisce "quantunque cattolico, apostolico e romano, non meno vivacemente, attualmente e umanamente romano"; pertanto contesta con veemenza le affermazioni del Moderni sulla deleteria influenza del clericalismo, sulla possibile attività di spionaggio dei clericali romani ecc.87 Condivide le sue osservazioni sulla scarsità di ferrovie longitudinali e di depositi di carbone, ma a ragione ritiene che al posto dei 300.000 uomini provenienti dalla val padana da lui previsti, che così sguarnirebbero la difesa della stessa val padana, per prestare soccorso a Roma sarebbero più efficaci i corpi già stanziati nell'Italia centrale. Molto drastico - e opposto a quello del Moderni - il giudizio del Milesi sulle fortificazioni di Roma; anche ammesso che le possibilità finanziari lo consentissero, esse non servirebbero a niente, perché gli sbarchi nemici potrebbero essere tentati ovunque, e fino a quando un solo punto della costa fosse sia pur in modo incompleto opposto alle offese, l'Italia ferita in quel punto, "dovrebbe necessariamente soccombere" [ma perché? e le forze mobili terrestri? - N.d.a.]. Ne consegue che "nell'esercito, nelle ferrovie e nella marina deve militarmente ac-
87 A. Mi lesi Ferretti, L 'assedio di Roma nella guerra del 190., in "Rassegna Nazionale'" Voi. CX lii - Anno XXll, 16 giugno 1900, pp. 798-806.
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centuarsi la speranza della salute d'Jtalia.11 sistema delle fortificazioni ideali è assurdo, ma quello degli sbarchi portati alla potenzialità di quelli del Moderni, è errato e jàntastico". Dalle predette affermazioni si deduce che il Milesi non crede all' opportunità di fortificare Roma e/o di potenziare le fortificazioni esistenti, né crede a sbarchi francesi in forze, ma non indica le priorità da seguire nella difesa terrestre e marittima. Sarebbe però errato dedurre da quanto afferma che non attribuisce alcuna importanza a quello che oggi potremmo chiamare "fronte interno"; sembra anzi condividere taluni dubbi del Moderni sulla solidità morale del popolo italiano in caso si guerra, osservando che "di forte carattere non demmo nessuna prova alle prime gravi notizie dei disastri africani'' [riferimento ad Adua 1896 - N.d.a], con le donne che applaudite da una certa stampa, asportavano le rotaie davanti ai treni "che portavano in Africa i vendicatori sperati dei martiri nostri". PTevede perciò che in caso di guerra e di investimento di Roma, "la posizione del Governo e del Vaticano sarebbe, come nota il Moderni, terribile e insolubile", nascerebbero i più assurdi sospetti e "le masse, variabili e illuse, correrebbero irrefrenabili alla rovina e al sangue". Per eliminare questo pericolo, a suo parere si dovrebbe por fine al conflitto tra Stato e Chiesa, "che, fatta l 'ltalia, non permette che gli italiani siano finalmente una Nazione e non più, come ora, un 'accozzaglia la quale si sbrana, si addenta e si scerpa ... ''. Di fronte a siffatti giudizi avventati e a catastrofiche previsioni peraltro non confermate dalla futura grande guerra, viene da chiedersi a che servirebbero ali' Italia, così stando le cose, delle Forze Armate certamente a loro volta intaccate dai mali della Nazione; e se la minaccia su Roma avrebbe riflessi cosl devastanti sul morale della Nazione, a maggior ragione sarebbe stato necessario fortificarla potentemente, perché da sempre è stato possibile e conveniente fortificare solo i punti vitali del territorio, e/o i perni di manovra delle forze mobili. Infine il Milesi senz'altro esagera nell'attribuire al dissidio tra Stato e Chiesa ereditato dal 1870 la supposta scarsa tempra morale del ,Popolo italiano, ancora una volta in piena armonia con le teorie della Jeune Eco/e. La serie si conclude nel 1911 con La guerra d'Europa (1921-1923) - Romanzo delle nazioni di uno sconosciuto Comandante xxx,ss il quale intende svincolare il suo libro (252 pagine) dalle consuete forme degli scritti del genere, obiettivo che in buona parte gli riesce, perché una volta tanto abbandona il cliché dell'Italia e della Francia isolate e contrapposte protagoniste del conflitto, e avvicinandosi parecchio alla realtà della futura guerra mondiale mette di fronte un gruppo di nazioni con preponderate potere navale (Inghilterra, Francia, Italia, Grecia) e un gruppo di altre nazioni con preponderante potere continentale (Germania, Russia, Austria, Turchia), assegnando la vittoria a quello dei due contendenti che possiede il dominio del mare.
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Comandante X"", La guerrawd'E,.ropa (/921-1923), Genova, L.E.A.R. 1912.
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Il comandante xxx non dà gran peso alle chances del sommergibile e dell'aeroplano nella futura guerra del 1921-1923, assegnando ancora all'aeroplano prevalenti compiti di esplorazione e considerando la grande nave cannoniera protagonista come sempre della lotta sul mare; si sofferma inoltre sulla descrizione dei fattori sociali e dell'influenza che esercitano nel conflitto. Non vola troppo alto, non esagera, non impone una camicia di forza agli avvenimenti per piegarli a ciò che più gli aggrada; per questo nella recensione della Rivista Marittima si afferma che "per il suo intreccio la Guerra d'Europa è di difficile definizione. Certo essa non ha alcuna relazione coi precedenti romanzi del suo genere; gli esempi classici della letteratura navale internazionale non ci danno elementi per classificare questo immaginoso lavoro ....". 89 Lavoro che, senza dubbio, ha due aspetti realistici: una grande guerra nella quale l'Italia non è isolata ma combatte dalla parte delle grandi potenze marittime, vincitrici in quanto tali; in secondo luogo, una guerra nella quale la preminenza delle forze marittime viene dimostrata in modo diverso da quello da tutti gli altri precedenti, riuscendo in tal modo anche più convincente.
Il contrapposto punto di vista continentalista: l'esercito.forza decisiva e sempre vincente, che non deve essere diminuita Di fronte a dimostrazioni eclatanti e propagandistiche dei lutti, dei danni e delle rovine che provocherebbe all'Italia un attacco dal mare, e in particolare dell'impossibilità di fronteggiare sbarchi, l'esercito reagisce con altrettanto prevedibili tentativi di segno opposto, mirante a tre diversi obiettivi ugualmente propagandistici: a) l' insostituibilità delle forze terrestri per la difesa non solo dell'Italia continentale, ma anche della penisola e delle isole; b) la possibilità per l'esercito di riportare hic et nunc quelle vittorie decisive che la marina non sarebbe mai in grado di cogliere; c) la conseguente convenienza di non diminuire il bilancio dell'esercito a favore della marina. La reazione dell'esercito avviene fin dal primo momento, con la risposta ai Racconti del Guardiano da spiaggia, nello stesso anno 1872 e a cura della stessa casa editrice, significativamente intitolata La battaglia di Pinerolo. In risposta al Racconto del guardiano da spiaggia,9() ma senza autore. Va premesso che la Rivista Militare recensisce quasi favorevolmente, e quanto meno in modo ambiguo, il predetto Racconto, fino ad affermare, dopo averlo sommariamente descritto, che "il quadro è tracciato con arte di maestro; le tinte, come si vede, sono eccessivamente fosche, ma rispondono bene al concetto del/'autore e purtroppo potrebbero dare al quadro un aspetto ben somigliante al vero quando fosse giusto
In "Rivista Marittima" 19 11 - IV Trim. Fase. Xl, pp. 385-386. (Senza Autore), La bt11tag/ia di Pinerolo. In risposta al "Racconto del Guardiano da Spiaggia", Torino, Botta 1872. 89
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[ma è giusto? - N .d.a.] il severo apprezzamento che/a il marinaro del poco studio che a suo credere si pone da noi nell 'apparecchiarsi una forte marina e quando le sue tristi previsioni sulla nostra negligenza a metterci in buono stato di difesa e sugli attacchi che potrebbero venire d'oltr'Alpi, divenissero storia". 91 Ben diverso il tono della Battaglia di Pinerolo, nella quale non senza analoghe forzature l'epilogo è di segno opposto: dopo la sconfitta delle nostre forze navali e dopo una lunga e accanita lotta, appunto nella battaglia decisiva di Pinerolo l'esercito riporta una piena vittoria, mentre anche la Sicilia e la Sardegna sono vittoriosamente difese contro gli sbarchi ciascuna da un corpo d'armata tempestivamente inviato all'inizio delle ostilità. II significato degli avvenimenti è dunque chiaro: l'esercito, che negli scritti avveniristici di ispirazione navalista era ridotto dal punto di vista strategico a una quantité negligéable con un peso sugli avvenimenti del tutto marginale e accessorio, questa volta nonostante la sconfitta della marina basta da solo- così com'è-a decidere e a decidere in senso favorevole all'Italia la lotta, che ha la sua fase decisiva in campo terrestre e non in campo navale, mentre anche gli sbarchi possono essere validamente fronteggiati in campo terrestre. Se ne può dedurre che non c'è alcun vero bisogno di rajjòrzare la marina alterando a suo favore le proporzioni del bilancio fino a quel momento stabile, cioè l' esatto opposto di quel che sostengono i navalisti. Sia pure con notevole ritardo, nel suo ormai noto libro sul Pensiero navale moderno il de Amezaga contesta a sua volta in modo diretto ciò che La battaglia di Pinerolo vuol dimostrare, ribadendo gli argomenti-chiave del navalismo. Comincia con il contraddire il generale La Marmora, che in un suo opuscolo aveva criticato il Guardiano da spiaggia, perché mirava a far capire che "il Mediterraneo doveva essere un lago italiano, copiando così pessimamente il motto francese, secondo il quale il Mediterraneo doveva essere un lago francese". Obietta il de Amezaga - in verità in modo assai poco convincente - che "il Mediterraneo non è lago francese come non è lago italiano; i mari sono di tutti" [non è vero: un mare ristretto come il Mediterraneo può e deve essere dominato, oppure no?]. Egli riprende poi tutte le vecchie tesi implicite o esplicite del Guardiano da spiaggia con un paragone tra quest'ultimo e La battaglia di Pinerolo, che è efficace e persino obiettivo, visto che lascia trasparire bene gli opposti limiti e le reali differenze: la nostra flotta annientata, l'esercito nostro battuto, monco il nostro territorio, rovinata ogni nostra risorsa commerciale, perdute le nostre libertà, ecco la prima visione; nella seconda, l'esercito riporta splendida vittoria sul nemico invasore, dopo lunga e accanita lotta e dopo la sconfitta di 60 [nostre] navi, che tante un giorno saranno [... ].La.flotta adunque, checchéfaccia, checché tenti avrà sempre la peggio, secondo i nostri profeti, se non ché quella del
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1n "Rivista Militare Italiana" Anno XXVll Voi. li - maggio 1872, pp. 309-312.
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Guardiano è il risultato di una aberrazione per la quale il paese non avrà saputo in tempo scorgere i bisogni della difesa nazionale e meno ancora i bisogni dello sviluppo e della protezione dei suoi interessi commerciali; mentre la flotta dell 'antiveggente di Pinerolo non è che la logica conseguenza di un ben inteso ordinamento delle cose nostre, tra le quali si rilevano assieme ad un perfetto sistema di fortificazioni, salde e valevoli istituzioni militari terrestri. Nel concetto dello scrittore di Pinerolo la nostra marina militare rappresenta un coefficiente di forza atto ad abbreviare, e nulla di più, la durata della guerra difensiva d'indole mista; nel concetto invece dello scrittore di Dorking [cioè del Guardiano di spiaggia - N.d.a.], essa è la naturale custode dei nostri lidi, l'unico ostacolo contro cui potrebbero spezzarsi gli sforzi di un aggressore proveniente dal mare, toccando ali 'esercito, permanente o no, il nobile compito di guardare la frontiera a monte, dal Varo all'l~onzo [... ). Noi opiniamo che il nostro Guardiano avrebbe usato carità, lasciando al guerriero di Pinerolo almeno dal lato terra un briciolo di vittoria. 92 Per il resto, il de Amezaga riprende i vecchi cavalli da battaglia del navalismo, a cominciare da quelli che la mobilità delle truppe per mezzo di ferrovie e le batterie costiere mosse da ferrovie avrebbe "immenso valnre" che però sarebbe valore passeggero se la f1otta nemica fosse libera di fare scorriere lungo la costa, mentre l'esercito può offrire maggiore o minore resistenza, ma non può evitare la distruzione dei nostri porti e arsenali, o impedire che le nostre principali città siano bombardate o taglieggiate con la minaccia di bombardamento. La successiva Guerra del 190... in terra o in mare di Argus viene recensita senza particolare animosità dalla Rivista Militare, 93 ma duramente attaccata dalla Rivista di Fanteria, cioè dal suo direttore capitano Domenico Guerrini. 94 L'esordio del Guerrini è caustico: "di ben efficacemente dimostrato nel libro c'è questo solo: che in una guerra dell'Italia contro la Francia la flotta italiana sarebbe battuta da quella francese". Egli fa poi due osservazioni pienamente condivisibili: a questa guerra dell'egregio A= potrebbe essere domani appaiata un 'altra guerra del signor B= imperniala sopra una tesi diametralmente opposta: la flotta vincitrice, l'esercito battuto, i nemici a Torino, a Milano ... la patria perduta. E ciò dimostra come si abbia poi sempre torto di orientare tutte le nostre discussioni in materia, verso la stessa polare delle Alpi che si difendono dal mare, o verso la croce del Nord del mare che si domina dalle Alpi: la verità è che bisogna difendersi da una parte e dall'altra.
Come aveva già fatto in precedenza per il dominio del mare in generale, anche nel caso particolare della difesa marittima italiana il Guerrini si sforza
Carlo de Amezaga, li pensiero navale italiano,(cit.), pp. 108-111. In "Rivista Militare Italiana" Anno XLIV - Voi. l gen. 1899, pp. 130-136. 94 ln "Rivista di Fanteria" Anno VTI - 1898, CCCXLll, pp. 774-775 e CCCXUII, pp. 815-834. 92
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di dimostrare in tutti i modi che tale dominio non avrebbe, sulla difesa delle coste, i riflessi decisivi che Argus non è il solo a descrivere a fosche tinte. Sulla vexata quaestio delle ferrovie costiere - e in particolare della Pisa-Genova - che secondo i navalisti sarebbero distrutte con gravissime conseguenze da una flotta nemica preponderante, osserva che per distruggerle non serve una potente flotta, ma basterebbero alcuni uomini che collocano sulle rotaie ordigni esplosivi: quindi per avere la certezza che le ferrovie costiere non siano clistrutte non basta dominare il mare. La carenza del carbone proveniente dal mare, che secondo Argus impeclirebbe i trasporti di mobilitazione se fossero interrotti i rifornimenti dal mare, in realtà non si verificherebbe, e dopo la mobilitazione il consumo di carbone sarebbe limitato; in tutti i casi sarebbe pur sempre possibile importarlo dalla Germania e dall'Austria. Il dominio del mare da parte nostra non potrebbe impedire con sicurezza il bombardamento delle nostre città; perciò se venissero accolte le pressioni dei navalisti e l'opinione pubblica confidasse di conseguenza nella nostra forza sul mare, gli effetti morali del bombardamento delle città sarebbero ancor maggiori. Ne consegue che il ragionamento di Argus "abbiamo poche navi, dunque il nemico bombarderà Napoli'' è privo di fondamento. A proposito dell'altra vexata quaestio, gli sbarchi, le opinioni del Guerrini sono ben diverse da quelle della maggior parte degli autori navali (solo il dominio del mare, o almeno una forte flotta, consente di impedirli) e terrestri (le truppe nemiche destinate agli sbarchi, sempre che ci riescano perché essi sono difficili, possono più vantaggiosamente essere respinte dopo che sono sbarcate). A suo parere "non esiste un rapporto necessario tra il dominio del mare e il pericolo di sbarchi[ ... ]. In ogni caso poi quella delle due nazioni [contrapposte] che non esiterà a cimentare centomila uomini al mare e al nemico dovrà certissimamente avere non solo il dominio del mare ma anche una così grande e manifesta superiorità difòrze terrestri, che l'altra nazione, anche senza gli sbarchi, solo nelle operazioni terrestri sulla frontiera terrestre, ne sarebbe certo vinta, anzi schiacciata". Se, infatti , il nemico togliesse centomila uomini dal teatro delle operazioni delle Alpi per parecchi giorni, allo scopo di farli sbarcare nella penisola, per i francesi ci sarebbe il pericolo che trecentomila italiani rompessero il fronte delle Alpi per dilagare verso il Rodano. E se le cose per i francesi andassero bene, a maggior ragione non sarebbe conveniente per loro togliere forze dal teatro d' operazioni delle Alpi per tentare uno sbarco nella penisola [ragionamento capzioso; e se sulle Alpi vi fosse una stasi delle operazioni, se fossero molto superiori sulle Alpi o se semplicemente ritenessero più conveniente, a priori, fare massa non sulle Alpi, ma contro la penisola? - N.d.a.]. lnfme, anche l'andamento troppo favorevole delle operazioni offensive francesi per passare le Alpi o per impadronirsi della Sicilia per il Guerrini è criticabile e addomesticato, quando non inverosimile ... Alla fm fine il Guerrini si dichiara d'accordo con Argus sulla necessità di rinforzare la marina da guerra, ma ritiene che il suo metodo per dimostrare tale necessità sia mal scelto. Prima di tutto, se è fondamentale il concetto che
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senza i successi della flotta a nulla valgono i successi dell'esercito, proprio seguendo il suo metodo si può dimostrare facilmente il contrario, cioè che senza i successi dell'esercito a nulla valgono quelli della flotta_ In secondo luogo, non bisogna dire agli italiani "rafforzate la flotta se non volete che le vostre città marittime siano bombardate", ma bisogna invece dire loro che la nostra flotta ha bisogno di essere rinforzata per non essere battuta dalla flotta francese, anzi per poterla battere. Né, allo scopo di ottenere 20 milioni per fare una corazzata, bisogna illudere gli italiani che con tale spesa "le nostre coste saranno sicure e il nemico in pericolo...". Infine, a proposito dell'ipotetico, anzi immaginario deputato de Pellis, al quale Argus fa ancora esaltare il Duilio come un capolavoro dell'architettura navale italiana, il Guerrini esclama: è proprio tutta colpa di quel povero onorevole se molto gli è rimasto a mente del moltissimo che ha sentito dire e stradire al tempo dei tempi intorno alla gigantesca nave? O non qualche buona parte di colpa è da attribuire a coloro che, magari a fin di bene, troppo esaltarono il Duilio, illudendo così altrui che ormai col rinnovamento del materiale che è caratterizzato dalla fortunata costruzione del Duilio, la flotta italiana fosse nel secolo. se non nei secoli. ben gagliarda?
Anche se talune sue opinioni, e specie quelle sullo scarso peso del dominio del mare e sulla possibilità di sbarchi rispondono a una logica non meno zoppicante e partigiana di quella dei navalisti, non c'è dubbio che con l'articolo fin qui esaminato il Guerrini sa presentare efficacemente l'altra faccia della medaglia, non certo gradita da Argus che si risente delle critiche del Guenini e (non si sa se con una lettera o con un articolo) replica con dure parole, alle quali il Guerrini stesso risponde con un altro articolo sulla Rivista di Fanteria, ribadendo le sue idee.95 Si deve riconoscere che Argus ha ragione nel presentare la mobilitazione dell'esercito come macchinosa e piena di difficoltà, mentre il Guerrini ha torto quando ribadisce che il traffico ferroviario e quindi il consumo di carbone in caso di guerra sarebbero modesti; inoltre significativamente riconosce che le tesi riduttive sugli sbarchi sono i I punto più debole del suo precedente articolo. Con la solita vis polemica, anzi con vis polemica maggiore del solito, il Guerrini brevemente stronca anche L'assedio di Roma nella guerra del 19... del Moderni,96 con male parole fin dall'inizio: "è male che questo mal inspirato libro sia stato scritto: perciò sarebbe opportuno farne giusto giudicio tacendone, perché più presto se ne perdesse la memoria. Ma poiché il silenzio potrebbe parere acquiescienza, così invece ne parliamo; brevemente però, e le parole nostre, pur poche, saranno sempre più che l'operetta non meriti''_ Dopo di che accusa il Moderni d'incompetenza militare, portandone le prove e
., In terra e in mare, in "Rivista di Fanteria" Anno VII I - 1899, CCLXV, pp. 330-341. "'· Tn "Rivista di Fanteria" Anno IX - 1900, pp. 285-287.
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definendo la sua concezione strategica "un incredibile monumento di ingenua visione della guerra". Poi ironizza sui 30 giorni che impiegherebbero 300.000 uomini per trasferirsi da Pistoia a Roma senza poter servirsi della ferrovia, sottolinea la manìa del Moderni di far credere che tutto dalla parte italiana va male e tutto dalla parte francese va bene, e infine manifesta ribrezzo e disapprovazione per certe sue affermazioni sulle condizioni morali del popolo italiano durante la guerra ("gli emigranti partono bestemmiando la Patria"; il popolo italiano non è educato da nessuno ad amare la Patria; in Italia si accendono fuochi d'artificio per festeggiare lo sbarco francese; ovunque dopo Adua si grida "viva Menelich", ecc.). Nel 1901 compaiono - con ogni probabilità, non casualmente - due libri che disegnano un quadro operativo opposto a quello dei libri coevi di Argus e del Moderni: La prima guerra in Italia nel secolo XX - un colpo di mano sulla Sicilia nell'anno... del capitano Eugenio Massa e La guerra italo-francese del 19... di Giambattista Cosimo Moraglia,97 come La battaglia di Pinerolo di trent'anni prima ambedue concordi nel disegnare la vittoria italiana in una guerra contro la Francia per merito pressoché esclusivo dell'esercito, che ha alle spalle un governo efficiente e un popolo concorde, attivo e disciplinato. Va subito riconosciuta al Massa una certa qual preveggenza quando prevede un fu-
turo conflitto europeo nel quale funge da innesco la morte dell'Imperatore d'Austria, che lascia campo libero all'insurrezione delle varie nazionalità dell'Impero pronte a gettarsi l'una contro l'altra, con l'intervento della Russia e dell ' Inghilterra che vogliono raccogliere l'eredità dell ' Austria e della Turchia, mentre anche la Germania e la Francia mobilitano. L' Italia è sempre alleata della Germania e dell'Austria, ma la Francia pur essendo superiore rinuncia a condurre contro di essa una guerra a fondo, perché in un secondo tempo potrebbe diventare sua alleata, fungendo da barriera all'avanzata russa verso Ovest. Pertanto il piano di guerra francese prevede di "eliminare l 'Italia per so/a forza di manovra", e a tal fine "con un ardito colpo di mano, utilizzando le truppe di Tunisia e di Algeria.fare uno sbarco di 30 mila uomini sulle coste della Sicilia, impadronirsi dell'isola, e colla minaccia di una avanzata in terra ferma e con una potente dimostrazione navale, costringerla ad una neutralità forzata, bloccando la flotta". Però secondo il Massa l' Italia era in condizioni opposte a quelle - tragiche e turbolente - immaginate sia da Argus che dal Moderni nello stesso periodo: con provvide riforme un illuminato governo aveva sanato i principali problemi economico-sociali, cementando l'unità tra governo, Parlamento e nazione. Anche le Forze Armate erano state migliorate: per la marina erano state costruite 5 corazzate di nuovo tipo con dislocamento di 12.000 tonnellate, 6 torpediniere d 'alto mare, torpediniere e sommergibili, navi a vapore veloci da trasporto, ed era stata previ-
91 Eugenio Massa, Un colpo di mano sulla Sicilia nell'anno ... , Trani, Vecchi 190 e Gianbattista Cosimo Mornglio, La guerra italo - francese del 19 ... , Perugia, G. Domini 1901.
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sta anche una riserva di carbone superiore a un milione di tonnellate. L'esercito era pronto a mobilitare quattro armate su 12 corpi d'armata e 3 divisioni di cavalleria, più 12 divisioni di milizia mobile e reparti di truppe scelte e speciali, con adozione del reclutamento territoriale, ferma di un anno per le Armi di linea e miglioramento dell'artiglieria; perciò "non più discusso, non più chiamato a sedare rivolte, impedire tumulti, lasciato ai suoi studi, alle sue istruzioni tecniche[ ... ] aveva raggiunto a poco a poco un alto grado di perfezionamento". Siamo nel campo dei sogni ... Quel che più importa, secondo il Massa il governo non era stata affatto sorpreso dallo scoppio della guerra e si attendeva anche uno sbarco francese; così l'esercito aveva avuto il tempo di affiuire alle frontiere e la nostra flotta, divisa in due squadre, incrociava verso La Spezia e La Maddalena per proteggere le coste tirreniche, mentre invece la Sicilia "rimaneva in balìa delle sue forze facendo assegnamento sugli arruolamenti volontari che saranno certo numerosissimt', dato l'antico odio dei siciliani contro i francesi e il loro indomito amore per la terra natìa. Intanto l'occhio dei nostri uomini di Stato si volgeva a Trento e a Trieste, ''preparati ad accogliere nel seno della madre Patria le patriottiche province che, spontaneamente, venivano a riunirsi al resto della penisola" [altro sogno - N.d.a.]. Quando si tratta di descrivere le operazioni di attacco alla Sicilia il Massa salta a piè pari gli argomenti fino a quel momento più dibattuti; con il solito quadro ottimistico: la Sicilia e la Sardegna sono state messe senz' altro in condizione di resistere a un attacco improvviso, Palermo è dotata di opere di fortificazione sia pure aventi il limitato scopo di mitigare le conseguenze di un bombardamento, e la difesa terrestre della Sicilia è affidata a un intero corpo d'armata. Soprattutto v'è da osservare che la flotta francese - forte di 40 corazzate, 17 incrociatori corazzati, 57 incrociatori minori ecc. - anche se blocca la nostra flotta a La Maddalena non è affatto concentrata nel Mediterraneo, visto che il corpo di spedizione contro la Sicilia - caricato su 29 piroscafi chissà perché è scartato solo da 4 corazzate, 8 incrociatori, 13 cacciatorpediniere e 9 torpediniere: nessun tentativo francese, quindi, di assicurarsi preventivamente il completo dominio del mare. Con queste premesse le operazioni francesi seguono un percorso obbligato: lo sbarco avviene nel Golfo di Castellamare, per tagliare le comunicazioni tra Palermo e Trapani; la sorpresa non viene realizzata, perché la compagnia francese che prende terra a Castellamare nella notte viene subito assalita da truppe costiere, carabinieri, guardia di finanza e cittadini armati, e costretta a ritirarsi verso il molo del porto. La flotta francese dopo lo sbarco bombarda e incendia Palermo, ma riporta gravi danni per opera delle batterie costiere; anche il convoglio viene danneggiato da torpediniere italiane, mentre le truppe sbarcate, che tentano di penetrare verso l'interno, incontrano forte resistenza anche da parte delle popolazioni ribelli e non riescono più a proseguire. L'ammiraglio francese teme anche che le forze navali italiane dislocate a Napoli, Taranto e Gaeta, non ancora intervenute, attendano a Messina l'arrivo da Venezia della corazzata Saint Bon e deirincro-
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ciatore Francesco Ferrucci, per attaccare le navi francesi con maggiori probabilità di successo; pertanto di comune accordo con il comandante terrestre decide il reimbarco, non senza aver distrutto Castel Iamare e bombardato con gravi danni i paesi costieri circostanti; Palermo invece subisce danni relativamente limitati. La Rivista Militare non dedica alcuna attenzione al libro del Massa, che invece viene recensito ad abundantiam sulla Rivista Marittima da un navalista assai noto come Cristoforo Manfredi, dal quale non ci si può certo aspettare un approccio benevolo, benché appartenga all'esercito. 98 Dopo alcune critiche a come secondo il Massa in sede politica francese e italiana viene discusso rispettivamente il progetto di attacco e quello di difesa della Sicilia, il Manfredi trova poco credibile e più che temeraria la decisione francese di invadere la Sicilia con soli 30.000 uomini, "mentre ivi è un corpo d'armata e le milizie locali; mentre lo stretto di Messina è in mano ali 'Italia che, non attaccata altrove, può versare nel/ 'isola quante truppe vuole"; lo stesso non si potrebbe dire, a suo parere, se avvenissero sbarchi su larga scala dopo aver eliminato la nostra flotta, oppure se i francesi avessero deciso il blocco delle nostre coste, senza sbarcare. Egli osserva poi che la flotta francese non viene mai attaccata, né nel viaggio da Biserta alle coste siciliane, né dopo il reimbarco del corpo di spedizione, ponendo il seguente interrogativo: "si è forse voluto provare che gli sbarcati si rigeliano in mare dal 'esercito e dal popolo senza bisogno d'altro, e che perciò non occorrono né fortifìcazioni né flotta?". Se è cosl, ciò "proverebbe solo l'insensantezza di chi eseguisse uno sbarco, con quelle forze e in quelle condizioni''. Il Manfredi, infine, trova superfluo inserire in una grande cornice europea un "quadretto" che si riduce allo schizzo di una manovra a divisioni contrapposte, anche se "il d[fetto vero del libro è constare di parti non proporzionate, non collegate fra loro, non concorrenti a una conclusione importante". Lo stesso cliché dei precedenti libri continentalisti (la marina quantité négligeable; le forze terrestri protagoniste, che respingono l'invasione dalle Alpi e dal mare) si trova nella citata opera del Moraglia, che intende "o_ffrire una volta almeno al lettore la visione di un 'Italia grande e vittoriosa", senza pretendere "neppur lontanamente" di essere opera di strategia. Perciò anche il Moraglia descrive una situazione politico-sociale interna tranquilla e un governo illuminato e lungimirante, con le vicende dello scontro militare più addomesticate che mai: la flotta francese, molto superiore si limita a bloccare la nostra nel porto della Spezia; l'esercito francese non riesce a forzare i passi alpini e si ritira; giunto alla porta della riviera ligure di ponente non si sa perché si arresta; sbarcato in Sicilia, anche se l' isola non è difesa da contingenti del nostro esercito viene ugualmente respinto dagli stessi abitanti, ccc.
•• In "Rivista Marittima" 1901, l Trim. Fa,c. fl, pp. 187- 191.
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Anche questo libro, non recensito dalla Rivista Militare, viene stroncato sulla Rivista Marittima da un altro noto navalista, il comandante Roncagli. 99 A parte le facili critiche ai suoi contenuti ("è tutto un sogno", ecc.), la recensione del Roncagli è importante, perché sa ben rimarcare le caratteristiche negative dell'intero genere letterario, senza escludere la produzione pro-marina che viene dopo Il racconto del guardiano da spiaggia e La guerra del 1900...., 1e uniche due opere da lui apprezzate, dopo le quali abbiamo tale una rifinitura di scritti del genere, che non so se vi sia proprio da compiacersene. Sono sempre, su per giù, variazioni sullo stesso tema, quale più quale meno riuscita, ma sempre tale; ma in sostanza si tratta [...] sempre di quella Storia dell'avvenire[ ...], eh 'io non so ben comprendere a chi ed a che cosa serva[ ...]. No, non è questa una letteratura che valga, anche poco, insegnamento; e quando il libro non è istruttivo, come non sono tutte le Guerre immaginarie, scritte da Argus in quà; quando non è educativo, come non lo sono né "l'Assedio di Roma ecc." del Moderni, né "La prima guerra in Italia nel secolo XX" del Massa, né questa "Guerra italo-francese..." del Morag/ia; quando jìnalmente non commuove né diverte, allora diventa inutile ed è meglio non farln.
Non si potrebbe meglio inquadrare questo tipo di 1etteratura, del quale si può dire che sono ugualmente inattendibili e fantasiose le argomentazioni dei due campi opposti, il cui valore è pertanto modesto. Esse sono comunq uc espressione del clima, del costume dell ' epoca e delle contrapposte esigenze- di per sè legittime - delle due Forze Armate, esigenze che vanno studiate una volta tanto per smentire taluni giudizi troppo positivi che si trovano qualche volta anche in tempi recenti.
Conclusione Posto che il pensiero dominante è quello dei navalisti, non è possibile stabilire chi ha ragione o chi ha torto nel dibattito fin qui esaminato, sia perché come già detto - l' improvvisa alleanza dell'Italia con la Francia - il nemico di sempre - proprio alla vigilia della nostra entrata in guerra nel 1915 vanifica tutta una serie di considerazioni strategiche e impedisce il collaudo di qualsivoglia soluzione indicata, sia perché la posizione geostrategica dell 'Italia sarebbe indiscutibilmente tale da costringerla ad avere oltre un forte esercito una forte marina, e questo vale anche dall'entrata in guerra in poi; ma a tale obiettivo si oppongono le ben note carenze finanziarie. Detto questo, c'è poco da aggiungere a quanto giustamente osserva i I Guerrini a proposito delle c.d. "Storie dell 'avvenire", che cioè le argomentazioni
"' In '"Rivista Marittima" 190 I, TT Trim. Fase. ll1, pp. 624-624.
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geostrategicamente usate dai navalisti molte volte potrebbero valere in senso contrario, per giustificare le tesi dei continentalisti. Chi avrebbe potuto stabilire con sicurezza dove e come le Forze Armate francesi avrebbero esercitato lo sforzo principale, il valore impeditivo intrinseco delle Alpi Occidentali, ecc.? Resta da osservare, in proposito, che le contrapposte "Storie dell'avvenire" o "Guerre ipotetiche" non sono che l'esasperazione di concetti, di tesi già presenti nel dibattito, e indirettamente non fanno che sottolinearne la mancanza di basi di partenza solide e quindi incontestabili. Specie ma non solo in campo marittimo, volere e potere non sono mai andati d'accordo: un primo e fondamentale limite degli scritti esaminati è perciò la troppa frequenza assenza di valutazioni finanziarie e di bilancio, che toglie ogni base attendibile a pur brillanti speculazioni teoriche. Un secondo limite comune è la mancata valutazione dei riflessi dell'inserimento dell'Italia nelle alleanze, assai importanti e prevedibili se si considera la nostra irrimediabile inferiorità terrestre e navale rispetto alla Francia, e la nostra altrettanto irrimediabile inferiorità terrestre rispetto all'Austria-Ungheria e alla Germania. Evidentemente in caso di conflitto tra la Triplice Alleanza alla quale apparteneva l'Italia, e l'Intesa alla quale apparteneva la Francia, l'esercito francese avrebbe presumibilmente fatto massa non contro l'Italia ma sul confine di Nord-Est, come poi è avvenuto nel 1940; ma ciò non significa che il nostro esercito avrebbe trovato porte aperte in un'eventuale offensiva sulle Alpi occidentali (potentemente fortificate dalla Francia), mcntTc la flotta francese, superiore alla nostra, avrebbe certamente fatto sentire il suo peso nel Mediterraneo, visto anche che la pretesa dei navalisti di rendere la nostra pari o superiore ad essa non era decisamente realistica. Un secondo limite comune è la mancata considerazione dell'importanza del traffico marittimo per l'Italia, alla quale fanno eccezione il solo Manfredi e pochi altri. Tale traffico si è rivelato importante soprattutto per la guerra terrestre, che smentendo tutti i pronostici - anche degli scrittori navali - si è rivelata molto lunga e di logoramento, con gravi difficoltà per un' industria povera di materie prime e poco sviluppata. Per il resto, è un fatto che gli eventi della futura guerra hanno smentito sia i fautori della guerra terrestre rapida e decisiva, sia i fautori della guerra di squadra e delle grandi navi. È indubbio che per la scorta ai preziosi convogli, per la lotta contro i sommergibili, per la guerra in Adriatico sarebbe servito più delle corazzate quel naviglio leggero, che il Bonamico, il Sechi e pochi altri (escluso - ma fino all'inizio della guerra - il Bemotti) avevano ritenuto specie per l'Italia più importante delle corazzate. Si deve perciò constatare che, con la ben nota propensione per la Dreadnought seguendo le orme delle grandi marine, assai più di queste la nostra marina è stata paralizzata dalla mancata osservanza del principio enunciato dal Bernotti e riportato all'inizio del capitolo: che cioè nella sua strategia e nella sua organizzazione una marina deve tener conto anzitutto delle peculiarità nazionali, seguendo con molta circospezione i modelli altrui. Si deve anche im-
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putare a gran parte degli autori fin qui esaminati il mancato studio delle modalità di una possibile guerra con l'Austria, dalla quale deriva la mancata predisposizione di un 'idonea base in Adriatico. È invece un elemento molto positivo il frequente richiamo all'importanza di una correlazione terrestre - marittima, mai realizzata nelle due guerre mondiali nonostante le prese di posizione del Bonamico, del Sechi e del Bernotti. Per tutte queste ragioni, lo studio della politica navale e delle strategie nel periodo considerato è un salutare richiamo al realismo, alla differenza tra volere e potere, a ciò dovrebbe essere fatto e a ciò che invece può essere fatto, a non trascurare le possibilità economiche, industriali e finanziarie ma anzi a metterle alla base di qualsivoglia studio di politica e strategia. Con un siffatto approccio, tale studio si riassume in una semplice anche se amara constatazione: né in campo marittimo, né in campo terrestre l'Italia poteva aspirare a un ruolo paritario rispetto a quello delle grandi potenze, e questo fatto avrebbe dovuto ispirare la sua politica e strategia_
CAPITOLO VIII
PRO E CONTRO LE ARTIGLIERIE E NAVI COLOSSALI: GLIATTACCHIDELSAINTBON, DELBRIN E DEL GENERALE RICOTTI AL MINISTRO ACTON E LA TEMPORANEA MEZZA VITTORIA (O MEZZA SCONFITTA) DEL MINISTRO (1872-1883)
lo sostengo, dice le Marquis de Chasseloup, che anche la soluzione difettosa di un problema non va rigettata fino a che un 'altra se ne abbia meno difettosa di quella. Ad arte dico meno difettosa e non migliore, perché tanto una caldaia marina quanto una nave non sono che un compromesso: la miglior caldaia, o la miglior nave è quella che ha il minor numero di difetti. G. MARTORELLI (Rivista Marittima 1901)
"È certo che tutte le difficoltà possono essere vinte e che la guerra sottomarina sarà un giorno poco più pericolosa e disaggradevole che quella alla superficie del mare. ma questo g iorno non è ancora venuto. Ora i battelli sottomarini non sono che macchine imperfette e saranno probabilmente, ancora per diversi anni, presi in considerazione piuttosto per l 'influenza morale che eserciteranno, che per le loro reali qualità guerresche". C.A. (Carlo de Amezaga?),"Rivista Marittima 1899
"li popolo italiano ha intrapreso un compito troppo grave per le sue finanze volendo ad un tempo aver un grande esercito continentale ed una poderosa armata [navale]". SIR CH. W. DILKE,"CASSIERS MAGAZINE" 1897
" fl fatto che una Marina abbia più o meno corazzate, più o meno incrociatori di un 'altra, interessa fino a un certo punto; una Marina deve essere ernminata in relazione ai probabili awersari, ai teatri di guerra in cui dovrà combattere, al sistema di condotta delle operazioni ecc.". TEN .VASC. ROMEO BERNOTTI (1908)
Premessa
Trattando di tattica, di strategia, di limiti di bilancio, di raccordo esercitomarina ecc. non abbiamo potuto fare a meno di toccare anche i problemi delle costruzioni navali in Italia, non senza accenni alle caratteristiche ottimali del
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naviglio corrispondente a determinate esigenze tattiche e strategiche nazionali, e/o a pregi, difetti, prospettive di sviluppo futuro di determinati sistemi d'arma, a cominciare dalle artiglierie. Rimane da condurre un esame organico e approfondito dei principali orientamenti - ufficiali c non - che emergono dal dibattito, tenendo ben presente che l'argomento, assai complesso, non può certo esaurirsi - come spesso è accaduto e accade - in generiche lodi ai consueti grandi nomi (Saint Bon e Brin), accompagnate da affrettati, troppo sommari e magari poco favorevoli giudizi sulle contrapposte teorie dell'ammiraglio Ferdinando Acton. Insomma: chi legge le varie storie deve constatare che - sia pur con alcune rilevanti eccezioni (Bonamico, Sechi) - per la massima parte degli autori e per marine povere come quella italiana, come avviene per le grandi marine (molto più ricche) nonostante il crescente pericolo del siluro il "grande" è sempre e in ogni caso più bello, mentre il ''piccolo" corrisponde sempre e in ogni caso a una non-strategia, a una strategia contro natura. Così la grande nave cannoniera è rimasta fino al 1939-1945 un'autentica unità di misura che - come più tardi i missili nucleari - serviva a definire la valenza di una marina, e persino la posizione internazionale di uno Stato. Va subito sottolineato che il dibattito riguarda principalmente la costruzione delle corazzate, ha inizio con l'impostazione del Duilio e Dandolo (gennaioaprile 1873) decisa dall'ammiraglio Riboty (Ministro dal 3 I agosto 1871 al I' 11 luglio 1873) e incontra la fase più acuta con la permanenza al Ministero dell'ammiraglio Acton (fine 1879-fine 1883), per poi diminuire gradualmente di intensità fino all'avvento della Dreadnought (] 905-1906). La materia del contendere non riguarda tanto la necessità o meno di costruire corazzate (che, come si è visto, sono combattute a fondo solo in Francia, dalla coevaJeune École navale perdente a fine secolo XIX), ma i criteri con i quali costruirle, le loro dimensioni e il grado di priorità da assegnare al loro numero rispetto alla qualità, o viceversa. Più nel concreto e nel dettaglio, si trovano notoriamente di fronte - e dividono la marina italiana - le concezioni costruttive dei Ministri Saint Bon e Brin, favorevoli ai cannoni giganti e quindi alle navi colossali, 1 e quelle del Ministro FerdinandoActon, favorevole a calibri inferiori e a dislocamenti più moderati, senza però mettere in discussione la guerra di squadra e il ruolo delle corazzate, come al tempo fa il solo Bonamico, con pochissimi seguaci. Chi vince? È questo uno degli argomenti, anzi il principale argomento, che verrà esaminato; per il momento ci limitiamo a dire che non vi è né vi può essere un vincitore assoluto, anche per la solita, semplice ragione che il periodo fino alla guerra 1914-1918 non fornirà ragioni convincenti pro o contro una
1 Cfr. soprattutto, in merito, Ezio Ferrante, li potere marittimo - evoluzione ideologica in Italia (1861-1939), Supplemento alla "Rivista Marittima" o. l O- ottobre 1982; ID., Benedetto Brine la questione marittima illlliana (1866-1898), Supplemento alla "Rivista Marittima" n. Il - novembre 1983; Mariano Gabriele, Benedetto Brin, Roma, Ufficio Storico Marina Militare 1998; ID., Ferdinando Acton, Roma, Ufficio Storico Marina Militare 2000; ID., Simone Pacoret di Saint Bon, Roma, Ufficio Storico Marina Militare 2002.
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PRO E CONTRO LE ARTIGLIERIE E NAVI COLOSSALI: GLI ATIACCHI DEL SA!NT BON
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delle soluzioni. Sarà comunque nostra cura inquadrare meglio il problema di base, attraverso un'analisi più approfondita di quattro argomenti finora affrontati in modo incompleto - e magari fuorviante - dalla critica storica: - quali sono, più nel dettaglio, le contrapposte ragioni dei sostenitori delle navi giganti e delle navi di dislocamento moderato, anche all'estero; - in quale misura le costruzioni navali italiane rispecchiano l'uno o l'altro dei due orientamenti; - come e perché il Ministro Acton accetta di impostare verso la fine della sua gestione navi corazzate (i tipi Andrea Doria e Ruggiero di Lauria) che al la loro entrata in servizio risultano decisamente lontane dalle caratteristiche delle corazzate di dislocamento moderato da lui inizialmente sostenute, e si avvicinano piuttosto al Duilio e alla formula delle navi colossali sostenute dal Saint Bon e dal Brio; - come viene valutato (dal MinistroActon e dai suoi avversari) il continuo progresso del siluro, delle mine e della "nave portasi/uri". 2 Il presente capitolo esamina perciò i lunghi strascichi polemici dell'impostazione e dell'allestimento delle 4 navi colossali (Duilio, Dandolo, Italia e Lepanto) e il dibattito che precede l'impostazione dei successivi tipi Andrea Doria, Ruggiero di Lauria, Francesco Morosini. Come e perché nel 1881 si arriva all'impostazione di queste navi di caratteristiche ben diverse da quelle inizialmente ritenute necessarie e possibili dal Ministro Acton, e che cosa avviene tino alle dimissioni di quest'ultimo, sarà materia di un prossimo capitolo.
SEZIONE I - Cenni preliminari sull'evoluzione delle principali caratteristiche delle corazzate italiane e straniere t1no alla grande guerra
Con la sola eccezione dellaJeune École Navale francese (le cui teorie non hanno alcun successo, nemmeno in Francia), nessuna marina accantona la guerra di squadra: di qui l'importanza fondamentale della nave che è l' indiscusso perno di tale guerra, cioè della corazzata. Importanza vieppiù accresciuta dalla marginalità - già tipica del periodo della vela - del naviglio minore, marginalità che per il momento i progressi del siluro e del sommergibile riescono a scalfire, ma non a rendere anacronistica. Nasce da questo contesto la necessità preliminare di prendere in esame i principali dati che caratterizzano l'evoluzione delle corazzate italiane e stra-
2 Preziosa, in merito, l'opern del comandante della U.S. Navy Bames On submarine warfare defensive and offe nsive, basata sull'esperienza della guerra di secessione americana 1861-1865 e tradotta in estratto con il titolo "le torpedini e la guerra marittima" sulla "Rivista Marittima" IJ Trimestre 187 1, Fase. VT pp. 562-605.
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niere, con uno studio fin che possibile comparativo che ne faccia emergere analogie e differenze, naturalmente a cominciare dalle corazzate italiane. 3 Il Duilio (impostato nell'aprile 1873 e entrato in servizio il 6 gennaio 1880) ha 4 cannoni da 450 mm (100 t ad avancarica, manovra idraulica), più 3 cannoni da 120 mm e numerose artiglierie minori con 3 lanciasiluri e sperone, dislocamento 12.000 t, velocità 15 nodi, autonomia 3700 mg, protezione verticale 55-43 cm ed orizzontale 3-5 cm, immersione 9,8 m. In relazione al rapido progresso delle artiglierie, nel 1894-1896 i cannoni da 450 mm della gemella Dandolo (ma, forse per ragioni economiche, non quelli del Duilio) furono significativamente sostituiti con altri da 254 mm e i cannoni da 120 mm con altri da 152 mm a tiro rapido. Le artiglierie maggiori (che potevano essere caricate in una sola posizione), l'apparato motore e le corazze furono acquistate in Inghilterra, perché l'industria nazionale non era ancora in grado di costruirle. L'Italia (impostata nel luglio 1876 ed entrata in servizio nell'ottobre 1885) ha 4 cannoni da 431 mm (100 t a retrocarica e manovra idraulica) più 8 cannoni da 152 mm, 12 mitragliere e nessun lanciasiluri, dislocamento circa 16000 t, velocità 17 nodi, autonomia circa 17000 miglia, protezione verticale (solo barbette dei cannoni) 4,80 cm, protezione orizzontale 76 mm, struttura dello scafo cellulare, immersione 9,60 m. Unità della stessa classe: 1 (Lepanto). Le artiglierie maggiori (caricabili in posizione unica), le corazze e l'apparato motore furono acquistati in Inghilterra. La Ruggero di Lauria (impostata il 3 agosto 1881 e entrata in servizio nel luglio 1891) ha 4 cannoni da 431 mm (I 00 t) a retrocarica e manovra idraulica, più numeroso armamento secondario (2 cn. da 152 mm; 4 cn. da 120 mm; 2 cn. da 75 mm; 1Ocn. da 57 mm; 17 cn. da 37 mm; 5 lanciasiluri), dislocamento 12000 t, velocità 16 nodi, autonomia 4500 mg a I Onodi, protezione verticale 45 cm, protezione orizzontale 7,5 cm, immersione 8,70 m. L'Andrea Daria è l'ultima unità con corazze almeno in parte fabbricate all'estero; da allora in poi le predette corazze furono fabbricate dalla Società Temi, la cui nascita è stata incoraggiata da Benedetto Brin. Unità della stessa classe: 2 (Francesco Morosini, impostata anch'essa il 3 agosto] 881, e Andrea Daria, impostata il 7 gennaio 1882). La Sardegna (impostata nell'ottobre 1885 ed entrata in servizio nel febbraio 1895), ha 4 cannoni da 343 mm in torri binate a retrocarica, con caricamento in qualsiasi angolo di bmndeggio e manovra idraulica, più 8 cannoni da 152 mm, 16 cannoni da 120 mm e numeroso altro armamento minore con 5 lanciasiluri e sperone, dislocamento 15600 t, velocità 20 nodi, autonomia 6000
3 Per i dati che seguono ci siamo riferiti principalmente a: Gino Galuppini, Guida alle corazzate dalle origini a oggi, Milano, Mon<ladori 197R; ID., Guida alle navi d'Italia dal ll/61 a oggi, Milano, Mondadori 1882; Francesco Vittorio Arminjon, Corazzate e torpediniere - esame di un veterano sul criterio degli autori antichi. Genova, Tipografia Istituto Sordomuti I RR8; Giuliano Colliva, Uomini e navi, Milano. Dramante 1971 , pp. 4 1-91.
VIII - PRO E CONTRO LE ARTIGLIERIE E NAVI COLOSSALI: GLI AJTACCHI DEL SAINT BON
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mg, protezione verticale (cintura) 100 mm, protezione orizzontale (ponte corazzato) 100 mm, immersione 9 m, macchine costruite in Italia dallaHawthornGruppy di Napoli. Unità della stessa classe: 2 (Re Umberto e Sicilia). La Saint Bon (impostata nel luglio 1894 e entrata in servizio nel febbraio 1901) ha 4 cannoni da 254 mm, 8 cannoni da 152 mm, 8 da 120 mm e altro armamento minore di cui 4 lanciasiluri e sperone, dislocamento circa 10000 t, velocità 18 nodi, autonomia 7000 mg a 10 nodi, protezione verticale 150-250 mm, protezione orizzontale 8 cm, immersione 7,5 m. Unità della stessa classe: 1 (Emanuele Filiberto). La Benedetto Brin (progettata da Benedetto Brin; impostata nel gennaio 1899 subito dopo la sua morte, ed entrata in servizio nel settembre 1905) ha 4 cannoni da 305 mm, 4 da 203 mm e altro armamento secondario con 4 lanciasiluri e sperone, dislocamento 14500 t, velocità 20 nodi, autonomia 10000 mg, protezione verticale 150 mm, protezione orizzontale 80 mm. Unità della stessa classe: la Regina Margherita (da notare che anche lo stesso Brin, ardente fautore delle artiglierie colossali, a fine secolo XIX è passato al 305 mm). La Vittorio Emanuele (ultima pre-dreadnought impostata nel settembre 1901 e entrata in servizio nel gennaio 1908) ha 2 cannoni da 305 mm, 12 cannoni da 203 mm. e altro armamento secondario (16 cannoni da 76 mm e 10 da 47 mm, più 2 lanciasiluri e sperone), dislocamento 14000 t, velocità 21 nodi, autonomia 11000 mg a 1O nodi, protezione verticale 250 mm, protezione orizzontale 50 mm, immersione 8,60 m. Unità della stessa classe: 3 (Regina Elena, Napoli, Roma). La Dante Alighieri (prima Dreadnought italiana, impostata nel giugno 1909 e entrata in servizio nel gennaio 1913) ha 12 cannoni da 305 mm più forte armamento secondario (20 cannoni da 120 mm, 16 da 76 mm, 2 da 40 mm, 3 lanciasiluri e sperone), dislocamento 22000 t, velocità 23 nodi, autonomia 5000 mg a 10 nodi, protezione verticale 25 cm e protezione orizzontale 5 cm, immersione 9,40 m .. Nessuna unità della stessa classe. La Giulio Cesare (Dreadnought con qualche modifica rispetto alla precedente, impostata nel giugno 1910 e entrata in servizio nel maggio 1914) ha 13 cannoni da 305 mm, 18 cannoni da 120 mm, 19 cannoni da 76 mm di cui 6 antiaerei più 3 lanciasiluri, dislocamento 25000 t, velocità 21,5 nodi, autonomia 4800 mg a 1O nodi, protezione verticale 2,50 cm, protezione orizzontale 2,4-4 cm, immersione 9,40 m .. È la prima unità a non essere armata di sperone e a essere dotata anche di artiglierie contraeree. Unità della stessa classe: 4 (Leonardo da Vinci, entrato in servizio nel maggio 1914; Conte di Cavour, entrato in servizio nell'aprile 1915; Caio Duilio, entrato in servizio nel maggio 1915; Andrea Daria, entrato in servizio nel marzo 1916). Tutte queste unità, costruite per quasi mezzo secolo, non hanno mai potuto confrontarsi in combattimento con il nemico: ciò rende interessante, se non inevitabile, un confronto con le principali unità similari straniere, costruite più o meno nello stesso periodo. È sufficiente limitare l'esame alla flotta inglese (marittimamente ritenuta all'avanguardia nelle costruzioni navali, anche se il
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suo ruolo strategico è ben diverso - ed estremamente più vasto - rispetto a quella italiana), alla flotta francese (il più probabile nemico) e alla flotta austriaca (il nemico dell'ultima ora, nell'Adriatico). INGIDLTERRA • Corazzate coeve al Duilio: - Alexandra (a vela e motore; impostazione 1872, servizio 1876), con 2 cn. da 305 mm e l Oda 254 mm con sperone, dislocamento 9500 t, velocità 15 nodi, immersione 8 m; - 3 Unità classe Dreadnought (la prima corazzata inglese senza vele; impostazione novembre 1869, servizio agosto 1872), con 4 cn. da 305 mm, 6 cn. Nordenfeldt, 2 lanciasiluri e sperone, dislocamento 9300 t, velocità 14 nodi, immersione 8,7 m; - Temeraire (a vela e motore; impostazione 1874, servizio 1877), con 4 cn. da 305 mm più 4 cn. da 254 mm e l lanciasiluri, dislocamento 8400 t, velocità 15 nodi, immersione 8,15 m ; - Jnflexible (a vela e motore - vele eliminate dopo 4 anni; impostazione febbraio 1874, servizio 1880), con 4 cn. da 406 mm e sperone, dislocamento 11400 t, velocità 14,7 nodi, immersione 7,50 m. Considerato il principale competitore del Duilio. • Corazzate coeve al l'Italia e al Ruggiero di Lauria: - 2 Unità classe Colossus (impostazione luglio 1879, servizio 1886), con 4 cn. da 305 mm a retrocarica, 4 cn. da 152 mm e 2 lanciasiluri con sperone, dislocamento 9100 t, velocità 14 nodi, immersione 7,85 m; - 6 Unità classe Collingwood (impostazione luglio 1880, servizio agosto 1887), con 4 cn. da 305 mm a retrocarica e celerità di tiro l colpo/3-4 minuti, 6 cn. da 152 mm, 12 cn. da 57 mm, 8 cn. da 4 7 mm, 4 lanciasiluri e sperone, dislocamento 9600 t, velocità 15 nodi, immersione 7,90 m, autonomia 7000 mg, protezione 45,6 m; • Classi di corazzate coeve alla Sardegna (1885-1895): - 7 Unità classe Royal Sovereign (impostazione ottobre 1889, servizio 1892), con 4 cn. da 343 mm caricabili in una sola posizione, 10 cn. da 152 mm e armamento minore di cui 7 lanciasiluri, dislocamento 14400 t, velocità 17 nodi, immersione 8,40 m, protezione verticale 45 ,7 cm; - 9 Unità classe Majestic (impostazione febbraio 1894, servizio 1896), con 4 cn. da 305 mm caricabili in qualsiasi angolo di brandeggio, 12 cn. da 152 mm e altro armamento minore di cui 5 lanciasiluri e sperone, dislocamento 15000 t, velocità 17,5 nodi, immersione 8,40 m, protezione verticale 23 cm. • Classi di corazzate coeve alla Benedetto Brin (1899-1905): - 6 Unità classe Cornwallis (impostazione luglio 1899, servizio 1903), con 4 cn. da 305 mm, 12 cn. da 152 mm, armamento minore con 4 lanciasiluri senza sperone, dislocamento 14000 t, velocità. 19 nodi, immersione 8 m,
Vlll - PRO E CONTRO LE ARTIGLIERIE E NAVI COLOSSALI: GLI ATTACCHI DEL SAINT DON
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protezione verticale 18 cm. Cornwallis affondata in Mediterraneo da sommergibile tedesco il 9 gennaio 1917. • Prima Dreadnought in assoluto: - Dreadnought (impostazione ottobre 1905, cioè cinque mesi dopo la battaglia di Tsushima avvenuta il 27 maggio 1905; servizio dicembre 1906), con 10 cn. da 305 mm, 23 cn. da 76 mm, 5 lanciasiluri subacquei, senza sperone; dislocamento 18000 t, velocità 21 nodi, immersione 9,45 m, protezione verticale 28 cm.Nella guerra 1914-1918 ha speronato e affondato il sommergibile tedesco V-29. Va sottolineato che a partire dal novembre 1912 è entrata in servizio la classe King George V (3 unità) con 10 cannoni da 343 IDIIl, armamento secondario e sperone, dislocamento 26000 t, velocità 21 nodi, protezione verticale 30,5-22,9-30,3 cm. È stata ben presto superata dalla classe Queen Elisabeth (5 unità) entrata in servizio nel gennaio 1915 con 8 cn. da 381 mm, 16 cn. da 152 mm ecc., dislocamento 33000 t, velocità 25 nodi, protezione verticale 33 cm. Ultima evoluzione è la classe Reso/ution (5 unità) entrata in servizio nel dicembre 1916, con 8 cn. da 381 mm e 12 da 152 mm, dislocamento 31000 t, velocità 23 nodi, protezione verticale 33 cm. La tendenza ai calibri maggiori e quindi, a dislocamenti più elevati si è manifestata anche nella marina americana (classe Texas con pezzi da 356 mm) e classe Maryland del 1920-1921 (con pezzi da 406 mm superati solo dalle giapponesi Yamato e Musashi (1941), le quali avevano dislocamento e calibri principali massimi (73000 te 9 cn. da 460 mm), rimasti insuperati. FRANCIA • Corazzate coeve del Duilio (1873-1880) e dell'Italia (1876-1885): - 4 unità della classe Devastation (a vela e motore; impostazione gennaio 1876, servizio 1879), con 4 cn. da 340 mm ancora in batteria, 2 cn. da 270 mm, 6 cn. da 140 mm con sperone, dislocamento 9650 t, velocità 15 nodi, immersione 7,34 m, protezione verticale 38 cm, autonomia 2800 mg; - Amiral Duperré (a vela e motore; impostazione dicembre 1876, servizio 1881 ), con 4 cn. da 340 mm in barbetta e 14 cn. da 140 mm, dislocamento 10500 t, velocità 14,5 nodi, immersione 7,85 m, protezione verticale 55 cm, autonomia non nota; - 2 unità della classe Amiral Baudin (senza vele; impostazione 10 gennaio 1879, servizio 1886), con 2 cn. da 370 mm in barbetta, 4 cn. da 160 mm, 8 cn. da 138 mm, cannoncini minori e 4 lanciasiluri, dislocamento 12000 t, velocità 15 nodi, immersione 7,86 m, protezione verticale 55 cm, autonomia 3000 mg; - 4 unità della classe Jndomtable ( corazzata costiera; impostazione novembre 1877, servizio 1886), con 2 cn. da 420 mm in barbetta (a caricamento in unica posizione e manovra elettrica), 6 cn. da 100 mm, armamento minore e sperone, dislocamento 7600 t, velocità 15 nodi, immersione 7 ,90 m,
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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL.
m (1&70-1915) - WMO O
protezione verticale 50 cm, autonomia 2500 mg. Nel 1901-1903 i cannoni da 420 mm furono sostituiti con altri di calibro 274 mm e caricamento in qualsiasi posizione. Corazzate coeve della classe Ruggiero di Lauria (1882-1891): 3 unità della classe Magenta (impostazione 1887, servizio 1892), con 4 cn. da 305 mm in barbetta (a manovra idraulica e ricaricabili in qualsiasi posizione), 17 cn. da 140 mm, armamento minore con 6 lanciasiluri, dislocamento 11000 t, velocità 17 nodi, immersione 8 m, protezione verticale 42-25 cm, autonomia 4000 mg; Corazzate coeve della classe Sardegna ( 1885-1895): 4 unità della classe Jaureguiberry (impostazione novembre 1891, servizio 1895), con 2 cn. da 305 mm e 2 cn. da 274 mm in torri, 8 cn. da 140 mm, armamento minore con 6 lanciasiluri e sperone, dislocamento 12000 t, velocità 17,5 nodi, immersione 8,30 m, protezione verticale 45 cm, autonomia 4000 mg; Corazzate coeve della classeBrin ( 1899-1905): Henry JV(impostazione 1897, servizio 1902), con 2 cn. da 274 mm, 7 cn. da 138 mm, armamento minore con 2 lanciasiluri, dislocamento 9000 t, velocità 17 nodi, immersione 7,50 m, protezione verticale 28 cm, autonomia 7600 mg; Prime Dreadnought francesi coeve della Dante Alighieri e della Giulio Cesare: 3 unità della classe Jean Bari (impostazione 16 novembre 191 O, servizio 15 giugno 1913), con 12 cn. da 305 mm e 22 cn. da 135 mm più 4 lanciasiluri, dislocamento 26000 t, velocità 20 nodi, immersione 8,8 m, protezione verticale 30 cm, autonomia 6000 mg.. LaJean Bart è stata silurata dal sommergibile tedesco Ul 2 nel Canale di Otranto e rimorchiata a Malta. Successiva classe di Dreadnought: 3 unità della classe Bretagne (impostazione 1 luglio 1912, servizio settembre 1915), con 1O cn. da 340 mm e 22 cn. da 138 mm più 4 lanciasiluri, dislocamento 28500 t, velocità 20 nodi, immersione 9,8 m, protezione verticale 27 cm, autonomia 4700 mg.
AUSTRIA Poiché fino a ridosso della prima guerra mondiale l'Austria, alleata del1' Italia, di fatto non è mai stata considerata l'avversario più probabile e un punto di riferimento per le soluzioni tecniche adottate, ci limitiamo qui a considerare le principali unità a partire dai primi anni del secolo XX. • Corazzate coeve della Benedello Brin (1899-1905): - 3 unità della classe Habsburg (impostazione febbraio 1899, servizio 1903), con 3 cn. da 240 mm in torri, 12 cn. da 152 mm, 10 cn. da 76 mm e 2 lanciasiluri, dislocamento 8300 t, velocità 19 nodi, immersione 7,1 m, protezione verticale 22 cm, autonomia 3200 mg.. Unica azione bellica: bombardamento di Ancona all'inizio della guerra 1915-1918; - 3 unità della classe Erzerhog ( 4 cn. da 240 mm e 12 cn. da 190 mm; dislocamento l 0800 t, velocità 20 nodi); • Corazzate coeve della Vittorio Emanuele: 3 unità classe Radetzky, con 4 cn.
Vili - PRO E CONTRO LE ARTIGLIERIE E NAVI COWSSALI: GLI AlTACCHI DEL SAINT BON
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da 305 mm in torri, 4 cn. da 240 mm, 10 cn. da 100 mm, dislocamento 14500
t; • Corazzate coeve delle Dreadnoughts italiane: 4 unità della classe Vìribrus Unitis (impostazione luglio 191 O, servizio ottobre 1912), con I 2 cn. da 305 mm in torri, 12 cn. da 147 mm, 18 cn. da 76 mm, 6 lanciasiluri subacquei, dislocamento 21000 t, velocità 20 nodi, immersione 8,22 m, protezione verticale 28 cm e autonomia 4200 mg.. Dopo aver partecipato con I' Hasburg al bombardamento di Ancona e poi alla spedizione contro il Canale d'Otranto, I' 1 novembre 1918 la Vìribus Unitis fu affondata in porto da un mezzo d 'assalto italiano. Per il confronto numerico complessivo disponiamo di un'interessante statistica di fine secolo XIX, che non dovrebbe mutare di molto fino alla guerra mondiale e riguarda prima di tutto le navi da battaglia costruite nell'ultimo ventennio del secolo XIX, da tutti considerate le navi fondamentali ( cfr. lo schema a pagina seguente, tratta da "Rivista di Artiglieria e Genio" 1/1899, pp. 504-505). Da questo specchio (puramente numerico) del 1899 si deduce che l'Italia è l'unica a non mantenere in servizio navi di linea antiquate e navi di linea per
la difesa delle coste. Quel che importa, escludendo il naviglio di linea antiquato a fine secolo XIX alle 15 nostre unità di linea (delle quali 8 costruite da dieci anni o meno) corrispondono le 45 dell'Inghilterra (delle quali 34 costruite da dieci anni o meno) e le 23 della Francia (delle quali 9 costruite da dieci anni o meno). Riguardo ai dislocamenti, alle 182.814 t italiane (delle quali 98688 costruite da 10 anni o meno) corrispondono le 580.486 t inglesi (delle quali 476.272 costruite da IO anni o meno) e le 251.687 francesi (delle quali 160.398 costruite da l O anni o meno). Sempre per le navi di linea, da notare, l'elevata velocità media italiana, sia pur non di molto superiore. In conclusione, specie se si considera il naviglio "antiquato o rimodernato" (ma anche senza tale naviglio), da questo specchio salta subito all'occhio - non è novità - la superiorità incolmabile dell'Inghilterra e la netta superiorità francese, anch'essa estremamente difficile da colmare. Questa superiorità francese è ancor più forte, se si tiene conto delle costruzioni di incrociatori dove l'Italia è di molto inferiore, specie per gli incrociatori corazzati; infine - questo vale sempre - quando il margine di superiorità in fatto di velocità non è molto forte, è assai dubbio che nella realtà del combattimento tale vantaggio possa avere un peso, o almeno un peso superiore rispetto ad armamento e corazzatura. Per altro verso l'interpretazione dei predetti dati richiede estrema cautela, perché sul rendimento effettivo del naviglio in guerra influiscono molteplici fattori difficilmente pre-determinabili, a cominciare - come insegna Lissa dalla qualità della leadership, dallo spirito e addestramento degli equipaggi, dalla qualità di artiglierie e munizioni, dalla manutenzione e dallo stato di approntamento delle singole navi, dalla distanza delle basi. Elenchiamo quindi di seguito i più importanti fattori da considerare per giudicare la rispondenza della quantità e qualità del naviglio da costruire e costruito.
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TIPI DELLE NAVI
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Navi di linea costruite da I Oa 20 anni a questa parte
Il
9474
104214
[6,1
0,80
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9
101 43
91289
15,6
0,75
68467
Navi di linea antiche o rimode rnate
9
8872
79848
14,l
0,50
39924
12
7482
89784
13,6
0,45
40403
TOTALI
54
660334
599567
35
Navi per la difesa deUe coste
25
6284
l 5il 00
l l ,8
0,40
62840
14
Incrociatori corazzati da 9000 tonn. e più
8
13500
I 08000
22,0
0,85
Incrociatori corazzati da 7000 a 9000 tonn.
2
8400
16800
17,4
Incrociatori corazzati inferiori alle 7000 tonn.
7
5600
39200
18,0
341471
269268
3637
50920
14
0,70
44912
91800
9767
68369
21,3
0,85
58114
0,80
13440
7700
23100
21,0
0,85
19635
0,75
29400
10
5578
55780
17,0
0,70
39046
134640
20
TOTALI
17
Incrociatori protetti da I0000 tonn. e più
10
11640
116400
20,8
0,85
98940
Incrociatori protetti da 7000 a 10000 tono.
11
7780
85550
20,2
0,80
68440
4
8014
32058
21,0
0,80
25645
Incrociatori protetti da 4000 a 7000 tonn.
30
5000
150000
19,0
0,75
ll2500
13
4833
62829
18,9
0,75
47122
Incrociatorida2000a4000tonn.
46
2924
134510
19,5
0,70
94157
20
2978
59560
18,7
0,70
41 692
15,2
0,40
17,l
0,45
TOTALI Piccoli incrociatori e cannoniere TOTALI COMPLESSIVI
164000
97 97 290
486460 924
89628 1557522
374037
37
35851
38
1206935
144
=
o
14 7249
37544 731629
98688
19,3
1,00
98688
12018
84126
[6,7
0,80
67301
15
182814
6347
JJ6795
154445 988
7
12336
31735
165989
19,8
0,90
31735
17
ll4459
17
16895
28
562330
65
2754
886
28561
46818
18,0
46818 24808 2861 75
2856 [
0,70
32773
18,0
-
32773
17,9
0,45
1ll64
238487
=
V1TI - PRO E CONTRO LE ARTIGLITIRIE E NAVI COLOSSALI: GLI AlTACCHI DEL SAINT BON
631
1. Ruolo geostrategico e capacità economiche, finanziarie e industriali del Paese, tenendo presente che la dipendenza dall'estero per artiglierie, corazze e macchine è un fattore di debolezza. 2. Progresso tecnologico in generale, di estrema importanza per le costruzioni navali e tale da renderle rapidamente superate. 3. Progresso delle artiglierie con relative muni zioni e corazze, il quale fa sì che la capacità di penetrazione e l'efficacia di un tipo di artiglieria non siano sempre direttamente proporzionali al peso e/o al calibro delle artiglierie stesse. 1n particolare va considerato che, in virtù di tale progresso: - la capacità di penetrazione e la gittata necessaria e sufficiente possono essere ottenute anche con calibri minori, munizionamento più perfezionato, lunghezza maggiore della bocca del fuoco; - il rendimento di un dato tipo di artiglieria (che viene definito anche con il termine potenza} dipende anche dalla celerità di tiro, a sua volta legata al grado di perfezionamento dei congegni di manovra e di caricamento e degli apparati di puntamento (le centrali di tiro sono introdotte solo a partire dalla Dreadnought; evidenti gli inconvenienti e le difficoltà della condotta del tiro fino a quel momento); - naturalmente, come sempre il numero dei cannoni è un dato importante da considerare, accanto alla loro potenza. 4. Efficienza dei cantieri e aderenza al progresso tecnologico della progettazione, che riduce al minimo lo spazio di tempo intercorrente tra impostazione cd entrata in servizio, sul quale influisce positivamente anche la riduzione al minimo delle modifiche in corso d ' opera. Esso è legato anche ad altri fattori, tra i quali: - dislocamento, che se elevato impone una diluizione dei tempi; - disponibilità finanziarie, che se troppo scarse impongono anch'esse una diluizione eccessiva dei tempi di approntamento; - frequenza e consistenza delle modifiche in corso d'opera, a loro volta rese necessarie dalla scarsa capacità di "guardare avanti" dei progettisti e/o dalla mancanza di idee chiare sul ruolo e composizione della flotta e di ciascuna nave. 5. Capacità dei progettisti di conciliare nel modo migliore armamento, protezione, velocità e autonomia, tenendo anche presente che nonostante la crescente importanza del siluro, una nave del tempo veniva costruita prima di tutto intorno all' artiglieria. 6. Ruolo e caratteristiche del naviglio minore, rispetto al quale vanno considerati pregi e limiti delle grandi navi (e viceversa). 7. Punto di equilibrio ottimale tra numero di unità e loro singole prestazioni, tenendo presente che il numero può compensare solo fino a un certo limite (difficile da determinare esattamente) la qualità e viceversa; più nel concreto si tratta di stabilire a priori fino a che punto poche o pochissime unità ultrapotenti possono compensare il loro scarso numero, e aver ragione di gruppi
632
IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO -VOL. lii ( 1870-1915) -TOMO li
di unità più numerose e meno potenti: problema centrale, estremamente difficile da risolvere. Anche se l'influenza dei predetti fattori - assai diversi da nazione a nazione - è assai difficile da considerare esattamente, dai dati numerici prima elencati - non soggetti a discussione - e dal loro confronto relativamente alle principali flotte è possibile trarre alcune indicazioni preliminari che sono indispensabili, per giudicare in tutte le loro interfacce il dibattito che verrà esaminato. CORAZZATE ITALIANE CALIBRO DELLE ARTIGLIERIE PRINCIPALI Il calibro delle artiglierie principali del Duilio e dell'Italia (4 cn. da 450 e 431 mm) non viene mai più raggiunto da unità italiane, nemmeno nel XX secolo dove il calibro massimo (381 mm) è quello della classe Vittorio Veneto, impostata negli anni Trenta. La successiva classe Ruggiero di Lauria ha anch'essa 4 cn. da 431 mm. ed è seguìta dalla classe Sardegna con 4 cn. da 343 mm, e da un punto di minima raggiunto dai 4 cn. da 254 mm della Saint Bon (uguali a quelli montati nello stesso periodo dal Dandolo in sostituzione dei 450 mm). Con la Benedetto Brindi fine secolo XIX (4 cn. da 305 mm) avviene la svolta verso il 305 mm, che verrà mantenuto fino alla prima guerra mondiale compresa. Tsoli 2 cn. da 305 mm della Vittorio Emanuele, compensati da ben 12 pezzi da 203 mm, sono anch'essi un punto di minima numerico delle artiglierie principali, forse dovuto - come avviene per i 254 mm del Saint Bon - al successo dei cannoni di calibro moderato, più maneggevoli c con maggiore celerità di tiro, senza perdere efficacia rispetto ai calibri maggiori. Infine le Dreadnoughts italiane (12-13 cn. da 305 mm) segnano la massima espansione numerica dei grossi calibri, resa possibile dal miglioramento dei meccanismi di caricamento, puntamento e manovra dei pezzi. ln sintesi: costante tendenza alla diminuizione dei calibri dimostrata dalla sostituzione con cannoni da 254 mm delle "artiglierie colossali" del Dandolo e affermazione già a fine secolo XlX del calibro 305, poi rimasto costante fino alla guerra mondiale compresa. Riguardo al numero, dai canonici 4 pezzi del Duilio si passa ai 12-13 delle Dreadnoughts, punta massima non più mantenuta. Da notare, infine, che la nostra marina non partecipa ali' aumento del calibro 305 mm da parte delle principali marine, nelle costruzioni immediatamente precedenti la guerra mondiale.
DISLOCAMENTO Nessuna legge costante può essere individuata nei dislocamenti, che dopo un aumento dalle 12000 t del Duilio alle 16000 dell 'Jtalia diminuiscono con le 12000 della classe Ruggiero di Lauria, per poi riportarsi alle 16000 t con la Sardegna, diminuendo però bruscamente con le 10000 t della classe Saint Bon (punto di minima). Il successivo aumento delle classi Benedetto Brine Vittorio Emanuele (14000 t) prelude all'improvviso raddoppio che si ottiene con le Dreadnoughts (22-25000 t), il cui dislocamento viene ancora superato con le corazzate degli anni Trenta (fino a 40000 t). Più che all'evoluzione delle tee-
Vili - PRO E (,'ONTRO LE ARTIGLIERIE E NAVI COLOSSALI: GLI AlTACCHl DEL SAINT BON
633
nologie come nel caso dei cannoni, i continui mutamenti nei dislocamenti sembrano dovuti a scarsa chiarezza e costanza nella definizione del ruolo della flotta, dal quale discende la prevalenza da dare alle qualità "strategiche" o "tattiche" di ciascuna nave (cioè all'armamento e corazza, oppure alla velocità).
VELOCITÀ Come si è visto, è un requisito sempre tenuto in grande onore dalla massa degli autori navali; non casualmente, perciò, rivela una costante tendenza ali' aumento. Dai 15 nodi del Duilio ai 17 dell'Italia, per poi diminuire lievemente con i 16 della Ruggiero di Lauria e raggiungere i 18-20 con le classi Sardegna, Saint Bon, Benedetto Brin e i 21 con le Vittorio Emanuele, ulteriormente aumentati a 21-23 con le tipo Dreadnought, il cui salto di qualità in fatto di armamento, dislocamento e velocità risulta evidente. IMMERSIONE Dato che come meglio si vedrà in seguito è di una certa importanza, vista la scarsa profondità di molti porti italiani e in particolar modo di quelli del1'Adriatico, che richiederebbero costosi lavori per renderli atti ad accogliere tutte le navi: Duilio 9,8 m; Italia 9,6 m; Ruggiero di Lauria 8,70 m; Sardegna 9 m; Saint Bon 1,5 m; Benedetto Brin 8,9 m; Vittorio Emanuele 8,6 m; Dreadnoughts 9,40 m. In generale l'immersione cresce con il dislocamento. NUMERO DELLE UNITÀ Le corazzate "colossali'' Duilio, Dandolo, Lepanto e Italia possono essere considerate della stessa classe (4 unità); 3 unità della classe Ruggiero di Lauria; 3 della classe Sardegna; 2 della classe Saint Bon; 2 della classe Benedetto Brin; 4 della classe Vittorio Emanuele; 6 Dreadnoughts. TEMPO DI ALLESTIMENTO (DA IMPOSTAZIONE A SERVIZIO) Duilio 80 mesi Italia 112 mesi Ruggiero di Lauria 120 mesi Sardegna 123 mesi Saint Bon 80 mesi Benedetto Brin 81 mesi Vittorio Emanuele 76 mesi Dante Alighieri 48 mesi Giulio Cesare 48 mesi Littorio (1934-1937; per confronto) 66 mesi CORAZZATE INGLESI
ARMAMENTO PRINCIPALE Alexandra: 2 cn. da 305 mm e 10 cn. da 254 mm Devastation: 4 cn. da 305 mm (Dreadnoughts primo tipo della stessa classe, 4 cn. da 317 mm) Temeraire: 4 cn. da 305 mm e 4 cn. da 254 mm Jnflexihle: 4 cn. da 406 mm
634
IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. IU (1870-1915) - TOMO Il
Colossus: 4 cn. da 305 mm e 4 cn. da 152 mm Collingwood: 4 cn. da 305 mm e 6 cn. da 152 mm Royal Sovereign: 4 cn. da 343 mm e 10 cn. da 152 mm Majestic: 4 cn. da 305 mm e 12 cn. da 152 mm Cornwallis: 4 cn. da 305 mm e 12 cn. da 152 mm Dreadnought secondo tipo (la prima al mondo di questo tipo): 10 cn. da 305 mm e 23 cn. da 76 mm King George V: 10 cn. da 343 mm e 16 cn. da 102 mm Queen Elisabeth: 8 cn. da 381 mm e 16 cn. da 152 mm DISLOCAMENTO Alexandra: 9500 t Devastation: 9300 t Temeraire: 8400 t lnjlexible: 11400 t Colossus: 9100 t Collingwood: 9600 t Royal Sovereign: 14400 t Majestic: 15000 t Cornwallis: 14000 t Dreadnought: 17900 t King George V.· 26000 t Queen Elisaheth: 33000 t VELOCITÀ Alexandra: 15 nodi Devastation: 14 nodi Temeraire: 15 nodi Injlexible: 14,7 nodi Colossus: 14 nodi Co/lingwood: 15 nodi Royal Sovereign: 17 nodi Majestic: 17,5 nodi Cornwallis: 19 nodi Dreadnought: 21 nodi King George V.- 21 nodi Queen Elisabeth: 25 nodi IMMERSIONE Alexandra: 8 fil Devastalion: 8,7 m Temeraire: 8,15 fil Jnjlexible: 7,50 m Colossus: 7,85 fil Collingwood: 7 ,90 m Royal Sovereign: 8,40 m Majestic: 8,40 m
Vlll - PRO E CONTRO LE ARTIGLIERIE E NAVI COLOSSALI: GLI ATIACCHI DEL SAINT SON
635
Cornwallis: 8 m Dreadnought: 9,45 m King George V.· 8,7 m Queen Elisabeth: 9 m NUMERO DELLE UNITÀ A/exandra: l Classe Devastation: 3 Temeraire: 1 lnjlexible: 1 Classe Co/ossus: 2 Classe Collingwood: 6 Classe Royal Sovereign: 7 Classe Majestic: 9 Classe Cornwallis: 6 Dreadnought: l ? Classe King George V 3 Classe Queen E/isabeth: 5 Classe Resoiution: 5 TEMPO DI ALLESTIMENTO (DA IMPOSTAZIONE A SERVIZIO) Alexandra: 34 mesi circa Devastation: 34 mesi Temeraire: 23 mesi Tnflexible: 76 mesi circa Colossus: 71 mesi circa Coilingwood: 83 mesi circa Royal Sovereign: 33 mesi circa Majestic: 29 mesi circa Cornwallis: 24 mesi circa Dreadnought: l 5 mesi King George V: 23 mesi Queen Elisabeth: 27 mesi CORAZZATE FRANCESI
CALIBRO DELLE ARTIGLIERIE PRINCIPALI Devastation: 4 cn. da 340 mm, 2 cn. da 270 mm Amiral Duperré: 4 cn. da 340 mm, 14 cn. da 140 mm Amiral Baudin: 2 cn. da 370 mm, 4 cn. da 160 mm, 8 cn. da 138 mm Indomtable: 2 cn. da 420 mm, 6 cn. da 100 mm. Nel 1901 -1903 i cn. da 420 mm furono sostituiti con altri di calibro 274 mm e caricamento in qualsiasi posizione (come è avvenuto in precedenza per la nostra Dandolo). Magenta: 4 cn. da 305 mm, 17 cn. da 140 mm Jaureguiberry: 2 cn. da 305 mm, 2 cn . da 274 mm, 8 cn. da 140 mm Henry JV: 2 cn. da 274 mm, 7 cn. da 138 mm
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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL.
m ( 1870-191 5) -
TOMO Il
Jean Bart: 12 cn. da 305 mm e 22 CD. da 135 mm Bretagne: 1Ocn. da 340 mm, 22 CD. da 138 mm DISLOCAMENTO Devastation: 96500 t Amiral Duperré: 10500 t Amiral Baudin: 12000 t Jndomtable: 7600 t Magenta: 11000 t Jaureguiberry: 12000 t Henry IV: 9000 t Jean Bari: 26000 t Brelagne: 28500 t VELOCITÀ Devastation_· 15 nodi Amiral Duperré: 14,5 nodi Amiral Baudin: 15 nodi Indomtab/e_· 15 nodi Magenta: 17 nodi Jaureguiberry: 17,5 Henry IV: 17 nodi Jean Bart: 20 nodi Bretagne: 20 nodi IMMERSIONE Devastation: 7,34 m Amiral Duperré: 7 ,85 m Amiral Baudin: 7,86 m Jndomtable: 7,90 m Magenta: 8 m Jaureguiberry: 8,30 m Henry IV: 7,50 m Jean Bart: 8,8 m Bretagne: 9,8 m DURATA ALLESTIMENTO (DA IMPOSTAZIONE A SERVIZIO) Devastation: 42 mesi circa Amiral Duperré: 55 mesi circa Amiral Baudin: 90 mesi circa Indomtable: 60 mesi circa Magenta: 60 mesi circa Jaureguiberry: 43 mesi circa Henry I V: 60 mesi circa J ean Bari: 33 mesi Bretag ne: :19 mesi
VUI - PRO E CONTRO LE ARTIGLIERIE E NAVI COLOSSALI: GLI ATrACCID DEL SAINT DON
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CORAZZATE AUSTRIACHE
ARMAMENTO PRINCIPALE Habsburg: 3 cn. da 240 mm e 12 cn. da 152 mm Viribus Unitis: 12 cn. da 305 mm e 12 cn. da 147 mm DISLOCAMENTO Habsburg: 8300 t Viribus Unitis: 21000 t VELOCITÀ Habsburg: 19 nodi Viribus Unitis: 20 nodi IMMERSIONE Habsburg: 7,1 m Viribus Unitis: 8,22 m La prima, e non nuova constatazione da fare è che nessuna delle marine maggiori segue il modello del Duilio e dell'Italia per calibro delle artiglierie principali e dislocamento. In particolare la marina-guida (quella inglese), anche se le sue industrie hanno costruito i 450 mm Annstrong, le corazze e le macchine delle nostre corazzate, utilizza i 450 mm solo per la difesa costiera (uno di essi è ancora a Malta) e si avvicina al 450 mm solo con i 406 mm del1'lnjlexible coevo del Duilio, per poi mantenere pressoché costantemente il 305 mm, che supera solo dopo la prima Dreadnought (King George V - 343 mm; Queen Elisabeth - 381 mm). Peraltro, nessuna delle unità inglesi imbarca il 254 mm come calibro principale, come invece fanno a fine secolo XIX la Saint Bon e il Dandolo (in significativa sostituzione del vecchio 450 mm evidentemente ritenuto superato che viene ben presto abbandonato anche dalla marina italiana). Il dislocamento delle unità inglesi, a parte le 11400 t dell 'Injlexible, si mantiene complessivamente inferiore alle nostre fino alla Collingwood compresa, per poi diventare sostanzialmente analogo alle nostre fino alla Dreadnought esclusa; dalla prima Dreadnought in poi si mantiene invece a un livello superiore. Riguardo alla velocità, v'è da notare che le corazzate inglesi coeve del Duilio - ivi compreso l'lnjlexible, che più vi si avvicina - conservano una parziale propulsione a vela, per il momento da considerare non come segno di arretratezza ma dell' opportunità di aumentare l'autonomia in relazione ai lunghi percorsi di una flotta imperiale e oceanica. La velocità delle navi si mantiene generalmente inferiore - anche se di poco - a quella delle nostre, superandola nettamente solo con leDreadnoughts tipo QueenElisabeth. L'immersione delle unità inglesi è inferiore solo all'inizio (cioè con le unità coeve del Duilio e subito dopo) e si aggira intorno agli 8 m, forse per la necessità di passare il Canale di Suez. li numero delle unità inglesi, di molto superiore a quello delle nostre; infine i loro tempi di approntamento sono costantemente - e di molto inferiori a quelli delle nostre, sì che calibri delle artiglierie principali e tempi
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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL.
m (1870-1915)-TOMO li
di approntamento segnano le più rilevanti differenze tra le unità inglesi e le nostre. Infine non va dimenticato che, diversamente da quelle italiana e francese, le marine inglese e tedesca hanno notevohnente sviluppato gli incrociatori da battaglia protagonisti della battaglia dello Jutland ( 1916), che a discapito della protezione hanno privilegiato l'armamento principale e la velocità. Per le corazzate francesi l'evoluzione è analoga a quella delle corazzate inglesi: calibri delle corazzate coeve del Duilio e dell'Italia notevohnente inferiori, tra le quali solo la classe lndomtable (cannoni da 420 mm) si avvicina ai nostri); tendenza a imbarcare un numero elevato di artiglierie di medio calibro; calibri da 305 mm come i nostri per le prime Dreadnoughts, con il 340 mm (superiore ai nostri 305 mm) nelle Dreadnoughts della generazione successiva, che peraltro imbarcano anche ben 22 cannoni di medio calibro (138 mm). I dislocamenti si mantengono tendenziahnente inferiori ai nostri fino alle Dreadnoughts (si notino, in merito, le sole 9000 t dell'Henry IV di inizio secolo XX). Velocità analoga e/o lievemente inferiore; immersione fino alle Dreadnoughts tendenzialmente inferiore alle nostre e anche a quelle inglesi; tempi di allestimento inferiori ai nostri ma superiori a quelli inglesi. Va anche considerato che i 4 potenti e veloci "incrociatori corazzati" tipo Pisa-San (Nnrgin costruiti in Italia all'inizio del secolo, grazie alle loro caratteristiche (4 cn. da 254 mm e 8 cn. da 190 mm; dislocamento 9800 t; velocità 23 nodi) potrebbero tener testa - benché meno corazzati - a parecchie corazzate francesi coeve, sì che in un discorso del 1905 il Ministro ammiraglio Mirabello le definisce "un compromesso con la costosa e grande nave da battaglia, ma con la capacità di entrare insieme a questa in linea efficacemente". Riguardo alla protezione il confronto è aleatorio perché sempre di più dipende dai progressi nella fabbricazione dell'acciaio, quindi dalla qualità delle corazze. Sicuramente il Duilio e il Dandolo hanno una protezione maggiore di quella della maggior parte delle corazzate straniere coeve, mentre la struttura cellulare dello scafo dell'Italia e del Lepanto, nella quale troppo esclusivamente si ricerca la protezione, non viene più ripetuta in Italia e come i pezzi da l 00 t, non trova soluzione analoghe all'estero.
SEZIONE li - Indirizzi generali e principali disponibilità di bilancio delle costruzioni navali italiane e straniere fino alla grande guerra Come e perché si arriva alle soluzioni costruttive prima indicate? Quali sono i loro obiettivi e retroscena'? Sulle costruzioni navali italiane ci sembra equilibrato il giudizio del Bemotti, benché non tenga conto di possibili opzioni strategiche diverse dalla guerra di squadra e diplomaticamente ometta il fondamentale dibattito navi piccole - navi giganti che percorre buona parte del periodo considerato, dando per scontate le scelte a favore di corazzate che dopo
vm - PRO E CONTRO LE ARTIGLIERIE E NAVI COLOSSALI: GLI A1TACClil DEL SAINT BON
639
le prime 4 (Duilio, Dandolo, Italia e Lepanto) hanno caratteristiche non troppo dissimili da quelle delle principali marine, così come avviene per il naviglio minore. Secondo il Bemotti un giusto concetto quasi costantemente di guida nella determinazione delle caratteristiche dei tipi di navi della nostra flotta fu quello dell'importanza di un vantaggio di velocità associato a rilevante autonomia rispetto alle navi francesi contemporanee, per consentire la capacità di iniziativa tattica, ossia la facoltà di accettare o rifiutare il combattimento, capacità necessaria in conseguenza del 'inferiorità del complesso, chiamato a soddisfare al difficile compito di un 'attività difensiva strategica.Nelle nostre costruzioni navali fa cercato -secondo l'espressione del Saint Bon - di presumere l'andamento della curva del progresso: ossia nel mettere un bastimento in cantiere si cercò di prevedere "le idee che prevarranno allorché quel bastimento potrà essere varato, assumendo per base di tale previsione l'andamento generale che hanno subìto le idee e i fatti sino a quel giorno". In pratica, data la nostra lentezza nel costruire, derivante dalla scarsità di mezzi finanziari, la previsione risultava assai difficile. Possono distinguersi nel modo seguente i criteri direttivi dei nostri tipi di navi da battaglia, successivi alle due navi del vecchio tipo Duilio, jìno alle dreadnoughts escluse, a jìanco di ciascun tipo annotando l'epoca del varo: 1°. Vantaggio di potenza offensiva e di velocità rispetto alle navi progettate contemporaneamente nelle altre Marine, sopprimendo la corazza verticale o riducendone lo spessore. La soppressione anzidetta, facendo essenziale assegnamento sul ponte di protezione e sulla struttura cellulare, fu praticata quando non esistevano proietti ad alto esplosivo (.si ebbero così le due navi tipo Italia, 1880-83); nelle navi successive, a causa della potenza esplosiva dei nuovi proietti.fu applicata una leggera corazza (le 3 navi tipo Re Umberto, 1888-90-91). La riduzione di corazzatura verticale facendo assegnamento sull'obliquità del tiro fu praticata nelle due navi tipo Brin (1901). 2°. Equivalenza di velocità rispetto ai tipi di navi di linea contemporanei, con potente armamento, jòrte protezione, cercando di ridurre il dislocamento (le 3 navi tipo Lauria, 1884-85 e le 2 navi tipo Saint Bon, 1893-94). 3°. Vantaggio di velocità rispetto alle navi di linea contemporanee, riducendo lo spessore di corazza verticale, pur molto curando l'estensione dicorazzatura, con infèriorità sensibile di dislocamento rispetto alle navi suddette, e con inferiorità nel numero dei cannoni di grosso calibro, cercando un compenso nella potenza dell'armamento secondario. Tali furono le 4 navi tipo Vittorio Emanuele (1904-07) che costituirono un tipo di corazzata rapida, compromesso fra la corazzata e l'incrociatore corazzato, con un dislocamento di 12. 800 tonn. invece di quello intorno a 15.000 normale nelle pre-dreadnoughts e con un vantaggio di velocità di circa 3 nodi. 4
4
Romeo Bemolli,
n potere marillimo nella grande guerra, T.ivomo Giusti
1920, pp. R7-RR.
640
IL PENSlllRO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. IU (1870-1915) - TOMO II
Anche dalla panoramica del Bemotti si deduce che la prospettiva strategica è unicamente per la guerra di squadra e quindi la preferenza è per navi "tattiche", contando su una velocità superiore a quella dei probabili avversari (ma di quanto?) che dovrebbe consentire di accettare o rifiutare il combattimento, come sempre sostenuto dallo stesso Bemotti (cfr. cap. V). Si tratta di un orientamento ben preciso, fondato su dati di fatto inoppugnabili, riguardanti la superiore qualità del nostro naviglio? Quanto egli aggiunge a proposito della cronica scarsità dei mezzi finanziari e della pratica impossibilità di concentrare le risorse - come si dovrebbe fare - nelle costruzioni navali, non consente di dare una risposta pienamente positiva. Noi cercammo sempre di fare miracoli d 'ingegneria, e in relazione al dislocamento le nostre navi poterono considerarsi soluzioni brillanti nei riguardi costruttivi, per armamento, e per velocità; ma la forzata lentezza delle costruzioni, e la rapidità di evoluzione dei tipi di nave, ci obbligò a varare unità già sorpassate, il che fu aggravato dal fatto che le nostre navi erano basate su criteri di compromesso. Così noi varammo l'ultima nave del tipo Vittorio (la Roma) un anno dopo che l'Inghilterra aveva varato la Dreadnought; e fino ad allora, per la ricerca di soluzioni brillanti dal punto di vista dell'inf{egneria, per economizzare tonnellate di peso, fummo portati a non curare abbastanza costantemente la robustezza delle strutture; e per la velocità, che doveva costituire pre!{io essenziale delle nostre navi, indispensabile elemento per il dif]ìcile problema strategico che eravamo chiamati a risolvere (in qualunque dei nostri mari dovessimo combattere),fummo indotti talvolta, per considerare le nostre navi notevolmente superiori a quelle delle altre Marine, a rifèrirci alla velocità conseguita alle prove sul miglio misurato anziché alla velocità di resistenza in assetto normale. Questo non derivò da erronei criteri, non da cattiva amministrazione, né da deficienza dei nostri ingegneri; per citare fatti, basta ricordare che proprio chi disegnò i piani del tipo Vittorio, ossia il Cuniberti, fu il primo ideatore delle navi tipo dreadnought*; i risultati suddetti furono la inevitabile conseguenza del sistema di lesinare sugli stanziamentiper la Marina, che implicava la impossibilità del massimo rendimento della spesa, per quanto cercassimo di escogitare ripieghi, perché i progressi dei nostri tipi di navi. allorché le navi entravano in servizio non risultavano in corrispondenza con quelli delle altre nazioni; tale era il frutto della deficienza di comprensione dei problemi marittimi nel Paese e nel Parlamento, nonostante le ajjèrmazioni platoniche sulla necessità di una forte Marina. Ma non bisogna soltanto considerare la scarsità degli stanziamenti per la Marina in confronto a quelli delle altre nazioni; occorre tener presente che in realtà risultava notevolmente inferiore la parte viva del bilancio, ossia quella realmente disponibile per la difesa marittima, necessitando sottrarre in primo luogo le spese figurative, movimento di capitali e partite di giro, e Le spese de-
• "The Dreadnought represents a remarkabte development in naval construction, which has been Jor some lime jòreshadowed nolably by Colone/ Cuniberli, lhe jàmous ltalian naval conslruclor'. Cfr. Naval annua/ 1906, p. 2.
VJJI - PRO t, (,'ONTRO LE ARTIGLIERIE E NAVI COLOSSALI: GLI ATTACCID DEL SAINT BON
641
stinate alla Marina mercantile (essenzialmente per premi di costruzione e di navigazione). L 'ammiraglio Morin, in un suo discorso alla Camera dei deputati nel 1893, faceva considerare che con la .wmma residua dalle anzidette sottrazioni, si doveva non soltanto provvedere alla flotta, bensì mantenere quattro arsenali, e soddisfare alle esigenze di una Piazza marittima come La Maddalena, e concludeva: "In queste condizioni ci troveremo sempre una Marina che, più o meno, peccherà del vizio capitale di avere una base a terra troppo larga in confronto del suo sviluppo sul mare. O avremo una Marina che non rinnova con sufficiente ampiezza e con sufficiente celerità il suo materiale, o avremo una Marina che non naviga e non manovra. Avremo forse anche una Marina affetta, io maggiori o minori proporzioni, da entrambi questi due grandissimi difetti". Per ragioni di politica interna non si riuscì mai a sopprimere l'arsenale di Napoli; per distribuire il lavoro fra i nostri Cantieri, si ebbero grandi lentezze nelle costruzioni, rimanendo troppo ridotte le somme ripartite fra le varie unità. E infine la scarsità di risorse doveva fatalmente condurre per alcuni anni a non prowedere con tutta la larghezza desiderabile a sostanziali elementi di efficienza: al quantitativo di munizionamento a bordo delle navi, alla preparazione guerresca e agli organici del personale, alle dotazioni di riserva, al rinnovamento delle difese costiere. Si aggiunse nel 1903 l'rupra campagna socialista contro le spese militari, chiamate improduttive, gli attacchi diretti contro eminenti personalità e contro tutta l 'organizzazione marittima, accusata in Parlamento di sperpero, ciò che condusse alla Commissione d'inchiesta sulla Marina (legge 27 marzo /904). Le accuse furono sventate, e sotto l'energica amministrazione del ministro Mirabella (1903-08) con gli assegni straordinari in aggiunta al bilancio consolidato La Marina rimediò alle deficienze, e potè iniziare la costruzione delle dreadnoughts, di cui La prima jù varata nel 1910, altre tre nel 1911 e due nel 1913. in questi tipi di navifa ricercata una velocità leggermente superiore a quella delle navi contemporanee delle altre Marine; l'Italia era sempre stata in anticipo nel riconoscere l 'importanza della velocità quale elemento tattico e strategico per le navi di linea; ma quando tutte le Marine cominciarono a riconoscere l'importanza di tale elemento, ci contentammo di ricercare un ristretto vantaggi.o di velocità (un miglio e mezzo). In confonnità dell'indirizzo sino allora seguito poteva ritenersi logico il costruire qualche incrociatore da battaglia, ma non lo facemmo, astenendosene la Francia e l'Austria: tale tipo di nave assai costoso fu considerato come un lusso che non potevamo perrnetterci.5
Anche sulla base di questi giudizi del Bemotti , si può stabilire che sulle nostre costruzioni navali influiscono principalmente tre fattori negativi: 1) scarsità delle risorse in rapporto a quelle (circa il triplo) delle quali può disporre la marina francese più probabile avversaria, per non parlare della marina inglese; 2) eccessiva lentezza degli allestimenti, dovuta sia all ' arretratezza tecnologica dei cantieri, sia alle troppo frequenti modifiche in corso d' opera, a sua volta
5
ivi, pp. 88-90.
642
IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. IU (1870-1915) - TOMO li
derivanti da indirizzi troppo mutevoli; 3) esiguità dell'aliquota di bilancio che in rapporto alle assegnazioni complessive è possibile destinare alla "parte viva", cioè alle nuove costruzioni. Il giudizio del Bemotti su quest'ultima carenza - in pratica difficilmente eliminabile - è confermato da un articolo dell' ingegnere navale I. Sigismondi sulla Rivista d'Italia dell'agosto 1904,6 secondo il quale a fronte del 20-24% del bilancio complessivo della marina italiana dedicato alla "parte attiva", cioè alle costruzioni navali, l'Inghilterra dedica loro il 44% del bilancio della marina, la Francia il 46%, la Russia il 40%, la Germania il 47% e infine l'Austria il 50%, "il che equivale a dire, avendo essa un bilancio uguale a circa la metà del nostro, può dedicare alla riproduzione del naviglio quasi tanto quanto noi spendiamo per lo stesso scopo". Per il Sigismondi oltre che l'eccessivo numero di arsenali (che bisognerebbe ridurre almeno a tre) influiscono sui costi anche l'eccessiva complicazione dell'organizzazione della marina e i prezzi troppo elevati sia delle artiglierie principali prodotte in esclusiva dalla ditta Armstrong, sia dalle corazze prodotte dalle acciaierie di Temi, sorte per volontà del governo che le ha finanziate e ne ha assicurato la produzione in regime di monopolio protezionistico. Egli propone perciò che la marina attivi per proprio conto la produzione delle artiglierie presso l'arsenale della Spezia, dove già si costruiscono artiglierie da 152 mm. Questa situazione di base sfavorevole, difficile da sanare anche per ragioni politico-sociali, rende necessario approfondire ancor più di quanto finora abbiamo fatto l'andamento del bilancio della marina, per il quale le cifre non sono concordanti. Secondo una tabella elaborata da A. Pedone e citata dal Ceva,7 i bilanci consuntivi (in milioni di lire) dei Ministeri della guerra e della marina (un paragone è indispensabile) dal 1861 al 1913 sono stati i seguenti: Periodi
1861
6
7
Guerra Marina
305
51
Totale
Periodi
Guerra Marina
Totale
356
1874
183,2
33,9
217, 1
180
38,2
2 18,2 222.9
1862
294,5
87,2
383,7
1875
1863
252,5
83,9
336,4
1876
186, 1
37,8
1864
256
61,9
317,9
1877
207,3
42,9
250,2
1865
192,7
48,3
241
208,2
43,2
1866
510,8
68,4
579,2
1878 1879
251 ,4
188,6
42,4
231
1867
145
44,6
189,6
1880
211,5
45,l
256,6
1868
167,4
34,9
202,2
1881
210,9
44,7
255,7
1869
149,5
35,2
184,4
1882
234,1
49,1
283,2
1870
183
32,1
215,1
256,3
63,1
3 19,3
1871
151,l
26,8
177,9
1883 1884 (I O sem.)
118,8
29,3
148, 1
1872
166,1
30,8
196,9
1884-1885
253,8
77,2
330,9
1873
176,7
32,6
209,3
1885-1886
253,1
84
337
Cfr. anche, in merito, la recensione sulla rivista "Minerva" del 18 settembre 1904, pp. 971-972. Lucio Ceva, Stor;a delle Forze Armale ;n ltaUa, Torino, UTET 1999, pp. 103-104.
Vlll - PRO E CONTRO LE ARTIOUERJE E NAVI COWSSAU: GLI AlTACCIU DEL SAINT BON
Periodi
Guerra Marina
643
Totale
Periodi
1886-1887
269,2
95,3
364,5
1900-1901
246,1
126,2
372,3
1887-1888
316,6
114,2
430,7
1901- 1902
250,8
122,5
373,3
1888-1889
403,1
157,6
560,8
1902- 1903
242
119,6
361,6
1889-1890
305,5
123,3
428,9
1903-1904
242,7
119,4
362,1
1890-1891
285,4
113
398,5
1904-1905
254,1
123,3
377,4
1891-1892
261,3
105, 1
366,5
1905- 1906
253,1
121 ,2
374,3
Guerra Marina
Totale
1892- 1893
246,2
101 ,8
348
1906-1907
259,5
145,4
404,9
1893- 1894
253,4
100, 1
353,5
1907-1908
273,9
148,5
422,4
1894-1895
232,6
95,7
328,3
1908-1909
301,4
166
467,4
1895- 1896
342,6
96,1
438,6
1909- 1910
339,5
159
498,5
1896- 1897
272,4
103,1
375,5
1910-1 9 11
369,5
207,8
577,3
1897-1898
263,3
102,7
366
1911-1912
472,7
282
754,7
1898-1899
246
103,3
351,3
1912-1913
637,7
362
999,7
1899-1900
240
115,6
355,7
Secondo un articolo a firma D. Schiattino sulla Rivista Marittima, per l'esercizio 1872 i bilanci delle principali marine sono i seguenti: marina italiana 36.500.000 (comprese le spese straordinarie); marina francese 122.750.000, marina austriaca 26.200.000, marina inglese 240.000.000. 8 Va però osservato che: - la cifra indicata in un articolo sulla Rivista Marittima del 1900 da Francesco Crispi per lo stesso esercizio 1872 del bilancio della marina italiana è notevolmente inferiore (29.792.000), forse perché non considera i 7.500.000 di spese straordinarie menzionati nel citato articolo del 1872;9 - dall'analisi delle cifre indicate per le singole voci dello stesso bilancio 1872 non risulta chiara la somma complessivamente dedicata alle nuove costruzioni (2.200.000 per macchine + 200.000 per artiglierie e munizioni+ 3.000.000 per rinnovamento della flotta + 1.000.000 per costruzioni navali + 400.000 per armamento delle corazzale = 6.600.000?). In definitiva, dal confronto dei rispettivi bilanci emerge anzitutto che nel 1872 il bilancio della marina italiana non raggiunge 1h di quello della marina francese probabile nemica. Non è una novità, perché si tratta di una proporzione destinata a rimanere più o meno invariata fino ai primi anni del secolo (vds. Cap. T e V). li predetto bilancio è invece notevolmente superiore a quello della marina austriaca, segno evidente che l'Austria, nazione prevalentemente continentale, assegna una decisa priorità all'esercito e non ha grandi ambizioni nel Mediterraneo (nemmeno questa è una novità).
• D. Schiattino, Paragone del bilancio della marina italiana con quello di alcune potenze marittime, in "Rivista Marittima 1872, 111 Trimestre Fase. LX, pp. 1052-106 1. 9 Francesco Crispi, Per la difesa marittima, in "Rivista Marittima" 1900, III Trimestre Fase. 11III, pp. 201-207.
644
IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. 111 ( IR70-1915)-TOMO Il
La successiva legge 1° luglio 1877, n. 3960 (vds. il precedente cap. VII) "relativa all'organico del materiale della regia marina" (che fissa a 16 il numero delle navi da battaglia e prevede una spesa straordinaria di soli 20 milioni per nuove costruzioni, da ripartire negli esercizi dal 1878 al 1887) rimane l'unico riferimento per lungo tempo; perciò, come osserva ancora il Bemotti, non solo lo sviluppo della nostra flotta non fu mai regolato in modo tassativo da una legge navale come in Germania, "ma non fu nemmeno concretata una formula navale, ossia un rapporto di potenzialità da doversi mantenere rispetto al più forte dei due presumibili avversari [cioè alla Francia; l'altro era evidentemente l'Austria - N.d.a.]; ci limitammo a programmi costruttivi inadeguato alle vitali necessità della difesa nazionale". 10 Di conseguenza il piano organico approvato nel 1877 "nonostante l'opposizione del Saint Bon [come meglio vedremo in seguito, contrario a restringere lo sviluppo della marina in schemi precostituiti - N.d.a.], in sostanza rimase lettera morta; non fa stabilito il criterio della sostituzione e l'unità di misura del nostro sviluppo marittimo fu esclusivamente quellafinanziaria ; da questo, p er le strettezze in cui avemmo sempre a dibatterci, e per le frequenti crisi ministeriali, derivò un indirizzo discontinuo".1 1 Come già accennato al precedente cap. VTI, fino al 1900 circa la legislazione si limita a riconoscere la crescente importanza del naviglio leggero, sen:,,, a per questo diminuire il numero di 16 grandi navi fissato dalla legge del 1877. Il secondo fatto importante - nelle grandi linee - è il progressivo aumento del bilancio dal 1877 in poi fino a un massimo di 362 milioni (il 57% del bilancio dell'esercito) nel 1912-1913. All'inizio del 1886 il rapporto di forze tra marina francese e italiana è particolarmente sfavorevole: alle 41 O unità francesi (tra cui 44 corazzate, 21 corazzate guardacoste, 3 incrociatori e 123 torpediniere), l'Italia non può contrapporne che 175, delle quali 21 corazzate, 8 incrociatori e 92 torpediniere.' 2 Questa situazione spinge il Ministro Brina varare una nuova legge organica (30 maggio 1887) che modifica quella del 1877, lasciando invariato il numero delle navi di la classe (16) e aumentando in particolar modo il naviglio minore (da 10 a 20 le navi da guerra di seconda classe, da 20 a 40 quelle di terza classe, da 14 a 16 le navi da trasporto e da 12 a 26 quelle per uso locale). La stessa legge fissa a ben 190 il numero di torpediniere e autorizza la spesa straor~ dinaria di 85 milioni divisi in nove esercizi finanziari, dei quali 37 destinati alle costruzioni navali, 25 all'acquisto di siluri, 4 alla fornitura di nuovi cannoni a tiro rapido, 19 a lavori negli arsenali. Come già accennato, dopo il 1890 il bilancio complessivo della marina diminuisce gradualmente fino a raggiungere un punto di minima a tutto favore delle spese per l'esercito - in corrispondenza della guerra d'Eritrea. 10 11
Romeo Bcmotti, Op. cit., p. 86. ivi, p. 85.
" G iuliano Colliva, Op. cii., p. 52.
VTTI - PRO E CONTRO LE ARTIGLIERIE Il NAVI COLOSSALI: GLI AJTA(.,'CHI DEL SAINT BON
645
All'inizio del secolo XX, secondo il Naval Annua/ inglese le distanze tra la marina italiana e le due marine mediterranee più importanti sono decisamente eccessive: l'ultimo programma della marina francese prevede una spesa totale di 900 milioni in 7 anni, dei quali 100 dedicati a nuove costruzioni, mentre il bilancio per il 1900-1901 della marina inglese è di 928 milioni, dei quali 212 dedicati a nuove costruzioni. Con queste risorse, le navi da battaglia di prima, seconda e terza classe saranno 4 7 per l'Inghilterra e 34 per la Francia. 13 In questo difficile contesto, della necessità di aumentare il bilancio della marina italiana a fine secolo XIX già si trova un ampio accenno negli scritti del Bonamico (cap. I). Di rilievo ancbe un 'intervista pubblicata dalla Gazzetta del Popolo del 2 febbraio 1899 al deputato e scrittore Carlo Randaccio (vds. Voi. 11 - cap. XIII e Tomo I Vol. 111 - cap. VI), direttore generale del Ministero e relatore del bilancio della marina. L'autore dell'intervista esordisce affermando che dopo gli articoli pubblicati dal Bonamico sul giornale, i lettori devono essersi convinti "come colpisse giusto l'osservazione che.fin da/l'ottobre scorso
il senatore Saracco mi rivolgeva dicendomi che ormai questa della marina è la questione più grossa che l'Italia si trovi ad aver sulle braccia". Il Randaccio afferma <li aver richiesto al Ministero della marina tutti i documenti necessari per dimostrare "le condizioni tristissime del nostro naviglio", nel quale, tra l'altro, l'Italia e la Lepanto [entrate in servizio circa 14 anni prima - N.d.a.] "per cui abbiamo speso I 04 milioni, non sono più che due pontoni", mentre anche "non c'è più da contare affatto sul Duilio e sul Dandolo" [da ricordare, ancora, in merito, che il tentativo di ammodernare il Dandolo con la sostituzione degli ormai superati cannoni colossali con più moderni pezzi da 254 mm e dei 120 mm con 7 pezzi da 152 mm a tiro rapido sembra non avesse dato buona prova, pur comportando 3 anni di lavori ( dal 1894 al 1 897) e una spesa di 9 milioni; pertanto l'ammodernamento forse anche per ragioni economiche non era stato esteso al Duilio - N.d.a.]. Al momento, le navi veramente efficienti sono solo sei o sette; "qualche altra ancora sarà buona ad accom-
pagnarsi e ad appoggiarsi a queste. .fvfa qui è tutto, ed è pochissimo in confronto colla zavorra soverchiante di materiale pressoché inutile". Siamo dunque allo stesso punto del 1875, quando il Saint Bon, appena nominato Ministro, riscontrava la necessità di radiare buona parte del naviglio. Tra le cause di questa situazione il Randaccio indica i progressi vertiginosi delle tecnologie, che rendono il naviglio sempre più costoso a fronte delle ben note ristrettezze di bilancio; peraltro l'inettitudine degli uomini, preposti al Governo, jìn da parte sua causa gravissima, irreparabile del dissesto. I ministrifecero della politica spicciola dove era necessario fare della buona, savia, oculata amministrazione; si giovarono a capriccio della questione tecnica e delle esigenze di costruzioni navali per barcamenarsi nel pelago parlamentare. Sicché i denari iscritti nel bilancio della marina furono sempre spesi malissimo. n Si vcJa La n:ct:nsiooe io .,Rivista Marittima" L900, ID Trimestre Fascicolo IX-X, pp. 379-381 .
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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE lTAI.IANO - VOL. 11T ( 1870-191 5)- mMO Il
Anche il Randaccio accenna, come il Bemotti, ali' incapacità dei governanti di fissare un concetto chiaro di come la marina poteva e doveva essere e di come si poteva riuscirvi, con un impiego razionale delle somme disponibili; invece per ragioni clientelari e pressioni politiche, si sono sprecate risorse mantenendo un Ministero con sovrabbondante personale e cinque arsenali coma ha solo l'Inghilterra. Perciò alla sotto-giunta della Camera della marina - prosegue il Randaccio - chiederò di spendere bene ciò che può essere speso: "non preoccupiamoci delle apparenze, non gridiamo sui tetti di voler gareggiare col naviglio di questa o quella nazione, ma facciamo le cose bene per noi, nell 'interesse nostro". Da sottolineare che il Randaccio, accanto a questa ultima raccomandazione che ha sempre avuto scarso successo, è tra i pochi a preoccuparsi anche delle esigenze dell'esercito: certamente non si possono seguire i voli pindarici di coloro che domandano un prestito di cinquecento milioni per La ricostruzione del naviglio. poiché dobbiamo pensare che anche l'esercito per le stesse cause dei rapidi progressi scientifici, e per la cocciutaggine degli uomini (a voler mantenere i dodici corpi d'armata) ha necessità forse altrettanto e più urgenti specialmente per l 'armamento del 'artiglieria [ ciut: per la sostitut:ione delle artiglierie da campagna ad affusto rnpido con quelle con organi elastici, e per il nuovo parco di artiglieria di grosso calibro - N.d.a.].
