LA QUESTIONE SICILIANA VISTA DAL NORD

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Il brigantaggio

Carmelo Santillo

La questione siciliana vista dal nord Il brigantaggio

Seconda parte

Ricordiamoci di Plinio il Giovane, là dove dice che se noi non possiamo fare cose degne d’essere scritte. dobbiamo almeno scrivere cose degne d’essere lette. Michele Amari

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Testimonianza e critica storica Cari amici, come vedete sono un appassionato di storia. - Il passato per me è attualità e cronaca. Non importa se i fatti che vado narrando sono accaduti ieri o cento o mille anni fa, io descrivo battaglie a cui non ho assistito, personaggi vissuti e scomparsi in epoche remote, gente che non ho mai visto.- Per fare ciò ho bisogno delle testimonianze di chi è vissuto a quei tempi e che videro compiersi i fatti che adesso io vado narrando.- Se questi fatti non ci fossero stati tramandati, noi saremmo completamente all’oscuro, ciechi ed ignoranti senza rimedio.vanno

esaminati,

spogliati

dagli

interessi

Però di

i

parte,

fatti

raccontati,

confrontati

con

testimonianze; insomma il mio compito è simile a quello del giudice istruttore incaricato di una inchiesta. Come lui io raccolgo testimonianze con l’aiuto delle quali cerco di costruire la verità. -

Non è semplice. -

Il

mio

compito

è

controllare che le testimonianze siano fedeli alla realtà. - I testimoni non sono sempre sinceri, la loro memoria non è sempre fedele, quindi come un giudice io vado vagliando e selezionando le varie verità che vengono alla luce, scartando gli errori e le menzogne. - Questo lavoro di investigazione, di cernita del vero dal falso, dell’inverosimile all’incredibile si chiama critica storica. Immaginiamo uno storico alle prese con un libro scritto trecento o quattrocento anni fa. - La prima sua difficoltà è cercare di interpretare la sintassi e i vocaboli astrusi cui si imbatte. - Poi cerca di leggere tra le righe il pensiero recondito, che non sempre corrisponde a quanto è scritto. (Ricordate il nostro divino Dante, che per vivere la sua commedia, faceva il giullare alla corte del tale principe, “Tu proverai si come sa di sale il pane altrui, come è duro calle lo scendere e il salir per l’altrui scale …) .-

Poi egli deve vincere l’istinto naturale che mette in opposizione i fatti con le sue convinzioni. - Deve vincere l’impulso della sua seconda natura, l’istinto di riportare integralmente il racconto del testo che sta esaminando. - La pigrizia

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lo spinge a saltare a piè pari un capitolo che magari esige più impegno e più pazienza. . “La maggior parte degli uomini, piuttosto che ricercare la verità, che è loro indifferente, preferisce adottare le opinioni che vengono loro riferite già belle e pronte. -“ Questo primo comandamento è di Tucidide che lo scrisse più di duemila anni fa, ed è sempre valido ed attuale. Il secondo è simile al primo: lo storico non deve adottare assolutamente le opinioni che gli vengono sciorinate davanti, anzi, deve rifuggire da esse. Riflettiamo un attimo; i greci che ci facevano a Troia ? - Dovevano vendicare l’offesa fatta a Menelao. - Balle !! La critica storica ci dice che erano lì per ridurre l’influenza commerciale dei troiani nei traffici con i popoli del Mar Nero. - I Troiani erano stati aggrediti a casa loro. Un classico ancora attuale è il racconto di mille uomini che sbarcano a Calatafimi e sbaragliano un esercito di quarantadue mila soldati. - Hanno attraversato tutto il Tirreno senza che la flotta borbonica li abbia intercettati. -

Hanno attraversato lo stretto senza problemi e sbaragliato un esercito

comandato da fior di generali. - Hanno conquistato un regno. -

Non è

incredibile?? Appunto, è incredibile. - Io non ci credo. Nelle biblioteche ci sono centinaia di libri che concordano su quanto accaduto, ma io vado lo stesso a cercare tra le scartoffie il punto dove il racconto si scontra con la verità. Ecco il compito del critico storico; diffidare dell’evidenza dei fatti, dubitare di tutti, cercare e cercare la verità, a costo di riscrivere la storia. Carmelo Santillo marzo 2018

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Prefazione Questa è una analisi che ha il compito di raggiungere l’obiettivo di far conoscere un fenomeno che nacque con l’unità d’Italia e che si trascinò dietro una serie di incomprensioni e jetture,

che

ancora

oggi

sono

presenti e pesanti da comprendere. Questo

fenomeno

è

stato

dibattuto per anni e da persone di alto intelletto; ed è chiamato “La questione meridionale o siciliana “. Oggi mi accingo a parlare di queste cose, (è il 5 marzo 2018. )- Ieri si sono svolte le elezioni eleggere i deputati al parlamento nazionale. Mentre il nord è ben coperto da una coalizione di destra (lega, popolo della libertà, ed altri) tutto il sud è tinteggiato da un movimento politico chiamato cinque stelle che si prefigge la creazione di una nuova Italia,-Ma non è questo che mi salta all’occhio quanto la dicitura scritta. Possibile che dopo 157 anni siamo ancora così distanti l’un l’altro tanto da non condividere l’idea che l’Italia è una e indivisibile? -Come disse il D’ Azeglio “l’Italia è fatta, adesso bisogna fare gli italiani “. Cosa è successo e perché questo divario? - La domanda è retorica ed è impreziosita dalla cronaca giornaliera che ne parla ad ufa; io voglio descrivere le fondamenta dove e perché si creò questa discrepanza, senza incolpare questo o quello. - La mia è critica storica, al vaglio della più libera interpretazione degli eventi, senza pregiudizi, che potrebbero portare chi ascolta a dubitare della mia onestà di storico. La verità della scrittura è la vera Madre dell’Historia; chi non si risolve una volta d’esser libero, non potrà mai scriver che con timore, il quale per lo più tiene lontana la verità.Gregorio Leti carmelosantillo0@gmail.com

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Partiamo dal momento di Garibaldi che sbarca in Sicilia; egli non conosce l’isola; ma accanto a lui c’è Francesco Crispi, siciliano di Favara, avvocato, che conosce bene le problematiche che i Borboni ci hanno imposto. Dietro a Garibaldi c’è un codazzo di gente, inviati da Torino pronti a innestare il seme dei Savoia, con le sue leggi e abitudini, che stridono clamorosamente con quello che trovano a cominciare dal codice di giustizia e per finire con la coscrizione obbligatoria, cosa inusuale per gli isolani e grandemente avversata. tanto da convincere moltissimi giovani a rifiutare la divisa e per sfuggire alla giustizia, darsi alla macchia e aggregarsi alle bande di fuorilegge che imperano all’interno dell’isola. Questo rifiutarsi alle leggi, e darsi alla macchia, appunto, venne chiamato Brigantaggio. “L'unità d'Italia, con tutto quello che comporta, reca al sud nuove ingiustizie, nuove sopraffazioni, nuove e più onerose tasse, il servizio di leva obbligatorio. “ Il senso dell'ingiustizia patita è direttamente proporzionale alle speranze che il popolo del meridione ha accarezzato: i contadini meridionali, coinvolti nella battaglia per l'unificazione e poi frustrati nelle loro aspettative, rimasti ai margini del processo di sviluppo unitario della nazione, vedono nel nuovo stato il nemico da combattere, lo straniero che depreda il sud senza risolvere alcuno dei problemi secolari delle masse. Il sottosviluppo, l'ignoranza, la renitenza alla leva, determinano uno dei più gravi e tragici fenomeni della seconda metà dell'ottocento: il brigantaggio,

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fomentato da ex ufficiali borbonici e da frange dei vecchi gruppi dominanti che temono di perdere definitivamente il loro potere ed il benessere che ne deriva. Contro il brigantaggio c’è una vera e propria guerra, spietata e senza tregua, che debella il fenomeno ad un prezzo altissimo: nel decennio 1861-1870 sono impegnati fino a 100.000 soldati dell'esercito; tra soldati, briganti e cittadini fatti oggetto di rappresaglie muoiono 7.000 persone, più di quanti ne muoiano nelle guerre d’indipendenza; i briganti fucilati sono oltre 2.000, quelli catturati e messi in prigione circa 20.000. Ma questi enormi sacrifici di vite umane non eliminano le cause profonde del fenomeno. In tal modo la ''Questione Meridionale'' resta aperta, e vivo resta nelle genti del sud il senso di ribellione contro lo Stato.

Il problema del sud, a mio avviso, non è stato per niente risolto, anzi esso è ancora vivo ed attuale. -cs.