Questo grido di allarme non cade sul vuoto: i successivi stanziamenti, anche se mai ispirati da una pianificazione organica, consentono di costruire con un notevole sforzo finanziario, tra il 1904 e il 1908, le 4 navi (ultime pre-dreadnougbt) tipo Vittorio Emanuele, più 6 dreadnought (tutte entrate in servizio prima del l'inizio della guerra) e numeroso naviglio minore. 14 Di particolare rilievo la legge 13 giugno 1901 (Ministro Morin) che consolida il bilancio della marina nella somma di f 123 milioni per l'esercizio 1900-1901, e di f 121 milioni negli esercizi successivi fino al 1905-1906 incluso. Detratte ( come per tutti gli altri bilanci annuali) le spese per la marina mercantile ( circa 1O milioni), rimanevano per la marina da guerra circa 111 milioni, dei quali nell 'esercizio 1905-1906 venivano impiegati - more solito - solo 23 milioni per nuove costruzioni. La successiva, fondamentale legge 2 luglio 1905, n. 320 "per maggiori assegnazioni per la marina militare" modificando il consolidamento previsto dalla legge precedente aumenta a 125 milioni il bilancio dell'esercizio 1904-1905, a 126 milioni quello successivo, a 133 milioni il bilancio per gli esercizi 1906-1907 e 1907-1908 e a 134 milioni quello per gli esercizi successivi, fino al 1916-1917. Un ulteriore, rilevante aumento avviene con la legge 27 giugno 1909, n. 384 (Ministro Mirabello), che fissa a 163.428.000 lire (meno i soliti 1O milioni per la marina mercantile) il bilancio 1909-1910 e defini-
110,
14 Comandante Levi Bianchini, I'olitica navale tedesca, austro-ungarica, francese, italiana, ToriE<l. S<:uula <li Out:na [fa4'r<:ilu) 1914, pp. 58-73.
vm -
PRO E CONTRO LE ARTIGLIERIE E NAVI COLOSSALI: GLI A1TACCHI DEL SAINT llON
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sce per gli esercizi seguenti (daJ 1910-1911 fino a tutto il 1915-1916) un programma navale che comporta una spesa complessiva di 440 milioni, e tra l'altro prevede il completamento e/o la costruzione delle predette dreadnoughts. Nonostante l'incremento degli stanziamenti e delle nuove costruzioni, il livello di efficienza generale della marina desta notevoli perplessità sia in esponenti della Royal Navy, sia nei nostri alleati. 15 Anche l'onorevole Federico de Palma commentando le manovre navali sulla Nuova Antologia del 1906 critica la scarsa preparazione tattica dei comandanti, l'ordinamento, i sistemi di addestramento e le costruzioni navali, che "non rispondono a direttive ben determinate; ieri si costruiva la nave di 13 mila tonnellate; oggi quella di I Omila, e già si rinuncia a quest'ultima per saltare alla nave di 16 mila tonnellate". 16 La citata Jegge del 27 giugno J 909 prevede stanziamenti rivelatisi insufficienti a fronte del troppo vasto programma previsto, con una deficienza calcolata in ben 90 milioni. Pertanto la successiva legge 2 luglio 1911, n. 630 intende porre rimedio a queste manchevolezze, prevedendo: - il prolungamento di un biennio del periodo previsto dalla legge del 1909, con l'aggiunta di 80 milioni per ciascuno dei due nuovi esercizi 19161917 e 1917-1918; - la stabilità delle risorse destinate aJle nuove costruzioni, fissando nella cifra di 60 milioni gli stanziamenti destinati aJla parte ordinaria del bilancio dalla legge del 1909; - l'aumento a 90 mi Iioni complessivi (cifra equivalente alla deficienza constatata) degli stanziamenti straordinari, ripartiti tra l'esercizio 1910-1911 e 1917-1918 compreso; - la possibilità di far fronte a spese eccedenti le somme stanziate per la parte straordinaria con i mezzi di tesoreria, per una somma non superiore ai 30 milioni annui e da prelevare daJle spese straordinarie relative agli ultimi tre esercizi (cioè dal 1915-1916 al 1917-1918); - un aumento delle spese della parte ordinaria (oltre le spese effettive consolidate e gli aumenti straordinari prima indicati) di 74 milioni, ripartiti nel periodo compreso tra l'esercizio 1910-1911 e quello 1917-1918. Nel complesso, la predetta legge del 1911 concede i seguenti aumenti di bilancio: - per gli esercizi dal 1910-1911 al 1917-18, 74 milioni per la parte ordinaria e 90 milioni per la parte straordinaria; - per i due esercizi 1916-1917 e 1917-1918 160 milioni. Per effetto di tale legge, il bilancio dell'esercizio 1910-1911 ammonta a 184 milioni circa a fronte dei 163 milioni del precedente esercizio 1909-191 O, con un aumento sulle spese consolidate di circa 20 milioni. li bilancio 19111912 ammonta a 192,5 milioni circa, con un aumento delle spese consolidate
15 16
Giuliano Colliva, Op. cit.. p. 58. Federico Dc Pahua, Le manuvre navali del 1906, in "Nuova Antologia" I dicembre 1906.
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di quasi 9 milioni. Il bilancio 1912-1913 prevede una spesa di 214 milioni, con ben 21,6 milioni di aumento rispetto a quello dell'esercizio precedente. Il bilancio 1913-1914 prevede una spesa di 257 milioni circa, con un aumento di 42,6 milioni circa rispetto al precedente. I predetti bilanci sono ulteriormente aumentati da stanziamenti straordinari, per specifiche esigenze non previste in precedenza. Ne elenchiamo i principali: - bilancio 1908-1909: 1Omilioni (contro diminuizione di egual somma nel bilancio 1914-1915 stabilito dalla legge del 1909) "per costruzione ed acquisto di navi e materiali", più un assegno straordinario di altri 5 milioni "per lavori e costruzioni varie"; - bilancio 1909-1910: 3,7 milioni circa, dei quali 1.700.000 per spese della spedizione in Cina e 1.000.000 per aumento delle dotazioni di carbon fossile; - bilancio 1910-191 l: 2,4 milioni circa, dei quali 1,7 milioni per spese della spedizione in Cina; - bilancio 1911-1912: 17,5 milioni, dei quali 15 per l'assestamento del bilancio 1911-1912 (con prelevamento delle assegnazioni del bilancio successivo) e 1,7 circa per spese della spedizione in Cina; - bilancio 1912-1913: 31 milioni circa, dei quali 30 milioni per spese della campai:,rna di Libia. Con legge 23 gennaio 1912, n. 626 sono inoltre stanziati 15 milioni per spese straordinarie in aggiunta a quelle stabilite dalla legge 2 luglio 1911, n. 360. La stessa legge 23 giugno 1912 prevede l'assegnazione di 6,5 milioni in aggiunta alle spese ordinarie consolidate, per aumento forza organica degli equipaggi, delle dotazioni di combustibili e munizioni ecc. Essa dà inoltre facoltà al Ministero di proporre anche per gli esercizi successivi al 1913- 1914 maggiori assegnazioni alla parte ordinaria dei rispettivi bilanci. Dai provvedimenti finanziari prima indicati appare chiaro che nel periodo 1900-1915 una volta tanto la marina italiana riceve risorse sufficienti e viene notevolmente potenziata, anche se le assegnazioni avvengono in modo disorganico e disordinato, a fronte di esigenze che evidentemente non sono mai ben previste, ben calcolate e finalizzate a un preciso obiettivo da raggiungere. L'aumento dei costi e gli eventi internazionali non prevedibili (campagna di Libia, spedizione in Cina), pur comportando notevoli spese, non sono del tutto sufficienti per giustificare una tendenza, con la quale pur dando in definitiva alla marina ciò che chiede si spende sempre alla giornata, senza una qualche linea direttrice, senza criteri costanti per regolarne lo sviluppo. Per un utile confronto, è ora opportuno riepilogare nelle grandi linee qual è lo sforzo finanziario e quali sono i criteri che governano lo sviluppo delle due marine di maggiore interesse per quella italiana, la francese c l'austriaca.17 Co-
17
Romeo Bemolli, Up. cii., pp. 41-60 e 77-98 e Comandante Levi-Bianchini, Op. cii., pp. 34-57.
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me più volte accennato la marina francese, pur soffrendo di inconvenienti e difetti di indirizzo spesso analoghi alla nostra, è assai più ricca e superiore per numero e tale sempre inevitabilmente rimane, perché espressione di un paese molto più ricco e industrializzato. Le nuove costruzioni navali corrispondenti ai concetti dellaJeune École e iniziate durante la permanenza al Ministero dell'ammiraglio Aube, nelle quali dominano il culto del numero, la svalutazione della corazzata e l'esaltazione della torpediniera, non hanno esito felice . I bateau-canons costruiti per offese costiere e per l'attacco al naviglio corazzato (con un solo cannone corto da 140 mm, dislocamento 80 t, velocità 20 nodi) accusano ben presto instabilità della piattaforma e deficienti qualità nautiche; anche le torpediniere del momento non sono ancora idonee all'impiego in alto mare, perché poco marine e con scarsa autonomia. Sono costruiti incrociatori corazzati, ai quali si affiancano incrociatori protetti e numerose navi antiquate e guardacoste. Solo a fine secolo XIX, e particolarmente dopo l'incidente di Fashoda e la conseguente tensione con l'Inghilterra (1898) nella quale la marina francese si rivela assolutamente non in grado di affrontare la Royal Navy, essa si orienta di nuovo verso la guerra di squadra e quindi verso l'incremento delle forze di linea. Di particolare rilievo il programma del 1900 (Ministro Lancssan), che prevede fino al 1907 una spesa di 900 milioni, della quale 711 dedicati all ' aumento della flotta e il resto alla difesa costiera, al potenziamento della base di Iliserta ecc .. L'obiettivo da raggiungere è di 28 corazzate di squadra, 24 incrociatori corazzati, 52 cacciatorpediniere, 263 torpediniere, 38 sottomarini; in particolare è prevista la costruzione di 6 nuove corazzate tipo Patrie. 18 Peraltro, il regolare svolgimento di questo programma ègravemente compromesso dal successivo Ministro Pelletan, (un altro nemico delle grandi navi dopo Aube) che elimina le nuove ordinazioni e blocca i lavori in corso provocando un ritardo di oltre 2 anni per la costruzione di corazzate e di oltre un anno per gli incrociatori corazzati, in base al nuovo principio - in anticipo sui tempi - che " l'avvenire della nostra potenza navale è soprattullo nei sommergibili". Di conseguenza dal 1902 al 1906 in Francia non sono più impostate nuove corazzate, limitando lo sviluppo della flotta alle unità previste dal programma 1900. Nel dibattito alla Camera rranccsc sul bilancio 1905 il Ministro del momento manifesta l'intento di costruire in 12 anni, a partire dal 1906, 24 grandi unità di 13-16000 t e un gran numero di cacciatorpediniere e sottomarini, con uno stanziamento di ben 121 milioni all' anno per costruzioni navali. li bilancio totale della marina francese previsto per quell'anno (in lire) è di 318,7 milioni circa, con una spesa per costruzioni navali di 102 milioni. 19 Nel 1906 viene approvato un nuovo programma, nel quale a fronte della richiesta di 1O corazzate e 12 incrociatori del Consiglio Superiore della Marina (che prende co-
1•
"Rivista Marittima" 1900, I Trimestre Fascicolo I, pp. 305-306.
1 •
" Riv ista Marittima" 1905, m Trimestre, Fascicolo vm, pp. 3 79-3 81.
650
IL PENSIERO MILITARE
i;
NAVALE ITALIANO - VOL. III (1870-1915) - TOMO Il
me riferimento non più la marina inglese ma la nuova, crescente marina tedesca), il Parlamento riduce le corazzate a 6 (classe Danton, con 4 cn. da 305 mm e 12 da 240 mm, dislocamento 18000 t, velocità 19 nodi) e gli incrociatori corazzati a 2. 1 fondi richiesti dalla marina per lo stesso anno 1906 ammontano a 325 milioni (6 milioni circa in più rispetto al 1905), dei quali 98 per costruzioni navali. In seguito a lacune organizzative emerse nell'organizzazione della marina (tra le quali la perdita della corazzata Jena per esplosione di polveri avariate) nel 1909 viene nominata una Commissione parlamentare d'inchiesta sulla marina e alla serie di Ministri ci vili subentra l'ammiraglio Boué de Lapeyrère. Il nuovo Ministro nel 191 O presenta un piano organico sul modello tedesco approvato nel 1912, che ha come scopo più probabile quello di contendere il dominio del mare nel Mediterraneo alle flotte italiana e austriaca; pertanto "la flotta da battaglia deve essere capace di agire vigorosamente in qualunque eventualità" ed essere composta (meta finale) da 28 corazzate di squadra, 10 incrociatori, 52 cacciatorpediniere e 94 sommergibili, con esclusione delle navi corazzate guardacoste nelle quali la marina francese aveva avuto sempre molta fiducia. Dal 1910 al 1914 la situazione numerica della flotta francese prevista è la segucnlc: TlPIDI NAVI
1910
19ll
1912
1913
1914
Corazzate
16
16
22
23
25
Incrociatori
IO
10
10
10
10
52 81
Cacciatorpediniere
44
44
52
52
Sommergibili
56
68
76
77
Da notare l'aumento del numero delle corazzate francesi, con il varo di 4 Dreadnought dal 1911 al 1912 e di altre 3 Superdreadnought (classe Bretagne) nel 1913. Accanto a queste unità, comunque, viene sempre mantenuto un numero molto elevato di altre unità meno moderne. Come già accennato, la marina austriaca riceve costantemente assegnazioni minori di quella italiana, e ha una forza rispetto ad essa minore; ma crede in un'asserita superiorità morale che le deriverebbe dalla vittoria di Lissa, può contare su un maggior rendimento dei fondi ricevuti (ad esempio, ha un solo arsenale), su una morfologia delle coste molto più favorevole di quella italiana e (infine) sulla scarsa - se non inesistente - preparazione italiana alla guerra nell'Adriatico. Questo mare rimane così ad essa riservato e ad esso limita i suoi obiettivi strategici, con il vantaggio accessorio di poter costruire navi con autonomia più ridotta di quelle nostre, destinando all'armamento e alla corazzatura il tonnellaggio di carbone così ridotto. il bilancio della marina austriaca nel 1868 è di 14 milioni di corone (1 corona = 1,05 lire), per salire gradualmente a 45 milioni nel 1900 e a 84 milioni nel 1909. La marina italiana è sempre vista come unica rivale e non si prevede affatto che le due flotte alleate possano cooperare insieme nel Tirreno, contro
VIII - PRO E CONTRO LE J\RTIGLTERIP. E NAVI COLOSSALI: GLI ATIACCHJ Dt::L SAlNT BON
65 J
eventuali nemici della Triplice. Sintomatico quanto dichiara dopo le manovre del 1906 l'Arciduca ereditario Francesco Ferdinando: "la flotta deve diventare così forte da poter assolvere i suoi compiti in Adriatico, non già limitandosi alla difesa passiva delle coste, ma uscendo in mare per ricercare e battere il nemico". A questa tendenza offensiva corrisponde il programma delle tre corazzate pre-Dreadnought tipo Radetzky. Per ultimare tale programma i fondi sono insufficienti, e la marina rimane debitrice di 20 milioni verso l'industria. Nel 1910 la tensione con la Serbia fornisce l'occasione per un nuovo e più ambizioso programma navale che prevede il raddoppio del bilancio ordinario per il completamento dei Radetzky, e la costruzione di quattro Dreadnought oltre a numeroso naviglio minore. Il programma è rifiutato dal Ministero delle finanze, ma lo Stabilimento Tecnico Triestino inizia ugualmente a proprio rischio la costruzione di due corazzate, con il sostegno di banchieri e sindacati metallurgici e l'appoggio del Principe Ereditario. Alla fine di febbraio 1911 il Capo della marina ammiraglio Montecuccoli riesce finalmente a far approvare un programma navale che comporta una spesa straordinaria di 312,4 milioni di corone ripartita in 6 anni (dal 1911 al 1916), per la costruzione di 4 corazzate da 20.000 t (che poi supereranno le 21.000 t) e naviglio minore. TI programma prevede inoltre un aumento del bilancio ordinario di 23 milioni circa di corone ripartita dal 1912 al 1916. In virtù di tale programma nel 1916 laflottaaustriaca dovrebbe essere composta da 16 corazzate, 12 incrociatori, 24 cacciatorpediniere, 72 torpediniere, 12 sottomarini, mentre al momento sono disponibili 12 corazzate, 11 incrociatori, 19 cacciatorpediniere, 73 torpediniere e 6 sottomarini, ma sono effettivamente utilizzabili per la guerra solo 9 corazzate, 6 incrociatori, 12 cacciatorpediniere, 36 torpediniere e 6 sottomarini. Tenendo conto che per iI 1911 è stata richiesta la costruzione di 4 corazzate, 3 incrociatori, 6 cacciatorpediniere, 12 torpediniere e 6 sottomarini, per il 1916 sono richiesti in più 3 corazzate, 3 incrociatori, 6 cacciatorpediniere, 24 torpediniere. TI bilancio del 1912 è di 149 milioni di corone comprese le spese straordinarie, quello del 1913 è di 194 milioni di corone, cioè di 45 milioni in più. Secondo il Bemotti nel 1914 la flotta austriaca comprende 15 corazzate (3 Dreadnoughts, 3 quasi-Dreadnoughts, 9 pre-Dreadnoughts di cui tre antiquate), 2 incrociatori corazzati (di cui uno antiquato), 18 cacciatorpediniere, 6 sommergibili e un numero imprecisato di torpediniere. Al confronto, la notta italiana all'entrata in guerra (24 maggio 1915) comprende 16 corazzate (delle quali 2 antiquate - Duilio e Dandolo, 4 Dreadnoughts, 5 quasi-Dreadnoughts e 5 pre-Dreadnoughts), 8 incrociatori, 33 cacciatorpediniere, 55 torpediniere, 18 sommergibili. Nel marzo 1916 entra in servizio una quinta Dreadnoughts, l'Andrea Duria. Durante la guerra non sono costruite altre corazzate né si costruiscono incrociatori, ma sono progettate e impostate le 4 corazzate tipo Caracciolo (8 cn. da 381 mm, dislocamento 35000 t, velocità 28 nodi), poi demolite subito dopo il 1918 per decisione del Ministro Sechi. Come risulta da uno specchio del Bernotti, dal 1904 al 1913 l' Italia ha varato (cosa diversa dal
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IL PENSIERO MJLITAIIB E NAVALE ITALIANO - VOL. JU (1870-191 5) - roMO Il
far entrare in servizio) 10 corazzate (delle quali 5 Dreadnoughts), la Francia ne ha varate 16 (delle quali 7 Dreadnoughts) e l'Austria 8 (delle quali 3 Dreadnoughts). Riassumendo, da questi dati frammentari risulta dimostrato che: a) anche nel periodo 1900-1915 la marina francese grazie a un bilancio molto più ricco conserva la superiorità numerica sulla nostra, ivi comprese le Dreadnoughts; b) peraltro la nostra marina nello stesso periodo riduce il divario a suo sfavore rispetto alla marina francese e conserva una certa superiorità rispetto alla marina austriaca. Tale superiorità italiana e sminuita non solo dalla ben nota, sfavorevole morfologia delle nostre coste adriatiche, ma anche dalla mancanza di qualsivoglia apprestamento da parte nostra, per creare almeno uno o più punti d'appoggio logistico sulle nostre coste e/o per rendere la base di Venezia idonea anche per le grandi navi (se ne discute fin dal 1880). Come riferisce il comandante Guido Po, all'inizio della guerra "si stava rajjòrzando la difesa di Venezia con potenti batterie ed erano in corso gli scavi agli Alberoni e a Malamocco per preparare lo specchio d'acqua alle grandissime navi",20 ma ciò non viene fatto neppure durante la guerra, molto probabilmente per non arrischiare in Adriatico le maggiori navi di superficie, soggette alla minaccia dei sommergibili e mine e perciò concentrate per tutta la guerra 1915-1918 nei porti di Brindisi e Taranto.21 Da escludere, comunque, che ragioni diplomatiche impediscano gli apprestamenti nell ' Alto Adriatico, visto che l'esercito nonostante l'alleanza con l'Austria fortifica il confine di Nord-Est, come fa lo stesso esercito austriaco. Una cosa è certa: che fino al 1915 la prospettiva del confronto della marina italiana con i più probabili avversari (la marina inglese e quella francese) è proibitiva, sì da far dire dallo Stato Maggiore della Marina nell' aprile 1913 al Governo la celebre frase "o si cambia la politica o si cambia la marina". Per fortuna nella primavera 1915 (cosa che non è successa nel 1940) si è cambiata la politica, con l'adesione dell'Italia alla Triplice intesa e la conseguente nostra alleanza con le due marine mediterranee più forti contro l'Austria: ma le difficoltà nella guerra 1915-1918 non sono affatto diminuite, con la centralità della guerra dei convogli in Mediterraneo e nell'Atlantico, la perdita da parte nostra del 53% della marina mercantile ad opera dei sommergibili tedeschi, la marginalità del ruolo delle navi maggiori nelle quali eravamo più forti rispetto ali' Austria e le nostre pesanti perdite di naviglio leggero in Adriatico, superiori a quelle austriache.
20 Guido Po, Documenti austriaci riferentesi al bombardamento di Ancona, in "Bollettino dell' Ufficio Storico Esercito" dcl 1° novembre 1927, pp. 475-482. 21 L' impiego delle corazzate in Adriatico nel 1917 fu ritenuto troppo pericoloso anche dal comandante della flotta austriaca ammiraglio Haus, che citando l'esempio italiano, francese e inglese ammise con franchezza ammirevole che di fronte al pericolo delle mine e dei sommergibili le comzzale non potevano fare nulla (Documenti austriaci sull ·uttima guerra adriatica. in "Bollettino Storico Esercito" anno 1928, pp. 470-480; Cfr. anche Ferruccio Botti, La marina italiana nel XX secolo, in "Rivista Marillima" luglio 200 I, pp. 36-41.
VUI - PRO E CONTRO LE ARTIGLIERIE li NAVI COLOSSALI: GLI A'ITACCHJ DEL SAINT RON
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ln sintesi, la guerra sul maTc italiana 1915-1918 conferma l' importanza e la centralità del naviglio leggero già sostenute dal Sachie con il ruolo preminente dei rifornimenti via mare rende l'Adriatico un mare secondario e fa definitivamente emergere la preminenza del siluro (sia pure con un nuovo vettore, il sommergibile; la torpediniera non sembra accreditare la fiducia conquistata nella seconda metà del secolo XTX e fino alla battaglia di Tsushima). La corazzata, invece, almeno per le marine minori non sembra aver fornito un rendimento corrispondente agli ingenti sforzi finanziari che ha richiesto da sempre.
SEZIONE m - Il dibattito sulle navi da alienare e i dubbi del nuovo Ministro Saint Bon sull'opportunità di costruire ancora corazzate e sull'utilità di un ''piano organico" della flotta (1873-1875) I primi articoli della "Rivista Marittima" contro le navi colossali Come si è accennato, l'impostazione delle prime due grandi navi italiane (Duilio e Dandolo), che possono senz'altro essere definite rivoluzionarie, avviene su progetto di un grande nome e futuro Ministro, l' Ispettore del genio navale Benedetto Brin, sotto l'egida del Ministro Riboty e con la chiara ambizione di creare - nonostante il crescente pericolo di siluri e mine - due unità più potenti, più corazzate e più veloci di quelle di tutte le altre marine, quindi anche di più elevato dislocamento e costo. Non risulta che il progetto di Benedetto Brin sia contestato in Parlamento; ma sulla Rivista Marillima del 18721873 già comincia a prendere corpo nella pubblicistica navale un dibattito ispirato anche da studi stranieri, nel quale affiorano opinioni decisamente non in armonia con il progetto del Brin, pur non attaccato direttamente per comprensibili motivi. W.G.Armstrong (il progettista e costruttore inglese delle celebri artiglierie adottate anche per il Duilio, il Dandolo e le nostre navi costruite in seguito) in una lettera dell'aprile 187222 sostiene, in estrema sintesi che: - "è aperta la via a qualunque aumento di dimensioni che venga richiesto all'artiglieria"f.previsione errata - N.d.a.]; - i siluri (o "torpedini mobili'') sono destinati ad aumentare continuamente la loro efficacia, "e nel resistere loro la più forte corazzata non ha vantaggio sulla nave interamente non protetta" [non è sempre vero - N.d.a.]; - "non ci si può aspettare che alcun spessore praticabile di corazzatura possa assicurare l'invulnerabilità per qualche lunghezza di tempo";
22
Jn "Rivista Marittima" 1X72, lii Trimestre Fascicolo VII, pp. 746-749.
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- ne consegue che l'aumento continuo di spessore delle corazze richiede o una parallela riduzione delle artiglierie, o un aumento del dislocamento delle navi e quindi del loro costo, tale da "limitare la produzione dei bastimenti da guerra ad un numero inadeguato per.fermare una marina di qualche importanza". Da queste constatazioni discende perciò una formula costruttiva antitetica a quella del Brin: per Armstrong la corazza per la protezione delle artiglierie [con torri corazzate - N.d.a.] dovrebbe essere abbandonata interamente, e "dubito se convenga usarla interamente" a protezione dello scafo, "eccetto estensioni molto limitate". La miglior difesa contro i siluri sono i compartimenti stagni nello scafo; perciò l'eliminazione del peso morto della corazza "darebbe i mezzi di accrescere in enorme misura l'armamento e la velocità della nave e meglio ancora, permetterebbe di fare le navi più piccole e di averne di più, dimodoché la perdita di una nave non sarebbe più una calamità nazionale come avviene ora''. Queste navi, molto veloci, sarebbero armate con uno o due cannoni capaci di forare le più forti corazze e altri cannoni leggeri, ma di forte calibro per sparare grosse granate con limitata velocità iniziale; molto utili sarebbero anche le mitragliatrici tjpo Gatling. Una siffatta nave "sarebbefòrmidabile antagonista di una corazzata anche nei combattimenti d'artiglieria e per investire o per usare le torpedini"; e poiché se ne può costruire un numero molto maggiore di quello delle corazzate, "qualunque sia il risultato di un combattimento singolare, un attacco combinato di varie di queste navi contro una corazzata sarebbe, a mio giudizio, irresistibile". Peraltro un articolo non firmato sull'Engineering del 20 dicembre 1872, tradotto e pubblicato (senza commenti) dalla Rivista Marittima dell'aprile 1873, riporta un'opinione totalmente contraria a quella pur autorevole dcli' Armstrong: - gli studi del Bessemer miranti ad avere la stabi lità della piattaforma - e quindi una maggiore precisione delle artiglierie - non giocano a favore solo delle piccole navi, ma anche delle corazzate; - mentre il bastimento non corazzato contro una corazzata è costretto a impiegare dei proietti massicci capaci di perforare la corazza ma senza produrre danni gravi, la corazzata contro una nave priva di corazza può usare granate comuni con forti cariche, capaci di produrre danni molto superiori; - la struttura cellulare è inutile contro quest'ultimo tipo di proietto; comunque il sistema cellulare su una nave di dislocamento ridotto si può applicare solo su piccola scala; - la velocità e la capacità manovriera delle piccole navi non possono evitare che esse siano a tiro dei cannoni delle corazzate, se non altro quando a loro volta devono usare le artiglierie; - al momento non è possibile costruire bastimenti piccoli, veloci e in grado di imbarcare i cannoni necessari per affrontare le corazzate, né è possibile armare con tali artiglierie le navi mercantili, e/o usarle come arieti.
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Vili - PRO E aJNTRO LE ARTIULIERJE E NAVI COLOSSALI: GLI ATTACCHI DF.I. SAINT BON
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Nello stesso periodo sono pubblicati sempre sulla Rivista Marittima due articoli il cui autore è anonimo, che ambedue fanno riferimento al dibattito in corso in Tnghilterra. 23 Il primo del 1872, a firma C.R. (Carlo Rossi? Poco probabile, visto che, come si è visto, il comandante Rossi al momento fa parte dell'entourage del Ministro Riboty), prende atto del naufragio del Captain (prima corazzata inglese a torri, con 4 cn. da 305 mm e dislocamento di 7000 t circa, affondato nel settembre 1870 con il suo stesso progettista e comandante Coles a causa delle murate costruite troppo basse) e dichiaratamente si ispira alla citata lettera di Armstrong, indicando nel rostro o nel siluro - non nelle artiglierie - le armi principali, che possono essere usata con successo anche da una nave di 2-3000 tonnellate contro una nave dalle potenti artiglierie come la già nota Devastation inglese, che pure ha pezzi del calibro massimo di 305 mm. Ciò vale soprattutto per l'Italia, la cui potenza marittima deve essere aumentata: "ma nel volerla aumentare, lo :,peltro della Devastation, delle navi di I Ooppure I 2 milioni di prezzo [i tipi Duilio e Italia costeranno molto di più - N.d.a. ], atterrisce e jà andare a rilento. Perché non potremmo afferrarci a questa idea del 'abbandono della corazza?". Il secondo articolo (1873) a firma A.C. fa ancor più ampio riferimento alle costruzioni navali inglesi e al dibattito colà in corso tra i sostenitori della corazzata (il cui modello è sempre laDevastation) e quelli delle navi c.d. "a piccolo bersaglio" rappresentate dal Captain. Per quanto riguarda le specifiche esigenze italiane, A.C. afferma - a torto - che in linea generale "sembra probabile che siasi raggiunto il limite pratico coi disegni progettati'' e che "gli studi dei costruttori si rivolgeranno piuttosto a semplificare che ad aumentare i mezzi di dijèsa"; ma anche se la nostra flotta non mira a distruggere il nemico, né a combattere in mari lontani, le nostre navi devono avere una potenza difensiva tale, da impedire al nemico sbarchi importanti e bombardamenti dal mare, con depositi di carbone considerevoli e in grado di assicurare loro sufficiente autonomia. Queste esigenze portano a tali complicazioni per la loro effettuazione, che bisogna portare i bastimenti, ormai vere fortezze galleggianti, a dimensioni se non enormi, almeno assai grandi. Vale meglio utilizzare ciò che si economizza di combustibile e d'altri approvvigionamenti in aumento di potenza delle artiglierie, anziché nel ridurre le dimensioni, per mettere così quelle macchine da guerra bene avanti nella via dei progressi militari.
Inoltre, con bastimenti grossi si ottiene un maggior numero di cannoni con minore spesa di quanto sarebbe necessario con bastimenti piccoli; e anche nel)' impiego come ariete (cioè con lo sperone) un bastimento grosso fornirebbe
23 C.R. (Carlo Rossi?), Sui moderni baslimenli da guerra, in "Rivista Marittima" 1872, III Tri- mcstrc, Fase. V 11 pp. 738-745, e A.C., La questione della.flotta corazzata. in "Rivista Marittima" 1873, I Trimestre, Fa.~c. 11, rr. 244-259.
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migliori risultati di un bastimento piccolo. Non si può negare che bastimenti piccoli, veloci, non corazzati, armati di un solo cannone, potrebbero riuscire utilissimi, se bene impiegati; tuttavia nonostante il loro numero soccomberebbero sotto i colpi di una nave quasi invulnerabile, quale è la corazzata. Oltre alle corazzate, la nostra flotta dovrebbe essere composta da un numero non molto esteso di incrociatori veloci e non corazzati, con potenti cannoni e muniti anche di vele per le spedizioni lontane, da impiegare per la protezione del commercio per la sorveglianza della squadra nemica. A.C. rimane dunque ben lontano dall'estremismo concettuale dell'articolo precedente e riconosce l'utilità della corazzata: ma si tratta di una nave di tonnellaggio moderato sul modello inglese Devastation, nella quale si privilegiano le artiglierie. Qualcosa di ben diverso, dunque, dalla formula del Brin, per la quale al momento (1872-1873) non si conoscono studi che ne dimostrino la convenienza, a fronte di una tendenza abbastanza chiara della Rivista Marittima a preferire dislocamenti piccoli e medi. Rimane da accennare brevemente ad un articolo del capitano Cassala sulla Rivista Militare (1873), notevole per la descrizione dei costi enormi delle flotte e delle difese costiere (dati i troppi punti delle coste italiane da difendere), e da ricordare anche per l'esaltazione delle mine e del siluro, definito dal suo inventore austriaco colonnello Luppis "infallibile distruttore dei più potenti navigli corazzatt'. 24 Le tesi contrarie non solo alle "navi colossali" del Brin, ma anche alle corazzate in genere sono sostenute nella Nuova Antologia nel 1875 da un nome illustre, A. V. Vecchj. 25 Dopo una pregevole storia delle mine, delle torpedini e dei siluri con particolare riguardo alla guerra americana 1861-1865, il Vccchj sostiene l' efficacia delle nuove armi anche contro le corazzate, tanto che "la torpedine ha alterato la strategia quale l'avevano modificata la navigazione a vapore, la corazzatura e infine lo sperone. Jmperciocché la nave in legno che guernisce il proprio tagliamare di un pettine munito di torpedini diventa alla all'urto come una corazzata". Nessun culto del cannone delle navi nel Vecchj: anzi, a suo parere i cannoni delle difese costiere, diventati insufficienti contro le navi a vapore, hanno ripreso la prevalenza, mentre "al duello tra corazza e cannone, duello industriale quanto militare, succede il duello fra corazza e torpedine". Il nuovo duello, però, non fa cessare l'antico ed entrambi infuriano a colpi di milioni, in un gioco dal quale nessun Stato può esimersi, e "dove ogni nazione procura a sopraffàr l'altra, contentandosi del minimo vantaggio di arma, del più meschino guadagno di tempo".
" G. Cassala, Appunti e osservazioni sulle navi corazzate, sui cannoni di gran potenza e sulla difesa delle coste, in "Rivista Militare Italiana" Anno XVIJI - Voi. IV ottobre 1873, pp. 5-42. li Augusto Vittorio Vecchj, La marina da guerra - le torpedini. in ''Nuova Antologia" Voi. XXX - Fase. IX settembre 1875, pp. 111-130.
VIII - PRO E CONTRO LE ARTIGLIERIE E NAVJ COLOSSALI: GLI AITACCHI DEI. SAINT llON
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Il dibattito alla Camera sulle navi da alienare e le contraddittorie dichiarazioni del nuovo Ministro Saint Bon su corazzate e torpediniere (dicembre 1873 - marzo 1875) Rispetto a quanto affiora nel la pubblicistica militare, sono più importanti talune poco note decisioni del Ministro Riboty e il dibattito alla Camera dal 1873 al 1875. Dimostrando con i fatti che l'impostazione delle navi colossali non avviene in un quadro strategico "indipendentista" e autoreferenziale, il Ministro Riboty convoca per il 12 giugno 1873 (contemporaneamente all'inizio dei lavori per il Duilio e il Dandolo e in accordo con il collega Ministro della guerra generale Ricotti) una Commissione mista di ufficiali dell'esercito e della marina, con il compito di studiare con criteri finalmente unitari e interforze i problemi della difesa dello Stato, con particolare riguardo alla difesa delle coste. Presieduta dal generale Menabrea (già tre volte Ministro della marina, sia pur per breve tempo), la Commissione è composta da personalità di rilievo delle due Forze Annate come i generali Cosenz, Longo e Parodi, gli ammiragli De Viry e Isola, il capitano di vascello Bucchia, l' ispettore del genio navale Mattei e il tenente di vascello Pescetto (segretario). La sua composizione, dunque, porta a far ritenere infondata la frequente accusa di un approccio esclusivamente o eccessivamente "terrestre" ai problemi della difesa dello Stato. L'inesistenza di tale approccio unilaterale è confermata anche dalle conclusioni dei lavori della Commissione, che per la difesa delle coste ritiene necessaria "unaflotta di almeno 20 navi da battaglia" [con quali risorse? - N.d.a. ], coadiuvata da fortificazioni costiere (allora e sempre insufficienti) e da un'accurata organizzazione dei semafori lungo le coste (che al momento anch'essa manca), più "mezzi marittimi speciali'' (torpedini, mine profonde, sbarramenti, ostruzioni, batterie galleggianti e cannoniere). Toccando il punctum dolens del problema, la Commissione boccia inoltre la proposta del generale Parodi di sostituire le navi da battaglia con cannoniere costiere, e dichiara che è necessaria una marina potente con un bilancio ben fornito. Nel suo primo discorso da Ministro (tornata della Camera del 6 dicembre 1873) il Saint Bon getta acqua sul fuoco delle conclusioni della Commissione, osservando realisticamente che "il bilancio ben fornito manca", né vi è qualcuno che sia in grado di poterlo ottenere; bisogna perciò provvedere altrimenti. A questo punto, guadagnandosi le lodi di un nemico delle grandi navi come il Fincati (Studi sui combattimenti in mare, p. 99) esalta fin troppo le possibilità della torpedine fissa e di quella mobile (cioè del siluro); e pur ammettendo che al moneto il loro maneggio ancora "si trova all'infanzia", definisce il nuovo siluro Whitehead "un elemento di rivoluzione". E dopo aver ricordato le conclusioni della predetta Commissione mista, afferma che a suo parere l'unico mezzo economico per risolvere il problema della difesa delle coste è il "portatorpedini" progettato dall'ingegnere e ispettore del genio navale Mattei, la cui adozione a suo dire è stata già raccomandata dalla grande maggioranza della Commissione, con un'esigua minoranza di membri contrari dei quali faceva
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parte - fatto da sottolineare- l'ammiraglio [Ferdinando o Guglielmo - N.d.a.] Acton, "il quale ha jàma di buon manovriero". Ciononostante ha fatto compiere ulteriori studi, che hanno confermato la validità del nuovo mezzo e al momento continuano: qui però, o signori, è necessario farvi un 'osservazioni di una grandissima importanza. Il portatorpedini, che vi ho descritto, costa all'incirca mezzo milione, poco più. I due bastimenti corazzati che si costruiscono oggi [cioè il Duilio e il Dandolo - N.d.a.] costeranno 14 milioni l'uno [ne costeranno molto di più - N.d.a.]. La differenza tra queste 500.000 lire e i 14 milioni evidentemente è grandissima. Ora, tutte le probabilità sono che in una lotta tra i due, chi avrà ragione sarà il porta-torpedini [nostra sottolineatura - N.d.a.].
Su questo argomento, nessun compromesso: il Saint Bon non accenna nemmeno alla possibilità di affiancare il nuovo mezzo a quelli già in servizio, e dopo aver ricordato di essersi opposto al programma di 12 vascelli di linea non corazzati che nel 1862 il Ministro di allora [Menabrea o Persano? - N.d.a.] avrebbe voluto adottare, e che poi è stato abbandonato dandogli così ragione, così prosegue: ora, signori, in presenza del porta-torpedini che noi abbiamo, o che ci proponiamo di avere. in presenza della torpedine Whitehead, io oso dichiararlo nuovamente, la marina è in uno stato da gestazione per una nuova trasformazione non meno radicale di quella che ha avuto luo!{O nel 1860 fquando a suo parere è comparsa la corazza, il che non è esatto - N.d.a.]. Allora la corazza ha reso impossibili tutti i bastimenti che esistevano prima: ed ora la torpedine Whitehead rende impossibili tutti i bastimenti che esistono[... ]. lo non so se saremo obbligati ad abbandonar/i completamente e farne degli altri di sana pianta: quello che è certo si è che è, nel loro stato attuale, quei bastimenti hanno cessato di essere veri bastimenti da guerra. È certo altresì che una marina, che oggi si proponesse di costruire un gran numero di quei bastimenti, i quali sono oggi bastimenti del passato, come i vascelli di linea lo erano quando scrissi l 'opuscolo del 1862 [nel quale, da appunto, decretava "la morte del vascello di linea" - N.d.a.], commetterebbe una somma imprudenza. Con tutto questo, o signori, nel tempo in cui si porrà mano alla costruzione delle armi potenti del 'avvenire, quali sono i porta-torpedini, la prudenza c'impone e c'imporrà di non desistere dall'usare nel miglior modo possibile le armi che abbiamo in mano, vale a dire le corazzate che possediamo e che sono ancora efficaci[ ... ]. La prudenza è sempre necessaria, ma più ora che mai, perché quando una torpedine Whitehead, che costa mille lire in media, ha la potenza di distruggere un bastimento che costa 14 milioni, bisogna andare adagio a/are bastimenti che costano tanto.
Le precedenti idee sono ribadite dal Saint Bon nella tornata della Camera del 9-10 marzo 1874, dove dimostra di avere una visione assai equilibrata e realista del problema della difesa marittima e delle effettive possibilità delle forze navali. Pur auspicando consistenti aumenti di bilancio, constata realisti-
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camente che a causa delle prevedibili disponibilità finanziarie - sempre e in ogni caso limjtate - la nostra marina è e sarà sempre inferiore a quella delle principali potenze marittime, quindi per proteggere il paese da uno sbarco è indispensabile il concorso di fortificazioni costiere e di forze mobili terrestri (come si è visto nel Tomo I, la tesi di molti esponenti dell'esercito è analoga, anche se di segno contrario). Rassicura perciò sull'assunzione della sua parte di responsabilità nella difesa dello Stato l'ammiraglio e deputato Fincati, il quale giustamente rileva che il progetto di legge per la difesa dello Stato è stato presentato solo dal Ministro della guerra, quando invece tale difesa deve essere terrestre e marittima. Dissente, poi, apertamente dall'esclusivismo marittimo del comandante e deputato De Amezaga, per il quale - come per il Bonarnico - "solo la flotta, e niente altro, può proteggere validamente il litorale", quindi non devono essere sprecate risorse nelle fortificazioni costiere. ln merito cita l'esempio dell'Inghilterra (che pur avendo una marina di gran lunga dominante ha fortificato potentemente anche le sue coste) e implicitamente dissente anche dalle ottimistiche previsioni del deputato Negrotto, secondo il quale non è vero che la flotta italiana è inutile, perché dovrebbe misurarsi con potenze molto maggiori. Queste ultime infatti a parere del Negrotto non potrebbero concentrare contro l'Italia tutta la loro flotta [ma chi lo assicura - N.d.a.], e inoltre anche con forze inferiori, ma molto veloci e ben organizzate la nostra flotta potrebbe vincere [è una parola! - N.d.a.], e poi ci sono pur sempre le potenze minori da fronteggiare. Soprattutto, il Saint Bon AL MOMENTO (poi cambierà idea) è lungi dal manifestare fiducia assoluta nella potenza delle navi colossali, viste come uruco rimedio qualitativo alla nostra inferiorità di forze rispetto alle grandi marine. Sempre nella tornata del 9 marzo 1874 conferma di avere fiducia se mai eccessiva nelle torpediniere allora ai primi passi: se mantenendoci nell 'ordine di navi attuali vi è per noi l 'assoluta, la completa impossibilità, visto lo stato delle nostre finanze, di portare in hreve tempo la nostra marina al livello di quella delle grandi potenze, possiamo, usando mezzi nuovi, nutrire qualche speranza di raggiungere questo risultato importante[ ... ]. Usando adunque un bastimento speciale dotato di grande velocità, come quello che fu disegnato dal commendatore Mattei [cioè la mal riuscita "nave porta-torpedint' progettata dall'ispettore del genio navale Mattei N.d.a.], usando l'arma nuova, la torpedine semovente, la quale non è mai un 'astrazione, ma un fatto ben certo, un fatto assoluto, nasce per noi la possibilità, oso dire la probabilità di difenderci efficacemente dal lato di mare senza quelle spese stragrandi che occorrono quando l'unità nave costa 14 milioni. Anzi. dirò che questa convinzione è in me profondissima, e al segno di avermi spinto a presentare alla Camera certi progetti che a taluno sono sembrati ardili, quantunque siano ben lontani dall'esser/o...
Argomentazioni che andrebbero bene in bocca a un avversario delle navi colossali, ma certamente non a un Ministro presentato dalla massima parte de-
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gli scrittori navali come caposcuola dei loro fautori. Viene da chiedersi: ma se è così, perché costruire ancora navi colossali? Le precedenti dichiarazioni sono ribadire dal Saint Bon il 3 marzo 1875, quando sempre alla Camera ammette chiaramente di non ritenere conveniente almeno per il momento .la costruzione di nuove corazzate, perché "contro 3-4 torpedini di quelle che vorrei costruire, una squadra di corazzate non può resistere", tenendo anche conto che le corazzature verticali delle navi al momento non si estendono alla loro parte immersa e al fondo. Non ha nessuna fiducia nemmeno nella "tenuta" delle corazze al di sopra del livello dell'acqua: "stimo mio dovere dire dure parole sulle corazze e sulle navi corazzate. Io non ho molto entusiasmo per questo eccesso d 'invulnerabilità, e purtroppo temo che a queste muraglie adamantine, ed agli enormi cannoni destinati a forzarle, l 'avvenire riserbi amare disillusioni. Questa è la mia opinione, e su ciò non ho altro da aggiungere". Parole gravi, che testimoniano la sua totale sfiducia nella formula delle navi colossali. E anche se i cannoni del Duilio a 2500 m foreranno facilmente le più forti corazze, come quelle dell 'Injlexible inglese, a che giovano esse dunque? Già è impossibile di andare più in là di quella dimensione. Mettetemi il caso di dover combattere contro una fortezza con un bastimento speciale, in allora sarà forse possibile di adoperare corazze dello spessore di uno o due metri, ma per un bastimento che deve navigare ciò non è possibile. Tutto al più la corazza potrà dunque nel 'avvenire essere applicala ai bastimenti destinati a battersi contro le fortezze, ma certo non mai ai bastimenti destinati a battersi in mare contro altri bastimenti[ ...]; donde ne deriva, io lo ripeto, che forse si avranno ancora corazze contro le fortezze, ma non contro le flotte.
Non si capisce come e perché, con queste idee, il Saint Bon possa essere giudicato dagli storici navali come il primo fautore non solo e non tanto delle navi corazzate, ma delle navi corazzate colossali, con calibro delle artiglierie e spessore delle corazze spinti al massimo. A parte le sue previsioni sulle corazze ( non confortate dalla realtà futura), sono in contraddizione non sanabile con le dichiarazioni precedenti i criteri per le nuove costruzioni navali da lui contestualmente enunciati. Dopo aver naturalmente bocciato la soluzione di non avere una marina e quella di mantenere in vita del naviglio superato, non concorda nemmeno con quella di imitare gli altri, solo perché siamo poveri e non ci converrebbe fare esperimenti e/o correre dei rischi: in tal modo "gli altri fanno, noi siamo fermi. Gli altri sperimentano, noi continuiamo a stare fermi. Intanto il tempo passa e il progresso va avanti. Al momento in cui gli altri hanno finito, le loro idee sono già mutate; se dovessero rimettere un bastimento in cantiere, non metterebbero più lo stesso, ma ne metterebbero un altro". Ne consegue che se seguissimo questo sistema, noi anche per carenza di fondi impiegheremmo molto, troppo tempo nelle costruzioni e vareremmo bastimenti vecchi, vecchissimi: vi è infine il quarto sistema che è quello che io intendo seguire. Esso consiste nel! 'esaminare, quando si mette un bastimento in cantiere, dove d 1:ondur.e la
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curva del progresso, a prevedere, al tempo in cui quel bastimento potrà essere varato, quali siano le idee che prevarranno, e per base di tale previsione assumendo l'andamento generale che hanno seguìto fino a quel giorno le idee e i fatti. Questo sistema a me pare il solo buono[.. .]. Facendo in quel modo, quando un bastimento viene ad essere varato, si ha la certezza che per un tempo abbastanza lungo rimarrà efficace, perché al momento in cui entrerà in mare si troverà al di sopra di quanti ve ne siano, e prima che la massa degli altri sia venuta a raggiungerlo, quel bastimento avrà il tempo di fare i suoi 20 anni di vita senza decadere troppo. Il mio predecessore, l'ammiraglio Rihoty, intese questo sistema, e diede prova di averlo inteso quando mise in cantiere le due corazzate Duilio e Dandolo.
Segue una contraddittoria esaltazione di queste due navi, nella quale le uniche armi che questa volta si considerano dominanti e efficaci sono le artiglierie colossali e l'unica prospettiva è quella della lotta tra corazzate, questa volta trascurando la minaccia dei siluri nemici: un bastimento come il Dandolo o come il Duilio vale da sè tutta una.flotta di queste vecchie corazzate che abbiamo. La lotta tra i/Duilio e tutto il resto della nostra flotta sarebbe una lotta non dubbia, considerando i bastimenti semplicemente come corazzate. Il Duilio avrebbe una velocità sufficiente per tenersi alla distanza necessaria per non essere offeso, avrebbe dei cannoni eF fìcacissimi e tutto il rimanente della nostra flotta cederebbe contro questa sola nave. Essa si mette alla portata in cui è assolutamente invulnerabile [anche ai siluri e alla porta-torpedini? - N.d.a.), manda i suoi proiettili uno dopo l'altro con molta accuratezza, perché quando si è perfettamente al sicuro si punta molto bene, e si di~fà di tutto il rimanente della nostra.flotta: dunque è un bastimento eminentemente economico quantunque caro.
Ci si deve ora chiedere: i I vero Saint Bon è questo, oppure è l'esaltatore della porta-torpedini a preferenza delle corazzate di prima? Se il criterio è questo, se le navi colossali in cantiere raggiungeranno questi obiettivi ( come è infatti avvenuto per l' Italia. impostata nel luglio 1876 dal suo progettista e nuovo Ministro Brin, successori del Saint Bon di li a pochi giorni), come mai si imporrebbe una stasi nelle costruzioni navali, come dichiarato dal Saint Bon contestualmente a queste idee? e come mai non tiene più conto dell'efficacia dei siluri da lui se mai sopravvalutata in precedenza? Al tempo stesso, si deve constatare che la pretesa di costruire navi d'avanguardia, tali da superare per lungo tempo (addirittura venti anni) tutte le altre comprese quelle delle flotte-guida, alla luce del l'esperienza successiva si sarebbe rivelata fai Lace, perché il progresso tecnologico avrebbe reso ben presto possibile ottenere artiglierie di minor calibro e peso, ma di capacità di penetrazione equivalente e di gittata e celerità di tiro superiore ai cannoni colossali del Duilio, mentre anche grazie ai progressi nella fabbricazione dell'acciaio anche le corazze a cominciare dal nuovo tipo detto compound avrebbero aumentato la loro resistenza; né può essere trascurato che anche le macchine (ad esempio già rispetto a quelle del Duilio) avrebbero diminuito il loro peso e il loro consumo, a parità di potenza motrice.
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Discendono dalle idee prima illustrate due altri orientamenti del Saint Bon, che manifesta nelle grandi linee fin dalla tornata della Camera del 6 dicembre 1873: la sua sostanziale contrarietà a un "piano organico" da sottoporre all'approvazione del Parlamento, che definisca le caratteristiche essenziali dei tipi di nave da costruire per il futuro e i relativi stanziamenti necessari (tale piano verrà invece subito proposto al Parlamento dal suo successore Brine approvato con la citata legge del 1877) e la sua proposta di radicale radiazione del numeroso naviglio da lui ritenuto antiquato per recuperare risorse a favore delle nuove costruzioni navali, proposta sulla quale si trova in disaccordo con la stessa Commissione parlamentare del bilancio, che vorrebbe conservare in servizio parte del naviglio da lui giudicato superato, quindi inutile e dannoso. Le predette scelte del Ministro, dibattute alla Camera il 26 e 27 febbraio 187 5 e dal I' 1 al 4 marzo dello stesso anno, accreditano l'ipotesi che egli in precedenza abbia calcato la mano sull'efficacia dei siluri e delle nuove navi portatorpedini, proprio per accreditare il suo intento di rivoluzionare l'organizzazione della marina e di avere mano libera anche nelle costruzioni navali (in merito va ricordato che già nel 1863 con il suo opuscolo Pensieri sulla marineria militare - Cfr. Voi. 11, cap. XIV - il Saint Bon aveva dimostrato di prediligere le soluzioni radicali, schierandosi a favore delle navi in ferro e con potenti artiglierie e riscontrando la necessità di rivoluzionare l'amministrazione della marina). La compilazione di un piano organico è richiesta con insistenza sia dalla Commissione per il bilancio sia da autorevoli membri della Camera, ma il Saint Bon pur promettendola di malavoglia non nasconde il suo scetticismo sulla effettiva utilità di una programmazione, per diverse e fondate ragioni: i continui progressi delle costruzioni navali, l' aumento dei costi e l'incertezza sui tipi di nave da costruire e quindi anche sul loro numero; le "difficoltà gravissime" e il lungo tempo che la compilazione di tale piano richiede al Ministro, oberato dai suoi impegni; tant'è vero- egli ricorda - che il Ministro Depretis, che al momento chiede un piano organico, "non per farne uno, ma per esaminarne uno. impiegò diciotto mesi senza poter venire a dare il risultato del suo esame". Sui tipi di nave naturalmente influisce anche il siluro: "ora, signori, come è possibile che un ministro venga oggi a dirvi. per esempio: jàcciamo la marina italiana di 20 corazzate [come la predetta Commissione mista - N .d.a. ]; con che coraggio si può dire così. quando non si è sicuri se da qui a due anni sifaranno più corazzate?". Inoltre per quanto riguarda il numero "non vi è nessuna ragione intrinseca, per cui un paese debba avere una potenza marittima determinata, anziché un 'altra. Tutte le cause determinanti sono necessariamente contingenti [è vero fine a un certo punto - N.d.a.]: dipendono dalla politica estera, dallo sviluppo del commercio, dalle risorse delle finanze e più specialmente dalle forze navali di altri paesi". Per queste ragioni a pare <lei Saint Bon il piano organico non potrà definire i tipi di navi, ma indicare sol dei principi generali che regolano sia il materiale che il personale. 11 Saint Bon conclude i suoi interventi del marzo 1875 con la vaga promessa di presentare - come gli viene da molti richiesto - un piano organico,
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COLOSSALI: GLI AITA(.,'(;HJ DliL SAINT llON
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premessa che non farà in tempo a mantenere ( o non vorrà mantenere), giacché poco più di un anno dopo (il 25 marzo 1876) verrà sostituito da Benedetto Brio, il vero padre delle navi colossali (insieme con il Riboty). Riguardo alla necessità di alienare le navi antiquate, egli è drastico: il loro numero è notevole, ma ciascuna di esse "non rappresenta una forza militare"; perciò anche se mancano, non si può dire che il nostro materiale sia diminuito. Che siano inutili nessuno lo nega, e anche tutte le Commissioni nominate a questo scopo lo hanno dichiarato; "i più pietosi non negano il principio, chiedono dilazione per pochi di quei legni, ma nessuno nega che i legni siano inutili". Per dimostrare questo asserto compie un esauriente esame del naviglio al momento in servizio, sotto il profilo dell'autonomia, della velocità e della potenza offensiva. lnforma, in particolare, la Camera che le nostre navi in legno possiedono autonomia (carbone e viveri) sufficiente solo per il Mediterraneo [ma potrebbe anche bastare - N.d.a.]. Solo due di esse hanno una potenza del motore di 89 HP che consente loro di percorrere 17 miglia all'ora, mentre non una sola delle rimanenti navi non corazzate raggiunge almeno la metà di quella prima indicata. Le altre nazioni, invece, hanno parecchi bastimenti che raggiungono le velocità <li 17 miglia ali' ora, e un buon numero di bastimenti comunque molto più veloci degli altri. I loro vecchi cannoni sono di ferraccio, ed avendo lo scafo in legno si possono facilmente incendiare e sono particolarmente invulnerabili per i siluri, senza possibilità di adottare paratie stagne. Le nostre corazzate oltre alla macchina a vapore possiedono un'alberatura, che viene ormai considerala più d ' impaccio che d 'utilità; la loro autonomia è perciò anch'essa limitata al Mediterraneo, "anzi non può dirsi veramente per.fella che sulle nostre coste". Riguardo alla velocità, "gli inglesi hanno 14.fregate corazzate che fanno 14 miglia e più; [di corazzate] che facciano 14 miglia noi non ne abbiamo nessuna; quella che più si avvicina è /'Affondatore". Anche la Germania, la Francia e la Russia dovrebbero avere molte corazzate più veloci delle nostre, anche se non si hanno dati sicuri. Tuttavia "ritengo che il lato più hri/lante delle nostre corazzate sia la velocità, quantunque. difficilmente si potrebbe mettere ins ieme anche una piccola squadriglia che avesse una velocità media di 12 miglia e mezzo. Infine, premesso che gli inglesi hanno 5 7 corazzate contro 2 1 delle nostre, 41 di esse hanno cannoni che alla distanza di 1000 metri forano 19 delle nostre (le due che rimangono sono il Principe Amedeo e il Palestro). Tra le altre flotte, la Francia ha 45 corazzale che sempre alla distanza di 1000 m.forano tutte le nostre, sei delle quali ora, e tra poco 11, lo potranno fare impuneamente; e anche la Germania e la Russia hanno navi con artiglierie più potenti delle nos tre... A queste argomentazioni che intendono dimostrare lo scarso valore bellico complessivo della nostra flotta del momento il Saint Bon ne aggiunge altre: - per carenza di fondi e non per colpa del vertice della marina, tutta la nostra flotta senza eccezione è di costruzione anteriore al 1865; - non è più necessaria la protezione del commercio [di solito affidata a naviglio antiquato - N.d.a.], perché la pirateria è praticamente scomparsa e
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i consoli all'estero possono fare anche a meno del sostegno di navi da guerra; - anche l'Inghilterra e gli Stati Uniti hanno segulto il criterio della radiazione del naviglio antiquato. Secondo il Saint Bon il valore del naviglio che si progetta di alienare è di 50 milioni circa, le spese di manutenzione che si prevede di risparmiare ammontano a 3 milioni, il ricavo della vendita (I/io circa del valore) non dovrebbe oltrepassare i 6 milioni, che divisi in due anni andranno a vantaggio del bilancio della marina e saranno impiegati per nuove costruzioni. Questa cifra di 6 milioni che si prevede di realizzare sarà comunque anticipata dal Ministro delle finanze, suddivisa in due rate annuali di 3 milioni. Gli orientamenti sulle nuove costruzionj sono ribaditi alla Camera dal Saint Bon nella tornata del 3 marzo 1875. Dopo aver osservato che la designazione dei bastimenti da mettere in cantiere "è una questione in gran parie oziosa, perché non abbiamo scelta: denari non ve ne sono", accantona anzitutto l'idea di costruire nuove corazzate: "mettere una corazzata in cantiere al giorno d 'oggi io non l'oserei, e forse due annijà [cioè quando sono stati impostati il Duilio e il Dandolo - N.d.a.] era quello r:he si poteva fare di meglio"; al momento sono invece "d'immensa importanza" i porta-torpedini, perché le corazzate in servizio sono tutte vulnerabili al di sotto del livello del mare [ma anche il Duilio e il Dandolo - N.d.a.]: comunque si sta lavorando "con tutta l'energia possibile" alle due corazzate al momento in cantiere, e "se, come spero, riusciremo a vararle in un tempo non troppo lungo [ciò non è avvenuto - N.d.a.], quando verranno in mare saranno quanto di più potente". Ciò premesso, "quando io sono venuto al Ministero ho trovato sul cantiere due corazzate, Duilio e Dandolo, ho trovato a Castel/amare i due piroscafi a scafo di legno Scilla e Cariddi, ho trovato a Sampierdarena un piroscafo [un avviso - N.d.a.], ho trovato a Livorno degli impegni per la stessa somma circa [un altro avviso - N.d.a.], ho trovato a Venezia il Cristoforo Colombo, ho trovato alla Spezia due cannoniere, Giordano e Sentinella". A queste costruzioni, più quella di un porta-torpedini [il futuro Pietro Micca progettato dal Mattei N.d.a.] corrisponde un impegno finanziario di 37 milioni, dei quali già spesi 14 milioni; occorrono quindi altri 23 milioni. Per il momento, egli intende dare la priorità all'approntamento delle corazzate già in cantiere e dei porta-torpedini, impiegando due dei tre milioni assegnati dalla Camera il giorno precedente per far procedere i lavori al Duilio e il rimanente per finire un porta-torpedini e incominciare a costruirne un altro. Assicura inoltre l'entrata in servizio nel prossimo maggio-giugno dell 'incrociatore-avviso Cristoforo Colombo e più o meno nello stesso periodo degli avvisi Rapido e Stajjètta, tutte navi con elevata autonomia e velocità, come richiede la Commissione per il bilancio. Anche se questo programma supera l'esame del Parlamento, non poche, né irrilevanti sono le voci discordi. Tra di esse ci limitiamo a citare le più importanti. li deputato comandante Eduardo O' Amico nella tornata dcll'8 dicembre
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I 873 assume posizioni diametralmente opposti a quelle del Saint Bon, associandosi all'ordine del giorno della Commissione del bilancio, che chiede un piano organico e la riduzione del numero delle navi da alienare proposto dal Ministro. A suo parere non si può sostenere, come fa quest'ultimo, l'inefficacia assoluta del materiale al momento disponibile, e al tempo stesso "la potenza incontrastabile del materiale dell'avvenire", cioè del porta-torpedini. Le navi miste, cioè a vela e a vapore, sono ancora utili per l'esplorazione in guerra, per la protezione del commercio e per l'istruzione del personale, hanno dimostrato la loro efficienza nelle guerre più recenti e sono in servizio nelle altre marine, quindi specie nelle nostre condizioni di bilancio non è conveniente radiarle. In quanto alle navi corazzate, non tutte le navi inglesi di questo tipo sono armate con i cannoni più potenti e sono rivestite delle corazze più forti. E poiché noi dobbiamo solo difenderci contro l'aggressione di altre potenze, non ci troveremo di fronte solo le navi più fortemente armate e corazzate, ma anche le altre contro le quali le nostre potranno combattere e vincere: io non so se nel nostro naviglio corazzato ci siano delle navi inutili per deperimento, se si eccettuano il Re di Portogallo e, credo, il Principe di Carignano; ma sento dire che si vuol vendere la Voragine e la Guerriera (batterie corazzate aoche a vela con scafo in legno - N.d.a.), che pare non siano ancora uscite dagli arsenali che non hanno ancora fornito il loro armamento; che si vogliono vendere delle cannoniere corazzate, come il Cappellini, il Fao di Bruoo che non hanno fatto ancora, si può dire. le loro prove, che sono bastimenti affatto nuovi, e che servirebbero [ancora] p er la difesa di Venezia. anche se sono stati costruiti per attaccarla.
TI D'Amico aggiunge che non si può condividere la fiducia assoluta del Ministro nel porta-torpedini, mezzo non ancora sperimentato; tra l'altro la torpedine, che si è rivelata efficace nella difesa delle coste degli Stati Uniti, non può avere la stessa importanza sulle nostre coste, che mancano degli ostacoli naturali tipici delle coste americane e sulle quali si può facilmente approdare. Pertanto "esse si difendono in alto mare, colla flotta, e si dife ndono ancora con bastimenti guardacoste che, tra certi limiti e condizioni, bastano a lottare con i bastimenti di una/fotta nemica che improvvisamente si avvicinassero alle coste stesse". Il D'Amico dissente dal Saint Bon anche a proposito delle stazioni navali che sono tanto più necessarie, quanto più i paesi dove si trovano non sono ancora inciviliti. Infine ritiene anch'egli necessario un piano organico, tanto più che il Ministro ha un programma che prevede " la distruzione del presente per sostituirvi un avvenire ignoto". Tale piano non deve definire i tipi delle navi, ma piuttosto la loro specie e il loro numero, risolvendo i problemi gravissimi che il Ministro ha sollevato [in pratica: fissare la politica navale, anche se questo termine non viene usato - N.d.a.], dando una risposta a interrogativi di questo tipo: dobbiamo avere un 'unica flotta o due o tre, una per ciascun mare? Dobbiamo occuparci unicamente della difesa delle coste? Dobbiamo avere navi capaci di attaccare le coste nemiche, oppure rinunciarvi dato lo stato delle
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nostre finanze? Dobbiamo o no mantenere delle stazioni navali oltremare? "per l'appunto, è un piano finanziario e amministrativo quello che si desidera. Possiamo assegnare al materiale della marina un numero di milioni più o meno. secondo lo stato finanziario del paese; come è che si devono spendere, il piano organico lo determina [veramente dovrebbe avvenire il contrario - N .d.a. ]". Anche il deputato Gian Galeazzo Maldini, membro della Commissione di bilancio, già tenente di vascello e autorevole scrittore navale, sempre nella tornata dell'8 dicembre è della stessa opinione del D'Amico, e anch'egli pensa che con il programma del Ministro "si va incontro all'ignoto". In particolare citando l'esempio francese dimostra che il piano organico non pregiudica lo sviluppo della marina ma lo favorisce, e che esso è necessario anche perché diversamente dall'esercito che definisce le sue esigenze con leggi ordinative, che giustificano e finalizzano la spesa richiesta - la marina manca di una base per il suo sviluppo, quindi la spesa non è ben giustificabile e inquadrabile, tanto che "abbiamo udito alcuni anni or sono proporre di noleggiare una parte della.flotta al commercio". In quanto al naviglio da alienare, che il suo numero sia eccessivo è dimostrato anche dal fatto che la Principessa Clotilde, inclusa dal Saint Bon in tale naviglio, sta al momento svolgendo un' utile missione a Cartagena in Spagna. Infine il Maldini considera con diffidenza l' offerta da parte del Ministro della guerra Ricotti di 3 milioni alla marina, da detrarre dai 20 milioni di spese straordinarie per l'esercito che la Camera non ha ancora votato: "si fa presto ed è anche molto jàci/e disporre di cose che non si hanno", e a suo parere il Ricotti certamente non cercherà mai di diminuire i 165 milioni assegnati all'esercito per spese ordinarie: non penso che si debba togliere nulla ali'esercito per darlo alla marina. noi crediamo che la questione militare in Italia sia una sola, la quale comprende le forze di terra e di mare, e che sia necessario provvedere contemporaneamente, e nel miglior modo, tanto alle forze di terra, quanto a quelle di mare, compatibilmente alla questione jìnanziaria.
Un altro intervento notevole a favore del piano organico e della riduzione del numero delle navi da alienare è quello dell 'onorevole Depretis, il quale mette anch'egli in guardia il Saint Bon per l'offerta (interessata o pelosa) del Ministro della guerra generale Ricotti, affermando (non si sa in base a quali elementi o informazioni) che egli passerebbe "generosamente" al collega della marina 9 milioni (3 all'anno), però a condizione di aumentare di 10 milioni il bilancio della guerra. Anche il Depretis è perplesso, perché gli intendimenti del Saint Bon condannano la marina a una sostanziale immobilità tra l' eliminazione del materiale vecchio e la scelta di un materiale non ancora ben collaudato, come il porta-torpedini: infatti le altre marine non sospendono le costruzioni navali, mentre per noi - come avviene in campo terrestre - si tratta di mantenere una certa proporzione con le forze marittime di altre potenze. Al contrario del D ' Amico il Depretis è favorevole all'adozione dello stesso metodo adottato per l'esercito, "che consiste nel discutere le spese necessarie p er la marina e nel
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non determinarle a priori, ma nel fissarle dopo un 'analisi ponderata e dopo una serie di discussioni con un progetto di legge", cosa che implica anche il dibattito su questioni tecniche. Perciò anch'egli ritiene utile la compilazione di un piano organico, oltre che un riesame del naviglio da alienare. In particolare il piano organico dovrebbe stabilire "l'ordinamento del materiale, cioè l'organizzazione delle forze navali, determinando la quantità e qualità del materiale necessario e la spesa occorrente, lasciando che si compia gradatamente e ripartendone la spesa su parecchi esercizi come lo consentono le condizioni della finanza"; invece a suo parere il Ministro ha una visione troppo riduttiva del ruolo della Camera. Se le cose stanno come lui vorrebbe, "io vi chieggo quale siano le/unzioni della Camera", che tra l'altro con il piano organico intende evitare i continui cambiamenti di indirizzo, che si verificano al frequente ruotare dei Ministri. Non è d'accordo - o non è completamente d'accordo - con il Saint Bon nemmeno l'onorevole Crispi, che nella tornata del 9 dicembre 1873 dichiara di non accettare in toto le sue idee e osserva che le sue proposte implicitamente presuppongono la condanna dell'operato dei Ministri precedenti, per il resto anch'egli mostrandosi perplesso sulla "distruzione" di tanto naviglio, sulla fiducia che il Ministro accorda al porta-torpedini ecc. Dal 26 febbraio al 4 marzo 1875 riprende la discussione sulle navi da alienare, partendo dalla già citata proposta della Commissione per il bilancio di ridurre il loro numero. Nella tornata della Camera del 26 febbraio il Maldini si schiera a favore di tale proposta e pronuncia una vera requisitoria contro il Ministro, con argomentazioni di notevole efficacia analoghe a quelle degli oratori precedenti , che si concludono con queste drastiche parole: "Signori! A questo metodo d'amministrazione che io oggi vedo inaugurarsi per l'andamento delle cose della marina, non posso associarmi, né se considero la proposta di legge del lato amministrativo, né da quello finanziario, né da quello economico, né da quello commerciale, né dal tecnico, né dal marittimo". Un altro grande nome, il generale e deputato Marselli (Tomo I - cap. 11 e lll), dichiara di essersi iscritto a parlare a favore del Ministro, ma anch'egli fa delle riserve e in sostanza propone un compromesso (non accettato dal Saint Bon) tra il numero più ridotto di navi che vorrebbe alienare la Commissione e quello che vorrebbe alienare il Ministro. La sua valutazione delle forze contrapposte in caso di sbarco francese indirettamente fa venire alla luce il lato più discutibile della proposta del Saint Bon, accennando anche al ruolo delle navi colossali: dopo che sarà votato il progetto di alienazione, e prima che il Dandolo e il Duilio siano compiuti. noi dovremo combattere una battaglia navale con 9 corazzate contro 27 (tolgo quelle francesi che rimarrebbero nell'Atlantico). noi dobbiamo combattere con un bilancio di 3 7 milioni contro uno di 158 milioni. È un problema impossibile; ma intanto bisogna combattere, e come? Bisogna attaccare il convoglio [di sbarco] in marcia; e perfarlo ci vogliono presto navi come il Duilio, come il Dundolo, cioè navi fornite di spesse corazze
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con artiglierie di grandissima potenza, navi che non abbiano d'uopo di contare le avversarie, oppure, se vogliamo entrare nella via di un avvenire più lontano, ci vogliono navi velocissime, anche senza corazzatura per la protezione dell'artiglieria. Con queste navi noi possiamo gettare lo sbaraglio in mezzo al convoglio, perché il convoglio non è protetto da una squadra come i pulcini dalla chioccia; un convoglio occupa una estensione grandissima, e non è impossibile anche a una flotta, che abbia piccola quantità di potentinavi, il ficcarsi colà dove la protezione è minore [ .. .]. Ecco dunque un primo desiderato della nostra marina, cioè navi potenti per corazze e per artiglierie; oppure, se si vuole entrare, come dicevo, sulla via d'un avvenire più lontano, navi che conquistano nel campo della velocità quello che perdono nella corazzatura!
Per la difesa ravvicinata delle coste nel caso che il nemico riesca comunque ad avvicinarsi, il Marselli non trova conveniente ricorrere - come fa ad esempio la Francia - alle navi guardacoste, che costano alcuni milioni, e preferisce le torpedini e le porto-torpedini. Qui va osservato che neppure il Saint Bon aveva definito così in dettaglio il ruolo delle navi colossali, alle quali non si può dire che abbia finora guardato con eccessivo entusiasmo: da quanto il Marselli afferma comunque, si deduce che non le giudica certo le navi dell'avvenire, le navi destinate a una lunga vita. Dal punto di vista finanziario, pur essendo un convinto fautore della marina non ritiene possibile aumentare il bilancio, e anche per questo approva il principio della riduzione delle navi. Nella tornata del 3 marzo 1875, diversamente dal Marselli l'ammiraglio e deputato Fincati (Cfr. anche Voi. il - Parte quinta) con la forza polemica che gli è propria contesta, anzitutto, l'organizzazione della marina nel suo complesso, e dopo aver sottolineato che l'armata navale è lo scopo finale, la ragion d' essere di tale organizzazione, afferma che al confronto con altri paesi vi è sproporzione tra il totale della spesa per la marina e lo scarso numero di navi armate, definendo la nostra organizzazione "frutto della germinazione e superfetazione", con ordinamenti e regolamenti irrazionali che derivano dal modello francese, sì che con i 36milioni annui disponibili "l'armatanavalediventauna illusione che costa 36 milioni/anno per mantenere modi e sistemi che hanno cessato di essere necessari", mentre invece usando sistemi più razionali si potrebbe avere con la stessa somma una forza rispettabile. Conclude pertanto il suo intervento con la presentazione di un ordine del giorno, nel quale invita il Ministro: - a presentare nella prossima sessione un progetto di legge che stabilisca la composizione della nostra forza navale in tempi ordinari; - ad affidare all'industria privata la massima parte dei lavori possibili, sguarnendo di altrettanto gli arsenali militari; - a sospendere i grandi lavori in muratura e movimento terra negli arsenali, non ancora incominciati; - a destinare i risparmi così ottenuti al capitolo costruzioni navali. 11 Saint Bon ribatte sostenendo esattamente il contrario: dai dati in suo possesso gli risulta che "la proporzione di denaro speso per ogni tonnellata di ma-
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teriale galleggiante è minore in Italia che in qualunque paese del mondo, minore anche di quello che spende l'Austria, sebbene l'Austria si trovi economica più delle altre". In secondo luogo non nega l'opportunità di ricorrere per quanto possibile all'industria privata, ma al tempo stesso difende il ruolo dei quattro arsenali italiani, nei quali "la parte destinata alle costruzioni navali si può ritenere che sia la minima", mentre tutto il rimanente viene destinato a lavori come la manutenzione del naviglio, ai bacini, ai magazzini ecc., dei quali non si potrebbe fare a meno. Inoltre, date le continue modifiche che al momento vengono apportate al naviglio in costruzione, se tali costruzioni fossero affidate all'industria privata sorgerebbero molte difficoltà nei contratti ecc.; senza contare la funzione di volano che i lavori negli arsenali possono svolgere, e l'occupazione di molta mano d'opera che essi assicurano. Il lungo dibattito si conclude con l'approvazione da parte della Camera della legge 31 marzo 1875, n. 2423 "che autorizza l'alienazione di alcune navi della regia marina" e segna la sostanziale vittoria del Ministro Saint Bon, contro i sostenitori di un provvedimento meno radicale e la slessa Commissione per il bilancio, prevedendo la radiazione e la vendita di ben 33 navi da lui giudicate antiquate, delle quali 7 corazzate a vapore, ma ancora eoo vele e cannoni in batteria (Re di Portogallo entrata in servizio nel 1864; Principe di Carignano, Audace, Cappellini Foa di Bruno; Guerriera e Voragine), 13 navi a elica, 11 navi da trasporto a ruote, 2 navi da trasporto a vela. La Commissione per il bilancio, che come si è visto non concorda del tutto con il Saint Bon, avrebbe invece voluto mantenere in servizio 8 navi ( cioè le corazzate post-Lissa Cappellini, Faodi Bruno, Guerriera e Voragine, più3 navi trasporto a elica e la ruote). Poiché nel 1875 il Duilio e il Dandolo sono ancora in approntamento neanche tanto avanzato, non c'è dubbio che un provvedimento del genere provoca subito una fortissima contrazione del naviglio disponibile, a fronte di risparmi nel settore della manutenzione presumibilmente notevoli, anche se non quantificati. Non risultano noti i proventi derivati dalla vendita delle navi, anch 'essi importanti ma solo allo stato di previsione, e negli intenti del Ministro. Infine, se si guarda all'estero le marine inglese e francese del tempo mantengono in servizio anche numeroso naviglio antiquato, da impiegare per la difesa mobile delle coste e/o per esigenze coloniali e stazioni navali all'estero. Il 25 marzo 1876, cioè circa un anno dopo la conclusione del dibattito sulle navi da alienare, per ragioni non note, al Saint Bon succede nella carica di Ministro Benedetto Brin, che vi rimane fino al 24 marzo 1878. La fondamentale e più volte citata legge ordinativa del 1° luglio 1877, n. 3960 ("Legge relativa all'organico del materiale della regia marina") e l'impostazione già nel luglio 1876 delle due nuove navi colossali da lui progettate, l'Italia e la Lepanto, sono i due momenti salienti della sua opera; e poiché i I Saint Bon si è sempre dichiarato contrario ad ambedue questi provvedimenti, se ne può legittimamente dedurre che: - la sostituzione del Saint Bon con il Brin è probabilmente dovuta alla prevalenza del diverso orientamento di quest'ultimo, che in poco tempo pro-
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pone alla Camera il richiesto piano organico e imposta due altre navi colossali, provvedimenti ai quali il Saint Bon, come si è visto, è al momento contrario, pur esaltando contraddittoriamente le chances delle prime due ( cioè del Duilio e del Dandolo); - il Brio evidentemente ha lavorato al progetto dell'Italia e del Lepanto molto prima, quando era Ministro il Saint Bon, non si sa se d'accordo con quest'ultimo (che a quanto risulta non accenna mai al progetto e alle caratteristiche delle navi da impostare in futuro), eppure di sua autonoma iniziativa, tenendo anche conto che, in genere, non necessariamente i progetti ai quali gli organi tecnici lavorano sono realizzati; - almeno sulla base delle sue affermazioni e della sua opera fino al marzo 1876, il Saint Bon non può essere definito sic et simpliciter sostenitore delle 4 navi colossali, il cui progettista è stato il Brin. Va ancora sottolineato che nel periodo nel quale il Saint Bon ha retto la carica più alta della marina nessuna nave colossale - e nessuna corazzata in genere - è stata impostata, e che egli ha chiaramente manifestato l'idea di sospendere la costruzione di corazzate, per di più senza mai accennare all'opportunità di ripetere la formula del Duilio.
SEZIONE IV - Dalle navi colossali alle navi di dislocamento moderato? TI dibattito sulla stampa e gli attacchi alla Camera del Saint Bon, del Brin e del generale Ricotti al Ministro Acton (1878- t 880)
Alcuni caratteri dell'opera iniziale del Ministro Acton (novembre 1879-1880) Il 24 marno 1878 il Brin viene per breve tempo sostituito nella carica di Ministro dall'ammiraglio Di Bracchetti, riassumendola poi sempre per un periodo assai breve ( dal 20 ottobre al 19 dicembre dello stesso anno). Dal 19 dicembre 1878 al 25 novembre 1879, cioè per un periodo di meno di un anno, si succedono due Ministri (onorevole Ferraciu e ad interim il Ministro della guerra generale Cesare Bonelli). Finalmente, dopo un prolungato interregno che non si sa a che cosa sia dovuto - ma certamente non a ragioni politiche - al generai e Bonelli succede l'ammiraglio Ferdinando Acton, che rimane nella carica più di tutti i Ministri precedenti ( dal 25 novembre 1879 al 17 novembre 1883) e si presenta con arditi propositi riformatori, destinati ad aumentare il numero dei suoi oppositori palesi e sotterranei, in Parlamento e all'interno della marina. Sotto quest'ultimo profilo il Ministro Acton non può essere semplicisticamente liquidato come sostenitore delle navi di dislocamento moderato contro le navi colossali del Saint Bon e del Brin. Non può essere infatti trascurato che: - diversamente dalla Jeune École e dalla corrente di idee facente capo al Bonamico, egli non mette mai in discussione la guerra di squadra e il ruo-
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lo fondamentale delle corazzate per la marina italiana quindi anche delle navi colossali in costruzione, che anzi dovrebbero rappresentare il perno della flotta; - le sue idee riguardano le caratteristiche delle navi corazzate da costruire per il futuro, che corrispondono più o meno a quelle della maggior parte delle corazzate straniere del momento. Tali nuove navi dovrebbero integrare il ruolo delle 4 navi colossali, che anch'egli ritiene fondamentale, anche se a suo avviso le predette navi colossali non devono e non possono essere ripetute; - come meglio vedremo in seguito egli- pur accusato del contrario, come a suo tempo lo stesso Saint Bon - non trascura affatto i lavori di completamento del Duilio e del Dandolo (entrati in servizio proprio sotto la sua gestione) e soprattutto quelli dell'Italia e del Lepanto, che proseguono anche con il suo personale impegno. Quel che più importa, mentre durante la precedente e non breve permanenza al Ministero del Saint Bon ( 1873-1876) non viene impostata alcuna grande nave, proprio sotto la gestione Acton sono impostate ben tre corazzate di elevato dislocamento (Andrea Doria, Ruggiero di Lauria e Francesco Morosini), che possono essere definite dei Duili più moderni e un poco più piccoli, con i soliti cannoni colossali. Rispetto al Duilio (vds. anche sz. I) esse hanno armamento principale (nuovi cannoni da 431 mm) di potenza superiore, armamento secondario decisamente più potente e numeroso, dislocamento di sole 500 t circa inferiore, corazzatura verticale (45 mm) inferiore ma - grazie ai progressi degli acciai - di resistenza più o meno pari e comunque superiore a quella dell'Italia, pescaggio molto elevato e praticamente uguale (8,70 metri), autonomia (4500 miglia) superiore a quella del Duilio, anche se ottenuta con minore quantità di combustibile imbarcato. Ciononostante, secondo il Galuppini queste navi, lungi dal superare gli analoghi tipi stranieri "non ebbero nessun carattere innovatore e Jùrono di concezione arretrate rispetto alle contemporanee inglesi e francest'. 26 Si tratta, senza dubbio, di costruzioni navali molto, troppo contrarie dagli iniziali progetti dell' Acton nel 1879, nelle quali va probabilmente ricercata anche la vera ragione (mai resa nota) delle sue dimissioni nel novembre 1883. Va anche ricordato che dal maggio al dicembre 1880 egli viene attaccato dalla stampa per aver artatamente favorito la fornitura a trattativa privata da parte della ditta inglese Pcnn della macchina della Lepanto (del costo di circa 5 milioni) a danno di un 'altra ditta inglese concorrente (laMandslay) che pure avrebbe presentato un' offerta a condizioni migliori. 27 La campagna di stampa contro la ditta Penn e i suoi asseriti sostenitori interessati in Italia (lo stesso am-
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Gino Galuppini, Guida alle corazzate ... (cit.), p . 105. Si veda, in merito, La macchina del Lepanto - estratto di articoli di giornali cittadini (1880), Roma, Bibl. Camera (collocazione M914). 27
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miraglio Acton e l'ispettore del genio navale Felice Mattei) inizia con un articolo del 25 maggio 1880 sul Movimento di Genova, giornale cbe evidentemente sostiene gli interessi degli armatori italiani contro quelli stranieri. Secondo il Movimento i locali stabilimenti Ansaldo hanno dovuto superare "difficoltà numerose" per ottenere dal Ministero la costruzione della macchina dell'incrociatore Amerigo Vespucci, che invece l'ispettore Mattei avrebbe voluto affidare sempre alla ditta Penn, la quale "già antecedentemente aveva, per di lui mezzo, ottenuto quelle per /'Italia, Cristoforo Colombo, Flavio Gioia e, prima di tutti, per il Duilio, la quale ultima, a detta di persone tecnicamente disinteressate, è lungi dal racchiudere quei perfezionamenti che jùrono introdotti in altre macchine di grande potenza dalle marine militari inglesi e francesi, presentando essa degli inconvenienti grandissimi, come sarebbe quello di un consumo enorme di carbone; ciò che sarà sempre un ostacolo se non un impedimento assoluto ad una lunga navigazione". Dopo di che, il giornale esprime la propria meraviglia per il fatto che i Ministri della marina degli ultimi anni abbiano permesso che una mole di lavoro così cospicua fosse affidata a una sola ditta (la Penn), e conclude auspicando che il Ministro si decida a esercitare i controlli di sua competenza. Dal canto suo, in una lettera pubblicata dal giornale Il Movimento del 2 gi ugno 1880 il Mattei nega cbe la ditta Ansaldo abbia dovuto superare tante difficoltà per ottenere la commessa della macchina dell'Amerigo Vespucci e che la casa Penn abbia ottenuto le predette commesse grazie al suo interessamento. In realtà, il Consiglio Superiore di Marina si è pronunciato a favore della commessa ali' Ansaldo su sua proposta, di modo che il Ministero l'ha affidato a tale ditta senza la solita formalità di concorso ed in via dijàvore. Riguardo alle altre commesse, su parere di una numerosissima Commissione il Ministero ha affidato la costruzione delle macchine del Duilio e <lei Dandolo rispettivamente una alla ditta Penn e una alla ditta Maudslay; nella trattativa per le macchine del Cristoforo Colombo egli non ha avuto nessuna ingerenza, trovandosi all'estero; per le macchine dell ' Italia il Ministero ha trattato direttamente con la ditta Penn; per le macchine del Flavio Gioia grazie al suo interessamento è stato migliorata la potenza a parità di peso; infine, grazie al suo voto la ditta Ansaldo ha ottenuto la costruzione della macchina del Mare 'Antonio Colonna. Nondimeno, circola il sospetto di tangenti; in particolare Il Popolo Romano del 29 giugno parla di un accordo diretto tra il Mattei (relatore del progetto della ditta Penn presso i I Consiglio Superiore di Marina, che lo deve ancora approvare) e la stessa ditta Penn, mentre li Corriere del Mattino di Napoli dell'8 luglio accenna a voci di corruzione ca una provvigione del 4% che le ditte inglesi sogliono pagare per le ordinazioni di lavori, auspicando che nel caso delle costruzioni navali italiane non esistano interessi privati. È comunque lo stesso Popolo Romano del 27 luglio a sferrare un attacco diretto e a fondo contro il Ministero della Marina, criticando in particolare il suo sistema per i grandi approvvigionamenti all ' estero, che "è completamente in opposizione coi più elementari principi amministrativi di un governo costituz ionale", perché "vi
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manca assolutamente ogni controllo" e "lascia in balìa di una sola persona l'opportunità e il modo di spendere tanti miliont'. Infatti quando il Ministero necessita di qualche importante approvvigionamento un alto fimzionario del Ministero stesso va all'estero, e dirigendosi a quelle case o a quella casa che. secondo il suo modo di vedere, fa patti migliori, prende dei concerti di massima per quella determinata fornitura, le cui proposte concrete devono poi essere fatte al Ministero. fl funzionario ritorna a Roma; la Casa o le Case spediscono le loro proposte al Ministero; questi le sottomette, come di consueto, al Consiglio Superiore di Marina, il quale per approvarle o respingerle nomina abitualmente a relatore lo stesso funzionario che è andato all'estero a prendere i concerti di massima coi costruttori o coi fornitori. Ne awiene perciò che quel funzionario rimane incaricato di controllare sè medesimo.
Questo secondo lo stesso giornale è avvenuto anche nel caso dell'acquisto della macchina del Lepanto, con l'invio in Inghilterra da parte del Ministero dell'Ispettore Mattei, il quale è stato poi relatore-a tutto favore della ditta Penn della commessa davanti al Consiglio Superiore della Marina. Anzi: la ditta Penn ha consegnato "per errore" il suo progetto e la sua offerta allo stesso Mattei, che poi l' ha fatta pervenire al Ministro Acton. Dopo di che, come riferisce Il Popolo Romano del 30 luglio e del 5 e 13 agosto la situazione si complica e aggrava ulteriormente, destando nuovi e più gravi sospetti sulla condotta del Ministro, il quale viene accusato <li aver trascurato l'offerta più vantaggiosa della ditta Maudslay - ugualmente rinomata come fornitrice di macchine alle principali marine - per favorire la ditta Penn, aggiudicandole la fornitura senza concorso (procedura non consentita dalle norme in vigore), per asserite ragioni di urgenza e perché a suo parere tale ditta fornirebbe maggiori garanzie della concorrente Maudslay. Di questa querelle si può dire che, per la verità, la difesa dell'operato del Ministro da parte del giornale Il bersagliere non appare del tutto convincente; comunque non può essere trascurato che la scelta del Ministro è accreditata dalla precedente approvazione da parte del Consiglio Superiore di Marina e del Consiglio di Stato. Infine, il fatto che la ditta Penn pratichi successivamente un consistente sconto rispetto al prezzo iniziale convenuto per pareggiare l' offerta della ditta concorrente, dimostra che la ditta Maudslay è affidabile quanto la Penn, ma anche che il sistema amministrativo in uso presso il Ministero della marina effettivamente non favorisce acquisti a prezzo equo, quindi abbisogna di profonde riforme. Non appaiono inoltre ben chiariti i motivi della preferenza per la macchina della ditta Pcnn, né risulta contestata da alcuno l' importante critica a tale macchina, riguardante i I consumo eccessivo di carbone (la macchina dcli'Andrea Doria,impostata poco dopo, consuma meno carbone di quella del Duilio).
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Gli altri articoli contro le navi colossali (Turi, Albini, Cattori, Maldini, Cottrau, Di Suni) Nel periodo considerato, nel quale sembrano prevalere specialmente fuori dalla Camera le idee del Ministro Acton, prevedibilmente gran parte della stampa di interesse navale si schiera a favore di quest'ultimo, con argomentazioni che esaltano fin troppo le qualità delle corazzate di dislocamento più moderato_ Già nel 1878 laRivista Marittima pubblica un articolo del capitano di fregata (poi ammiraglio) e deputato Carlo Turi, che in poche righe condensa le ragioni degli oppositori alla politica delle navi colossali fino allora seguìta_28 TI Turi è categorico, e senza dubbio molto più coerente del Saint Bon: - "dopo il trionfo del cannone sulla corazza questa non ha più ragione di essere, perché quando essa è impotente riesce non solo inutile ma dannosa"; - in passato le torpedini fisse, le torpedini Harvey, i primi siluri Whitehead non erano ancora armi tali da preoccupare eccessivamente, ma ora i siluri Whitehead perfezionati sono diventati un'arma efficace cd economica, per i motivi più volte esposti dai nemici delle corazzate; - onnai una nave piccola e veloce può distruggere la più grande nave, "senza parlare di quanto può la velocità paralizzare l'opera dei grossi e pochi cannoni che ci obbligarono a costruire navi enormi per sopportare il loro peso e le corazze di sempre crescente spessezza che loro si oppongono". Infatti sono numerose le circostanze che in combattimento ostacolano l'efficacia del tiro e il numero di colpi utili; - "non è a dubitare che il cannone e la torpedine trionferanno sulla corazza e sulle immani navi di linea che taluni ancora vagheggiano come il non plus ultra delle navi da battaglia"; - la via della costruzione di qucst'ultime, "pericolosa e dannosa" per tutte le nazioni che hanno dovuto quadruplicare le spese senza alcun utile sicuro e immediato, "lo è molto più per noi, la cui unica via dovrebbe essere di avere una marina tale da assicurare la difesa delle nostre coste coi mezzi più efficaci ed economici''; - a noi non serve una marina in grado di portare la guerra in Paesi lontani, né ci occorrono navi capaci di attaccare fortezze munite di fonnidabili cannoni; per la nostra sicurezza, per la difesa delle nostre coste, e per proteggere i nostri interessi all'estero "non sarebbero utili né bastevoli'' le navi colossali. Il nostro solo interesse dovrebbe essere di avere una marina tale da assicurare la difesa delle nostre coste coi mezzi più efficaci ed economici; - pe~~1to a noi converrebbe sospendere la costruzione di grandi corazzate momento sono già state impostate, ma non ancora varate, l'Italia e
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28 Carlo Turi,
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Le a/tua/i corazzate, in "Rivista marittima" 1878, 11 Trimestre Fascicolo VI, pp. 380-
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la Lepanto, mentre il Duilio e il Dandolo sono stati varati ma non sono ancora entrati in servizio - N.d.a.], cercando di utilizzare al meglio quelle che già abbiamo, e costruire invece - come fanno le altre marine - "navi di regolare grandezza, di ferro o di acciaio, armate di cannoni di grosso ma non esagerato calibro", con una prua ben solida per l'uso dello sperone e molto veloci; - in tal modo con il costo di un solo Duilio si possono avere 30 navi di linea più maneggevoli, più veloci e più adatte alle future battaglie, mentre col costo di un solo Dandolo possiamo avere "molte piccole navi (tipo corvette e cannoniere) veloci e ben armate di cannoni e torpedini'', utili anche in pace per la protezione del commercio, per mostrare la bandiera in mari lontani e per l'istruzione degli equipaggi; - se con questi orientamenti sarà possibile risparmiare qualche milione, sarebbe opportuno impiegarlo per migliorare l' istruzione e le condizioni del personale. Il Turi conclude rimarcando che la convenienza di costruire nuove corazzate è in ogni caso dubbia; sarebbe perciò un errore e un 'imprudenza da parte nostra "se, rompendo la discussione, ci gettassimo a corpo perduto in braccio a uno di essi sistemi adottando le opinioni estreme". Si può osservare che è questa, nella sostanza, la linea sostenuta in precedenza dal Ministro Saint Bon; e va anche notato che fino all'assunzione della carica di Ministro da parte dell'ammiraglio Acton non compare sulla Rivista Marittima un solo articolo autorevole e firmato, che illustri in modo esauriente le ragioni della scelta pronavi colossali del Ministro Riboty, e più in generale i vantaggi che assicurerebbero queste navi rispetto ai modelli di corazzate in auge nelle maggiori marine. L'anno cruciale è il 1880, quando a cominciare dal mese di gennaio-cioè da poco più di un mese di distanza dall'assunzione della carica da parte del Ministro Acton - compare una serie di articoli contro le artiglierie e le navi colossali. Apre la serie il capitano di vascello e deputato (poi ammiraglio) Augusto Albini - al momento direttore generale di artiglieria presso il Ministero - che illustra gli svantaggi delle artiglierie colossali al momento installate (o in corso di installazione) sulle quattro grandi navi in cantiere, e propone artiglierie più leggere ma non per questo meno efficaci.29 Facendo riferimento anche al dibattito in corso in Inghilterra, l'Albini dimostra la superiorità del sistema di installazione delle artiglierie principali su piattaforme girevoli a scomparsa in coperta su quello tradizionale in batteria, senza però escludere la convenienza di collocare sui fianchi un buon numero di artiglierie minori. La conseguente formula da lui proposta per le future costruzioni - mai applicata da nessuna parte - si avvicina a quella di un'Italia molto più piccola, perciò
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Augusto Albini, Artiglieria delle navi moderne, in "Rivista Marittima" 1880, I Trimestre Fase.
I, pp. 7-31.
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notevolmente ridotta nel peso e calibro delle artiglierie (che sono peraltro più numerose): è mia convinzione che una nave di mole moderata di circa 9 mila tonnellate molto veloce, difesa da una buona corazza orizzontale, senza alcuna corazza verticale, munita di 8 cannoni a retrocarica da 25 o 26 tonnellate sul ponte scoperto sistemati in coppie su piattaforme girevoli, e 30 cannoni da I/ tonnellate di:.persi, per quanto è possibile, in due batterie una sull'altra sovrastante, da ricordare in poche parole l 'antico vascello di linea ad elica al quale si fosse aggiunta la corazza orizzonta/e, tolta l 'alheratura e mutato il tipo dei cannoni, possa lottare con vantaggio contro una nave del tipo Duilio e lntlexible portanti 4 cannoni da 100 tonnellate rinchiusi in un parapetto difeso da 55 cm di corazza [cioè in toni corazzate girevoli - N.d.a.]. Non paragono il nuovo tipo all 1talia e al Lepanto perché queste navi, dovendo rispondere ai vostri concetti in base ai quali il vice-ammiraglio Saint lJon le ideò, si scostano per necessità dalle navi di linea ordinarie; nondimeno si può dire che nei loro caratteri generali e nel loro numeroso armamento esse già realizzano in larga misura le idee sovra espresse, e anzi possono quasi considerarsi quali pionieri sulla nuova via: perché se [su di esse] la corazza verticale non è del tutto abolita, è ridutta a proteggere i soli meccanismi di manovra dei grandi cannoni.
Questa discutibile e antiquata soluzione, che ignora il pericolo delle torpedini ed è un compromesso poco felice tra il vecchio e superato vascello e le nuove soluzioni (con molte artiglierie principali disposte in coperta e le artiglierie minori in batteria come sui vecchi vascelli), è accreditata dati' Albini come segue: - la protezione delle artiglierie principali con torri corazzate girevoli [come sul Duilio - N.d.a.] comporta un fortissimo aumento di peso; i moderni cannoni da 25-26 tonnellate hanno grande potenza perforante cd elevata celerità di tiro; quindi una bordata di 6-8 di questi cannoni può aver ragioni di 4 cannoni di grande potenza, dato che il combattimento a grandi distanze "è una chimera", mentre è una realtà lo svantaggio che deriva dall'estrema lentezza di tiro, della pesante mole, dalla facilità di guasti delle artiglierie colossali; i numerosi cannoni di minor calibro in balleria come nei vecchi vascelli sono necessari per rendere la nave atta a lottare contro tutti i tipi di avversario e a soddisfare tutte le esigenze della guerra marittima. Inoltre con l'aumento dello spessore delle corazze si estende anche la superficie non protetta delle navi, che tali cannoni possono colpire lasciando alle artiglierie principali il compito di distruggere la parte corazzata; - la demolizione delle parti sovrastanti alla corazza orizzontale di una nave può provocarne l'affondamento o la paralisi delle manovre; - l' aumento già conseguito della potenza delle artiglierie di mole moderata e quello ancora che si potrà ottenere rendono inutili le corazze verticali, perché se per raggiungere la completa invulnerabilità nessun spes-
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sore minore di un metro è utile, tanto vale abbandonare tali enormi corazze; - in passato l'imponente sviluppo per vaste superfici delle corazze ancora possibile rendeva necessari i cannoni colossali, ma al momento i cannoni moderati da 11 tonnellate possono forare corazze da 45 cm, quelli da 18 tonnellate corazze da 50 cm, ecc., quindi tali cannoni colossali non sono più necessari; - se eventuali, futuri progressi dell'industria metallurgica consentissero di ottenere corazze di peso limitato capaci di resistere ai moderni cannoni moderati, se gli ingegneri navali trovassero il modo di moltiplicare il numero dei grandi cannoni di una nave rimediando così alla loro eccessiva lentezza di tiro, o se riuscissero a dotare una nave di tonnellaggio moderato di corazze dello spessore di un metro senza sacrificare altre qualità essenziali; "io volentieri tornerei ad accordare preferenza ai cannoni colossali". Si tratta evidentemente di soluzioni alternative impraticabili, che trascurano l'unica possibilità reale, legata al progresso: aumentare la potenza, la celerità di tiro e la precisione delle artiglierie principali senza aumentarne peso e calibro, e anzi diminuendoli considerevolmente. Anche il tenente di vascello Cattori30 (Cfr. il precedente capitolo IV) citando favorevolmente I' Albini si schiera più o meno con le stesse argomentazioni a favore di navi di dislocamento moderato (7-8000 t) del costo presumibile di 8-10 milioni, con artiglierie principali di 43 t anziché di 100 t, più numerose artiglierie secondarie di 11 o 25 t su piastre girevoli (quindi in coperta), senza corazzatura verticale, grande velocità, autonomia ridotta (non superiore a 6000 mg) e pescaggio limitato. Diversamente dall' Albini il Cattori giudica il rostro l'arma principale e il cannone un' arma secondaria e si preoccupa dell'efficacia del siluro c delle torpediniere, escludendo però la convenienza di armare con lanciasiluri le navi corazzate, anche perché il loro comandante, dovendo già preoccuparsi della manovra, dei cannoni e del rostro, non potrebbe dedicare all' impiego dei siluri la dovuta attenzione; ritiene invece utile aumentare il numero delle torpediniere e farne trasportare fino alla zona d ' impiego due per ciascuna nave maggiori. Escludendo la convenienza di costruire arieti, cioè navi armate solo di sperone, ritiene che la costruzione di navi di dislocamento moderato consenta di aumentare il numero, con il vantaggio di avere numerosi speroni contro una sola grande nave. Il Cattori è un pò più originale quando: - non giudica opportuno imitare pedissequamente le costruzioni navali straniere, perché una flotta è un mezzo per raggiungere uno scopo, e diversamente dai compiti delle flotte straniere, lo scopo della nostra flotta deve essere solo quello di difendere le nostre coste; 30 Michelangelo Cattori, La nave da KtJerra moderna, in "Rivista Marillima" 1880, TI Trimestre Fascicolo VI, pp. 459-484.
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- constata che non abbiamo torpediniere e non abbiamo sviluppato a sufficienza la costruzione di incrociatori rapidi, di buone qualità marine, armati di pochi e potenti cannoni, utili in tempo di pace per qualsiasi missione ma soprattutto "destinati a paralizzare in guerra la ricchezza e il movimento di un potente nemico" con una spesa relativamente lieve e con grande probabilità di successo, dando così anche a una naz1one povera come la nostra la possibilità di far valere i nostri diritti e imporre la nostra parola a nazioni più ricche. Dopo queste ottimistiche tesi del Cattori, nelle quali si sente l'influsso della Jeune École, compare sulla Nuova Antologia un lungo studio del già noto deputato Galeazzo Maldini, che ne fa il più attrezzato avversario del Saint Bon e del Brin. 31 TI Maldini esordisce con una verità pienamente condivisibile, assai importante per ben capire i reali termini di un dibattito, che non è solamente tecnico: "l'argomento delle nuove costruzioni navali dalla sua natura eminentemente tecnica trovasi oggi mutato nel nostro paese in questione di carattere troppo personale", mentre i sostenitori delle tesi pro e contro le navi colossali e i loro avversari esagerano le rispettive argomentazioni. Egli anzitutto crede che avendo due navi per ciascuno di questi due tipi [cioè il Duilio, il Dandolo, l'Italia e il Lepanto - N.d.a.] non convenga ora al nostro paese, per molte ragioni tecniche e anche di finanza, continuare nella costruzione delle navi giganti; e sia quindi necessario che le nuove navi da farsi ahhiano minori dimensioni di quelle già costruite. Per sviluppare questo mio concetto non occorre né condannare i tipi Duilio e Italia, né screditare il loro sistema di costruzione e di armamento.
In secondo luogo il Maldini non riconosce a queste costruzioni, come fanno altri, il carattere rivoluzionario che taluni loro vogliono attribuire: "sono ) progressi, tentativi di applicare questi progressi sulla stessa nave, non trasformazioni del materiale navale, non cambiamenti di sistema". A parte questo fatto, giudica "un errore amministrativo e tecnico" il sistema (seguito solo da noi), di impostare le navi due alla volta: "erano certamente tipi nuovi, non ancora esperimentati né da noi né altrove; sarebbe stato più naturale, più conforme ai sani e preveggenti sistemi di amministrazione marittima quello di costruirne una sola, esperimentarla, e, riuscendo, ordinare poi la costruzione dell 'altra, introducendovi quelle modificazioni che la pratica avesse suggerito, pur mantenendo il sistema generale del tipo nei suoi essenziali elementi''. Altre numerose critiche e obiezioni del Maldini possono essere così riassunte:
11 Gian Galeazzo Maldini, le nuove costrnzioni navali per la marina italiana: navi piccole - navi giganti, in "Nuova Antologia" Voi. XXI II Fase. XX - 15 ottobre 1880, pp. 73 1-769; Voi. XXIV fase . XXI - 1° novembre 1880, pp. 55-86; Voi. XXIV Fase. XXII - 15 novembre 1880, pp. 304-336. Pubblicato anche in opuscolo (Roma, Darbèra 1881) e sulla "Rivista Marittima" 1880, IV Trimestre dicembre e I 88 J - I Trimestre gennaio.
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- le navi giganti intendono riunire "nel modo più assoluto e perfetto" in una stessa unità, libertà d'azione, grande velocità e il massimo della forza militare; però le navi da guerra devono essere concepite non per agire da sole, ma come parte di un tutto; - sia le navi del tipo Duilio che quelle del tipo Italia hanno inevitabilmente pescaggio eccessivo (rispettivamente 8,56 e 9,24 m): ma la grande immersione di una nave ne compromette la facilitò di entrata e uscita dai porti, il passaggio negli stretti, la possibilità di avvicinarsi alle coste. Si tratta di un inconveniente particolarmente grave per noi, perché sono pochi i porti italiani nei quali può trovare rifugio una nave gigante. Nessuna di queste navi, inoltre, può passare per il Canale di Suez; - l'abitabilità e l' igiene sono requisiti necessari, ma difficili da ottenere nelle navi che presentano un eccesso di velocità e di potenza; - con la costruzione delle navi giganti rimangono alterate tutte le previsioni, sia per i tempi di costruzione (che tendono ad allungarsi) sia per la spesa: "la spesa presuntiva del Duilio quale risulta da un documento ufficiale annesso al bilancio defìnitivo del 1875 era valulata a 13.930.000. Dai calr.oli fatti al principio di quest 'anno sembra invece che il Duilio abbia costato quasi 22 milioni"; - la lunga durata delle costruzioni navali non consente di rispettare la legge organica del 1877 e "impedisce quel pronto sviluppo delle forze marittime che per noi è una questione essenziale, attese le condizioni nelle quali ci troviamo con il materiale della nostra marina"; - non è possibile conoscere con certezza le capacità nautiche di queste navi giganti, e perciò anche la loro effettiva attitudine alle lunghe navigazioni; - l'eccesso di mezzi offensivi e difensivi che sono riuniti in queste navi alla fin fine non è un vantaggio ma piuttosto un danno, perché essi richiedono ai loro comandanti in guerra doti eccezionali che non è facile trovare; - nel combattimento isolato contro un gruppo di due o più altre corazzate di dimensioni minori, la nave gigante potrebbe affondare con lo sperone una o più navi nemiche, ma a sua volta potrebbe essere colata a picco dalle rimanenti. Se invece dovesse combattere inquadrata in una squadra, il suo impiego sarebbe assai difficoltoso; - le nostre quattro navi giganti sono frutto di un tentativo che come tale è un'eccezione, non la regola generale. È anche significativo che nessuna marina abbia costruito o si accinga a costruire navi del tipo Duilio o del tipo Italia; solo l'Inghilterra ha costruito l'lnjlexible [sulla carta ancora inferiore - N.d.a.], ma si è limitata a una nave sola. Perciò se noi oggi [1880 - N .d.a.] volessimo costruire ancora navi del tipo Duilio e Italia, "significherebbe che noi vogliamo ripetere le navi degli anni 1873 e 18 76, non accettate da alcuno. Questo non parmi sarebbe un progresso" ; - specie per uno Stato che come l' Italia dispone di poche navi, il sistema di concentrare la forza efficace sul mare in un ristretto numero di navi provoca l'inconveniente che quando si produce la più piccola avaria in
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una nave gigante, rimane paralizzata una parte troppo consistente delle forze disponibili. Tale inconveniente si può verificare di frequente, data la delicatezza dei congegni per la manovra delle artiglierie e degli organi più indispensabili; - se si ammette che una nave gigante con 4 cannoni equivalga alla forza militare di due navi minori, con quest'ultime sarebbe possibile disporre di un numero di cannoni doppio [ma presumibilmente di calibro minore - N.d.a.]; lo stesso si può dire per i rostri; - il grande sviluppo delle nostre coste rende preferibile la suddivisione della nostra forza navale in parecchie unità; - un maggior numero di navi consente, in tempo di pace, una più agevole alternanza dei periodi di armamento, di riposo e di riparazione, così come è richiesto dalla buona conservazione del materiale; - nessuna marina possiede navi di un unico tipo, adatte a un solo impiego; anche la legge organica del 1877 prevede navi da battaglia di ia classe "adatte a tutti gli usi della guerra marittima"; - nelle navi di tipo Italia la prora non è rinforzata e iI rostro non è ben collegato con la massa intera della nave, rendendone così l' impiego pericoloso; - le navi colossali oltre al loro costo enorme richiedono spese di manutenzione molto più elevate delle altre; - i cannoni da 100 t, intorno ai quali sono costruite le nostre navi colossali, possono ormai essere sostituiti da artiglierie più leggere ma di pari efficacia. Segue un confronto tra le caratteristiche delle corazzate delle principali marine del momento, delle quali prevedibilmente emerge la superiorità delle nostre quattro navi colossali, in fatto di calibri, velocità e dislocamento. Ci limitiamo a citare solo i dati relativi alle marine inglese e francese. DISLOCAMENTO Al confronto con il dislocamento del Duilio (11438 t) e dell'Italia (13708 t): - delle 42 corazzate inglesi del momento solo l'lnjlexible ha dislocamento superiore a 11000 t (11406 t), mentre un'altTa ha dislocamento tra le IO e 11999 t, 5 superano le 9000 t, 12 hanno dislocamento tra le 7 e le 8000 te le rimanenti 23 hanno un dislocamento inferiore a 7000 t; - delle 40 corazzate francesi del momento, 2 (A mirale Baudin e Foudroyant) hanno un dislocamento di 11441 t, 1 (Amiral Duperré) raggi unge le 10486 t, 10 hanno dislocamento tra le 7 e le 9000 t e tutte le rimanenti 27 non raggiungono le 7000 t. VELOCITÀ Al confronto con la velocità del Duilio (15,04 mg/ora raggiunte) e dell'Italia (16-17 mg/ora presumibili), la corazzata più veloce dell'Inghilterra è il Minotour di 10,627 t, che ha fatto 15,43 mg/ora; l'Alexandra di 9432 t ne ha fatti 15. Tutte le altre corazzate, inglesi, francesi e delle altre marine, non raggiungono la velocità di 15 mg/ora.
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ARMAMENTO PRINCIPALE A fronte del le 100 t dei cannoni del Duilio e dell'Italia la marina inglese non ha sorpassato i cannoni da 81 t dell'Jnflexible e la marina francese quelli da 72 t del Duperré. Poiché nessuna marina possiede corazzate superiori alle nostre e nessuna marina si accinge a costruirne delle altre, il Maldini propone di "abbandonare il tipo delle navi giganti e costruire invece alcune navi di dimensioni minort', proposta che per quanto detto prima non è in contraddizione con l'altra affermazione che "ogni nazione marillima concreta la qualità e quantità delle sue forze navali a seconda dei propri bisogni militari, navali e politici". A suo parere l' Italia ha bisogno di navi in grado di avvicinarsi con facilità e sicurezza alle coste, di entrare nella maggior parte dei porti e di trovarvi un ricovero sicuro, di entrare e uscire dalla base di La Maddalena, di attraversare l'Oceano, di passare attraverso il Canale di Suez: tutte esigenze che non possono essere soddisfatte con le navi colossali. Peraltro - egli chiarisce - devono essere costruite navi piccole relativamente alle navi colossali e non navi piccole in senso assoluto, visto che quest'ultime presentano a loro volta diversi inconvenienti : non possono essere impiegati in tulli i servizi di navigazione, non possono raggiungere la velocità che sarebbe richiesta, sono poco stabili e quindi ostacolano la precisione del tiro di artiglieria, non possono essere ben protette dall 'o ffesa nemica, rendono poco efficace l' impiego del rostro. Dopo questa valanga di critiche nelle quali non si riesce a trovare un solo pregio delle navi colossali, il Maldini indica più nel dettaglio quali dovrebbero essere i requisiti delle future corazzate da costruire: - anzitutto buone qualità marine, cioè stabilità, facilità di evoluzione, buona tenuta del mare, buone condizioni di abitabilità; - velocità non esagerata (basta un massimo di 15 mg/ora), perché anche un modesto aumento di velocità richiederebbe macchine potenti, pesanti e ingombranti, esagerato consumo di combustibile ecc., quindi l'aumento di velocità richiede il sacri ucio di altri requisiti e " quanto più la nave è forte p er mezzi di offesa, tanto più diminuisce la necessità di renderla mollo veloce"; - dotazione di carbone sufficiente per percorrere l 000 mg, perché le navi non possono essere ridotte a depositi di carbone, il carbone può essere portato al seguito da navi carboniere e l'autonomia è un requisito in contrasto con quello della velocità; - artiglierie principali di molto minor peso di quelle da l 00 t del Duilio e del l'Italia; - sistema di corazzatura dello scafo analogo a quello dell ' Italia. cioè molto più leggero di quello del Duilio; - dimensioni più contenute di quelle del Duilio e del l'Italia, perché le grandi dimensioni ostacolano la manovrabilità. Ai suddetti requisiti corrisponderebbe una nave di dislocamento intermedio tra il Tegetthofaustriaco (7390 t) e il Colossus inglese (9150 t), con velo-
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cità 15 mg/ora, armata di efficaci cannoni "che possibilmente escludano la necessità di congegni meccanici per il loro servizio" [si noti questo requisito ormai fuori tempo - N.d.a.], che tenga conto dei più recenti progressi [si noti la contraddizione - N .d.a.] e abbia tutti i predetti requisiti, compresa una lunghezza e una immersione che le consentano la più grande facilità di evoluzione, l'approdo ai nostri porti e la navigazione in prossimità delle coste e tenendo anche presente che "il campo d'azione per le navi da battaglia della nostraflotta è il Mediterraneo. Noi dobbiamo adunque costruirne di adatte per navigare e combattere in questo mare, e a tali scopi non soddisfano opportunamente le navi giganti" [ma, in precedenza, il Maldini chiedeva loro anche la capacità di navigare negli Oceani - N.d.a.]. Il lungo studio del Maldini è di gran lunga il più esauriente nel campo degli avversari delle navi colossali, anche perché ne traccia molto bene tutta la storia fino al 1880. Dopo di lui il Cottau - sostenitore, come si è visto, della guerra di crociera richiamandosi agli scritti del Bonamico e alle dichiarazioni alla Camera dello stesso Saint Bon traccia anch'egli una panoramica desolante della flotta italiana del momento, sia sotto l'aspetto della qualità che sotto quella della quantità:32 "a che cullarci d 'illusioni? Noi per ora non abbiamo altri strumenti moderni da battaglia che il Duilio e sei barche torpediniere, cinque delle quali ordinate recentemente dall'ammiraglio Acton. E se il Parlamento non vi provvede, il Dandolo difficilmente sarà pronto prima del I 882, l 1talia non sarà armabile che nel 1884 e il Lepanto nel 1895-1896" [per il Dandolo così è avvenuto; l'Italia sarebbe stato pronto a fine 1885 e il Lepanto nel('agosto 1887 - N.d.a.]. Dopo aver sottolineato che al momento il Duilio è pronto ma [diversamente da quanto sostengono i suoi fautori - N.d.a.] non può compensare l'inferiorità delle rimanenti navi vecchio tipo, mentre le altre tre navi colossali entreranno in squadra solo quando le 11 corazzate al momento disponibili non esisteranno più, il Cottrau afferma che quel che urge più di tutto si è di colmare i vuoti nel numero del navi/io da battaglia .. . e di fare presto, dando mano, perciò, a quella parte del navi/io che sotto piccola mole sviluppi maggiore capacità offensiva (per servirmi del vocabolo del Bonamico). tenendoci strettamente allo scopo supremo assegnato alla marina dal piano organico [del 1877] (la difesa o_ffensiva delle coste) e rinunciando per ora a moltiplicare i tipi, costosissimi, a larga sfera d 'azione.