Il sottosviluppo, l'ignoranza, lo sfruttamento, il senso fatalistico dell'esistenza e la sfiducia nell'azione riformatrice del nuovo governo, incapace di rinnovare realmente il meridione e le sue piaghe endemiche, emergono dalle pagine di De Roberto, Di Giacomo, e via via fino ai nostri giorni con Levi, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Patti, Quasimodo. Essi ci calano nella tragica e amara realtà del meridione, l'egoismo dei vecchi ceti egemoni, la loro sete di potere, l'ambizione di usufruire ancora di privilegi e posizioni di prestigio. Così si esprime la profonda delusione per l'Italia post-unitaria ed il totale pessimismo, la sfiducia nella capacità delle masse di uscire dal loro millenario stato di sfruttamento e d’isolamento. -. Inoltre Salvemini, Guastella, Pantaleone, la Serao, Villari e non ultimi il Verga, il poeta Rapisardi ed altri portano le loro testimonianze critiche descrivendo le condizioni del sud, le piaghe endemiche, il lavoro minorile, la miopia dei burocrati, il governo centrale che ha depredato il sud. La rivolta del 1866 è trattata dal governo centrale come un semplice problema di polizia,( venne soprannominata la rivolta de sette e mezzo , in tono disprezzativo ) mentre le sue profonde cause sociali sono lasciate indisturbate e rimangono in larga misura ignote ai più, ma una cosa è chiara e cioè che l'isola

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non può essere governata col sistema parlamentare liberale come è governato il resto d'Italia.

oooOOOooo--------------

Un poderoso esercito è di stanza nell'isola, e molti

siciliani

si

convincono

di

vivere

sotto

un’occupazione straniera o di combattere una guerra civile. Il generale Medici1 riunisce nelle sue mani il potere militare e civile, si vive in regime dittatoriale. La mafia continua ad avere appoggi dappertutto, I proprietari terrieri se ne servono per controllare le elezioni e per assicurarsi il dominio delle città,I

funzionari

del

governo

centrale

restano

Re Francesco Secondo Borbone

stupefatti nel notare come funzioni così bene un sistema di vassallaggio feudale, una specie di governo ad interim con cui la gente affida e sbroglia i casi di tutti i giorni. Per quello di cui ha bisogno, il siciliano si affida ai parenti o agli amici o agli ''amici degli amici'' anche per le cose più banali, che potrebbe risolvere seguendo una normale trafila burocratica. Queste relazioni e la richiesta di un favore è considerato come un suo diritto, in vista di un ricambio del favore fatto nel passato o promesso per il futuro. Il governo è avversato in tutte le sue espressioni; se un fantomatico avventuriero adesso sbarcasse nell'isola, probabilmente riceverebbe lo stesso entusiastico benvenuto come lo ebbe a suo tempo Garibaldi. (*) (*). Garibaldi stesso scrivendo a Adelaide Cairoli, (1868) dice <<Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male; nonostante ciò, non rifarei oggi

1

Giacomo Medici, marchese del Vascello (Milano, 15 gennaio 1817 – Roma, 9 marzo 1882), è stato un generale e politico italiano. La sua è la figura di uno dei più valenti e costanti ufficiali di Giuseppe Garibaldi e in seguito vittorioso generale dell'Esercito Regio nella Terza guerra di indipendenza, nominato successivamente prefetto in Sicilia, e senatore del Regno d’Italia. Sotto la prefettura palermitana di Filippo Antonio Gualterio (che restò in carica tra il 1865 e il 1866) egli condusse una serie di operazioni militari nelle quattro province della Sicilia occidentale. La durissima repressione produsse in sei mesi l'arresto di 2384 uomini e 180 donne nella sola provincia di Palermo

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la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore, e suscitato solo odio >>. Per tenere un certo controllo della situazione, spesso si ricorre all'appoggio di bande armate, o si mette una banda contro l'altra, permettendo così l'illegalità. Antonio di Rudinì,2 prefetto di Palermo nel 1867, siciliano, capisce che questo è il solo sistema funzionante, nonostante l'isola sia presidiata da un esercito grande come non mai. Un giorno gli capita di scendere a patti con un bandito evaso, condannato a morte, e cita il fatto in un suo rapporto, come una cosa normalissima. In parlamento, infatti, confermerà che non c'è possibilità di vincere con la forza la mafia dove il comportamento mafioso è la regola. Diego

Tajani,

procuratore

generale di Palermo, uomo del nord, e non abituato a questi sistemi, emette un mandato di arresto contro Albanese, capo della polizia che impiega, appunto, delinquenti come poliziotti e li protegge quando vengono accusati di approfittare della loro carica per operazioni criminali. Con sorpresa del Tajani, il governo annulla il mandato d'arresto, e, cosa alquanto inquietante, alcuni testimoni a carico sono assassinati. Il governo non ha potere di interferire nelle faccende riguardo alla magistratura, ma interviene trasferendo i giudici da un posto scomodo, facendo così favori agli amici. Il giudice Tajani si vede troncata la carriera nella magistratura; si presenta candidato al parlamento nella circoscrizione di 2

Antonio Starabba, marchese di Rudini mostrò una certa tempra come primo cittadino nel settembre del 1866, quando mostrò una considerevole energia, unita al coraggio personale, nel reprimere la Rivolta del sette e mezzo, provocata da elementi di varia matrice politica, indipendentista, borbonica e repubblicana, che si appoggiarono al malcontento popolare provocato dall'introduzione nell'isola della coscrizione militare, dell'eccessiva imposizione fiscale, dell'incameramento dei beni delle corporazioni religiose. La rivolta scoppiò il 16 settembre: il sindaco, scortato da un piccolo seguito di guardie nazionali e granatieri, tentò coraggiosamente di affrontare i rivoltosi faccia a faccia, ma dovette ben presto ritirarsi nel Municipio, mentre il suo palazzo avito in città venne dato alle fiamme. Pochi giorni dopo arrivarono i rinforzi militari guidati dal generale Raffaele Cadorna, che repressero la ribellione nel sangue- il 22 settembre 1866.Il coraggio e il prestigio acquisito nel governo durante quell'azione lo portò alla nomina di prefetto di Palermo, carica in virtù della quale riuscì a reprimere il brigantaggio in tutta la provincia di sua competenza.

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Palermo, senza ovviamente nessuna possibilità di essere eletto. Ha successo invece nel collegio di Amalfi, e appena in parlamento, rende noti questi fatti. I parlamentari siciliani cercano di minimizzare. Essi sono una sorta di consorteria, sanno cosa succede nell'isola, si riuniscono privatamente per coordinate una politica comune e, forse anche, per proteggere gli affari dell'isola da esami più approfonditi del parlamento. Il governo preferisce lasciare gli affari dell'isola ai suoi rappresentanti, sapendo della forza che questi deputati hanno nelle votazioni (e sono alquanto compatti). Possono mettere un governo in minoranza o rovesciare un governo. Anche Crispi,3 che è alla guida della sinistra siciliana, è alquanto reticente a commentare questi fatti, tutti sono d'accordo nell'affermare che la mafia nell'isola non esiste, è un’invenzione della polizia che ha bisogno di un capro

L’eccidio di Portella della Ginestra

espiatorio per giustificare la sua incapacità e la sua corruzione. Tajani, è nominato ministro della giustizia, e non ha peli sulla lingua, quando, forte della sua esperienza nel tribunale di Palermo, afferma in parlamento che la mafia prospera per motivi politici e che essa è forte solo nella misura in cui è protetta dalle autorità. Egli accusa i magistrati di Sicilia di essere complici di gravi irregolarità nell'amministrazione della giustizia, e chiede cosa ci si può aspettare dai cittadini, sapendo che la polizia e le corti di giustizia sono connessi con ''l'onorata società'' Se Di Rudinì, Maniscalco, Medici, funzionari

3

Francesco Crispi- c’è una lunga descrizione del suo operato nei miei lavori “I fasci siciliani e Francesco Crispi”

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altamente rispettabili sentono il dovere di agire in collusione con la mafia, i cittadini comuni sono altamente scusabili se fanno altrettanto. La discussione in parlamento, se da un lato fa mugugnare i parlamentari siciliani, dall'altro lato mette in evidenza i difetti della politica del governo, allarma l'Italia tutta e la disapprovazione è totale. Diviene evidente che in Sicilia la criminalità è un tutt'uno con la corruzione politica, che il governo ha peggiorato le cose, che il nord ha dimostrato uno scarso interesse per le sue province meridionali, che non conosce per niente.

Minghetti4, primo ministro

d'Italia, si vede passare 44 dei 48 voti siciliani all'opposizione di sinistra, segnale inequivocabile di fine alleanza tra il governo di destra e la macchina elettorale dell'isola; le forze elettorali della mafia hanno cambiato cavallo. Egli reagisce a questa secessione con misure d’emergenza, e sembra che effettivamente il suo governo s’impegni a combattere la mafia e il brigantaggio. I deputati siciliani ce la mettono tutta per rendergli il compito più difficile, essi, invero, protestano per il brigantaggio, ma protestano ancora di più per i tentativi che l'esercito fa per reprimerlo.

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Marco Minghetti-ministro del regno Il suo gabinetto dovette affrontare due gravi

problemi: il brigantaggio postunitario, che flagellava le province meridionali, e gli attriti con la Francia di Napoleone III per la Questione romana. Per risolvere il primo problema, venne approvata il 15 agosto 1863 la Legge Pica, proposta dal deputato abruzzese Giuseppe Pica, che sospendeva le garanzie costituzionali nelle province infestate dal brigantaggio e affidava ai tribunali militari la giurisdizione sui briganti catturati: questa legge rimase in vigore fino al 31 dicembre 1865.

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Adesso sono i parlamentari di sinistra ad affermare che la mafia non esiste, ad opporsi alle misure di emergenza e a cercare di salvare il proprio territorio di potere elettorale; essi ricevono, al solito, l'appoggio della classe terriera. Tutto cambia, affinché nulla cambi (ricordate il concetto del Gattopardo?). Il governo Minghetti, durato quindici anni, cade col contributo dei siciliani. Prima di dimettersi Minghetti affida incarico ad una commissione parlamentare di indagare sulle condizioni esistenti in Sicilia. Egli sa già la risposta; gli uomini politici siciliani affosseranno chiunque tentasse di ridurre la loro forza (e della mafia), e poiché si sono dimostrati tanto forti da far cadere il governo, in futuro chiunque ci penserà due volte prima di toccare un tema così scottante. -

La commissione Bonfadini (Romualdo Bonfadini, relatore) fa come ci si aspetta, una relazione superficiale e frettolosa, dettata dai vari notabili che hanno interesse ad alzare una cortina di fumo su tutta la faccenda. Molto più approfondita è invece la relazione di Sonnino e Franchetti,5 toscani e quindi estranei agli interessi che governano l'isola. Essi viaggiano in lungo e in largo per l'isola e saggiano l'opinione pubblica molto più diffusamente di Bonfadini. Controllano e ricontrollano personalmente le testimonianze della gente e non hanno motivo politico per non dire la verità. Mettono in evidenza come il latifondo sia l'unità terriera di base: come l'assegnazione delle terre ex ecclesiastiche ai contadini sia stata disattesa nella maggior parte dei casi: come il latifondo sia in genere un deserto sterile e improduttivo, come l'agricoltura sia incredibilmente in arretrato con le nuove tecniche. Confermano che l'analfabetismo nei villaggi è al novanta per cento, malgrado molte leggi in proposito; confermano che l'unione con l'Italia non ha portato alcun progresso; confermano che l'unica industria prospera è “l'industria della violenza, la sola che per adesso prosperi realmente in Sicilia ''

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Sonnino-Franchetti. - girarono in lungo e largo la Sicilia e quindi portarono le loro deduzioni al parlamento nazionale e alla nazione tutta. -

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Il rapporto Sonnino-Franchetti del 1876 viene considerato il primo serio studio dall’unità d'Italia e le sue conclusioni pessimistiche sono che l'isola non si è elevata di molto dai tempi dei Borboni. Le vecchie ''classi nobiliari'' hanno accettato di buon grado l'unità con l'Italia purché possano continuare ad esercitare il loro potere, i siciliani di talento lasciano l'isola se vogliono affermarsi, il governo locale è corrotto e c'è la convinzione radicata che chiunque abbia un posto di lavoro nel settore pubblico debba servire qualche interesse privato; mentre nella lotta per il potere politico il gruppo che si afferma si accaparra il tutto. I proventi dalle tasse si perdono nella corruzione; invece di costruire strade ospedali, si preferisce spendere per costruire teatri per il godimento della nobiltà. L'analisi Sonnino- Franchetti penetra profondamente nei misteri della

''onorata società''. Essa non è, per un certo verso, un mito circondato

da leggende cavalleresche e da codici d'onore, la verità è che, in effetti, essa si nasconde in queste smargiassate per coprire le sue vigliaccherie e misfatti di tutti i generi. Non si può spiegare facilmente la mafia, se non considerandola un misto di desiderio di libertà individuale, di ribellione al dominio straniero, d’affrancamento alla prepotenza del gabelloto o del barone di turno (che spesso sono collusi con la mafia). Con il corso del nuovo governo liberale, la mafia cambia sistema, s’introduce dove il vuoto delle istituzioni crea inefficienza, e la sua funzione diventa quella di imporre una sorta di governo rudimentale opposto all'anarchia. Il crimine è solo il mezzo; l'obiettivo principale è di conquistarsi il rispetto, il potere e quindi il denaro. - Il crimine è redditizio e molti ne hanno saputo cavalcare l'onda durante il passaggio del potere politico. I più feroci criminali sono ammirati e protetti dalle famiglie dell'alta società, la cui reputazione è tanto più grande quanto più il criminale è famoso. Di quest’amicizia con assassinii efferati ci si vanta in pubblico, è motivo d’ammirazione, si alloggiano nelle proprie tenute e perfino nella casa di città.

Dice Sonnino-Franchetti che se i proprietari terrieri volessero, il brigantaggio potrebbe essere debellato facilmente, ma sfortunatamente, o per paura o per il vantaggio reciproco che ne traggono, << non v'è proprietario il quale si occupi dei suoi fondi, che non pratichi con loro >>.

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L'isola è organizzata solo e soltanto in funzione dei vantaggi che ne trae la classe aristocratica, questa è la verità << mentre l'azione del governo è efficacissima e pronta contro i disordini popolari, rimane miseramente impotente contro quelli i quali, come il brigantaggio e la mafia, si fondano sopra la classe abbiente.>> e la conseguenza di questo fatto terribile sta appunto nella distribuzione dei profitti che in progressione esponenziale va dal piccolo delinquente su su fino al governo, attraverso complicati rapporti che associano e coinvolgono alcuni dei membri più autorevoli del paese.- Il potere è in mano alla delinquenza, il brigantaggio è un’istituzione accettata dai più. I siciliani hanno un bell'affermare che la mafia non esiste, i giornali possono mantenere uno strano silenzio sull'argomento: nella realtà il tutto questo paralizza qualsiasi iniziativa sia nell'agricoltura sia nell'industria. Perfino nelle prigioni la mafia detta la sua legge; nessuna giuria e pochi giudici

condannerebbero

un uomo che ha legami influenti. Quelli che con il crimine sono

si

arricchiscono

oggetto

ammirazione,

di perfino

l'assassinio di innocenti è giustificato se serve ad inculcare

il

terrore

e

ottenere quindi il dovuto rispetto. La moralità corrente dà sempre la colpa ai morti. Sia il Sonnino sia il Franchetti convengono che è della massima urgenza portare le necessarie trasformazioni nell'isola, ma mentre il Sonnino è dell'idea che basta lasciare i siciliani a se stessi per trovare il rimedio a questi mali, il Franchetti crede che dare il tutto in mano alla polizia e ai magistrati possa peggiorare le cose. Questa divergenza di opinioni riflette quello che sarà il dilemma fondamentale di molti governi a venire: se vengono nominati funzionari siciliani questi sono esposti alle intimidazioni e al nepotismo; gli estranei, d'altra parte, non entrerebbero mai nei meccanismi e nei misteri di questo mondo segreto e misterioso.

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Naturalmente questo rapporto crea lo scompiglio nelle classi sociali interessate, la posta in gioco è troppo grande, gli interessati cercano in tutti i modi di insabbiare questo rapporto. Con veemente indignazione esso è tacciato di pregiudizi antimeridionali e tutti sono messi in guardia dalla tentazione di voler mettere in pratica queste conclusioni. -. La conclusione di questo rapporto è che niente cambia nella vita politica dalla Sicilia, esso non dà alcun frutto. L'orgoglio e l'interesse dei grandi elettori mantengono inalterato lo status quo. L'Italia del nord continua ad essere accusata dai nostri notabili di voler trascurare il Sud, ma questa accusa, in verità rappresenta un tentativo deliberato di stornare l'attenzione dal veto opposto a qualsiasi tentativo di azione riparatrice.

Nel frattempo la capitale d'Italia è trasferita a Roma, la sinistra conquista il potere (anno 1876) con l'appoggio della maggioranza dei deputati siciliani e pertanto l'atteggiamento generale verso la ''questione meridionale'' cambia di poco. Il nuovo ministro Agostino Depretis 6conosce l'isola avendo fatto parte della spedizione dei mille. Egli indice nuove elezioni, facendo pressioni di tutti i generi, anche illeciti, adombrando perfino le frodi scandalose del Minghetti di due anni prima. I nuovi deputati che vengono fuori sono l'immagine di questa realtà: a Caccamo, per esempio, il noto mafioso Raffaele Palizzolo è eletto con più del 100% dei voti (??). Altri gentiluomini non si espongono tanto, ma ottengono posti di gran rilievo come sindaci o direttori di banca. Alcuni deputati non prenderanno mai la parola in parlamento, ma voteranno sempre per l'interesse del momento, in cambio della sicurezza che niente avverrà nell'isola 6

Il problema principale che Depretis dovette affrontare nell'ultimo periodo della sua attività politica ci fu quello della crisi agricola, che già nel 1884 aveva pensato di mitigare con l'abolizione definitiva della tassa sul macinato. In quegli anni, la notevole crescita della produzione cerealicola americana aveva infatti portato in Italia un notevole aumento delle importazioni di grano a prezzi molto contenuti e il sistema liberista inaugurato da Cavour capitolò nel luglio 1887 in seguito all'approvazione in parlamento della nuova tariffa doganale. La misura protezionista di Depretis, che fu presentata come misura di adeguamento al clima di concorrenza internazionale, provocò come effetto un aumento del processo di industrializzazione al Nord, in particolar modo dei settori tessile e siderurgico Gli anni dei governi Depretis furono infatti caratterizzati da un notevole incremento della rete viaria e ferroviaria, passata dai 2.700 chilometri del 1861 ai 12.000 della fine degli anni '80 (nel 1882 fu aperta la galleria ferroviaria del San Gottardo).

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e che le bufere Tajani o Sonnino-Franchetti saranno dimenticate o perlomeno messi nel dimenticatoio. Quando è il momento di discutere la mozione Bonfadini, la camera è quasi vuota, alcuni conservatori del nord scoprono (Luigi Luttazzi) come la sinistra (al governo) sia contraria alla necessità della riforma agraria nell'isola. Infatti, il ministro (di sinistra) dell'agricoltura è il barone Majorana, latifondista e banchiere di Catania, il cui collegio elettorale è il suo feudo di Militello, e che ha incitato i deputati siciliani a frustrare i tentativi del Minghetti di lotta contro la mafia. Un uomo così è la garanzia per l’aristocrazia dell'isola che niente sarebbe cambiato.

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La politica dei Savoia in vista dell’unità d’Italia

La mossa di Cavour, che poco e niente credeva della

Il Conte Camillo Benso di Cavour

onestà morale di Garibaldi, che a Palermo si era nominato dittatore (temeva che si impadronisse della Sicilia), ma temeva pure che i democratici del suo governo potessero influenzare il Garibaldi ed imbrigliare le sue forze armate per la causa della repubblica (e non della monarchia). - La mossa. dicevo, fu quella di accettare quella parte del programma che chiedeva la costituzione dell’Unità d’Italia. -

Spedì immediatamente i suoi funzionari

in Sicilia a preparare il terreno per un plebiscito popolare dove sarebbe apparsa incontrovertibile la decisione popolare di volere incorporare l’isola al regno sabaudo, con re Vittorio Emanuele 2° come sovrano. Altro spinoso problema che lo metteva di malumore era, che con la Sicilia libera dai Borboni, erano rientrati tutti i maggiorenti del trascorso golpe del 1848 e questi non optavano certamente per la casa Savoia, a cominciare da Crispi, Mazzini, Al parlamento di Torino spiegò come e perché il generale Manfredo Fanti fosse stato mandato con le sue truppe, in Umbria e nelle Marche. carmelosantillo0@gmail.com