Ritorcendo abi Imente contro le navi colossali talune affermazioni del lo stesso Saint Bon e richiamandosi al piano organico del 1877 per tutto quanto corrobora le sue idee, il Cottrau una volta tanto ricorre ad argomenti di una certa originalità: se intendete per mediocrità il fatto che sotto taluni aspetti le navi che noi p,vponiamo saranno inferiori ad altre, avete ragione... Ma perché non guardate
32 Paolo Cottau, Abbiamo urgente bisogno di navi, in "Rivista Marillima" 1880, IV Trimestre Fase. X, pp. 5-49 (pubblicato anche in opuscolo - Roma, Barbèra 1880).
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anche, di grazia, alle inferiorità delle altre rispetto a talune qualità delle nostre? Navi prevalenti in tutto a tulle le altre se non se ne possono fare; e se voi intendete così superlativamente l'espressione atte a tutti gli usi di guerra della legge sul piano organico [del 1877), voi cadete, permettetemi di dirvelo, nel 'assurdo; perché non è dell'uomo fare opera perfetta, e perciò, come non c 'è la panacea universale; così neanche vi può essere la corazzata universale, ed in ogni classe di navi occorre varietà di tipi e di grandezza.
A tal proposito cita il Saint Bon, che in una lettera ai suoi elettori di La Spezia del 1874 assicura che non permetterà mai che una nave esca dai nostri cantieri, senza essere superiore almeno in qualche parte [ quindi non in tutto N.d.a.] ai migliori tipi di nave stranieri. E insiste sui lati deboli dell'Italia, che se si tratta di entrare a Venezia, passare il Canale di Suez e accostarsi a una spiaggia sottile, è anch'essa mediocre, così come nel combattimento ravvicinato e nell'uso del rostro si troverebbe in difficoltà contro una nave meno lunga, a causa del suo maggior tempo di evoluzione. Inoltre i suoi "sterminati ponti scoperti", le sue artiglierie non protette, il ridotto corazzato poco protetto superiormente, i suoi sei fumaioli ecc. sarebbero soggetti alle bordate e alla grandine di proietti di due navi di metà prezzo, per non parlare del numero, di attacco contro i forti, dei serissimi inconvenienti nautici e militari delle grandi dimensioni di una nave, del fatto che la frequenza dei guasti è direttamente proporzionale all'aumento dei dislocamento, e infine dei costi ... Per queste ragioni, a parte la lentezza del tiro ecc., anche il Cottrau ritiene preferibili ai cannoni colossali artiglierie di minor calibro e peso, sia pur con un'eccessiva e antistorica fiducia nello sperone non infrequente nel 1880, che anche in questo lo avvicina al Bonarnico. Riguardo al dislocamento, al contrario del Saint Bon e del Drin egli tende a mettere poche uova in un paniere, perché - parafrasando l'Albini - "affondare coi proiettili un moderno bastimento è un sogno" e il combattimento avverrà "a tiro di pistola". A tutto vantaggio delle artiglierie di minor calibro. Non bisogna però rinunciare a una corazzatura verticale per proteggere tutto il personale dal tiro di artiglieria: l'uomo rimane il fattore essenziale di potenza di una nave. Il prognunma di costruzioni che deriva da questi orientamenti tiene conto del numero e non è certo meno impegnativo di quello incentrato sulle navi colossali: - mettere in cantiere (in Italia e al l'estero) 4 corazzate con "dimensioni moderate, qualità tattiche e ojjènsive eminenti, discreto raggio d 'azione e velocità superiore a quella di tutte le navi da battaglia estere esistenti e in progetto"; - ordinare aJl'estero (salvo a farne altri da noi) due arieti-torpedinieri potentemente armati; - portare subito a 20 e poi a 30 il numero delle nostre " barche torpediniere"; - costruire urgentemente 4 sloops (a vela e con macchina sussidiaria) indispensabili per la formazione marinaresca del pt:n;onale [il Saint Bon
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pensa esattamente il contrario, ed è dell'avviso che l'istruzione alla manovra con le vele ormai non serva più a niente - N.d.a.]. In generale le caratteristiche principali delle navi da battaglia da mettere in cantiere devono tener conto di due criteri fondamentali, che il Cottrau riprende dal de Luca: 1) dato un numero di milioni e un termine di tempo molto limitati, ripartirli in modo da dare alla marina la maggior forza possibile, tenendo presente che dobbiamo anzitutto provvedere alla di fesa delle coste; 2) di conseguenza "arrestare lo sviluppo di ogni singolo pregio delle navi da costruire, quando la spesa e il tempo occorrenti ad un ulteriore sviluppo comincino a diventare sproporzionati all 'utile. cioè quando questa spesa e questo tempo possano più convenientemente impegnarsi in altra nave" [criterio antitetico a quelli del Saint Bon e Brin, che non hanno mai tenuto conto del numero, del tempo e della spesa - N .d.a.] . A questi criteri corrispondono navi corazzate con le seguenti caratteristiche particolari: - corazzatura analoga a quella dell'Italia, sfruttando il peso risparmiato per accrescere l'armamento e la velocità; - sistemazione delle artiglierie principali abbinate in torri corazzate, tenendo presente che "il mio sogno sarebbe di avere due ordini di fuoco e quattro torri, coi.fuochi delle due maggiori passanti sopra le minori[ ... ], con ogni coppia di torri disposta per baglio" e abolizione dei calcatoi idraulici, complicati e soggetti a guasti; - 50-52 t di peso delle artiglierie principali, sufficienti per forare anche a 1000 metri le ampie parti non coperte da corazze compound delle tre nuove navi straniere in progetto, e tutte le altre corazze esistenti sulle navi in servizio. Tale limite di peso è anche il massimo che consente la manovra delle artiglierie senza congegni idraulici; - 25 t di peso per le artiglierie minori, sufficienti per forare la massima parte delle cornzze esistenti; - pescaggio calcolato per poter entrare a Venezia e passare per il Canale di Suez [cioè inferiore a 8 m - N.d.a.]; - due torpediniere imbarcate; - velocità circa 16 miglia; - autonomia ridotta a 1h di quella dell'Italia; - "nessuna spesa dovrebbe poi considerarsi soverchia" per assicurare il miglior impiego "dei tre elementi che a giudizio delle persone più competenti costituiscono gli essenzialissimi fra i requisiti di una nave da battaglia", cioè il rostro (che dovrebbe essere del tipo Duilio), il timone e le pompe d'esaurimento e d'incendio. I risvolti finanziari di siffatte idee sono notevoli, tanto da eccedere di molto i 20 milioni complessivi per nuove costruzioni navali previsti dalla legge organica del 1877, per il periodo 1878-1887: occorre "nell'anno venturo [cioè nel 1881) un supplemento straordinario di 6 milioni, e a cominciare dal 1882, di 12 milioni circa in media ali 'anno, fino a che non avremo raggiunto la metà effettiva della.forza prevista dal piano organico [che, ricordiamolo ancora, pre-
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vede 16 navi da guerra di la classe, 1O di 2a classe e 20 di 3a classe, tra le quali i "portatorpedint' - N.d.a.]. Con tali assegnazioni, sempre secondo il Cottrau si potrà: - ridurre di un Ih ("di più non sarebbe possibile") i tempi per l'ultimazione dei lavori del Dandolo, dell 'Jtalia e del Lepanto; - "mettere sui nostri cantieri due altre navi da battaglia ultimabili in tre anni"; - ricorrere eccezionalmente all'industria privata (come già da l 1859 al 1866), per avere nel 1881 ben 20 torpediniere con 2 arieti e nel 1882 due altre navi da battaglia. In tal modo - conclude il Cottrau, che non vola troppo a lto - la nostra flotta raggiungerà una forza "che ci metterebbe al posto che abbiamo raggiunto nel 1866, al quale dobbiamo limitare le nostre ambizioni: QUELLO DELLA PRIMA MARINA DI 2° ORDINE'. I fondi per nuove costruzioni ritenuti necessari dal Cottrau non verranno mai assegnati, perciò il predetto programma non potrà mai essere realizzato appieno. Va comunque apprezzata, insieme con l'accenno ai tempi e alle risorse, anche una sufficiente visione delle luci e ombre di ciascuna soluzione, quando invece da ambedue le parti in aspra lotta si usa ricorrere a immagini manichee, nelle quali tutti gli svantaggi stanno nella parte opposta e tutti i vantaggi nelle soluzioni che si intende di fendere. Come egli ben dice, non esistono opere umane perfette, perciò nessuna è perfetta. Anche l'ammiraglio di Suni difende apertamente l'operato del Ministro Acton, con particolare riferimento al c.d. "plebiscito navale" (a suo dire impostogli dal Parlamento) e alla riforma del Consiglio Superiore della marina, che prevede - sul modello inglese - la creazione a parte di un Comitato dei disegni delle navi.33 Per il resto concorda con il Cottrau, affermando anzi che [siamo nel 1880! - N.d.a.] "le nostre più grandi corazzate attuali, eccetto il Duilio, sono assolutamente dei non valori e peggio ancora", tanto che abbiamo solo 6 navi da guerra in tutto, cioè il Duilio, l'Affondatore e le quattro navi tipo S.Martino [pirofregate corazzate entrate in servizio nel giugno 1866, con scafo in legno e corazza sovrapposte, dislocamento 4224 t, velocità 13 nodi, armamento 23 cannoni da 160 mm ancora in batteria - N.d.a.]. Nulla di nuovo sulle navi da costruire: anche il Di Suni è del parere di sospendere la costruzione di navi colossali, di non dare importanza eccessiva alla velocità e di costruire il maggior numero possibile di torpediniere, tanto più che la grande maggioranza degli ufficiali interpellati ha ritenuto che la nave più adatta alle nostre esigenze debba avere dislocamento di 8000 t circa. Da notare anche che come il Cottrau ritiene anch'egli, a torto, che "il rostro ha posto in seconda linea il cannone", e che, già allora, accenna a interessi industriali:
33 G. di Suni, Sulla questione delle navi, .in "Rivista Marillima" 1880. IV Trimestre Fase. XII, pp. 503-5 16.
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la marina è ormai fatalmente il campo determinato a benejìzio degli industriali, nel quale essi vengono a combattere le loro lotte, ad esperimentare ampiamente le loro arti e nel quale in gran copia raccolgono onori e denaro. Sarebbe desiderabile che volessero lasciarci un pò di tregua, ma è vano sperarlo. Necessariamente siano tratti a seguirli; in prima linea però debbono correre le nazioni più ricche e che hanno vitale interesse a conservare la loro assoluta supremazia sui mari [che dunque non potrebbe essere conquistata dal1'Italia, come pretendevano alcuni non solo a quel tempo - N.d.a.].
Dopo questa constatazione del Di Suni, certamente valida non solo per quei tempi, rimane sul tappeto un interrogativo: posto che, realisticamente, l'Italia non ha interesse alcuno a percorrere una strada che conviene solo alle "nazioni più ricche e che hanno vitale interesse a conservare la loro assoluta supremazia sui mari'', al momento risulta più conveniente per la nostra marina la scelta per le navi colossali (le cui artiglierie, corazze e macchine - non va dimenticato - devono necessariamente essere acquistate presso le predette " nazioni più ricche", e specie in Inghilterra), oppure per corazzate di dislocamento moderato, oppure per i tipi di nave proposti dal Bonamico e/o dalla Jeune École navale francese? Il numero di navi è certamente importante: ma che avverrebbe se la marina italiana dopo la scelta a favore di navi di tonne11aggio moderato, dovesse affrontare un numero di navi molto maggiore? E con quale certezza si può prevedere che le navi tipo Duilio (pochissime) sbaraglieranno flotte molto più numerose, con artiglierie di minor calibro ma di molto maggiore celerità di tiro?
Le critiche alla Camera del Saint Bon, del Brin e del generale Ricotti alle "navi di tonne11aggio moderato", la replica del Ministro Acton e la decisione di compromesso della Camera (febbraio-dicembre 1880) Non sono disponibili pubblicazioni ufficiali sugli orientamenti del Ministro Acton in merito alle costruzioni navali, né suoi scritti o memorie su questo argomento, come invece avviene per il Saint Bon e il Brin. L'unica fonte disponibile per studiare di prima mano le sue idee rimane pertanto il dibattito in Parlamento del 1880, che consente anche di confrontarle con quelle dei suoi principali sostenitori e avversari. Al momento (2006) tale confronto non è ancora stato compiuto in forma sufficientemente organica; eppure rimane indispensabile per ben individuare le interfacce di un problema complesso, nel quale - meglio dirlo subito - è difficile separare le ragioni dai torti. TI prezzo da pagare è l'ampio spazio che richiedono lo studio e il commento delle varie posizioni, dai quali non può essere disgiunto un minimo di contestualizzazione, ivi compresi i riferimenti al quadro complessivo della di fesa nazionale. Sia ben chiaro: non si tratta solo di una questione puramente tecnico-militare. A parte le evidenti rivalità, divisioni e animosità personali che affiorano
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continuamente nel corpus degli alti gradi della marina, complicano il dibattito anche diffonni interpretazioni della legge organica del 1877, questioni di procedura, questioni di competenza della Camera (deve essa occuparsi anche delle caratteristiche tecniche delle navi da costruire per mcgJio dimensionare gli stanziamenti, oppure deve decidere solo sulla base di indicazioni e dati di massima, in tal modo non vincolando l'operato del Ministro e lasciandogli piena responsabilità delle sue scelte tecniche?), questioni di rapporti tra gli organismi tecnici ( che dovrebbero collaborare con il Ministro), il Ministro stesso e il Parlamento, ecc. Una serie di fattori che rende macchinoso il processo decisionale, e che unitamente alle limitate disponibilità di bilancio e all'arretratezza dei nostri cantieri non favorisce certo la sollecita impostazione e l'allestimento del naviglio. Tn tal modo la lunga gestione dell'ammiraglio Ferdinando Acton può dirsi una continua lotta tra il Ministro, gli organismi tecnici e i suoi avversari, vieppiù complicata da contraddizioni in ambedue i campi opposti e dalla necessità di seguire il rapido progresso della costruzione di artiglierie e delle costruzioni navali. Ciò premesso, bisognerebbe anzitutto chiedersi fino a che punto l'ammiraglio Acton sia stato veramente convinto della necessità di costruire navi di tonnellaggio più moderato. Insieme con il Saint Bon, il Brin, gli ispettori del genio navale Mattei e Micheli e I' Albini egli risulta infatti firmatario del "Sunto delle proposte del Consiglio Superiore di Marina per una nuova nave di primo ordine", trasmesso in data 25 ottobre 1878 su richiesta del suo predecessore Di Brocchetti al nuovo Ministro Brin, un giorno dopo l'assunzione della carica da parte di quest'ultimo e un anno prima della nomina al suo posto dell 'Acton. Tn pratica si tratta di un'Italia con dislocamento più contenuto (ma non di molto rispetto alle sue quasi 16000 t), dovuto principalmente all'abolizione di due cannoni da 100 t. Le sue caratteristiche principali sono le seguenti: - Artiglieria: 2 cn. da I 00 t con meccanismi protetti da corazzatura. Cannoni di piccolo calibro e mitragliere; - Velocità uguale a quella de/l ltalia; - Provvista di carbone da avere la stessa sfera del/1talia; - corazzatura del sistema dell 'ltalia [cioè scafo a struttura cellulare, senza corazzatura verticale - N.d.a.]; - Numero dei ponti due, uno dei quali con altezza sufficiente per portare cavalli. Una nave di dislocamento inferiore di circa 1000-2000 t a quello dell'Italia, ma pur sempre superiore a quello del Duilio può forse essere ritenuta di dislocamento moderato? A sua volta i I Brin, relatore dello "Stato di prima previsione della spesa del Ministero della marina per l'anno 1880" discusso a lla Camera nella tornata del 13 dicembre 1879 (l 'Acton è Ministro da un mese),34 riafferma la necessità che
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Atti della Camcrn, Documenti Anno 1879, Doc. 6 - 256 A.
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le prime quattro navi da noi costruite siano "di primissima forza e tali da poter riparare alla inferiorità in cui eravamo caduti per il lungo spazio di tempo in cui cessammo da ogni nuova costruzione, mentre tutto progrediva intorno a noi". Ci si è però dimenticati che egli con dubbia coerenza aggiunge delle idee vicine a quelle del nuovo Ministro e assai sfruttate dagli avversari delle navi colossali, che anzi costituiscono il clou delle loro tesi: ma non tutte certo le nostre navi da battaglia devono essere di primo rango. Nessuna marina forma la sua flotta da battaglia di navi di un solo tipo. Nella legge organica [del 1877, da lui stesso fatta approvare come Ministro - N.d.a.] si prevedono quattro navi di un valore medio di 17 milioni e quattro di un valore medio di 13 milioni, cioè di grandezza e forza minori. Or bene, come già dissi, noi abbiamo provveduto alla costruzione di quattro navi di primissima forza, e se guardiamo a quanto sifa presso altre marine, ed alla forza relativa che ahhiamo avuto in vista di dare alla nostra rispetto a quelle, pMsiamo ora con più calma esaminare se non sia il caso di accingerci alla costruzione di qualche nave minore. Già il programma che dissi formulato dal Consiglio Superiore di Marina [quello del I 878 firmato anche dal futuro Ministro Acton, per una seconda Italia con 2 pezzi da 100 t anziché 4 - N.d.a.] si è ispirato a questa idea, poiché, come indicai, si ridurrebbe u metà l'armamento della nuova nave, rispetto all 1talia, Lepanto, Duilio e Dandolo. Ma anche dopo l 'epoca recente in cui fu jòm1ulato quel programma, nuovi progressi avvennero circa le artiglierie e i sistemi di corazzamento, dei quali conviene tenere conto. Oltre a ciò v 'ha chi pensa che convenga addivenire a cambiamenti più radicali circa il tipo delle navi da battaglia. Non sarebbe qui certo il caso di discutere a fondo queste varie opinioni[... ]. La vostra Commissione fa quindi voti perché non si metta mano ai lavori di questa nuova nave [per il momento di una sola nave di prima classe oltre alle prime quattro, la cui costruzione figura nello "Stato di prima previsione della spesa del Ministero della Marina per l'anno 1880" - capitolo 35 - N.da.]prima di aver/atto conoscere al parlamento i risultati di questi studi.
Dopo aver rimarcato che quando il Brin parla di "navi di primissima forza" si riferisce senza ombra di dubbio alle quattro navi colossali già costruite - non a quelle da costruire, che anzi ritiene debbano essere di forza minore risulta evidente che fino al t 879 compreso le posizioni degli alti gradi della marina non sono distanti, e vi è anzi concordanza sulla necessità di costruire per il futuro navi diverse dalle prime quattro. TI contrasto si delinea invece chiaramente nella seduta della Camera del 21 febbraio 1880, nella quale prosegue l'esame del bilancio di previsione 1880. In questa occasione il Brin contrasta decisamente l'orientamento del Ministro a costruire navi più piccole, meno potenti e meno costose, che a suo dire "ha molti partigiani". Esalta perciò la qualità e le caratteristiche del Duilio, senz' altro superiori a quelle di tutte le navi similari delle marine straniere; ma mentre tali caratteristiche si conoscono a fondo, "tutti quelli che si occupano di marina avranno sempre inteso parlare che molti sostengono che invece di queste grandi corazzate bisogna jàre delle navi piccole, veloci, potenti, che abbiano tutte le qualità, compresa quella di
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essere piccole. Ora è difficile discutere questo concetto finché si resta così nel vago.... " [obiezione valida fino a un certo punto, perché nelle principali marine straniere prevale da tempo l'orientamento a costruire navi di questo genere - N.d.a.]. Il Brin contesta poi le critiche di coloro che lamentano la scarsa autonomia delle navi colossali, osservando che l'unico rimedio sarebbe di aumentarne la dotazione di carbone, cioè di accrescerne ulteriormente il dislocamento. Anche l'aumento della velocità, molto importante per una marina necessariamente inferiore come la nostra, richiede macchine di proporzioni maggiori e quindi un aumento del dislocamento, a meno di sacrificare la potenza; quindi se si vogliono navi piccole e veloci, esse potrebbero solo sfuggire al nemico, perché gli sarebbero inferiori per le altre caratteristiche e non potrebbero reggere il combattimento. Peraltro, dati i continui progressi nelle corazze e nelle artiglierie, i bastimenti da costruire in futuro sarebbero di tipo diverso dal1' Italia e dal Lepanto, così come queste due ultime navi sono diverse dal Duilio e dal Dandolo; l'importante è che si mantenga fede al concetto con il quale sono state costruite le navi colossali continuando sulla via tracciata dal Saint Bon, e che gli organi competenti studino a fondo le future soluzioni. Nella sua replica l 'Acton informa la Camera che i risultati ottenuti nel le recenti prove del Duilio hanno superato tutte le aspettative in fatto di velocità, stabilità e capacità evolutive, fino a fargli definire tali brillanti prove "una vittoria navale". Al tempo stesso evita di accennare alla necessità di seguire anche per il futuro la strada delle navi colossali e precisa che ogni nave non va studiata isolatamente, ma come parte di un complesso di forze ben coordinate; "è dunque sotto questo punto di vista che io considero le nuove navi da porre in cantiere; ed avendo riguardo alle dimensioni e qualità delle quattro che già abbiamo, il Duilio, il Dandolo, /'ltalia e il Lepanto - le quali io reputo come i perni intorno a cui aggruppare strategicamente tutto il rimanente delle forze - che io studierò e proporrò al più presto i dati dei piani di costruzione, di offesa e di difesa delle nuove navi da porre in cantiere". Seguono altre considerazioni - non nuove - sull 'importanza delle torpediniere, che anche a parere dell' Acton è urgente acquisire perché sono indispensabili quanto le potenti navi. Comunque per il futuro quest'ultime devono avere caratteristiche ben diverse da quelle delle navi colossali: "i cannoni sono diminuiti di efficacia e accresciuti di peso; le opere sottomarine moltiplicate di numero e di potenza, quindi, oltre alla necessità delle grosse navi, il bisogno anche di piccoli bastimenti senza corazza, con molti cannoni, rapidi nel corso e nella girata. Sarà cosi non solo raggiunto lo scopo che i fatti, e non le opinioni impongono, ma sarà sollievo per la finanza e maggior sicurezza per la nazione in guerra, ché troppo grave rischio sarebbe di concentrare su pochissime navi tutta la/orza navale del paese" (si noti l'opinione analoga a quella del SaintBon, ma opposta a quella del De Amezaga e del Brin). Infine, l'Acton manifesta la sua preoccupazione per la mancanza o scarsa capienza di bacini di carenaggio che compromette l'efficienza della flotta, e promette di studiare a fondo il problema, onde pervenire a idonee soluzioni.
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I nuovi orientamenti enunciati dall'Acton mettono prevedibilmente in allarme il Brin, al quale sembra che il Ministro abbia accennato a un mutamento radicale, visto che "quella benedetta idea delle navi piccole, potenti e veloci mi pare abbia fatto capolino nel suo discorso"; pertanto, egli torna a raccomandare che prima d'incominciare nuove costruzioni, la Camera abbia modo di approfondire e dibattere la questione. Segue un intervento del l'ispettore del genio navale Michcli a favore delle navi colossali in costruzione, che a parer suo non sono così vulnerabili agli attacchi notturni delle torpediniere, perché i bastimenti da guerra sono muniti di proiettori che illuminano in profondità la zona circostante, e in particolare il Duilio è munito di ben otto lanciasiluri "ed ha anche delle barche torpediniere [imbarcate] che possono fare ventun miglia all'ora". Il dibattito del 21 febbraio 1880 si conclude con l'approvazione all'unanimità di un ordine del giorno di plauso ai progettisti e costruttori del Duilio, le cui prove di velocità hanno dato risultati così lusinghieri. La Camera approva inoltre a larga maggioranza il bilancio di prima previsione per il 1880 della marina; comunque il Brin dimostra di "marcare" strettamente il Ministro da allora in poi, presentando nella tornata della Camera del 7 aprile 1880 un'interpellanza che invita il Ministro a comunicare "l 'indirizzo dato all'amministrazione della marina", indirizzo che non può essergli ignoto visto che egli ditale amministrazione fa parte. Nella successiva seduta della Camera del 23 aprile 1880 il Saint Bon, che pure nel 1875 aveva sostenuto l'opportunità di non procedere a nuove costruzionj navali e ilimostrato di essere tutt' altro che entusiasta della protezione delle navi colossali anche contro le torpediniere, questa volta accusa il Ministro Acton di un generico "scarso amore" per il loro allestimento, mentre "non più ap ertamente, non più colla discussione Libera, alla Luce del sole, ma in una guisa del tutto diversa, con un lavoro che è sfuggito completamente all 'occhio e all'orecchio del pubblico, si è tentato di abbattere il sistema allora inaugurato e di sostituirne un altro; si è tentato di gettare sfiducia sul! 'opera dei legislatori e dei costruttori; si è tentato tutto questo, evitando quella discussione che sarebbe stato desiderio comune di chi cerca il bene". Inoltre quando le Commissioni tecniche hanno trattato temi riguardanti le costruzioni navali, i membri contrari alle navi colossali non hanno manifestato le loro idee, "o manifestatele furono ridotti dalla discussione a unirsi cogli altri in voto comune", sì che non si è mai potuto sospettare che "al di sotto della superficie vi fòss ero altre idee, altre tendenze". Il Saint Bon rivendica poi esplicitamente la paternità del Pietro Micca, la prima nave porta-torpedini italiane che fino a quel momento è stata considerata un fallimento, a causa della sua insufficiente velocità: " il Pietro Micca andrà benissimo, il giorno in cui la macchina soddisferà ai requisiti che si a.~pettavano" (previsione errata; avrebbero prevalso invece piccole torpediniere inglesi e tedesche). Il Ministro Acton replica che, contrariamente a quanto affermato dal Saint Bon, nella riunione della Commissione tecnica da quest' ultimo presieduta egli
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ha già sostenuto la necessità di rimanere nei limiti finanziari previsti dalla legge organica del 1877 [tesi, come si visto, sostenuta in precedenza anche dal Brio - N.d.a.] costruendo navi di costo non superiore ai 15 milioni, quindi assai inferiore al costo presunto dell'Italia e del Lepanto (22 milioni ciascuna). inoltre accenna alla convenienza di costruire navi con autonomia e dislocamento inferiori a quella dell'Italia e con pescaggio anch'esso inferiore, perciò adatto agli scarsi fondali dei nostri porti. Nega anche di aver trascurato l'allestimento del Duilio e del Dandolo; ha posto indisponibilità il Duilio perché secondo i rapporti dello stesso Saint Bon, comandante in capo del dipartimento competente, occorreranno due mesi per riparare una torre della nave [dopo lo scoppio di un cannone avvenuto di recente - N.d.a.] e non era opportuno mantenere a bordo in ozio un numeroso equipaggio e in particolare i fuochisti. In quanto al Dandolo, ha sempre concesso i fondi e la roano d 'opera che gli sono stati richiesti, mentre per l'Italia ha inviato al cantiere di Castel Iamare lo stesso Brin per vedere se era possibile accelerarne il varo, dovuto al ritardo nella fornitura del fasciame in legno. Per il resto il Ministro elenca nel dettaglio le ragioni - ormai note del suo orientamento per la costruzione di navi corazzate di tonnellaggio più moderato. A suo parere, in aggiunta ai limiti finanziari della legge organica e alla necessità di limitare il pescaggio delle nuove navi da costruire, bisogna anche considerare che: - "nessuna nave, per quanto perfetta, può considerarsi come unico tipo ej: jìcace per combattere", quindi alle navi colossali è opportuno affiancare navi di dislocamento moderato, tenendo anche conto che nessuna nave delle altre marine raggiunge la lunghezza di 100 metri, mentre le nostre sono lunghe 120 metri; - per le prime 4 navi sono stati spesi 88 milioni sui 120 previsti dalla legge organica del 1877 (20 in più dei 68 inizialmente stanziati), che vanno detratti dai 60 previsti per le 4 navi ancora da costruire, per le quali pertanto saranno disponibili solo 1O milioni ciascuna; - tenendo conto dei progressi odierni e delle costruzioni di altre nazioni, anche navi con un costo così ridotto potranno essere in grado di agire in qualunque operazione militare; - l'esperienza insegna che, a fronte delle molteplici esigenze della guerra navale, "anche il numero delle navi è un fattore di potenza marittima", e che "navi imperfette o disadatte" hanno deciso le battaglie navali; - se è logico il concetto di accrescere al massimo le qualità difensive delle navi di alto costo, è anche logico "l'altro concetto della proporzionata diminuizione di tali qualità nelle navi che costano meno". 11 Brio ribatte ricordando che dopo il 1870 il programma marittimo è stato studiato d'accordo con il Ministro della guerra responsabile della difesa costiera terrestre, il quale aveva fatto presente la necessità di una marina per rendere efficace tale di fesa; inoltre sottolinea che la già citata Commissione mista presieduta dal generale Menabrea aveva escluso la convenienza di affidare la
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difesa delle coste a piccole navi. Di qui "il programma" del Saint Bon, da lui ampiamente lodato senza citare il Riboty che ne è stato il vero iniziatore. Torna poi ad accusare l 'Acton di lasciare nel vago i suoi criteri per le nuove costruzioni: le navi colossali sono lunghe, ma le recenti prove del Duilio hanno dimostrato che il suo raggio di evoluzione è più ristretto di quello delle corazzate precedenti. Il Ministro si preoccupa solo del costo delle nuove navi, che non deve superare i 1O milioni: "ma perché non assicurarvi prima se con 1O milioni potete jàre una nuova nave, oppure se ce ne vogliono 12, 15 ecc., anche se dovreste farne una di meno o costruire qualche trasporto di meno?". Vi sono anche altre soluzioni possibili, come quella di aumentare il numero degli anni previsto per l'acquisizione delle nuove navi oppure quella di richiedere maggiori fondi [ma con quale probabilità di ottenerli? - N.d.a.]; la via peggiore è comunque quella dell' Acton, che intende mantenere come unici parametri di riferimento il numero di navi da costruire e i fondi disponibili; se poi le navi così costruite sono difettose, all' Acton questo non importa, mentre invece è una cattiva politica quella di costruire navi imperfette a priori. Il Ministro Acton ha buon gioco nel far osservare al Brin che le marine inglese e francese al momento dispongono di navi corazzate di circa 8500 tonne! late e una lunghezza di circa 100 metri. Comunque - osserva a ragione - per costruire altre corazzate del tipo di quelle preferite dal Brio occorrerebbe chiedere nuovi fondi alla Camera, cosa che non ritiene opportuna: "se l'onorevole Brin lo crede, fàccia la proposta. Se mi daranno i fondi, farò costruire delle navi anche molto più costose di quelle che prescrive la legge attuale". Interviene in soccorso del Ministro conterraneo il deputato comandante Eduardo D'Amico (già Capo di Stato Maggiore di Persano a Lissa), il quale ricorda di aver fino a quel momento condiviso la politica del Saint Bon e del Brin, ma giudica infondata e non dimostrata l'accusa ali' Acton di "scarso amore" per la prosecuzione dei lavori alle navi colossali e nega che egli abbia violato la legge organica del 1877, la quale definisce il numero e la specie delle navi ma non il loro tipo, legato al progresso tecnico e alle condizioni del momento. Perciò secondo il D'Amico la legge organica non impone al Ministro di costruire navi simili alle precedenti, mentre "non occorre essere uomini tecnici per riconoscere che bastimenti i quali, tolto/ 1nflexible della marina inglese, non hanno riscontro in alcuna altra marina, presentano una quantità di problemi, che con molta cura e con quell'amore, cui accennava l'onorevole Di Saint Bon, vanno studiati e risolti". Al momento sono già disponibili artiglierie molto meno pesanti di quelle del Duilio ma con capacità di perfezione uguale, se non superiore; e se il Duilio ha superato bene le prove di velocità, non ha ancora compiuto quelle di navigazione, né è riuscito perfetto in tutti i dettagli. Bisogna anche considerare che il Duilio è in costruzione da ben otto anni, ma non è ancora in grado di combattere, mentre il Lepanto è appena all'inizio: ebbene, quando si finiranno queste navi? E negli otto o dieci anni che occorrono ancora perché queste navi siano pronte, se noi avremo una guerra a com-
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battere, con quali navi combatteremo? Metteremo ancora in costruzione un 'altra nave di quella mole, per averla di qui a dieci anni, e La metteremo in costruzione oggi, prima che tutti quei difficili problemi cui ho accennato siano profondamente studiati e razionalmente risoluti?
Dopo di che, il D'Amico dichiara di avere piena fiducia nel Ministro e nei Comitati tecnici dai quali è attorniato, i soli competenti a risolvere il problema, perché la Camera non può trasformarsi in un Comitato tecnico. Sulle stesse posizioni del D'Amico si schiera l'onorevole Maldini ( relatore del progetto di legge organica del 1877 dovuto al Ministro Brin), il quale conferma che prima dell'approvazione della predetta legge "il Brin mi disse che non soltanto credeva possibili di avere delle navi che avessero il valore unitario di 15 milioni, ma che credeva ciò fattibile anche con una somma minore, ed inoltre voleva dare, od aveva dato l'incarico ai Consigli tecnici di preparare i piani per la costruzione di navi di consimile genere anzi che sperava di avere questi progetti già pronti se non per la discussione del! 'organico, almeno al più presto". E premesso che va sempre separata la responsabilità amministrativa e finanziaria del Parlamento da quella tecnica di competenza del Ministro, anch'egli ritiene che, poiché le navi colossali costeranno circa 22 milioni ciascuna, le 4 navi che rimangono da costruire dovranno avere un costo inferiore, fermo restando che "quando si dice nave piccola, s'intende che senza essere un colosso, un gigante del mare, abbia però tutte le qualità necessarie (velocità, corazza, artiglieria e via dicendo), tutto quello che deve avere una nave potente, altrimenti non è una nave da battaglia"; e va anche considerato che una marina farebbe male ad avere navi tutte dello stesso tipo ... 1n un successivo intervento il Saint Bon accenna a una vera e propria campagna di stampa con informazioni menzognere sui pretesi difetti del Duilio che il Ministro Acton non si è mai preoccupato di smentire, se mai confermandole con il disarmo del Duilio. Il Brin si dichiara dello stesso parere, osservando che gli inconvenienti del Duilio sono piccola cosa, comunque se si dovesse aspettare la loro eliminazione prima di mettere una nuova nave in costruzione, si dovrebbe aspettare troppo. A suo parere secondo la legge organica del 1877 se si vuole variare la composizione del naviglio, bisogna ricorrere al Parlamento e far studiare il problema dai Consigli tecnici. In quanto ai ritardi nelle costruzioni delle navi colossali, il Dandolo, varato da 20 mesi, "in seguito ai dubbi che si sono elevati, è stato lasciato nella Spezia senza farvi più nulla", mentre avrebbe potuto essere ultimato entro cinque o sei mesi; "ed è strano che si perda tanto tempo che si sarebbe potuto utilizzare nell 'allestimento di queste navi, e poi si adduca ciò come argomento per mettere mano a navi meno potenti, tanto più che anche navi piccole come il Principe Amedeo e la Palestro sono rimaste in costruzione molto tempo più del Duilio". 11 Ministro Acton si giustifica dichiarando di non essere obbligato a conoscere quel che dicono i giornali, e che comunque ha fatto scrivere su un giornale ufficioso che negli articoli in questione non aveva nessuna ingen:nza;
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d'altronde non gli sarebbe stato possibile smentire nessuna affermazione, perché gli ultimi verbali delle prove del Duilio, ad eccezione di quelli relativi alla velocità, gli sono pervenuti solo il 5 e il 9 aprile precedenti. TI dibattito del 23 aprile 1880 si conclude con l'approvazione di un ordine del giorno dell'onorevole Nicotera, che invita il MinistTo a accelerare i lavori delle navi corazzate al momento in costruzione e a presentare al Parlamento i pareri degli organi tecnici competenti prima di ordinare la costruzione di nuove navi di prima classe. È, in sostanza, l'accettazione della tesi del Saint Bon e del Brin: il Ministro deve e può accelerare la costruzione delle navi colossali in cantiere ma deve approfondire lo studio delle caratteristiche delle nuove navi da costruire, cosa che possono fare solo gli organi tecnici. Probabilmente, dietro le pressanti richieste del Saint Bon e del Brin al Ministro di scendere nel dettaglio, di indicare con precisione in Parlamento le caratteristiche tecniche delle navi che intende costruire, sta la speranza - non certo rivelatasi infondata - che presso iI predetti organi tecnici, a cominciare dal Consiglio Superiore di Marina, i suoi intendimenti iniziali avrebbero trovato un terreno tutt'altro che favorevole, cosa che poi è avvenuta. D'altro canto, gli stessi Saint Bon e Drin ammettono che le future navi non possono essere simili all'Italia e al Lepanto, ma a loro volta non indicano affatto, più nel dettaglio, quali dovranno essere le loro caratteristiche principali, pretendendo però che lo faccia l'Acton. Quest'ultimo recepisce comunque le indicazioni dell'ordine del giorno Nicotera del 23 aprile 1880, e subito dopo presenta al Consiglio Superiore di Marina un progetto che fin dal 1879 su suo incarico l'ispettore del genio navale Micheli aveva cominciato a studiare, per una nave di prima classe con pescaggio non superiore a m 7,30, velocità a tutta forza 15 miglia, autonomia 3500 miglia, 2-4 cannoni principali (protetti con corazza di 45 cm) capaci di forare 45 cm di corazza e altre artiglierie di minore potenza, protezione dello scafo simile a quella dell' ltalia, dislocamento 7 500 t (poi aumentato per legge a 10000 t, come meglio si vedrà in seguito).35 Anche se queste caratteristiche si discostano notevolmente da quelle dell 'ftalia ridotto indicato dal Consiglio Superiore di Marina nel 1878 e come si è visto allora approvate anche dallo stesso Acton, esse non giustificano del tutto i subitanei attacchi a fondo del Saint Bon e del Brin, se non altro perché ambedue ammettono che bisogna tener conto del probrresso tecnico nelle nuove costruzioni, mentre la nuova nave ambisce ottenere più o meno le stesse prestazioni delle navi colossali, con il vantaggio
35 Anche dal dibattito alla Camern sul bilancio della guerra e sulle fortificazioni terrestri, in quegli stessi giorni (23-24 aprile 1880) emerge che il progresso delle artiglierie pesanti consente di diminuire fortemente il loro peso, a parità di penetrazione nelle corazze. Ad esempio il nuovo cannone Krupp da 40 t forn alla distanza di 2500 m una coraZ7.a di 66 cm, con una velocità iniziale di 605 m/sec. a fronte dei 500-500 m/scc. dei cannoni del Duilio. Pertanto il deputato Tenani e la Commissione della Camera ritengono necessario sospendere l ' installazione per la difesa costiern del cannone da 100 t e sostimiri o con cannoni da 32 e 45 L.; della stc:ssa opinione sono il Ricotti e il Mar.selli.
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di un molto minore dislocamento e di un pescaggio minore, che la renda atta a utilizzare gran parte dei nostri porti, fatto di grande importanza. Se mai spettava agli organi tecnici dimostrare che era impossibile ottenere le prestazioni volute dall' Acton con un dislocamento tanto inferiore, il quale tuttavia corrispondeva oggettivamente a quello della maggior parte delle unità corazzate delle principali marine. La più valida obiezione del Saint Bon e del Brio sembrerebbe dunque quella che con navi di quest'ultimo tipo la marina italiana avrebbe indiscutibilmente rinunciato alla preponderanza qualitativa assoluta, che era alla base della formula delle navi colossali come unico rimedio per compensare un'inevitabile e fortissima inferiorità numerica, alla quale nemmeno navi di dislocamento più modesto avrebbero potuto porre rimedio. Per il resto va considerato che, come scrive il Gabriele, l 'Acton si proponeva di ottenere una unità molto maneggevole, con meno autonomia dell 'ltalia ma con le artiglierie principali [presumibilmente non dello stesso calibro e peso di quelle del Duilio - N.d.a.] protette come nel Duilio. Rinunciava con ciò alla strategia mondiale del Saint Bon [troppo ambiziosa N.d.a.l e limitava al Mediterraneo il raggio operativo delle nuove unità; poiché queste costavano assai meno dei precedenti colossi, si doveva ritenere che non avrebbero provocato "difetto [numerico] dei mezzi" ed avrebbero consentito "abbastanza presto" di sostituire le vecchie corazzate. in tale speranza il Ministro si illudeva, perché la vera causa dei ritardi non era tanto la dimensione delle navi, quanto l'arretratezza del sistema industriale italiano.%
Su queste affermazioni del Gabriele v'è da osservare che quando le navi colossali sono entrate in servizio, esse erano già in via di superamento, a cominciare dalle artiglierie colossali; inoltre nessuno ha mai indicato con precisione quanto esse sono costate e quanto di meno le nuove navi proposte dal1'Acton avrebbero dovuto costare. Senza dubbio la causa principale dei ritardi nella costruzione delle navi colossali era l'arretratezza dell'industria, ma hanno pesato anche le disponibilità finanziarie, la necessità di continue modifiche ecc .. In ogni caso, navi di dimensioni più contenute e con caratteristiche generali meno nuove e meno "spinte" certamente sarebbero state meno costose e avrebbero consentito un'abbreviazione dei tempi di costruzione. Rimane da dire che nel periodo ci si preoccupa spesso dell'approntamento degli arsenali e basi navali, e in particolar modo di Spezia, Venezia e Taranto. Ci limitiamo a dare conto delle affermazioni del Brio e dell 'Acton su questo argomento, anche perché riguardano un problema strategico - la guerra navale in Adriatico e l'approntamento delle relative basi - che fino alla guerra 1915-1918, e anche guerra durante, ha ricevuto scarsa attenzione. Nella tornata della Camera del 27 aprile 1880 il deputato Corvetto replicando al Marselli
"' Manmo Gabriele, Ferdinando Acton (cit.), pp. 85-86.
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(secondo il quale in caso di guerra ad Est l'esercito dovrebbe essere appoggiato dalla flotta), rileva più che a ragione che l'onorevole Marselli suppone che Venezia sia un vero porto militare, lo che non è. Noi ci siamo forniti di grosse navi da guerra, ma queste grosse navi io non so cosa faranno nell'Adriatico in caso di guerra, quale base di operazione e di sicurezza vi avranno? Se occorresse ripararle per qualche avaria che potessero avere in combattimenti, non so in quale arsenale si potrebbero mandare, dovranno forse andare alla Spezia. ed allora l'appoggio al/a flotta militare verrebbe a mancarci nell'Adriatico. Noi abbiamo lasciato il porto di Venezia in condizioni tali. che per accedere da Malamocco all'arsenale militare le grosse navi non possono transitare [e così sempre sarà, fino alla guerra mondiale - N .d.a.].
Il Brin che interviene dopo è dello stesso parere, e anzi estende le considerazioni del Corvetto agli altri mari: gravissime sono le condizioni in cui si trova la nostra marina militare per ciò che riguarda l'assetto de' suoi arsenali. La condizione è questa, che la più gran parte delle navi corazzate, non solo le nuove, ma anche le antiche, non può entrare in nessuno dei nostri bacini, eccetto che in quello della Spezia. lo ho già avuto l'occasione di richiamare l'attenzione della Camera su questo fatto f... 1. Ed a questo proposito, quando l'altro giorno l'onorevole Marselli parlava delle nostre condizioni di difesa, ed accennava come l'Italia, rispetto alla frontiera dell'est, se aveva una inferiorità dal lato di terra, però aveva il vantaggio di una superiorità marittima, io riflettevo che cifacciamo grandi illusioni sopra questa nosh·a superiorità marittima, poiché nel caso considerato dall'onorevole Marselli, cioé nel caso di operazioni nell'Adriatico, le nostre navi non potrebbero trovarci nessun porto per farvi anche quelle minime riparazioni che occorrono tanto sovente al giorno d'oggi colle navi ad elica; bisognerebbe che queste navi andassero alla Spezia. Io mi preoccupai di queste cose fin da quando ebbi l'onore di reggere le cose della marina...
L' Acton replica informando la Camera che il Ministero dei lavori pubblici ha stanziato due milioni e mezzo per l'escavazione del canale che a Venezia conduce da Malamocco all'arsenale e che per le riparazioni alle navi colossali il Ministero della marina ha pensato di avvalersi di un bacino galleggiante, e di inviare l'ispettore navale Mattei in Inghilterra per studiare il modo di avvalersi di questi bacini; ma queste decisioni hanno ritardato il provvedimento di legge sul riordinamento degli arsenali. Il Brin depreca perciò il grave ritardi dei lavori, che non potranno cominciare né in quell'anno né in quello venturo, e non concorda affatto sulla progettata adozione di bacini galleggianti, da lui definita "un 'utopia che le persone competenti non possono approvare". Tali sfaccettature del dibattito parlamentare avvalorano l'importanza del pescaggio limitato delle nuove navi corazzate sostenuta inizialmente dall' Acton, e al tempo stesso richiamano l'attenzione su un interrogativo mai sciolto dalla critica storica: perché nonostante questi precoci segnali, Venezia (e/o i
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suoi paraggi) per quanto se ne sia parlato per tanto tempo, non sono mai stati adattati per ricevere al bisogno le grandi navi? La vicinanza di Pola, principale base della marina austro-ungarica, non può essere una ragione sufficientemente valida, anche perché dalla parte avversa non risulta sia mai stato considerato - nemmeno in via di ipotesi - il contrario, cioè l'eccessiva vicinanza a Pola di una possibile base italiana a Venezia. Gli argomenti fin qui trattati sono ripresi ancor più ampiamente nel successivo dibattito del 17-20 dicembre 1880 alla Camera sul bilancio di prima previsione della marina per il 1881 .37 TORNATA DEL 17 DICEMBRE 1880
L'onorevole Elia sottolinea che il bacino di carenaggio di Venezia - l'unico rimasto in Adriatico dopo la sospensione dei lavori previsti per quello di Ancona - ha una profondità inferiore di 1, 16 metri a quanto occorre per il Lepanto e di 1,50 metri a quanto occorre per l'Italia; ne consegue che le nostre grandi corazzate non potranno entrare in Venezia nemmeno quando il canale di Malamocco sarà profondo 9 metri, e meno che mai nel bacino. Giudica perciò insufficiente la risposta "colle grandi corazzate batteremo il mare" che il Saint Bon ha dato in proposito ali' Acton, anch'egli impensierito da questo stato di cose. Ritiene inoltre possibile e utile avvalersi dei cantieri privati nazionali anche per la costruzione delle macchine delle navi e sviluppare la marina mercanti le c chiede al Ministro Acton risposte su questo problema, precisando la sua posizione in merito alla legge presentata dal Brin per la creazione di un grande stabilimento metallurgico a Temi, e se intende presentare in proposito un proprio disegno di legge in accordo con il Ministro dell'industria e commercio collegato con lo sfruttamento dei giacimenti metallurgici dell'Elba, in modo da rendere l'Italia autosufficiente anche per le materie prime. Dopo l'Elia interviene il deputato e scrittore de Zerbi, che si schiera a favore dell'Acton elencando una serie di argomenti nuovi e non nuovi contro la scelta di poche navi colossali: - il progresso delle torpedini mobili, le quali fanno saltare in aria sia le grandi che le piccole navi, consiglia di possedere molte piccole navi, in modo che le superstiti possono vendicare le perdute; - né la Francia, né l'Inghilterra ci hanno seguìti sulla via delle navi colossali, pur possedendo risorse maggiori. Anche la Tegetthoff, nave più potente della marina austriaca, sarebbe meno potente della nave proposta dall' Aeton; intanto, a furia di disputare non abbiamo né navi grosse né navi piccole; - in futuro avremo solo le 4 navi colossali, che non basteranno per la necessaria protezione dei nostri connazionali all'estero e per le missioni in-
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Cfr. anche, in merito, il Supplemento nlln "Rivista Marittima" 1881, Roma, Darbèra 1881 .
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temazionali [che oggi definiremmo "di pace" - N.d.a.]. In particolare, nella recente missione internazionale a Ragusa 1'avviso Marcantonio Colonna si è dimostrato non in grado di assicurare il servizio postale in qualunque condizione del mare; - le nostre grandi navi non sono "idonee a tutti gli usi di guerra" come prevede la legge organica del 1877. In particolare non potranno entrare nei nostri porti, nessuna di esse può entrare nel cantiere della Spezia e per le riparazioni dovrebbero rivolgersi all'estero. Inoltre non possono passare per il Canale di Suez, quindi non sono in grado di difendere se necessario la baia di Assab recentemente acquistata dall'Italia; - non ci sono mezzi per scavare rapidamente i nostri porti, e Venezia si può interrare; - con l' intento di costruire per il futuro navi più piccole e meno costose, il Ministro Acton rispetta pienamente i limiti finanziari indicati nella legge organica del 1877, invece violata da chi in precedenza ha costruito navi di un costo troppo elevato. Perciò le navi "atte a tutti gli usi di guerra" previste da tale leggi sono sempre quelle dell' Acton, e non le navi colossali; - il Ministro Acton ha di fatto rispettato l' ordine del giorno Nicotera del 23 aprile 1880, perché sul tipo di nave da lui proposta, "ben definita e minutamente descritta", oltre al Consiglio Superiore di Marina ha consultato 4 Commissioni composte da 32 tra ammiragli e ufficiali superiori, cioè in pratica la totalità degli ufficiali superiori di marina; - i predetti ufficiali hanno approvato la sua proposta con 32 voti contro 6 [di quest'ultimi faceva prevedibilmente parte il Saint Bon, sul quale il de Zerbi pronuncia frasi ironiche - N.d.a.]; - perché la Camera possa dire di possedere i pareri degli organi tecnici mancano solo il parere Comitato dei disegni [creato dal Ministro Acton e presieduto dal Brin - N.d.a.] che non potrà non essere favorevole [previsione errata - N .d.a.]. Il de Zerbi conclude perciò il suo intervento esortando tutti gli organi interessati - a cominciare dal Ministro - a fare presto, a eliminare gli intoppi burocratici. Il deputato Al visi è di parere opposto: ritiene ingiusto criticare le navi colossali (ma non dice il perché), accenna più volte all' incertezza che al momento domina in Italia e all' estero sulla tattica come sulle costruzioni navali, sul tipo di artiglierie da adottare ecc., perciò è del parere che bisogna essere circospetti prima di mettere in cantiere navi che poi possono risultare rapidamente inservibili, le quali, comunque, dovranno essere molto veloci . Raccomanda infine di prevedere la costruzione di una flotta "eguale a quella della Francia per potenzialità e numero" [ma con quali soldi? - N.d.a.], ''perché noi non avremmo subìto lo sfregio di Tunisi [cioè l'occupazione francese del la Tunisia - N .d.a.] se invece di due avessimo potuto mandare in quelle acque quattro corazzate". Dopo l' intervento del deputato Pierantoni sostanzialmente favorevole al Ministro Acton, si alza a parlare il deputato generale Cesare Ricotti, già Mini-
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stro della guerra dal 7 settembre 1870 al 25 marzo 1876, perciò già collega di governo dei Ministri della marina Riboty e Saint Bon, mentre anche il Brin è stato suo allievo quando comandava la Scuola di Applicazione di Artiglieria di Torino. Forse anche queste relazioni personali hanno il loro peso in una serie di interventi, nei quali il Ricotti - ben documentato - appoggia decisamente i due ultimi Ministri contro l' Acton, dichiarando subito il suo dissenso dal de Zerbi e dall'Elia, e precisando che quanto essi riferiscono è desunto dai giornali, "ma qui davanti alla Camera non esiste alcun progetto per navi, né grandi, né piccole, né mediocri'', perciò invita il Ministro a fornire questi dati prima del dibattito sul capitolo 35 riguardante le costruzioni navali, perché non è possibile una discussione con sbocchi pratici "se il Ministro non ci spiega prima quale sia il tipo delle navi che vuol far costruire, precisandole nelle loro dimensioni e qualità principali". Dopo che anche il relatore del bilancio onorevole Botta ha dichiarato che davanti alla Commissione per il predetto bilancio "non fa mai posta la questione delle navi giganti o navi piccole, o meglio la questione tecnica". interviene il Ministro Acton, con un lungo discorso nel quale tocca tutti i punti salienti della sua gestione. In particolare: - ha apprezzato i risultati ottenuti con il Duilio e ne ha tratto favorevoli auspici per il Dandolo, ma ciò non significa che si debba continuare sulla stessa via: sarebbe negare il progresso; - la costruzione di navi di eccezionali dimensioni per una marina piccola come la nostra ha il gravissimo inconveniente che "prima che le nuove navi siano finite, noi potremo trovarci senza marina"; eppure per aver svelato una verità ha dovuto sopportare una valanga di accuse e ingiurie; - seguendo la curva del progresso, come giustamente voleva il Saint Bon, "io vedo che [con le navi colossali] ci siamo spinti nelle nuvole, mentre le altre nazionipiegano verso la terra", come fa ad esempio l' Inghilterra; - l'indirizzo nel quale intende mantenere la marina, è conforme alla legge organica. E a parte la spesa, il tempo e la pescagione, occorre preoccuparsi anche del numero; ''perché deve essere lo stesso avere in guerra quattro Italia piuttosto che otto navi di metà costo? Vì sono molti pericoli ai quali sono maggiormente esposte le navi grandi anziché le navi moderate, mentre a mio avviso tutti i servizi possono essere ugualmente disimpegnati sì dalle une, che dalle altre"; - "spendendo soltanto la metà io posso avere gli stessi cannoni da l 00 tonnellate, se dichiarati utili dal progresso, eguale solidità di costruzione, un 'immensa potenza nell'urto, migliori qualità di evoluzione, una pescagione più adatta alle nostre coste (quindi difèsa più valida e miglior protezione delle navi stesse), e questo è importantissimo, navi costruite in minor tempo!"; - "ho dunque tanto torto a volere navi moderate? Con una costa di più di 3 mila miglia, con tante isole, con tutte le migliori città sul mare, no, signori, non è lo stesso avere 4 piuttosto c:he 8 navi[...]. lo capisco lafor-
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za del numero come l'ha capita il senso pratico delle altre nazioni, come l'ha capito il Parlamento col determinare a I 6 [con la legge organica del 1877, presentata dal Brin - N.d.a.] il numero delle navi di prima classe". A conforto di queste affermazioni l 'Acton cita le risposte delle quattro Commjssioni da lui convocate (una per ciascuno dei tre dipartimenti marittimi e una quarta della squadra) ai suoi quesiti, ricordando che "i quesiti proposti, le ri!>poste avute e le relazioni sono davanti alla Commissione del bilancio fin dal 3 novembre [ 1879]" [di questo fatto né il Ricotti né il relatore Botta hanno tenuto conto nei discorsi precedenti - N.d.a.]. I pareri favorevoli citati dall' Acton cominciano addirittura da Garibaldi, che insieme con l' ammirazione per i quattro colossi del Saint Bon e Brin ha espresso apprezzamento anche per le navi minori, aggiungendo che "laflolla sarà tanto piùfòrmidabile quanto più dotata di arieti con la jòrma di fasi o tartarughe quale l'inglese Polyphemus,38 atti a portare torpedini (siluri) e massime dotati di grande velocità per attaccare di fianco i nemici nelle battaglie con lo sperone". Anche secondo l'ammiraglio Fincati tre robuste e rapide navi rostrate di circa 6000 t ciascuna, ben comandate, sconfiggeranno sicuramente una nave che equivalga al loro dislocamento complessivo. Tra i numerosi ufficiali citati dall' Acton, che hanno risposto ai quesiti dichiarandosi favorevoli alle navi di dislocamento moderato vanno brevemente ricordati anche i comandanti Racchia, Lovera de Maria, Martinez, Labrano, de Luca. Il comandante Racchia ( addetto navale a Londra, futuro sottosegretario e Ministro), si chiede quale sarebbe la sorte dell'Italia qualora fosse circondata da 3 o 4 navi ben armate ed equipaggiate, ognuna di 8-9000 tonnellate e di velocità non inferiore alle 17 miglia. Né, a suo parere, il Paese sarebbe contento se sapesse che l' Italia è affondato dopo aver messo fuori combattimento 2 o 3 navi nemiche, lasciandone però a galla in condizioni di operare altre due o tre, libere di bombardare Palermo e Napoli o di proteggere uno sbarco reso possibile dalla scomparsa dell'Italia. In secondo luogo, il comandante di una nave come l'Italia o il Lepanto non potrebbe affrontare a cuor leggero le conseguenze di un urto contro una nave di 8-9000 t, sapendo che la sua nave da sola corrisponde alla metà, un quarto o un terzo della potenza navale complessiva dell'Italia. Infine (argomentazione di indubbio peso) "la lentezza del tiro con le smisurate, odierne artiglierie. e la sempre incerta probabilità di colpire, mi sembrano considerazioni di così grave momento da doverci far molto esitare a spendere vistose somme per ingrandire le dimensioni delle odierne navi da battaglia, onde poter installarvi a bordo cannoni di smisurato peso e costo".
38 TI Polyphemus inglese em un ariete-torpediniere corazzato costiero entrato in servizio nel 1882, con dislocamento 2640 t, velocità 17 nodi, 200 t di carbone, 3 tubi lanciasiluri e sperone, senza artiglierie.
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JI comandante Lovcra de Maria (già noto come scrittore navale - Cfr. Vol. 11, cap. XlTT) sostiene che, poiché nella lotta tra cannone e corazza ha indiscutibilmente prevalso il cannone, è inutile ''proporzionare le artiglierie per potenza ad ipoteticifaturi aumenti della dijèsa loro opposta, siccome già facemmo sui tipi ltalia e Duilio". Secondo il comandante Martinez "l'opportunità di spingere la diminuizione si desume dalle condizioni alle quali si vuole la nave risponda. L 'ingegnere deve fare la più piccola nave possibile che risponda alle dovute condizioni". li comandante Labrano, dopo aver anch'egli accennato delle navi colossali (pescaggio eccessivo, eccessiva lunghezza che ne rallenta la velocità di evoluzione ecc.), giudica più conveniente impiegare la somma che costa l'Italia per la costruzione di due navi di minor dislocamento, che risultino di minor pescaggio e più agili alla marina, senza essere per nulla infe riori alle più potenti navi da guerra estere. L' annamento principale dovrebbe essere composto da cannoni con capacità perforante almeno uguale a quella dei più potenti cannoni delle navi estere, "eccezion fatta per i cannoni dell 'lnflexible, unici al mondo fuori d'Italia" [come già visto erano da 406 mm, pertanto di calibro inferiore a quelli delle nostre navi colossali - N.d.a.]. Perciò credo che cannoni di 40 tonnellate o poco più, sarebbero sufficienti; gl 'inglesi si sono limitati a quelli di 38 tonnellate; i nostri cannoni da 100 tonnellate hanno l'inconveniente di un troppo grande intervallo tra un colpo e l'altro, e finché se ne possono avere di più grande rapidità di tiro e superiore a quelli delle altre marine, mi pare rhe si possa smettere di continuare ad armare le nostre navi con cannoni da 100.... [va ricordato che I' Acton nel 1878 e nei successivi suoi interventi in Parlamento non si era dichiarato pregiudizialmente contrario ai cannoni da 100 - N.d.a.].
Secondo il comandante Manfredi oltre un certo limite di grandezza una nave diventa difficilmente comandabile, con congegni troppo delicati che richiedono un personale molto intelligente e sono esposti a frequenti guasti che possono paralizzare il colosso, oltre a rendere necessario un tempo assai maggiore per la loro riparazione. Inoltre una nave colossale è maggiormente esposta a pericoli di collisione. d'investimenti, offre maggior bersaglio al nemico e, paragonata a navi minori che in complesso abbiano ugual tonnellaggio. ha contro di sè il maggior numero ed è inferiore n el 'attacco con lo sperone e in quello con le torpedini, senza contare che una avaria che la paralizzi anche temporaneamente la pone in balìa di un nemico assai inferiore, mentre se ciò accadesse ad alcuno dei suoi avversari la perdila di questi sarebbe di assai minore importanza.
Per ultimo il comandante de Luca (poi capo della divisione artiglieria del Ministero) come I' Acton è dell'avviso che il problema del tiro delle navi da battaglia non può presentarsi oggi sotto la stessa fonna in cui si presentava per il passato, cioè non più sotto la forma costruire la nave della maggior polenza possibile, ma piuttosto sotto l'altra
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data una certa somma rilevante da spendere, tradurla in un numero più o meno grande di navi, non già che ciascuna abbia il massimo possibile di potenza militare, ma invece che il loro complesso rappresenti la maggior somma possibile di potenza militare. Questi pareri fanno emergere molto bene gli svantaggi delle navi colossali, a cominciare dagli oggettivi limiti - sempre più forti con il passare del tempo - delle loro artiglierie principali (ben presto superate) e dall'opportunità di considerare - come sostituire il de Luca - l'efficienza del complesso anziché quella della singola nave. Tuttavia va osservato che l' Acton si guarda bene dal citare anche le ragioni di coloro che sono contrari, e che probabilmente sul voto di alcuni dei favorevoli ha influito il desiderio di non contrastare su un problema così importante i ben noti orientamenti del Ministro in carica. Ad ogni modo quest'ultimo dopo l'esame dei pareri pronuncia parole, nelle quali varicercata una delle ragioni delle future dimissioni: io dichiaro quindi che non mi sento in coscienza di assumere la responsabilità di un indirizzo diverso da quello che mi propongo, che la gran maggiora11za della marina reclama, che tutte le potenze seguono, clic è il solo indirizzo corrispondente ai tempi mutati di oggi, alle nostre finanze e alla vera difesa nazionale, in modo che per un indirizzo diverso [come poi quello prevalso già sotto la sua gestione, con l' impostazione nel 1881 -1882 dei tre tipi Ruggero di Lauria, di circa 12000 t (un pò meno del Duilio), lunghezza 106 m, 4 cannoni da 431 mm, pescaggio 8,70 m ecc. - N.d.a.) io prejèrirò lasciare questo posto.
Segue una sua opportuna difesa dall'accusa di aver arbitrariamente favorito la ditta inglese Penn nella fornitura della macchina del Lepanto, trascurando la più vantaggiosa offerta dell'altra ditta Mandslay. Tn sintesi, a quanto egli riferisce: - il Consiglio Superiore di Marina, da lui interpellato, ha deliberato all'unanimità di accettare l'offerta della ditta Penn, presentatagli dal Mattei; - alcuni giorni dopo gli si è presentato un rappresentante della ditta Mandslay che ha chiesto di poter fare anch'egli un'offerta. Gli ha fatto presente lo stato ormai avanzato della pratica in quel momento, ma dietro sue vive insistenze, accompagnate dall'impegno a presentare entro due mesi un progetto, ha disposto che gli fossero forniti i dati di base necessari; - dopo due mesi lo stesso rappresentante si è presentato non con il progetto, ma con una richiesta di nuovi chiarimenti da lui inviata al Consiglio Superiore, però insieme con la comunicazione che, dato lo stato avanzato dei lavori, non era più conveniente a questo punto aprire una gara tra i possibili fornitori. Pertanto il Consiglio Superiore di Marina ha confermato l' accettazione dell' offerta dalla Casa Penn; - poiché la ditta Mandslay aveva chiesto per la fornitura della macchina 193.000 sterline a fronte delle 201.000 chieste dalla ditta Penn, egli do-
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po laboriosa trattativa è riuscito ad ottenere da quest'ultima lo stesso prezzo praticato dalla ditta Mandslay. L'Acton tocca poi il solito argomento delle possibilità delle torpediniere contro le grandi navi, mettendo in evidenza che, per quanto siano "elementi di una potenza temibile alla difesa del nostro estesissimo litorale", noi ne possediamo solo 2 a fronte delle 70 inglesi, 65 francesi, l 10 prussiane ccc.; pertanto è urgente approvigionarle. Riferisce poi sul poco soddisfacente stato di approntamento delle navi colossali: il Lepanto si trova ancora sullo scalo, sull 'Italia si sta cominciando solo in quel momento a installare le macchine, il Dandolo potrà essere pronto solo a fine 1881. Resta il Duilio, che però ha compi uto solo le prove di velocità, che sono ben riuscite; ma non può fare alcuna dichiarazione formale sulla sua efficienza, ''fino a che tutte le prove di ejflcienza militare non siano compiute e jìno a che non sia pienamente sperimentata la stabilità a mare largo". Precisa inoltre che se anche le navi colossali non potranno entrare in nessun porto dell'Adriatico, "non per questo riusciranno utili in moltissime circostanze, ed anche nello stesso Adriatico per mantenere il mare[ ... ]. Con delle navi potenti, però, e con delle forti velocità si vincunu anche quegli inconvenienti [lamentati prima dall 'onorevole Elia]". Respinge infine l'accusa del generale Ricotti (membro della Commissione bilancio) di aver seminato dubbi sulle navi colossali, assicurando al tempo stesso di essere sicuro dell'ottima riuscita delle navi da lui proposte, anche se non sono ancora state disegnate. TORNATA DEL 18 DICEMBRE 1880
Ha inizio con il dibattito sul fondamentale capitolo 35 "Riproduzione del naviglio", per il quale la Commissione per il bilancio propone l'eliminazione della voce "costruzione di due nuove navi di prima classe", cioè di due corazzate. Si riassume in un duello tra il deputato comandante Augusto Albini, che pur essendo alle dipendenze dell' Acton quale direttore generale d'artiglieria dissente dalla sua linea, e il deputato Maldini, principale sostenitore dell' Acton. L' Albini propone di inserire nell'organico previsto dalla legge organica del 1877 - con il relativo aumento dei fondi - una categoria intermedia di navi di tonnellaggio inferiore, che venga subito dopo quelle di 13 classe ma prima degli incrociatori e le possa coadiuvare, ma non sostituire. In tal modo scomparirebbe ogni ragione del contendere, ma queste navi intermedie avrebbero necessariamente qualche requisito in meno di quelle di 1a classe. Per il resto, riprende la solita tesi che proprio a causa dei vertiginosi mutamenti nella meta llurgia, all ' Ttalia conviene seguire i concetti del Saint Bon, costruendo delle navi di 1a classe che precorrano i tempi c possano mantenere la loro efficacia per un lungo periodo, cosa che non possono fare le navi di dislocamento moderato, che devono essere più frequentemente rinnovate e quindi alla fin fine risultano più costose. Non ritiene valida l'argomentazione che le principali marine non ci hanno seguito suIla via delle navi colossali, perché potrebbe essere un' a-
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stuzia inglese; ma anche se ciò non fosse, a noi conviene compiere le scelte che giudichiamo migliori. Ritiene che, poiché al progresso dei cannoni ha corrisposto quella delle corazze, in futuro non si potrà mai rinunciare ai grossi cannoni da 100 tonnellate e forse si sarà costretti a impiegare anche cannoni di peso maggiore, perché man mano che cresce la resistenza è necessario proporzionalmente sviluppare i mezzi di offesa [ma non necessariamente cannoni di peso e calibro superiore alle 100 t - N.d.a.]. Anche per la lotta contro le torpediniere occorrono buone corazze verticali con vaste intercapedini, che possano essere assicurate solo da navi di dislocamento elevato; quest'ultime possono poi imbarcare agevolmente in gran numero anche le piccole artiglierie e le mitragliere necessari per tale lotta, e portare loro stesse cinque o sei. In appoggio all' Acton, il Maldini auspica ancora la costruzione di "una nave [di la classe] non piccola (e io credo che in questo recinto nessuno voglia le navi piccole, perché queste nell 'organico [del 1877) appartengono a un 'altra categoria), ma navi meno grandi del Dandolo e del 'Italia, però sempre molto grandi e forse più grandi di quelle che hanno le prime marine del mondo". E per avvalorare la sua tesi molto opportunamente si richiama alle già citate considerazioni del Brin come relatore della Commissione del bilancio di prima previsione per il 1880 e al verbale del Consiglio Superiore di Marina del 1878, anch'esso citato, che "proponeva una nave di dimensioni minori del/1talia", anche perché oltre che una diminuizione dell 'armamcnlo, si prevedeva una diminuizione del carbone. Dopo di che, citando anche il Di Suni capovolge le argomentazioni di certi sostenitori delle navi colossali: non è prudente, a parer suo, mettere in cantiere un'altra nave simile all'Italia e al Lepanto, il cui tipo non è ancora stato sperimentato da nessuna marina; come ha detto il Ministro Acton, "le navi bisogna vederle in mare" e diversamente da quanto vorrebbe dimostrare l' Albini "le più grosse navi di Francia non raggiungono neppure le dimensioni del Duilio e se non erro, oggi la Francia è tornata un po ' in-
dietro". In secondo luogo il Maldini giudica "contraria alla legge" la decisione della Commissione per il bilancio di cancellare la costruzione di due navi di prima classe dal bilancio per il 1881, motivandola con la mancanza dei pareri degli organi tecnici della marina, e in particolare dei disegni delle navi [mai richiesti e discussi dal Parlamento nel caso delle 4 navi colossali - N.d.a.]: "non
mi sembra che un 'assemblea politica possa occuparsi del 'esame tecnico dei piani di costruzione di una nave", perciò "se verrà accolta la proposta della Commissione del bilancio, sarà perduto un altro anno per la marina". Questo fatto sarebbe grave, perché ci si trova già in ritardo nello sviluppo del piano organico del 1877, appunto ostacolato dalla decisione della Commissione; e se la Camera stessa si occupasse del numero e peso delle artiglierie, della velocità, dell'autonomia ecc. , invaderebbe il campo di competenza dell'ingegnere. Bene ha fatto dunque il Ministro a fissare solo il pescaggio e il dislocamento delle navi da costruire. La legge del 1877, inoltre, non ha dato al Ministro l 'obhligo di presentare al Parlamento i pareri dei corpi tecnici, che invece l'ordine
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del giorno Nicotera del 28 aprile 1880 gli fa obbligo di presentare; né è vero che con una nave di 9000 tonnellate non si può andare al combattimento ... TORNATA DEL 19 DICEMBRE 1880
È caratterizzata da un altro attacco a fondo del generale Ricotti alla nave tipo Acton (il più efficace di tutti, che ne fa una sorta di portavoce del Brin e del Saint Bon) e dalla non meno efficace replica del Ministro Acton. Secondo il Ricotti, al contrario cli quanto sostiene il Maldini "se la Camera si dichiara incompetente di questioni tecniche, allora io dico che essa può andarsene; p erché, o signori, non c'è questione, non c'è legge in cui non ci sia qualche pò di tecnicismo", mentre gli stessi tecnici subiscono l'influenza di idee preconcette, che il Parlamento può eliminare (è tra i pochissimi parlamentari a sostenere questo). E dopo aver osservato che al momento la Camera non dispone ancora di dati ufficiali sul costo delle nuove navi [ma nemmeno di quelli sul costo finale delle quattro navi colossali - N.d.a.], si dichiara meravigliato che il Maldini e l'Acton siano poco sicuri della riuscita delle navi colossali e dimostrino invece molta fiducia nelle "navi tipo Ac:ton", che sono solo "un ideale del Ministro" . perché ne manca persino un disegno, e che sono " un peggioramento" dell'Italia e del Duilio. Ricorda poi che l'Italia venne messa in cantiere nel 1875 con 2 cannoni da 100, 13700 t di dislocamento e 9,20 metri di pescagione, ma che il Consiglio Superiore di Marina propose di portare a 4 i cannoni da 100, con relativo aumento del dislocamento a 14400 te della pescagione a 9,50. Sempre secondo il Ricotti a tale aumento, ritenuto necessario per ridurre le conseguenze di un possibile guasto di uno o più cannoni durante il combattimento, "non erano tanto favorevoli né il Saint Bon né il Brin, appunto perché si aumentava un pò troppo la pescagione" (se ne deduce che per i due au~ torevoli esponenti della marina, a dispetto di quanto affermano in proposito parecchi sostenitori delle navi colossali tra i quali lo stesso Ricotti, questo è un limite inevitabile delle navi colossali). In secondo luogo quest' ultimo dimostra che i Consigli di Marina che si succedettero fino al 1880 furono sempre unanimamente d 'accordo che si dovesse costruire la quinta nave sul tipo Italia, salvo piccole modificazioni [che però trattandosi - come si è visto - di ridurre le artiglierie principali da 4 a 2 non erano poi tanlo piccole - N.d.a.]; che questa proposta fu approvata non solo dal Ministero, ma anche dalla Camera, la quale nel bilancio di prima previsione del 1879 autorizzò il Ministero stesso a mettere in cantiere questa quinta nave sul tipo Italia, come risulta da deliberazione presa dalla Commissione del bilancio ed inserita nella relazione della Commissione del bilancio ed inserita nella relazione del bilancio della marina approvata dalla Camera.
Di conseguenza, a suo parere la responsabilità del notevole ritardo nella costruzione della quinta nave non è della Commissione bilancio come sostie-
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ne il Maldini, ma dello stesso Ministro Acton, il quale non ha voluto mettere in cantiere una nave la cui costruzione è stata autorizzata dalla Camera da due anni e la vorrebbe sostituire con altre due navi di minor dislocamento la cui impostazione richiederebbe comunque parecchio tempo, visto che il Ministro dovrebbe fame anzitutto eseguire i disegni e i calcoli per poi chiedere il parere del Consiglio Superiore di Marina. Il clou del lungo intervento del Ricotti viene dopo, quando dimostrando una rara competenza specie per un ufficiale dell'esercito e la significativa possibilità di accedere a tutta la documentazione, cerca di demolire letteralmente la nave dell 'Acton, cominciando con il minimizzare i risultati del referendum navale promosso dal Ministro, tra i quali - egli ricorda - vi è anche il significativo parere del fratello del Ministro - il capitano di vascello Guglielmo Acton - dal Ministro stesso non citato, perché poco favorevole. Quest'ultimo così risponde: non credo che si possa costruire una nave che possegga tutte le qualità richieste, per essere classificata di prima classe, :,pingendo la diminuizione di grandezza rispetto all 'Italia, al punto di condurre lo spostamento a 8000 tonnellate con 7,30 metri di pescaggio. Non credo che si possa, ma ritengo che con uno spostamento di circa 10000 tonnellate, e con una pescagione non superiore agli 8 metri potrebbe costruirsi una nave di prima classe [anche questi requisiti sono inferiori ai futuri tipi Ruggero di Lauria - N.d.a.].
Segue un'aspra critica del Ricotti, punto per punto, ai requisiti indicati nel "Programma" per la costruzione della nuova nave consegnato dal Ministero al Comitato dei disegni delle navi e in copia anche alla Commissione bilancio, che a suo dire è un pò diverso da quello da lui comunicato agli ufficiali per avere i loro pareri, e che è stato sottoposto al Consiglio Superiore di Marina, "il quale lo modificò ancora in due o tre punti abbastanza essenziali". 1. "Immersione inferiore a m 7,50, in modo che la nave possa passare il Canale di Suez". ll Ricotti obietta che il nostro obiettivo deve essere quello di difendere al meglio le coste della penisola, non quello di passare il canale di Suez; inoltre la minor pescagione "comporta degli svantaggi gravissimi, come la perdita di velocità e di stabilità di manovra, maggior raggio di evoluzione e maggiore spesa". Per questa ragione il Saint Bon e il Brin banno accettato anche per le navi colossali un pescaggio non superiore a 9 m, tenendo presente che la pescagione di 8-9 m "è pure raggiunta da quasi tutte le navi estere". [l' immersione definitiva dei tipi Ruggero di Lauria sarebbe stata di 8,70 m N.d.a.]. 2. "La velocità della nave deve essere calcolata per 16 miglia a tutta forza". Qui il Ricotti ha buon gioco nel ricordare i vantaggi (ma non gli svantaggi) della velocità, tanto che da noi stessi cinque anni fa erano state messe in cantiere navi con 18 miglia di velocità [veramente le 18 miglia, come si è visto, non sono state raggiunte né dal Duilio né dall'Italia - N.d.a.]: "è questo un regresso al quale non posso sottoscrivermi", perché con velocità solo di 16 mi-
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glia "la potenza marinaresca di combattimento della nuova corazzata sarà solo due terzi circa di quella dell 1talia" [affermazione esagerata - N.d.a.]. 3. "Combustibile necessario per percorrere a velocità ridotta (IO miglia) da 3500 a 4000 miglia". Secondo il Ricotti l'Italia è certamente superiore al Duilio per autonomia, per velocità, per sicurezza contro gli urti e contro le offese delle armi subacquee, ma gli è inferiore per la protezione contro i proietti d'artiglieria e per la maggior pescagione; pertanto la nave tipo Acton ha un'autonomia che è uguale a quella del Duilio, ma è la metà di quella dell'Italia [se ci si riferisce al dato citato dal Galoppini, per I' ltalia (I 6600 miglia e non 7000, come afferma il Ricotti), tale autonomia è circa ¼ di quella dell'Italia - N .d.a.]. 4. "Protezione della carena contro le armi subacquee e g li urti'': secondo il Ricotti in questo campo "la nuova nave tipo Acton si acconcia alle condizioni del Duilio, il qualeper questo riguardo è di gran lunga infe riore ali' Italia". 5. Artiglierie ed armi subacquee: "un peso di almeno 650 tonnellate sarà riservato per cannoni principali e secondari, per i loro affusti, p er le munizioni ed accessori''. Il Ricotti obietta che, poiché le artiglierie delle navi colossali raggiungono le 1300 t per ciascuna unità, con questi limiti si sarebbe costrett.i ad adottare due soluzioni ugualmente rovinose: o ridurre il peso de i 4 cannoni da 100 a 50 t ciascuno, ottenendo delle artiglierie non in grado di trapassare le corazze inglesi e francesi [con i più recenti progressi, ciò non è vero - N.d.a.], oppure armare la nuova nave con soli 2 cannoni da 100 t, con 50 colpi per pezzo imposti dalla necessità di non superare le 650 tonnellate, mentre la marina francese ne ha 120 per pezzo e quella inglese 170. 6. "La corazzatura verticale dovrà difendere le stesse parti e g li stessi organi che sono difesi su/l 1talia. Lo spessore della corazzatura verticale dovrà essere determinato in modo che il suo peso totale resti nei limiti consentiti dalle altre condizioni del programma". Tenendo conto che il Duilio ha una superficie corazzata maggiore di quella dell'Italia, ciò secondo il Ricotti significa che "non bastava scegliere tra il Duilio e l'Italia quella che ha qualità inferiore, ma era necessario [non è esatto: "si poteva" - N.d.a.) di'>cendere al disnttn dell'Italia la quale è già infèriore al Duilio". La conclusione del generale non salva proprio nulla della nave Acton, quindi anche dalla politica del Ministro: "la nave Acton non è che una copia meno corretta dei due tipi Duilio e Italia, prendendo a modelli /1talia in tutte quelle parti in cui essa è inferiore al tipo Duilio, prendendo come modello il Duilio in tutte quelle parti in cui questo tipo è inferiore a/l'Italia. Quindi si avrà un risultato che riunisce in sè le infèriorità dell'uno e dell'altro tipo". Conclusione accettabile, solo se il Duilio e l'Italia come corazzatura, rendimento delle macchine e potenza reale delle artiglierie principali fossero in grado di rimanere all'avanguardia per un lungo periodo di anni e se il progresso di artiglierie, corazze e macchine fosse fermo dal 1873 in poi (il che non è, anzi tale progresso è stato accelerato); in altre parole, in quale misura i progressi della meccanica sarebbero in grado di ottenere la stessa efficienza delle navi colossali con pesi e dimens ioni inferiori? E di quanto precisamente tali pesi e dimensioni
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dovrebbero essere inferiori? Tn ogni caso, quanto prima riferito sui cannoni Krupp non conforta l'opinione che la capacità di penetrazione di un cannone sia ancora nel 1880 direttamente proporzionale al suo peso, opinione poi smentita dall'evoluzione dei calibri e pesi della stessa marina italiana, anche se per il momento accreditata indirettamente dallo stesso Acton, che non rifiuta mai decisamente il pezzo di 100 t. 11 Ricotti, poi, definisce "un errore" la ben nota tesi che le navi di tipo Acton seguono gli indirizzi adottati all'estero: infatti "i francesi corazzano le loro nuove navi per una superficie ben superiore a quanto noi abbiamo fatto per il Duilio; l'Inghilterra corazza le sue navi nei limiti di superficie da noi adottati per il Duilio; ed il Ministro [Acton] ci propone di corazzare le due nuove navi come l'Italia per superficie coperta, ma non per intensità di difesa, poiché ammette un minore spessore di corazza ... ". La deduzione è perentoria: "a me pare già assicurato metterci fra sei o otto anni in possesso di due navi le quali saranno forate da tutte le nuove corazzate inglesi e francesi, e non foreranno nessuna di esse". A proposito della velocità egli ripete ancora le ben note argomentazioni a favore dellt: navi colossali; per la protezione, ricorda che, come a suo tempo dimostrato dal comandante Albini, "non c'è confronto" tra la resistenza contro le torpedini dello scafo del l' Italia e il rostro e quella delle navi tipo Acton. Anche l' autonomia di tali navi, che è "la metà" di quella dell 'Italia, è un grave handicap nella difesa delle coste nazionali. Da tutti questi dati il Ricotti deduce che è "matematicamente" dimostrata la superiorità delle 4 navi colossali sulle 8 navi tipo Acton, tra l'altro tutte insieme più costose delle 4 navi colossali. Questo perché "per certi miglioramenti" onnai possibili nella costruzione delle grandi navi, al momento una nave tipo Italia potrebbe avere un dislocamento di 12000 t, [come poi avrebbero avuto alla fine le navi tipo Ruggero di Lauria - N.d.a.], mentre invece le due navi proposte da Acton in sua sostituzione ne avrebbero 8000 ciascuna, cioè in totale 16000 tonnellate. Tenuto conto che il costo va calcolato in 2000 lire per tonnellate di dislocamento, una nave tipo Italia costerebbe 24 milioni, ma le due navi tipo Acton ne costerebbero 32, cioè 1/J in più. Per il Ricotti non sono state, comunque, le insufficienti risorse finanziarie a ritardare la costruzione delle navi colossali, visto che tra i residui attivi del bilancio 1879 figura al capitolo 35 "Riproduzione del naviglio" la somma di oltre 3,5 milioni. Tali ritardi sono invece dovuti, come già sostenuto dal Saint Bon, alla "mancanza di amore" per le nuove costruzioni dimostrata dall' Acton. 11 Ricotti conclude l'intervento parlando, come lui stesso avverte, "da generale di terra". La sua tesi, non nuova, è analoga a quella sostenuta prima e dopo il 1880 nella letteratura militare e in Parlamento (in questo caso, stranamente senza il suo esplicito appoggio) da altri autorevoli esponenti dell' esercito come i generali Ricci, Marselli e Perrucchetti (Cfr. Tomo I, cap. I-IV): " [ 'Italia è lunga lunga, ha mare a destra e a sinistra, quindi è naturale che dobbiamo preoccuparci seriamente della marina. Se facciamo l 'ipotesi di essere
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noi impegnati in guerra con una potenza.forte per terra e per mare [abbastanza scoperta l'allusione alla Francia - N.d.a.], è chiaro che dovremo portare tutte le nostre forze terrestri nella valle del Po", abbandonando così la penisola alle offese nemiche dal mare. Con una marina non in grado di difendere la penisola contro gli sbarchi e i bombardamenti saremmo costretti perciò a lasciare almeno due corpi d'armata nella penisola" la quale sottrazione di forze potrà tornarci fatale fin dal principio della guerra". Dell'ingente volume di risorse necessario per avere allo stesso tempo un esercito e una marina competitivi con quelli francesi, e di come tali ingenti risorse potrebbero essere reperite il Ricotti non parla, ma dichiara troppo ottimisticamente che "se noi avessimo quattro navi come l'Italia, e dico quattro per avere la sicurezza che due possono essere sempre disponibili in mare; quando noi avessimo quattro di tali navi, non avremmo più da inquietarci della penisola, potremmo essere tranquilli contro le minacce di qualsiasi flotta, e contro gli sbarchi e contro i bombardamenti delle città a mare". Se invece disponessimo solo di navi tipo Acton, inferiori per potenza offensiva e difensiva e uguali per velocità a quelle francesi, saremmo sempre inferiori sia per numero che per qualità, perché tali navi sono mediocri in tutte e tre i requisiti essenziali (velocità, potenza offensiva e capacità difensiva), e quando saranno messe in cantiere saranno arretrate rispetto alle analoghe costruzioni francesi. La fiducia del Ricotti nelle navi colossali è assoluta, tanto da indurlo a fare delle dichiarazioni insolite per un generale dell'esercito: già ho detto alla Commissione del bilancio e lo ripeto ora alla Camera che se fossi ministro responsabile preferirei rinunciare a 1Omilioni sul bilancio ordinario della guerra per dare alla nostra marina 4 navi del tipo Italia; il che certo non farei per averne 8 del tipo Acton. E così facendo crederei di rendere un servizi al paese e non solamente in rapporto alla sua difesa, ma anche in riguardo all'economia: poiché coteste grosse navi equivarrebbero a due corpi d 'armata e due corpi d 'armata costano 30 milioni all'anno.
Dopo questo convinto attestato di fiducia nelle idee del Saint Bon e del Brin il Ricotti accusa il Ministro di aver escluso dal Consiglio Superiore di Marina proprio questi due uomini che sono le personalità più autorevoli, e di avere manipolato la composizione del Consiglio stesso includendovi uomini suoi, in modo da averne in ogni caso la maggioranza a favore delle sue scelte [e il Comitato disegni navi presieduto dal Brin? - N.d.a.]. La soluzione alternativa da lui proposta - non nuova - si riassume nella costruzione a lungo termine di 6-8 "navi potentissime", in modo da poter competere con le marine concorrenti almeno per qualità. Riguardo alle torpediniere condivide le idee e i progetti del Ministro; in più dovrebbero essere previsti arieti molto veloci e con dislocamento di 3-4000 t, più incrociatori e avvisi. A breve termine dovrebbe essere costruita una nave del tipo Italia, "la quale abbia una pescagione minore di 9 metri, e presenti qualche miglioramento nella sua costruzione a norma dei suggerimenti degli egregi Saint Bon e Brin". La
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costruzione di questa nave è sollecitata dal Ricotti con motivazioni che in parte corrispondono alla realtà futura, ma indirettamente smentiscono la tesi di sfondo del Saint Bon e le sue stesse precedenti affermazioni: "se oggi il Duilio non teme confronti, se non gli si può opporre che /1nflexible [inglese],fra pochi anni sarà raggiunto ed anche superato da diverse navi inglesi e francesi, e allora avremo solo / 1talia e il Lepanto da opporre con speranza di successo alle potentiffotte delle due grandi nazioni'' [si noti: persino l'Inghilterra è poco realisticamente considerata dal Ricotti come possibile nemica futura - N.d.a.]. Come sottolinea egli stesso, questo non è che il programma del Saint Bon e del Brin. Tra gli interventi che seguono va ricordato quello del relatore del bilancio onorevole Botta, il quale descrive come si è arrivati alla decisione della Commissione bilancio di cancellare dal capitolo 35 del bilancio per il 1881 la costruzione di due navi di prima classe, e le ragioni per le quali egli con una minoranza della Commissione stessa, si è invece dichiarato favorevole al mantemmento di tale costruzione nel capitolo 35. Tn breve la maggioranza della Commissione [della quale fa parte anche il generale Ricotti - N.d.a.] non si è ritenuta soddisfatta di tutta la documentazione presentatagli dall 'Acton per giustificare la costruzione di navi di dislocamento più moderato (pareri di tutti gli ammiragli che non fanno parte del Consiglio Superiore, dei capitani di vascello in comando di navi, dell'ammiraglio Bucchia ecc., e programma da lui sottoposto al Consiglio Superiore di Marina che l' ha approvato; mancano solo i disegm delle navi a cura del Comitato disegm navi, creato proprio dall' Acton). Perciò la Commissione ha insistito sulla lettera della legge organica del 1877, la quale prescrive che venga presentato dal Ministro il parere degli orgam tecnici [veramente l'Art. 5 della legge parla di "consigli speciali", che non sono la stessa cosa del Comitato disegni navi, organo tecnico a carattere prevalentemente esecutivo - N.d.a.], e ha cancellato dal capitolo 35 le due navi in costruzione. Decisione non condivisa dalla minoranza della Commissione stessa, della quale faceva parte lo stesso Botta, che ha invece ritenuto sufficiente il programma del Mimstero approvato anche dal Consiglio Superiore, per le ragioni così da lui esposte: siccome questo programma dà le condizioni a/le quali deve ubbidire questa nave di prima classe di nuova costruzione, e siccome queste condizioni danno il criterio del tonnellaggio, e avuto il tonnellagg io, se ne ha anche il prezzo, la minoranza crede osservato il prescritto di legge. A bbiamo un criterio tecnico sulla natura della nave che si deve mettere in cantiere, abbiamo il prezzo approssimativo: che cerchiamo di più'! Dobbiamo noi aspettare per forza il parere sul progetto [anche da parte) del Comitato disegni navi? Ma dobbiamo noi esaminare i disegni? Ci sembrò che questo non potesse essere il compito de/la Commissione.
Il Botta conclude l' intervento raccomandando di fare presto, e alle quattro navi colossali di aggiungerne altre di dislocamento inferiore, in grado anche di entrare and1t: nei porti che le navi colossali non possono utilizzare.
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Dopo il Botta il Ministro Acton ribatte punto per punto, con non minore abilità e acribia, alle argomentazioni del Ricotti e della maggioranza della Commissione, contestando anzitutto la tesi del generale che la Francia si sta spingendo sulla via della costruzione di grandi navi come la nostra. In realtà - egli afferma - "dai documenti ufficiali" in suo possesso risulta che la marina francese su 25 corazzate ne ha in costruzione appena due, le maggiori, che sono di 4000 t inferiore alle nostre, e che considera di prima classe anche 9 corazzate con dislocamento minore di 6000 t. Sempre sulla base di documenti ufficiali, e di quanto gli ha scritto sul novembre scorso il nostro addetto navale a Londra comandante Racchia, gli risulta che anche l'Inghilterra, la quale non ha mai voluto costruire navi simili all'Italia, lungi dal dover dimostrare machiavellismo "è non solo contenta di aver sempre seguìto questa via di moderazione, ma vuole essere anche più moderata per l 'avvenire". In quanto alla capacità di difesa della sua nave contro le torpedini, ricorda di aver prescritto che essa non deve essere inferiore a quella dell'Italia, con vantaggio anche della riduzione del pescaggio che dipende dalla larghezza dei compartimenti interni, a sua volta legata alla larghezza dello scafo. Polemizza poi con il deputato comandante Albini (che era ed è direttore di artiglieria del Ministero), il quale diventando improvvisamente sostenitore delle navi colossali in Parlamento contro l'orientamento del Ministro, ha evidentemente cambiato idea, perché nel citato articolo sulla Rivista Marittima del gennaio 1880 mette in rilievo la necessità di fare un fuoco rapido e concentrato in combattimento anche in relazione alla scarsa percentuale di colpi utili, esigenza che le artiglierie colossali non sono in grado di soddisfare per la loro estrema lentezza di tiro e per frequenti guasti ai quali sono soggette. Come già aveva ricordato il Botta, ritiene più che sufficienti i documenti da lui già presentati alla Commissione e precisa di voler mantenersi nei limiti di spesa fissati dalla legge organica del 1877, prevedendo per la nuova nave un limite di spesa di 15 milioni. Riguardo alla velocità, alle critiche del Ricotti il Ministro risponde che "la velocità di 16 miglia da me richiesta è sufficiente perché è superiore non solo a quella di tutte le navi corazzate già esistenti, ma è anche superiore a quella di tutte le corazzate che si mettono in costruzione oggi''. TI motivo per cui si intendeva ottenere dell'Italia una velocità di 18 miglia era che le torpediniere di allora raggiungevano le 16-17 miglia; ma esse toccano ormai le 21 miglia, quindi non vale più la pena di fare enormi sacrifici per rimanere sempre con velocità inferiore, visto che per passare dalle 15 alle 17 miglia sull'Italia siamo stati costretti ad aumentare i cavalli della macchina da 10.000 a 18.000. Circa l'autonomia, senza indicarne il motivo l'Acton si limita ad affermare che non ha ritenuto necessaria l'autonomia elevata che è stata data ali' Italia [da lui inizialmente approvata - N.d.a.]. A proposito del peso di artiglierie e munizioni non accenna alla possibilità di adottare artiglierie di calibro minore di quello del cannone Armstrong da 100 t, ma fa notare al Ricotti che nel suo intervento ha paragonato i dati del Duilio, comprese le piattaforme, con i dati della nuo-
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va nave, escluse le piattaforme. Si deve invece considerare che mentre il peso di artiglierie e munizioni del Duilio è di 700 t, quello delle artiglierie e munizioni della nuova nave [comprese le piattaforme] sarebbe di ben 650 t, "vale a dire che con una grande diminuizione di spostamento e di costo non si ha che una diminuizione di 50 tonnellate. E di più, questa diminuizione è assai facile da ottenersi senza diminuire la potenza offensiva della nuova nave in confronto del Duilio". Infine, dichiara che "non si tratta di cambiare tipo, ma di seguire lo stesso tipo, rendendolo più adatto ai bisogni attuali"'. Frase sulla quale ci sarebbe molto da discutere: perché se le nuove navi hanno tutti i pregi da lui descritti (senza alcun difetto), si dovrebbe almeno mettere in dubbio la convenienza di completare con urgente spesa tutte e 4 le navi colossali, come da lui stesso ritenuto necessario. Le loro artiglierie sarebbero antiquate prima ancora che la nave entri in servizio, il che non è poco: e allora? Dopo I' Acton interviene il deputato La Porta presidente della Commissione bilancio, che ne difende l'operato descrivendo il complesso iter burocratico al quale la Commissione stessa e la Camera non potevano e non dovevano sottrarsi. A tal fine fornisce un 'interpretazione per così dire "allargata" dell'Art. 5 della legge organica del 1877, che obbliga il Ministro a "indicare" al Parlamento le navi da costruire: a suo parere, ciò significa che il Ministro deve indicare non solo la classe, ma anche il progetto di massima, il tipo e la spesa. Al momento non è disponibile tale progetto di massim~, ma solo il programma consegnato dal Ministro al Consiglio Superiore di Marina, che lo deve inviare al Comitato disegni navi (creato dallo stesso Acton). Tale Comitato deve a sua volta trasformarlo in un progetto di massima che poi restituisce per l'approvazione al Consiglio Superiore. A sua volta, dopo averlo approvato il Consiglio lo restituisce al Comitato, il quale disegna la nave. Secondo il La Porta al momento non sono sufficienti i vari pareri trasmessi dal Ministro, ma si è ancora fermi al programma; di qui la decisione della Commissione di cancellare dal capitolo 35 i fondi per la costruzione delle due navi. Dal canto suo, il Ministro Acton si dichiara disposto a presentare alla Camera quanto richiesto dalla Commissione in adempimento all'ordine del giorno Morana del 23 aprile 1880, ma fa presente che se lo dovesse fare in sede di approvazione del bilancio definitivo, sorgerebbero dei gravissimi inconvenienti e ritardi nei lavori. Di parere opposto a quello del La Porta è il deputato Pierantoni (membro di minoranza della Commissione), il quale come il Botta ritiene che i documenti presentati dal Ministro siano sufficienti, che la parola "indicazione" abbia un significato più largo, che la Camera non sia un organo tecnico che esamina i disegni delle navi, ecc. Espone poi con efficacia gli argomenti contro le navi colossali, e propone alla Camera un ordine del giorno, che fa obbligo al Ministro di presentare ali' ufficio di Presidenza gli atti della Commissione d'Inchiesta sullo scoppio del cannone del Duilio. Infatti quell' incidente ha destato molte preoccupazioni negli uomini "dotati del solo senso comune", e circola " una voce sinistra", secondo la quale le imperfezioni rilevate dalla Commissione sulla nave sono ben 32. Alle ormai ben note critiche sulle ridotte pos-
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sibilità di utilizzare i porti italiani, sulla lentezza del tiro, sulla delicatezza dei congegni di manovra delle artiglierie ecc., egli aggiunge le seguenti: - "per allestire somiglianti navi siamo costretti a riconcentrare tutto nel Golfo della Spezia", senza poter utilizzare gli altri arsenali (Taranto e Venezia); - "queste navi giganti furono concepite come se dovessero agire da sole e indipendenti da qualunque norma o regola di guerra", quando invece si giudica un errore prevedere azioni isolate, perché ogni nave della flotta deve essere in grado di combinare la sua azione con le altre; - una nave gigante potrebbe ostacolare l'azione delle altre, e/o essere ostacolata dalle navi vicine [critica da sottolineare - N.d.a.]; - abbiamo bisogno di navi in grado di utilizzare anche i porti dell'Adriatico e di passare il Canale di Suez; - il sistema di protezione dello scafo dell 'Italia, sopra e sotto la linea di galleggiamento, lascia a desiderare; - non conviene affrettare come vorrebbe la Commissione - la costruzione delle navi giganti senza dare inizio alla costruzione di altri tipi di nave; "un prudente indugio non ci nuoce", perché data la rapida trasformazione delle artiglierie, delle torpedini, dei congegni ecc., e la lunga durata delle costruzioni di queste navi, "scelti una macchina, un cannone, un congegno non si può tornare indietro, talché potremo avere di fronte delle marine straniere, con [le nostre] navi di più grossa mole, i cui mezzi motori e armamento sono inferiori ali 'ultimo progresso della scienza, progressi di cui potranno fruire navi minori''. Infine interviene nuovamente il Ricotti, il quale precisa che le sue precedenti dichiarazioni sui residui attivi del bilancio 1879 e sui lavori del Dandolo rimasti fermi per 18 mesi perché senza operai, non possono riferirsi ali' Acton, ma riguardano la gestione del Ministro precedente [e allora, in che cosa consisterebbe lo "scarso amore"? - N.d.a.]. TORNATA DEL 20 DICEMBRE 1880
È caratterizzata dall'intervento decisivo dell'onorevole Morana, il quale insiste sulla necessità che la Camera decida al più presto in favore delle navi tipo Acton, perché dopo il dibattito dei giorni precedenti è onnai in grado di decidere. Tn merito, egli presenta un ordine del giorno accettato dal Ministro Acton e da tutta la Camera, anche perché il Presidente della Commissione bilancio onorevole La Porta questa volta si dimostra più conciliante e in certo senso fa macchina indietro. Secondo il Morana non ci si trova di fronte a una questione di procedura, ma a una scelta tra navi colossali e navi tipo Acton. Quest'ultimc devono avere la preferenza prima di tutto per ragioni finanziarie; infatti non si tratta di stabilire - come affermato dal Ricotti - se per costruire due navi tipo Acton occorre la stessa somma di una nave tipo Italia, ma piuttosto se per costruire al-
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tre 4 Italia occorre la stessa spesa delle 4 navi tipo Acton richieste dal Ministro. Quest'ultime costerebbero 15 milioni ciascuna, cioè 60 milioni, a fronte dei 100 milioni di costo delle altre, che equivalgono alla metà dei 200 milioni disponibili per tutte le classi di naviglio secondo la legge organica del 1877. Quindi per costruire altre 4 navi colossali (come proposto dal Ricotti e altri) occorrerebbe aggiungere molti altri milioni; ma questi milioni non servono in modo assoluto, perché le navi tipo Acton dato il loro limitato pescaggio sono meglio adatte alla difesa delle nostre coste delle stesse navi colossali, specie ma non solo in caso di avaria di quest'ultime. Senza contare che 8 navi colossali complicherebbero i problemi delle riparazioni, dell'utilizzazione dei porti e del loro impiego, perché non sarebbe facile trovare 8 comandanti in grado di ben comandare navi di questo genere. li Morana propone pertanto un ordine del giorno con il quale la Camera, sentite le dichiarazioni del Ministro e considerando che verranno messe in cantiere due navi di prima classe con dislocamento non superiore alle 10000 t e del costo massimo di 15 milioni, passa alla discussione del capitolo 35 sulle nuove costruzioni navali. Si tratta evidentemente di una vittoria parziale del Ministro Acton: vittoria parziale, p~rcbé il dislocamento della "sua" nave, non si sa per intervento (sotterraneo?) di chi e perché, nell'ordine del giorno viene aumentato a 10000 t, cifra peraltro notevolmente inferiore a quella dell'Italia e del Duilio. La discussione rimane comunque aperta; vi si nota un ultimo intervento dell'onorevole de Zerbi contro le navi colossali e in dura polemica con il Ricotti, che - egli dice - in passato, come generale e Ministro della guerra ha dimostrato di preferire la quantità, e ora per la marina sostiene la qualità [non sembra un argomento valido: i due ambienti sono molto diversi - N.d.a.]. Per il de Zerbi il numero è necessario, anche perché l'Italia è soggetta all'offesa delle torpedini proprio come le navi di dislocamento inferiore, però il suo affondamento o danneggiamento grave avrebbe ben più gravi conseguenze. Inoltre i cannoni da 100 t del Duilio e dell'Italia ormai non hanno potenza superiore a quella dei moderni cannoni da 50 t, mentre - come afferma anche I' Albini nel citato articolo del gennaio 1880 - le parti più vulnerabili di una nave sono soprastanti alla linea di galleggiamento, che oltre a portare al capovolgimento e alla paralisi della nave se danneggiate, potrebbero essere più efficacemente colpite da numerose artiglierie di moderata potenza, anziché da pochi cannoni colossali. A questo punto il Ricotti interviene di nuovo per chiarire che: 1) il Parlamento aveva il diritto di chiedere anche i disegni delle navi, ma non avrebbe dovuto esercitare tale diritto, perché non gli occorrevano per le sue determinazioni ; 2) l'Jtalia può resistere a tre o quattro siluri, mentre le navi precedenti e probabilmente (questo non si può accertare) quelle tipo Acton possono resistere solo a uno o due; 3) i cannoni da 100 t dell'Jtalia sono più perfezionati e potenti di quelli del Duilio; 4) diversamente da quanto affermato dall 'Acton e dal de Zerbi, il peso delle artiglierie dell'Italia è di 1300 t, cioè circa il doppio di quello delle artiglierie della nave tipo Acton; 5) p~r il completamento delle
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4 navi colossali occorrono 40 milioni da spendere in quattro anni, ai quali vanno aggiunti altri 30 milioni per le due nuove navi che il Ministro vuol costruire. Totale 70 milioni, a fronte della disponibilità di 61 milioni; perciò il Parlamento dovrebbe tener conto di questo dato; 6) se come previsto dal piano organico del 1877 dovessero essere costruite 16 navi del tipo Italia e Lepanto. la spesa sarebbe certamente sproporzionata per le nostre finanze; ma nessuno pretende questo, e basterebbe che "in un tempo non troppo lungo" [quale e con quale spesa, con precisione? sono particolari essenziali - N.d.a.] la nostra marina fosse composta da 8 navi del tipo Italia e Lepanto con velocità di 18 miglia, e da altrettanti arieti; 7) sarebbe meglio scortare una nave colossale con uno di questi arieti, piuttosto che con una nave di dislocamento moderato poco veloce; 8) con queste 16 navi si potrebbe far fronte, per molti anni avvenire e "con una spesa proporzionata ai nostri mezzi finanziari'' [quale? - cosa assai dubbia - N.d.a.] alle esigenze di difesa e offesa. Subito dopo, l' Acton può contare sull'autorevole intervento dell' ex-Presidente del Consiglio Depretis (al momento Ministro dell 'Tntemo, nel cui governo egli è stato Ministro), il quale si schiera a favore delle navi moderate e osserva che con la pretesa che il Ministro incominci le nuove costruzioni solo quando essa si sarà pronunciata, la Camera "lega le mani al potere esecutivo; e.forse.forse dico, in qualche caso solamente possibile, non dirò probabile, anche le prerogative della Corona"; perciò a suo avviso l'orientamento del Ministro a costruire navi di tonnellaggio più moderato non richiede siffatte ingerenze che lo mettono non in grado di svolgere i suoi compiti. Segue l'intervento dell'onorevole Albini, il quale giustifica il suo recentissimo cambiamento d'opinione in favore delle artiglierie colossali (dopo averle tanto criticate sulla Rivista Marittima dello scorso gennaio), con il fatto che anche le corazze hanno progredito, e ricorda che nelle sedute del Consiglio Superiore di Mari na non solo ha sempre votato a favore delle grandi navi, ma ha anche espresso l'opinione che l'armamento dell'Italia con quattro cannoni da 100 tera insufficiente, suggerendo di aggiungere altri 18 cannoni da 4t. Come si è accennato, il Presidente della Commissione La Porta questa volta di fatto lascia via libera all'ordine del giorno del Morana approvato anche dal Ministro, e prendendo atto dell'ampia discussione che si è svolta autorizza i membri della Commissione del bilancio a votare ciascuno secondo la sua coscienza, visto anche che la Commissione non è mai pronunciata sul merito della questione. La seduta si chiede con l'approvazione dell'ordine del giorno Morana e con il reinserimento nel capitolo 35 della costruzione di due nuove navi di prima classe del dislocamento massimo di 10000 te del costo massimo di 15 milioni più un terzo incrociatore, per una somma complessiva di lire 12.600.000; ciò significa l'innalzamento del limite iniziale di 7500 t stabilito dall 'Acton. Termina così un lungo dibattito, nel quale gli orientamenti iniziali del Ministro Acton sono contrastati soprattutto con una serie di ostacoli formali , per arrivare a una soluzione di fatto intermedia tra le sue idee e quelle dei fautori
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delle navi colossali. Dal le 16000 t circa dcli' Italia si passa al limite di l 0000 t delle nuove navi da costruire, con una diminuizione del 37,5% del suo dislocamento, a fronte dell'aumento del 25% delle navi iniziali tipo Acton. Un caso classico, nel quale si può applicare - a secondo dei punti di vista - il proverbio del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto.
Conclusione L'ordine del giorno Morana del 20 dicembre 1880 è solo un ' importante tappa intermedia di una contesa che si prolunga anche negli anni successivi della gestione del Ministro Acton, a tutto sfavore di quest'ultimo. Per il momento ci limitiamo pertanto a talune constatazioni, più che considerazioni. 1. La celebre legge organica 1O luglio 1877 n. 3960, dovuta, non va dimenticato, al Ministro Brin, anche se il relatore è uno dei suoi maggiori avversari, come il Maldini: - all'Art. 5 recita che "nel bilancio di prima previsione di ogni anno si indic:heram10 le navi delle quali il Governo intende di intraprendere la costruzione". 11 verbo "indicare" ha qui un significato assai vago, che può essere inteso in vario modo. Ci sembra, però, che la semplice indicazione al Cap. 35 della classe delle navi da costruire non basti; per decidere qualcosa, sia pur prescindendo da altri particolari la Camera avrebbe bisogno di conoscere almeno il dislocamento e il costo delle navi programmate, cd eventualmente anche il calibro delle artiglierie principali. Probabilmente in quel momento al Ministro Brin faceva comodo conservare il più possibile la mano libera, cosa che più tardi ha negato ali ' Acton. Rimane comunque fermo il fatto - ammesso anche dal Ricotti - che la Camera di massima non può e non deve occuparsi di particolari tecnici che più propriamente dovrebbero rientrare nella responsabilità del Ministro, ferma restando la piena disponibilità di quest'ultimo a fornire tutti i chiarimenti e tutti i particolari eventualmente richiesti dai singoli deputati e/o dalle Commissioni; - all'art. 4 fissa delle assegnazioni straordinarie per nuove costruzioni (20 milioni dal 1878 al 1887) che sono manifestamente insufficienti, a maggior ragione se si vuol costruire ancora delle navi colossali, che costano ormai circa 30 milioni ciascuna; - sempre all'art. 5 prescrive di "sottoporre i disegni del/e navi da costruirsi all'esame dei Consigli speciali a ciò chiamati in virtù di legge o di regolamento". Se ne deduce che la legge non prescrive la preventiva approvazione dei disegni da parte di tali Consigli, che sono organi consultivi del cui parere il Ministro può anche non tenere conto. In altre parole, secondo la lettera e lo spirito della legge la sua figura non può essere ridotta, di fatto, a mero organo esecutivo delle decisioni del Parlamento e dei Consigli (cosa di versa dal "Comitato disegni navi");
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- nel predetto Art. 5 la legge prevede la presentazione unitamente al bilancio definitivo di ciascun anno di una relazione del Ministro su quanto si è fatto nel precedente anno, relazione che non risulta mai presentata e della quale non si fa cenno né nella discussione, né negli atti della Camera Dalle predette interfacce della legge si deduce che hanno ragione coloro i quali affermano che la Camera non è competente a decidere sui disegni delle navi; ciò non toglie, però, che essa deve possedere gli elementi indispensabili per ben decidere sulla politica navale e sulle assegnazioni. Riguardo ai "Consigli speciali'', si può invece affermare che hanno ragione coloro che ritengono non necessario il parere del Comitato disegni navi, che non è propriamente un consiglio ma anzitutto un organo a carattere tecnico-esecutivo funzionalmente subordinato al Consiglio Superiore Marina e incaricato di studi di fattibilità, su input del Ministro o del predetto Consiglio. In ogni caso, le scelte dcli' Acton sono state vagliate e discusse, dentro e fuori dall'aula della Camera, come fino al 1880 mai si è fatto in precedenza. 2. Non è evidentemente ancora il momento di tentare un bilancio definiti vo del dibattito, che comunque - meglio dirlo subito - non potrà distribuire in modo categorico ragioni e forti. A fine 1880 si deve solo sottolineare che: - mentre l' Acton almeno all'inizio si accontenterebbe di un'Italia con due cannoni da 100 t in meno, quindi non molto più piccola, il Saint Bon in talune fasi del suo primo discorso alla Camera si dimostra sorprendentemente scettico sull'avvenire delle grandi navi, sopravvalutando nettamente - alla luce dell'esperienza successiva - le torpediniere; - anche il Brio (come altri sostenitori delle navi colossali) ammette all'inizio della gestione Acton che le corazzate del futuro non potranno essere le stesse del Duilio e dell'Italia; - il Brin, il Saint Bon e i fautori delle navi colossali non indicano neppure i requisiti essenziali di contrapporre a quelli delle navi tipo Acton invece indicati con una certa precisione, né nell'esaltare i vantaggi delle predette navi colossali considerano a sufficienza la minaccia del siluro ecome neutralizzarla (solo il Saint Bon lo ha fatto all' inizio del suo Mini stero); - l'elevato dislocamento (16000 t circa), l'elevata autonomia (16700 mg a 6, 7 nodi) e i I tipo di corazzatura dell'Italia non saranno più ripetuti in altre navi italiane e straniere, fatto che ha pure una sua importanza. 3. Come risulta in particolar modo dalle affermazioni dcli' Acton, del Cottrau e del Morana, le possibilità finanziarie hanno un peso determinante, non da tutti tenuto nella giusta considerazione. Rimane in sospeso un interrogativo: ci si deve proporre - come fa I' Acton - di rimanere anzitutto nei limiti della legge organica del 1877, oppure essi vanno superati, come per il Cottrau? Finora i sostenitori delle grandi navi non hanno affrontato in modo esauriente questo problema, toccato dal Ricotti quando implicitamente ne ammette l'im-
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portanza, accennando persino alla possibilità di togliere 1O milioni al bilancio dell'esercito per darli alla marina. 4. Infine, rimane da valutare la vecchia piaga del tempo eccessivo che intercorre tra l'impostazione di una nave e la sua entrata in servizio, piaga che si fa sentire per le navi colossali e per il Duilio in particolare ma anche dopo, ed · è avvertita dal Cottrau senza però indicare rimedi validi. L'eredità del 1880, che pesa non solo sulla rimanente gestioneActon, è per sommi capi questa. Per ultimo, non si può fare a meno di notare il troppo rapido cambiamento d'opinione degli stessi organi tecnici, che il Ministro ha senza dubbio consultato ancor prima di proporre al Parlamento la "sua" nave iniziale da 7500 t; se dipende - come si è detto dai rapidi progressi delle costruzioni navali ecc., di tali progressi avrebbero dovuto essere per primi e tempestivamente informati; essi comunque non giustificano i repentini mutamenti da loro proposti, che avrebbero dovuto prevedere. Gli organi consultivi e di studio in quanto tali propongono delle soluzioni alternative ma non mettono il Ministro con le spalle al muro; acquista perciò credito l'ipotesi che il dibattito apparentemente incentrato su questioni tecniche, sia in realtà avvelenato, condizionato e distorto da rivalità e personalismi, ai quali si accenna esplicitamente anche negli scontri alla Camera.