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“” Anche in queste province, o signori, noi non siamo andati ad istituire la rivoluzione ed il disordine, ci siamo andati a stabilire il buon governo, la legalità la moralità. - Difatti, qualunque possano essere le…\....... Io proclamo con certezza che, \, mai guerra non fu condotta con maggior generosità, magnanimità e giustizia. - “ Mentre diceva ciò la “magnanimità” del suo esercito stava scomparendo e cominciava una nuova guerra terribile. L’esercito pontificio era disperso: il borbonico stava per capitolare e quello di Garibaldi stava per essere disciolto, quando apparve un nuovo nemico. Bande di guerriglieri. (Alcune innalzavano bandiere di Re Francesco Secondo, altre di Papa Pio lX,) e che cominciarono a vanificare i propositi di Cavour che definiva il suo governo,” un buon governo, legalità e moralità. -“ Il compito di affrontare questo nuovo avversario fu affiato all’esercito della novella patria, e all’inizio non si capì quanto fosse esteso questo movimento di protesta, tanto che fu chiamato in tono dispregiativo

“Brigantaggio” e solo dopo

ci si

accorse che questa opposizione rivelò tutti i segni deleteri di una guerra civile bella e buona.- Il crollo del regime borbonico e il breve interregno garibaldino accrebbero le occasioni di illegalità che erano state endemiche per decenni, se non addirittura per secoli, nella maggior parte delle province.- Era la fame di terra a spingere i contadini a gesti di ribellione: Garibaldi quando sbarcò, per attirare le simpatie della gente del luogo, promise mari e monti, e quello che restò nella mente della gente del luogo fu che passata la tempesta garibaldina ,erano rimasti con un pugno di mosche,

1l generale Medici: scese in Sicilia con i mille. Poi venne integrato nel nuovo esercito italiano e mandato in Sicilia come prefetto di Palermo

allora quello che era stato promesso fu considerato un debito, specie la promessa di abbassare il prezzo del pane e del sale,

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Il brigantaggio

togliere la tassa sul macinato e soprattutto assegnare ai contadini i vasti feudi (specialmente quelle proprietà ex ecclesiali, che erano state messe in vendita e a cui la mafia ci aveva nuotato a piene mani).Detto fatto, una gran massa di disperati si lanciò ad occupare queste terre, con le armi in mano, sapevano che ci sarebbe stata una opposizione da parte dei proprietari quindi si organizzarono in bande armate, i fasci.Il timore che questa rivoluzione sociale avrebbe ostacolato lo sforzo bellico e messo in pericolo le relazioni con l’aristocrazia del posto, crearono gli incidenti come le fucilazioni di Bronte e la strage di Portella della ginestra 7.Visto

l’aggravarsi

del

fenomeno

banditesco, anche i latifondisti si schierarono apertamente piemontese,

con

la

pregando

nuova in

cuor

corrente loro

che

intervenisse al più presto l’esercito se si voleva mettere un argine a questo terremoto.Francesco Borbone da Gaeta ultima sua roccaforte, esorta il popolo ad attaccare questi conquistatori. Nel 1861 lascia Gaeta e si rifugia a Roma dal papa , e da lì continua la sua campagna

:

il

papa

gli

fa

da

spalla,

scomunicando i Savoia (anche perché il governo di Torino aveva già dal 1859-60 emesso delle leggi decisamente anticlericali).- Con la caduta di Gaeta, adesso tutta la penisola è unita sotto casa Savoia, tranne il Lazio e Venezia, difese dalle armi francesi ed austriache.Cavour proclama pubblicamente la nascita del Regno d’Italia e che Roma dovrà essere la capitale di questo regno; nel frattempo sta intricando accordi segreti con il re francese Napoleone Terzo.- Lo scoppio delle ostilità tra Francia e Germania, obbliga le truppe di stanza a Roma a sgomberare il campo e questo è il miracolo che stiamo aspettando. La Francia riconosce il nuovo regno d’Italia, lo stesso fa la gran Bretagna e via via tutti gli altri stati europei si accodano .7

Sebbene molto distanti nel tempo, i due avvenimenti ebbero la stessa matrice.- l’opposizione dei feudatari a lasciare le proprietà.-

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Cavour muore prematuramente e dopo appena sei giorni viene eletto nuovo capo di governo il barone Bettino Ricasoli.-8 Quando questi cerca di capire in che pasticcio si era messo il suo predecessore, scopre un imbroglio inestricabile; Una cosa soltanto salta agli occhi: che le due questioni, quella siciliana e quella romana sono tanto aggrovigliate da non potersi separare e che la guerra civile sembra voglia dare ragione a quelli che profetizzano il crollo di questo nuovo regime, quanto prima. Perfino il D’azeglio mostra i suoi dubbi sulla possibilità che il sud approvi l’unione così innaturale.La stessa struttura del nuovo stato e i rapporti con gli altri stati sembrano dipendere dalla stabilizzazione della legge e dell’ordine nei nuovi stati acquisiti.Per evitare di avere due eserciti sul posto, viene deciso lo scioglimento delle brigate garibaldine, era il male minore, ma la loro mancanza sul posto privò il governo di una forza che avrebbe potuto evitare la rapida estensione del brigantaggio.- Fortunosamente si stabilì la conversione di molti ufficiali borbonici nel nuovo esercito. Una commissione guidata dal generale borbonico

De

Sauget9

esaminò

tutte (3.600 ) le richieste

e ne

promosse 2.191 .-Molti preferirono ritirarsi a vita privata o andare in pensione; pochi raggiunsero le bande

dei

briganti.-

La

truppa, che il generale

La

Il 20 gennaio 1893, durante la rivolta dei fasci siciliani 500 contadini che avevano occupato alcune terre in maniera simbolica vennero dispersi da soldati e carabinieri, tredici manifestanti furono uccisi durante gli scontri

8

Bettino Ricasoli, soprannominato il Barone di ferro ; Firenze, 9 marzo 1809 – Castello di Brolio, 23 ottobre 1880), è stato un politico italiano, sindaco di Firenze e secondo presidente del Consiglio del Regno d'Italia dopo Cavour. 9

De Sauget proveniente da una nobile famiglia del Regno delle Due Sicilie ma originaria della Francia, Roberto de Sauget nacque a Monteleone Calabro il 3 aprile 1786. Intrapresa la carriera militare, egli frequentò l'Accademia degli Ufficiali del Genio dell'esercito borbonico sino a raggiungere il grado di Maresciallo.

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Marmora10 definiva “ “ La canaglia” fu messa in libertà senza tanti complimenti, e certamente questa massa di sbandati andò ad ingrossare le bande fuorilegge.Subito dopo la partenza di Garibaldi dalla Sicilia, arrivò il “luogotenente generale” per amministrare l’isola.- Si chiamava Farini

11

che scende seguito da

una consistente truppa di funzionari civili che dovrebbero far partire l’amministrazione dell’isola .Famosa è questa lettera di Farini inviata a Cavour ; « Ma, amico mio, che paesi son mai questi, il Molise e Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica. I beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile! Il Re [Francesco II] dà carta bianca; e la canaglia dà il sacco alle case de' Signori e taglia le teste, le orecchie a' galantuomini, e se ne vanta, e scrive a Gaeta [dove Francesco II era asserragliato]: i galantuomini ammazzati son tanti e tanti; a me il premio. Anche le donne caffone ammazzano; e peggio: legano i galantuomini (questo nome danno a' liberali) pe' testicoli, e li tirano così per le strade; poi fanno ziffe zaffe: orrori da non credersi se non fossero accaduti qui dintorno ed in mezzo a noi >> Il personale rimase esterefatto dall’enormità del compito che si trovò di fronte, a cominciare dalla lingua e dall’ambiente ostile.- La chiesa non perdeva occasione per gettare veleno su questi piemontesi, che erano stati dichiarati scomunicati eretici dal papa.Dopo pochi mesi viene sollevato dall'incarico. Come ultimo atto della sua luogotenenza, Farini sequestra le rendite dei vescovi assenti dalle diocesi. Motiva il provvedimento asserendo che, in base al diritto canonico, le assenze non Farini Luigi Carlo

10

La Marmora Il suo nome è legato a importanti eventi del Risorgimento: la rivolta di Genova del 1849, la lotta al brigantaggio (dal 1861 al 1864), la giornata dell'Aspromonte, e i rapporti diretti con Napoleone III di Francia. 11

Farini Luigi Carlo-Il 6 novembre 1860 viene nominato da Vittorio Emanuele II

«Luogotenente generale delle provincie napoletane». L'incarico è lo stesso che aveva ricoperto un anno prima a Bologna: guidare l'annessione dei territori appena conquistati allo Stato Sabaudo (il plebiscito si è svolto il 21 ottobre). La realtà napoletana è piuttosto diversa da quella che Farini aveva conosciuto tra la natia Russi e Torino. Molise e Terra di Lavoro, che riportò in un dispaccio inviato il 27 ottobre al presidente del Consiglio, Cavour:

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erano giustificate. In realtà i vescovi si erano allontanati dalle diocesi per salvarsi la vita.I funzionari torinesi in Sicilia non facevano altro che chiedere al governo di mandare giù l’esercito, intanto ammettevano che non facevano alcun progresso nei loro sforzi per applicare le nuove leggi . Le più rognose che i siciliano non digerivano proprio erano la tassa sul macinato e la coscrizione obbligatoria.- Viene giù il generale Arnulfi per sondare il clima e riportare al governo. Ecco in due parole le sue scoperte: “ i due terzi dei sindaci di Sicilia sono “borbonici” . Si decise a mandare giù l’esercito.- Il generale Cialdini ebbe l’ordine di muoversi dalle Marche e scendere giù con pieni poteri militari.- Il generale Pinelli ad Avezzano fece affiggere su tutti i muri la notifica che chi veniva trovato con le armi in mano, chi aiutava gli insorti, hi parlava male di re Vittorio era passibile di morte per fucilazione.Il generale Fanti mise in funzione i tribunali militari e già l’indomani le fucilazioni erano tante che Torino si allarmò.- In parlamento in pochi obiettarono che questo non era in metodo di creare un clima liberale: soltanto alcuni mossero riserve, la maggior parte dei nostri onorevoli fece finta di non sentire o vedere.- La voce che partì da Torino fu “ fusillez , mais point de tapage” che tradotto in italiano vuol dire: “fucilate, ma senza fare clamore.-“e questa divenne la linea politica di Ricasoli , di Farini, di Minghetti e successori.Il generale °Cialdini chiede di aumentare le truppe (ha soltanto 20 mila uomini), ne arrivano altre 20 mila, e ancora 10 mila. alla fine dell’anno ha 50 mila uomini al suo comando, ma nessun progresso .- La Marmora viene in sostituzione di Cialdini con nuove idee su come vincere questa guerra; campi base e colonne volanti.- Niente da fare.il tenente Negri propone di smettere di fare i soldati, generale Emilio Pallavicini

ma di trasformare le truppe in agenti di polizia.- Infine il generale Pallavicini

12

si avvicina e di molto alla

12

Tra il 1863 ed il 1864, Pallavicini, con l'aiuto del brigante rinnegato Giuseppe Caruso, riuscì a sgominare le bande guidate da Carmine Crocco (di cui ne riconobbe non solo l'astuzia e l'abilità bellica ma anche il carisma sul popolo e gli altri briganti) portando numerosi arresti e fucilazioni nell'area del Vulture-Melfese.