CAPITOLO IX
IL TRAMONTO DEFTNITIVO DELLE "NAVI DI DISLOCAMENTO MODERATO" E DEL MINISTRO ACTON (1881-1883)
"Fra due anni il grande canale di Malamocco, sino a Venezia, sarà portato alla profondità di 9 metri, i fondi a ciò necessari furono a tale uopo stanziati colla legge delle opere straordinarie marittime idrauliche e terrestri [... ]. Sicché quanto a Venezia, state sicuri che avete in quel porto tutto quello che serve per portarvi dentro, per ripararvi, per r(/òrnirvi le vostre grandi navi. Dunque non veniteci a dire che 11ell 'Adriatico non e 'è nessun porto, dove le grandi navi possano riparare e sian 2iare".
ON. CAVALLETTO (Tornata della Camera del 25 aprile 1882)
l'remessa
Lo scopo del presente capitolo è di esaminare perché e come dalla nave di 10000 tonnellate (approvata dalla Camera con ordine del giorno Morana del 20 dicembre 1880) si passa, sempre durante la geslione Acton, all'imposlazione di tre navi (Ruggero di Lauria e Francesco Morosini nel 1881 e Andrea Doria nel 1882) con dislocamento finale di circa 12000 t, armamento principale di 4 pezzi da 431 mm a retrocarica e corazzatura verticale (limitata alla parte centrale dello scafo) di mm 450, quindi più somigliante a quella del Duilio che a quella dell'Italia. Senza contare che il pescaggio delle nuove unità (m 8,70, cioè 1Ocm in meno di quello del Duilio) non raggiunge certo il valore più basso sul quale I' Acton in passato ha tanto insistito. Passare in così poco tempo da 7500 t a 10000 te poi a 12000 t non è cosa di scarso rilievo, tanto più che ciò avviene senza opposizione (anzi, con il sostanziale consenso) del MinistroActon, dimessosi il 17 novembre 1883 quando le nuove navi sono da tempo in costruzione, fino a far pensare che Aclon rinnega Acton. Né basta a giustificare un così forte mutamento il pur rapido progresso delle artiglierie, delle corazze e delle macchine, che se mai contribuisce a ridurre i pesi piutlosto che ad aumentarli. In merito va anche considerato che, come si è visto al precedente capitolo VITI, i calibri delle artiglierie e i dislocamenti delle corazzate delle marine inglese e francese si mantengono fino alla Dreadnoug ht su valori complessivamente inferiori.
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SEZIONE I - L'ancor vivo dibattito sulle costruzioni navali nella pubblicistica Alcune idee in Inghilterra e in Francia Le idee che affiorano in Francia e in Inghilterra non sono molto diverse da quanto si legge nella letteratura navale italiana del periodo, e anch'esse risentono - come sempre -dell'incertezza derivante dalla persistente mancanza di valide esperienze di guerra dopo Lissa. Nel 1883 la Rivista Marittima dà conto sia del dibattito in Inghilterra,1 sia di uno studio pubblicato a fine 1882 in Francia dalla Revue des Deux Mondes a firma di un civile, Etienne Lamy.2 Il dibattito inglese è commentato da un non meglio identificato A., che non manca di trame utili insegnamenti per le specifiche esigenze italiane, anche se - come egli stesso osserva - il ruolo strategico di una marina con esigenze imperiali come quella inglese è ben diverso da quello della marina italiana, limitato alla difesa delle coste_ Anche in Inghilterra vi è chi propende per artiglierie e navi colossali, e chi no: ma nella discussione affiora spesso quello spirito empirico, che è pregevole qualità del popolo inglese. Secondo l'ammiraglio Colomb la questione se una nave da battaglia debba portare cannoni della massima potenza compatibile con le doti di maneggevolezza delle artiglierie stesse va affrontata dotandola di un numero di cannoni maggiore di quanto è previsto al momento; ma "se questo desideratum non è compatibile con i cannonipiù grossi, bisognerà adottarne di meno pesanti". Il numero dei cannoni grossi e leggeri è già aumentato e "ora siamo arrivati all'armamento di uno o due grossi cannoni più un numero rilevante di cannoni leggeri. Io mi aspetto quindi che questi diventino più pesanti e quelli diminuiscano di numero"; per stabilire i relativi criteri da adottare "dobbiamo affidarci ad un projòndo studio storico e geografico, ad un rigoroso ragionamento induttivo e a molteplici ed illimitati esperimentt', che al momento mancano. Accanto al Colomb, il comandante Harris ritiene inevitabile l'adozione di cannoni sempre più potenti, ma al tempo stesso riferendosi alla costruzione di navi colossali da parte dell'Italia, osserva che se ciò potrebbe essere un danno per la nazione marittima più potente del mondo quale è l'Inghilterra, la cosa può vedersi sotto un altro punto di vista, e io credo che se potessimo persuadere le nazioni simili all 'ftalia, ed anche le maggiori, ad impiegare tutte le loro risorse e la loro forza in corazzate eccezionalmente grandi, le loro finanze non permettendo certamente La costruzione di più che tre o quattro di tali navi, quindi awerrebbe che noi con i nostri bastimenti più numerosi non
1
A., La questione dei tipi di nave discussa in Inghilterra, in "Rivista Marittima" 1883, IV Trime-
stre Fase. X, pp. 45-65 e XI, pp. 175- 199. 2 Etiennc Lamy, Les marines de guerre, in "Revue des Deux Mondcs" 15 ottobre e 15 novembre 1882 (traduzione dire;;:ionale a ~ma della "Rivista Marittima" 1883, I Trimestre fru;c. I, pp. 168- 185).
IX - IL TRAMONTO DEFINITIVO DELLE "NAVI DI D/SLOCA.MENT'OMODE/UTO"
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troveremmo difficoltà a bloccarle nei porti. Così io credo che il sistema difàr costruire navi molto dispendiose alle nazioni povere torna a bene per / 'Inghilterra.
Anche il comandante Harris è convinto fautore della velocità, ma si accontenterebbe di navi in grado di muoversi a 12 nodi. A suo parere le corazzate vanno classificate in base al la velocità e non alla potenza delle artiglieri e, perché bisogna tener conto anche del rostro e del siluro. Crede nel numero, e pur apprezzando la velocità e I'ultrapotenza del Lepanto, non crede che sarebbe saggio contare troppo su navi così grandi e accontentarsi di una marina costituita solo da alcune di esse, perché potrebbero essere facilmente messe fuori combattimento da bastimenti di costo molto minore, che ricorressero anche al rostro e al siluro: "chi può asserire con certezza che dieci corazzate dette di prima classe, il cui costo può essere calcolato da 175 a 200 milioni, siano equivalenti in un combattimento navale a quattordici o quindici navi di seconda classe ugualmente veloci e che si possono ottenere con la medesima spesa?". Crede, infine, nell'efficacia del siluro tanto nell'azione difensiva che in quella ollensiva, e stima più importante un potente armamento che una grossa corazz~1. Come nota anche il commentatore italiano, se tra gli autori inglesi 11011 s i trova chi apprezza in modo assoluto e incondizionato il netto orientamento per la costruzione di navi colossali prevalente in Italia, ciò che si spiega anche con gli obblighi imperiali tipici della Gran Bretagna, che consigliamo la dovuta attenzione per il numero e la ricen.:a <li dimensioni moderate, insieme con la velocità e autonomia. Lo stesso commentatore italiano mette in evidenza che nel dibattito in Inghilterra va apprezzato soprattutto il metodo seguìto per creare una base solida e concreta per il confronto di idee, perché [qualcosa del genere ha sostenuto anche il Bonamico - N.d.a.] lo studio della potenza delle singole navi in senso astratto può avere utilità dal lato teorico, ma difficilmente conduce a pratiche conclusioni; ma così avviene quando non si perdono di vista gli scopi indiscutibili della flotta. determinati in seguito alla conoscenza di quantità tutte note che possono precisarsi a priori con esattezza quasi matematica [ottimismo eccessivo - N.d.a.]: i bisogni del paese, i pericoli che lo minacciano, i mezzi finanziari di cui si dispone. Da tali dati non è difficile dedurre il modo d'azione della/orza, da questo la specialità degli elementi necessari [... ]. Le qualità tattiche delle navi [cioè la potenza di fuoco e la corazzatura - N.d.a.] sono bensì essenziali, ma non le sole di una nave da guerra, ché questa vuol essere posta in armonia con le esigenze strategiche del teatro di guerra, con le altre risorse militari del paese, coll'obiettivo principale del/a flotta e col piano adottato per raggiungerlo.
Nel campo francese Etienne Lamy, deputato al Parlamento e relatore del bilancio di quella marina, è un convinto sostenitore della necessità di grandi navi anche per una nazione povera di risorse e con coste molto estese da difendere come è l'Italia. Giudica a ragione lo sperone un'arma ormai superata dal
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siluro e apprezza i grossi cannoni e le forti corazze, anche per poter operare con successo contro il litorale. Non si nasconde i difetti delle grosse navi (come il costo molto elevato di una sola unità che può essere affondata rapidamente, la minore facilità di estendere le operazioni derivante dal loro scarso numero, la difficile comandabilità); ma tutto sommato le ritiene più convenienti delle navi di minori dimensioni, il cui costo è proporzionalmente maggiore, quindi con una stessa somma uno Stato può disporre di un tonnellaggio tanto più considerevole, quanto più costruisce navi molto grandi; inoltre un armamento diviso tra due navi è inferiore all'armamento concentrato su una nave sola, che può portare cannoni di maggior calibro, una corazza più grossa e macchine più potenti. È vero che le grandi navi "offrono alla tempesta o al nemico una ricca preda", ma non sarebbe saggio offrire loro degli strumenti meno atti a resistere ad ambedue queste minacce: quel che qui bisogna calcolare, non è il valore di quel che si può perdere, bensì le probabilità che si guadagnano a conservarlo [... ]. Che importa a una nave di essere assalita da parecchie'! Se La sua corazza è a prova, non sarà certo messa in pericolo dai colpi inoffensivi; se ha un 'artiglieria più potente, il nume,v dei suoi avversari nonjàrà tacere il suo fuoco; se è dotata di muggiur velocità, potrà raggiungere i suoi nemici o sfuggir loro a suo talento; finalmente, se riunisce il vantaggio del corazzamento, del cannone e della marcia, potendo tenersi a tale distanza dalla quale colpire l'avversario senza esserne offesa, una nave sola è più jòrte che una squadra.
L'autore francese trova la costruzione di poche grandi navi conveniente anche per l'Italia. In un periodo nel quale in Francia la Jeune École è nel pieno fulgore, la sua voce è tanto più significativa, ed è esattamente l'opposto anche di quanto taluni pensano in Inghilterra; nessuna conclusione di carattere generale può dunque essere tratta dal confronto tra gli scritti prima esaminati, se non quella che anche all' estero il problema delle grandi e piccole navi è assai controverso.
1 libri (un po ' tardivi) del Saint Bon e del Brin in difesa delle navi colossali Nel 1881 , quando ormai il programma iniziale del Ministro Acton è stato accantonato da lui stesso, compaiono due opere finora considerate (non del tutto a ragione) tra le più significative del secolo: La questione delle navi del Saint Bon e La nostra marina militare del Brin,3 che - inutile dirlo - intendono spie-
3 Simone Pacoret de Saint Ron, La questione delle navi, Torino, Loescher 188 1 e Benedetto Brin, La nostra marina militare, Roma Fratelli Bocca 1881. Nessuno dei due libri è recensito dalla "Rivista Marittima". li secondo è recensito (senza alcuna osservazione) dalla "Rivista Militare Italiana" Anno XXVT - Voi. T fehbrnio 188 1, pp. 441-442 .
IX - IL TRAMONTO DI!F!NlTIVO f>ELLE "N,ff/ DI D1SL0CAMEN1V MODERATO"
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gare e difendere le scelte dei rispettivi autori a favore delle navi colossali, a fronte degli attacchi di una parte della stampa e - ovviamente - in polemica oltre che con il Ministro Acton, con i più noti avversari di tali navi, come il Maldini, il Cottrau, il Turi. Dopo il dibattito del 1879-1880 alla Camera e gli interventi del Ricotti, gli argomenti toccati dai due autori sono in gran parte poco originali e spesso anche superati all'epoca della pubblicazione delle due opere, anche perché si soffermano quasi sempre sulle differenze tra le "loro" navi e le navi corrispondenti all'ormai tramontato programma iniziale dell' Acton, quindi più che all'avvenire ormai si rivolgono al passato. Limiteremo pertanto il nostro esame agli aspetti meno scontati delle due opere, che date le loro analogie avrebbero potuto essere fuse insieme in una sola, compilata "a quallro mani''. SATNTBON: - uno sguardo alle costruzioni navali inglesi e francesi dimostra che non siamo stati i soli a costruire grandi navi; ma anche se così fosse, bisognerebbe dimostrare che abbiamo sbagliato a scegliere questa via per le nostre esigenze; - non è vero che le grandi navi hanno proporzionalmente costi maggiori delle altre. Se si vogliono avere navi economiche, bisogna costruirle in modo che possano rimanere in servizio per lungo tempo [ciò non è certamente avvenuto per le navi colossali - N.d.a.]; - secondo i suoi detrattori, la nave maggiore paragonata a due altre minori e dello stesso costo complessivo sarà meno forte e agile, avrà un solo sperone contro due, sarà meno atta a combattere con lo sperone, offrirà maggior bersaglio, potrà entrare in un numero di porti più ristretto, richiederà maggior tempo per la costruzione e per le riparazioni, avrà organi più complicati e quindi sarà più difficile da conoscere e più soggetta ad avarie, avrà minori qualità marine, metterà troppe uova in un paniere; - questi giudizi sono in parte veri e in parte falsi ; ad ogni modo, supponendo che le qualità opposte debbano essere l'obiettivo delle navi del futuro, dovremmo costruire navi minori come vorrebbero molti avversari; "ma a ciascuna di queste navi potremmo applicare ugualmente gli stessi ragionamenti e via di seguito,fino a concludere che il minimo J{alleggiante possibile, che sia degno del nome di nave è il migliore di tutti" [ragionamento evidentemente esasperato; "est modus in rebus", e allora perché non vale anche il contrario, cioè l'aumento tendente all'infinito delle dimensioni della nave e dei suoi cannoni? - N.d.a.]; - la grande nave ha migliori qualità marine e grazie alla maggior pescagione ha miglior qualità evolutive, che nel Duilio possono essere ancora migliorate modificando il timone; - nell'impiego del rostro, come avviene per l'Italia la maggiore velocità è più importante del raggio di evoluzione;
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- non è vero che nell'impiego del rostro due navi più piccole sarebbero avvantaggiate rispetto a una grande, perché esse rischierebbero di danneggiarsi a vicenda e il tiro delle loro artiglierie dovrebbe essere spesso sospeso (Randolph, Freemantle)_ Questo vale ancor di più se gli arieti fossero tre (Penhoat); - anche se mancano ancora le granate perforanti del cannone da 100 t che dovrebbero essere costruite, esse possono essere validamente sostituite dalle granate "a segmenti" Albini, che sono già disponibili e "costituiscono un formidabile arnese di guerra"; - non risponde a verità l'affermazione del Cottrau che "non ci dobbiamo azzardare a sparare vere granate col cannone da 100". In verità né le accensioni premature della granata, né la sua rottura interna sono pericolose. E prima di dichiarare che le granate anche perforanti non devono essere sparate, è possibile fare esperimenti; - la tesi che non occorre impiegare cannoni di elevata potenza per trapassare le corazze dello scafo ma bastano cannoni minori per colpire le infrastrutture sovrastanti non vale, perché tutte le parti vitali di tali infrastrutture possono essere corazzate; - non è vero che il tiro dei grossi cannoni sarà molto poco efficace, con una percentuale troppo esigua di colpi andati a segno_ Considerando il 12-13% di colpi utili, i cannoni del Duilio e dell 'Italia dovrebbero sparare due volte prima di colpire il bersaglio, percentuale accettabile se si considera che un solo loro colpo può annientare la resistenza di una nave nemica [ma questo avverrà sempre? - N.d.a.]; - probabilmente, data la traiettoria molto tesa dei cannoni da 100 t tale percentuale potrebbe essere maggiore: tutto dipende dall'attitudine e dall'addestramento del personale [non certo facili da ottenere - N.d.a.]; - l'asserita lentezza di caricamento dei cannoni colossali non ha fondamento: "vi parpoco che questi scaglino ogni due minuti e mezzo col massimo grado di concentrazione, un peso di metallo superiore a quello della fiancata massima di un vecchio vascello a tre ponti'!''; - i congegni meccanici/idraulici sono ormai indispensabili anche nelle navi di dislocamento più moderato. Se ne temono a torto la complicazione, e persino le conseguenze negative sulla disciplina; - " la condizione essenziale di una nave da battaglia è quello di essere atta al mare e alla battaglia; le altre sono accessorie anche quando siano d 'importanza vitale"; - nelle grandi navi è necessaria una certa pescagione per ottenere sia buone qualità marine che una maggiore maneggevolezza; però non è vero che l'Italia sarà esclusa dalla maggioranza dei nostri porti; - limitando la pescagione "si avrebbe una mole più costosa, meno buona e meno governabile; ma il problema della nave potente e veloce sarebbe ancora solubile, io credo, e non eccederebbe le forze dei nostri ingegneri'' [in realtà, nessuna delle corazzate italiane da allora in poi ba mai diminuito la pt:scagione fino al livello auspicato dall'Acton - N.d.a.] ;
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- una nave come l'Italia, costruita con doppia carena e paratie longitudinali e trasversali a tenuta d'acqua, sarebbe assai difficile da paralizzare o affondare. Al massimo subirebbe un danno circoscritto; - al momento tutte le navi possono rifornirsi di carbone solo a Spezia e a Venezia. Con pochi milioni si sarebbe potuto predisporre per il rifornimento di carbone anche la base di Taranto, ma "riuscirono vane le mie diligenze"; - ne consegue che l'autonomia prevista per le navi tipo Acton, sufficiente solo per andare da Spezia a Venezia, è troppo bassa. Invece "la nave Italia, che alla potenza e alla invulnerabilità deve unire l 'autonomia, potrebbe [da sola? - N.d.a.] a guisa di.falco, librarsi p er lungo tempo sulle nostre coste, piombare improvvisamente e rovinosamente sul nemico reso debole dall'isolamento e dal cattivo tempo [e se ciò non avviene? N.d.a.], seminare distruzione in un convoglio di truppe da sbarco, chiamare su di sé tutti i conati del nemico troppo molestato per intraprendere qualche cosa di serio Jìnché ella vive. Potrebbe dirsi che a/l'ultimo anche per essa la molle tomba dell 'alighe si aprisse, doppia è l 'alea della f{Uerra; ma vi sarebbe anche il caso che dehellati successivamente molti nemici, essa osasse felicemente, al momento propizio, attaccare in massa i rimanenti e farne memorabile scempio" [estensione di un concetto d'impiego già affiorato in Parlamento: ma si può realisticamente chiedere tanto a una sola nave, capace di annullare da sola la superiorità dell'intera flotta francese? - N.d.a.]; - se poi non si ritiene necessario che le navi colossali abbiano tanta autonomia, basterà imbarcare sul Duilio meno carbone per farne una nave da 10000 t [questo è giusto: ma se non si ritiene necessaria un'elevata autonomia, perché aumentare il dislocamento? - N.d.a.]; - la completa struttura cellulare dello scafo dell'Italia, "unica innovazione radicale in cui veramente siamo soli'', benché criticata dal celebre ingegnere inglese Reed, ha ottenuto la generale approvazione [però non è stata mai più imitata, nemmeno dai nostri tipi Ruggero di lauria - N.d.a.J. Di questa analisi del Saint Bon si può dire che essa in buona parte si limita a confrontare le navi colossali con le navi tipo Acton, che come si è visto, nel 1880 sono già state abbandonate dal loro stesso padre, per avvicinarsi alle 10000 t e oltre. Inoltre non parla di possibilità finanziarie, né del pericolo delle torpediniere, da lui ritenuto qualche anno prima di importanza capitale. BRTN
Naturalmente anche il Brin polemizza con il Maldini, il Cottrau e il Turi ma essendo il suo libro datato 1° gennaio 1881 , i suoi punti di riferimento sono più aggiornati. Va anche no lata la sua grande attenzione per i precedenti storici e per ciò che sta accadendo in altri Paesi. In particolare egli tocca i seguenti punti essenziali: - il Ministro Ferraciù (19 dicembre 1878 - 14 luglio 1879) ha nominato una Commissione - della quale faceva parte l 'Acton - per ristudiare la
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questione dell'armamento dell'ltalia, inizialmente progettata dal Saint Bon con due soli cannoni da 100 t. Nonostante l'energica opposizione del lo stesso Saint Bon, la Commissione ha deciso di armare l'Italia con 4 cannoni da 100 t più 18 cannoni da 4,25 t [forse un errore di stampa: ne sono stati installati 8 da 152 mm - N.d.a.], così il dislocamento della nave è passato da 13700 a 14400 t all'origine; "nove su dodici dei nostri ammiragli. tutti i direttori di artiglieria della marina, molti altri ufficiali di vascello e ingegneri vennero successivamente consultati da me e dai miei successori [nella carica di Ministro N.d.a.], e tutti unanimamente consigliarono l'adozione dei cannoni da 100 t, dei congegni idraulici di caricamento, la costruzione di nuove navi tipo Italia, e lungi dal trovare esagerate le idee del Saint Bon rincararono la dose, volendo aumentare, contro il di lui parere, le artiglierie dell 1talia"; di conseguenza, ciò che è stato ritenuto buono da tutti [non escluso l' Acton - N.d.a.] fino alla metà del 1879, è inspiegabilmente diventato "un ammasso di errori biasimevole nel 1880"; la definizione delle caratteristiche tecniche delle navi da guerra non è compito del Parlamento, "ma stabilire gli scopi cui il naviglio da guerra deve servire; determinare i precisi limiti della sua .~/era di azione; dichiarare se lo si vuole destinare soltanto alla difesa dei nostri confini col mare o, con più largo concetto, all 'offesa nei mari altrui" è una questione che può essere affrontata solo in sede politica; non si tratta di costruire navi giganti o navi piccole, ma quanto di meglio possa produrre l'arte navale in relazione all'epoca; né si deve subordinare la qualità dei bastimenti alle loro dimensioni, ma vale piuttosto il contrario; le caratteristiche dell'Italia e le sue dimensioni non sono esagerate in rapporto ai requisiti che sono stati richiesti alla nave. In particolare i cannoni da 100 t dcli' Italia awanno una potenza di ben 16000 dinamodi, assai superiore ai soli 9000 dinamodi dei caoooni del Duilio; perché abbandonare il principio che le corazze di una nave devono resistere ai più potenti cannoni nemici, proprio oggi che i cannoni hanno fatto ulteriori progressi, e si rendono se mai necessarie corazze ancor più resistenti? pur essendo una grande nave, il Duilio ha un raggio di evoluzione inferiore a quello di tutte le altre nostre corazzate; le corazzate francesi pescano più del Duilio e quelle austriache come il Duilio. Anche in Francia una Commissione nominata nel 1871 ha fissato i 9 metri [un pò più del Duilio e meno dell'Italia - N.d.a.] come pescaggio massimo delle navi da costruire. A parte questo, che cosa potrebbe fare una nostra corazzata dopo aver passato il Canale di Suez, con sole 70 ore di autonomia residua e senza alcuna base di rifornimento? Senza contare che il Canale di Suez può essere facilmente interrotto;
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- le navi colossali corrispondono al vecchio principio di strategia - mai smentito dai fatti - che per ottenere la vittoria occorre concentrare il maggior numero possibile di forze in un solo punto decisivo [evidente forzatura - N.d.a.]; - nel 1860 l'allora capitano di fregata Saint Bon, inviato in Inghilterra per studiare il problema delle navi corazzate, in un suo rapporto al governo sviluppò le sue idee per il combattimento con il rostro, dalle quali ebbe origine l'ordinazione a cantieri inglesi dell'Affondatore, nave di grande velocità costruita espressamente per tale forma di combattimento; ma ebbe il merito cli cambiare idea quando vide nascere il cannone da 100 t e il siluro; - l'onorevole Malclini ha osservato che sul!' Italia i fumaioli , il timone e le eliche non sono protetti. Non è vero: i fumaioli (solo alla base, per non aumentare tal dislocamento) sono protetti come sul Duilio, il timore è protetto più che in qualsiasi altra nave corazzata e nessuna nave a questo mondo ha le eliche protette; - l'Italia non è affatto in grado cli portare 12000 uomini, come afferma l'onorevole Maldini. Tale cifra comunque è "una enormità"; - 1'onorevole Maldini afferma che i grossi cannoni esigono complicati congegni idraulici e sono lenti al tiro: ma i congegni idraulici sono frutto del progresso e sono impiegati dalle marine francese e inglese anche per cannoni di minor peso e calibro [nessun cenno, invece, alla lentezza del tiro - un colpo ogni 1O minuti - che è un fondamentale difetto <lei cannoni da 100 t - N.d.a.]; - non è vero che impiegando un maggior numero di cannoni cli minor calibro si compensa la potenza dei cannoni da 100 t. Lo dimostra il caso del Tegetthof, corazzata austriaca di 8000 te con 6 cannoni da 25 t in batteria, impostata contemporaneamente al Duilio, che può tirare da ciascun lato con 3 cannoni invece dei 4 del Duilio (che ha torri a manovra idraulica). Inoltre il Duilio è superiore per fiancata (750 kg contro 400), per corazzatura e per velocità; - in passato il Ministro della guerra piemontese generale La Marmora ha disposto che gli ingegneri navali dopo aver terminato il corso di architettura navale seguissero quelli della Scuola di Artiglieria e Genio del1'esercito di Torino. Nel 1866 il generale Cavalli sulla base dell' esperienza della guerra d'America ha scritto che la miglior soluzione del problema delle costruzioni navali era "il più grande cannone sopra la più piccola nave corazzala" [paragone non calzante, perché il Cavalli si riferiva ai monitors, non alle grandi navi - N.d.a.]4 e che gli ingegneri artiglieri e quelli navali dovevano studiare insieme il problema;
4 Si veda, in merito, il Nostro La "nave invulnerabile" e le teorie del generale Cavalli, in "Rivista Marittima" luglio 1988, pp. 107-118. Va anche ricordato che nel 1855 il Cavalli ha compilato un
progetto di "Nave i11vu/11erabi/e" annata di 24 cannoni rigati a retrocarica.
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- gli avversari delle navi colossali giudicano "argomento inappellabile" il fatto che le altre potenze non hanno costruito navi simili, ma è anche vero che non hanno nemmeno costruito navi simili a quelle più piccole da loro proposte. Per quest'ultime "si è andati a scegliere in tutte le marine del mondo le qualità mediocri di alcune delle loro navi'', perciò se la nostra marina dovesse costruire questi tipi di navi si troverebbe in condizioni di inferiorità; - nella costruzione del Duilio è stato necessario fare le modifiche richieste dall'imbarco dei cannoni da I 00 tal posto di quelli di minor calibro inizialmente previsti. Sull'Italia e sul Lepanto, che sono stati studiati in relazione ai più recenti progressi, non è stato necessario nessun mutamento né per le corazze né per i cannoni, quindi queste due navi potranno essere pronte in un periodo di tempo minore di quello richiesto dal! 'allestimento delle precedenti [ è avvenuto esattamente il contrario - N .d.a.]; - come affermato dal generale Corte alla Camera, la potenza marittima di una nazione dipende dalla sua capacità industriale ed economica di produrre il materiale occorrente. Sono stati fatti degli studi per utilizzare le miniere di ferro dell'Elba e impiantare stabilimenti siderurgici e metallurgici atti a fornirci quanto è necessario, poi abbandonati. Occorre riprenderli alla mano; - "non si parli di grandi navi, anzi si domandi che siano le più piccole p ossibili", purché siano dotate di corazze in grado di proteggerle contro i proietti dei cannoni che si trovano o si troveranno sulle navi di altre marine già in mare, in costruzione o in progetto, posseggano cannoni non inferiori per potenza a quel li delle navi di altre marine e abbiano una velocità tale da metterle in grado di sfuggire alle torpedini [le stesse cose sono sostenute dall' Acton; tutto sta nel trovare il modo migliore di realizzarle - N.d.a.J; - da fonti sicure risulta che la marina francese ha ordinato per le sue navi 8 cannoni di 72,2 t capaci di forare piastre da 64,3 cm [superiori alla cintura corazzata del Duilio, che è di 55 cm, e del futuro Ruggero di Lauria, che è di 45 cm - N.d.a.] e 8 cannoni di 76,4 t, capaci di forare piastre di 78,2 con forza del proietto di 1000 dinamodi, cioè "più potenti dei cannoni del nostro Duilio, ed appena inferiori a quelli progettati per/ 'Italia" [dunque i cannoni del Duilio sono già invecchiati, perché inferiori a quelli ordinati dalla flotta francese - N.d.a.]. Inoltre "la fabbrica di cannoni della marina francese, quella di Ruelle, è stata trasfòrmata in modo da poter fabbricare cannoni da 180 tonnellate (sic)" [ciò non è mai avvenuto; comunque, se si seguissero i criteri indicati dal Brin, i cannoni delle future navi dovrebbero essere di 180 t, peso mai raggiunto - N.d.a.].
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Del libro del Brin accanto ai richiami storici - sovrabbondanti, ma non sempre centrati - e ai frequenti riferimenti a quanto si fa nelle altre marine, va
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salvato l'importante concetto che non si tratta tanto di discutere se siano meglio le navi giganti o le navi di dislocamento più moderato, ma piuttosto di definire quali siano le caratteristiche ottimali delle navi da costruire. Ciò non toglie che la sua difesa delle navi colossali sia tutto sommato raramente originale e a volte contraddittoria. Se infatti - come egli stesso afferma alla fine - i francesi stanno costruendo cannoni di minor calibro e peso, ma di maggiore potenza di quelli del Duilio, se ne dovrebbe dedurre la necessità di sostituire subito quest'ultimi con altri di minor peso ma più moderni, e comunque di non ripetere più il peso di 100 t nelle navi del futuro (in merito, anche l'informazione sui progetti dei cannoni da 180 tè chiaramente esagerata e fuorviante). Da apprezzare, infine, l'accenno al fatto che il Parlamento deve essere la sede più appropriata per definire quella che oggi chiamiamo politica navale, dalla quale dovrebbero derivare i requisiti delle navi da costruire. La pubblicazione dei due libri nel 1881, comunque, dimostra che nonostante l'accantonamento delle navi tipo Acton anche da parte dello stesso Ministro Acton, sulle navi colossali permangono dubbi e perplessità nella pubblica opinione, tanto da richiedere la pubblicazione di libri chiaramente difensivi da parte di ambedue i loro indiscussi padri.
Il dibattito sulla pubblicistica militare italiana (De Amezaga, A/granati, Cottrau) Una delle rare pochissime voci che sulla pubblicistica militare difendono la causa delle navi colossali nonostante il ben diverso orientamento del Ministro del tempo, è quella del comandante Carlo De Amezaga, che mette in risalto le possibilità tattiche insostituibili delle navi colossali, solo alla fine correggendo il tiro a favore di navi di tonnellaggio inferiore.5 A suo parere (così pensano anche il Saint Bon e il Brin) alcune delle nostre "navi potentissime", disseminate sul mare, potrebbero molestare il commercio nemico, inseguire navi isolate, gettare lo scompiglio nei convogli [ma quali risultati darebbe il loro impiego in scontri a flotte riunite? - N.d.a.]; esse rappresenterebbero perciò per il nemico una preoccupazione costante e un grave pericolo, mentre per noi sarebbero il mezzo più sicuro per evitare disastri incombenti. La presenza di una nave di questo tipo nella guerra tra Perù e Cile sarebbe bastata per tutelare gli interessi italiani e probabilmente per costringere i contendenti al la pace; e una guerra contro un avversario superiore per numero assicurerebbe una elevata capacità di rappresaglia [ma prima come opererebbero queste navi colossali per impedire l'offesa nemica alle nostre coste? - N.d.a.].
' Carlo Dc Amezaga, Rapido cenno alle grandi e piccole corazzate, Firenze, Le Monnier 188 1 (Estratto dalla ''Nazione" di Firenze, n. 7-9 1881). Da ricordare anche le lodi incondizionate del De Amezaga all'opera del Saint Bon e del Brin - e in particolare al Duilio - nel successivo Pensiero navale italiano (Op. cit., pp. 177-190).
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li De Amezaga contesta poi il detto inglese che "non conviene mettere molte uova nello stesso paniere" ( cioè: non si deve concentrare su un solo bastimento, che non sarà mai invulnerabile, un numero eccessivo di sistemi d'arma, con relativo aumento del dislocamento). Questo proverbio - egli dice - avrebbe valore pratico, solo se la distribuzione delle uova in molti panieri potesse sempre salvarle dall'urto con un paniere più solido, e se la robustezza collettiva dei piccoli panieri non comportasse costi superiori a quelli dei grandi; ma ciò non è affatto dimostrato, anzi gli esperti pensano il contrario, che cioè una sola nave del tipo Italia avrebbe facilmente ragione di due navi da guerra nemiche, che costano ciascuna la metà. Quindi "la mole di quella nave non è l'applicazione di un metodo empirico, tanto meno il parto di un fantastico concetto, hensi la rigorosa soluzione del concetto di riunire nel più ristretto spazio possibile gl 'istrumenti di guerra navale più potenti e perfetti finora ideati''. Segue una lode ali' Italia, il cui scafo a struttura cellulare ne fa a suo parere la sola nave capace di resistere a uno o più siluri [non è mai stato dimostrato N.d.a.], risultato che non si sarebbe ottenuto con un bastimento di minori dimensioni; né è vero che essa può essere comandata con difficoltà, a causa della complessità del suo armamento [qui va ricordato che Bonamico è di parere opposto - N.d.a.]. L'apprezzamento incondizionato per le navi colossali dovrebbe indurre il De Amezaga ad auspicarne la costruzione per l'avvenire: invece anch'egli ammette che non è possibile costruire 16 navi del tipo Italia, che secondo una sua valutazione - in verità ottimistica - costerebbero 300 milioni. Prende anche atto dell'etlicacia dei siluri, destinati a produrre nella tattica navale gli stessi effetti che hanno prodotto in campo terrestre le armi da fuoco moderne, cioè l'estrema mobilità e gli ordini sparsi. Comunque sempre a suo parere sarà possibile costruire navi meno potenti e meno costose, ma senza sacrificare la velocità, che è l'unica protezione contro la crescente efficacia di queste nuove armi, delle quali va acquistato un buon numero insieme con le barche torpediniere e gli arieti torpedinieri; ciò non toglie che l'azione decisiva competerà come sempre alle navi di 1a classe, specialmente per impedire i bombardamenti delle coste, che non riescono a impedire né le fortificazioni costiere, né le torpedini. Non basta difendersi: bisogna offendere il nemico e colpirlo nel suo commercio. Per tale compito anche per il De Amezaga i tipi di nave appropriati sono gli incrociatori [si noti la contraddizione: non sono le navi colossali, come par di capire da quanto afferma in precedenza egli stesso - N.d.a.]. Bisogna pertanto incrementare la loro costruzione, perché "essendo autonomi, veloci, atti al lancio di siluri e al cannoneggiamento, essi sono un tentativo verso/ 'abbandono della corazza [nel quale contraddittoriamente, anch'egli sembra credere - N.d.a.], certo precoce, ma in ogni modo un tentativo che li mette in grado di rafforzare ragguardevolmente la potenza militare di una marina da guerra". Ancora una volta la sua conclusione non è del tutto in linea con la preferenza da lui accordata alle navi colossali, avvicinandosi piuttosto alle idee del1' Acton: le navi tipo Italia sono il massimo desiderabile e il programma del Saint Bon resta come base, ma al momento occorre integrare le quattro grandi
IX - IL TRAMONTO DEFINITIVO DELLE "NAYI DI DISLOCAMENTO MODE/Uro"
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corazzate in costruzione e le due progettate [di tonnellaggio un pò inferiore, poi impostate sotto la gestioneActon - N.d.a.] con altre costruzioni di naviglio minore [evidentemente incrociatori e torpediniere - N.d.a.]; "questa e non altra deve essere la verità; ed io vorrei che il pubblico se ne persuadesse e se ne facesse coscienza sicura, e si distruggessero così vane apprensioni, e assurdi dubbi, e chimeriche accuse; e si cessasse dal gusto di sfatare le più grandi opere nostre appena compiute o prima ancor che si compiano". Il tenente di vascello Algranati ha il merito di tentare un esame un po' più approfondito di un argomento assai poco trattato: i criteri per il miglior sfruttamento delle caratteristiche delle navi colossali,6 tenendo presente che date le loro prestazioni molto più avanzate, esse non possono essere impiegate in combattimento insieme con le altre della squadra italiana, a meno di sacrificare le loro caratteristiche migliori, a cominciare dalla velocità: per il loro scarso numero dobbiamo supporre che non ne debbano nascere inconvenienti nella manovra generale della forza navale, ma nell'azione quanto non sarà il vantaggio di queste navi velocissime, potentissime, in pieno possesso delle loro straordinarie facoltà? Disponiamo dunque le nostre quattro grandi navi funri dP./la linea principale, e le loro manovre pizì che da mo.,·se compassate siano dirette da norme generali basate sulla loro missione nei vari casi di marcia o nelle varie fasi di una fazione navale. In tesi generali queste navi invece di essere difese dalle altre minori, dovrebbero sorvegliare e secondare l'azione di esse, e perciò ad ognuna dovrebbe affidarsi la protezione di una divisione della.flotta che resta in linea; perciò navigherebbero secondo le varie formazioni avanti, dietro e di fianco delle linee, owero fra gruppo e gruppo. La relazione fra queste navi e la divisione relativa, non dovrebbe essere determinata da distanza e rilevamento fisso, ma dalle condizioni della azione che si impegna e dalle varie sue fasi.
Come se un siffatto impiego fosse così facile, visto che ancora non c'è la radio ... Dopo aver cercato di dimostrare, more solito, che una nave colossale anche se isolata non si troverebbe affatto a mal partito nella lotta con il cannone e il rostro contro tre navi nemiche, l' Algranati ammette che esse possono vincolare la loro manovra solo con quel la delle torpediniere, le quali avrebbero il compito di difenderle contro le altre navi nemiche (ma come dovrebbero difendersi contro le torpediniere nemiche, non lo dice) e si preoccupa poi della necessità di assicurare in combattimento la trasmissione degli ordini, problema fino a quel momento non ancora ben risolto, perché il ponte di comando e gli strumenti per la trasmissione degli ordini sono vulnerabili anche per il fuoco di artiglierie di calibro modesto. Occorre perciò trovare una via di mezzo tra "le torri insufficientemente corazzate che per proteggere i comandanti li riducono in un bugigattolo dove non vedono più né amici né nemici'', e "l'albero del Duilio che pochi proietti di piccolo calibro possono distruggere": ciò può 6
I.E. Algranati, Considerazioni sulle nostre grandi navi, in "Rivista Marittima" 1882, llI Trime-
stre Vll - VIII Fascicolo, pp. 75-97.
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essere ottenuto prevedendo più stazioni di comando protette e raddoppiando gli strumenti per la trasmissione degli ordini. Per ultimo I' Algranati sostiene che le nostre corazzate - e in particolare le nostre navi colossali - saranno utilissime anche nell'impiego alla spicciolata per la difesa della nostra costa, l'offesa alle città marittime nemiche, l'attacco di sorpresa ai convogli e finalmente (questo vale specie per l'Italia e il Lepanto) per la guerra di corsa come incrociatori isolati, "ovvero come centro di azione nelle grandi linee di navigazione di una flotta di incrociatori''. Queste operazioni di guerra - prevede l'Algranati - formeranno gran parte delle future nostre guerre navali, che date le loro caratteristiche non possono essere racchiuse in scherni fissi, e richiedono solo che all'autonomia delle navi corrisponda grande autonomia del comando, da affidare a un uomo esperto e ottimo conoscitore sia dei bisogni della nostra difesa, sia della situazione dell'avversario. Merita, infine, un cenno l'appendice del Cottrau al suo già noto studio Martis imperium obtinendum. 1 Come già accennato (cap. VII) il Cottrau afferma che "l'affondare una nave a colpi di cannone è una cosa immensamente meno facile di quel che s 'immagini dai non marint', giudica contradditoriamente il rostro "il più eventuale, ma essenzialmente decisivo tra gli attuali mezzi di offesa" e parla del siluro come di un'arma sempre più efficace, contro la quale la nave in movimento può difendersi solo manovrando e con le paratie stagne, e in porto con le reti parasiluri. Ma pur prendendo atto della possibilità ormai raggiunta di forare le corazze Compound con cannoni di peso moderato, scrive che sulle grandi navi mi sembra tuttavia logico il mantenere i massimi cannoni, perché in certo modo la ragione di eçsere di tali navi sta quasi esclusivamente nella potenza delle artiglierie, perché oggidì sono svaniti i dubbi chi si aveano due anni fa sulla sicurezza delle grandissime artiglierie e perché infine si risparmierebbe relativamente poco riducendo il peço dell 'armamento di un Duilio e si perderebbe il vantaggio dei grandi effetti di sfondamento e di sconquasso contro le murate fortemente corazzate. Alle piccole navi, le cui armi principali sono i siluri e il rostro, converranno meglio, invece, cannoni moderati, caricabili a mano ed a tiro celere.
Ciò non toglie che il Cottrau indichi le mitragliere e i cannoni o i cannoncini a tiro rapido come "nuovi nemici che daranno jòrse da pensare più dei cannoni da I 00 tonnellate, i quali in pratica non faranno mai più di un colpo ogni dieci minuh.,', e che sostenga la guerriglia, prevedendo (come il Bonamico) che "nella grande guerra con corazzate saremo schiacciati dai milioni delle grandi potenze navali, specialmente se non ci provvediamo di materiale atto alla guerrilla che giovi a distrarre e a dividere le forze nemiche" [ma le navi colossali sono le più adatte a quest'ultimo tipo di azione? - N.d.a_]_
7 ln "Rivista Militare Italiana" Anno XXVU -Voi. lil luglio 1882, pp. 271-279. Per i precedenti della questione delle corazze si veda, in particolare, I. Sigismondi (ingegnere capo del genio navale), l,c corazze de lle navi, in "Rivis la Marittima" 1881, In Trimestre Fascicolo TX, pp. 423 449.
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IX - Il TRAMONTO DEFINITIVO DELLE ''NAVI DI D1SUXAMEN1V MODERA.IV"
Da uno specchio da lui allegato risulta prevedibilmente una forte inferiorità numerica della flotta italiana rispetto alle flotte inglese e francese, non solo in fatto di corazzate moderne (nelle quali si nota solo il dislocamento assai superiore dei nostri Duilio, Dandolo e Italia anche rispetto alle più moderne unità inglesi e francesi) e nelle corazzate meno recenti e antiquate, ma soprattutto per gli incrociatori (nei quali noi disponiamo del solo Flavio Gioia tra gli incrociatori di tipo più recente, e di altri 5, di modesto dislocamento, tra gli incrociatori e avvisi di tipo meno recente). 11 suo giudizio sul rapporto di forze oltre ad essere contraddittorio, a fronte dell'esaltazione della superiorità delle navi colossali è perciò assolutamente pessimistico, tanto da richiedere un fortissimo incremento delle nuove costruzioni: È inutile! a me sembra proprio che nella grande guerra con corazzate saremo schiacciati dai milioni delle grandi potenze navali, specialmente se non ci provvediamo di materiale atto alla guerrilla che giovi a distrarre e a dividere lejòrze nemiche! Dagli specchi che ho esposti si vede a colpo d 'occhio che appunto di questo materiale da guerrilla abbiamo maggior difetto. Proseguiamo adunque alacremente, senza perdere un'ora le nostre grandi costruzioni. ma provvediamoci d'urgenza di torpedo-arieti , di piccoli i11crociatori, di lanciasiluri, di torpediniere. Con 6 o 7 torpedo-arieti potremo tenere in iscacco almeno una parte delle 88 corazzate (sic) del 2° e 3 ° gruppo [cioè, rispettivamente, quelli delle corazzate meno recenti e antiquate - N.d.a.] dello specchio da me compilato.
Più nel dettaglio, indica come obiettivo delle nostre costruzioni navali quello di "metterci rapidamente nel rapporto 1 a 3 o jòrse 1 a 2,5 con la potenza navale della Francia", indicando la spesa necessaria con il seguente specchio comparativo: ORGANICO che la marina francese si propone di completare nel corrente quill(Juiennio
FORZE che potremmo contrapporre
VALORE wtale approssimativo
27 corazzate di squadra 11 corazzate di stazione
7 grandi corazzate più veloci e possibilmente più potenti
147 milioni
12 guardacoste 1O incrociatori di 1• classe 16 incrociatori di 2• classe 16 esploratori
I Ofra torpedo-arieti cd incrociatori di l' classe 10 fra lanciasiluri cd incrociatori di 2• classe
16 avvisi e cannoniere 1Ograndi trasporti 56 trasporti e navi minori 60 torpediniere
Il resto del materiale che abbiamo più qualche aggiunta o trasformazione in trasporti e 50 torpediniere
TOTALI
40milioni
SPESA
che rimane a/are 80milioni almeno
20 milioni
32 milioni 20 milioni
80 milioni
IO milioni
287 milioni
142 milioni
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Ne consegue che "nel presente quinquennio" bisognerebbe spendere 28,5 milioni all'anno per nuove costruzioni, mentre ne possiamo spendere (tutto compreso) solo 17 o 18, quindi occorrerebbe un'assegnazione supplementare ili l O milioni: "non mi sembra questa una domanda infondata, perché il valore di ogni nave di ia classe è cresciuto di oltre 5 milioni di quel che prevedeva il piano organico [cioè la legge organica Brin del 1877 - N .d.a.], il che produce un disavanzo di 36 milioni circa. Venticinque altri milioni di disavanzo sono poi certamente rappresentati dall 'anticipata scomparsa dai quadri delle quattro maggiori nostre corazzate di legno ... ". La sua conclusione è che se si porta a 28,5 milioni all'anno la spesa ordinaria e straordinaria per nuove costruzioni navali si rimane nello spirito del piano organico; "ad ogni modo è bene si sappia che l'attuale bilancio non basta a farci ultimare in cinque anni le nostre grandi corazzate". Il programma da lw indicato è probabilmente condiviso anche dal Ministro Acton in carica, e una volta tanto affronta il problema finanziario. Non vi è dubbio che l'ultimazione delle 4 grandi corazzate già impostate e l'aggiunta di altre 3, con la costruzione di numerosi incrociatori, torpediniere renderebbero necessari consistenti aumenti dei fondi, che peraltro al momento appaiono poco probabili; soprattutto per questo le proposte del Cottrau sono contraddittorie. Se, infatti, in una guerra di squadra nonostante le nuove corazzate "saremo schiacciati", non sarebbe meglio concentrare le (scarse) risorse sul naviglio leggero atto alla guerriglia marittima, sulle torperuniere ecc.? Comunque, queste poche pagine in appendice sono forse più importanti del testo del celebre e già citato articolo Maris imperium obtinendum, perché richiamano l'attenzione sui problemi di bilancio e sulla necessità ili svi Iuppare in modo sostanziale il naviglio leggero, fino a quel momento gravemente sacrificato - specie dalla nostra flotta - a pro del la costruzione di nuove corazzate, che - anche questo è da sottolineare - richiederebbe un volume di risorse ben superiore a quello previsto dal piano organico del 1877.
SEZIONE II - Il dibattito del 1881 alla Camera e il naufragio definitivo delle "navi di dislocamento moderato" grazie anche a nuovi attacchi del generale Ricotti al Ministro Acton Gli avvenimenti del 1881, e in particolare il dibattito alla CameraRe l'impostazione delle tre corazzate "Ruggero di Lauria", "Francesco Morosini";
8 In merito è sempre particolarmente utile l'articolo del deputato Gian Galeazzo Maldini La questione delfe navi e il Parlamento, in "Rivista Marittima" 1881 , fil Trimestre Fase. VII-VIII, pp. 59- 113. In questa occasione il Maldini difende l' J\cton e le proprie idee e giustifica i ritardi nell'allestimento del Dandolo, dovuti nnche n incertezze neUa progettazione.
IX - IL TRAMON"IU DEFINITIVO DELLE "NAVI DI DISLOCAMEN1V MODEflÀTO"
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"Andrea Doria", avvenuta con forte ritardo rispetto ai progetti del Ministro Acton e del Parlamento (cioè, come si è visto al Capitolo VITI, il 3 agosto 1881 le prime due e il 7 gennaio 1882 l'Andrea Daria), dimostrano due fatti: che, al di là delle sue intenzioni, gli orientamenti iniziali del Ministro hanno avuto il solo risultato pratico di ritardare notevolmente la disponibilità - quanto mai urgente e necessaria - di nuove corazzate oltre alle 4 "navi colossali", e che - come si è visto - lo stesso Acton, anche se a un certo punto il Parlamento gli toglie ogni limite di spesa e di tonnellaggio, alla fin fine si dichiara disposto ad accettare senza alcuna obiezione le delibere del Comitato disegni navi, in maggioranza propenso a seguire nelle grandi linee i precedenti concetti di base che hanno portato alla scelta di artiglierie e navi colossali, nella costante speranza (tale sempre rimasta) di rimediare in tal modo alla forte inferiorità numerica delle nostre corazzate rispetto a quelle francesi, per non parlare di quelle inglesi. Da sottolineare anche che il principale protagonista della lotta contro le idee del Ministro è ancora il generale Ricotti, mentre il Saint Bon non è nemmeno deputato nella legislatura in corso e il Brio rimane per il momento de filato, forse perché è presidente del Comitato disegni navi. Le insistenze di parecchi deputati - condivise dal Ministro - sulla necessità di non perdere più tempo e di mettere subito in cantiere le due nuove nav i 3 di 1 classe programmate ormai da molto tempo, non trovano alcun sbocco pratico: all'inizio di luglio 1881 ci si trova ancora, per così dire, in altro mare. Lo stallo non dipende dal Ministro né dal Parlamento ma dal Consiglio Superiore di Marina, che dopo aver approvato il programma iniziale dell' Acton, boccia i disegni della nuova nave compilati sulla base di tale programma, che come prescritto gli sono presentati per l'approvazione dal Comitato disegni navi. Quando ha inizio il dibattito sul bilancio definitivo 1881 (3 luglio 188 1) i nuovi disegni studiati dal Comitato non sono ancora stati ultimati; nel frattempo cambiano le circostanze e i termini di riferimenti, fino a indurre lo stesso Acton ad abbandonare il suo modello iniziale di nave, visto di malocchio sia dal Consiglio Superiore che dal Comitato disegni navi.
* * * Nella seduta del 3 luglio 1881, che ha all' ordine del giorno l'approvazione del bilancio definitivo per l'anno, I' Acton è assente per malattia e viene sostituito dallo stesso Presidente del Consiglio Depretis. Il mare minaccia subito tempesta per il Ministro: prende la parola il deputato Cappelli, che illustra una sua significativa mozione (poi ritirata) con la quale " la Camera non è pienamente tranquilla sul! 'indirizzo che sotto la sua sola e p ersonale responsabilità il ministro della marineria sfa dando alla sua amministrazione, e passa ali 'ordine del giorno". A suo parere il Ministro Acton, "rassicuralo dalle splendide prove del Duilio[...] si è venuto accostando a quella grande e f econda rivoluzione navale, che fu iniziata presso di noi dagli onorevoli Saint Bon e Brin". Inoltre per il Cappelli è necessario che, risolta la questione tecnica, il Ministro
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si impegni a por fine alla grandiosa agitazione - che potrebbe degenerare in lotta- che si è diffusa tra Quadri e costruttori a causa della questione delle navi. Quando si passa a discutere il capitolo 35 sulla riproduzione del naviglio il deputato Morana propone un ordine del giorno, con il quale si aumentano di 1/10 i limiti di dislocamento per le nuove navi fissati dal suo ordine del giorno precedente del 20 dicembre, già approvato dalla Camera (cioè: fino a 11000 t circa di dislocamento e a 16-16,5 milioni di spesa). Infatti la Commissione bilancio della quale egli fa parte, dopo aver chiesto molte informazioni aveva appreso che si intendeva costruire una nave che superava le previsioni di alcune centinaia di tonnellate, e comportava un aumento di spesa di 1,3 milioni. Secondo il deputato Cavalletto l'amministrazione Acton è "una vera sventura per la marina militare italiana". Ad Acton imputa senz' altro il ritardo nel completamento del Dandolo, e ritenendo che il Parlamento non debba essere un organo tecnico con il compito di fissare dei limiti di dislocamento ecc., propone di "aumentare l'assegno" [ma di quanto? - N.d.a.) e di obbligare il Ministro a mettere in cantiere una nave con caratteristiche approvate dal Consiglio Superiore di Marina [del quale, dunque, il Ministro sarebbe un semplice esecutore? - N.d.a.]. Interviene successivamente il generale Ricotti, che al momento (fatto da sottolineare, e non frequente) è presidente della Sottocommissione del bilancio per la marina, il cui segretario è un altro generale assai noto, il Baratieri. Egli condivide la tesi del Cavalletto che "bisogna lasciare al Ministro tutta la responsabilità di mettere in cantiere due navi buone" e ricorda che negli ultimi cinque o sei mesi sono cambiati i termini di confronto, perché la Francia ha aumentato il dislocamento delle sue nuove corazzate impostate nel 1880 da 9800 a 10400 t, mentre sembra che anche l'Inghilterra intenda mettere immediatamente in cantiere una nave da 13000 t, cioè una copia perfezionata del Lepanto. A suo giudizio, se si tiene conto del progresso nelle costruzioni navali, la Francia ha messo in cantiere 4 navi superiori al Duilio e l'Inghilterra ci sta copiando l'Italia; invece noi con le navi Acton stavamo per copiare le navi che la Francia e l' Inghilterra costruivano due o tre anni fa. Aggiunti agli splendidi risultati delle prove del Duilio, che non erano noti nel dibattito del dicembre 1880, questi fatti (sempre secondo il Ricotti) hanno indotto lo stesso Ministro Acton a cambiare strada e ad abbandonare il suo tipo di nave iniziale; "questo mio apprezzamento lo deduco dalle comunicazioni stesse fatte dall'onorevole Ministro della marina alla Commissione generale del bilancio". Quanto afferma il Ricotti risponde a verità: lo dimostrano le due lettere rispettivamente in data 8 giugno 1881 e 22 giugno 1881, che qui riproduciamo integralmente, e che costituiscono allegato n. 5 e n. 6 alla "Relazione della Commissione generale del bilancio sul bilancio definitivo di previsione della spesa del Ministero della marina per l 'anno 1881", presentata nella seduta del 25 giugno 1881.9
• Atti della Camera 1881 - Documenti, Documento n. 183/A.
IX - IL TRAMONTO DEFINITIVO DELLE "NAVI DI DISLOCAMENTO MODERA.IV"
MJNJSTERO DELLA MARJNA DIREZIONE GENERALE Progetto di nave di prima classe Roma, addì 8 giugno 1881 A.S.E. il Presidente della Camera dei deputati fl Comitato pei disegni delle navi nella sua seduta del 27 aprile prossimo passato esaminò il progetto di nave da guerra di prima classe che per sua delegazione era stato studiato da uno dei membri sulla base del programma trasmessogli il 7 novembre dell'anno scorso, programma approvato dal Consiglio superiore. Risultato dell'esame fu l'approvazione del progetto, perché esso soddisfaceva le condizioni stabilite ed era stato studiato e compilato in modo commendevole. li presidente del Comitato suddetto nel trasmettere il parere di quel Consesso, dichiarava che il progetto di nuova nave corrispondeva perfettamente ai vari punti del programma, sia sotto il rapporto nautico, che quello militare. Nondimeno allegato al parere del Comitato eravi una memoria del presidente [il Brin - N.d.a.] con la quale proponeva che in luogo della corazzatura adottata pel tipo Italia, ed implicitame11te i11dic:uta nel programma, si applicasse alla nuova nave la corazzatura parziale dei.fianchi del tipo Duilio. Sebbene in seguito della deliberazione del Comitato io avrei potuto compiere i necessari atti e presentare i pareri tecnici sulprogetto già studiato, giudicai che le proposte fatte meritassero considerazioni, anche per deferenza verso chi le suggeriva. Queste proposte non alterano se non in un punto le condizioni generali del programma, cioè sotto l'aspetto del sistema di protezione da adottarsi. In.fine, con lieve aumento nello spostamento della nave da quello stabilito nel progetto già approvato dal Comitato esse darebbero protezione eguale a quella del Duilio, ed in qualche punto superiore, e la nave sarebbe superiore al Duilio per la potenza del/ 'armamento e per la velocità. Per queste ragioni dal 1° del corrente mese ho ordinato al Comitato di intraprendere lo studio di questa modifìcazione, che non richiedendo di rifare lutti gli studi già fatti può compiersi in brevissimo tempo, e così mi riuscirà possibile provocare sul progetto completo il parere del Consiglio superiore.
li ministro F.ACTON
MINTSTERO DELLA MARTNA DJREZ/ONE GENERALE Progetto di nave di prima classe Roma, addì 22 giugno 1881 A.S.E. il Presidente della Camera dei deputati La spesa per la nave secondo il progetto compilato dall'ispettore Miche/i e giudicato dal Comitato risulta chiaramente dall 'allegato B compreso nel-
la relazione del presidente detta di sopra. Secondo il computo dell'ispettore
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Miche/i sarebbe stata, comprendendovi però anche le armi subacquee, di lire italiane 15,791,460 e di lire italiane I 6,300,000 secondo il Comitato. Ma deve essere sottratto dal computo il costo delle armi subacquee che sono munizioni consumabili e per conseguenza non debbono entrare nella valutazione della nave ancorché completamente allestita e fornita di tutte le sue parti di completamento speciali. inoltre deve considerarsi quasi come certo che è possibile ottenere considerevoli ribassi sui prezzi dell'apparato motore e delle artiglierie. Infine deve porsi mente al fatto che la massima parte dei materiali che entrano nella composizione della nave e molta parte degli oggetti di completamento, oltre l'apparato motore e le artiglierie, provengono dall 'estero e che per conseguenza la spesa pel loro acquisto può essere considerevolmente inferiore, per la quasi totale soppressione dell'aggio sull'oro, a quello che per gli analoghi oggetti si è sostenuto, proporzionalmente,jìnora. Per queste ragioni io sono fermamente convinto che il costo della nave secondo il progetto dell 'ispettore Miche/i sarebbe ora al/ 'incirca 15 milioni, ovvero supererebbe soltanto di poco questa somma. Diverrebbe poi molto inferiore se si sottraesse la spesa per le artiglierie seguendo l 'esempio delle principali marine militari Senonché essendo stato deciso di studiare il progetto della nuova nave di I° classe adottando un altro sistema di corazzatura, non sembrami opportuno entrare nei particolari relativi alla riduzione di spese suddette, riserbandomi di farlo pel progetto modificato e limitandomi ad esprimere ora la mia ferma convinzione che anche con la modificazione che ora si sta studiando riuscirà possibile mantenere la spesa nei limiti più sopra indicati. li ministro
FACTON
Pertanto a fine giugno 1881 le nuove navi devono essere ancora impostate, sì che nell'Allegato 7 alla predetta "Relazione sul bilancio definitivo 1881" esse non figurano affatto; comunque dichiarandosi fin da quel momento disposto ad accettare "anche per deferenza" la proposta del presidente del Comitato disegni navi (cioè del Brin), l'Acton implicitamente accetta un ulteriore aumento (al momento non ancora precisato) del dislocamento delle nuove navi sia pur senza aumento del costo, e inoltre dimostra di non voler "rompere" con il Brin. Prevedibilmente la necessità di aumentare il dislocamento viene sostenuta in modo chiaro e diretto dallo stesso Ricotti, che sempre nella tornata del 3 luglio 1881 osserva che se il Ministro Acton si fosse attenuto strettamente ai limiti fissati dal primo ordine del giorno Morana nel bilancio di previsione per il 1881 (10.000 t di dislocamento e 15 milioni di spesa), avrebbe messo in cantiere due corazzate scadenti e certamente inferiori a quelle che entreranno in servizio nelle marine francese e inglese fra 5 o 6 anni; pertanto si dichiara favorevole alla proposta del Morana di aumentarne i I dislocamento fino a 11000 t, con le quali tenendo conto dei progressi delle costruzioni navali si può ottenere una corazzata superiore al Duilio. Ciò non toglie che "il mio ideale per la nunva r.nrazzata da costruirsi non è il Duilio, bensì il tipo Italia"; ma per fare
IX - lL TRAMONTO DEl'INITIVO DELL E "NAYI DI DISLOCAMENTO M ODERATO"
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questo l'onorevole Morana dovrebbe modificare ancora il suo ordine del giorno togliendo ogni limite al dislocamento, perché non è possibile realizzare una nuova corazzata simile all'Italia senza raggiungere le 12-13000 t. Infine il Ricotti condivide le critiche ai ritardi nell'allestimento del Dandolo, come a suo parere è dimostrato anche dalla situazione dei residui passivi e in particolare dalle spese del 1880, che sono state di 3.500.000 di lire inferiori a quelle dell'anno precedente. 11 Presidente del Consiglio Dcpretis nega che ci siano stati ritardi nell'allestimento del Dandolo, tant'è vero che nel 1880 e nei primi mesi del 1881 vi ha lavorato un numero di operai maggiore di quelli impiegati per ultimare i lavori al Duilio; circa i residui passivi, osserva che essi sono un vecchio inconveniente di tutta l'amministrazione dello Stato, dell'esercito e non solo di quella della marina. Infine per il raddobbo della Venezia - ritenuto utile da alcuni - sarebbe stato necessario sostituire il legno fradicio dello scafo, con una forte spesa che non è stata ritenuta conveniente 10 [ da osservare, comunque, che le marine inglese e francese, dati i loro obblighi coloniali, mantenevano in servizio navi antiquate quanto la Venezia e anche di più - N .d.a.]. Secondo il relatore del bilancio Botta non è vero che, come a1Terma il Ricotti, la Francia e l 'Jnghiltcrra ci stanno sopravanzando nelle nuove costruzioni. Su 26 corazzate la Francia ne ha solo due di 11.441 t (Baudin e Formidable) e una di 10.846 t, mentre il dislocamento delle nuove navi francesi in costruzione, che non avrebbero dovuto superare le 9864 l, è stato elevato a l 0500 t. Su 58 corazzate l' Inghilterra ne ha appena due di 11500 te tre di 10360 t; è vero che in Inghilterra si sta studiando una nave da 13000 t, ma si è ancora, appunto, al livello di studi e discussioni, mentre è certo che l'Ammiragliato inglese propone per i I momento una nuova nave con sole 7800 t di dislocamento e I 6 miglia di velocità. E dopo essersi dichiarato moderatamente ottimista sulle possibilità della nostra flotta, il Botta precisa che la Commissione non intende porre limiti alle qualità nautiche e militari della nuova nave da costruire. Dopo l' intervento dell ' onorevole Crispi favorevole a non menomare la responsabilità dei Ministri con interventi nel campo tecnico, la Camera approva un nuovo ordine del giorno dell 'onorevole Morana, che ritira il precedente ordine del giorno nel quale si fissavano ancora i limiti di dislocamento delle navi da costruire, lasciando quindi libero il Ministro di impostare le navi con le caratteristiche che ritiene più opportune. In effetti l 'Acton in un primo momento sembra ignorare le pressioni del Ricotti e del Brin per un aumento del dislocamento, facendo impostare subito dopo il predetto dibattito del 3 luglio 1881 le due corazzate Ruggero di Lauria e Francesco Morosini, per le quali l'allegato n. 4 (in data 1O novembre 1881) dello "Stato di prima previsione della spesa
'" La Venezia era una fregata corazzata a vapore con vele ausiliarie e corazza applicata allo scafo in legno, armamento principale 5 cannoni da 250 mm e 12 da 200 mm, dislocamento 6250 l, velocità 13 nodi, impostato nel fcbbr.sio 1863, entrala iu st:rvi:i:io il 1° aprile 1873, radiala il 24 febbraio l !S95.
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per il Ministro della Marina per il 1882" riporta le seguenti caratteristiche, senza precisarne l'annamento e il costo; dislocamento 10000 t, massimo spessore della corazza 45 cm, forza della macchina 10000 HP, lunghezza 100 m, larghezza massima 19,86 m, immersione 7,65 m. 11 Evidentemente si tratta di caratteristiche di massima, provvisorie e destinate ad aumentare di molto, visto che, come si è visto, il dislocamento finale delle tre Ruggero di Lauria aumenterà a ben 12000 te il pescaggio a 8,70 m, mentre l'armamento (4 cannoni da 431 mm, cioè di circa 100 te più numeroso armamento minore) contribuirà anch'esso ad aumentarne il dislocamento, senza tener conto dell'iniziale orientamento dell' Acton ad imbarcare artiglierie principali da 76 t. Si deve comunque notare che rispetto ai dati indicati nello stesso Allegato 4 per le 3 navi colossali al momento ancora in allestimento o in costruzione (il Duilio è già entrato in servizio): - il dislocamento delle due nuove navi è inferiore di circa 4000 t rispetto a quello dell'Italia e del Lepanto, e di circa 2000 t rispetto al Dandolo; - il massimo spessore della corazza è inferiore di 3 cm rispetto a quello dell'Italia (solo ridotto) e del Lepanto, e di circa 10 cm rispetto a quello del Dandolo; - la lunghezza è inferiore di 22 m rispetto a quella dell'Italia e del Lepanto, e di 3,50 m rispetto al Dandolo; - la larghezza è più o meno uguale a quella del Dandolo, ma inferiore di circa 3 cm a quella dell'Italia e del Lepanto; - la ''jòrza della macchina" è inferiore di 8000 HP nominali a quella del1'Italia e del Lepanto, ma superiore di 2500 a quella del Dandolo; - il pescaggio è inferiore di quasi un metro a quello delle predette tre navi colossali. Questi dati fanno pensare che, al momento, nemmeno per le tre navi colossali alle quali ancora si sta lavorando possono essere definite con certezza tutte le caratteristiche, mentre per quelle delle due corazzate impostate da pochissimo tempo i numeri sono da considerarsi indicativi.
* * * La successiva discussione del bilancio di prima previsione della marina per il 1882 (28-29 novembre 1881) è caratterizzata da un nuovo, lungo intervento del generale Ricotti, il quale dimostra più che mai una competenza e una completezza d'infonnazione veramente eccezionali per un generale dell'esercito, fino a rimanere un episodio unico sulla storia del Parlamento. Nella tornata del 28 novembre il Ricotti esordisce con un'utile ricostruzione degli intricati precedenti della situazione del momento, i quali di per sé
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Atti della Camera - Documenti 1881, Documento n. 236.
IX - IL TRAMONTO DEFINITIVO DELLE "NAVI DI DISLOCAMENT'O MODERATO"
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dimostrano i dannosi contrasti all'interno stesso della marina, con pregiudizio del suo potenziamento. In breve, secondo il Ricotti: - l'anno precedente (1880) la Camera ha iscritto in bilancio due nuove navi corazzate senza disporre di alcun dato definitivo su di esse, ma basandosi unicamente "sopra ipotesi, sopra dichiarazioni fàtte dal Ministro" che non tutte si sono avverate; - al momento il Ministro intende mettere in cantiere una terza nave, per la quale ha dichiarato che semplicemente riproduce le caratteristiche delle due già approvate; - all'inizio del 1880, poco dopo aver assunto la carica di Ministro, I' Acton ha indicato nel programma sul quale si è basato il cosiddetto "Plebiscito navale" una nave tipo Italia [specie per la corazzatura - N.d.a.] con dislocamento di 7500 t, 7,30 mdi immersione, 15 miglia di velocità ecosto 13 milioni (è la nave con soli 2 cannoni da 100 talla quale si è già accennato - N.d.a.]; - dopo il plebiscito ha sottoposto il programma - con qualche modifica al Consiglio Superiore della Marina, che nell'ottobre 1880 ha indicato le seguenti caratteristiche, messe alla base del bilancio di previsione per il 1881: tipo Italia, pescagione 7,50 m invece di 7,30, velocità 16 miglia alle prove; - la Commissione per il bilancio non ha accettato il programma Acton perché privo del prescritto parere dei corpi tecnici [ come si è visto ne era privo solo in parte, e precisamente era priva solo del parere del Comitato disegno navi - N.d.a.]; - tuttavia la Camera con l'ordine del giorno Morana ha accettato ugualmente la costruzione delle due navi; - nel dibattito che ha preceduto tale ordine del giorno il Ministro ha indicato per la "sua" nave dati rapidamente crescenti, e dopo aver voluto dimostrare che essa costava la metà di ciascuna delle navi colossali, ha indicato per il suo costo non più 13 ma 15 milioni, e per il dislocamento non più 7500 ma 9000 t; - l'ordine del giorno Morana di fine 1880 ha recepito le ultime indicazioni del Ministro, aumentando solo il dislocamento a I OOOOt; - nell'aprile 1881 il Comitato per il disegno delle navi ha trasmesso al Ministro il disegno della nuova nave progettata dall' Ispettore del genio navale Micheli, che aveva dislocamento 9200 t, pescagione 7,50 m, velocità 16 miglia e due cannoni da 100 t. Tuttavia nel trasmettere al Ministro questo progetto che si atteneva alle sue indicazioni, il presidente (Brin) e l'ispettore del genio navale Bozzoni "dimostravano che essa era una nave impossibile[... ] una nave tipo Italia senza vita e senzajòrza"; si trattava perciò, secondo il Ricotti, di "una caricatura" dell'Italia; - in data 8 maggio 1881 il Ministro ha accettato la proposta del presidente e del Bozzoni, disponendo con lettera di qualche giorno dopo che il Comitato disegni navi modificasse il progetto precedente "ammettendo
ora la corazzatura verticale per una parte della lunghezza della nave al
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galleggiamento" senza pregiudizio per i restanti requisiti della nave (il che significava, per il Ricotti, passare dal tipo Italia al tipo Duilio); - il 27 maggio 1881 il Comitato disegni navi informava il Ministro che il disegno della nuova nave era basato su una corazzatura Compound di 50 cm al galleggiamento, anche se il presidente [Brin] ne avrebbe voluti 55; - tutti i componenti del Comitato disegni navi erano d'accordo per 4 cannoni anziché 2; due membri li volevano da 52 t, gli altri due da 100 t. Il Ministro invece ha prescritto il cannone da 76 t, cioè una via di mezzo; - sempre in tale ultimo progetto la pescagione aumentava da 7,50 a 7,65 m, mentre per la corazzatura al galleggiamento "furono imposti dal Ministro" 45 cm, anche se il Comitato avrebbe voluto 50 o 55 cm; - il 3 luglio 1881 la l 4Camera ha votato il bilancio definitivo 188 l che non prevede limiti di dislocamento e di spesa. Dopo aver riassunto questi precedenti ed essersi ironicamente rallegrato con il Ministro, "il quale partendo da un tipo Ttalia è venuto ad approvare il modello del Duilio, nel quale non aveva mai dimostrato una grandefìducia", il Ricotti passa agli eventi che più direttamente riguardano la situazione del momento, ricordando che nel mese di luglio 1881 il Comitato ha ricompilato il progetto (a cura del Micheli) secondo le ultime indicazioni del Ministro, e riferendo che per non scontentarlo il Comitato ha previsto due linee di galleggiamento: una normale con immersione di 7,65 me 10000 t, e una detta "di combattimento" con immersione di 7,85 e 10320 t; quest'ultima soluzione sarebbe quella preferita dal Comitato disegni navi, con 320 t in più per compensare in corso d'opera i difetti della nave da 10000 t, come la corazza e i I cannone troppo deboli. La spesa corrispondente secondo il Comitato aumenterebbe a 18.700.000 lire. In tal modo, osserva il Ricotti, "per risparmiare 400 o 500 tonnellate nello spostamento e 600 o 800.000 lire nella spesa, noifàremo delle navi che saranno forate dal cannone di tutte le navi francesi"; tant'è vero che nel trasmettere al Ministro il progetto il Presidente del Comitato (Brin) ha insistito sulla necessità di portare lo spessore della corazza a 50 o meglio a 55 cm come si è fatto nelle navi francesi in costruzione, aumentando il dislocamento fino a 10.800 t. Lo stesso presidente indicava inoltre nel tipo Italia (e non più nel tipo Duilio fino a quel momento preferito dal Ministro) quello più conveniente per le future costruzioni italiane. Le delibere del Comitato - prosegue il Ricotti - sono state trasmesse dal Ministro Acton al Consiglio Superiore Marina con lettera in data 19 luglio 1881, nella quale anticipa lui stesso i giudizi sulle questioni che il comitato avrebbe dovuto esaminare. Egli aggiunge che per i cannoni principali, il Ministro Acton ha tagliato corto osservando che il limite di 76 t da lui indicato è già abbastanza elevato, né vi è probabilità che sia sorpassato [l'avvenire gli darà ragione - N.d.a.], mentre per la corazza ha comunicato di aver deciso uno spessore di 45 cm, che naturalmente anch ' egli giudica insufficiente; infine, per la pescagione ha annunciato di aver stabilito un limite di 7 ,65 cm, di soli 15 cm superiore a quello indicato nel programma.
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11 Ricotti chiude il suo lungo intervento del 28 novembre ricordando che il Consiglio Superiore di Marina, rafforzato dagli ammiragli Piola e Di Suni [quest'ultimo, come si è visto, era un sostenitore delle navi di tonnellaggio moderato - N.d.a.] ha approvato a maggioranza i disegni della nuova nave compilati secondo le indicazioni che "gli sono state imposte" dal Ministro, e prevede (a ragione) che prima del compimento dei lavori il Ministro si convincerà a sfruttare il margine di maggior immersione lasciato dal Comitato aumentando lo spessore delle corazze e il peso dei cannoni, e in tal modo ottenendo navi che avranno difficoltà maggiori a passare il canale di Suez, ma in compenso disporranno di più capacità offensiva e difensiva, e data la loro facilità di manovra potranno passare più facilmente lo stretto di Messina e le Bocche di San Bonifacio anche in presenza della flotta nemica, che è quel che importa di più. Tn proposito si deve anche considerare che nel dicembre t 880 il Duilio non aveva ancora compiuto le prove e aveva avuto lo scoppio di un cannone, mentre al momento (diversamente da quelle dell 'lriflexible inglese penalizzato dalla scarsa pescagione) tali prove sono tutte felicemente riuscite. Egli invita, perciò, a costruire le due nuove navi sul tipo del Duilio e con dislocamento di 10.800 t, mentre per la terza in programma si dovrcbhc riprendere il tipo Italia con dislocamento di 12000 te pescagione inferiore ai 9 metri; in tal modo con il Duilio, il Dandolo e le due nuove corazzate del loro stesso tipo, più una del tipo Italia e un'altra da impostare nel 1884, "noi potremo avere prima del 1890 una seconda quadriglia di navi velocissime, potentissime, autonome, che sia isolate che riunite, potranno ~:fidare tutte le squadre nemiche.formate con navi quali le costruisce oggi la Francia e l 'Inghilterra" [anche nonostante la loro forte superiorità numerica? - N.d.a.]. Invece il ritorno all'antico sistema di copiare semplicemente le navi francesi e inglesi, significherebbe la rinuncia a qualsiasi efficace difesa delle nostre coste.
* * * Nella tornata del 28 novembre 1881 era venuto alla luce un dissidio mal dissimulato e abbastanza prevedibile tra il punto di vista dell'Acton e quello del Comitato disegno navi, presieduto proprio dal più prestigioso avversario delle navi di tonnellaggio moderato, quale era il Brin; molto probabilmente anche in questo caso il Ricotti si fa portavoce, del vecchio amico, senza che nello stesso giorno 28 vi sia una replica dell' Acton. Il Ministro interviene proprio il 29 novembre 1881 , dopo che il relatore del bilancio per il 1882 onorevole Botta era ancora una volta intervenuto a suo favore, confutando i dati citati dal Ricotti sulle costruzioni navali straniere e constatando troppo salomonicamente che "tra il ministro della marina e il deputato Ricotti in fatto di corazze da applicare alle navi da battaglia di prima classe non c'è che la diffe renza di pochi centimetri, ed in fatto di dislocamento, la diflèrenza di qualche centinaio di tonnellate in meno". A questo punto, data la sua importanza vale la pena di riportare integralmente la replica dell 'Acton:
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Mi studierò di rispondere brevemente, ma quanto più chiaramente saprò, a tutte queste accuse. La proposta d'una nuova nave tipo Italia, a dimensioni ridotte, non è nuova, fu da me fatta, approvata dal Consiglio superiore di marina e proposta al presidente del comitato dei disegni, onorevole Brin, che mi rispose con queste parole: "Il problema posto innanzi è, secondo il mio debole avviso, molto difficile, forse sarebbe il caso di fare appello a tutte le intelligenze della marina, mettendo tale studio a concorso fra un certo numero di ingegneri". Dopo sei mesi da questa lettera, cioè dopo maturo studio, il comitato mi trasmise il verbale dell'esame fatto sui disegni dell'egregio ispettore Micheli, e mi scrisse queste parole: "ln conclusione a parere del comitato il progetto per le nuove navi è stato redatto con molta cura, e risolve in modo lodevolissimo, che fa onore al suo autore, l'importante quesito posto nel programma. A parere del comitato lanave rappresentata da questo progetto corrisponde, sia sotto il rapporto nautico, sia sotto, quello militare, alle varie condizioni stabilite nel programma che servì di base al suo studio". In quanto alla corazzatura, una memoria del comitato stesso mi awertiva che il galleggiamento e gli apparati motori e gli organi importanti della nave non sarebbero stati s~fficientemente difesi adottandosi la corazzatura orizzontale al disotto della linea d'acqua ed il sistema cellulare superiormente, come s'era fatto per l'Jtalia e per la Lepanto; e mi proponeva di ritornare alla corazzatura alla linea d'acqua e sui fianchi, come si era fatto per il Duilio. Presi in seria considerazione queste osservazioni del comitato. Mostrai con ciò di voler essere deferente al parere di persone competenti che avevan dato prova del loro valore in fatto d'ingegneria navale. E, tenendo conto che le corazze Compound offrono una resistenza fra¼ ed 115 superiore alle corazze comuni, che ciò permette una riduzione nello spessore delle corazze; che si è aumentato il calibro delle mitragliatrici e dei cannoni revolver, e che con queste armi si può in brevissimo tempo lanciare una pioggia di proietti esplodenti che traverserebbero fortissime lamiere, io invitai il comitato [disegni navi] a fare il progetto della nave con corazzatura al galleggiamento e sui fianchi, attenendosi però alle condizioni di velocità ed immersione ottenute col primo progetto, dopo di ciò venne il disegno della nuova nave, pel quale debbo dar lode all'egregio ingegnere Miche/i, e che assicura una velocità di 16 miglia e permette il peso di potentissime artiglierie. Divisi i pareri nel comitato intorno allo spessore della corazza di questa nave, io opinai sufficiente lo spessore di 45 centimetri, che l'onorevole Ricotti giudica insufficiente. L 'onorevole Ricotti ha pronunziato unafrase molto recisa, quando ha detto che tutti i cannoni del mondo potranno forare le corazze della nuova nave. Ed io posso molto recisamente rispondergli che nessun cannone esistente nelle marine estere, e potrei aggiungere che nessun cannone in costruzione all'estero, può forare le corazze di nuovo sistema di 45 centimetri. In prova di ciò mi basta citare il fatto ormai accertato che la Francia e /'Inghilterra, dopo aver adottato corazze di 50, di 55 efìn di 61 centimetri (ma queste in due spessori), sono da due anni in qua tornate al limite di 45 centimetri.
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Non voglio indagare se ciò sia perché /'industria si suppone non abbia ancor mezzi sufficienti a produrre così buone le corazze oltre i 45 centimetri da far guadagnare dawero tanto in forza difensiva quanto l'aumento dello spessore farebbe sperare; o se ciò sia perché si reputa dover contrapporre la difesa al/ 'ojfesa e non eccedere nelle corazze quando ciò non pare assolutamente necessario; ma i/fatto è quello che ho detto. Le sei corazzate inglesi e le quattro nuove francesi che sono ancora in costruzione hanno corazze di 45 centimetri al galleggiamento e di 40 a 30 al ridotto e alle torri. Certamente non potrebbe essere così recisa la risposta, se si volesse provvedere alla difesa contro i cannoni dell'avvenire. Questi, se si dovessero giudicare da quel che si sta facendo in questo momento. saranno più piccoli dei presenti, benché di egual potenza. La Francia iefatti non solo ha messo da banda i cannoni da 100 tonnellate, ma anche quelli da 76, e il massimo cannone francese che è allo studio, sembra sia quello di 59 tonnellate. Ed in Inghilterra è prevalsa la corrente che non vuol pirì sulle navi i cannoni che abbiano un peso maggiore di 43 tonnellate. Per le artiglierie dunque, come per ogni altro mezzo di offesa, la marina italiana è e rimarrà alla testa. lo stesso che do tanta importanza al non accrescere senza necessità le moli delle navi. e che per le corazze mi sono jìnora mantenuto avaro, io stesso ho voluto che le nuove navi fossero fatte per portare cannoni da 76 tonnellate. E aggiungo che, se all'estero si tornasse ad andare in su, non esiterei a tornare al peso di 100 tonnellate [come poi è avvenuto - N.d.a.]. E le nuove navi sono preparate a queste eventualità. Per ora i cannoni di maggior mole e potenza, in costruzione, sono quelli da 100 della nostra nave Italia. Ma nessuna nave estera ha, né accenna ad avere, cannoni da 100. E a questi cannoni, ai quali nessuno dei cannoni esteri nemmeno si approssima, volete sapere come resisterebbero le nuove corazze da 45 centimetri? Ve lo dirò con le parole de/l'autore del disegno del Duilio,presidente del nostro Comitato pei disegni delle navi [cioè il Brin - N.d.a.]. Egli in una recente relazione (27 luglio 1881) così si esprime: "Ora è facile assicurnrsi che i cannoni da 100 tonnellate quand'anche si ottenga con essi l'elevata velocità nel proietto da 600 metri per I", alla distanza di combattimento di I 000 yarde (914 metri) foreranno ancora le corazze compound di 53 centimetri quando si colpiscano normalmente, ma saranno impotenti a forare le corazze di 50 e di 40 centimetri compound, quando le colpiscano con angoli d'incidenza possibilissimi non solo, ma usuali nel combattimento". Ed aggiungerò a queste parole qualche mia osservazione. 1progressi nellafabbricazione delle corazze vanno di paripasso con quelli delle artiglierie. Ho qui su questa tavola i risultati delle prove fatte ultimamente in Francia contro corazze di 45 centimetri di nuovo sistema. Orbene, sapete quanti proietti/i dei massimi cannoni attuali delle due massime corazzate francesi in mare sono penetrati nella corazza di nuovo sistema? Appena 8 a 15 centimetri. Secondo ogni probabilità, le corazze delle nostre nuove navi saranno dunque impenetrabili anche ai massimi cannoni esteri che possiamo in un awenire trovarci a ftmite.
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E mi sembrerebbe p erciò cosa imprudentissima il decretare ora per le nuove navi una maggiore immersione pel gusto di dire che lo spessore delle loro corazze sarà maggiore di quello delle nuove corazzate inglesi o francesi. Andiamo adagio con lo spessore delle corazze. Pensiamo anzitutto, che al di là di un certo spessore (forse precisamente lo spessore di 45 centimetri) non si può essere tanto sicuri della loro buona fabbricazione. Ricordiamo che disgraziatamente la perforazione del ridotto o della cintura delle corazzate non è la sola né la più temibile delle avarie. Ed irifìne consideriamo che, se le marine estere mostrano non temere i nostri cannoni da 76 e da 100 tonnellate, e di affidarsi contro essi, alla difesa con corazze di 45 centimetri, sarebbe strano che noi temessimo per le nostre corazze da 45 centimetri i loro cannoni di 60 e 43 tonnellate (Vivi segni di attenzione e movimenti). Del resto, e /'onorevole Ricotti ve lo ha detto, non è urgente il risolvere la questione delle corazze. lo confìdo che non sia necessario l'aumentarle, ma avendo 18 mesi almeno di tempo utile per poter risolvere quella questione, noi seguiremo tutti, Camera e Governo, con diligenza e con interesse, i progressi delle artiglierie, gli esempi delle nazioni estere, ed i progressi che l'industria privata fa ogni giorno nella fabbricazione delle corazze. Nel disegno delle nuove navi, voi lo vedete e l'onorevole Ricotti ve lo ha detto egli stesso, vi è margine per aumento di peso nelle artiglierie e nelle corazze. Siamo dunque sicuri di poter provvedere a qualche ingrata sorpresa che ci riservasse un prossimo avvenire, né io possono fare oggi un 'affermazione r.he potrebbe non essere modificata dai progressi del domani. Ma io, da marinaio, ve lo confesso, mi auguro che non si dehba oltrepassare l'immersione normale prevista per la nuova nave. Me lo auguro, non lo impongo, perché, innanzi tutto, bisogna adattarsi al progresso della difesa e dei mezzi offensivi. Venti centimetri di meno d'immersione potranno forse mettervi in grado di compiere un 'operazione ed a riportare un buon successo molto più probabilmente che qualche centimetro di più di corazza finché questo non sia necessario. inoltre, più noi renderemo pesanti le nostre navi, e minore margine resterà per la cosiddetta dotazione suppletiva di carbone, mercè la quale una di queste nuove navi potrà acquistare, quando occorresse, grandissima autonomia. i n conclusione, signori, io ho modificato il mio programma in un punto essenziale. È vero! Ho accettato, cioè, il ritorno al corazzamento sui fianchi, tipo Duilio, con tutte le sue conseguenze. Né mi opporrei, dopo ciò, ad un ulteriore aumento nella mole della nave, se non temessi che in tal caso i vantaggi potessero essere controbilanciati da inconvenienti. lo, mentre riconosco la necessità della grande potenza delle forti difese e della massima velocità, mi rendo anche conto di ciò che sia immersione ed eccesso di mole non utile. E debbo anche pensare che ogni milione risparmiato, senza indebolire le navi di prima classe, può dare alla nazione cinque torpediniere, e che le torpediniere in gran numero potranno esserci utilissime in momenti solenni. la questione delle navi non è stata dibattuta indarno, poiché si è giunti ad avere tre nuovi Duilii che, usufruendo tutti i prugressi delle industrie, so-
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stituendo l 'acciaio al ferro nello scafo, le corazze di nuovo sistema alle antiche, le artiglierie più progredite a quelle che si aveva prima, o adottando tutte le utili innovazioni portate alle macchine, hanno maggior velocità, minore immersione, maggior forza offensiva e maggior difesa contro le torpedini. spendendo per ogni nave da tre a quattro milioni di lire meno di quello che costerebbe un vecchio Duilio. Rallegriamoci di questi progressi, e non cerchiamo di demolire oggi quel tipo, che fino a un 'ora innanzi è stato ammirato. Mi permetta la Camera di aprirle tutto l'animo mio. Due volte sono stato messo, dacché mi onoro di essere ministro della marina. a dolorosa prova. Quando vidi fraintese le mie parole, quando invano protestava che io sarei fiero di poter comandare il Duilio, quando malgrado queste mie proteste. si diceva che io volessi togliere ogni valore nautico e militare a questa nave: ed ora che, non potendomisi più fare quel/ 'accusa, vedo che si tenta .1·ce11111re la fiducia del paese e dell'armata nel tipo Duilio, sol perché io l'ho adollato e prescelto per le nostre navi dir classe, e quando vedo tutto ciò, è ben ~i11stificato il mio dolore. A mio giudizio, tutti i tipi son buoni quando hanno }orti condizioni offensive, tutti son migliori quando oltre questo, hanno.forti condizioni dife nsive: né v'è cattiva nave quando sia valorosamente comandata. (Bene! Bravo!) Un 1talia di i 2.000 tonnellate, come la propone l'onorevole Ricolti. può anch'essa essere un 'ottima nave, ma era prudenza ed è pnulenza / 'adollare questo tipo prima che l 'esperienza gli desse il trionfo'! Come ho ~iudicato alla prova il Duilio, così perché si tratta di spendere molti milioni dei contribuenti, aspetto, e con molta.fiducia, di giudicare /1talia alla prova. intanto abbiamo bisogno urgente di navi. I/ tipo Italia a dimensioni ridotte è dichiarato dal comitato dei disegni, presieduto dall'onorevole Brin, cui io lo proponeva, prima che l'onorevole Ricotti lo proponesse qui dentro, un problema tanto difficile da dover esser messo a concorso fra tutte le intelligenze italiane. E il bisogno, ripeto, è URGENTE. il tipo Duilio ha dati buoni risultati; in esso la nazione e la regia marina mostrano aver grande fiducia, esso rappresenta un risultato sicuro, già ottenuto. Ho fatto male ad adottarlo'! Non ho mostrato con ciò che io studiavo e studio in piena buona fede la questione delle navi? Potrei, se amassifar politica, ritorcere oggi contro/ 'onorevole Ricotti gli argomenti da lui altra volta addotti contro me pel concetto di ridurre le dimensioni dei nuovi tipi. Ma io non potrei far ciò con animo sincero, perché io credo che anche /1talia, a dimensioni ridotte può essere una buona nave, e la accetterò appena i corpi tecnici crederanno meno difficile il problema, e rammenterei in tal caso con piacere d'aver io provocata una tale proposta. Ma finora i Consigli competenti non mi hanno proposto che tipi Duilio. E l'aver già quattro di queste navi, non può far parere superflua la quinta, quando l'onorevole Ricotti medesimo dice che la Francia potrà contrapporcene otto. Ed ora mi permettano due parole per fatto personale. L 'onorevole Ricotti, dopo aver luminosamente dimostrato che io, p er ossequio ai consigli degli uomini tecnici, e per seguire il progresso dei tempi, ho fatto una larga evoluzione, e dalla nave di 7500 tonnellate, sono arrivato a
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quella di 10.000, conchiude che io traggo consiglio da me solo, e che non odo i suggerimenti di alcuna persona competente.
O sono errate le premesse, o è inesatta la conseguenza? E poiché le premesse sono fatti innegabili, la conseguenza non può essere vera. E per fermo, contro il fatto eloquentissimo del tipo da me accolto, l 'onorevole Ricotti non può addurre che una frase d'una mia lettera del 29 luglio
1881. Non leggo intera la lettera per non infastidire la Camera, ma mi si permetta eh 'io legga almeno i periodi in cui quella frase è contenuta. Dopo aver rammentato al Consiglio superiore il programma che esso aveva stabilito, e dopo avergli riferito il progetto, io scriveva: "Era stato adottato il sistema di protezione del tipo ltalia per la nuova nave. Invece l'ispettore generale Brin ed il direttore Bozzoni, giudicarono che fosse preferibile, nel caso delle navi in progetto, il sistema di corazzamento sui fianchi e sui parapetti trasversali. "Considerato che il programma del Consiglio superiore di marina sarebbe rispettato, tanto adottando il sistema <li protezione con corazzatura orizzontale, quanto attendendosi a quello con corazzatura verticale dei fianchi, e trovate degne di considerazione le ragioni adottate dal Comitato, io decisi di adottare il sistema di corazzatura sui fianchi". Or è chiaro, che qui, io decisi vuol dire, io mi arresi al parere del Comitato. (È giusto!) Più giù, è detto, che io aveva giudicato certe grossezze di lastre incompatibili col programma stabilito dal Consiglio superiore. Ma è chiaro che questo mio giudizio riferivasi al parere del Comitato dei disegni e non al Con.~iglio superiore, al quale spettava naturalmente l'interpretazione autentica del suo programma, al quale subordinavo l'opinione mia, e che, composto di ammiragli, è, e dev'essere pienamente indipendente nell'emettere i suoi autorevoli pareri. Se sono fermo nelle mie idee, pecco di ostinazione. Se modifico le mie idee, sono inconseguente. Ma chi è senza peccato scagli la prima pietra. To sono inconseguente perché dal volere una nave di 7500 tonnellate passo a volerne una di 10.000 tonnellate; /'onorevole Ricotti non lo è sebbene da un 1talia di 14. 500 tonnellate passi a una Italia di 12. 000 tonnellate. To sono andato innanzi di 2500 tonnellate, egli ha retroceduto per 2500 tonnellate, siamo pari! (Ilarità) Ma che cosa ciò vuol dire, se egli ed io incontriamo in un comune scopo ed in un comune desiderio: volere una marina grande e potente per la dignità e la gloria della patria'! A questa patria, io, o che sieno vere, o che sieno false le censure che mi si jànno, potrò non essere utile, ma inutili certamente non saranno le grandi navi costruite ed in costruzione, o che sieno di tipo Duilio, o che sieno di tipo Italia. Io non ho che un solo scopo: che il nostro naviglio progredisca e si rafforzi. Se preferii un tipo ad un altro, lo feci in omaggio ai pareri dei Comitati tecnici. Ma o l 'una o l 'altra costruzione, se fatta dagli uomini egregi che costruirono il Duilio e/ 1talia, saranno egualmente utili alla patria.
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Non c'è dubbio che, come osserva l'Acton, tanto egli stesso quanto il Ricotti hanno notevolmente modificato il loro orientamento iniziale, avvicinando i rispettivi punti di vista, che tuttavia - checché ne dica il Botta - rimangono ancora distanti; ma è un fatto che l 'Acton di fronte ali' opposizione dei Comitati tecnici affonda egli stesso la sua nave iniziale da 7500 t, anche se alcuni dati da lui citati concorrerebbero ad avvalorarne la formula. Da quanto ctichiara, si deve dedurre che chi ha ormai le chiavi in mano è il Comitato disegni navi, organismo da lui stesso creato per facilitare la sua azione, ma che essendo presieduto dal suo più attrezzato avversario è in pratica diventato il maggior ostacolo per realizzare i suoi intendimenti. Così stando le cose, I' Acton alla fin fine si dimostra totalmente aperto a qualsiasi soluzione che sia approvata dai Comitati tecnici: né si capisce perché, se il cannone da 100 t ha ormai i limiti da lui stesso indicati e se sta prevalendo la tendenza a diminuire calibri e pesi delle artiglierie senza alcuna diminuzione di efficacia, egli pur preferendo il cannone da 76 t non abbia chiuso la porta nemmeno all'adozione (poi avvenuta) dei pezzi da I00 t anche nelle nuove costruzioni. Si dimostra fermo solo sul basso pescaggio: ma come può essere mantenuto, con i consistenti aumenti dei pesi inevitabilmente richiesi i Jalle altre soluzioni da lui ammesse? Il dibattito si conclude lo stesso giorno 29 novembre 1881 con l'approvazione del capitolo 35 sulle costruzioni navali così come è stato proposto dal Ministro Acton, senza specifiche altre indicazioni su caratteristiche e costi delle nuove navi, che pertanto verranno costruite come vuole il Comitato disegn i navi (cioè il Brin) e non come vuole il Ministro, che tiene a precisare di esserne poco più che il braccio esecutivo. Si è già accennato alle caratteristiche delle tre Ruggero di Lauria, impostate a partire dall' agosto. Il loro dislocamento finale, il loro armamento principale e la protezione verticale in pratica ne fanno - come del resto anticipato dallo stesso Acton - dei Duili, che tengono solo parzialmente conto dei progressi della metallurgia e delle artiglierie. Dei suoi orientamenti iniziali rimane solo la velocità (16 nodi) e la bassa autonomia (4500 miglia, tuttavia superiore a quella del Duilio). ln conclusione si potrebbe dire che la montagna della " nave tipo Acton" partorisce un topolino, se essa in questo caso non partorisse una nave più grande. Quel che è certo è che la suddetta nave Acton è sconfessata dal suo stesso padre, che per impostare la Ruggero di Lauria non occorrevano tante discussioni ritardatrici, e che l'ordine del giorno del 29 novembre 1881 crea un Ministro dimezzato, perché in pratica lo mette completamente nelle mani del Consiglio Superiore di Marina e ancor più del Comitato disegni navi da lui stesso creato, al quale compete l'esame della fattibilità tecnica dei programmi compilati più a monte. Sono questi organi consultivi i veri vincitori del dibattito.
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SEZIONE IIl - Il dibattito del 1882 alla Camera e le numerose critiche anche alle nuove navi tipo "Duilio" impostate dal Ministro Acton La sostanziale resa di Acton nel 1881, la sua incondizionata disponibilità ad accettare le delibere degli organi tecnici ecc_ potrebbero far pensare che ormai non c'è più motivo per attaccarlo_ Non è così: anche se il 31 maggio 1882 viene approvato dalla Camera senza discussioni il bilancio definitivo dell'anno in corso ed è ormai prevalsa la linea del Saint Bon e del Brin, si criticano aspramente anche le nuove navi corazzate messe in cantiere sotto la sua gestione, lo si accusa di cambiare continuamente idea e perciò di non essere un Ministro affidabile ecc_, fino a raggiungere il limite dell'ingiuria. Tutto comincia con il dibattito sulle spese straordinarie militari (per l' esercito e per la marina), nel quale (tornata del 17 aprile 1882 alla Camera) l'onorevole Di Gaeta lamenta l'insufficiente difesa delle nostre basi navali e constata che il bilancio della nostra marina al momento è di circa ¼ di quello della francese e dell'inglese. Pertanto (tesi realistica da sottolineare, e che fa pensare) noi ci studiamo di costruire le migliori e più potenti navi che mai siansi viste, e possiamo vantarci di essere pienamente riusciti in quest'impresa; lode grandissima ne sia data a coloro che idearono quelle portentose macchine di guerra. Ma se noi vogliamo lusingarci che con l'adottare un tipo di navi piuttosto che un altro, dall'aver navi grandi o piccole possa dipendere che noi, nonostante l'immensa sproporzione fra il bilancio nostro della marina e quello delle due potenze marittime di prim'ordine, Francia e Inghilterra, potessimo misurarci in alto mare, con speranza di successo, contro tutte le forze navali di una di queste potenze, io ritengo che andremmo incontro a dolorose disillusioni. Per me credo che alla prima dichiarazione di guerra, e anche prima della dichiarazione di guerra, la nostra flotta bisogna che vada a mettersi al sicuro [facendosi così facilmente bloccare nei porti? - N.d.a.].
Ne consegue la necessità di porti militari ben fortificati "dei quali difèttiamo completamente", perché ad eccezione di Venezia tutti gli altri porti sono per il momento indifesi, compreso l'arsenale della Spezia le cui fortificazioni dalla parte del mare "non sono per anco assicurate". Ma anche ammesso che la di fesa di quel porto fosse ben organizzata, la flotta nemica verrà davanti al golfo della Spezia per bloccare la nostra, "la quale dovrà sempre avere le macchine accese, dovrà essere sempre pronta a profittare di qualsiasi errore del nemico, di qualsiasi evento favorevole, per uscire e fare un colpo di mano; ma non dovrà affrontare la flotta nemica senza avere una certa probabilità di successo"_ È perciò indiscutibile, per il Di Gaeta, accelerare la fortificazione di Messina, di Taranto, dell'isola d'Elba e degli a ltri punti del nostro litorale che il Ministro della marina ritenesse necessari, allo scopo di estendere sempre più il campo d'azione della nostra flotta e darle maggiore libertà d'azione, consentendo-
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le così di moltiplicare le sue forze e di concorrere validamente alle operazioni dell'esercito. È un'illusione, secondo il Di Gaeta, la tesi di coloro che anziché potenziare i porti ritengono sarebbe meglio costruire delle buone corazzate: avrebbero ragione solo se noi potessimo costruire tante corazzate da uguagliare il numero di quelle delle prime potenze marittime con le quali potremmo trovarci in guerra. Ma anche nel caso che nel futuro il miglioramento del nostro bilanci consentisse di aumentare le spese militari, per il Di Gaeta sarebbe più conveniente aumentare le spese per l'esercito piuttosto che quelle per la marina: il compito di fare dell'Italia una potenza marittima di primo ordine spcttc1 alle future generazioni, ma per il momento "non possiamo accrescere la nostra potenza marittima, se prima non ci saremo solidamente stabiliti sul co11ti11c11te". Se, infatti, dovessimo affrontare un nemico che ci attacca sia da terra che dal mare, noi potremmo validamente provvedere alla difesa continenta le, peninsulare e insulare, e anche farvi potentemente contribuire la nos tra notta: "ma chi ci preserverà dai danni che questo nemico può fare alla nostra marina 1111·rca11tile. al nostro commercio, come potremo impedire il danno gravissimo cl, ·egli può fare a tutte le nostre città marittime?".
* * * TI giorno successivo, 18 aprile, il deputalo generale Emilio Mallei (da 11011 confondere con l'Ispettore del genio navale Simone Mattei suo fratello) accusa il Ministro Acton di aver trascurato la difesa subacquea degli scafi delle navi e anche il deputato Tenani solleva dubbi circa la validità dell'indirizzo da lui seguito. L'intervento più importante e organico è però quello del deputato Bucchia (vice-ammiraglio a riposo, già segretario del Ministero della Marina dal 1878 al 1879 e membro del Consiglio Superiore della Marina), che il 9 apri le attacca decisamente l' Acton per le sue scelte passate e presenti, rrcvedcndo (come il Bonarnico) che nel futuro la guerra di squadra in alto mare "11011 sarà più di moda, ma invece si andrà colle navi direttamente a portare le o.ffèse su certi punti determinati dalla costa nemica, mercè operazioni di guerra comhinate insieme tra l'esercito e la marineria". Gli sbarchi sulle nostre coste e sulle isole saranno facili anche per la loro morfologia; e in un siffatto contesto, come ba stabilito da tempo la Commissione nominata dal Ministro Riboty e presieduta dal generale Menabrea (della quale egli ba fatto parte) per difenderle occorrono navi molto potenti, veloci e in grado di operare anche da sole, come sono il Duilio e il Dandolo impostati dal Ministro Riboty appunto sulla base del parere della Commissione. Invece l' Acton - prosegue il Buccbia - ha voluto costruire delle navi più piccole; "quanto a me, lo confesso, è in programma che non capisco. Dicendo soltanto che bisogna fare delle navi più piccole, non si dice niente. È un programma questo? Bisogna, quando si mette innanzi un programma, direi chia-
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ramente, nettamente quello che si vuole, a che scopo queste navi hanno da servire e di quali qualità debbono essere fomite, diversamente il programma, lo ripeto, non significa nulla". Perciò con la polemica da lui iniziata il Ministro Acton ha ottenuto un duplice risultato negativo: oltre a fare perdere due anni alla marina ha prodotto un danno morale, "rinfocolando i malumori, i dissapori, le discussioni, le lotte persino sulle questioni le più pratiche, le più chiare, le più semplici, le più naturali della professione". Se egli avesse seguito la stessa via dei predecessori, "a quest'ora noi avremmo sul cantiere a metà di costruzione altre tre navi potentissime, un 'Italia e un Duilio modificati, perjèzionati, corretti...", e inoltre avremmo almeno in cantiere un terzo tipo di nave del quale il Ministro Saint Bon aveva gettato il seme senza ricevere alcuna attenzione da parte del I' Acton, cioè una nave torpediniera corazzata sul modello del Polyphemus inglese [ allusione alla nave lanciasiluri Pietro Micca, impostata nel 1876 - N.d.a.]. Il Bucchia aggiunge che l 'Acton ha fatto appena mettere in cantiere tre navi che "sono sbagliate e rappresentano anche un 'enorme imprudenza amministrativa"; dalle iniziali 7500 t egli è passato alle 8000, poi alle 9000, ed ora è arrivato a I 0000 e più. Queste tre nuove navi "non sono né grandi. né piccole, né carne né pesce; sono una soluzione ibrida, una soluzione che non è buona". TI "povero ingegnere" ha cominciato a studiarle di 7500 t sul tipo Italia, poi ha aumentato il tonnellaggio a 9000. Si è però capito che nemmeno con 9000 t le navi sarebbero riuscite buone, e si è deciso invece di costruirle sul tipo Duilio, "ma non migliorato e perjèzionato; sul tipo Duilio, ma ridotto ad usum Delphini, perché manca una delle qualità essenziali. cioè la pescagione", [elevata], che è inferiore sia a quella del Duilio e dell'lnjlexible ma è un requisito essenziale per dare a una nave buone qualità marine, cioè stabilità e governabilità, quindi precisione nel tiro delle artiglierie, tutte qualità tipiche del Duilio.
* * * Nella tornata del 20 aprile 1882 l'onorevole Perrone oltre a criticare anch'egli le nuove navi con argomentazioni simili a quelle del Bucchia, stronca letteralmente l'intera opera del Ministro Acton di fatto invitandolo a dimettersi, e in più controbatte le argomentazioni del Di Gaeta sostenendo l'esatto contrario, che cioè l' Italia al momento ha più bisogno di una forte marina che di un forte esercito. Le sue argomentazioni su questo argomento non sono nuove (vds. anche Tomo I): in sostanza, anch'egli pensa che la frontiera terrestre delle Alpi è facilmente difendibile e per un invasore presenta difficoltà di spiegamento, mentre la parte peninsulare e insulare è molto vulnerabile e soggetta a sbarchi e bombardamenti. Ritiene però non solo necessario, ma anche possibile per l'Italia avere una forte marina, perché (e gli pare poco!) "è una questione quasi esclusivamente di denaro". Su questo argomento-chiave se la cava anch'egli in modo troppo sbrigativo, oltre che poco originale: "in vedn l'assoluta
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necessità per l'Italia di avere una marina poderosa a qualunque costo, essendo questione di vita o di morte impedire il blocco effettivo[ ...]. Io comprendo quanto sia doloroso per tutti l'accrescere le tasse, lo spendere quando le .finanze non si trovano troppo in buono stato; ma quel che è peggiore si è di dover rendere inutili tulle le spese" [come avverrebbe con una marina impari al suo compito - N.d.a.]. Ma di quanto e come dovrebbero aumentare le tasse (già molto alte) per costruire una marina competitiva rispetto alle due maggiori? Questo il Perrone non lo dice; eppure sostiene anch'egli la necessità di rafforzare le basi, ecc. ln particolare accusa il Ministro Acton (che fa segni di diniego) di aver trascurato gli arsenali della Spezia e di Venezia (a suo giudizio i soli sui quali si può contare), di aver promesso senza mantenere la promessa la costruzione di nuovi bacini adatti alle navi colossali, ecc.. Più in generale, "l 'esp erienza mi ha fatto vedere che sempre il Ministro della marineria ha errato nelle sue previsioni[... ]. Mi permetta di dirgli che il suo passaggio al Ministero della marineria ha fatto e farà molto male", sia nel campo materiale (nel quale non ha provveduto agli arsenali e ha messo in cantiere navi "non adatte"), sia nel campo morale, perché ha perseguitato quegli ufficiali c.:he non la pensano come lui e ha cambiato troppe volte idea, senza mai chiarire le sue idee e le sue aspirazioni; è rimasto fermo solo sull'idea di diminuire 20 centimetri il pescaggio, imponendo al costruttore delle tre nuove navi di ridurlo da 7,85 ma 7,65 m. li Perrone conclude perciò il suo intervento invitando il Ministro a esporre una buona volta con precisione alla Camera le sue idee sullo scopo e sul modo di provvedere alla difesa d'Italia, sulle caratteristiche delle navi, sull'organizzazione della marina ecc.; dopo di che, "io spero che il Ministro della marineria, se le sue idee saranno accettate, rimarrà; ma se non saranno accettate, come pare diffic:ile che possano esserlo, rinuncerà a quel posto". Sempre nella tornata del 20 aprile 1882 prende finalmente la parola il Ministro Acton. Per prima cosa contrasta le affermazioni del deputato Di Gaeta sull ' eccessiva e incolmabile inferiorità della nostra flotta, obiettando che [come pensa anche il Bonamico - N.d.a.] anche se non potrà essere conveniente per noi attaccare battaglia, sarà pur sempre possibile sbaragliare un convoglio di sbarco o ritardarne le operazioni, in modo da dare tempo alle forze terrestri di accorrere sui punti di sbarco; inoltre [soluzione troppo ottimistica - N.d.a.] all'inferiorità di navi, artiglierie ecc. si può ovviare con successo con un'ardita iniziativa, con operazioni ben condotte ecc. Nega anche di aver trascurato la difesa subacquea delle navi, rimandando (per probabili ragioni di difesa del segreto) ai documenti da lui presentati alla Sottocommissione del bilancio della guerra e della marineria, della quale lo stesso Mattei faceva parte. Dopo quelle idee del Di Gaeta l' Acton rintuzza una per una le altre accuse, precisando che: - lo spessore delle corazze delle nuove navi è stato fissato a 45-40 cm previo parere del Consiglio Superiore di Marina, nel quale era relatore I'ispettore generale Simone Mattei. Inoltre lo spessore delle corazze dell'Italia
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è stato aumentato dai 4 3 cm previsti dalle Commissioni tecniche a 48 cm, avendo ottenuto una riduzione di peso nel ridotto corazzato. Comunque non è tale spessore quello che più occorre a una nave: come ha scritto lo stesso Annstrong e come pensa l'Ammiragliato inglese, è un'illusione credere che la corazza possa rendere invulnerabile una nave; - oltre a curare la difesa subacquea dei porti militari e i mezzi necessari per l'impiego delle torpedini fisse, sotto la sua gestione è stata notevolmente migliorata la disponibilità di torpediniere, che dalle due (prive di apparecchi di lancio) disponibili quando a fine 1879 ha assunto la carica di Ministro sono passate a 29 già pronte o in corso di costruzione, mentre per la difesa contro torpediniere delle nostre navi sono state da lui ordinate 120 mitragliatrici Nordenfeldt, alcune delle quali da collocare a bordo delle stesse torpediniere; - le accuse sui colpevoli ritardi nella costruzione delle "navi colossali" sono infondate, perché sono piuttosto dovute a mancato rispetto dei tempi nella costruzione delle artiglierie stabiliti in base a un contratto stipulato prima della sua assunzione della carica di Ministro, e vanno anche attribuiti allo scoppio del cannone del Duilio. Per le quanto alle corazze al momento della sua assunzione della carica di Ministro non esisteva un contratto, e le trattative con case inglesi e francesi per la loro scelta si sono prolungate. Comunque anche se fossero state consegnate prima non sarebbe stato possibile montarle, "poiché non è che ora soltanto che si è potuto cominciare a bordo del/ 'Italia il montamento di quel ridotto su cui dovranno posare queste corazze"; - come sa anche l'onorevole Bucchia le nuove navi grazie ai progressi nelle costruzioni navali e nelle artiglierie "hanno un mig lio di velocità all'ora più del Duilio hanno potenza di difesa maggiore del/'Italia,potenza di offesa maggiore del/1talia e del Duilio, efìnalmente hanno maggiore autonomia dell'Italia"; - l'obbligo di costruire navi più piccole gli è stato imposto proprio dalla legge organica del 1877, che diversamente da quanto sostiene il Bucchia egli non ha violato. Secondo la predetta legge quattro navi [cioè le quattro "navi colossali"' - N.d.a.] dovevano avere un costo unitario di 17 milioni, due di 16 milioni e due altre di 13; "ora a me pare evidente che con 13 milioni non si può fare che una nave più piccola di quella che si.farebbe con 17 milioni, perciò quest'obbligo di fare navi più piccole mi è imposto dalla legge; - "il Duilio e il Dandolo, che dovevano costare soltanto 32 milioni, hanno invece oltrepassato i 42 milioni, ossia si è speso 1 Omilioni in più di quanto previsto dalla legge e 10 altri milioni in più saranno spesi quando / 'Italia e il Lepanto saranno finiti". A ulteriore riprova delle predette precisazioni l' Acton cita una delibera del Comitato disegni navi a firma del suo presidente Brin, nella quale si giudicano corretti i calcoli del nuovo tipo di nave, si ritiene che anche con I 0322 l di disio-
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camento essa potrà raggiungere una velocità di 16 miglia, si giudicano "buonissime" le sue qualità nautiche e si prevede che nelle prove in mare essa fornirà gli stessi buoni risultati del Duilio. Inoltre ricorda che nella tornata della Camera del 13 dicembre 1879 [quando aveva assunto da pochi giorni la carica di Ministro - N.d.a.] lo stesso Brin ha ammesso che nessuna marina forma la sua flotta con navi da battaglia dello stesso tipo, che nella legge organica del 1877 si prevedono quattro navi del costo di 17 milioni e quattro del costo di 13 milioni, "cioè di grandezza e.forza minori'' e che a questo orientamento si ispira il programma del Consiglio Superiore di Marina, nel quale "si ridurrebbe a metà/ 'armamento della nuova nave rispetto al/ 1talia, Lepanto, Dui Iio e Dandolo". Infine il Ministro respinge e ritorce l'accusa di aver fatto perdere due anni e mezzo alla marina, e di aver provocato divisioni fra gli ufficiali: in realtà "non già ho perduto due anni e mezzo, ma mi si sono fatti p erdere due anni e mezzo c;on una guerra sempre ingiusta di inesattezze, di affèrmazioni erronee e di resistenze passive". Sono stati se mai i suoi oppositori a minare il morale della marina, sollevando gli ufficiali contro il ministro e seminando sfiducia nel suo operato: Signori, c;ome Ministro militare io dehho in primo luogo tener alta la disciplina nel corpo [...]; e per tenere alta la disciplina del corpo io ho bisogno che la Camera sia convinta che io ho sempre condotto la mia amministrazione nel vero interesse della difesa del mio paese. Se la Camera non è convinta di questo [... ] nomini pure una Commissione d'inchiesta sulle questioni controverse; io sono certo che dal giudizio di essa, la mia condotta risulterà inappuntabile! Che se poi la Camera credesse fin da questo momento di non approvare la mia condotta, senz'altro io m'inchinerò immediatamente, senza giustifìcarmi, a questo verdetto...
La Commissione d 'inchiesta proposta dall' Acton non viene nominata e la Camera (sarebbe la prima volta) non lo sfiducia; tuttavia a quasi due anni dall' assunzione della carica egli continua a subire un attacco dopo l' altro, fatto mai verificatosi né prima di lui né dopo.
* * * TI successivo 21 aprile 1882 continua una vera guerra, con una serie di interventi (Ricotti, Nicotera, Tcnani, Bucchia, generale Mattei) tutti contro il MinistroActon, che viene (in parte e indirettamente) difeso solo dal deputato Vollaro, ma replica con una certa efficacia alle critiche. li fuoco è aperto dal solito Ricotti , il quale contesta a fondo le affermazioni dell'Acton sulle corazze dei nuovi tipi di nave. A suo parere: 1) quando il Ministro il giorno precedente ha affermato che le corazze da lui scelte per le nuove navi erano di 45 cm, cioè superiori a quelle proposte per l'Italia dall' ingegnere Mattei (43 cm), non ha tenuto conto che il Mattei ha posto come condizione che esse fossero inclinate da 23 a 30 gradi per aumentarne la resistenza e che questa soluzione fosse
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sperimentata, ma gli esperimenti furono sospesi d'ordine del Ministro. Di conseguenza la corazza da lui adottata sarà trapassata sia dal nostro cannone da 100 t sia da quello inglese da 80 t; 2) i giudizi favorevoli del Brin si riferivano a un tipo di nave diverso da quello al momento in costruzione; 3) è errata l'affermazione del Ministro che, riguardo all'autonomia di tali navi egli non fa che seguire le idee del Saint Bon, il quale invece ne ha difeso l'elevata autonomia; 4) non è vero che - come ha affermato ieri il Ministro - l'autonomia del I' Italia è inferiore all'autonomia del nuovo tipo di nave: come ha sempre ammesso lo stesso Ministro fino a ieri, l'Italia può stare in mare almeno per un tempo doppio rispetto sia al Duilio che al nuovo tipo di nave; 5) non è vero che le parti vitali delle nuove navi (ridotto delle artiglierie e macchine) sono meglio protette di quelle dell'Italia. In realtà i cannoni dell'Italia sono protetti da una corazza di 48 cm inclinata (perciò corrispondente a una corazza verticale di 55 cm), a fronte della corazza di 40 cm prevista sulle nuove navi; 6) la macchina dell'Italia diversamente da quanto avviene sulle nuove navi è collocata oltre 1,8 m sotto la superficie marina, quindi è meglio protetta dai tiri delle artiglierie [e il pericolo dei siluri? - N.d.a.]. L'onorevole Nicotera, che prende la parola dopo il Ricotti, non si occupa di particolari tecnici relativi alle nuove costruzioni limitandosi ad obiettare al1'Acton (il quale, come si è visto, indica come un suo merito il possesso da parte nostra di 29 torpediniere) che la Grecia ne possiede ben 35. Egli attacca poi il Ministro ancor più a fondo del Ricotti, per due ragioni essenziali: l) ha commesso l'errore di chiedere una nomina di una Commissione d'inchiesta, cosa che non deve mai fare un Ministro "perché dimostra la sua incertezza"; 2) se gli attacchi contro il Ministro in Parlamento scuotono la disciplina e il morale della marina, la colpa è tutta sua; "indisciplina! ma sa, onorevole Acton, come
si mantiene la disciplina? si mettono a riposo 25 ammiragli ed altrettanti capitani e tenenti di vascello. Il Parlamento giudicherà se avrà fatto bene". Il Parlamento ha il diritto di giudicare l'operato del Ministro, e nulla più; se è convinto che non sa mantenere la disciplina e il morale dei dipendenti, non ha che da dargli un voto di sfiducia; "ma Ella non dovrehhe consentire che sifaccia-
no inchieste sulla disciplina e sul morale dei suoi dipendenti. In questo modo soltanto, onorevole Acton, sifa il Ministro". E poiché, come ha detto lo stesso Ministro, "quel rispettabile corpo [della marina] si è diviso in Guelfi e Ghibellini, e abbiamo una marineria Acton, una marineria Saint Bono Brin", il Nicotera propone un ordine del giorno, con il quale la Carnera "compresa della gravità della questione della marina militare" nomina una Commissione di nove membri con il compito di indagare non solo sulle costruzioni navali, ma sulle condizioni dell'intera amministrazione della marina (non è accettato). Sempre a proposito delle precedenti dichiarazioni del Ministro sulle torpediniere, l'onorevole Tenani obietta che avrebbe dovuto precisare quante sono pronte, e quante sono ancora in costruzione. Si dichiara poi insoddisfatto della sua risposta del giorno precedente sullo stato delle difese subacquee, sia perché era inopportuno il silenzio in Parlamento su tale questione, sia perché
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il relatore della giunta parlamentare "sotto le cui ali si è rifugiato il Ministro" è stato troppo ottimista e avrebbe dovuto pensare anche all'elevato numero di torpedini necessario, alle artiglierie costiere che dovrebbero difenderle per impedire che vengano rimosse, allo scarso numero di siluri disponibili per le torpediniere, per le navi corazzate e per le difese dei porti. L' accusa più forte del Tenani all'Acton riguarda però i ritardi - a suo dire ingiustificati e dannosi nell'installazione dei cannoni e delle corazze sull'Italia. Egli osserva che quanto è stato fatto prima dell' Acton il contratto che dava facoltà alla casa costruttrice dei cannoni di consegnare i tre cannoni rimanenti 18 mesi dopo la consegna del cannone di prova, la nave Jtalia non era ancora stata varata e c'era ancora molto tempo; ma una volta varata l'Italia, e quando secondo l'unanime opinione si doveva fare molto presto, anziché far costruire solo le parti degli altri tre cannoni per le quali non poteva verificarsi un rifiuto, il Ministro avrebbe dovuto senz'altro ordinare tutti e quattro i cannoni, scavalcando le procedure burocratiche. Invece, mentre tre anni fa si era fatto di tutto perché la nave Italia fosse armata e pronta, al momento non si dispone nemmeno di un cannone di prova e quando arriverà, occorreranno alcuni mesi per le esperienze, poi 18 mesi per la consegna degli altri, poi occorrerà il tempo per l' installazione. Anche sulle corazze il Ministro ha commesso dei gravi errori. Quando ha assunto la carica le corazze, è vero, non c'erano; ce n ' erano però delle altre sulle quali fare degli esperimenti che il Ministro non ha fatto, ritenendo che se si fosse arrivati a dimostrare che le corazze delle nostre navi potevano essere trapassate dai cannoni da 80 o 100 t, si sarebbe distrutta la fiducia degli equipaggi nelle navi sulle quali avrebbero dovuto combattere. Secondo il Tenani, invece, se è dovere di un Capo della marina occultare le deficienze di un' arma quando non è possibile eliminarle, in questo caso sarebbe bastato adottare corazze più spesse. Il Ministro ha perciò commesso "il sublime dell'errore"; senza contare che, se le corazze fossero già disponibili, potrebbero essere montate se non sul ridotto, sulle altre parti della nave. Dopo il Tenani l'onorevole Bucchia riprendendo concetti già noti da tempo si sforza di dimostrare che, al contrario di quanto sostiene I' Acton, "è questione di avere piuttosto delle navi che stiano in mare, che non delle navi che stiano nei porti; quindi non poca pescagione, ma molto e molto approvvigionamento di combustibile e molta autonomia". Comunque i I Duilio è entrato in tutti i porti italiani di qualche importanza, e non c'è ragione perché le navi da guerra debbano entrare dappertutto. Ma anche dopo essere entrata nei porti, le navi che cosa potrebbero fare? Al giorno d'oggi "una nave ancorata è una nave perduta", perché una nave ferma che non è in grado di muoversi , è facile bersaglio dell'artiglieria, delle torpedini ecc .. Riguardo ai fondi disponibili, che secondo I' Acton imporrebbero di costruire navi piccole per rimanere nei limiti fissati dalla legge organica del 1877, il Bucchia fa notare che le tre navi da lui messe in cantiere invece dei 13 milioni previsti dal Ministro già costeranno 18 o 19 milioni ciascuna: "dunque, dov 'è questa ragione di fare le navi piccole per rientrare nei limiti assegnati?". Anziché perdere due anni e mezzo di
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tempo, il Ministro Acton avrebbe potuto avere in cantiere, come già lui aveva suggerito, l'Italia migliorata, il Duilio migliorato e una terza nave torpediniere tipo Polyphemus con le quali si sarebbe ottenuto un gruppo di navi in grado di respingere le offese alle nostre coste molto meglio delle navi mediocri dell' Acton, anche per la loro pescagione elevata, che per il Bucchia come per tanti altri è un grande vantaggio (e lo dimostra). Prende successivamente la parola il deputato Vollaro (antico commilitone del Bucchia nella difesa di Venezia), il quale non condivide gli attacchi al Ministro dello stesso Bucchia e di altri, perché in precedenza il Parlamento ha dato all'Acton facoltà di costruire le navi che crede, e se mancano i fondi, senza lungaggini devono essere subito richiesti e concessi; "ma allora i reclami a che si riducono? Si riducono all'opposizione dell'egregio generale Ricotti e dell'egregio ammiraglio Bucchia [ ... ]. In tutte le legislature si è riprodotta sempre l'eterna questione del me per te e del te per me, e noi assistiamo ad una questione di persone senza alcun utile per il paese". In quanto alla disciplina - prosegue il Vollaro - il Ministro non ha affatto dichiarato che essa è scossa; ha solo detto che, agendo così, i suoi oppositori avrebbero potuto scuoterla: "disgraziatamente nella nostra marineria. non è già nei giovani ufficiali che esiste la divisione, non èjìno ai capitani di vascello che vi è antagonismo, bisogna risalire ai capi. È nei gradi superiori che esiste discordia". Dopo i I Vollaro il Ricotti - non si vede con quale fondamento - nega di stare combattendo le navi dell' Acton ormai in cantiere: le ha combattute solo in passato, ma poi ha preso atto della volontà della maggioranza, e al momento "non c'è altro da.fare che aspettare cinque o sei anni per vedere come andranno le cose". Per lui la sola speranza della marina è il sollecito approntamento dell'Italia. che se fosse stata seguita con molta energia e buona volontà sarebbe già pronta; "invece di questo passo l 'avremo solo fra tre anni" [in effetti sarebbe entrata in servizio il 16 ottobre 1885 - proprio dopo tre anni - nonostante l'ormai vicina caduta dell 'Acton nel novembre 1883, che dunque non conferma le accuse del Ricotti e altri - N.d.a.]. Invita perciò il Vollaro (che accetta solo per quanto concerne la spesa) ad associarsi alla sua proposta di dire al governo "se avete bisogno di 2 o 3 milioni in più siamo disposti a darveli, ma dateci un'Italia compiuta fra 15 o 16 mesi al più". Di fronte alle ultime accuse prende di nuovo la parola il MinistroActon, le cui dichiarazioni possono essere così riassunte: - per quanto riguarda le corazze il Ricotti nei giorni precedenti si è riferito a una delibera del Consiglio Superiore di Marina del 1878, mentre invece quella da lui citata si riferisce al 24 giugno 1880. Le esperienze sulle corazze non sono state da lui ordinate perché in precedenza gli è stato assicurato che anche se fossero state perforate non sarebbe stato possibile averne di più spesse. Comunque nessuna marina possiede i nostri cannoni da 100 t, mentre l'onorevole Ricotti esaltando le corazze del Duilio non ha tenuto conto che 45 cm delle nuove corazze tipo Compound hanno la stessa resistenza di 55 cm delle corazze tipo Duilio;
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- non ha ritenuto necessario distinguere tre torpediniere già pronte e torpediniere in costruzione, perché queste navi possono essere costruite in 6-8 mesi e per contratto devono essere tutte pronte entro l'anno. Per il loro armamento ha ordinato alla casa costruttrice Thomeycroft di mettersi d'accordo con la casa Nordenfeld per installare sulle nostre torpediniere le mitragliatrici prodotte da quest'ultima; - riguardo ai cannoni dell'Italia, in considerazione del loro costo di parecchi milioni e del fatto che si tratta di artiglierie di nuova progettazione non si è sentito di assumersi la responsabilità di ordinarli, "tanto più
che si faceva ancora in tempo ad avere dei cannoni perfetti nel termine necessario per rendere la nave pronta"; - le corazze orizzontali dell'Jtalia saranno montate in brevissimo tempo mentre procedono gli altri lavori della nave, mentre per le corazze verticali non vi sarà nessun ritardo, perché solo ora si comincia a installare il ridotto sul quale debbono essere montate; - non si sono perduti due anni e mezzo nella costruzione delle nuove navi, perché - come provano i documenti trasmessi dal Ministero alla Camera - tutti gli sforzi della marina negli ultimi anni sono stati concentrati sulle navi in costruzione. Inoltre bisogna tener conto che, mentre per le nuove navi già si chiedeva di seguire il tipo Italia, i piani di questa nave non erano ancora pronti, "e può quasi dirsi che non lo siano neppure oggi"'. Di conseguenza era difficile incominciare la costruzione di una nuova nave finché i piani dell'Italia non fossero ultimati. Questa è stata anche una delle ragioni per tornare al tipo Duilio, che diversamente dal1'Italia era già ben sperimentato; - riguardo alla pescagione "alla quale io tengo moltissimo", non è vera la regola sul la pescagione necessaria in rapporto alla lunghezza della nave. Ma anche se essa fosse vera, per le esigenze di difesa delle nostre coste sarebbe molto meglio costruire navi più piccole e con pescaggio limitato, anziché navi grandi con elevata pescagione, che avrebbero una sfera d'impiego molto limitata. E anche se per il Bucchia basta calcolare la pescagione di queste navi in modo da consentire loro l'entrata nei soli porti principali, esse al momento nel porto di Venezia non possono entrare; - non è sufficiente che le navi abbiano elevata autonomia: esse sono soggette a frequenti avarie ed esposte all'offesa delle torpediniere, "per cui non solamente è necessario che possano entrare in un porto di rifitgio
per difèndersi eventualmente, cosa che non potrebbe succedere in una rada, ma è anche necessario che possano entrare in tutti i porti di armamento, p er poter riparare le avarie"; - riguardo all' accusa di non aver fatto costruire una torpediniera tipo Polyphemus, volendo costruirla ha mandato in Inghilterra una Commissione (presieduta dal Brin) la quale dopo una lunga permanenza e dopo numerose riunioni ha consigliato di soprassedere per il momento alla costrnzione di un tale tipo di nave [mai costruito; furono invece costruite in
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buon numero torpediniere di ridotto dislocamento (fino a 39 t) prima Thorneycroft (inglesi) e poi Schichau {tedesche), con dislocamento maggiore (215-354 t)- N.d.a.].
* * * La successiva tornata del 24 aprile 1882 è assai poco significativa, perché vi si riprendono in gran parte argomenti trattati in precedenza. In un lungo intervento il Maldini (definito da alcuni oratori successivi "l'avvocato del Ministro Acton") insiste sulla necessità di fortificare La Spezia dando priorità al fronte a mare (e non alle difese da parte di terra, come vorrebbe il generale Baratieri) e di potenziare il porto e l'arsenale di Venezia, rendendo quest'ultimo atto a costruire anche corazzate e accelerando i lavori di approfondimento del Canale di Malamocco, che procedono con eccessiva lentezza. Non prende posizione sull'"eterna questione delle navi", questione estremamente controversa che non è stala risolta nemmeno all'estero e si riassume nell'opportunità o meno di concentrare su una sola nave le tre armi fondamentali ( cannone, rostro e siluro) e di adottare cannoni o corazze con determinate caratleristiche. Difende la "meditata elasticità" del piano organico del 1877. Concorda con altri deputati sull'opportunità che la Camera non entri in dettagli tecnici di competenza del Ministro, e in merito ricorda che l'impostazione delle "navi colossali'' nel 1873-1876 non è mai stata messa ai voti e approvata dal Parlamento. Respinge, infine, l'accusa del Bucchia di voler difendere le coste solo con le torpediniere e ritiene improprio un paragone tra il numero delle nostre torpediniere e quello assai superiore della Grecia, le cui coste si prestano molto meglio di quelle italiane al loro impiego. Le affermazioni del Maldini sull'insufficiente profondità del Canale di Malamocco sono conteslate dal deputato Cavalletto, il quale definisce "arretrate" le sue informazioni c assicura che tra due mesi esso raggiungerà la profondità di 8 m, quindi vi potrà entrare il Duilio opportunamcnle alleggerito [e il canale per raggiungere l'arsenale? - N.d.a.]. L'onorevole Minghetti (già Presidente del Consiglio del 1O luglio I 873 al 18 marzo 1876) si preoccupa soprattutto di controbattere l'affermazione del Maldini che la destra ha trascurato la marina, ricordando che dal 1872 al 1876 sono state impostale le tre navi colossali Duilio, Dandolo, Lepanto e Italia, e che il governo di destra ha stanziato 11 milioni per i lavori necessari all'arsenale di Venezia. Definisce poi "ben poca cosa" il piano organico della marina, dando ragione al Saint Bon che lo riteneva poco efficace, perché "non ci troviamo nulla che ci ammaestri e ci diriga, nulla di preciso e di pratico". L'onorevole Di Gaeta ribadisce i concetti da lui sostenuti in precedenza, insistendo in particolar modo su due tesi assai discutibili: - la disponibilità di numerosi e buoni porti militari "neutralizza l'eccessiva sproporzione dijòrzefra le due.flotte [italiana e francese]", e in tal modo "la questione del tipo delle navi diverrebbe affatto secondaria" [ma
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quante risorse sarebbero necessarie per preparare tali porti, risorse che bisognerebbe sottrarre a quelle- già scarse- per le forze mobili? - N .d.a.]; - mentre in campo terrestre 100.000 uomini possono tener testa con vantaggio a un esercito di 200.000 uomini che attacca [non è sempre vero N.d.a.], una flotta di 10 corazzate non può battersi contro 20 senza soccombere. Infatti in campo terrestre l'esercito attaccante perderebbe più uomini di quello che si difende e sarebbe costretto a lasciare dietro di sé parte delle truppe, per proteggersi le spalle [ma la vittoria e la sconfitta, specie ma non solo in campo terrestre, dipendono da tanti altri fattori: e che avverrebbe se la superiorità dell'attaccante fosse maggiore. se la qualità del materiale riducesse di molto la forza dei due contendenti, ccc.? N.d.a.]. Chiude la serie degli interventi della giornata l'onorevole Geymet (già in precedenza schieratosi a favore delle navi colossali), che attacca direttamente l'Acton e il Maldini. Critica anch'egli le corazze delle nuove navi, che sono sicuramente perforabili perché ridotte a 45 cm, "mentre i più remissivi tra i costruttori, membri del Comitato [disegno navi] ne suggerivano per lo meno 50, ed il presidente [cioè il Brin - N.d.a.] 55". A suo part:rt: il Minii;tro Acton e il Maldini hanno citato a sproposito l 'Armstrong, secondo il quale allo spessore delle corazze [dal costruttore di artiglierie inglesi ritenute inutili, perché perforabili qualunque sia il loro spessore - N.d.a.] "non si dove va dare importanza". E a conforto delle tesi del Bucchia ricorda che di recente la nuova corazzata inglese di 8500 t Ajax nelle prove in mare è stata costretta a rientrare in porto, perché il timone non poteva essere governato; perciò "essa sarà mandata all'arsenale di Chatam per introdurvi varie modificazioni e con tutta probabilità si dovrà aggiungere una falsa chiglia per dare alla nave maggiore appoggio. Perciò con la pescagione voluta dal Ministro Acton, le nostre nuove navi riproduceranno l'instabilità de/l 'Inflexible inglese" ... Il Ministro Acton replica al Geymet che: 1) le false chiglie sono state installate anche sul Duilio, ma non per aumentarne la pescagione; 2) poiché I' Annstrong asserisce che le corazze anche se molto spesse non rendono invulnerabile una nave, "il fare una corazza di 4 o 5 centimetri di più o di meno non credo che valga ad assicurare definitivamente una nave contro il nemico"; 3) nel Comitato disegni navi vi sono state certamente delle obiezioni sui nuovi progetti, ma quel che importa è che li ha approvati, ''poiché se il Comitato avesse avuto il minimo dubbio sulla bontà dei piani stessi avrebbe avuto l'obbligo di riprendere i suoi studi, e proporre un piano che garantisse la s icurezza della nave"; 4) l'onorevole Geymet ha cominciato il suo discorso affermando che la Camera non doveva entrare in particolari tecnici e invadere le attribuzioni del Ministro della guerra in merito al piano generale di difesa; invece per la marina entra nei meriti e nei dettagli tecnici al di là di quello che può spettare agli stessi uomini tecnici. A sua volta il Geymet fa presente che non si è ancora trovato un cannone capace di perforare le corazze del Duilio; ''forse questo si troverà nel/ 'avveni-
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re; ed è perciò che io sono seguace della teoria del/ 'onorevole De Saint Bon, il quale vuol precorrere i tempi coi fòrti premunimenti non ancora adottati da altre nazioni"; inoltre l' Armstrong, poiché al momento le corazze ci devono essere, ha riconosciuto che "nessuno meglio risolse, finora, questo problema, delle acute e intelligenti menti delle autorità marittime italiane".
* * * Nella seduta del giorno successivo, 25 aprile 1882, prevale di gran lunga la non nuova opinione che la Camera non deve occuparsi di particolari tecnici, e che la nomina di una Commissione d'inchiesta proposta per primo dallo stesso Ministro sarebbe inopportuna e dannosa. L'argomento delle nuove costruzioni navali non viene più ripreso fino al 31 maggio 1882, quando come si è accennato viene approvato il bilancio definitivo della marina per quell'anno.
SEZIONE TV - li dibattito del 1883 alla Camera: ultimi attacchi al Ministro Acton sull'organizzazione e disciplina della marina
Nel 1883 il dibattito sull'alternativa grandi navi / navi di dislocamento moderato è finalmente superato; ma il tiro dei numerosi, ostinati e agguerriti avversari del Ministro Acton si mantiene incessante, spostandosi se mai su altri argomenti tra i quali - finalmente - gli aspetti fmanziari. Il primo ad essere dibattuto è tuttora poco studiato, se non ignorato: lo sviluppo dell'industria nazionale e in particolare della siderurgia e metallurgia, visto che per forza di cose la fornitura di corazze, cannoni e macchine per le navi maggiori è come sempre interamente affidata a ditte straniere, e in particolare inglesi. Nel 1883 le acciaierie di Temi non sono ancora nate; lo saranno l' anno seguente grazie all' opera decisiva del Brindi nuovo diventato Ministro, già nel 1883 nominato dall 'Acton Presidente della Commissione per le industrie meccaniche e navali. L'esigenza di fondo - sulla quale concordano tutti i deputati intervenuti è ridurre e tendenzialmente annullare la dipendenza dalle industrie straniere, tuttavia inevitabile per i materiali tecnologicamente più avanzati e complessi. In proposito già il 5 giugno 1882 su proposta dell'onorevole Nervo la Camera aveva approvato un ordine del giorno secondo il quale "tutte le provviste di oggetti per uso delle amministrazioni dello Stato dovranno essere fatte dall 'industria nazionale, quando in seguito ad apposite ricerche venga dimostrato che tali provviste possono essere eseguite nel paese a parità di condizioni". Evidente il carattere limitativo - e non "politico" e protezionista - dell 'ultima parte dell' ordine del giorno, perché al momento vi sono commesse che l'indu-
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stria nazionale non è in grado di eseguire, e se lo può fare, deve praticare maggiori costi dovuti anche alla necessità di importare materie prime - come il carbone e il ferro - non disponibili sul territorio nazionale, quindi le industrie italiane possono vivere e svilupparsi solo se favorite in qualche modo dallo Stato; per contro, il costo della mano d'opera italiana è assai inferiore a quello inglese e di altre nazioni. Nelle tornate della Camera del 5 e 6 aprile 1883 il problema viene sollevato dai deputati Sanguinetti, Berio, Maffi, Elia e soprattutto dal deputato Boselli (relatore della Commissione d'inchiesta sulla marina mercantile}, che in un lungo discorso cita una serie di statistiche, secondo le quali dal 1860 in poi le spese per la marina hanno interessato l'industria nazionale per una percentuale molto bassa, tra il 20 e il 28%. ln tal modo oltre a spendere in altri paesi ingenti capitali italiani, "noi abbiamo perdutofin qui le occasioni mig liori mercé le quali avremmo potuto creare una grande industria metallurgica 11azio11ale", danneggiando gravemente anche Io sviluppo della marina merca ntile e rinu nciando a sfruttare le grandissime capacità delle m aestranze dei nostri cantieri , costrette ad emigrare. Inoltre secondo il Boselli lo Stato pratica alle industri e straniere dazi e clausole contrattuali più favorevoli, senza proteggere e incoraggiare in alcun modo l' industria nazionale - con particolare riguardo agii stabilimenti Ansaldo e Orlando - e senza promuovere e pianificare lo sfnittamcnto dei giacimenti di ferro e carbone sul nostro territorio, che pure a suo parere sono considerevoli e di buona qualità. ln particolare egli ricor<fa che il risultato pratico di questa politica - o meglio di questa mancanza di una po litica è rimasto sempre quello del 1878, quando l'onorevole Luzzatto scriveva che "abbiamo speso nelle costruzioni navali militari e nei piroscafi mercantili .wvvenzionati dal governo moltissimi milioni, e non è ancora sorto un cantiere che p er potenza di mezzi meccanici e importanza di lavori gareggi con quelli più reputati dell'estero, abbiamo costruito parecchie migliaia di chilometri di ferrovia e non abbiamo saputo creare potente e vigorosa l'industria dei vagoni, delle locomotive e delle rotaie".
Invece le marine dei principali Stati europei si sono rese da tempo indipendenti dall' industria straniera, favorendo e sovvenzionando in vari modi quella nazionale, perché tengono ben presente il principio che i lavori necessari p er la marina da guerra non danno luogo soltanto a considerazioni economiche. La potenza marittima di un paese deve fondarsi sulla industria, che è la vera forza delle nazioni; perché essa non consiste solo nel possedere forti e numerose navi da guerra, ma anche nella possibilità di rapidamente e completamente costruirle e ripararle in tutte le loro parti [.. . j. Non è del tutto sicuro l 'avvenire di una marineria che deve dipendere dal/ 'estero, non è del tutto saldamente fondata la sua potenza [... ]. Non conosco nella storia nessuna grande marineria creata ricorrendo ali 'industria estera [ ... ]. Per raggiungere la piena indipendenza militare e politica è necessario creare delle forti industrie metallurgiche e meccaniche nel paese.
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li Boselli lamenta poi - come altri fanno da tempo - le cattive condizioni degli arsenali della marina, anche se a suo avviso la loro attività deve essere limitata alle riparazioni che per diversi motivi non possono essere affidate atl 'industria privata: l'arsenale della Spezia "non è ancora fornito di mezzi adeguati per procedere così rapidamente come sarebbe mestieri", l'arsenale di Napoli manca dei bacini per le grandi navi, mentre all'arsenale di Venezia non possono accedere le grandi corazzate, né è possibile utilizzare i due bacini esistenti per la poca profondità dei canali d'accesso. Egli cerca anche di combattere la tesi (che, come meglio si vedrà in seguito, è anche dell' Acton} secondo la quale è giocoforza ricorrere a ditte straniere, perché quelle nazionali non sono affidabili né per il rispetto dei limiti di tempo pattuiti per le foriture, né per la qualità delle forniture stesse: ritardano i lavori: gli stabilimenti italiani non li fanno perfettissimi, li producono a più caro prezzo. Ma perché? Perché non assicurate loro un lavoro continuo; perché non li ponete in condizione di far bene, e quindi se non si provvede, dureremo sempre in questa legittimità delle vostre esitanze da una parte, in questa triste condizione de/l'industria italiana dall 'altra.
Tuttavia il Boselli è piuttosto benevolo nei riguardi del Ministro Acton, al quale dà atto di essersi dimostrato "animato dai migliori sentimenti verso ogni parte della vita marittima e dell 'industria nazionale". Trova anche giustificabile l' importanza da lui attribuita alla qualità dei lavori e al rispetto dei tempi di consegna, perché - specie se si tratta delle corazzate - sono in gioco interessi vitali del Paese, e in questi casi è giustificabile il ricorso a industrie straniere, se quelle nazionali non possono fornire le stesse garanzie. Non concorda però (ed è l'unica critica) con l'importanza attribuita dal Ministro ai prezzi, applicando il criterio liberista di assegnare a industrie straniere le forniture, se esse a parità di qualità praticano prezzi inferiori: "a questo proposito io credo che si possa fare qualche cosa di più per l'industria nazionale. La Francia paga il I Oper cento in più pei trasporti marittimi quando si fanno con bandiera francese. Entro certi limiti sui prezzi si può abbondare", appunto allo scopo di proteggere l'industria nazionale. Le conseguenti proposte del Boselli riguardano: - la costruzione delle torpediniere, che dovrebbe avvenire per la maggior parte in Italia, sul modello delle poche acquistate in precedenza all'estero; - la costruzione delle macchine di grande e piccola potenza, che spesso senza giustificato motivo è affidata a ditte straniere. Infatti l'Ansaldo in certe occasioni ha offerto al Governo italiano di costruire macchine a un prezzo inferiore a quello pagato all'estero, mentre "si dice" che la macchina del Lepanto avrebbe potuto essere costruita in Italia a un prezzo inferiore di 1/10 a quello pagato a una ditta inglese; - la produzione nazionale di corazze, che l'Ansaldo sarebbe stata in grado di produrre per intero per il Duilio, il Dandolo e l'Italia;
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- la produzione nazionale di ancore, catene di ormeggio, martinetti ecc., senza plausibile motivo ordinate all'estero. Nessun cenno alle grosse artiglierie, che evidentemente il Boselli non giudica ancora possibile produrre in Italia. Egli chiede invece al Ministro spiegazioni sulla recente ordinazione a un cantiere inglese dell'ariete incrociatore Giovanni Bausan, di tipo analogo a quello del Flavio Gioia interamente costruito in Italia, anche se è costato 200.000 lire in più [in realtà le caratteristiche del Bausan erano nettamente superiori a quella del Gioia, a cominciare dal dislocamento, dall'armamento e dalla velocità - N.d.a.].' 2 Il Boselli conclude la sua lunga perorazione con una troppo generica esortazione a creare in Italia una forte marina, non senza numerosi richiami retorici al passato e sorvolando sui fondamentali risvolti finanziari .
* * * Il 7 aprile 1883 ha inizio la discussione dello stato di prima previsione del Ministero della marina per lo stesso anno. Il deputato Maffi riprende parecchi argomenti trattati dal Boselli e dopo aver ricordato anch' egli che le commesse all'estero del Ministero della marina ammontano a circa 32 milioni, si sofferma su queste parole del Ministro Acton, contenute in una nota inserita nella relazione della Commissione d'inchiesta per la marina mercantile: "gli stabilimenti meccanici italiani, specialmente per quanlo si riferisce alla loro direzione tecnica, sono in condizioni Lali che vietano di affidare loro lo studio di macchine potenli, complicate, quali convengono alla maggior parte delle navi da guerra, ed alle esigenze dell'arte moderna". Evidentemente, se per il Ministro Acton prima dell'uovo deve venire la gallina; per il Maffi invece è in contrario: non voglio già affermare che le nostre officine abbiano raggiunto tutto quello sviluppo che possono vantare i grandi stabilimenti di Inghilterra e Germania; ma ove le nostre industrie avessero avuto appoggio, ove fossero state incoraggiate, anziché condurre una vita stentata ed anemica, sempre incerte del domani, quali splendidi risultati non avrebbero ottenuto? Se noi insistiamo nel pregiudizio della nostra inferiorità, della nostra impotenza, anche fra un secolo saremo al punto in cui siamo oggi, ed i nostri nipoti deploreranno ciò che oggi deploriamo noi.
Il Maffi, perciò, ali' affermazione dell 'Acton che "se lo Stato deve provvedere in modo efficace alla sua difesa, sarà costretto a ricorrere all 'estero" contrappone la sua che "è un modo molto strano quello di provvedere molto efficacemente alla difesa del paese coll'affidare all 'estero la costruzione dei noslri ordigni di difesa e d'offesa". Imputa poi al Ministro di dare troppo peso
12
Galuppini, Guida alle: navi d 'Italia (cit.), pp. 27 e 66.
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agli errori e ritardi delle industrie nazionali e di dame invece poco peso a quelli delle industrie straniere (che pure ci sono), agevolando quest'ultime nelle modalità di pagamento. Inoltre, per quanto riguarda i prezzi "le case italiane, a costo di sottostare a sacrijìci, hanno sempre fatto in modo da togliere al governo la scusa di ricorrere ali'estero per tutelare gli interessi dell'erario"; ma se anche il governo facesse qualche sacrificio a favore degli industriali, chi potrebbe muovergli dei rimproveri? Né si può dire che le nostre industrie non siano in grado di produrre macchine: su nove macchine di produzione nazionale [delle quali solo una per l'incrociatore Amerigo Vespucci e le altre per naviglio minore; sempre escluse quindi le macchine per corazzate - N.d.a.] se ne sono avute solo tre difettose, tra le quali la macchina per il Pietro Micca costruita dal l'Ansaldo. Non è quindi corretta l'affermazione che in Italia non si è in grado di costruire macchine, mentre anche la macchina dell'incrociatore Flavio Gioia ordinata alla ditta inglese Penn dopo tanti mesi di prove e modifiche, non ha ancora raggiunto la potenza stabilita dal contratto. Il Maffi, infine, accenna al fatto che la fornitura di attrezzature varie e persino di argenterie - che potrebbero essere benissimo prodotte in Italia, magari anche a prezzi inferiori è affidata a ditte straniere, mentre la casa Ansaldo, che ha immediatamente accettato la proposta del Ministero di costruire una macchina, dopo otto mesi non ha ancora ricevuto la conferma. Anche questo fatto, perciò, dimostra che "la sollecitudine nella consegna dei lavori non è che un pretesto per giustijìcare un partito preso" [cioè la preferenza preconcetta per le commesse all'estero da parte del Ministero - N.d.a.]; inoltre "jànno il giro dei nostri giornali certi aneddoti di alcuni ufficiali della nostra marineria mandati all'estero per istudiare a spese nostre e poi divenuti agenti di Case estere". Nel successivo intervento l'onorevole Nervo lamenta che il citato ordine del giorno da lui proposto per promuovere l'industria nazionale, benché approvato dalla Camera, all'atto pratico è rimasto pressoché lettera morta: ritiene perciò opportuno passare a un articolo di legge. Formula anche alcune proposte per eliminare i sospetti di parzialità e il pericolo di multe per difetti formali, ai quali danno luogo i tradizionali metodi per le commesse del Ministero della marina, con molte lamentele da parte degli industriali. Tali proposte riguardano: - la pubblicazione degli appalti con l'anticipo necessario per consentire di parteciparvi alle industrie nazionali, che non sono costantemente alimentate da commesse come quelle estere e quindi si troverebbero in svantaggio rispetto a quest'ultime; - l'abolizione della consuetudine del Ministero della marina di indire l' appalto per un dato materiale o congegno, invitando le ditte nazionali che intendono concorrere ad andare a rilevare tutti i dati necessari nel luogo stesso dove il congegno funziona. Tn tal modo la ditta una volta presa visione del materiale potrebbe o recedere dall'appalto, o non soddisfare l'amministrazione, esponendosi a multe o gravi perdite. Occorre perciò allegare subito al capitolato per l'appalto il disegno delle macchine o congegni;
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- iI predetto orientamento del Ministero porta a ordinare ali' estero le grandi macchine per le navi da guerra. Ciò avviene, "mi hanno detto", non per mancanza di patriottismo, ma "per eccessiva modestia da parte del1'amministrazione della marineria e degli eminenti ingegneri che la compongono", i quali dovrebbero trovare il coraggio di disegnare loro stessi queste macchine per farle poi costruire dall'industria nazionale; - i termini per le consegne dovrebbero essere fissati dal Ministero tenendo realisticamente conto delle condizioni delle nostre industrie ed evitando di aspettare l'ultimo momento per le commesse. Con la loro banalità, queste proposte non mettono effettivamente in buona luce i metodi usati dal Ministero, ma il Nervo riconosce che dei predetti inconvenienti non può essere chiamato a rispondere il Ministro stesso. Gli chiede invece anch'egli spiegazioni per l'assegnazione dell ' appai to per l' ariete torpediniere Bausan alla ditta inglese Armstrong, che notoriamente produce solo cannoni, quindi dovrebbe a sua volta rivolgersi ad altre ditte per tutto il resto. TI deputato e ingegnere navale Bozzoni, al momento membro del Comitato disegni navi, è tra i pochi - se non l' unico - a tracciare un quadro rassicurante della situazione della marina, le cui condizioni sono da lui definite addirittura ''più che soddisfacenti". Non individua nessuna rottura tra l' indirizzo del Saint Bon / Brin e quello dell' Acton, "il quale, presso a poco. ha seguìto io stesso indirizzo dei suoi predecessori" [il che è vero, almeno per le ultime costruzioni - N.d.a.l Dopo aver Iodato il Duilio, il Dandolo e il Lepanto, giudica molto favorevolmente anche la qualità del personale di ogni grado. L'unico grande neo è anche per lui la forte dipendenza dalle industrie straniere per le corazze, i cannoni ecc.; a suo parere occorrono perciò-come già hanno affermato i predecessori - delle industrie siderurgiche e meccaniche nazionali. Di conseguenza sollecita i Ministri della marina e dei lavori pubblici a presentare subito un'apposita legge sulla materia, per risolvere un problema che è alo studio dal 1878. ma senza ricorrere a Commissioni, che potrebbero solo ritardare ulteriormente il provvedimento. In particolare suggerisce di sviluppare gli stabilimenti già esistenti dell'Ansaldo e quello ex - borbonico (di proprietà privata) di Pietrarsa, acquistando il primo e destinando tutte e due esclusivamente alla produzione di macchine, sul modello francese. Peraltro, anch'egli ammette che per le macchine delle corazzate non è opportuno ricorrere a ditte italiane, anche se praticassero prezzi di poco superiori alle case estere: "considerato che le case estere danno una grandissima garanzia di buona riuscita del 'apparecchio, che godono reputazione di superiorità incontestabile nei loro prodotti, chi avrebbe il coraggio di prescegliere la casa italiana quando si sa che la macchina non perfetta può menomare la potenza di una delle nostre maggiori navi, e anche la sicurezza in combattimento?". Sembra dunque unicamente questa la ragione del tanto lamentato ricorso a case estere da parte del Ministero; e lo stesso si potrebbe dire dei cannoni e delle corazze.
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Nella sua lunga replica il Ministro Acton fa anzitutto osservare che, come risulta dagli allegati alla relazione della Commissione bilancio, ha sempre applicato - nei limiti del possibile - il citato ordine del giorno del 20 giugno 1882 sull'opportunità di favorire le industrie nazionali; anzi sta andando più in là, con la limitazione del requisito della parità di condizioni ai tempi di consegna e alla qualità degli oggetti e per il resto accettando "un tollerabile aumento di spesa" per la produzione nazionale. Naturalmente è anch'egli dell'idea di ordinare all'estero macchina e cannoni; e in proposito lamenta i ritardi dell 'Ansaldo nella consegna - non ancora effettuata- delle macchine per il Savoia (incrociatore trasformato in yacht reale) e per l'incrociatore Amerigo Vespucci. Spera anch'egli che la marina possa affrancarsi presto dalla produzione estera; ma intanto deve constatare che per il momento"la mancanza di sujjìciente pratica non consente ai nostri stabilimenti che di imitare le macchine estere, copiandole dai disegni che ci vengono fomiti''. Tali disegni possono essere forniti, dalle case estere, solo se si acquista la prima macchina della serie . _. Sarebbe pertanto necessario che i giovani ingegneri più promettenti, licenziati dalla Scuola superiore navale di Genova fossero inviati per perfezionarsi nelle officine estere. Riguardo allo sviluppo dello stabilimento Ansaldo, l' Acton assicura che gli verrà affidata la costruzione di una macchina da 6000 HP per uno degli arieti torpedinieri da costruire, con promessa di assegnargli altre importanti commesse_ Fa inoltre notare che il predetto stabilimento al I O gennaio 1883 doveva ancora consegnare 2.442.000 lire di lavori, e che altri ne ha ricevuti nel corso dell'anno. Circa la commessa della macchina della corazzata Andrea Doria, informa che le case inglesi si impegnavano a consegnarla in 15 mesi, mentre l'Ansaldo ne ha chiesti 30: così stando le cose "poteva l'amministrazione, dopo gli esempi recenti, vincolarsi a patti che con molta probabilità non sarebbero stati mantenuti?". Del resto, anche per la macchina del Savoia "un consesso tecnico" [molto probabilmente il Consiglio Superiore di Marina- N.d.a.] aveva consigliato di sperimentare la macchina con caratteristiche simili che lo stabilimento Ansaldo sta costruendo, prima di assegnare la commessa ... La stessa questione del tempo di consegna vale per il Bausan: per creare una nave da guerra di quell'importanza e novità ai nostri ingegneri sarebbe occorso molto, troppo tempo, e anche dopo che ci fossero riusciti, ci si sarebbe dovuti rivolgere alla dittaArmstrong per la macchina e l'armamento; infatti " la casa Armstrong, la quale da molto tempo vi aveva rivolto studi particolari, era giunta gradatamente a risolvere il problema dopo aver costruite navi minori dello stesso genere", in modo da essere in grado di consegnare la nave in 15 mesi, a fronte dei tre anni circa che sarebbero stati necessari per costruirla in Italia. Cosi, avremo anche il vantaggio di avvalersi dell'esperienza delBausan per la costruzione degli altri due arieti torpedinieri in programma: "abbiamo, insomma, comprato il Bausan per l'identica ragione che ci ha indotti a comprare parecchi siluri Whitehead, le mitragliere Hotchiss e Nordenfeldt prima di intraprendere la costn,zione di simili armi in paese_ .. ,''_ Sempre a proposi-
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to del Bausan, rispondendo all'onorevole Boselli I' Acton ha buon gioco nel sottolineare che le sue caratteristiche sono ben diverse, e migliori rispetto a quelle del Flavio Gioia, perché frutto del la lunga esperienza acquisita dalla casa Armstrong nel fornire ad altri governi tipi di navi simili; e alle critiche del Nervo obietta che essa di recente si è fusa con il "rinomato cantiere" Mitchell e con il Siemens, dando così vita a un nuovo stabilimento in grado di costruire navi al completo. Questa politica - ricorda l 'Acton - è stata da lui seguita con successo anche per le torpediniere, rivolgendosi alle migliori ditte straniere specializzate in questo settore e così evitando di far costruire dal) 'industria nazionale navi sorpassate. Ciò non toglie che le commesse da lui assegnate all'industria nazionale sorpasseranno di gran lunga quelle degli anni scorsi; allo stabilimento Orlando sono state intanto ordinate due torpediniere, mentre "si avranno da mettere in cantiere in quest'anno una potentissima nave porta - torpediniere destinata anche al rapido trasporto di artiglieria e cavalleria, un potente rimorchiatore e due navi di terza classe". Ad ogni modo "ho preparato le istruzioni per una autorevole Commissione, la quale deve precisamente aiutarmi a porre in atto gli opportunissimi concetti svolti da/l 'onorevole Boselli, studiando la pianificazione delle commesse in modo da assicurare, per quanto possibile, la continuità e la specializzazione del lavoro fra i vari stabilimenti nazionali meritevoli di incoraggiamento". Non può essere comunque trascurato che gli stabilimenti meccanici nazionali ricevono pochissime ordinazioni da privati, e che le compagnie di navigazione e gli armatori italiani si rivolgono quasi esclusivamente all'estero per la costruzione e l'acquisto delle loro navi, mentre alla stipula di contratti favorevoli per le industrie meccaniche nazionali vi è un limite, perché non è giusto danneggiare un'industria e favorirne un'altra. Circa le critiche al maggior costo del lavoro negli arsenali governativi, l'Acton fa rilevare che il Governo nei confronti dei lavoratori ha degli obblighi sociali ai quali non devono sottostare gli imprenditori privati, che possono licenziare il personale in ogni momento. Né va trascurato che gli arsenali funzionano anche come scuole per talune categorie di lavoratori specializzati, che eITettuano lavori per i quali non è conveniente ricorrere ai privati e che devono essere sempre pronti ad effettuare le riparazioni; per tutte queste ragioni essi devono sempre dispon·e del personale e dei mezzi di produzione necessari. Infine il Ministro non sembra molto entusiasta della creazione di un unico stabilimento siderurgico nazionale sovvenzionato dallo Stato, facendo osservare che " la sua prosperità, se dovuta al 'aiuto dello Stato, potrebbe essere causa della rovina degli stabilimenti minori esistenti, od impedire lo impianto degli altri", riservandosi comunque di esaminare il problema sotto tutti gli aspetti "in concorso coi miei colleKhi".
* * *
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Nella successiva tornata del 10 aprile 1883 interviene il deputato generale Marselli, dimostra anch'egli (come il Bonamico più tardi) che la nostra marina per quantità e qualità del naviglio non è nemmeno in grado di svolgere il limitato compito della difesa delle coste e delle isole, che richiederebbe un livello di forze di 2/J di quella francese. A suo parere non si può contare molto sulla superiorità delle nostre corazzate più recenti, perché la marina francese ha già tre navi di circa 11000 t in grado di competere con il Duilio (Baudin, F onnidable e Duperré), mentre altre sei di 10000 t sono in costruzione. Noi invece siamo nel rapporto di 1:2, 75 per numero di corazzate e di 1:3 per le navi più moderne o in costruzione. Non raggiungeremo questo rapporto nemmeno quando sarà completamente attuato il piano organico del 1877, cioè nel 1887. Il Marsclli non accetta neanche la tesi che gli sbarchi nella penisola e nelle isole non sono agevoli, quindi la loro difesa potrebbe essere affidata all'esercito, che proprio per questo ha accresciuto nel 1882 la sua forza di 2 corpi d'armata: per lui in base a recenti studi la Francia potrebbe sbarcare 4 corpi d'armata, e vale anche il vecchio postulato navalista che "l 'ltalia, risalutasi a diventare grande nazione, deve diventare una grande potenza marittima o annullarsi". Perciò "la marina deve diventare signora dei nostri pensieri, e i denari spesi per la marina sono il miglior impiego dei capitali, perché sono il mezzo più ej: ficace per proteggere il nostro commercio"; né l'esercito è in grado si difendere le coste della penisola e delle isole [come sosteneva anche il generale Ricci - N.d.a.], perché se lo facesse sarebbe debole dappertutto, ai confini del Nord come nel Meridione. Di conseguenza il Marselli prevedibilmente sostiene che bisogna aumentare il bilancio della marina e (addirittura) di concentrarvi le risorse, visto che non vi è denaro sufficiente per ambedue le esigenze, di terra e di mare. Per giunta, pur riconoscendo l'impossibilità di costruire tutte le 16 corazzate e tutti i 1O incrociatori previsti dal piano organico del 1877 si allinea con il concetto di base del Saint Bon e Brin, riconoscendo la necessità di ultimare al più presto le navi in cantiere [cosa che al momento non stava avvenendo e non sarebbe mai avvenuta - N.d.a.], in modo da approfittare del periodo di incertezza per assicurarsi un vantaggio sulle altre marine. Si dichiara perciò favorevole alle grandi navi, sia perché una nave sola con 4 cannoni da 100 tè più economica di due navi con due cannoni ciascuna, sia perché se una torpedine dovesse colpire una nave di 5-6000 t molto probabilmente riuscirebbe a mandarla a fondo, mentre contro una nave di 11000 t il suo colpo andrebbe probabilmente un effetto localizzato (ma che ciò non sia sempre vero, lo avrebbero dimostrato le guerre del XX secolo). Invece è più nel giusto quando constata che ormai anche le nostre corazzate in costruzione sono grandi navi, e prevede - come poi è avvenuto - l'aumento del loro dislocamento. Non sembra però che, nel concreto, il Marselli delinei per il futuro una flotta corrispondente alle ambiziose esigenze e preferenze prima indicate. Si limita a esprimere il desiderio che nel 1887 siano disponibili due nuove corazzate in più e tre incrociatori in più (non è altro che il programma in corso), collo-
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cando però "in posizione ausiliaria" ben 5 corazzate antiquate. Come e perché la flotta italiana con queste nuove costruzioni già in corso possa svolgere i suoi compiti difensivi, non lo precisa; né indica quali assegnazioni di bilancio sarebbero necessarie al momento e in futuro, limitandosi ad accennare a vaghe promesse del presidente del Consiglio Depretis di aumentare i bilanci militari, e alla solita, generica necessità di eliminare "le forze morte" del bilancio per sviluppare quelle "vive", tra le quali - bontà sua - include le spese militari. Nell'intervento del celebre scrittore ed esponente dell'esercito, dunque, vi è profonda disarmonia tra le premesse tipicamente "navaliste" e le soluzioni pratiche da lui indicate, insufficienti e troppo generiche. Dopo il Marselli prende la parola il deputato e ingegnere navale Borghi, che con argomentazioni di ben altro peso e ben altra competenza tecnica prospetta soluzioni costruttive ancora più ambiziose, in sostanza proponendo non solo che venga data esecuzione completa alla legge organica del 1877, ma anche che prima della fine del decennio considerato dalla predetta legge (cioè prima del 1887) "si costruisca ed allestisca una quantità di materiale navale superiore a quella che il Governo reputa sufficiente per l'osservanza della predetta legge". In secondo luogo il Borghi vuol dimostrare - con indiretta ma chiara allusione alle diverse e ben più pessimistiche tesi del Ministro Acton e del Governo - che anche per la maggiore quantità di materiale che stimo necessario di costruire prima del 1888, l'industria nazionale può fornire ai nostri arsenali il complemento di mezzi occorrente per eseguire in paese quelle parti di navi che assolutamente non si possono far costruire all'estero; che anche di ciò che arigore si potrebbe acquistare a/l'estero, gran parte può essere costruito dall'industria nazionale; che infine è indispensabile che nel più breve tempo possibile l'Italia sia in grado di provvedere da sé ai hisogni della propria marineria da guerra.
La sua valutazione dell'efficienza delle forze navali italiane del momento è assai più pessimistica di quella del Bozzoni e del Marselli: puntualizza che il precedente giudizio favorevole del Bozzoni si riferisce alla qualità del materiale nuovo, alla bontà dell'indirizzo seguito e alla leadership, ma non riguarda il rapporto di forze con la marina francese, che tenendo conto della scarsa efficienza di parecchie nostre corazzate è di 1 : 6, anche se il Duilio e Dandolo equivalgono a 4 delle più potenti navi nemiche; infatti in un anno la Francia per ciascuna nostra corazzata ne costruisce tre. Si dichiara poi soddisfatto del programma del Ministro per la costruzione di navi da guerra di 2a classe (incrociatori, arieti torpedinieri ecc.); non così avviene per le navi da guerra di 1" classe, visto che, tenendo conto della scarsa efficienza di parecchie vecchie corazzate (e in particolare della Venezia e della Roma), a fine 1887 non otto, ma solo cinque di esse potranno ancora essere considerate navi da guerra di 1a classe, quindi a tale data le navi di la classe effettivamente in servizio dovranno essere undici (non soltanto otto come calco-
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la il Ministero). E poiché le corazzate al momento in mare o in cantiere sono solo sette (le 4 navi colossali, più le 3 della classe Ruggero di Laurìa), per rispettare la legge del 1877 occorrerebbe avviarne immediatamente la costruzione di altre 4. Invece "il Governo mostra di credere che basta costruirne tre; di queste propone di metterne in cantiere due nel venturo anno [ 1884] e non ci fa nemmeno prevedere quando potrà iniziare la terza", aggiungendo di non credere che si riesca a completare il programma nel tempo indicato, anche se si disponesse delle somme necessarie. Circa l'impegno finanziario che comporterebbe la sua proposta, il Borghi calcola che per attuare la legge del 1877 negli anni dal 1884 al 1887 il Ministero tutto compreso avrebbe a disposizione 128, 5 milioni, ai quali propone di aggiungerne "almeno 34 milioni" (totale 162 milioni), necessari per costruire una quarta nave da guerra di 1a classe "ed avanzare almeno di 1/s la costruzione delle altre cinque" che dovranno sostituire la Maria Pia, il San Martino, l'Ancona, il Castelfidardo e l'Affondatore. Ne consegue che "/e mie proposte non eccedono gli effettivi intendimenti del Governo che per la somma di 80 milioni [non è poco! - N.d.a.); e questa eccedenza non è certo tale che lo stato presente delle nostre finanze non possa sopportarla", tanto più che "i/ nostro governo può e deve f are delle economie in tutti i settori meno che nella marineria. Questa io considero siccome base essenziale della nostra esistenza presente e.futura". Nel campo industriale e della provvista di materie prime nulla di veramente nuovo, se non un pronunciato ottimismo: il Borghi compie una lunga e pregevole ricognizione delle capacità esistenti, per giungere però alla conclusione come gli altri - che almeno per il momento non è possibile fare interamente assegnamento su industrie nazionali per la fabbricazione di grosse corazze (la cui estensione è peraltro limitata alla protezione di parti ristrette delle navi), di grosse artiglierie e di macchine per corazzate. Ciò non toglie che a suo parere all'industria nazionale potrebbe essere interamente affidata la costruzione di navi da guerra di 2" e 3" classe, di corazze leggere, di motori per la marina mercantile e per navi da guerra, di navi mercantili con scafo in ferro ecc. Occorre però che il Governo intervenga per favorire la nascita e lo sviluppo di cantieri che offrano sufficienti garanzie, affidando loro la costruzione degli scafi delle nostre navi con anticipazione di 1/s dell'importo totale delle commesse e facendoli aiutare e controllare dai nostri ingegneri e dai nostri tecnici, in modo da facilitare il loro passaggio dalle costruzioni in legno alle costruzioni in ferro. Per quanto riguarda la costruzione degli scafi delle corazzate, bisogna orientarsi a metterne sugli scali due o tre alla volta, come avviene nelle principali marine. Comunque il Ministero deve accettare un certo rischio, ricorrendo per le nuove costruzioni anche a industrie italiane nate da poco o senza esperienza nella costruzione di grandi navi a scafo metallico. Inoltre è giunto ormai il momento di affidare specialmente all' Ansaldo e alla Guppy di Napoli anche la costruzione di motori per le corazzate, mentre - come già affermato dal Ministro Acton - anche la ditta Gregorini di Lovere, che già ci ha affrancati dall' estero
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per la costruzione dei proietti per artiglierie, potrebbe presto costruire anche i cannoni. Perciò anche per il Borghi, quello che manca assolutamente in Italia e che dobbiamo avere al più presto è uno stabilimento siderurgico, che dovrebbe essere creato dal Governo senza preoccuparsi dei suoi costi più elevati data la sua importanza suprema. Diversamente dall' Acton, egli ritiene comunque che tale stabilimento non danneggerebbe l'industria privata. A coronamento del suo lungo intervento il Borghi presenta un ordine del giorno con il quale la Camera per affrettare la costituzione della flotta come previsto dalla legge del 1877 invita il Governo a iniziare la costruzione di altre 4 navi da guerra di l a classe e a "compiere innanzi del 1888 /'allestimento di queste e delle necessarie navi minori, avvalendosi a tal fine di tutto il concorso del 'industria nazionale". Per raggiungere tali obiettivi indica, tra l'altro, le seguenti modalità: - compilare, esaminare e approvare gli studi per le nuove navi di la classe entro l' anno; - impostare nell'anno corrente o al più tardi all'inizio del 1884 tre delle nuove corazzate in ciascuno dei tre arsenali marittimi (La Spezia, Taranto e Venezia); e la quarta nel cantiere Orlando di Livorno, sullo scalo già del Lepanto; - affidare ai cantieri privati nazionali la costruzione di tutte le navi di specie e classe inferiore alla prima e del maggior numero possibile di motori, "non escluso nemmeno uno di quelli delle navi di ]"classe". Per la parte finanziaria il Borghi, more solito, rivolge un appello (naturalmente inascoltato) al Ministro delle finanze, affinché trovi l' ingente somma da lui ritenuta necessaria; ma il suo ordine del giorno per l' immediata impostazione di 4 nuove corazzate non viene accolto, così come non sono accolte le altre proposte per l'aumento dei fondi. A partire dall'ottobre 1884 - cioè sotto la nuova gestione Brin - furono comunque impostate le 3 corazzate classe Sardegna con dislocamento maggiore della classe Lauria (quasi 16000 t) e 4 pezzi da 343 mm, cioè di calibro notevolmente inferiore ai precedenti, ma più moderni. Le macchine della Re Umberto furono acquistate come sempre in Inghilterra, la Sardegna dalla Hawthorn-Guppy di Napoli e per la Sicilia dal1' Ansaldo. 11 deputato Ferdinando Martini, che interviene dopo il Borghi, esordisce con un duro e diretto attacco al Ministro, dicendosi subito convinto (senza indicarne le ragioni) che l' indirizzo da lui dato all'amministrazione della marina è "cattivo", anche se prevede a torto che per il momento "non si muterà né l'indirizzo, né il Ministro" . Indirizza in particolar modo le sue critiche all'intricata questione della scelta delle corazze inglesi tipo Compound per l'Italia, che a suo parere sono state troppo affrettatamente preferite dal Ministro a quelle francesi tipo Schneider. e ne trae la conclusione che il Ministro ha trascurato senza ragione, malgrado il parere dei corpi tecnici, le prove comparative che avrebbero potuto dimostrare l'efficienza delle corazze "per i fian chi'' dell'Italia, e che anziché accelerare il completamento della navt:, (;On ritardi e ostaco-
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li frapposti tra un'operazione e un'altra è riuscito a differirne di due anni l'entrata in servizio, con corazze che gli stessi corpi tecnici riconoscono inferiori a un'altra esistente [cioè alla corazza tipo Schneider - N .d.a.]. Perciò, con questo modo di agire da parte dell' Acton il Ministero del la marina gli sembra "nave senza nocchiero in gran tempesta".
* * * Nella tornata dell'll aprile 1883 si susseguono un altro duro attacco al Ministro da parte del deputato Canevaro (ufficiale di marina in servizio) su questioni generali dell'organizzazione della marina, la difesa dell'operato del Ministro sulla questione delle corazze da parte dei deputati Vastarini - Cesie Bozzoni, nuove critiche sulla stessa questione da parte del generale Ricotti e un nuovo intervento interlocutorio - soprattutto sul problema dei siluri - da parte del deputato de Zerbi. Il Canevaro loda i Ministri che hanno preceduto I' Acton, ma pur avendo votato contro le grandi navi anch'egli giudica subito "non buono" l'indirizzo seguìto dall'amministrazione della marina, a causa del persistere di dubbi, incertezze, inquietudini, sospetti e accuse. In particolare: - gli arsenali non sono convenientemente difesi, nemmeno contro un semplice colpo di mano; meglio sarebbe, perciò, non averli; - la difesa subacquea dei porti militari è incompleta, per mancanza di personale e di naviglio atto ad affondare preventivamente le torpedini; - a causa delle passate polemiche sul tipo di nave da adottare, la marina è divisa in due campi e vi è una corrente contraria all'attuale amministrazione; - l'armonia tra gli ufficiali della marina è turbata da molte altre questioni, a cominciare dal l'organizzazione degli studi, dal lassismo delle nuove norme disciplinari, dai favoritismi e dalle irregolarità nelle ammissioni nell'Accademia navale e nell'istituto per allievi macchinisti; - a causa della mancanza di una potente organizzazione navale abbiamo perduto ogni forza espansiva nel Mediterraneo, anzi in caso di guerra "metà della difesa della Patria sarebbe perduta sin dal primo giorno". Il deputato Vastarini-Cesi sostiene che, come scritto anche dal capo costruttore della marina inglese Bamaby, le corazze Compound (in acciaio e ferro) sono superiori a quelle Schneider di puro acciaio, perciò la scelta del Ministro è stata indovinata. I risultati degli esperimenti della Spezia, ai quali ha assistito lo stesso Barbaby a suo parere non sono probanti, a causa della diversa inchiavardatura delle piastre tipo Compound rispetto a quelle tipo Schneider nel corso degli esperimenti. Invece l'ammiragliato inglese ha ordinato degli esperimenti che hanno confermato l'opinione del Bamaby, perciò le corazze Compound sono state installate sulle nuove fregate inglesi. Riguardo al modo di agire dal Ministro, il Vastarini-Cesi definisce le critiche del Martini un prodotto dell' "actonite" (cioè dei pregiudizi contro il Ministro), il cui operato
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dimostra se mai che egli è stato l'unico ad avere dei dubbi sulla corazza Compound, tanto che ha chiesto prima il parere del Comitato disegni navi, invece di ordinarle direttamente e subito come avrebbe potuto. In quanto ai ritardi lamentati dal Martini, con dispaccio del 30 novembre 1880 il Ministro ha chiesto al Comitato disegni navi il progetto del ridotto corazzato dell'Italia, che gli è stato trasmesso (a firma del presidente Brin) solo in data 7 maggio 1881, con notevole ritardo. Infine, le modalità per le prove delle corazze sono state definite dai Corpi tecnici e non dal Ministro ... 1n quanto all'affrettata conclusione del contratto per la fornitura delle corazze Compound, essa era giustificata dalla situazione internazionale del momento (questione egiziana), che imponeva di accelerare al massimo l'approntamento dell'Italia. L'onorevole Bozzoni (ingegnere navale, membro del Comitato disegni navi) critica la farraginosità dei regolamenti di amministrazione della marina, l'eccessivo accentramento di funzioni e responsabilità- per sfiducia nei livelli inferiori- che essi prevedono, e il troppo tempo che fanno perdere al personale tecnico. E dopo aver descritto nel dettaglio come si è arrivati alla scelta della corazza Compound da parte del Ministro, arriva anch'egli alla conclusione che è stata corretta e inevitabile, perché il Ministro - pressato dalla necessità di fare presto - ha preferito corazze ben collaudate e unanimemente ritenute le migliori anche all'estero come sono le Compound, a quelle tipo Schncidcr di nuovo tipo ancora allo studio in Francia, per le quali vi era la probabilità (e solo quella) che riuscissero superiori alle Compound; comunque per compiere altre esperienze prima della scelta occorreva troppo tempo, ed era tra l'altro necessario smontare un cannone da 100 t da una delle nostre due grandi corazzate. Il generale Ricotti concorda sostanzialmente con il Bozzoni sulla bontà della scelta delle corazze Compound da parte del Ministro, ma ricorda che il contratto per il loro acquisto con la casa inglese Brown - il quale prevede la consegna delle piastre entro otto mesi a decorrere dalla consegna dei disegni - non è ancora in vigore per una serie di disguidi e ritardi che hanno impedito fino a un mese prima la consegna alla ditta dei predetti disegni; perciò il Ministro non è riuscito ad accelerare l'allestimento dell'Italia. L'onorevole de Zerbi osserva che l'alleanza con potenze continentali [che onnai è stata conclusa, con la Triplice firmata l'anno precedente - N.d.a.] "richiederebbe per l'Italia maggiore sviluppo di forze marittime di quello che richiedeva un 'alleanza con potenze occidentali''. Chiede perciò al Ministro di comunicare se coordiua la politica navale con quella generale dello Stato; inoltre se ritiene o meno sufficienti i fondi già concessi dal Parlamento, anche in relazione ai nuovi impegni dell'alleanza, e nel caso che li ritenga sufficienti, se per assicurarci tra alcuni anni un forte naviglio, "non crede che si debba fare qualcosa per evitare quelle sorprese alle quali ha accennato l'onorevole Canevaro, tenendo anche presente che il Ministro delle finanze Magliani non intende aumentare neppure di un centesimo la spesa". Passa poi ad esaminare la questione dei siluri per la marina, nei quali individua delle carenze anche se, a
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suo parere, questa nuova arma avrà grande influenza morale e materiale nelle guerre future. Al momento i siluri Whitehead in dotazione devono essere smontati e asciugati ogni volta che vengono provati, perché le loro parti interne sono soggette a ossidazione. Finora la casa Whitehead non ha trovato una soluzione, che invece è stata trovata da cinque anni dalla marina tedesca. Quest'ultima ha venduto i suoi siluri alla Spagna e perciò li venderebbe anche all'Italia; "così saremmo forniti di buoni siluri i quali costano meno o lo stesso di quelli Whitehead. e i quali sono consegnati e provati uno per uno, mentre di quelli Whitehead se ne prova uno su dieci". Il de Zerbi non giudica soddisfacente nemmeno la situazione delle torpediniere, molto importanti visto che nessun bastimento da guerra non è tale se non è accompagnato da torpediniere, e che esse servono a rimediare alla nostra inferiorità numerica rispetto alla flotta francese, oltre che per la difesa costiera e in particolare della base della Maddalena. Dopo aver constatato che nel 1884 saranno disponibili 36 torpediniere, delle quali però solo 10 in grado di raggiungere la velocità di 21 miglia ali' ora, chiede al Ministro di sapere perché sono state ordinate all'estero alcune torpediniere tipo Batlem che pare non abbiano soddisfatto il governo russo, e perché non è stata sviluppata la nostra torpediniera Pietro Micca, la cui formula di torpediniera-ariete è stata sviluppata con successo dagli inglesi con il Polyphemus, e il cui difetto di costruzione consisteva solo nell'insufficiente potenza della macchina. Definisce infine "agghiacciante" il discorso del deputato Canevaro: poiché una marina deve avere fiducia nel suo Capo, "se quello che dice l'onorevole Canevaro è vero, la Camera deve dare un voto di sfiducia al ministro della marineria; se quello che dice l'onorevole Canevaro è inesatto, se egli è stato male informato, la Camera deve solennemente dichiarare la sua fiducia al ministro della marineria indipendentemente da ogni altra questione politica".
* * * L'evento centrale della tornata del successivo 12 aprile 1883 è un lungo discorso del Ministro Acton nel quale risponde specie alle accuse del Martini, sempre affiancato dal presidente della Commissione bilancio onorevole Botta; a loro volta il Canevaro e il Martini in polemica con il Ministro ribadiscono le loro tesi. A proposito delle corazze per l' Italia I' Acton precisa che: - non si tratta di corazze "per i fiancht' della nave [il cui scafo essendo a struttura cellulare ne è privo - N.d.a.], bensì di corazze per il suo ridotto (dove sono collocate le artiglierie) e per la protezione delle comunicazioni con i ponti inferiori; - vanno respinte le accuse senza cognizione di causa all'operato del Consiglio Superiore di Marina; - ha sempre deciso secondo il parere unanime del predetto Consiglio; - si è discostato dal parere del Comitato disegni navi accettando quanto suggerito da uno dei suoi membri [cioè il Brio - N.d.a.], ma successi-
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vamente il Consiglio Superiore di Marina ha confermato i suoi orientamenti; - il Martini ha scambiato le prove contro corazze orizzontali eseguite "con risultati importanti e decisivi" sull'ex-fregata Duca di Genova, con prove di corazze verticali; - un altro equivoco nel quale è caduto lo stesso Martini è quello di aver creduto che, una volta disegnato il ridotto dell'Italia, si potesse senz'altro procedere alla sua corazzatura, mentre invece il ridotto, "grande e complicato vero edificio", doveva essere ricostruito prima di corazzarlo; - lo spessore di 43 cm per la corazza del ridotto (stabilito dal Consiglio Superiore di Marina) era calcolato per resistere al cannone inglese da 80 t: "o perché mai vogliamo ora far vedere [con altri esperimenti] a nostre spese alle altre nazioni che se adottano cannoni da 100 t sono padrone di sjòndare le corazze della nostra maggior nave? Perché allarmare inutilmente il nostro paese e mettere prematuramente sull'avviso lo straniero? Perché non aspettare a fare queste costosissime prove, quando avremo trovato il modo di fare corazze più spesse e di più progredita.fàbbricazione?". - Comunque lo spessore al galleggiamento delle corazze delle tre navi di 1a classe in costruzione sarà di 45 e non di 40 cm; - i risultati dei successivi esperimenti hanno dimostrato che sarebbe errato dare la preferenza alle corazze Schncidcr, i cui pezzi nelle esperienze si sono spaccati completamente, tanto da far temere che esse potrebbero essere perforate anche dai nuovi cannoni da 25 cm a retrocarica [che a fine secolo avrebbero avuto ovunque la preferenza - N.d.a.]. Invece le corazze Compound sono state appena intaccate da qualsiasi tipo di proietto, senza contare che nel tiro obliquo, cioè nel tiro effettivo contro le corazze dell'Italia, saranno ancor più resistenti; - abbiamo quindi fatto bene a non lasciarci influenzare dai risultati del primo esperimento, dovute a cattiva inchiavardatura delle corazze. Dimostrano la validità delle corazze Compound anche gli esperimenti rrancesi di Gavres, e il fatto che esse sono state prescelte dalle maggiori marine; - anche il presidente del Comitato disegni navi [cioè il Brin - N.d.a.] ha concordato sull'inopportunità di fare altri esperimenti prima di adottare le corazze Compound, risultate le migliori; - l'acquisto di una seconda corazza Schneider per esperimenti da lui stesso proposto a suo tempo riguardava la futura scelta di corazze per il Lepanto [visto che erano in corso studi per migliorarla da parte della casa che la produceva - N.d.a.], e in questo senso esso è stato approvato dal Comitato disegni navi, senza contraddizione con la precedente scelta a favore delle corazze Compound, ritenute sempre le più valide anche dal suo presidente, dopo successivi esperimenti francesi sulle predette corazze Schneider; - comunque "i nostri Corpi tecnici terranno dietro del resto, con la abituale scrupolosità [ ...] alle fùture prove, e dopo di esse decideremo sul
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da farsi per la corazzatura del Lepanto, del Laurìa, del Morosini e del Doria,per la quale,fra non molto, verrà il momento di deciderci". L' Acton respinge anche la frequente accusa di aver provocato ritardi nelle nuove costruzioni navali (con particolare riguardo alle navi maggiori), e dimostra con una lunga serie di dati che se mai ha fatto tutto il possibile per accelerarle, tant'è vero che, per esempio, quando ha assunto la carica di Ministro al Duilio lavoravano I 00 persone, mentre nel 1880 vi sono state da lui impiegate in media 800-1000 persone. Inoltre sono stati raddoppiati - o triplicati - i lavori agli arsenali di Venezia e Castellamare, con un aumento di 2000 unità cioè di circa 1/4 - del numero di operai e un aumento della produzione totale dell '80%. Riguardo ali' Italia, secondo l'Acton come accade anche in altre marine sono stati sbagliati i calcoli per la durata dei lavori, ma si deve solo al suo impegno se i ritardi sono stati contenuti. Ad esempio il montaggio della macchina è durato 30 mesi, il progetto del timone ha richiesto molti mesi perché si trattava di un congegno completamente nuovo, la sistemazione delle artiglierie e delle 7 riservette munizioni ha subìto più di una variazione, e come ha detto anche l'onorevole Vastarini-Ccsi, il Comitato disegni navi da lui interpellato circa la possibilità e oppo1tunità di aumentare lo spessore delle corazze del ridotto di 43 cm, ha risposto dopo 7 mesi di studi proponendo un nuovo ridotto corazzabile con lastre Compound di 48 cm, che ha dovuto essere ricostruito, per poi disegnare le corazze. Sul problema dei fondi, la valutazione deU' Acton è una volta tanto realistica: per attuare completamente entro il 1887 il programma stabilito dal piano organico del 1877 mancherebbero 54 milioni, con corrispondente necessità di aumentare la spesa per le nuove costruzioni dai 20,5 milioni previsti per l'anno in corso a 31 milioni, "cifra superiore pel momento a quella che il mio onorevole collega delle finanze mi lascia sperare di jàrsi strappare pel I 884, e
superiore anche ai mezzi di produzione che possediamo attualmente e che possono man mano svilupparsi". Perciò "nessuno più contento di me se si potessero realizzare i desideri del 'onorevole Marse/li e de/l'onorevole Borghi. ma occorrono per ciò due condizioni: 1° che mi diate i denari; 2° che guardiate bene se mettendo troppa carne al.fuoco non avessimo a so.I/i-ire ritardi" [ciò significa completo dissenso da quanto dichiarato dai due precedenti autori, i quali oggettivamente si basano su ciò che si dovrebbe fare e non su ciò che si può fare, specie per quanto attiene alle effettive capacità di allestimento dei nostri cantieri - N .d.a.]. In particolare, su quest'ultimo aspetto I' Acton dichiara di non essere d'accordo con il Borghi e di non poter accettare il suo ordine del giorno, pur riconoscendo che il naviglio da battaglia è "principalissimo tra tutti i mezzi di d~fesa, perché costituisce la difesa offensiva", tanto che al momento egli ricorda - sono in costruzione o allestimento ben 5 nav.i di prima classe. Anche a proposito della costruzione di torpediniere I' Acton traccia un quadro ottimistico: al momento ne possediamo 35, ne abbiamo in costruzione altre 8 in cantieri privati e ''fra breve speriamo commellerne altre", tenendo pn;sente che il numero attuale corrisponde alla metù ddl' csigenza di ques te navi .
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Comunque è del parere che non sia opportuno ordinare il materiale "con soverchia anticipazione", sia perché la formazione del personale non è né facile né breve, sia perché in tal modo non si utilizzerebbero gli incessanti miglioramenti. Circa i siluri assicura che ne possediamo 300, 100 dei quali del modello più perfezionato e altri 100 in corso di trasformazione. Chiarisce poi di non aver scelto i siluri tedeschi come suggerito dal de Zerbi, perché sono in tutto inferiori ai siluri Whitehead, i quali sono stati resi anch'essi immuni dalla ruggine con il rivestimento in bronzo fosforoso [che il de Zerbi giudica insufficiente - N.d.a.]. Garantisce, inoltre, che i siluri sono provati, e che "il.fatto che un siluro non funzionò a dovere alla presenza di Sua Maestà [in recenti esperimenti effettuati a La Spezia - N .d.a.] jù una mera ed eccezionalissima circostanza". Riguardo al mancato sviluppo del Pietro Micca lamentalo dal de Zerbi, afferma che la questione è stata studiata, ma che per il momento si ritiene più conveniente preferirgli due tipi di naviglio: uno più grande (cioè i torpedo-arieti) e uno più piccolo (cioè le torpediniere). Giudizio positivo dell' Acton anche sulla difesa ravvicinata dei porti, per la quale "non stiamo tanto scarsi a materiale". Ciò che più importa è l'organizzazione del servizio, e in merito riferisce di aver stabililo accordi con il collega Ministro della guerra, assegnando alla marina - che prima aveva creduto che le competesse solamente la difesa sottomarina della Spezia e di Venezia il compito di provvedere alla difesa navale e subacquea di tutto il litorale, e all'esercito il compito della difesa costiera terrestre, con l' intervento di delegati della marina in ogni studio di fortificazioni costiere. Ha anche costituito una Commissione per lo studio di tutto ciò che compete alla marina dopo gli accordi con il Ministero della guerra, con al le dipendenze del suo presidente un ufficio permanente "per la preparazione di quanto occorre per mettere le nostre forze navali in stato di guerra e per attuare la parte di difesa temporanea che spetta alla marina", perché anche se la flotta ha come campo d'azione l'alto mare, deve avere i suoi punti di appoggio e deve sapere quali sono le loro caratteristiche offensive e difensive: Di conseguenza "un continuo scambio d 'in.formazioni e di concerti deve essere stabilito fin dal tempo di pace fra il Capo di Stato Maggiore dell 'esercito e la regia marineria; studi continui devono essere fatti sulle operazioni militari della regia marineria in relazione con quelle del regio esercito; tutto quanto concerne le difese litoranee, il concorso della marineria mercantile ad operazioni militari, la mobilitazione delle riserve ecc., deve essere tenuto al corrente". Comunque per la difesa costiera e per le armi subacquee sono già stati spesi 1O milioni e per tale esigenza occorrerà alla marina un supplemento di fondi. Riguardo al cattivo funzionamento dei servizi amministrativi e alle condizioni morali della marina lamentati dal Bozzoni, l 'Acton precisa che gli aspetti amministrativi dei lavori negli arsenali sono affidati agli ingegneri subalterni e si riducono alla valutazione della spesa, che può essere compiuta solo da loro stessi. Difende inoltre i provvedimenti da lui adottati per mitigare la disciplina e in particolare l'abolizione delle pene corporali, già avvenuta in altre
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marine. Assicura anche che lo spirito della marina è elevato, e che l'Accademia navale "è un modello di buon ordine e di severissima per quanto umana disciplina", fornendo spiegazioni su qualche episodio che il Canevaro ha presentato come un esempio di favoritismo. I rimanenti interventi dell'onorevole Botta (che espone i motivi della concordanza della Commissione bilancio con le decisioni del Ministro in materia di corazze) e le repliche del Martini, del de Zerbin e del Canevaro ( che cita nuovi episodi della vita della marina) non aggiungono nulla di veramente importante e nuovo.
* * * Nella tornata del 13 aprile 1883 avviene un nuovo attacco del Saint Bon al Ministro Acton, con interventi di vari deputati e soprattutto del generale Ricotti (ancora una volta), del Crispi e del Brio. Sulle costruzioni navali il Saint Bon non dice nulla di nuovo, ma fa delle affermazioni tali da consentire la conferma di quanto osservato in precedenza (Cap. VID) sulla sua iniziale, inequivocabile posizione critica riguardo alle prime due navi colossali imposta.te dal Riboty. Anch'egli osserva che i ritardi nell'allestimento delle grandi navi sono continuati nella gestione Acton attribuendoli alla creazione da parte di quest'ultimo di un Comitato disegni navi, mettendo così in opposizione gli ingc!,'Ileri che ne fanno parte con gli ammiragli che compongono il Consiglio d 'ammiragliato [ cioè il Consiglio Superiore di Marina - N.d.a.). Ammette finalmente senza difficoltà (ma questo non va certo a suo favore, né a favore della scelta delle navi colossali) di essersi "recisamente" rifiutato, non appena assunta la carica di Ministro nel 1873, di mettere in cantiere altri due bastimenti del genere del Duilio e del Dandolo, "perché io diceva: quelli sono bastimenti invecchiati, che hanno fatto il loro tempo; la torpedine era la loro condanna". Perciò "si è ben guardato dal ripetere queste navt' che non avrebbe fatto costmire, anzi voluto sospenderne i lavori, ma dopo aver constatato che essi erano già ben avanzati, "non mi restò che migliorarli nei limiti del possibile". Detto questo, constata che " quelle navi che al pubblico piacque di dir grandi e che io mi sarei limitato a dir buone, hanno trionfato". Ma la Camera, benché il Ministro Acton abbia completamente sbagliato a proposito di quelle navi [se è così, ba sbagliato anche lui stesso - N.d.a.], dopo aver abbandonato l'idea di esercitare qualsiasi sindacato sul suo operato, lo ha autorizzato a costruire i tipi di nave che vuole; così è rimasto "confaccia franca" al suo posto, e dopo aver abbandonato l'idea di costruire navi da 5 o 6000 t "ha f atto mettere in cantiere bastimenti che si avvicinano alle 1I 000 tonnellate, i quali, a mio credere sono non dei Duilii migliorati, ma dei Duilii peggiorati. Io nel I 873 non credevo che fosse conveniente mettere in cantiere quei bastimenti, e si sono messi in cantiere peggiorati otto o dieci anni dopo" . Sempre in materia di costruzioni, il Saint Bon confessa - affermazione abbastanza grave - di "non capire a cosa servono i bastimenti di seconda classe", e in particolare di non
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capire l'importanza degli incrociatori: "che sifacciano degli incrociatori quando si è provveduto a tutto il materiale da guerra, questo lo capisco; ma che si facciano dei bastimenti per il fine di andare a passeggiare mentre il paese è indifeso, io questo non lo intendo". Fa poi la solita osservazione che nell'operato del Ministro manca l'amore, la passione per le costruzioni navali ecc., sì che il Pietro Micca non è stato sviluppato, e "il materiale che facciamo non lo facciamo bene, e non è probabile che riusciamo ad averlo buono"; questo riguarda anche l'Italia e la Lepanto, "che possono essere approvate in quanto al concetto primitivo" [il Saint-Bon, però, come gli altri critici non indica un modello alternativo, né per i tipi Laurìa, né per il Pietro Micca, né per la flotta nel suo insieme - N.d.a.]. Dopo le navi il Saint Bon passa agli uomini, osservando pessimisticamente che in Italia non manca il coraggio ma mancano le virtù militari, che "consistono nell 'àbnegazione, nella resistenza, nella pertinacia, nella costanza nei pericoli, nel disprezzo degli agi della vita". In proposito afferma che i Quadri non sono divisi dal regionalismo, ma dalla discordia tra coloro che banno un siffatto, alto concetto delle virtù militari e del dovere, e coloro che invece la pensano in modo diverso, propendendo per una disciplina più blanda e per una vita più comoda e tranquilla. Le virtù militari si ottengono con l'educazione e continuano con la tradizione; ma a suo parere in ambedue i campi l'indirizzo del Ministro è stato totalmente negativo, perché "la sua opera pare unicamente intesa a distruggere le poche tradizioni che potevano esistere". Ha soppresso il vecchio regolamento per il servizio di bordo per sostituirlo con un altro troppo generico, e sembra propendere per la corrente d'idee favorevole anziché al senso del dovere, al lassismo e "alla maggior somma possibile di tranquillità". L'intervento del generale Ricotti ba toni piuttosto morbidi. Egli lascia perdere la questione delle piastre di corazzatura, ammettendo che alla fin fine non c'era gran differenza tra le piastre Schneider e le piastre Compound, quindi il Ministro non ha commesso nessun grave errore scegliendo quest'ultime. Rifiuta di essere stato a suo tempo sostenitore delle piastre Scbneider, ma ribadisce la sua critica ai ritardi eccessivi che si sono verificati nell'allestimento non solo dell'Italia ma anche del Lepanto, pur prendendo atto della volontà del Ministro di eliminarli. Riguardo al personale afferma anch'egli che "tutti ci siamo persuasi che questa istituzione della marineria oggi non funziona con quella regolarità, che noi tutti desideriamo e che credo, prima di tutti desidera lo stesso Ministro", e dubita che il Ministro abbia riposto in modo esauriente alle critiche del Canevaro. Critica severamente anche una sua circolare segreta in materia di avanzamento, la quale fa obbligo ai comandanti di dipartimento di segnalare al Ministero, all'insaputa degli interessati, gli ufficiali solo sospettati di condotta "biasimevole, indecorosa o meno onesta", facendo il confronto come le ben diverse norme in vigore nell'esercito, le quali prescrivono che il comandante responsabile si accerti della fondatezza delle dicerie e le riferisca ai livelli superiori solo se i sospetti sono provati. Chiede anche al Mi-
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nistro se sia vero o non sia vero che esistono delle persone interessate a indirizzare le commesse verso l'estero, perché le ditte estere (e quelle inglesi in particolare) a differenza di quelle italiane, pagano a chi fa il contratto tangenti dal 2 al 10% (a tal proposito, anche l'onorevole Maffi ha parlato di "sospetti e insinuazioni'') e termina raccomandando al Ministro "di non farsi troppe illusioni" perché le cose sulla marina non vanno tutte bene, tanto nel campo morale che in quello tecnico. L' Acton risponde ricordando che per i contratti al l'estero la marina non accetta intermediari, mentre gli ufficiali in passato inviati all'estero [ma questo si può dire anche per il Mattei e per la questione della macchina del Lepanto? - N.d.a.] "non si sono occupati che di questioni assolutamente tecniche e di alto interesse per la marineria e la difesa del paese", con un lavoro che ha dato buon frutto. Nulla gli consta di ex-ufficiali che sarebbero diventati rappresentanti di case fornitrici; ma anche se ciò fosse, non ne sarebbe responsabile. Dà poi lettura della sua circolare sull'avanzamento criticata dal Ricotti, dalla quale sostanzialmente traspare non l'intento di prestar fede a sospetti e dicerie non provate, ma il fermo proposito di non promuovere ufficiali che non godano la stima e il rispetto più assoluto nel corpo di cui fanno parte e la cui onorabilità sia messa in dubbio, limitando inoltre a casi eccezionali le promozioni a scelta assoluta. Dopo l' Acton il Crispi traccia un quadro interessante ma assai poco lusinghiero del passato della marina. Nel secolo XVlll e fino all' inizio del secolo XTX le marine regionali non furono nemmeno in grado di difendere i nostri mari, e se non fosse stato per l'Inghilterra, le nostre coste sarebbero state sempre invase dai pirati. Sotto il re di Napoli Carlo lll venne stipulato un trattato con il Bcy di Tunisi, con il quale gli si pagava un tributo, ma le coste della Sicilia e di Napoli continuarono ad essere periodicamente invase dai pirati barbareschi, e il tributo del Regno di Napoli cessò solo dopo la conquista francese dell' Algeria nel 1830. Dopo l'unità d' Italia, mentre si diceva che l'esercito era realmente diventato italiano, la marina rimase in pratica divisa in napoletana, veneta e sarda. Per queste ragioni secondo il Crispi a capo della marina bisogna mettere un civile, perché un ammiraglio non potrà mai liberarsi completamente dei vizi, delle tendenze, della mentalità derivanti dalle sue origini regionali. Il Crispi ricorda poi che già nei primi tempi del Regno d' Italia, sulla gestione della marina "vi furono sospetti e diffidenze ben maggiori di quelle sollevate in questa crudele discussione", mentre la Commissione bilancio più volte ha proposto "mozioni gravissime" non solo contro i Ministri, ma contro l' amministrazione della marina. Nel 1863 la Camera ha nominato una Commissione d' Inchiesta (della quale egli stesso ha fatto parte), perché anche allora si parlava di tangenti, di sprechi, di favoritismi nelle promozioni ecc.: ma "quando andammo al Ministero della marina a chiedere comunicazione dei documenti necessari [... ] cifurono chiuse leporte in/accia". Anche dopo Lissa il Ministro della marina Depretis ha ordinato un' inchiesta amministrativa, "e quel/ 'inchiesta, della quale anch 'iofeci parte, o signori, rilevò colpe tali che è meglio
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non ricordarle". Infine lo stesso Saint Bon appena nominato Ministro nel 1873 ha messo il suggello a tutte le accuse "chiedendo che la flotta fosse abbruccita" [riferimento alla sua legge sulla radiazione delle vecchie navi - N.d.a. ], e in tal modo dimostrando che "la :,pesa fatta sino al 1872 era stata inutile, e che l'Italia la quale credeva di avere un 'armata navale, non l'aveva ajjàtto". Dopo di che il Crispi giudica le discussioni sulla marina ''.futili e meschine", etali da provocare nel paese dubbi e diffidenze; per dissipare tali dubbi presenta perciò un ordine del giorno, nel quale la Camera ordina una Commissione d'Inchiesta. Dopo il Crispi interviene il Brin, che stranamente non accenna alle questioni dibattute brevemente riferendosi solo alla sua opera passata, senza mai alcuna critica al Ministro. Tra gli interventi della giornata merita infine rilievo quello dell'onorevole Nicotera, il quale più che giustamente consiglia al Ministro di discutere prima - senza burocrazia - i problemi con i corpi tecnici e di assumere poi la piena responsabilità delle sue decisioni anche se non c'è accordo, in tal modo evitando di tenere una lunga corrispondenza con questi Corpi tecnici o questi uomini tecnici, corrispondenza la quale si risolve talvolta con dei se e dei ma che lafciano la latitudine al Ministro difàre o non fare[ ... ]. Tn Ttalia e "è una grave confusione nelle amministrazioni. Quando un ministro si trova nell'imbarazzo, adotta un sistema molto semplice; nomina una Commissione e aspetta il parere della medesima. Quando poi viene alla Camera, se qualche deputato solleva dei dubbi sull'opera del ministro, egli se ne lava le mani erisponde: ma è la Commissione che l'ha consigliato è il Consiglio di Stato, il Consiglio superiore che ha suggerito di fare così.
In effetti quest' ultima è stata la prassi seguìta dall ' Acton, che in Parlamento ha senpre dato fin troppo risalto alla concordanza tra le sue scelte e quelle del Corpi tecnici, come se non avesse il potere di opporsi ai loro punti di vista e di imporre il proprio, assumendosene però la piena responsabili tà.
* * * La tornata del 14 aprile 1883 si apre in modo decisamente favorevole al Ministro: infatti l'onorevole Lazzaro, ritenendo indispensabile che la Camera si pronunci a favore o contro il Ministro dopo un dibattito così importante e vivace, presenta un ordine del giorno - che viene approvato - con il quale la Camera gli esprime la sua fiducia e passa all'esame dei capitoli del bilancio. Dopo un discorso anch'esso favorevole al Ministro del deputato Buonomo, intervengono l'onorevole Finzi (che indica - tra i pochi - come si dovrebbe far fronte alle maggiori esigenze finanziarie della marina) e il presidente del Consiglio Depretis, che non accetta la sua proposta. 11 Finzi presenta un ordine del giorno con il quale la Camera, "convinta che è suo supremo dovere" fornire al Ministero della marina i fondi necessari per la completa applicazione della leg-
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ge organica del 1877 (che - come si è visto - deve avvenire entro il 1887) gli assegna altri 80 milioni, rimandando però al 1890 la prevista soppressione dell'imposta sul macinato. Tale ordine del giorno è approvato, e il Finzi lo giustifica con il nuovo orientamento della politica estera italiana [Triplice Alleanza - N.d.a.] verso Oriente [cioè verso l'Austria e la Germania - N.d.a.], ''perché siamo stati ingiuriati e avviliti ad Occidente". Ne consegue la necessità di difenderci anzitutto dalla parte del mare, perché "Là è dove potremo difendere noi e i nostri alleati; altrimenti la nostra perdita è sicura". 1n secondo luogo si tratta di trovare i mezzi per finanziare lo sviluppo dell'industria navale nazionale, caldeggiato dai precedenti interventi alla Camera. Per rendere la proposta più accettabile, comunque, il Finzi propone di ridurre parallelamente l' imposta sul sale. Dopo il Finzi il Presidente del Consiglio difende l'operato del suo Ministro, dando assicurazione alla Camera che vi è pieno accordo tra il Presidente del Consiglio, il Ministro degli esteri e il Ministro della marina, con i quali si dichiara solidale. Ribatte poi punto per punto le accuse del Canevaro al Ministro, definendo i fatti da lui citati secondari, ininfluenti o inesistenti, dunque sempre tali da non consentire generalizzazioni. 11 Ministro Acton egli assicura - sta perfezionando l'istruzione dei Quadri ed equipaggi; le sue dichiarazioni dimostrano già che si naviga molto, e comunque più che in passato. In quanto alle voci di discordie, di divisioni ccc_, esprime il desiderio che "le maggiori autorità del corpo della marina [cioè, tra gli alti gradi, anche coloro che al momento danno la colpa solo al Ministro di questi fatti - N.d.a.] hanno il dovere di usare di questa loro autorità per temperare le impressioni che nascono in seguito a queste voci, debbono adoperarsi per accertarle con cura prima di attribuire loro importanza, procurando così di contribuire, per tutto quanto è da loro, a quella che deve essere la regola fondamentale in un Corpo come quello della marineria italiana, cioè la disciplina". Passando ad altri argomenti, il Depretis non accetta nemmeno la proposta del Crispi (appoggiata anche dal Martini e dal Brin, quest'ultimo, a suo dire "certo per interesse personale") di non mettere più al Ministero della marina un ammiraglio: "Che farebbe l 'onorevole Brin, se fosse chiamato a reggere il Ministero di grazia e giustizia? Si troverebbe molto, ma molto imbarazzato!". Né accetta l' altra proposta del Crispì dì nominare una Comm ìssione d ' inchiesta sulla marina [come si è visto, tale proposta in precedenza era stata fatta dallo stesso Acton - N.d.a.], perché a suo avviso l'inchiesta di fatto è già avvenuta nel corso delle precedenti discussioni, e comunque essa provocherebbe per forza di cose una sosta nel normale andamento dell'amministrazione del Ministero, che sarebbe contraria all'interesse nazionale. Infine, prevedibilmente non accetta nemmeno l'ordine del giorno Finzi sulla proroga della tassa del macinato a pro della marina, perché se l' accettasse il Governo dovrebbe cambiare i criteri di base della sua politica, per accettare un provvedimento che lo costringerebbe a mantenere una tassa per la cui abolizione è già impegnato, ed a stanziare nel bilancio dello Stato una spesa [per la marina] che ora non può as-
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solutamente essere sopportata. Di tutti gli ordini del giorno in esame rimane pertanto in piedi solo quello con il quale "la Camera, prendendo atto delle dichiarazioni del Governo sul 'indirizzo dell'amministrazione della marineria, passa ali 'ordine del giorno". Segue l'esame dei capitoli dall' I al 23 del bilancio di previsione per il 1883, approvati senza modifiche.
* * * Nella tornata del 16 aprile 1883 sono approvati tutti i rimanenti capitoli, anch'essi senza modifiche. In particolare il capitolo 35 prevede una spesa di 17,5 milioni, per "continuazione dell'allestimento delle navi da guerra di l " classe Italia e Lepanto [entrate in servizio a partire dall'ottobre 1885 - N.d.a.], continuazione della costruzione delle 3 navi da guerra di 1 a classe Laurìa, Morosini e Doria, allestimento delle navi di 2" classe Vespucci e Savoia, continuazione della costruzione e dell'allestimento di una nave dir classe, ariete torpediniere, e costruzione di altre due", più altre navi di 3a classe e due navi onerarie. Da notare anche un interessante intervento del deputato Pozzo lini sul la vitale necessità di carbone per la flotta in caso di guerra e una diatriba sulla qualità dei siluri tra i deputati de Zerbi e Balsamo e il Ministro Acton. TI Pozzolini esordisce osservando giustamente che "noi siamo gli unici in Europa che vogliamo avere una potente marina da guerra, senza avere in paese il carhon fossile"; per di più la quantità di combustibile di riserva che al 1° gennaio 1882 era disponibile "in luogo abbastanza sicuro dalle sorprese avversarie" era di sole 25.000 t, sufficienti solo per 1-2 mesi di guerra. In passato il problema era già stato discusso, e il Ministro Acton e il Brin avevano sostenuto che in caso di guerra sarebbe stato abbastanza facile ricorrere ad approvvigionamenti ali' estero, anche perché il carbone non immagazzinato al coperto deperiva rapidamente, quindi non era conveniente tenerne molto di riserva. Il Pozzolini contesta questa tesi, perché al momento vi è l'orientamento - capeggiato dall'Inghilterra - a includere il carbone tra le merci facenti parte del contrabbando di guerra, proibito dal diritto internazionale, mai definite nei trattati internazionali. Se così dovesse avvenire l'approvvigionamento di carbone diventerebbe per noi impossibile o estremamente difficile, perché nessuna potenza in guerra con noi rinuncerebbe al vantaggio di impedirlo, senza contare che la carenza di carbone ridurrebbe la capacità e libertà di manovra della flotta ... Come discutibile rimedio autarchico egli indica l'arricchimento della lignite ( che possediamo relativamente in abbondanza) per trasformarla in un combustibile di rendimento simile a quello del carbone inglese; in tal modo "non solo il problema della difesa, ma un grande problema industriale sarà risolto". Presenta perciò un ordine del giorno nel quale si invita il Governo ad aumentare la riserva permanente di carbon fossile e a studiare il gravissimo problema della trasformazione delle nostre ligniti, insieme con un altro nel quale si invita la
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marina a immagazzinare "in perfètte condizioni e al sicuro di ogni sorpresa" almeno 100.000 t di carbon fossile. La risposta dell' Acton non è del tutto convincente. Si impegna solo per un generico e graduale aumento delle riserve di carbone e informa che alla Spezia è in costruzione un nuovo magazzino; ma per il resto fa osservare che, oltre ad approvvigionarci in Inghilterra (nostro principale mercato), possiamo pur sempre ricorrere al mercato francese [ma la Francia non è la nostra più probabile nemica? - N.d.a.] e al mercato americano, mentre si stanno sperimentando anche i carboni della Vestfalia. Ricorda poi che i nostri magazzini non possono contenere grandi quantità di carbone [si potrebbe però aumentarli o ampliarli - N.d.a.], che se il carbone allo scoperto si deteriora rapidamente, anche il carbone al coperto si deteriora sia pur di meno, ecc. Nessun cenno ai problemi che nascerebbero dall'inclusione del carbone importato nelle merci di contrabbando: ciononostante il Pozzolini si dichiara soddisfatto e ritira i suoi ordini del giorno. Poco da dire sulla questione dei siluri, se non che i I dc Zerbi e l' Acton rimangono ciascuno della sua idea, mentre il deputato Balsamo - che sembra più vicino al Ministro - conclude la sua lunga disquisizione tecnica con l'ormai consueto invito all'Italia a sviluppare le industrie siderurgiche e meccaniche nazionali, e a costruire le proprie armi da sé. Un cenno meritano infine le critiche del deputato generale Mocenni ai programmi dell'Accademia navale, che a suo dire anche se è pareggiata agli istituti superiori, sono presso a poco quelli degli istituti secondari, mentre i giovani vi sono ammessi "con un insegnamento assolutamente elementare". 1n particolare, secondo il Mocenni "l'insegnamento militare vi è molto negletto", e vi si apprende soltanto il maneggio delle anni, senza quel poco di teoria che si insegna persino ai sottufficiali. Inoltre "la geografia d'Italia s'insegna molto elementarmente nel primo anno, negli altri quattro anni non se ne parla per niente. Non vi si fa alcuna applicazione alla tattica navale; nessuna applicazione alle costruzioni; nessuna applicazione alla meccanica navale ... ". Dopo aver elencato anche altri difetti, il Mocenni giudica l'insegnamento nel suo complesso "insufficiente" e invita il Ministro a ripresentare il disegno di legge che aveva presentato nella precedente legislatura. Per la verità il disegno di legge sull ' ordinamento dell'Accademia di Livorno (che inizia a funzionare il I O novembre 1881), presentato dal Ministro Acton alla Camera il 5 febbraio 1881 , 13 più che ripresentato andrebbe totalmente sostituito: infatti nei primi quattro anni di corso prevede pressoché totalmente materie non militari, spostando le materie militari e/o di interesse militare al successivo corso di applicazione diviso in due periodi separati tra di loro da un periodo di navigazione di 18 mesi, soluzione criticata dal Mocenni perché gli allievi nel secondo periodo gli allievi rischiano di dimenticare quanto hanno appreso nel primo; inoltre questo corso applicativo, che è
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Atti della Camera - [)oc.umenti 1881 , Documento n. 163.
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facoltativo, a suo parere dovrebbe essere obbligatorio-vista la sua utilità. Forse per questo l'Acton risponde che non ha nessuna difficoltà a ripresentare il disegno di legge, ma che attende di farlo al termine dell'anno scolastico in corso, in modo da individuare meglio i miglioramenti da apportare. Nella stessa giornata del 16 aprile 1883 sono approvati i rimanenti capitoli di spesa e il successivo 17 aprile l'intero "Stato di prima previsione del Ministero della marineria per l'anno 1883".
* * * L'ultimo attacco del generale Ricotti ad Acton avviene nella tornata del 22 giugno 1883, quando si discute il bilancio definitivo della marina per Jo stesso anno. In questa occasione il Ricotti chiede al Ministro a che punto sono le trattative per le corazze dell'Italia, se sono state fatte le prove di collaudo di tali corazze e quali sono i loro risultati, e se per il loro approvvigionamento tutto procede regolarmente sia per l'Italia che per la Lepanto. L' Acton risponde che i collaudi non sono ancora stati effettuati, ma sono in corso i preparativi; "vi sono [però] state delle divergenze per talune corazze, e appunto oggi parte espressamente per l'Inghilterra un ingegnere per jòrnire alla casa Brown le necessarie istruzioni". Invece il contratto per le piastre verticali della Lepanto non è ancora stato concluso, perché solo dopo le prove delle piastre dell'Italia si deciderà quali adottare per la Lepanto, i cui lavori "progrediscono abbastanza bene", anche se la nave al momento si trova ancora a Livorno e per trasportarla alla Spezia bisogna allargare il canale, operazione che potrà essere conclusa entro il mese prossimo. Il Ricotti replica che il contratto per la fornitura delle corazze in questione, stipulato il 1° maggio 1882, prevedeva la loro consegna da parte della ditta inglese entro 8 mesi dall'arrivo in Inghilterra dei disegni, che le sono stati fomiti il 18 settembre 1882. Il termine di consegna del1e corazze scadeva quindi il 18 maggio scorso, ma al momento - 22 giugno 1883 - esse non sono ancora arrivate, con conseguente ritardo di tutte le rimanenti operazioni. Ed ecco lo scopo dell'interrogazione: "a me preme di accertare questo perché in tutta la discussione che si è.fatta sull'industria nazionale, uno dei principali motivi addoLLi dall'onorevole Ministro e da altri contro la nostra industria è stato sempre quello dei ritardi'', che invece avvengono anche per l'industria straniera. L' Acton a sua volta minimizza, assicurando che una parte delle piastre in questione è già pronta, e che solo per talune di esse vi sono state delle difficoltà "a causa delle differenze tra i modelli e i disegni che non corrispondono con suf_ficiente esattezza"; questo problema verrà comunque risolto in brevissimo tempo, perché si riferisce solo a taluni particolari delle facce laterali. Tutti i capitoli del bilancio definitivo 1883 sono approvati senza difficoltà nella predetta tornata del 22 giugno, l' ultima nella quale viene criticata la gestione Acton, che peraltro al di là dei numerosi attacchi, è sempre stata appro-
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vata dalla Camera. Le sue dimissioni il successivo 25 novembre possono quindi essere attribuite a divergenze interne, peraltro non documentate.
Conclusione Dopo discussioni e attacchi al Ministro durati tre anni (caso senza precedenti, che non si è più ripetuto) gli interrogativi ai quali bisognerebbe rispondere sono almeno tre: chi aveva ragione nell'interminabile disputa navi colossali/navi di dislocamento moderato, quale giudizio dare sulle tre corazzate impostate dal Ministro Acton nel l 881 / 1882, e se le critiche ai restanti aspetti della sua gestione sono più o meno fondate. Dopo aver sottolineato ancora che la gestione Acton non può essere ridotta alla questione delle navi, si deve dire subito che una risposta esaustiva al primo interrogativo è estremamente difficile, non tanto perché mancano dati di esperienza che solo le guerre possono fornire e come sempre ogni medaglia ha il suo rovescio, ma prima di tutto perché dalla discussione non scaturisce - o non scaturisce a sufficienza - il dato di ha,;;c dal quale hisogncrehbe sempre partire: qual è la strategia da seguire in relazione alle nostre possibilità economiche valutate realisticamente, tenendo presente che oggettivamente - questo è il difficile - l'Italia, data la sua fisionomia geostrategica, non può rinunciare né a un forte esercito né a una forte marina. Anche I' Acton pensa a una guerra di squadra, ma non specifica mai con sufficiente precisione come condurla di fronte a una flotta inevitabilmente superiore come quella francese ( della flotta inglese, meglio non parlare nemmeno). Va anche relegata nella mitologia marittima condannata dal Bonamico l' eccessiva esaltazione da parte del Saint Bon dell'Italia, che da sola scongiurerebbe gli sbarchi, affronterebbe la flotta francese, condurrebbe la guerra di corsa ecc. Navi piccole o navi grandi, ma per che cosa? Né è inconveniente da poco la riconosciuta incapacità delle navi colossali di operare in simbiosi con la restante flotta. Ma anche rimanendo nel campo strettamente tecnico, si deve constatare che l'obiettivo di base del Saint Bon e Brin - mettere in mare navi d'avanguardia in grado di conservare per lungo tempo la superiorità sui similari tipi stranieri - non è stato sicuramente raggiunto, perché le navi colossali - costruite intorno al cannone gigante Annstrong da 100 t - sono state ben presto superate dall'incessante e rapido progresso tecnologico, il quale come si è visto ha fatto sì che con pesi di artiglierie, corazze e macchine costantemente decrescenti si ottenessero risultati uguali - e spesso superiori - a quelli delle analoghe parti del Duilio. E checché ne dicano i sostenitori delle navi colossali, il fatto che le principali marine non abbiano seguìto questa via anche se più ricche, ha un certo peso ... Mettere tutte le uova in un paniere o distribuirle in diversi panieri? Anche qui si potrebbe rispondere che "est modus in rebus", che esiste una via di mez-
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zo e che come ammettono anche i nemici delle "navi di dislocamento moderato", le navi del futuro sicuramente non avrebbero potuto essere uguali allenavi colossali, senza contare il nuovo, forte pericolo delle torpediniere. Va però considerato che i nemici delle navi dell' Acton, comprese le tre impostate nel 1881-1882, non accompagnano mai le loro critiche con esaurienti proposte alternative sulle "loro" navi, e che il passaggio dai 450 mm ad avancarica dei cannoni del Duilio ai 431 mm a retrocarica delle corazzate successive già a cominciare dal Lepanto ha pure un suo significato, e indica la progressiva, sicura prevalenza delle artiglierie di calibro inferiore ma a tiro rapido la cui efficacia è stata confermata dalle battaglie dello Ya-Lu e di Tsushima, nelle quali il numero di grossi calibri della parte sconfitta era superiore. La sostituzione a fine secolo XlX delle artiglierie del Lepanto con moderni pezzi da 254 mm dice molto. E che dire della ridottissima celerità di tiro, principale handicap delle artiglierie colossali, i cui risultati supposti decisivi e micidiali, in mancanza di centrali di tiro erano affidati a semplici graduati puntatori le cui attitudini erano un' incognita, perché - a quanto sembra - mancando munizioni da esercitazione avevano avuto ben poche occasioni di addestrarsi? C'è infine il problema delle infrastrnt:ture, di importanza fondamentale ma vulnerabili nelle navi colossali come nelle altre, che mette tra l'altro in evidenza l'eccessiva preoccupazione per trapassare le corazze dello scafo. Infine, bisogna considerare anche l'impatto in tutti i casi importante, se non decisivo, che l'affondamento di una nave colossale - da considerare nel novero delle possibilità- avrebbe avuto su un'opinione pubblica fragile come quella italiana di allora ... Non basta: se le torpediniere e il siluro rappresentavano la minaccia percepita nel 1873 dal Saint Bon sin dall' inizio del suo mandato, e se le corazze avevano l'estensione e la resistenza di quelle del tempo, allora non si capisce bene perché sarebbe stato conveniente costruire ancora grandi navi, la cui maggiore resistenza ai siluri era tutta da dimostrare, e che dal siluro potevano comunque essere messe fuori combattimento, con conseguente neutralizzazione per lungo tempo - nella migliore delle ipotesi - di una parte fondamentale della flotta. Anche sotto questo profilo, dunque, la successiva esaltazione delle grandi navi da parte del Saint Bon appare contraddittoria. Per ultimo, i fautori delle navi colossali gravemente ignorano o sottovalutano i risvolti finanziari di tale scelta e i limiti e obiettivi fissati dalla legge organica del 1877, come se fossero parva res, come se fossero qualcosa di facilmente superabile, come se lì dietro la porta fossero stati disponibili i fondi necessari. Tutte queste interfacce servono a dimostrare che le navi colossali del Saint Bon e Brin - fin troppo esaltate dagli scrittori navali di oggi - non "erano la marina" e avevano pure parecchi lati deboli, che è doveroso far emergere con obiettività in sede storica. Dall'altra parte, appare molto criticabile il ricorso dell 'Acton - fatto non più ripetuto - al cosiddetto "Plebiscito navale" per avvalorare le sue scelte, la sua tendenza a non assumersi mai pienamente le responsabilità inerenti alla carica di ministro se necessario anche in opposizione
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agli organi tecnici del Ministero, e la facilità con cui ha abbandonato rapidamente, troppo rapidamente la sua iniziale e netta scelta per le navi di dislocamento moderato, cioè per mettere le uova in più panieri in modo da rendere il naviglio più spendibile e la flotta più flessibile. Ma I' Acton gioca male le sue carte, perché avrebbe dovuto mettere bene in chiaro che: 1) se le "sue" navi non erano valide, allora non era valida nemmeno la prevalente impostazione delle flotte maggiori; 2) anche costruendole, non sarebbe stato comunque sufficiente il volume di risorse previsto dalla legge organica del 1877, né tanto meno sarebbe stato possibile raggiungere il traguardo di 16 corazzate indicato in tale legge, a meno di mantenere in servizio naviglio obsoleto. Non tocca il tasto dell'aumento dei fondi, probabilmente perché ben sapeva, come membro del governo, che esso non gli sarebbe stato concesso: ma nulla gli impediva di farlo ben emergere, anche per meglio delimitare le sue responsabilità. 1n tal modo la sua gestione è solcata da contraddizioni ancor maggiori di quelle del Ministro Saint Bon nel 1873-1876, che almeno in tale periodo si è guardato bene dall'impostare nuove corazzate piccole o grandi che siano, e inoltre non ha presentato affatto al Parlamento il piano organico che gl i era stato chiesto con insistenza e da più parti, piano subito compilato nel 1877 dal suo successore Brio (non appare perciò casuale che sarà il Brine non il Saint Bona succedere dopo un breve interregno dell'ammiraglio Del Santo all' Acton, rimanendo in carica dal marzo 1884 al febbraio 1891 ). Inoltre il Brio era generale del genio navale e non ammiraglio, il che dimostra !'almeno par.liale accoglimento delle proposte del Crispi e di altri su chi deve reggere il Ministero. Sotto il profilo strettamente tecnico, la scelta iniziale dell' Acton si riassume nel contrapporre alla marina più probabile avversaria, quella francese, navi più o meno con le stesse caratteristiche e più adatte alla difesa delle coste, privilegiando il numero e tenendo anche d'occhio la necessità di non superare i limiti di bilancio fissati dalla legge organica del 1877 (ciò che era in tutti i casi impossibile). Era sbagliata questa scelta in una guerra di squadra? Difficile dirlo, anche perché (Ya-Lu e Tsushima l'hanno insegnato) molto dipendeva dalla qualità della leadership, degli equipaggi e del materiale anche a prescindere dal calibro dei cannoni, qualità che non si è mai avuto modo di misurare né per la squadra francese né per quella nostra. Difficile anche sostenere la bontà della scelta contraria, perciò la serena conclusione ci sembra una sola: quali che fossero le caratteristiche del suo naviglio la nostra Clotta avrebbe avuto un compito impari alle sue forze. Né sembra realistica la pretesa del generale Ricotti - e di molti altri generali del tempo - di affidare alle sole forze navali la difesa della penisola e delle isole, in modo da consentire alt' esercito (che a sua volta avrebbe dovuto far fronte alla superiorità francese) di concentrarsi sul confine di nord-est. In quel caso come in tutti, una difesa equilibrata delle coste avrebbe dovuto evidentemente comprendere una parte marittima e una parte terrestre coordinate tra di loro, anche tenendo conto delle naturali, forti difficoltà che avrebbero incontrato i temuti sbarchi francesi. Il fatto che oggi negli archivi d'oltralpe non se ne sia trovata traccia non dimostra affatto che
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essi non erano stati pianificati, perché da sempre la pianificazione segreta dei Comandi viene distrutta quando non più utile. Comunque una flotta nemica che avesse conquistato la superiorità avrebbe avuto molteplici occasioni di ofTesa nei riguardi del nostro litorale, come del resto molti nostri autori hanno affermato. E allora? Tutto conferma la validità di ciò che emerge anche ufficialmente nel 1914-1915 (secondo lo Stato Maggiore Marina "o si cambia la politica o si cambia la marina"). Evidentemente la flotta italiana non sarebbe stata comunque in grado di tener testa a quella francese, quindi occorreva risolvere con idonee alleanze un problema che non era possibile risolvere dal punto di vista militare, così come del resto è più tardi avvenuto nella primavera del 1915, con l'entrata in guerra dell'Italia a fianco dell'Intesa, cioè delle potenze più forti in campo marittimo. A proposito delle scelte dell 'Acton per la successiva classe Lauria, si può sinteticamente affermare che anche in questo caso si prosegue sulla vecchia strada delle navi colossali, mantenendo la tendenza a calibri delle artiglierie principali e dislocamenti superiori a quelli delle costruzioni coeve inglesi e francesi; ma come già detto, il Galuppini (Cap. Vlll) le bolla con l' affermazione che "non ebbero nessun carattere innovatore e furono di concezione mTetrata rispetto alle contemporanee inglesi e francesi", 14 che pure avevano calibri e dislocamenti inferiori. Tn effetti, di per sé i grossi calibri non erano più la misura della potenza di un'unità corazzata, dove stavano assumendo importanza sempre maggiore numero e qualità dei medi calibri; per di più queste sostanzialmente riproducevano dopo ben 11 anni un modello - quale quello del Duilio - giudicato non più ripetibile da parte dei suoi stessi padri, il che non è poco. Sempre in tema di costruzioni navali, si deve constatare che l 'Acton è interessato soprattutto alla qualità e ai tempi delle commesse, requisiti che al momento le industrie e i cantieri inglesi possono assicurare meglio di quelli italiani; né si dimostra entusiasta della creazione di una sola, grande industria siderurgica nazionale in regime di monopolio e sovvenzionata dallo Stato. Forse è anche questa più o meno manifesta preferenza a far crescere l' ostilità interna e esterna alla sua gestione; ad ogni modo oggi non sarebbe facile stabilire quale sia la migliore, tra la sua poi itica e quella ad esempio ventilata alla Camera dal Borghi, che delinea un quadro estremamente ottimistico delle possibilità dell' industria nazionale. Se, però, si prescinde dalle costruzioni navali, la gestione del Ministro Acton non sembra tale da giustificare le numerose critiche del 1881-1883 e anzi da meritare elogi, a cominciare dalla sua attenzione per il coordinamento interforze. Non gli può essere imputato lo "scarso amore" per le grandi navi in allestimento, i cui ritardi sono evidentemente dovuti a fattori negativi costanti c tipici dei cantieri italiani, tant'è vero che anche le navi de lla classe Daria (per il cui allestimento il Ministro Aeton può essere chiamato a rispondere solo per
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Galuppini, Guida alle corazzate dalle orig i,ii a oggi (cit.), p. 105.