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soluzione. I soldati portavano sulle spalle mediamente ventisette chilogrammi di peso, oltre le armi, mentre i banditi anche appiedati erano liberi e correvano come lepri,; conoscevano il terreno e si confondevano facilmente con la popolazione dei villaggi; l’omertà era la regola, nessuno vedeva o aveva visto niente.- Il nuovo comandante liberò degli zaini i suoi soldati e mise in prima linea i bersaglieri , che correvano più di loro.- Un bandito preso prigioniero venne liberato purchè insegnasse loro le tecniche di guerriglia che adoperavano i briganti.La guerriglia cambiò aspetto; niente più scontri armati, la rivoluzione adesso si nasconde dentro le mura delle città; La politica comincia a scoprire la questione meridionale. Il deputato Giuseppe Ferrari , di ritorno da Pontelandolfo, narra come la città sia stata completamente distrutta per rappresaglia dopo che in un agguato erano stati uccisi cinquanta bersaglieri.E commosse l’aula col racconto delle atrocità che si perpetravano in questa guerra fratricida.“ Una delle ragioni per cui Ricasoli sostituì Cialdini era stato il continuo aumentare delle critiche al suo comportamento brusco e il flusso continuo delle proteste perché i militari usurpavano le funzioni civili , rendendo così vane tutte le garanzie di libertà dello statuto.- “ John Wittam

I generali avevano i loro problemi per capire dove erano i paesi e come arrivarci; sentivano dire che i banditi si erano visti verso Lercara Friddi o Calascibetta ( cito a caso) e dove erano questi paesi e come si ci arrivava ?? Si studiò la possibilità di fare delle carte topografiche, ma la risposta dei tecnici lasciò tutti di stucco . Ci volevano almeno otto anni e due milioni di lire per fare questo.Altro problema irrisolvibile fu la malaria. Non si conoscevano rimedi per questa malattia; si usavano ruhm e caffè come rimedio con il risultato che ben immaginiamo .- La malattia cominciò a mietere molte vittime tra i soldati.-

Nel 1866, nel corso della terza guerra di indipendenza comandò l'avanguardia sul Po costituita da 10 battaglioni di bersaglieri. In seguito sostituì Medici al corpo di Palermo e nel 1870, dopo Porta Pia, comandò il corpo di Roma.

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La stato di guerra aveva proibito la pubblicazione dei giornali; e giornalisti se volevano venire giù avevano bisogno di un permesso speciale , che i militari non davano. La corrispondenza postale era ferma così che nessuno o quasi sapeva cosa stava succedendo al sud, soltanto radio scarpa; i militari in rientro raccontavano di tutto e di più.- Ai soldati fu necessario fornire sei paia di scarpe ogni due mesi.Il generale Cadorna,13 ultimo arrivato portò altre novità nella tattica militare; niente attacchi notturni ma un efficace sistema d’informazione; spiegò che l’esercito aveva bisogno di metodi poco ortodossi e gli ufficiali che tentennavano ad applicarli, era subito mandati via.- Rafforzò lo spirito di corpo tra i soldati da qualunque parte d’Italia venissero.-

1862Il governo ha dovuto ammettere che la questione meridionale è qualcosa in più di un semplice caso di brigantaggio e che con le armi si sarebbe potuto risolvere.- Adesso sta nascendo un’altra complicazione: Garibaldi il grido “Roma o morte “ sta risalendo la penisola deciso a conquistare Roma e questo porta all’episodio tragicomico del Aspromonte.- Questo episodio portò a conoscenza al mondo di allora quello che il governo aveva accuratamente occultato.L’appello di Garibaldi alla nazione , l’atteggiamento equivoco di re Vittorio e

del governo Rattazzi aprirono una voragine di

indisciplina nell’esercito . Non ci credeva più nessuno alla propaganda piemontese; specialmente quando il generale Pallavicini diede ordine di sparare sui garibaldini, e su Garibaldi.- Sette volontari del regio esercito che avevano disertato per unirsi alle brigate garibaldine vennero fucilati .- Nella guerra in corso si aprì così una guerra civile dentro la guerra civile fu il commento dei giornali (del nord, in Sicilia la stampa

13

Comandante militare in Sicilia ed in Abruzzo nel 1860 (regioni appena conquistate da Giuseppe Garibaldi), si adoperò con durezza nel tentativo di arginare il fenomeno del brigantaggio postunitario. Fu a capo delle truppe inviate nel 1866 a Palermo a sedare la cosiddetta rivolta del sette e mezzo (ebbe infatti a durare dalla sera di sabato 15 settembre al pomeriggio del sabato successivo). La rivolta palermitana fu domata dalla Marina del regno, dopo un feroce cannoneggiamento dal mare durato quattro giorni. Le vittime furono numerosissime.

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non esisteva) La risposta del governo di Torino fu, alla prova dei fatti, assai ferma e relativamente tempestiva. Il prefetto di Palermo, Pallavicino venne destituito per aver assistito, senza reagire, all'infuocato discorso tenuto da Garibaldi il 15 luglio, quando aveva attaccato Napoleone III (il principale alleato del Regno d'Italia) e invocato la liberazione di Roma. Il 3 agosto il Re pubblicò un proclama in cui sconfessava "giovani … dimentichi … della gratitudine verso i nostri migliori alleati" e ne condannava le "colpevoli impazienze". Negli stessi giorni Rattazzi proclamava in tutta la Sicilia lo stato d'assedio. Giorgio Pallavicino venne sostituito il 12 agosto dal generale Cugia e poi, il 21 agosto, da Cialdini, mentre il 15 agosto il Mezzogiorno continentale veniva affidato a La Marmora e messo sotto stato d'assedio: Cialdini e La Marmora erano i due più importanti militari italiani, e il loro incarico è un chiaro indice dell'importanza che il governo attribuiva a quegli avvenimenti. Una squadra navale (affidata ad Albini) fu incaricata di impedire il passaggio di Garibaldi in Calabria. Le truppe dislocate in Calabria, numerose in quanto impegnate nella lotta al brigantaggio, vennero allertate (e proprio ad esse appartenevano i bersaglieri che avrebbero dato il maggior contributo a bloccare la marcia di Garibaldi).

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Il regno d'Italia pareva mettere in campo tutta la propria possibile credibilità patriottica: il colonnello Emilio Pallavicini, che avrebbe fermato Garibaldi di lì ad un mese in Aspromonte, era medaglia d'oro per l'assedio di Civitella del Tronto (l'ultima fortezza presa al Borbone il 20 marzo 1861), veterano di Crimea e della liberazione di Perugia, ferito a San Martino; Luigi Ferrari, l'ufficiale che sarebbe stato ferito dai garibaldini negli scontri, era veterano della prima e della seconda guerra di indipendenza nonché dell'Assedio di Gaeta, medaglia d'argento a San Martino e alla liberazione di Ancona. Ma come fermare Garibaldi, un uomo che tanto aveva fatto per la Nazione e che godeva dell'illimitata stima dell'opinione pubblica italiana e liberale nel mondo?

Lo sbarco in Calabria A Catania Garibaldi prendeva possesso dei piroscafi Abbattucci e Dispaccio, “capitati nel porto di Catania”, e prendeva il mare nella notte. Dopo una breve navigazione notturna, alle quattro del mattino del 25 agosto 1862, sbarcava alla testa di tremila uomini in Calabria, tra Melito e Capo dell'Armi,nei pressi di S. Elia di Montebello Jonico.

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Una squadra della Regia Marina era di vedetta. Non si sa cosa accadde all'uscita dal porto: i capitani sostennero di non aver avvistato le navi in uscita, ma Garibaldi, nelle Memorie, afferma il contrario. Sicuramente, appena i volontari presero terra ed imboccarono la strada del litorale verso Reggio Calabria, essi vennero bombardati da una corazzata italiana[quale?], mentre le avanguardie furono prese a fucilate da truppe uscite da Reggio, tanto da spingere Garibaldi a deviare per il massiccio dell'Aspromonte. In ogni caso la posizione di sbarco venne segnalata e la colonna intercettata. Dunque, o i capitani di vedetta a Catania non se la sentirono di eseguire ordini che il capitano della corazzata, al contrario, seguì alla lettera, ovvero si preferì evitare uno scontro in mare che avrebbe comportato assai più vittime garibaldine di uno scontro sulla terraferma.