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un breve periodo) rimangono sugli scali ciTca 9 anni ( cioè più o meno come l'Italia e più del Duilio), mentre la successiva classe Sardegna (1885-1895) vi rimane circa 1O anni. Si deve anche ammettere che le dichiarazioni del Ministro alla Camera per rintuzzare gli attacchi specie del Martini e del Ricotti sulle corazze ecc. sono soddisfacenti, e tali da giustificare il suo operato; né egli può essere direttamente accusato di vecchi mali della marina, per singoli episodi di malcostume ecc., che si è sempre sforzato di combattere con notevole e rara volontà riformatrice, in tal modo mettendosi contro gran parte dell' estab/ishment della marina. Ciò non toglie che un Ministro circondato da un siffatto mare di diffidenze e di ostilità all'interno della Forza Armata e in Parlamento non può lavorare serenamente; meglio avrebbe fatto I' Acton a dimettersi prima, quando le "sue" navi sono naufragate, e con loro la principale componente del programma che l' aveva portato al Ministero. A proposito del dibattito in Parlamento, va detto che ( questo vale anche per l'esercito) lo spettacolo di ufficiali in servizio che ricoprono al momento importanti incarichi, e attaccano duramente il Ministro in Parlamento, non è dei più edificanti e certamente non giova alla disciplina. Così come non giovano alla compattezza delle ForLe Armate gli attacchi veementi del generale Ricotti al Ministro Acton, e le critiche del generale Mocenni al programma di studi dell'Accademia navale: fatti che, almeno oggi sembrano singolari, specie là ove il Ricotti si dichiara favorevole ad aumentare il bilancio della marina aspese di quello dell'esercito. Tutte le precedenti considerazioni tecnico-strategiche non debbono però trarre in inganno, perché non possono far perdere di vista il fatto (da sottolineare ancora, perché determinante seppur elementare) che l'esercito è a sua volta non competitivo rispetto a quelli francese e austriaco schierati e ben fortificati ai nostri confini, e che quindi l'Italia ha bisogno sia di un forte esercito che di una forte marina, mentre invece (questo emerge in particolar modo nel dibattito alla Camera del 1883) né la disponibilità di fondi, né quella di materie prime, né la capacità industriale le consentono di fare autonomamente fronte alle esigenze che comportano un grande esercito e una grande marina. Si tratta di una realtà con riflessi strategici decisivi, che comincerà ad emergere in tutta la sua portata solo nel XX secolo, quando purtroppo verrà percepita in ritardo dalla leadership politico-militare.
CAPITOLO X
LA MARINA DAL LUNGO E CONTRASTATO TERZO MINISTERO BRIN (1884-1891) ALLA BATTAGLIA DI TSUSHIMA E ALLA "DREADNOUGHT" (1905): PROBLEMI ORGANIZZATIVI, RAPPORTI CON L'ESERCITO E COSTRUZIONI NAVALI
"Quando mi si dice che non si deve guardare per nulla alle spese per la difesa nazionale, io rispondo: avete torto, perché la difesa non consta solamente delle forze di terra e di mare, ma della forza economica e finanziaria, della sua forza d'educazione e d'istruzione, e via dicendo". GENERALE RICCI (Tornata della Camera del I 5 giugno 1885)
Premessa
Come accennato in passato, ai fini dell'organizzazione delle marine e delle costruzioni navali gli elementi da considerare particolarmente nel periodo in esame sono quattro: le due battaglie di Ya-Lu e Tsushima, che sostanzialmente rilanciano la prospettiva della battaglia a forze riunite e l'efficienza delle artiglierie (anche se non delle corazze); l'avvento della Dreadnought inglese nel 1905, che favorisce ovunque la ricerca irreversibile della grande nave con il massimo di armamento, velocità e protezione, quindi con crescente dislocamento; i progressi della metallurgia e delle tecnologie, che accrescono la celerità di tiro dei grossi calibri ma anche l' importanza di armi di contrasto come il siluro, il sommergibile e il mezzo aereo; le crescenti esigenze logistiche (metalli grezzi, costruzioni e riparazioni, carbone, marina mercantile) non solo della marina e non solo delle Forze Armate, che accrescono specie per l'Italia l' importanza dei trasporti marittimi in guerra e pongono sia per la marina che per l'esercito l'esigenza di disporre di una buona base industriale nazionale. La superiorità quantitativa e spesso qualitativa delle costruzioni navali francesi (e ancor più inglesi) rimane costante e non colmabile; tuttavia per la marina italiana la fiducia nelle grandi navi non è altrettanto costante. Ciò non toglie che in Parlamento e nella pubblicistica militare si trovino parecchie voci critiche degne di attenzione ma generalmente poco note, alle quali quindi sarà dato il dovuto spazio. In questo quadro lo sviluppo del naviglio leggero, la pro-
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porzione sulle grandi navi tra armamento principale e armamento contro-torpediniere, il calibro del predetto armamento principale e la protezione dello scafo prima di tutto contro la crescente minaccia dei siluri, sono gli argomenti principali del dibattito, nel quale - perdurando l'inferiorità della nostra flotta rispetto alle due principali - dovrebbe essere dedicata particolare attenzione alle modalità per la costruzione e l'impiego di un naviglio, le cui caratteristiche di fatto non si discostano mai dalla prospettiva della guerra di squadra.
SEZIONE I - La lunga e discussa gestione del Ministro Brio (1884-1891) Con l'ammiraglio Mirabello (1903-1909) Benedetto Brin è il ministro che rimane più a lungo alla testa della marina nel periodo considerato, reggendo la carica del 30 marzo 1884 al 9 febbraio 1891. 1 Dopo la tempestosa gestione Acton e la definitiva vittoria delle grandi navi, ci si aspetterebbe un periodo di calma, nel quale il Ministro potesse finalmente godere di un largo consenso. Non è così: anche se le biografie del Brin spesso sorvolano su questo argomento non di poco conto, i dissensi e le critiche al suo operato non mancano né in Parlamento né sulla pubblicistica navale, e investono anche il campo in cui l'eminente ingegnere navale dovrebbe essere meno attaccabile, cioè quello delle costruzioni navali. I grandi meriti del Nostro sono indiscutibili e numerosi: fondazione per suo impulso del grande stabilimento metallurgico di Temi (marzo 1884), istituzione con decreto del 17 aprile 1884 dell ' Ufficio di Stato Maggiore della marina diretto dal SaintBon per quattro anni, con compiti consultivi e di studio (1884); un primo ampliamento della base di Taranto (1884-1889) che prosegue anche negli anni successivi; costruzione di una vasca per esperimenti di architettura navale nell'arsenale della Spezia; potenziamento dell'ufficio idrografico per la marina di Genova diretto (fino alla promozione ad ammiraglio nel 1888) dal celebre Giovanni Battista Magnaghi e poi dal Bettòlo, presentazione al Parlamento della prima legge italiana sui premi alla marina mercantile (approvata il 6 dicembre 1885) per favorirne lo sviluppo molto carente, organizzazione sempre nel 1885 delle prime grandi manovre. Nel campo delle costruzioni navali, come aveva fatto senza eccessivo impegno e senza successo l' Acton nel 1882 (stato di previsione della spesa per il 1883), il Brin riscontra la necessità di chiedere un aumento dei fondi sia per attuare completamente quanto già previsto dalla legge organica del 1877, sia soprattutto per andare al di là dei quantitativi di naviglio previsti dalla predetta legge. Con la presentazione di un apposito disegno di legge approvato dalla Ca-
1 C fr. , in merito, Ezio Ferrante, Benedetto Brin e la questione marittima italiana (allegato alla Rivista Marittima n. I I /1 983, pp. 76-88) e Mariano Gabriele, Benedetto Brin, Roma, Ufficio Storico Marina Militare I 998.
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mera (legge 3 luglio 1884, n. 2470) riesce ad ottenere 30 milioni per spese straordinarie, giustificate con l'aumento e il perfezionamento dell'armamento secondario e quindi dei costi delle corazzate in costruzione.2 Inoltre la Camera approva un altro suo disegno di legge che prevede una spesa straordinaria di 15 milioni ( da suddividere in cinque esercizi finanziari) per la difesa del le coste. Ancor più importante la nuova legge organica approvata dalla Camera (30 giugno 1887, n. 4646) in sostituzione di quella del 1877 (Cfr. Cap. VIII), che lascia invariato il numero di navi di 1a classe (16) ma raddoppia il numero di navi di 2a classe (da 1O a 20) e quello delle navi di 3a classe (da 20 a 40), più un forte numero di torpediniere ( 190), con una spesa straordinaria di 85 milioni divisi in 9 esercizi finanziari. In tal modo, paradossalmente il padre delle navi colossali caratterizza il suo operato da Ministro con la costruzione di incrociatori e torpediniere, fatto inevitabile perché dettato da una nuova realtà tecnologica e strategica nella quale questi nuovi tipi di navi acquistano sempre maggiore importanza. Nasce però un inconveniente non lieve: i limiti dei nostri arsenali e dei nostri cantieri privati costringono a ordinare le torpediniere in gran parte all'estero, e a costruire incrociatori riprodotti da analoghi modelli inglesi. Per quanto riguarda le corazzate, in tutti i 7 anni circa della permanenza del Brin al Ministero sono impostate ( 1884-1885) solo le 3 corazzate della classe Sardegna da lui progettate, che entreranno in servizio dal 1893 al 1895, cioè parecchio tempo dopo che ha lasciato la carica di Ministro: segno evidente che la sua competenza tecnica non è stata sufficiente per eliminare i ritardi nelle costruzioni navali - malattia cronjca dei nostri arsenali e cantieri - così come non è stata sufficiente per evitare l'importazione dall'estero delle materie prime e delle parti più sofisticate come artiglierie di grosso calibro, mitragliatrici e macchine. Delle già menzionate caratteristiche delle tre corazzate classe Sardegna, basti dire che l'elevata velocità (20 nodi) è ottenuta sacrificando la protezione e che mantengono un armamento principale di calibro superiore (343 mm Armstrong) a quello delle coeve costruzioni navali francesi e inglesi, fino a far scrivere al Gabriele che la classe Sardegna precorre gli incrociatori da battaglia inglesi e tedeschi pre-guerra mondiale. 3 Si deve comunque notare che dai 450431 mm ad avancarica del peso di 100 t dei tipi Duilio, Italia e Lauria, a distanza di 1O anni il Brin passa ai 343 mm del peso di sole 69 t, con caricamento a retrocarica in qualsiasi angolo di brandeggio e celerità di tiro molto superiore (un colpo ogni 6/ 10 di minuto per la torre binata). Inoltre l'autonomia di 6000 mg, pur essendo superiore a quella della classe Lauria, è pur sempre molto inferiore a quella dell'Italia. Pertanto con la nuova classe Sardegna il Brin abbandona nettamente l'ambiziosa pretesa delle navi colossali di raggiungere la
' Cfr. la relazione della Commissione parlamentare sulla sua seduta del 20 maggio 1884 ("Rivista Marittima" li Trimestre 1884, Fascicolo VI, pp. 445-449). ' Gabriele, Op. cit., pp. 66-67.
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superiorità in tutti e tre i requisiti, cioè armamento, velocità e protezione. in secondo luogo, egli è costretto a prendere atto dei progressi delle artiglierie, che pochissimo tempo dopo l'entrata in servizio delle quattro navi colossali (18801887) rende decisamente obsoleto il loro armamento principale, quindi mette in discussione l'opportunità di costruirle. Ciò premesso, per ragioni oggi difficili da stabilire l'annus horribilis della gestione Brin è il 1888-1889; ma anche prima emergono diffidenze e critiche nei riguardi delle grandi navi, della politica del Ministro e dell'organizzazione della marina in genere.
Le prime e poco ortodosse idee del Cuniberti sulle corazzate e sui cacciatorpedinieri, le tesi dell 'Armstrong a favore degli incrociatori non protetti e gli orientamenti ufficiosi esposti dal Bettòlo e dal de Zerbi (1884-1886) Già ali 'inizio del 1884, quando il Brin ha appena assunto la carica, emergono nella pubblicistica navale idee non proprio conformi alla ben nota importanza attribuita dal Ministro alle corazzate. Ne11o stesso anno proprio il Cuniberti, comunemente ritenuto il padre de11a Dreadnought, manifesta una fede tutt'altro che assoluta e incondizionata nelle corazzate, e dedica il suo fertile ingegno ad esporre sulla Rivista Marittima un progetto di "Nave mitragliera cacciatorpediniere" che non avrò seguito, ma sotto molti aspetti è assai significativo.4 Fin dalle prime righe si preoccupa del pericolo delle torpediniere, constatando che "lo squilibrio tra la potenza offe nsiva delle torpediniere e quella difensiva delle navi è troppo evidente perché non si abbiano a temere gravi e strani risultati da un combattimento diurno o notturno fra torpediniere e navi da guerra". Infatti a fronte del continuo perfezionamento del siluro e della possibilità delle torpediniere di attaccare in buon numero una corazzata approfittando del fumo delle artiglierie e/o nascondendosi dietro una nave amica fino a giungere a distanza utile di lancio, le reti metalliche rappresentano una buona protezione per quest'ultima solo se è alla fonda, ma riducono notevolmente la velocità di una nave in combattimento. inoltre gli esperimenti fatti in Inghilterra hanno dimostrato la scarsa efficacia del sistema cellulare [seguìto nella costruzione dell'Italia progettato dal Brin - N.d.a.] contro i siluri, mentre anche il sistema di costruzione a compartimenti stagni può provocare uno sbandamento laterale o una variazione di pescaggio tali da diminuire pericolosamente la velocità e capacità di manovra della nave, specie se si allagano i locali macchine.
4 Vittorio Emanuele Cuniberti, Nave mitragliera - cacciatorpediniere, in "Rivista marittima" TTrimestre 1884, Fase. T pp. 49-72 (l' articolo è datato dicembre 1883 ed è pubblicato poco prima della gestione Drin, quando il Ministero è ancora retto dall'amm. Del Santo).
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Contro le torpediniere - prosegue il Cuniberti - l'arma più efficace è al momento la mitragliatrice [tutti i tipi di mitragliatrice disponibili - Hotchkiss o Nordenfeldt - sono prodotti all'estero - N.d.a.], che però se installate sulle navi maggiori in numero elevato potrebbero ostacolare l'impiego delle altre armi; e anche se ciò non avvenisse, la mobilità relativamente ridotta di tali navi sarebbe insufficiente per combattere le veloci torpediniere, contro le quali non sarebbe nemmeno utile lanciare altre torpediniere nostre [non si pensa ancora ai cacciatorpediniere - N.d.a.]. Ne consegue che "risponderebbe meglio al bisogno la costruzione di un affusto galleggiante per 30 o 40 mitragliatrici, munito di rostro e capace di una velocità superiore a tutte le torpediniere attuali", velocità indicata dal Cuniberti in 22 nodi. Circa l'armamento, oltre al gran numero di mitragliatrici (del tipo Nordenfeldt a quattro canne) egli ritiene necessario installare a prua un'arma del calibro di 37 mm di gittata maggiore di quella delle mitragliatrici per colpire le torpediniere nemiche che fuggono, e a poppa un cannone da 75 mm e 24 t da impiegare contro le navi che inseguono la nostra. Tutte le armi sarebbero scudate; il dislocamento raggiungerebbe le 600 t, con ponte corazzato, autonomia di 900 mg a tutta forza, 2500 mg a velocità moderata e costo equivalente a quello di 3-4 torpediniere, cioè di circa 800.000 lire. Con queste caratteristiche, per il Cuniberti la nave da lui proposta occuperebbe una posizione intermedia tra le torpediniere e le navi maggiori, ma - concetto da sottolineare - afferma che " il problema marittimo non ammette quale unica soluzione la guerra di squadra" e ammette che "è forza convenire che di fronte ai progressi delle torpediniere le navi maggiori si sono sentite indifese e perciò il valore relativo delle grandiforze mobili [cioè delle corazzate - N.d.a.] è minacciato da quello rapidamente cresciuto, delle mobilissime forze leggere". Nessuna fede assoluta, dunque, nella corazzata; anzi, "se la guerra marittima si riducesse alle forme esclusive della guerra navale; se le ricchezze, le fonti principali delle forze marittime non jòssero sparse sulle coste; se tutti gli obiettivi insomma non fossero costieri [ è proprio così che al momento avviene, perché le fonti principali delle forze marittime non si trovano solo sulle coste, né tutti gli obiettivi sono solo costieri - N.d.a.], la nostra soluzione del problema sopraenunciato permetterebbe bensì di conservare ancora per qualche tempo sul mare le grandi costruzioni, ma sarebbe insuffìciente ad assicurare in avvenire la loro esistenza sicché sarebbero minacciate, dopo essere salite alla suprema grandezza, di scomparire lentamente dal mare". In tal caso, la nave da lui progettata tralascerebbe il compito difensivo delle corazzate per svolgere un compito esclusivamente offensivo, con i due lancia-siluri e le mitragliatrici, sia nell'esplorazione che contro navi mercantili e non da guerra non corazzate. Un altro articolo a firma D.G. pubblicato dalla Rivista Marittima 5 riferisce le opinioni del celebre costruttore inglese W.G. Arrnstrong, che [come già si è
' D.G., Gli incrociatori tipo Annstrong - Rendei, in "Rivista Marittima" r Trimestre 1884, Fase. I pp. 105-113.
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visto - N.d.a.] "è partigiano dell'abolizione totale della corazza e sostiene c he col denaro necessario a costruire una corazzata moderna si può provvedere alla costruzione di tre navi non corazzate, di velocità di gran lunga superiore alle corazzate ed armate ciascuna di artiglieria altrettanto potente". Segue una vera e propria esaltazione (la più convinta del genere) dei vantaggi delle navi non corazzate e di minor dislocamento rispetto alle corazzate, con tutti i difetti e limiti assegnati solo a quest'ultirne: essendo esse più veloci e più piccole, oltre al presentare tre bersagli in luogo di quello unico che ha la corazzata, saranno più difficilmente colpite e potranno a piacere ritirarsi. Dotate di maggior facilità di manovra, potranno con più grande probabilità di successo usare il rostro e schivare quello del! 'avversario. Oltreché, la superiorità di numero. la velocità e la rapidità di movimenti permetterà loro di meglio utilizzare l'artiglieria ed i siluri. Anche ammettendo per la corazzata il problematico vantaggio di essere impenetrabile ai proietti delle tre navi non corazzate, essa si troverà ridotta a dover tenere a bada i suoi avversari cercando di distruggerli coli'artiglieria. Ciò però potrebbe verifìcarsi allorquando le tre navi non.fossero armate che di sola artiglieria. ma nella pratica, queste faranno certamente uso dei 1nm rostri[ ...]. Le [predette navi] ben poco avranno a temere dall 'artiglieria nemica, oltreché [... ] potranno impiegare molto meglio il loro fuoco e concentrarlo...
La conclusione dell'Armstrong è perentoria: "in qualsiasi caso la corazzata avrà la p eggio", e anche in una flotta da battaglia composta esclusivamente dalle navi da lui proposte i predetti vantaggi saranno assicurati, pur che se ne moltiplichi proporzionalmente il numero. Tuttavia - egli aggiunge - non si dovrebbe abbandonare interamente la costruzione di corazzate, fino a quando le altre nazioni ne faranno uso e l'esperienza di una guerra confermi le sue previsioni; in ogni caso, le navi non corazzate non saranno mai inutili e costeranno sempre meno delle corazzate. In sostanza l'articolo presenta gli incrociatori moderni addirittura come naviglio alternativo alle corazzate, e non come complemento. Esso ha carattere chiaramente promozionale non solo perché dovuto a un celebre fabbricante di cannoni, ma anche perché descrive le brillanti caratteristiche degli ultimi incrociatori inglesi costruiti dallo stesso Armstrong, tra i quali si trova appunto il Giovanni Bausan progettato dal Rendei, primo incrociatore protetto italiano ordinato in Inghilterra per servire da modello a quelli successivi di costruzione nazionale (sistema ormai consolidato, che indirettamente dimostra l'arretratezza della nostra cantieristica). Si tratta di una nave di 3330 t entrata in servizio nel maggio 1885, senza protezione verticale, con protezione orizzontale di 38 cm, velocità 17 nodi e armamento principale (2 cannoni da 254 mm a tiro rapido) ormai competitivo per calibro rispetto a quello delle corazzate specie francesi e inglesi, più 5 cannoni da 152 mm, 4 da 57 mm, 2 mitragliere da 37 mm e 2 lanciasiluri, con autonomia molto ridotta (solo 560 t di carbone) per lasciare più spazio all'armamento. Si deve comunque notare che le opinioni quan-
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to mai ardite - e interessate - dell 'Armstrong non ricevono alcun commento da parte dell'autore italiano (D.G.) che le riferisce, cosa che potrebbe anche essere interpretata come concordanza con quanto egli afferma. Forse per bilanciare le opinioni del Cuniberti e dell' Arrnstrong - non certo entusiasti del valore delle corazzate - alla fine dello stesso anno 1884 la Rivista Marittima pubblica l'articolo di un nome di spicco, il capitano di fregata Bettòlo,6 futuro Capo di Stato Maggiore (1907-1910), collaboratore del Brin, più volte Ministro dal 1899 al 1910 e sostenitore dei grossi calibri con il suo Manuale teorico-pratico di artiglieria navale del 1879-1881 (l'articolo è pubblicato anche dalla Nuova Antologia del 1° dicembre 1894).7 Diversamente dal Bonamico e da altri autori coevi (non escluso l' Armstrong), il Bettòlo ha il merito di considerare lo sperone solo come un'arma occasionale, portando la sua attenzione sulle possibilità del siluro e del cannone e sulle chances che ne derivano per la nave da battaglia, per la quale non riscontra affatto le difficoltà incolmabili temute dal Cuniberti di fronte alle torpediniere, né le possibilità di sostituzione con navi più leggere e più numerose caldeggiate dall'Armstrong nell'articolo citato. Anzi: nega che l'uso generalizzato del siluro segni la condanna della nave da battaglia, anche se ammette che date le scarse risorse disponibili, "noi dovremmo accogliere con favore ogni processo militare capace di ridurre a/l'inazione l'attuale materiale navale da battaglia, di cui noi in così larga misura difettiamo rispetto alle altre principali nazioni marittime" (considerando il tonnellaggio complessivo delle navi da battaglia inglesi del momento uguale a 1, quello delle navi da battaglia francesi è 0,98, mentre quello italiano è solo 0,27). Detto questo, però, nega che il siluro segnerà la fine della nave da battaglia e afferma senza equivoci che, quale che sia il progresso, "i/ tipo prescelto sarà quella nave la quale oggi, come per lo addietro, domani, come probabilmente sempre, costituirà la vera nave di resistenza, la nave da battaglia, l 'elemento principale della potenza marittima". Sulle orme dei creatori delle navi colossali del passato, tale nave "per potenza ojjènsiva e difensiva. per velocità ed autonomia dovrebbe essere resa ultrapotente e migliore d'ogni altra nave che solchi il mare", privilegiando la qualità rispetto al numero (si noti il criterio opposto a quello dcll'Armstrong prima citato). Più nel concreto, "noi vorremmo che il suo armamento principale fosse rappresentato da potentissime artiglierie, che fosse munita di un efjìcace armamento contro le torpediniere [requisito, come si è visto, non ritenuto realizzabile dal Cuniberti - N.d.a.J e di un conveniente numero di apparecchi per iL Lancio dei siluri [altro requisito destinato a non essere rispettato,
• Giovanni Bcttòlo, Le navi da guerra, in " Rivista Marittima" IV Trimestre 1884, Fascicolo Xll pp. 35 1-470. 7 Giovanni Bettòlo, Manuale teorico - pratico di artiglieria navale (2 Voi.), Firenze, Barbèra 18791881.
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almeno col tempo - N.d.a.]; il tutto distribuito e sistemato secondo le esigenze del più utile impiego tattico di quelle armi''. Questa nave, inoltre, dovrebbe avere velocità di 18 miglia, cioè per lo meno uguale a quella delle torpediniere del momento [si ricorda che i tipi Sardegna potevano raggiungere le 20 miglia - N.d.a.]. Naturalmente, a una flotta con le navi da battaglia come perno il Bettòlo non rinuncia ad affidare la lotta per la conquista o il contrasto del mare, senza peraltro precisare - more solito - le modalità strategiche e tattiche con le quali questo ambizioso obiettivo potrebbe essere raggiunto con una inferiorità numerica così rilevante rispetto alle flotte francese e inglese e quali fondi potrebbero essere concretamente disponibili. Al tempo stesso egli non nega l'utilità delle torpediniere da 40 te molto veloci che si stanno costruendo, ma a causa della loro scarsa autonomia, delle "infelici condizioni di abitabilità" ecc., le ritiene adatte solo per la difesa ravvicinata delle basi; perciò "il credere di avere in esse un mezzo efficace per ogni altra operazione della gran guerra navale è una pericolosa illusione", né vale raddoppiarne il dislocamento: per le torpediniere d'alto mare a suo parere servono 250-300 t di dislocamento, velocità almeno uguale e possibilmente superiore a quella delle navi da battaglia del momento, autonomia di circa I Ogiorni, annamento - oltre al siluro- con le più potenti mitragliere, qualità nautiche ottime, protezione contro il tiro delle più potenti mitragliere ristretta alla prora. 11 Bettòlo non accenna alla precedente proposta del Cuniberti di costruire cacciatorpediniere, vedi caso, dello stesso dislocamento da lui proposto ma armati anche di due cannoni leggeri, con armamento principale composto da mitragliere e non da siluri e autonomia inferiore. Cita però un tipo di cacciatorpediniere di ben 1700 t proposto dal francese Gougeard, con armamento principale composto da 6 cannoni di 1O cm e 6 mitragliere, ben corazzato e con velocità di 20-21 mg (cioè superiore a quelle delle torpediniere del momento), ma affcnna che se dovesse manifestarsi la necessità di costruire una nave a sua volta nettamente superiore anche al tipo Gougeard, seguendo il moto ascendente delle costruzioni navali si dovrebbe sempre arrivare alla nave da battaglia. Tutto sommato, l'importanza attribuita dal Bettòlo alle torpediniere è modesta: lo dimostra la chiusa del suo articolo, nella quale propone di sacrificare qualcuna delle 16 navi da battaglia stabilite dal piano organico del 1877 non per costruire un maggior numero di torpediniere, ma "per aumentare il numero di quelle navi da esplorazione che sono gli avamposti e l'avanscoperta delle navi da battaglia". Così facendo, a suo parere ''potremo, nel volgere di pochi anni, bastare alla difesa della nostra frontiera ed esercitare la dovuta influenza a favore dei nostri interessi". Egli chiude il suo articolo con scontate sottolineature dell ' importanza del personale che ne rende necessario un buon ordinamento, perché nell' ambito del "gran problema navale d 'una giovane marina" quello del personale non è meno importante di quello del materiale. Si tratta di un accenno che potrebbe essere interpretato come un'esortazione all'ingegnere navale Brina non trascurare questa hranca, estranea ai suoi interessi principali. Per il resto l'artico-
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lo, non casualmente pubblicato anche dalla Nuova Antologia, rispecchia nelle grandi linee la politica delle costruzioni navali seguita dal Ministro Brin in carica e dai successori fino ai primi anni del XX secolo, nella quale si mantiene (come del resto nelle altre marine) la centralità della corazzata, con tendenza a costruire torpediniere che come previsto dal Bettòlo accrescono il loro dislocamento,8 ma smentiscono ben presto, già con la classe 103 Schichau tedesca parzialmente costruita in Italia (dislocamento 80 t, velocità 22 nodi, 2 mitragliere da 37 e 2 lanciasiluri, entrata in servizio nel 1887) l'esigenza da lui riscontrata di costruire corazzate con velocità almeno uguale a quella delle torpediniere, confermando piuttosto le tesi del Cuniberti, che ritiene necessario affidare a unità speciali la lotta contro le torpediniere, nella quale le corazzate si troverebbero sempre in difficoltà prima di tutto per la loro velocità inferiore e per la ridotta manovrabilità. Da notare, infme, che il Bettòlo non attribuisce alcuna importanza - nemmeno per il futuro - al cacciatorpediniere e (almeno per il momento) al sommergibile, mentre ne attribuisce troppa agli avvisi, fino a suggerire di destinare a questo tipo di nave - e non alle torpediniere o cacciatorpediniere - una parte dei fondi, sottraendoli alla costruzione di corazzate. Un difensore più marcato e deciso degli orientamenti del Ministro Brio è il deputato de Zerbi, che sulla Nuova Antologia9 traccia un quadro assai ottimistico delle nostre costruzioni navali presenti e future, allo scopo di dimostrare che [mentre] dal 1876 ad oggi ed ancora per qualche altro anno l'Italia è consigliata dalla condizioni della sua marina militare a cooperare al mantenimento della pace in Europa e ad optare fra una politica di rassegnazione e di neutralità assoluta o di incertezze, e una politica di forti alleanze difensive, fra due anni, o meglio tra cinque, e speriamo fra quattro, /'Ttalia, pur che non cambi metodo di Governo, per la rigenerazione del naviglio, e pur che I 'esercito non ritardi il complemento del suo sviluppo, potrà, senza grave pericolo, avere una politica autonoma, non offensiva ma capace di affidare la difesa di sé medesima alle proprie forze. Condizioni quest'ultime che non si sarebbero mai verificate; ad ogni modo anche il de Zerbi sottolinea i progressi della nostra flotta dopo Lissa, grazie anche all'aumento dei fondi con la legge del 1884 sulle spese straordinarie militari. In particolare egli afferma che: - al momento la nostra ''forza efficace" sul mare è composta da 6 navi da battaglia (le 4 navi colossali con 16 cannoni da 100 t, più il vecchio Affondatore e il Bausan, con un totale di 4 cannoni da 25 t e 250 mm, più 59 torpediniere di la classe, una torpediniera d'alto mare, 5 incrociatori e 7 avv1s1;
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Gino Galuppini, Guida alle navi d'!Jalia (Cit.), pp. 76-88. Rocco de Zerbi, L<, marina mili/are italiana. in "Nuova Antologia" Voi. VT Fase. XXI - 1 novembre 1886, pp. 87-1 I 6. 9
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- a fine 1888 saranno disponibili 8 "potenti navi di I a linea" (le solite 4 navi con cannoni da 100 t, più Lauria, Daria, Morosini e il vecchio Affondatore), 10 incrociatori, 110 torpediniere (6 di alto mare), 5 arieti-torpedinieri tipo Bausan; - nel 1892 secondo i calcoli del Governo alle 8 navi di 1• linea se ne aggiungeranno 3 (Re Umberto, Sicilia e Sicilia), gli incrociatori diventeranno 16, le torpediniere 160 ( 1Odi alto mare e 150 costiere di 1a classe) e gli arieti-torpedinieri 7 [però le "navi colossali" al momento sono già superate - N.d.a.]. Forse perché sono progettate dal Ministro in carica, il de Zerbi esagera quando giudica "più perfette delle altre e quasi insommergibili" le navi tipo Sardegna; altre perplessità nascono (anche) vedendolo considerare il vecchio Affondatore (con due soli antiquati pezzi da 254 mm ad avancarica) come "una potente nave di prima linea" al pari delle vere e proprie corazzate, così come considera al pari di esse il Bausan classificato ariete-torpediniere e poi incrociatore, di sole 3300 t e anch'esso con 2 soli cannoni da 254 mm sia pure a retrocarica, senza protezione verticale. Si deve anche notare che non dimostra mai, con un appropriato e approfondito confronto, che la quantità e qualità del naviglio che considera può tenere in qualche modo testa almeno alla flotta francese, limitandosi ad affermare (retoricamente) che un ammiraglio non deve contare le navi nemiche, e che mentre nel 1876 poteva solo farsi mandare a picco per salvare il decoro militare della nazione, nello spazio di due anni avvenire potrà assumere il comando della squadra "con La coscienza di poter combattere efficacemente contro qualsiasi nemico". Ha comunque il merito di non indicare priorità tra cannone e siluro e tra torpediniera e corazzata, con quest'ultima che ha accresciuto la sua capacità di difesa con anni automatiche, anche se in movimento le reti di protezione sono poco consigliabili. Esalta anche l'importanza della velocità e sottolinea la necessità di studiare l'impiego in caso di guerra della marina mercantile (aspetto fino a quel momento trascurato) e di organizzare bene la difesa delle tre basi indispensabili per la flotta (La Spezia, Maddalena e Messina). Inoltre al Ministero della marina chiede di affrettare la costruzione delle corazzate della classe Sardegna e di aumentare gli incrociatori con particolare riguardo agli incrociatori-torpedinieri tipo Tripoli, introducendo su tali navi tutti i nuovi elementi di difesa: più o meno quanto sta già facendo il Ministro Brin, che si guarda bene dal concentrare la sua attenzione solo nelle corazzate.
Gli attacchi in Parlamento al Ministro Brin e al! 'organizzazione della marina e il suo scontro con il Saint Bon Esattamente come il suo predecessore Acton, anche il Brin deve fronteggiare alla Camera degli attacchi anche su questioni che non ne coinvolgono direttamente la responsabilità; fatto rimarchevole, a questi attacchi partecipa persino il Saint Bon.
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Descriveremo quelli più importanti, cominciando dalla discussione dello stato di previsione della spesa del Ministero della marina per l'anno 1885-1886. Nella tornata del 13 giugno 1885 l'onorevole Capo chiede chiarimenti al Ministro sull'opportunità di coinvolgere solo la Società Florio e Rubattino nell'approntamento di naviglio mercantile idoneo a fungere da ausiliario per la marina da guerra, e critica l'impiego di tre ammiragli fuori quadro in ispezioni alla contabilità dei dipartimenti, che in pratica si risolvono in aumento delle diarie ai predetti ammiragli, mentre in pratica le contabilità sono quasi sempre verificate dagli stessi ufficiali compilatori dei conti. Altre critiche riguardano: - l'aumento del numero dei gradi superiori dei macchinisti, mentre ci sarebbe piuttosto bisogno di aumentare il numero dei macchinisti semplici; - il cattivo funzionamento del corpo di commissariato, che costa parecchi milioni ma non fa i controlli che dovrebbe effettuare, tanto da far pensare se non sia meglio abolirlo; - il cattivo funzionamento del servizio dei viveri, per il quale nonostante le segnalazioni dei comandanti di dipartimento e dei direttori di commissariato, il Ministero ha rinnovato così com'era il contratto d'appalto scadente il 31 diccmhrc 1884 e non ha adottato alcun provvedimento per eliminare i disservizi, con particolare riguardo alla sede di Napoli; - la sospensione immotivata dell'ispezione ordinata per i dipartimenti. L'intervento più importante della giornata è quello del deputato Randaccio, che oltre ad essere storico e linguista navale (Cfr. Voi. TI - Cap. XTTT e Tomo I Voi. IU - Cap. lll) è anche esperto di questioni amministrative, perché come ufficiale del commissariato della marina, ha prestato per lungo tempo servizio al Ministero in incarichi di rilievo. Egli traccia un quadro fin troppo negativo dell'amministrazione, tanto da rendere opportuno riportare il suo intervento pressoché per intero: Parlerò prima dell'amministrazione del materiale, poi di quella del personale, con la mia solita brevità. Comincio dalla prima. Difficile oltremodo e complicata è l 'amministrazione e la contabilità del materiale di una marineria militare. [ ...]. Per necessità, in Italia, come in Francia, questo materiale si dovette dividere in due grandi categorie; la prima che comprende tutte le materie prime e lavorate, le quali costituiscono la provvista dei magazzini; la seconda, tutti quegli oggetti. i quali per qualità o per la particolarità del servizio in cui sono impiegati, non appartengono ai magazzini, quali sono i materiali che si trovano a bordo delle navi, quelli per il servizio generale degli stabilimenti marittimi e delle officine, i materiale per il servizio scientifico, e via dicendo. I materiale della prima categoria, cioè quelli che costituiscono la provvista dei magazzini, sono consegnati a contabili con cauzione, i quali rendono i loro conti annuali alla Corte dei conti, producendo all'appoggio i documenti originali. d'introito e d'esito. I materiali della seconda categoria, cioè tutti quelli che stanno.fuori dei magazzini, Lutto il naviglio, tutta la dotazione degli arsenali e dei cantieri, sono consegnati ad economi responsabili senza cauzione, che ne danno conto alla competente direzione dei lavori. Così, noti la Camera, la massima parte del
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materiale marittimo militare, sfugge alla giurisdizione della Corte dei conti, al sindacato di Stato. Però, lo ripeto, questo è necessario; il sindacato di Stato diretto non potrebbe essere ultimamente esercitato sulla contabilità di una gran parte del materiale marittimo. Resta da esaminare se il sindacato amministrativo della contabilità di questo materiale, sindacato il quale in sostanza è commesso agli stessi ordinatori dei lavori, agli stessi consumatori, porga allo Stato bastevoli guarentigie. Il modo di amministrare e di conteggiare il materiale della nostra marineria militare.fu più volte mutato; e simili mutazioni non furono certamente l'ultima causa del gravissimo disordine in cui cadde questo importante ramo di servizio. Ma occorreva ben altro che mutare sistemi, occorreva mutare gli uomini! li disordine e la confusione, come già dissi,furono lo stato permanente, normale, dell'amministrazione e della contabilità del nostro materiale. Parlo del passato. A spiegare questa affermazione, senza che io mi dilunghi a citarefatti, basti alla Camera di sapere che, con sentenza della Corte dei conti 21 dicembre 1882, sul resoconto del contabile principale del secondo dipartimento del I 869, il contabile stessofa condannato a pagare il materiale, riconosciuto mancante per mezzo di un regolare inventario, per il valore liquidato di lire 1,185,032; e che con altra sentenza posteriore della prefàta Corte, un altro contabile principale dei magazzini della regia marina, fu condannato a pagare il valore del materiale riconosciuto mancante in lire 2,413,021; e taccio di molte altre consimili decisioni della Corte dei conti che pure accertano altri deficit per centinaia di migliaia di lire. Mi affretto ad aggiungere che in questi deficit il furto e la frode non entrano che per piccola parte; la maggior parte è dovuta al disordine, alla confusione dell'amministrazione, prodotto del 'arbitrio degli uni, dell'incuria degli altri. Per esempio ad un contabile condannato mancano 317 cannoni. ad un altro una macchina marina di 400 cavalli. (Si ride). Evidentemente questi oggetti non furono rubati: i cannoni saranno stati fusi, la macchina marina sarà stata disfatta senza che siano state eseguite le opportune operazioni di scrittura: ma il risultante, sotto l'aspetto amministrativo, non è per ciò meno deplorevole. Questo è il passato dell'amministrazione del materiale della nostra marina; qual 'è il presente? Quale sarà l 'avvenire? Abbiamo ora un regolamento del servizio per le direzioni dei lavori e per la contabilità del materiale dei regi arsenali e cantieri, approvato con regio decreto del 20 aprile 1882, regolamento il quale s'ispira alla legge del piano organico del materiale della regia marineria. Per questo regolamento, ogni direzione dei lavori degli arsenali. acquista, adopera, consuma, conteggia tutto il materiale che le è attribuito, e ne sindaca essa medesima la contabilità, tranne quella appartenente al magazzino. Non si potrebbe immaginare un regolamento più semplice: si fa quel che si vuole e non si rende conto a nessuno. Vero è che in quel regolamento si trova un articolo in cui si parla di ispezioni tecniche ed economiche da/arsi tutte le volte che il Ministero le crederà opportune; ma il ministro non le ha mai. che io sappia, credute opportune. Pensa la Camera che sia stata mai fatta da quando esiste la marineria italiana una vera ispezione del materiale marittimo? Che siasi riscontrato da un ispettore, almeno una volta, se le quantità dei materiali esistenti nei magazzi-
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ni corrispondessero in effetto a quelle che ci dovevano essere secondo la scrittura? Mai. Pensa la Camera che siasi ricercato, almeno una volta, se ne/I 'esecuzione dei lavori vi sia stato spreco di opera, sciupio di materiale? Mai. Eppur, per quanto da più anni siasi stendere un velo pietoso sul disordine del1'amministrazione della marineria, i disordini più gravi non si poterono nascondere, come quelli avvenuti or non è molto, nell'arsenale del terzo dipartimento marittimo. In questo stato di cose, al quale io, come promisi, ho appena accennato, non si può a meno di riconoscere che ali 'amministrazione ed alla contabilità del nostro materiale è mancato, e manca tuttora, ogni serio, ogni efficace sindacato. [... ] Premetterò che se l'amministrazione e la contabilità del materiale di una marina militare è difficile e complicata. non è certamente facile quella del personale della marina stessa. lasciando da parte lo stato maggiore, e considerando soltanto la bassa forza, ricorderò che noi abbiamo un solo Corpo, chiamato Corpo reali equipaggi. A questo Corpo sono ascritti oltre 10,000 uomini in servizio effettivo, più oltre a 10,000 in congedo illimitato; vale a dire più di 20,000 uomini sulle matricole: ma degli uomini in servizio effettivo, appena la decima parte di trova presente al Corpo; tutti gli altri si trovano sulle navi sparse su tutti i mari. TI Corpo reali equipaggi è così un ente amministrativo, anziché un 'unità tattica. Esso constò dapprima di due, poi di tre divisioni, amministrate ciascuna da un Consiglio proprio. Qui, per quelli fra i miei colleghi che sono meno pratici di amministrazione militare stimo opportuno d'esporre brevemente il modo d'amministrazione e contabilità di un Corpo o di un Istituto militare. Un corpo militare è come una gran famiglia: chi lo governa deve provvedere a tutte le necessità della vita dei componenti di questo Corpo: vitto, vestiario, alloggio, ogni cosa. È chiaro che l'amministrazione di questo Corpo risulterà assai complicata e divisa in moltissimi conti particolari, ed èpur chiaro che l'amministrazione diretta del Corpo stesso per parte del Ministero da cui dipende è impossibile. Di qui la necessità dei Consigli di amministrazione, i quali altro non sono che delegati, fiduciarii del Ministero, che sulla fede dei documenti che gli sono presentati dai Consigli medesimi.fa loro le anticipazioni ed i saldi delle competenze in denari e in natura dovute a tutte le persone del Corpo. Sicché si può ajfennare che un Cmpo o Istituto militare, può avere i suoi conti in piena regola col Ministero da cui dipende e con la Corte dei conti, ed aver fatto cattivo uso della maggior parte del denaro che ha ricevuto. Qual è il mezzo di esercitare un vero, un ejjìcace sindacato su/l'amministrazione del Corpo stesso? Non altro che/ 'ispezione da farsi ogni anno, mediante la quale, si deve e si può ritrovare l'uso fatto anche dell'ultimo centesimo. Detto ciò, tomo alle tre divisioni del Corpo reale equipaggi. Disordini, prevaricazioni, frodi ve ne furono in tutte e tre. Ma il primato spetta alla seconda divisione: di essa può dirsi che il disordine e l'irregolarità costituirono il suo stato normale. permanente: la sua storia si può Leggere nei processi criminali del tribunale locale. Tralasciando per amore di brevità, di parlare dei tempi anteriori, dirò che nel I 869 venne scoperto, a caso, che in quasi tutte le Compagnie del corpo vi erano state frodi a danno de/l'erario, per u11 totale di lire 131,000. A dare ai miei colleghi un 'idea dello stato dell'amministrazione nella seconda divisione nel corpo reale equipaggi, leggerò un solo brano (ne ho qui parecchi) considerando di una sentenza del tribunale militare.
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"Che tali fatti, i quali si direbbero impossibili in una diligente e retta amministrazione, trovano il loro riscontro nelle stesse pagine processuali; poiché le somme denunziate e sospettate di malversazione, di gran lunga superiori a quelle contemplate nell'accusa, ebbero nel corso dell'istruzione a subire tali e tante riduzioni, che per parlare della sola sezione mista, da più di lire 4000 discesero a poco più di 600. "Che altro argomento della possibilità dei lamentati errori fu pure fornito alla pubblica discussione dalle dichiarazioni di diversi ufficiali di amministrazione i quali, con non lieve scandalo,, dovettero convenire che ali' epoca a cui risalgono i fatti del presente giudizio, la contabilità delle varie sezioni della seconda divisine procedeva senza guida e senza controllo per parte dell'uffizio del maggiore relatore e di quanti altri uffiziali erano preposti alla verifica della contabilità medesima". Questi e altri fatti denunziati in tal modo alla autorità superiore, quale ejjètto crede la Camera che abbiano prodotto sull'autorità stessa? Oda la Camera. L'ufficiale di amministrazione il quale primo e più di tutti era colpevole di quei gravi disordini, jù promosso maggiore a scelta. Ad aggravare le condizioni dell'amministrazione del corpo reale equipa!:f{i, sopravvenne una disposizione ministeriale della cui legalità io mi permetto di dubitare. Fu prescritto che agli uomini mandati in congedo illimitato non venissero più pagati i rispettivi crediti di massa, ma che il denaro rappresentato dai crediti stessi rimanesse per intiero presso /'amministrazione di ogni divisione del corpo reale equipaggi. Queste somme ascendevano nel I R75 a poco meno di due milioni. Ebbene, esse furono lasciate nelle casse dei corpi, non soltanto per molti anni i,ifruttifere, ma senza alcuna guarentigia speciale per la loro custodia. Finalmente, quel che doveva accadere, accadde. Un bel giorno, nell'agosto del I 876, / 'uffiziale pagatore della seconda divisione del Corpo reale equipaggi si presentò ali'avvocato fiscale militare dichiarandogli che, a varie riprese, egli aveva sottratto dalla cassa del corpo la bagatella di lire 450,000. Una inchiesta, ordinata infuria dal Ministero, accertò che il disordine nella amministrazione di quel Corpo era andato ad un punto incredibile. Niente meno che / 'uffiziale pagatore non teneva neppure il giornale di cassa! Nel tempo stesso, si scopriva un deficit di 30,000 lire nella amministrazione dell'ospedale; un deficit di 20,000 lire in quella del cantiere di Castel/amare; e più si sarebbe scoperto, se non si fossero arrestate le indagini. Accertata la mancanza delle lire 450,000, i membri del Consiglio jùrono, in conformità al preciso disposto del regolamento di amministrazione e di contabilità dei Corpi, sottoposti a ritenzione del quinto sul loro stipendio; ma, poco tempo dopo, il Ministero non solamente fece cessare questa ritenzione, ma ordinò che si restituissero le somme ritenute agli uffiziali che erano in causa. Dopo ciò, denunziò ilfatto alla Corte dei conti; la quale dopo oltre cinque anni, non ha ancora deciso niente in proposito. Più, il Ministero (devo dire che niente di tutto questo riguarda l 'attuale ministro) avrebbe, secondo quel che dicesi, compiuto un atto incredibile.
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Giova sapere che, avvenuta la sottrazione delle lire 450,000, il Ministero si decise a far tardi quello che avrebbe dovuto far prima: fece cioè depositare la somma che rimaneva della massa uomini in congedo illimitato, nella Cassa depositi e prestiti, al solito interesse del 3,50 per cento; somma che, al tempo d'allora ammontava ancora ad un milione e mezzo circa. Or che avrebbe pensato difàre il Ministero? li Ministero avrebbe pensato di ripianare il vuoto delle lire 131,000 e delle 450,000, in tutto 581,000, cogli interessi ricavati dal deposito del Fondo massa uomini in congedo illimitato presso la Cassa dei depositi e prestiti. lo voglio sperare che ciò non sia; ad ogni modo io domanderò all 'onorevole ministro della marineria; 1° stima Ella legale la disposizione di non pagare il credito di massa interamente agli uomini mandati in congedo illimitato'! 2°, nel caso che lo stimi legali, non troverebbe più regolare, più giusto, di limitare questa ritenzione alla metà, precisamente come sifa nell'esercito? 3° è vero che il deficit delle lire 581,000 si volle ripianare con gl 'interessi del Fondo spettante alla massa uomini in congedo i/limitato? 4° non crederebbe Ella, in ogni caso, che proprietari di quegli interessi siano gli stessi proprietari del capitale, cioè gli uomini mandati in congedo illimitato? Finalmente, non le sembra irregolare il metodo tenutofìnora, e non stimerebbe opportuno di provvedere a mutarlo? Probabilmente l'onorevole ministro sarà poco al corrente di queste cose, onde io non esigo che mi risponda categoricamente; a me basta che s'impegni a provvedere sollecitamente. Praticando le opportune indagini, l'onorevole ministro si accorgerà senza dubbio di un grave d{fetto che esiste nel Ministero della marina, la mancanza cioè di una direzione, di un ufficio. si chiami come si vuole, in cui sia accentrato il servizio amministrativo generale della marina, e che abbia per ufficio di sindacare tutti i conii, di danaro e di materie, e di rifèrire i risultati di questo sindacalo al ministro. Questo uffizio esisteva, e si chiamava Direzione generale della contabilità; efa istituito, parmi, nel I 866, lo dico a sua lode, benché assente, dall 'onorevole Depretis; pare però che fosse un bruscolo negli occhi dei suoi successori, perché si affrettarono ad abolirlo. Ritorno ali 'argomento principale del mio discorso. Succeduta la catastrofe della seconda divisione del Corpo reale equipaggi, il ministro cercò di prowedere alla meglio; e prima di ogni altra cosa unificò il Corpo, sopprimendo le tre divisioni autonome, causa precipua ed inevitabile del disordine; co11Seguendo colla unificazione del Corpo il benefizio inestimabile del/ 'unità del conto generale, e della unità dei conti particolari. Come poi l 'amministrazione centrale della marina, a cagione del pochissimo conto, in cui fu sempre tenuta, non possedeva che pochissimi impiegati, idonei a sindacare la contabilità dei Corpi militari, il ministro di quel tempo, istituì I Ufficio di revisione della contabilità dei corpi presso il Ministero, chiamando a farne parecchi 71/Jì.ciali del Commissariato; in ultimo prescrisse che le revisioni avessero luogo, rigorosamente, ogni anno. Come provvedimento urgente e provvisorio, la istituzione dell'ufficio di revisione fa buona; ma è buona come istituzione definitiva, permanente? Io non lo credo. Que/1 'ufficio è in gran parte composto con ufficiali di Commissariato, i quali non sono da paragonarsi con gli ufficiali del Corpo di Commissariato di
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marina; non sono che contabili incaricati di tenere la contabilità del corpo reale equipaggi, di tutte le navi, e di tutti gli Istituti e stabilimenti militari marittimi; come dunque è possibile tra:;formarli. da un giorno ali'altro, da contabili in controllori? Anche la Commissione generale del bilancio, per ben due volte, si accorse di questo sconcio; chiamò sopra di esso l'attenzione del ministro della marina, il quale, rispose, come leggesi a pag.5 della relazione: "Si ebbe riguardo di non ammettere all'ufficio di revisione, se non quei commissari, la gestione dei quali era già saldata. Questo principio è stato sempre osservato cd è garantito dai vari cambiamenti che si sono fatti e si fanno nei commissari anzidetti". A me sembra che l'aver ricevuto il benestare della propria gestione, non sia guarentigia sufficiente perché un ufficiale del Commissariato possa essere chiamato a far parte dell'ufficio di revisione. Qual 'è il compito dei membri di questo ufficio? Quello di sindacare tutte le operazioni compiute a terra e a bordo dagli "!!ficiali di Commissariato. Ora vi pare ragionevole di commettere questo sindacato ad ufficiali del Corpo stesso? Vi pare ragionevole di dar loro l'espresso incarico di ricercare e di denunziare gli errori, le mancanze dei loro amici, dei loro compagni e quel che più monta, dei loro superiori? Vi pare che l'amministrazione possa sentirsi guarentita da questa sorta di sindacato? J-éngo alle ispezioni annue. Ho già detto esser questo il solo mezzo efficace di rivedere, di sindacare le contabilità dei Corpi e credo che nell'esercito l'istituzione proceda sufficientemente bene. Ma in marina, dove le ispezioni, in virtù della legge sul piano organico del personale, sono affidate agli ammiragli, le cose vanno e devono andare necessariamente in modo diverso. L'ufficiale dell'esercito fa ad un tempo il servizio militare e quello di amministrazione; comandante di distaccamento, comandante di compagnia, maggiore relatore, membro dei 200 e più Consigli d'amministrazione che possiede l 'esercito, presidente dei Consigli stessi. Allorché giunge al grado di colonnello o tenente colonnello, egli ha modo d'impratichirsi pienamente dell'amministrazione militare, la quale poi conviene ricordarlo, è molto meno complicata, difficile, di quella del personale militare marittimo; dimodoché quando promosso generale, egli diviene ispettore, può con sufficiente attitudine adempiere all'ufficio suo. Ma in marina, lasciando anche da parte il fatto notissimo che l 'ufficiale di marina fu ed è in tutti i tempi e luoghi alieno, per indole, da tutte le cose d'amministrazione, bisogna riconoscere che se pur vi fòsse, per eccezione, l'ufficiale di marina che volesse impratichirsi dell'amministrazione, egli non ne avrebbe il modo. Non vi è che un solo Consiglio d 'amministrazione, quello del Corpo reale equipaggi; e notate che i membri di questo Consiglio non sono tutti ufficiali di vascello. Quanti "!lficiali superiori, prima di diventare ammiragli. potranno, a turno, avere la presidenza di questo Consiglio di amministrazione? Pochissimi, è cosa evidente, onde poca o niuna attitudine negli ammiragli ali 'ufficio d 'ispettori di contabilità. Di qui la necessità di mettere al loro fianco degli ufjìciali di Commissariato,
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vale a dire di far compiere le ispezioni da coloro che dovrebbero essere ispezionati. Ma non basta: si è giunti al punto di esonerare, più volte, provvisoriamente dalle proprie funzioni il maggiore relatore di una divisione del Corpo reale equipaggi, e farlo coadiutore dell'ammiraglio mandato in ispezione. Coloro che anche mediocremente s'intendono di amministrazione militare, vedono quale enormità sia questa, d'incaricare del 'ufficio di sindacatore colui che più di tutti e prima di tutti deve essere sindacato. Sia ignoranza, sia incuria, sia una cosa e l'altra, certo è che più in là non si può andare. Qual rimedio a questo male, qual riparo a questo p ericolo? Non spetta a me di proporlo: dico soltanto che non crederò mai efficace un sindacato i risultati del quale dovessero essere rijèriti a solo ministro della marineria. e che lo crederò efficace solo allorché i risultati di questo sindacato siano pure dallo stesso ispettore direttamente rijèriti al ministro delle finanze ed alla Corte dei conti. Attenderò la risposta che certamente si compiacerà di farmi l'onorevole ministro.
Va ricordato che nella stessa tornata del 13 giugno 1885 prende la parola il generale Ricci, per il cui intervento rimandiamo al Tomo I - Cap. I sz. II, limitandoci a ricordare che le sue opinioni si riassumono nella necessità di creare un unico Ministero della difesa nazionale e di assegnare maggiori fondi alla marina, anche a discapito dell'esercito. Nella tornata del 15 giugno 1885 il Ministro Brin risponde al Capo, al Randaccio e al Ricci, che a loro volta replicano. Riguardo all'utilizzazione del naviglio mercantile e ai relativi premi, egli afferma che il Ministero ha esteso l'offerta fatta alla ditta Rubattino anche ad altre società, che però non hanno ritenuto conveniente accettarla. Il Ministero ha perciò stipulato il contratto con tale ditta per soli 7 bastimenti con i requisiti richiesti (velocità minima 12 miglia e 3000 t di stazza), impegnando però la ditta stessa a tenere a disposizione anche i restanti 64 suoi bastimenti, senza alcuna indennità. A proposito dell'aumento del numero dei gradi superiori dei macchinisti, precisa che occorre un ufficiale superiore per ogni nuova nave che entra in servizio; comunque ne ha contenuto l'organico, diminuendo i gradi inferiori. Circa il servizio viveri, ricorda che la marina ha dato in appalto la fornitura dei viveri a un' impresa, con contratto che scade ogni 3-5 anni. L'adozione del sistema delle sussistenze (cioè l'approvvigionamento e la parziale confezione dei generi a cura della stessa amministrazione militare) non eliminerebbe gli abusi e la necessità di appalti, e richiederebbe una costosa e complicata organizzazione dei panifici, fabbriche di pasta ecc. Del resto anche se i rapporti delle direzioni di commissariato sono favorevoli alle sussistenze, non c'è unanimità, e quasi tutti ammettono che l'attuale servizio è ben assicurato; del resto anche l'esercito dopo aver adottato il sistema delle sussistenze, in parte è tornato indietro. Perciò il Ministero ha adottato tale sistema solo per i bastimenti all'estero. Circa la macchina che secondo l'onorevole Capo risulta smarrita e non figura nella conta-
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bilità dimostTandone il disordine, ricorda che si trattava probabilmente della macchina della Magenta acquistata in Inghilterra, che data la sua mole non entrava in magazzino e quindi non è stata contabilizzata. Comunque - e questa è l'argomentazione principale del ministro, anche per quanto denunciato dal Randaccio - gli inconvenienti lamentati risalgono a prima del 1878, quando un'apposita legge ha prescritto che l'amministrazione degli arsenali della marina doveva seguire le stesse norme in vigore negli arsenali dell'esercito. Tali nonne sono state recepite dalla marina con un regolamento in vigore da quattro anni, che ha ottenuto un notevole miglioramento, anche se "abbiamo delle contabilità dipendenti dagli antichi sistemi che non sono state ancora saldate e che sono sempre in discussione alla Corte dei conti". A proposito delle ispezioni, assicura di aver ordinato delle ispezioni ai tre dipartimenti per vedere quali miglioramenti vi si possono introdurre; ma esse comportano molto tempo e notevole spesa, mentre il Ministero per ristrettezze di bilancio, può disporre solo di tre ispettori. Comunque il sistema al momento vigente è stato introdotto per impulso dello stesso onorevole Randaccio; giusti fica poi la trattenuta al personale che va in congedo con la necessità di colmare il vuoto di cassa verificatosi. Per ultimo il Brin concorda di massima con la tesi dell'onorevole Ricci sulla necessità di dare alla difesa nazionale un'impostazione unitaria e di rafforzare la marina, perché si è fino a quel momento provveduto alla difesa terrestre in misura maggiore che alla difesa marittima. Si dimostra però tiepido sulla proposta del generale di rafforzare la marina a spese dell'esercito, anche se lo stesso Ministro della guerra [generale Ricotti] "pochi giorni fa noverava tra le regioni del doversi tenere ad una spesa il più possibile limitata la necessità assoluta di dover pensare ad aumentare e ri,iforzare il bilancio della marineria". Comunque definisce "molto discutibile se meriti la preferenza la difesa marittima o la terrestre", né sarebbe conveniente rimettere in discussione il nuovo ordinamento dell'esercito [su due corpi d'armata in più, che comportano inevitabilmente un aumento di spesa - N.d.a.]. Il Randaccio non è affatto soddisfatto della risposta, e imputa al Ministro di aver girato intorno alle sue affermazioni, senza entrare nel merito di ciascuna. Riguardo agli inconvenienti che secondo il Ministro non si sarebbero più ripetuti a partire dal 1878, "io rispondo che nulla mi garantisce che non ne siano avvenuti e che non ne possano avvenire, perché gli ordinamenti in vigore non porgono nessuna guarentigia di retta amministrazione". Quanto poi alle ispezioni precisa che non ne sono state fatte poche come afferma il Ministro, ma non ne è stata fatta nessuna; comunque esse non richiedono affatto il controllo di tutto il materiale. Conclude constatando che lo stesso Ministro riconosce la persistenza del pericolo di una cattiva amministrazione sia del personale che del materiale, e promette di porvi rimedio; ne prende perciò atto, "col fargli notare che la responsabilità è tutta sua". Il Brin replica negando di aver girato intorno alle varie questioni, e dissente dall'affennazione del Randaccio che il sistema amministrativo in vigore non
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offre nessuna garanzia: infatti la marina dispone ormai di un regolamento di amministrazione del materiale approvato dal Consiglio Superiore di marina e dalla Corte dei conti, e perfettamente conforme alla legge di contabilità dello Stato. Ricorda anche che il materiale trovato nei magazzini di Napoli dopo un' ispezione di otto mesi corrisponde a quanto risulta dai registri contabili, il che dimostra l'infondatezza del giudizio del Randaccio sulla mancanza di garanzie. Giustifica, infine, l'operato dei predecessori in merito alle trattenute. Anche il generale Ricci si dichiara insoddisfatto della risposta del Ministro, osservando che il bilancio dell'esercito, portato a 200 milioni in seguito all'aumento di due corpi d' armata, ha già raggiunto i 210 milioni, mentre a chi si è lamentato che la spesa straordinaria per l'esercito sia stata ridotta da 45 a 30 milioni, è stato risposto che se vi saranno eccedenze sul bilancio dello Stato, esse verranno impiegate per aumentare tale spesa straordinaria: "è dunque questa corrente che io combatto. Parrà strano che s ia un ufficiale del/ 'esercito il quale avversi questa spesa; ma io, lo dichiaro francamente, prima di appartenere all 'esercilo appartengo al mio paese". Come si è visto, in merito il generale presenta un ordine del giorno che impegna il Ministro della Marina a introdurre nel bilancio definitivo della marina le varianti corrispondenti alla necessità che lo sviluppo delle forze marittime diventi il supremo bisogno della difesa nazionale. Dal canto suo il Brin ammette che, per il momento, il naviglio disponibile non corrisponde ancora alle esigenze della nostra difesa marittima, e che il piano organico del 1877 da lui presentato è molto modesto e anche se non ancora compiuto [opinione diversa da quella del Bettòlo- N.d.a.], "nell'avvenire e nelle nuove condizioni fatte all 'Italia dovrà avere nuovo sviluppo" [come dire: è superato e dovrà essere sostituito con un altro più ambizioso, come è avvenuto con la nuova legge organica del 1887 - N.d.a.]. Il Brin puntualizza però che per lo sviluppo armonico della marina occorre del tempo, e l' onorevole Ricci dovrebbe accontentarsi del programma del Governo di destinare all'attuazione dell'organico della marina tutti i mezzi che abbiamo disponibili; "ma se si volesse sfòrzare l'andamento generale delle cose, e se si esigesse un subitaneo ma non regolare sviluppo del nostro materiale marittimo consacrandovi aumenti eccessivi di bilancio, si commetterebbe non soltanto un errore economico ma anche un errore militare, poiché, come dissi, una marineria non si può creare che con uno sviluppo costante ma progressivo, tenendo anche conto dei mezzi di produzione disponibili nel paese. E anche se il bilancio della marina venisse subito raddoppialo, sarebbe un errore, perché come lutti i corp i che crescono troppo presto, la marina diventerebbe in molte parti deforme". 11 Ricci non è affatto d' accordo, e chiede seccamente al Ministro se si sentirebbe in grado di spendere otto o dieci milioni in più per completare l'armamento dell'Italia e del Lepanto e ordinare 50 torpediniere. Il Ministro lo nega; ma il generale è del parere opposto, perché diversamente dal passato, il bilancio è tale, che un piccolo sforzo può bastare, e se non si vuol soffrire altre umiliazioni, tutto ciò che si può spendere per la marina bisogna spenderlo. Però la
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Commissione del bilancio (il cui relatore è il generale Baratieri) non accetta il suo ordine del giorno, perché le spese superiori a una data somma debbono essere proposte con legge speciale; a questo punto il Ricci dichiara di accontentarsi delle dichiarazioni del Ministro e lo ritira. Nella tornata del 26 maggio 1887 anche l'onorevole Toscanelli lamenta la mancanza di un organismo che ripartisca gli sforzi strategici e le risorse frnanziarie tra esercito e marina secondo un concetto unitario, e anch'egli riscontra la necessità di sviluppare meglio e più rapidamente la marina, visti anche i ritardi nelle costruzioni navali. Interviene di nuovo il generale Ricci, il quale commenta i disegni di legge presentati sia dal Ministro della guerra che da quello della marina e fa notare che, per mancanza di coordinamento, secondo il Ministro della guerra l'organico da lui proposto sarà completato entro il 1888-1889, mentre invece secondo il Ministro della marina solo nel 1898 potrà essere raggiunta la parte sostanziale del l'organico della flotta, considerata come il numero da raggiungere. Dell'effettivo raggiungimento di questo obiettivo - prosegue il Ricci - vi è però da dubitare, perché delle 16 navi di prima classe previste dal piano organico del 1877, cinque (la Maria Pia. la Castelfidardo, I'Ajjòndatore e altre due) sono ormai superate, quindi il loro numero si ridurrà a li; a maggior ragione ciò avverrà nel 1898, visto che la radiazione di tali vecchie navi secondo documenti presentati alla Camera è prevista nel 1890-1891. E poiché la costituzione di due nuovi corpi d'armata comporla un corrispondente aumento delle truppe speciali (bersaglieri, alpini, granatieri), essa causa un ulteriore, deprecabile depauperamento della fanteria di linea, che rimane regina delle battaglie. Perciò come si è visto il Ricci propone che l'aumento di 12 milioni concesso all'esercito per i due nuovi corpi d'armata sia invece assegnato alla marina. 11 dibattito alla Camera tra il Randaccio e il Ministro concerne problemi reali, che in Ouenzano l:,'fandemente l'efficienza della marina nel suo complesso: non così avviene per lo scontro in Senato (tornata del 26 giugno 1889) tra le due persona] ità più eminenti della marina - iI Saint Bon al momento Capo dipartimento e il Brin Ministro -che sorprendentemente non rispecchia divergenze su importanti problemi di costruzioni navali, di organizzazione della marina, ecc., ma sembra soprattutto dovuto a animosità e incomprensioni personali preesistenti, nate tra due uomini che pur essendo di diversa formazione e con diverso ruolo - un ufficiale di vascello come il Saint Bon, e un ingegnere navale come il Brin- fino a quel momento avevano lavorato proficuamente insieme. Tutto comincia con un attacco del Saint Bon al Brin ancora Ministro, nel quale l'ammiraglio gli rivolge una serie di accuse, premettendo che anche se è militare in servizio, è suo dovere - e non un'infrazione alla disciplina- dire la sua opinione, perché - a parte il fatto che il suo grado è superiore - "il ministro in quest'aula è un amministratore, non altro. Dirimpetto al/ 'amministratore sta il senatore". Dopo di che, le sue accuse al Ministro si riassumono nelle seguenti: - il materiale esistente non è stato costruito come avrebbe dovuto essere, perché è stato progettato da ingegneri che [come ilBrin-N.d.a.] non han-
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no mai navigato, perciò ignorano la vita e i problemi di bordo e le esigenze del combattimento navale. Ad ogni modo "anche col materiale esistente qualcosa si può fare", tanto più che i nostri ufficiali di vascello non sono inferiori a quelli di altre nazioni e i nostri marinai sono i migliori del mondo; dopo la dannosa e mal condotta campagna contro le grandi navi condotta dall'Acton, si è creata un'eccessiva, dannosa e fiducia nelle nostre grandi navi e in tutte le altre costruzioni navali, alimentata da una campagna di stampa promossa dallo stesso Brin, che ha anche soffocato all'interno della marina qualsiasi critica e qualsiasi velleità di discussione. Peraltro, nei riguardi del personale circolano opinioni meno favorevoli; tutto questo non giova agli equipaggi ma solo al genio navale, che ha preso il sopravvento in maniera tale, da fargli dire che "la marina è interamente in sua mano"; la predetta, eccessiva fiducia del pubblico produce "la dittatura" da parte del Ministro, che fa quello che vuole e il cui operato non trova opposizione da nessuna parte; la di ffwm opinione che egli ha creato un materiale "audace, pe,:fetto" non ha alcun fondamento. Infatti per quanto riguarda il Duilio il Consiglio Superiore di Marina ha affidato al Brin il compito di progettare una nave sul modello del Devastation inglesi, che all'inizio è risultata da 7-8000 t con cannoni da 35 t, e che così è stata messa in cantiere. Pertanto, se il Duilio ha poi subìto modifiche radicali non è per iniziativa del Brin ma per merito suo, quando è divenuto Ministro. Per quanto riguarda J'Italia, quando il Brin ba a sua volta preso il posto del Saint Bon al Ministero, ha trovato tutti gli studi fatti e la nave già in cantiere; ma non ne era affatto persuaso, così ba consultato un ingegnere straniero che ba fatto gli elogi più assoluti alla nave, e solo dopo tali elogi il Brin ha ordinato la prosecuzione dei lavori; nella relazione introduttiva al decreto di istituzione dell'ufficio di preparazione della guerra [creato nel 1884- N.d.a.] erano attribuiti al capo del predetto ufficio poteri molto ampi, fino a fame un secondo Ministro; invece nel decreto istitutivo gli era assegnato solo il compito di fare delle proposte, e questo è un esempio di abilità parlamentare; la nuova legge organica del 1887 assegna per le costruzioni navali una somma di 220 milioni ripartita in dieci anni, cioè 22 milioni all'anno; invece per l'anno in corso sono stati previsti 27 milioni. Secondo il Brin non si tratta di un aumento di spesa ma di un anticipo, per il fatto che il naviglio anziché essere ultimato in l Oanni sarà ultimato in 8: "ora se voi prendete 10 anni a 27 milioni avete 270, mentre erano previsti 22 milioni per 10 anni, cioè 220". In tal modo la marina riceve "alla chetichella" 40-50 milioni in più. Anche questa è una dimostrazione dell'abilità parlamentare dello stesso Brin; tuttavia, pur essendosi dimostrato molto abile nelle manovre in Parla-
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mento, il Brin non possiede le qualità necessarie per ben reggere un corpo militare: "il materiale non basta per dare vita alla marina"; - dopo aver diretto la campagna contro il Ministro Acton sulla stampa e in Parlamento, lo ha nominato suo consigliere chiamandolo a far parte del Consiglio Superiore di Marina e dando così un cattivo esempio; - ha fatto uscire dalle pieghe del bilancio, senza che nessuno se ne accorgesse, il finanziamento dello stabilimento di Terni. Nella sua replica il Brin fa rilevare che: - il Saint Bon non ha mai precisato che cosa intende per naviglio ottimo, quali siano le caratteristiche che deve avere tenendo conto delle esigenze tattiche, ecc.; - egli gli muove l'accusa opposta a quella da lui stesso indirizzata all'Acton: ma è un bene che il paese abbia una buona opinione delle nostre navi, giudicate positivamente anche all'estero; - non è vero che prima di mettere in cantiere la Lepanto ha consultato un ingegnere straniero, ma anche se fosse vero, non ci sarebbe niente di male; - il Duilio e il Dandolo sono stati messi in cantiere dal Ministro Riboty e l'onorevole Saint Bon li ha continuati, "e così ho fatto io nel mio primo Ministero. L'accusa di dittatura da parte del Saint Bon è infondata, appunto perché quando egli è diventato Ministro le navi erano già in cantiere da parecchi anni e le macchine e i cannoni già ordinati, quindi al buono o al cattivo di queste navi io possono aver contribuito come ingegnere, ma non come amministratore"; - inoltre quando nel dicembre 1877 egli era Ministro e si è trattato di mettere in cantiere un'altra corazzata ha chiesto il parere del Consiglio Superiore di Marina; del quale faceva parte anche il Saint Bon. Più in generale, le costruzioni o gli acquisti delle navi - anche di incrociatori e torpediniere- sono sempre stati approvati dal Consiglio Superiore di Marina e dal Saint Bon. In particolare le navi della classe lauria hanno ottime caratteristiche, anche se non da lui progettate e impostate quando era ancora Ministro l' Acton. Ciò dimostra che "l'alta influenza deleteria dell 'ingegnere navale [sostenuta dal Saint Bon] non ha potuto esplicarsi in questa determinazione"; - l'ufficio di preparazione della guerra è stato creato sul modello del decreto che istituisce la carica di Capo di Stato Maggiore dell'esercito; anzi, il Capo del predetto ufficio ha poteri più vasti, perché diversamente dal corrispondente dell'esercito si occupa anche del materiale. Se poi come afferma il Saint Bon - le proposte non vengono accettate, il Ministro non è tenuto ad accettare tutte le proposte dei suoi consiglieri, ecomunque il Saint Bon, che ha retto la carica di Capo di quell'ufficio per quattro anni, avrebbe dovuto segnalare allora quelle proposte che riteneva indispensabili e che il Ministro non accettava, oppure avrebbe dovuto dare la dimissioni, se non era d'accordo sulle sue attribuzioni;
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- non è vero che nel bilancio che si sta discutendo l'aumento annuo di 27 milioni per costruzioni navali è stato introdotto di straforo, ecc. Tale aumento è stato proposto e motivato nella relazione del Ministero che precede il documento di bilancio; la proposta è stata approvata dalla Camera e - pur con alcune riserve da discutere - dalla Commissione del Senato; - se ha utilizzato i servigi dell'ex-Ministro Aeton dopo averlo sostituito, ciò che è avvenuto nel l'interesse della marina; del resto, così ha fatto anche il Ministro Acton con il Saint Bon e con lui stesso; - è un suo merito aver portato tranquillità all'interno della marina, eliminando polemiche e divisioni. Ha quindi ripreso un ufficiale che denigrava in presenza di inferiori le navi già in servizio, cosa diversa dall'utile discussione delle navi del futuro; - se ha dato impulso alla creazione dello stabilimento di Temi, ciò è avvenuto perché una potente marina non può dipendere dall'estero per il suo materiale. Non è comunque vero che ha celato il suo finanziamento; - per il controllo delle spese esistono un Consiglio di Stato e una Corte dei conti . TI Brin rivendica perciò il merito di aver fatto costruire a Terni le piastre di corazzatura necessarie per i nostri bastimenti, a un prezzo uguale a quello pagato agli stabilimenti stranieri. Uno scontro mediocre e personalizzato, con pochi argomenti di rilievo e parecchi dati opinabili, che sembra rispecchiare rapporti non sempre idilliaci tra ufficiali di vascello e del genio navale, e - forse - una certa animosità da parte del Saint Bon, perché per la successione ad Acton gli è stato preferito un ufficiale del genio navale a lui inferiore di grado. Comunque sia, la polemica si mantiene a livello decisamente inferiore a quello dei precedenti dibattiti parlamentari tra il Ministro Acton e i suoi avversari, incentrati su questioni di fondo anche se le rivalità personali non vi sono estranee. L'intervento del Randaccio rimane pertanto il più significativo del periodo, perché sia pure in modo troppo polemico, solleva parecchie questioni di fondo meritevoli di approfondimento.
Le ripetute critiche al Brin nella letteratura navale (d'Annunzio, Mesturini, Vecchj e Molli)
Nel maggio-giugno 1888 Gabriele d'Annunzio scrive sulla Tribuna una serie di articoli ricchi di informazioni anche tecniche sulla marina, sulle sue principali figure ecc., il che fa pensare che la campagna di stampa di un poeta celebre ma digiuno di problemi militari sia ispirata, dall'interno, da chi conosce bene la marina e i suoi retroscena. 10 li primo bersaglio dei suoi attacchi è il
• 0 Gli articoli sono stati molto più tardi raccolti in un libretto a scopo celebrativo della marina (Gabriele d'Annunzio, L 'armata d'Italia, a cura di E. M. Baroni, Venezia, G. Zanctti 19 15).
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Ministro Brin, che definisce causticamente "non il Ministro della Marina. sì bene il Ministro delle navi; non il supremo arbitro del/ 'armata, sì bene il sovrano e il principal mastro degli arsenali'', con grave trascuratezza per il personal.e e per gli altri problemi. Netta invece la preferenza del poeta per il Saint Bon, "gran soldato e sapiente ordinatore, il quale pensa che le piaghe s 'han da scoprire e curar col fuoco", mentre invece il Ministro Brin ''pensa che si han da nascondere e da curar coi fomenti''. Accenna poi alle probabili cause del dissenso tra i due, che sarebbe dovuto a differenti opinioni sul numero e sull'istruzione degli equipaggi che il SaintBon vorrebbe aumentare e curare di più, mentre il Brin non ne vuol sentire parlare; inoltre il Brin avrebbe concordato le modalità per le grandi manovre dell' anno con il Segretario generale del Ministero ammiraglio Racchia, senza consultare il Saint Bon che pure era al momento capo dell'ufficio preparazione militare e il cui consiglio "doveva logicamente essere ricercato prima d 'ogni altro". 11 Il d'Annunzio riprende le accuse del Saint Bon anche nel deplorare )'"imposizione del silenzio all'interno della marina, deprimendo o allontanando gli uomini più validi'', tant'è vero che il comandante Domenico Bonamico, cioè "il più forte stratego che vanti l'Italia marittima. anzi.forse l'Europa, il mondo marittimo", stimato e studiato all'estero, in Italia è quasi ignoto, cd è stato "relegato" ali' Accademia in qualità di ufficiale istruttore, mentre invece potrebbe rendere importanti servigi al Ministero, negli importanti uffici della mobilitazione o della difesa delle coste. Dimostrano il cattivo impiego del personale da parte del Ministro anche la scelta di un comandante della flotta che non possiede le doti necessarie per tale incarico, la scarsità di ufficiali, e il fatto che "una metà dè nostri comandanti non conosce le proprie navi né le armi delle proprie navi". I due soli ammiragli di alto valore - molto stimati dai giovani ufficiali sono Ferdinando Acton e il Saint Bon. Infine, il Brin per quanto non manchino nella marina ufficiali validi, non ha saputo e voluto scegliere uno Stato Maggiore degno della fiducia di tutti gli italiani, mentre per effetto di un cattivo sistema di avanzamento i giovani ufficiali più validi "languono" per molti anni nel grado di tenente di vascello. Secondo il d 'Annunzio questa situazione dipende anche dall'errata formazione iniziale degli ufficiali, che entrano ali ' Accademia a 13 anni e dopo 5 anni sono promossi guardiamarina e poi sottotenenti e tenenti di vascello, rimanendo in quest'ultimo grado troppi anni. Anche per lui è meglio reclutare i futuri ufficiali a 18 anni, con un' istruzione migliore, maggiore robustezza e una vocazione più consolidata. l giovani ufficiali frequentano un corso superiore che però non consente di selezionare i migliori, come fa la Scuola di Guerra dell 'esercito; sarebbe pertanto opportuno creare sul modello di quest'ultima, una scuola superiore di marina aperta a ufficiali ben scelti. TI quadro è completato dal cattivo trattamento del personale "di bassa forza", al quale "si im-
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ivi. pp. 24-25.
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pongono i più duri, i più atroci sacrifici'', senza mai concedere riposo e licenze e "sbattendo ciascun uomo da una nave all'altra, per anni''. Così il personale lascia il servizio proprio quando è ben istituito e quando la sua opera diventa più utile, mentre e' è sempre gente nuova da istruire e manca l'esempio e l' appoggio dei più anziani. Ne conseguono danni ingenti al materiale, perché ad esempio le macchine vengono affidate a uomini inesperti, che "a furia di rovinare macchine e caldaie, diventano macchinisti eccellenti''. Comunque, il giudizio del d'Annunzio sul nostro marinaio è meno roseo di quello del Saint Bon e del Brin: è versatile, robusto, coraggioso, ma non cura la pulizia personale e manca di cultura, spesso è un pescatore poco adatto alle esigenze delle navi moderne che richiedono piuttosto buoni operai meccanici, e per di più viene poco e male istruito; in particolare "l'educazione morale manca interamente". Le critiche del d'Annunzio agli arsenali rispecchiano quelle del Saint Bon e di molti altri: sono manifestazione dell'eccessivo (e anzi assoluto) potere del genio navale favorito dal Ministro, e dalla sua tendenza alla supremazia e ali' indipendenza dagli ufficiali naviganti, rispecchiando l'ostilità continua tra le due categorie. Gli sforzi degli ammiragli comandanti di dipartimento e degli arsenali per limitare la bramosia d'indipendenza del genio navale sono sempre stati vani, e anzi hanno ottenuto l'effetto contrario. La burocrazia ha reso I'amministrazione estremamente complicata con forti ritardi nei lavori, sì che "il più delle volte, per ottenere la riparazione e i lavori necessari o il ricambio dei materiali, bisogna correre in elemosina di jàvori'', ricambiando con doni di caffè, vino ecc .. li numero di operai è scarso, ma il rendimento del personale esistente è molto basso, perché parecchi tra di loro non lavorano: le singole officine hanno un capo che, a sua volta, si considera /ihem signore; libero di fare e disfare a suo talento. La sorveglianza sui lavori è negletta. I diversi capi-tecnici e capi-squadra di operai, come tanti minori padroni,fànno eseguire opere chieste per favore delle navi, indipendentemente dagli ordini che ricevono. Insomma la disciplina, nel più largo senso della parola, è molto fìacca. Nessuno, lì dentro, ha una vera e propria responsabilità qualsiasi [... ]. Gli arsenali sembrano grandi stabilimenti privati, ove manchi i/padrone. Ed il padrone infatti manca, perché qualunque cosa avvenga, gli stipendi non mutano. Per tali condizioni di cose, si sono verificati abusi enormi.
Su un altro argomento fondamentale, il naviglio, il d 'Annunzio critica in particolar modo la situazione delle torpediniere, che anche per lui dovrebbero essere considerate al primo posto nella difesa delle coste, perché "il siluro è l'arma suprema", mentre (come per Armstrong) " la tanto ricercata invulnerabilità delle navi è una chimera". Invece al momento c'è scarsa cura per questo tipo di navi, tanto che quelle disarmate o in posizione <li riserva "sono in mano a un numero di persone così scarso che deperiscono rapidamente", e invece di essere pronte a partire in ventiquattro ore, Io sono in 14-15 giorni. Inoltre i loro equipaggi ruotano troppo spesso, impedendo che questo delicato materiale sia impiegato da personale ben istruito e ben allenato. È così avvenuto che
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furono una volta spediti ali'estero per prendere alcune torpediniere e condurle in patria, equipaggi allora allora usciti dalla leva, che non sapevano stare al limone, che chiusi nella camera della caldaia non potevano reggere e mal reggevano, e che al più piccolo moto del mare restavano prostrati e abbandonavano il servizio di bordo. 12
L'accenno molto probabilmente riguarda le torpediniere tipo Schichau (costruite in Gennania, varate nel 1887 e prelevate nei mesi invernali da equipaggi italiani), delle quali due sono entrate in collisione nel viaggio verso l'Italia, sì che "dopo questo viaggio le altre torpediniere vennero trasferite in Italia con equipaggio tedesco fornito dal cantiere". Il d'Annunzio propone, perciò, di istituire nell'ambito del Ministero una direzione generale solo per le torpediniere, con un corpo di equipaggi specializzato per questo tipo di navi. Un altro argomento spinoso quanto importante è la disciplina, per la quale d'Annunzio sostanzialmente trasferisce alla nuova marina italiana post-Lissa i giudizi del Gonni sulla vecchia marina piemontese, poi ripresi in tempi più recenti dal Martinelli (Cfr. Voi. TT - Cap. XTT sz. T). Favoritismi, divisioni (pro Acton o pro Brin - Saint Bon), raccomandazioni e ostilità tra gli utìiciali; disciplina intesa come assoluta, rassegnata e cieca obbedienza al grado superio-
re, e non - come dovrebbe essere - come "perfetta armonia di jède e di intenti fra superiori e inferiori''. In tal modo a bordo delle navi la disc1j>lina, che io chiamerò fìsica perché fondata su leggi di costrizione, è veramente rigidissima. Negli equipaggi gli atli di insubordinazione e di rivolta sono rari. Il marinaio obbedisce ciecamente, è umile, sottomesso, quasi servile.L'ufficiale in genere,jà della sua autorità largo uso. T costumi dell'antico militarismo sono ancor vivi nell'armala. Tl comando ha da essere aspro e superbo perché sia efficace: la correzione ha da essere improntata d'ira e di violenza perché sia intesa[ ... ]. Queste fiere affermazioni dell'autorità materiale si propagano di grado in grado. In ciascun ujfìciale, per lo più, son due diversi animi; quello umile, deferente, rispettoso verso il superiore; quello aspro, superbo, arrogante verso l'inferiore f.. l E così la disciplina non è più jòndata su l 'innalzamento morale del più degno ma sul1'abbassamento del 'altrui dignità. 13
A ciò si aggiunga che a bordo ogni comandante interpreta a modo suo i rego lamenti, e che crede esaurito il suo compito una volta che ha diretto l'entrata e l'uscita dai porti, lasciando ai sottoposti specializzati nei vari settori tutto il resto; inoltre con grave danno alla disciplina e alla concordia tra gli ufficiali, egli sceglie l' ufficiale di rotta anche senza riguardo all'anzianità e al grado, come dovrebbe essere. Di tutto questo d'Annunzio dà la colpa al Brin, dichiarandosi lieto di aver condotto una campagna di stampa, che è stata ispirata "dalle epistole che mi
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ivi, p. 53. ivi, p. 58.
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sono piovute e mi piovono da ogni parte" e che a suo dire ha riscosso "il plauso ardente de ' migliori uomini che oggi abbia l'armata d'Italia". Invita perciò il Ministro "a portar risolutamente il jèrro e recidere senza paura e senza misericordia", come ha saputo fare a suo tempo il solo Ministro Riboty mettendo a riposo gli ammiragli Tholosano, Wright e Anguissola, e insieme a loro, sè stesso; invece "Benedetto Brin pare che sogni un 'awentura in cui siano ammiragli il Clivita e il Bertelli, sotto li ordini suoi, e storiografo encomiatore Rocco de Zerbi". 14 Anche l'accenno del d'Annunzio all'appoggio dei migliori uomini della marina (tra i quali si trova evidentemente al primo posto il Saint Bon) accredita l' ipotesi che un uomo geniale ma completamente digiuno di cose navali come il poeta non può da solo aver rilevato tanti difetti della marina del tempo, e che forse si è fatto portabandiera esterno di un movimento di opposizione al Ministro capeggiato dal Saint Bon, il quale gli succederà appunto - ma per poco tempo - nel febbraio 1891. Un altro oppositore coevo del Brin è il comandante (non più in servizio) Evasio Mesturini, già insegnante di arte militare marittima alla Scuola di Guerra dell'esercito di Torino. Il Mesturini scende ancor più in profondità del d' Annunzio con due libri anch'essi decisamente troppo polemici, Salvate la marina! (1888) e Marina nuova (1889). 15 Prima ancor che il Brin egli attacca la marina del momento, e le sue tesi - su taluni argomenti analoghe a quelle del d'Annunzio - possono essere definite una radicalizzazione di problemi già affiorati negli scritti del Bonamico (Cfr. Cap. l), come la necessità di approfondire i rapporti con l'esercito e di rompere decisamente e presto con le tradizioni (da lui giudicati totalmente negative) del periodo velico, la critica alle grandi navi, la costituzione con personale dell'esercito e della marina di un "corpo costiero" che accentri nella marina tutte le responsabilità inerenti alla difesa costiera (al momento suddivisa con l'esercito) e a tutte le altre attività costiere, la riforma dell'insegnamento scolastico ecc. Nell' ambito del periodo velico anche per lui la pecora nera è la marina sarda, fino a fargli scrivere che "le tradizioni assimilate dalla marina italiana sono tradizioni veliche p eggiorate dallo speciale ambiente della marina sarda". I due libri, così come le loro numerose suddivisioni, non presentano una ripartizione rigida degli argomenti, qua e là trattati e ripresi; comunque il secondo, Marina nuova, intende in prevalenza controbattere le critiche a Salvate la marina! comparse sulla Nuova Antologia a cura di un altro ufficiale di marina a riposo, che si firma "L 'ex-marinaio" (Giorgio Molli?). 16
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i vi, p. 68. Evasio Mesturini, Salvate la marina!, Livorno, Giusti 1888 e Marina Nuova, Livorno, Giusti 1889. ' 6 " L 'ex-marinaio" (Giorgio Molli?), salvate la marina? in ''Nuova Antologia" Voi. XVII, Fase. XVIII 16 settembre 1888, pp. 230 246. 15 C fr.
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li Mesturini critica tutto e tutto a fondo; daremo molto brevemente conto solo degli aspetti più originali e interessanti di tali critiche, mai estese all'esercito. Cita spesso il Guglielmotti, da lui definito - esagerando - ''primo maestro dell'arte militare marittima". Altri suoi riferimenti sono autori noti come il generale Marselli, il comandante de Luca, il colonnello Perrucchetti, il tenente di vascello Algranati. Fin dalle prime pagine di Salvate la marina! attacca il "tecnicismo nautico" del periodo della vela, che impedisce alla nuova marina a vapore di fare i conti con il progresso non tanto nella propulsione, ma nell'impiego strategico e tattico, negli ordinamenti, nella formazione del personale, nella struttura di comando. Ne deriva la contrapposizione frontale e assoluta - leitmotiv dei suoi scritti - tra marina militare, rispondente ai nuovi criteri d'impiego tattico-strategici e ordinativi, e marina nautica, frutto perverso della superata tradizione del periodo velico alla quale attribuisce tutti i mali, perché si riassume nello sfruttamento del vento trascurando tutto il resto, cioè l'aspetto militare in genere. In particolare anche il Mesturini è convinto avversario della guerra di squadra e fautore di un impiego strategico della marina strettamente limitato alla difesa delle coste, perciò si oppone al detto che le coste si difendono in alto mare ed è nemico delle navi colossali e delle corazzate in genere. A suo parere tali navi colossali, dopo essere state tanto esaltate, già alle prime manovre [quelle del 1885 - N.d.a.] alle quali hanno partecipato "sono cadute in discredito". 17 Le vecchie denominazioni "nave da battaglia, nave di linea" vanno abbandonate, perché non corrispondono più alla realtà; la guerra costiera richiede un frazionamento strategico delle forze, con concentramenti - e quindi battaglie navali - nei punti ove saranno diretti gli sbarchi nemici. A tali battaglie parteciperanno tutti i tipi di nave, siano essi di alto mare o costiere: infatti diversamente da quanto avveniva nel periodo velico, "per le navi il combattere non è più questione di grandezza", perché qualunque nave, per quanto piccola, ormai possiede un'arma - come il siluro - che con un colpo solo può neutralizzare qualsiasi colosso, e anche ammesso il valore delle corazze contro le artiglierie, rimane sempre la loro ineliminabile vulnerabilità contro il siluro. Nella costruzione delle navi - egli prosegue - non si è tenuto conto del loro impiego, né del tempo e dei progressi industriali. Si è cercata la nave più potente per sé stessa, secondo il concetto della guerra con navi a vela che si riassumeva nella battaglia navale, e "non si è rivolta la mente alla 'guerra strategica"', la quale esige numerose navi e grande facilità di spostamento. Perciò i concetti che hanno determinato la costruzione delle navi Italia e Lepanto so-
no stati dal! 'esperienza, dimostrati erronei. Erronei, prima di tutto perché non è il caso di costruire navi che abbiano tanta autonomia da portare la guerra in America, quando lo scopo vitale è quello di difendere le nostre coste; erronei, perché tutti i costruttori, di tutte le nazioni, hanno dichiarato che non è
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Mestwini, Salvate la marinai (Cil.), p. 6.
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possibile riunire sopra una stessa nave tanti requisiti necessariamente opposti tra di loro. Volendo le navi atte a tutti i servizi, si ottiene in definitiva il risultato di avere navi insufficienti a tutto. Jij
Il Mesturini aggiunge che il ritorno [nei tipi Lauria] della corazzatura sui fianchi "è incontestabile disapprovazione per le navi Italia e Lepanto", per le quali [con il sistema cellulare tipo Italia - N.d.a.] la corazzatura sui fianchi è stata abbandonata, mentre le altre marine non l'hanno mai fatto. E anche se i quattro cannoni delle nostre navi colossali sono grossi e potenti, "sono ben lontani dal corrispondere alle esagerazioni fatte, che quattro navi tipo Lepanto possono tener testa a quaranta Duili". Nelle nuove navi per corazzare i fianchi si è sacrificato qualche miglio di velocità, in tal modo svalutando anche sotto questo profilo le navi Italia e Lepanto. Tutto ciò denota "una generale incertezza di criten'"; e riguardo alla corazzatura, prima il cannone ha vinto la corazza, e per conseguenza in Italia, coli 'idea di precorrere i/ progresso. è stata abbandonata la corazza sui fianchi, e si è pensato essenzialmente a costruire navi grandi che resistessero al siluro. In seguito il siluro ha vinto la grandezza delle navi. Ed ora, mentre una tale vittoria de/l 'ojjèsa sulla difesa è awenuta, si vorrebbe ritornare a proteggere le navi contro le artiglierie.
Comunque - prosegue il Mesturini - se a prima vista potrebbe apparire che si è abbandonato il concetto della "nave enciclopedica" con il sacrificio della velocità, per altro verso esso è ripreso con la contraddizione insita nel criterio di "difendere le navi con corazze che non possano essere perforate dai cannoni, ed annarle con cannoni che possano perforare tutte le corazze esistenti" [ ... ]. Inoltre si è creduto che "le grandi navi potessero avere un e.fletto straordinario o meraviglioso; ma non si commette nessuna esagerazione deprimente dicendo che hanno, come tutte le altre navi, pregi e difetti, e che per quanto colossi, sono sempre colossi coi piedi d'argilla". 19 Una siffatta contraddizione - secondo il Mesturini serve in parte anche a spiegare le controversie sulla questione delle navi, che non sarebbero avvenute se il problema delle costruzioni navali fosse stato posto come problema di guerra e non come problema di ingegneria. Come problema di guerra è stato di recente posto dall'ammiraglio inglese Freemantle in questo modo: "non si fanno frittate senza rompere uova, e il cuoco che si trovasse indeciso sul modo di rompere le uova potrebbe trovare la frittata fatta dal suo competitore". In conclusione, per il Mesturini la "nave enciclopedica" è espressione applicata al materiale del "sistema g enerale enciclopedico" che domina tutta l'organizzazione della marina ed è una cattiva eredità del periodo velico, nel quale tut-
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ivi, pp. 36-37. ivi, pp. 44-47.
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to era incentrato sulla guerra di squadra e sulla battaglia; le navi vanno invece studiate in relazione alle esigenze della guerra di costa. Se per le navi secondo il Mesturini c'è tutto da rifare, c'è tutto da rifare anche per l'organizzazione della marina, anche perché dopo il 1866 si sono costruite molte navi grandi e piccole, ma non si è mai pensato al personale, tra il quale serpeggia un profondo malcontento. Tra i mali derivanti dall '"tecnicismo nautico" ereditato dal periodo della vela indica la scarsa importanza data agli studi storici, tattici e strategici, il dogmatismo interno (nessun spazio per la discussione dei problemi da parte dei Quadri), l'oscurantismo che avvolge in una specie di mistero impenetrabile dall'esterno i problemi della marina, e l'errata credenza che la disciplina in marina debba essere più forte che nell'esercito. In particolare gli ufficiali di vascello, "ridotti ad occuparsi esclusivamente del tecnicismo delle navi e delle armi", hanno invaso il campo degli ingegneri, e nella lotta di attribuzioni che ne è derivata hanno avuto la peggio. L'unico rimedio per questa situazione è l'aumento degli studi militari, della cui necessità sono segno le grandi manovre del 1885, le quali però hanno dimostrato che tra i Quadri non esiste comunanza di idee sulle principali questioni della marina. Sempre all'influenza della mentalità derivante dal periodo velico, nel quale l'unica preoccupazione degli ufficiali era lo sfruttamento del vento, il Mesturini attribuisce la mancanza dello studio scientifico della guerra e dello studio della storia militare e navale nell'Accademia, perché la disciplina nautica impone il rispetto del dogma nelle questioni di studio; sono di conseguenza avversati gli studi che abituano troppo al ragionamento. All'influenza della disciplina si unisce l'influenza del tecnicismo nautico, il quale col suo carattere esclusivo, sostiene che lo studio della storia militare marittima serve solo a far perdere tempo, e a diminuire la pratica nautica. 20
Invece uno sviluppo degli studi militari adeguato alle nuove esigenze porterà presto a risolvere correttamente il problema della difesa marittima, "de-
terminando l'unione della marina con l'esercito, la quale corrisponde all 'unità della guerra" che richiede comunanza di scopo, di azione e di studio. In tal modo stabilita l'unità militare della marina con l 'eçercito, la marina verrà ad avere il suo pieno sviluppo corrispondente al suo compito per la difesa marittima, venendo a cessare l'attuale compromesso fra difesa marittima che spetta alt 'esercito, e difesa marittima che spetta alla marina. 21
Il Mesturini ritiene perciò che il distacco del vertice della marina da quello dell'esercito con la creazione di un Ministero apposito sia stata un errore, così come è stata un errore la creazione nel 1884 di un ufficio di Stato Mag-
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ivi.pp. 20. ivi, p. 29.
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giore della marina. Meglio sarebbe stato creare un Ufficio di Stato Maggiore unico per le due Forze Annate, destinando personale della marina presso l'Ufficio di Stato Maggiore dell'esercito; si può anche discutere se sia meglio un Ministero unico della difesa nazionale, come già si è discusso in Inghilterra. Nell'assetto del momento il Ministro della marina ha il compito di ordinare le forze mentre il Capo di Stato Maggiore ha il compito di studiarne l'impiego, con un contributo che ha solo carattere consultivo. Dal punto di vista strategico l'unità dei due Stati Maggiori è indispensabile, perché l'Ufficio di Stato Maggiore della marina non può avere un'azione autonoma. Infatti gli attacchi marittimi sono subordinati agli obiettivi territoriali; per conseguenza il Capo di Stato Maggiore della marina, per poter procedere a compilare il suo piano per le operazioni particolari della marina, deve richiedere speciali istruzioni al Capo di Stato Maggiore deli 'esercito. Avverrà allora una lunga corrispondenza epistolare, oppure dovrà il Capo di Stato Maggiore della marina, trasportare il suo u[fìcio presso lo stesso Capo di Stato Maggiore dell'esercito[ ... ]. Non vale l'opporre che il lavoro comune. anche colla divisione, può essere/atto durante la pace, giacché esiste sempre i/fatto della corrispondenza epistolare. o del trasporto di ufficio. Se i due uffici debbono lavorare uniti, non esiste ragione per cui debbano essere tenuti divisi. La creazione di un ufficio di Stato Maggiore speciale per la marina, è stata il prodotto dal solito tecnicismo nautico. il quale abbraccia tutte le questioni militari della marina. Per l'unità d 'azione, potrannoforse essere sujjìcienti le buone relazioni? Queste possono mutare. D'altra parte, lo stesso tecnicismo che ha creato la divisione, tende appunto per propria natura a tenere la marina isolata. a conservare il dualismo e una specie di rivalità fra esercito e marina. L'accordo non può essere prodotto da affermazioni platoniche. L'accordo viene recisamente negato dai.fatti quotidiani, dalle incertezze sulla difesa marittima. 22
TI Mesturini dirige i suoi strali anche contro l'organizzazione della marina e in particolare contro la struttura del Ministero, criticando la tendenza del momento a discutere se sia meglio mettergli alla testa un ufficiale di vascello, un ingegnere navale o addirittura un civile, ma sempre e in ogni caso escludendo un generale. Per lui quel che conta in un Ministro sono le qualità militari e strategiche, quindi andrebbe bene anche in generale. Tn pTOposito ricorda che nel 1881 è stata organizzata sotto la direzione del generale Ricci una grande manovra coi Quadri riguardante lo sviluppo combinato di operazioni marittime e terrestri; ebbene, "a tale manovra hanno preso parte distintissimi ufficiali di marina, i quali hanno dichiarato che il lavoro del generale Ricci, nel considerare lo sviluppo delle operazioni marittime, può stare a confronto del lavoro di qualsiasi ammiraglio". 23
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ivi. pp. 3 1-32.
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ivi, p. 221.
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Riguardo alla composizione interna del Ministero - nel quale le direzioni generali non sono ben coordinate tra di loro - egli indica come insolito model lo di riferimento l'Ammiragliato germanico, nel quale non esiste un Ufficio di Stato Maggiore ma un Ufficio Centrale alle dirette dipendenze del Capo del1' Ammiragliato [non certo unificato con quello dell'esercito - N.d.a.], con il compito dello "studio generale delle questioni militari complessive, e delle informazioni militari''. Dopo tale Ufficio vengono [ma non è chiaro se con un rapporto di dipendenza o meno - N.d.a.] tre divisioni: 2a Servizio militare (impiego militare delle navi, personale militare, servizio scientifico militare, riserve e invalidi), 3° Servizio del materiale, 4a Uffici speciali (logistica e amministrazione), 5" Servizio idrografico. Nel nostro Ministero, invece, a suo parere l'Ufficio di Stato Maggiore (del quale, come si è visto, in altra parte del testo aveva caldeggiato la riunione a quello dell'esercito) è da lui ritenuto inutile, perché pur essendo stato creato per ottenere la necessaria unità di indirizzo tra le varie direzioni, rimane all'atto pratico un organo consultivo che sovrappone le sue competenze a quelle di un altro organo consultivo come il Consiglio Superiore di marina, oltre che a quelle del Segretario generale del Ministero, senza quindi poter dare ordini alle direzioni generali. In sostituzione dell'ufficio di Stato Maggiore il Mesturini propone perciò la costituzione di un uj: ficio difesa costiera alle dirette dipendenze del Ministro, che riunirebbe le competenze affidate nell'ordinamento germanico all'Ufficio centrale e alla Divisione del servizio militare, ed "avrebbe la facoltà di regolare il servizio delle altre direzioni delle armi e della costruzione delle navi" [un ufficio pachidermico, visto che riw1irebbe le attribuzioni operative e tutte quelle relative al personale - N.d.a.]. Questa organizzazione è dovuta al fatto che per la marina "il compito costiero non è un compito speciale e secondario; esso è tutto; esso è la guerra",24 quindi non vi sono più ragioni per mantenere secondario il compito costiero, mantenendo un ufficio con tale compito in posizione subordinata, alla dipendenza della direzione delle armi. L'aspetto più importante della rimanente analisi critica del Mesturini è la necessità di creare un corpo costiero, che realizzi nell'ambito della marina il principio della divisione del lavoro "fra servizi navali e servizi quasi a residenza fissa" e riunisca in sé i compiti relativi alla difesa costiera (al momento artificiosamente ripartiti tra esercito e marina) con personale delle due Forze Armate e ufficiali specializzati, mettendo fine alla pretesa di creare ufficiali di vascello "encic/opedid', cioè atti a svolgere qualunque incarico sia sulle navi sia a terra. Infatti, oltre a non rispettare il principio de lla divisione del lavoro la divisione che attualmente esiste tra difesa fissa costiera data all'esercito, e difesa fissa costiera data alla marina, è evidentemente assurda. Una batteria con fronte a mare è sempre tale, sia che debba servire contro le navi. sia che
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ivi. p. 223.
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abbia il compito speciale di difendere gli sbarramenti con torpedini; non esiste ragione per affidare le prime ali'esercito, e le seconde alla marina. Tanto meno si può comprendere come vi possa essere ragione di considerare le batterie con fronte a mare della Maddalena come appartenenti alla marina, nel mentre quelle di Spezia appartengono all'esercito. 25
La difesa costiera, considerata nel suo complesso, va collegata da una parte alle navi e dall'altra alla difesa interna. Infatti senza porti fortificati le navi non hanno possibilità di azione, e ciò a maggior ragione vale nella difensiva; inoltre hanno bisogno di un servizio di osservazione e segnalazione lungo le coste, collegato ai porti fortificati. Non è vero che un ufficiale dell'esercito non sarebbe idoneo al servizio marittimo, e la formazione del corpo costiero avrebbe molti vantaggi: "sopperirebbe subito alla deficienza di ufficiali; determinerebbe lafusione della marina ne/l 'esercito; darebbe alla marina una rapida assimilazione degli studi militari che la mancano; avrebbe una grande influenza per abbattere le fatali tradizioni nautiche, sostituendovi lo studio militare; aprirebbe la via a una rapida e forte sistemazione della d(fesa marittime. La fonnazione del capo militare costiero avrebbe inoltre l 'inestimabile vantaggio di risolvere finalmente la questione organica". 26
Oltre alla struttura degli organi centrali, anche per la rimanente organizzazione il Mesturini indica come modello la marina tedesca, costituita nel 1848 con personale distaccato dall'esercito e perciò "libera da pregiudizi nautici'' con il "mirabile ordinamento" dovuto al generale Stosch. Essa è perciò "la meglio ordinata di tutte, e quella che costa meno ali'erario, relativamente alle forze di cui dfapone". Tali forze sono "più reali che non sia manifesto a chi guardasse soltanto alle cifre", perché non stanno tanto nella qualità e quantità di materiale, quanto nella cura con cui esso è tenuto pronto per la guerra e nella qualità dcll' addestramento: "solo tali condizionipossono impedire che lejòrze materiali siano dolorose illusioni". Più nel dettaglio, riferendosi a una relazione del tenente di vascello Orazio Tadini (1883) egli indica i seguenti aspetti che giustificano la scelta del modello germanico: - la stabilità del comando; - la struttura amministrativa economica e l'estensione alla marina dei criteri ordinati vi dell'esercito; - "la moderazione che si seppe tenere nella creazione del grosso materiale da guerra galleggiante", al fine di mantenere sempre al completo e in efficienza il rimanente materiale; - la cura per l' istruzione teorica e pratica di tutto il personale;
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ivi. p. 229. ivi, p. 222.
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- la possibilità di eliminare prontamente gli elementi poco efficienti del personale attivo; - "la massima semplificazione possibile del materiale adoperato, la divisione del lavoro e la esatta delimitazione delle responsabilità". 27 Inutile aggiungere che secondo il Mesturini tutti questi indispensabili fattori di efficienza mancano nella marina italiana del momento. Un ultimo argomento particolare al quale dedica molta attenzione è la formazione dei Quadri presso l'Accademia di Livorno, nella quale ha una conoscenza approfondita dcll' argomento che gli deriva da un' esperienza diretta di insegnamento. Anche nel campo degli studi militari indica l'esempio della marina tedesca, la marina americana, che "avendo stabilito una Scuola di guerra a Newport, ha affidato l 'insegnamento militare a ufficiali dell'esercito". 28 Ciò premesso, sottopone a serrata critica la formazione iniziale a sfondo esclusivamente matematico e non militare degli ufficiali presso l'Accademia di Livorno, indicandola come uno dei prodotti perversi della tradizione della marina a vela, perché si basa sui seguenti principì sorpassati: - ammissione degli allievi in tenera età L... ] aj]ìnché possano essere rotti alla disciplina e alla vita di mare; - sviluppo di studi matematici superiore al possibile sviluppo .fisico e intellettuale dei giovani. e superiore anche alle possibili basi di cultura generale; - grande deficienza di studi letterari e storici; - mancanza di studio della storia militare marittima; - mancanza di studio della guerra; - mancanza di quegli studi che occorrono alla marina per la protezione del commercio e la rappresentanza al/'estero. 29
Secondo il Mesturini questa errata impostazione deriva dal pregiudizio che " lo studio delle lettere aiuta a ragionare, ed il ragionare è segno d'indisciplina", mentre lo studio della storia militare oltre a sviluppare le passioni invita a condurre ricerche indesiderate sulle questioni organiche, morali e militari, sì che "chi osa parlare di nuove idee, può rimanere soddisfatto quando riceve il solo appellativo di utopista, stravagante oppure poeta". A ciò si aggiunga che nel sistema educativo e disciplinare della marina sarda, ereditato in toto dalla nuova marina italiana, non ha mai esistito traccia di un sistema preventivo qualsiasi, ma ha esistito solamente una sorveglianza più o meno accurata, e la immediata punizione di ogni più lieve mancanza fin dall'esordire. Ad ogni aumento nel numero e nella gravità delle trasgressioni, non si faceva altro che contrapporre un au-
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ivi, p. 202. ivi, p. 29. 29 ivi, pp. 58-59. 28
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mento nel numero e nella severità dei castighi, ed anche quando l'aumento risultava inefficace, si faceva ricorso a maggiori aumenti. Si applicava così nel sistema educativo, lo stesso metodo adoperato per l'istruzione, per la quale si pensava [solo] ad aumentare la pratica del mare, ogni qual volta sorgeva qualche fàtto a dimostrare l'insufficienza militare. 30
Invece secondo il Mesturini l'esperienza dimostra che la pratica del mare non ha mai contribuito ad accrescere l "'istruzione militare" (con tale termine intendendo la parte della navigazione non riguardante la propulsione a vela, bensì l'ordinamento e l'impiego del personale, del materiale e delle armi), mentre la ferocia dei castighi non ha migliorato affatto la disciplina; né è vero che "i caratteri si fortificano col!'abituare i giovani ad una cieca ed incosciente ubbidienza, forzando/i colla durezza del castigo". 31 Riguardo all'impostazione degli studi, ritiene che: 1) gli allievi devono essere abituati al coraggio e ali' iniziativa, non all'obbedienza cieca e assoluta e all'impersonale e passiva esecuzione degli ordini; 2) tra di essi coloro che hanno frequentato scuole pubbliche civili hanno dimostrato maggiore preparazione di quelli allevati nel "giardino d'infanzia" (così egli definisce l'Accademia navale, alla quale gli allievi sono ammessi in età ancora troppo tenera); 3) "le stesse idee che portano a stabilire l'unificazione di studio fra i vari corpi de/l'esercito [in verità mai esistita fino al secondo dopoguerra del XX secolo - N.d.a.],portano ad unificare gli studi tra esercito e marina", anche perché come ha osservato l'ammiraglio americano Luce [maestro e mentore di Mahan - N.d.a.] "la guerra è sempre regolata dagli stessi principi, tanto in mare che in terra", tant'è vero che la tattica di Nelson era fondata su quattro grandi principi dedotti dall'arte militare terrestre;32 4) "la marina non è altro che un 'artiglieria di mare, secondo il nome che aveva nel! 'anno I 815"; 5) pertanto l'Accademia navale dovrebbe diventare "una scuola di applicazione di artiglieria marittima" come del resto tutte le scuole militari, che hanno le stesse basi di cultura generale che occorrono per le altre professioni; 6) seguendo l'esempio americano, per lo studio scientifico della guerra nelle scuole della marina si dovrebbe ricorrere a ufficiali del1'esercito. Riguardo al predominio degli studi matematici, secondo il Mesturini non si comprende come attualmente si possa considerare che un istituto, il quale porta il nome pomposo di Accademia, possa avere lo scopo di insegnare, per cosi dire, a leggere e scrivere [cioè: si riduca all'insegnamento tipico dei licei e istituti civili corrispondenti, appunto a causa della giovane età degli allievi - N.d.a.); neppure si comprende come un istituto, che porta il nome di navale e che assai più propriamente dovrebbe essere detto militare maritti-
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ivi, pp. 67-68. ivi, p. 69. 12 ivi, p. 85. 31
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mo, possa avere come scopo essenziale lo studio delle matematiche, le quali potrebbero essere studiate assai meglio in tanti istituti civili; tanto meno si può riuscire a comprendere come, ancora attualmente, un istituto il quale vuole essere militare, consideri come unico scopo lo studio delle matematiche, e solo a tempo perduto rivolga la mente allo studio della guerra. 33
Egli nega perciò che 1' ammissione all'Accademia degli aUievi in età relativamente avanzata - cioè dopo la frequenza deUe scuole superiori, come si fa già in Germania - possa nuocere alla disciplina e alla formazione di "lupi di mare": ciò sarà vero, ed è a desiderarsi di gran cuore che ciò sia vero, quando si tratti della marina nautica. Non è e non può essere vero quando si tratta di una giusta, sana e forte disciplina militare. Non è forse vero che i soldati vengono egregiamente abituati alla disciplina quando sono presi di leva? Si potrà forse sostenere che dei giovani di 18 o 19 anni non possono essere abituati alla disciplina, perché hanno già una buona base di studio che ha servito a porre la base del loro carattere? [ ...] Sarebbe tempo che il jàtale pregiudizio di educazione nautica infantile e monastica, che solo può servire a formare degli uomini eunuchi di mente e di animo, cessasse di soffocare le forze più vitali della marina, fin dal loro sorgere, quando non determina una forza di resistenza. Sarebbe tempo che si abbandonasse il jàtale pregiudizio di ritenere che solamente quelli i quali hanno incominciato ad avere il battesimo dell'acqua salata nelle scuole infantili dell 'accademia, possono essere degni di entrare nel novero di veri lupi di mare. Sarebbe tempo infine che si considerasse che la parabola dei lupi di mare è terminata da molto tempo e che per La marina italiana, non è mai incominciata [questo perché la marina sarda ha pensato alla vela in ritardo e parecchi anni dopo l'introduzione del vapore N.d.a.].34
Con queste idee, il Mesturini è convinto sostenitore delle ardite riforme adottate nel 1883 dal Ministro Acton (comandante de11 'Accademia ammiraglio Fincati) sia negli studi, sia nei criteri disciplinari meno rigidi che hanno dato buoni risultati. Jn particolare è stato elevato il limite di età nell'ammissione e nel programma di studi dell'Accademia sono state introdotte nuove materie di interesse militare come storia militare marittima, geografia militare, fortificazione, arte militare marittima, fisica terrestre e meteorologia, igiene navale, diritto (filosofia del diritto, diritto costituzionale, internazionale e commerciale); inoltre sempre nel 1883 è stato assegnato all'Accademia un ufficiale dell'esercito con il compito di insegnare arte militare terrestre. Per il complesso di tali riforme, pertanto, il Mesturini giudica il Fincati "benemerito della marina e del paese". Non così - egli riferisce - ha pensato I' establishment del-
" ivi, pp. 73-74. 34 ivi, pp. 80 81.