In ogni caso Garibaldi non voleva uno scontro: diede ordine di non rispondere al fuoco e proseguì per la montagna, lontano dai cannoni della Marina Regia e cercando di evitare di essere agganciato. La sera del 28 agosto 1862 la colonna raggiunse una posizione ben difendibile, a pochi chilometri da Gambarie, nel territorio di Sant'Eufemia d'Aspromonte. La colonna aveva marciato per tre giorni, e si sfamò saccheggiando un campo di patate. Nel frattempo si era ridotta a circa 1.500 uomini, a causa delle diserzioni e degli arresti. Verso mezzogiorno del 29 agosto Garibaldi fu informato dell'arrivo di una grande colonna del Regio Esercito, ma decise di rimanere ad aspettare la truppa. Una decisione che, nelle Memorie, si rimproverò. Era altresì difficile continuare una fuga infinita che si prospettava lunga e senza risultati. Schierò, comunque, la colonna in ordine di battaglia, sull'orlo di un bosco, in posizione dominante: la sinistra su un monte, Menotti al centro, Corrao a destra. I regolari presero contatto con i volontari alle quattro di pomeriggio del 29 agosto. Erano ben 3.500 uomini. Ben disposti, i volontari osservavano la veloce marcia

d'avvicinamento

dei

Bersaglieri, guidati da Pallavicini. Giunti a lungo tiro di fucile,

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Pallavicini dispose la truppa a catena, i bersaglieri davanti, ed avanzò risolutamente sui volontari “a fuoco avanzando”. A quel punto il Generale Garibaldi corse di fronte alla propria linea e prese ad urlare di cessare il fuoco: “No, fermi. Non fate fuoco. Sono nostri fratelli”. Fu ubbidito dal grosso dei volontari, ma il centro del Menotti prese a rispondere, anzi caricò i bersaglieri e li respinse. Garibaldi sostenne che si trattava di “poca gioventù bollente” che reagì per la insostenibile tensione. Sicuramente avevano contravvenuto ad un suo ordine esplicito. Negli altri settori, gli assalitori, non trovando resistenza, continuavano a salire sparando ed accadde l'inevitabile: Garibaldi, in piedi allo scoperto fra le due linee, ricevette due palle di carabina, all'anca sinistra e al malleolo destro. Quest'ultima ferita fu causata dal tenente Luigi Ferrari, comandante di compagnia del 4º battaglione. Nel contempo veniva ferito al polpaccio sinistro anche Menotti. Immediatamente dopo anche Ferrari venne colpito, dal fuoco di risposta, nel medesimo punto. L'episodio della ferita di Garibaldi sarà ricordato in una celebre ballata cantata su un ritmo di marcia dei bersaglieri. Caduto il generale, i volontari si ritrassero

nella

foresta

retrostante,

mentre i loro ufficiali correvano attorno al ferito. Anche i bersaglieri cessarono gli spari. Lo scontro era durato una decina di minuti, abbastanza per causare la morte di sette garibaldini e cinque regolari e il ferimento di venti garibaldini e quattordici regolari: se i volontari si fossero difesi, tenuto conto della loro forte posizione, la sproporzione delle vittime sarebbe stata fortemente a sfavore dei regolari. Alcuni bersaglieri che lasciarono le proprie posizioni per raggiungere le file dei garibaldini, vennero in seguito arrestati e fucilati. Garibaldi era appoggiato ad un pino, ancor oggi esistente, con in bocca un mezzo toscano. Veniva soccorso da tre chirurghi (Ripari, Basile e Albanese) aggregati ai volontari. Sopraggiunse dalle linee del Regio Esercito il tenente Rotondo a cavallo: senza salutare intimò a Garibaldi la resa. Il Generale lo rimproverò e lo fece

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disarmare. Intervenne allora il comandante colonnello Pallavicini che ripeté la richiesta, ma dopo essere sceso da cavallo, parlandogli all'orecchio e con la dovuta cortesia. Tra i bersaglieri Garibaldi riconobbe soldati ed ufficiali che erano stati con lui in campagne precedenti: li vide rattristati e contriti. Il Generale venne adagiato su una barella di fortuna e trasportato a braccia in direzione di Scilla. A tarda sera venne ricoverato nella capanna di un pastore di nome Vincenzo, bevve brodo di capra e dormì su un letto improvvisato fatto dei cappotti offerti dagli ufficiali del suo Stato Maggiore. All'alba riprese la marcia e il Generale venne riparato dal sole con un improvvisato ombrello di rami d'alloro. Giunto al mare, pare che il municipio di Scilla, evidentemente non del tutto conscio delle circostanze, proponesse di offrire un rinfresco di saluto, ottenendone

un

prevedibile

rifiuto. Garibaldi chiese di essere imbarcato su una nave inglese. Tuttavia

era

prigioniero

e,

ovviamente, il permesso gli venne rifiutato. Dato che non era possibile imbarcarlo piroscafo passava

subito, "Duca

dopo

perché di

tre

il

Genova", giorni,

fu

trasportato a Paola, dove vi era l'ospedale militare, per le cure del caso, e poi (Dal libro Bella e perduta. L'Italia del Risorgimento - Lucio Villari ) venne imbarcato sulla pirofregata Duca di Genova, insieme a Menotti (già stato a Paola, assieme a Bixio, Giacomo Medici e Menotti Garibaldi per l'imbarco di più di 3000 garibaldini dall'arenile di Paola sui tre piroscafi scortati dalla corvetta piemontese "Governalo".), una decina di ufficiali ed i tre medici. Assisteva, dalla tolda della Stella d'Italia, il generale Cialdini incaricato straordinario per la direzione politica e militare della Sicilia e che il 26 agosto, incontrando a Napoli La Marmora si era riservato anche il comando della zona dove operava Garibaldi. Cialdini non si degnò neppure di salutare il vinto, il che testimonia l'ostilità con la quale l'avventura era stata accolta dai moderati. Sbarcato il 2 settembre nel porto militare della Spezia, il Generale fu destinato

al

Varignano,

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un

ex-lazzaretto

convertito

in

stabilimento

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penitenziario, che allora ospitava 250 condannati ai lavori forzati. Venne alloggiato in un'ala della palazzina del comandante del carcere, una stanza per sé e cinque per familiari e visitatori.

La ferita più insidiosa era quella al piede destro. La prima relazione medica recitava: “La palla è penetrata a tre linee al di sopra e al davanti del malleolo interno: la ferita ha una figura triangolare a lembi lacerocontusi del diametro di mezzo pollice circa. Alla parte opposta, mezzo pollice circa al davanti del malleolo esterno, si avverte un gonfiore che sotto il tatto è resistente...”. Proprio il gonfiore dovuto all'artrite (che da anni perseguitava il Generale) rese difficile verificare la posizione della pallottola. Né si era certi della sua reale presenza. Essa venne accertata solo a fine ottobre alla Spezia e l'estrazione avvenne solo il 23 novembre a Pisa, ad opera del professor Ferdinando Zannetti. Dei circa 3.000 volontari guidati da Garibaldi, solo alcune centinaia riuscirono a fuggire. Vennero arrestati 1.909 garibaldini, riaccompagnati alle loro dimore 232 minorenni, mentre i militi che avevano abbandonati i loro reparti regolari per unirsi a Garibaldi vennero rinchiusi nelle antiche fortezze sarde (Alessandria, Vinadio, Bard, Fenestrelle, Exilles, Genova). Essi (e lo stesso Garibaldi) vennero amnistiati alla prima occasione possibile: il matrimonio di Maria Pia di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele II con il re del Portogallo il 5 ottobre 1862. Dopo l'amnistia e l'estrazione della pallottola, Garibaldi rientrò a Caprera, da dove non si mosse per i successivi due anni (sino al trionfale viaggio in Inghilterra). Rientrò in combattimento solo per la terza guerra di indipendenza guidando una brillante campagna nel Trentino culminata nella vittoria di Bezzecca. Le autorità militari in Sicilia, cercando di farsi perdonare

dal

governo

la

eccessiva

tolleranza

dell'agosto, attuarono una vera e propria “caccia al garibaldino”, che portò al massacro di sette volontari nella provincia di Messina (eccidio di Fantina). Restava il fatto che Garibaldi avesse potuto traversare l'intera Sicilia senza essere fermato. Rattazzi venne quindi accusato di averlo incoraggiato, o perlomeno di aver intrattenuto rapporti ambigui, carmelosantillo0@gmail.com

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sicuramente di non averne rifiutato le intenzioni con sufficiente decisione. I sospetti si indirizzarono anche sul Re, che aveva la tendenza a condurre una politica personale, separata da quella del governo. L'accusa (ad esempio Denis Mack Smith) è che uno dei due, o entrambe, abbiano illuso Garibaldi circa la realizzabilità dell'impresa. Salvo abbandonarlo quando la marcia aveva già avuto avvio. Tali commenti, in effetti, riprendono le accuse lanciate già nel 1862 dagli ambienti garibaldini e mazziniani ma, a smentirle, basterebbero gli interventi degli antichi commilitoni di Garibaldi, come Cucchi e Turr, o di Medici che, inviandogli il proclama del Re, lo scongiurava di evitare la guerra civile. A Regalbuto, prima di imbarcarsi per la Calabria, il Generale fu raggiunto da una delegazione di deputati della Sinistra, latrice di una missiva firmata anche da Crispi di simile tenore, egualmente infruttuosa. L'unico elemento certo è che nel marzo 1862 Garibaldi era a Torino e vi incontrava più volte il Re, e Rattazzi Certamente il desiderio di vedere liberate Venezia e Roma era autenticamente popolare e restavano obiettivi fortemente condivisi dai governi. Rimane però aperta la questione se ciò basti ad accusare di errore politico il governo regio: se sia stato il coraggio

ed

il

senso

dello

Stato

di

quest'ultimo a prevalere, o incapacità di raggiungere con la presa di Roma uno degli obiettivi centrali del Risorgimento. Rimane il dubbio se il Rattazzi abbia davvero pensato di convincere Napoleone III a lasciargli prendere Roma per impedire ai radicali di conquistarla con la forza, come tramanda un'antica tesi di parte mazziniana. Sicuramente, però, il Rattazzi era stato responsabile di avere, in una prima fase, temporeggiato: per questo fu costretto alle dimissioni nel novembre 1862.

Conseguenze

Le critiche al governo italiano

Il ferimento di Garibaldi ebbe grande risonanza: a Londra 100.000 persone si radunarono a Hyde Park per manifestare la loro solidarietà. Lord Palmerston offrì un letto speciale per la convalescenza del condottiero. Il partito carmelosantillo0@gmail.com

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mazziniano fece, in particolare, leva sull'episodio, per dichiarare tradito l'accordo tacito fra i repubblicani e la monarchia, mentre per i monarchici erano i mazziniani a tradire con iniziative avventate gli interessi della nazione. Il governo venne accusato di aver combattuto "per il Papa" e di aver tradito la causa italiana. Lo stesso Garibaldi accusò nelle Memorie il Pallavicini di aver comandato ai suoi soldati l'"esterminio" dei volontari. Tali posizioni hanno avuto una certa risonanza e sono state ripetute fino ai nostri giorni da molti storici (ad esempio Denis Mack Smith), mentre altri, compresi alcuni contemporanei, dimostravano una più generale avversione verso disavventure come quella dell'Aspromonte, sottolineandone l'inattuabilità.-

Dimessosi Rattazzi, dopo un brevissimo governo guidato da Farini, nel 1863 il Re incaricò il moderato bolognese Marco Minghetti. Facendosi forte della decisa azione italiana contro Garibaldi, Minghetti fu in grado di negoziare un favorevole accordo con la potenza protettrice del Papa, la Francia: con la convenzione franco-italiana del 15 settembre 1864, il Regno d'Italia si impegnava a rispettare l'indipendenza del residuo “Patrimonio di San Pietro” e di difenderla, anche con la forza, da ogni attacco dall'esterno (ma non dall'interno); Napoleone III a ritirare le sue truppe entro due anni, in modo da

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lasciare all'esercito pontificio il tempo di organizzarsi in una credibile forza di combattimento. La convenzione aveva lo scopo di eliminare dalla penisola ogni presenza militare francese, senza pregiudicare eccessivamente le aspirazioni italiane su Roma. Era un obiettivo importante e lo stesso Garibaldi, all'inizio della spedizione

dell'Aspromonte,

aveva

dichiarato

inammissibile

tollerare

ulteriormente la presenza di truppe straniere in Italia. Si otteneva, inoltre, il non intervento francese in caso che il potere temporale fosse stato rovesciato da un movimento popolare interno: il caso non si verificò ma, per comprendere l'importanza della concessione francese, occorre ricordare che Pio IX era stato cacciato già una volta dal popolo romano, appena 15 anni prima, nel 1849 (Repubblica Romana).

Il trasferimento della capitale a Firenze La convenzione includeva anche una clausola segreta: il trasferimento della capitale

da

affermare

Torino la

a

propria

Firenze.

Per

estraneità

al

controverso provvedimento, a seguito del massacro di Torino il Re si disse non informato e licenziò Minghetti con un telegramma, sostituendolo il 28 settembre 1864 con Alfonso La Marmora. Quest'ultimo pose in essere il trasferimento della capitale a Firenze il 3 febbraio 1865. L'obiettivo dell'annessione di Roma rimaneva, comunque, assai popolare, né il regno d'Italia rinunciò al proposito di fare della città la sua nuova capitale, come sancito, a suo tempo, da Cavour in persona. Solo cinque anni dopo, profittando della immensa popolarità derivatagli dalla vittoria di Bezzecca, Garibaldi avrebbe ritentato l'impresa (battaglia di Mentana).

Era di nuovo

al potere

Rattazzi,

che,

questa volta,

agì

preventivamente facendo arrestare Garibaldi. Ma quando il generale sfuggì rocambolescamente da Caprera e sbarcò in Toscana, Rattazzi fu costretto dal Re a rassegnare nuovamente le dimissioni (19 ottobre 1867), e terminò la sua carriera politica.

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Il brigantaggio

La questione romana venne risolta solo il 20 settembre 1870 quando, sconfitto Napoleone III dai Prussiani nella battaglia di Sedan e proclamata in Francia la repubblica, il governo di Giovanni Lanza fu, finalmente, libero di inviare un corpo d'armata al comando di Cadorna che entrava a Roma attraverso la Breccia di Porta Pia. Da segnalare che a Cadorna vennero affiancati, come generali di divisione, due ex-garibaldini: Bixio e Cosenz.

La legge Pica14 del 15 agosto 1863, n. 1409 ("Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette") venne concepita per contrastare il brigantaggio e fu emanata in deroga agli articoli 24 e 71 dello Statuto albertino, che garantivano il principio di uguaglianza di tutti i sudditi dinanzi alla legge e la garanzia del giudice naturale. Introdusse il reato di brigantaggio, i cui trasgressori sarebbero stati giudicati dai tribunali militari; essa inoltre fu la prima disposizione normativa dello stato unitario a contemplare il reato di camorrismo e a prevedere il "domicilio coatto". Le pene comminabili andavano dalla fucilazione, ai lavori forzati a vita, ad anni di carcere, con attenuanti per chi si fosse consegnato o avesse collaborato con la giustizia. Approvata durante il governo Minghetti I e promulgata da Vittorio Emanuele II il 15 agosto dello stesso anno, la legge rimase in vigore fino al 31 dicembre 1865. Presentata come "mezzo eccezionale e temporaneo di difesa", la legge fu più volte prorogata e integrata da successive modificazioni, con la finalità

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nota anche come legge Pica dal nome del suo promotore, il deputato abruzzese Giuseppe Pica

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primaria di debellare il brigantaggio nel Mezzogiorno, attraverso la repressione dello stesso, sanzionando coloro che lo praticassero e lo favorissero. Su 207 votanti alla camera, la legge venne approvata con soli 33 voti contrari. Alla fine dell'estate 1863, di fatto la legge Pica fu estesa anche alla Sicilia, per combattere oltre il brigantaggio in Sicilia, anche il fenomeno della renitenza alla leva. Il 5 dicembre 1863, il deputato siciliano Vito d'Ondes Reggio presentò un'interpellanza parlamentare nella quale chiedeva lumi in merito alle modalità, tipiche di una «profilassi di tipo coloniale», con le quali veniva mantenuto l'ordine pubblico in Sicilia Lo stesso d'Ondes Reggio, quindi, propose alla camera dei deputati del Regno d'Italia di apportare delle integrazioni di tipo garantista alla legge, in particolare che fosse concesso all'imputato di poter deporre, che i

difensori da questi prescelti potessero essere ascoltati dalla giunta giudicante e che fossero sentiti i testimoni indicati dalla difesa. Con la legge 7 febbraio 1864, n. 1661, che prorogava la legge Pica, quest'ultima venne estesa alle province siciliane (art. 9), rimanendo in vigore fino al 31 dicembre 1865.

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Analisi Il contesto storico Il provvedimento legislativo seguiva, di circa dodici mesi, la proclamazione, da parte del governo, dello stato d'assedio nelle province meridionali, avvenuta nell'estate del 1862 e, di pochi mesi, l'ordinanza militare sul blocco della transumanza, emanata nella primavera del 1863 Quest'ultima misura aveva l'obiettivo di arrestare l'attività insurrezionale colpendo il mondo rurale, considerato strettamente connesso al brigantaggio. Il provvedimento impedì la migrazione stagionale delle greggi e comportò la sistematica sorveglianza militare dei pastori e del bestiame nelle masserie, producendo effetti nefasti dal punto di vista economico e sociale in particolar modo nel Gargano e negli Abruzzi. Riguardo invece al fenomeno della repressione della renitenza alla leva divennero perseguibili non solo gli stessi renitenti, ma anche i loro parenti e, persino, i loro concittadini, che nella pratica avvenne attraverso l'occupazione militare di città e paesi. Come hanno osservato alcuni storici – tra cui Salvatore Lupo – alla sospensione dei diritti costituzionali, dunque, si accompagnavano misure come la punizione collettiva per i reati dei singoli e il diritto di rappresaglia contro i villaggi: veniva introdotto il concetto di "responsabilità collettiva". Con lo stato d'assedio, invece, si era voluto concentrare il potere nelle mani dell'autorità militare al fine

di reprimere l'attività di

resistenza armata. Veniva, quindi, stabilita una preminenza del potere militare sulle autorità civili, che finivano, anzi, per sovrapporsi e fondersi: il generale Alberto La Marmora, tra il 1861 e il 1863, prefetto di Napoli, fu anche il comandante

dell'esercito

nelle

province meridionali. Coloro i quali venivano catturati con l'accusa di brigantaggio, sospettati

di

fossero essere

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essi

ribelli

o

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parenti di ribelli, potevano essere passati per le armi dall'esercito, senza formalità di alcun genere. L'approvazione della legge, e delle relative discussioni parlamentari, suscitò diverse perplessità tanto che il Ministero di Grazia e Giustizia e Culti rifiutò di ammettere le richieste avanzate da d'Ondes Reggio, che così commentò: « Dunque, volete sotto il Governo d'uno Statuto, introdurre tribunali non solo straordinarii, ma mostruosi, perché mostruosi son quelli, nei quali negasi la difesa all'imputato, al calunniato, all'innocente. » Nella seduta parlamentare del 29 aprile 1862, il senatore Giuseppe Ferrari affermava: « Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi. » Per

contro,

coloro

che

riuscivano a evitare il plotone di esecuzione non potevano più essere processati dai tribunali militari e divenivano soggetti alla giustizia ordinaria, che, in base alle variazioni apportate, nel

1859,

al

codice

penale

piemontese, non prevedeva più l'applicazione

della

pena

di

morte per i reati politici. La

legge

Pica,

dunque,

sospendendo, in sostanza, la garanzia

dei

diritti

costituzionali contemplati dallo statuto

Albertino,

aveva

l'obiettivo di colmare questo "vuoto", sottraendo i sospettati

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Il brigantaggio

di brigantaggio ai tribunali civili in favore di quelli militari. La legge Pica, di fatto, legittimava quella supremazia dell'autorità militare sull'autorità civile, che era stata affermata con lo stato d'assedio.