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la marina, con una serie di critiche "il cuifocolare era lo stesso Ministro [Brin]", che hanno portato a una "reazione nautica" tale da annullare già nel 1884 l'insegnamento delle predette materie, con il pretesto che le materie d'insegnamento erano troppe. Le riforme disciplinari sono state tuttavia mantenute nella sostanza, anche se esse sono state "awersate, poste in ridicolo e disapprovate", fino a far definire l'Accademia "un istituto di educazione femminile". Infine il Mesturini critica la disposizione che per le preminenti esigenze di servizio "nautico" gli ufficiali insegnanti devono cambiare ogni due anni, a danno della continuità e stabilità dell'insegnamento e lasciando così il Cappellano unico depositario delle tradizioni dell'istituto, quando invece "gli incarichi di membro del consiglio di disciplina, membro del consiglio di amministrazione e bibliotecario non erano e non possono essere compatibili colla missione del direttore di spirito". 35 Nel citato articolo di commento a Salvate la marina! l'"Ex ujjìciale di marina" a ragione giudica troppo catastrofico tale libro, e artificiosa la contrapposizione tra marina nautica e marina militare, accusando il Mesturini di volere una marina terrestre invece di una marina navigante, con la creazione di un corpo militare costiero da lui indicato come panacea di tutti i mali, mentre invece la difesa delle frontiere terrestri, quella interna e quella terrestre delle coste e isole devono far capo solo al l'esercito. Ovviamente lo accusa anche di esagerare, di calcare le tinte sui problemi della marina, e non è d ' accordo sul suo intento di limitare il compito della marina a una stretta difesa delle coste. Non concorda con la tesi del Mesturini che la marina può essere ben comandata anche da chi non è uomo di mare e che la colpa di tutto è l'eredità perversa della marina sarda, in merito ricordando le gesta di quest'ultima nel 1860. Non concorda nemmeno sulla necessità di spingere pressoché a una fusione l'esercito e la marina, accusandolo di volere addirittura l'incorporazione della marina nell'esercito. Accusa il Mesturini di dare scarsa importanza alla navigazione, restringendo il compito della marina in guerra ad un'artiglieria del mare. Anche riguardo alle sue critiche alle corazzate pensa che il naviglio deve essere in grado di far fronte alle varie eventualità della guerra marittima, e che per questo occorrono sia corazzate che torpediniere. Giudica un errore la creazione del corpo R. equipaggi, così come anche per lui, come per il Mesturini, è stata un errore l' istituzione da parte del Ministro Brin dell'ufficio del Capo di Stato Maggiore della marina, i cui compiti a suo parere non possono essere assimilati a quelli del capo di Stato Maggiore dell'esercito e si sovrappongono a quelli del Ministro. Osserva che "non tutte le verità, sebbene verità si possono dire ed esporre allorché si tratta di istituzioni militari nazionali che interessano la difesa dello Stato", ma ammette che il libro del Mesturini "dimostra in vari punti come sian da portare qualche rimedio a talune parti del/'ordinamento nostro navale"; perciò invita il Ministro Brin a provvedere con
" ivi, p. 77.
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giustizia ed energia, visto che le accuse che gli sono state rivolte negli ultimi mesi non possono aver menzionata la fiducia in lui riposta dal Parlamento_ Nel secondo libro, Marina nuova - risposta alle critiche fatte allo scritto Salvate la marina!, come dice lo stesso titolo (senza dubbio più calzante del primo) il Mesturini si preoccupa di rispondere punto per punto alle accuse dell'"Ex-marinaio", tra l'altro facendogli notare il ruolo positivo della critica, perché sarebbe peggio tacere quelle verità, che egli invece desidererebbe che non fossero divulgate. Per il resto chiarisce, mette a punto, amplifica le precedenti tesi, tra l'altro precisando che combattere vicino alle coste non esclude la necessità di conoscere il mare, così come la difesa di obiettivi costieri non esclude la guerra d'alto mare e non postula la soppressione della marina che la combatte, anche se non si deve considerare una limitazione l'assegnazione alle forze navali di obiettivi costieri, perché "l'azione di alto mare, tutta propria della marina a vela, era un 'azione errabonda simile a quella della cavalleria feudale, nel momento che l'azione di alto mare è interamente subordinata alle operazioni costiere". 36 All'accusa di voler fondere esercito e marina nonostante la diversità dei loro compiti, che deriverebbero dai due diversi elementi nei quali agiscono, replica ricordando che "i/ concetto dell'unione della marina con l'esercito non esclude le diversità che possono occorrere nell'istruzione e nell'ordinamento Jra le.forze di ferra e quelle di mare; e nella pratica applicazione, qualunque debba essere il modo del 'unione, non potranno mai essere escluse le differenze e ~pecialità che possono essere necessarie a causa della grande diversità tra il mare e la terra". La constatazione che con il vapore la guerra ha riacquistato la sua logica e naturale unità, e che di conseguenza i militari di terra debbono essere in grado di conoscere e dirigere le operazioni strategiche della guerra marittima, non può portare a dedurne che i militari [di terra] che non conoscono il mare, sono in grado di condurre le flotte al combattimento [cioè di dirigere le operazioni delle flotte nel campo tattico - N.d.a.]: non si potrebbe avere tale pretesa, per la ragione istessa per cui nessuno ha mai creduto supporre che un colonnello delle truppe alpine debba portare al combattimento un reggimento di cavalleria. Ciò non toglie che un colonnello di truppe alpine ed un colonnello di cavalleria possono essere ugualmente buoni generali per dirigere le operazioni strategiche della grande guerra.37
Pertanto un colonnello di qualsiasi Arma dell'esercito giunto al grado di generale, potrà trovarsi in grado di dirigere anche le operazioni strategiche della marina, stante anche il loro collegamento con quelle dell'esercito, nell'ambito del piano generale di guerra [ ma un ammiraglio potrà fare l' inverso? Questo il Mesturini non lo dice - N.d.a.], fermo restando che la scelta dei generali e ammiragli non può essere subordinata ad alcuna regola tassativa... 1•
Mcsturini, Marina nuova (Cit.), p. 75.
17
ivi, p. 123.
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A proposito del necessario raccordo tra arte militare terrestre e marittima il Mesturini cita ancora il punto di vista dell'ammiraglio americano Luce, secondo il quale l' arte della guerra deve abbracciare tanto le forze terrestri che quelle navali perché le analogie tra forze terrestri e marittime sono assai strette. Mal' arte della guerra marittima si trova ancora allo stato di empirismo, quindi è necessario ricorrere agli studi che si stanno compiendo nell'esercito per dedurne con il metodo comparato quelli riguardanti l' impiego delle forze navali. E poiché negli Stati Uniti la scuola di guerra istituita a Newport aveva il compito di fornire agli ufficiali non solo un'educazione marinaresca ma anche militare, mancando in quella marina lo studio della scienza militare lo si era affidato a un ufficiale d'artiglieria dell 'esercito, che secondo l'ammiraglio Luce non era venuto a insegnare ai marinai la loro professione, bensì a istruirli sulla propria, quindi non c'era motivo di essere suscettibili. Nella marina italiana invece - lamenta il Mcsturini in seguito a richiesta del Ministero della guerra sono stati inviati alcuni ufficiali di marina [tra i quali il Bonamico - vds. cap. I - N.d.a.] a frequentare annualmente la Scuola di guerra dell'esercito, ma ben presto tale provvedimento è stato annullato come se non avesse alcuna utilità. Inoltre per molti anni si è sostenuto che gli studi militari dell'esercito erano inutili per la marina, e l'insegnamento di arte militare ali' Accademia navale tenuto da un capitano di Stato Maggiore, istituito nel 1883, è stato soppresso nel 1884 e quando è stato ristabilito nel 1885, lo si è fatto in modo incompleto. Il Mesturini attribuisce queste chiusure alla persistente identificazione della scienza delle evoluzioni navali come unica misura della professionalità per gli ufficiali di marina; da questo errato e antiquato concetto discendono la tradizionale separazione ha le due Forze Armate, e la tendenza a considerare inutili e dannosi gli studi di arte militare terrestre. Invece tra esercito e marina esiste un'unità di scopo, di azione e di studio, dalla quale deriva la necessità di un Ministero unico e di un Ufficio di Stato Maggiore unico,38 distinguendo i servizi sulle navi da quelli costieri. Tuttavia sul cruciale argomento della ripartizione di compiti e responsabilità tra i due organismi interforze e della struttura che ne consegue, il Mesturini non si diffonde affatto, limitandosi a sostenere che alla luce dell'esperienza la Commissione permanente mista per la difesa dello Stato diversamente da quanto pensa l"'Ex-ufficiale" si è rivelata supcd1ua, e che tutto quanto riguarda la difesa dello Stato deve essere studiato dal Comando del Corpo di Stato Maggiore dell'esercito, al quale deve completare anche l'ordinamento, la mobilitazione e l'impiego strategico delle forze marittime, unico modo per conservare unità di concetto e unità sicura di azione delle due Forze Armate per la difesa generale dello Stato39 [ ma, allora, l'impiego strategico della marina dovrebbe fare capo, in ultima analisi, non al Ministro della Marina ma al Ministero della guerra? - N.d.a.]. A maggior ragione,
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ivi, p. 144. ivi, pp. 266-268.
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perciò, il Mesturini non trova opportuna la recente sostituzione dell'ufficio di Stato Maggiore della marina con un ufficio di preparazione della guerra, che ha eliminato il conflitto di competenze tra il presidente del Consiglio Superiore di marina (che era anche Capo dell'Ufficio di Stato Maggiore) e il Ministro, ma vi ha sostituito un altro possibile conflitto tra il capo dell'ufficio preparazione e il sottosegretario del Ministero, che in base al principio dell'unità di direzione dovrebbe invece essere egli stesso il capo di tale uflìcio, il quale meglio dovrebbe essere denominato ufficio di difesa marittima. Avvalendosi ditale ufficio, il sottosegretario dirigerebbe gli studi concernenti l'azione delle varie direzioni, mantenendo alle sue dirette dipendenze gli uffici che riguardano il personale e la mobilitazione. Tutte le questioni relative al materiale (al momento divise in due direzioni generali) dovrebbero essere unificate in una sola direzione tecnica del materiale, della quale farebbe parte anche il Comitato disegni navi; dovrebbero essere previste specifiche direzioni generali anche per la marina mercantile e per cartografia. Con questa struttura delineata dal Mesturini, dunque, la preparazione alla guerra della marina militare e mercantile sarebbe di competenza di uno specifico ufficio del Ministero della marina, e non dello Stato Maggiore dell'esercito come detto prima: e allora? Comunque egli assicura che nessuna difficoltà di pratica applicazionepuò servire a dimostrare che l 'unione della marina con [ 'esercito avrebbe [ 'effetto di sojjòcare la specialità nautica, dal momento che l'ordinamento dell'esercito ha per base la specialità [cioè la ripartizione dei Quadri in Anni e specialità- N.d.a.], e che al contrario l'ordinamento della marina ha per base l'enciclopedia [cioè l'impiego dei Quadri in tutti i servizi, sia in mare che a terra - N.d.a.].
Diversamente dal periodo velico l' impiego della marina a vapore richiede specifiche conoscenze nautiche, quindi l'unione tra esercito e marina potrebbe se mai offrire il mezzo di "assicurare alla specialità nautica un maggiore vigore militare"; ciò non toglie che nella marina esistano molti servizi costieri (come le difese fisse a terra) che potrebbero essere ben disimpegnati anche da ufficiali dell'esercito, nell'ambito del corpo costiero che libererebbe gli ufficiali naviganti da servizi a terra. Perciò se vale l'affermazione dell"'ex-ufficiaie" che "la denominazione Marina nautica non può contrapporsi a quella di Marina militare", è indispensabile che la marina sappia conservare il carattere nautico aggiungendovi il carattere militare, esigenza che verrebbe appunto assicurata dall'unione della marina con l'esercito. Il Mesturini ritorna con maggiore ampiezza anche sul problema delle corazzate, aggiungendo a idee già note altre sfumature meritevoli di qualche rilievo, come l'osservazione che le controversie nelle questioni per la grandezza delle navi sono state decise non in base a verità dimostrate e riconosciute, ma bensì per effetto di prevalenti influenze personali e politiche. La sostanza nelle cose non è mutata, e non muta[ ... ]. La sostanza riguarda l'impiego del siluro e dd cannone nelle
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operazioni di guerra marittima, e gli 1-1:fficiali militari, solamente quando si saranno accordati sopra concetti ben dejìniti a tale riguardo, potranno tassativamente, ma razionalmente, prescrivere ai costruttori navali i concetti che debbono seguire nella costruzione delle navi. Si è invece seguìto il sistema di costruire le navi imponendo, a priori, ai militari il modo di adoperarle. Da qual lato si trova la volontà di far prevalere le particolari convinzioni? Tale volontà, a riguardo dei colossi corazzati, è stata tanto forte e prevalente da poter lanciare l'accusa di antipatriottismo contro coloro, che ai colossi stessi si sono dimostrati contrari. L'esperienza ha dimostrato quanto tale accusa fosse ingiusta e assurda.40
Convinto sostenitore del valore del siluro, il Mcsturini sostiene che coerentemente con le prospettive d'impiego aperte da tale arma va data priorità alla costruzione di torpediniere, tanto più che è ormai possibile costruire navi torpediniere di dislocamento relativamente elevato, che le renda capaci di tenere il mare anche meglio delle corazzate e di agire in alto mare e non solo sulle coste. Invece le navi corazzate diventeranno [come per laJeune École francese - N .d.a.] navi cannoniere, alle quali verrà assegnato il compito di attaccare le fortificazioni costiere, mentre le navi torpediniere (da distinguere dalle piccole barche torpediniere, con impiego limitato alla difesa delle coste) avranno il compito di respingere gli attacchi contro le opere costiere. Inoltre, come sta facendo l' Inghilterra bisognerebbe sviluppare gli incrociatori, navi "strategiche" che rispetto alla protezione privilegiano la velocità, l'autonomia e l'armamento. Quindi "le navi torpediniere, quali navi specialmente costruite per I 'impiego del siluro, sono le vere navi da battaglia, nel mentre le navi corazzate non potrebbero essere altro che navi cannoniere";41 con tale ruolo quest'ultimc navi dovranno quindi essere di piccole dimensioni e veloci. ln merito il Mesturini cita quanto di recente ha scritto lo stesso Ministro Brin, secondo il quale di per sé stesse le dimensioni di una nave non possono essere considerate come elemento di potenza, ma (sono parole del Brin) "siccome è a supporsi che nessuno si sia mai divertito a.fare navi grandi per il gusto di averle grandi, ma che piuttosto si abbia avuto il buon senso di aumentarne le dimensioni a fine di potervi introdurre qualche cosa di utile e necessario in vis ta di ottenere maggiore potenza militare, così, vedendo che la grandezza delle navi nelle marine militari è andata di mano in mano aumentando, l'unica conclusione è che i nostri predecessori si siano trovati .spinti dal bisogno a fare ciò". 42 Il Mesturini però volge a favore delle sue tesi queste affermazioni del padre delle navi colossali, sostenendo che così come la preponderanza del cannone in passato ha spinto ad aumentare le dimensioni delle navi, al momento la preminenza del siluro spinge a diminuirle. Tesi accettabile fino a un certo punto, perché le na-
40 41 42
ivi, pp. 289-290. ivi, p. 336. ivi, p. 239.
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fl . PF.NSTERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. UI (1870-1915) • '!OMO fl
vi colossali sono state messe in cantiere il pericolo del siluro era già ben vivo, come testimoniano le citate dichiarazioni del 1873 alla Camera del Saint Bon che mostra di non apprezzarle, più o meno per le stesse ragioni del Mesturini quasi vent'anni dopo.
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In sintesi le critiche del Mcsturini riguardano in particolar modo la gestione Brin dal 1884 in poi, sia per formazione dei Quadri (che ha annullato i progressi della gestione Acton), sia per la filosofia delle costruzioni navali, nella quale il Brin mantiene la tradizionale preminenza delle corazzate. Sul piano generale le sue esagerazioni, estremizzazioni di concetti, contraddizioni e confessioni, sono evidenti e non abbisognano di sottolineature, a cominciare dalla demonizzazione della vela, dall'artificiosa contrapposizione marina nautica /marina militare e dall'unità tra esercito e marina che deve rispondere a una strategia con comuni obiettivi ma non può essere fusione, né richiedere la dipendenza strategica della marina dall'esercito. Ciò non toglie che egli tocchi argomenti interessanti e utili con molte osservazioni acute e con citazioni spesso pertinenti anche di quanto si pensa e si scrive all'estero, benché i richiami frequenti agli scritti del Guglielmotti, in gran parte riferiti all'età del remo, non sempre giovino all'insieme. Al di là di luci e ombre, comunque, anche il Mcsturini fornisce spunti utili per capire la marina italiana - e non solo italiana del tempo. Lo scontro parlamentare tra il Saint Bon e il Brin insieme con il libro del Mesturini Salvate la marina! sono commentati sulla Nuova Antologia da un anonimo "Ex-ammiraglio", 43 il quale si riferisce soprattutto agli attacchi del Saint Bon e osserva che, per colpa di tutti i Ministri che "hanno temuto di sgomentare il Paese, di andar incontro alle ripulse del Parlamento" chiedendo per la marina solo ciò che era strettamente necessario in un quadro di carenza di risorse sono state fino a quel momento privilegiate le costrnzioni navali a scapito delle esigenze del personale [ma non era solo una questione di fondi - N.d.a.]. Ammette anche l' esistenza di un antagonismo tra ufficiali di vascello e uflìciali del genio navale "che si è sempre più venuto inasprendo" e che le idee del Saint Bon sono condivise da un gran numero di uflìciali di vascello, ma non condivide la sua tesi che l'opera dell'ingegnere navale deve essere soggetta al giudizio e alla volontà dell'uflìciale che combatte, al quale l'ingegnere navale non deve imporre lo strumento del quale poi si deve servire. In effetti, la trasformazione delle navi e delle armi è sempre avvenuta per opera degli ingegneri navali e dei tecnici: "se il ragionamento del! 'ammiraglio Saint Bon valesse in modo assoluto, la sostituzione del vapore alla vela avrebbe dovuto es-
" "Ex-ammiraglio". Le recenli discussioni suUa marina da guerra, in "Nuova Antologia" Voi. XXII - Fase. X IV 16 luglio 1889, pp. 294-307.
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sere anch'essa un 'invenzione degli ufficiali naviganti e combattenti". È più giusto dire che "l 'ufficiale navigante non deve essere escluso dal giudizio dell'opera compiuta od anche soltanto immaginata dall'ingegnere navale". Comunque questo non è il caso della nostra marina, nella quale prima di entrare in cantiere una nave deve seguire un lungo iter di studio e progettazione, con l'intervento di Comitati e Consigli; tant'è vero che nemmeno il Saint Bon giudica cattivo il materiale della flotta. Se vi sono difetti, ciò dipende dall'incertezza che ovunque regna nel campo delle costruzioni navali. Riguardo alla scelta del Ministro e alla sua opera, l'"Ex ammiraglio" nota che una volta scomparsi gli antagonismi regionali, le divergenze tecniche e anche personali tra gli ufficiali di vascello sono assai più numerose che nel corpo degli ingegneri navali, dove l'accordo sulle questioni navali è "quasi perfetto". Perciò, dato il contrasto tra i due corpi se un ufficiale di vascello diventasse Ministro a tale contrasto si aggiungerebbe quello tra gli stessi ufficiali di vascello, come è avvenuto ai tempi del Ministro Acton. Sarebbe meglio che il Ministro non appartenesse a nessuno dei due corpi, perché più facilmente potrebbe ridurre i loro attriti; ma nella specifica situazione italiana ciò non è possibile. Per questo è indifferente che sia ufficiale di vascello o ingegnere navale: l'importante è che unisca all'autorità parlamentare la competenza tecnica, tenendo presente che gli ufficiali hanno il diritto-dovere di discutere le questioni ordinative, ma devono farlo con gli opportuni riguardi, perché "non crediamo che sia ad essi permesso il discutere la persona di un Ministro che gode la fidu cia della Corona e del Parlamento; se questo sistema prevalesse, recherebbe una grave offesa alla disciplina", fino a farci entrare sulla via dei pronunciamenti alla spagnola. L'"Ex ammiraglio" conclude ammettendo che non tutto nella marina procede nel modo desiderabile, ma i mali dei quali essa soffre sono quelli stessi della nostra amministrazione statale, quindi "converrebbe correggere un intero complesso di cose e di istituzioni" senza la pretesa di formulare giudizi inappellabili su una materia quanto mai soggetta a sorprese. Giudizio da condividere, forse riferito ai perentori e generalizzati attacchi del Saint Bon e del Mesturini; sta di fatto che le veementi polemiche e le critiche radicali sottintendono una situazione complessa e poco soddisfacente, prima di tutto per tutto ciò che sta dietro le costruzioni navali a cominciare dal personale di ogni grado e dalla disciplina. Una situazione certamente non sanabile in poco tempo, nemmeno da un Ministro che - come il Brio - rimane in carica per lungo tempo. Pur senza attaccare il Ministro, dimostra idee più o meno concordanti con quelle del d' Annunzio e del Mesturini anche un nome illustre come A. V. Vecchj , che in un opuscolo del 1888 raccoglie quattro lettere al Ministro Brin,44
44 Jack La Bolina (Augusto Vittorio Vecchj), Quattro lei/ere a Benedetto Brin, Torino - Roma - Firenze, Bocca I 888.
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nelle quali esorta il Ministro a "costruire il personale come ha costruito lenavi", diventando così "iljòndatore della marina italiana" e dotando l'Italia "di un 'armata nel completo senso del!'espressione". Anch'egli critica l'eredità della vela ed esorta il Ministro a "combattere i lupi di mare [cioè i "codini marittimi'', i conservatori arrabbiati - N.d.a.], a ridurli ad essere inoffensivi'', cominciando con il riformare completamente la formazione degli ufficiali presso l'Accademia navale che "quale ora esiste è un rimasuglio d'un mondo navale morto (e purtroppo non ancora seppellito)" e invece [come per il Mesturini - N.d.a.] deve diventare "una Università Marittima", nella quale si entra non all'uscita dalla fanciullezza ma in piena adolescenza. Per i marinai invece si dovrebbe introdurre il servizio volontario, tenendo presente che servono 18.000 uomini. Questo personale sarebbe preferibile "alle numerose migliaia" [di marinai di leva] "che passano attraverso l 'armata affaticati, stanchi, solo bramosi d'andarsene, e sarà anche miglior mercato perché di amministrazione meno complicata. Cesserà quel costante, giornaliero bisogno che ha l'ufficiale di istruire gente nuova ed inesperta, d'istruire e di punire e di sorvegliare", e gli ufficiali avranno finalmente il tempo per ... studiare. Il materiale delle varie marine, infatti, ha più o meno le stesse caratteristiche: "la superiorità vera, incontestabile, è quella che dipende dalla più perfetta educazione alla guerra del personale". E qui non manca il riferimento all"'egregio poeta" (evidentemente d'Annunzio), il quale ha fornito una serie di consigli e suggerito dei rimedi "che non discuterò". Tuttavia "no, signor Ministro, non sono rimedi ai mali di oggi (che d'altronde sono comuni a tutte le armate contemporanee) quelli che si chieggono. È una novella istituzione, quale la esigono il naviglio nuovo e lo scopo dell'armata, ciò che l'Italia chiede al suo Ministro della marina. Ricostruir tutto si deve ... ". Un altro autore molto critico nei riguardi del Brin e della marina del tempo è Giorgio Molli, ingegnere navale che usa anch'egli lo pseudonimo "L 'exmarinaio" e quindi non è più in servizio.45 Nell'Italia in mare (1888) percorre una rotta esattamente opposta a quella del Brin, sostenendo che dire la verità è sempre utile e che non si deve ingannare il Paese nascondendo errori "indipendenti dal buon nome, dalla scienza e dal grande amore di chi presiede alla nostra marina". Si occupa principalmente di costruzioni navali e anch'egli spegne gli entusiasmi per Le nostre navi colossali, ricordando che: 1) le flotte francese e inglese stanno costruendo navi con caratteristiche analoghe alle nostre ma in numero superiore; 2) le nostre navi sono indubbiamente dotate di artiglierie più potenti di quelle delle marine straniere, ma se quest'ultime hanno scelto artiglierie più leggere, ciò è avvenuto solo perché i frequenti inconvenienti che causano le nostre grosse artiglierie ne bilanciano i vantaggi; infatti nelle nostre navi "per mettere in coperta l 'enorme peso dei nostri can-
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"l 'ex-mari11aio" (Giorgio Molli), L'Italia in mare, Roma, C. Verdesi 1888, e Le economie nel-
la marina da f;Uerra, Milano, Libreria Editrice Galli 1891.
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noni [... ] si è dovuto sacrificare la cintura corazzata, e rinunciare a certe condizioni di stabilità"; inoltre i loro congegni di manovra sono molto delicati e indifesi anche contro il fuoco delle artiglierie di minor calibro che le navi straniere hanno imbarcato in numero superiore alle nostre, ritenendole molto efficaci; 3) le navi straniere hanno immersione minore delle nostre, più disponibilità di basi, maggiore possibilità di rifornimento di carbone; 4) le nostre navi invecchiano sugli scali, perché dodici anni bastano per far invecchiare una nave; 5) mentre le nostre navi colossali erano in costruzione sono stati sviluppati all'estero degli incrociatori e delle torpediniere che sono i loro più temibili nemici, diminuendo pertanto la loro capacità difensiva; 6) l'Italia è riuscita meno veloce di quanto avrebbe dovuto come da contratto, perché le sue macchine sviluppano 14.000 HP invece dei 18.000 richiesti. Il Lepanto manca di stabilità quando ruota lateralmente i suoi grossi cannoni, e anche la sua macchina fornisce una potenza di 14.000 HP anziché di 18.000, si che "la casa inglese Penn è ormai in debito colla nostra marina di circa 10.000 cavalli". li Molli conduce poi un lungo e particolareggiato confronto con le marine francese e inglese, con deduzioni almeno in parte non nuove, come le seguenti: - "dopo le grandi navi non abbiamo nessun "altra corazzata che corrisponda alle esigenze moderne, mentre le altre flotte hanno fatto a gara a premunirsene" (Il Molli si riferisce a navi con dislocamento di 3000 9000 t); - tra le nostre vecchie navi solo l'Affondatore avendo subìto riparazioni più serie si avvicina alle navi moderne [tesi assai discutibile - N.d.a.]; - i nostri Etna, Fieramosca, Vesuvio, Stromboli e Bausan sono superiori ai similari tipi stranieri, ma "tale superiorità scompare difronte al numero"; - la nostra marina ha una sola nave appoggio, l'America, cx-nave passeggeri e merci inglese il cui acquisto è stato un errore, perché è costata 3 milioni, ha un consumo eccessivo di carbone, locali in buona parte non adatti al trasporto di rifornimenti e scarsa stabilità. Tale nave è comunque insufficiente, cosi come noi manchiamo di cisterne, perché la nostra marina diversamente dalle altre flotte ha molto bisogno di acqua dolce; - al momento le nostre torpediniere con dislocamento inferiore alle 85 t hanno un valore molto limitato, quindi si può fare assegnamento solo sulle 4 Yarrow e sulle 44 Schichau di maggior dislocamento, alle quali vanno aggiunte alcune Schichau da 125 t e 25 nodi ordinate di recente in Germania. Al confronto, la Francia e l'Inghilterra hanno solo torpediniere inferiori alle 85 t; - le torpediniere e il siluro costituiscono una minaccia per le navi da guerra, che però con le mitragliatrici, le reti anche in navigazione ecc. possono difendersi validamente. Ne occorrerebbero 200 per l' Italia, ma anche se la spesa che richiedono non è insuperabile, ciò che rende "impossibile" il loro aumento è la deficienza di personale ben qualificato e scelto. Degna di nota, e non frequente in Italia, è un 'osservazione del Molli a proposito della velocità, tradizionalmente ricercata nelle nostre costruzioni nava-
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li, allo scopo di compensarne l'insopprimibile inferiorità numerica rispetto alle marine maggiori: le nostre vantate velocità potrebbero essere nulla più di un 'illusione. È vero che la Lepanto e / 'Italia danno 18 nodi, ma per quanto tempo'! Quale comandante si arrischierebbe di lanciare quei due colossi, il Dogali, il Tripoli, la Folgore e la Saetta a tutta forza per parecchie ore di seguito? Nessuno, perché si ha la certezza che a quella corsa susseguirebbe un cattivo stato delle macchine, per cui la velocità sarebbe ridotta poi ai minimi termini jìno a che lunghe e laboriose riparazioni abbiano riparate le avarie. 46
Le principali marine non hanno ricercato le velocità delle nostre non per insipienza ma per prudenza, per non turbare l'equilibrio che deve esistere fra forza e dislocamento, fra forza e peso delle macchine; quindi le loro grandinavi corrono meno delle nostre, ma danno maggiori garanzie di mantenere per lungo tempo la velocità. In linea generale il Molli si dichiara "partigiano convinto" delle grandi navi, ma al momento date le carenze delle nostre industrie (non possiamo fabbricare piastre corazzate di grande peso e spessore, "e l'esperienza disgraziata di Terni lo prova"), è ancora lontano il giorno in cui potremo costruire cannoni da 100 t, mentre una nave tipo Italia da noi rimane 12 anni sugli scali. Egli ritiene perciò che siano più adatti alle nostre esigenze e si possano costruire in tempo relativamente breve gli incrociatori tipo Bausan da 5000 t, con macchine di 10.000 HP fornite dall'industria nazionale, cannoni fino a 25 te corazze di circa 20 cm che possono essere interamente prodotti dall'industria nazionale e costano circa¼ del Lepanto. In merito il Molli si dimostra deciso avversario della Temi, la cui creazione è tanto vantata dal Brio: di questo stabilimento non ce ne sarebbe bisogno - egli osserva - per costruire i nuovi incrociatori: basterebbe dare le ordinazioni in tempo ai nostri industriali seri, "non a quelli di ventura dietro cui compare il Creusot francese o l'affarismo sfrenato [evidente allusione alla Terni - N .d.a.]". Egli ricorda anche che l'acciaieria di Terni nonostante la grande réclame è al momento in crisi, benché prima ancor che lo stabilimento fosse ultimato abbia ricevuto commesse per 8000 t di corazze del costo di 17 milioni, e mentre all'estero si costruiscono le industrie metallurgiche vicino al mare, perché trattano grandi quantità di materie prime, l'impianto di Terni è stato costruito a quasi 200 Km dal mare, solo per utilizzare una forza idraulica non compensata dalle spese di trasporto. Infine Temi al momento non ha ancora fornito né le rotaie sperate, né le corazze che attendono da tempo le nostre navi, mentre anche il Fieramosca riceverà le corazze tipo compound anziché quelle stabilite. Ma anche ammesso che lo stabilimento abbia corrisposto alle aspellativc, "sarebbe follia" fabbricarvi grosse artiglierie, perché per trasportarle fino al
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Molli, L'Italia in mare (Cit.), p . 101.
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mare sarebbe necessario rinforzare la ferrovia, correggere le curve e puntellare i ponti. TI giudizio complessivo del Molli sulle capacità tecniche e produttive del1'industria nazionale è assai sfavorevole: "le nostre industrie vivono anemiche e senza iniziativa, essendo in certo qual modo subordinate ai cantieri inglesi; in pari tempo si finisce coll'avere dei tipi di macchine antiquati [. ..]. Sempre copie [ di modelli di navi inglesi], e maifa concesso ai nostri industriali di produrre un 'opera propria, né come tipo di nave, né come tipo di macchina".47 La debolezza dell'industria nazionale, la scarsità di porti ecc., lo inducono ad affermare che la nostra flotta in caso di guerra avrebbe bisogno di riportare subito una vittoria decisiva, perché diversamente dalla marina francese non ha riserve di navi e non può contare su industrie nazionali in grado di riparare prontamente i danni, mentre anche i congegni più delicati non sono di produzione nazionale. Per ovviare a questi inconvenienti, come già si fa in Francia e in Inghilterra bisogna sviluppare soprattutto l'industria privata, e non affidare la maggior parte delle costruzioni agli arsenali della marina, ai quali sono affidati lavori per 40.000 te quaranta milioni contro le 3.000 te i 3 milioni dell'industria privata. Eppure - ass icura il Molli-un maggior ricorso all ' industria privata assicurerebbe allo Stato parecchi vantaggi, come un risparmio sulle forniture di circa il 30%, maggiore capacità dei nostri cantieri di sostenere la concorrenza di quelli stranieri nella costruzione di navi mercantili, responsabilità precise e ben delimitate in caso di errori: "ma di grazia chi è responsabile degh errori del genio navale?". Infatti a suo avviso è assolutamente inesatto pensare che lenavi da guerra debbano essere prodotte da coloro che se ne servono, ma devono essere prodotte "semplicemente da chi apprese a costruirle", lasciando ai marinai il diritto di stabilire i loro requisiti. Infine come tutti il Molli lamenta la scarsità e l'insufficiente istruzione teorica e pratica del personale di ogni grado, e in particolare dei Quadri destinati al comando di navi moderne (la cui formazione - è un vero leit-motiv - fa ancora riferimento al periodo della vela) e dei macchinisti. Un altro leit-motiv è la mancanza di provvedimenti efficaci per la difesa costiera, perché - al contrario di quanto ha fatto la stessa Inghilterra - le sue esigenze sono state sacrificate alla guerra d'alto mare. La conclusione è pessimistica, ma realistica: "ammessa anche la superiorità delle nostre grandi navi sulle navi straniere, la sproporzione delleforze è sempre enorme", perché la quantità delle navi conta quanto la qualità. Mancano navi intermedie, mentre la potenza delle nostre grandi navi le ha rese paradossalmente più vulnerabili, e in definitiva "o ci troveremo difronte a/orze maggiori delle nostre e il vantaggio sarà dalla parte avversaria, o saremo pari, forse preponderanti al primo urto, ma dopo questo la nostra inferiorità sarà evidente". 48
41 ivi, pp. 156-157. "ivi, p. 207.
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Nell'altro libro, Le economie nella marina da guerra (1891) il Molli sostiene tesi in buona parte già note, miranti a dimostrare - diversamente dall"'Ex ammiraglio" - che le carenze e lacune della marina italiana sono prima di tutto dovute a un cattivo impiego dei fondi disponibili. In particolare, a suo giudizio: - gli arsenali della marina divorano il meglio del nostro bilancio, con una gestione antieconomica, un numero eccessivo di operai (più numerosi di quelli dei cantieri inglesi) e minor rendimento, costruzioni più lente ecc. rispetto a tali cantieri. Eppure per fare economia si riduce il numero delle navi armate, si ritardano gli acquisti ecc., "ma mai e poi mai si riduce il numero di operai", pagandoli anche quando non c'è lavoro. Senza contare che c'è troppa burocrazia, navi perfettamente uguali sono costruite con una spesa differente da due diversi arsenali, ecc.; - il genio navale costa troppo, e non riesce nemmeno a copiare bene le navi straniere; nessuna delle sue costruzioni segna un progresso in confronto alle altre marine. L'Italia, che è stata ideata da un ammiraglio (il Saint Bon) pur essendo "il più bello e il piùfòrte bastimento del mondo", non è la nave-tipo che avrebbe dovuto essere; - dopo le grandi navi che hanno seguìto, l'Italia il genio navale "anziché progredire ha retrocesso". Il Lauria, il Morosini, il Daria non sono comparabili a quella nave-tipo, la Lepanto non segna un progresso, mentre "l'Umberto, la Sicilia, la Sardegna presentano ali 'infuori di quelle, dei dettagli applicati prima che da noi, nelle marine straniere" [giudizio troppo severo; rispetto all'Italia nelle nuove navi è migliorata almeno la qualità dell'annamento principale e secondario, la velocità, e la protezione verticale dello scafo - N.d.a.]; - le nostre navi antiquate ("ferravecchi'') non servono nemmeno per la difesa costiera, ma assorbono sensibili risorse per la manutenzione e il numeroso personale; - per l'istruzione degli allievi dell'Accademia e nel Mar Rosso si impiega un numero eccessivo di naviglio e di risorse; - gli ufficiali del Commissariato marittimo sono troppi in proporzione al numero di ufficiali di vascello e macchinisti. Il risultato di questa situazione è che "lungi dal tenere il primo posto nel Mediterraneo [ma come potrebbe conquistarlo? Il Molli non lo dice - N.d.a.], l'Italia a stento riesce ora a tenere pronta un 'armatetta discreta"; e mentre servirebbe almeno un nucleo fortemente costituito e capace di entrare immediatamente in azione, il bilancio 1891-1892 prevede di mantenere in annamento compklo <luc squadre con 7 coraaale e non più, e fra queste due sole moderne, mentre le altre "non si possono più considerare come molto potenti'', tanto che questa situazione " in poche parole è una specie di disanno", con l'Italia, la Lepanto, il Lauria e il Duilio in riserva di 1a categoria e con le vecchie Maria Pia e San Martino in quella di 2a.
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Con quest'ultimo, pessimistico opuscolo del Molli, forse non a caso coincidente con l'abbandono della carica da parte del Brio e favorevole piuttosto al suo successore immediato Saint Bon, termina la serie di attacchi alla marina specie nel 1888-1891, dei quali si può dire che molto probabilmente non sono casuali anche se toccano problemi reali, tuttavia affrontati sempre con acredine cd eccessivo catastrofismo.
Una delle poche difese delle grandi navi da parte del/ 'Albini e del Bettòlo Sempre durante la gestione Brio il comandante Albini, che già abbiamo visto passare dallo schieramento contro le navi colossali a quello pro-navi colossali, e il collaboratore del Brin capitano di fregata e futuro Ministro Bettòlo49 sostanzialmente sostengono un'impostazione tradizionale delle costruzioni navali, quindi più vicina agli orientamenti del Ministro, anche se con essi specie nel caso dell ' Albini - non sempre coincidente; comunque si astengono dall'attaccarlo, e anzi il Bettòlo espone idee coincidenti con gli orientamenti del Ministro Brin. Spingendo - come dice il titolo del suo articolo - lo sguardo all'avvenire, I' Albini recisamente sostiene - tra i pochi che la torpediniera non avrà un grande futuro, anzi "è condannata a sparire oppure a rimanere tollerata come ordigno guerresco di seconda utilità", perché non possiede in misura sufficiente il requisito dell'invisibilità, quindi nemmeno quello dell'invulnerabilità [ma nessuna nave lo possiede - N.d.a.]. Ma anche ammesso e non concesso che le torpediniere possano trionfare sulle navi da battaglia, non potranno sostituirle, perché non potendo efficacemente combattere tra di loro, sorgerebbe subito la necessità di disporre di qualche mezzo più potente, e la gara che ne conseguirebbe per ottenere qualche vantaggio sull' avversario condurrebbe nuovamente alla !,rrande nave (non è detto: vi sono, vi saranno sempre anche navi intermedie come i cacciatorpediniere e gli incrociatori, magari corazzati - N.d.a.]. Invece per I' Albini la torpediniera finirà col diventare arma comune a tutte le grandi navi [che al momento la imbarcano - N.d.a.], e non richiederà delle navi speciali ad essa dedicate (previsione evidentemente destinata a rivelarsi errata di lì a pochi anni - N.d.a.]. Così stando le cose, secondo I' Albini la nave da battaglia costruita con criteri moderni sopravviverà a "tutta quella serie di.fantastiche reazioni che sono fondate sulla speranza di ottenere dei grandissimi risultati con pochissimi mezzi'', e insieme con tale nave l' artiglieria di vari calibri, con tendenza al-
• 9 Cfr. Augusto Albini, Uno sguardo ali 'avvenire navale, Fano, Tipografia Sonciniana 1887 (tradotlo in russo nello stesso anno) e Giovanni Bettòlo, li nostro problema navale, in "Rivista Marittima" II Trim1:stre 1890, Fase. I V, pp. 6-22.
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l'automazione, rimarrà l'arma preponderante. Comunque [questa è una contraddizione - N.d.a.] una flotta sarà composta da vari tipi di navi ciascuno corrispondente a una data funzione, con le navi da battaglia che ne costituiranno per sempre il nerbo, se mai rinunciando ad altri requisiti per sviluppare maggiormente la loro capacità di difesa contro i siluri, mediante l'impiego di armi automatiche contro le torpediniere e le reti rapidamente calate anche in navigazione; "e allora non potrà essere dubbio il risultato della lotta, perché per parte della nave il combattimento si ridurrà a un semplice tiro al bersaglio". Né la torpediniera potrà essere impiegata per la difesa di una grande nave, anche perché per il servizio di esplorazione "occorre avere occhi e macchine, non già siluri''. A sua volta il siluro inizierà la lotta tra offesa e difesa, cioè contro la carena delle navi; ma al momento " non è certamente un problema insolubile il fare una nave che soddisfì ai requisiti della grande velocità, dell 'invulnerabilità ai siluri presenti e futuri, inaffondabile dalle artiglierie, munita di grande potenza offensiva e di grande autonomia". Per la costruzione di un siffatto tipo di nave, tuttavia, vi è l'ostacolo potentissimo del costo rnon solo questo - N.d.a.], il quale farà sì che anche una marina con larga disponibilità di fondi "non vorrà mai ingolfarsi a costituire una forza navale composta di unità ciascuna delle quali rappresenti un valore elevatissimo" rciò invece sarebbe accaduto - N.d.a.], perché i requisiti di invulnerabilità e potenza ottenuti con tanto dispendio di risorse non potranno mai garantire il bastimento contro incidenti e danni gravi, né contro la maggiore efficacia di altri mezzi distruttivi eventualmente creati nel futuro. È perciò giocoforza rinunciare, per l' Albini, a qualcuno dei predetti requisiti, a cominciare dalla velocità, nella quale non vede affatto un mezzo di difesa contro il siluro e le torpediniere (che avranno sempre velocità superiore), ma un requisito tipico del periodo velico, reso ormai poco utile dalle piattaforme girevoli delle artiglierie moderne e dalla sempre più ridotta importanza del rostro. Una velocità superiore certamente consente di non accettare il combattimento, ma solo nei casi nei quali un comandante crederà opportuno sfruttare questa possibilità [tesi opposta a quella del Bonamico, del Sechi e del Bemotti - N.d.a.]. La rinuncia a una parte della velocità servirà appunto alla difesa contro i siluri, con "carene munite di sporgenze o cassoni di lamiera a libera circolazione di acqua per riparo contro i siluri, ripari che potranno a volontà distare dalla vera carena quanto è necessario in ragione della carica del siluro". Quest'ultimo metodo di di fesa contro i siluri, mai applicato a nessun tipo di nave e a quanto risulta mai suggerito da alcun altro autore, è per l' Albini l' unico valido contro i siluri, perché "è illusorio" affidarsi sia a sistemi cellulari, sia alla tenuta delle pareti. Contraddittoriamente però l' Albini, dopo aver accennato alla possibilità di rendere una nave inaffondabile, da vecchio sostenitore dell'artiglieria sostiene la stessa tesi dell 'Annstrong, che cioè data la crescente potenza delle artiglierie stesse sarebbe inutile e dannoso spendere per la difesa dalle artiglierie una
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parte consistente del dislocamento. Per lui sono sufficienti corazze in grado di resistere ai colpi delle artiglierie a tiro rapido, perché "gli uomini muoiono, ma i congegni sopravvivono". A loro volta le artiglierie colossali magari diminuendone il numero potranno far fronte a diversi bisogni, come la demolizione delle strutture non corazzate delle navi con nuovi tipi di granate; la loro esistenza sarà indispensabile se si verificherà una nuova espansione delle corazze. Infine un altro metodo di difesa contro i siluri sarà quello di dare alla nave maggiore capacità evolutiva e maggiore protezione della macchina, applicando anche in questo caso il principio della duplicazione degli organi. Tenendo conto di tutte le esigenze, l' Albini indica per la corazzata le seguenti caratteristiche: - dislocamento analogo a quello delle navi da battaglia più recenti, con estremità simmetriche e ambedue munjte di timone ed eliche; - grande larghezza e difesa dai siluri e dal rostro con diagrammi di riparo o cassoni sporgenti; - "carena inaffondabile al tiro delle potenti artiglierie", con corazza orizzontale di 10 cm collocata a m 1,20 al di sotto del livello dell'acqua ericoperta da uno strato di carbone cokc permanente esteso a tutta la superficie; - 4 cannoni di grande potenza con corazza di 30 cm inclinata di 25 gradi; - 20 cannoni da 150 mm "il più possibile automatici" e 40 cannoni a tiro rapido; - velocità reale (in sei ore di prove continuate) di 12 nodi. Nonostante la sua lunga competenza in fatto di artiglierie, 1'Albini non giustifica in modo convincente la necessità di mantenere i grossi cannoni: contro le infrastrutture non protette delle navi nemiche, infatti, anche artiglierie di minor calibro e con maggiore celerità di tiro fornirebbero rendimento migliore, o almeno uguale. Sottovaluta a torto l'importanza delle torpediniere (unico mezzo di contrasto al momento valido, insieme con le mine, contro le corazzate) e a torto non ritiene necessarie navi specializzate per trasportarle. Infine pur sostenendo con le solite argomentazioni le grandi navi, indica la formula peggiore possibile (velocità ridotta, scafo non corazzato sopra il livello del mare), tuttavia ritenendo possibile costruire navi addirittura inaffondabi Ii e indicando metodi di protezione contro il siluro palesemente poco pratici e quindi mai realjzzati. Molto più equilibrate le tesi di un altro esperto di artiglieria come il Bettòlo, nelle quali si riconosce pressoché totalmente la politica delle costruzioni navali del suo mentore Brin. 11 Bettòlo si guarda bene dal negare o sminuire l'importanza delle torpediniere e degli incrociatori, non insiste sulla possibilità di rendere invulnerabili le navi maggiori, non suggerisce metodi di dubbia efficacia per la difesa contro le torpediniere come fa !'Albini, e sembra quasi dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ma alla fin fine è anch'egli sostenitore della nave da battaglia potentemente armata con cannoni ultrapotenti e disio-
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camento di 13-14.000 t, ritenendo che essa debba prevalere su un altro possibile tipo di nave da battaglia più leggera di 8000-9000 t con cannoni da 152 mm. A suo avviso, a parte l'elevato effetto distruttivo delle loro granate, i cannoni ultrapotenti delle corazzate data la radenza delle loro traiettorie ottengono una maggiore precisione del tiro, e grazie alla loro maggiore gittata riescono a mantenere il più possibile lontane le navi nemiche più leggere, impedendo loro di ricorrere al siluro e al rostro, ed evitando una mischia che non sarebbe affatto conveniente per le unità maggiori. Di conseguenza "le combinazioni tattiche più vantaggiose sono specialmente dovute alla prevalenza della qualità; la nave da battaglia non può in alcun grado sacrificarla, senza detrimento delle fanzioni che le sono assegnate". Da notare anche che ali' opposto dell' Albini il Bettòlo considera la velocità "il principale fattore della capacità strategica e del valore tattico di qualsiasi nave da guerra", non solo per le navi da battaglia che possono accettare o rifiutare il combattimento ottenendo vantaggiose combinazioni offensive e difensive, ma anche per il servizio d'esplorazione e per le torpediniere. Tuttavia, a suo giudizio "è più superfluo che dannoso lo studiarsi di ottenere velocità effimere, che si possono realizzare una sola volta, per poche ore, in condizioni affatto anormali", per contro compromettendo la solidità delle macchine, richiedendo sforzi eccessivi ai fuochisti, ecc. Diversamente dall 'Albini esalta in particolar modo le torpediniere Schichau, che con il loro armamento di cannoni a tiro celere possono fungere anche da controlurpediniere. Ritiene infine necessario costruire incrociatori con corazzatura maggiore di quella dei pur ottimi Bausan, Tripoli e Piemonte, perché "l'incrociatore deve essere nave capace di sostenere il combattimento", mentre anche le azioni che richiedono molte navi autonome, possono essere efficacemente condotte solo se tali navi hanno buone capacità difensiva (è la formula dei due incrociatori corazzati con 12 cannoni da 152 mm classe Vettor Pisani). In sintesi mentre le tesi dell' Albini sono sbilanciate a favore delle grandi navi lasciando al restante naviglio uno spazio residuale, il Bettòlo pensa a una flotta equilibrata nelle sue diverse componenti, convinto com'è che le esigenze della guerra moderna richiedano "un più largo e rapido sviluppo del naviglio assegnato ai servizi di esplorazione e di crociera". A suo giudizio, infine, anche il necessario aumento del naviglio mercantile deve essere disciplinato da norme che ne facilitino l' impiego a fini militari. Con questi caratteri, la sua è una difesa indiretta ma molto efficace degli orientamenti del Brin in materia di costruzioni navali, anche se le lodi alle torpediniere Schichau del momento sembrano eccessive e di breve portata, perché ben presto se ne aumenterà notevolmente il dislocamento, mentre il loro armamento sussidiario con cannoncini a tiro rapido non ne fa certo dei veri e propri cacciatorpedinieri.
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SEZIONE II - L'inaspettato "revival" della nave tipo Acton proprio per opera del Cuniberti e gli ormai consueti problemi della marina neIPultimo decennio del secolo XIX Riepilogando quanto prima esposto, gli eventi di maggior interesse nel periodo considerato sono i seguenti: - la battaglia dello Ya - Lu (settembre 1894) che secondo l'opinione prevalente mette in risalto l'efficacia dei nuovi cannoni di medio calibro a tiro rapido; - la guerra ispano-americana del 1898, nella quale l' antiquata e male addestrata flotta spagnola viene facilmente sconfitta dai moderni incrociatori americani, confermando il successo dei medi calibri; - l'impostazione delle corazzate classe Saint Bon (1893-1894), che entrano in servizio nel 1901 e sono caratterizzate da una vistosa diminuzione del calibro delle artiglierie principali (TV/254 mm e VTTT/152 mm) e quindi del dislocamento (10250 t); - l ' impostazione della successiva classe JJrin ( 1898-1899), che entra in ser-
vizio nel 1904-1905 e segna un notevole aumento del ca libro delle artiglierie principali (TV/305 mm e IV da 203 mm) e quindi anche del dislocamento, con una soluzione di compromesso tra il nuovo 305 mm e l'osannato 203 mm; - l'impostazione degli incrociatori corazzati classe Vettor Pisani (18921893), che entrano in servizio nel 1898 con XII/152 mm e VI/120 mm e dislocamento 7242 t; - l'impostazione degli ottimi incrociatori classe Garibaldi (1898-1899), che entrano in servizio nel 190 I con T/254 mm, W203 mm e XIV/ 152 mm e dislocamento 8100 t ( da notare che il calibro dell' armamento è praticamente equivalente a quello che prevale nelle corazzate del tempo); - l'acquisto in Germania dei primi cacciatorpediniere Schichau classe Lampo, impostati nel 1899 ed entrati in servizio nel 1900; - l'acquisizione di numerose torpediniere. In estrema sintesi l'esperienza delle predette battaglie - le prime dopo Lissa - non è estranea alla netta diminuzione dei calibri e all' incremento della costruzione di incrociatori con buon armamento, senza che le moderne e più leggere artiglierie perdano molto di potenza, anche perché compensano con l' aumentata celerità di tiro la minore efficacia del colpo singolo. Questa linea di tendenza si riscontra anche all'estero, dove l'ammiraglio Fournier nel suo libro La flotte necessaire ( 1896) si dichiara a favore ( come in passato l 'Acton) di una nave corazzata di 8000-8500 t, mentre anche l'ammiraglio russo Makarov nel suo citato libro Questioni di tattica navale propende per un unico tipo di nave "adatto a tutti gli usi di guerra" con ridotto dislocamento, analogo a quello sostenuto dal Fournier.
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Dopo il Brin, da notare il ritorno al vertice della marina del Saint Bon per quasi due anni (febbraio 1891 - novembre 1892), - seguìto due volte ma per breve tempo dallo stesso Brin (novembre-dicembre 1892 e marzo 1896 - maggio 1898). Il Ministro che rimane più a lungo in carica è l' ammiraglio Morin (dicembre 1893 - marzo 1896 e giugno 1900 - aprile 1903). Ai fini delle costruzioni navali, come meglio si vedrà in seguito è di particolare importanza la breve gestione del Minjstro Bettòlo (maggio 1899 - giugno 1900). Gli studi più interessanti e originali del periodo sono quelli del Cuniberti, che oltre a proporre nel 1899 le caratteristiche di un nuovo tipo di nave da battaglia (paradossalmente vicino all'antico) nel 1893 pubblica un fondamentale contributo nel quale si illustrano i vantaggi della propulsione a nafta, da introdurre dapprima per il naviglio minore e da estendere gradualmente allenavi maggiori. 50 Preso atto che negli ultimi anni l'uso dei petroli provenienti in gran parte dagli Stati Uniti e dalla Russia ha avuto un grande sviluppo, esamina anzitutto la possibilità di adattarvi con poca spesa e con ridotta perdita di tempo le caldaie a vapore delle navi da guerra del momento, arrivando alla conclusione che ciò è possibile e necessario, e che ormai come combustibile la nafta nonostante il maggior costo è competitiva con il carbone. Molti sono i vantaggi della sua introduzione sulle navi da guerra: consente una forte riduzione di spazio per i depositi, una maggiore facilità di alimentazione per le caldaie, una forte riduzione del fumo causato dalla combustione, con possibilità di modificare o eliminare i fumaioli e quindi anche di ridurre la visibilità delle navi. Al momento, però, la propulsione interamente a nafta è convemente solo per le torpediniere, mentre per le navi maggiori è meglio adottare la propulsione mista, perché "hanno depositi di carbone così vasti e così poco protetti che non conviene per ora trasformarle c ompletamente, per renderle capaci di una grande provvista di petrolio al di sotto della linea di galleggiamento". Quel che più importa, il Cuniberti getta uno sguardo sulle navi del futuro, la cui costruzione grazie all'introduzione della propulsione a nafta potrà essere radicalmente modificata. Oltre a ridurre lo spazio per i depositi di combustibile, sarà possibile scegliere liberamente i locali per contenerlo, vicini o lontani dalle caldaie, sopra o sotto la linea di galleggiamento. Infatti come protezione verticale a murata [con la propulsione a carbone] ven-à a mancare una difesa [con opportuna disposizione dei depositi di carbone] che talvolta si è dimostrata ejjìcace, ma che colle armi moderne va sempre più perdendo valore. Infatti l'artiglieria attuale e ancor più quella dell'avvenire, ora in studio, tende alla grande velocità dei proietti ed alla leggerezza dell'arma. Noi stiamo diminuendo il calibro e il peso dei cannoni, e viceversa aumentando il numero dei colpi che si possono fare al minuto. Le tonnellate
50 Vittorio Emilio Cunibcrti, La nafta e la torpediniera "104 S', in "Rivista Marittima" II Trimestre 1891, Fase. TV pp. 95- 119, F:isc. V pp. 2R 1-291, F:isc. V1 pp. 445-456.
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d 'acciaio lanciate in un dato tempo non saranno di molto cambiate, ma la loro velocità iniziale, combinata con la loro suddivisione minuta, permetterà di crivellare e distruggere protezioni ritenute finora efficaci, come, ad esempio, le strutture cellulari ripiene di carbone o altro. Inoltre, l'uso sempre più esteso degli alti esplosivi obbligherà pure a costruire differentemente le murate; e per diminuire gli effetti morali e limitare quelli materiali si dovrà forse suddividere in molti compartimenti i locali sopracquei, come sifaceva prima per i subacquei. E se ilfulmicotone dei siluri ha dimostrato una violenza d'azione rilevante contro i doppi fondi laterali, ripieni o no di carbone, ha pure seguìto la legge fisica dei gas urtanti i solidi, demolendo le paratie normali alla direzione del loro moto, ma non quelle parallele, o quasi, a questa direzione.
Ne deriva la necessità di opporre al siluro più numerose paratie trasversali, ma questo non è possibile con la propulsione a carbone perché rallenterebbe troppo il rifornimento per le caldaie; è invece possibile con la propulsione a nafta, con la quale si potrebbe stivare il combustibile nel doppio fondo inferiore, regolandone l'afflusso alle caldaie con semplici pompe. Con il nuovo sistema di propulsione, inoltre, sarà più facile il travaso di combustibile da una nave ali' altra "per mezzo di una manichetta galleggiante ovvero sospesa ad un cavo di rimorchio". Non basta: con tale sistema una nave raddoppia la sua au-
tonomia, mentre meritano pure tutta la nostra attenzione due altri vantaggi : la possibilità di raggiungere la velocità massima delle prove in qualunque istante del combattimento con caldaie sporche e fuochisti stanchi, e mantenerla per qualunque numero di ore, la facilità di eseguire prontamente, senza danno, tutte le manovre che le fasi del combattimento possono richiedere, passando ad un tratto dell'andamento adagio a quello a tutta forza e viceversa, come non sarebbe possibile di farlo maneggiando il carbone sulla graticola.
Si tratta di un vantaggio di grande portata, perché - come mette in giusto rilievo lo stesso Cuniberti - con la propulsione a vapore "vi sono purtroppo molte poesie nelle prove di macchina e di caldaie a vapore sulle navi da guer-
ra di tutte le marine" [e ancor più sulle navi della nostra marina, che tradizionalmente contava sul vantaggio di velocità - N.d.a.]. Infatti le condizioni eccezionalmente favorevoli che si cerca di ottenere per le prove in mare del tempo di pace (con sovrabbondanza di dirigenti, fuochisti in gran numero e scelti, carbone ben scelto ecc.) per ovvie ragioni non sono quelle meno favorevoli del tempo di guerra, che invece dovrebbero ricevere la massima attenzione; di modo che "in squadra la nave riduce la sua potenza alla m età o alla quarta parte di quella massima, e sia per personale che per carhone non si trova mai più in condizione di realizzare la velocità delle prove".
Per ultimo, il peso delle strutture cellulari piene di carbone ormai inutile potrà essere utilizzato "in altrettante tonnellate di acciaio-nichelio indurito destinato a far scoppiare al di fuori le granate che colpissero il galleggiamento", e inoltre "le parti.fùori acqua converrà a poco a poco cessare di proteggerle
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con corazze inefficaci, e perciò più pericolose per le schegge, che utili contro la perforazione. E/orse la traccia delle fùture navi si avrà nel moltiplicare le macchine ed i propulsori indipendenti gli uni dagli altri e il più possibile lontani, in modo che un siluro non possa offenderne che uno soltanto", così come si dovranno anche moltiplicare e rendere indipendenti gli organismi di governo della nave. Non richiede sottolineature l'aspetto innovativo delle proposte del Cuniberti sulla propulsione a nafta, che verranno dapprima accolte sul naviglio leggero ( cacciatorpediniere e torpediniere) nei primi anni del secolo XX, e poi sul naviglio rimanente, prevedendo anche la trasformazione delle unità leggere con propulsione inizialmente a carbone; così è avvenuto nel 1908-1912 con i cacciatorpediniere classe Nembo e con le torpediniere classe Pegaso, mentre le successive classi di naviglio leggero ebbero tutte propulsione a nafta. Sempre seguendo le proposte del Cuniberti, le Dreadnoughts italiane (Dante Alighieri e classe Giulio Cesare) ebbero propulsione mista. Dal nuovo sistema di propulsione, inoltre, egli trae considerazioni di grande interesse sulle caratteristiche fondamentali delle nuove costruzioni, dalle quali traspare chiaramente che egli è favorevole alle nuove artiglierie di medio calibro e a tiro rapido e addirittura contrario alla corazzatura delle navi, ponendo anche particolare attenzione ai sistemi di protezione dello scafo dal siluro, che non consistono certo negli spessori di carbone e/o nell'aumento della corazzatura. Queste sorprendenti idee del Cuniberti sulle costruzioni navali del futuro si riflettono almeno in parte in un successivo articolo sul Nuovo tipo di nave da battaglia pubblicato dalla Rivista Marittima a fine 1899, 51 cioè sotto la gestione Bettòlo e dopo le battaglie deUo Ya-Lu e della guerra ispano-americana del 1898, che come più volte detto hanno visto protagonisti, più che le corazzate, i moderni incrociatori giapponesi e americani. Il Cuniberti fa esplicito riferimento alla nave da battaglia da 8000 t che il Ministro intende costruire (ma che è invece "a sua") e con frequenti paragoni con le costruzioni inglesi e francesi discute i requisiti di una nave ideale, esaminando nell'ordine il dislocamento più economico, il limite di maggior rendimento per l'artiglieria, il motore e la corazza, l'armamento, la velocità, per poi indicare le caratteristiche ottimali della nave da costruire. DISLOCAMENTO PIÙ ECONOMICO Dal paragone tra le 11 .200 t della Jeanne d 'Are francese e le 14.200 t del Powerful inglese, risulta che: - il numero di cavalli necessario per far muovere ad alta velocità una nave piccola è proporzionalmente più elevato di quello necessario per una nave grande;
51 Vittorio Emilio Cuniberti, Il nuovo tipo di nave da battaglia, in "Rivista Marittima" TV Trimestn, 1899, Fascicolo Xli pp. 439-480.
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- lo svantaggio delle navi piccole può essere diminuito migliorandone la forma della carena e altre caratteristiche dello scafo; ma anche riconoscendo un beneficio lordo per i grandi dislocamenti, tale beneficio non diventa netto, se si tiene conto di altri inconvenienti delle grosse navi, perché a parità di velocità, diminuendo lo scafo "diminuisce il peso di corazza di cintura, decresce enormemente il peso della macchina, il suo consumo orario, la provvista di carbone, e si riducono sensibilmente i pesi di allestimento e armamenti". Ne consegue che "parrebbe interessante e utile contrapporre ad ogni tipo, studiato o costruito, un 'altra nave di minor spostamento, ma capace di portare la stessa artiglieria, alla stessa velocità, per lo stesso numero di ore del tipo in esame". LIMITE DI MAGGIOR RENDIMENTO PER L'ARTIGLIERIA Il Powerjull inglese è armato con due pezzi da 9 pollici (228 mm) di circa 25 t, più 12 pezzi da 6 pollici (152 mm) di circa 8 t. Quindi, tenendo conto delle munizioni e delle protezioni l'armamento assorbe appena il 5% del dislocamento totale. Anche se tale nave intende privilegiare la velocità e l'autonomia, questa proporzione potrebbe essere aumentata senza difficoltà, partendo dalla constatazione che la marina italiana in fatto di rapporto annamento/dislocamento è già la prima negli incrociatori e la seconda nelle corazzate (con la Brin). LIMITE DI MAGGIOR RENDIMENTO PER IL MOTORE Qui il Cuniberti non fa alcun accenno alla propulsione a nafta, osservando solo che nessuno dei provvedimenti fino a quel momento studiati per economizzare il combustibile risponde completamente alle esigenze della marina da guerra, le cui macchine consumano molto alla piccola velocità, che è più usata in pace e in crociera, poco alla media velocità che non viene quasi mai mantenuta, perché richiede un numero di cavalli tale da sciupare tutte le economie realizzate su ognuno di essi; ancora molto a tutta forza, perché le macchine sono economiche ma le caldaie dilapidatrici. Tuttavia le economie sul motore, e quindi sul carbone, non dovranno compromettere ancor più i "disastrosi inconvenienti'' che si stanno verificando con macchine troppo leggere, tenendo presente che il buon armamento e il vasto raggio d'azione più che da eccessivi dislocamenti dipendono dal loro equilibrio armonico, in relazione al tipo di nave che si intende progettare. LIMITE DI MAGGIOR RENDIMENTO DELLA CORAZZA I tempi nei quali [come sul Duilio - N.d.a.] si impiegavano 50-60 cm dicorazza per proteggere le sole parti centrali della nave sono lontani: al momento nelle navi inglesi e francesi sembra sufficiente una buona corazza di 15 cm tanto per la cintura dello scafo che per i cannoni e le sovrastrutture, prevedendo sia una cintura completa, sia la corazzatura dello scafo a murata. Per diminuire i costi le ditte inglesi hanno escogitato un sistema di protezione poco costoso, consistente nel disporre a murata dei cofferdams pieni di carhone; ma la fi-
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ne disgraziata del le navi senza corazza cinesi e spagnole nelle recenti battaglie, ha dimostrato che la protezione assicurata dal carbone è di limitatissima efficacia, specialmente se non esiste una piastra corazzata che provochi prima la rottura del proietto. In tal modo è stata dimostrata la supremazia della corazza verticale, senza però dover rinunciare alla protezione orizzontale. Inoltre è emersa la necessità di proteggere anche i sempre più numerosi cannoni secondari da 152 mm, aumentando di molto il peso aggiuntivo delle corazze per le artiglierie. A questo punto il Cuniberti dissente decisamente dal sistema al momento molto diffuso del doppio armamento, "l'uno grosso, limitato, lento, l 'altro medio, numeroso e rapidissimo", mettendo in dubbio la convenienza di imbarcare due coppie di grosse artiglierie "faticosamente protette a danno di altri serviz i e particolarmente della macchina", che assorbono due terzi del peso totale delle stesse artiglierie; il tutto ''per la sola .\ peranza di collocare in tutta una azione a distanza un colpo buono nelle navi nemiche". È vero - egli ricorda che nella battaglia dello Ya-Lu un colpo cinese da 300 mm Krupp ha messo fuori combattimento la nave ammiraglia giapponese, ma il suo scafo era totalmente indifeso, e i danni sarebbero stati molto diversi contro un bersaglio corazzato. Non solo, ma ritiene sorprendentemente superati gli stessi calibri da 305 mm del momento, a beneficio di calibri ancora inferiori: non è già che si voglia disconoscere l 'importanza dei cannoni da 305 mm, ma nella curva discendente dei calibri essendo passati in pochi anni dal 450 mm al 343 mm ed al 305 mm, è da presumersi che non ci.fermeremo a queste armi [previsione sbagliata, perché come si è visto dopo la Dreadnought il calibro riprende a salire - N.d.a.], le quali rappresentano bensì un grande progresso sulle precedenti, ma sono insidiate dall'elevarsi graduale del tiro rapido, il quale sarà l'unico trionfatore, allorché le accresciute velocità delle navi renderanno brevissimi gli istanti buoni di azioni ravvicinate per infliggere all'awersario il massimo delle offese, nel più breve tempo possibile".
Ne consegue, per il Cuniberti, la sup eriorità del cannone da 203 mm sul 305 mm, perché un colpo da 203 mm sviluppa 3100 dinamodi di energia, che con una celerità di tiro di 3 colpi al minuto diventano 9480, con un peso del1'arma che è appena 1/4 di quelli del 305 mm, che invece sviluppa con un colpo solo 12.570 dinamodi, i quali però tenendo conto della sua bassa celerità di tiro (un colpo ogni due minuti) diventano 6.285 circa. E della maggiore potenza del colpo singolo da 305 il C uniberti ne tiene conto solo per affermare che "la lentezza del tiro e il limitato numero dei pezzi da 305 mm renderà molto problematico quel colpo .fortunato, il quale non solo colpisca l'avversario, in moto a grande velocità e molto lontano, ma lo colpisca appunto in quei dati segmenti meno protetti o almeno più pericolosi per i congegni che contengono". Peraltro a questa previsione egli aggi unge una constatazione che non va molto a favore dei pezzi di medio calibro a tiro rapido da lui stesso sostenuti: fra il 1877 e il 1879 l 'IIuascar dimostrava quale resistenza pos,rn presentare
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alle artiglierie nemiche una nave ben studiata e opportunamente protetta. 52 Né è da credere che solo nelle azioni meno recenti si delinei questa resistenza. Anche il Ting-Yuen ed il Chcn-Yucn nel 1894 [corazzate cinesi nella battaglia dello Ya-Lu - N.d.a.] resistettero, quasi immobili. a/fuoco continuato delle più moderne artiglierie a tiro rapido [degli incrociatori giapponesi] e non ebbero a lamentare avarie di scafo o riduzioni di equipaggio tali da impedire la lotta [ ... ]. Converrà per ultimo citare l'efficacia della protezione del Cristobal Colon 53 nel 1898, contro i.fuochi convergenti delle navi americane [armate con cannoni da 203 mm - N.d.a.], per completare il quadro dei principali attacchi, quasi innocui, d'artiglierie contro corazzate.
I colpi "quasi innocui" erano quelli a tiro rapido degli incrociatori giapponesi e americani: non era meglio, allora, poter contare su calibri di potenza maggiore, quali erano i 305 mm del tempo? Il Cuniberti invece non escludendo la probabilità di un combattimento a breve distanza ritiene che "solo l 'armamento del nuovo tipo [cioè con cannone a tiro rapido, di calibro inferiore al 305 N.d.a.] mentre risponde opportunamente ai concetti offensivi circa la lotta di artiglieria a distanza, possa eventualmente anche soddisfare i criteri [validi] per un attwxu efficace a distanza ridotta, mercè un sistema di protezione, a triplice corazza, capace di resistere anche alle offese vicine dei calibri superiori nemici". Infatti volendo collocare alcuni cannoni da 305 mm, dato il loro peso rilevante si sarebbe costretti a togliere molte tonnellate al peso della macchina, per assegnarle all'artiglieria e alla sua protezione. Tenendo conto dei requisiti così indicati, il Cuniberti propone una nave corazzata con le caratteristiche seguenti, alle quali corrispondono quelle della prima Vittorio Emanuele impostata: - armamento principale: pezzi da 203 mm con celerità di tiro 3 colpi al minuto, che nella battaglia di Santiago del 1898 hanno dato buona prova, superando di gran lunga la percentuale di colpi da 152 mm andati a segno, mentre il pezzo da 254 mm "ha i difetti di lentezza del 305 senza averne l 'energia" . Con notevole semplificazione del munizionamento e relativi servizi, il pezzo da 203 mm sostituisce così il 305 e il 254 mm; - sistema di protezione ''./razionato" anche contro i colpi da 305 mm, con cintura di protezione dello scafo in piastre Terni (risultate superiori sa
52 L' Huascar ern un guardacoste corazzato peruviano costruito in Inghilterra, con dislocamento 11000 t, scafo in ferro e protezione verticale (cintura) 114 cm, armamento W230 mm in torri corazzate e propulsione mista, entrato in servizio nel 1866. Nel 1877 in uno scontro con una fregata e una corvetta inglesi non corazzate dimostrò ottime capacità di resistenza. Nel 1879 in un combattimento contro due corazzate cilene di dislocamento superiore ma con un cannone dello stesso calibro, ebbe lo scafo perforato mentre i suoi cannoni non riuscirono a perforare quello delle corazzate nemiche. 53 li Cristobal Colon (Cristoforo Colombo) era un incrociatore corazzato della classe Garibaldi costruito in Italia e venduto alla Spagna, con dislocamento 8000 t, armamento 1/254 mm, Il/203 mm, X IV/152 mm, velocità 20 nodi, protezione verticale 150-80 mm (scafo) e ridotto e torri 150 mm, protezione orizzontale 38-42 mm.
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quelle Harvey e Krupp) di 150 mm rafforzate con carbone e ridotto ricurvo in avanti anch'esso di 150 mm, più altri 60 mm di acciaio addossato a cofferdams di carbone e con un secondo aumento di 60 mm trasversalmente di prora, avente lo scopo di neutralizzare le granate di grosso calibro che si potrebbero ricevere d'infilata nel dare la caccia al nemico; - torri dei pezzi da 203 mm con corazza di 150 mm; - velocità di 22 mg/ora, superiore a quella delle più recenti navi da battaglia inglesi e francesi. Pertanto il Cuniberti non tiene conto delle indicazioni di Mahan, che "paragonando le potenti corazzate alla lenta fanteria, raccomanda l'armamento a danno della macchina, dicendo che l 'armamento e non la velocità manda a picco il nemico". A suo parere la gara di velocità non sembra arrestarsi, con l'evoluzione delJe corazzate verso nuove navi di linea veloci accostandole agli incrociatori corazzati, i quali a loro volta tendono ad aumentare la loro capacità offensiva [è più o meno la formula dell'incrociatore da battaglia - N.d.a.]; - dislocamento 8000 t e immersione di 6, 70 m, perché nelle grandi velocità la maggior inlmersione è nociva, mentre non è possibile scendere al di sotto di questa cifra, per poter sistemare meglio le macchine sotto il ponte corazzato. ll Cuniberti significativamente nega che i requisiti da lui richiesti al nuovo tipo di nave siano incompatibili con un così modesto dislocamento. Infatti "utilizzando le nuove risorse" la soluzione del problema da lui proposta "è naturalissima, e non presenta punti più importanti di quelli rilevati in taluni riuscitissimi tipi esteri, costruiti dall'industria privata". Ammette tuttavia che, traducendo in pratica i requisiti da lui indicati solo sulla carta, possano emergere delle lacune o magari delle deficienze, che giudica anzi "inevitabili": ma prima di condannare le soluzioni da lui proposte, gli esperti "dovranno discutere se esse siano o no compensate dai vantaggi che non ci sembrano indifferenti, se paragoniamo questo nuovo tipo di nave da battaglia alle corazzate ed ai più moderni incrociatori". Che dire di queste idee riconciliabili con la formula della Dreadnought, proprio del celebrato padre della Dreadnought? Già nel 1884, come si è visto, egli aveva dimostrato di non appartenere alla schiera di convinti fautori della superiorità della nave corazzata con cannoni giganti, ecc. (basti ricordare che in quell'anno erano appena entrati in servizio il Duilio e il Dandolo, mentre l'Italia e il Lepanto erano ancora in allestimento). Con l'articolo esaminato il Cuniberti condanna persino il 305 mm, e di fatto propone circa dieci anni dopo - 1O anni erano, sono molti nel campo delle costruzioni navali - un ritorno alle navi tipo Acton, per di più suffragato dagli ammaestramenti delle ultime battaglie. Di conseguenza, il suo articolo induce anzitutto a chiedersi come mai nella classe Vìttorio Emanuele, dalle 9000 t circa di dislocamento iniziale da lui previste in base ai predetti criteri si passa alle 14.000 circa del progetto finale a lui pur sempre attribuito, e come mai in tale classe ai cannoni da 203 mm
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da lui indicati inizialmente come armamento ottimale, ne sono aggiunti 2 da 305 mm. In secondo luogo occorre chiedersi per quali ragioni questo geniale progettista molto apprezzato anche all'estero, (anzi: l'unico dei progettisti navali italiani di ogni tempo ad essere conosciuto e stimato all'estero) non ha compiuto nel genio navale italiano una carriera corrispondente alle sue doti, e come mai egli non è stato interessato nel progetto delle prime Dreadnought italiane, affidato invece al tenente generale del genio navale Edoardo Masdeamorto nel 191 O, al quale ha ambito invano a succedere nella carica di Ispettore generale del genio navale.54 Una risposta sufficientemente esauriente e obiettiva a questi interrogativi potrà essere data nel prosieguo dell 'opera. Nello stesso anno 1899 il Molli riprende gli articoli di dieci anni prima con un opuscolo fin troppo polemico, il cui titolo sensazionalistico è già un programma: Lo sfacelo della marina italiana.55 In effetti, come già per il Mcsturini anche per il Molli non si salva nessuno e nulla, con un'autentica requisitoria nella quale accanto alle esagerazioni e alle tinte troppo fosche non manca qualche spunto interessante, come la previsione iniziale che "la guerra di domani sarà industriale e si svolgerà principalmente sul mare, perché quanto più un paese è industriale e ricco, tanto più sente il bisogno di una forte marina", perciò anche l'Italia deve avere una flotta potente. Purtroppo a suo giudizio (constatazione troppo cruda ma non nuova) "nella nostra marina ogni cosa è da rifare, il materiale, gli ordinamenti - dal reclutamento ali'educazione del basso e dell 'alto personale - e in modo specialissimo l'amministrazione" ; se invece la marina fosse stata bene amministrata, "coi miliardi in essa profusi noi ci troveremmo in alto, molto; saremmo jòrti e rispellati in pace e in guerra ..." . Interessante, ma non nuovo, l'accenno alla necessità di costruire una marina mediterranea senza seguire i modelli delle grandi marine oceaniche e ai problemi del rifornimento di carbone necessariamente dall'estero, che in caso di guerra (qui il Molli ha ragione) sarebbe precario sia via terra che per mare. Senza molta originalità, il Molli condanna anche vecchi difetti come l' eccessivo numero di arsenali, l' antieconomicità delle loro costruzioni, la durata eccessiva dell'allestimento delle navi e i nocivi interventi del genio navale per continue modifiche nel corso dei lavori, l'eccessivo numero degli impiegati del Ministero, la mancanza di un indirizzo costante nel le nostre costruzioni navali,ecc .. Al momento (1899) secondo il Molli le navi relativamente moderne sono ridotte alle seguenti:
54 Sulla vita, sulla carriera e sugli studi del C uniberti Cfr. V, D ' Aquino, Vittorio Emilio Cuniberti, io "Dizionario Biografico degliltaliani", Istituto dell'Enciclopedia Italiana 1985, Voi. XXXI pp. 374376. " Cfr. Giorgio Molli, Lo sfacelo della marina italiana, Torino, Casanova 1899.
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- tre corazzate (Umberto 1, Sardegna, Sicilia) "d'un tipo che ha già quindici anni di esistenza e quindi non corrisponde alle esigenze attuali"; - due corazzate (Saint Bon ed Emanuele Filiberto) che saranno pronte nel 1900 [entreranno invece in servizio nel 1901 - N.d.a.], "simili a navi che altre potenze hanno già armate da tre o quattro annt'; - due corazzate (Brine Regina Margherita) che saranno pronte nel 19041905 [data esatta - N.d.a.], "mentre il Giappone ne ha due quasi identiche già armate"; - due incrociatori corazzati (Vettor Pisani, Carlo Alberto) "di un tipo molto modesto che data da sei anni''; - tre incrociatori (Garibaldi, Varese, Ferruccio) "d'un tipo alquanto più moderno e meglio armati, di cui due saranno allestiti fra un anno circa, e il terzo fra tre"; - una dozzina fra torpediniere e destroyers. Sul restante naviglio il Molli spara a zero, a cominciare dall'Italia e dal Lepanto che a suo parere sono mal protetti (solo il ridotto centrale e le basi dei fumaioli sono corazzati), hanno le artiglierie principali in parte indifese e le artiglierie secondarie in nwnero insufficiente, con velocità non superiore ai 1516 nodi che non può essere mantenuta a lungo. Anche "il vecchio Duilio non è che una memoria storica ed è stato destinato come guardacoste alla Spezia". Ha "una scarsa superficie corazzata con acciaio dolce" e 4 cannoni da 100 t ad avancarica che sparano un colpo ogni 15 minuti, mentre un moderno cannone di 15 tonnellate a tiro rapido può sparare nello stesso tempo 40 colpi [cioè più di due colpi al minuto - N.d.a.]; inoltre ha scarso annamento secondario, solo 12 nodi di velocità e qualità nautiche deficienti. 1n quanto al Dandolo, si sono spesi ben 10 milioni per rimodernarlo (anziché i 4-5 milioni previsti), sostituendo i vecchi cannoni da 100 t con altri 4 da 254 mm di calibro "più potenti e modernissimi " e le vecchie corazze di acciaio dolce da 55 cm con altre al nikel da 25 cm, cambiando anche le caldaie e installando 7 nuovi cannoni da 152 mm e 2 da 120 mm. Tuttavia, nonostante questi costosi lavori di ammodernamento "il potere difensivo della nave è sempre minimo, perché minima è la superficie corazzata; "la batteria secondaria è completamente indifesa; infine la velocità effettiva non è che quella di 14 nodi [ ... ]. Non è stato un vero errore tecnico, un pessimo impiego del pubblico denaro?". Il Vecchj-d'Adda nel loro libro La marina contemporanea (1899) 56 sulla base dell'esperienza della guerra cino-giapponese e ispano-americana sostengono la preminenza del cannone e della corazza rispetto al la velocità e l'efficacia dei medi calibri con elevata celerità di tiro; infatti il grande incrociatore strategico formidabilmente armato, ma poco protetto [sul tipo dell'Italia - N.d.a.],jù veduto precipitare dopo l'entrata in campo del
56
Cfr. Augusto Vittorio Vccchj - Lorenzo D' Adda, La marina contemporanea, Torino, Bocca 1899.
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cannone di medio calibro a tiro rapido. L'enorme nave di linea parzialmente protetta da corazze mostruose difendenti le sole parti vitalissime, fu veduta tramontare di fronte a/l'incrociatore corazzato completamente difeso da corazze leggere.
Per le nazioni che (come l'Italia) devono difendere coste molto estese, le battaglie navali dell'avvenire saranno essenzialmente costiere, quindi per tali battaglie non saranno più necessari quei requisiti di velocità e raggio d'azione che al momento sono ritenuti indispensabili; perciò "l'incrociatore corazzato a sua volta in un tempo più o meno lontano è destinato a cedere il campo alla nave - tipo del 'avvenire e cioè al Monitor [americano] di alto mare". 57 Più nel concreto, secondo i due autori "anche tenendo conto delle esigenze nautiche, e restando al di sollo della metà del dislocamento richiesto sin qui per le navi di linea tipo Duilio o Morosini, noi possiamo avere una nave da combattimento altrettanto forte nell'urto tattico, formidabilmente più armata e molto più difesa" anche grazie alle minori dimensioni del!' opera morta che la rendono quasi invisibilc.58
SEZIONE 111 - li poco lineare cammino delle costruzioni navali dall'inizio del secolo XX verso Tsushima e la "Dreadnoughf' (1900-1905)
Da ricordare ancora che le uniche corazzate italiane impostate ed entrate in servizio dall'inizio del secolo XX fino alla battaglia di Tsushima (maggio 1905)59 e alla prima Dreadnought inglese (impostazione 2 ottobre 1905; entrata in servizio 3 dicembre 1906) sono le quattro Vìttorio Emanuele con le caratteristiche finali alle quali già si è accennato, ultime pre-Dreadnought impo-
" La nave tipo Monitor (nome della famosa corazzata entrata in servizio nel 1862 nella marina americana nordista, protagonista del famoso combattimento di Hampton Roads con il Merrimac sudista) aveva dislocamento e pescaggio ridotti, dimensioni limitate, scarsa veloci là, scafo basso rispetto al livello del mare (circa I metro), buona corazza e due pezzi di grosso calibro. Pertanto era adatta soprattutto all'impiego costiero, anche se navi di questo tipo hanno poi dimostrato di poter navigare anche in alto mare. Nella guerra 1914- 1918 tali tipi di nave sono stati impiegati dalla Royal Navy per colpire le coste olandesi, e dalla nostra marina nell'Alto Adriatico per appoggiare sul fianco destro le operazioni dell'esercito. Da ricordare, infine, che il maestro dell'artiglieria italiana generale Cavalli ha proposto navi cora?.7.ate "invulnerabili'' e nel 1866 si è dichiarato a favore di un tipo di nave che ha chiamato "Monitor modificato", dimostrando che poteva navigare anche in alto mare (Cfr. Ferruccio Botti, /,a "nave vulnerabile" e le teorie ,lei generale Cavalli, in "Rivista Marittima" luglio 1988, pp. 107118). 58 Vecchj - D'Adda, Op. cit.. pp. 179-180. 59 Sulla battaglia di Tsushimac i suoi ammaestramenti Cfr. specialmente il recente Quaderno 20042005 della Società Italiana di Storia Militare, Roma 2006 (contributi di Gabriele, Santoni, Gemignani, Ronconi, fontana di Valsalina, Botti).
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state dal 1901 al 1903 ed entrate in servizio dal 1907 al 1908, cioè - questo va sottolineato - quando già era entrata in servizio la prima Dreadnought inglese, mentre per le nostre si era ancora alla fase di studi per la progettazione. Nel periodo considerato, forse ancor più che le costruzioni navali (ancora Cuniberti, Sechi e Bemotti) rivestono interesse gli attacchi alla marina (paralleli a quelli all'esercito nello stesso periodo) di un esponente di punta dell'antimilitarismo (o "antimarittimismo") come Sylva Viviani (si veda anche il precedente Tomo I del Volume III - cap. X sezione II) e i rilievi e proposte della Commissione parlamentare d'Inchiesta per la marina, la cui nomina precede quella dell'analoga Commissione per l'esercito (per quest'ultima si veda il Tomo I del Vol. IIl - cap. X sezione III).
I punti di vista sulle costruzioni navali del Cuniberti, del Sechi, del Bernotti e del Ministro ammiraglio Mirabello e le critiche del deputato Di Palma alla nuova nave tipo Acton e al Cuniberti Anche il Cuniberti in un altro articolo pubblicato poco dopo quello del 1899 subisce l'influenza del Monitor,6r> indicando nel suo tipo di corazzatura (orizzontale, larga e bassa, e soprattutto applicata a uno scafo poco sporgente dall' acqua) un riferimento da seguire, perché ''fa concorrere più degli altri la difesa acquea colla difesa metallica". Nella stessa occasione il celebre ingegnere navale conferma il suo scarso entusiasmo per i grandi dislocamenti e per le artiglierie di grosso calibro unico, con interessanti considerazioni anche sui programmi. Questa volta accetta in parte anche il 305 mm e propende per navi ancora con armamento misto (305, 203, 76 mm) e molto veloci, obiettando ai detrattori della velocità che anche le navi meno veloci sono soggette a guasti ( obiezione invero poco convincente, perché per raggiungere e mantenere forti velocità le macchine sono evidentemente sottoposte a sforzi maggiori e più frequenti di quelli delle navi che tali velocità non intendono raggiungere). Comunque, per quanto attiene alle costruzioni noi tendiamo a dimostrare che non occorrono 27.000 tonnellate per dare alta velocità alle navi di linea, anzi riteniamo che la soluzione pratica si trovi più facilmente diminuendo le i 5. 000 tonnellate, anziché aumentandole fino a quel tonnellaggio enorme che, se è concepibile per la marina mercantile, è inammissibile per i requisiti speciali di una nave da guerra. E riteniamo che se[. ..} si potesse offrire la stessa protezione del Bullwark ed anche qualche centimetro di più, con lo stesso armamento od anche un armamento migliore, ed infine si riuscisse a conferire allo stesso galleggiante anche quella alta velocità che sembra solo possibile negli incrociatori, e ciò senza ricorrere agli
60 Vittorio Emilio Cuniberti, Programmi navali o tipi di navi, in "Rivista Marittima" II Trimestre 1901 , Fascicolo vr pp. 1-45.
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enormi dislocamenti nocivi e costosi, ma solo impiegando da 12.000 a 12.500 tonnellate, i programmi navali che essi compilerebbero, ripartendo tra le due scuole i fondi disponibili, sarebbero molto semplificati e fors 'anche più economici.
TI Cuniberti mette inoltre in buona evidenza la progressiva discesa dei dislocamenti dall'Italia di 15.000 t circa alla Regina Elena di 12.000 t (sarà inferiore di 2.000 t), a quella uscita in mare), senza che in quest'ultima classe fossero sacrificate le qualità strategiche (velocità e autonomia) a quelle tattiche (armamento e protezione), fino a osservare che "i propugnatori delle due scuole, tattica e strategica, dovrebbero esser soddisfatti per questa soluzione, che permette di concentrare in una sola nave tutti i requisiti che finora si dovevano disunire per dij]ìcoltà tecniche sopra due tipi diversi''. Riguardo alla programmazione delle costruzioni in generale ritiene che: - non è opportuno definire con precisione a priori i requisiti che deve possedere una nave da guerra; occorre invece "dare [solo] delle grandi linee direttive, far intravedere qual è la lacuna che il nuovo tipo, il nuovo progetto deve riempire. ma non di più"; - i programmi Lecnici e quelli a lunga scadenza hanno sempre fornito cattivi risultati; - pertanto "i programmi devono essere unicamente finanziari ed essere compilati dopo l'esame e l'approvazione del tipo di nave che si può mettere immediatamente in cantiere, coi fondi più o meno limitati disponibili oggi, e non già con quelli sperabili in futuro". Accanto al Cuniberti, come già si è accennato, nel 1900 anche un altro grande nome come il Sechi61 indica il 203 mm (che nei modelli più moderni ha notevolmente accresciuto la celerità di tiro fino ad essere denominato dai costruttori "a tiro rapido") come calibro fondamentale del le navi da battaglia, almeno per le nostre esigenze. A parere del Sechi sta prevalendo la tendenza verso un unico tipo di nave da battaglia dotato di "spiccate qualità strategiche" (cioè tali da privilegiare la velocità e l'autonomia), già assai ben rappresentato dai tipi Sardegna e Benedetto Brin. Per quanto attiene all'armamento "il cannone da 203 sarà efficiente anche contro le murate corazzate delle future navi di linea; questo calibro deve perciò preferirsi ad un cannone più potente, che pesa di più, richiede maggior numero di congegni meccanici, ha tiro assai più lento e perciò non può dare l'intensità di fuoco necessaria". Di conseguenza, per il Sechi i grandi dislocamenti sono convenienti solo per quelle marine che mirano a ottenere il successo in grandi battaglie e dispongono dei fondi necessari per un conveniente sviluppo delle loro forze navali [non è certo questo il caso dell'Italia - N.d.a.]:
•• Giovanni Scchi, Cannoni e corazze, in "Rivista Marittima" I Trimestre 1900, Fa~cicolo 111 pp. 203-217.
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ma se più che al successo tattico, necessario a chi vuol condurre la guerra offensivamente, si mira al successo strategico nell'intendimento di contrastare al nemico il dominio del mare ed impedirgli di operare sul litorale nazionale e soprattutto di sharcarvi reparti di truppe, non sembra più necessario che le navi da battaglia siano armate di grossi cannoni [. ..]. La rinunzia alle bocche da fuoco di grande calibro e la notevole riduzione di spostamento, e quindi di costo, che ne consegue, permette di costruire con limitate risorse navi da battaglia in numero sufficiente per affrontare con successo navi strategicamente difensive.
Con questa formula costruttiva, che privilegia senza equivoci le qualità strategiche e il numero, il Sechi si avvicina al Bonamico e si riferisce alle nostre specifiche esigenze, visto che in chiusura dell'articolo (riferendosi evidentemente alla classe Vittorio Emanuele) precisa che la nuova nave da battaglia progettata per la nostra marina, "le cui caratteristiche si sono conosciute con una certa esaUezza quando questa monografia era già pensata e scritta in gran parte", dovrebbe appunto rinunciare ai grossi calibri e ridurre notevolmente il dislocamento. Un altro grande nome, il Bemolli, in una conferenza del 1902 a La Spezia62 dimostra di avere idee alquanto diverse da quelle del Sechi, respingendo sia pur senza nominarlo la netta distinzione fra navi "tattiche'' e "strategiche" di quest'ultimo, e di conseguenza anche la tesi che la nostra marina deve privilegiare le navi strategiche. Per lui non si tratta di sfuggire la battaglia, ma un assioma che nessuno nega, ma che molti dimenticano, è quello che dice: fare la guerra significa battersi. Bisogna cercare di battersi nelle migliori condizioni possibili di tempo e luogo, ma battersi è necessario. la facoltà di accettare o rifiutare il combattimento è senza duhhio assai importante; ma alla luce di questo assioma il vantaggio di velocità apparisce come il mezzo per usare bene le armi.
Ma quale fonnula costruttiva indica, allora, il Bemotti? Tutto sommato, la soluzione da lui proposta è salomonica e generica, per non dire lapalissiana: una marina come la nostra, il cui presumibile nemico (la Francia) è più ricco di mezzi finanziari e quindi superiore di forze, "non deve stancarsi nella concorrenza per la velocità, sacrificando però il meno possibile gli altri elementi di potenza, in base al primo degli assiomi che ho ricordato". Bisogna perciò ricercare un tipo unico di nave io cui gli elementi tattici e strategici risultino armonicamente combinati, secondo criteri diversi da una marina all'altra. Ciò significa che i criteri chiaramente enunciati dal Secbi e dai sostenitori di tesi analoghe alle sue potrebbero andar bene per la nostra marina, come potrebbero andar male.
62
315.
Romeo Bemolli, Le navi da guerra, in "Rivista Artiglieria e Genio" dicembre 1902, pp. 305-
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Anche l'ammiraglio Mirabello, Ministro della marina dal dicembre 1903 al dicembre 1909, nel suo discorso alla Camera nella tornata del 16-17 dicembre 1905 ( cioè qualche mese dopo Tsushima, quando la prima Dreadnought inglese è già stata impostata e quando la classe Vittorio Emanuele non è ancora entrata in servizio) dedica particolare attenzione alla costruzione di naviglio leggero (compreso il sommergibile Glauco) e soprattutto di incrociatori, annunciando che per colmare la lacuna di un tipo di incrociatore corazzato dalle 9 alle 10.000 tonnellate, utile compromesso con la costosa e grande nave da battaglia, ma che può efficacemente con questa entrare in linea, lacuna che io lamentavo nella costituzione organica della nostraflotta,fu importato a Castellammare di Stabia l'incrociatore corazzato San Giorgio.
Egli riferisce che questo tipo di nave, ''parte importantissima nella costituzione delle flotte moderne" anche se nuovo per la nostra marina, è stato grandemente elogiato dall'importante giornale inglese Engineering, perché unisce brillantemente a un dislocamento moderato le tre doti di armamento, velocità e protezione. Ma a parte questi apprezzamenti - prosegue il Ministro - " io sarei sempre confortato dagli insegnamenti decisivi che ci vengono dalla più grande battaglia navale che si sia mai combattuta sul mare [quella di Tsushima N.d.t.], nella quale incrociatori pur meno veloci e meno potenti ebbero parte principale nel conseguimento della vittoria". Dagli autorevoli interventi prima citati si deduce che a pochi anni dalla Dreadnought la nuova nave tipo Acton è ancora validamente sulla scena. Peraltro un'opinione in controtendenza, -come meglio si vedrà in seguito, tutt'altro che isolata negli ambienti della marina che contano - è quella del deputato Di Palma, che pur proclamandosi amico del Ministro Bettòlo in un suo libro del 1901 63 rivendica il merito di aver criticato (sul Mattino, sulla Tribuna, sull'Italia coloniale e altri periodici) la nave di 8.000 t "che Bettòlo carezzava con tutto l'ardore della sua anima entusiasta e la tenacia della sua volontà di fèrro", insieme con le "feroci e deplorevoli economie" da lui attuate allo scopo di recuperare fondi per le costruzioni, con il congedo anticipato dei marinai di leva [espediente discutibile, analogo a quelli in uso da tempo nell'esercito N.d.a.], con la riduzione di 1h degli equipaggi delle navi armate, ecc. Ciononostante, loda " una larga concezione del problema navale" che lo avvicina al collega francese Lockroy e apprezza il coraggio da lui dimostrato con un impopolare provvedimento per la riduzione da 18.000 a 12.000 degli operai degli arsenali, per la semplificazione della burocrazia ecc., con un programma che non ha potuto portare a termine a causa della sua breve permanenza nella carica di Minis tro.
63
Federico Di Palma, La Francia navale e il convegno di Tolone, Napoli 190 I (senza casa editri-
ce), pp. 107- 12 1.
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JL PENSIERO MILl1)'.RF. F. NAVALE ITALIANO - VOL. lii (1870- 1915) - TOMO Il
Il Di Palma aggiunge che quando ha sposato la causa della nave da 8.000 t il Bettòlo si è dimostrato ''jòrse troppo fiducioso nel suo cooperatore Cuniberti", tant'è vero che dalle 8.000 t iniziali questo tipo di nave era già passato alle 9.600 t: tuttavia è certo che con le opportune modifiche, e accantonando tutta la passione del progettista, quel tipo di nave era destinato ad avere un successo pratico. Oggi quella nave, sotto il Ministero Morin [successore del Bettòlo, in carica dal giugno 1900 all'aprile 1903 -N.d.a.] è salita a 12.600 tonnellate; v'è chi chiama quest'ultima soluzione, la migliore; v 'è chi la trova ne' incrociatore, ne ' nave di linea; v'è chi la dice troppo lunga come nave da battaglia; in poche parole i pareri sono differenti, ma tutti convengono nel riconoscere che, come tipo di nave, scartate le esagerazioni degli entusiasti e dei critici, sarà, se non un eccellente, certo un buon tipo di nave moderna. Ehhene, non si deve a Bettòlo se furono iniziati e spinti tanto avanti gli studi relativi a questi nuovi tipi di navi da combattimento? Non si deve a questi studi, se oggi il bilancio della marina ha potuto strappare alla Camera quei.famosi 32 milioni di aumento provvisorio?
Le tesi del Di Palma, che si riassumono in un non troppo velato attacco alle idee del momento del Cuniberti (colpevole - sembra - di aver convinto il Ministro Bettòlo, in passato sostenitore delle grandi navi, ad appoggiare il suo progetto iniziale) dimostrano l'incertezza pcnnancnte sul tipo di corazzata da adottare, soffermandosi però su troppo generiche caratteristiche tecniche, senza giustificare l'aumento del dislocamento da lui sostenuto, e senza alcun riferimento al quadro strategico, ai costi e alla conseguente questione del numero_
La possibilità e necessità di ridurre le spese per la marina secondo Sylva Vìviani, la risposta di "Veritas" e gli attacchi del Ranzi al Ministro L eonardi
Nel 1902 viene pubblicato un poco noto opuscolo sulla marina italiana a cura di Sylva Viviani (pseudonimo di Gioacchino Martini, già ufficiale di commissariato ali' Accademia di Modena, che dopo essersi dimesso è diventato collaboratore militare dei giornali socialisti "Critica Sociale" e "Avanti!",64 al momento fortemente contrari alle spese militari). Citando favorevolmente Bonamico, il Vivi ani vuol dimostrare 1'esatto contrario dei navalisti, che chiama "marittimisti''. A suo avviso non esiste il pericolo di sbarchi e di bombardamenti sulle nostre coste, il dominio del mare specie per l'Italia non serve e non fornirebbe i vantaggi tanto decantati dai marittimisti , la guerra di squadra va di
64
1902.
Ctr. Sylva Viviani, le rifonne militari tecniche - la marina, Milano, Ed. "La Critica sociale"
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conseguenza evitata e sostituita dalla guerra di crociera, quindi le spese per la marina del momento sono inutili e eccessive. In particolare: - la pretesa insostenibile di mantenere i nostri armamenti al livello delle maggiori potenze ha avuto riflessi "disastrosi"' sull' economia nazionale, "causando e aggravando la miseria e l'ignoranza" delle classi più povere e numerose, in base al motto "non possiamo essere i primi a disarmare"; - l'Italia aspira ad avere allo stesso tempo un grande esercito e una grande marina, mentre invece la Russia, la Germania e l'Austria si accontentano di avere solo un grosso esercito, l'Inghilterra "soltanto" una potente flotta [che peraltro ha costi molto superiori alla nostra- N.d.a.]. Anche la Francia si è convinta da molto tempo che, dovendo mettere in campo un grande esercito [evidentemente per fronteggiare il tradizionale e molto potente nemico germanico - N .d.a.], per ragioni finanziarie non sarebbe mai riuscita a raggiungere nemmeno i due terzi della flotta inglese "e non pensa più a imitarla" [ di qui il successo, peraltro temporaneo, dellaJeune École navale - N.d.a.]; - noi invece in passato abbiamo speso per la marina più dei nostri al lcati della Triplice (Austria e Germania), tanto cbc cinque anni fa la Germania, nonostante l' espansione coloniale e l' imponente sviluppo del suo commercio marittimo (assai superiore al nostro) "non ci aveva ancora raggiunti nelle spese marinaresche". In questo quadro, "perché vorremmo noi pareggiare la potenza francese del Mediterraneo, se finanziariamente non ci potremo mai riuscire?"; - grazie alle nostre basi ben situate la posizione geostrategica dell'Italia nel Mediterraneo è di per sé ''fortissima", ma in fatto di forze mobili l'Inghilterra, anch'essa con ottime basi, è preponderante; perciò non sarà mai possibile un mutamento ncll 'equilibrio del Mediterraneo senza il suo consenso. Di conseguenza, anche se sul mare noi fossimo superiori alla Francia la nostra situazione non cambierebbe; - è appunto in virtù della nostra posizione geostrategica di per sé forte che noi potremmo moderare le spese per la marina, tenendo comunque presente che per il futuro "nessun'ombra di disaccordo potrà intervenire fra noi e la Francia, e che il medesimo ragionamento circa le precauzioni verso la Francia può .farsi circa le precauzioni verso l 'Jnghilterra fondandoci sopra l'alleanza francese"; - premesso che "la guerra [di oggi] non ha più il carattere semplicemente militare di una volta, ha meno scrupoli, conta più di prima sugli imbarazzi sociali ed economici dell'avversario e con ogni mezzo li provoca", le nostre maggiori città marittime sono esposte a bombardamenti terroristici dal mare, i cui effetti morali e materiali non possono essere previsti con sicurezza. È comunque militarmente impossibile, e poco conveniente [come sosteneva anche Bonamico - N.d.a.] difendere da attacchi improvvisi del genere le nostre coste; "ora però il problema si avvia
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fortunatamente a miglior soluzione, grazie ai formidabili e poco costosi sottomarini forse non desiderati dai tecnici'', i quali potrebbero attaccare le flotte che si avvicinano alle coste per bombardare, oppure per bloccare un porto; - a riprova di queste tesi il Martini ricorda che per la difesa delle coste la Francia ha previsto la costruzione di ben 38 sottomarini, e inoltre cita le dichiarazioni sia nuovo pericolo per le navi maggiori dell'ammiraglio americano Dewey (vincitore a Manila nel 1898), quelle alla Camera del! 'ammiraglio Bettòlo e quanto ha scritto sulla Rivista Marittima l'ingegnere navale Laurenti; - il pericolo di sbarchi francesi, tanto paventato dai marittimisti per indurre il Parlamento ad aumentare gli stanziamenti per la flotta, non esiste; le coste si difendono con l'esercito e con le ferrovie. In caso di sbarchi in Liguria (rada di Vado) o nell' Italia peninsulare, l'esercito sarebbe in grado di concentrare tempestivamente sul punto di sbarco forze sufficienti per respingere quelle sbarcate, che comunque potrebbero avere consistenza iniziale ridotta (massimo 120.000 uomini) a causa della carenza di naviglio da trasporto francese. Per organizzare una seconda mandata occorrerebbe un mese; - per fronteggiare gli sbarchi nell'Italia peninsulare basterebbe che l'esercito riservasse alla radunata delle forze che già vi si trovano le ferrovie colà esistenti, senza farle affluire nell'Italia settentrionale [ma a discapito della difesa del confine terrestre - N.d.a.]. Ciò è possibile, perché la nostra frontiera alpina è già di per sé forte. D'altro canto, fermo restando che per difendersi l'Italia non ha bisogno di alleanze, la Francia in caso di conflitto non distrarrebbe forze importanti dal fronte principale con la Germania. Infine bisogna tener conto che è impossibile che una flotta da trasporto così importante come quella che trasporterebbe le truppe da sbarcare non subisca danni da parte delle nostre torpediniere e incrociatori veloci; - riguardo alla situazione strategica del Mediterraneo, la conquista della Libia o della Tunisia non aumenterebbe la nostra forza ma la nostra debolezza, perché avremmo a Ovest ed Est due grandi potenze che già vi si trovano [cioè i possedimenti francesi e inglesi - N.d.a.]. Quello che a noi veramente interessa è la libertà delle comunicazioni tra i nostri porti e il canale di Suez, e in questo il nostro interesse coincide se mai con quello dell'Inghilterra; - uno Stato nuovo e povero come il nostro deve astenersi da ogni espansione coloniale. In avvenire non potremo possedere le desiderate colonie abitate da italiani, perché le colonie migliori dell'Africa sono già state conquistate, e la nostra emigrazione si dirige in gran parte verso le Americhe. Al momento le nazioni civili non cercano più colonie, ma "stazioni navali, privilegi industriali e commerciali, open door, libertà di commercio";
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- alla miseria che fanno trasparire i nostri emigrati all'estero corrispondono "un esercito permanente molto superiore ai bisogni della nostra difesa e i nostri mastodonti marini, i quali fanno pompa di sé nei porti stranieri; - il vecchio principio marittimista [alla base delle teorie di Mahan - N.d.a.] che la flotta militare difende, genera e sviluppa il commercio nazionale non è più valido [e qui il Martini attacca l'ammiraglio Bettòlo, che invece lo ha sostenuto in recenti conferenze nei centri industriali - N.d.a.]. li commercio marittimo ha subìto un enorme sviluppo negli ultimi anni e si è internazionalizzato, nel senso che le merci di ciascun paese sempre meno vengono trasportate da navi nazionali, mentre è venuto meno anche il monopolio delle coltivazioni e commerciale nelle colonie. Ne consegue che per forza di cose, il commercio marittimo ha solo bisogno di pace e libertà dei mari. Lo dimostrano la Svezia-Norvegia, l'Olanda e il Belgio, che pur avendo un commercio marittimo più florido di quello italiano, non hanno una flotta militare. Anche la Germania ha sviluppato in modo eccezionale il suo commercio marittimo, senza avere una flotta militare [ma al momento sta costruendola su vasta scala, fino a contendere all'Inghilterra il dominio dei mari - N.d.a.]; - in pace la protezione del traffico marittimo non è necessaria. Tn guerra il commercio marittimo è di immensa importanza per molte nazioni, per metterle in grado di sostenere la lotta. È perciò prevedibile che in caso di guerra ciascuna potenza belligerante cerchi di fare il massimo danno al commercio nemico con la guerra di corsa, invece di fare la guerra di squadra. Ma la prospettiva dei danni enormi chela guerra di corsa causerebbe ad ambedue i contendenti è di per sé una tutela della pace, sé che "non la grandezza della flotta [militare}, ma la grandezza del commercio è di questa la più naturale tutela"; - anche per questo l'equilibrio del Mediterraneo per l'Italia non consiste in conquiste territoriali o nell'impedire conquiste altrui, ma nella tutela delle vie di comunicazione in caso di guerra, esigenza che fa coincidere il suo interesse con quello inglese; - i due più probabili nostri avversari nel Mediterraneo sono la Francia e l'Inghilterra. Per pareggiare la potenza marittima inglese occorrerebbe spendere subito due miliardi in navi da guerra e ogni anno 630 milioni sul bilancio ordinario. Per pareggiare quella francese si dovrebbero spendere subito 750 mrnoni in navi da guerra e altri 300 all'anno per il bilancio ordinario; - "il desiderio intenso dei marittimisti è la battaglia di squadra e il.famoso dominio del mare, che induce ali 'imitazione de Il 'estero, ilJàttore prediletto della loro marina". È stato detto a quale prezzo si può tentare - e solo tentare - di conquistarlo. Ma la sua conquista provocherebbe gravi danni anche al vincitore e non impedirebbe a chi è sconfitto la guerra di corsa, che l'esperienza storica ha dimostrato molto dannosa;
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- per l'Italia la guerra di squadra non è necessaria, perché "i/ commercio nostro marittimo è scarso, e quand'anche restassimo senza alleanze e quindi senza completa difesa delle nostre comunicazioni potremmo sopportare il ristagno del commercio forse più facilmente di altre nazioni, potremmo sempre ritirare il grano dalla parte dell'Austria e il carbone dalla Germania", né abbiamo da temere gli sbarchi, se la difesa interna è ben preparata [qui il Martini cita a sproposito anche il Von der Golz N.d.a.]; - "la guerra del Mediterraneo ci consente benissimo la difensiva strategica per la ristrettezza del teatro di guerra, la facilità dei rifugi. le posizioni eccellenti del triangolo Spezia-Maddalena-Messina". Pertanto contro la Francia sarebbe conveniente ricorrere [come sostiene Bonamico N .d.a.] alla guerra di corsa, condotta da navi con corazze e armamento uguali a quelle del grosso nemico ma con velocità superiore, in modo da sfuggire all'azione risolutiva e cogliere le occasioni favorevoli, mantenendo il contatto con il nemico quando si avvicina alle coste e dirigendo e appoggiando l'azione delle torpediniere, alle quali è sperabile che presto si aggiw1gano i sommergibili; - per raggiungere questi obiettivi strettamente difensivi la nostra politica navale deve rinunciare al solito principio che "avuta la nave il resto verrà da sé". Bisogna tornare a fissare per legge l' organico della flotta, da imperniare sulle navi tipo Regina Elena [e Vittorio Emanuele - N.d.a.] al momento in costruzione, che risultano le più adatte alla guerra di crociera, perché posseggono la resistenza al fuoco che prima scarseggiava, aumentano un poco la velocità e diminuiscono la spesa, annullando il bisogno di grossi incrociatori già poco utili nei nostri mari, riducendo il dislocamento complessivo e riducendo il costo della nave di linea. Lo sbocco finale della lunga disamina è la proposta di un organico della flotta che prevede 180.000 t di naviglio, delle quali 140.000 per 10 navi tipo Regina Elena e il resto per il naviglio minore. Ciò rende possibile la riduzione del bilancio annuale della marina a 90 milioni, dei quali 30 per nuove costruzioni e riparazioni (stessa percentuale dell'Inghilterra). Tale riduzione, comunque, al Martini non basta: si deve tendere a nuove riduzioni, con l'obbligo di aumentare i depositi di carbone e le possibilità di raddobbo.
* * * Il Martini dimostra un' indubbia preparazione sull'argomento che intende trattare, con una serie nutrita di citazioni di autori, riviste militari, discussioni in Parlamento ecc. a sostegno delle sue tesi. Molte sue considerazioni si avvicinano a quelle- già esaminate - degli autori che intendono minimizzare l'apporto delle forze navali alla difesa nazionale, oppure a quelle dei rari sostenitori della guerra di crociera. l maggiori punti di caduta delle sue affermazioni
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- pur interessanti perché mostrano l'altra faccia della medaglia - sono due. 11 primo è l'evidente scopo aprioristico di dimostrare la possibilità e l'opportunità di ridurre fino a 90 milioni il bilancio della marina, al quale corrisponde una fisionomia della flotta alquanto irrealistica. Il secondo va ricercato nella tesi che l'Italia, essendo un paese ancora povero e industrialmente poco sviluppato, in caso di guerra ha meno bisogno di altri di rifornimenti via mare. La storia del XX secolo e in particolare quella delle due guerre mondiali, dimostrerà il contrario: ma il contrario valeva anche per il suo tempo, vista la forte carenza di materie prime per così dire strategiche indispensabili anche allora per l'industria, per le ferrovie, per l'alimentazione e per la preparazione e le operazioni delle forze di terra e di mare. Il suo maggior merito è invece quello di aver richiamato l' attenzione sull'impossibilità per 1' Ttal ia di competere in campo navale con la Francia e l'Inghilterra, e sulla vicinanza dei nostri interessi nel Mediterraneo a quest'ultima anziché alla Francia: fatto che indirettamente condanna la Triplice alleanza e nel 1913 farà dire dallo Stato Maggiore della marina al Governo che "o si cambia la politica o si cambia la marina". Infine, proprio perché debole e priva di materie prime, l'Italia del momento non poteva certo condurre una guerra europea senza alleati, come pretende il Martini. Le predette tesi sono contestate da un non meglio noto " Veritas",65 che non si occupa - come dovrebbe - di problemi del Mediterraneo e di questioni strategiche o tattiche, né precisa una possibile composizione della flotta con i fondi corrispondenti, ma ritiene che l'Italia debba essere genericamente forte sul mare, soffermandosi soprattutto su tre argomenti non nuovi, con idee opposte a quelle del Martini; - il pericolo di sbarchi e bombardamenti, per il quale sostanzialmente riprende le già note affermazioni di coloro che ritengono immanenti minacce di questo tipo, quindi sostengono la necessità anche di una flotta consistente; - la necessità di proteggere con una presenza navale forte e continua la nostra numerosa emigrazione all'estero; - la necessità di proteggere e sviluppare il commercio marittimo nazionale, evitando l'emorragia di risorse dovuta all'utilizzazione di naviglio mercantile straniero anziché nazionale. A proposito dell'emigrazione "Veritas" contesta l' affermazione del Martini, secondo il quale "l'emigrazione italiana deve essere aiutata o meglio abolita con altri mezzi, non può essere difesa dalla forza brutale della flotta, la quale in ultima analisi anzi la danneggia, rendendola invisa ai paesi che la ospitano". Posto che l'emigrazione è inevitabile, egli giustamente si chiede con quali mezzi, nel concreto, il Martini vorrebbe proteggerla, per non provocare reazioni indesiderate. L'unico mezzo per proteggerla sono le navi, che posso-
., Vcritas, IA verità sulla marina da guerra, Roma, giugno 1905 (senza casa editrice), raccolta di articoli in parte pubblicati sul giornale "La Patria".