Luigi Federico Menabrea Già durante la fase di discussione, fu avanzata l'ipotesi che la proposta del Pica avrebbe potuto dare adito a errori e arbitrii di ogni sorta: il senatore Ubaldino Peruzzi, infatti, notò come il provvedimento fosse «la negazione di ogni libertà politica». Al pugno di ferro prospettato dalla destra storica, il senatore

Luigi Federico Menabrea rispose, invece, con una proposta totalmente alternativa. Il Menabrea, come soluzione al malcontento popolare e alle insurrezioni che seguirono l'annessione delle Due Sicilie al Regno d'Italia, propose di stanziare 20 milioni di lire per la realizzazione di opere pubbliche nel sud d'Italia. Il piano del Menabrea, però, non ebbe alcun seguito, poiché il parlamento italiano preferì investire nell'impiego delle forze armate italiane. In generale, infatti, nella lotta al brigantaggio postunitario, impegnò un significativo "contingente di pacificazione": inizialmente esso constava di carmelosantillo0@gmail.com

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centoventimila unità, quasi la metà dell'allora esercito unitario, poi scese, negli anni successivi prima a 90.000 uomini e poi a 50.000. Dunque, nonostante le criticità del provvedimento legislativo fossero state apertamente denunciate, la legge fu ugualmente approvata, ma già dai suoi stessi contemporanei furono riconosciuti gli abusi e le iniquità a cui essa diede adito, anche mediante un'analisi critica condotta da parte di alcuni giuristi. In sostanza, la legge Pica non faceva alcuna distinzione tra briganti, assassini, contadini, manutengoli, complici veri o presunti. A tal proposito, nel 1864, Vincenzo Padula scriveva: « Il brigantaggio è un gran male, ma male più grande è la sua repressione. Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l'immoralità dei mezzi, onde quella caccia deve governarsi per necessità, ha corrotto e imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, ed i più lontani congiunti; e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la libidine, ora di chi comanda, ora di chi esegue quegli arresti. » Inoltre, durante l'intera fase di repressione del quinquennio 1861-65, ivi inclusi, quindi, gli anni in cui fu in essere la legge Pica, fu stabilita, per le province meridionali, la censura militare, «che copriva di fatto le operazioni sporche di tipo coloniale».: in sostanza, i giornalisti, sia italiani, sia stranieri, e anche gli stessi parlamentari non potevano circolare nei territori oggetto delle operazioni militari. I corrispondenti dei giornali potevano inoltrare alle proprie redazioni solo quanto «lasciato filtrare dalle autorità militari» Legiferando, su proto-mafie e brigantaggio attraverso un'unica norma, il parlamento italiano non distingueva il mero banditismo all'attività di brigantaggio politico di stampo legittimista. Il liberale moderato Giacomo Racioppi scrisse che la legge Pica: « gittò di còlta [gettò di colpo] le napoletane provincie dalle guarentigie di un libero reggimento nell'arbitrario di un despotismo occecato [cieco] e furibondo; e per estirpare un flagello creò di altro genere flagelli. » Racioppi rivelò che, in meno di sei mesi, in Basilicata furono incarcerate per complicità o sospetto di aderenza ai masnadieri 2.400 persone, di cui la metà «mandata innanzi a giudici militari o civili»; di questi, 525 persone, tra cui 140 donne, finirono al confino. La legge Pica, fra fucilazioni e arresti, eliminò da

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paesi e campagne circa 14.000 briganti o presunti tali: per effetto della legge n. 1409/1863 e del complesso normativo a essa connesso, fino a tutto il dicembre 1865, si ebbero 12.000 tra arrestati e deportati, mentre furono 2.218 i condannati. Nel solo 1865, furono 55 le condanne a morte, 83 ai lavori forzati a vita, 576 quelle ai lavori forzati a tempo e 306 quelle alla reclusione ordinaria. Nonostante tale rigore, la legge Pica non riuscì a portare i risultati che il governo si era prefissi: l'attività insurrezionale e gli episodi di brigantaggio perdurarono infatti negli anni successivi al 1865, protraendosi fino al 1870.

Le novità introdotte La norma venne emanata in deroga agli articoli 24 e 71 dello Statuto albertino, che garantivano, rispettivamente, il principio di uguaglianza di tutti i sudditi dinanzi alla legge e la garanzia del giudice naturale, e il divieto di costituire tribunali speciali. Essa inoltre, oltre a introdurre il reato di brigantaggio, fu la prima disposizione normativa dello stato unitario in cui viene contemplato il reato di camorrismo. Inoltre dettò disposizioni in tema di ordine pubblico riferendosi anche alle azioni delittuose commesse da organizzazioni criminali. Inoltre, la norma introdusse anche la pena del domicilio coatto, ponendosi, per questi due aspetti, come antesignana dell'ampia produzione normativa connessa ai reati di mafia che caratterizzerà il XX secolo. prevedendo come pene comminabili la fucilazione, i lavori forzati a vita, oppure la reclusione, con attenuanti per chi si fosse consegnato o avesse collaborato con la giustizia.

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La dichiarazione di che all'art. 1° della Legge suddetta è fatta per le Provincie di Abruzzo Citeriore, Abruzzo Ulteriore II, Basilicata, Benevento, Calabria Citeriore, Calabria Ulteriore II, Capitanata, Molise, Principato Citeriore, Principato Ulteriore e Terra di Lavoro. In applicazione della legge Pica, dunque, venivano istituiti sul territorio delle province "infestate dal brigantaggio" di Abruzzo Citeriore, Abruzzo Ulteriore II, Basilicata, Benevento, Calabria Citeriore, Calabria Ulteriore II, Capitanata, Molise, Principato Citeriore , Principato Ulteriore e Terra di Lavoro (individuate dall'articolo unico del Regio decreto del 20 agosto 1863, n. 1414) i tribunali militari, ai quali passava la competenza in materia di reati di brigantaggio. Il primo articolo della legge stabiliva che potevano essere incriminati per il reato di brigantaggio «i componenti comitiva o banda armata composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche vie o le campagne per commettere crimini o delitti, e i loro complici, [che] saranno giudicati dai Tribunali Militari, di cui nel libro II, parte II del Codice penale militare, e con la procedura determinata dal capo III del detto libro». Il secondo articolo stabiliva le pene per i ritenuti colpevoli, coloro che con «armata mano oppongono resistenza alla forza pubblica, saranno puniti colla fucilazione, o co' lavori forzati a vita concorrendovi circostanze attenuanti. A coloro che non oppongono resistenza, non che ai ricettatori e somministratori di viveri, notizie ed ajuti di ogni maniera, sarà applicata la pena de' lavori forzati a vita, e concorrendovi circostanze attenuanti il maximum de' lavori forzati a tempo».Il terzo articolo introduceva un temporaneo periodo di riduzione di pena a «coloro che si sono già costituiti o si costituiranno volontariamente nel termine di un mese dalla pubblicazione della presente legge» con l'adozione della «diminuzione da uno a tre gradi di pena»; il quarto articolo permetteva al governo di applicare questa riduzione di pena

anche

successivamente

per

casi

di

volontaria

presentazione,

evidentemente allo scopo di favorire la consegna volontaria a seguito di trattative. Veniva concessa la facoltà di istituire delle milizie volontarie per la caccia ai briganti e a questi volontari, la cui ferma non poteva superare i tre mesi, era concesso il soprassoldo e la pensione in casi morte o ferite in campagna, il mantenimento dell'animale per i volontari a cavallo era a carico del volontario

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secondo quanto previsto nell'articolo 8 della legge che rimandava agli artt. 3, 22, 28, 29, 30 e 32 della Legge sulle pensioni militari del 27 giugno 1850. Le pene comminate ai condannati andavano dall'incarcerazione, ai lavori forzati, alla fucilazione. Veniva punito con la fucilazione (o con i lavori forzati a vita, concorrendo circostanze attenuanti) chiunque avesse opposto resistenza armata all'arresto, mentre coloro che non si opponevano all'arresto potevano essere puniti con i lavori forzati a vita o con i lavori forzati a tempo (concorrendo circostanze attenuanti), salvo, però, maggiori pene, applicabili nel caso in cui costoro fossero stati riconosciuti colpevoli di altri reati. Coloro che prestavano aiuti e sostegno di qualsiasi genere ai briganti potevano essere, invece, puniti con i lavori forzati a tempo o con la detenzione (concorrendo circostanze attenuanti). Veniva punito con la deportazione chiunque si fosse unito, anche momentaneamente, ai gruppi qualificati come bande brigantesche. Erano, invece, previste delle attenuanti per coloro i quali si fossero presentati spontaneamente alle autorità. Veniva, infine, introdotto anche il reato di eccitamento al brigantaggio. La legge prevedeva, inoltre, la condanna al domicilio coatto per i vagabondi, le persone senza occupazione fissa, i sospetti manutengoli, camorristi e fiancheggiatori, fino a un anno di reclusione. Nelle province sottoposte alla legge Pica, venivano istituiti i Consigli inquisitori (i cui componenti erano il Prefetto, il Presidente del Tribunale, il Procuratore del Re e due cittadini della Deputazione Provinciale) che avevano il compito di stendere delle liste con i nominativi dei briganti individuando così i sospetti che potevano essere messi in stato d'arresto o, in caso di resistenza, uccisi: l'iscrizione nella lista, infatti, costituiva di per sé prova d'accusa. In sostanza, veniva introdotto il criterio del sospetto: in base a esso, però, chiunque

avrebbe

potuto

L’uccisione del bandito Giuliano

avanzare accuse, anche senza fondamento,

anche

consumare

una

privata.

legge,

La

per

vendetta inoltre,

aveva effetto retroattivo: in altre parole, era possibile applicare la legge Pica anche

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per reati contestati in epoca antecedente la promulgazione della legge stessa .La legge Pica doveva essere in atto fino dicembre 1863, ma il parlamento decise di estenderla per altri due mesi ..-A febbr.1864 un gran dibattito in camere per discutere della incostituzionalità di questa legge.Il nostro Crispi se ne uscì accusando i ministri di avere esteso questa legge anche in Sicilia se pure non ce fosse stato bisogno ! Il governo tenne duro e fu votata un legge che se pur non chiamata Pica, fu altrettanto illegale.- A distanza di anni , la critica ha giustificato la condotta dell’esercito nei territori occupati(sic). Per sopravvivere era stato necessario sospendere per un certo tempo le libertà costituzionale, gravare sull’economia del paese e fare compiere grossi sacrifici all’esercito.Questo il verdetto dei posteri.-

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