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no dare credibilità, stima, fiducia ai nostri emigrati, spesso osteggiati e poco considerati, se non maltrattati: "quando abbiate rammentato quello che hanno saputo fare in Tunisia, sotto protezione straniera, ancorché osteggiati, i 70. 000 italiani là viventi, provatevi a pensare quello che vi avrebbero fatto, con le loro attività, se vi fossero stati inviati sotto la protezione d'Italia, anche una parte soltanto, appena un milione, dei lontani emigrati d'America". L'emigrazione va perciò aiutata e protetta quando si rivolge disgraziatamente a paesi stranieri; ma più di tutto deve essere preparata e avviata "verso paesi [ma quali?- N.d.a.] da noi accaparrati per essa, dove i sicuri benefici individuali possano accoppiarsi col vantaggio e col benessere collettivo della Nazione intera". Diversamente dalle principali potenze che si sono spartite l'Africa, noi non abbiamo mai avuto una politica coloniale. Abbiamo cercato possedimenti coloniali là ove l'emigrazione dalla madre patria non poteva essere che scarsa, e viceversa non abbiamo voluto territori dove essa poteva essere maggiormente beneficiata e favorita: "di questo èJòrse causa precipua la mancanza che in pari tempo sentiamo della base, del punto d 'appoggio necessarissimo ad ogni espansione: il potere marittimo". Da anni - prosegue" Veritas" - si parla della Tripol itania. Gli oppositori affermano che gli interessi italiani colà sono "interessi di sabbia", quando invece sotto la sabbia si cela un terreno marnoso che rivoltato con la sabbia diventa particolannente fertile, producendo in gran quantità ortaggi, uva, ecc. (in merito egli cita una recente, ottimistica relazione del 1900 al Ministro dell'agricoltura, a firma dell'avvocato Salvatore Giannoj. Si tratta dunque di una terra che può assicurare una decorosa esistenza a molte migliaia di famiglie, per di più a sole 20 ore dall'Italia e quasi dirimpetto alle nostre coste, visto che "(quella proprio dirimpetto è terra francese"), [cioè la Tunisia - N.d.a.]. Riguardo al commercio marittimo, al quale dedica molte pagine, "Veritas" non fa fatica a dimostrare che la marina da guerra è - da sempre - un elemento indispensabile di protezione e di sicurezza per il commercio marittimo nazionale, quindi a ogni suo sviluppo dovrebbe corrispondere un aumento proporzionale delle forze navali, come è avvenuto in Inghilterra e in Germania [ma anche negli Stati Uniti - N.d.a.]. 1n secondo luogo, egli depreca che con notevole esborso di risorse finanziarie (100 milioni/anno circa), una percentuale troppo elevata del nostro commercio marittimo è in mano straniera. Ne consegue la necessità di aumentare notevolmente la nostra marina mercantile, e quindi anche quella mi li tare (per quest'ultima, "Veritas" non indica però né di quanto e come, né le risorse necessarie e dove reperirle); esigenza resa tanto più necessaria dallo sviluppo imponente che negli ultimi anni banno avuto le nostre importazioni ed esportazioni. Solo la flotta può assicurare alla nostra bandiera il rispetto, la stima, la considerazione che al momento mancano, con gravi ripercussioni economiche perché al momento le nostre attività commerciali all'estero sono costretti a subire angherie, ostacoli, prepotenze dai poteri locali, fino a scoraggiare le iniziative dei nostri operatori economici. Infatti i nostri industriali preferiscono caricare i loro prodotti su navi straniere "che se anche
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naturalizzeranno a bordo i loro prodotti con qualche mendace "Made in England" o "in Gennany" sapranno tuttavia portarle su molti mercati sempre aperti alle loro bandiere". A supporto delle sue tesi "Veritas" cita statistiche, le quali dimostrano l'esatto contrario del Martini: che cioè l'Italia proporzionalmente alle sue risorse spende meno degli altri Stati (l'Inghilterra spende più di tutti), mentre gli Stati che spendono per la marina da guerra proporzionalmente di più, "sono poi quelli che hanno una marina mercantile tanto sviluppata da mantenere, malgrado le loro numerose navi da guerra, minor numero di tonnellate militari", e quelli che spendono meno per la loro flotta in rapporto al commercio che essa protegge e incoraggia. Si può solo osservare che dalla disputa emerge con sicurezza la necessità per l'Italia di una forte flotta militare, fatto peraltro ormai scontato: ma le proporzioni ottimali possibili tra forze terrestri e navali, e tra le nostre forze navali e quelle straniere, rimangono come sempre in ombra. Per omogeneità di trattazione vanno qui brevemente ricordati anche gli attacchi del già noto Fabio Ranzi al Ministro della marina Leonardi-Cattolica (1913), indirizzati anche ai membri <lei Parlamento.66 Indubbiamente il corpo degli ufficiali macchinisti attraversava da molto tempo una forte crisi, dovuta a un insoddisfacente trattamento economico e normativo, che influiva anche sul loro morale. Ad esempio gli ufficiali macchinisti quando uscivano dalla scuola di Venezia erano promossi sottufficiali, e in tale grado rimanevano per lungo tempo fino alle soglie della quarantina, avendo come superiori degli imberbi sottotenenti di vascello. insoddisfacente anche il loro trattamento economico, di modo che vi era un'ingiustificata ed eccessiva sperequazione tra i limiti di carriera ed il trattamento economico e morale degli ufficiali di vascello e quelli degli ufficiali macchinisti, in tal modo creando una reciproca animosità. In questo quadro, il Ranzi respinge l' accusa più o meno indiretta del Ministro di avere per così dire pescato nel torbido, sobi Ilando gli ufficiali del corpo e inscenando delle pubbliche agitazioni al limite della legalità (come l'esposizione da parte dei sottufficiali macchinisti delle loro bianche uniformi vicino ai tavoli dei caffè di Venezia, o il passaggio in fila e in silenzio dei macchinisti per le vie della Spezia e di Taranto). Data la situazione, secondo il Ranzi non c'era alcun bisogno di soffiare sul fuoco, e pur ammettendo che i macchinisti erano colpevoli di aver talvolta commesso aui illegali, ricorda che ugualmente colpevoli erano gli organi superiori che non avevano preso i provvedimenti necessari per eliminare il loro disagio. Inoltre sempre secondo il Ranzi i principali provvedimenti del passato tesi a migliorare la situazione, erano stati adottati proprio dopo le predette agitazioni palesi, di fatto incoraggiando nel personale il ricorso a questi mezzi contrari alla disciplina.
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Fabio Ranzi, Le agitazioni nei corpi della R. marina e la nuova legge di ordinamento del Mini-
stro Lconardi - Cattolica, Roma, Tip. Ulpiano, 11 marzo 1913.
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SEZIONE TV - Cenni sui rilievi e le proposte della Commissione d'Inchiesta per la marina (1904-1906) con particolare riguardo alle costruzioni navali
Nell'agosto 1904, quando sta scendendo in mare l'ultima classe di 4 corazzate italiane pre-Dreadnought le Vittorio Emanuele, che entreranno in servizio nel 1907-1908), il noto ingegnere navale Sigismondi pubblica sulla Rivista d 'Italia un articolo nel quale si mette in evidenza che la marina italiana dedica a nuove costruzioni solo il 20-24% del suo bilancio annuale complessivo, a fronte del 44% dell'Inghilterra, del 46% della Francia, del 47% della Germania e del 50% dell'Austria. Eccessivo anche il numero dei nostri arsenali (4 a fronte dell'unico austriaco e dei 5 inglesi, quest'ultimi corrispondenti però a un bilancio della marina inglese che è circa 7 volte il nostro). Inoltre per le artiglierie maggiori si è ancora costretti a ricorrere in esclusiva alla casa inglese Armstrong, che le fornisce a un prezzo molto elevato. Alla vigilia dell' impostazione da parte inglese della prima Dreadnought, per la nostra marina, dunque, i problemi sono più o meno quelli di sempre, anche se per affrontare delle costruzioni così impegnative e costose come quelle delle Dreadnoughts sarebbe necessaria la massima efficienza, obiettivo molto difficile da ottenere per un complesso di ragioni non solo militari. Non è però questo i I solo problema della marina: ve ne sono altri che in parecchi casi essa condivide con l' esercito, in una situazione di crisi anche morale che riguarda ambedue le Forze Armate, e risente di un contesto politico sociale non favorevole (Cfr. Tomo I, Voi. III). La loro situazione all'inizio del secolo induce l'autorità politica a nominare due Commissioni parlamentari d'inchiesta, alle quali secondo taluni il Governo del tempo attribuirebbe il compito di far emergere i principali problemi e indicare le loro possibili soluzioni, creando un clima politico più favorevole per l'aumento delle spese militari. Per quanto riguarda la marina, dopo una serie di attacchi specie da parte del deputato Enrico Ferri, con legge 27 marzo 1904 n. 139 (e con le successive leggi di proroga 1° giu1:,JJ10 1905, n. 224 e 22 dicembre 1905, n. 589) viene nominata una Commissione parlamentare d'inchiesta, alla quale sono conferiti ampi poteri d' indagine. La Commissione si occupa di tutte le branche dell' organizzazione e amministrazione della Forza Armata, con un'indagine critica che intende solo "conoscere la verità e palesarla", formulando proposte per eliminare gli inconvenienti riscontrati. Essa opera dal 1904 al 1906 e condensa i suoi lavori in tre ponderosi volumi editi nel 1906.67 Molto sinteticamente indichiamo qui di seguito i problemi ai quali la Commissione dedica particolare attenzione, che spesso riguardano le Forze Armate nel loro complesso e non sono del tutto nuovi.
67 Cfr. Commissione d 'Inchiesta per la R. Marina, Voi. I relazione generale e Voi. Il e III relazioni speciali. Roma, Tip. Naziuualc Giovanni Bcrtcro e C ., 1906.
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UFFICIALI DI VASCELLO. TI loro numero è eccessivo in rapporto alle effettive esigenze (ad esempio, 30 capitani di vascello necessari in rapporto ai 58 disponibili). Ne conseguono periodi d'imbarco troppo brevi, "insufficienti
per l'istruzione, l'educazione marinaresca e militare, e la selezione degli u:ffìciali". Si è anche costretti a considerare validi ai fini della promozione i periodi d'imbarco su navi che rimangono ferme in porto per la massima parte dell'anno o per tutto l'anno, oppure il comando di scuole torpedinieri e cannonieri collocate su navi che anch'esse non si muovono quasi mai. Pertanto, secondo la Commissione occorre aumentare il periodo d ' imbarco e il periodo d'impiego sulle navi deg]j ufficiali. lnfine, per le promozioni (stesso problema dell'esercito) occorre garantire un'adeguata e giusta selezione, assicurando però a coloro che non possono accedere agli alti gradi un trattamento economico e morale soddisfacente, [cosa tutt'altro che facile - N.d.a.]. MACCHINISTI. La Commissione indica problemi analoghi a quelli elencati dal Ranzi alcuni anni dopo. SOTTUFFlClALl E SPECIALISTI A LUNGA FERMA. La forza organica complessiva prevista è insufficiente in rapporto al numero di navi che si pensa di annare, con incidenze negative sull'addestramento e sul corretto impiego del personale e aumento delle spese di riparazione, causato anche dalla troppo breve permanenza degli equipaggi sulle navi. Occorre pertanto prevedere il miglioramento del trattamento economico di queste categorie, con aumento dei compensi pecuniari svincolato dalle promozioni: "meno galloni e più denari". Anche le pensioni devono essere aumentate, in modo da evitare il mantenimento in servizio di personale troppo anziano, incrementando il già previsto impiego civile dei sottufficiali congedati e/o affidando i lavori di contabilità a sottufficiali congedati. Occorre infine rifuggire dalla frequente tendenza al1'aumento degli organici, magari seguìto da repentine dimmuzioni. ADDESTRAMENTO ED ESERCITAZIONI. Le navi di squadra navigano troppo poco (20-27 giorni all'anno), solo nella buona stagione e sempre tra i medesimi porti. Ne consegue che il personale non è abituato a navigare con mare cattivo, e che la poca frequenza delle navigazioni ed esercitazioni "impedisce di dare a moltissimi ufficiali la soddisjàzione di esercitare il comando di una nave, che per molti ha maggior valore di un gallone in più". Per consentire agli ufficiali naviganti il giusto allenamento e facilitarne la selezione, occorrerebbe occupare con ufficiali di vascello passati al servizio sedentario la totalità o quasi degli impieghi a terra, separando la carriera sedentaria dalla navigante, assicurando agli ufficiali di vascello un migliore trattamento economico e aumentando parallelamente di età per gli ufficiali sedentari. IMPIEGO DET FONDI DISPONIBlLI. I fondi destinati a stipendi e pensioni e all'addestramento e manutenzione del materiale sono insufficienti. Quelli necessari per ripianare le deficienze in questi settori vanno recuperati con rifanne di carattere ordinativo e con l'eliminazione di navi inutili, ma soprattutto diminuendo l' organico del naviglio da guerra vero e proprio, fino ara-
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diare se necessario anche la classe di corazzate Re Umberto, Sardegna, Sicilia [invece radiata dal 1920 al 1923 - N .d.a.]. Le economie fatte nella prontezza operativa e nell'addestramento del personale non sono tali, perché impediscono la migliore utilizzazione di altre spese ben più considerevoli per il personale e il materiale. Non vi sono margini di bilancio per un ulteriore aumento del corpo R. equipaggi; tale aumento sarebbe solo una manifestazione della tendenza della marina "ad aggravare sempre più il proprio vizio organico, e cioè la sproporzione fra la potenzialità del bilancio e gli organici, vizio che la condanna all 'impotenza". Tuttavia la Commissione non esclude che possano essere richiesti limitati aumenti degli stanziamenti, soprattutto per migliorare l'addestramento: "ma una cosa essa afferma: un tale sacrijìcio, jìnché duri il presente andamento della nostra marina, non può chiedersi né deve essere concesso". Si devono prima radiare le navi inutili, si deve portare a buon punto la riforma amministrativa e contabile e quella degli arsenali, devono essere disciplinate le spese per la tras fonnazionc del materiale riducendole a quelle strettamente necessarie, devono essere trasportati ai capitoli riguardanti l'addestramento i fondi risparmiati in altri settori ecc., "e allora si potrà parlare di aumenti del bilancio, non prima". COSTRUZIONI NAVALI. La Commissione indica come exemplum in negativo proprio le travagliate vicende del la progettazione e costruzione della nave tipo Vittorio Emanuele per la quale - come già si è accennato - si è passati dalle 8000 t e dai pezzi di 203 mm come calibro massimo del progetto iniziale, alle 14.000 te all ' aggiunta di due pezzi da 305 mm ai 12 pezzi da 203 mm inizialmente previsti, in certo senso ripetendo quanto già era avvenuto per la nave tipo Acton. 1n particolare il progetto iniziale del Cuniberti - largamente di massima - non viene revisionato dall 'apposito ufficio tecnico del Ministero retto dal generale Masdea, né si chiede il parere del Consiglio Superiore di marina. La Commissione così ne ricostruisce il significativo e travagliato iter: al Consiglio sup eriore di marina fa presentato in origine [dal Cuniberti, sotto il Ministero Bettòlo - N.d.a.] il progetto di una nave di circa 8.000 tonnellate, ed esso lo esaminò una prima volta nell'adunanza del 17 luglio 1899. dichiarandosi in massima favorevole, una seconda volta nelle adunanze del 20 e 27 giugno, 3 luglio 1900, proponendo non poche mod{fìcazioni. Sopravvenne [dopo il Bettòlo] un nuovo Ministro [l'ammiraglio Morin - N.d.a.], il quale volle che la nave ideata come incrociatore avesse tutti i caratteri di una buona corazzata di prima classe, e trasmise quindi un nuovo progetto, in cui il dislocamento era diventato di tonnellate 10.560 [ ... ]. Tale progetto, presentato una prima volta al Consiglio superiore di marina il 13 luglio 1900 e da esso giudicato inaccettabile nella adunanza del 25 dello stesso mese, fu ripresentato modificato il 25 ottobre dello stesso anno. Il Consiglio superiore non fu consultato sul programma, che da tutti gli atti appare come cosa della quale il Consiglio stesso non abbia competenza a discutere.
Non finisce così: infatti gli ingegneri Masdea e Martinez, incaricati dal Consiglio Superiore di riferire sul nuovo progetto per una nave da 10.560 t, nella
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loro relazione esprimono il parere che anche con tale dislocamento maggiorato "non sia possibile ottenere una nave la quale soddisfaccia agli importanti requisiti indicati nel dispaccio ministeriale premesso al progetto e che costituiva appunto il programma". A tale conclusione si associa pienamente il Consiglio superiore, che nella riunione del 25 luglio 1900 (quando il Ministro è già il Morin) ritiene che il progetto risponda in modo incompleto al programma indicato dal Ministero, e che quindi debba essere ricompilato, aggiungendo che, qualora sia di nuovo presentato al Consiglio, "venga di nuovo corredato da tutti i documenti necessari riveduti dall 'uffi.cio competente" (cioè dall'ufficio tecnico del Ministero al momento retto dal Masdea), richiesta evidentemente motivata dalla mancanza di tali documenti nel progetto iniziale del Cuniberti. A questo punto, senza entrare in ulteriori dettagli esposti minuziosamente dalla Commissione anche nel Val. III della relazione, ve n'è abbastanza per constatare che il progetto iniziale del Cuniberti viene completamente accantonato per opera prima dell'ufficio tecnico del Ministero e poi del Consiglio Superiore di marina e del nuovo Ministro Morin, rendendo così dubbio il merito della progettazione della Vìttorio Emanuele generalmente attribuito allo stesso Cuniberti, perché la nave definitiva era indiscutibilmente un· altra nave. Dalle modifiche apportate traspare anche un radicale contrasto di idee tra lo stesso Cuniberti e il Masdea, fatto che può spiegare almeno in parte l'incarico della progettazione delle prime Dreadnoughts italiane affidato allo stesso Masdca e non al Cuniberti, così come il mancato raggiungimento da parte di quest'ultimo, della massima carica di Ispettore del genio navale alla quale aveva tutti i numeri per aspirare. Dal canto suo, per evitare gli inconvenienti, le radicali ma onerose modifiche e i disservizi che si sono verificati nel caso della nave tipo Vìttorio Emanuele, e che ne hanno ritardato l'allestimento, la Commissione ritiene necessario che: - il parere del Consiglio Superiore di marina deve essere richiesto sia sui programmi iniziali di costruzione delle navi, sia sui progetti esecutivi dejìnilivi; - quando i programmi e progetti relativi alla costruzione di nuove navi e a grandi lavori sulle navi già esistenti non sono compilati dall'ufficio tecnico del Ministero, debbono essere controllati dall'ufficio stesso; - non si devono iniziare nuove costruzioni o grandi lavori "prima che i relativi progetti [ ... ] siano giunti a un grado di maturità sufficiente per garantirli da qualsiasi modificazione proveniente dallo svolgimento del/ 'esecuzione e per assicurare che la nave compiuta risponderà esattamente ai requisiti del suo programma"; - non bisogna iniziare lavori di costruzione o riparazione senza disporre dei fondi e della mano d'opera sufficienti per condurli a termine nel più breve tempo possibile; - una volta ultimata la costruzione di una nave, essa deve essere accuratamente controllala in tutte le sue parti da persone rimaste estranee all' e-
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secuzione dei lavori (qui la Commissione cita il caso della nave Puglia costruita dall'arsenale di Taranto, che dopo l'entrata in servizio ha rivelato parecchi difetti di rilievo). CANNONI, MUNIZIONI E CORAZZE. È questo il punctum dolens della particolareggiata indagine della Commissione, che si riassume nei punti seguenti: - tendenza a favorire in misura eccessiva - con danno dello Stato - le industrie nazionali (a cominciare della Terni), anche quando i loro prezzi sono superiori e la qualità dei prodotti fomiti è inferiore; - collaudi poco accurati; - mancato rispetto delle date di consegna da parte delle ditte e abbuono da parte del Ministero delle multe pur previste dai contatti; - tendenza a favorire eccessivamente anche la ditta inglese Armstrong per i cannoni di grosso calibro; - riserve di proietti di artiglieria insufficienti. Di conseguenza la Commissione propone che: - sia istituita per la parte artiglieria una sezione dell' ufficio tecnico del Ministero già esistente; - siano sviluppate al massimo le officine di Stato nelle quali già si fabbricano artiglierie di piccolo e medio calibro, e le relative gare di appalto siano aperte anche alle industrie straniere; - nella preparazione ed esecuzione dei contratti venga assicurato "il pieno e tempestivo fanzionamento di tutti gli organi consultivi"; - siano emanate per i contratti norme tali da assicurare la loro uniformità per i cannoni dello stesso calibro e la rigida severità dei collaudi stessi, escludendo l'accettazione di qualsiasi arma "non assolutamente perfetta"; - sia richiesta l'esplicita autorizzazione del Parlamento per accordare concorsi finanziari a stabilimenti industriali [ evidente riferimento ai contributi a fondo perduto concessi alla Temi e all'impianto di uno stabilimento Armstrong a Pozzuoli - N.d.a.]; - siano iniziati e portati nel minor tempo possibile alla fase esecutiva, gli studi per l'impianto di un'acciaieria di Stato [che dunque eliminerebbe la dipendenza dalla Temi e/o da ditte straniere - N.d.a.]; - siano al più presto iniziate con ditte italiane e straniere le trattative per le forniture non ancora aggiudicate delle corazze per le navi di prossima costruzione, e nel caso che non sia possibile ottenere prezzi equi, si proceda senz'altro all'impianto di un' acciaieria di Stato, chiedendo al Parlamento i relativi stanziamenti e se necessario anche la modifica delle disposizioni vigenti in materia di brevetti. ORGANIZZAZIONE E FUNZIONAMENTO DEGLI ARSENALI. La Commissione non si associa alla diffusa opinione che gli arsenali sono troppi; ritiene invece che siano male utilizzati, perché si dimostrano all'atto pratico
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insufficienti per le esigenze di rinnovamento del naviglio, e soprattutto per la sua manutenzione. Gli inconvenienti principali che rileva sono i seguenti: - i lavori non sono programmati annualmente dal Ministro, come invece dovrebbe avvenire per consentire a ciascun arsenale di preparare per tempo quanto occorre (disegni, documentazione varia, pezzi di ricambio ecc.) per le navi che gli sono assegnate, e di preparare a ragion veduta (cosa che al momento non avviene) il fabbisogno di materiali; - gli arsenali non sono specializzati per determinate costruzioni e/o determinati lavori; - la causa principale degli inconvenienti nel loro funzionamento interno va ricercata nella confusione della funzione tecnica con quella amministrativa, e "nella prevalenza dei riscontri jòrmali a base di carte, sopra
l'azione delle iniziative e delle responsabilità personali". La lunga serie di proposte della Commissione per sanare i predetti inconvenienti comprende tra l'altro: - la compilazione da parte del Ministero di un programma generale annuale, comprendente un elenco dei lavori asscf,'Ilati a ciascun arsenale e a questi comunicato in tempo utile; - la specializzazione di ciascun arsenale per determinati tipi di lavori; - la relativa ripartizione dei fondi tra gli arsenali; - la necessità di liberare gli ufficiali tecnici dal lavoro amministrativo e contabile che al momento è di loro competenza; - la necessità che la direzione generale degli arsenali rimanga affidata a ufficiali tecnici ; - la necessità che in ciascun arsenale la contabilità sia affidata a un ufficio rag1onena; - la necessità che specialmente gli ufficiali dirigenti "abbiano la direzio-
ne e la sorveglianza effettiva del lavoro nelle officine e sulle navi in costruzione o in riparazione"; - la necessità di riordinare "radicalmente" i magazzini, suddividendoli in modo da renderne possibile la effettiva sorveglianza, assegnando a ciascun magazzino un responsabile della custodia e a lienando il numeroso materiale fuori uso che al momento ingombra gli arsenali. Non ci soffermiamo sui problemj della gestione della branca viveri, che sono analoghl a quelli che si riscontrano nell'esercito nello stesso periodo. Al momento i viveri sono acquistati e fomiti per tutta la marina da un'unica impresa vincitrice di un'asta, la cui gestione è insoddisfacente e fonte di lamentele. Per evitare gli inconvenienti emersi, la Commissione propone la gestione diretta, da parte di organi della marina, dell'acquisto e distribuzione dei viveri, molto opportunamente aggiungendo però che il sistema potrà dare buoni risultati, solo se sarà gestito da personale competente ed esperto, e se i comandanti in prima e in seconda delle navi si interesseranno attivamente del vitto dei loro equipaggi. Secondo i principali esponenti della marina del tempo eletti in Parlamento, i rilievi della Commissione non sempre sono giustificati, e specie per quan-
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to riguarda l'appropriata utilizzazione dei fondi ricevuti e le forniture di artiglieria e corazze, il deputato e Ministro Mirabello e il deputato Bettòlo alla Camera e i senatori Morin e Palumbo al Senato ne contestano validamente le conclusioni. 68 Da ricordare anche, in merito, che l'ammiraglio Bettòlo, accusato dal deputato Ferri di concussione a favore della Terni, ottiene in Tribunale la condanna di quest'ultimo. Al di là delle polemiche e delle opinabili conclusioni, non c'è però dubbio che il lavoro della Commissione per la marina, come di quella per l'esercito, si rivela una radiografia utile per indagare - come sempre si dovrebbe fare - sui retroscena e sugli angoli meno visibili di un'organizzazione complessa, nella quale quindi non possono mancare rotismi imperfetti o settori da perfezionare, in tal modo consentendo anche opportuni confronti tra i due organismi, che tuttavia rimangono notevolmente separati.69
SEZIONE V - "Dreadnought" o nave "Tutti siluri''? La polemica del Bernotti contro Mahan sull'importanza della velocità e le nuove, radicali proposte del Cuniberti contro la "Dreadnought" Pro e contro la velocità, i grossi calibri e la "Drcadnought" Come accennato in precedenza, fino a Tsushima e anche dopo il varo della Dreadnought non sono poche le tesi a favore o meno dei medi calibri e di una velocità elevata; rimane comunque sul tappeto l'orientamento più conveniente per le costruzioni delle marine secondarie. Ad esempio la rubrica "Rivista di Riviste" della Rivista Marittima del febbraio e agosto-settembre 1906 riporta le sintesi di una serie di articoli pubblicati in gran parte all'estero, nei quali si discutono le caratteristiche delle nuove navi da battaglia anche in relazione all'esperienza di Tsushima, interpretata spesso in modo opposto. In Francia l' ex-Ministro Lockroy critica il limite di 16.000 t che si vorrebbe imporre alle nuove navi da battaglia di quelJa marina, in tal modo ottenendo corazzate che non sono abbastanza veloci e incrociatori che non sono abbastanza potenti: invece occorrerebbe a suo parere un tipo unico di nave da battaglia, al tempo stesso veloce e potente. Sempre in Francia il comandante Vignot, già noto come esponente della Jeune École, sostiene navi molto veloci anche a scapito del-
.. Cli Discorsi pronunciali alla Camera da S.E. il ministro della marina vice-ammiraglio Cllrlo Mirabello e dli S.E. il vice-llmmim glio Giovanni Bettòlo; al Senato da S.E. il vice-ammiraglio Costantino Morin e da S.E. il vice-ammiraglio Gimeppe Palumbo (Allegato a Fascicolo di luglio J906 della " Rivista Marillima", pp. 1-127). 69 Sull 'operato della Commissione d' luchiesta per l'esercito sì ve<la anche F. Botti, La logistica de/l'esercito italiano, Roma, SME - Uflìcio Storico 199 I, Voi. II Parte H, e ID., Il pensiero mililllre e navale italiano ..... (Cit.), Vol. m Tomo I, sz. II e ill.
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l'armamento, perché "se i Francesi cercassero nelle artiglierie la loro superiorità, gli Inglesi a loro volta rafforzerebbero l'armamento delle loro navi, aumentandone il dislocamento". Tesi contestata dal Pierreval, secondo il quale se si decidesse di aumentare la velocità delle navi francesi anche gli Inglesi lo farebbero, annullando il vantaggio: "la superiorità di velocità come quella delle artiglierie, come tutte quelle che si riferiscono al materiale, non è che questione di denaro". Per il Pierreval la velocità non è un'arma, ma a parità di condizioni facilita l'impiego delle anni; però se messa al servizio di chi è più debole fa nascere solo la tentazione di scappare. Sulla base degli ammaestramenti di Tsushima il periodico francese Le Yacht boccia sia le corazzate lente e molto armate sia quelle veloci, ritenendo necessario costruire un tipo unico di nave da battaglia formidabilmente armato e molto protetto, mentre la velocità "sarà quella che potrà essere, i suoi pregi essendo troppo aleatori". In particolare la "sua" corazzata dovrà avere 16 cannoni da 305 e 12 da 254 mm"come è stato preferito in Giappone", più 32 cannoni di piccolo calibro per la difesa contro le torpediniere. Invece negli Stati Uniti il ben noto Mahan sulla base degli ammaestramenti di Tsushima, diversamente dall'autorevole rivista Proceedings (che vorrchbe una nave "senza compromessi", cioè potente, corazzata e veloce come la Dreadnought) afferma che a Tsushima per i Giapponesi è stato possibile il concentramento di fuoco su navi o gruppi di navi perché erano complessivamente superiori in fatto di navi corazzate (cioè in fatto di incrociatori corazzati e navi di linea), anche se inferiori per numero complessivo di navi di linea; infatti secondo Mahan "la prevalenza numerica dei Giapponesi aumentava la loro attitudine a combinarsi con vantaggio, giacché la possibilità di combinarsi cresce col numero". Tesi contrastate da un altro scrittore americano, il Fiske, secondo il quale il Mahan non tiene conto che la flessibilità (cioè l'attitudine a combinarsi) <la lui sostenuta, a Tsushima è diventata utile per i Giapponesi, solo quando la resistenza dei russi era già esaurita. In altre parole, i Giapponesi con le loro piccole forze disseminate non fecero che impedire ai russi di fuggire quando erano stati già battuti; perciò "la flessibilità si può solo ottenere sacrificando la potenza del concentramento [di fuoco] e quando si deve superare una grande resistenza, è il concentramento [di fuoco] che si richiede". Nel maggio 1906 il valore della velocità è contestato a fondo anche da uno scrittore inglese, il Black Joke, il quale dimostra anzitutto che quattro tipi di corazzate americane Idaho costano quanto tre New Hampshire, che hanno un solo miglio di velocità in più e sono stati messi in costruzione nella stessa epoca. Ciò dimostra che la velocità costa molto e deve essere compensata con notevoli sacrifici in fatto di armamento, protezione o autonomia; inoltre il vantaggio di velocità - spesso minimo - è una dote troppo aleatoria e capricciosa, "tanto che spesso accade che navi nominalmente più veloci siano battute da altre che dettero meno buoni risultati". Nel campo strategico - prosegue il Black Jokc - l'unico vantaggio della velocità è la possibilità di compiere rapidamente ogni operazione; "ma se si
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pensa quale sia il costo della velocità si arriva alla conclusione che sarebbe meglio avere navi meno veloci e più numerose, opportunamente dislocate e pronte ad ogni occasione. Così si avrebbe il.favorevole risultato di non entrare in azione con gli equipaggi stanchi e i carbonili vuoti a causa di una lunga navigazione a grande velocità". Egli poi contesta una per una le argomentazioni dei fautori della velocità, secondo i quali il vantaggio della velocità consente: a) di costringere il nemico a un'azione; b) di rifiutare un'azione; c) di scegliere le condizioni più favorevoli per combattere; d) di obbligare l'avversario ad una data manovra (sono questi i punti di vista prevalenti in quella che potremmo chiamare la scuola italiana, e in particolare negli scritti del Bemotti). Sul punto a) il Black Joke osserva che per ottenere una velocità superiore bisognerebbe ridurre il numero e la potenza delle proprie navi, mentre se si rinunciasse alla velocità si otterrebbero navi più forti e più numerose di 1h. In tal caso non ci sarebbe bisogno di imporre il combattimento e neppure di vincere, perché basterebbe lo spiegamento di una forza così superiore per evitare la guerra e/o lo scontro. D'altra parte, se dieci navi molto veloci ma meno corazzate come i tipi inglesi Duncan costringessero a combattere dieci tipi Formidable, con armamento pari, meno veloci (di un solo miglio), ma più corazzati e con maggiore autonomia, non si vede quale vantaggio avrebbero. Inoltre per costringere il nemico a combattere bisognerebbe incontrarlo in mare aperto, cosa che difficilmente avviene; né un nemico molto debole potrebbe fuggire, per abbandonare la retroguardia. Riguardo al punto b), la parte più debole con una velocità maggiore potrebbe sfuggire al combattimento, ma questo non può avvenire per la flotta inglese, che aspira al dominio del mare e dovrà ugualmente combattere anche contro forze un poco superiori [ma cosa avviene per le altre flotte più deboli, come quella italiana? - N.d.a.]. Tn quanto alla possibilità di scegliere posizioni più favorevoli (punto e), questo è vero solo in teoria e lo sarebbe anche in pratica se si avesse a disposizione metà dell' Atlantico; invece le battaglie navali avvengono di solito in acque ristrette, in punti strategici vicini alle coste, dove si incrociano le grandi linee strategiche e commerciali. Infine, sulla possibilità di obbligare il nemico a una data manovra (punto d) ottenendo così un vantaggio tattico, secondo il Black Joke si tratta di un teorema che deve essere dimostrato, non di un assioma fuori discussione. Non è comunque vero che Tsushima ha dimostrato questo, e se al momento si stanno costruendo navi molto veloci ciò significa solo che si tratta di un errore, così come è un errore anche l'imitazione da parte delle altre marine della Dreadnought. Tale imitazione fino a quel momento si è limitata alla costruzione di 1:,>Tandi navi armate e protette, ma nessuno si è mai sognato di dare a queste navi una velocità superiore a 19 miglia: "/ 'unica eccezione sono le navi italiane, che costituiscono un tipo assolutamente ibrido" [da ricordare, in merito, che la Dante Alighieri aveva velocità 23 nodi e i tipi Cesare 21,5 nodi, a fronte dei 21 nodi con 1O cannoni da 305 mm della prima Dreadnought inglese e della sue-
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cessiva classe King George V con 10 cannoni da 343 mm, però con un notevole salto di qualità della successiva classe Queen Elizabeth, con 8 cannoni da 38 l mm e 24 nodi, impostata nel 1912 - N.d.a.]. Comunque per il Black Joke l'unico svantaggio di una flotta meno veloce è quello di non poter sfuggire al combattimento una volta che è stato iniziato; ma si è visto che a parità di costi essa potrà essere la più potente, quindi in questo caso non avrà motivo di sfuggire al combattimento. Egli polemizza perciò con il comandante May, il quale aveva sostenuto che l'elevata velocità era di grande importanza per le navi da battaglia; a suo parere invece, la velocità è importante solo per il combattimento con il rostro e il siluro, ma se il cannone fosse l'arma principale, per sviluppare il massimo volume di fuoco si combatterebbe con rotte parallele se le rispettive velocità sono pari, e per cerchi concentrici se sono diverse; questo è stato confermato dalle grandi manovre inglesi del 1901 e 1903 e dalla battaglia di Tsushima. Infine il Black Joke propone una soluzione di compromesso, con una forza navale composta in prevalenza da navi con velocità ordinaria, più un reparto di navi veloci che servirebbero per trattenere il nemico se esso prendesse caccia per evitare una rotta completa. A suo parere questo probabi Imente è stato il concetto dell'ammiraglio giapponese Togo, quando ha inserito nella linea di battaglia una divisione di incrociatori. La Rivista Marittima così commenta le tesi del Black Joke: in conclusione. dal punto di vista tattico una squadra di navi da battaglia veloci non ha alcun vantaggio, secondo il Black Joke. Può costringere ad un 'azione, ma il suo nemico, di regola, non avrà bisogno di esservi costretto. Può sfuggire uno scontro, ma in questo modo non guadagnerà il dominio del mare. Può scegliere il tempo per lo scontro, ma soltanto ove il luogo e le condizioni strategiche lo consentano. Può scegliere la distanza di combattimento più conveniente; piccolo vantaggio, perché essa sarà la più conveniente anche per il nemico, adesso che tutte le navi sono più o meno ugualmente armate. Essa avrà invece dei seri svantaggi. Una nave più veloce per costare meno di un 'altra deve essere più debole, o dal punto di vista militare o da quello della costruzione. Se vuol essere ugualmente forte, dovrà costare tanto che il numero delle unità, che sarà possibile jìnanziariamente di costruire, verrà ad essere molto ridotto. E le spese di armamento e di manutenzione saranno maggiori; e l'equipaggio dovrà essere assai più numeroso. Inoltre, se si vuol riunire un 'elevata velocità con una grande potenza, come nel Dreadnought, è necessaria una tale lunghezza, e quindi una tale estensione di opera morta, da aumentare eccessivamente il bersaglio. E se l'opera morta stessa può essere diminuita, rimane la grande superficie immersa, esposta alle armi subacquee. Per il Black Juke, la tendenza a costruire grandi navi e molto veloci è in sé stessa una confessione di debolezza, perché implica di volersi ajjìdare solo al materiale per risolvere favorevolmente tutti i problemi tattici. Ciò induce anche una sfiducia nell'abilità del personale; sfiducia che non è af fatto giustificata. 10
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In "Rivista Marittima" Hl Trimestre 1906, Fascicolo VID - IX, pp. 408, 409.
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Le tesi del Black Joke presentano molte analogie con quelle di Mahan (cap. VI, sz. I), che come si è visto, anche sulla base degli ammaestramenti della battaglia di Tsushima si esprime a favore dei medi calibri, del moderato tonnellaggio e contro le alte velocità, privilegiando il numero: a suo parere, infatti, " la velocità non serve se non a evitare il nemico, il potere offensivo serve invece a schiacciarlo", mentre la velocità di una nave oltre a richiedere sacrifici per gli altri requisiti diminuisce con l'età, perché per effetto della continua legge del progresso le navi che la seguono le saranno superiori, ed essa diventerà un impaccio. Infine Mahan ritiene la velocità conveniente solo per gli incrociatori, e si dichiara contrario alla formula di compromesso rappresentata dal1'incrociatore corazzato. Nel 1907 le idee di Mahan e quelle del Black Joke sono validamente contestate dal Bernotti con un lungo articolo dal titolo Le navi tipo "Drcadnought": 71 titolo poco appropriato, perché non richiama l'attenzione sul suo argomento-chiave, che è la contestazione deUe teorie contro la velocità sviluppate dai due predetti autori anche sul la base degli ammaestramenti della battaglia di Tsushima, che sono in pratica contro la Dreadnought, perché la formula di quest'ultime navi accanto all'armamento e alla protezione intende sviluppare al massimo anche la velocità, dunque ritenuta - come nota il Bernotti - "importante sia nel campo strategico che in quello tattico". A suo avviso la Dreadnought segna un'importante evoluzione principalmente sotto due punti di vista: 1° perché implica il riconoscimento dell'importanza del combattimento a grande distanza, mentre fino al 1904 era generalmente ammesso che i grossi cannoni servissero principalmente a dare la tronata finale, e a chi sosteneva il combattimento a distanza si diceva che voleva gettare i proietti in mare; 2° mentre, come tutti sanno, l 'lng hilterra aveva fino al Dreadnought ritenuto sufficiente la velocità di 18 nodi per la nave di linea, il Memorandum explanatory ofthc prograrnme ofNew Constrnctions for 1906-1907 avverte che fa scelta la velocità di 21 nodi [per le prime Dreadnoughts inglesi], "perché oltre a conferire un vantaggio strategico, dà anche la facoltà di permettere alla nave di scegliere la distanza di combattimento".
Si tratta dunque di un punto di vista antitetico a quello del Black Joke, sostenuto dal Bemolli richiamandosi anch'egli agli ammaestramenti della battaglia di Tsushima, nella quale invece secondo Mahan l'ammiraglio Togo poteva fruire di una velocità superiore a quella dei russi (che era limitata a 12 miglia), ma anche a parità di velocità oppure con velocità inferiore, avrebbe potuto intercettare e battere i russi. TI Bcmotti ha buon gioco nel dimostrare il contrario, e in particolare che, ovviamente, "una maggiore rapidità delle mosse è in generale non soltanto
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In "Rivista Marittima" 11 Trimestre 1907, Fase. m pp. 407-436.
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una cosa desiderabile, ma molto desiderabile", e che nel caso specifico essa avrebbe potuto tradursi in un maggiore potere offensivo. È di parere opposto anche sull' utilità degli incrociatori corazzati molto veloci: è vero - egli afferma - che a Tsushima Togo ha potuto utilizzare degli incrociatori leggeri senza corazza, per acquisire mediante la radiotelegrafia (impiegata per la prima volta) delle informazioni rivelatesi vitali per conoscere con esattezza e continuità i movimenti della flotta russa, ma ciò è avvenuto ''perché il nemico adottò rispetto ad essi un 'attitudine passiva, ossia non tentò di respingere le navi che sorvegliavano i suoi movimenti'', mentre l'ammiraglio giapponese aveva interesse a far credere ai russi che lo stretto di Tsushima era debolmente presidiato, solo da naviglio leggero. In generale, però, secondo il Bernotti il mantenimento del contatto strategico e la copertura del grosso della flotta saranno talmente importanti, da indurre ambedue i contendenti - e in particolare il più debole - a stornare una parte di fondi destinati alla costruzione di corazzate per dedicarli a navi che, come gli incrociatori corazzati, banno un notevole vantaggio di velocità rispetto alle corazzate, sacrificando il meno possibile gli altri requisiti. Sempre riguardo alla battaglia di Tsushima, ricorrendo anche a elaborate dimostrazioni matematiche di dubbia utilità il Bemotti dimostra che l'ammiraglio russo Rojestwenshy aveva interesse ad arrivare a Vladivostock senza combattere: ma ciò non è stato possibile appunto per effetto della maggiore velocità dei giapponesi, mentre anche la minore velocità gli ha impedito di contromanovrare tempestivamente, quando i Giapponesi hanno tentato di ''.formare il T ' (cioè la classica manovra di tagliare la linea di fila nemica, come Nelson a Trafalgar). Di conseguenza la formazione del T avrà tanto più successo, quanto più sarà fatta con velocità elevata, rendendo così più sensibili gli effetti di una mancata o ritardata risposta nemica. Inoltre nel corso della battaglia i Giapponesi a causa della foschia hanno perso di vista i russi per un certo periodo e hanno fatto sei o sette miglia a Sud per cercarli; "quando si volsero a Nord essi erano circa dieci mig lia indietro ai Russi. Perciò. se i russi avessero avuto anche un quarto solo di velocità in più, essi sarebbero arrivati a Vladivostock un paio d 'ore prima dei loro inseguitori''. Anche per quanto riguarda il calibro delle artiglierie il Bernotti è di parere opposto rispetto ai numerosi fautori dei medi calibri anche dopo l'esperienza di Tsushima, in sostanza sostenendo la necessità di imbarcare sulle navi corazzate il nuovo calibro 305 mm, (peraltro con "limitazioni" e senza superarlo), coadiuvato da una batteria di medi calibri per la regolazione del tiro e da cannoni di piccolo calibro contro le torpediniere. Si tratta evidentemente della formula delle nuove Dreadnought che saranno impostate in Italia e altrove, tenendo però presente che la prima Dreadnought inglese era veramente ''pura", perché non imbarcava i pezzi di medio calibro, invece installati nella successiva classe King George V impostata nel 1911 , così come sulla prima Dreadnought italiana (la Dante Alighieri impostata nel giugno 1909, con XII / 305 mm e ben XX I 120 mm oltre ai cannoni da 76 e 40 mm antisiluranti).
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Il Bemotti giustifica il 305 mm in modo non del tutto convincente, affermando che "è accertato che, anche senza pe,jorazioni, una nave può essere messa fuori combattimento da sconquassamento delle parti colpite e da colpi al di sotto della linea d'acqua" e che si deve tener conto della celerità di tiro, in modo da ottenere un maggior volume di fuoco come vorrebbe anche Mahan [ma questo lo potevano fare, come già a Tsushima e nelle precedenti battaglie, anche i nuovi cannoni da 203 o 254 mm a tiro ancor più rapido - N.d.a.]. Egli è infine favorevole al concentramento di potenza su poche navi e ai conseguenti grandi dislocamenti, perché con un maggior numero di cannoni disposti su poche navi è possibile eseguire il tiro a una distanza più uniforme di quella del nemico, ottenendo così un grande vantaggio anche a prescindere dalle posizioni favorevoli che una squadra di tipi Dreadnought potrà più facilmente conseguire. A suo parere il numero poteva essere considerato un fattore di vittoria quando l'arma principale era il rostro e non il cannone: "oggi invece questo fattore consiste nell'accentramento dei cannoni, perché ciò costituisce già di per sé stesso un concentramento di forze, che altrimenti dovremmo chiedere alla manovra" [e la maggiore vulnerabilità ? - N.d.A.]. Abbiamo finora confrontato le posizioni estreme, pro o contro non tanto la velocità in sé, ma la differenza (notevole) di velocità in una battaglia decisiva a flotte riunite, non in altre circostanze. In merito va osservato che: - le circostanze che notoriamente influiscono sull'esito di una battaglia decisiva (e, nel caso specifico hanno influito su Tsusbima, dando di per sé luogo a una palese e importante inferiorità dei russi) sono tali e tante, da non consentire prese di posizione categoriche pro o contro la velocità stessa; - è indiscutibile che le caratteristiche dello stretto di Tsushima, che l 'ammiraglio russo sperava invano di superare, erano in modo evidente a favore della flotta giapponese che attendeva a piè fermo, e che anche se avesse avuto velocità pari o inferiore a quel la ( molto bassa) delle navi russe, aveva fondamentali vantaggi di posizione, di per sé tali da favorire la vittoria; - quel che più importa, va ancora sottolineato che la disputa riguarda non tanto la velocità in sé (evidentemente, più una nave è veloce meglio è), ma gli effetti di un 'importante differenza di velocità, difficile da ottenere - date le variabili che su di essa influiscono - nelle navi pre-Dreadnought delle principali flotte. Ma dopo iI deciso orientamento di tutte le flotte - già in atto - per la costruzione di Dreadnoughts (navi potenti, protette e veloci al massimo grado), tale disputa perde valore anche e specialmente per le esigenze della nostra marina, fino a rendere l'articolo del Bemotti un intelligente contributo per giustificare (a posteriori e sul piano generale) l'esistenza di questo tipo di grande nave adatto per le marine maggiori, molto più ricche e appartenenti a nazioni industrialmente molto più sviluppate, per di più con caratteristiche uniformi e tali darinunciare al vantaggio di velocità per tanto tempo sostenuto dal Bemotti e altri autori italiani per le navi pre-Dreadnought.
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Il Bernotti non specifica, però, per quali ragioni conviene anche alla marina italiana seguire la strada della concentrazione di potenza e dei grossi calibri tipica della Dreadnought, che per marine povere di risorse come quella italiana significherebbe costruire poche unità, in numero molto inferiore a quello delle marine maggiori e magari penalizzando il naviglio leggero; né egli è d'accordo sulle grosse artiglierie con calibro unico e senza calibri intermedi con solo armamento antisilurante, che caratterizzano insieme con i grandi dislocamenti, le grandi velocità e la forte corazzatura di questo nuovo tipo dinave. Egli dimostra ancor più questo orientamento nel saggio che ha ottenuto il 1° premio nel concorso indetto dal Ministero della marina avente per tema lo studio dei requisiti desiderabili e possibili della nave di linea più adatta alla marina italiana, 72 nel quale propone un modello di nave con le caratteristiche seguenti; da confrontare con quelle della prima Dreadnought inglese e della Dante Alighieri: - 16.000 t di dislocamento; - armamento VITI/305 mm in torri binate, più VITI/152 mm (1 O colpi al minuto) e XII/76 mm antisiluranti (smontabili nel combattimento tra navi di linea), con XX/lanciasiluri (come già detto il Bemotti non è favorevole a un aumento del calibro oltre il 305 mm); - velocità massima 22 mg; - 1750 t di carbone con motori a turbina; - corazzatura tipo Vittorio Emanuele, con la parte centrale della cintura corazzata ridotta da 250 a 200 mm, e all'estremità aumentata da 50 a 100 mm; - carena non protetta contro i siluri. Per la difesa contro i siluri si potrebbe aumentare lo spessore della corazza con conseguente aumento del dislocamento, oppure aumentare la larghezza del bastimento con conseguente perdita di velocità, o infine trovare una struttura più resistente da sostituire al doppio fondo in uso al momento (quest'ultima secondo il Bemotti è la soluzione scelta dal Cuniberti, che dice di aver risolto il problema sul Fighting Ships inglese del 1906-1907); - abbandono del rostro, perché la probabilità di urto e di combattimento a distanza ravvicinata è scarsa. Si tratta di caratteristiche sensibilmente diverse specie da quelle delle prime Dreadnoughts italiane, specie per quanto attiene al numero di cannoni di grosso calibro, al risalto dato a cannoni di un medio calibro importante (il 152 mm, che si trova solo sulle Queen Elizabeth inglesi, mentre le nostre prime Dreadnoughts non superano il 120 mm), alla corazzatura, al dislocamento ecc., sì che la soluzione del Bemotti equivale, in sostanza, a una Vittorio Emanuele con maggior numero di calibri da 305 mm e con sostituzione del 203 mm con il 152 mm, conservando più o meno la stessa velocità e corazzatura, con l' im-
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Supplemento a '"Rivista Marittima" TJ Trimestre 1908, Fascicolo V-VI, pp. 1-55.
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portante innovazione del motore a turbina. Indovinata invece l'abolizione del rostro, che si trova ancora sulla Vittorio Emanuele e sulla Dante Alighieri, ma non più sulla classe Giulio Cesare. Da notare, infine, che dopo l'esperienza del la grande guerra il Bernotti modifica notevolmente le sue idee,73 annacquando la sua fede nella grande nave cannoniera messa in crisi dal sommergibile e dai "mezzi insidiosi", accennando alla nave (per il momento) porta-idrovolanti e riconoscendo che la velocità rimane importante, ma non è più il requisito primario delle corazzate, mentre i tipi di "nave assoluta" (così li chiama il Bonamico, da lui esplicitamente citato) "non possono oggi essere ritenuti soddi,r,facenti se non da qualche Nazione privilegiata, perché non rappresentano in nessun caso una riduzione, bensì un aumento di tonnellaggio rispetto ai tipi di nave già costruiti". Anche questa volta le tesi del Bernotti corrispondono agli orientamenti ufficiali del Ministro Sechi (1919-1921) che subito dopo la prima guerra mondiale nonostante le proteste in Parlamento di una parte degli ufficiali di marina ivi eletti, prima di tutto per carenza di fondi ha scelto di non proseguire la costruzione delle 4 Dreadnoughts con pezzi da 381 mm impostate durante la guerra, da lui ritenute peraltro non idonee, per debolezza di corazzatura degli scafi, anche a far fronte alla nuova, temutissima minaccia del sommergibile. Accanto a quelle del Bemotti è interessante notare le altre opinioni del Cuniberti, che in un articolo del 1906 sulle Costruzioni navali moderne74 accenna a un metodo proposto dall'ingegnere navale americano Gillmor per determinare l'efficienza delle corazzate delle varie marine, basato sul paragone tra ciascun tipo di nave e una nave - campione, prendendo in considerazione i pesi richiesti "per ognuna delle tre principali caratteristiche di una nave da guerra, e cioè l'artiglieria, la corazza e il raggio d'azione (stranamente il Cuniberti non nota l'omissione del peso della macchina, e di conseguenza lo studio della velocità che cresce proporzionalmente al peso della stessa macchina). Inoltre tale nave - campione "è la più grande fra tutte, cioè è quella avente le peggiori artiglierie, la più sottile e mal distribuita corazza, la velocità e il raggio d'azione più limitato". Pur criticando - a ragione - questa impostazione del Gillmor, il Cuniberti si compiace dell' assegnazione del primo posto nella classifica dell'efficienza alla Vittorio Emanuele (da lui progettata) sia nel 1901 che nel 1905, cioè considerando le navi in progetto o in costruzione quattro anni dopo il 1901 e sempre precedendo le navi inglesi, tedesche, francesi, americane ecc. Al tempo stesso, riferendosi al nuovo tipo Dreadnought egli ricorda le sue idee da cinque anni prima (1903) nelle quali compare il vero ruolo del nuovo tipo di nave, che ave-
73 Romeo Bernotti, Le navi di domani, in "Rivista Marittima" luglio-agosto 1920, pp. 5-32. Per un maggiore approfondimento degli insegnamenti della prima guerra mondiale secondo il Bemotti, si veda anche Ferruccio Bolli, La gr,erra marillima e aerea secondo Romeo Bernotti (Cit.). 74 ln "Rivista Marittima" I Trimestre 1906, Fascicolo T, pp. 5-1 R.
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va proposto nel 1903 - questo non sarà mai sottolineato abbastanza - per le esigenze della marina inglese. In particolare nel citato articolo del 190 I scrive: taluno ritiene che i tipi si andranno specializzando o meglio nazionalizzando, poiché mai come ora è stato possibile riunire in scafi medi tanta potenzialità, per l 'alleggerimento delle artiglierie, delle corazze e delle caldaie; invece da tre delle principali marine [cioè le marine inglese, americana e francese N.d.a.] si segue un indirizzo opposto, ma invero più facile, consistente nell'aumentare le uova ingrandendo però il paniere [cioè nell'aumento della potenza di fuoco e quindi del dislocamento - N.d.a.]. Può darsi che, invece di continuare questo inverosimile ingrandimento Mister Watts dia un 'impronta personale e specialmente nazionale ad un nuovo tipo di corazzata, che ben corrisponda, senza gli ultimi tentennamenti, ai complessi obiettivi britannici, ed allora invece del Vittorio Emanuele italiano potremo opporvi un nuovo Edward inglese, che, secondo le nostre idee, integri meglio i vari bisogni del1'Inghilterra, e possa più omogeneamente riunirsi agli altri tipi esteri nei futuri paralleli tra corazzate.
A queste significative parole del 1901 , nel 1906 aggiunge che "quel tipo che ci riservavamo di proporre per la marina inglese lo abbiamo concretato nel 1903, e le sue caratteristiche furono pubblicate nel FT Jane's 'Fightiogs ships' di quell'anno. Esso era armato di 12 cannoni da 12 pollici e di numerosi pezzi minori contro le torpediniere". Si tratta evidentemente della prima Dreadnought inglese, poi costruita con 1Opezzi da 305 mm e 23 da 76 mm antisiluranti, senza calibri intermedi: invece il Cuniberti l'avrebbe voluta con 12 pezzi da 305 mm e 12 di calibro minore. Egli conclude perciò osservando che, anziché il Vittorio Emanuele, il Gillmor avrebbe dovuto paragonare alle altre navi i I modello Dreadnought da lui proposto tre anni prima, "i cui piani sono tenuti per ora tanto segreti dalla marina inglese", fino a far supporre che essa "non sia aliena dall'accogliere" i suoi concetti di tre anni prima, come invece - sempre secondo il Cuniberti - ha fatto la Commissione del bilancio francese del 1906 nella sua relazione, adottando per il Dreadnought dieci o dodici pezzi da 305, senza prevedere un calibro intermedio tra il massimo e il minimo antisilurante. Nessun accenno del Cuniberti all'accoglimento o meno delle sue idee in Italia. Questo potrebbe significare sia che non è entusiasta della costruzione anche in Italia di una nave da lui chiaramente pensata solo per la grande marina dominante che deve mantenere il dominio mondiale dei mari, sia che, per qualche ragione difficile da individuare, non si intende affidargli la progettazione delle nostre Dreadnought, per la quale era evidentemente il più adatto (la progettazione della Dante Alighieri e della successiva classe Giulio Cesare venne come già detto affidata al Masdea, cioè al suo rivale). In generale, la storiografia navale italiana si limita a ricordare il Cuniberti solo come padre della Dreadnought, considerando comunque la sua attività di studio e ricerca come esaurita con tale "progetto" (che poi non è propriamen-
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te tale perché egli ha scritto - non in Italia - solo un articolo con indicazioni necessariamente di larga massima). Il predetto giudizio non è esatto, perché con l'articolo del 1913 "Tutti siluri" sull'autorevole Rivista Marittima 75 egli dimostra di non credere né all'aumento del calibro delle artiglierie e del dislocamento già in atto nelle marine maggiori e anche in Italia, né all'introduzione dei medi calibri sulle nuove corazzate ventilata dal Bemotti.76 Inoltre non prevede la lunga vita dell'ambiziosa formula (valida fino alla 2a guerra mondiale anche nelle marine secondarie, come allora rimaneva quella italiana), né tiene conto della nascita del nuovo pericolo aereo, principale nemico delle corazzate; è invece preoccupato per l'efficacia del siluro. Inoltre dopo tante discussioni, a suo discutibile avviso la battaglia di Tsushima "a dispetto dei difensori del medio calibro segnò il trionfo del nuovo tipo di nave a calibro unico", mentre prima "esisteva un così perfetto equilibrio fra l 'ojjèsa dei calibri medi con pochi da 305 mm (12 pollici) e la difesa con corazze sottili molto estese e corazze grosse nelle parti più vitali, che vi era da presumere un grande spreco di munizioni prima di ottenere in una battaglia la decisiva vittoria fra le due parti". Sembra, dunque, che anche per il Cuniberti sia stata la battaglia di Tsushima a provocare la svolta verso il calibro unico: ma noi come detto prima riteniamo che ciò non risponda a verità, per diverse ragioni: a) è stato lui stesso a proporre già nel 1903, solo per la ma,ina inglese, la soluzione a calibro unico: perché ora generalizza, senza spiegare la corsa ai grossi calibri maggiori del 305 mm, ai grandi dislocamenti e anche ai calibri intermedi che già era iniziata prima di Tsushima? b) a Tsushima i russi erano superiori per grossi calibri. li ruolo dei medi calibri giapponesi in questa battaglia è indiscutibile, anche se - come per i calibri maggiori - bisogna tener conto dei gravi fattori di debolezza della flotta russa; c) tra il giorno della battaglia (27 maggio 1905) e l'impostazione della Dreadnought (2 ottobre 1905) corrono poco più di 4 mesi, tempo insufficiente per progettare e impostare una nave, che per di più segna una svolta rivoluzionaria.77 Si deve inoltre sottolineare che lo stesso Cuniberti, non dà affatto per scontato che la svolta nelle costruzioni inglesi sia dovuta alla sua proposta, per il momento - a quanto egli stesso afferma - pienamente accolta solo dalla marina francese. Per giunta, proprio lui nel citato articolo del 1913 sostiene che anche la Dreadnought per effetto del crescente pericolo del siluro è ormai al tramonto, dando cosi veste concreta ai provvedimenti per far fronte alla nuova arma, le cui possibilità crescenti sono state intraviste proprio dal Saint Bon esat-
" In "Rivista Marittima" II Trimestre 1913, Fascicolo V pp. 199-203. 76 La classe di corazzate inglesi King George V. impostata nel 1911, era armata con X/343 mm, XVI/102 mm e II/76 mm antiaerei, con dislocamento di ben 25000 t. 77 Si vedano, in merito, le significative notizie date dalla "Rivista Marittima" sui lavori alla nuova grande nave, iniziati già nel I 905 (I Trimestre 1906, Fase. TTT pp. 534-536; II Trimestre 1906, Fase. VI pp. 572-573; TII Trimestre 1906, Fase. Vll pp. 99-100).
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tamente quarant'anni prima (Cfr. cap. Vlll, sz. III). Lo dimostrano le parole dell'articolo del 1913 che seguono: [dopo il trionfo della Dreadnought] noi ci troviamo ora in una condizione analoga a quella di dieci anni addietro. L'equilibrio fra offesa e difesa si va giornalmente più conquistando, ricorrendo a enormi dislocamenti, proporzionali all'aumento di corazza necessario per.far fronte a/l'eccesso di potenza dei nuovi cannoni [ ... ]. Per evitare molti altri jènomeni relativi agli enormi tonnellaggi si ridurranno da 12 a 10 o ad 8 i cannoni, pur aumentandone il calibro [è la tendenza che rimane in atto fino alla seconda guerrn mondiale compresa - N.d.a.]. .. noi ci avviciniamo al momento decennale del cambiamento della moda navale [ ... ]. Questo è il momento buono per il siluro, che ha fatto nel decennio tanti progressi, da ajjèrmare la sua superiorità offensiva sulla scarsa difesa delle carene dei Dreadnought.
Fino a quel momento - prosegue il Cuniberti, il siluro ha avuto a disposizione tre "affusti'', cioè la torpediniera, il cacciatorpediniere e i sottomarini. Si tratta però di mezzi non soddisfacenti sia a causa della loro troppo ridotta capacità difensiva, sia per la mancanza di una sufficiente corazzatura, sia per la tendenza all'aumento delle loro dimensioni che li rende troppo visibili. Si deve anche tenere conto che forse il sottomarino o il sommergibile potrà avere un avvenire meno stentato dell'attuale, se si realizzerà un accumulatore più leggero o se si inventerà qualcun nuovo motore che non richieda scarico di gas, come appunto è l'attuale elettrico che però offre così limitato raggio d'azione e velocità. Ma se uno scarico continuo [dei gas in superficie J segnerà alla superficie la rotta del sottomarino, le navi dotate di 22 a 28 nodi di velocità potranno sempre evitare le offese di un battello costretto a camminare lentamente a 8 o 1O miglia come l'attuale [quest'ultima èuna previsione rivelatasi poi errata - N.d.a.].
Per evitare questi inconvenienti, assicurando però una buona efficacia al lancio dei siluri, il Cuniberti propone un tipo di nave ibrida, che prenda dalla torpediniera la velocità e dal sottomarino la protezione acquea. Nel concreto: - carena corazzata e ricurva, tutta immersa; - due torri corazzate a prora e poppa, nelle quali trovano posto i fumaioli, le prese d'aria ecc.; - speciali accorgimenti costruttivi per ridurre il beccheggio e la resistenza al moto della nave; - dislocamento 11.000 t e velocità oltre 25 nodi; - armamento: 18 lanciasiluri (installati a prora, a poppa e al centro della carena), più XVI/152 mm (otto per ognuna delle due torri) destinati a tener lontani i cacciatorpediniere, "unici pericolosi awersari che potrebbero silurarla", mentre questa nave non avrebbe nulla da temere dalle piccole e grandi artiglierie della Dreadnought. Comunque bisogna riconoscere che la marina italiana del tempo si pone almeno il problema della coIIvt:ait:nza ùi costruire o meno Dreadnought, come
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ad esempio risulta dalle precedenti dichiarazioni alla Camera (tornata del 15 giugno 1910) del Ministro ammiraglio Leonardi Cattolica: io penso che prima di mettere allo studio i progetti delle nuove navi destinate a sostituire quelle che si devono man mano eliminare, sia indispensabile meditare se convenga fare una sosta od anche continuare nella via delle grandi costruzioni, che presentano difficoltà di ordine finanziario, tecnico e di altra natura, oppure se non sia possibile conseguire una grande potenzialità offensiva con altro tipo di nave; poiché se è vero che grandi progressi si sono ottenuti nella offesa, nella protezione contro le artiglierie e nella velocità, è pur vero che non corrispondenti sono quelli conseguiti nella protezione contro le armi subacquee, le quali vanno continuamente perfezionandosi e che per i loro effetti disastrosi costituiscono sempre più la grave minaccia alla esistenza dei colossi. 78
L'ultima parte del discorso dell'ammiraglio coincide evidentemente con la situazione descritta dal Cuniberti nel citato articolo di tre anni dopo, articolo del resto pubblicato quando il Leonardi Cattolica era (ancora per poco) Ministro. Sull'altro piatto della bilancia, va considerato che la Dante AliKhieri (nostra prima Dreadnought) era stata impostata il 6 giugno 1909 (quando era Ministro l'ammiraglio Mirabello) e che, vedi caso, qualche giorno dopo le dichiarazioni del Leonardi Cattolica (il 24 giugno 1910) si era cominciato a impostare le 5 unità corazzate della classe Cesare. Fino all'inizio della guerra non tùrono impostate nuove corazzate italiane, mentre la classe Caracciolo, impostata guerra durante, come si è detto, non sarebbe mai stata ultimata. l dubbi del Ministro, quindi, se mai valgono per le costruzioni del tempo di guerra e degli anni Venti. La fine della grande nave corazzata a metà secolo XX sarà principalmente dovuta alla prevalenza dell'offesa sulla difesa dovuta al siluro, nonostante l'aumento della corazzatura dello scafo e dei vari mezzi di difesa. Avere, nella sostanza, intravisto questo ancor prima della guerra 1914-1918, è un grande merito del Cuniberti, insieme con la percezione dell'importanza dello schnorchel e del motore elettrico, peraltro suscettibile di sviluppo. Certo, la formula da lui suggerita è di molto dubbia realizzazione, e comunque non risulta mai sperimentata: ma ciò non giustifica il totale disinteresse per la filosofia di base che l'ha suggerita, che avrebbe meritato maggiore attenzione almeno nelle marine secondarie, per le quali la riduzione dell'inevitabile inferiorità numerica rispetto alle marine maggiori era un'esigenza primaria. Con la nave "tutti siluri'', il Cuniberti non cessa però di sorprendere: dopo la nave semisommersa anti-Dreadnought, da lui proposta a distanza di dieci anni dalla nascita della Dreadnought, in un articolo del 1912 pubblicato anch'esso in Inghilterra sulla rivistaJane sFighting Ships, con dubbia coerenza tratta del-
-,. Allegato a ..Rivista Marittima" li Trimestre 1910, fascicolo VI p. 7.
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la nave da battaglia del futuro (Superdreadnought), prevedendo caratteristiche analoghe a quelle dei tipi Nelson inglesi del 1927 e delle nuove corazzate americane, inglesi e giapponesi della seconda guerra mondiale (artiglierie principali da 406 mm, corazza con spessore di 450 mm e velocità 25 miglia/ora).79 Anche alla luce di quest'ultime, inaspettate perjòrmances, il Cuniberti può essere definito un ingegnere navale dalla mente eccezionahnente feconda e aperta, che ha il pregio di non ritenere nessuna soluzione - a cominciare dalla Dreadnought - come immutabile, definitiva e di valore assoluto, dimostrandosi capace di progettare tutto e il contrario di tutto, con un solo forte limite: il disinteresse - non si sa se voluto o meno - per le specifiche esigenze italiane. Solo in Inghilterra, ad esempio, poteva essere proposta una nave tipo Superdreadnought. Con quest'ultimi articoli sembra quasi che voglia affondare metaforicamente, in tutti i modi possibili, le Dreadnought italiane al momento progettate da altri ...
Torpediniera o sommergibile? Presente e futuro dei due mezzi secondo !?li opposti pareri del Laurenti e del Sechi Senza esserne entusiasta e/o prevederne il rapido sviluppo che avrebbe avuto, nel predetto articolo "Tutti siluri" il Cuniberti accenna anche al sommergibile nel quale si crede molto - c forse anche troppo - soprattutto in Francia et pour cause, cioè come mezzo per neutralizzare la non altrimenti eliminabile superiorità inglese sui mari: ma a parte il Cuniberti, come viene visto in Italia il nuovo strumento bellico, e che cosa si fa per seguirne il rapido sviluppo?80 Nel 1892 viene impostato a La Spezia il sommergibile sperimentale Delfino progettato dallo stesso direttore dell'arsenale colonnello del genio navale Pullino, che entra in servizio nel 1896. È disarmato, con velocità 1O nodi in superficie, dislocamento 98-108 t, motore a benzina in superficie (installato successivamente) e motore elettrico in immersione. Viene invece acquistato in Germania l'Atropo entrato in servizio nel 1913, con motori diesel ed elettrici, 315 t di dislocamento, velocità 14 nodi (8 in immersione), 2 lanciasiluri, autonomia 2300 mg in superficie e 70 mg in immersione. Al Delfino seguono i 5 sommergibili della classe Glauco, impostatati nell'arsenale di Venezia dal 1903 al 1905, progettati dall' ingegner Laurenli ed entrati in servizio nel 1905-1909 con motori a benzina ed elettrici, velocità 13-6,5 nodi, dislocamento 160-243 t, 2 lanciasiluri, autonomia 220-45 mg. Alcuni sommergibili sono acquistati all'estero; sono progettati e costruiti in Italia da cantieri privati gli 8 sommergibili
79 Vittorio Emilio Cuniberti, The battleship ofthefuture: invulnerable, in "Jane's Fighting Ships" 1912, pp. 544 e seguenti. Anche a questo articolo fa riferimento la citata biografia del Cuniberti sul ..Dizionario biografico degli Italiani". 80 Continuinmo o riferirci, in merito, Gino Galuppini, Guida alle navi d 'Italia (Cit.), pp. 133-143.
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classe Medusa entrati in servizio nel 1812, con motori diesel (i primi in Italia) ed elettrici, velocità 12,5-8,2 nodi, dislocamento 250-305 t, 2 lanciasiluri, autonomia 1200-54 nodi. La successiva classe Nautilus (progettata dal maggiore del genio navale Bernardis) entra in servizio nel 1913 con caratteristiche non molto dissimili; lo stesso si può dire dei due Pullino, che entrano in servizio anch'essi nel I 913. Seguono altri sommergibili che entrano in servizio nel 19151916, alcuni dei quali hanno dislocamento e autonomia anche più ridotti e altri cominciano ad essere armati con cannoni da 76 mm, cioè con il normale calibro antitorpediniere installato anche sulle navi maggiori. Tutti i predetti tipi di sommergibili hanno evidentemente caratteristiche idonee solo all'impiego costiero; durante la guerra sono però impostati e costruiti anche 4 sommergibili definiti "di media crociera" (classe Barbarigo), con velocità non molto superiore ma maggiore autonomia (mg 2100 in immersione e mg 100 in immersione), dislocamento 762-924 t, armamento 11/76 mm e 6 lanciasiluri. Infine entra in servizio nel 19 t 8-19 t 9 anche la classe di 6 sommergibili tipo Micca costruita dall'arsenale della Spezia e definita "da grande crociera", perché dotata di sistemazioni che consentono lunga permanenza in mare, con velocit.à 14-11 mg, autonomia 2100-180 mg, dislocamento 842-1244 t, armamento II/76 mm e 6 lanciasiluri. Nel complesso non si può dire che lo sviluppo del nuovo mezzo bellico sia stato trascurato dalla marina italiana fino al 1915, anche se ne è previsto un impiego in prevalenza costiero e contro navi da guerra. Lo dimostra un articolo del 1900 dell'ingegner Laurenti progettista della classe Glauco,81 che sull'impiego bellico del sommergibile già accenna a molte cose, intravedendone nitidamente l'avvenire, naturalmente previo superamento delle non lievi difficoltà tecniche ancora esistenti. Al momento - egli constata - "si seguita a presentare la guerra di squadra come l'unico obiettivo di una marina militare negando l'utilità dei sottomarini, e riproducendo contro di essi gli stessi argomenti in voga quindici anni fa contro le torpediniere", che invece al momento tutti giudicano un 'anna potente e indispensabile. Tn Germania e in Inghilterra- egli prosegue - si è interessati a sviluppare una grande flotta, quindi non si ritiene necessario perfezionare questi mezzi; invece in Francia (Jeune École) e negli Stati Uniti, si crede molto nelle loro possibilità, mentre anche in Italia "la questione principia a risvegliarsi''. A questo punto, come già in precedenza l' Armstrong (produttore di cannoni) e altri, il Laurenti afferma che nella lotta tra corazza e cannone sta prevalendo il cannone, quindi "per trovare rimedio alla impossibilità di aumentare la resistenza del bersaglio converrà diminuire l'estensione della corazza, per giungere infine anche alla sua scomparsa". L'unico modo di lottare contro il cannone consiste perciò nell' ottenere "una parziale sommergibilità delle
81 Cesare Laurenti, La navigazione subacquea a scopo di guerra, in "Rivista Marittima" 11 Trimestre I 900, fascicolo Ili pp. 379 406.
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navi'', che andrà sempre più aumentando fino ad arrivare a "temporanee permanenze subacquee"; in tal modo "il cannone sarà divenuto un 'arma pressoché inutile, e il siluro prenderà il suo posto" [si notino le affinità con il già citato articolo del Cuniberti - N .d.a. ]. E poiché sia le torpediniere che i destroyers tendono ad aumentare ambedue il loro dislocamento perdendo in tal modo il requisito fondamentale dell'invisibilità, la torpediniera si evolverà in: - torpediniera sommergibile, da utilizzare per la difesa costiera; - destroyer, che diventerà "una vera e propria nave d 'altura utilizzabile per la sua elevata velocità, ma pressoché indifesa". Sempre secondo il Laurenti, le normali torpediniere potranno operare con successo solo di notte, quando sono difficilmente visibili; invece i sommergibili -date le loro deficienze specie per il lancio di siluri contro bersaglio in movimento - potranno essere impiegati solo di giorno e per la difesa costiera. Egli ricorda inoltre che la soluzione completa di questo problema è ormai stata tentata dalla marina francese nel 1898 con i riusciti esperimenti del Narva/ e dello Zédé e confermata negli Stati Uniti nel 1899 con gli esperimenti del I' Holland, compiuti alla presenza del Naval Strategy Board (del quale faceva parte anche l'allora comandante Mahan). Dopo tali esperimenti, l'ingegnere capo della U.S. Navy Lowe ha compilato un rapporto nel quale si afferma che lo sviluppo dei sottomarini è già tanto avanzato che: a) qualunque cosa possa fare una torpediniera, una torpediniera sottomarina [o meglio sommergibile - N.d.a.] può.fare lu stesso e di più; b) non dimenticando il proiettile ricevuto sott'acqua dal Kearsage, nondimeno si può dire che un sottomarino può salvarsi dall'artiglieria al disopra dell'acqua; e) un sottomarino può in ogni tempo. di giorno e di notte, mettere in atto un attacco concepito ad una conveniente velocità; d) esso può minare e controminare, senza impedimento; e) può, in ogni tempo, entrare in un porto per ricognizione; f) il solo fatto della sua esistenza e presenza darehhe molto pensiero agli avversari; g) finché non si scoprirà di meglio, i sottomarini [meg lio dire i sommergibili - N.d.a.] saranno in una guerra formidabilissimi, e creeranno una rivoluzione nella tattica navale come ai tempi del Monitor [inteso come precursore, nel 1862, della corazzata- N.d.a.]; h) non si può dire che l 'Holland sia un mode/Lo perfetto della specie, ma nessun sottomarino finora costruito ha raggiunto la perfezione, e l 'Holland merita [comunque] considerazione da parte delNavy Department.
A queste previsioni, che già si avvicinano a quello che diventerà il sommergibile nel 1914-1918, il Laurenti si associa completamente, aggiungendo che i risultati raggiunti col Delfino sono identici a quelli ottenuti con lo Zédé e I' Holland, e dichiarandosi fiducioso che la scienza e la meccanica moderna sapranno completamente eliminare le difficoltà rimaste da superare, sulla base del programma così stabilito dall' Anuniraglio degli Stati Uniti fin dal 1886:
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- requisiti fondamentali del battello: velocità, stabilità, invisibilità, protezione dal fuoco nemico, visibilità continua o a intervalli ravvicinati, considerando tre posizioni fondamentali: a) navigazione su superficie come nave ordinaria; b) navigazione a fior d'acqua, quasi nascosta ma conservando la visibilità; c) navigazione in immersione, invisibile ma senza poter vedere; - velocità: 15 nodi in superficie, 12 a fior d'acqua, 8 in immersione; - autonomia: 30 ore a velocità massima in superficie, 2 ore in immersione; - capacità di manovra: affondamento in 30 secondi dalla posizione a fior d'acqua; - possibilità di mantenersi a una profondità costante da fermo; - resistenza dello scafo fino a 45 m di profondità; - potere offensivo: capacità di lanciare contro nave in moto dei siluri con testata di 50 kg di esplosivo_ 11 Laurenti esamina successivamente nel dettaglio questi requisiti, sottolineando che per il movimento in immersione occorrono motori elettrici e per il movimento in superficie motori a combustibile liquido come già proposto dal Cuniberti, mentre per il lancio dei siluri si potrebbero adottare i tubi di lancio subacquei già in uso sulle navi di superficie_ Per quanto attiene alla visibilità, quando il sommergibile intende immergersi può utilizzare un periscopio che sporge dalla superficie di 20-30 cm, ricordando anche che "l'apparecchio a cannocchiale costruito dal 1891 su nostre indicazioni dalla Salmoiraghi di Milano ha dato ottimi risultati sul Delfino", perciò a suo avviso è senza fondamento l'accusa di cecità che ne ostacolerebbe l'impiego bellico_ Con queste idee il Laurenti svaluta nettamente la normale torpediniera; è perciò prevedibile il diverso parere di un vecchio comandante di torpediniere e pregevole scrittore come il ben noto tenente di vascello Sechi, il quale in una lettera alla Rivista Marittima dello stesso anno 190082 obietta che nell'articolo prima esaminato: - non sono state ben valutate le difficoltà esistenti per il lancio contro bersaglio in moto, tanto che lo stesso Laurenti propone un impiego solo costiero per il nuovo mezzo; tale impiego limitato alle coste è peraltro in contraddizione con l'affermazione del Lowe - pienamente condivisa dallo stesso Laurenti - che un sommergibile può in ogni caso fare di più di una torpediniera; in realtà, diversamente dal sommergibile la torpediniera può operare anche "a ragionevole distanza" dalla costa, e la sua principale missione di guerra è di attaccare col siluro un bersaglio in moto, cosa che il sommergi bi le non può tentare con ragionevoli possibilità di successo. Senza contare che la torpediniera può svolgere anche altri compiti di carattere strategico e logistico, per i quali il sommergibile è assai meno adatto a cau-
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In " Rivista Marittima" Ili Trimestre 1900, Fascicolo ll-lll pp. 277-282.
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sa della sua scarsa velocità e autonomia e della deficiente abitabilità; - non è condivisibile la previsione che il cannone diventerà pressoché inutile, mentre il siluro resterà l'unica arma navale. Anche se non possono fornire una protezione assoluta, sarà sempre possibile aumentare la resistenza delle corazze, mentre anche il calibro del cannone non può superare certi limiti. Comunque, per l'impiego contro le coste esso è indispensabile; - il destroyer ha il compito di distruggere le torpediniere, quindi non è giusto includerlo nella stessa classe delle torpediniere; - non è vero che anche nell'azione notturna le torpediniere sarebbero scoperte e affondate. Nel dibattito sull'argomento ospitato dalla Rivista Marittima diversi autorevoli scrittori hanno sostenuto l'efficacia dell ' attacco torpediniera anche di giorno, mentre tutti sono stati concordi sulle buone chances dell'attacco notturno; - sia per la loro bassa velocità che per la maggiore probabilità di collisioni, i sommergibili non possono navigare in appoggio di altre navi, come invece può fare la torpediniera. Inoltre per la loro bassa velocità non possono attaccare navi in movimento, quando l'angolo delle rotte è ottuso; - la visibilità in immersione dell'interno del sommergibile tramite periscopio è difficoltosa; - per tutti questi limiti, "allo stato attuale delle cose, e per molto tempo ancora", il sommergibile può essere impiegato solo con il compito "assai modesto" di batteria semovente di lancio dei siluri per la difesa dei porti. A questa autentica stroncatura del Sechi il Laurenti replica prontamente,83 obiettando che: - da tutto quanto ha scritto risulta chiaro che "almeno per ora" il sommergibile può essere usato solo per la difesa delle coste; - il probrresso vero delle artiglierie non consiste nell'aumento del calibro, ma nell'adozione di esplosivi più potenti, che a parità di calibro conferiscono ai proietti un'energia cinetica sempre maggiore; - fino a quel momento il cannone sta prevalendo sulla corazza; per giunta, date le molteplici esigenze di una moderna nave da battaglia, la parte dell'esponente di carico da destinare alla corazza si va sempre più riducendo. Pertanto a meno di ricorrere a dislocamenti eccessivi [come in pratica verrà fatto con le nuove navi da battaglia - N.d.a.] o di sacrificare altri requisiti della nave, la parte da riservare alla corazza per far fronte all'aumentata potenza delle artiglierie si verrà sempre più restringendo, quindi l'unico modo per proteggere le parti della nave non corazzate rimane quello della parziale immersione della nave; - nelle operazioni di blocco e di bombardamento delle coste le navi quasi sempre non potranno sviluppare tutta la loro velocità, in tal modo creando condizioni favorevoli per l'attacco dei sommergibili, mentre invece
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In "Rivista Marittima" IV Trimestre 1900, Fascicolo I pp. 1I 4-11 6.
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sarà tutt'altro che facile impiegare le torpediniere contro navi operanti di giorno, oppure - se di notte, come nel blocco - esercitanti un' estrema sorveglianza neJle acque adiacenti; - circa le difficoltà per il puntamento nel lancio di siluri con i sommergibili, l'esperienza dimostra che più degli strumenti vale l'addestramento del personale; così come, sempre dall' esperienza pratica si deduce che sia dai vetri della torre di comando (che sono muniti di spazzole) sia con il periscopio, la visibilità è soddisfacente_ In conclusione, il Laurenti ritiene - al contrario del Sechi - che "la superiorità incontestabile della torpediniera sommergibile sta nell'impiego che può farsene di giorno, e nella nuova tattica che ne deriverà"_ Sempre diversamente da quanto ne pensa il Sechi, tale nuova tattica sarà diversa da quella delJe normali torpediniere, perché il siluro come arma a corta distanza potrà dare buoni risultati solo se impiegato di sorpresa_ Per tale tipo di azione i sommergibili proprio perché impiegati nella difesa costiera sono più adatti deJle torpediniere, che pur essendo molto veloci potranno meno facilmente realizzarla negli attacchi in mare libero. Dopo aver constatato che le ristrettezze di bilancio consentono alla nostra marina da guerra di svolgere solo un compito difensivo, il Laurenti auspica perciò che come già avviene in Francia "la questione dei sommergibili entri da noi nel campo della pratica", dando loro il compito della difesa delle coste non altrimenti difendibili, e facendoli in tal modo temere come se fossero potentinavi da battaglia. In un successivo articolo del 1901 a sfondo storico84 il Laurenti constata che, diversamente da quanto è avvenuto per la navigazione aerea, per la navigazione subacquea gli studi e le esperienze lasciate in eredità dal XIX secolo sono stati tali, che "la soluzione completa del problema è sul punto di essere raggiunta". Non aggiunge nulla di nuovo all'articolo dell' anno precedente, né ci sarebbe alcunché da aggiungere, perché nell'articolo precedente egli già rende molto bene la situazione del sommergibile del momento e indica quale potrà essere il suo impiego una volta risolti i problemi tecnici in via di risoluzione_ Si deve solo notare che l'articolo a carattere prevalentemente storico del 1901 avrebbe dovuto precedere, e non seguire, quello del 1900: di interesse assai più attuale ma forse non è casuale che quest'ultimo sia pubblicato durante la permanenza al Ministero dell'ammiraglio Bettòlo, esplicitamente citato dal Laurenti, come banditore di un concorso per il progetto di una torpediniera sommergibile,85 fatto che presumibilmente attesta l'esistenza di un'affinità di idee tra il Bettòlo, il Cuniberti e il Laurenti.
84 Cesare Laurenti, La navigazione subacquea nel secolo XIX. Il Trimestre 1901 , Il I Fascicolo pp. 457-474. 85 Si veda Nota 2 di pag. 382 del citato articolo del 1900 sulla Na vigazione subacquea a scopo di guerra.
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Una cosa è comunque certa: che le divergenze di idee tra il Laurenti e il Sechi derivano da una contaminatio tra le possibilità del momento rispettivamente della torpediniera e del sommergibile (che rendono fondate parecchie obiezioni del Sechi, perché la torpediniera è un mezzo onnai relati va mente maturo) e quelle future dei due mezzi che - lo dimostrano già i primi mesi della guerra 1914/1918 - rendono altrettanto fondate le previsioni del Lowe e del Laurenti, con particolare riguardo alle prestazioni crescenti del sommergibile in fatto di autonomia in superficie e in immersione, oltre che di capacità d' intervento anche contro bersagli in movimento. Sul piano generale, si deve constatare che già quando iniziano a solcare i mari le prime Dreadnoughts, nonostante il crescente aumento delle loro prestazioni ivi compresa la capacità difensiva attiva e passiva, cominciano ad affermarsi i due mezzi contro i quali non potranno mai disporre di difese completamente efficaci: il sommergibile, piattaforma ideale per i siluri come nella sostanza voleva anche il Cuniberti, e l'aeroplano. Due nuovi strumenti di guerra che tuttora (2007) sono i più temibili nemici di tutto ciò che solca il mare. In secondo luogo, sia la Dreadnought del 1905 ( che risolve in modo fin troppo semplice l'eterna disputa sulla velocità e sul calibro massimo dei cannoni delle grandi navi) sia il sommergibile nel 1914-1918 ( che arriva a penalizzare le grandi navi e a colpire gravemente anche il vitale traffico mercantile, smentendo molte previsioni dell'anteguerra e così diventando micidiale anche al di là delle previsioni) sono delle sorprese o quasi, degli strumenti di guerra avanzati imposti dal progresso della tecnologia alla strategia e alla tattica, costrette a prenderne semplicemente atto in tempi molto ristretti, così come in tempi molto ristretti la strategia e la tattica terrestri, ferme a Napoleone, devono prendere atto dell'efficacia del trinomio cannone-mitragliatrice-reticolato, che nel la guerra 1914-1918 ha superato ogni previsione dell'anteguerra fino a ingabbiare per anni, in molti casi, l'offensiva. Tutto ciò senza contare l'esigenza anch'essa improvvisa di organizzare una mobilitazione industriale per eliminare la guerra di massa terrestre, che a sua volta rende ancor più importante e anzi determinante - il traffico mercantile marittimo.
Conclusione Dalla grande nave (Saint Bon e Brin) alla grande nave (Dreadnought): si riassume in questo la storia del pensiero navale italiano nel periodo 1870-1915? Certamente no; essa è assai meno semplice e non consente affatto di considerare questa o quella soluzione come la costante misura di tutte le cose, pronunciando giudizi definitivi e assoluti. Sempre per l'Italia, ad esempio, al predetto motto se ne potrebbe affiancare un altro riassumibile nella frase "dalla nave tipo Acton alla nave tipo Acton (cioè alla prima Vittorio Emanuele del Cuniberti e del Bettòlo)", in tal modo rendendo meglio ciò che è avvenuto. Non
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basta: e il ruolo degli incrociatori e dei pezzi di medio calibro a tiro rapido, con le prime importanti realizzazioni? e le possibilità della torpediniera (alla prova dei fatti sopravvalutata) e del sommergibile (alla prova dei fatti sottovalutato, per la semplice ragione che, nonostante la mancanza di difese veramente pratiche ed efficaci contro il siluro, nei primi anni del secolo XX è cominciata ovunque una corsa ai grossi cannoni e ai grandi dislocamenti)? D'altro canto, per caratterizzare meglio il periodo bisogna andare al di là delle costruzioni navali. Prima di tutto bisogna considerare il ruolo che si vuol attribuire al la marina italiana: determinante e mirante a conquistare il dominio del mare per i navalisti, ristretto alla difesa delle coste per i pochi seguaci del Bonamico e del Sechi. 1n ogni caso, non sarà mai sottolineato abbastanza che fino alla primavera 1915 la marina e l'esercito dovevano risolvere un problema di strategia che a priori non poteva ammettere soluzioni soddisfacenti: affrontare le Forze Armate francesi, notevolmente superiori (le risorse disponibili per la marina italiana sono sempre state circa 1h di quella della marina francese). Evidentemente una risposta pratica al problema poteva essere ricercata solo nelle alleanze, come del resto è stato fatto nel 1915-1918. Così stando le cose bisognava stabilire come combattere una marina assai superiore, cosa evidentemente tutt' altro che facile. Solo il Bonamico, il Sechi e pochi altri, peraltro in modo spesso discutibile, hanno indicato come soluzione strategica per questo problema la guerra di crociera: invece la costante preferenza ufficiale - e quella della maggior parte degli scrittori navali - è andata alla guerra di squadra e dunque a una flotta come sempre composta da un nucleo di navi maggiori e da un contorno di naviglio leggero. Nessuno però poteva indicare con sufficiente precisione e attendibilità come spuntarla contro una flotta superiore: le frequenti richieste di stanziamenti tali da pareggiare la flotta francese o almeno da ridurre in misura notevole la sua superiorità si sono rivelate all'atto pratico improponibili, così come improponibili erano le frequenti perorazioni miranti a dimostrare la necessità di conquistare il dominio del Mediterraneo, come se esso non fosse già da molto tempo tenuto ben saldo nelle sue mani dalla Royal Navy. E che dire della necessità - emersa pochi giorni prima della guerra - di affrontare in Adriatico la flotta austriaca, combattendo una guerra per la quale la nostra marina non era preparata e non disponeva di buone basi, anche se era superiore in fatto di grandi navi, peraltro poco impiegate a causa del pericolo delle mine e dei sommergibili? TI Bemotti è stato forse l' unico - con la teoria della squadra di contatto ecc. - a tentare la definizione di modalità strategiche tali, da consentire alla nostra flotta di fronteggiare validamente una flotta superiore. Come si è visto, allo scopo di realizzare i criteri strategici da lui propugnati egli ha anche insistito molto sulla necessità di ottenere dalle nostre costruzioni navali un vantaggio di velocità, cosa che in effetti la nostra marina ha sempre mirato a ottenere fino alla Dreadnought esclusa, cioè fino a un tipo di nave "assoluta" le cui caratteristiche, velocità compresa, erano analoghe in tutte le marine. Manca una prova pratica che tali orientamenti erano o meno validi: nella guerra di squadra era
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comunque molto difficile che una flotta inferiore riuscisse a neutralizzare i suoi handicaps, mentre il vantaggio di velocità all'atto pratico ottenibile era aleatorio oltre che tale da richiedere compensazioni assai pesanti in fatto di armamento o almeno di protezione (sono ben noti i limiti degli incrociatori da battaglia inglesi e tedeschi nel 1914-1918, così come la fine - anche per difetto di protezione - del grande incrociatore da battaglia inglese Hood nella seconda guerra mondiale). Rimaneva la guerra di crociera, opzione strategica classica per le marine inferiori che non potevano permettersi di contendere al nemico il dominio del mare: ma le modalità a sua volta indicate dal Bonamico per le forme strategiche e tattiche di tale tipo di guerra e per le relative costruzioni navali, oltre ad essere troppo sommarie, sotto parecchi aspetti non erano più convincenti di quelle escogitate per la guerra di squadra. Bisogna tuttavia riconoscere che le modalità relative a tale tipo di guerra non sono mai state approfondite come sarebbe stato possibile e necessario, e che in ambedue i casi la riusc ita dell ' azione per la flotta italiana presupponeva una scarsa reattività da parte del la leadership nemica, cosa che non dovrebbe mai entrare nei calcoli strategici e tattici. Se a questo contesto assai complesso si sommano le carenze di risorse e le ricadute del continuo progresso della tecnica, si arriva alla conclusione che la filosofia delle costruzioni navali italiane non poteva non essere mutevole e che non era praticamente possibile mantenere una direttrice costante. Si deve solo constatare che il tentativo iniziale del binomio Saint Bon-Brin di compensare con la potenza del colpo singolo dei cannoni giganti, cioè con "la qualità" l'inevitabile inferiorità numerica della nostra flotta rispetto alle marine maggiori, può dirsi non riuscito, non solo per la lentezza delle nostre costruzioni navali: come affidare ad alcuni puntatori poco addestrati le sorti della guerra navale? Senza contare che le navi corazzate del tempo, a cominciare dalle nostre, presentavano numerose infrastrutture molto vulnerabili anche per il fuoco di pezzi di scarsa potenza, e senza contare il rapido progresso delle artiglierie e i vecchi timori dello stesso Saint Bon per il nuovo pericolo dei siluri. Quindi, a parer nostro meglio sarebbe stato ricercare semplicemente l'installazione di artiglierie di pari potenza rispetto a quelle delle flotte maggiori. Riguardo alla lentezza delle nostre costruzioni, si può dire che ci si trova di fronte a un male se non incurabile, difficilmente curabile: un male che poteva essere circoscritto, ma non eliminato. Le costruzioni navali erano e sono l'inesorabile espressione del livello tecnologico e industriale di un Paese, quindi i ritardi erano il prezzo da pagare per un Paese ancora industrialmente arretrato come l'Italia, che tuttavia mirava a possedere una grande flotta anche a prezzo di cospicui concorsi stranieri. Lo dimostra, tra l'altro, la sorprendente rapidità delle costruzioni navali degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, corrispondente a una capacità industriale e a un livello tecnologico irraggiungibile anche da Nazioni europee più avanzate dell' Italia. Tornando alle caratteristiche delle navi, le corazzate di sole 10000 t Emanuele Filiberto e Saint Bon entrate in servizio nel 1901 e progettate da un no-
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me famoso anche nel campo dei sommergibili come l'Ispettore del genio navale Pullino, con le loro artiglierie principali da 254 e 152 mm e la velocità relativamente elevata (si veda anche il giudizio del Bonamico al cap. l) sono espressione del generale successo delle artiglierie a tiro rapido e di calibro moderato tipico del loro tempo, così come lo è la prima Vittorio Emanuele del Cuniberti e del Bettòlo; successo confermato, a parere della maggior parte degli scrittori, dalle battaglie dello Ya-Lu e di Tsushima. In fondo avviene la stessa cosa per la Dreadnought, che a sua volta rispecchia il successo del moderno 305 mm con celerità di tiro e maneggevolezza molto migliorate. È dunque ozioso pretendere una continuità di indirizzo nelle nostre costruzioni navali, che peraltro di fronte alla costosissima Dreadnought avrebbero dovuto trovare unarisposta il meno possibile penalizzante alla nostra scarsità di risorse, risolvendo la vecchia alternativa inglese se " mettere tutte le uova in un paniere" oppure "metterle in più panieri". Di fatto sono state costantemente messe tutte le uova in un paniere anche per noi, fino alla seconda guerra mondiale compresa; i riflessi della guerra dei convogli e della carenza di naviglio leggero nelle due guerre mondiali autorizzano almeno a discutere la convenienza di imperniare sulle grandi corazzate la nostra flotta, così come quella di imperniare sul numero e non sulla qualità il nostro esercito. La deduzione da trarre da questo quadro variegato e contraddittorio è perciò una sola: la costante scelta a favore delle grandi navi ha avuto anche riflessi non positivi da valutare, né può essere ritenuta sempre univoca, inevitabile, pienamente corrispondente alle esigenze geostrategicbe dell'Italia in una realtà quanto mai difficile e complessa, della quale dopo le navi colossali hanno preso atto sia pure in tempi e modi diversi, gli stessi Saint Bon e Brin, cioè i venerati maestri della nostra storia navale, come tutte le vere storie - che sono di uomini prima ancor che di materiali - soggetta a luci e ombre.
INDICE GENERALE
INDICE GENERALE Presentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag.
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Detti memorabili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . .
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Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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CAPITOLO I - DOMENICO BONAMlCO, "ALTER EGO" NAVALE DI NlCOLAMARSELLI ........... . ...... .. . .. . . . . . .
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Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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SEZIONE I - Gli scritti dal 1878 al 1884: ragioni della dicotomia tra periodo velico e del vapore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Nuova importanza della "correlazione terrestre-marittima" e critica alla "guerra di squadra" . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Strategia e tattica navale: nuovi contenuti e rapporto con la geografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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La difesa del/'Jtalia e la Marina: impossibilità di una strategia offensiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Compiti della flotta, vantaggi della guerra di crociera e limiti delle grandi navi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Il dialogo con il Perrucchetti nelle "Considerazioni sugli studi di geografia militare e marittima ( 1881)": geografia politica, geopolitica e geostrategia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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"La difesa dello Stato - Considerazioni sull 'opera del tenente colonnello Giuseppe Perrucchetti'' (1884).. . .. .... . ......
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SEZIONE II - Gli scritti del 1894-1895: la situazione geopolitica europea e il primo impatto con Mahan . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Il silenzio nel p eriodo da 1885-1893: perché? . . . . . . . . . . . . . .
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Rivalutazione della corazzata? La polemica con la "J eune École" . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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PARTE PRIMA LE GRANDI FIGURE: BONAMICO E SECHI
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Geografia fisica, militare e politica: le dieci componenti della ''potenzialità marittima" . . .. _. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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La situazione geopolitica europea e italiana e la valutazione delle forze terrestri e navali (1895): come neutralizzare il pericolo slavo e americano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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SEZIONE III - La teoria del potere marittimo e il confronto organico con Mahan e Callwell (1897-1899) . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Perché anche Callwell? Lineamenti generali dell'approccio
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La critica ai sei "elementi essenziali del Sea Power' di Mahan
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I contenuti militari del potere marittimo e la critica al concetto di strategia del Mahan . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Schema finale per la classifìcazione degli elementi che in.fluiscono sul potere marittimo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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SEZIONE IV - Gli ultimi scritti (1899-1914): necessità di maggiori stanziamenti per la Marina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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"Il problema marittimo dell '/talia" (1899) . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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"Le opere dal 1900 al 1914" . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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CAPITOLO II - TRA BONAMICO E BERNOTTI: L'IMPORTANZA DELLA "CORRELAZIONE TERRESTRE-MARITTIMA" E DEL NAVIGLIO LEGGERO NEL PENSIERO DI GIOVANNI SECHI, AMMIRAGLIO E POI MINISTRO DELLA MARINA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Premessa
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SEZIONE I - I primi scritti: l'importanza della "correlazione terrestre marittima" e la priorità del naviglio leggero nell'ambito della strategia più conveniente per l'Italia . ... . .... .
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SEZIONE li - Il Volume I degli "elementi di arte militare marittima" . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Il discutibile concetto di potere marittimo e la sua importanza per l'Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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La guerra, l'arte militare terrestre e marittima e le sue parti componenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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INDICE GENERALE
Il nuovo rapporto tra operazioni marittime e terrestri, il ruolo delle forze navali e l'importanza (relativa) del dominio del mare ........................ .................. ...... . ... . Possibilità e limiti della "guerra di costa": bombardamenti, sbarchi e assedi ... . ... . . . .... . .. ... . ... . . . .. .. ... . .......... .
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SEZIONE III - Il Volume Il degli "Elementi di arte militare marittima" (1906) ......... . ........... . ..... . . . . ....... . .. . ... .
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130
Premessa ..... .. . . . . . . . ...... .... .. . . .. . . . .. . . ........ . ......... .
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I problemi del personale e i loro w,petti negativi ... . ....... .
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131
Le costruzioni navali: importanza della velocità, delle "corazzate da crociera" e delle torpediniere . . . ... . .. . ... . ..... .
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Aspetti particolari della strategia: l'offensiva e difensiva strategica, l 'efficacia delle torpediniere contro le corazzate e lo scarso rilievo della guerra al traffico mercantile . .... . .
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Cenni sulla logistica marittima ................. . . .......... .
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149
Giudizi conclusivi e collocazione storica dell'opera . ... . . . .
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SEZIONE IV - Gli scritti dal 1907 fmo alla grande guerra: lo scarso entusiasmo per la corsa ai grandi dislocamenti e l'errata previsione sulla guerra al traffico mercantile .... .... .. . .
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SEZIONE V - L'operato di Ministro nell'immediato primo dopoguerra e i successivi scritti e interventi in Senato fmo alla seconda guerra mondiale .............. . . . .. ............... .... .
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e discusso periodo al Ministero della Marina (1919-1921): rinuncia a nuove corazzate e "tagli"' al naviglio antiquato e all 'organizzazione a terra . . . . . . ...... . . . .. .. . . . .
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Gli articoli suiforti limiti della corazzata e a favore del "sommergibile silurante", del naviglio leggero e della aviazione marittima (1922-1924) .......... . ...... ...... . . .... . . .... . . .
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Gli interventi in Senato fino alla seconda guerra mondiale e il contradditorio atteggiamento a proposito del ruolo delle nuove corazzate .. . ............... . . .. . .......... .. . . .. .. . .. . .
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Conclusione ..... ..... . ............ . ....... .............. ... . . .. .
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La difesa marittima dell 'Italia . . ... .. . ..... . . . .............. . Politica militare e navale: critica alla letteratura "navalista"
))
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IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Ili (1870-1915) - TOMO Il
PARTE SECONDA LA TEORIA DELLA GUERRA MARITTIMA IN ITALIA E IN EUROPA CAPITOLO III - lL UNGUAGGIO MARINARESCO, LA COLLOCAZIONE TEORICA E LA RIPARTIZIONE DELL'ARTE MILITARE MARTTTTMA ........... ....... .. ... . . . .. .
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191
SEZIONE I - li lento, difficile e incompleto passaggio dal linguaggio della vela a quello della corazza, del vapore e delle nuove armi nel vocabolario del Guglielmotti (1889) e nelJe opere che Io precedono e lo seguono . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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191
Le prime opere: Fincati (/877), Piquè (/878) e Settembrini (1879)........ . ... . . ... . ............ ..... ......... ............
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193
Pregi e limiti del troppo celebrato" Vocabolario marino e militare" (J 889) del Guglie/motti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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I98
Il ristretto panorama dominato dal Corazzini delle opere linguistiche da fine secolo XIX alla guerra mondiale . . . . . . .
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209
SEZIONE II - La teoria della guerra marittima tra arte e scienza: analisi critica delle diverse definizioni e interpretazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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222
(1900)........................................................
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222
li d[[fìcile cammino della teoria della guerra marittima in Italia: poche luci e molte ombre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
238
Conclusione .. . . ...................................... . ......... .
»
262
CAPITOLO IV - JL COMBATTIMENTO NAVALE DA LISSA A FINE SECOLO XIX: SPERONE, CANNONE O SILURO?. . .
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265
Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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265
SEZIONE I - Caratteri genera1i della tattica in un periodo dominato dall'incertezza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
266
SEZIONE II - Uno sguardo al pensiero tattico delle marine dominanti (inglese e francese) ......................... . ........
»
28 1
SEZIONE Ili - La troppo graduale marcia verso il cannone e Je nuove prospettive del siluro negli autori italiani . . . . . . . . .
»
300
Uno sguardo a talune opere teoriche europee di arte militare marittima: De Gueydon (1870), Pellew (1871), Makarov
903
INl)TCE GF.NP.RALE
Il più maturo giudizio del Bonamico su Lissa .............. .
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300
SEZIONE TV - Il pensiero tattico italiano da Lissa al 1881: predominio del rostro ................... ............ . .. .. .... . .
))
304
L'immediata eredità di Lissa (1872-1873): le tesi del deAmezaga a favore del cannone, l'esaltazione della torpediniera alla Camera proprio da parte del Saint-Bon e la formazion e di combattimento (troppo astratta) della flotta sostenuta dal Morin . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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304
L'incerto e troppo variegato dibattito dal 1873 al 1881: la scarsa fiducia nelle artiglierie colossali, i dubbi sul cannone, la troppo frequente fiducia nel rostro e la comparsa del siluro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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31 O
SEZIONE V - Il concorso indetto nel 1881 dal Ministero tra gli ufficiali di marina e i suoi contraddittori risultati .. ... . .. .
»
320
SEZIONE VI - Dal 1882 a fine secolo XIX: l'ancor contrastata ma definitiva affermazione del cannone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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331
Il canto del cigno dei nemici del cannone: Fincati (rostro 1882) e Mesturini (çi/uro e torpediniera - 1885) . . . . . . . . . . . .
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331
Le residue oscillazioni del Ronca sul cannone (1890-1891), le conferme delle battaglie dello Ya-Lu (1894) e di Cavita e Santiago (1898) e la sua defìnitva affermazione (Gavotti 1898) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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336
Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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351
CAPITOLO V - LA TATTICA NAVALE DALL'INIZIO DEL SECOLO XX ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE: TRA CANNONE E ARMI DI CONTRASTO ..... . . .. ................
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355
Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
355
SEZIONE I - DaU'inuio del secolo XX alla battaglia di Tsushima (1900-1904) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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357
Tre importanti opere del primo anno del secolo: le "Questioni di tattica navale" del Makarov, "La guerra in mare" del Bollati, di Saint Pierre e i "Pensieri intorno alla strategia e tattica navale" del Baggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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357
La tattica navale nei primi scritti di Romeo Bernotli . . . . . . . .
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380
904
IL PENSIERO MIUTAR.E E NAVALE ITALIANO - VOL. III (1870-1 915) -TOMO Il
SEZIONE II - Gli ammaestramenti della battaglia di Tsushima (27 - 28 maggio 1905): vittoria definitiva del cannone ma conferma del siluro . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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398
SEZIONE III - Dopo Tsushima: la centralità della battaglia navale e i progressi paralleli del cannone e delle armi di contrasto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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405
!"Fondamenti di tattica navale" (1910) del Bernotti: aprioristica esaltazione della battaglia decisiva . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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405
Riflessi tattici dei progressi delle armi navali di contrasto (siluri migliorati, mine e sommergibili) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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408
Nascita, rapido sviluppo e ruolo di un nuovo mezzo di contrasto: quello aereo (dirigibile e/o aeroplano) . . . . . . . . . . . . . .
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420
Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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430
CAPITOLO VI - TRA GUERRA DI SQUADRA E GUERRA DI CROCIERA: LA TEORIA STRATEUICA NEULl STATI UNITI, IN EUROPA E IN ITALIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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433
Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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433
SEZIONE I - Cenni sul pensiero strategico navale straniero
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434
Arthur Thayer Mahan: un mito tuttora attuale, ma valido solo per le grandi marine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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434
Da Callwell (189 7- 1905) a Corbett ( 1911): la concezione empirica del dominio del mare degli autori inglesi e la contestazione del Guerrini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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442
La "Jeune École navale" francese: solo utopia navale?.... .
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454
SEZIONE II - La teoria strategica in Italia e il primato di Romeo Bernotti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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462
Gli scritti del Roncagli e del Corsi sulla teoria del potere marittimo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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464
Una rara panoramica del Bonamico sul pensiero strategico navale del XIX secolo: le tesi pro e contro la guerra di squadra e la nostalgia per il periodo velico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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467
Romeo Bernotti, emulo del Bonamico e figura dominante insieme al Sechi (1897-1911) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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478
Gli "Aforismi di guerra marittima" dello Stato Maggiore Marina (maggio 1915) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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498
Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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501
905
INDICE GENERALE
PARTE TERZA LA POLITICA E STRATEGIA NAVALE DELL'ITALIA EISUOIASPETTIINTERFORZE CAPITOLO VII - L'ITALIA È POTENZA TERRESTRE O MARITTIMA? LA POLITICA E STRATEGIA NAVALE E IL CONTRASTO TRA "NAVALJSTT" E "CONTINENTALISTI" NELL'AMBITO DELLA DIFESA NAZIONALE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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507
Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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507
SEZIONE I - "L'Italia deve dominare il Mediterraneo": la politica navale tra sogno e realtà ............................. .
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510
SEZIONE ll - Come difendere le cpste: la strategia navale dell'Italia e la correlazione terrestre-marittima nell'ambito della difesa nazionale .. .. . .. . .. .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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551
Gli assolutisti (Morine Bettòlo,faturi Ministri) .............
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552
I relativisti (Rossi, R. V Vecchj, Maldini, Zevi) . . . . . . . . . . . . . . .
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560
I minimalisti (Moro. Cottrau, O.T., Gonsalez, Arbasini Scrosati) . . .. . . . . . . . . . . . . .. . .. .. .. . .. . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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570
SEZIONE m - L'Italia si difende dalle Alpi e / o dall' Appennino: le contrapposte tesi "continentaliste" . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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582
SEZIONE TV - Le "Storie dell'avvenire" nella guerra marittima e terrestre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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598
I rovinosi effetti di un 'ipotetica sconfitta della nostra.flotta
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599
Il contrapposto punto di vista "continentalista": l 'esercito forza decisiva e sempre vincente, che non deve essere ridotta
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61 O
Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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618
CAPITOLO VIII - PRO E CONTRO LE ARTIGLIERIE E NAVI COLOSSALI: GLI ATTACCHI DEL SAINT BON, DEL BRINE DEL GENERALE RICOTTI CONTRO IL MINISTRO ACTON E LA TEMPORANEA MEZZA VTTIORIA (O MEZZA SCONFlTTA) DEL MINTSTR0 (1872-1883) ...... .... . . ...
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62 1
Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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621
SEZIONE I - Cenni preliminari sull'evoluzione delle principali caratteristiche delle corazzate italiane e straniere fino alla grande guerra . . .. .. .. . . . .. . .. .. . .. .. .. . . . . . . . . . . ..
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623
906
IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. UI (1870-1915) - TOMO ll
SEZIONE 1T - Indirizzi generali e principali disponibilità di bilancio delle costruzioni navali italiane e straniere fino alla grande guerra ..... .......... .............. . ............. ....... .
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638
SEZIONE III - Il dibattito sulle navi da alienare e i forti dubbi del nuovo Ministro Saint Bon sull'opportunità di costruire ancora corazzate e sull'utilità di un "piano organico" della flotta (1873-1875) ................ . . ...... .. . ................... .
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653
I primi articoli della "Rivista Marittima" contro le navi colossali ................... .. . .. .... . .. ......... . ... .. . ........ .
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653
Il dibattito alla Camera sulle navi da alienare e le contradditorie dichiarazioni del nuovo Ministro Saint Bon su corazzate e torpediniere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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657
SEZIONE IV - Dalle navi colossa1i alle navi di dislocamento moderato? Il dibattito sulla stampa e gli attacchi del Saint Bon, del Brio e del generale Ricotti al Ministro Acton (18781880) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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670
Alcuni caratteri dell'opera iniziale del Ministro Acton (1879-I880) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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670
Gli altri articoli contro le navi colossali (Turi, Albini, Cattori, Maldini, Cottrau, Di Suni) ......... ....... . ...............
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674
Le critiche alla Camera del Saint Bon. del Brine del generale Ricolli alle "navi di tonnellaggio moderato", la replica del ministro Acton e la decisione di compromesso della Camera (febbraio - dicembre 1880) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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686
Conclusione . .. . . .. . . .. . . . . . . . . . . . . .. .. . . . . . . . .. .. . . . . . . . . . . . .. ..
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7 16
VI DI DISLOCAMENTO MODERATO" E DEL MINISTRO ACTON (1881-1883) .. ... ....... ......... .................... ...
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719
Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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719
SEZIONE I - L'ancor vivo dibattito sulle costruzioni navali nella pubblicistica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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720
Alcune idee in Inghilterra e in Francia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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720
I libri (un po' tardivi) del Saint Bon e del Brin in difesa delle navi colossali .. .. .. .. . . . . . . . . . . .. . . . . . .. .. .. . . . . . . . . .. .. .. .. .
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722
Il dibattito sulla pubblicistica militare italiana (De Amezaga. A /granati, Cottrau) . . . . . . .. .. .. .. . . . .. .. .. .. . . .. . . . . .. .
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729
CAPITOLO IX-IL TRAMONTO DEFINTTlVO DELLE "NA-
907
INDICE GENERALE
SEZIONE II - Il dibattito del 1881 alla Camera e il naufragio definitivo delle "navi di dislocamento moderato" grazie anche ai nuovi attacchi del generale Ricotti al Ministro Acton ..... .
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734
SEZIONE In - Il dibattito del 1882 alla Camera e le numerose critiche anche alle nuove navi tipo "Duilio"impostate dal Ministro Acton ....... ... ............... . . ................ ...... .
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750
SEZIONE IV - Il dibattito del 1883 alla Camera: ultimi attacchi al Ministro Acton sull'organizzazione e disciplina della marina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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762
Conclusione . .. .. . .. . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . .. .. .. . .. . . . . . .. . . .. . ..
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788
CAPITOLO X - LA MARINA DAL LUNGO E CONTRASTATO TERZO MINISTERO BRIN (1884-1891) ALLA BATTAGLIA DI TSUSHTMA E ALLA "DREADNOUGHT'' (1905): PROBLEMI ORGANTZZATIVI, RAPPORTI CON L'ESERCITO E COSTRUZIONI NAVALI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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793
Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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793
SEZIONE I - La lunga e discussa gestione del Ministro Brin (1884-1891) ....................... ... .......................... ..
»
794
Le prime e poco ortodosse idee del Cuniberti sulle corazzate e sui cacciatorpedinieri, le tesi dell 'Armstrong sugli incrociatori non protetti e gli orientamenti ufficiosi esposti dal Bettòlo e dal de Zerbi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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796
Gli attacchi in Parlamento al Ministro Brin e il suo scontro con il Saint Bon ............ ...... ........................... .
))
802
Le ripetute critiche al Brin nella letteratura navale (d 'Annunzio, Mesturini, Vecchj e Molli) ....... ..... . . . .... . .......... .
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815
Una delle poche difese delle grandi navi da parte del/ 'Albini e del Bettòlo .. ..................................... ..... . ... .
))
841
SEZIONE Il - L'inaspettato "revival" della nave tipo Acton proprio per opera del Cuniberti e gli ormai consueti problemi della marina nell'ultimo decennio del Secolo XIX ....... .
))
845
))
855
SEZIONE m - Il poco lineare cammino delle costruzioni navali dall'inizio del secolo XX verso Tsushima e la "Dreadnought" (1900-1905) . ..................... ....... . ............. .
908
IL PllNSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO - VOL. Ili (1870-1915) - TOMO li
I punti di vista sulle costruzioni navali del Cuniberti, del Sechi, del Bernotti e del Ministro ammiraglio Mirabella e le critiche del deputato Di Palma alla nuova nave tipo Acton e al Cuniberti . ........... . ...................... ............ .
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856
la possibilità e necessità di ridurre le spese per la marina secondo Sylva Viviani, la risposta di" Veritas" e gli attacchi del Ranzi al Ministro Leonardi - Cattolica ..................... .
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860
SEZIONE IV - Cenni sui rilievi e proposte della Commissione d'Inchiesta per la marina (1904-1906), con particolare riguardo alle costruzioni navali .............. ....... ............ .
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868
SEZIONE V - "Dreadnought" o nave "Tutti siluri"? La polemica del Bernotti contro Mahan sull'importanza della velocità e le nuove, radicali proposte del Cuniberti contro la "Dreadnought" ... . . . ...... .................. ... ......... . ... .. .
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874
Pro e contro la velocità, i grossi calibri e la "Dreadnought"
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874
Torpediniera o sommergibile? Presente e futuro dei due mezzi secondo gli opposti pareri del Laurenti e del Sechi ...... .
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887
Conclusione .......................................... . . . ....... .
»
893